Paolo Cavara. Gli occhi che raccontano il mondo 8876065016, 9788876065019

Paolo Cavara è un regista eclettico che su qualunque terreno si è mosso è riuscito a mantenere intatto e riconoscibile i

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Italian Pages 360 [366] Year 2014

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Paolo Cavara. Gli occhi che raccontano il mondo
 8876065016, 9788876065019

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EDIZIONI IL FOGLIO CINEMA

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Edizioni Il Foglio Collana CINEMA Direttore: Fabio Zanello www.ilfoglioletterario.it Via Boccioni, 28 - 57025 Piombino (LI) © Edizioni Il Foglio - 2016 1a Edizione - Maggio 2014 2a Edizione rivista e corretta – Febbraio 2016 ISBN 9788876065019 Elaborazione grafica e impaginazione | [email protected]

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FABRIZIO FOGLIATO

PAOLO CAVARA GLI OCCHI CHE RACCONTANO IL MONDO

Edizioni Il Foglio

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Alle tre donne della mia famiglia Cinzia, Lara e Anna

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Un sentito ringraziamento a Pietro Cavara per la cortesia, la disponibilità e la passione.

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PREFAZIONE di Pietro Cavara

Finzione e realtà nel cinema di Paolo Cavara Identità, sostegno e opposizione della finzione alla realtà sono il risultato di una sintesi semplificatrice ma efficace sotto il profilo ermeneutico. A un primo livello la realtà è il termine chiave: chiarisce il suo opposto, la finzione, espressione della stessa realtà che la mostra includendola come sua apparente contraddizione. Solo separando la realtà dalla finzione entrambe raggiungono una loro autonomia sul piano della soggettività. E’ vero ciò che differentemente appare e siccome le realtà sono molteplici perché molteplici sono i punti di vista, nulla è vero ma tutto è falso nel senso della finzione, o velo che impedisce una percezione chiara di quello che si vorrebbe intendere come vero significativamente all’unanimità. E così la finzione si prende la rivincita sulla realtà integrandola al proprio interno. Una rappresentazione teatrale o un film sono finzione e realtà nella stessa misura, o anche realtà concepite come finzioni-verità. Quello che ne scaturisce è esattamente ciò che può paradossalmente rendere i concetti privi di una loro ontologica definizione. Il cinema, in quanto arte realistica per eccellenza, evidenzia al massimo livello questo stato di cose. Prendiamo un film che provoca nello spettatore sgomento o shock. Si può dire soggettivamente: il film è una finzione in rapporto alle immagini, lo shock una realtà in quanto patologia empirica; o si possono considerare le immagini verosimili, o più semplicemente più vere della realtà, o vere quanto lo shock che ne deriva sullo spettatore. Ma in nome della verità si possono considerare entrambi finzioni poiché anche lo shock è pur sempre il frutto di una immaginazione che diventa malattia. Se la percezione non porta a una distinzione netta tra realtà e finzione, a maggior ragione questa indeterminazione potrà essere alimentata dall’alterazione dei dati fenomenici, al punto che il falso di9

venta un momento del vero.1 Le pratiche pubblicitarie, gli scenari iperrealistici del film servono esattamente a questo. Se la finzione appare più vera della realtà si provoca un’interiorizzazione forzata, o un impatto immediato – come nel caso del film shock – o una reazione più lenta e duratura se l’impatto è passivo ma reiterato – come nel caso della pubblicità. Si va così al cinema o si staziona davanti alla televisione per vivere la realtà, mentre si esce da questi scenari più per appartarsi dal mondo – impercepibile nella sua complessità – che per riceverne stimoli all’azione e alla volontà.2 E’ la predisposizione a recepire il falso per il vero a determinare efficacemente gli scenari dell’alienazione, al punto che la necessità di segnare una differenza tra realtà e finzione chiama in causa il criterio della moralità, quasi a voler sfuggire alla indeterminazione del postmoderno. Per far ciò il reale deve porsi come condizione dell’autenticità: qualcosa che nei fatti assomiglia all’ancoramento alla verità dell’arte, in opposizione alla falsificazione della verità prodotta dai media, dall’economia e dalla politica odierni. Ma non per questo l’indeterminazione viene meno. Il cinema, nel veicolare immagini e contenuti, i più disparati, si presta, meglio di qualsiasi altra forma di espressione artistica, ad essere un mezzo al servizio della ritraduzione soggettiva del mondo fenomenico, pur con tutte le sue contraddizioni.3 La finzione si pone al servizio 1

Vedi sul tema G. Debord, La società dello spettacolo, Dalai 2010; J. Baudrillard, Il crimine perfetto, Milano, Raffaello Cortina 1996. 2 Ne è dimostrazione l’esperienza deviata che un incidente reale provoca nella mente dell’osservatore che ha potentemente assorbito immagini (false) dal cinema o dalla pubblicità. Il minor coinvolgimento emotivo di fronte a un forte evento reale è in chiara relazione con l’assuefazione mediatica allo shock quotidiano, al punto che la finzione produce un impatto maggiore. Ne segue una più netta incapacità a distinguere realtà e immaginazione. “In questo modo il falso deborda nel vero, lo avviluppa e divora fino a installarsi al suo posto con piena autorità ontologica.” R. Simone, Il Mostro Mite, Milano, Garzanti 2010 p. 117 3

Nonostante ciò il cinema nel “mostrare” rimane l’arte più vicina alla realtà di quanto non lo siano le altre arti in cui il fattore reale è ridotto o convertito. Si direbbe quasi che tale fattore nel cinema impedisca o renda superflua la concettualizzazione, e dunque la riduzione della finzione alla falsificazione del linguaggio e della ragione (la conseguente spiegazione). Che poi il Reale possa esprimersi cinematograficamente nella finzione non dovrebbe contraddire il principio della Realtà morale poiché finto è solo il mezzo per produrre il vero. Ma qui il discorso si fa più complesso chiamando in causa il meccanismo necessario dell’empatia per far si che una rappresentazione non cada nella finzione intesa come falso. Attori e registi simulano ma in vista del10

della verità, pur rischiando di tradurla in modo equivoco, così da fare della realtà-verità stessa uno specchio della finzione del reale, una prigione senza via d’uscita. Questo spiega perché i migliori film destinati a cogliere tale rapporto di realtà e finzione siano proprio quelli che rifuggono dal criterio estremo della verità finale, dello svelamento senza oscillazioni della menzogna, perché anche il vero è l’essenza traditrice del suo opposto. Non che si rinunzi a svelare (ciò è necessario e deve essere visibile), ma semmai è significativo cogliere l’ambiguità in cui qualsiasi pretesa di verità non può che confondersi con l’instabilità naturale della percezione soggettiva, e ciò matura la rinuncia a voler tracciare confini netti che apportino una soluzione morale e ontologica al dilemma.4 Peraltro la dimensione estetica è quella che racchiude il non pensato mantenendo la distanza nei confronti del suo raggiungimento. Si dirà allora: la realtà–verità, inconscia, rappresentata, è il fine morale che non consente l’apparentamento o la sua traduzione nella realtà–finzione (il Simbolico), che ha smesso di essere verità. Dalla realtà–finzione che per l’appunto è la supposta realtà– verità si esce per approdare al regno della finzione–verità (la realizzazione nel godimento estetico). Ma la finzione–verità della rappresentazione rischia di essere riassorbita tragicamente dalla realtà–finzione (il presente contestato), o ancor più dal Vuoto della realtà inconscia.5 L’illusione che la finzione-verità architettata in opposizione alla realtà-finzione liberi l’esperienza soggettiva dal trauma del quotila verità. Machiavellicamente si può fingere a onor del vero. 4 Nel voler contestare l’approccio simil realistico della tecnica cinematografica si può sempre sostenere che la realtà è più vera di un film qualsiasi. Ma è la realtà stessa ad essere ambigua. Se un film è finzione al dunque può esserlo parallelamente a un mondo reificato dove ciascuno recita una parte di comodo, dove tutti fingono per raggiungere degli scopi: altrettanti finzioni e surrogati di verità nascoste. 5 E’ la posizione ri-assunta da molti giovani cineasti americani ed europei di fronte al problema della finzione che non libera (Blair Witch project, Rec 1, 2,…). Rispetto alla bella favola che ci dona una parte di verità e dunque di riscoperta della Realtà intesa come finzione-verità (seppur con i mezzi ipermoderni della finzione) in opposizione al quotidiano, qui la posizione è in gran parte rovesciata: si ha la percezione chiara che il Simbolico sia il Falso autentico, ma la finzione ricercata (attraverso il mezzo stesso cinematografico che diventa assai spesso protagonista del film – in una sorta reiterata di cinema nel cinema) non è lo svelamento della Realtà catartica, bensì – in una sorta di emulazione eretica – la realtà come fondo senza speranza, ricaduta nell’attesa, nell’allucinato allontanamento del traguardo morale che illumina, un riflesso sur-reale del Simbolico, un suo surrogato. 11

diano si traduce spesso nello svelamento dell’utopia morale in sua radicale antitesi: uno specchio rovesciato dell’esistenza, il terrore di fronte all’ignoto, l’impossibilità di uscire dalla propria condizione costretta, la morte. E’ il capovolgimento speculare della diade così intesa in forme del tutto inafferrabili. Da qui il pessimismo nichilistico di tanti horror film in cui sembra che il racconto morboso e dettagliato della propria tragica esperienza di fuga nella finzione procuri un’indubbia volontà di mostrare l’impensabile, comunicare l’assurdo, denunciare un Nulla che si percepisce sempre più come Niente. E la macchina da presa che conduce all’estremo, vero protagonista di questi film, non riscatta nessuno. Mano a mano che si prosegue nella vicenda la macchina svela la realtà–verità nel suo nesso con la finzione che non libera ma attanaglia. Quello che appariva un gioco si tramuta prima in qualcosa di serio, infine di tragico: la paura che investe ciascuno dei protagonisti davanti all’ignoto è ripreso selvaggiamente dalla macchina da presa che non ha reazioni se si tratta di riprendere una finzione, un puro gioco, o una realtà assolutamente tragica, al punto che è essa stessa, solo essa, a sopravvivere all’ineffabile che investe i personaggi in carne e ossa del film. Emblema del modernismo introduce, indipendentemente da ogni consapevolezza, a quel regno della finzione dove ogni estremo si accorda. Lo strumento che deve sbarazzarsi della realtà–finzione che vuol essere verità, seppellirà ogni intenzione, continuando a mostrare uomini e cose come falsi, seppur talvolta terribilmente veri, in nome della Finzione sovrana che non conosce liberazione alcuna, in quanto assoluta Realtà. Nonostante si possa dire: in fondo si è trattato di una finzione, il piano generale non ne guadagna: il fuori non è altro che un’immagine allucinata del dentro. Adeguarsi a una visione così pessimista può far pensare a un atteggiamento volutamente masochista. In realtà anche se il messaggio essenziale sembra essere la rinuncia alla catarsi (possibilità transitoriamente inconscia), non si può escludere la volontà riaffiorante di anticiparla facendo presentire proprio quanto esiste di terrificante nell’esperienza nichilista dell’illusione liberatoria, precludendo scenari positivi laddove la macchina da presa si fa destino e compimento di morte o dannazione (e quindi paradossalmente nella piena ritraducibilità della Realtà negativa oltre la sfera del Simbolico, nella neutralità dell’Esistente). Insomma: bisogna immergersi nel terrore del Nulla ontologico prima di sperare in una via di uscita. Del resto il 12

Male deve essere sempre presente, più profondo del Bene, e i registi devono apparire dei masochisti. Ma soprattutto è l’impossibilità di chiarire il fine del messaggio artistico nei termini di una supposta teodicea, la consapevolezza ormai acquisita – anche solo a livello psicologico – che non si può toccare il Cielo con un dito, che se ciò avvenisse si entrerebbe in una condizione sconosciuta di cui non è possibile dire e di cui nessuno ha mai detto. Attraverso la macchina da presa, visibile o nascosta, la finzione scenica conduce sempre alla Finzione, o al Falso come suo esito scongiurato. Per dirla con Schelling e Lacan invocare la Realtà oltre il suo apparentamento col Simbolico è illusorio, ma evocarla in termini di frammentarietà, congenita contraddittorietà ed essenza, è ancora esperienza possibile e necessaria. In ciò – nel film in quanto Realtà evocata, o Finzione-Verità – si misura la consapevolezza critica del regista e la comprensione dello spettatore. Questa riflessione non mi pare impropria nel dover affrontare un’interpretazione del cinema di mio padre, nel passaggio dal cinema d’autore a quello di genere e, più in generale attraverso l’eclettismo della sua evoluzione artistica, nei termini dialettici e contraddittori della dicotomia di verità e finzione. Un piano, assai spesso, dove la moralità della finzione-verità del cinema-teatro, dei sentimenti, della sana follia, si esplicita nella battaglia contro la realtà-finzione omologante e repressiva del Simbolico, pur nella consapevolezza della inestricabilità esistenziale e psicologica dei due livelli, e della irraggiungibilità della Realtà-verità, nel fine considerato.6 Sono incoraggiato dal farlo, se non fosse, che persino in un film apertamente su commissione come La tarantola dal ventre nero, questa dicotomia si rivela discretamente, come risultato sorprendente, o inconsciamente riflesso nella mente del suo realizzatore. Certo, in apparenza, l’operazione parrebbe lasciar fuori molto di ciò che appartiene e senza equivoci al suo cinema (come l’esperienza fondamentale legata al film su Padre Lino da Parma). Eppure la sua riflessione artistica attorno alla rispondenza della vita col teatro, al ruolo “salvifico” dei perdenti, all’opposizione tra l’amore e la guerra, per citare solo alcuni di questi temi, 6

Sarebbe inoltre curioso misurare come l’eclettismo stilistico rafforzi una visione dialettica della realtà-finzione, in rapporto ad esempio al carattere dei personaggi, alla loro presenza-assenza. 13

sembra caricarsi, con questa particolare prospettiva, di ulteriore valenza, disponendosi a una migliore comprensione dell’opera e dello stile del suo autore. La stessa volontà di far cinema di mio padre, documentata dalle interviste, nasce dal desiderio di ispezionare quella realtà così carica di significati e così fragile nel volerne cogliere un’essenza. Ma prima ancora il cinema stesso, in quanto finzione, si pone in lui al bivio tra realtà e immaginazione, come dato imprescindibile. Nell’occhio di chi guarda è condensato il singolo punto di vista ma anche la necessità tutta personale di superare il particolarismo soggettivo per cogliere la realtà nella sua essenzialità. La questione è quindi anzitutto principalmente metodologica: rispettare la realtà nonostante il desiderio soggettivo di imprimerle una dimensione che la riguardi, che la faccia comparire in un certo modo senza snaturarla, ma nel segno del potenziamento della realtà stessa ottenuto con gli strumenti della finzione-verità (da cui nasce il problema etico della rappresentazione e del distacco dalla strumentalizzazione della realtà per i fini dello spettacolo che occuperà la riflessione del suo Occhio selvaggio). Ma poi il mezzo stesso incarna la visione, riassume la realtà e la visuale del regista in una sintesi che si vorrebbe quasi al di là delle intenzioni. Il superamento dell’obbiettività è dato così dalla consapevolezza gradualmente crescente che gli estremi della finzione creativa e della realtà non potranno mai congiungersi in una visione unitaria se non riproponendo la loro scissione come sintesi. Una sintesi procurata da quell’unico occhio che è il deus della macchina da presa. Eppure questa scissione riassunta nella sintesi filmica è carica di significato: ha in sé il mondo rappresentato e l’occhio di chi guarda. E agli inizi degli anni sessanta la consapevolezza che si potesse arrivare a cogliere quell’equilibrio fruttuoso senza che ciò comportasse gratuita mistificazione della realtà per eccesso di finzione o produzione di falso, fu probabilmente per mio padre una conquista raggiunta in seguito alle sue esperienze di cineoperatore in giro per il mondo. 7 L’esperienza del documentario mette mio padre di fronte all’esigenza creativa di cogliere gli uomini e la natura nella loro purezza mostrandone i risvolti meno comuni, i lati più inconsueti, ma che in qualche modo ne 7

Cogliere gli aspetti insoliti della realtà non significa peraltro manipolarla, né la violenza esibita può in se per se essere tradimento obbligato di essa. Semmai in questa fase il problema della percezione del pubblico di ciò che osserva può alimentare una visione distorta se insistita nella reiterazione di immagini pure ma tali da produrre reazioni sconvenienti. 14

mostrino l’essenza, o un loro modo di essere e di apparire, in particolare nello scenario civilizzato: è l’ossessione per gli sguardi ravvicinati, densi di speranza o di trattenuto bisogno di ascolto, per le reazioni umane di personaggi da strada colti di nascosto davanti a vetrine di negozi o per stradine, magari nella malriposta certezza del loro isolamento, o quelle facce stravaganti di giovani imberbi consumate nel delirio delle feste collettive all’insegna della ribellione. Sguardi che interrogano sulla realtà con forza e insopprimibilità, agli antipodi con quelli odierni di giovani e meno giovani perduti nel vuoto, passivi, riassunti ed eterodiretti dall’ammorbante tecnocratismo dei media. Volti, paesaggi, colori che affollano momenti disparati dei suoi tre documentari (Mondo cane, La donna nel mondo, I malamondo). Spesso l’identificazione della finzione con la realtà vuole essere piena, ma su un livello interpretativo più alto. Non importa che una situazione scenica sia ricreata invece che prodotta spontaneamente all’insaputa di chi entra nel teleobiettivo, importa che sia vero-simile, che la finzione del film (in quanto prodotto ultimo di una serie di situazioni o in quanto ricostruzione aderente al vero) risulti fedele a una realtà che non sia mera immagine dell’esistente, ma espressione di una realtà ancor più profonda, che colga la complessità dell’animo umano, la potenza della natura, la condizione delle donne, il mondo animale nel suo habitat mai troppo lontano da quello degli uomini. Più di ogni cosa: la sacralità dei gesti e la ricerca della purezza in un mondo incontaminato, aspirazioni costanti del pensiero di mio padre e di una parte del suo cinema. Comprendo che tutto ciò possa sembrare contraddittorio, se si tiene presente il risultato globale che quei documentari hanno significato per una parte dell’opinione pubblica mondiale. Indubbiamente esigenze produttive avevano la finalità di creare documentari cercando di spacciare per verità situazioni ricreate ad arte pur di vendere (anche se la questione riguarda principalmente i primi due lavori). C’entra però il fatto che mio padre abbia cercato – in parte riuscendoci – di spostare l’occhio dal superfluo della propaganda mediatica alla sua visione personale della realtà, o di quella richiamata sur-realtà che comprendeva nel film il rispetto per gli uomini e le cose rappresentate e la loro valorizzazione sul piano avanzato dell’animo e della sensibilità. Cioè un piano che facesse della finzione uno strumento al servizio di una realtà più profonda: l’antitesi, per quanto possibile, di quell’ingerenza produttiva. Tutto ciò chiama in causa la consapevolezza, 15

al di là dei risultati ottenuti, che con la dimensione dello spettacolo si può e si deve fare i conti. L’equilibrio tra finzione e realtà (finora espressa in un rapporto di identità-equilibrio – il criterio della ricerca della verosimiglianza nella ricreazione di fatti e personaggi reali – o anche di sostegno alla seconda in termini di verità) è destinato a frantumarsi con l’ammissione che la strada segnata da Flaherty è stata tradita, e dalla necessità quindi di abbandonare la strada percorsa del documentario.8 Il capovolgimento di prospettiva in Occhio selvaggio, non è dato solo dal tema evidente in cui ora la Finzione si scontra con la Realtà, la deturpa, la mistifica ai fini dello spettacolo, ma dalla onnipresente percezione del fascino della perversione filmica introdotta dalla creatività della finzione attraverso la stessa macchina da presa. Il congegno infernale diventa tramite e conduttore della condizione prigioniera in cui soggiacciono, indipendentemente dalle intenzioni, il regista-interprete suo complice nel film, uomini e cose rappresentati, il pubblico che, complice anch’esso, assiste e si compiace di quanto avviene sullo schermo. Finzione dunque che arreca finzione in nome di una Realtà che assume il sigillo della contraffazione, ma che nel momento in cui si rivela è pienamente reale. Mio padre era pienamente consapevole dell’operazione, al punto che egli stesso penso abbia voluto condividere – seppur da una posizione che egli ha sempre ritenuto per sé una finzione illuminata dalla realtà desiderante dell’inconscio – la complicità ambigua ma soltanto ideale col suo protagonista.9 Quel senso di negativo che apparenta la pellicola appare così il riflesso di una serie inestricabile di mercificazioni dell’animo all’insegna della finzione inaugurata dalla mdp e dal suo regista demiurgo e interprete nel film, attivo e passivo nei confronti del suo strumento, e dei personaggi che ruotano attorno a lui condividendo il vuoto di una condizione psicologica e progressiva di alienazione. L’occhio selvaggio non è un film di denuncia tradizionale, è un viaggio appassionante nella finzione, nella sperimentabilità dell’illusorietà della condizione 8

Così dichiarò in proposito: “il documentario ha senso se fatto alla maniera di Flaherty, ma perde ogni significato se è un mezzo per strumentalizzare le persone.” Il Giorno, 1974 9 Le prospettive di osservazione si allargano: dall’occhio della mdp, dell’operatore e del cineasta-demiurgo il coinvolgimento passa all’occhio dello spettatore, sotto lo sguardo del potere che gestisce e controlla astrattamente l’industria dello spettacolo. Per il coinvolgimento di mio padre nell’opera vedi l’intervista in Espresso sera, 6/7 settembre 1967 16

soggettiva del distacco dalla violenza della realtà ripresa o di quella artefatta da parte del cineoperatore e protagonista, nei suoi assistenti, nel pubblico che guarda, e persino nella coscienza illuminata del suo regista. La finzione-verità conduce a una realtà-finzione che si vorrebbe scongiurare, nel segno dello spettacolo, dell’esibizione del potere, dell’annichilimento consumato con la messinscena della sofferenza, come nella parte finale del film, quando il regista-interprete recita il proprio dolore, forse ancora sincero, per la morte della sua donna tra le rovine. Se questo film mischia finzione e realtà in termini di metodo e di contenuto (al punto che la mdp la fa da protagonista rivelando il fattore metafisico dell’operazione cinematografica), mettendo in crisi la prospettiva di un equilibrio precedentemente raggiunto nell’esperienza di mio padre, La cattura ha pienamente assorbito la relatività del punto di vista personale, e per questo non ha più l’ansia della sua soluzione, semplicemente si lascia interpretare. Anzitutto sul piano del genere, che si scopre essere poi un film sulla guerra, e non un film di guerra con i suoi stereotipi. Idealmente separati realtà-finzione e finzione-verità, rimangono aperti a differenti possibilità interpretative, come due piani essenziali del film. Da un lato c’è il mondo schiavizzato, gli individui atomizzati che rispondono alle necessità della guerra abolendo se stessi, dall’altro la realtà dei soldati nemici che nella solitudine del conflitto riscoprono la loro natura umana attraverso l’amore. In mezzo c’è la natura incontaminata, soggetto terzo che da espressione simbolica del mondo dominante prende progressivamente le forme del disgelo, dell’apertura, innervandosi nell’idillio amoroso tra i due protagonisti destinato presto a infrangersi. Entrambi i mondi possono apparire realtà o finzioni parallele o contrapposte. Il significato morale trovo si insinui prepotentemente sul piano di una escatologia irrealizzata della finzione-verità, quella dell’autenticità dei sentimenti dei due soldati nemici, e del suo mancato sopravvento sulla realtà-finzione del mondo della guerra, esempio di una realtà ridotta, menomata, assurta a valore generale. Una realtà però così potente da annullare persino l’eresia di un amore tra nemici. Quello che rimane è un mondo che ha smesso di appassionare ma che continua a seminare strage di sentimenti e di aspirazioni, un mondo la cui falsità è espressione inversa di quella della finzione-verità incarnata nella tensione liberatoria dei due protagonisti del film.

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La realtà che c’è ma non si vede chiaramente è quella di crimini che passano per vie contorte, per vetrate in cui donne discinte appaiono confuse, sfumate, o immagini umane riaffiorano attraverso telecamere nascoste (il cinema nel cinema qua e là riemergente nell’opera di mio padre) che ne svelano pubblicamente l’intimità, o ancora rumori che si associano a oggetti rinvenibili solo attraverso appositi ingrandimenti. La tarantola dal ventre nero: un giallo che celebra l’apoteosi della finzione attraverso lo sguardo.10 E ancora, come sarà per E tanta paura, una finzione-verità volta a depistare l’occhio dello spettatore per descrivere il fascino della realtà-finzione che non appaga, ma omologa e reprime. Il mondo può apparire una finzione, un tragico bluff, per il sordomuto di Los amigos, reso perfettamente in soggettiva; la violenza vi può apparire esagerata, falsa, espressione caricaturale di una realtàfinzione, a cui peraltro soggiacciono anche lui e il suo compare. Non senso di un mondo impazzito, fatto da uomini che agiscono in nome di valori fasulli. “In primis, la verità non esiste”, recita don Vito La Casella in Virilità: la sua discesa in massa alle gole dell’Alcantara è una grande messinscena, una finzione-verità costruita ad arte al fine di redimere il mondo malato dal pregiudizio con l’esplosione dell’autenticità di una scena d’amore tra gli scogli. L’aspirazione a un vagone ristorante di Gianni ne Il lumacone nasconde la meschinità dell’uomo con le sue velleità di grandezza che alla fine hanno il sopravvento sulla logica del “perdente”. Ma quell’aspirazione, che per un momento sembra prenderlo tutto, svela l’arcano nella quotidianità, la finzione nella realtà degradata e degradante, in un vagone in disuso che saprà solo possedere, ma che umanamente sembra per più di un momento trasformarlo, permettendogli di affrontare con forza la meschinità dei suoi simili. Assurdo e devastante il mondo delle moderne metropoli consumate dal crimine come in E tanta paura, dove il fantastico non è altro che una diramazione di una opprimente e omologante realtà-finzione. Sarebbe fin troppo facile dilungarsi sul clima surreale di E tanta pau10

Probabilmente sta in ciò il legame più affascinante e per nulla sterilmente riproduttivo de La tarantola… con L’uccello dalle piume di cristallo di Argento. La verità che c’è ma non si riesce a inquadrare, e che progressivamente si illumina con una percezione della realtà, come nella verità riscoperta dalla visione dell’assassina che tiene in mano il coltello invece del marito, in quest'ultimo film. 18

ra, richiamandosi qui, diversamente dai film precedenti, alla negatività della finzione-verità che sovrasta la realtà-finzione, solo per mostrarsi sua ancella potente e dirimente, come immaginazione creatrice del potere. Eppure questo aspetto della negatività che apparenta il film a Occhio selvaggio ha effetti innovativi sul piano della visione. Il racconto della finzione che svia prende forma negli anfratti di quello che è un percorso visivo spiazzante (come solo la finzione diabolica è in grado di fare) tra scenari urbani avvolti nella nebbia e gli esterni di Villa Hoffman, dove sembra aleggiare un clima magico e dissolvente, per incarnarsi alla fine negli stessi personaggi negativi (il commissario privato, gli ospiti della Villa) che scompaiono e riappaiono fantasticamente, negli oggetti (le piante, le gabbie, gli animali), e nell’impalpabilità dell’aria.11 In quella lista di personaggi dei film di mio padre che sembrano proiettati sul palcoscenico, nella loro ansia di comunicare, di recitare, di esprimere la speranza, o un calore umano in grado di smuovere le coscienze dall’aridità del quotidiano, c’è senz’altro Padre Lino da Parma in Atsalùt Päder.12 La finzione è di casa per lui, figlio di un’attrice, che allestisce il suo teatro nelle stradine della piccola città. Ma in fondo recitare è un lusso in un mondo in crisi. E il suo viaggio tra i perdenti come lui, tra i poveri che incontra e solleva dalle miserie, non partorisce alcuna salvezza (un modo laico di vivere l’esperienza di Cristo ma senza speranza di redenzione). E infine La locandiera. La vita è come il teatro, la finzione-verità che sostituisce il grigiore della realtà-finzione facendosi essa stessa realtà. Il film più ottimista di mio padre è la commedia goldoniana per eccellenza. Qui la finzione-verità, nel pieno rispetto delle regole e della tradizione, nel dispiegamento pieno della natura umana nei suoi 11

In un’intervista ho parlato di in-essenzialità delle forme dissolventi, cioè di quell’apparire e scomparire degli esseri e delle cose che è proprio dell’instabilità della natura traviata e che, in maniera ilare, fa si che tali realtà si dispongano diabolicamente in opposizione alla verità, un po’ – a me pare – come certe false piste, o la presenza di situazioni e di personaggi strani o mefistofelici nel film. Vedi Intervista a Pietro Cavara in Plot of fear, DVD Raro Video USA (integrale rispetto all’edizione italiana). Per l’analisi della inessenzialità diabolica vedi E. Castelli, La presenza del demoniaco nell’arte, Bollati Boringhieri 2007 12 Per la galleria dei personaggi trasformisti dei suoi film vedi l’ultima parte del mio memoir e in particolare Da un Fregoli a un altro. In P. Cavara, Ricordo di un padre, cit. Cinemasessanta, IV, 2002 19

aspetti ridicoli o meschini, sembra quasi travolgere l’oscuro quotidiano per ribattezzarlo in nome della generosità e della benevolenza in una sorta di Eterno Femminino smitizzato, riproposto a misura di ogni spettatore. Ma c’è anche nel film la speranza che la finzione si faccia costantemente realtà in nome dell’arte, della simulazione gentile, del vivere amando. La locandiera, Sarto per signora, Fregoli, appaiono un trittico accomunato non solo dal trionfo della finzione artistica, ma anche dalla volontà di mio padre di voler sperimentare nel suo instancabile eclettismo, il rapporto della realtà e della finzione su un campo fino allora non tenuto in considerazione: quello del piccolo schermo.13 Se nel primo di questi esempi (che peraltro conserva anche le caratteristiche del grande schermo) il sogno trasfigura la realtà-finzione caricandola di immediatezza e di umana speranza, annientando la divisone tra ciò che è recita sul palco e ciò che è vita reale, nel felice approdo conclusivo, negli altri due esempi tale sorpasso genera approdi azzardati, risentiti malintesi. In Sarto per signora l’equivoco arriva ad insinuarsi nella rispettabilità dei personaggi con la loro ridicolizzazione, senza che per questo la pesantezza del vivere prenda mai il sopravvento. Il gioco degli equivoci prosegue anche dopo lo scioglimento degli enigmi, al punto da sembrare l’essenza stessa dell’esistenza. La leggerezza dei toni e dei contrasti tra i personaggi, la raffinatezza degli ambienti, l’impianto cameristico che fa da sfondo all’operazione televisiva trasmette un senso generale di alta comicità in cui la finzione-verità fa del teatro l’arma vittoriosa contro la realtà-finzione (paradigma dell’ipocrisia borghese dei tempi di Feydeau), con la grazia insolente della reiterazione del tradimento (come appare nel fermo-immagine finale che inquadra lo sguardo sottecchi di Moulineaux e della sua amante dopo essersi appena fintamente riconciliati agli occhi dei presenti). Realtà e finzione in Fregoli si confondono nel palcoscenico reale e in quello virtuale del teatro in cui recita il più grande trasformista di tutti i tempi. L’osmosi è talmente ricercata (con la visibilità di interni che paiono piccoli set, e palcoscenici che inglobano la realtà estendendosi oltre i limiti del sipario) da spiazzare lo spettatore che alla 13

Tempo addietro, avvalendomi delle testimonianze di mio padre ai giornali, cercai di interpretare il suo cinema dando una particolare sottolineatura alla “svolta” della commedia, quasi in opposizione al suo cinema del dolore e della violenza del primo periodo di film a soggetto. In P. Cavara, Le due opposte realtà del cinema di Paolo Cavara, mio padre. Nocturno cinema, Marzo 2000 20

fine non sa mai se è in azione l’uno o l’altro palcoscenico. E Fregoli recita, ammette di farlo in ogni momento della sua esistenza, inconsapevole della vendetta della dura realtà che riprende i suoi diritti sulla fantasia, fino a quando uno schiaffo della sua donna vuole che sia vero, risvegliandolo al vivere quotidiano. Non può esserci rivoluzione se non su un palcoscenico che rinunci alle sue pretese di espansione. E se la finzione stanca è perché il regno del falso alla fine ha preso il sopravvento nella vita come nel teatro. Così anche Fregoli è costretto a lasciare.

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INTRODUZIONE

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L’ENIGMA PAOLO CAVARA

Paolo Cavara è stato nella sua vita, regista eclettico, intelligentemente provocatorio. Su qualunque terreno si è mosso è riuscito a mantenere intatto e riconoscibile il suo stile. Lontano da qualunque forma di intellettualismo è sempre riuscito ad affrontare grandi temi con un cinema semplice e profondo che giunge immediato allo spettatore. Semplicità perseguita attraverso un uso del linguaggio cinematografico mai enfatico, costruito con una meticolosa opera di sottrazione finalizzata a ripulire la messa in scena da tutto ciò che può essere superfluo e fuorviante per l’attenzione di chi guarda.

Paolo Cavara in Indonesia (1958)

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Quella di Paolo Cavara è, inoltre, una filmografia che contempla l’importanza del risvolto, che non dà nulla per scontato ma che pone l’accento su elementi inconsueti e talvolta, da chi giudica, liquidati, frettolosamente, come banali e poco interessanti. Con la sua opera ha intrapreso un percorso autoriale enigmatico capace di distinguerlo da gran parte dei registi coevi, e ponendosi a metà strada tra il cinema di produzione francese e le nuove tematiche di Michelangelo Antonioni.14 Paolo Cavara ha anticipato di decenni temi e dibattiti (attuali persino oggi) trattandoli con acume e intelligenza e ha sempre affrontato i temi più urgenti e scottanti, senza mai alzare la voce, senza mai gridare lo scandalo ma, al contempo, sempre con una fermezza e un rigore che non possono non essergli riconosciuti. La sua attenzione verso i perdenti (per le convenzioni), i sentimenti e i rapporti umani sono li a dimostrarlo ed a rappresentare un valore aggiunto in una filmografia eterogenea e mai banale. La sua opera a lungo oscurata e/o rimossa, presenta una serie di spunti e di intuizioni sorprendenti, mentre il suo stile asciutto e immediato ne fa ancora oggi uno degli autori più interessanti del cinema di quegli anni (e non solo). Regista talentuoso, ottimista, fermamente convinto della sua arte, estremamente vitale sul set, determinato nel perseguire una passione che, ad un certo punto, diventa lavoro necessario per il mantenimento della famiglia. Paolo Cavara è cineasta esigente con se stesso e con gli altri, capace di mantenere il controllo e di guidare l’ orchestra della troupe con autorevolezza e incisività. Diversamente malinconico perchè tutto teso nella contemplazione del bello e diversamente romantico perché con il suo cinema tratteggia un mondo contraddittorio sospeso tra l’arcaico e il futuro. Paolo Cavara è uomo e regista attento alle differenze, capace di valorizzare il dettaglio come pochi altri della sua generazione e di eleggerlo a simbolo della creazione artistica. La sua visione del mondo è sorprendente e problematica: attraverso la crudeltà e la fantasmagoria si interroga sui rischi della rappresentazione, sull’estensione della violenza come costante narrativa, su come la ferocia della natura, nel documentario, rischi di prevalere, sensazionalisticamente, sulla bellezza. Inquietudini, queste, che lo portano ad abbandonare il documentario e a spingersi verso la finzione mantenendo la capacità di essere un abile osservatore e non un 14

Solo all’apparenza, infatti, è facile liquidare le opere realizzate dopo il 1969 come appartenenti ai generi popolari o come film su commissione. 26

semplice regista interessato a filmare. Quello del cinema di fiction è uno sguardo, contemporaneamente, discreto e aggressivo; lo sguardo di un narratore del mondo, di un uomo di cinema amante dello svelamento progressivo tra enigma e stupore. Tutti i suoi film sono costruiti sul confine tra eccesso e moderazione distillati seguendo un ritmo ondivago e imprevedibile. I personaggi dei suoi film sono figure animate dal dubbio ed enigmatiche nella loro complessità, difficilmente catalogabili15 ma profondamente umane sia nello sbaglio che nella menzogna; fragili vittime di una società che divora e sbrana. Inqueste suggestioni si trova la sintesi tra cinema e documentario, quella che ha i suoi prodromi nella passione di Paolo Cavara per la bellezza (intesa in senso lato). Passione che ha le sue radici nella giovinezza in giro per il mondo, sopra e sotto l’acqua, alla ricerca della verità della natura: un mondo che, ai suoi occhi, si manifesta in tutte le sue incontrovertibili contraddizioni. La natura è spazio magico e incantato, crudele e violento in cui le dinamiche animali e vegetali si riproducono sempiterne senza né divisioni manichee né pretestuosa volontà di offendere. La natura segue un istinto predatorio e vitale che tanto assomiglia a quello che abita i personaggi del cinema di Paolo Cavara. Egli matura la convinzione di dover raccontare il mondo secondo spigolature inconsuete - integrando il racconto di una realtà priva di tabù con una dimensione visiva morale e intransigente - in cui possono convivere l’orrido e il meraviglioso, il crudele e la tenerezza, ma in cui non deve mai mancare l’ironia a legare la visione d’insieme di quanto rappresentato e/o ripreso. Nel documentario - secondo Paolo Cavara - c’è sempre il rischio dell’equivoco della distorsione del reale - che nei, suoi presupposti di base (benigni e ottimisti) - rischia di essere travolto dalla cifra della distruzione e della violenza.16 C’è nella sua filmografia una attenzione di matrice quasi pascoliana verso le “piccole cose” intese come il lato positivo della vita, il rifugio della felicità e della compassione; il piccolo gesto, il piccolo movimento, l’impercettibile piega sulla pelle di un volto rappresentano per il regista la possibilità di estraneamento dalla turpitudine del mondo. Lo stesso valore che Cavara attribuisce all’arte la quale deve essere sintesi delle 15

I tratti sono sempre di carattere autobiografico e nella loro “follia” è facile vedere l’enigmaticità del loro autore, totalmente privo di giudizio in merito ai loro comportamenti. 16 Situazioni, interrogativi, dubbi e travagli questi che è egli “costretto” a vivere sulla propria pelle con la realizzazione di Mondo Cane. 27

aspirazioni di una società e mai elemento di puro autocompiacimento e mera contemplazione. Arte e vita - elementi indossolubili nella sua opera - sono le chiavi per interpretare la realtà con la costruzione di personaggi sgradevoli immersi in un mondo privo di speranze e di prospettive, all’interno di una visione anticipatamente ecologista e (quasi) timorosa nei confronti dell’imponderabile bellezza della natura. La sua è pertanto una visione critica nei confronti della modernità intesa come macchina della mercificazione dei corpi, delle anime e delle coscienze, mentre il suo sguardo è pervaso da quell’amarezza di fondo che solo i grandi possiedono. “Mi raccontò di quando si presentò al vecchio Rizzoli, alla fine degli anni cinquanta, di quanto lo “commosse” con un suo corto girato davanti alla Rinascente di Roma: Me lo descrisse così: il mendicante cieco sulla strada a fianco del grande magazzino con il cane fedele e la fascia sulla zampetta. L’uomo alzava lo sguardo con un sorriso non svelato, quasi nel vuoto. Al centro l’indifferenza dei passanti che vanno e vengono dal magazzino: ingombranti, seccati, i pacchi alla mano… faceva intendere che in quella scena c’era una sotterranea ironia, un’ironia che temprava la commozione”.17 Paolo Cavara é autore a tutti gli effetti; lo é non solo per i film più personali ma anche per quelli definiti “medi”. É un regista con una riconoscibile cifra stilistica, che non é limitata, semplicemente, all'impostazione della ripresa di stampo documentario. La riconoscibilità del suo stile passa sia attraverso temi ricorrenti sia mediante la duplicazione delle suggestioni visive e di messa in scena. Quattro film come La tarantola dal ventre nero, Los Amigos, Virilità e Il lumacone sono costruiti attorno al tema dell'incomunicabilità declinato, di volta in volta, secondo coordinate diverse. I rimandi tra il suo cinema e quello di Michelangelo Antonioni sono presso chè una costante, così come le dinamiche dell’aggressione - da Un chien andalou in poi - diventano argomento di riflessione lungo gran parte della sua filmografia. La suggestione di fondo é quella che mette il genere al servizio del “mestiere del regista”, il quale lo utilizza come contenitore, esclusivamente formale, strumento necessario e manipolabile per far emerge17

Pietro Cavara, Ricordo di un padre: Paolo Cavara, il regista gentiluomo, parte seconda in Cinemassessanta n. 264 – 2002. 28

re il sottotesto. La capacità di Paolo Cavara - di costruire un cinema stretto attorno a codici riconoscibili - non passa solo attraverso il significato dei contenuti ma anche nella riproposta di situazioni18 temi, suggestioni e scene che definiscono uno stile riconoscibile e molto personale, elemento imprescindibile di un mestiere, quello del regista che diventa così quello dell'artista.19

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La scena iniziale di La tarantola dal ventre nero richiama quella de L'occhio selvaggio con Paolo che, nella foresta, si intrattiene con la prostituta malese. Cavara oltre a riproporre la stessa eleganza e lo stesso tasso erotico della messa in scena, fa ricorso alla zigrinatura del vetro del centro estetico, come duplicazione dell'illuminazione a righe che alterna i chiari e gli scuri nella casa sul fiume. Altra situazione duplicata dal regista è quella del l'inseguimento. É il caso di quelli presenti nei due thriller di Cavara, che vengono declinati sia secondo la corsa a piedi - facendo ricorso ad una ripresa da lontano (da documentario) decisamente inconsueta per il genere – sia parodiando il tòpos di riferimento. La corsa sui tetti della sede dell'IMI ne La tarantola del ventre nero, così come quella di E tanta paura per le strade di Milano (nella zona di Porta Genova) presentano sorprendenti elementi da slapstick comedy: accelerazioni, capitomboli, improvvisi ribaltamenti di campo, ecc. Anche in relazione ad elementi più di carattere psicologico il cinema di Paolo Cavara presenta situazioni di continuità e duplicazione. É il caso, ad esempio, dell'uso fatto del paesaggio desertico in film come L'occhio selvaggio e La cattura, in cui esso diventa metonimia dell'assenza declinata, nel primo film in relazione all'anaffettivita e al mercimonio dei sentimenti, nel secondo dell'impossibilità di esprimerli per la presenza della guerra. Paolo Cavara, inoltre, sembra fare ricorso anche alla rappresentazione d'ambiente come simbolo, cioè come elemento narrativo condizionato dall'ideologia. Lo dimostra la rappresentazione di una Roma asettica e desertica in film come La tarantola dal ventre nero e Il lumacone, una città impersonale e astratta in cui non solo é difficile comunicare ma anche solo stabilire relazioni personali e amicali che siano vere e disinteressate. 19 A suggellare, ulteriormente, questa connotazione della regia di Paolo Cavara troviamo il collegamento tra le modelle di Klein in Mondo cane e il ritratto a carboncino di Susy in Los Amigos: in entrambe le scene si avverte l'intenzione, da parte dell'autore, di utilizzare l'arte come sintesi della parola, come linguaggio e come elemento grafico e poetico di grande comunicatività. 29

SEQUENZE DAL PROFONDO MARE BLU L’APPRENDISTATO SUL CAMPO

Paolo Cavara inizia la sua attività di documentarista a partire dai primi anni’50. In quel periodo egli ha terminato gli studi presso la facoltà di architettura dell’Università di Firenze ed è già grande appassionato di pesca subacquea. Questa sua passione, ben presto, si concretizza nella possibilità di diventare operatore subacqueo per riprendere i fondali marini: una corposa produzione (circa quaranta titoli) di documentari oceanografici realizzati singolarmente o al seguito di spedizioni scientifiche. Il primo riconoscimento ufficiale di questa sua attività è la pioneristica spedizione a Ceylon del 1951 dove tre giovani esploratori, Paolo Cavara, Carlo Gregoretti e Franco Prosperi, associati al Circolo Subacquei Napoletani a bordo del piroscafo “Vivaldi” si recano nell’Oceano Indiano con finalità sia scientifiche che sportive. I tre sono giovanissimi - al momento della partenza hanno un età compresa tra i 22 e 25 anni - e giá da alcuni anni sono dediti alle pratiche subacquee. Al momento di dare vita alla spedizione, fondano l'“Associazione Subacquea per l'Osservazione Scientifica” e anche grazie al sostegno dell'Università di Napoli - ottengono appoggio e contributo da parte di importanti aziende nazionali come Pirelli, Cirio…, mentre sul posto sono assistiti dalla film unit di Giulio Petroni. Il loro obiettivo - una volta giunti alle Maldive - è quello di studiare la flora e la fauna dei fondali marini. Esperienza giovanile certo, ma già corroborata da quella passione e determinazione che contraddistingueranno il Cavara regista, così come ricolma di quel gusto per l’avventura che lo porta a stare via per quattro/cinque mesi in terre poco conosciute e spesso inospitali: in questo caso si tratta di un centinaio di isole e isolette di cui si vuole portare a conoscenza la costituzione geologica e le specie che le abitano. Il contibuto di Paolo Cavara nella spedizione del ’51 è determinante dal punto di vista divulgativo, visto 30

che è lui l’operatore che si prende l’incarico di documentare - riprendendole con la cinepresa - le varie attività del gruppo, mentre Prosperi si premura di creare quell’apparato fotografico necessario per integrare la stesura del diario della spedizione. Questa, datata Maggio 1951 – Aprile 1952, garantisce al gruppo di ormai professionisti (Paolo Cavara architetto, Franco Prosperi professore di ittiologia e Carlo Gregoretti campione italiano di pesca subacquea) le pagine centrali della prestigiosa rivista americana “Life”. Una spedizione nell’Oceano Indiano, organizzata dal Comm. Michele Lisi e patrocinata dal Club Nautico di Napoli, la cui risonanza attraversa i continenti - data l’eccezionalità di quest’avventura vissuta su un isola semideserta - e giunge fino sul suolo americano. I tre compiono questo viaggio per sfatare il “mito”, e cancellare secoli di letteratura in cui è decantata la ferocia dello squalo, e per raccontare come questo pesce sia spesso indifeso e spaventato di fronte alla presenza dell’uomo: i punti di riferimento in materia, in quel momento storico, per i sub di tutto il mondo, sono i libri di Hans Hass come “Uomini e squali” e “Tra squali e coralli”. Con un argomento e un obiettivo del genere, il clamore è assicurato ma, come spesso accade, a tanto clamore non corrispondono le reali intenzioni di fondo che muovono il gruppo. I tre, infatti, sono più interessati a trovare conferme a loro intuizioni e a sottolineare (e divulgare) la verità che soggiace al mito delle bestie feroci: il 90% di esse sono dominate da un complesso di inferiorità rispetto all’uomo. La spedizione prende avvio - una volta raggiunta Colombo capitale dello Sri-Lanka - quando i tre incontrano il plenipotenziario del Ministro degli Esteri il quale li conduce presso la Legazione Italiana. Il breve soggiorno a Colombo è occasione di studio per individuare il luogo migliore adatto per condurre le ricerche.

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Paolo Cavara con Gregoretti e Prosperi (spedizione Sri Lanka)

Le Isole Maldive, all’epoca ancora disabitate20 a seguito di una spaventosa epidemia di lebbra e febbri tropicali. I tre raggiungono l’arcipelago a bordo di un barcone a motore acquistato per pochi soldi. Il viaggio non è dei più semplici, visto che dopo pochi chilometri dalla partenza si trovano a dover affrontare una tempesta tropicale che li obbliga a riparare nel porto di Ceylon. Dopo qualche giorno il gruppo riparte diretto ad Angrya, primo approdo e primo luogo di permanenza nelle Maldive. Qui inizia l’attività di immersione e pesca subacquea sotto gli occhi sorpresi ed esterrefatti dei pochi indigeni locali, i quali reputano lo squalo una specie di divinità crudele e malvagia. Ogni istante dell’ attività scientifica è immortalato dalla cinepresa che impressiona metri e metri di pellicola fissando su celluloide le immagini stupefacenti di una flora e fauna sottomarine sino ad allora sconosciute: sono decine le specie di pesci scoperte, mai studiate prima e su cui non esiste ancora alcuna letteratura scientifica. Quaranta giorni dopo il loro arrivo su Angrya il gruppo lascia l’isola per dirigersi verso uno sconosciuto isolotto dell’arcipelago delle Saline - luogo indicato loro dagli indigeni come un vero e proprio vivaio di squali. Dopo un altro viaggio - al limite del sostenibile (tra continue tempeste) - il barcone approda sulle coste dell’isola di Karaytiwu, il cui mare è popolato da barracuda, mentre la terraferma e costituita da 20

Lo erano a partire dal 1710 32

una folta foresta tropicale e da un’esigua popolazione indigena che si mostra molto diffidente nei confronti dei nuovi arrivati. “Mentre traversavamo su due battelli di gomma le acque del vorticoso fiume Kun-Ba-Kun, il battello ove si trovavano i miei due amici fu rovesciato dal colpo di coda di un enorme coccodrillo che si precipitò a fauci spalancate su di essi e dobbiamo alla loro abilità nel nuoto subacqueo ed alla ingordigia dell’animale che addentò il battello, ed un poco anche alla rapidità con cui riuscii ad accostarmi e a trarli a bordo, se la nostra impresa non terminò con un terribile e tragico bilancio. […] Una mattina mentre Prosperi era tuffato a tre metri di profondità intento a riprendere con la macchina cinematografica un branco di pesci sconosciuti fu attaccato da un grosso pescecane. Gregoretti ed io che gli eravamo affianco tirammo subito sulla belva con i nostri fucili. […] La bestia, trattenuta dall’arpione di Gregoretti si dette a ruotare velocemente intorno a Prosperi avvolgendolo con la fune e trascinandolo verso il fondo. Seguimmo il nostro amico che veniva trascinato negli abissi marini e dopo quattro lunghi minuti riuscimmo a tagliare la corda e a riportare il suo corpo a galla”.21 Nell'Aprile del 1952, Cavara e Prosperi, a bordo della motonave “Toscana”, salpano dalle coste dell’isolotto maldiviano per fare ritorno in Italia e sbarcare a Brindisi, mentre Gregoretti prolunga la sua permanenza e approda sulle nostre coste circa un mese dopo. Sulla spedizione, Franco Prosperi, nel 1953 pubblica il libro “Matea Mora, il signore dei pescecani”. Il documentario omonimo realizzato con le immagini della spedizione, invece, non ha quella diffusione sperata e fruisce di una circolazione molto limitata. L’esperienza di questa spedizione, comunque, dà il via a quelle a venire, realizzate in diverse parti del mondo, sia ad Occidente che ad Oriente.

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Da un articolo pubblicato su Il Corriere Mercantile, Agosto 1952 33

Paolo Cavara in Oriente (prima metà anni ’50)

La ricognizione alle Maldive e il relativo studio del comportamento degli squali sono sicuramente alla base sia della successiva collaborazione cine-documentaria tra Cavara e Prosperi, sia del segmento con i pescatori di Rajput presente in Mondo cane. L’attività di esploratore di Paolo Cavara attraversa tutto il decennio degli anni’50 e documenta un periodo di apprendistato vissuto con il piacere del viaggio e il gusto della scoperta. Queste spedizioni cine-scientifiche, nel 1957, gli valgono la chiamata in RAI da parte di Giorgio Moser con il quale realizza la prima serie di documentari per il piccolo schermo dal titolo La nostra terra e l’acqua, di cui Cavara, oltre ad essere corrispondente dalle Maldive e dall’Indonesia, co-dirige gli episodi 20.000 chi34

lometri, Bali, Il ragazzo del risciò e Il pastore e la ballerina prima di essere vittima di un attacco di malaria che lo porta a fare ritorno in Italia. Per il resto gli anni ’50 del regista bolognese sono per lo più avvolti nella nebbia. Quello che si sa è che nel Marzo 1955 è in America, dove assiste alle esequie del sassofonista Charlie Parker, mentre nel 1959 comincia la sua collaborazione (per ora nell’ambito della ricerca e distribuzione di pellicole) con la Cineriz di Angelo Rizzoli.

Paolo Cavara (primi anni’60)

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PARTE PRIMA

GLI OCCHI CHE RACCONTANO IL MONDO

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PER UN MONDO POSSIBILE: JACOPETTI E LA “VAMPIRIZZAZIONE” DI PAOLO CAVARA. Il TRATTAMENTO DI “MONDO CANE”

Quella che segue è la seconda stesura del trattamento di Mondo Cane. In questo caso è improprio parlare di sceneggiatura, visto che il il documento altro non è che un elenco, opzionale e ipotetico, di diverse situazioni sparse in giro per il mondo. Quello che colpisce è che l’assunto di fondo - anche nelle parti non realizzate o girate e mai montate - appare coerente con una messa in scena di una visione altra da proporre allo spettatore. Il prologo - presente nel trattamento e su cui avrebbero dovuto scorrere i titoli di testa - coincide con la dichiarazione di intenti che il gruppo di realizzatori Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi, Paolo Cavara, Antonio Climati, Benito Frattari e Stanis Nievo, ha fatto pervenire alla stampa al momento della promozione del film. Di tutti gli esseri viventi, l'uomo é l'unico che venga al mondo piangendo perché il pianto, dicono gli ostetrici, aiuta il neonato a respirare e da l'avvio ai polmoni. Ma noi, con tutto il rispetto per gli ostetrici, siamo di parere diverso: crediamo che l'uomo, unico animale intelligente del creato, manifesti piangendo il proprio disappunto per il nuovo ambiente in cui é venuto a cadere. Potrebbe sorridere, stirarsi, dormire; potrebbe pensare di alzarsi in piedi come fanno quasi tutti gli altri mammiferi; potrebbe leccare la madre come fanno i piccoli delle iene o battere le mani come fanno i neonati di certe scimmie appena vedono la luce; e invece piange, spalanca la bocca, e lancia grida che hanno sapore di una rabbiosa protesta. Tuttavia la sua é una protesta che dura poco, qualche giorno o qualche settimana, e la prima impressione, quella giusta scomparirà al di là dei ricordi. Man mano che il neonato crescerà, immagini nuove e false si affolleranno nella sua mente. Uomi39

ni e donne, che come lui, aprendo gli occhi sul mondo hanno reagito con un pianto disperato l'aiuteranno adesso a proseguire nell'equivoco; una dopo l'altra accoglierà e farà sue le idee più comode e convenzionali. Verrà a sapere che il mondo é fatto di buoni e di cattivi, ma che i buoni siamo noi ed i cattivi sono gli altri. Sentirà parlare di evoluzione, di civiltà e, se guardandosi allo specchio, si accorgerà di avere la cravatta, si convincerà di essere evoluto e civile. Tutto ciò che lo riguarda o riguarda il mondo che lo circonda troverà presso di lui una giustificazione tanto precisa quanto presuntuosa. Ogni "perché" troverà la sua risposta, tutto sarà spiegato, tutto sarà logico e se non ci arriverà da solo, gli altri ci saranno arrivati anche per lui. Le biblioteche traboccano di libri, milioni di libri, spesso diversi a volte spregiudicati, ma sostanzialmente identici nel dargli un'idea sempre convenzionale del mondo che lo circonda. Migliaia di nuovi film vengono prodotti ogni anno, si rappresentano commedie, si scrivono articoli, tutto è stato raggiunto, studiato, interpretato: dal mondo dei santi a quello della malavita, dal mondo primitivo a quello avveniristico, dal mondo della fantasia a quello dei pederasti. Noi invece abbiamo voluto battere un'altra strada, abbiamo voluto creare e portare in luce un mondo tutto diverso da quelli fin qui illustrati, un mondo assolutamente diverso e inedito che abbiamo chiamato “Mondo Cane”. Mondo Cane non è un' imprecazione, è l'immagine più adatta per definire il mondo che ci siamo proposti, con questo film, di rappresentare. Il mondo che ogni uomo intravede nascendo e che continua ad esistere anche se poi nessuno ci pensa o vuole pensarci. Intanto teniamo a precisare che i fatti riportati in questo film corrispondono scrupolosamente alla realtà, sono frutto di esperienze dirette derivate da due anni di viaggi e rappresentano materiale inedito. La loro esposizione non segue il criterio di un normale trattamento cinematografico, giacché, non sarebbe stato possibile senza infirmarne l'autenticità, decidere in precedenza quale potesse essere in sede di ripresa il reale svolgersi degli avvenimenti. Dalla Nuova Guinea agli Stati Uniti, alla Francia, alla Malesia, all'Arabia: tutto il mondo insomma. Gli argomenti da noi toccati non rappresentano sporadici avvenimenti della cronaca di quei paesi, ma fatti abituali che danno la misura dei costumi dei vari popoli. Man mano che ci sposteremo verso la fine, e che alle immagini del mondo primitivo seguiranno altre che portano il sigillo di una civiltà, ci accorgeremo come le prime e le seconde non siano che aspetti diversi di una identica realtà. Tuttavia questi parallelismi, anche se di grande evidenza non ci porteranno a 40

giudicare o fare del facile moralismo, ci limiteremo, semmai a confidarvi quest'unica, vera, consolante conclusione cui siamo giunti alla fine della nostra modesta fatica: questo è davvero un mondo cane, ma un mondo cane nel quelle ci troviamo tutti benissimo.22 Nel suo complesso il trattamento, qui riportato, appare ben diverso dall’edizione definitiva del film ma - come più volte dichiarato dagli autori - il materiale girato per la realizzazione di Mondo Cane è pressoché sterminato e costituito da migliaia di chilometri di pellicola. Si tratta di eventi ed episodi che se non compaiono nel film del 1962 sono stati utilizzati per rimpolpare Mondo Cane 2 o dirottati ne La donna nel mondo e, persino, in alcuni casi, venduti ad altre produzioni più o meno apocrife appartenenti al genere mondo movie - che esplode letteralmente nella sua copiosità a seguito dello stratosferico successo del capostipite. La struttura del trattamento di Mondo Cane è costituita da una serie di monoblocchi, ognuno dei quali comprendente vari episodi, riferiti ai diversi continenti e alle diverse nazioni. Questo per favorire le riprese, in modo che potessero esser completate in un'unica tornata e nel medesimo posto prima del successivo trasferimento. Un copione così, al contempo, magmatico (nella sua eterogeneità) e scarno (nella sintesi delle situazioni), non offre, certamente, a film finito, la possibilità di individuare i realizzatori materiali delle diverse situazioni. Il contributo di Paolo Cavara (cui si rimanda nello specifico al capitolo sui tre film Mondo Cane, Mondo Cane 2 e La donna nel mondo), appare determinante: lo raccontano le testimonianze raccolte, l’analisi delle dichiarazioni e della stampa dell’epoca, la ricostruzione dei documenti che precedono e seguono la realizzazione delle riprese del film. D’altronde, non si può non notare, come anche dal copione a seguire, più che le intenzioni scioccanti, bizzarre e urticanti care a Jacopetti (che pur sono presenti), emerga quell’opera di ricerca e indagine di carattere antropologico-artistica che contraddistingue la poetica del regista bolognese e che, soprattutto, nella fase documentaristica diventa vera e propria cifra stilistica riconoscibile. Si può perfino dire – analizzando attentamente il trattamento che, Gualtiero Jacopet-

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Dichiarazione firmata “I realizzatori del film”, dalla cartella stampa di Mondo Cane 41

ti, operi una sorta di vampirizzazione23 nei confronti delle idee, delle intuizioni ma anche della “filosofia” di Paolo Cavara. Il fatto stesso che al termine della dichiarazione-stampa si parli di “parallelismi” – e non di contrapposizione (tantomeno scioccante) – in riferimento alla relazione tra le diverse realtà fa percepire come la comunione di intenti iniziale abbia poi trovato in Gualtiero Jacopetti una figura “vampirica”.24 Certamente, in ciò, hanno contribuito tanto il suo essere giornalista già affermato quanto la sua amicizia con Angelo Rizzoli. Lo conferma lo stesso Prosperi25 che, come Cavara viene nominalmente esautorato dal progetto da parte del giornalista di Barga. Franco Prosperi, in realtà si è sempre disinteressato – in questo come in altri suoi lavori – di vedere riconosciuto ufficialmente il proprio operato: un po’ perché schivo, un po’ prechè interessato al ritorno econo23

Ad avallare e sostenere questa tesi contribuisce il contenuto di due dei soggetti inediti (Uao … ultrasuono e L’incantatore) pubblicati in questo volume – e precedenti alla relizzazione di Mondo cane - in cui – nel primo - si può notare un’anticipazione della sequenza degli ubriachi di Amburgo di Mondo cane, mentre – nel secondo - in un passaggio Cavara scrive: Nel cortile ci sono tante finestre, dietro le quali vivono un gran numero di persone, campionario eterogeneo di umanità che lui, proprio perché ce l’ha lì a portata di occhio, chiama “la sua televisione”. Perché per Sergio la gente è sempre fonte di uno spettacolo che lo affascina, lo diverte, lo innamora; e lui fa divertire la gente con le sue battute, con il suo modo di fare stravagante. Frase in cui non si può non vedere quella visione della “gente intesa come il più bello spettacolo del mondo” di cui Jacopetti farà il suo manifesto. 24 Persino il significato del titolo stesso – nella premessa del trattamento è riportato come: un “mondo cane”, che proprio come un cane, quando abbaia non morde – dando una visione d’insieme molto diversa da quella sempre sbandierata da Jacopetti riconducibile all’imprecazione toscana. 25

“Come detto, io ero andato all'incontro con tutte altre idee, però imparai presto che nel cinema bisogna cogliere subito la palla al balzo. Di certo io non conoscevo produttori disposti ad ascoltarmi e a finanziarmi i progetti; mentre Jacopetti si' e poi aveva la particolare dote di procurarsi anche del denaro. Era un po’ il cocco di Rizzoli che, allora, ci offriva la possibilità economica di poter affrontare la realizzazione di un film che si prospettava come qualcosa di nuovo. A pensarci bene con la nostra collaborazione si unirono due cose molto utili per entrambi: la sua tecnica cinematografica e la sua capacità di trovare finanziatori e la mia esperienza di viaggio – in fondo, all’epoca – pur giovane avevo gia' alle spalle un’esperienza notevole. Capitò così, per entrambi, l’opportunità di fare qualcosa che ci piaceva e che avrebbe potuto garantire un ritorno economico non indifferente. [Dichirazione rilasciata all’autore – Roma Settembre 2015] 42

mico con cui ha potuto proseguire i suoi studi di ittiologo e finanziare spedizioni scientifiche.

Cavara in Giappone sul set di “Mondo cane” (1960)

Per Paolo Cavara , invece, è opportuno sottolineare come egli – nella mistificazione del “montaggio jacopettiano” – veda mortificato il suo approccio artistico e poetico – soprattutto profondamente rispettoso e umanitario – nei confronti delle diverse realtà documentate. La riconoscibilità delle riprese da lui effettuate è una chiara, e inconfutabile, testimonianza del ruolo di protagonista di primo piano che egli ha avuto nel progetto Mondo cane.

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Pagina dell’agenda di Paolo Cavara con i contatti organizzativi di “Mondo cane” (Archivio famiglia Cavara)

Lo dimostrano pienamente le pagine del diario di lavorazione del film – conservato nell’archivio della famiglia Cavara – in cui emerge una stretta collaborazione a livello di organizzazione – tra Paolo Cavara e Stanis Nievo. Il regista bolognese contatta referenti per organizzare le riprese, tesse rapporti diplomatici per poter raggiungere determinati luoghi, realizza sopralluoghi, intreccia relazioni informali per poter ottenere permessi e pianifica il calendario delle riprese. Non solo – come scritto nelle pagine dei diari – egli si occupa anche 44

della parte burocratica: rinnovo dei visti, richiesta di concessioni e permessi, prenotazione dei voli, pagamento dei compensi per i collaboratori e noleggio dei mezzi di trasporto. Il suo è un ruolo imprescindibile e necessario per la buona riuscita del progetto; egli è la persona di fiducia di tutti i collaboratori di Jacopetti al punto che - in una lettera26 datata 14 aprile 1961 (a poca distanza dall’incidente di Las Vegas in cui muore Belinda Lee) – Franco Prosperi scrive così: Caro Paoletto, Ti scrivo in fretta e furia prima di uscire per la solita incursione su New York. Ieri ho ricevuto il tuo telegramma per le lastre. Ho subito telefonato a Gualtiero affinché avverta J. Pralgor di fartele inviare. Comunque insisterò ogni giorno per telefono affinché tu le riceva al più presto. Come stai? Come va il morale? Io qui sono immerso in un freddo intenso. New York si presenta molto difficile ma non mi arrendo. Scrivimi se puoi dicendomi: 1°) Come vanno le cose a Roma, nel senso che aria tira alla Cineriz? 2°) Come la mettiamo con gli stipendi? 3°) Com’è “io t’amo tu mi ami” [Io amo, tu ami… n.d.r.] di Blasetti e “America di notte” [di Giuseppe M. Scotese n.d.r.]? 4°) Cosa si dice per l’assicurazione? 5°) Puoi riprendere i contatti con il pittore e le modelle-pennello di Parigi? In ogni modo non ti preoccupare. Cerca di rimetterti a posto perché bisogna finire questi film e tu sei assolutamente necessario. Scrivimi perché mi fai bene. Ti voglio bene Franco I documenti ufficiali che più (e meglio) di ogni altro certificano il ruolo di Paolo Cavara nella regia del film, sono però, la Richiesta di Parere Tecnico inoltrata al Ministero dello Spettacolo in data 21 Febbraio 1961 – quindi a lavorazione ampiamente avanzata – e la Richiesta di prestito alla Banca Nazionale del Lavoro, datata 30 Gennaio 1961 che riportano come firmatario della regia di Mondo cane il solo Paolo Cavara (entrambi pubblicati a seguire). Il trattamento qui trascritto27 26 27

In Archivio Fam. Cavara - Per gentile concessione di Pietro Cavara. Si precisa che le parti mancanti del trattamento (segnalate come consuetudine con 45

presenta molti punti di incongruità con l’edizione finale del film: evidenti segni del lungo travaglio della scrittura quanto dell’opera di taglio e selezione in fase di montaggio, ma anche delle forti pressioni censorie provenienti dalle istituzioni che indubbiamente, hanno lasciato il segno e che hanno addomesticato la messa in scena complessiva. Come si evince, dal documento censorio del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, qui allegato, alcuni episodi presenti nella prima stesura del soggetto appaiono letteralmente irrealizzabili mentre è facile notare come altri, qui espunti, ricompaiano ne La donna nel mondo (i riferimenti a pag. 83 e 102), altri, sotto altra forma e/o decurtati siano presenti nello stesso Mondo Cane (rif. a pag 18 e 109), altri ancora facciano la loro comparsa in Mondo Cane 2 (rif. a pag.78 e 113). Dal documento emerge anche la volontà del Ministero di eliminare dalle riprese situazioni di urgente e scottante attualità ancora oggi: il riferimento all’infibulazione in Africa e quello alle mutilazioni corporali in Arabia. Allo stesso tempo, il Ministero - nella chiosa al documento - non manca di sottolineare tutto il disappunto delle istituzioni verso la realizzazione del film. La Cineriz, fa seguire al documento ministeriale una lettera a firma Eraldo Leoni e datata 27 Aprile 1960, in cui specifica i seguenti punti: il copione presentato altro non è che un elenco di situazioni ancora tutte da valutare in merito alla realizzazione del film; la raccolta proprio perché provvisoria non era destinata ad essere sottoposta al vaglio del Ministero; gli episodi più scabrosi sono stati opportunamente eliminati ancorchè giudicati irrealizzabili.

[…]), la cui mancanza non inficia né l’integrità né la coerenza del testo, non sono presenti poiché utilizzate direttamente durante le riprese del film e pertanto ormai andate definitivamente perdute. 46

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Mondo Cane (1962) Premessa Spesso la critica che noi muoviamo ai popoli primitivi chiamandoli barbari e incivili non è altro che presunzione: noi abitanti del mondo civile, con le nostre debolezze, le nostre superstizioni, le nostre inconsapevoli crudeltà quotidiane, ci comportiamo esattamente allo stesso modo. Tanto che la critica potrebbe essere rovesciata. Gli evidenti parallelismi contenuti nel nostro film vogliono appunto dimostrare questa verità ed invitare il nostro pubblico, attraverso un garbato e scanzonato umorismo, ad una maggiore modestia nei confronti di certi popoli lontani troppo facilmente definiti “selvaggi”. Gli uomini sono quelli che sono, tutti fatti della stessa pasta, bianchi, gialli o neri che siano. Ed anche il mondo è quello che è: un “mondo cane”, che, proprio come un cane, quando abbaia non morde. TITOLI su scena: MONDO CANE Interno dell’aereo dove è appena nato un bambino. Le scene tradizionali che accompagnano l’avvenimento si ripetono nella carlinga dell’aeroplano: un medico assiste il neonato praticandogli il primo bagno; i genitori ricevono le congratulazioni dei compagni di viaggio e partecipano al brindisi generale. Per stabilire dove sia avvenuta la nascita, l’ufficiale di rotta precisa le coordinate di posizione. Un passeggero guarda, attraverso l’oblò, la terra sottostante su cui scorre l’ombra dell’aereo. L’ombra si arresta. La terra ci appare avvolta dai meridiani e dai paralleli. Rapida discesa sul punto corrispondente alle coordinate di posizione. […]28 NUOVA GUINEA AUSTRALIANA La salute pubblica non è in migliori condizioni. Ma i nativi, già una volta trasferiti sulla spiaggia, hanno ora ricevuto ordine di distruggere nuovamente i villaggi e di ricostruirli nell’acqua e su palafitte. Le 28

Pagine mancanti e perdute a seguito del loro utilizzo sul set delle riprese 52

autorità locali hanno scoperto quale benefica funzione svolge il mare distruggendo il lordume e le immondizie. Alcune guardie indigene di una pattuglia governativa assistono impotenti ad un incendio che sta divorando una capanna. Non si tratta di un rapido sistema per distruggere le capanne a terra, ma di una evasione fiscale. Poiché il governo ha imposto una tassa su ogni casa, gli indigeni, una volta compreso il funzionamento del sistema, bruciano le proprie abitazioni e si ritirano a vivere nella foresta. Gl’indigeni hanno idee poco chiare sull’organizzazione del mondo civile, malgrado imponente sia l’opera dei vari ordini religiosi protestanti che hanno il compito di istruirli. HANUABADA - (La Capitale indigena della Nuova Guinea) Il villaggio, interamente costruito su palafitte, conta 40 mila abitanti che sono sottoposti ad un’intensa istruzione religiosa. Preti protestanti appartenenti a dodici religioni differenti, avventisti del settimo giorno e soldati del Salvation Army, predicano quasi ogni giorno, e spesso a breve distanza l’uno dall’altro, per assicurarsi il maggior numero dei fedeli. Gli apostoli dell’Esercito della Salvezza hanno l’uditorio più numeroso. Il canto delle donne e degli uomini europei in divisa e le marce trionfali suonate dalla banda attirano sempre un folto pubblico. L’antica religione pagana di Hanuabada è stata messa fuori legge e ogni mese le guardie indigene costringono i vecchi stregoni ad una corsa sfrenata per le vie del villaggio. Tra il grande divertimento dei presenti, gli askari afferrano i malcapitati e li scaraventano in acqua. In Nuova Guinea si crede che uno stregone bagnato e lavato perda i suoi poteri per lungo tempo e, appunto per umiliarlo agli occhi degl’indigeni, i rappresentanti della legge agiscono nel modo descritto. Hanuabada è la Shangai della Nuova Guinea, la città del vizio. Dalla veranda di quasi tutte le capanne, prostitute di ogni età richiamano chiassosamente i clienti occasionali. (Sono interamente vestite perché in Nuova Guinea così si distinguono le prostitute dalle donne oneste). Nell’interno di queste case di appuntamento, le ragazze sono truccate secondo il vistoso sistema locale. Il trucco usato dalle donne sono usanze nate da poco. In Nuova Guinea e nettamente in contrasto con i costumi tradizionali.

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NUOVA GUINEA ORIENTALE – PAPUASIA – (Un villaggio papua ad est del St. Joseph river, dove si vive ancora con usi e costumi di molti secoli fa). Sulla veranda di una capanna del villaggio, un gruppo di uomini è occupato a truccarsi. Si ornano i capelli con fiori e ghirlande, si ungono il corpo con olii profumati, si coprono le guance con ciprie multicolori, si ombreggiano le palpebre con sostanze iridescenti, si accentuano con l’aiuto del carbone l’arco delle sopraciglia e si ravvivano il colore delle labbra con l’ocra. (Non si tratta di efebi o di invertiti , né di attori che si preparano ad una rappresentazione. Tutti gli uomini del villaggio compiono la stessa operazione. Qui il trucco è un’assoluta prerogativa maschile). Compiuto il complesso maquillage, gli uomini indossano caschi primitivi, preparati con le penne degli uccelli del paradiso e gonnellini di raffia colorata all’uso polinesiano. I maschi papua spendono metà della giornata per il loro abbellimento. Il resto del tempo lo passano a cantare, a danzare o a far serenate alle ragazze del villaggio. Per queste ultime, niente balli, niente piume, trucco o gonnellini colorati. Spetta a loro lavorare per mantenere la famiglia. Sono le donne a coltivare i campi, a costruire le case, a fabbricare le capanne e perfino a cacciare e a pescare. I maschi, celibi o ammogliati che siano, fanno vita in comune e abitano la più grande capanna del paese, detta “Marea”, una specie di casa di tolleranza alla rovescia. Al tramonto le donne, le più belle del villaggio, si dispongono in fila e attendono il loro turno per trascorrere ore piacevoli con i loro pigri compagni. Presso la “Marea” sorge un’altra capanna, una strana prigione destinata alle ragazze che sposeranno il capo tribù. Queste donne sono rinchiuse dall’età di cinque anni dentro una gabbia dalla quale usciranno solo al momento del matrimonio. E’ compito degli uomini rallegrare ed abbellire la vita della comunità. E due o tre volte alla settimana essi intrecciano danze erotiche per invitare le agazze ad un’orgia generale. Davanti alla “Marea”, coperti con caschi variopinti, questi strani maschi ancheggiano voluttuosamente, cantano e si accompagnano con i tamburi. Improvvisamente, sulla testa degli splendidi adoni papua, piovono legnate a più non posso. Le donne, armate di bastoni e di pietre, li assalgono con urla furiose, li picchiano a sangue e li disperdono. I bellissimi guerrieri, con gli ornamenti a brandelli, i visi pesti e san54

guinanti, fuggono da tutte le parti: si rifugiano sugli alberi, sotto le capanne, dovunque possano evitare la furia delle donne impazzite. La causa della rivolta femminile, che ha trasformato la paradisiaca vita degli uomini in una bolgia infernale, la troviamo in una capanna dove è appena nato un bambino: un maschio. (Tra i papua la nascita di una bambina viene accolta con gioia, mentre quella di un maschio provoca, da parte della popolazione femminile, la furiosa reazione alla quale abbiamo assistito. Quando nasce un bambino, bisogna accogliere nella comunità un altro parassita o un altro padrone e le donne hanno diritto a sfogare la loro rabbia su tutti gli uomini adulti che, per tradizione, non possono reagire. La loro ribellione dura solo poche ore, poi tutto torna come prima). In Papuasia non solo gli uomini ma anche gli animali o le piante si comportano in modo stranissimo, tanto che sembra di vivere in un singolare mondo alla rovescia. Vi sono pesci che vivono sugli alberi come uccelli (perioftalmi) e uccelli che scavano tane nella terra come topi (Berte); piante che si muovono (sensitive) e divorano animali (utricularia) etc. Il singolare “mondo alla rovescia” assume aspetti ancor più appariscenti tra le tribù che abitano le regioni interne della Papuasia. DISTRETTO DI MEKEO – TRIBU’ NEGROIDI – PAPUANENSI Anche le abitazioni umane sugli altipiani della Papuasia sono stranissime: ve ne sono alcune lunghe vari chilometri. Le nuove coppie di sposi costruiscono la casa attaccata a quella dei parenti, senza pareti divisorie. Col passare dei secoli, le case sono divenute lunghe miglia e miglia. Spesso, se un nipote ha intenzione di visitare il nonno, deve affrontare un viaggio vero e proprio attraverso la galleria formata dall’unica capanna del villaggio. Le stranezze del comportamento sessuale non si limitano a quelle fin qui riferite. Le donne, prima di sposarsi devono dimostrare di essere feconde. Secondo la consuetudine, alla cerimonia matrimoniale partecipano sempre uno o più figli nati alla sposina da padre poco noto. Sono lì 55

per provare che la sposina non è sterile ed è atta al matrimonio. Nei villaggi si incontrano uomini che trasportano sulle spalle bambine di due o tre anni. Non si tratta di padri e figlie, ma di mariti e mogli. (L’usanza di sposarsi in questo modo è nata dalla necessità, per l’uomo, di evitare i pericoli della vedovanza; comunque la donna sia morta, infatti, è il marito ad essere accusato di averla uccisa. Il vedovo viene privato di ogni bene, linciato o, quando riesce a salvarsi, esiliato nella jungla). Il cane, in Papuasia, ha sempre un aspetto scheletrico e deforme. Esso non viene nutrito dai padroni che ne attendono con ansia la morte per estirpargli i denti, con i quali compongono collane molto ricercate. E’ un fatto singolare che i papua abbiano costumi così sconcertanti, circondati come sono da una natura meravigliosa; una natura popolata di splendidi animali. Le danze d’amore delle farfalle tropicali o degli uccelli del paradiso costituiscono uno degli spettacoli naturali più suggestivi dell’Oceania, macabra e selvaggia in Nuova Guinea, ma ricca di colore e d’immagini delicate in Polinesia. POLINESIA ISOLE TONGA Un centinaio di canoe solcano il mare di Tonga. Gli alisei gonfiano le vele, e i bilancieri si alzano sull’acqua nell’impeto della corsa. Sulla spiaggia dell’isola, sotto l’ombra dei palmeti, centinaia di “hula girls” attendono l’arrivo delle imbarcazioni. Le canoe raggiungono la spiaggia e le donne corrono incontro agli uomini, con ghirlande di fiori. Poi, tutti insieme, tra i palmeti, intrecciano danze rituali. Quando la festa sembra che stia per terminare nella tradizionale orgia generale, un brusco “stop” interrompe la scena. Un regista cinematografico e la sua troupe hanno terminato di girare le riprese di un esterno. Nelle Haway esiste una vasta organizzazione per fornire di comparse le varie troupe cinematografiche o televisive che vi lavorano quasi di continuo. Dato che le donne indigene non sempre sono belle, gli organizzatori provvedono a noleggiarle già “preparate” da specialisti del trucco. 56

I guardarobieri mettono in fila generici e comparse per ritirare il materiale di scena. Le ragazze, consegnate le ciglia finte, le sopradentiere e, alcune, perfino i magnifici seni di gomma o di plastica, tornano ad indossare i loro poveri vestiti di foggia europea, ed a immiserirsi con ciarpame di dubbio gusto. Uomini e donne si raccolgono intorno ai cineasti e tendono la mano per ricevere il compenso. Naturalmente in Polinesia, esistono ancora sia belle donne, sia quella estrema liberalità di costumi nei rapporti sessuali tanto famosa nel mondo. Ma l’amore tra gli isolani, l’amore puro e “gratuito” dei racconti di Melville, è diventato clandestino, quasi proibito. I giovani indigeni si raccolgono sulla spiaggia, di notte, al riparo di occhi indiscreti. Essi intrecciano le loro danze esotiche solo nel plenilunio e la luce lunare che si riflette sul mare illumina i loro corpi. Le notti di plenilunio sono le più adatte alla pesca dei dugonghi, le favolose sirene dei Mari del Sud. Le sirene si avvicinano alla costa e, quando emergono per respirare, i pescatori le arpionano. I loro corpi vengono trascinati a riva dove vengono lasciati ad agonizzare. (Le leggendarie sirene non sono che una specie di mostruose foche che nulla hanno di femminile ad eccezione di due mammelle turgide e sviluppate). Centinaia e centinaia di gigantesche testuggini marine, stanno morendo sulla spiaggia di un’isola; è un’isola lontanissima dall’atollo di Bikini, ma che risente delle radiazioni atomiche, conseguenza delle recenti esplosioni. Le grandi tartarughe sono state mortalmente colpite dalla lebbra atomica e vengono sulla spiaggia per compiere l’ultimo atto dettato dall’istinto di conservazione; le deposizione delle uova. Poi muoiono sfinite nel vano tentativo di tornare al mare. La stessa sorte attende le migliaia di uccelli marini viventi in isole assai più lontane da Bikini ma ugualmente infette. I loro pulcini appena nati periscono e il suolo è coperto di piccoli corpi. Intorno a Bikini, gli arcipelaghi e gli atolli corallini sparsi su una superficie pari a quella territoriale italiana, sono stati definiti zona atomica. Le isole del sogno, visitate da Stevenson, sono l’obiettivo dei razzi balistici a esplosione nucleare. La visione di atolli disabitati, distrutti dall’energia nucleare, cancellati dalla carta geografica, ci suggerisce l’idea di un mondo popolato da mostri. 57

Migliaia di enormi pipistrelli si staccano in volo dagli alberi dai quali pendono in masse compatte, a grappoli o a festoni. I rami di un’intera foresta sembrano animarsi nel brulicare dei disgustosi animali. Si tratta solo di innocui mangiatori di frutta e non di vampiri. I succhiatori di sangue esistono solo nelle leggende. AFRICA ARUSHA – TRIBÙ MASAI Alcuni negri, aggrappati saldamente al collo di grossi bovini ne succhiano avidamente il sangue. Sono Masai, i vampiri del continente nero. I bellissimi guerrieri si cibano esclusivamente di sangue e per succhiarlo meglio si estirpano, fino da bambini, due incisivi superiori. Anche ai neonati si somministrano una speciale “pappetta” a base di burro e di sangue fresco: ed è chiaro che solo i più forti riescono a sopravvivere. Non tutti i bambini naturalmente vengono nutriti con questa pappette. Le donne Masai e Nandi portano i bambini sulla schiena e, data l’eccezionale lunghezza delle mammelle, mentre accudiscono alle faccende li nutrono buttandosi i seni dietro le spalle. Nella “bome” Masai è facile imbattersi ogni mattina negli stregoni che assistono i loro pazienti. I malati vengono trascinati dai parenti al cospetto del guaritore. Questi legge i sintomi della malattia sulle strane figure che un liquido scuro disegna sulla superficie interna di due foglie premute fra loro. Eseguita la diagnosi, lo stregone copre interamente di sputi l’infermo e lo massaggia energicamente. Gli amici degli uomini, i cani, non sono bene trattati dagli stregoni Masai. Ancora cuccioli, vengono rinchiusi in cesti di vimini con la testa di fuori e il coperchio stretto intorno al collo. Vengono poi nutriti abbondantemente, ingrassati e dati da mangiare ai malati di stomaco. Le varie manifestazioni della vita africana sono improntate a crudeltà caratterizzate dall’insensibilità pel dolore fisico. L’autolesionismo diviene appariscente nelle deturpazioni e nelle torture cui si sottopongono tutte le figlie di Eve africane. I loro tatuaggi, acconciature, ornamenti e cicatrici rilevanti, deturpazioni del volto e del corpo, offrono una completa rassegna degli originali metodi usati per raggiungere un particolare ideale di bellezza. 58

Tra le tribù Zulù e quelle pigmee del Congo, tra gli abitanti dei deserti del Sudan e quelli delle savane dell’Uganda, ecco alcuni sistemi di abbellimento. Rasatura dei capelli a zero – deformazione delle orecchie – introduzione di ossa o bastoni nelle narici, allungamento del collo con collari di rame – alterazioni mostruose del labbro inferiore con piatti di legno – limatura dei denti – deformazioni delle ossa craniche, e perfino, nelle donne più moderne e sportive, introduzione di valvole di bicicletta nel labbro superiore, Quando le ragazze sono in età per essere sottoposte al tatuaggio, vengono ricoperte da cappucci neri in cui sono aperti due fori per gli occhi e uno per la bocca. Disposte in lunghe file, sono accompagnate sul luogo dove si svolge la cerimonia. Le donne più anziane le afferrano una per una e le gettano a terra dove le trattengono a viva forza. Una vecchia megera, specializzata in questo mestiere, incide la pelle della ragazza con conchiglie taglienti e, per impedire che le ferite si rimargino e non formino cicatrici vistose, infetta la carne viva con la terra. Una delle aspirazioni delle donne africane, comune del resto a tutte le popolazioni di colore, è quella di schiarirsi la pelle, di prendere, cioè, una “tintarella” alla rovescia. Alcune si coprono di fango per schermare i raggi solari, altre di sterco di vacca, altre di gesso o di segatura. Il vecchio Continente nero, così pieno di folklore e di mistero, sta morendo. Le danze tradizionali diventano sempre più rare. KENYA – NAIROBI Vediamo i giovani impegnati a ballare il rock’n roll e altre danze moderne. Dovunque dilaga la scimmiottamento, spesso originale nell’interpretazione, degli usi e costumi europei. Le donne Beganda usano indossare i reggiseni, nel senso contrario a quello normale, in modo da poter trasportare sulle spalle, appoggiandole nelle due cavità destinate alle mammelle, bottiglie, anfore, o altri soggetti. Nella tribù dei Kavirondo, presso i guerrieri e i cacciatori più feroci e ricchi dell’estAfrica, sette anni fa un rappresentante di commercio è riuscito a piazzare tremila macchine da cucire. I guerrieri sono divenuti abilissimi nell’usarle ed ora confezionano e vendono alle tribù vicine, vestiti femminili, indumenti ricamati e altri capi di vestiario. Solo gli uomini possono usare le macchine. Alle donne è proibito. La pubblicità dei 59

vari Coca-Cola, Pepsi-Cola etc. è arrivata nei luoghi più inaccessibili del continente nero. Ultimamente la “Tembo”, una casa produttrice di bevande alcoliche per negri, ha regalato ai Pigmei del Sepik varie centinaia di scudi multicolori con su scritto: “Bevete Tembo – l’aranciata dei cacciatori d’elefanti”. Ai Kikuiu, i più ricchi agricoltori del Kenya, sono state vendute nel ’58-59 più di duemila mutandine merlettate di nylon per signora, che gli uomini, e solo loro, indossano con sussiego. Anche l’Africa delle grandi belve e savane libere e sconfinate è finita. Nei parchi nazionali, che furono i famosi santuari della Natura, il traffico automobilistico dei visitatori è intensissimo. Ai lati delle piste leggiamo cartelli che invitano il turista a non “disturbare gli elefanti”, a “non spaventare gli ippopotami” e a “ non gettare cartacce o altri oggetti contro i leoni in libertà”. Una morbosa curiosità spinge i visitatori a raccogliersi intorno ai leoni, pigri e sonnolenti durante il giorno. Un carosello di centinaia di auto circonda la famiglia del re degli animali. Sembra di trovarsi in uno Zoo al contrario, dove i leoni abbiano condotto i propri piccoli a vedere gli uomini rinchiusi nelle loro gabbie mobili. Le famose caccie grosse africane vengono ora effettuate con metodi nuovi. I cacciatori di professione hanno sempre un leone pronto da fare abbattere al prossimo cliente. La belva, sempre: mantenuta nella stessa zona, nutrita con abbondanti porzioni di carne, perde, poco a poco, ogni sospetto e si prepara inconsciamente al sacrificio finale. Oggi. Una “caccia grossa” africana, si svolge pressa poco così: è sabato. All’aeroporto di Nairobi sbarca un cliente, un tipico uomo d’affari che è riuscito a strappare solo poche ore di vacanza ai suoi molteplici impegni. Incontro con il cacciatore di professione. Trasporto rapido in auto fino alle tende dell’accampamento. Il giorno dopo, domenica, safari a piedi e scoperta la belva che dorme tranquillamente. Colpo magnifico del cliente che ha sparato da circa mezzo chilometro di distanza con un fucile a cannocchiale. Alla sera ritorno all’accampamento e festeggiamento del bois. Imbarco sull’aereo del cliente con relativo testone impagliato del leone. Anche in Africa è giunta quella stanchezza verso le tradizionali forme di spettacolo che spinge il pubblico a richiedere scene sempre più difficili ed eccezionali. I famosi e romantici cacciatori di professione hanno inventato un nuovo sistema per dare la caccia agli elefanti. 60

Il cacciatore, appena avvistato il pachiderma, striscia sottovento fino a portarsi vicinissimo all’animale: poi gli applica delicatamente un francobollo sui fianchi e si ritira. Tornato a circa duecento metri di distanza dalla bestia, lo abbatte con la carabina a cannocchiale centrando il francobollo. Di solito il pachiderma abbattuto viene preso d’assalto; dai negri di qualche tribù vicina, che non avendo il permesso di cacciare nel proprio paese, difficilmente potrebbero procurarsi da soli carne fresca. I nativi divorano in poche ore l’elefante, cominciando a mangiarselo crudo dall’interno fino a sbucare dall’esterno attraverso la pelle. Le zanne non si mangiano, ma i negri non sanno lavorarle. Andranno a finire in qualche paese al di là dei mari. […] ARABIA In Arabia ed anche in Afghanistan si possono incontrare nelle grandi città, uomini e donne trattenuti alle porte delle case da catene e collari di ferro. I colpevoli di omicidio sono consegnati ai parenti della vittima che possono farne quello che vogliono. Il più delle volte essi diventano schiavi, ma non possono mai entrare nell’abitazione dei padroni e quando questi sono in casa vengono incatenati alla porta. Ogni giovedì le reclute della guarnigione di Kabul si esercitano nella piazza d’armi. I soldati che sbagliano la manovra vengono distesi a terra. Un plotone, una compagnia, un battaglione, gli marciano sopra calpestandoli. In molti paesi orientali la confusione degli usi matrimoniali o dei costumi sessuali è indescrivibile. Il pudore assume aspetti singolari, la poligamia si alterna alla poliandria, la liberalità di costume alla rigidezza più barbara. La rassegna dei costumi sessuali di tutto il mondo, iniziati in Australia, continua anche in Asia. INDONESIA TRIBÙ SAKAI Lo spettacolo di una sola ragazza che marcia in testa ad una dozzina di uomini, è abituale. Si tratta di una famiglia che compie la sua pas61

seggiata giornaliera. L’effettivo capo di famiglia è la donna che obbliga i mariti a servirla e a svolgere tutti i lavori in casa e fuori. Quando la moglie sta per partorire, i mariti debbono fingere di provare le doglie. Gli uomini si rotolano per terra contorcendosi come in preda a dolori insopportabili, mentre la donna si sgrava in apparente indifferenza. BALI (Kirindi) Proprio nella patria delle donne più belle d’Oriente e nella terra delle più famose danzatrici di Legong e delle bellissime Taxi girls, è comune l’invertimento sessuale tra gli uomini […] UN’ANONIMA CITTÀ DEL MONDO OCCIDENTALE La folla si muove celermente ai piedi dei grattacieli. Il traffico automobilistico e pedonale è convulso. E’ l’ora dello “shopping” e la gente si accalca presso gli incroci, entra ed esce in massa dagli underground, metrò, subway, autobus e stazioni ferroviarie. Non ci sono sensi o direzioni precise nel movimento della folla; ma pur nell’apparente confusione, i vari “Tabù” del mondo civile sono rispettati. Si illuminano i semafori, i divieti, le direzioni proibite, le indicazioni di passaggi obbligati. A Londra esiste il “Tabù” dell’immobilità : è infatti proibito sostare sui marciapiedi. Se una persona si ferma per un certo tempo nello stesso punto, il policeman di turno deve intervenire e costringerla a circolare. Tabù comunissimi sono quelli dovuti alla superstizione. Basta liberare un gatto nero nel traffico più convulso di una grande città per accorgersi di quanto evidenti siano le reazioni degli automobilisti: oppure è sufficiente appoggiare la base di una scala al margine di un marciapiede per vedere la folla girare l’ostacolo all’esterno; preferisce rischiare un investimento piuttosto che passare sotto la scala. Il sesso trova largo impiego nella pubblicità. Donne discinte, fotografate o disegnate appaiono dappertutto. Non esiste una locandina o un cartellone pubblicitario che non abbia la sua pin-up. Anche le copertine delle riviste o dei libri mettono in mo62

stra audaci e provocanti immagini per attrarre l’attenzione del pubblico. Il sesso è spesso legato al morboso. Ne sono prova le copertine dei libri. LO STRIP-TEASE Lo spogliarello è un’arte e le migliori attrici godono di grande notorietà. Allo stesso successo aspirano le decine e decine di ragazze che ogni giorno si presentano al concorso “corpi nuovi” in un night club di Amburgo. Le dilettanti sono studentesse, sartine, operaie. Il compenso per ogni spogliarello è fissato a quaranta marchi. Ogni anno a Parigi si effettua una rappresentazione di spogliarello a scopo di beneficenza. Un altro spettacolo di beneficenza è quello che si fa pescando con l’amo gli indumenti di una ragazza. A ogni capo di vestiario della ragazza è fissato un anello che, una volta agganciato dall’amo viene sfilato via. Sia a Las Vegas che a Parigi esiste un locale dove si esibiscono le vecchie glorie del varietà. A Parigi c’è una vecchia soubrette di 77 anni che fa lo spogliarello contorcendosi in una singolare danza del ventre, ovvero per essere più esatti, in una speciale danza della pancia. Sempre in Francia esiste anche un altro spettacolo di spogliarello particolarmente eccitante. Il pubblico è rappresentato dai guardatori cannocchialisti, riuniti in un club con tanto di statuto e di regolari tessere di iscrizione. Il “club dei cannocchialisti” di Cap d’Antibes, sulla Costa Azzurra, possiede un edificio dominante il mare da cui è possibile spiare con i cannocchiali le coppiette in barca. A Parigi, sulla Senna, naviga un battello (Bateau Mouche) che, munito di un grosso faro, la notte va in cerca delle coppie che fanno all’amore. Il biglietto costa duemila franchi, di cui, alle coppie che fanno all’amore, recentemente riunitesi in un sindacato, spetta il 15%. Quando piove il 30%. I POPOLI CIVILI NON PERDONO DI VISTA LA MORTE Un lampadario formato da tibie e femori umani con i portalampade ottenute con i teschi, illumina la sala del night club “Nean” a Parigi. I tavoli sono formati da bare e l’illuminazione è ottenuta in gran parte con ceri funebri. Secondo un’usanza diffusa in molte regioni del Nord America, i parenti che partecipano ad una veglia funebre desiderano conservare al defunto l’aspetto di un essere vivente, tranquillo, sereno e pieno di salute. Vi sono degli imbalsamatori che rivestono il morto con i suoi vestiti di casa e lo sistemano su una sedia in posa 63

molto naturale. Altre volte i cadaveri vengono cremati e le ceneri dei defunti sono raccolte in piccole urne o barattoli di ceramica colorata con iscrizioni dell’identità del defunto. Il Messico, durante il giorno dei morti, teschi e scheletri, modellati dalla fantasia popolare, in cioccolata, zucchero, in tela, legno, e perfino cewing-gum, sono distribuiti ovunque. Se ne trovano appesi agli specchietti delle auto pubbliche, come soprammobili nelle case, in mano ai bambini che li leccano se sono in cioccolato, oppure se li masticano se sono di gomma da masticare. Molte grandi città hanno anche cimiteri per cani. Ai riti funebri partecipano delle signore che, a volte indossano abiti vedovili. Il loro pianto è accorato e acuto come un guaito. LA FEDE NELLE MACCHINE, PRODOTTO DELLA CIVILTÀ Le macchine a gettoni sono diffusissime negli Stati Uniti e vengono adibite a scopi diversi. Oltre ai juke-box e ai flippers, ve ne sono alcune che spacciano bibite, sandwiches, gelati, sigarette; altre che mostrano filmetti sexy; altre per giochi d’azzardo, vengono allineate a centinaia in sale specializzate; altre ancora, negli edifici degli aeroporti, forniscono polizze di assicurazione. Basta infilare nell’apposita fessura una moneta da un quarto, mezzo dollaro, o un dollaro, per ottenere all’istante una polizza di assicurazione sulla vita già compilata. Non resta che chiuderla nella busta già affrancata e imbucarla nell’attigua cassetta delle lettere: dopo di che si potrà attendere tranquillamente, a bordo dell’aereo, che scoppi la bomba nascosta nella valigia. Numerose sono le tombe a gettone nei cimiteri americani. Infilando una moneta in un’apposita fessura, si mette in azione un meccanismo del tutto simile a quello del juke-box. (La musica che si diffonde dalla tomba è naturalmente di carattere mistico). Anche con i gettoni si può conoscere il proprio destino. Famose in East Side, a New York, sono le chiromanti meccaniche. Esse siedono in un armadio di vetro, davanti ad un tavolo su cui è disteso un semicerchio di carte. Introdotto il gettone, la chiromante si anima e con la mano di cera scorre le carte: Da una finestrella della macchina salta fuori il destino: Si tratta nella maggior parte dei casi, del ritratto della futura moglie dell’inquirente e del numero approssimativo delle sue corna. Inoltre, in questo paradiso del gettone, con un gettone telefonico si può chiamare una ragazza squillo. Con altri gettoni si può ballare a tempo con una taxi girl che attende in uno dei tanti locali del genere in America.

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LA GIOIA DI VIVERE NEL MONDO CIVILE Due donne combattono nel fango durante una di quelle note e caratteristiche competizioni sportive molto apprezzate in Germania. Altre due virago sono impegnate in un match di lotta libera su un ring. Le due contendenti si lanciano l’una contro l’altra scontrandosi al centro del quadrato. Due auto si scontrano violentemente su una pista specializzata in spettacoli del genere. Una macchina, dopo aver scivolato a tutta velocità su un piano inclinato, sorvola una casa e si schiaccia al suolo. Un’altra vettura carica di dinamite e con un uomo legato sul cofano, si lancia contro una barriera di ghiaccio. Altre macchine gareggiano su una pista ingrassata dando luogo a scontri spettacolari. Gli “Acrobati volanti” eseguono i loro esercizi appesi al carrello di un aereo in volo e vi ruotano sotto trattenendosi solo con i denti ad una fune pendente dalla carlinga. I “Paracadutisti della morte” si lanciano da grande altezza e aprono il paracadute solo a brevissima distanza dal suolo. I “Proiettili umani” si fanno sparare in aria da speciali cannoni a polvere. I “Tuffatori del brivido” si gettano dai trampolini alti trenta metri dentro una vasca con solo tre metri di diametro. Altri tuffatori si fanno gettare nelle acque rinchiusi in un sacco, con le mani e i piedi legati, per dimostrare la loro abilità nel liberarsi. Funamboli girovaghi danno spettacolo camminando su una fune tesa tra due grattacieli. “Fakiri bianchi” di ogni paese danno rappresentazioni nelle strade e nelle piazze: sono i mangiatori di fuoco, di piatti, di lamette, di lampadine elettriche, di spade etc.; gli “Ercoli” che infrangono le catene dilatando il torace, che si lasciano spezzare pietre a martellate sul petto, che si fanno passare sopra il petto camions carichi di persone o trascinano vagoni ferroviari con la sola presa dei denti, digiunatori che giacciono per mesi rinchiusi in bare di vetro piene di serpenti. Fra tanti strani mestieri, incontriamo anche l’uomo “Robot” e i manichini viventi, quegli esseri che per attirare l’attenzione del pubblico ripetono per ore e ore la stessa azione con le stesse mosse per la pubblicità di un prodotto. ALCUNE GRANDI CONQUISTE: LA CULTURA, LA POESIA, LA MUSICA A New York, nel Greenwich Village, fa centro la Beat Generation americana. Questi giovani ostentano un completo anticonformismo; disgustati della società attuale, non fanno nulla per cambiare il mondo che disprezzano. Vestiti in strane fogge, quasi tutti barbuti, vivono in un’inerzia completa nelle loro soffitte ascoltando “coll-jazz” fuman65

do sigarette alla mariujana, declamando poesie epistaltiche dal significato epilettico. Gli stessi visi, comuni a tutti i teddy boy o i teanagers del mondo, li possiamo trovare ad una delle tante rappresentazioni di jazz caldo o di rock’n roll. Sul palcoscenico lo “streaping boy”, un giovanetto imberbe, apparentemente in preda ad epilessia, si contorce suonando e cantando e strappandosi i vestiti da dosso. I CIBI: Migliaia di corpi di bovini o di suini accuratamente lavati, sezionati e impacchettati passano velocemente sulla colossale catena di lavorazione del mattatoio di Chicago. Seguiamo un maiale nel terribile itinerario che lo conduce alla morte. L’animale precipita nell’interno della fabbrica per una ripida discesa. Alcuni uomini lo afferrano e lo appendono a testa in giù ad un cavo in movimento ed il viaggio infernale incomincia : il maiale entra vivo in una camera e ne esce sgozzato; poi viene ingoiato da un cilindro fumante che ruota vorticoso, foderato all’interno di rasoi. Successivamente il corpo è sezionato e non più appeso ad un cavo ma scivolante su un tappeto mobile, viene privato del capo, degli arti, e sempre più spezzettato. Ventotto minuti sono passati ed il maiale, entra nel frigorifero già diventato cotechino, prosciutto, lardo, bistecca etc. Nei locali di famosi ristoranti, specialmente francesi, si possono vedere eleganti commensali che mangiano formaggio Chameret e inseguono nel piatto, schiacciandoli col pane e poi mangiandoli, i piccoli vermi che sfuggono dal formaggio. La specialità di due famosi ristoranti parigini è il vino che mesce da bottiglie entro le quali si intravedono arrotolati alcuni piccoli serpenti. Masse di lumache vive e schiumanti vengono gettate nell’acqua bollente nell’annuale festa di San Giovanni in Italia ed in Francia. Catturatori di rane, di serpenti a sonagli o di topi muschiati, sono stipendiati da fabbriche di cibi […]29 niche di chirurgia plastica, le donne si fanno estirpare meccanicamente la peluria superflua, si fanno violenti massaggi operati da strane macchine, si fanno chiudere entro forni elettrici, si sottopongono alla dolorosissima scarificazione dell’epidermide, si fanno segare i denti 29

Ibidem 66

per sostituirli con altri finti. Nasi che non siano di proprio gradimento vengono rifatti in tutte le fogge, pelli cadenti, celluliti, medianti delicati interventi possono ritrovare la freschezza giovanili.

INDICATIVA E PROVVISORIA SEQUENZA DI CHIUSURA Scegliamo una fra le tante spiagge vicine alle grandi metropoli in un giorno di week-end. CONEY ISLAND La spiaggia è incredibilmente gremita, tanto che è perfino difficile indovinare da quale parte si trovi il mare. Alcune persone giacciono quasi completamente immerse nella sabbia, altre mangiano, giocano, corrono; altre ancora prendono lo “Spry”: un inserviente fornito di un aggeggio uguale a quello usato per verniciare a spruzzo le auto, cosparge tutti di tinture abbronzanti. Alcune donne sfogliano e commentano con civetteria riviste di moda; un gruppo di uomini sta facendo una piramide umana. Sull’immagine conica della piramide umana, si sovrappone quella, sempre conica di un razzo interplanetario che sta per essere lanciato verso l’universo. La scena si immobilizza e ci appare sulla prima pagina di un giornale venduto da uno strillone. Strilloni di tutto il mondo urlano le ultime notizie : le loro facce si susseguono con ritmo sempre più frequente alternandosi alle notizie e alle immagini fotografiche stampate sui giornali. Si tratta di una notizia sensazionale : l’uomo muove alla conquista dello spazio. A Cap Canaveral, in una sala dall’aspetto quasi surreale è il centro per l’attuazione del grande progetto. Raccolti intorno ad un modello del razzo che sta per essere lanciato lavorano scienziati e tecnici di tutto il mondo. Riconosciamo tra loro i rappresentanti delle svariate classi che sono state oggetto di molti episodi del nostro documentario. Bianchi, negri e asiatici, lavorano in silenzio avvinti in un comune ideale: la conquista dello spazio. Sono gli stessi uomini che ci erano apparsi i deboli e miseri e perfino cattivi mentre ora li vediamo trasfigurati, quasi irriconoscibili e nelle loro espressioni si legge il segno della civiltà. Fuori, nel grande poligono sotto la luce accecante dei ri67

flettori, il gigantesco razzo è pronto a partire. Si stanno contando i secondi; un inserviente in tuta d’amianto sale in fretta la scaletta d’acciaio per raggiungere l’ogiva della grande macchina spaziale. Ha qualcosa tra le braccia che ancora non si riesce a distinguere e che vedremo soltanto quando attraverso un oblò, lo introdurrà nello speciale abitacolo: è un cane, un piccolo cane spaurito. Il razzo è partito in una nuvola fiammeggiante. Dal vetro del piccolo oblò gli occhi della bestiola guardano verso il basso. Sotto di lei la Terra si allontana, si impiccolisce e prende gradualmente la sua forma sferica fino a divenire il mappamondo percorso dai meridiani e dai paralleli che già abbiamo visto nella sequenza d’apertura. Fine

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LO SGUARDO ANTROPOCENTRICO E L’IMPRONTA POETICA DI PAOLO CAVARA IN “MONDO CANE”, “LA DONNA NEL MONDO” E “MONDO CANE 2”

La questione attorno a Mondo cane è estremamente delicata per le controverse relazioni e vicende umane legate alle forti personalità attorno a cui si è sviluppata la realizzazione del film. Vicende ampiamente dibattute e spiegate (anche se poi, in fondo, ognuno dei protagonisti non recede mai dalla propria versione dei fatti). Per analizzare il progetto Mondo cane è utile prendere in considerazione non tanto il singolo film, quanto l'immensa (per certi versi sterminata) quantità di girato - molto di più di ciò che è stato montato - che è alla base dei tre film: Mondo cane (1962), La donna nel mondo (1962) e Mondo cane 2 (1963) Già solo nel trailer ufficiale compaiono le immagini delle donne che lottano nel fango, quelle di giovani che sorseggiano drink in oggetti comunemente utilizzati per bisogni fisiologici e quelle di un ristorante in cui le sedie hanno uno spazio apposito per contenere pitali in modo che durante il pasto si possa tranquillamente evacuare. Frammenti di sequenze che non sono presenti nell’edizione definitiva del film. Immagini inedite che si vanno a sommare a quelle che nei diari di lavorazione di Paolo Cavara compaionio sotto la voce “quello che è già stato girato”: - L’indemoniata (Castel Saraceno) - Gufo inchiodato - Asta delle bare (Serra San Bruno) - Spogliarelli (Cannes) - Prostitute (Parigi) - Bagni di schiuma (Amburgo) - Donne e manichini (Giappone) - Bar girevole (Giappone) 69

- Sexy school (Giappone) - Charming school (Giappone) - Introduzione pagoda(Giappone) - Donne e bambini davanti a foto sesso (Giappone) - Gambe storte e seni piatti (Giappone) - I Flippers (Giappone) - Capanna Oppio e fumatori oppio (Singapore) - Cerimonia del Dio Scimmia (Singapore) - Uccelli assassini (Singapore) - Fachiri per le strade (Singapore) - Fachiri che camminano sul fuoco (Singapore) - Jogget (Kuala Lampur) - Fidanzamento Dayak ( Sarawak) - Fidanzamento Kayan - offerte alle divinità del dio cazzo e dio fica. - Sulle capanne. Fidanzamento di prova tra due ragazzi legati per i capelli (Sarawak) - Donne con immensi dischi alle orecchie (Sarawak) - Tombe e steli sul fiume Rajan (Sarawak) - Tatuaggio con cerimonia del sacrificio del cinghiale (Sarawak). Quando gli altri si “rubano” il mondo “Poi c’erano molti altri pezzi da Mondo Cane, perché avevamo girato parecchia roba. Quello che ho montato nel primo film è stata la crema, fotogramma per fotogramma. Molte cose sono state vendute a tutti dalla Cineriz; c’era un produttore (abbastanza noto a Roma) che mi venne a chiedere personalmente dal materiale, quando io non avevo neanche i diritti, per inserirlo nel film “Il pelo nel mondo”.30 Le parole di Jacopetti aprono scenari tortuosi come sono quelli legati alla ricerca del materiale inedito venduto ad altre produzioni. Detto che i collaboratori di Jacopetti, Prosperi e Cavara si sono trovati a operare su set di altri mondo movies, bisogna sottolineare come spesso e volentieri, anche dove c’è il sospetto, è difficile attribuire la paternità dei segmenti cinematografici ai rispettivi autori. Seguendo le parole di Jacopetti le ipotesi diventano certezze e analizzando un 30

Daniele Aramu, Intervista a Gualtiero Jacopetti, in Nocturno n° 9, Marzo 1999 70

film come Il pelo nel mondo (1964) è possibile ricostruire alcuni scenari distributivi legati alla Cineriz di quegli anni. Il mondo movie è firmato da Anthony M. Dawson (Antonio Margherti) e Renato Marvi (Marco Vicario che si firma con l’acronimo delle iniziali del suo nome e cognome), ed è prodotto dalla Atlantica Cinematografica - casa di produzione dello stesso Vicario. Il contributo di Margheriti (qui alla sua prima ed unica incursione nel genere) è marginale visto che, come da lui dichiarato, egli si è limitato ad aiutare gli amici Marco Vicario e Mario Morra (autore del montaggio) nella confezione del lungometraggio e ha svolto una serie di ricerche sui materiali di repertorio limitandosi ad effettuare ex novo solo alcune riprese da insertare per rendere il montaggio più fluido. Il film31 altro non è che un’opera di riciclaggio (anche con le musiche di Nino Oliviero “rubate” a Mondo cane) che annovera, oltre alla bizzarria del titolo, la curiosa animazione dei titoli di testa opera del reparto animazione INCOM. Nel film si ritrovano quasi tutti i segmenti indicati come “quello che è già stato girato” nei diari di Paolo Cavara: l’indemoniata di Castel Saraceno e il gufo inchiodato di Irsina, la cerimonia dei capelli legati del Sarawak, i flippers e il bar girevole in Giappone, le prostitute sui sampang ad Hong Kong, la lotta femminile nel fango a Düsseldorf e il “Mouton de Panrouge” - ristorante con le sedie con pitali di Parigi (segmenti presenti nel trailer di Mondo cane), i bagni di schiuma di Vienna e Amsterdam, le “taxi girls” della Malaysia e le bambine-prostitute di Singapore. A conferma della dichiarazione di Jacopetti - ne Il pelo nel mondo figurano intere sequenze provenienti direttamente da Mondo cane e da La donna nel mondo. Se da quest’ultimo proviene tutta la parte (debitamente rimontata) relativa a Cannes con la presenza del trans Coccinelle e le starlette che passeggiano sulla Croisette, il grosso del contributo giunge direttamente dagli scarti (ma anche dal montato) di Mondo cane. Il segmento più lungo - debitamente separato e distribuito lungo tutta la pellicola - è quello che presenta i turisti americani ad Honolulu; segmento, tra l’altro, accompagnato anche dalla stessa colonna musicale di Riz Ortolani. Del girato degli anziani yankees in visita alle Hawaii si ritrovano sia immagini già viste che inedite, quest’ultime riconducibili agli scarti di montaggio di Mondo cane. Gli scarti sono costituiti da: la sfilata di moda serale, i turisti americani che mangiano carne di cane, l’alzabandiera mattutino sulle 31

Conosciuto a livello internazionale con il titolo allusorio di Mondo inferno 71

note dell’inno americano, il ballo di benvenuto delle donne hawaiane, le difficoltà dei turisti nel rompere le noci di cocco e nel portare a termine la battuta di pesca. Direttamente da Mondo cane, invece, provengono le immagini notturne della Reeperbahn Straβe di Amburgo, le riprese con le vie e i palazzi e gli animali cucinati per le strade di Shangai, il ristorante automatico; tutti segmenti con le stesse immagini dell’originale ma (ri)montate in modo da apparire differenti. Nel film Il pelo nel mondo, inoltre, ci sono tutta una serie di situazioni che, per intensità, qualità della ripresa, dovizie di particolari e stranezze più che alla buona volontà di Vicario sono direttamente riconducibili al girato di Cavara e soci in giro per il mondo. Si tratta delle riprese degli homeless a New York, del lavoro femminile e del funerale della donna in Cina, degli spogliarelli in “negativo” di Amburgo, delle “case delle bambole” in Giappone, del ristorante Cannibal e dello chef con il gallo ubriaco a Parigi, degli “escultores cineticos” di Madrid, dei riti sacrificali e per la fecondazione delle tribù Adang e Cheyuk nel Borneo e delle scuole di ballo per corrispondenza come della vendita delle cinture di castità nell’Italia meridionale. Tutte riprese appartenenti ai luoghi “visitati” dai tre realizzatori di Mondo cane, inserite negli stessi filoni narrativi del film e che presentano sia la stessa impostazione della ripresa (uso di grandangoli, teleobiettivi e focali corte) che la stessa fotografia delle immagini del girato dai tre cine-documentari da loro realizzati. Il pelo nel mondo dimostra come nell’ambito del cine-documentario il concetto di mistificazione vada oltre il semplice contenuto delle riprese ma comprenda anche la stessa impostazione di prodotti cinematografici (la famosa frase di Bruno Mattei: “Nel mondo non ci siamo mai andati”) con riprese comprate da altre produzione desiderose di disfarsi - con un congruo guadagno della sequela di scarti del girato originale. Un ulteriore tassello da aggiungere a questo riuso di materiali preesistenti lo ritroviamo, con certezza, nel film Mal d’Africa (1967) di Stanislao “Stanis” Nievo (nipote dello scrittore Ippolito Nievo), già organizzatore della produzione sui set di Mondo cane 1 e 2 e La donna nel mondo.32 Il film di Stanis Nievo utilizza come colonna sonora il tema scritto da Riz Ortolani per Mondo cane e dipinge l’immagine di 32

Fu lo stesso Gualtiero Jacopetti a cedere parte del girato di Mondo cane e Africa addio (1966) 72

un’Africa intrisa di paternalismo e razzismo adagiandosi su una serie di luoghi comuni e stereotipi che finiscono per manipolare le immagini e la realtà - invece che mostrarla o descriverla. In Mal d’Africa, almeno due sequenze appartengono al girato di Mondo cane: quella con le suore che battezzano i Masai sul Lago Magadi, (proveniente dal montato de La donna nel mondo) e quella della morte per inquinamento dei White Flamingos sul lago Magadi inserita in Mondo cane 2. La prima riutilizza immagini dell’altro film e le integra con scarti di montaggio del girato esistente e non fa alcun riferimento a suor Maria e suor Luisa che attraversano la Angong Riserve (come è ne La donna nel mondo); la seconda viene quasi integralmente riproposta con lo stesso montaggio, ma decontestualizzata e con un generico riferimento (senza indicare né la zona né il luogo) agli effetti dell’inquinamento industriale in Africa. Il mondo come non lo avete mai visto Di Mondo cane Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi ne sono indubbiamente artefici - ognuno a suo modo e coerentemente con il proprio pensiero. Sono le tre menti attorno a cui nasce e si sviluppa una delle più contraddittorie, interessanti ed equivoche operazioni cinematografiche33 della nostra storia. Analizzare il progetto, più che il singolo film, costituisce forse l'unica possibilità per restituire a Paolo Cavara quanto egli merita con l'obiettivo di dimostrare quanto determinante sia stato il suo contributo di autore eclettico e non allineato nella realizzazione di un'opera, negli esiti, molto diversa rispetto al suo pensiero originario ma - va detto - altrettanto affascinante e ambigua.34 33

La denuncia di inizio lavorazione del film - depositata presso la Cineriz il 4 aprile 1960, con un costo di produzione a preventivo di 185.000.000 di lire - riporta come autori del soggetto e del commento Paolo Cavara e Gualtiero Jacopetti (aiuto regista il primo, regista il secondo). L'inizio della lavorazione del film Mondo cane avviene il 12 Aprile 1960. 34 Il montaggio e il commento (recitato con cinica ironia da Stefano Sibaldi), sono opera alfine dichiarata a riconosciuta di Gualtiero Jacopetti e hanno l'intento di contrapporre (e non di mettere in parallelo come previsto in origine) i comportamenti umani di ogni latitudine e longitudine del mondo, dimostrando come essi siano accomunati dal teriomorfismo (Termine qui applicato all’uomo e non alla divinità come è nel significato originale) 73

Cavara durante le riprese di “Mondo cane”: Caduta dall’aereo (1960)

Sullo sfondo del sensazionalistico e urlato montaggio-shock si intravedono un pessimismo manicheo e un feroce nichilismo: quella di Jacopetti è una rappresentazione del mondo funerea e disperata, avvolta da un alone di miseria e stretta in un vortice di violenza. “Volevo fare un lungo cinegiornale, una cosa mondiale, quindi avevo bisogno di una redazione: mi rivolsi a Prosperi perchè aveva fatto dei documentari scientifici per la Rai ed era un giovane molto serio, molto bravo. Poi lui mi presentò Paolo Cavara e cominciammo a lavorare insieme come se fossimo alla redazione normale di un giornale stampato. Il successo del film sorprese un po' tutti, fu un'esplosione, ci prese in contropiede. (…) Oggi il commento mi dà un po' fastidio però a quell'epoca funzionava così, i testi erano curati secondo i gusti di allora. Avevo curato molto anche il montaggio che è una cosa di cui sono molto appassionato; montare un film vuol dire raccontarlo, ed è un'operazione che non si può affidare a qualcun altro”.35 Paolo Cavara, viceversa, sembra avvertire proprio il pericolo dettato dall'idea jacopettiana del montaggio, quello cioè di costruire un 35

Daniele Aramu, Mondo Cane... addio – intervista a Gualtiero Jacopetti, Nocturno Cinema n° 9 marzo 1999 74

immaginario eterogeneo e mondiale incentrato solo ed esclusivamente sulla forza dirompente e distorcente della violenza. Prima ancora della riflessione sulla falsificazione e sull'uso strumentale della realtà (che verranno successivamente) il regista bolognese si interroga sulla deformazione della realtà tramutata in spettacolo, raccontata attraverso situazioni sì reali, ma necessariamente riprodotte per i tempi e per le specifiche cinematografiche: il suo punto di vista è quello di colui che riflette sulla pericolosità di un lavoro equivoco (come egli ritiene essere Mondo cane) in cui si procede all’abbandono dello sguardo in presa diretta sul mondo, in favore di una riproduzione, falsa ed effettistica, scorporata dalle complessità impenetrabili dell'animo umano. Il regista bolognese avverte anche il pericolo di cambiare se stesso attraverso la ripresa della realtà: poiché - utilizzando gli esseri umani come attori di una messa in scena precostituita - c'è il rischio di trasformarli in attori spersonalizzati, farne degli “oggetti” finalizzati a rappresentare uno spettacolo. Il rischio della strumentalizzazione delle vicende umane è connaturato alle riprese realizzate in luoghi reali con uomini e donne reali, e solo l’ottica dello sguardo di chi riprende può allontanarlo o avvicinarlo. “In anni di attività in qualità di documentarista ho riscontrato come la realtà, a seconda del modo come io potevo vederla o pensarla, poteva risultare influenzata, e quindi diversa. Allorchè, infatti, si vuol tradurre un documentario in spettacolo, anziché farne una trattazione didattica è chiaro che bisogna sceglierne una tematica, e ciò porta ad una visione personale della realtà”.36 La visione personale della realtà è quella che emerge dal modo di essere e di intendere la vita di ogni essere umano, declinata secondo interessi e sensibilità diverse in ogni individuo: Jacopetti, Prosperi e Cavara sono stati, per anni, in giro per il mondo alla ricerca (e alla scoperta) di mondi sconosciuti condividendo un'esperienza totalizzante che, quando giunge alla rottura, non può che lasciare – a causa della sua stessa intensità – strascichi dolorosi e laceranti.Il sodalizio si interrompe burrascosamente a seguito degli eventi avvenuti in Congo nell'autunno del 1962, durante le riprese della presa di Boen-

36

Dichiarazioni di Paolo Cavara, Corriere della Sera, 15 Febbraio 1967 75

de da parte dell'esercito congolese e di un gruppo di mercenari. 37 Il doppio articolo “Una guerra privata in cinemascope”, a firma Carlo Gregoretti, apparso sull'espresso del Dicembre 1964 (quando il gruppo, senza più Cavara è nuovamente in Congo) svela un mondo ben più terribile di quello ripreso con la Arriflex. Un mondo cinematografico fatto di cinismo e manipolazione - a cui Paolo Cavara sente di non appartenere: motivo per cui si separa il più velocemente possibile (già nel 1962 dopo l'uscita nelle sale di Mondo cane) dal gruppo. L'articolo di Gregoretti esprime - attraverso un linguaggio secco e stringato - situazioni che non hanno bisogno di commento. LeopoldVille. Era un sabato, l'alba di sabato 24 Ottobre 1964. La cinquantaquattresima colonna dell'Armée Nationale Congolaise composta di duecento soldati katanghesi, trentasei mercenari, tre jeeps, due camions, un mortaio, due bazooka, qualche fusto di carburante un pappagallo e due scimmie (oltre a tre cineasti italiani, Gualtiero Jacopetti, Stanislao Nievo e Antonio Climati), s'era appena mossa dalle rive del fiume Tshuapa, diretta a Boende, quando tre ragazzi mulelisti spuntarono lontano sulla strada, una strada lunga e dritta, fatta di terra color ruggine, aperta in mezzo ad alberi pieni di foglie gigantesche rosa e verdi. Avranno avuto dieci anni, forse dodici e marciavano incontro ai nemici completamente disarmati cantando in coro il “Maj mulele”, agitando insieme la mano destra davanti al corpo seminudo, brandendo un ramo con la sinistra per pulirsi il terreno innanzi ai piedi. Sulla jeep di testa, quella che apriva la colonna, il mercenario sudafricano Ben Louw strinse le manipole della mitragliatrice e poggiò il pollice sul bottone. Poi, invece di sparare, si voltò indietro, verso il primo camion che lo seguiva a meno di due metri di distanza; vide l'operatore Climati chino dietro la macchina da presa, l'occhio alla loupe, le mani sui diaframmi e sui fuochi; vide Nievo e Jacopetti ai suoi fianchi tutti e due con l'elmo sulla testa, appoggiati al treppiede per bloccarlo il più saldamente possibile: “Ready?”. Macchè, non erano pronti. I ragazzi erano spuntati all'improvviso, lontani sulla strada. Ed erano ancora troppo lontani per poterli riprendere senza cambiare obiettivo. Ci voleva il “mille” o perlomeno il “trecento”. E bisognava far presto perchè Louw 37

Fatto che testimonia come gli anni di riprese diano vita a una mole di materiale che non solo è alla base dei due Mondo cane e de La donna nel mondo ma anche del successivo Africa addio (1966). 76

aveva fretta. Louw si voltò indietro una seconda volta; alla terza, bestemmiando disse che avrebbe sparato lo stesso, ma in quel momento la mano di Climati gli diede il via con uno schiocco di dita: il motore dell'Arriflex andò in moto insieme al meccanismo della mitragliatrice. I tre ragazzi mulelisti si abbatterono l'uno sull'altro nella terra color ruggine.38 Va detto che, nel corso degli anni, Jacopetti ha sempre smentito questa versione dei fatti, e ha sempre dichiarato che le accuse apparse sull'Espresso erano il frutto di incomprensioni e invidia. Secondo Jacopetti, fu egli stesso a invitare Gregoretti al suo seguito: “Io ignoravo quello che avrebbe scritto, e come effetto i suoi articoli mi procurarono una denuncia d'ufficio; sembrava che facessimo ammazzare la gente davanti alla macchina da presa, addirittura, Climati era accusato di dire “pronti...fuoco!”. L'ordine “si gira” era praticamente l'ordine di sparare, questo era il paradosso di quegli articoli”.39

Cavara durante le riprese di “Mondo cane”: con Benito Frattari (1960) 38

Carlo Gregoretti, Una guerra privata in cinemascope, L'Espresso, 20 Dicembre 1964, pag. 5 39 Daniele Aramu, op. cit. 77

Altre vicende tragiche funestano la lavorazione del film e, involontariamente, contribuiscono a complicare i già precari rapporti personali nonché a favorire rivendicazioni di parte. A Las Vegas, il 12 Marzo 1961, Cavara, Prosperi e Jacopetti hanno appena finito di girare la sequenza dei divorzi poi montata ne La donna nel mondo e mentre sono di ritorno - pronti a ripartire per l'Italia - una tragica fatalità li coglie sulle strade del Nevada: lo scoppio di una gomma dell'auto fa decollare la macchina su cui viaggiano Jacopetti, Cavara e Belinda Lee. Lei muore, Cavara riporta solo lievi ferite, mentre Jacopetti torna in Italia ingessato dalla testa ai piedi e reso morfinomane dalla lunga degenza ospedaliera. “Con Franco Prosperi (Paolo Cavara) è stato il realizzatore materiale di Mondo cane e La donna nel mondo. Jacopetti si era limitato a stendere il commento e a curare il montaggio, né del resto avrebbe potuto fare di più, dato che durante le riprese dei due film, egli trascorse parecchi mesi nel carcere di Hong-Kong e rimase immobilizzato per circa un anno dopo il grave incidente automobilistico in California (Nevada n.d.r.) che costò la vita a Belinda Lee”40 Alla luce dei reciproci rancori personali che accompagnano la scissione del gruppo di lavoro, i due Mondo cane e La donna nel mondo possono essere indagati solo in funzione della separazione dei punti di vista dei diversi autori. Quello di Paolo Cavara risulta essere il più complesso e affascinante, forse il più nascosto e sotto traccia, spesso e volentieri annegato nei repentini e violenti stacchi di montaggio, talvolta deformato dal commento ipocrita e urticante, altre volte mascherato in una messa in scena effettistica e sensazionalistica. In Mondo cane, c'è un che di naif che emerge dalla mescolanza tra crudeltà e ironia: un anima profondamente cavariana dettata dalla rappresentazione della trasgressione come atto di rottura delle convenzioni; uno spingersi oltre nella ricerca di una verità che talvolta sfocia nel bizzarro e nel sorprendente. L'elemento naif si coniuga con la dimensione della ricerca intesa come scoperta del “diverso e dell'inusuale” per mostrarne la bellezza: questo può avvenire solo attraverso il tema dell'esplorazione e la conseguente dimensione idilliaca della 40

ABC, anno V, numero 6, Febbraio 1964 in Pietro Cavara, Ricordo di un padre: Paolo Cavara, il regista gentiluomo – Quarta parte, in Cinemasessanta n.4, 2002, pag. 35 78

scoperta. Quella del regista bolognese è una visione romantica - legata al concetto di viaggio inteso come tradizione letteraria - un'esperienza intesa come una sorta di richiamo nostalgico verso un concetto di felicità interiore e ancestrale, la ricerca di un modello di vita alternativo in cui fatica e creatività, naturalezza e semplicità si coniugano miracolosamente. Il suo è un punto di vista ambiguo - non nell'accezione negativa del termine - quanto nell'impossibilità di decifrarne i parametri. Nella sua ottica, i due Mondo cane e La donna nel mondo, o meglio, il girato che è alla base delle tre docu-fiction, appare declinato su tre architravi ben delineate: il cannibalismo sociale dell'occidente, l'arcaica e pura arretratezza del diverso e l'occhio selvaggio dello spettatore. Tre direttrici occultate dal montaggio antifrastico di Jacopetti e dal teriomorfismo legato all'equiparazione della barbarie che emergono nei segmenti di quello che possiamo definire “percorso italiano” o nella delineazione del declino dell'impero occidentale mostrato attraverso il colonialismo del dolore e della morte. La segmentazione vorticosa dei film, nasconde gli sprazzi poetici delle meravigliose riprese realizzate da Paolo Cavara, in cui emergono tanto la semplicità di un mondo perduto - mostrato attraverso il richiamo ad un esotismo che non è mai di maniera ma è sempre sincero e trasparente nelle sue manifestazioni più immediate e naturali (il bambino con il gigantesco pesce rosso in Mondo cane 2) - quanto nella rappresentazione dell'arte sempre venata da un alone di surrealismo - indissolubilmente legata alla musica ed espressa attraverso l'armoniosità delle forme e dei gesti. I due figli minori di questo trittico evidenziano il contrasto tra il risultato definitivo di Jacopetti e le intenzioni iniziali di Paolo Cavara. Se Mondo cane 2 (in cui Paolo Cavara non è accreditato tra i realizzatori), disconosciuto dallo stesso Jacopetti che lo reputa “indegno, è una cosa fatta chiaramente con l'intenzione di sfruttare il successo del precedente” mette in evidenza il lato più grottesco e brutale della creazione cinematografica mostrandone tutta l'artificiosità e la ricercatezza del mostruoso, La donna nel mondo sembra rispondere agli istinti più bassi e primari dell'essere umano: una sorta di ritratto nudo e selvaggio del corpo femminile - in cui la componente sessuale domina quella di genere e in cui il ritratto manicheo e schematico della donna che ne emerge è sospeso tra emancipazione e tradizione. Niente a che vedere con l’idea di Paolo Cavara di raccontare il mondo attraverso la lente della macchina da presa per mostrare

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in modo ravvicinato il connubio tra orribile e meraviglioso che coesiste, si alimenta e permane ad ogni latitudine del pianeta. 24 fotogrammi di realtà al secondo Lo sguardo di Paolo Cavara sul mondo, è quello, contraddittorio e affascinato del bambino-adulto, quello cioè dell'innocenza e della purezza, della semplicità frammista alla consapevolezza della sofferenza e della morte. Il suo racconto per immagini - che si dipana lungo le tre pellicole - sceglie come ambiti preferenziali: il sud dell'Italia e la sua tradizione religiosa tra devozionismo e follia; la naturalezza paradisiaca delle isole polinesiane o dell'Africa centrale, il colore e la coreografia delle sfilate di majorette e la vena artistica e anarchica di artisti unici ed irripetibili come Yves Klein. Lungo il “percorso italiano” si avverte l'urgenza di raccontare i brandelli persistenti di una società arcaica e tradizionalista, in cui sangue e sofferenza - finalizzati all'espiazione dei peccati - si coniugano con una pericolosa (e profetica) deriva modernista - qui intesa come desiderio di apparire, fare cinema per affermarsi, emulare il divo per allontanarsi da una vita gretta e misera, scegliere il successo facile in sostituzione della fatica quotidiana. Fatica che appartiene ancora al mondo tribale che spende le sue giornate tra lavoro manuale, ritualismo e capacità di assecondare – quasi con timore – la naturalezza del ciclo vitale (discorso che non fa distinzioni tra uomo e natura). Il racconto del cannibalismo sociale dell'occidente – pronto a divorare e cancellare un mondo fotografato un attimo prima della sua dissoluzione - avviene attraverso una serie di rappresentazioni all'interno delle quali si evidenzia come i comportamenti più biechi, subdoli e opportunisti del mondo occidentale contaminano - velocemente e irreversibilmente - uomini impreparati alla visione del progresso e inadatti a sostenerne i pericoli ad esso annessi. Sia il segmento che racconta l'arrivo dei vecchi turisti americani a Honolulu, così come l'epilogo con il cargo cult in Mondo cane, dimostrano quanto ci sia di mostruoso nel modernismo, e quanto - per descrivere questa mostruosità - sia necessario uno sguardo antimodernista come quello di Paolo Cavara. Quello che mostra la macchina da presa diretta dal regista bolognese è un orrore in cui non ci sono né sangue né segni espliciti di dolore ma è ancor più spaventoso e inquietante perchè abbraccia la sfera psicologica: quella che porta gli individui alla perdita di identità e a vivere in una dimensione massifi80

cata in cui è annullato il valore del singolo. Una dimensione che conduce a rappresentare oggetti e simulacri che non appartengono alla tradizione e a venerarli per emulazione, a fare propri stili di vita importati pur di essere accettati e considerati (o anche solo fotografati) dal potere dell'occidente. Nella visione antropocentrica di Paolo Cavara, l'uomo è vittima del progresso e lo è ancor di più quando egli, impotente, si trova di fronte all'inconoscibile e ritiene, ad esempio, che gli aerei da trasporto commerciale - osservati dietro le grate dell'aeroporto di Port Moresby in Papua Nuova Guinea - abbiano una natura divina per il solo fatto che la loro forma e funzione non rientra nell'immaginario di riferimento (in questo caso quello degli aborigeni). Non bisogna però semplificare, perché quello di Paolo Cavara non è un rifiuto a priori del progresso, ma è una visione articolata delle sue insidie in cui velocità e successo cancellano ogni sensibilità umana. Lo sguardo antropocentrico del regista emiliano - seppur occultato dalla messa in scena manichea di Jacopetti - emerge fortemente nel racconto dei “tipi” umani che si susseguono lungo i tre film. La sua è un'attenzione verso la diversità e l'unicità di ogni individuo, inteso come singolo e irripetibile: non è difficile osservare quanto la macchina da presa indaghi i volti, si soffermi sugli sguardi, cerchi di carpire anche attraverso le pieghe, le ferite e il colore della pelle -l'essenza intima ed emotiva degli individui su cui indugia. Il punto di vista di Paolo Cavara è sempre ambiguo, sospeso tra repulsione e fascinazione, mai equivoco: non concede spazio al fraintendimento, perchè suo intento è quello di rivelare la complessità della natura umana. La macchina da presa, è per lui, un “occhio selvaggio” (non a caso così intitolerà la sua riflessione sul confine tra verità e menzogna) onnivoro e cannibalico, che tutto riprende e tutto mostra. Nell'ottica di Paolo Cavara, il senso di responsabilità di chi riprende deve essere quello di allontanare lo spettatore da una visione totalmente violenta della messa in scena, perchè la violenza - che è endemica alla natura umana - non deve mai diventare il motore narrativo della vicenda, ma sempre essere una componente circostanziata ad alcuni passaggi dell'esistenza umana. Proprio il punto di vista dello spettatore - quello che è al contempo sadico e masochista - è l'elemento che turba maggiormente l'animo del regista bolognese. Per questo, nel riprendere, non giudica ma osserva con uno sguardo scientifico - quasi da entomologo - che è volto a mostrare la naturalezza delle scelte e dei comportamenti umani - lontano da qualunque idea di artificiosità e misti81

ficazione. Il più immediato riscontro di questo approccio problematico emerge attraverso il racconto che mostra la Morte generata dall'uomo in tutta la sua forza distruttrice nel segmento di Mondo cane realizzato nell'atollo di Bikini. Qui l'uomo non è presente fisicamente, ma la sua presenza è più forte e minacciosa che mai visto che gli animali - defraudati delle loro prerogative comportamentali e violentati nella loro purezza - muoiono assurdamente a causa degli effetti delle radiazioni nucleari provocate dagli esperimenti atomici realizzati nell'atollo. L'immagine delle tartarughe che muoiono sotto il sole rovente - a causa della perdita dell'orientamento (che anziché verso il mare le spinge verso l'interno) dovuta agli esperimenti nucleari contiene una forza di poetica disperazione. Ne La donna nel mondo il contrasto stridente tra il battesimo dei Masai sul lago Magadi e le modelle di Dior che sfilano in mezzo alla savana ha una forza politica dirompente. L'immagine delle donne Masai che - affascinate da quell'esposizione di carne bianca, trucchi e profumi - cercano, tristemente (in modo ridicolo), di imitare le modelle occidentali è al contempo straziante e volgare ma mostra al meglio quanto le presenza di Dio sia lontana dal mondo occidentale e quanto, paradossalmente (ma solo per il pensiero comune), sia vicina tra i fenicotteri del lago Magadi -angolo sperduto e dimenticato dell'Africa nera. Quello di Cavara è anche uno sguardo pienamente e potentemente cinematografico, come dimostra il segmento de La donna nel mondo dove viene mostrata la casa dello studente di Stoccolma in cui la ripresa in esterno notte della facciata del comprensorio con tutte le finestre illuminate è pura rappresentazione del voyeurismo. L'immenso video wall di mattoni e cemento, in cui si osservano dalle finestre - come se fossero tanti schermi - le vicende amorose, sentimentali e sessuali dei giovani studenti è già un’immagine-simbolo della società dello spettacolo. Altri segmenti come quelli di Mondo cane 2 in cui si mostra la moria dei Flamingos bianchi sul lago Magadi a causa dell'inquinamento o quello delle donne che in Sudan raccolgono l'acqua nelle foglie di gingoine, sono testimonianza diretta dello sguardo indagatore di Paolo Cavara: immagini al contempo dolorose e poetiche, in cui più che mostrare, il regista cerca egli stesso di capire la realtà che gli sta di fronte. La violenza feroce che lega le vite dei pescatori di Rajput in Mondo cane (segmento dichiaratamente ricostruito) rimanda ad una realtà vissuta e osservata in gioventù. Proprio nella rappresentazione e nel conflitto tra animale e uomo emerge la guerra dissimulata tra pescatori e squali. Un 82

frammento, questo, che evidenzia quanto la necessità della rappresentazione della violenza debba essere circostanziata e delimitata. La forza urticante della pena inflitta agli squali costretti a ingoiare un riccio velenoso che si conficca nella loro gola e che gli procura una settimana di terribili sofferenze prima della morte, risiede, proprio, nella non gratuità del gesto messo in atto in virtù delle dinamiche umane e delle regole non scritte del rapporto tra uomo e fiera. Lo squalo ha appena ucciso e dilaniato il corpo di un bambino ed è dunque inevitabile che questi “pescatori per necessità” - dai corpi orrendamente e consapevolmente mutilati - riversino sull'animale - causa delle loro sofferenze - tutto il rancore e il dolore accumulato nel tempo. Quella del segmento dei pescatori di Rajput è una violenza endemica - profondamente umana e comprensibile - che nulla ha a che vedere con la ricerca dell'effetto shock fine a se stesso. L'idea di regia documentaristica di Paolo Cavara è dunque, quella dell'inchiesta, quella in cui non sono omesse né le cause né le conseguenze dei fatti narrati (cosa che invece avviene nel montaggio di Jacopetti), ma che pone davanti allo spettatore un “enigma” che gli stesso è chiamato a dover decifrare. Esemplare, a tal proposito, è lo sguardo rivolto verso il mondo giovanile - dissimulato all'interno dei tre film - in cui, nella sua visione complessiva si intravede anche l'embrione di quella che sarà la successiva riflessione del regista su questo ambito: I malamondo (1964). I giovani sono la risorsa da educare per utilizzarla come argine alla deriva autodistruttiva del pianeta. Gli ideali utopici, folli e visionari (che da lì a qualche hanno esploderanno nel maggio francese) sembrano essere l'unica alternativa (ancora) possibile per invertire la folle corsa del pianeta verso una possibile (e allora plausibile) guerra bianca. Nel racconto per immagini fatto da Cavara, inoltre, trovano ampio spazio la poesia e l'arte, (questa intesa come unica salvatrice del mondo). Persino un frammento breve e circostanziato come quello del traffico notturno, in Mondo cane, assume attraverso le luci, i flou e le scie di colore i tratti di una rappresentazione artistica. Le modelle di Yves Klein, dipinte di blu e intente a lasciare l'impronta del proprio corpo su una tela, sono riprese da Paolo Cavara con una regia che evidenzia l'armonia delle forme: quelli che loro lasciano sulla tela non sono solo i tratti del loro corpo ma l'immagine di un mondo magico e impossibile che può vivere solo ed esclusivamente attraverso l'arte. Quello di Paolo Cavara è uno sguardo puro, uno sguardo sensibile e coinvolgente, scevro da ogni compromesso che 83

mostra allo spettatore una natura feroce e selvaggia e un uomo altrettanto feroce e selvaggio. Egli non fa distinzione tra mondo evoluto e mondo sottosviluppato e anzi illustra sia come il primo cannibalizzi il secondo sia come il secondo non faccia nulla per sottrarsi alle insidie e alla contaminazione del primo. Quella di Paolo Cavara non è una relazione manichea41 tra Bene e Male (come invece è nel montaggio di Jacopetti) finalizzata a livellare tutto verso il basso e incentrata sul concetto di morte, ma è una visione colma di speranza in cui egli osserva come i due mondi si attraggano e si respingano contemporaneamente e come l'uno non possa fare a meno dell'altro e viceversa. Nel complesso del progetto cinematografico emerge da parte di Paolo Cavara, un intento pedagogico e morale (mai moralista). Intento che non è scevro da dubbi e interrogativi ma che -nell'osservare oggettivamente la realtà - cerca di porre allo spettatore le stesse domande che egli stesso si pone. Uno degli aspetti contenutistici presente - ma meno evidente nel girato dei tre film - è quello che orbita attorno al dubbio: l'incertezza che quello che la macchina da presa riprende e “trasforma” non sia realmente quanto di più vero possibile, ma che, anche solo, la scelta del punto di vista possa essere elemento di mistificazione e menzogna. Ecco perchè, questo viaggio intorno al mondo in 35 mm rimane tutt'oggi qualcosa di unico, affascinante e inafferrabile. L'incredibile e impensabile successo che l'opera ha avuto, si è alimentato nel corso degli anni di rivendicazioni, fraintendimenti, rancori e riconciliazioni tra i vari realizzatori, ma inopinatamente ha sempre lasciato nel limbo - anche a causa della sua prematura scomparsa - lo sguardo di Paolo Cavara, colui che più di ogni altro ha espresso attraverso le riprese di questo progetto un punto di vista asimmetrico, non allineato e complesso.42 41

Ne La donna nel mondo la differenza di impostazione e di ideologia cinematografica tra Jacopetti e Cavara si avverte maggiormente, non tanto nei singoli dettagli quanto nell'impostazione di fondo delle riprese. Se Jacopetti è interessato alla rappresentazione del corpo e della carne con intenti voyeuristici e pruriginosi, o alla facile ironia sul rapporto uomo-donna o ancora all'equiparazione tra estremi, (come ben si evidenzia sui titoli di testa nell'alternanza tra suore e culi in primo piano), Paolo Cavara è attento alle sfumature, talvolta impercettibili che sottostanno alla forza del genere femminile. Dove Jacopetti diventa una sorta di emulo di Milton Green più interessato alla selezione anatomica della donna ideale, Cavara riflette sulle contraddizioni e sulle differenziazioni di genere alle varie latitudini. 42 Il progresso, la frettolosa emancipazione della sfera femminile, la rincorsa alla 84

Paolo Cavara in Giappone sul set di “Mondo Cane”

Paolo Cavara a Port Moresby modernità dell’esistenza sono delle conquiste di cui, per goderne appieno, è necessario acquisire consapevolezza delle insidie e dei pericoli intrinseci. 85

LA GIOVANE EUROPA: IL TRATTAMENTO DE “I MALAMONDO”

L’esperienza di Mondo Cane - nel bene come nel male - è decisamente stata molto utile a Paolo Cavara, in quanto ne ha definito sia le ambizioni che il rafforzamento della sua etica morale. Quello che in parte non gli è riuscito durante il periodo di convivenza artistica con Jacopetti e Prosperi trova compimento con I malamondo (1964): studio puntuale e mirato sui giovani europei nati e cresciuti dopo la guerra; i figli dell’era atomica. “I malamondo è una specie di analisi clinica della gioventù d’Europa, di quella parte di gioventù che non riesce ad orientarsi nel labirinto di una civiltà caotica come la nostra. Sono gruppi che colorano fragorosamente il paesaggio di una città o di una nazione, anarcoidi e arrabbiati sostenitori di paradossali idee d’avanguardia, crudeli continuatori di tradizioni semi-barbare. Dall’Inghilterra alla Svezia, dalla Francia alla Danimarca, dall’Olanda all’Italia, dalla Germania alla Svizzera… episodi paradigmatici colti nel loro saltuario esplodere, ci aprono gli occhi, ci fanno capire l’angoscia o la solitudine, il coraggio o le assurdità di giovani che nel rifiutare le tradizioni e la società d’oggi, acquistano la forza del monito. […] I malamondo, nei molti aspetti negativi e nei pochi positivi, sembrano essere la parte più determinante per il domani in quanto solo evitando i loro errori e accettando le loro virtù si riuscirà a costruire un mondo più solido, meno assolutistico dove il bene e il male non dovranno tingere di bianco e nero gli uomini, dividerli in due categorie: l’avvenire è all’insegna delle sfumature, delle variazioni dei molti aspetti dell’animo umano. […] Voglio dire che la gioventù che oggi non riesce a entrare nei ranghi, per usare una frase consueta, ci indica che la sola e unica via di salvezza è il dialogo, anche quando tutto sembra inutile. Se “i malamondo” oggi avessero qualcuno 86

che porge loro un gancio cui appendere i loro discorsi, forse muterebbero, invece si considerano come un tempo le “streghe” e si vorrebbe bruciarli senza averli prima capiti”.43 Il trattamento del film (qui riportato a seguire) nella sua integrità, evidenzia questa necessità, che è sia morale che politica, di provare a gettare un ponte tra generazioni nella consapevolezza che valga comunque la pena di farlo e che l’elusione di questa possibilità porti inevitabilmente verso la catastrofe. La struttura del copione è pressoché la stessa di quella di Mondo Cane: si tratta di monoblocchi a sé stanti e divisi per nazioni. Se la struttura è la stessa il contenuto nel suo sviluppo appare come meno sintetico (e frammentario). Da esso emerge la volontà, chiara e inappuntabile, di raccontare situazioni border-line - talvolta marcate da una forte accezione negativa - comunque e sempre, aperte alla speranza di “un domani migliore”. L’esito finale del film presenta - oltre ad una serie di variazioni sui singoli temi/episodi - tre grosse mancanze: quella sul racconto dei giovani dell’Unione Sovietica, quella dedicata alle due Germanie. e quella relativa alla gioventù della Spagna. Quest’ ultima è cosi spiegata, in modo sbrigativo e sospetto (al punto da far pensare a precise indicazioni della produzione di Goffredo Lombardo) dallo stesso regista: “Non avremmo potuto dire ciò che avremmo voluto”.44 D’altra parte la Spagna all’epoca è ancora sotto il regime franchista e i fatti e le modalità di sviluppo contenuti nel trattamento de I malamondo (con una Spagna piena di contraddizioni, proibizioni, desideri inespressi e atti incompiuti) certo non raccontano la nazione secondo il punto di vista di Franco. La Spagna descritta nel trattamento è, nell'ottica dei suoi giovani abitanti, una terra da conquistare attraverso la protesta. I giovani spagnoli vengono descritti da Cavara come dei carbonari che nei luoghi più improbabili si ritrovano per coordinare una protesta che é dissimulata - ancorché sotterranea - nei gangli vitali e lavorativi dell'intera società. Nella Spagna di Franco il corpo di Brigitte Bardot é tabù ed ecco allora che le agenzie turistiche anziché organizzare tour culturali alla scoperta delle bellezze iberiche, riempiono torpedoni che dopo 400 km - a Perpignan, in territorio francese - portano i giovani alla scoperta della bellezza di celluloide di B.B. Tutti gli altri gio43 44

Franco Tosi, Inchiesta tra “i malamondo”, La Voce di Calabria, 26 gennaio 1964 In La Nazione Italiana 5 settembre 1963 87

vani spagnoli - cioè la minoranza delle elites - si annoia quotidianamente e si trastulla nell'inedia in attesa che la protesta si concretizzi e venga a dare loro la sveglia. L'Unione Sovietica, invece, e un'entità indefinita è sospesa dove tradizione e voglia di modernità vanno di pari passo. La fiducia dei giovani nella politica socialista è artefatta, frutto di imposizioni governative, ma è raccontata come un misto di illusione, voglia di liberazione (i vestiti di carta stracciati dal vento) e incertezza verso il futuro. Una società precaria ben rappresentata dalle case prefabbricate e trasportate sui camion che fanno da contrasto al marmo dei palazzi governativi: Il potere é solido e la societá si lascia trasportare dove è già stato scientemente programmato. In questa Unione sovietica non c'é possibilità di ballare ma c'è una cultura imposta come divertimento (i club di poesia). Una generazione - quella che affolla le serate di Evgenj Evtusenko - in tensione tra la letteratura del passato e le avanguardistiche tecnologie della R.K.A.45 per la corsa alla conquista dello spazio. Il confine tra L'Est e l'Ovest dell'Europa è declinato sul confronto tra i due spaccati sociali della D.D.R e della R.F.T. Il confronto tra due mondi teutonici - che nelle intenzioni di Cavara rappresentano un muro invalicabile - separati dall'ideologia, prende la forma del serpentone di cemento che taglia in due Berlino. La scelta di raccontare due spiagge diverse appare quanto mai lucida e pertinente e appare finalizzata a destrutturare lo stereotipo della società dei consumi. Quella dell'Est é la spiaggia della proibizione, della moralità forzata e imposta, dell'informazione di stato che affligge i giovani balneanti ma anche dell'amore e del sesso covato è consumato sotto la sabbia; quella dell’ Ovest é una spiaggia vista come un gigantesco luna park a cielo aperto, dove il consumismo miete vittime come un rullo compressore. L'intento è quello di dimostrare che all'artificiosità è indifferenza introdotte dal benessere si contrappone la vitalità dirompente irriverente e trasgressiva del grigio mondo oltre cortina. Paolo Cavara propende per una dicotomia tra vincitori e vinti, cioè tra coloro che sono figli della generazione militare e coloro che invece riaffermano il pacifismo come unica possibilità di convivenza e di futura riconciliazione. Le due Germania sembrano ancora sospese tra il passo dell'oca e Anna Frank.

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Detta anche Roscosmos - agenzia governativa responsabile per il programma spaziale e la ricerca aerospaziale dell'ex Unione Sovietica 88

Seppur mancante di tre pezzi - che appaiono comunque fondamentali, perlomeno, nella descrizione completa ed esaustiva della “Giovane Europa” da Ovest a Est - I malamondo si presenta come un’opera ben lontana - tanto nella forma quanto nei contenuti - dall’idea di mondo movie tradizionale. Il film, ha alla base il chiaro intento politico, di scavalcare i pregiudizi e i luoghi comuni che orbitano attorno al pianeta giovani, e di mostrare uomini e donne di domani attraverso le loro paure, la loro incompiutezza (dovuta all’età), le loro speranze, i loro sogni e i loro bisogni. Lo fa utilizzando un’ironia talvolta lieve e talvolta pungente, mai fuori luogo, e guardando a questi volti e occhi pieni di vita con un affetto e una partecipazione che non è esagerato definire paterni.

Cavara al centro, durante le riprese de “I Malamondo” (Franco Giraldi sulla sinistra)

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I Malamondo (1964) UNIONE SOVIETICA Un gruppo di uomini avvolti in strane tute e armati di lanciafiamme avanzano impassibili verso le baracche di un villaggio abbandonato. Al di là di esso, la Tundra senza orizzonte. Al di qua, le ombre di alcuni camion carichi di materiali prefabbricati. Sembrerebbe uno sbarco sulla luna, se non fosse per una folla di altri giovani, uomini e donne, che vestiti di abiti vistosi come quelli di una serata di gala cantano e ballano. Gli abiti delle ragazze sono di carta ed il vento sollevando i lembi di un lungo strascico lo straccia: la ragazza ridendo si ferma a ripararlo con lo scotch. La giovane Russia s’affaccia con i piani quinquennali, decennali, alla conquista delle terre vergini, dove sotto le nevi la terra è ricca di minerali. La vecchia Russia rimane nel gesto violento e nobile del bicchiere lanciato dopo averlo bevuto. E il canto si alza lento nel crepuscolo, sperdendosi nel vento che corre lontano verso i confini di un paese che non ha ancora finito di conoscersi. Il lamento dei motori che ansimano, il fischio delle ruote nel fango di piste mai batture. E’ ancora un’altra colonna che avanza nella notte. Hanno lasciato Jrkutch che è già il segno evidente della città sospesa sulla frontiera del tempo: gratta-cieli da una parte e baracche di legno sull’altro lato della strada. E’ da qui che le colonne partono, fonderanno la Colonia Kalinin o la Colonia Ordjonikitze o Lunaciarski, o Titov: Il nome ha poca importanza. Si distruggono le reliquie se risultano ingombranti e si portano case prefabbricate, trivelle già montate sui camion. Partono come i pionieri del Farwest di un tempo -

Da dove viene?

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Mosca.

-

Era meglio Mosca?

-

Beh, era più facile comprare il giornale…

-

Ma perché è venuto qui?

-

Per lavorare.

-

E lei, che lavoro fa?

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Sono infermiera. 90

-

Ma poteva farlo a Mosca.

-

Qualcuno doveva pur venire qui !

-

Chi vi ha scelti?

-

Il piano quinquennale.

-

E chi fa il “Piano Quinquennale”?

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(Un altro, più cinico o scontento) – Certo non io. L’avrei fatto più comodo… MOSCA

Uno dei tanti palazzi del Governo. Scale di marmo. Corridoi ampissimi. Sportelli. Code di persone. Cartelli che indicano : Colonia Kalinin – Colonia Ordjonikitze - Colonia Lunaciarski – Colonia Titov. Nelle code vediamo una maggioranza di donne. Le giovani donne qui lavorano anche in mestieri che da noi sono riservati esclusivamente agli uomini. Per le strade, le spazzine. Sulle impalcature di una nuovo Grande Albergo: donne, donne in calzoncini e reggiseni che “s’incollano la cofana”, donne che manovrano argani, gru. Nell’ufficio “Problemi Economici”. Una bella ragazza che assomiglia a Marylin Monroe parla sei o sette lingue compreso l’italiano ed è il Direttore generale della Sezione Metalli. In Tribunale. Un giudice, non così bello, ma sempre donna. Sulla Piazza Rossa. Il metropolitano è una donna. Negli Altoforni di Leningrado (Officine Putilov). Ancora donne in mutande e reggiseno che gettano carbone nei Convertitori Bessemer. Donne che fanno i barbieri. Sul porto di Novgoord, donne che scaricano intere navi aiutandosi col canto di una nenia: Da dove vieni e dove vai Io lo so e tu non lo sai. Ma appena finito il lavoro, i giovani russi tornano identici agli altri giovani di tutto il mondo, nel porsi a vicenda la storica domanda: Cosa fai stasera? In mancanza di dancings, loro la sera la passano ai club di poesia, che sono un poco i nights sovietici, dove al posto dell’urlatore un poeta in camicia grida i suoi settenari ai giovani fans in ascolto. La gente attenta ascolta i poeti che declamano nei clubs, nei 91

teatri grandi e piccoli, o addirittura nelle piazze, da palchi costruiti ai lati delle strade, sotto la neve. A Piazza Mayakovsky – Evgenj Evtusenko, ventisei anni, magro, biondo, il più discusso dei poeti per il momento, parla sotto la neve che cade a diecimila persone che lo ascoltano. Sembra il cuore della vecchia Russia, l’anima dello stesso popolo che piange nei libri di Tolstoi, con la differenza che ogni tanto nell’aria si sente il rombo sordo degli jets, e molte facce si alzano a spiare al di sopra delle nuvole i russi che lottano per la conquista dello spazio. Liema kliiema niema koukouroucha. Karowa ye as malako niema. E’ un modo per divertirsi o per confessarsi? Per evadere o per riconoscersi? Sono i giovani che battono dei colpi per il loro diritto di vivere, di capire. KARKOV Anche l’amore giovanile soffre della crisi di alloggi che affligge ancor oggi le città dell’URSS. Al chiuso, in Unione Sovietica c’è poco spazio per le effusioni private. Le abitazioni civili di Mosca ospitano secondo le statistiche ufficiali 2,20 persone per ogni vano. Gli alberghi in tutta la città sono trenta normalmente prenotati con qualche mese di anticipo dai forestieri in visita. Così l’amore, nato ai concorsi poetici, alle manifestazioni sportive, al cinema, nei teatri, nella metropolitana o nelle aule universitarie, ha un solo modo per consolidarsi. Nessuno si è mai domandato perché i tassì sovietici hanno le tendine alle finestre? I giovani di Mosca hanno adottato l’amore a tassametro come efficace rimedio alla crisi degli alloggi. I tassì non possono fermarsi, altrimenti verrebbero avvicinati dalle guardie. MOSCA Se al Central Park di New York, al suono dei juke-box, i giovani pattinano e ballano, qui sciano e si gettano dal più grande trampolino per sci che esista in tutta la Russia, quello della collina dei Passeri. Quando volano, sembra che passino tra le case. Ma il russo è soprattutto giocatore. Ama scommettere, anche se di nascosto. Sulla Piazza Ros92

sa ci sono due file, una per andare a vedere il Mausoleo di Lenin e l’altra per aspettare il proprio turno per poter giocare con un vecchietto che va avanti e indietro sotto l’occhio sospettoso delle donne poliziotto. Giocano a Lungo e Corto. Ma soprattutto, i russi giocano alle Corse. Al Zentral Yppodrom, la pista di neve battutissima ed immacolata. Corrono i cavalli fra gli scoppi dei sacchetti di piroschka che la folla eccitata continua a far deflagrare, urlando le scommesse che per legge sono limitate ad un massimo molto modesto. Corrono gli sciatoricavalli a Biolgorod. Nella steppa, grande come il mare, i cavalli sferzati dal vento e dalle urla degli uomini corrono trascinandosi dietro uno sciatore. Liema kleimn niema Koujouroucha Karowa ye as malako niema. La Russia di domani, la si guarda dalle Università. Lo Stato concede una pensione allo studente che molte volte già è sposato e vive nella vicina Casa dello Studente con la moglie ed il figlio. La Russia di domani è protesa verso lo spazio, la costruzione di missili balistici, è un hobby diffuso tra i giovanissimi che riescono a metterne su parecchi e, alle periferie delle grandi e piccole città, queste gare scientifiche sono all’ordine del giorno. La Russia di domani ha già i suoi rappresentanti ufficiali: al Soviet Supremo, vi è una deputatessa di ventisei anni, plurilaureata e specializzata in fisica nucleare. SPAGNA P. P. P. P. P.

Sul muro di un palazzo della Rambla di Barcellona. Sul muro di un Caffè della Gran Via di Madrid. Sulla stazione Atoche. Sulla cattedrale di Toledo. Sul Cristo solitario di una strada di Castiglia.

Protestar. Protestar. Protestar. Protestar. P. è la prima lettera che un giovane maestro di diciotto anni insegna ai pastori della Sierra Aragonese. I giovani lo guardano con interesse, i vecchi circondati dalle loro pecore sono scettici.

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Finché i fiori fioriranno la Spagna non sarà morta. Finchè l’acqua che dal ruscello va al mare tornerà a cantare, in primavera, la Spagna non sarà morta. Arriba Espana. E Protestar. Protestar c’è scritto perfino sulle rocce della Valle de los Caìdos, il grande sacrario scavato nella montagna per i caduti falangisti, scavato dalle mani di centinaia di migliaia di prigionieri politici che il regime ha costretto. Protestar sibila il cigolante ascensore della Miniera di carbone di Oviedo. Mano mano che scende, alcuni uomini escono. Quando ormai la profondità massima è raggiunta – 400 metri – c’è rimasto solo un ragazzo. Nel buio brillano soltanto i suoi occhi enormi. Il torso lucido ed i pantaloni laceri. Prima di uscire guarda verso l’alto quel piccolo punto luminoso che è la bocca del pozzo e sorride. Col piccone traccia nella roccia fuligginosa un segno: P: PROTESTAR. Protestar è il motto del giornale “LIBRA”. La tipografia è angusta, sottoterra. Non vedremo mai le facce di coloro che lavorano intorno ai piombi ed alle altre operazioni di stampa. Nel ritmo delle macchine i giovani fischiettano una canzone le cui parole sono note a tutti, in Spagna: In Spagna i fiori non vogliono più vivere perché il popolo spagnolo morì un lontano aprile Però i fiori ritornano. Chi li fece morire non sapeva che i fiori ritornano ogni aprile. La spagna non è morta e mai potrà morire. Popolo e fiori non li uccide un fucile. Una cittadina dell’Estremadura. El Paseo. 94

Ragazzi sul marciapiede di sinistra. Ragazze su quella di destra. E avanti e indietro nei cento e più metri della strada principale. Sui muri : P.P.P.P.P. Protestar, protestar… Protestar : Grida lo Espontaneo che si è lanciato nell’Arena e che per dieci minuti ha tenuto a bada un toro armato solo d’una camicia rossa e d’una certa sinistra euforia. Protestar! – grida adesso, quando la polizia lo ha acchiappato e lo trascina via, nonostante i fischi del pubblico che gli ha tributato il suo favore, nonostante lo scalmanato agitarsi di un gruppo compatto di ragazzetti tra i sedici ed i diciotto anni che urlano: - Protestar. Protestar. – Sono gli allievi della Scuola per Toreri. A loro è concesso un toro su rotelle, ma il sangue brucia loro nelle vene e vogliono un’arena con un toro vero. Vogliono dei films dove, arrivati al bacio, la pellicola non si spezzi. Dei jug box come tutti gli altri ragazzi del mondo. E vogliono il mondo. E vogliono una Espana LIBRA. Protestano anche quelli che, più abbienti, possono pagarsi il biglietto per il viaggio BARCELLONA-BRIGITTE e ritorno. I film della Bardot in Spagna sono proibiti ed allora ci sono le organizzazioni turistiche che organizzano viaggi in pulman per 400 pesetas per andare a Perpignan, in Francia, a vedere i films e tornare. Chi non protesta, sono i soci balsee del golf club di via Alcala, giovani eredi di mezza campagna Andalusa e di tre quarti d’Estremadura. Blasoni e rendita agraria. Noia e automobile con le maniglie d’oro. Amano distrarsi col rito del varo : una bottiglia di champagne appesa al solito filo viene schiantata sul fianco della nuova Jaguar, e sulla nuova sella da polo con borchie di platino, o sulla nuova piscina. Si è visto un gruppo, l’estate scorsa, varare a questo modo un tavolino per sedute spiritiche in argento battuto. Non si annoia nemmeno la jeunesse dorée della neve, a Davos e Zermatt, in Svizzera e in Austria. Sulla pista Adler della Grossglochner – una pista privata dei conti Von Toggenberg, a 3300 metri – scendono con melodici slalom le skistripteases. Ad ogni curva, si tolgono qualcosa. Prima abbandonano i bastoncini, poi vola via il berretto, poi, 95

una alla volta, cadono le magliette, le sottomagliette. E così via. La discesa finisce con ragazze che sfilano nude davanti a giovani sprofondati nelle sdraio, i quali le guardano appena. Forse le hanno già viste a Dùsseldorf, durante la sfilata di moda del mese di maggio. Un pubblico di giovani eredi dell’acciaio assiste regolarmente a queste sfilate annotando con competenza, sul taccuino, il numero della mannequin. INGHILTERRA “We want back our Empire”. “Liberiamo la Gran Bretagna dal controllo ebraico” “Hitler aveva ragione”. Fasci. Fotografie di Mussolini , Oswald Mosley, Hitler. Gagliardetti. Labari. Svastiche. Uno dei covi dei fascisti inglesi. Anche questi protestano, magari balordamente. Ma non è solo folklore, il loro. Sono una minoranza. Ma protestano. Forse perché piace loro sentirsi una minoranza. Forse perché il loro isolamento li esaspera. “Per un giovane solo e disperato, il nazismo è sempre una grande tentazione” – diceva Malraux. E scrivono sui cartelli i loro slogan apocalittici, dove Starace si mescola alla Bibbia o all’Amleto. – C’è qualcosa di marcio in Inghilterra – scrivono, mentre da un giradischi la voce baritonale di Mussolini invade il locale, alternata ai gridi da gabbiano di Hitler. Reclamano i sudditi di Sua Maestà la Regina. La Costituzione li ha resi tutti uguali : malesi, indiani giamaicani, negri. Essi protestano verso una società che ha accettato il loro passaporto, ma nient’altro. Si riuniscono nel quartiere più sordido di Londra, i Docks di Stepney, pullulante di bettole dove si annidano prostitute e ladri. E proprio qui si incontrano delle strane figure umane. Preti, Suore, avventuratisi nei locali più abbordabili: i Pubs (abbreviativo di Public Bar) dove si costringono a fingere interessi per i giochi come quello dello spago e della tavoletta dei Teddy Boys, o per le esibizioni del coltello lanciato sul tavolo, pur di avvicinarli, capirli e penetrare nei loro animi per riportarli ad un ordine. Un ordine dove si potrà protestare, ma all’inglese. Seduti, calmi come i tre ragazzi scelti a caso che ogni settimana 96

appaiono alla televisione. Sono mescolati in modo da offrire uno spettacolo di quanto di più vario la società possa offrire : lo studente, il giovane impiegato della City ed il ribelle Teddy Boy. Ad essi una giuria sottopone dei problemi che devono risolvere. Per esempio : - se l’Inghilterra debba o no entrare nel Mercato comune; - se l’Inghilterra debba o no adottare il sistema metrico decimale; - cambiare la guida da sinistra a destra; - che cosa dovrebbe fare De Gaulle; - che cosa dovrebbe fare l’ONU in Congo o in Algeria; - come risolvere la crisi di traffico a Piccadilly, a Circus Hyde Park Corner; - se la Regina abbia ancora diritto a tutto quel cerimoniale. Che la Regina ne abbia ancora diritto, lo si direbbe dalla “Cena Regale” che ogni anno si tiene al Trinity College. Ottocento cucchiai si alzano e si abbassano con lo stesso ritmo, un secondo dopo che la Regina ha compiuto l’identico gesto, mentre la banda del College intona il “God Save the King”. Si brinda al futuro della Nazione. Da questi ottocento ragazzi la società attende i nuovi capi che porteranno sempre alto l’Union Jack. Ma non appena Sua Maestà ha varcato la soglia della sala, i gentiluomini studenti – questo è l’appellativo d’obbligo che deve avere un professore o il Preside che si rivolga ad uno studente, anche quando deve esortarlo, nelle note leggibili da tutti all’entrata del College, a non lanciare pitali dalla finestra, a non salire sui tavoli per uscire più in fretta dalla sala da pranzo e soprattutto a non intrattenersi in sedute a due dopo la mezzanotte in un solo letto – “Gentlemen the surdents”, ovvero studenti gentiluomini, o meglio gentiluomini studenti. Essi iniziano in questo momento una delle più spassose, boccaccesche e scurrili manifestazioni della loro sana avversione per tutto ciò che è “imposition”. Volano i panini sul viso dei ministri che non possono protestare perché in passato anch’essi furono allievi dello stesso College. Schizzi potenti di tutti i juice del mondo calano sui professori e sul Preside. Questa manifestazione di libertà è di rito e quindi non condannabile. Non è condannabile neanche il bagno dei Beatnick nella fontana di Trafalgar Square. I compagni gettano cappelli e pacchetti di sigarette che i natanti, a mò di foca da circo, acchiappano al volo. Una ragazza si è seduta su uno dei leoni e fa la pipì.

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Un’altra ha acceso il motore di una Jaguar in sosta e si asciuga i capelli al tubo di scappamento. Un altro, truccato da bagnino, urla: - Signore, Signore: Non si può fare la pipì in piscina ! – - Ma se la fanno tutti. – Risponde, imperterrito, un ragazzo in bombetta, diritto in piedi sul monumento a Nelson. - Sissignore, ma non dal trampolino. – - Non è condannabile la gara dei Beatnick su uno dei marciapiedi di Chelsea, il Greenwich Village o il Saint-Germain-des-Près di Londra. - C’è una gara dove bisogna camminare sulle mani. Il vincitore si sceglie la ragazza che può baciare per svariati minuti, come quando e dove gli pare. In genere , lo fanno rotolandosi per terra, davanti ai compagni che nel frattempo hanno pensato a bloccare il traffico. Al Ballo annuale dei Beatnick si porta tutto quello che si ha per il bene comune, anche la propria ragazza o la moglie. Del resto, gli Esquimesi non si offendono forse se l’ospite rifiuta l’offerta della moglie per la notte di soggiorno? In estate si vendemmia il luppolo per la birra. Sono i ragazzi in genere che accettano questo lavoro saltuario. Ma è più la birra che si bevono la sera che quella che raccolgono allo stato di luppolo durante la giornata. Con la birra dell’estate, il Twist Calais-Dover. Si sono affittati un’intera nave. Hanno ballato durante tutto il viaggio. Ballano, sul molo di Calais, con mezza Francia che li sta a guardare attonita e davanti alla Gendarmeria del dipartimento accorsa al completo allarmata. Intanto, altri ragazzi - dieci, venti trentamila - sfilano per le strade di Londra, seguendo un ragazzo molto più anziano di loro, Bertrand Russel, per protestare contro gli esperimenti atomicii. Lo studente di Cambrige, l’operaio di Southampton, l’attrice cinematografica – Vanessa Redgrave – il negro della Giamaica, la ragazza della Berlitz School, l’indiano dal turbante da bramida sfilano nella nebbia della City, come fantasmi premonitori. Alzano piccoli cartelli e minuti striscioni, dalle dimensioni di un bi-

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glietto da visita o poco più, discreti fino a rasentare lo snobismo ma decisi fino a sfidare il candore. “Band the Womb”. In testa, Bertrand Russel, col distintivo del Comitato dei Cento appuntato sul cappello alla tirolese, procede a passetti timidi e garbati, come quando faceva il suo ingresso nell’aula di Oxford per le lezioni. In fondo alla strada, con le jeeps ed i carrelli da facchino, li aspetta la Polizia. “Band the Bomb” – scritto però in danese – afferma un cartello che tre ragazzi di Copenaghen hanno piantato nella neve davanti al municipio. Da tre giorni, infilati nei sacchi a pelo ed avvolti in coperte stanno sdraiati ai piedi della scalinata. La gente si ferma a guardare, saluta compitamente e se ne va. FRANCIA Ma il mondo si è già atomizzato. Il futuro comincia domani – scrisse dieci anni fa un celebre scrittore. - Il futuro è già cominciato ieri – protestano i ragazzi della Sorbona che alla fine dell’anno accademico della facoltà di Chimica si vedono esaminati da un Robot. Jean Paul Sallions, ventiquattro anni, umiliato di essere giudicato da una macchina, dopo essere stato promosso dal Robot, si uccide davanti al palazzo dell’Acadèmie de France. Era uno dei tanti ragazzi che si aggirano, pieni di vita, intorno a Saint-Germain-dos-Près cercando fortuna, cercando un mondo nuovo dove non si parli di Algeria e dove non si sente la voce di De Gaulle che per l’ennesima volta tuona – Francesi, aiutatemi. Era uno di coloro che scesero nella strada ai funerali degli uccisi dalla polizia dopo la grande dimostrazione rossa. Era uno di coloro che – Destra o Sinistra – formano la gioventù attiva e violentemente impegnata. Una gioventù fatta anche di ragazzi che cercano la violenza, si organizzano in bande, commettono eccessi ap99

parentemente così inutili, per loro invece così necessari per rimanere umani. E’ per la stessa ragione che si stipano anche in cento in una cabina telefonica, riuscendo ad entrarci tutti quanti. O che sfidano il loro proprio coraggio con la cosidetta “prova dell’ascensore”. In uno di quegli alveari umani alla Le Corbusier, detto “Unitè d’habitation”, due ragazzi salgono sul tetto di due ascensori, affiancati. I camerati a dozzine nelle cabine. Al via, gli ascensori partono e contemporaneamente salgono inesorabili, sorpassando il sesto, settimo, ottavo, nono, decimo, undicesimo, dodicesimo, tredicesimo piano, finchè uno dei due ragazzi lancerà un urlo di terrore, non resistendo più all’avvicinarsi degli ingranaggi dell’ascensore. I compagni, dall’interno, fermano la cabina. La prova è finita. Ha vinto il più vicino dei due al soffitto della cabina. Ed è il capo. Ridiscendono insieme le scale. Uno si è fermato a vomitare contro il muro che è già imbrattato di scritte di viva o morte : W i Paras. Abbasso l’OAS, W De Gaulle, Abbasso De Gaulle. – Algeria francese, ecc. Paras. Paras. Oramai ci si lancia dai paracadute come si prendesse il trenino per il week end. Anzi, si fa in modo che gli amici con le auto siano già fermi ad aspettare vicino ad una buona trattoria di campagna. Dai campi di aviazione civile, gli aerei partono e sganciano a mano a mano questi paracadutisti domenicali che scendono dal cielo incontro ai buoni amici ed al buon Borgogna. Sotto sotto però c’è la febbre comune ormai a molti giovani francesi. Il caso Longueperd. Due fratelli studenti a Parigi. Il padre è fattore in Algeria. Telegramma: - Padre ammazzato da FNL – Uno dei fratelli parte per vendicare il padre. L’altro dichiara che se anche questa faccenda è costata la vita al padre, è giustizia, perché quella terra non gli appartiene. Intanto, Parigi pullula di negri, di arabi che domandano lavoro. Un intero quartiere è perennemente circondato dalla polizia. Vi si entra soltanto se si abita nella zona. Longueperd parte con questa visione. Prende il posto del padre. Intorno alla fattoria, l’unica ancora viva, tutto è bruciato.

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Ed eccolo ora solo con pochi arabi fedeli – ma quanto non lo sa neppure lui. I mandorli sono in fiore il grano è verde. Questa è la terra che un giorno era sabbia. Di fronte alla casa, tozza e robusta come un fortino, si alza nera una ruvida croce sotto la quale riposa il corpo del padre. Longueperd passa un intero anno così, dormendo come i cani con un sol occhio. Col fucile in braccio. E spara. Spara contro tutto ciò che gli è contro. Un giorno, finalmente, giungono i tanto desiderati aiuti. Una camionetta militare si ferma sollevando un nuvolo di polvere. Longueperd è già stanco, oramai. Del ragazzo sono rimasti i lineamenti. Nel cuore c’è disperazione – la disperazione del vecchio. Non lo vengono a aiutare. Gli hanno portato la cartolina del precetto militare. Tant’è partire subito. Lui che ha fatto la guerra è mandato in caserma, magari a Biarritz o a Cannes, per imparare come si imbraccia un fucile. - Francesi, aiutatemi – grida ancora la voce di De Gaulle dalla radio della camionetta. Longueperd sputa su quella terra che ha tanto amata e che ora deve odiare. Nella polvere, mentre la camionetta si allontana, si vedono i primi mandorli bruciare. Addio nonno. Addio papà. Addio terra – terra mia ! L’Algeria è degli Algerini. La legione è partita. Sarà sbarcata in Corsica. Rimarranno inerti per mesi questi altri giovani che della guerra hanno fatto il loro lavoro. Partono, ma anch’essi, ormai, di quella terra avevano fatto la patria d’adozione. SCANDINAVIA Stoccolma. Un sabato pomeriggio. Su una delle strade che portano verso il nord ovest, ed i fiordi del week-end. Una macchina ha sbandato. Una ragazza è stesa morta. Accanto ad essa un manichino vestito da uomo. 101

Polizia. Croce rossa/. Altri ragazzi che guardano. Si sono fermati come se per un attimo uno specchio crudele avesse loro mostrato un lato della loro ansia. Ed è una delle ragazze che sta a guardare che fornisce le spiegazioni. Quella, la morta, difficilmente trovava un ragazzo per il week-end. Vi sono diversi locali dove le ragazze s’incontrano con i loro coetanei maschi e si scelgono per i week-end. Dal week-end può nascere un’amicizia, un amore, un matrimonio, come pure soltanto un’avventuretta. La morta aveva preso l’abitudine di partire il sabato con un manichino, pur di non mostrare la sua costretta solitudine, quella solitudine che i giovani sentono più dei vecchi perché si cercano per conoscersi, scrutarsi e per credere. Il paese è proteso verso il mare ed ancora prima di pensare a comprarsi un’automobile, ci si compera una barca e si corre verso la breve estate scandinava. Nei fiordi, dove l’acqua è tersa, come un’enorme lastra di malachite, le mille vele bianche, gli scafi colorati. Al largo, verso le isole verdi di boschi, ci si libera degli indumenti, non per un’esibizione indecente , ma per fame di aria, di sole – di quel sole che tanto poco appare. Uno dei posti più belli è Saltjonaden e nessuna Sauna mista vale questa gioia. Ce ne sono a migliaia sia in Norvegia che in Danimarca o in Svezia dove, durante il lungo inverno, i corpi si incontrano, liberi da lane e cappotti. Saggiamente; si gode dell’avara giovinezza così breve nel tempo. OLANDA Il Nord ha dato alla donna il senso della brevità del tempo. Proprio, come l’apparizione fuggente del giorno invernale. Ed è quasi sempre la donna che va, che sceglie. In Olanda, migliaia di biciclette si riversano per le campagne. Le bionde ragazzette si trascinano – in canna o sedute dietro il portapacchi – il proprio compagno.

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Persino un gruppo di suore si avvia, a coppie, a fare il bagno, su una di quelle lunghe spiagge formate dalle dighe. Se ci si volge a guardare verso terra, si vedono passare dei vapori sul prato. Così almeno sembra. In realtà, sono i battelli che transitano nei canali, di cui è intessuta la campagna olandese. Fischiano, in tutta Europa, le sirene delle fabbriche per chiamare al lavoro. Fischiano. Ma non sempre gli operai varcano il cancello. Molti rimangono fuori. Oppure entrano, ma, ad un segnale convenuto, si fermano. I nastri di lavorazione continuano a scorrere ma gli operai non prendono i pezzi. Improvvisamente, la mano, al segnale, rimane sospesa a mezz’aria. Per un’ora, gli operai si disinteressano delle “esigenze della produzione”. Protestano contro il lavoro “senza qualifica”. E’ l’ossessione dei giovani del nostro tempo : QUALIFICA. La fabbrica moderna non può qualificare tutti. Alcuni operai rimarranno inchiodati al loro microlavoro dalle leggi della produttività. Vedono svolgersi intorno l’intera lavorazione e vorrebbero conoscerla. Impossibile. Se venissero tolti dal posto al bullone per essere collocati più avanti, alla fresa, il ritmo produttivo, per tutto il periodo dell’apprendimento diminuirebbe del venti per cento. Così la tecnica moderna si morde la coda. Tra le alte specializzazioni e la non qualificazione si innalza un muro, costituito dalle esigenze primarie del ritmo della lavorazione. Allora, la giovane Europa operaia reclama. Vuole qualificarsi. Ma a chi verranno affidati i lavori più umili se tutti si specializzano? Ed ecco risalire dalle aree depresse del Meridione, folle di disoccupati. Risalgono i meridiani d’Europa, emigrano verso il Nord, Nel Borinage, nei campi di barbabietole della Wesfalia, in Fiandra a raccogliere il cotone. Spagnoli, greci, siciliani, baraccati in squallidi lager al centro del miracolo economico guadagnano il salario del “povero negro”. E nelle Fiandre, sui campi di cotone, sembra di essere nella Carolina del Sud cent’anni fa. Negri veri, chini sul campo, cantando antiche nenie, fanno il raccolto. Sono cittadini francesi del Senegal.

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GERMANIA Una spiaggia che sembra deserta. Germania Est. Sul mare, poche imbarcazioni. A riva, poche cabine. Nella Germania Est, tanti altoparlanti issati su pali emettono continuamente notiziari per nulla balneari : -“Il contadino Gherard Boode della Cooperativa Weissenshirrmbach, eroe del lavoro, ha dichiarato che nel suo Kolkos è stata raggiunta una meccanizzazione del 94,7 per cento “ – Dentro ad una buca di sabbia, un giovanotto sorride abbracciato alla sua ragazza. Evidentemente, non gliene importa proprio niente. Alcuni ragazzi, con cappelli di carta coloratissimi da gran ammiraglio, da Napoleone, da Ussaro dello Tzar – molto di moda nella Germania per la stagione balneare – giocano a palla. Il pallone finisce in un’altra buca. Due braccia misteriose lo ributtano fuori. Ma le nuvole che correvano veloci nel vento del nord, si scaricano adesso e sulla spiaggia di Rostok piove. La spiaggia, improvvisamente, si spopola. Da mille buche escono mille coppie. I cappelli colorati scolorandosi danno ai visi l’aspetto di maschere grottesche. Ammiragli di carta. Soltanto gli altoparlanti continuano a raccontare ai pesci che Ulbricht visitando un lanificio ha decorato l’operaio d’assalto Albert Moser. Il pigia pigia per entrare nella pensione di Stato “Robert Koch” è tale da fare ricordare l’entrata nei ricoveri in tempo di guerra. Un’altra spiaggia. – TRAVEMUNDE. Germania Ovest. Non molti chilometri lontana dalla precedente. Ma dall’altra parte. Il mare pullula di imbarcazioni di ogni genere : motoscafi, sci acquatici. Musiche varie dalle mille radioline transistor. Piste da ballo. Skating Roll. Anche qui; altoparlanti. Ma la propaganda è di un altro genere : biscotti integrali, saponi efficacissimi. Rossetti. Viaggi alle Hawai a rate con la Lufthansa. Gli annunci sono soprattutto dedicati ai giovani. Più che altrove nella Germania occidentale si ha questa ossessionante attenzione per la futura società europea. I Wi-Wu-ki (Wirtschaftswunderkinder), ovvero i figli del miracolo economico rispondono al loro compito con sufficiente consapevolezza. Nel salone dell’albergo, 104

una grande ditta espone camicie e costumi da bagno in anteprima. Secondo le votazioni che ogni articolo riceverà da parte di un pubblico esclusivamente giovanile, riprodurrà il modello in milioni di capi ed in tutte le gamme di colore vicine a quelle prescelte. I Wi-Wu-ki del Eirschale (Guscio d’uovo) che si protendono verso la moda americana in tutto – Coca cola, blue jeans e jazz suonato benissimo da Hans Wolf Schneider (Berlino Ovest) e qualche volta per tre giorni e tre notti camerieri ed orchestre si alternano, ma non i WiWu-ki. Ballano se ogni tanto tutto si ferma e gridano. Stompal. Chi resiste ottiene un bollo. Chi ha più bolli vince. La Gioventù tedesca è ansiosa di benessere. Chi non se ne può procurare col lavoro, ha tanti altri mezzi. La Costa Azzurra pullula di gigolò tedeschi. Le autostrade che da Monaco vanno a Colonia, Francoforte, Stuttgart pullulano di “Autobahnfraulein”, cioè di “ragazze da viaggio”. Stanno in attesa presso le Stazioni di servizio o le Gasthaus. Quando le macchine si fermano, sorridono più o meno discretamente. Si fanno scegliere o scelgono il cliente che non vuole percorrere da solo quattrocento o ottocento chilometri. Hanno con sé un piccolo nècessaire. In genere, hanno gambe bellissime. Se poi si sentono sole, nonostante il compagno, e hanno bisogno di belle parole, per scaldarsi, hanno anche quelle. Purchè a bordo ci sia il giradischi, tirano fuori un 45 giri dove è incisa con bellissima voce una meravigliosa dichiarazione di amore. Una casa discografica di Colonia ha fatto fortuna con questi dischi per Poor Misses incisi dalla voce di Jurgens. La “pour Miss”, la ragazza troppo sola perché troppo timida o troppo poco bella, sta diventando un problema sociale nei paesi del nord Europa. Basta girarsi intorno, nella frenesia delle strade di Francoforte, di Stoccarda, di Londra, di Liverpool o di Liegi per scoprirne qualcuna: sola in attesa, nel frastuono della metropolitana, con un transistor appoggiato all’orecchio, sola su di una panchina di Hide Park mentre dà da mangiare ad un gatto randagio, sola davanti al tavolino rotondo del self service, sola appoggiata alla ringhiera di un ponte di periferia, con in mano un libro di De Lamair: - Dark hair and dark brown eyes Not to be sad she tries Still, still it’s lonely lies poor miss ……….. 105

I tedeschi hanno il culto della natura e del naturismo. Anche d’inverno fanno il bagno. Nella neve. Calzano soltanto scarponi e grossi calzettoni di lana. Gridano rotolandosi felici nella neve. Oppure, si raggruppano a migliaia nello Schwarz Wald, in villaggi ricostruiti da autentici indiani degli Stati Uniti e vestiti come Pellirossa, ne vivono i giorni, gli amori, le guerre. E se l’inverno non consente di uscire nudi all’aperto, Berlino che vive sull’orlo dell’abisso offre anche la meraviglia dei “Familienbad” –Bagni per famiglie. In saloni bellissimi, decorati con gusto, con atmosfera ricreata secondo il clima desiderato: Capri, Tahiti. Majorca, Cannes – giovani dei due sessi girano nudi e spensierati. All’entrata, un grande cartello avvisa che è permesso l’ingresso soltanto alle coppie sposate, ma nessuno si sogna di chiedere il certificato di matrimonio. Di questi posti ve ne sono a dozzine, dai nomi più attraenti : Adoratori di Elio, Amici del Sole, Amici della Natura, Club Capri. O sole mio. Schone Napoli. Die Blumen von Portofino……. ALTEN KAMERADEN, MARSCH. Questa è forse una delle più celebri marcie militari tedesche che ha echeggiato per tutta l’Europa non molti anni addietro. Adesso la si può ascoltare in qualsiasi juke-box.Il nuovo esercito tedesco non si chiama più Wermacht, ma Streotkrafte. Il nome è cambiato. Anche l’uniforme: Via i mezzi stivali e via l’elmetto. Scarponcini leggeri. Cappello e uniforme dal colore meno tetro dell’altra, famosa. Ma è cambiato lo spirito? Il nuovo esercito conta quattrocentomila uomini. Il Generale Wilhelm Soth dichiara : - L’ufficiale della nuova Wermacht dovrà essere, sotto ogni aspetto, identico all’ufficiale effettivo della vecchia Wermacht. - Nella futura Wermacht le reclute dovranno avere una istruzione più che mai rigorosa. Quando gli aerei saranno più veloci che nel 1945, occorrerà istruire le reclute con raddoppiata tenacia. – (Parole del dott. Willi Gutsmuths, Vice ministro del Land di Baviera) 106

- L’espressione del cittadino in uniforme è oramai una nuova parola d’ordine. Perciò noi diciamo che chiunque indossi l’uniforme deve fare attenzione a lasciare a casa buona parte della propria personalità civica. Noi non abbiamo bisogno di professori in divisa….. - L’armata tedesca deve restare ciò che sempre è stata. Noi dobbiamo dirlo chiaro al mondo affinchè non sussistano dubbi di sorta – (il Redattore della “Nazione Europea”). - E’ necessario dare ai soldati una educazione civica prima che militare. L’educazione civica ha lo stesso valore dell’equipaggiamento e dell’addestramento. Bisogna impedire che questo esercito introdotto a forza quasi clandestinamente in uno stato nazionale diventi uno Stato nello Stato. (Conte Baudissin).. Vincitori e Vinti. Militarismo – Pacifismo. Le leggi della Repubblica Federale Tedesca concedono al cittadino il diritto di obiettore di coscienza. Ma egli dovrà trascorrere il medesimo periodo della ferma a lavorare in caserme o in ospedali, se i suoi motivi di obiezione sono ritenuti giusti ed accettati. In Germania vi sono seimila obiettori circa, per ogni leva. Frank Ludwing Dalhaus dichiara: - La mia non è una protesta contro il cittadino in uniforme. E’ una protesta contro l’indirizzo politico della nostra Repubblica, che ha preferito creare il cittadino in uniforme prima di creare il cittadino. -Piuttosto che fermarsi a riflettere sul passato, il cittadino tedesco viene sospinto da una propaganda isterica a guardare oltre una frontiera di cui il nostro paese è stato l’unico responsabile, a coltivare rivendicazioni impossibili e miti pericolosi. - Ai giovani di oggi si insegna ad imbracciare il fucile per puntarlo contro i fratelli dell’est. Ma quando verrà la distensione e Russia ed America saranno d’accordo, verso chi punteremo questo fucile che abbiamo così bene imparato ad usare ?

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La vigilia di Ognissanti a Varsavia i giovani ed i bambini accendono una fiaccolata ad ogni angolo dove c’è una lapide che ricordi i seicento morti uccisi dalla furia nazista. Sono lapidi modeste, discrete. Quella di Viale Wola è così piccola che mai potrebbe contenere i nomi dei ventimila morti che essa ricorda. Sono 219 lapidi. Duecentodiciannove segni imperituri. I bambini cantano delle canzoncine dolci, ma per le strade si sente ancora l’eco dello sferragliare dei carri armati. Achtung ! Il passo dell’oca della follia umana scatenata nella sua più grande bestialità. In una chiesa, una piccola bara bianca. Una gran fascia d’oro e lettere in nero : Anna Frank. Fra le canne dell’organo si sentono ancora crepitare i fucili. Fra i rami nudi degli alberi spogli, lungo la Vistola, corre ancora la voce di Hitler. Sulle facce spente dei vecchi si legge ancora l’orrore degli adii, le partenze verso i campi di purificazione raziale. Achtung. Achtung: Achtung. E le case divelte nel loro cuore. Le icone spezzate. Achtung. E contro tutto questo si ergono i seimila obiettori di coscienza, e la pietosa immagine dei ragazzetti tedeschi di quindici anni, buttati nella lotta all’ultimo, abbandonati a morire a classi scolastiche intere, in terre dove tutto si odiava, a cominciare dal “Ya”. Hans Fritz. Roger Will. Dietti. Joseph Muncy. Tutti sono morti scappando e gridando “Muthi, Muthi”. Le fiaccole, nella notte della vigilia d’Ognissanti, a Varsavia ricordano tutto questo. I più piccoli associano la festività al Natale e le loro voci pure intonano lo Stille Nacht. In fondo, è Natale, almeno nello spirito

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della pietà per l’uomo che nasce sempre nudo e che soltanto un’uniforme riesce a spingere in guerra contro i propri fratelli. FINE

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L’INDAGINE DOCUMENTARIA, LA METONIMIA DELLA “SOCIETÀ DEI CONSUMI” E LA SOLITUDINE GIOVANILE NE “I MALAMONDO”

La rottura con Prosperi e Jacopetti permette di intraprendere un percorso registico finalmente personale slegato dalla necessità di aderire ad un formato preconfezionato e soprattutto senza più vincoli e imposizioni. I malamondo sancisce il passaggio dal mondo movie ad un'opera di fiction quasi totale: certo non mancano le riprese rubate o le immagini macchina a mano catturate in diretta, ma gran parte del docu-film è costituito da segmenti messi in scena con taglio e gusto cinematografico, montati coerentemente con lo stesso taglio: l'alternanza di totali e primi piani, campi medi e dettagli. Il tutto confezionato con cura ed eleganza e con particolare attenzione alla tensione emotiva. I malamondo46 è a tutti gli effetti un prodotto cinematografico - certo ancora dissimulato tra la cornice da mondo movie (con un titolo fuorviante e ammiccante, ma necessario alla Titanus di Goffredo Lombardo per ottenere il riscontro commerciale). Messo in cantiere nell'estate del 1962, era stato ufficialmente annunciato da Goffredo Lombardo in una conferenza stampa che il produttore tenne durante la penultima Mostra di Venezia. Allora lo chiamavano “La Giovane Europa”. Da quel giorno sono passati quasi due anni. E' stata una lavorazione lunga, complicata, durante la quale il film cambiò più volte titolo e la società di produzione entrò in crisi. Ora si presenta come il canto del cigno della “Titanus”, che ha chiuso il suo reparto produzione e tiene in vita soltanto il noleggio.47 46

Del film viene realizzata anche una versione per il mercato americano adattata da Jack Lewis e commentata da Marvin Miller. 47 ABC n° 6, anno 5, 9 febbraio 1964, pag. 24 110

Il soggetto originario del film e scritto da Paolo Cavara con Carlo Gregoretti e Livio Zanetti (che però non sono accreditati).48 A rendere importante l'aspetto realizzativo del film contribuiscono una serie di intuizioni registiche incastonate in un montaggio serrato, vertiginoso e ritmato, armoniosamente, sulle cadenze della battute musicali. I malamondo è un film-inchiesta, una sorta di ricerca antropologica finalizzata a leggere la trasformazione sociale e il futuro subito prossimo. Un film incentrato su una dialettica che mette in relazione frammenti di modernismo e trasgressione all'interno dei quali si avverte il senso amaro e malinconico dell'inconoscibilità del futuro, ma anche, più sottotraccia, un senso di morte che grava sull'Europa di domani. Un film, a tutti gli effetti politico, nel suo tentativo (in gran parte riuscito) di ritrarre una gioventù generosa ed inquieta, creativa ed annoiata, partorita dal boom economico che attraversa il mondo occidentale agli inizi degli anni '60. Il film si concentra su un'indagine clinica volta a sviscerare comportamenti e stili di vita della gioventù europea, la quale dietro esplosioni di spensieratezza e goliardia nasconde inquietudini, turbamenti e un'immensa solitudine. Una gioventù che rifiuta il conformismo dei padri ma che non esita, paradossalmente, a chiudersi in nuovi conformismi trasgredendo solo a parole. Una gioventù perduta in una società che progressivamente cancella l'individuo in favore della massa. I malamondo se da un lato insiste nell'analisi critica (e per certi versi polemica) verso la gioventù di quegli anni, dall'altro sfoggia uno stupefacente ottimismo nel percepire come a questi ragazzi possa essere data un'ulteriore possibilità per ritrovare l'equilibrio perduto. “Il dramma vero è che questa nuova generazione sembra uscita già bruciata dalle ceneri di quella vecchia... per fortuna sono pochi a lasciarsi travolgere da una forma di corrucciata indolenza che li estranea dalla vita di tutti; per ora sembrano attendere che accada qualcosa che dia ragione alle loro farneticazioni, vuoi in politica, vuoi in arte.

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Il commento parlato - recitato da Riccardo Cucciolla - è firmato a sei mani da Guido Castaldo, Stefano Strucchi e Francesco Torti. La confezione produttiva è di tutto rilievo, con la fotografia di Ennio Guarnieri, il montaggio di Ruggero Mastroianni e le sorprendenti musiche firmate da Ennio Morricone. 111

Cavara sulla destra, durante le riprese de “I malamondo”

Questi sono giovani che ho cercato di individuare e di presentare il più oggettivamente possibile – anche se, come era naturale che fosse, ho rifiutato ogni compiacimento estetizzante. I malamondo vuole essere semplicemente uno specchio del nostro tempo, un contributo capace di suggerire un discorso tra la generazione (o le generazioni) di ieri con queste di oggi, che non sono riuscite ad inserirsi nel ritmo della vita contemporanea”49 I malamondo è senza ombra di dubbio l’elegia di una minoranza sospesa tra l'impotenza della trasgressione e le barriere convenzionali che la società oppone nei confronti di chi è diverso dove l'arte nelle sue forme più irruente e scoordinate - assume il valore aggiunto di valvola di sfogo e di forza liberatrice. Non mancano, nel film, alcune cadute di tono – retaggi “ideologici” del mondo movie - legate sia a passaggi inutili e pleonastici (quello dei turisti svizzeri che sciano nudi sulla neve) sia i vari riferimenti al mondo dell'omosessualità. Ar49

Dichiarazione di Paolo Cavara, in Gherardo Amadei, I malmondo sono tra noi, La Voce di Salerno, 26 gennaio 1964 112

gomento spesso e volentieri tirato via o risolto in maniera banale, talvolta messo in ridicolo dall'utilizzo di improbabili perifrasi (“giovane anfibio”, “carbonari del sesso”, ...) utilizzate nel commento parlato. L’attenta costruzione cinematografica è incentrata su una sorta di architettura del primo piano - in cui il volto dei giovani viene continuamente scomposto in vari dettagli e ricomposto nella sua integrità per delineare la difficile ricerca di un'identità50 e tutto il senso di disagio e di disarmonia di questa generazione ancora incompiuta. La prolusione di Bertrand Russell rivolta ai giovani che non hanno conosciuto la guerra è seguita dalla voice-over che dice: “Questo film è il ritratto di alcuni di essi, dei pochi che non sono riusciti a trovare da soli quell'equilibrio che nessuno aveva lasciato loro in eredità”. Nel suggerire allo spettatatore le intenzioni del film è chiaro come al regista bolognese interessi analizzare le difficoltà e le ragioni di una gioventù spaesata e frastornata, senza più “padri” (perchè morti in guerra) e senza una reale consapevolezza del futuro che li attende. Una gioventù che vive di fiammate - talvolta trasgressive talvolta ridicole - vitale e veemente nella sua voglia di vivere ma anche stordita e spaventata dall'immanente presenza del pensiero della morte. Date queste premesse, si evince come I malamondo - attraverso la metonimia dei giovani - cerchi di aprire uno squarcio più ampio né banale né ipocrita, sui complessi meccanismi della società europea degli anni '60. Paolo Cavara riserva una grande, e per certi versi preoccupata, attenzione alla società italiana e al suo progressivo involversi verso una dimensione sempre meno collettiva e sempre più individualista in cui denaro e benessere giocano il ruolo di causa (in)volontaria della degenerazione dei comportamenti. Il regista bolognese si dimostra particolarmente lucido e profetico nel delineare l'embrione di un'Italia in divenire ambiguamente divisa tra culto delle apparenze e voyeurismo, tra noia borghese e piaceri nazional-popolari. Non si possono leggere altrimenti i vari episodi de I malamondo - cinematograficamente sospesi tra Antonioni e Fellini - che riguardano i giovani italiani e che, concettualmente, conservano (nonostante le apparenze) un 50

Si evince dalla scelta (evidentemente non casuale) di aprire il lavoro con le parole del filosofo positivista, Premio Nobel per la Pace Bertrand Russell: “In questi ultimi anni abbiamo attraversato la più terrificante crisi che la storia umana possa ricordare. Per il bene dell'umanità dobbiamo augurarci che la terribile esperienza serva a non ripetere gli errori del passato”. 113

flebile barlume di speranza: forse più un desiderio di ravvedimento della società italiana piuttosto che una reale constatazione. L'episodio - quasi una sorta di video musicale - che vede protagonista Adriano Celentano e il suo Clan intenti prima a comporre al tavolo di un bar la canzone “Sabato triste” e poi, successivamente, a cantarla al centro della piazza romana improvvisando e utilizzando i gradini di una fontana come palcoscenico, racconta un'Italia nazional-popolare, che ha ancora paura della macchina da presa (come dimostra il continuo spostarsi delle persone di fronte all'avanzare della ripresa) ma che vive la frenesia del dover partecipare al rito collettivo della celebrità e del successo. Il segmento - nell'alternare i totali della piazza con le riprese rubate di anonimi cittadini (chi in canottiera, chi tutto spettinato, i bambini che giocano, il prete che si sofferma a guardare prima di entrare in chiesa...) - racconta un'Italia sospesa tra fanatismo laico e culto dell'apparenza che assiste, soddisfatta e compiaciuta, all'esibizione inaspettata del divo51 di turno che con le note e le parole di “Sabato triste”, per un istante, sembra allontanare - da questa folla smaniosa di partecipazione - il pensiero della vita quotidiana, le incognite del benessere e la paura di un futuro ancora tutto da decifrare. Chi non appartiene al popolo, ma vive nella gabbia dorata della neo-borghesia capitalista trascorre le serate nella noia e nel tedio più assoluto. Lo dimostra il segmento relativo ai giovani borghesi in vacanza in Versilia che - per rendere alternativa la serata - non trovano di meglio che sacrificare la giovane e innocente vita di un piccolo maialino. La sequenza - girata come se fosse una parodia antonioniana - si apre con il primo piano di una bambola su una sdraio con un'evidente richiamo alle tante “bambole” in carne e ossa che siedono lungo il bordo della piscina della villa: tanti manichini immoti nella loro glaciale e inutile bellezza e opulenza che, improvvisamente, si animano per incitare nerboruti quanto pavidi maschietti affinchè uccidano il maialino catturato. Il maialino muore incolpevolmente sotto il colpo di un improvvisato coraggioso ma sul gruppo dei giovani scende un velo di tristezza, disgusto e in fondo consapevolezza.52 51

Questi sono gli anni in cui la canzone italiana raggiunge il suo apice di successo e in cui durante i giorni del Festival di San Remo la nazione si ferma nella sua totalità. 52 La voice-over: “Nessuno ha più fame. Il maiale ha immolato inutilmente la sua vita sull'altare della noia, o quasi, perchè tutto considerato la sua morte è servita a qualcosa se non altro a mettere in luce la capacità di questi giovani di accettare una lezione...da qualsiasi parte provenga”. 114

Cavara con Celentano a Trastevere durante le riprese de “I Malamondo” (1964)

L'ultimo stadio di questo “percorso italiano” è quello della spiaggia romagnola su cui i giovani operai di una fabbrica limitrofa si riversano al suono della sirena nella pausa pranzo. La sequenza - dal vago sapore felliniano - è un concentrato profetico dell'Italia “che guarda”, che vive la sessualità solo attraverso la superficie del voyeurismo che mette al centro delle sue esigenze il godereccio e il carnale ma che sul più bello viene riportata all'ordine dal nuovo stridio della sirena. Lo spogliarello di Carmen53 sulla spiaggia trasmette una sensazione al contempo onirica e deprimente. La comparsa di Carmen (come la sua scomparsa finale tra le onde del mare) ne fanno quasi una creatura fantasmatica, un miraggio momentaneo per portare piacere voyeuristico a un gruppo di giovani operai, a metà strada tra un edonismo ante litteram e un desiderio sessuale inespresso e inconfes53

Orchestrato sulle note della cavatina di Rosina (cantata da Emilia Ravaglia) dal Barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini, 115

sato. La costruzione cinematografica tra campo e controcampo - in cui all'oggettiva del pubblico corrisponde la soggettiva con cui lo stesso guarda Carmen sempre più eccitato - è accompagnata dallo svanire del commento parlato, quasi come se il regista volesse tradurre quello spettacolo improvvisato nel suo esatto opposto: uno squarcio di realtà, una sorta di monito, inconscio e latente, nei confronti di uno spettatore sempre più smaliziato e inconsapevole del pericolo a cui va incontro. Che Cavara abbia intenti morali e critici è certificato dal fatto che l’entrata in scena di Carmen è anticipata da un breve siparietto dove due brune - una segaligna e l’altra paffutella – mimano, goffamente, il ballo del “Dadaumpa” televisivo. Le due improbabili e caserecce emule delle gemelle Kessler sono attorniate da “maschietti allupati” che qui, più che colleghi di lavoro delle due improvvisate starlette, riproducono lo schema adorante e casalingo degli spettatori di fronte al piccolo schermo che mostra il roteare delle gambe delle due famose valchirie. Emerge così - attraverso un richiamo figurativo a modelli riconoscibili come quelli di Fellini e Antonioni, ma venando il tutto con un'amarezza di fondo che lascia stupefatti - lo sguardo morale del regista sui mali (presenti e futuri) di un'Italia frastornata dal boom e dall’avvento della televisione. Amarezza e disincanto che accompagnano anche il racconto dei giovani di mezza Europa nel sottolineare tutte le contraddizioni di queste minoranze non allineate costrette a vivere in una società che è massa anonima e in cui l'individuo fatica sempre più a ricavarsi il suo spazio. Sin dall'inizio del film con l'immagine di Londra e della City “invasa” quotidianamente da trentamila bombette - il regista evidenzia l'omologazione in atto, traducendo - attraverso il commento parlato - la bombetta in elmetto militare, e giocando ironicamente sull'incedere marziale di questi lavoratori vestiti tutti allo stesso modo, talmente presi dal loro lavoro da urtare persino i dissuasori posti lungo le strade. La contraddizione nei confronti di questo atteggiamento e andamento marziale emerge attraverso le parole di commento alla scena: “I nuovi figli della City sembrano scorrere lungo inesistenti tapis-roulant: sono corretti, tradizionali, equilibrati”. L’immagine successiva - quella degli studenti di Cambridge che celebrano il “Poppy day” - mette in scena la distruzione dei miti tradizionali inglesi; in realtà si tratta di pura apparenza visto che la demolizione è provvisoria, e che i giovani rispondono solo ad un'altra forma di omologazione e di conformismo. Anche la follia

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artistica dell'happening parigino54 riproduce atteggiamenti troppo coreografici per essere istintivi: una trasgressione fasulla e apparente nonché finto libertaria; una fiera della creatività che - dietro all'apparente anarchia - nasconde in realtà regole e stereotipi ben codificati (“E' il prezzo che la cultura europea paga in silenzio per assicurare al proprio provato organismo le necessarie vitamine”). Ne I malamondo la società scandinava è descritta mettendo in evidenza tanto le sue luci quanto le sue ombre, al punto che alla rottura dello stereotipo dell'addio tra innamorati - in cui qui è lei che guida la nave e lui che la saluta dalla banchina - corrisponde il segmento notturno del wiskeyparty nel cimitero.55 A questa dimensione funerea - accentuata dalla rivelazione sull'alto numero di suicidi in Svezia nell'epilogo del film fanno da contraltare però tanto l'emancipazione della donna scandinava quanto la descrizione di una società multietnica e integrata. La rappresentazione a luci/ombre del mondo scandinavo distrugge meritoriamente lo stereotipo del “paradiso svedese”, incuneando nello spettatore più di un dubbio sul fatto che quella società, anche se per motivi diversi, non sia poi tanto né migliore né peggiore di quella italiana ma solo diversa. 56.

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Introdotto dal commento che recita: “Un po' meno allineati e molto più scoperti questi giovani francesi hanno organizzato un happening: l'ingresso è libero: chiunque può partecipare a quest'orgia intellettuale in cui tutti hanno diritto ad esprimere le proprie idee” 55 In cui non si avverte nessuna distinzione tra gli annoiati vichinghi e i borghesi della Versilia. 56 In questo Paolo Cavara anticipa di ben quattro anni l’assunto di fondo del reportage giornalistico “Svezia inferno e paradiso” di Enrico Altavilla – da cui è tratto il successivo e omonimo film di Luigi Scattini 117

Riprese sul set de “I Malamondo”

Il racconto degli aspetti sociali va di pari passo con la sperimentazione tecnica,57 ed è articolato secondo dinamiche cinematografiche che seguono in generi proponendo un montaggio coerente con i tòpoi di riferimento. Il ritratto dei motociclisti di Leichester propone un mondo giovanile - immerso nell'anonimato e nel degrado urbano, percorso da una straniante anaffettività e incentrato su una corrucciata indolenza, votato all’autodistruzione – e dinamiche sociali di stampo medioevale. Un torneo in cui ai cavalli si sostituiscono le motociclette e il premio in palio è il corpo di una volontaria diciassettenne che per trentasei ore (“non un minuto di più non un minuto di meno”) sarà posseduta dal vincitore a seguito della riffa che lei stessa ha scatenato. La sequenza è girata in modo magistrale alternando la 57

All'interno del film, c'è inoltre una sequenza avanguardistica, quella che mostra il volo dei paracadutisti, la cui importanza è sottolineata dalla didascalia in apertura che recita: questa scena è stata girata con una macchina da presa speciale fissata sul casco di un operatore in caduta libera ad oltre duecento chilometri orari. Si tratta di un interessante diversivo tecnico-spettacolare, che aggiunge a I malamondo un contenuto adrenalinico sino all'epoca sconosciuto. Va notato come la coreografia del volo dei paracadutisti non sia dissimile da quella di un balletto, segno evidente ed ulteriore conferma della vocazione poetica del regista. 118

corsa delle motociclette con l'interno del bar in cui la ragazza attende il suo cavaliere vicino al juke-box. L'incalzare delle note musicali detta i tempi del montaggio, la tensione si fa via via più pregnante e spasmodica, la morte è nell'aria e, improvvisamente, si manifesta ad un incrocio stradale: il cavaliere ha immolato la sua vita per un premio che non riceverà mai. Oltre alla perfetta architettura cinematografica la sequenza trasmette un senso del tragico profondamente legato alle dinamiche umane e inscindibile dall'estrazione sociale di provenienza dei protagonisti. La stessa tecnica registica emerge nella sequenza della trasformazione di Les Lee: il momento di trucco della dragqueen, è ritmato su un incalzante motivo musicale - mentre nel montaggio alternato si susseguono i totali dell'ambiente (un locale omosex parigno) e i dettagli del volto (mutante) del giovane. La sequenza, quella della sfida alla morte dei giovani parigini sul tetto dell'ascensore rispetta - in tutto e per tutto - le dinamiche della suspance ed è orchestrata su un crescendo thrilling che delinea il climax. L'inquadratura dal basso che accompagna i due giovani in piedi sulla cabina diretti verso il lucernario del palazzo è alternata ai campi medi che mostrano i compagni salire velocemente le scale in attesa del traguardo e smaniosi di assistere all'esito della vicenda. La sequenza permette a Paolo Cavara di mettere in scena il rito collettivo dello sguardo e di riflettere su quanto possa essere feroce il rapporto tra pubblico e spettacolo.58 Nel suo insieme eterogeneo I malamondo più volte riporta lo spettatore alle riflessioni iniziali di Bertrand Russell. La sequenza del campo di sterminio di Dachau (trasformato in museo) nelle immagini mostra tutto il dolore e la sofferenza di quel luogo, riprodotte e riflesse nello sguardo di chi osserva le fotografie. 59 Ma sono anche i rituali delle associazioni universitarie – un surrogato di goliardia e sofferenza – utilizzati come lasciapassare per accedere alle elites – a mettere in luce le criticità e la confusione di un mondo giovanile capace di appropriarsi della tradizione per mero interesse, piegandola ad un 58

La chiosa a commento della sequenza: “Il pubblico è molto esigente e i due protagonisti non hanno scelta: sanno che se rinunciassero a quel gioco pericoloso comprometterebbero definitivamente la loro reputazione di duri”. 59 Il commento, pone una domanda tanto urgente quanto necessaria: “Qualcuno ha giudicato l'iniziativa di trasformare in museo un campo di sterminio come una coraggiosa prova di civiltà. Forse è vero ma solo una spiccata tendenza alle riabilitazioni affrettate può assegnare a questa prova di civiltà il difficile compito di ristabilire l'equilibrio”. 119

voyeurismo e ad un sadismo tanto posticci quanto ridicoli. Lo dimostrano sia lo sfregio evocato nel rituale a cui vengono sottoposti i novizi delle Università di Heidelberg, sia la caccia al neofita della “Festa della Matricola” – ad alto contenuto di alcool e testosterone – che si consuma per le strade di Amsterdam. Un mondo giovanile che, con inedia e meccanicità, retitera il gesto (non sa nenche più il significato) solo come forma di consuetudine. Lo certificano sia la pantomima di Heidelberg – dove al posto della spade di un tempo interviene un asettico rasoio – sia la puerile forma di ribellione dei giovani olandesi che, nell’opporsi alla cancellazione del rito (imposta dalle autorità), si ostinano a mettere in scena una rappresentazione grottesca e forzata di un’iniziazione che non ha più senso di esistere se non come gesto da replicare sempre uguale a se stesso per illudersi di ottenere un’appartenza di classe. La volontà di Cavara con I malamondo, quindi, è già quella di incunearsi nel dubbio, nell'incertezza, nella scelta di non giudicare bensì di provare a capire. Il regista bolognese non ha né la pretesa, né la presunzione di fornire risposte ma riflette, in anticipo sui tempi, su tutte quelle criticità che da lì a poco si manifesteranno talvolta con creatività più spesso con la violenza - nella società europea e che per protagonisti avranno questa gioventù, che - nello sguardo del regista - non appare né migliore, né peggiore delle altre ma solo ontologicamente diversa. La generazione post-bellica ha scoperto sulla sua pelle le incongruenze e i pericoli di un mondo tecnologizzato e meccanizzato, in cui tutto è più veloce e sfuggente di prima, e tenta - rifugiandosi in una “fede” laica, improbabile o vacua (come è quella degli assurdi “rituali” mostrati nel film) di trovare qualcosa a cui aggrapparsi ma che non sempre offre loro la possibilità di trovare la necessaria serenità e il giusto equilibrio.

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“L’OCCHIO SELVAGGIO” E “LA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO”: COME L’OPERA DI GUY DEBORD EMERGE NEI FOTOGRAMMI DEL FILM DI PAOLO CAVARA

“A modo suo, il mito del successo, è il successo che Paolo vuole a tutti i costi, servendosi del documentario. Conscio di essere un personaggio di un certo fascino, ne approfitta per arrivare dove ad altri è impossibile. Se la realtà che incontra lungo il suo cammino, è sufficientemente esplosiva, egli la registra sulla pellicola senza esitazioni, ma dove la realtà non ha la forza della più viva suggestione, egli non esita ad alterarla volontariamente, rischiando la propria e l'altrui vita. Egli è consapevole che nel suo lavoro deve sempre oltrepassare i limiti. Solo a questa condizione crede di poter conservare la posizione di prestigio conquistata. Si tratta semplicemente di avere del coraggio senza il quale non si può stringere il mondo tra le mani. In questo modo egli diventa il vero protagonista di se stesso, usando deliberatamente gli uomini come degli oggetti”.60 La società che genera questi mostri è imperniata sul concetto del successo a tutti i costi, quello di un'ossessione incentrata sull'apparenza da cui derivano tanto il potere quanto il controllo. L'occhio selvaggio61 ha l'ambizione di mostrare, in senso globale, cosa un essere umano 60

Gherardo Amadei, Per “L'occhio selvaggio” Uomini come oggetti, La Gazzetta di Vigevano 29 Dicembre 1966 61 A sostenere e finanziare un'opera così rischiosa e urgente come L’occhio selvaggio è Georges Marci, una giovane produttrice americana titolare di una galleria d'arte in svizzera, la quale finanzia il progetto il cui primo giro di manovella viene dato il 14 Ottobre 1966 a Singapore. Alla fase di riprese, si arriva dopo due anni interi di elaborazione di una sceneggiatura. Le riprese si concludono il 27 Luglio 1966. Il costo complessivo è di 207.200.000 lit. In un primo momento la fotografia è accreditata a Tonino Delli Colli, le musiche a Riz Ortolani e il ruolo di Valentino a Claudio Camaso. (Dati Archivio di Stato) 121

sia disposto a fare pur di raggiungere il successo: una volta stabilito l'obiettivo, violentare brutalmente la realtà per renderla appetibile e interessante sullo schermo diventa persino un obbligo e una necessità.

Cavara in Vietnam con la produttrice Georges Marci, e Philippe Leroy di schiena, sul set di “Occhio selvaggio”

L’“occhio selvaggio” del titolo è, dunque, sia quello del regista che riprende le imprese di Paolo - che è, consapevolmente, complice con lo spettatore che quelle stesse imprese vede sullo schermo - sia quello dello spettatore lasciato in balia dell' “ideologia” dell'immagine. Se l'ideologia è ciò che non conosciamo ma della cui esistenza siamo consapevoli, allora è evidente che i'interferenza da essa rappresentata inficia direttamente la verità di ciò che viene ripreso prima e riprodotto poi. Come dice Guy Debord “lo spettacolo non è un insieme di 122

immagini, ma un rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini”62, quindi, è inevitabile che l'immagine scandalosa trasgredisca una serie di codici morali condivisi dal pubblico che assiste allo spettacolo. E' un processo - quello che mette in relazione schermo e spettatore - che si fa progressivamente più intimo in cui “lo spettacolo è l'ideologia per eccellenza perchè espone e manifesta nella sua pienezza l'essenza di ogni sistema ideologico: l'impoverimento, l'asservimento e la negazione della vita reale. Lo spettacolo è materialmente l'espressione della separazione dell'estraniarsi dell'uomo dall'uomo”63. Ne L'occhio selvaggio, Paolo Cavara ha come obiettivo quello di dimostrare come l'ammiccamento e la seduzione delle immagini sullo spettatore - parallelamente al trattamento di temi scabrosi - trasfigurino il contenuto delle riprese in un dato di fatto, in una ripresa oggettiva di ciò che accade davanti agli occhi di chi la riprende e, di conseguenza, come lo spettatore non possa che percepire come “vero” ciò che in realtà è “falso”, artefatto e ricostruito. “L'alienazione dello spettatore a beneficio dell'oggetto contemplato si esprime così: più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio. L'esteriorità dello spettacolo in rapporto all'uomo agente si manifesta in ciò, che i suoi gesti non sono più suoi, ma di un altro che glieli rappresenta”64. Nell’epilogo del film attraverso un vertiginoso e affascinate, gioco di specchi, Cavara mette in scena tre “occhi selvaggi”: il particolare dell’occhio di Paolo in attesa dell’esplosione, quello del contro-campo di Valentino che riprende all’esterno del locale e quello “invisibile” dell’istanza narrante che registra entrambi i campi. La riflessione metacinematografica riflette su come la finzione non può e non deve fermarsi perché anche il suo il suo demiurgo (il regista) non può permettersi il lusso di avere dubbi o incertezze. “Se osasse concedersi delle esitazioni verrebbe sconfitto, ma egli non ammette di venire sconfitto. Raggiunta la sommità vuole rimanerci a tutti i costi. Quindi niente debolezze neppure di fronte al sacrificio della 62

Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai editore, 2013, pag.54 ivi, pag. 180 64 ivi, pag. 63 63

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donna amata. Una volta iniziato il lavoro deve portarlo a termine, passando attraverso il mondo con l’occhio selvaggio della sua macchina da presa. E non importa se le sue testimonianze sono genuine, quello che conta è di ottenere sempre il successo con il suo documentario”65 Il cinema e il documentario, sono al fine divenuti un prodotto qualcosa di estraneo tanto alla verità quanto all'oggettività - ontologicamente, imperniato sull'eccitazione del pubblico. Nel film, Barbara rappresenta lo spettatore, il quale (secondo le coordinate di Debord) stringe una “relazione” con il regista. Lo stesso Paolo nei dialoghi con Barbara, più volte la richiama al suo ruolo di spettatrice: ruolo doppio, perché internamente al film duplica quello dello spettatore in poltrona in sala (essendo lei il personaggio empatico della messa in scena). Durante il viaggio in jeep in Siam, il regista rivolto a lei, dice: “Il pubblico è masochista e sadico; davanti ad una mandria di bufali alla carica la donna che imbraccia il fucile eccita il suo masochismo, la stessa donna, disarmata e spaventata, eccita il suo sadismo”. Più avanti, quando la donna gli confida di aver provato pietà per il sultano caduto in disgrazia, Paolo replica convinto: “Bene... è un'ottima cosa. Se hai provato pena tu la proverà anche lo spettatore vedendo il film”. Non sorprende, quindi, che al centro del film ci sia la cosificazione delle persone, perché uomini e donne - una volta ridotti ad oggetti possono servire al manipolatore per costruire un immaginario visivo e figurativo in cui i sentimenti sono negati in favore della loro riproduzione stereotipata. Il dolore e la sofferenza sono trasfigurati nella loro rappresentazione e la verità è trasformata in una mera illusione che si regge, solo ed esclusivamente, sul concetto di verosimiglianza: quanto basta per attrarre lo spettatore, riempire le sale, creare dibattito sulla carta stampata e in televisione, e in definitiva decretare il successo del singolo con la complicità della massa. Come dice Guy Debord: “Lo spettacolo è il cattivo sogno della società moderna incatenata, che non esprime in definitiva se non il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il guardiano di questo sonno”.66

65

Gherardo Amadei, per “L'occhio selvaggio” Uomini come oggetti, La Gazzetta di Vigevano 29 Dicembre 1966. 66 ivi, pag. 63. 124

Seppur film a soggetto, L'occhio selvaggio, mantiene quella struttura a segmenti tipica delle opere precedenti del regista bolognese. In questo caso, non si tratta di vari frammenti accostati l'uno all'altro bensì di una struttura a combinazione in cui le sei sequenze - che complessivamente costituiscono il film - servono l'una per spiegare quella successiva. La prima sequenza, quella del deserto, si apre con la corsa della Land Rover dietro alla gazzella, che ha come unico intento quello di far scoppiare il cuore all'animale per poter riprendere la scena in diretta. Lo stereotipo del mondo movie, è qui puro espediente necessario per dare vita al discorso attraverso un’aggressione perentoria verso chi guarda: spettatore interno (Barbara) e spettatore esterno (pubblico). Barbara si lamenta perché non vuole vedere la morte della gazzella e Paolo replica deciso: “E allora... chiuda gli occhi”. La facoltà di scegliere di vedere o non vedere, per lo spettatore, altro non è che un batter d'occhi. Il risultato - quello della scelta della donna di non vedere - rappresenta lo spartiacque necessario per dare inizio alla finzione: lei spegne la Land Rover, l’animale sopravvive e lei diventa - suo malgrado - attrice nel film di Paolo, il quale chiosa dicendo: “Così metterò lei nel mio film invece dell gazzella”. La donna rifiuta l'offerta, ma il regista - che nel frattempo ha invitato Valentino, il suo operatore, a riprendere il tutto - replica: “Troppo tardi, l'ho già fatto”. L'operatore è la protesi del regista, il suo braccio armato, il suo primo complice della messa in scena. È colui che trasforma l'incidente nel deserto nella scena di un film in cui tutti sono attori inconsapevoli (visto che il tutto era stato precedentemente organizzato da Paolo) di una menzogna costruita ad arte per colpire il pubblico, prima con i primi piani disgustati e sconvolti degli invitati di fronte alla carcassa di un animale e poi, una volta sfiniti dalla mancanza d'acqua e sotto il sole rovente del deserto, chiedendo loro se sono pronti a sottoporsi alle domande immorali del regista demiurgo. In questo momento – mediante il suo spietato cinismo – Paolo innesca in Barbara un processo contraddittorio di fascinazione verso la seduzione dell’uomo che si concretizza attraverso un’ambiguità che stimola l’interesse e la paura della donna.

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Cavara e Delia Boccardo in Estremo Oriente sul set di “Occhio selvaggio” (1966)

La seduzione si sviluppa e giunge a termine sul pontile della nave, attraverso il raccordo di sguardo che esplicita la complicità, silenziosa e sotterranea, di cui si nutre il rapporto tra Barbara e Paolo. Paolo, come regista e come uomo, ha bisogno di un oggetto da controllare e plasmare con le proprie mani: un'attrice, pronta a interpretare nel suo film il ruolo della donna scandalizzata di fronte alle aberrazioni e alla crudeltà del mondo; un volto e un'espressione necessari a stabilire l'empatia con il pubblico posto dall'altra parte dello schermo. Di fronte alla sfrontatezza di Paolo67 la donna si ritrae sconcertata e dichiara all'uomo di non avere nessuna intenzione di degradarsi e di diventare un oggetto, ma nonostante ciò, non si accorge di essere già stata sedotta dal fascino del regista, il quale - consapevole del proprio potere e della forza di attrazione che esercita sulla donna - la prende con forza, la bacia. Il passaggio successivo del film utilizza uno spazio67

Cosi le si rivolge: “Lei, ad esempio, è un dato oggetto che può servire a diversi usi: a far l'amore, a tenere compagnia, a figurare nel mio film e chissà quanti altri usi che scoprirò in seguito”. 126

simbolo per rappresentare il ruolo e la reazione – abilmente manipolati – che la donna ha nel documentario che Paolo sta girando. La sequenza si apre sul Parco della Villa di Parità del Biancospino a Singapore in cui rappresentazioni, crudeli e sanguinarie fungono da allegoria rispetto a ciò che sta per avvenire. Il volto sorridente e compiaciuto della donna di fronte all'orrore rappresentato dalle statue è già, nell'ottica di Paolo Cavara - una risposta ai suoi interrogativi sulla fascinazione del Male.68 Il connubio tra gli estremi, tra violenza e amore è già cinema, quello stesso, che ritorna nel continuo della sequenza in cui vengono mostrate le pene inflitte agli oppiomani in un ospedale di Singapore. Qui Paolo, dopo aver visto le richieste di questi tossicomani - che chiedono di essere frustati perché con il dolore eliminano la crisi di astinenza - si rivolge al direttore con queste parole: “Va tutto bene ma...non è molto cinematografico. La scena la vorrei diversa... al posto delle fruste useremo dei bastoni, magari”. La ripresa con macchina a mano, non mostra la violenza e il dolore, ma solo la loro simulazione costruita dietro compenso a medici e ammalati. Una volta terminata la ripresa si spengono le luci dei riflettori, svanisce il ronzio della macchina da presa e rimane il silenzio rotto dalle parole di disgusto e rimprovero della donna, a cui Paolo replica serafico: “Ma come non hai capito che era quasi tutto finto? C'eri solo tu di vero in questa scena... ed era già troppo. Barbara, la realtà è noiosa, la bugia è divertente”. Il fuoco “ideologico” de L’occhio selvaggio è qui, dunque, dichiarato apertamente: il legame realtà/finzione non è scindibile se non attraverso la soggettività di chi guarda. Ovviamente, questa è soggetta tanto alla mistificazione dell’istanza narrante quanto alla manipolazione operata dal regista attraverso le sue indicazioni. Concetto che, opportunamente, Paolo sintetizza nella dichiarazione-manifesto della sua “ideologia”: “Non esistono buoni o cattivi film: ci sono solo quei cinquanta metri di pellicola che eccitano il pubblico e che gli fanno digerire gli altri duemila metri di noia”. Ne consegue che il viaggio in Siam - sulle tracce degli “uomini in letargo” - si concretizza nella messa in scena, crudele e spietata, del sultano, decaduto e affamato, convinto a mangiare farfalle in cambio di una o due scatolette di cibo occidentale. Inoltre, egli viene obbligato a sottoporsi a numerosi ciak per simulare la caduta in letargo, perché la ricerca di questa stranez68

E’ quindi naturale, che la scena si concluda con il montaggio alternato tra le inquadrature che mostrano le torture e le effusioni tra Paolo e Barbara. 127

za non ha dato alla troupe i frutti sperati. Durante questo episodio, Paolo rivela la sua natura più oscura e selvaggia (ma anche meschina) perché – dopo le innumerevoli e snervanti riprese a cui sottopone il vecchio sultano per ottenere l’effetto voluto – si spinge alla ricerca di un’umiliazione – che appare tanto forzata quanto inutile – nei confronti dell’uomo di potere ridotto in miseria per dimostrare la sua superiorità di colonialista. Non ha però fatto i conti con un concetto a lui sconosciuto: dignità; quella stessa espressa con il rifiuto del sultano a vendergli una delle sue mogli in cambio di un po’ di dollari (mentre Valentino è già pronto a riprendere il momento dello scambio). Paolo - convinto che tutto gli sia dovuto - replica stizzito e sarcastico: “Molto commovente”. Non è la prima volta che una delle sue proposte indecenti riceve il diniego da parte dell'interlocutore (è già accaduto con il bonzo invitato a bruciarsi davanti al tempio). Le sue proposte sono richieste – assurde per tutti tranne che per lui – che evidenziano il distaccamento dalla vita reale – nonché dalle sue regole – in favore delle immagini che quella stessa vita dovrebbero riprodurre. Concetto teorizzato da Guy Debord quando afferma: Lo spettacolo è l'ideologia per eccellenza perché espone e manifesta nella sua pienezza l'essenza di ogni sistema ideologico: l'impoverimento, l'asservimento e la negazione della vita reale. Lo spettacolo é materialmente "l'espressione della separazione e dell'estraniarsi dell'uomo dall'uomo".69 L'approdo in Viet-Nam e negli orrori della guerra, rappresenta il momento in cui il regista riflette sul suo ruolo e in cui chiude, definitivamente i conti con il suo passato e con il “metodo Jacopetti”. Paolo Cavara, a partire da questo momento, costruisce una serie di sequenze a tesi finalizzate ad esaltare il potere manipolatore e “distruttivo” dell’istanza narrante in questo film. Il suo è il racconto di un cinema in “guerra”, non solo come cronaca del conflitto, bensì come forma narrativa, aggressiva e veemente, che con immagini sgranate, teleobiettivi, fuori fuoco e riprese traballanti (come nella scena dell'attacco al villaggio) documenta l'orrore e al contempo ne è vittima e complice. Fatto che ben è evidenziato dal pestaggio di Paolo da parte dei Viet-Cong nel capannone e dalle parole del regista che - una volta rientrato in albergo - interroga il suo operatore:“Valentino, mi hai ripreso mentre mi stavano picchiando?”. Il regista è demiurgo anche del69

Guy Debord, Op. Cit., pag 180 128

la sua esistenza, fino alle estreme conseguenze, in un percorso di attrazione-repulsione verso il sensazionalismo delle immagini. Dice, infatti, Debord: L'alienazione dello spettatore a beneficio dell'oggetto contemplato si esprime così: più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio. L'esteriorità dello spettacolo in rapporto all'uomo agente si manifesta in ciò, che i suoi gesti non sono più suoi, ma di un altro che glieli rappresenta.70 La scena dell'attesa dell'attentato diurno, di fronte all'hotel sorvegliato dagli americani è emblematica del meccanismo di fascinazione cinematografico: l'attesa dell'evento (che mai si verificherà), il correre della pellicola, la folla/pubblico in trepidante attesa del tragico. Una riflessione univoca, senza mezzi termini e senza possibilità di smentita sul carattere “selvaggio” della ripresa: tra essa e lo spettatore soggiace un patto non scritto di complicità incentrato sul desiderio di vedere sempre di più e sempre meglio. Ecco dunque, seguire la scena che chiude i conti con il passato - riproduzione di quella vissuta in Congo nel 1962 che portò alla rottura del sodalizio Jacopetti-Cavara: l'esecuzione di un condannato a morte all'alba di un giorno qualunque nella periferia di Saigon, Valentino che si lamenta con Paolo: “Qui sta andando via la luce... se non arrivano presto...”, il regista che, una volta arrivati plotone d'esecuzione e condannato, dirige la “scena” mentre l'operatore sbraita: “Ci vuole un posto con un po' più di luce... contro quel muro bianco”, poi la ripresa della morte, con il campo del plotone e il controcampo del condannato, il primo piano sul volto della vittima, l'esecuzione “in diretta” e il dettaglio dell'ultimo colpo di pistola sparato dal militare a bruciapelo. L'occhio si stacca dal mirino della m.d.p. e lascia spazio ad un misto di soddisfazione e amarezza disegnati sul volto di Valentino per quanto appena ripreso. Paolo Cavara dirige l’ultima sequenza – quella dell’attentato al Lions Bar di Saigon come un vero e proprio allestimento di un set cinematografico rispettandone, sin nei minimi dettagli, i vari passaggi produttivi. Dopo il sopralluogo per verificare la struttura e la dislocazione degli spazi in cui avverrà l'attentato, il regista individua il punto di vista migliore in cui posizionare il suo operatore per riprendere il momento dell'esplosione in tutta la sua drammaticità: al campo dall'interno del locale, deve necessariamente corrispondere un contro campo dall'esterno che 70

Ivi, pag 63 129

mostri il momento dell'arrivo del proiettile. Paolo offre una forte somma di denaro a Valentino per convincerlo a riprendere la scena come vuole lui ma l’operatore non accetta l'incarico e si rifiuta di sacrificare la propria vita per una ripresa d'effetto. Una volta organizzati i ruoli - con Paolo all'interno del locale a riprendere la scena protetto dal muro e Valentino all'esterno perchè, come dice Paolo: “Dopo l'esplosione entra dentro e gira tutto... anche se mi trovi morto” - l'allestimento del set prosegue con il posizionamento delle luci all'interno del locale, la trasformazione dei clienti in attori inconsapevoli e l'avvio della macchina da presa puntata verso l'ingresso del locale, mentre il regista si stringe la testa tra le braccia in attesa della deflagrazione. L'attesa è febbrile, fatta di tensione e paura: il dettaglio sull’occhio di Paolo fissato sull'orologio in attesa della mezzanotte, mentre il sudore gli imperla la fronte. L'esplosione arriva, Valentino si precipita dentro il locale e vede Paolo, quasi in trans, che in preda all'eccitazione gli urla: “Gira tutti i dettagli... gira... gira... gira... gira...”. I dettagli sono quelli dei cadaveri straziati dall'esplosione, cui segue lo stacco sul primo piano di Barbara sul cui volto è disegnata un'espressione enigmatica: un misto di ammirazione e stupore che sfocia in un flebile sorriso prima che una trave crolli sulla sua testa e la uccida. La morte casuale della donna non è prevista nel copione di Paolo ma diventa elemento involontario di perfezione scenica - al punto che l'uomo rivolto a Valentino gli dice: “Riprendici”. Paolo accanto al cadavere della donna è ripreso dall' “occhio selvaggio” della macchina da presa e mentre volge lo sguardo verso il corpo di Barbara - il suo sguardo incrocia quello della macchina da presa e sottoscrive il patto di implicita complicità con lo spettatore. Perché come teorizza Debord: Nello spettacolo, immagine dell'economia imperante, il fine non é niente, lo sviluppo é tutto. Lo spettacolo non vuole riuscire a nient'altro che a se stesso.71L'occhio selvaggio è quindi un film seminale tanto per la comprensione dei cambiamenti della società quanto per l'enucleazione dei meccanismi della ripresa e di quelli “inconsci” dello sguardo. L’occhio selvaggio, pertanto, alla luce di quanto detto in precedenza, assume semanticamente un valore fondamentale all’interno della cinematografia italiana, visto che è il primo film che sposta l’attenzione dall’emittente al ricevente rompendo, deliberatamente e intelligentemente, il patto (non scritto) di non belligeranza tra schermo e pubbli71

Ivi, pag 57 130

co: elemento questo che decreta da un lato sia lo scarso successo critico del film sia la sua consegna all’oblio. Paolo Cavara, come tutti i grandi, ha già intuito la deriva sensazionalistica e mistificatoria a cui è condannata l’immagine negli anni a venire e, visto oggi, il suo appare un tentativo (velleitario, per l’epoca perché troppo in anticipo per essere compreso) di smascherare l’ipocrisia del cine-documentario e un monito (inascoltato) lanciato ad uno spettatore tanto ingenuo quanto inconsapevole. Sarà Ruggero Deodato, con il suo film Cannibal holocaust (1978) - anche questo vituperato e obliato per lungo tempo (ma oggi sdoganato, perché a differenza de L’occhio selvaggio, fondamentalmente innocuo) - a portare a conclusione in modo debordante e urticante, attraverso la messa in scena dell’essenza stessa della violenza, il discorso di Paolo Cavara: la sintesi dei contenuti di entrambi i film che oggi, semanticamente e semiologicamente, si ritrovano (non a caso) nell’immagine televisiva. Una troupe in mezzo alla guerra72 Illesi per miracolo, dopo l’esplosione di una bomba in pieno centro di Saigon; sperduti nella giungla malesiana, per circa due giorni, per un malinteso dovuto alla scarsa conoscenza della lingua locale; “cacciati” dai templi d’oro dell’interno del palazzo reale di Bangkok; queste e mille altre avventure (a volte divertenti, o decisamente comiche, o ancora spiacevoli, o addirittura drammatiche), sono state vissute dalla troupe dell’Occhio selvaggio, il film che Paolo Cavara ha diretto e portato a termine nel Siam, Algeria, Bangkok, Singapore, Malesia e altri luoghi esotici e misteriosi. Il film, come è noto, costituisce il debutto del coautore di Mondo cane nel lungometraggio a soggetto. Cavara, forse inconsciamente – come dice lui stesso – ha scritto, sceneggiato (in collaborazione con Tonino Guerra e Alberto Moravia) e diretto una storia che, per la sua economia, aveva bisogno di quei posti lontani, affascinanti, che già conosceva e nei quali aveva “girato”. Paolo Cavara, il quale afferma che il film “non ha niente a che vedere col suo passato di documentarista”, è soddisfatto del risultato, “al di là di ogni brillante previsione. Il fatto è – aggiunge – che tutta la troupe ha raggiunto un affiatamento veramente eccezionale. Attori, tecnici, tutti insomma, si sono prodigati al massimo per la buona riuscita del film, 72

Artcolo-intervista – L’Unità 1 Febbraio 1967 131

anche in condizioni ambientali proibitive.” Il regista ha accennato ad alcune delle tante avventure e disavventure vissute in quattro mesi di peregrinazioni da un capo all’altro dell’Oriente. Ha tenuto a precisare che, in quei luoghi, il cinema quasi non esiste e questo comportava, in pratica, l’assoluta autosufficienza della troupe; di conseguenza se nella maggior parte dei casi è stato relativamente facile ottenere i permessi necessari per girare, in alcune località la cosa si è presentata invece difficoltosa. Paolo Cavara ha quindi narrato due episodi. Il primo riguarda Philippe Leroy e Gabriele Tinti, i quali interpretano i ruoli, rispettivamente, di un documentarista (che è il personaggio principale del film), e del suo operatore. A Singapore, nella storia, i due entrano in una fumeria d’oppio ovviamente proibita. Cavara, per queste scene, piazzò il suo operatore a un centinaio di metri da una finestra da dove si potevano scorgere, con un potente teleobiettivo, i tossicomani sdraiati sui loro lettini in… piena attività. Leroy e Tinti riuscirono a farsi ammettere nel locale e il regista riprese le scene che lo interessavano. La troupe, però, dovette poi stare mezza giornata senza lavorare poiché i due attori, avendo preso tanto a cuore la loro parte, uscirono dalla fumeria barcollando, non riuscendo, per diverse ore, a ritornare lucidi. Un altro episodio è avvenuto a Bangkok: nei templi d’oro situati nell’interno del palazzo reale è proibito girare film, se non a carattere documentaristico. Paolo Cavara, in quella occasione, per aggirare l’ostacolo, disse agli attori impegnati nelle scene di entrare per primi nel tempio, come normali turisti; quindi li avrebbe raggiunti e facendo finta di non conoscerli avrebbe fatto in modo di raggiungere il risultato sperato. La cosa fu portata a termine, fino a un certo punto: le guardie addette alla sorveglianza, infatti, capirono il trucco e cacciarono dal tempio tutti quanti. Di Saigon, tutta la troupe, a parte lo scampato pericolo a cui abbiamo accennato, ha riportato un’impressione favorevole. Cavara ha detto che è stato facilissimo, pur vivendo la città in continuo stato di allarme, ottenere i visti necessari per girare. “Tutta la gente che vive a Saigon – ha detto il regista – pare abbia fatto l’abitudine alla continua tensione. Sembrano tutti turisti. A noi la cosa che ha fatto più impressione è il tuonare del cannone che, specie di notte, si avverte ininterrottamente.” Nel deserto del Sahara, in Algeria, le condizioni ambientali per girare erano particolarmente difficili. “Di giorno – dice Cavara – il termometro saliva a 45 gradi e di notte scendeva un gelo che attanagliava. Per tutti questi motivi devo ringraziare per lo spirito di sopportazione con cui hanno spo132

sato la causa del mio film. Tutti, oltre che essersi comportati bene, hanno recitato secondo le mie aspettative. Ma chi è andato veramente al di là di ogni previsione è Philippe Leroy il quale si è immedesimato nel personaggio in maniera sorprendente. Niente leziosismi: Philippe non badava certo se il trucco era posto prima di girare una scena. Questo è un fatto che darà più verosimiglianza al suo ruolo.” […]

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PARTE SECONDA

L’AGGRESSIONE, L’ARTE, LO SPAZIO IL TEMPO

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ICONOGRAFIA, TEMI E STRUTTURA DELL’AGGRESSIONE NE “L’OCCHIO SELVAGGIO”

Il primo film a soggetto di Paolo Cavara è, forse, la sua opera più importante, e merita, senza ombra di dubbio, di essere collocato tra i grandi film della cinematografia italiana, e non solo perchè, accanto a quella del regista, si ascrivono firme altrettanto prestigiose: il trattamento è elaborato con Fabio Carpi e Ugo Pirro, mentre la sceneggiatura è condivisa con Tonino Guerra e si avvale del contributo di un giovane emergente (cinematograficamente parlando) di nome Alberto Moravia. L'occhio selvaggio è un film che va oltre la semplice denuncia del meccanismo riproduttivo della macchina da presa, e va anche oltre il concetto di manipolazione della realtà, per addentrarsi negli ingranaggi - talvolta inconsci, talvolta manifesti - interni ad una società che genera uomini come il regista al centro del film. Non a caso, con lucida e spietata consapevolezza, Paolo Cavara, mette in scena, non il suo passato bensì il suo presente di artista tormentato e dubbioso che riflette sulla sottile linea che separa la verità dalla menzogna e viceversa, e per fare ciò non esita (ben cosciente del rischio) a esibire (nel film) quelle stesse atrocità che egli denuncia. Quello messo in atto, però, non deve essere letto né come un modo per fare i conti con il passato, né, tantomeno, come un gesto (auto)distruttivo fine a se stesso.73 L’occhio selvaggio può essere in73

Nel contrastato rapporto (più estemporaneo di quanto si possa credere) con Gualtiero Jacopetti, spesso animato da incomprensioni e da critiche destinate a sfociare nel rifiuto e nella presa di distanze dalla “filosofia” cinematografica dello stesso, Paolo Cavara si trova, suo malgrado, a dover fare i conti prima con la rivendicazione dei suoi diritti su Mondo cane e dopo a doversi confrontare con l’etichetta affibiatagli, da una critica miope e preconcetta, di regista “jacopettiano”. “Il Signor Paolo Cavara ha chiesto con ricorso al pretore, il sequestro del film Mondo Cane. Il Cavara dopo aver premesso di essere stato soggettista, sceneggiatore e regista insieme a Franco Prosperi e a Gualtiero Jacopetti del film Mondo Cane ed aver più volte sollecitato, senza 137

teso come una vera e propria indagine attorno e sul dubbio. Concetto questo che - nell’idea di Cavara, non separabile è da quello - altrettanto importante e dirimente - di successo. “Il mio personaggio non è così arido come potrebbe sembrare all’apparenza. E’ deciso a vincere la sua battaglia per la vita e si rende conto che per “arrivare” è necessario pagare un prezzo. Dotato di grande fascino personale si fa perdonare cose che ad altri non sarebbero perdonate. Egli sa benissimo che il nostro è un mondo che consente il successo soltanto a chi è dotato di grinta e che una volta raggiunto il piedestallo è difficile tornare indietro, anche di fronte a ripensamenti di carattere morale. […] Con L’occhio selvaggio vorrei semplicemente fare un analisi obiettiva di me stesso. Mi prefiggo soprattutto di dire quello che ho dentro di me e mi auguro di poterlo esprimere con lo stesso entusiasmo con cui ho affrontato con risultati positivi e negativi, il periodo della mia vita legato all’esperienza del cine-documentario”.74 Superficialmente, il personaggio al centro del film - tanto sgradevole quanto realistico - rimanda oggettivamente alla figura di Gualtiero Jacopetti e al suo modo di intendere il cine-documentario, ma, coraggiosamente, invece, il regista bolognese mette in scena se stesso (sin dal nome) costruendo una sorta di autoanalisi artistico-professionale che, per interrogarsi sull’etica e sulla deontologia, si spinge sino alle estreme conseguenze con una forza narrativa e persuasiva raramente vista nel cinema italiano. “Il personaggio del film si ispira in parte al regista Gualtiero Jacopetti ma ho tenuto presente non tanto la sua personalità, quanto l'abitudine esistente di un certo cinema occidentale in cui la verità viene sacrificata all'effetto oppure ad un'idea precostituita. Un simile lavoro può divenire pericoloso per la società in quanto serve da veicolo alla falsa alcun risultato la società Cineriz distributrice della pellicola, perché i suoi diritti di coautore dell’opera fossero riconosciuti mediante un regolare contratto, ha chiesto al pretore di ordinare il sequestro della pellicola con provvedimento d’urgenza” (Corriere Mercantile, Genova 23 Gennaio 1962) 74 Luciano Chitarrini, Il regista Cavara narrerà la storia d’un cineasta spietato, Il Secolo XIX, 12 Ottobre 1966 138

propaganda. Nel mio film ho criticato non tanto il personaggio quanto la società che lo ha generato”.75 Paolo Cavara, con questo film, dunque, non compie solo una semplice operazione metacinematografica, ma indaga con profondità e acume sui limiti e sull'ambiguità della visione. Riflette sulla separazione e sul connubio tra realtà e finzione, mette in scena, lui stesso, la manipolazione della realtà per mostrare allo spettatore come la menzogna sia meglio della verità. La sua è un'operazione provocatoria e a forte rischio di fraintendimento76, ma il suo coraggio di uomo di ci75

Paolo Cavara in Il Giornale di Sicilia, 21 Luglio 1967

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E non sono pochi gli abbagli presi allora come oggi in merito alla figura di Paolo. Ermanno Comuzio su Il Giornale di Bergamo del 28.09.1967 dichiara perentorio: Cioè a quel Jacopetti che ha firmato, pseudo-documentari, lungometraggi tutti incentrati sul basso sensazionalismo, e nei quali anche Cavara ha la sua parte di responsabilità. Cavara dice di no, che lungi da lui l'idea di fare del suo ex-socio una testa di turco, ma i risultati parlano da soli. Poi però, sembra ritrattare e nutrire dei dubbi, quando su Cineforum n° 70 del 1967, prima fa riferimento al fatto che L'Occhio selvaggio si aggancia con perentorietà, ma in modo polemico, ai due film Jacopettiani ora citati e a tutta la concezione “jacopettiana” del cinema in generale, ma successivamente afferma: L'occhio selvaggio è un film stimolante e piuttosto originale in quanto in esso per la prima volta è lo stesso cinema a giudicare quel tipo di cinematografo sado-masochista che ha trovato nel documentario lungometraggio di questi ultimi anni la sua affermazione più vistosa […] Qui è l'autore di cinema che si interroga sull'essenza del mezzo da lui usato per esprimersi […]L'occhio selvaggio diventa una presa di posizione sulle possibilità espressive della macchina da presa e, di conseguenza, sull'etica di colui che la impugna. Leonardo Autera, invece, su Bianco e Nero del 1967, non solo non cita Jacopetti ma propone addirittura una netta stroncatura del film derubricandolo in malo modo. Enzo Natta su La Rivista del Cinematografo n° 9 del 1967, più genericamente, interpreta il film sotto forma di autoanalisi e, successivamente, parla di “jacoppettismo” quando afferma: Autoconfessione o complesso edipico? Forse un po' di tutto. […] Il regista indirizza una aspra critica allo “jacopettismo”, tuttavia l'assunto del film è grossolanamente moralistico nel suo facile schematismo, nella sua scontata prevedibilità, nel suo rozzo e forzato manicheismo di stampo populista e tutto ciò a causa di una sceneggiatura che denuncia un'impostazione eccessivamente letteraria (e non per nulla Moravia è uno degli autori) e un'intelaiatura piuttosto semplicistica nel disegno dei caratteri dal taglio acerbo e psicologicamente inconsistente. [Per una visione complessiva della critica dell’epoca si rimanda all’antologia critica presente nel volume]. Da segnalare, infine, che tra i più strenui sostenitori della tesi che L'occhio selvaggio sia chiaramente un film contro Jacopetti c'è oggi Alberto Pezzotta come egli sostiene nel suo saggio introduttivo (Il cinema e l’oscenità della mor139

nema eclettico e dubbioso, lo porta a rischiare per riflettere sul concetto di estremo. Lo fa in anticipo sui tempi, precedendo l’ondata cinematografica del decennio a seguire che dell'estremo farà la sua natura precipua e la sua cifra stilistica. L’ambiguità alla base de L'occhio selvaggio, non è dunque quella del prodotto in sé (che infatti non ha nulla di ambiguo) quanto quella del principio della ripresa, dove già dal posizionamento della macchina da presa o della scelta del punto di vista si compie, involontariamente, una manipolazione della realtà. Non a caso, a ben guardare, il film ci mostra che Paolo dà le indicazioni di ripresa a Valentino77, mentre, contemporaneamente, è la presenza di un “terzo occhio” - quello della macchina da presa che riprende il film - a registrare le immagini che mostrano l’agire di Paolo. Il regista al centro de L’occhio selvaggio - nel dare le indicazioni di ripresa al suo operatore da lui utilizzato come servo/protesi quasi si deresponsabilizza nel delegare ad altri il compito di girare. Anche in questo il personaggio presenta una complessità – a tratti enigmatica – che nei confronti dello spettatore suscita, al contempo, repulsione e fascinazione. E penso a cosa mio padre diceva riguardo al suo protagonista: al fatto che nonostante tutto quest’uomo non fosse solo un bruto. Egli sa che sta per sprofondare nell’abisso, comprende che il fascino per la sua macchina da presa in grado di mutare la realtà come un teatrino sta trasformando anche lui, portandolo a compiere imprese temerarie (perseguendo - così mio padre ebbe a dire - una sorta di colonialismo), ma soprattutto a produrre palcoscenici su misura per spettatori avidi di emozioni. Sa, o intuisce che egli stesso - come gli rinfaccia peraltro Barbara in un momento del film - è solo un ingranaggio di un più spietato meccanismo in grado di travolgere l’umanità per far crescere i te. Un percorso intorno a L’occhio selvaggio) che accompagna la pubblicazione del trattamento e della sceneggiatura del film. Alberto Pezzotta (a cura di) L’occhio selvaggio, Bompiani, Milano, 2014 77 Se - come detto più volte nelle varie interviste rilasciate - Gualtiero Jacopetti parla del suo operatore Antonio Climati come di “un carrello umano” capace di farsi guidare da lui, di assecondare ogni sua esigenza e richiesta, Valentino, per Paolo, si spinge solo fino ad un certo punto: lui è capace di dire no. Jacopetti, scherzando, era solito dire che Climati per lui “era disposto a prendersi una pallottola”, così non è invece per Valentino, il quale abbandona il suo mentore Paolo di fronte alla richiesta assurda di filmare “la morte in diretta” nel locale di Saigon. 140

profitti di spregiudicati produttori. E a questo meccanismo alla fine egli soccombe, ma la sua anima è tormentata, il suo ardimento rasenta il bisogno estremo di emergere dall’anonimato, la sua forza è alfine una debolezza che lo lascia solo con se stesso. Una consapevolezza, quella di Paolo, acerba nel trattamento (del film) come nel finale dove egli stimola brutalmente il suo collaboratore a inserire nel montaggio la scena in cui è ripresa la morte di Barbara durante il conflitto in Vietnam.78 Ḗ proprio questa acquisita consapevolezza - nella sceneggiatura e ancor più nel film - che distingue il documentarista Paolo da un qualsiasi arrampicatore sociale: la coscienza della propria autodistruzione.79 La trasfigurazione del personaggio principale in archetipo (decisamente ambiguo - vista la sua natura soggettiva e autobiografica), la rarefazione dei dialoghi così come l’utilizzo del silenzio ne L’occhio selvaggio, fanno parte di una precisa “strategia dell’aggressione” che Paolo Cavara mette in scena senza né esitazioni né ripensamenti, ma anzi, spingendo l’azione e il suo protagonista oltre la soglia del dolore. Nel mettere in scena il potere del regista Paolo Cavara si allinea al diritto di ogni cineasta di esercitare un’azione pericolosa nei confronti del “suo” pubblico80. Ne L’occhio selvaggio questo avviene prima in maniera secca e brutale con la prima sequenza nel deserto e poi in modo più graduale e insinuante con un continuo stimolo – attraverso il rapporto tra i personaggi – nei confronti di uno spettatore 78

Nel finale del film invece il cinismo è esibito direttamente nel vivo della ripresa. Ma alla brutalità della richiesta dell’inserimento della scena del montaggio, nel trattamento, qui fa riscontro un cinismo ambiguo – quello della richiesta di essere ripreso con la donna morta tra i cadaveri – in cui Paolo “recita” il suo dolore, facendo trapelare la coscienza di un uomo in parte sinceramente addolorato, ma incapace di staccarsi dal fascino (ri)creativo della macchina da presa che lo porta piuttosto con tale rappresentazione alla totale disumanizzazione. 79 Dal saggio inedito di Pietro Cavara Dalle parole alle immagini: la parabola creatrice di un regista di documentari. (per gentile concessione dell’autore) 80

Scrive, infatti, Noël Burch: “Ora ci sembra che sorpresa e fastidio quali noi li prendiamo in considerazione, sono due modi tra i più moderati con cui l’immagine cinematografica può aggredire la sensibilità dello spettatore, e che essi aprano la via, per così dire, a tutta una gamma di aggressioni, di intensità crescente e di natura molto varia, in cui il cineasta è in grado (e ha il diritto) di dedicarsi nei confronti di quel che in inglese è chiamato captive audience”. Noël Burch, Prassi del cinema, Il Castoro, Milano, 2000, pag. 117 141

ancora vergine nei confronti degli eccessi della visione. Accade così che il ruolo del regista, Paolo, sia anche quello di essere una guida all’interno della mistificazione per svelarne i meccanismi e rilanciarne il paradosso secondo cui ad un eccesso di falsità non può che corrispondere una (perchè soggettiva) verità. La macchina da presa diventa così mero strumento riproduttivo in grado di catturare il preesistente che, a sua volta, è già stato manipolato e piegato alle esigenze del demiurgo. Inevitabile, quindi, che la parola ne L’occhio selvaggio abbia un ruolo marginale anche perché i personaggi incompiuti presenti nel film non hanno né la cultura, né la personalità per poter opporre l’arma del dialogo a quella dell’immagine. Ne è testimonianza il rapporto esclusivamente strumentale e funzionale tra Paolo e Barbara: ampiamente sbilanciato dal punto di vista dei ruoli e declinato su una dinamica padrone/serva di stampo coloniale. Anche in questo il regista Cavara denota tutto il suo interesse nel fare, del film in questione, una sorta di esercizio programmatico sui tempi dell’aggressione. Volontà e tesi che maturano nel tempo e che affondano le loro radici tanto nell’esperienza empirica e diretta del documentarismo, quanto, soprattutto, nella cultura cinematografica del cineasta bolognese, con l’intento di dare forma e vita ad un personaggio universale ed enigmatico tanto privo di modelli e di ascendenze quanto refrattario ad ogni riduzione e collocazione presente e futura. Operazione ambiziosissima che il regista riesce a portare a compimento costruendo una sorta di iter cinematografico che mette, al posto della centralità del personaggio, il concetto di enunciato. La forma prevale dunque sul contenuto in un film che vede nella sceneggiatura solo lo strumento funzionale alla messa in scena e che porta (per la prima volta nella storia del cinema italiano) l’istanza narrante a diventare vera (e unica) protagonista del film81. Le radici di un film come L’occhio selvaggio, dunque vanno ricercate, a ritroso, nel cinema – soprattutto quello di produzione francese – tanto amato da Paolo Cavara. Un cinema capace di fare a meno del contenuto – ma non per questo semplicemente antinarrativo – per esaltare la forma, la tecnica ma anche, e soprattutto, lo studio e la progettazione – qua81

In questo sta il vero valore innovativo del film ed è per questo motivo – viziato da una visione prettamente contenutistica da parte della critica del tempo e, in parte, anche attuale – che il film viene facilmente frainteso nonché per l’italico vizio del vedere complotti e nell’affidare alla dietrologia la spiegazione semplicistica di figure, come quella di Paolo, molto più complesse di quello che appaiono. 142

si matematica – dei tempi di aggressione nei confronti dello spettatore. Il principio di partenza – slegato dal livello di senso critico dello spettatore – è quello secondo cui, questi, con lo spegnersi delle luci in sala viene preso alla catena dal regista che lo conduce dove vuole e lo costringe a veder ciò che lui vuole (unica alternativa possibile: chiudere gli occhi). Va inoltre aggiunto, che chi guarda spesso è ignaro di ciò che accadrà sullo schermo e pertanto è in completa balia del sadismo del regista, il quale può decidere – a suo piacimento – di esercitare un dolore crescente e di portare le emozioni verso il punto di rottura con il risultato di pervadere il cervello, la coscienza e lo spirito dello spettatore con l’idea che quella che ha visto è “verità” e non finzione (anche il pensare che si tratta “solo di un film” risulta un debole deterrente). In quest’ottica il ruolo di Barbara Bates82 è fondamentale nell’esercitare nel documentario che Paolo sta girando il ruolo “della donna inglese che si scandalizza e rimane turbata” (secondo definizione del regista nel film), perché diventa – per traslato – il simulacro dello spettatore seduto in sala. Non a caso all’inizio del film – quando lei non è ancora nel film di Paolo - sono le parole di Barbara a svelare l’orrore che sta dietro la corsa della jeep quando dice: “Non voglio veder scoppiare il cuore di quel povero animale”, e fermando il mezzo in mezzo al deserto, contemporaneamente, provoca il pretesto per la messa in scena di Paolo e acquista il ruolo di protagonista nel documentario del regista. Prima di quel momento l’immagine è rassicurante nel mostrare, in campo lungo, una jeep che corre a zig zag tra la sabbia del deserto all’inseguimento di una gazzella, poi, improvvisamente, le parole della donna svelano l’orrore che si nasconde dietro alla realtà. Paolo Cavara, aggredisce dunque lo spettatore secondo una strategia programmatica abilmente studiata che si basa sulla lezione messa in atto da Luis Bunuel e Salvador Dalì in Un chien andalou (id., 1929) con l’inquadratura del taglio dell’occhio in primissimo piano. Qui l’immagine scioccante è preceduta da una situazione ordinaria in cui un uomo affila un rasoio e guarda la luna affacciato al balcone, poi, all’improvviso, l’immagine atroce aggredisce selvaggiamente lo spettatore. L’incipit de L’occhio selvaggio, quindi, rappresenta a tutti gli effetti come il con82

Nessun critico ha mai notato che il cognome della donna è lo stesso del Norman Bates di Psycho (id., 1960) di Alfred Hitchock, film seminale sui temi della scopofilia e del voyeurismo. 143

cetto di aggressione sia un elemento strutturale all’interno del film e spiega, visivamente, come l’intero sviluppo della pellicola sia declinato sulla continua alternanza tra “aggressione” e “stasi” (nel senso di attesa). In questa scelta, non si può non notare come ci sia la volontà di riprodurre l’orrore come variante realistica all’ordinario. Viene in mente uno dei primi passaggi del documentario Le sang de bêtes (id., 1949) di Georges Franju in cui un cavallo viene lentamente accompagnato attraverso un cortile, delicatamente accarezzato e girato su se stesso, poi, un piano ravvicinato, mostra la pistola a percussione sparare il proiettile letale che lo abbatte. Non solo, anche il prosieguo dell’opera di Franju vive nell’alternanza tra dolore e ironia restituendo un ritmo cinematografico di rara efficacia – temi, questi, tra l’altro, che appartengono pienamente al film di Cavara83. L’occhio selvaggio, nella sua struttura a blocchi, colpisce lo spettatore – creando scientemente le condizioni per aggredirlo – con improvvisi squarci di dolore e orrore. Sintesi teorica di questa volontà è la sequenza degli oppiomani, che nella finzione, vengono presi a bastonate per curarli dalla loro dipendenza. Se si osserva attentamente la sequenza, però, si nota, come le percosse siano volutamente finte – come ben dimostrano i piani ravvicinati che fanno vedere come il bastone non colpisca mai il corpo – ma il coinvolgimento emotivo dello spettatore (alimentato dal sonoro diegetico delle urla delle vittime) che si rispecchia in Barbara non fa minimamente percepire la finzione e anzi, restituisce il dolore in tutta la sua straziante veridicità (quella mostrata dai primi piani dei volti deformati dalla sofferenza).

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Lo dimostra, ad esempio, la scena sulla nave in cui Paolo spinge al tradimento Barbara e la sera sul pontile lei, il marito e Paolo sono spettatori di una scena che appartiene al film I Malamondo (1964) – dello stesso Cavara – che fa riferimento ad una donna che parte per capitanare una nave lasciando sulla banchina il suo fidanzato. 144

Da sinistra: Delia Boccardo, Paolo Cavara, Luciana Angelillo, Philippe Leroy e Lars Bloch, durante le riprese di “Occhio selvaggio” nel deserto di Algeria

Paolo Cavara costruisce in questa sequenza una dialettica musicale sospesa tra realtà e finzione, messa in scena e riproduzione, rassicurazione e inquietudine. Spingendo Barbara a credere vero ciò che si manifesta davanti ai suoi occhi, il regista bolognese raggiunge l’obiettivo di portare lo spettatore al superamento della soglia del dolore: quella che si manifesta attraverso lo stordimento e lo sfinimento di cui è vittima Barbara lungo la panoramica che, nell’alternare silenzi e controluce, concretizza visivamente il suo stato d’animo profondamente sconvolto. Nel riproporre in L’occhio selvaggio, il tema della natura del documentario, Paolo Cavara coglie appieno le tesi propugnate dallo studioso e documentarista inglese John Grierson84, facendo del film un ibrido a metà strada tra la fiction e il documentario mettendo così in scena un discorso proteiforme costruito anche sulla reciproca inversione dei ruoli tra spettatore e macchina da presa e rinunciando ad un’oggettività assoluta nei confronti di ciò che viene ripreso. La struttura del film, fa dunque intendere una volontà 84

Il teorico sostiene che: “L’idea documentaria non chiede altro che di portare sullo schermo, con qualsiasi mezzo, le preoccupazioni della nostra epoca, stimolando l’immaginazione, con un’osservazione la più ricca possibile. Tale visione può avere l’aspetto del reportage a un certo livello, della poesia a un altro; a un altro livello ancora la sua qualità estetica risiede nella lucidità della sua esposizione”. In Grierson on Documentary, New York 1972. 145

di messa in scena conflittuale in cui le immagini documentarie - confliggendo con quelle di fiction - restituiscono il vero significato di un’opera in cui la violenza, l’orrore e la mistificazione sono elementi del discorso intrinseci alla forma filmica. Ne consegue l’importanza seminale del ruolo della macchina da presa che, continuamente si alterna nei ruoli di interlocutore e osservatore diventando vero e proprio principio strutturale e formale del discorso cinematografico. Ne L‘occhio selvaggio la macchina da presa agisce come un falso interlocutore, perché la realtà che riprende non è tale bensì frutto dell’aggressione programmatica che Paolo mette in atto nei confronti dello spettatore, costruendo la finta messa in scena che poi fa riprendere a Valentino sulla base delle sue indicazioni. Il regista - incapace di riprendere - affida all’operatore il ruolo di voyeur, e a Barbara quello di vittima sacrificata sull’altare della sua incompiutezza. È quanto mai curioso, infatti, che nel film, non solo nessuno guarda mai ciò che viene ripreso (e la scusa della necessità di stampare la pellicola, non appare abbastanza dirimente), ma nessuno chiede mai di poter guardare nel mirino della cinepresa: l’unico autorizzato a farlo è Valentino, fino al momento in cui - solo rinunciando al suo ruolo - lascerà che sia Paolo ad impossessarsi della macchina da presa per riprendere in tempo reale l’attentato del Lion’s Bar di Saigon. In realtà, neanche in quel momento Paolo guarda nel mirino della sua cinepresa (il suo occhio in dettaglio è inquadrato mentre osserva il quadrante dell’orologio), quasi come a non volersi confrontare con la realtà che gli sta di fronte per paura di essere, a sua volta, manipolato (preferirebbe morire). Altro riferimento imprescindibile, quindi, alla base della genesi de L’occhio selvaggio è Peeping Tom (L’occhio che uccide, 1960) di Michael Powell. Lo dimostra il personaggio di Barbara modulato su quello della Helen di Powell che nei confronti delle immagini di Mark agisce come Barbara nei confronti di Paolo. Tra lo stupore e il fascino, esercitati dal regista, cerca soprattutto di capire l’uomo (per questo cede alla relazione con lui) che lei vede come una vittima e non un carnefice. Barbara entra nel mondo oscuro di Paolo in primo luogo per provare a capirlo e decifrarlo e, solo in secondo luogo, per provare a vivere un’esperienza diversa che la affranchi dalla monotonia in cui è sprofondata. Dietro l’apparente freddezza di Paolo, Barbara (come Helen nei confronti di Mark), vede soprattutto la fragilità e la paura che ne abitano l’animo tormentato. Non solo, entrambe le donne percepiscono il masochismo 146

che porta i due uomini a rilanciare ogni volta la loro sfida nei confronti della morte. Ma sia Paolo che Mark, per dimostrarsi forti, non esitano ad assumere atteggiamenti estremamente sadici, solo, quando indossano la veste di registi. Se ne evince che il tema del rapporto tra masochismo e sadismo dello spettatore presente in alcuni dialoghi del film sia una suggestione nata dalla visione dell’opera di Michael Powell; così come dal film di Powell è mutuata l’idea dell’utilizzo della finestra come elemento meta-cinematografico. Ne L’occhio selvaggio molte delle riprese effettuate da Valentino – così come alcune inquadrature del film - sono fatte attraverso delle finestre (emblematica quella circolare della porta del Lion’s Bar di Saigon) con il chiaro intento di riprodurre l’obiettivo della macchina da presa. A tal proposito la sequenza finale del film di Paolo Cavara ricalca fedelmente quella del secondo omicidio – quello di Vivian nel film di Michael Powell - nel mettere in scena Paolo come uno scenografo che, artificialmente, ricostruisce e deforma il set in cui si effettuerà la ripresa. Così come Mark nel teatro di posa dispone gli oggetti, accende le luci, posiziona la macchina da presa e infine, si pone nell’atto di riprendere la sua vittima, così Paolo, nel locale vietnamita compie le stesse azioni prima di posizionarsi dietro il muro nell’attesa dell’esplosione. In entrambe i film, inoltre, c’è la presenza di un operatore intento a realizzare un documentario con le immagini della realtà; un realtà ricreata, frutto delle loro rispettive azioni. L’utilizzo metacinematografico della finestra, è sostenuto dal continuo rimando alle immagini e al tema dell’occhio e dell’obiettivo, della palpebra e della finestra stessa intese come elementi di chiusura e apertura sulla realtà (proprio come se fossero l’obiettivo fotografico) e finalizzate entrambe ad evidenziare l’artificio cinematografico. Dato che l’esplosione viene ampiamente annunciata allo spettatore - il quale rimane sì in attesa del momento della deflagrazione ma è tormentato (come Paolo) dal dubbio che questa possa avvenire o meno, e modificare così significativamente il risultato della sua percezione (così come quello del lavoro di Paolo) - il discorso strategico sull’aggressione viene così a cadere (o meglio a dissolversi) nel finale del film. Si può quindi dire che nell’epilogo la strategia di aggressione lasci spazio alla dimensione dell’impressione. Il regista vuole mostrare come – slegando la focalizzazione dalle informazioni date allo spettatore – nulla sia più prevedibile ma tutto si mescoli nell’ambiguità dell’imponderabilità del reale (tema chiaramente antonioniano a cui L’oc147

chio selvaggio si allinea volutamente). Il rapporto tra realtà e finzione, infatti, produce, nell’ultima sequenza, l’illusione (cioè la distanziazione) tra l’immagine (la realtà nel suo apparire) e la sua riproduzione (sintesi dell’ambiguità). Il regista del film lavora, infatti, sulla confusione che si ingenera tra mistificazione e oggettività quando queste diventano componenti di una messa in scena. Questa scelta dimostra proprio la volontà di Paolo Cavara di inserire il suo film nel discorso intrapreso da Michelangelo Antonioni85 il quale, in una dichiarazione del 1964 afferma: “Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà”. La rarefazione dei dialoghi de L’occhio selvaggio - che asseconda la tesi antonioniana - coincide quindi con una volontà di potenziamento dell’immagine e della forma cinematografica sostituendo al potere comunicativo delle parole quello delle immagini e la loro capacità di generare significati autonomi. Per fare ciò Paolo Cavara sovrappone il proprio sguardo a quello del Paolo del film eliminando ogni barriera tra soggettività del personaggio e punto di vista della macchina da presa. Questo, nonostante – escluso il finale – il Paolo del film non appoggi mai l’occhio sul mirino della macchina da presa: ciò avviene perché il suo è un delirio di onnipotenza (lo stesso da cui è affetto Thomas in Blow-up (id., 1968)) che il regista smonta pezzo per pezzo per riportare sulla terra il suo personaggio attraverso il manifestarsi del dubbio. Quest’ultimo (non a caso) è affidato ai dialoghi tra Paolo e Barbara della seconda parte del film e non alle immagini. In questo L’occhio selvaggio diventa anche un film attraverso cui il regista si interroga non solo sul significato ma anche sull’etica del suo mestiere attraverso un’indagine sui limiti dell’immagine filmica intesa come strumento di conoscenza e di esplorazione del mondo. Per 85

Il cinema di Antonioni è teso ad accentuare la dialettica tra le sequenze e tra le stesse inquadrature e in Blow-up la giustapposizione dei blocchi narrativi e le inquadrature che alternano momenti soggettivi e oggettivi concorrono a costruire la polisignificanza del dato percettivo, la densità e sospensione del momento presente. Insistendo sul divario tra immagine (realtà apparente) e sua indagine (ingrandimento) si giunge ad affermare che il più di significato che l’immagine può acquistare coincide con un più di ambiguità. In Giorgio Tinazzi, Michelangleo Antonioni, Il Castoro, Milano, 1995 pag. 108. 148

questo motivo Paolo, nel film non è mai se stesso ma solo la sua “maschera di successo”, che egli indossa costantemente nel vano tentativo di cancellare la sua fragilità e insicurezza di fondo. Egli – come il Thomas di Blow-up che si traveste da barbone per riprendere la vita nell’ospizio – ha bisogno di travestirsi da regista, poiché, costretto a scegliere tra immagine e realtà opta per la prima accontentandosi semplicemente di quello che vede. Ecco perché deve spingere il suo discorso fino alle estreme conseguenze: culminanti nell’interpretazione del dolore che egli mette in atto davanti al cadavere di Barbara nel finale del film - non prima, però, di essersi opportunamente assicurato che Valentino stia riprendendo. Paolo, in realtà, non ha possibilità di scelta, in quanto egli è semplicemente l’ingranaggio di un meccanismo (è la stessa Barbara a rivelarglielo nel dialogo tra i templi birmani) che ha come obiettivo quello di renderlo strumento del conflitto tra realtà e finzione spingendolo ossessivamente alla ricerca di una verità - che non è tale perché artefatta – che si rivela essere sempre la più squallida. Egli quindi si muove in un mondo popolato da fantasmi in cui immoralità e amoralità non sono l’eccezione bensì la regola di un discorso decisamente più ampio che indaga il limite tra arte e illusione in cui Paolo, per paura (quella dell’anonimato), sceglie la strada più facile e redditizia della bugia creativa. In definitiva è questo suo essere elemento “meccanico” di un meccanismo, che lo rende anaffettivo e incompiuto: trasformando le persone in cose rinuncia a relazionarsi con gli altri e con la realtà perché ritiene questi elementi puramente funzionali alla sua “arte”. Ne consegue che nel rapporto tra l’aggressione sistematica che egli mette in atto nei confronti dei suoi interlocutori e la sua fragilità psicologica, a prevalere, agli occhi dello spettatore, sia quest’ultima evidenziando così tutta l’ambiguità del personaggio. Paolo Cavara, attraverso il Paolo del film, costruisce un personaggio ampiamente sfuggente verso cui lo spettatore (tanto quello dell’epoca che quello odierno) non può che manifestare rigetto e fascinazione, ma andando nella profondità della sua consistenza e dei suoi comportamenti non può che provare, nei suoi, confronti pietà e compassione. Paolo è quindi uno specchio in cui per chiunque è facile specchiarsi e allo stesso tempo prendere le distanze per paura di entrare in contatto con una parte oscura enigmatica e inquietante che abita in ogni individuo. La forza di un film come L’occhio selvaggio, pertanto, va equamente ascritta tanto alla forma filmica quanto alla delineazione del personaggio-dio 149

che lo abita; un film in cui “la strategia dell’aggressione” pervade l’iconografia e la semantica del testo filmico collocandolo così tra le opere più sorprendenti, spiazzanti, e innovative che il nostro cinema abbia mai proposto.

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SEMANTICA, ESTETICA E SINTASSI DELLA CRUDELTÀ NE “L’OCCHIO SELVAGGIO”

L'occhio selvaggio è un lungometraggio che - attraverso la messa in scena di un film sull'orrore (qui inteso in senso concettuale) - riflette sull'ambiguità dello sguardo, e sul delirio di onnipotenza che si impadronisce di chi si prende carico di gestire questa ambiguità. Paolo è un prodotto come lo è il suo film, ed egli è consapevole di esserlo e non vuole sottrarsi al ruolo che ha scelto, perchè la moneta di scambio è rappresentata dalla fama, dalla gloria e dal successo personale ed economico. Paolo, quindi, è al contempo vittima e carnefice, forse più vittima che carnefice, visto che si presta come strumento di organizzazione dell'immaginario collettivo; strumento nelle mani di chi a differenza di lui - non ambisce al semplice successo personale, ma è interessato all'esercizio permanente del potere e del controllo. Ma egli è anche un personaggio bigger than life che attraverso l’esercizio e la riproduzione della violenza dà vita ad un mondo immaginario in cui tutto è possibile, in cui non ci sono limiti, in cui il concetto di estremo non è contemplato. Tutto è finalizzato alla costruzione di un comportamento crudele che prende forma attraverso la fantasia e la sua capacità di immaginazione. Condizione che lo esautora da qualunque impegno morale e lo esonera da ogni convenzione per poter vivere un’ esistenza straordinaria. Paolo uomo e Paolo regista, infatti, sono due figure differenti (anche se speculari): se il primo cerca di compensare la sua fragilità e la sua incompiutezza con l’interpretazione del suo personaggio anche nella vita di tutti i giorni, il secondo non prende minimamente in considerazione la possibilità di porsi dei limiti poiché la sua immaginazione è libera e ossessiva. E’ quindi illusorio e fuorviante pensare che Paolo utilizzi l’esercizio e la creazione della violenza come valvola di sfogo ad una sua aggressività repressa, poichè, egli, in realtà - attraverso il suo cinismo e la sua crudeltà - am151

bisce a cose concretamente materiali: le lusinghe, il venir riconosciuto come un coraggioso senza paure, la ricchezza. Paolo comprende che il suo modo di fare cinema/documentario altro non è che la strada più facile, veloce e adrenalinica per raggiungere il successo. La violenza, infatti, mantiene la sua forza dirompente nel tempo solo attraverso la sua istituzionalizzazione. Fattore che agisce su Barbara come elemento di fascinazione e fa si che lei – apparentemente così refrattaria ad ogni forma di violenza – rimanga non solo attratta ma persino abbagliata dalla crudeltà di Paolo. Non a caso, nel pre-finale del film ella ammette di non avere più vergogna di nulla, di essersi abituata a qualunque cosa, perché l’esposizione sistematica a contatto con la violenza ha attivato in lei l’automatismo dell’accettazione di qualcosa che è ricorrente, iterativo e abitudinario (a senso unico). Paolo raggiunge questo obiettivo – che poi è quello alla base del suo essere regista (e dunque personaggio) – attraverso la focalizzazione di quell’istante di vuoto che separa la recitazione dall’uscita di scena, quell’istante magico in cui realtà e finzione si confondono e in cui non è possibile riconosce dove finisce l’una e dove inizia l’altra. Paolo, e gli altri che si trovano attorno a lui, in questo momento irripetibile – si tolgono la maschera dei personaggi che interpretano per svelarsi come uomini e donne e quindi persone. Come dimostra la sequenza iniziale della caccia alla gazzella, però, la frazione di tempo in cui è possibile passare dall’essere persona al divenire personaggio, non è né prevedibile né calcolabile: Barbara in un tempo infinitesimale – senza neanche rendersene conto – diventa attrice nel film di Paolo. E’ sintomatico che questo avvenga nel momento in cui Paolo si presenta come personaggio – regista di una messa in scena – in cui scientemente vuole uccidere un animale per farne spettacolo. L’uomo, da sempre può uccidere qualunque animale - e non necessariamente solo per bisogno ma anche per mero divertimento – visto che egli non prova né rimorso né senso di colpa verso un agire che è connaturato alla sua natura umana. Nella sua ingenuità Barbara non può concepire che Paolo voglia far scoppiare il cuore alla gazzella ma che, soprattutto, ella si ritrovi spettatrice obbligata di un atto cosi gratuito e crudele. Ma Paolo - come ogni essere umano – non ha nessun obbligo morale verso l’animale e anzi si trova a vivere in quella condizione in cui egli può esercitare la violenza priva del senso di colpa e nel trasformare la scena in spettacolo vive sulla propria pelle la possibilità di poter sottomettere il mondo al suo volere: sarà lo spettatore in sala 152

- vedendo le sue immagini - a conferirgli questo potere. Ma la violenza e la crudeltà con cui questa è messa in atto sono fattori endemici alla natura umana e il loro esercizio permette all’uomo di conservare il suo stato di libertà. Paolo – con il suo agire da personaggio strohemiano – rincorre una libertà assoluta che non è garantita né dal Bene né dalla morale, bensì dal Male e dal dolore immorale: la stessa libertà che il lupo trova massacrando gli agnelli. La dialettica erotico-sessuale che si instaura tra Paolo e Barbara ha inevitabilmente i tratti sadomasochisti di un rapporto crudele tra padrone e serva. Il loro rapporto vive, infatti, sulla fascinazione della violenza e su come questa incida anche in ambito sessuale. L’esposizione ossessiva a cui Barbara è costretta è qualcosa che la ammalia attraverso il fascino crudele degli stimoli e delle sensazioni che la violenza comporta: le urla di dolore, l’odore del sangue, la frantumazione delle ossa. Come in ogni processo all’inizio ella ha reazioni contrastanti, prova disgusto, ripugnanza ma anche curiosità e desiderio. Allo shock iniziale subentra però una condizione di sollievo che va di pari passo con la relazione sessuale intrapresa con Paolo. Subentra in Barbara la stessa condizione di cui è preda lo spettatore in sala: un senso di sicurezza determinato dal distacco perché il dolore che ascolta e che vede non è il suo. In lei, poco alla volta, si fa strada un profondo senso di ammirazione nei confronti di Paolo e verso quella capacità che lei – ritiene unica – di sapersi misurare con gli anfratti più oscuri dell’animo umano. Se ne evince che mantenendo la distanza di sicurezza la donna prova perfino una sensazione di sublimazione. Quella stessa, mista a dolore, che lei prova di fronte ai drogati curati a colpi di bastone, o di fronte alla confessione di Paolo di aver chiesto ad un monaco buddista di darsi fuoco davanti alla sua macchina da presa. Il terrore suscitato dalla vista di un morto si risolve poi in soddisfazione, poiché chi guarda non è lui stesso il morto. Il morto giace, il sopravvissuto gli sta ritto dinnanzi, quasi si fosse combattuto una battaglia e il morto fosse stato ucciso dal sopravvissuto. Nell’atto di sopravvivere, l’uno è nemico dell’altro.86 Nel finale del film Barbara muore e Paolo sopravvive: il paradosso e che la donna muore (con sguardo ammirato e incredulo verso l’uo86

Elias Canetti, Il sopravvissuto, in Massa e Potere, Bompiani, Milano 1988, pag.273 153

mo) dopo essere stata a distanza di sicurezza dal pericolo (in attesa fuori dal locale), mentre l’uomo, che ha giocato e scherzato con la morte, sopravvive. Il suo sguardo in macchina – complice con lo spettatore – certifica la soddisfazione per aver sfidato la morte e aver vinto. In questo esatto momento egli coglie appieno il senso e il valore dell’obiettivo che ha a lungo rincorso e in cui la realizzazione del film assume i crismi di mero pretesto per mettere in atto una sfida tra Paolo uomo e Paolo regista. Una volta raggiunto uno stato di assuefazione Barbara – e per traslato lo spettatore in sala – non possono che tributare a Paolo i tratti dell’eroe, di colui che – attraverso la sua immaginazione – è capace di uccidere e di farlo con una disinvoltura e un’intelligenza dai tratti superiori. Come un personaggio del cinema di Stroheim egli è tale quando indossa la sua uniforme di regista, momento in cui è pienamente padrone di sé ed emana onore e dignità, perché tanto più egli riesce a spingere in là il suo esercizio della crudeltà tanto più diventa immortale e circondato da un aura divina. Egli è quell’uomo che è capace di fare a meno di ogni morale, una sorta di grande uccisore capace di dare senso e forma alle più oscure fantasie di ogni spettatore. Ecco perché nella sintassi de L’occhio selvaggio, si materializza quell’idea stroheimiana di rivoluzione estetica basata sul sovvertimento dei canoni formali della messa in scena attraverso la necessità dell’attore di esteriorizzarsi. Lo si avverte soprattutto attraverso il montaggio del film finalizzato a confondere lo spettatore di fronte al rapporto realtà-finzione: lo si vede negli stacchi che mostrano l’oggettiva di Valentino che riprende seguita dalla soggettiva – mediata dal mirino della macchina da presa – di ciò che egli sta riprendendo. L’unico fattore differenziante è rappresentato dal ronzio della m.d.p. visto che tra le inquadrature non c’è alcuna alternanza né formale né tecnica. In questo, Paolo Cavara conferisce al regista Paolo – oltre al ruolo di deus ex machina delle sue volontà – i tratti di una figura stupefacente di un uomo che per potersi affermare ha la necessità di dover uscire da sé (attraverso l’indossare l’uniforme del regista). Non è casuale, che ne L’occhio selvaggio grande spazio trovino tanto il fuori campo quanto l’ellissi: elementi cinematografici finalizzati alla definizione dell’allusione che passa attraverso tutto ciò che non è mostrato. Si può quindi dire che il paradosso stroheiniano trovi qui la sua consacrazione nel cinema sonoro con l’obiettivo non solo di mostrare ma di dire, non solo di riprodurre ma di raccontare. Paolo con le indicazioni che dà Valentino non si limita a registrare la realtà, bensì la 154

crea, la plasma e la deforma raggiungendo una condizione a cui mai nessun occhio umano sarebbe potuto giungere. Ne consegue che vengono meno tanto la retorica quanto il discorso filmico con l’obiettivo di far emergere l’evidenza raccontata attraverso una ridefinizione iperbolica della realtà. Questa passa anche attraverso l’esibizionismo di Paolo il quale prima di tutto ha la volontà e la necessità di mostrarsi attraverso la sua uniforme di regista: una sorta di corazza che lo protegge da tutto (persino dalla morte come nel caso dell’attentato finale) e che gli conferisce una smisurata volontà di potenza. Egli come gli ufficiali strohemiani sottomette a sé ogni cosa e ogni individuo. Il suo essere mitico lo tiene alla larga da ogni reazione morale e da ogni recriminazione per gli atti che compie. Il suo essere crudele passa attraverso gesti minimi – come il calcio alla rana nel palazzo del maraja decaduto – che impongono agli altri la sua visione del mondo. Tutti coloro che gli stanno attorno, infatti, sono obbligati a seguirlo nella sua manipolazione della realtà e, questa, non può che piegarsi al suo volere senza né pudori, né restrizioni. Paolo, dopo aver scelto per sé il ruolo di ingranaggio del potere asseconda in tutto e per tutto quello che il potere gli impone. La sua uniforme da regista equivale a quella di un soldato che esegue degli ordini – non solo senza metterli in discussione – ma con la convinzione che questi garantiscano a lui fama e successo e a che si troverà in sala - di fronte alla sua creazione – emozioni e piacere. E’ ben consapevole che il denaro, la ricchezza e soprattutto l’immortalità gli saranno garantiti in proporzione alla percentuale di rischio, alla spregiudicatezza nel mostrare, al non arretrare di fronte all’estremo. Questo è quello che gli impone la società a cui appartiene e che, al contempo, gli permette di potere esistere come artista necessario alla creazione delle sue fantasie più aberranti.

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CAVARA/KLEIN E LE MODELLE DIPINTE DI BLU: UNA “STRAVAGANZA” D’AUTORE. di Pietro Cavara

Se c’è uno spezzone che è diventato oggetto di culto di quel caleidoscopio di immagini e di situazioni stravaganti che è stato il documentario Mondo cane, questo è certamente l’episodio delle modelle di Yves Klein. Che possa risultare a un occhio severo un poco kitsch, ruffianamente decadente, o connotato, grazie al tema musicale “More”, da romanticismo di maniera, tale spezzone è però generalmente considerato tra le cose migliori e insolite di questo documentario. Magari ci si chiede come è possibile che Klein, artista raffinato tendente alla spiritualizzazione delle sue figure, si sia ritrovato in un’opera nel complesso giudicata strabordante, velleitaria e di depistante “non sense” e che in mancanza di meglio fu definita shock, o sensazionalista, se non peggio …esplorazione delle brutture del mondo. Sembrerebbe che l’esperienza per il pittore sia stata devastante se si arrivò ad affermare che il suo decesso per infarto fu causato dalla visione pubblica della prima del film a Cannes. Eppure, a dire il vero, di scioccante o sensazionalistico lo spezzone delle “modelle” non ha proprio nulla, né certo lo si può considerare una “bruttura”, sia per il contenuto che per il modo in cui è esplorato cinematograficamente. Non è certo espressionismo tedesco, ma pur nella sua brevità questo episodio ha un suo stile, un’eleganza, un tocco che altrove ho definito naif e di natura specificatamente cavariana (estendibile per il vero a molti altri momenti del film) che pure affascina, nonostante il rifiuto di Klein; possiede insomma una sua grazia che lo pone comunque distante dagli “orrori” mostrati o da altre stravaganze contenute nella pellicola.87 E se, per la 87

Per il carattere naif, vedi Pietro Cavara: Ricordo di un padre, Paolo Cavara, regista gentiluomo. Aracne editrice 2014 pp.75-76. Lo stesso carattere è rinvenibile in Fabrizio Fogliato, Paolo Cavara, Gli occhi che raccontano il mondo, Il Foglio letterario 156

medesima brevità, l’episodio delle modelle rimane “stravaganza”, va detto che, a conti fatti, non vi è né irrisione, né sarcasmo o discredito dell’opera e del suo autore ivi rappresentati. In questo breve saggio mi propongo di cercare di chiarire quali furono le probabili intenzioni di mio padre regista e di Klein artista d’avanguardia (in rapporto anche alla versione cinematografica lunga dell’episodio che risulta tuttora scomparsa), di dimostrare che nonostante il diniego di quest’ultimo l’episodio ha una sua indubbia dignità, e che a dispetto della volontà di Gualtiero Jacopetti, tale episodio risente pienamente dello stile direttoriale di mio padre e il successo commerciale della pellicola è più in generale, a mio avviso, quello di una formula armonizzante di immagini e musica ravvisabile emblematicamente in questo spezzone. La volontà di inserire Klein in Mondo cane è quella di mio padre, Paolo Cavara, ex studente di architettura, dalla sensibilità artistica per le arti visive pronunciata con la passione per l’avanguardia pittorica. Organizza lui per conto della produzione Cineriz gli incontri col pittore a Parigi per riprendere la famosa “Antropometrie”. Non riporto qui le diverse fasi del lavoro peraltro già trattate in precedenza. Mi limiterò a fare alcune considerazioni:

a) L’intesa tra Klein e mio padre era perfetta, fatta di rispetto per il lavoro di entrambi e composta da reciproci interventi.88 Si decise di non tralasciare alcun particolare nella ripresa e si stabilì che l’opera nel suo farsi progressivo sarebbe dovuta durare 40 minuti (20 con l’accompagnamento musicale per una nota sola, e gli altri 20 senza accompagnamento). L’episodio fu girato e in seguito montato secondo le direttive prestabilite. Il risultato finale relativamente a questo episodio fu considerato più che soddisfacente da entrambi (“meraviglioso” per Klein).89 2014. pp. 201 e ss. 88 Klein consente a mio padre il compito di giudicare la progressione temporale dello svolgimento delle riprese. E mio padre si impegna a rispettare il montaggio e il taglio del girato secondo le indicazioni stabilite dalla sceneggiatura di Klein. Foglio di produzione privata senza data, in R. De Berti, Yves Klein e Paolo Cavara, in Klein/Fontana, Catalogo della mostra. Electa 2014 p.213. 89 Ibidem. 157

b) Klein sapeva, come da intestazione del contratto, che l’opera sarebbe confluita in un film co-diretto da mio padre chiamato La donna nel mondo prodotto dalla Cineriz di Angelo Rizzoli (e che poi sarà Mondo cane, ma all’epoca il materiale girato avrebbe potuto essere destinato indifferentemente all’uno come all’altro progetto). Non è forse abbastanza esplicito nelle lettere ma quello che appare in definitiva possibile è la scelta implicita di realizzare due documentari: uno, integrale, di 40 minuti, da riprodurre in 16 mm e da inviarsi a Klein, e un altro destinato al grande schermo, al quale già mio padre lavorava da tempo, che avrebbe dovuto contenere parte della performance delle modelle.90 Che la versione lunga non potesse essere quella definitiva per il film-documentario è dato dal fatto che Klein non poteva non sapere (e mio padre ne era pienamente consapevole) che il film per la Rizzoli, si trattasse di Mondo cane o La donna nel mondo, si componeva di spezzoni di filmati brevi in giro per il mondo, e che quindi non avrebbe potuto ospitare un segmento di 40 minuti, come invece per la versione da ridurre in 16 mm. Oltre che fuori contesto sarebbe stato illogico. Ciò chiarisce anche il fatto che le disposizioni tra il pittore e mio padre non potevano che riguardare la realizzazione della performance nella sua edizione per intero e debbano quindi considerarsi rispettate. Si trattava dunque inevitabilmente di tagliare e rimontare cosa era stato girato nella versione integrale con un ottica più “cinematografica”, ma non per questo insana o sacrilega, per il nuovo documentario. I contesti erano per forza differenti. Per sintetizzare potremmo dire: spiritualizzazione dell’arte pittorica da un lato nella versione dedicata a Klein; “stravaganza” e ragionato edonismo per un documentario che fin dall’origine esibisce questi connotati. E’ un’ipotesi, certo, ma nel segno della ragionevolezza. Comunque sia, Klein prende nettamente posizione e passa dall’ammirazione incondizionata per il progetto nella sua versione integrale al biasimo senza sconti per la versione breve inserita in Mondo cane proiettata a Cannes. A quanto riferisce la stampa non avrebbe gradito 90

Mio padre ricevette da Klein, in attesa forse del “dono” del film promessogli, o per la stima maturata durante la lavorazione della performance, un suo quadro, non un “blu”, ma una tela creata sulle differenze di colore marrone, come ricordava mia madre Annamaria, e che in seguito mio padre dovette vendere per ragioni economiche. 158

la sensualità delle immagini (che però è quella stessa del film originale), il montaggio devastante, il commento fazioso o irrisorio e la musica indesiderata e fuori dal contesto originario. Che a Klein Mondo cane non fosse piaciuto è assolutamente legittimo. Che vi abbia visto un’inopportuna rilettura e ricollocazione della sua opera è in parte comprensibile. Del resto l’episodio delle modelle come tutto il film, nonostante le intenzioni dichiarate dagli autori di Mondo cane, non era all’insegna “le cose sono come le mostriamo”, ma le cose “le vediamo in questo modo piuttosto che in un altro”. Ma in esso non c’era né esplicita irrisione, né volontà di calunnia. Semplicemente la versione breve vuole essere altra cosa, e certamente non è ciò che Klein avrebbe voluto. La situazione però è destinata a precipitare: la visione del film – come si è accennato – arriverebbe a provocare nell’artista un infarto mortale. Eppure che prova si ha di ciò? C’è qualcosa di non chiaro, un bisogno di voler estremizzare le cose, un’innaturalità nel porle e riferirle che per prima non sarebbe piaciuta a mio padre. In questo contesto c’è anche la scomparsa o il “sequestro” della versione lunga dell’episodio da parte della Cineriz nonostante Klein prima e sua moglie dopo avessero ripetutamente chiesto a mio padre di aver copia del filmato senza che egli riuscisse a farla inviare. Per quale motivo la Cineriz si è rifiutata di consegnare il materiale girato da mio padre? Lo ha fatto per evitare eventuali ritorsioni giudiziarie da parte di Klein e di sua moglie dopo l’uscita del film Mondo cane nelle sale, o più semplicemente per evitare il rischio di oscurare a livello di polemica il nome di Jacopetti nell’operazione a vantaggio di quello di Cavara? E qui giungiamo al secondo punto della questione: il tentativo mediatico e organizzativo di voler a tutti i costi far rientrare Jacopetti nel progetto (peraltro non solo relativamente al montaggio e al commento parlato – nonostante nella realizzazione materiale egli fu assente o infecondo) secondo la vulgata della dissacrazione e del compiacimento morboso. Jacopetti non apprezzava Klein, ma il suo tentativo di ridicolizzarne l’opera e la personalità non giunge a compimento nel film. Se si guarda con attenzione l’episodio delle modelle si osserva che:

a) Il montaggio della versione breve (ascrivibile a Jacopetti come da “titoli di testa”, ma condotto “secondo le regole”, da far pen159

sare – come per molti altri esempi nel film – possa essere stato fatto da altri) non presenta alcuna forzatura o artificiosità alla “blob” nella piena alternanza di particolari e campi lunghi e con già il precedente montaggio dell’opera intera. Non c’è né drastica contrapposizione, né irruzione dell’imprevedibile. Questo vale anche per ciò che precede e segue l’episodio: rispettivamente l’interno di una mostra di oggetti inconsueti nella stessa Parigi, e – con dovuto distacco – una celebrazione a Tahiti fornita da alcuni turisti. b) Il tema “More” è ben lontano dall’essere il Monotono della versione lunga, e indubbiamente il tono “leggero” stravolge la destinazione primaria dell’opera, ma gli conferisce una parvenza di romantica decadenza, non certo di satira o di farsaccia. c) Il commento parlato ha un inizio assolutamente esplicativo e neutro (il blu è il colore dell’artista, blu sono le sue modelle …), viene sommerso dalla musica, poi riprende terminando con un accento che lascia trapelare la possibilità di un’ironia non proprio desiderabile laddove si accenna al fatto che il quadro di Klein sarebbe stato venduto a una galleria a un prezzo memorabile. Accenno peraltro stornato dal clima ben diverso introdotto dalla musica e dalla “serietà” delle immagini. Tutto qui. Chi parla di pesante sarcasmo, violenza, irrisione… non sa quello che dice o è in totale malafede. Che mio padre tenesse entro certi limiti sotto controllo il montaggio della performance mi pare evidente – non deve essere stato l’unico caso – e può essere servito efficacemente a stornare le velleità di Jacopetti che non lascia rilevante impronta di sé nel frammento delle “modelle” confluito nel film-documentario (la testimonianza peraltro della presenza di mio padre in sala di montaggio è testimoniata dallo stesso Ortolani).91 Il ruolo organizzativo svolto per conto della Cineriz da mio padre deve avergli poi permesso di avere voce in capitolo riguardo alla colonna sonora. In tal caso mi pare giusto ricordare che a mio padre “More” non dispiaceva affatto. Ne è testimone sempre Ortolani che riferisce dell’apprezzamento rivoltogli da mio padre per il lavoro svolto, e il fatto che nel 45 giri della colonna sonora del film mio padre stesso 91

In S. Loparco, Riz Ortolani, Katyna e io, in www. stefano.loparco wordpress. 160

in sala di incisione accompagnò con le sue parole la fine del brano dichiarando: ”Quella che avete sentito è la colonna sonora del film Mondo cane.” Nessuno lo avrebbe mai costretto a farlo se non fosse stato d’accordo.92 Nella sostanza non c’è un montaggio “alla Jacopetti”: per rendersene conto basta comparare questa scena con quella del quadro formato dagli sputi in Mondo cane n.2 – quasi una replica a Klein! (dei soli Jacopetti e Prosperi) laddove sarcasmo, cattivo gusto e imbecillità la fanno da padrone; o per rimanere al primo Mondo cane il frammento che mischia in maniera cinica e sgradevole la scena dei moribondi segregati di Singapore girata da mio padre con l’ilarità degli eredi che festeggiano aspettando la loro dipartita, in un’alternanza interno/esterno che arriva persino a spezzare la colonna sonora. Con Klein siamo in un altro clima. L’influenza di Jacopetti si fa sentire appunto alla fine del commento, ma è davvero poca cosa (anche se può aver fatto scalpitare Klein) e non sembra comunque sovrastare. La critica manichea ha cercato in tutti i modi di attribuire insensatamente al giornalista di Barga ogni cosa di Mondo cane e La donna nel mondo, ma non è riuscita a convincere mai davvero. Tanto meno per quello che riguarda l’inserimento dell’episodio di Klein. Non potendo dire che il regista materiale era lui (perché i fatti parlano chiaro), ha cercato di dimostrare che nonostante tutto la sua influenza c’era comunque e quell’episodio era un obbrobrio, una provocazione o un gioiello (a seconda della visione del critico). Ma c’è dell’altro. Impedito nella volontà di stravolgere l’intento “serio” comune alla realizzazione di mio padre per i due filmati, e di Klein, solo per il primo, Jacopetti tenta in anticipo di denigrare l’opera dell’artista polacco, prima che Mondo cane esca nelle sale. Sapendo che Klein all’epoca ospitava una mostra a Milano fa uscire il suo cinegiornale “Ieri, oggi e domani” in cui si parla della performance delle modelle che comparirà nel film.93 Nel commento si gioca sull’ambiguità dei “…quadri del clown, pardon! di Klein…” che mettono lo spettatore di fronte “… a una pittura comica, 92

In realtà Ortolani lascia supporre, affermando che Cavara lo avrebbe contattato telefonicamente per gli apprezzamenti, un interessamento posteriore di mio padre all’operazione, di fatto smentito dal documento sonoro che attesta la sua presenza in sala di registrazione. Il disco uscì su supporto leggerissimo e mostrava nella copertina la scena di una giapponese con l’ombrello girata per La donna nel mondo. Per la testimonianza di Ortolani vedi Fogliato, Paolo Cavara… cit. pp.141-142. 93 Ieri, oggi e domani n.143 con visto di censura del 4 gennaio 1962, in De Berti, Yves Klein e Paolo Cavara, cit. 161

pardon! cosmica…” nella speranza di pregiudicare la visione del pubblico di fronte a una rappresentazione (quella del film) per nulla dissacrante. Ma il confronto non lascia dubbi sulle differenze. Quello che invece emerge prepotentemente (considerazione estendibile in toto a quei primi docu-film in cui alla direzione c’è mio padre) è la forza delle immagini e della musica in perfetta sinergia e che in quell’episodio evidenziano quasi un tono straniante e decadente. Sono le immagini sensuali (da Klein rinnegate), l’eleganza di impianto, la leggerezza e la grazia dei movimenti e dei volti delle donne immerse nel blu, il calore che sprigionano suoni e colori a rivelare la capacità e lo stile registico di mio padre.94 E quel binomio immagine/musica è – più in generale – costante del film nel bene e nel male, ed è ciò che ne determina probabilmente il successo al botteghino, al di là della visone d’insieme di un’opera che a tratti nasconde la sua trivialità dietro l’eleganza e il fascino di un mondo esplorato nelle sue seppur “discutibili” stravaganze. Se si fosse trattato solo di montaggio effettistico e di commento ironico e strafottente (unici elementi caratterizzanti per parte della critica ufficiale, o essenziali per altri – e detto con tutto rispetto – con buona pace di Moravia e di chi la pensa come lui) Mondo cane non avrebbe avuto più fortuna di uno dei tanti cinegiornali di Jacopetti. E oggi si sa che non è così. Certo il Klein di Mondo cane è assai diverso dal Klein che si conosce e di quello che probabilmente è emerso nella lunga versione in 16 mm, ma ciò non toglie che il suo episodio sia tutt’altro che un’oscenità, ma piuttosto una calata nell’edonismo cinematografico con le sue sirene e le sue ambiguità, una parentesi naif, cavariana, come ricordato, che nulla toglie alla sua arte pur rivelandone un lato insolitamente estroso ed elegante.

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La sensualità dei gesti delle modelle la ritrovo, per fare un esempio, nell’inizio de La tarantola dal ventre nero, che mio padre diresse dieci anni più tardi di Mondo cane. C’è la stessa cura ed eleganza, la stessa leggerezza stilistica nel tratteggiare visivamente il corpo di Barbara Bouchet sul lettino del massaggiatore. 162

KLEIN/CAVARA: LA SENSIBILITÀ DELL’IMMAGINAZIONE

La narrazione cinematografica è il mezzo per trasmettere emozioni attraverso la proposizione di un evento reale, immaginario o verosimile. Lo sviluppo della storia è demandato all’ispirazione e alle intenzioni comunicative dell’autore, il quale esercita un totale controllo sull’istanza narrante organizzata attorno allo sviluppo dei modelli narrativi da lui stesso ipotizzati. Anche nel cinema antinarrativo questi parametri generali non possono che essere rispettati, ma quest’ultimo – a differenza di quello narrativo – ha la possibilità di interagire e, soprattutto, di addizionare, elementi formali – facendo chiaramente a meno sia della narrazione che della presenza dei personaggi – dando ugualmente la sensazione (a chi guarda) di una articolazione logica (non necessariamente cronologica) finalizzata ad una risoluzione. Non esiste dunque, sia per quanto riguarda il cinema narrativo che quello antinarrativo, la possibilità di elidere il concetto di rappresentazione, nel cui susseguirsi delle immagini si coniugano connessioni temporali e spaziali, ma anche relazioni di causa ed effetto. A costruire queste connessioni, sia dal punto di vista contenutistico che da quello formale, provvede il montaggio attraverso meccanismi di connessione e disgiunzione. La funzione semantica del montaggio è quella di produrre la diegesi, ovverosia di definire lo spazio filmico all’interno del quale si consuma l’azione in relazione alle variabili spaziali e temporali. Quando questa funzione è applicata ad un significato connotativo (cioè specifico all’interno di un campo semantico) il risultato è quello di una produzione di nessi casuali, comparazioni, e parallelismi tra i diversi elementi della messa in scena. In quest’ottica se l’elemento preso in considerazione – a carattere generale – è quello dell’azione, il montaggio ha il preciso compito di stabilire delle correlazioni e delle continuità tra i singoli gesti che la compongono. Nel 163

passaggio da un’inquadratura all’altra (in campi o piani diversi) il gesto deve mantenere la stessa velocità, frequenza e direzione. Il raccordo effettuato sul movimento gestuale produce quindi sia un effetto semantico che sintattico nel momento in cui si sviluppa sia sul piano narrativo che grammaticale (l’indifferenziazione – nel passaggio da un piano all’altro – rispetto alla continuità del movimento). La composizione filmica, organizzata attraverso il montaggio, dunque prevede che, ad una prima fase di selezione dei materiali, ne seguano due diverse (ma connesse) come quelle di assemblaggio e di raccordo il cui scopo è quello di organizzare le inquadrature in un discorso costruendone la successione e definendo la durata e la frequenza della medesima. Se questo principio viene applicato al frammento filmico, cioè allo sviluppo di un segmento narrativo compiuto che, successivamente, sarà integrato in un contenitore costituito da tanti altri segmenti, il risultato sarà quello di avere un’unità narrativa di per sè autonoma ma che, contemporaneamente, necessità di un “prima” e un “dopo” a cui essere collegata per trovare collocazione e autonomia di significato. Il segmento è quindi un’unità narrativa di tipo polisemico95 indirizzata a costruire un discorso (narrativo o non) e -solo in un secondo tempo – a definire una rappresentazione. Fatta questa doverosa premessa, è necessario considerare Mondo cane come un “discorso” e non una “rappresentazione” definendo come, in quest’ottica, il rilievo del famigerato “montaggio jacopettiano” sia del tutto ininfluente ai fini della costruzione della narrazione. Il montaggio antifrastico indirizzato a suscitare un effetto shock in chi guarda, infatti, esercita tutte le sue attenzioni sulla rappresentazione disinteressandosi completamente della continuità e compattezza del discorso filmico. In quest’ultimo aspetto, assume grande importanza la presenza della mano di Paolo Cavara - il quale già indirizzato verso l’idea di un cinema di finzione, narrativo e sintatticamente e semanticamente compiuto - dei tre realizzatori di Mondo cane è l’unico che possiede gli strumenti del linguaggio filmico per organizzare il discorso narra95

Secondo S. M. Ejzenstejn il frammento è considerato come elemento della catena sintagmatica del film; è concepito come scomponibile in un gran numero di elementi materiali, corrispondenti ai diversi parametri della rappresentazione filmica (luminosità, contrasto, “grana”, “sonorità grafica”, colore, durata, grandezza del quadro, ecc.), e questa scomposizione è considerata come mezzo di “calcolo”, di controllo degli elementi espressivi e significanti del frammento. [S.M. Ejzenstejn, La natura non indifferente, P. Montani (a cura di), Marsilio, Venezia, 1981] 164

tivo all’interno del film. Il contributo del regista bolognese alla realizzazione del segmento relativo alla performance delle Anthropométries dell’Epoca Blu di Yves Klein risulta quindi imprescindibile nel momento in cui si analizza tale segmento dal punto di vista della grammatica cinematografica: scomponendo il montaggio, suddividendo le azioni in singoli gesti, scorporando il concetto di rappresentazione e separando il contenuto dell’immagine dal testo del commento parlato. Da questo punto di vista emerge una grande sintonia tra le modalità operative del grande artista francese e quelle di Paolo Cavara. Il tema su cui Cavara e Klein trovano la sintesi del loro approccio creativo è quello della sensibilità96 declinata sia nei confronti dell’arte che della vita. Non solo, i due artisti attraverso la sensibilità attuano lo stesso approccio nei confronti della sensualità97 e dell’erotismo (inteso come stato di estasi) in modo da eliminare la distanza tra lo strumento tecnico (che riprende) e il corpo nudo (che agisce guidato dall’artista). Così come Klein utilizzando le modelle come pennelli-umani elimina il pennello come artificio che allontana il pittore dal quadro, così Cavara nel riprendere la performance di Klein elimina ogni barriera che separa il regista dai suoi attori. Entrambi sono registi di una messa in scena “teleguidata” a distanza, quindi con un punto di vista privilegiato, assoluto98 e onniscente. Questo garanti96

“Che cos’è la sensibilità?. Quella che esiste fuori dal nostro essere e che tuttavia ci appartiene sempre. La vita non ci appartiene; ma possiamo comprarla con la sensibilità che possediamo. La sensibilità è la moneta dell’universo, del cosmo, del disegno naturale che ci permette di acquistare la vita come una materia grezza. L’immaginazione è il veicolo della sensibilità. Trasportati dall’immaginazione arriviamo alla vita, alla vita vera che è arte assoluta”. Yves Klein in Hannah Weitemeier, Klein, Taschen GmbH, Koln, 2002 (trad. italiana) 97 “La modella nuda apporta sensualità nell’atmosfera. Attenzione! Non sessualità! La modella crea quel clima sensuale all’interno dell’atelier, ed eventualmente all’esterno, che permette di stabilizzare la materia pittorica. Il buonsenso, quando l’artista si rinchiude nelle sfere della creazione artistica, non rompe del tutto con il centro di gravità dei valori carnali intesi secondo la vera fede Cristiana, che dice appunto: “Credo all’incarnazione del verbo, credo alla resurrezione dei corpi”, affermazione in cui si trova anche il Vero senso del teatro del Verbo: il Verbo è la carne! Ho quindi ingaggiato delle modelle, ho fatto delle prove; era tutto molto bello. La carne, la delicatezza della pelle viva, il suo colore straordinario e al tempo stesso paradossalmente incolore mi affascinavano”. Yves Klein, Vieni con me nel vuoto in Yves Klein, Verso l’immateriale dell’arte, O barra O edizioni, Milano 2009. 98 Klein racconta così il primo esperimento con i pennelli-umani effettuato il 27 gen165

sce loro la possibilità di esercitare il controllo assoluto sulla creazione in tutte le fasi di realizzazione. Ecco quindi che, il montaggio del segmento su Klein presente in Mondo cane non può che essere opera di chi ha effettuato le riprese, cioè Paolo Cavara. In questo senso la scelta di concentrare l’attenzione più sui corpi nudi delle modelle che sul divenire dell’opera stessa risulta finalizzata a costruire un discorso sulla sensualità insita nella creazione dell’opera d’arte che – a differenza di quanto detto e scritto all’epoca – non svilisce l’arte di Klein, bensì la esalta a dismisura portandola ad una dimensione spirituale altrimenti irraggiungibile. Non solo, è la costruzione del montaggio stesso del segmento a testimoniare l’ammirazione di Paolo Cavara nei confronti di Yves Klein (e più in generale dell’arte) quando utilizza l’espressione di stupore e incredulità dei musicisti intenti ad osservare ciò che si compie sotto i loro occhi: la riproduzione, impressa su tela, della perfezione di carne e spirito dell’essere umano99. La scelta di concentrare la propria attenzione – e quella della macchina da presa – sulle modelle nude, pertanto, non ha nulla né di sessuale né, tantomeno, di erotico, bensì rappresenta la focalizzazione della sensualità nel suo divenire. Il montaggio del segmento seziona e frammenta ogni azione in singoli gesti - talvolta persino minimali - per raccordare il movimento attraverso un’alternanza di campi e piani studiata con l’obiettivo di costruire un discorso (e non una rappresentazione) sull’arte nel suo farsi. A Paolo Cavara, non interessa tanto documentare la performance dell’Anthrohométries, quanto mettere in scena naio 1958 nell’appartamento di Robert Gidot, suo amico e grande maestro di judo: “Ho gettato la grande tela bianca per terra, ho svuotato al centro venti chili di blu e la modella ci si è letteralmente buttata dentro; ha dipinto il quadro con tutto il corpo rotolandosi in tutti i sensi della superficie della tela. Io dirigevo l’operazione in piedi, girando velocemente tutt’intorno a quella fantastica superficie stesa a terra e guidando tutti i movimenti e gli spostamenti della modella. La ragazza talmente inebriata dall’azione e dal blu visto così da vicino e in contatto con la sua carne, finiva per non sentirmi più urlare: “Ancora un po’ a destra, qui, ritorni qui rotolando da questo lato, questo spazio non è ancora coperto in quell’angolo lì, venga ad applicarvi il seno destro, eccetera… Non c’è mai stato nulla di pornografico, di amatoriale in queste sedute fantastiche; una volta terminato il quadro la modella si faceva il bagno”. Ibidem 99 “La forma del corpo umano, le sue linee, i suoi colori tra la vita e la morte mi interessano; io mi preoccupo esclusivamente dell’atmosfera affettiva. Quello che conta è la carne…! E’ vero l’intero corpo umano è costituito di carne, ma la sua essenza sta nel tronco e nelle cosce. E’ qui che si trova il vero universo. Creazione latente”. Yves Klein in H. Weitemeier, op. cit. 166

l’impossibile: la progressione degli stadi creativi che, attraverso la sensibilità dell’artista, portano al compimento dell’opera d’arte che (non a caso) come un mistero rivelato si manifesta nella sua interezza solo nell’ultima inquadratura - nel momento cioè del suo staccarsi dallo spirito dell’artista per entrare nella dimensione materiale (e materialistica) dell’esposizione e del mercato. In definitiva, si deduce quindi, come tanto il commento parlato100 – a volte greve, altre volte sarcastico (ma va detto mai offensivo), - quanto la sostituzione della “Sinfonia Monotona” di Klein con l’arrangiamento di “More”, risultino del tutto ininfluenti ai fini del discorso diegetico sull’opera d’arte portato avanti da Cavara. Gli elementi sonori extradiegetici appartengono alla sfera della rappresentazione e pertanto non incidono minimamente né sul discorso filmico né sul montaggio del segmento. Quello che conta sono le immagini, il loro contenuto e il modo in cui sono montate. La scomposizione, inquadratura per inquadratura, del segmento della durata di 3’ e 08’’ risulta essere fondamentale per comprendere la poetica di Paolo Cavara e come questa sia perfettamente non solo applicabile bensì intrinseca alla creatività di Yves Klein. Inq. n° 01 (50’’) – [da F.I. a C.T.] La long-take si apre con lo schermo interamente blu. Yves Klein entra in scena da destra dell’inquadratura. Un carrello a precedere segue l’azione dell’artista che lancia la sua Sinfonia Monotona per poi mostrare gli archi che cominciano a suonare. Il movimento di macchina prosegue con una panoramica verso destra sulle modelle che si rico-

100

Testualmente così trascritto nelle quattro parti in cui è diviso lungo lo scorrere della sequenza: [Inq. 1-3] “Il pittore cecoslovacco [sic!] è pronto. La musica gli ha dato la carica. Queste modelle che si stanno spalmando di vernice sono i pennelli umani con cui tra poco Klein darà una forma e un colore alla sua febbre creativa”. [Inq. 4-8] “Come forse qualcuno avrà intuito, il colore preferito da Klein è il blu. Anche la sua forma preferita è il blu, anzi il blu è la sua unica forma e il suo unico colore. Blu sono i suoi quadri che vanno a ruba a Parigi e blu, infine, è l’opera alla quale il nostro obiettivo si sta avvicinando, considerato da molti autorevoli critici massimo capolavoro di Klein e, nella quale, l’intenditore può facilmente indovinare che il blu è il colore dominante”. [Inq.11] “Grondanti di blu i pennelli umani vanno a lasciare la loro impronta sulla tela mentre Klein li guida da lontano con il fluido del suo genio creativo” [Inq. 18-19] “L’opera che abbiamo avuto il privilegio di ritrarre in tutte le fasi della sua creazione è in vendita per soli quattro milioni di franchi”. 167

prono il corpo di colore blu (la musica extradiegetica passa dalla “Sinfonia Monotona” a “More”). Inq. n° 02 (07’’) – [C.M.] Inquadratura dal basso (a livello pavimento) delle gambe delle modelle dipinte di blu. Sulla sinistra, tra i corpi delle donne, si vede Klein - in piedi e in attesa - in profondità di campo. Inq. n° 03 (08’’) - [Part.] Particolare ginocchio-polpaccio della modella che si spalma il corpo di blu. Inq. n° 04 (06’’) – [C.M.] Inquadratura prospettica – ad altezza pavimento – delle modelle intente a terminare di dipingersi il corpo di blu. Inq. n° 05 (06’’) – [P.P.P.] Il volto della modella (ripreso lateralmente). Sullo sfondo (fuori fuoco) i corpi delle modelle dipinte di blu. Inq. n° 06 (05’’) – [C.M.] I corpi delle modelle pronte a seguire le indicazioni del pittore. Sullo sfondo – in profondità di campo – i musicisti intenti a suonare. Inq. n° 07 (05’’) – [C.M. – Part.] Parti dei corpi dipinti interamente di blu delle modelle. Inq. n° 08 (15’’) – [M.F.] Inquadratura laterale con carrello a seguire: mostra i musicisti che suonano. Chiusura del carrello sul monocromo blu (a tutto schermo). Inq. n° 09 (10’’) – [C.T. – F.I.] Dissolvenza incrociata. Ripresa – da dietro la tela – delle modelle che imprimono il colore con il loro corpo. Inq. n° 10 (06’’) - [C.T. – F.I.] Stesso contenuto dell’Inq. 09. Ripresa dal basso verso l’alto con inclinazione di 45° rispetto alla tela.

168

Inq. n° 11 (20’’) – [Part. - P.P.P. – Part.] La mano dipinta di blu della modella striscia sulla tela – una panoramica segue il movimento e si chiude sui volti ripresi in diagonale delle modelle. La panoramica prosegue fino a stringere sulle mani di una modella che guidano il corpo di un'altra – tenendola ai fianchi – mentre imprime il colore sulla tela. Inq. n° 12 (04’’) – [M.P.P.] Sguardo estatico di due musicisti su sfondo blu. Inq. n° 13 (10’’) – [Part. – C.M.] La mano di una modella guida il braccio di un’altra modella – breve panoramica ad allargare. Il movimento si chiude sullo stesso gesto compiuto da tutte le modelle in armonia (riprese in serie). Inq. n° 14 (04’’) – [P.P.P.] Sguardo estatico di due musicisti – Ripresa con fuoco e controfuoco. Inq. n° 15 (03’’) – [P.P.] Volto di una modella bionda che ondeggia al ritmo della musica. Inq. n° 16 (03’’) – [Part.] Braccia delle modelle che imprimono il colore sulla tela. Inq. n° 17 (04’’) – [P.P.P.] Musicista che suona – Ripresa con fuoco e contro-fuoco tra la mano sulla tastiera del violino e il suo volto. Inq. n° 18 (08’’) – [Part. – M.P.P.] Ripetizione Inq.11 nella parte finale della panoramica. Breve panoramica a salire su ripresa laterale dei corpi delle modelle. Inq. n° 19 (04’’) – [C.T.] Ripetizione Inq. 09 – (su quadro ultimato). Le modelle, terminato il dipinto si allontanano dal quadro – ripreso da dietro la tela e mostrato a schermo intero. Il discorso che emerge dall’alternanza di campi medi e piani ravvicinati, totali e particolari, inquadrature fisse e movimenti di macchina, 169

angolazioni e riprese frontali, riproduce cinematograficamente il significato di sinfonia101 (perfettamente aderente alle intenzioni “musicali” del pittore francese). La frequenza con cui sono orchestrati gli stacchi e l’alternarsi delle durate medie delle inquadrature testimoniano delle intenzioni musicali di Paolo Cavara nel definire la narrazione all’interno del discorso filmico sulle Anthropométries di Yves Klein. Lo svilupparsi della sequenza ha un andamento ritmico e sinuoso così come l’intrecciarsi dei piani fissi e dei movimenti di macchina restituisce il senso pieno del dinamismo dell’azione creativa. Paolo Cavara quasi si sostituisce a Klein: se nella realtà è il pittore a guidare le modelle, nella finzione (ripresa della realtà) è il regista bolognese a costruire una sua visione della creazione in corso d’opera. Quest’approccio – quasi empirico - all’arte nel suo farsi testimonia ancora di più il talento di Paolo Cavara nel saper cogliere attraverso l’immagine tutta la sensibilità interna alla pittura dell’artista francese. Tutti i piani ravvicinati restituiscono appieno la sensualità dell’Anthropométries attraverso una serie di stacchi che contribuiscono a definire - mediante il montaggio - i fuochi di interesse artistico di Klein e riproducono, nella frammentazione, le parti del corpo che definiscono la potenza figurativa e spirituale della performance pittorica in questione. I movimenti di macchina sono finalizzati, invece, a stabilire una correlazione tra le indicazioni di Klein e il compito eseguito dalle modelle: il risultato è quello che porta all’eliminazione della barriera/ distanza spaziale che separa il pittore dai suoi “pennelli” – è come se al posto di quelle delle modelle che guidano le colleghe ci fossero le mani “ideali” di Klein che le accompagnano verso il compimento della creazione. I due stacchi in campo totale che mostrano rispettivamente la tela bianca prima e l’opera conclusa poi, quindi, altro non sono che un passaggio obbligato necessario per restituire allo spettatore tutto lo stupore e l’ammirazione per ciò che si compie davanti ai suoi occhi. Cavara costruisce un meccanismo di suspance emotiva attraverso cui, fino alla fine, lo spettatore non ha assolutamente idea di quale sarà il risultato artistico. Egli mette in atto il meccanismo di interesse e disvelamento – centro attrattivo dello spettatore ignaro del 101

Il primo e l'ultimo movimento sono quasi sempre nella stessa tonalità (che è per definizione quella dell'intera sinfonia), mentre per i movimenti centrali è presente una variabilità notevole; se la tonalità d'impianto è minore, il movimento lento è molto spesso nel relativo maggiore, mentre se la sinfonia è basata sul modo maggiore esso è di solito nella tonalità della dominante o della sottodominante. 170

contenuto della sequenza – attraverso la frammentazione del corpo femminile che così diventa a sua volta opera d’arte nel suo rivelarsi per segmenti, nel suo mostrarsi nel rapporto colore/pelle umana e nel calore che trasmette il contatto con la tela. C’è evidentemente qualcosa di cosmico (intrinseco all’arte di Klein) che solo un regista capace di sublimare la stessa sensibilità del pittore francese è stato in grado di cogliere e di ricostruire in un discorso filmico di rara efficacia e potenza. Ecco perché la “rappresentazione jacopettiana” non riveste alcuna rilevanza all’interno di questo segmento (ma anche in altri di Mondo Cane), perché è pura superficie, apparenza che non scuote mentre l’intensità del discorso di Paolo Cavara coinvolge al limite dell’ipnosi (in questo aiutato dal Blu102 di Klein), lasciando nello spettatore una strana sensazione in cui si mescolano stupore e turbamento.

102

Yves Klein ha fatto del colore blu, da lui brevettato come International Klein Blue (IKB) e presentato per la prima volta nel '57 da Iris Clert, tempio dell'avanguardia francese, il filo conduttore delle sue opere monocrome, rigorosamente blu. Con il blu, il colore dell’ “infinità energetica del cielo”, dell'armonia interiore, vuole rappresentare il vuoto come essenza della purezza. Il blu rappresenta per Klein la sua ricerca di universalità, nell'arte, nella vita, nella natura, nel profondo blu del cielo, del mare e dei suoi celebri monocromi. 171

ANTONIONI/CAVARA: ICONOGRAFIA E STRUTTURA DELLA RAREFAZIONE SPAZIO-TEMPORALE

Nel prendere in considerazione le categorie spazio e tempo all’interno del cinema di Paolo Cavara non si può non notare come il regista bolognese abbia come riferimento cinematografico quello di Michelangelo Antonioni. Anzi, ci si può spingere a dire come per un certo periodo della sua carriera - quello che intercorre tra il 1967 e il 1971 con i film L’occhio selvaggio, La cattura e La tarantola dal ventre nero - Paolo Cavara e Michelangelo Antonioni lavorino parallelamente sia sugli stessi temi che su una simile modalità di proposizione degli stessi. I due registi considerano lo spazio non come un elemento secondario o marginale della messa in scena ma come uno dei due motori narrativi e formali attorno a cui si sviluppa il loro cinema. Lo dimostrano l’utilizzo funzionale degli interni e il ruolo attivo degli esterni che, nelle opere circoscritte quel periodo103, per entrambi i cineasti diventano il vero elemento primario e autonomo del racconto cinematografico. L’utilizzo degli oggetti che Cavara e Antonioni fanno rispettivamente in L’occhio selvaggio e Blow-up è finalizzato ad eliminare tanto la loro utilità, quanto il loro utilizzo fuori dall’ambiente di riferimento104 con il risultato di divenire semplici strumenti inerti neanche mera proiezione di un desiderio. Lo spazio, gli oggetti e persino le persone nei due film diventano semplicemente cose funzionali

103

Per Michelangelo Antonioni sono Blow-up (1966) e Zabriskie Point (1970) La macchina da presa ne L’occhio selvaggio, quando non è in funzione o non serve al proprio compito non è neanche mostrata così come la chitarra lanciata in mezzo al pubblico in Blow-up, fuori dalla sala concerto perde ogni valore per diventare semplice rifiuto. Tema poi ripreso anche ne La tarantola dal ventre nero con l’inutilità dei mobili che devono essere cambiati (e, nel frattempo, sostituiti da surrogati funzionali) 104

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ad ottenere un risultato e altrimenti inservibili.105 Allo stesso modo il tempo (tanto quello vuoto che quello pieno) risulta essere un dato non recuperabile e non controllabile, qualcosa che sfugge al volere degli individui e si manifesta sotto forma di entità astratta totalmente priva di significato106. Per entrambi i registi la pianificazione – tanto quella esistenziale che lavorativa – del personaggio principale è destinata a soccombere e a non trovare compiutezza e raggiungimento dell’obiettivo a causa della presenza di un tempo che rappresenta solo la “permanenza del possibile” ma che non è mai pienamente vivibile. Sia Paolo ne L’occhio selvaggio che Thomas in Blow-up trovano la loro incompiutezza proprio nel dato temporale e pertanto non possono che rimanere sospesi tra determinismo e (im)possibilità di scelta107. Anche tecnicamente il rapporto spazio/tempo viene definito e utilizzato nello stesso modo tanto da Cavara che da Antonioni: nell’utilizzo di long take e piani sequenza, nel fare ricorso ad inquadrature vuote in cui non solo non avviene nulla ma anche l’utilità del gesto (o della parola) viene eliminata, lasciando ampio spazio ad un silenzio espressivo e a componenti diegetiche come la leggera brezza del vento.108 Altro elemento determinante nella costruzione del rapporto spazio/tempo è quello della digressione, cioè di mostrare (o far percepire) qualcosa che è estraneo alla messa in scena corrente.109 In de105

Ne L’occhio selvaggio Paolo trasforma le persone in cose – come nel caso di Barbara a cui dice “può servire a fare l’amore, a tenere compagnia a presenziare nel mio film…” mentre in Blow-up Thomas chiama le modelle “bambole” le tratta come tali e le fa attendere ore con gli occhi chiusi mentre lui se ne va in giro dimenticandosi di loro. 106 Ne L’occhio selvaggio l’inutile attesa dell’esplosione all’hotel di Saigon, in Blow-up la rarefazione temporale all’interno del parco. 107 In entrambi i film è il finale a dimostrare questo dato. 108 Così avviene sia per la sequenza nel deserto de L’occhio selvaggio che per quella nel parco di Blow-up. 109 In questo caso le similitudini maggiori si trovano tra Blow-up con le visite dall’antiquario e quelle a casa dell’amico – ma anche i giri in macchina per il quartiere - da parte di Thomas e La tarantola dal ventre nero con il personaggio di “catapulta”, la falsa pista della droga, le inquadrature che mostrano Laura (Claudine Augier) in giro per la città. Digressione che assume tutt’altro valore, invece, è quella che mostra il gruppo in cammino nel deserto durante i titoli di testa de L’occhio selvaggio. Qui, la reazione di fronte alla carcassa dell’animale – oltre a mostrare l’identificazione del gruppo con quella condizione mortuaria – innesca il pretesto per la subdola messa in scena di Paolo. Da notare che, circa dieci anni dopo, Brunello Rondi in Velluto nero 173

finitiva tra Paolo Cavara e Michelangelo Antonioni intercorrono, lo stessa idea di messa in scena nonché lo stesso concetto di visione e rappresentazione filmica; motivo per cui le parole del regista ferrarese - in merito a che cosa sia per lui il cinema - sono perfettamente riconducibili anche all’autore bolognese. “Vedere è per noi una necessità. Anche per il pittore il problema è vedere. Ma mentre per il pittore si tratta di riscoprire una realtà statica, o anche un ritmo se vogliamo ma un ritmo che si è fermato nel segno, per un regista il problema è cogliere una realtà che si matura e si consuma, e proporre questo movimento, questo arrivare e proseguire, come una nuova percezione. Non è suono: parola, rumore, musica. Non è immagine: paesaggio, atteggiamento, gesto. Ma un tutto indecomponibile steso in una sua durata che lo penetra e ne determina l’essenza stessa. Ecco che entra in gioco la dimensione tempo, nella sua concezione più moderna. E’ in questo ordine di intuizioni che il cinema può conquistare una nuova fisionomia, non più soltanto figurativa”.110 Ne consegue che la realtà non può essere ma può solo essere “imitata”111 e il demiurgo può scegliere di rifiutare questa imitazione oppure partecipare alla finzione (ma così scompare – come dimostrano i finali dei due film). L’indagine sulla realtà che i due film portano avanti è destinata a concludersi con un nulla di fatto: con il progredire verso il nucleo della sua essenza questa diventa sempre più inconoscibile e immateriale. In una dichiarazione del 1966 è lo stesso Antonioni ad affermare: “La realtà ci sfugge, muta continuamente. Quando crediamo di averla raggiunta, la situazione è già un’altra. Io diffido sempre di ciò che vedo, di ciò che un’immagine mi mostra, perché “immagino” quello che c’è al di là; e ciò che c’è dietro un’immagine non si sa. Il fotografo di Blow-up, che non è un filosofo, vuole andare a vedere più da vicino. Ma gli succede che, ingrandendolo troppo, l’oggetto stesso si scompone e sparisce. Quindi c’è un momento in cui si afferra la realtà, ma il momento dopo sfugge”. Non è così anche per Paolo (il regista de L’occhio selvaggio) che prima riprende l’attentato e poi subi(1976) utilizzerà la stessa situazione per dare vita al servizio fotografico osceno tra Gabriele Tinti e Laura Gemser. 110 Michelangelo Antonioni, Come “vede” un regista in La Stampa 06 Giugno 1963 111 Il documentario che Paolo sta girando ne L’occhio selvaggio, la partita a tennis mimata nel finale di Blow-up 174

to dopo vede morire Barbara sotto i suoi occhi ancora divisi tra la gioia per aver catturato la realtà e il dolore per la perdita della donna che, forse, crede di amare? (ma solo nel momento in cui lei non c’è piu’) Quindi, nella cornice dell’attentato, paradossalmente (come avviene per Thomas con l’ingrandimento) Paolo cattura, avvicinandosi, la realtà/finzione (perché ripresa dalla m.d.p.) della strage ma, proprio in quell’esatto momento, vede sfuggirgli dalle mani la realtà/realtà (perché rappresentata dall’innamoramento) della donna nonché della possibile felicità. Il collegamento tra L’occhio selvaggio e Blow-up, dunque non può essere limitato solo al piano formale del rapporto spazio/tempo, bensì deve essere allargato a quello semantico, creando una sorprendente (e inedita dal punto di vista degli studi sul film) continuità tra l’opera di Cavara e quella di Antonioni. Continuità che diventa parallelismo se si prende in considerazione un film come La cattura (1969) dove i temi dell’incomunicabilità, del silenzio e della rarefazione spazio-temporale acquisiscono i tratti assoluti di un discorso universale e filosofico. Quello che più accomuna i due registi ne La cattura e Zabriskie point è il rapporto uomo/ambiente, qui declinato secondo una struttura quadripartita: l’incontro, l’idillio, il fallimento e la morte. Posto che in entrambi i casi il prologo serve ad inquadrare i personaggi e il contesto di guerra112 in cui si muovono, l’ambiente assume oltre al ruolo di spazio-sfondo soprattutto quello di spazio-simbolo, concretizzazione di un concetto di libertà altrimenti negato. L’essenzialità delle due opere - ridotte ad un intreccio minimale dal punto di vista del racconto - è perfettamente funzionale al discorso dei due registi che hanno così la possibilità di lavorare sui volti, sui silenzi e sui rumori ambientali proponendo una dilatazione spazio-temporale che ben presto sfocia nell’astrazione. Ne consegue che lo spazio dell’innamoramento/idillio diventa rappresentazione di un valore primordiale attraverso cui l’amore sublima (e cancella momentaneamente) la morte. Ad entrambi i registi interessa indagare la dinamica di coppia in uno spazio utopico, e in un tempo minimo (ma che cinematograficamente è dilatato a dismisura). Nei due film si mescolano intenzioni di carattere fenomenologico – come quella di Cavara di indagare il rapporto tra nemici di sesso diverso chiusi nella gabbia temporale dell’abbandono – con un certa volontà 112

In La cattura è il fronte orientale sul finire del ’43 mentre in Zabriskie point la contestazione studentesca di fine anni ’60. 175

analitica che non diventa, opportunamente, mai spiegazione chiara ed esplicita. Sia Cavara che Antonioni limitano in La cattura e Zabriskie point il discorso sociologico ad una parte marginale del film. Lo fanno giocando abilmente con gli opposti, e costruendo un tessuto narrativo minimale ma sofisticato in cui l'essere umano emerge dalla propria condizione di “essere meccanico” addestrato alla guerra e all'obbedienza113 per riappropriarsi (attraverso la trasgressione) della sua natura umana di essere senziente e ragionevole. Per Paolo Cavara e Michelangelo Antonioni qualsiasi guerra è un abominio, che non esiste solo durante il conflitto, ma è qualcosa che persiste all'interno della società. Per questo tutti e due ricorrono all'astrazione della messa in scena: identificano un luogo, volutamente irreale, in cui al candore innevato e alla sabbia bianca della superficie si contrappone uno spazio ristretto, oscuro e frazionato da cui, per l'essere umano è impossibile tanto uscire quanto divincolarsi dalla presenza metafisica del Male. Paolo Cavara mette in scena uno spazio minaccioso ed incombente durante il conflitto - in cui gli uomini si muovono nascosti e protetti dal bosco fitto e impervio - mentre si riappropria della sua bellezza quando i due innamorati lasciano a briglia sciolta i loro sentimenti. Non è casuale, infatti, che durante le scene di guerra gli uomini vengano ripresi sempre piccoli, schiacciati dalla presenza incombente della natura, grigia e nebbiosa, mentre nella seconda parte del film, il sole illumini e riscaldi la relazione tra Anja e Holmann, che si muovono nel paesaggio come se ne fossero loro stessi i padroni e come se questo altro non fosse che la manifestazione concreta del loro desiderio.114. Sul piano strutturale c’è più di un punto di collegamento tra Blow-up e La tarantola dal ventre nero. I due registi sono esclusivamente interessati al meccanismo di base del giallo115 al punto che da una parte è 113

In La cattura quella di tipo militare imposta dall’appartenenza mentre in Zabriskie point quella del conformismo imposto dalla contestazione. 114 Non si può non veder qui un parallelismo – a livello semantico - con l’apparizione delle coppie che fanno l’amore nella valle di Zabriskie point. 115 Che a Paolo Cavara non interessi per nulla lo svelamento dell’enigma è dimostrato dal fatto che oltre a relegare il racconto del trauma e del movente dell’assassino in un’insignificante scena di raccordo nel corridoio dell’ospedale, egli affida il ruolo di strumento rivelatore alle immagini, attraverso il dettaglio della lente a contatto bianca (appartenente al cieco) inquadrata di fianco al cadavere di Laura nella sauna del 176

un fotografo ad indagare (o meglio interrogarsi) sulle dinamiche di un omicidio, mentre dall’altra è un poliziotto desideroso di abbandonare il più prima possibile quel mestiere per cui si sente profondamente inadatto e inadeguato. Ad accomunare le due pellicole concorre anche la soluzione figurativa e semantica con cui sono trattati due temi centrali nella poetica tanto di Cavara che di Antonioni: l’erotismo e la ripresa della realtà. Ne La tarantola dal ventre nero la naturalezza dei rapporti sessuali tra Tellini e Anna e la conseguente eliminazione di ogni vergogna e imbarazzo – da parte della donna - di fronte al fatto che un loro amplesso sia stato ripreso e proiettato davanti ai colleghi del marito, fa il paio con la naturalezza del rapporto tra l’amico/vicino di casa (di Thomas) e la moglie così come il divertissment dell’orgetta ludica con le due aspiranti modelle. La ripresa della realtà invece, si risolve, sia per Cavara che per Antonioni, sotto forma di paradosso: alla obiettività assoluta dello strumento tecnico di ripresa corrisponde l’indecifrabilità (nonché lo svanimento) di ciò che viene ripreso.116 A questi elementi di carattere formale è necessario aggiungere come ne La tarantola dal ventre nero sia presente nel personaggio dell’ispettore Tellini, un tema molto caro ad Antonioni, quello dell’identità.117 Il poliziotto si sente profondamente inadeguato a ricoprire il suo ruolo sia per questioni di carattere esistenziale come l’essere continuamente a messo a contatto con la morte e con il sangue - sia per come la sua professione metta fortemente a rischio la sua serenità familiare. Non a caso, solo nel momento in cui Anna sarà realmente in pericolo (nel finale del film) “interpreterà” il commissario duro e irreprensibile spingendosi – a sua volta – quasi al limite dell’omicidio a mani nude dell’assassino (mettendo in evidenza così, più il suo essere marito che rappresentante delle forze dell’ordine). Nel sottolineare l’importanza di questa sequenza non si può non prendere in considerazione il fatto che nella corsa in automobile dell’ispettore Tellini dal centro estetico a casa sua lo spazio notturno che centro estetico. 116 Su questo piano il blow-up del film omonimo conduce all’inconoscibilità del contenuto dell’immagine pixellata dall’ingrandimento, mentre nel film di Cavara il blow-up sulla fotografia di Maria Zani – per individuare cos’è la macchia alle sue spalle - conduce ad una falsa pista di ricatti che nulla ha a che vedere con gli omicidi del film. 117 Troverà il suo più pieno compimento in quel Professione: reporter (1975) che – come vedremo – può essere considerato la sintesi teorico del processo di azione parallela tra l’opera di Paolo Cavara e dello stesso autore ferrarese. 177

attraversa sia completamente vuoto e che il silenzio sia rotto, esclusivamente, dal rumore diegetico del motore dell’automobile. Segno evidente dell’importanza che anche il tema del silenzio – pregnante nel cinema pre-Blow-up di Michelangelo Antonioni – sia riferimento imprescindibile nella regia di Paolo Cavara e che un film come La tarantola del ventre nero non sia solo un giallo argentiano118bensì un’opera pienamente d’autore persino al di là delle concessioni commerciali (che pure nel film non mancano). La tarantola dal ventre nero è un’opera in cui i rapporti personali sono difficili e in cui il commissario Tellini si muove nell’ “acquario” dello spaesamento. È un film in cui il denaro - elemento che compensa il ricatto - serve per scappare da una realtà piatta e insignificante che, improvvisamente, con l’insorgere della violenza diventa adrenalinica e tentacolare mentre sullo sfondo si delinea l’appuntamento con la morte. Tutti questi elementi - in forme simili o diverse - si ritrovano anche ne L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni. In tutti e due i film è presente una coppia (che definiamo borghese per convenzione) minacciata da “forze esterne” che, improvvisamente, sembrano impedire il raggiungimento di uno stato di serenità. In L’eclisse la causa è la paura del nuovo, l’incapacità di abbandonare certezze e sicurezze, in La tarantola dal ventre nero la presenza di un assassino che, insinuosamente, diventa ombra e minaccia per la coppia. Nei due film la narrazione si concentra su un punto di vista che permette al regista di isolare i suoi personaggi e di osservarli con distacco: la descrizione degli ambienti si fa progressivamente sempre più dilatata e diurna, mentre i personaggi vengono seguiti nel loro vagare all’interno di una città come Roma che, entrambi i registi, in forme diverse, raccontano come anonima e spettrale. Lo spazio, quindi, assume le caratteristiche antonioniane di elemento di composizione in cui ogni personaggio (con le sue fragilità) appartiene all’ambiente che lo identifica. Nel film di Cavara gli spazi diventano veri e propri contenitori sia dei fatti (le azioni dell’assassino, la preparazione rituale degli strumenti necessari per compiere i delitti) sia dei gesti (quelli del quotidiano), sempre più vuoti e inutili119. Una lunga serie di azioni che si susseguono tra pause, silenzi e improvvisi scarti narrativi e che testimoniano l’incapacità dei perso118

Visione, miope e complessiva di tutta la critica dell’epoca e odierna In L’eclisse la stessa cosa avviene per i gesti che caratterizzano il lavoro in borsa e il rituale/messa in scena “africano”. 119

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naggi di comunicare, il loro essere alienati dalla realtà che li circonda per essere totalmente immersi in una vita improvvisamente diventata fiction. L’ “acquario” iniziale in cui si apre il film, è già una dichiarazione d’intenti da parte del regista: la signora Zani non può comunicare né con l’esterno né con l’interno, ma può invece vedere, attonita e impotente, quanto gli accade davanti. Il silenzio domina la sequenza immersa nello spazio della “casa di vetro”. Paolo Cavara come Antonioni ne L’eclisse fa muovere i protagonisti in uno spazio neutro e impersonale (in cui è eliminata ogni “storicità” per lasciare posto all’irrealtà) che può essere solo osservato e non può essere decifrato secondo le convenzioni. Sia in Cavara che in Antonioni - lo spazio è manipolato in funzione astratta: Roma appare un luogo alieno e “fantascientifico” in cui ogni riferimento è perduto; un città/non-luogo senza rumori, senza traffico, con strade circondate da edifici che appaiono abbandonati, tra cantieri di palazzi in costruzione, in una atmosfera rarefatta e disconnessa. Tema, quello dell’incomunicabilità che, anche in opere successive come Los amigos, Virilità, Il lumacone e E tanta paura… troverà sempre uno spazio all’interno del cinema di Paolo Cavara. Segno, ulteriore e inconfondibile dello strettissimo legame che intercorre tra la poetica e l’idea di cinema di Paolo Cavara e quella di Michelangelo Antonioni (e, forse, azzardando - ma non troppo viceversa).

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PARTE TERZA

SGUARDO D’AUTORE

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L’EROTISMO UTOPICO, LA MORALE DEI SENTIMENTI E L’ANTICONFORMISMO NEL FILM “LA CATTURA”

Due anni dopo l'uscita de L'occhio selvaggio, Paolo Cavara realizza il film La cattura120 che - oltre ad essere testimonianza primaria del suo eclettismo autoriale - è anche un'operazione anticonvenzionale tanto nella forma (le immagini prevalgono sulle parole), quanto nella sostanza: si tratta di una ballata romantica e utopica messa in scena in uno scenario metafisico in cui i sentimenti di amore e solidarietà prevalgono su quelli di violenza e di morte. Con questo film, Paolo Cavara compie una riflessione profondamente anticonformista in merito a due tematiche caratterizzanti le istanze sessantottine: l’esercizio della violenza come mezzo per far valere le proprie ragioni e il dilagare delle nudità sullo schermo come strumento di liberazione sessuale. Quello de La cattura è un discorso assoluto sull'impersonalità della violenza, che è ovunque e dovunque. L'essere umano è intrappolato all'interno di una fessura/striscia di libertà (come appare sin dai titoli di testa con lo schermo tutto nero tagliato verticalmente a sinistra da una striscia bianca) in cui è negato l’esercizio del criterio di scelta. Gli esseri umani protagonisti di questa storia sono, ontologicamente, in trappola. Lo dimostra la presenza immanente e incombente del paesaggio naturale - vero protagonista “terzo” del film - che, con il silenzio, la neve, la nebbia, i tronchi ravvicinati degli alberi, la progressiva desertificazione si fa via via sempre più rarefatto e metafisico fino ad assumere i contorni di una trappola naturale. L'uomo e la donna, protagonisti del film, sono declinati sui ruoli rispettivamente di cacciatore e preda, ma quello che interessa a Paolo Cavara non è tanto mostrare la cattura dell'uno nei confronti dell'altra, ma evidenziare 120

Le riprese in esterni sono state realizzate a Bled vicino a Lubiana in Slovenia. Riprese effettuate appena in tempo prima dell’arrivo della primavera che, inevitabilmente, avrebbe mutato lo scenario innevato in cui è immersa la vicenda. 183

come La cattura (del titolo) sia in realtà la forza del potere che la società esercita su ogni singolo individuo “catturandolo”.

Cavara sul set de “La cattura” (1969)

Lo fa imponendogli l'obbedienza e deprivandolo della manifestazione dei sentimenti (che nel contesto bellico diventano ulteriormente negati). Il libero arbitrio che anima l'ambito spirituale dell'individuo è l'unica risposta possibile a questa coercizione della società: l'amore è un sentimento irrazionale, anarchico e folle, l'unico capace di rompere, seppur momentaneamente, persino i rigidi schemi che regolano il conflitto bellico. Quella messa in scena da Paolo Cavara è dunque la frattura di uno “stato delle cose” in cui tutto sembra predeterminato e immoto: la frattura è nell'ottica del regista la speranza, quella da cui l'uomo può ripartire verso una riconquista della sua innocenza. Ecco perché sceglie – opponendosi alla moda dilagante – di rappresentare nella “frattura” lo spazio dei sentimenti (e non la libertà sessuale) dando vita ad una relazione tra esseri umani (e non solo tra corpi): l'amore tra due “nemici” è una trasgressione assoluta pri184

ma che lo “stato delle cose” - momentaneamente alterato dall'irruzione dei sentimenti - ritrovi l'equilibrio di morte su cui si regge. In questo spazio, chiaramente utopico, emerge anche la presenza di una semplicità connaturata alla natura umana: lo si evince dal valore sacro conferito nel film ai piccoli gesti, agli sguardi, ai sorrisi, alle mani tese. È evidente come per il regista la verità risieda nella semplicità del quotidiano, qui intesa sia come chiave di interpretazione del mondo sia come componente morale connaturata agli esseri umani. Lo scenario bellico è un contesto estremo in cui si manifestano tutte le contraddizioni: da quelle tra eserciti nemici a quelle tra occidente ed oriente fino a quelle tra i sessi. E proprio il concetto di guerra (in senso astratto) emerge all'interno del film come una condizione eccezionale in cui i comportamenti umani sono al contempo militarmente codificati e istintivamente liberi. Nello scenario rappresentato i militari sono come fantasmi - presenze/assenze che si manifestano saltuariamente e che scompaiano del tutto durante l'esplodere dei sentimenti. Ne La cattura, la guerra è quindi solo rappresentazione: un pretesto narrativo necessario per mettere in scena l’imitazione dei comportamenti militari (come ben rappresentato dal passo dell'oca mimato dalla coppia) all'interno di una tragedia annunciata e incomprensibile. La tensione tra gli esseri umani - nemici e opposti (di esercito, di patria, e persino di genere) - si smorza progressivamente quando essi trovano riparo dentro una casa-rifugio che è placenta dell'intimità e dei sentimenti: un luogo sacro in cui la violenza non può assolutamente penetrare (non a caso la guerra si manifesta solo all'esterno della baita). La breve parentesi sentimentale che - nella (quasi) totale assenza di dialoghi - fa emergere incontrastata la forza dell’istanza narrante. Paolo Cavara gioca abilmente con il primo e con il primissimo piano, scompone i volti dei personaggi per mettere in evidenza la forza dello sguardo, la luminosità del sorriso, le rughe della pelle, e dettagli solo apparentemente insignificanti. Riprende i volti dei personaggi da dietro i rami e per metà nascosti dai tronchi, attraverso riprese (dal taglio documentario) che mostrano un'intimità spiata, osservata a distanza - quasi come a non voler disturbare i protagonisti della vicenda. L'eleganza della messa in scena emerge in tutta la sua forza nelle inquadrature riprese all'interno dell’isba quando ancora i due personaggi non si parlano, si studiano e si temono – quasi si annusano come due animali. Il regista li riprende sempre all'interno dell'inquadratura stretta sul primo piano dei due pro185

tagonisti, mettendo i loro volti su due livelli progressivamente sempre più vicini e intimi. La convivenza forzata dei due nemici si sviluppa attraverso i bisogni primari come mangiare e dormire e, non a caso, i primi dialoghi tra i due sono legati alla necessità di trovare del cibo, perchè come dice Anja: “Si può sopravvivere anche qui...se si deve”. Anja e Holmann ne La cattura, ad un certo punto, acquistano consapevolezza della loro natura di esseri umani, e il momento coincide con la volontà di infrangere le convenzioni. Istinto espresso, poeticamente, attraverso un espediente simbolico, con Holmann che dispone una serie di bastoncini di legno contro la parete del camino della baita per simulare una gabbia/prigione dietro le cui sbarre posiziona due proiettili (Anja e Holmann) mentre sussurra a se stesso: “Mostro!”. Resosi conto di ciò che è diventato - o meglio, di ciò che la società “in guerra” gli ha imposto di essere - il sergente si allontana progressivamente dal suo grado militare per avvicinarsi sempre più alla sua essenza di uomo. Anja, parallelamente, dopo l'aggressività e la violenza - determinata dalla paura, nei primi momenti di prigionia - si “scioglie” nella sua femminilità dismettendo lentamente (pezzo per pezzo) la sua corazza di cecchino infallibile. Nella dimensione in cui si incontrano Anja e Holmann - nonostante le loro renitenze - l'amore prevale su qualunque convenzione, e si mostra sotto forma di una forza che cresce lentamente ma inesorabilmente fino a raggiungere vette trascendenti per trasformarsi in riscoperta della libertà da parte di un uomo e di una donna precedentemente meccanizzati dallo stato di guerra. La semplicità del contesto in cui si svolge la vicenda si contrappone alla complessità emotivo-sentimentale che caratterizza soprattutto la seconda parte del film in cui i personaggi manifestano tanto la loro essenza quanto i loro desideri, sia attraverso il gioco (i due innamorati si comportano come due adolescenti), sia attraverso il desiderio di cose semplici e profondamente umane (Anja: “Mi piace vivere in una casa”). La progressione emotiva del film evoca un’eccezione concretizzata nell’utopia e nella morale di sentimenti che possono trovare la loro manifestazione solo in maniera temporanea. Le lacrime di Anja al termine dell’idillio non hanno bisogno di commento. Non ci sono parole che possono definire meglio dell'immagine parlante del volto della donna la sua consapevolezza: che non è solo quella della fine di un insperato, quanto desiderato sogno d'amore, ma anche, e soprattutto, della morte ormai imminente. Ella sta per tornare al suo ruolo di cecchino - non più infallibile - conscia che 186

niente potrà più essere come prima e avverte il pericolo della sua fragilità di essere umano, fragilità finalmente manifesta e prima, artificiosamente, mascherata dietro la corazza imperforabile dell'efficienza militare. Questa diventa determinante solo nel finale repentino, veloce e immediato che è pura rappresentazione di quanto l'amore sia un sentimento vitale, e persino protettivo dalle forze del Male. Holmann e Anja - prima sfuggenti e imprendibili - diventano improvvisamente (dopo la loro forzata ma coerente separazione) bersagli facili perchè ancora abbagliati dalla luce e storditi dalla forza del sentimento appena vissuto e condiviso.

David McCallum e Nicoletta Machiavelli ne “La cattura” (1969)

Quando il nemico si traveste da amante Ne La cattura, con la scelta di affidare a due soli attori il compito di creare empatia con il pubblico, Paolo Cavara sceglie dunque la strada più impervia (e affascinante) per mettere in scena un apologo pa187

cifista che gran parte delle sua carte migliori le gioca sul versante poetico. Il lirismo con cui il regista traduce per immagini la metafora della guerra come deserto sorprende per intensità e originalità, visto che ne La cattura a prevalere sulle parole sono i silenzi, le pause e le attese. Il film si muove in un territorio ostile, si sviluppa attraverso un rapporto di coppia (animato dalla diffidenza) che da aspro si scopre dolcissimo: espediente attraverso cui il regista annulla il concetto di nemico. Un film sovietico del 1956 intitolato Sorok Pervyy (Il quarantunesimo) e diretto da Grigori Chukhrai sembra essere modello di riferimento per il regista emiliano. L’opera sovietica è il rifacimento di un film del 1927 e racconta l’incontro-scontro tra Maria, cecchino dell’armata rossa (il quarantunesimo è appunto la sua prossima vittima) e il tenente Vadim dell’esercito zarista. I due, dopo una serie di vicissitudini si trovano a vivere fianco a fianco (e loro malgrado) il rapporto di carceriera e prigioniero. La donna, infatti, durante la traversata del deserto che li separa dal lago d’Aral, è incaricata dal suo superiore di scortare il prigioniero sull’altra riva e qui di consegnarlo agli emissari della rivoluzione. L’opera di Chukhrai è impregnata di umori comunisti e mostra, sullo sfondo di un paesaggio dominante con la sua forza (il deserto, la tempesta sul lago, l’isola deserta) la tormentata storia d’amore tra Maria e il tenente Vadim segnata, inevitabilmente, dall’abisso ideologico che separa i due. La storia dura, persino improbabile, è segnata da un’escalation di dialoghi sempre più ideologizzati e da una dimensione paesaggistica impressionista volta a rappresentare un mondo ostile e respingente. La vicenda de Il quarantunesimo segue la stessa alternanza di repulsioni e attrazioni che caratterizza La cattura e in entrambe i film il momento dell’innamoramento è raccontato allo stesso modo: un sommario di inquadrature in cui prevalgono, il gioco e la spensieratezza legati tra loro solo dalla partitura musicale. L’isba in cui si rifugiano Anja e Holmann non è dissimile dalla baracca sul lago d’Aral in cui trovano riparo Maria e Vadim. La regia di Chukhrai è enfatica e ridondante, tende a sottolineare la “grandezza” di Maria (con fulminanti primi piani affettivi) come incarnazione degli ideali rivoluzionari, mentre Cavara lavora per sottrazione, per limature, riducendo il racconto all’essenzialità delle emozioni dei sentimenti. Il regista emilano elimina completamente qualunque aspetto ideologico, sollevando così il film da un fattore distorcente e fuorviante per delineare, con tratto poetico e lirico, un rapporto d’amore quanto mai sincero e possibile, differenziandosi 188

così da quello improbabile de Il quarantunesimo che è inficiato alla radice dal conflitto di classe che separa una proletaria da un borghese. Il film di Cavara, a differenza del precedente sovietico, presenta anche un marcato e (preponderante) tratto psicologico volto a rappresentare la guerra (anche) come uno stato mentale e che, di conseguenza, porta a pensare che la parentesi idilliaca vissuta dall’uomo e dalla donna altro non sia che una proiezione mentale dettata dal desiderio (dei sentimenti) e dalla disillusione verso un inutile e devastante (negli esiti) conflitto bellico. In questo il film di Cavara prende le mosse da Flashback misconosciuto e dimenticato lungometraggio diretto nel 1968 dal giornalista Raffaele Andreassi121. Flashback nel ricordo solipsistico di una vedetta tedesca abbandonata su un albero racconta un mondo magico rivelato dalla presenza, improvvisa (perché solo mentale) della pace; una pace che, come nel film di Cavara è ingannevole perché abbatte ogni concentrazione e solleva l’individuo dalle sue responsabilità di ruolo, consegnandolo inevitabilmente a diventare un facile bersaglio. In Flashback non c’è alcuna distinzione tra la fine della guerra e l’inizio della pace: tutto si presenta come un continuum in cui i silenzi legano i vari episodi, in cui l’orrore della guerra contrasta con la poesia delle immagini dei ricordi in cui emergono tanto la natura lussureggiante quanto l’intensità della giovinezza perduta. Andreassi pronuncia una condanna della guerra (e del militarismo, che ne è l'espressione) senza cadere in un facile moralismo. vi riesce anzitutto, con discrezione e acutezza, concedendo al suo personaggio soltanto ricordi legati alla divisa o alla condizione di combattente: è mostruoso, per un ragazzo di vent'anni! Inoltre profila, attraverso le rievocazioni, che sono stimoli e proiezioni dello stato d'animo attuale del personaggio, una graduale e tenue presa di coscienza, che peraltro non diventa rimorso catartico.122 La realtà, sia in Flashback che in La cattura è straniante, spesso mostrata attraverso la cornice del mirino di un’arma, spiata attraverso lo sguardo che è mezzo e non fine e, infine, alterata da un immagi121

Per un’analisi completa del film: Fabrizio Fogliato, Italia: ultimo atto – Vol. 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri, Edizioni Il Foglio Letterario, Piombino (LI), 2015 122 Sergio Raffaelli, Letture n° 6/7, Giugno-Luglio 1969, pag. 515 189

nario animato dal cervello dei protagonisti. Flashback è già anticonvenzionale (così come lo è La cattura) nella scelta del punto di vista, quello di un “nemico”, ma lo è ancor di più nell’adesione alla psicologia del personaggio e nel registro narrativo del flusso di coscienza fatto non di parole ma di immagini legate ai ricordi. Andreassi e Cavara si può dire che facciano indossare ai loro film il vestito bellico ma che il loro interesse sia invece di tipo antropologico: non si spiegano altrimenti sia il progressivo imbarbarimento delle visioni del militare in Flashback, sia lo stridere della morte e della violenza a contrasto con una natura selvaggia e incontaminata ne La cattura. Nel ciclone della guerra alla scoperta dell’amore123 I giovani non hanno idee chiare, la loro rivolta è irrazionale, appare assurda agli occhi e alla mente dei benpensanti, eppure sono loro, i giovani che preannunciano la fine di un’epoca, la conclusione di un ciclo, aprono con la ribellione, scorciatoie verso un futuro diverso, nuovo, liberando l’uomo da antiche schiavitù. Essi, opponendosi alla mercificazione di se stessi, da parte della società, pongono in atto un rifiuto attraverso il quale anticipano il verificarsi di una metamorfosi inarrestabile che dovrà far approdare il mondo a condizioni di vita di alta civiltà, dove l’individuo non dovrà mai più essere usato come oggetto al servizio del potere politico, economico, ecc. certo il nostro tempo è ormai tempo di transizione: mai come oggi la confusione travolge tutti, eppure, per chi sa guardare dall’alto le tragedie che coinvolgono popoli e nazioni, qua e la per il mondo, può cogliere la verità dietro le apparenze, la logica nel caso. Ed è partendo da queste premesse che Paolo Cavara sta realizzando il suo film intitolato “La cattura”. Una vicenda che continua il discorso iniziato con “Occhio selvaggio”. – “In “Occhio selvaggio” – ci dice Cavara tornato a Roma dopo aver ultimato le riprese in Jugoslavia - si parlava di un personaggio che sfruttava l’ambiente che lo circondava e la critica non era rivolta in particolare a lui, ma a parte di quella società che speculava su quanto lui faceva per trarne dei profitti. In questo film, “La cattura”, il discorso si fa più ampio: prendo in esame una società violenta che non permette agli uomini che appartengono alla stessa società di avere vite private e iniziative private. Cioè, l’uomo, una volta ricevute delle direttive non può più disporre di se stesso, della propria libertà, è deve considerarsi 123

Articolo-intrevista Espresso Sera - Espresso Sera, Catania 22/23 luglio 1969 190

un robot”. – Vuole dirci che “La cattura” è, prima di tutto, la denuncia della violenza della società sull’uomo? – “Esattamente”. – Ci dica allora come le è venuta l’idea di realizzare questo film. E perché lo ha situato negli anni ’42–‘43? – Voglio precisare che epoca e personaggi sono stati presi come simboli; sanno tutti chi erano i tedeschi di allora, ed è proprio per questa ragione che il protagonista, venutosi a trovare in particolari circostanze, scopre la propria dimensione di uomo il quale, contro la propria volontà, è stato strumentalizzato per consentire agli uomini al potere di conservare privilegi e predominio. Non vi sono autentici motivi ideologici che danno senso alla violenza ma dei pretesti travestiti di idealità. In realtà è questo tipo di società di ieri, che continua ancora a sopravvivere oggi, che stabilisce quali sono i nemici e che decide ciò che è giusto o ingiusto. In una società come questa nessuno è giudice di se stesso, tutti hanno il “dovere” di comportarsi da automi.” – Lei vuole dunque rivelarci che c’è una costante storica della violenza elevata a sistema per salvaguardare gli interessi di gruppo o del singolo? – “Si. Ma “La cattura”, nel rivelare questa costante storica della violenza, attraverso la scoperta di autentici sentimenti umani, intende anche rivelare che l’uomo è fondamentalmente diverso da quello che si incontra sui campi di battaglia e anche il soldato educato ad uccidere, quando meno se lo aspetta, rivela l’uomo che è sul fondo. E, come è sempre accaduto, sono i sentimenti, specie l’amore, a riscattare l’uomo. I due protagonisti, travolti dalla ferocia di un odio impersonale, si cercano per annientarsi, ma, per caso, entrati nell’occhio del ciclone, attraverso una pausa, mentre intorno la rabbia della violenza continua a mietere vittime, hanno la possibilità di conoscersi al punto che finiranno per amarsi. Poi l’occhio del ciclone si sposta e la storia d’amore viene investita dalle raffiche di quella violenza che essi rifiutano ma che non potranno evitare”. – Si tratta quindi di un film aspramente polemico, duro, spietato… – “Si tratta di una storia che rifiuta l’ipocrisia, per indurre l’uomo a cogliere i confini entro cui può realizzarsi il proprio destino.

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GEOMETRIA DEL DELITTO, BIZZARRIA E DINAMICHE DI DOMINIO IN “LA TARANTOLA DAL VENTRE NERO” E “E TANTA PAURA”

Il 19 Febbraio 1970 esce nelle sale italiane L'uccello dalle piume di cristallo per la regia di Dario Argento. È il film inaugurale del thriller all'italiana, genere nel quale, negli anni successivi si produce una lunga serie di film, molti dei quali riportano il nome di un animale nel titolo. Il 12 Agosto 1971, nelle sale italiane esce La tarantola dal ventre nero, per la regia di Paolo Cavara il quale - tra le altre cose - con il suo film rende omaggio sia a Dario Argento (come dimostra tutta la prima parte iniziale delle indagini) sia a Mario Bava e al suo Sei donne per l'assassino (1964) (nella scena del delitto, in pellicceria, tra i manichini). Il regista bolognese, si inserisce nel filone solo apparentemente, perchè i punti di contatto con il genere finiscono qui (o quasi) visto che anch'egli non rinuncia alla soggettiva dell'assassino e sceglie di rendere le morti estremamente crudeli e tutte di genere femminile: scelta (uguale in gran parte dei film del filone) che contrasta violentemente (ma non casualmente) con la coeva lotta della donna per emanciparsi. Paolo Cavara, con questo thriller, mette in scena un film particolarmente elegante, che sin dalla fase produttiva dimostra avere un respiro più internazionale che italiano.124 Alla base de La tarantola dal ventre nero c'è la sceneggiatura di Lucile Laks (tratta da un soggetto dello stesso produttore Marcello Danon), nome suggerito da Tonino Guerra – questi interpellato dalla produzione per scrivere il film, declina l'offerta - ma si rende disponibile a fare da supervisore al lavoro della Laks chiedendo però di non essere accreditato. Il film 124

La DA.MA. Produzione, che co-produce con la P.A.C di Parigi, è la società di Marcello Danon nata dalla fusione delle precedenti DA.MA. Cinematografica e DA.MA. Film, ed è una compagnia legata prevalentemente alle major americane per la distribuzione internazionale di film interamente o quasi girati in Italia. 192

viene girato negli studi della Dear-Incom, in otto settimane, mentre gli esterni sono tutti romani o in luoghi limitrofi alla capitale. Va segnalato l'utilizzo come scenografia futuribile-astratta (per la scena dell'inseguimento del fotografo) della nuova sede dell'I.M.I.125 La scelta decisamente particolare di questo ambiente scenografico rientra nell'architettura geometrica del film che presenta una messa in scena rigorosa, glaciale e poliedrica di taglio documentario. “Il film richiedeva di raccontare con immagini e con il minor numero di parole un'evasione, che oggi come oggi interessa il pubblico annoiato dalla vita e quindi disponibile a seguire una vicenda piena di imprevisti e soprattutto di suspence. Alla noia si oppone la carica emotiva dei colpi di scena. Per ottenere un risultato concreto sono ricorso al taglio secco del documentario, cioè senza divagazioni. I fatti si susseguono a ritmo serrato, proponendo sempre nuovi interrogativi e coinvolgendo sempre più lo spettatore finchè si arriva a un finale a sorpresa...in questo modo, lungo il percorso, lo spettatore si libera della violenza che può aver accumulato sul lavoro, in ufficio o a casa, pressato com'è anzi come siamo dalla società consumistica... “La tarantola dal ventre nero” vuole essere uno spettacolo di qualità che racchiude, almeno speriamo tutti, quegli ingredienti che il pubblico oggi dimostra di gradire”.126 La tarantola dal ventre nero, pur rispettando i codici del genere di riferimento presenta una serie di anomalie che ne fanno prodotto trasversale e poco allineato.

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Nel 1969 L'Istituto Mobiliare Italiano, si trasferisce all'EUR in Via del'Arte dove acquista un complesso in costruzione (secondo un progetto di La Padula e Marchini): due blocchi parallelepipedi, “rigati” esternamente da strisce verticali alternate di finestre e pannelli di alluminio che integrano le sistemazioni esterne in plastiche masse di graniglia di cemento e marmo bruno e acciaio. All'ingresso svetta, sul lato sinistro, la grande struttura scultorea verticale di Michelangelo Conte che costituisce la presa d'aria degli impianti. 126 Dichiarazione di Paolo Cavara in Momento sera, 12 Novembre 1971 193

Pietro Cavara e Barbara Bouchet durante la preparazione di una scena del film La tarantola dal ventre nero (1971)

Già la scelta del titolo zoonomico - che nel genere è quasi sempre un pretesto - riproduce scientificamente lo scontro tra la tarantola e la vespa dalle ali color salmone: il rituale di morte messo in atto dai due

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animali127, è lo stesso che l'assassino riproduce nel film nei confronti delle sue vittime. La presenza di un poliziotto, profondamente umano, un commissario dubbioso e insicuro, di cui il regista racconta anche la normale vita quotidiana, il rapporto con la moglie, e le paure che il suo mestiere porta con sé. La presenza di un sottotesto critico nei confronti della società, visto che tanto il commissario quanto l'assassino sono esseri normali nascosti nella folla.128 E tanta paura129, secondo giallo-thriller di Paolo Cavara, si presenta come un'opera realizzata in netto contrasto con la precedente visto che prende il genere, lo destruttura nei suoi codici e lo distrugge nei suoi stereotipi e nei suoi luoghi comuni. La sceneggiatura scritta dal regista con il felliniano (già collaboratore di Argento per Profondo Rosso (1975)) Bernardino Zapponi e con Enrico Oldoini mescola abilmente le carte, costruisce una trama thriller che non arriva ad epilogo certo, inserisce una dimensione fantastica di matrice baviana e traduce il senso di degrado della società attraverso un nucleo di personaggi al contempo sgradevoli e mostruosi. E tanta paura, è uno dei massimi risultati del regista grazie anche al fatto di essere stato realizzato nella più assoluta libertà e con la totale mancanza di ingerenza da 127

Il fenomeno scientifico che lega i due animali è il seguente: quando la vespa, detta anche “scavatrice” deve deporre le uova va alla ricerca di una tarantola dal ventre nero e dopo un'estenuante combattimento ha la meglio sul ragno e le conficca il pungiglione in un punto del corpo che le provoca la paralisi. Una volta immobilizzato l'aracnide la vespa lo trascina dentro una galleria, le apre il ventre e ci deposita dentro le sue uova; quando queste si schiuderanno le larve si nutriranno della carne della tarantola, la quale rimasta viva si sentirà divorare senza poter reagire. 128 Le immagini più inquietanti non sono tanto quelle dei singoli delitti quanto quelle riprese in esterno in pieno giorno con personaggi ambigui e misteriosi mescolati tra la massa in inquadrature con colori desaturati. 129 Il produttore del film Guy Luongo che ha un passato come executive per molti prodotti americani - credendo nel progetto - decide di fare una società per produrre il film con Enrico Oldoini e Paolo Cavara. Nasce così, con le iniziali dei tre nomi dei soci la G.P.E. Enterprises. Oldoini, nel film svolge vari compiti, dall’aiuto regista al revisore alla sceneggiatura, oltre a recitare una piccola parte. Dei tre è quello che meglio si destreggia all’interno della società, assumendo - quando sorgono i problemi (anche di carattere economico) - il ruolo di mediatore tra le istanze del regista Cavara e quelle del produttore Luongo. Il film, è uno dei pochi prodotti dalla C.P.C. - Città di Milano (che qui co-produce) una casa di produzione che - nella seconda metà degli anni'70 ha accarezzato il velleitario tentativo di creare una sorta di Cinecittà milanese. 195

parte della produzione. Libertà creativa che si manifesta attraverso un'opera stratificata nella quale, neanche tanto velatamente, si esprime una feroce critica alla società, ci si interroga sul concetto di sicurezza, si riflette sulla irrapresentabilità del potere e sulla sua componente ludica e si mostra quanto il denaro determini il destino degli uomini e delle donne. Tutto questo in un film che sin dal suo canovaccio di partenza - quello della fiaba ottocentesca di “Pierino Porcospino” di Heinrich Hoffmann - indirizza il film verso l'assioma: alla disobbedienza corrisponde, inevitabilmente, la sanzione. La disobbedienza nel film è quella verso il potere, verso l'invisibile demiurgo che decide e manipola il destino degli individui - qui incarnato dal diabolico (zoppica anche) Pietro Riccio. La storia dell'opera di Hoffmann costituita da dieci filastrocche che raccontano le vicende di altrettanti personaggi - è quella di un ragazzo che non ubbidisce ai genitori, non si lava, non si pettina, non si taglia le unghie e si presenta disordinato e sciatto come un “porcospino” .130 (tutto l'opposto di Riccio). Come Pierino, tutti i protagonisti dell'opera si presentano come elementi e come casi di anomia: chi è violento, chi iperattivo, chi distratto e chi si trascura. Paolo Cavara asseconda le conclusioni sociologiche di Max Weber, evidenziando come disuguaglianze sociali e comportamenti sbagliati trovino le loro radici sia nella sperequazione economica che nelle disparità culturali. Proprio Weber identifica come collante delle diversità in ambito culturale la condivisione di interessi ideali comuni: da questi nascono i ceti. Il concetto di ceto comprende una serie di individui che hanno in comune un abbigliamento simile, consumano gli stessi cibi e/o bevono gli stessi liquori, condividono lo stesso stile di vita ed eleggono un luogo ben preciso come punto di ritrovo. Attraverso questi elementi condivisi diventano facilmente identificabili e acquisiscono un “prestigio sociale” collettivo garantito dalla comunità di intenti nonché dallo stesso modo di agire. I componenti del circolo “Amici della Fauna” sono esattamento un ceto: appartengono alla stessa classe sociale, hanno interessi in comune e condividono lo stesso squallore morale, vestono allo stesso modo (perfino nei colori degli abiti) e si ritrovano a Villa Hoffman. Esercitano un potere verso 130

Oh, che schifo quel bambino!/ È Pierino il Porcospino./ Egli ha l'unghie smisurate/ Che non furon mai tagliate;/ I capelli sulla testa/ Gli han formata una foresta/ Densa, sporca, puzzolente./ Dice a lui tutta la gente:/ "Oh, che schifo quel bambino!/ È Pierino il Porcospino - "Heinrich Hoffmann, Pierino Porcospino, Hoepli edizioni 1882, in wikisource.org 196

chi non apprtiene al loro ceto e lo esibiscono attraverso l’arroganza, l’immoralità e la cupidigia. Attraverso un’apparenza rispettabile – garantita loro dal prestigio del ruolo sociale che ricoprono - mascherano i loro tratti perversi e giustificano i loro comportamenti devianti. Il tema della devianza e quello dell’edonismo presenti tanto in La tarantola dal ventre nero che in E tanta paura offrono al regista, quindi, la possibilità di effettuare una non banale riflessione di sociologia: partendo dal concetto di anomia egli traccia un quadro sintetico ma rigoroso della condizione di degrado delle periferie cittadine e di come una società tutta protesa verso la bellezza (esteriore e a tutti i costi) e la ricchezza non possa che alimentare la criminalità e le scelte sbagliate di chi non ha i mezzi materiali per agire legalmente. L'individuo, slegato dalla collettività - spinto dall'egoismo dilagante ad affermarsi sempre (e comunque) - viene obbligato dal mercato della paura a proteggersi in ogni forma e in ogni modo e perde sia il contatto con la realtà sia la visione collettiva del bene comune (in favore del mantenimento e accrescimento del bene privato). Nella narrazione di “Pierino Porcospino”, c'è qualcuno (il potere), incarnato dagli adulti, che agisce in modo autoritario mediante castighi, punizioni corporali e violente decisamente spropositate rispetto alle marachelle commesse: annegamenti nell'inchiostro, mutilazioni o addirittura la morte come nel caso di Paolinetta che giocando coi fiammiferi rimane bruciata viva131. Ahimè! la fiamma la bimba investe,/ Ardon le trecce, arde la veste./ Corre la misera di loco in loco,/ Non c'è più scampo, è tutta in foco./ E Minz e Maunz inorriditi/ Mandano acuti urli infiniti./ Miao, miao, miao!/ Qui, qui venite, venite in fretta/ Muore bruciata Paolinetta . Brucia in un soffio, sfuma in un punto/ Veste e persona, tutto è consunto./ Un po' di cenere e due scarpini,/ Cara memoria de' suoi piedini,/ È quel che resta! Non c'è più nulla/ Di quell'indocile, vispa fanciulla! E Minz e Maunz, i due gattini/ Tergon le lagrime coi lor zampini,/ Miao, miao, miao! Ahi, babbo e mamma, ahi, dove siete?/ Ahi, vostra fi-

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La stessa morte di Polinetta è quella che nel film tocca a Falconieri Laura, la prostituta assassina di Mattia Grandi. 197

glia più non vedrete!/ Come un ruscello che irriga i prati/ Scorron le lagrime dei desolati. 132 I personaggi di “Pierino Porcospino” sono legati tra loro dall'aver commesso un “peccato”, qualcosa che li mette in cattiva luce e che, automaticamente, li condanna (a causa del loro essere pericolosi per la società). La stessa condizione tocca ai personaggi del film del regista bolognese i quali - a causa dei loro vizi (di vario genere) - son totalmente ricattabili da chi conosce (e archivia) i loro segreti. E' dunque evidente come nella “fiaba” di E tanta paura la struttura di “Pierino Porcospino” venga declinata tanto nella messa in scena degli omicidi improvvisi, violenti, privi di suspance - un vero e proprio attacco all'emotività dello spettatore - quanto nella delineazione di un potere “astratto” (e diabolico) che governa sui “bambini” (la società) e li punisce per le loro mancanze e le loro disobbedienze.

Sul set di “E tanta paura” (1976)

Di quanto l'elemento del potere sia imprescindibile in E tanta paura se ne ha ulteriore dimostrazione dalla presenza nel film di una 132

ibidem 198

sequenza in cui i soci del club “Gli Amici della Fauna” assistono alla proiezione di uno spezzone (opera di Gibba) ispirato a Il Nano e la strega (1973), il primo film d'animazione erotico del cinema italiano.133 I vecchi schiavi della sessualità de Il nano e la strega e della sequenza S&M interna a E tanta paura non sono dissimili dai vecchi viziosi del sedicente circolo faunistico. Pertanto, Paolo Cavara compie qui un'interessante operazione metacinematografica, utilizzando il cartoon come metonimia di quanto accade nei saloni della villa: un concentrato di volgarità e di decadenza134 vissuto da borghesi che muovono gli ultimi colpi di coda (di un prestigio che fu) attraverso la vessazione e l'umiliazione dei più deboli (come è la giovane prostituta Rosa). Il potere espresso anche attraverso il sesso come strumento di dominio e annientamento - all'interno del film di Cavara, - è solo un'altro volto dei molti, che il potere assume e attraverso cui manifesta la sua forza. Non è casuale infatti che, al termine della visione annoiata dell'animazione, Scanavini, inviti gli astanti (“E adesso...e adesso facciamo qualcosa di più serio”) a partecipare e ad assistere ad un volgare gioco erotico, in cui la vittima è Rosa Catena, più o meno un surrogato del nano Pipolo: entrambi, infatti, sono obbligati e costretti a soddisfare le frenesia sessuali di un gruppo di attempati signori benestanti, devono obbedire e tacere e dare piacere alla “corte”. Tanto in La tarantola dal ventre nero che in E tanta paura, l'astrazione della messa in scena si coniuga con lo sguardo da entomologo del regista che osserva i suoi personaggi muoversi come dentro a dei vetrini da microscopio. Emblematica, a tal proposito, è la sequenza del primo delitto del film del 1971, quello di Maria Zani, che avviene in una casa di vetro, dal cui esterno è possibile osservare il movimento dei personaggi (ripresi con l'uso di carrelli laterali), e al cui interno, l'utilizzo del grand'angolo deforma e amplia lo spazio rimpicciolendo 133

Film che per motivi di censura è firmato Gioacchino Libratti, ma che in realtà è opera di Francesco Maurizio Guido, in arte Gibba, il pioniere dell'animazione nostrana. Oltre ad alimentare la riflessione sul “gioco del potere” - qui declinata attraverso il culto dell'apparenza, l'edonismo e la dominazione dei corpi - l'opera di Gibba/Libratti, nell'epilogo, della sua sinossi certifica il cambiamento sociale in atto e, inoltre, si inserisce pienamente nel discorso portato avanti da Paolo Cavara attraverso lo sviluppo delle vicende de “Gli amici della fauna” 134 Da notare che il film si apre con Mattia Grandi che legge alcuni brani di un libro intitolato, appunto, “I Decadenti” 199

il personaggio-vittima che appare prigioniero di una trappola mortale. Nel film avviene una progressiva contrazione temporale dei tempi scenici che fa da contrasto a una dilatazione dei tempi ritualizzati di preparazione dell'omicidio da parte dell'assassino. Lo sguardo, qui appare come un'ulteriore elemento di riflessione sulla menzogna cinematografica: un assassino fintamente cieco, l’utilizzo di altri strumenti di ripresa all'interno del film e il processo di blow-up a cui è sottoposta la fotografia di Maria Zani (per capire che cosa sia quella macchia scura che appare dietro la sua nuca che - attraverso l'ingrandimento del dettaglio – si rivela essere un aereo in fase di atterraggio). Anche l'erotismo, copiosamente presente nel film, è declinato verso l'astrazione con la presenza plastica di corpi nudi ripresi sia con sguardo distaccato, sia attraverso dettagli insoliti (come avviene sui titoli di testa con l'orecchio e l'ombelico della Zani). Il corpo nudo - con la sua negazione dietro paraventi zigrinati o la sua ostentazione durante le fasi dei delitti – è un elemento che collima con la volontà di rappresentare uno spaccato sociale in cui dominano il peccato, l'edonismo, la corruzione e l'estetica. Non solo, la scelta di introdurre un assassino impotente che uccide con un coltello a forma di fallo – oltre a surrogare la penetrazione dell’arma bianca – definisce una sintomatica violenza virile dai tratti distruttivi (esplicitata nello sventramento delle vittime). Se l’assassino uccide - perche deriso dalla moglie a causa della sua incapacità di soddisfare il suo piacere sessuale – giovani donne dai comportamenti immorali è evidente come a Paolo Cavara interessi indagare il rapporto tra la visione del sesso e la sua pratica. Non si spiegano altrimenti sia il fatto che l’assassino si finga cieco per meglio dissimulrsi tra le donne sue vittime, sia il tenerle lucide e con gli occhi spalancati nel momento della sua “operazione” sul loro corpo nudo - creando una sorta di cortocircuito tra voyeurismo e simulazione dell’atto sessuale135. Inoltre il secondo delitto, quello della pellicciaia, crea una stordente (perché focalizzata dall’uso esasperato del grandangolo unito alla panoramica a schiaffo) sovrapposizione tra donne e manichini e si conclude con la vittima che muore abbracciata alla sua “immagine” rappresentata proprio dal manichinio insanguinato (non è casuale che Cavara al termine del de135

Rappresentazione amplificata dall’uso dello spillone che penetra il corpo nudo delle vittime nella necessità di doverle paralizzare. All’inizio dell’aggressione si ha sempre la sensazione che l’assassino posso aessere facilmente sopraffatto. 200

litto si soffermi a lungo proprio su questa immagine). L’erotismo, dunque, in La tarantola dal ventre nero ha una doppia valenza: oltre a quella voyeuristica – dai tratti eleganti e raffinati come nello stile di Cavara – quella di elemento ambiguo che confonde, che annulla il passaggio dalla realtà alla finzione nella volotà del regista di creare una sorta di sineddoche della società delle apparenze. Elementi – l’astrazione, il potere e l’erotismo che ritornano in E tanta paura declinati secondo caratteri bizzarri – a tratti parodistici. Che la metafora del dominio e dell' “educazione”, infatti, si manifesti attraverso due prodotti di carattere ludico come la fiaba e il cartoon, (che contengono al loro interno una dose di violenza estrema e raccapricciante) è ancora una volta una scelta artistica coerente con la poetica del regista e con l'illustrazione - quasi fumettistica - che egli dà delle dinamiche del potere presenti nel film: il gioco del burattinaio (Riccio) con le sue marionette (tutti gli altri) è quello perverso dell'autodistruzione. Paolo Cavara mette in scena un teatrino violentemente infantile e immerge la vicenda in una ambiguità in cui si mescolano realtà e finzione all'interno di una atmosfera magico-onirica (come dimostrano il delitto sull'autostrada o quello nello studio televisivo). Inoltre, perchè il risultato venga raggiunto il regista deve: prendere i pupazzi, metterli uno contro l'altro, renderli schiavi del loro conformismo e delle loro cieca obbedienza a chi sta più in alto, mostrarli mediante un' equivocità di fondo che ne fa sia vittime che carnefici e - attraverso il meccanismo crudele della fiaba - eliminarli tutti, uno dopo l'altro mediante delitti che non hanno né un movente né un solo colpevole, ma sono il frutto del principio di azione e reazione innescato dal ricatto. Lo strumento attraverso cui il potere emette le sue sentenze e definisce la sanzione è il telefono che altro non è che un mezzo per esercitare il controllo.136 Il potere del telefono si lega con quello delle telecamere a circuito chiuso, delle fotografie rubate, delle intercettazioni ambientali, dei pedinamenti. Il dominio sulle vite degli altri è, paradossalmente, garantito dalla sicurezza: quella delle polizie private, della videosorveglianza, dell'utilizzo di microspie e cimici, e dalla visione (e registrazione utilitaristica) da parte del demiurgo di tutto ciò che avviene nella vita di ogni indivi136

Pietro Riccio (rivolto a Lomenzo) lo definisce così: “Ecco cosa dà il potere... basta un telefono. Con due, tre, cinque telefoni si riesce a controllare l'intera città”. 201

duo alle sue, involontarie, “dipendenze”. E proprio in quest'ottica va letto il ruolo mefistofelico di Riccio, il quale esercita il suo potere in uno spazio asettico e misterioso: un'agenzia dall'architettura fredda e impersonale, high-tech e geometricamente perfetta, i cui spazi sono inquadrati da Paolo Cavara con un rigore geometrico che mentre appiattisce i volumi amplia gli spazi. Quella di Riccio è una sorta di moderna caverna in cui il potere si manifesta attraverso i suoi mille volti, quelli degli specchi che, nel finale del film, moltiplicano (potenzialmente all'infinito) la sua immagine quella, come dice lui, di “un uomo d'affari”. In antitesi a Riccio e alla sua agenzia si pongono Hoffmann e la villa omonima: il primo è un narciso, un inguaribile illuminista che vive nel culto della ricchezza e dell'eroismo (e nell'idea dell'autodeterminazione); la seconda è l'ultimo avamposto del desiderio e di una borghesia ormai degradata a macchietta e ad ombra di se stessa. Hoffmann è spietato (figlio di SS, come ricorda lui stesso), irrimediabilmente autoreferenziale, tutto proteso alla ricchezza e al culto della sua personalità, desideroso di compiacersi e pronto ad uccidere chiunque intralci il suo percorso. Nella dimensione del film è quasi una creatura fantasmatica (in fondo lui è già morto): appare nella villa, la quale è immersa in una nebbiolina inglese, si nasconde nelle gabbie delle fiere (le stesse in cui verrà imprigionato), per poi mettere fine ai propri giorni obbedendo ad un ordine sublime. Hoffmann è, dunque, lo strumento ideale per il diavolo/Riccio e per il suo potere suadente e subdolo.137 Mentre Riccio si allontana dalla gabbia, fuori campo si sente il colpo di pistola con cui Hoffmann si illude di consegnarsi al mito. Ecco dunque che Villa Hoffmann altro non è che la proiezione spaziale del suo proprietario, con i suoi giardini/giungla, le sue bestie feroci immerse in una dimensione salgariana, i suoi interni barocchi e opulenti in cui si consumano il meretricio e la lussuria, il vizio e l'omicidio. Uno spazio sospeso, luogo ideale per collocare la sede della strana impresa import-export di diamanti dedita a vizietti osceni e criminali. A questi elementi bizzarri e grotteschi – in entrambi i film – Paolo Cavara contrappone figure e ambienti, estremamente normali, quelli 137

“Tu vuoi morire Hoffmann. Gente come te non finisce al banco della corte d'assise, non sopporta le mani addosso dei carabinieri. No, un uomo come te non accetterebbe di vivere in prigione fino alla fine dei suoi giorni.Tu sei troppo intelligente, non accetteresti mai la mortificazione. Avanti, dimostrami di essere un uomo superiore...”. 202

che, non a caso, rappresentano l’esercizio eticamente e moralmente corretto della professione di commissario di polizia. La figura del commissario de La tarantola dal ventre nero è tratteggiata dal regista con un misto di ironia e malinconia, per evidenziare i tratti quotidiani di un uomo e del suo lavoro, il quale, a causa di esso, vede messa a repentaglio prima la propria vita (l'incidente con il camion che trasporta i ponteggi) e poi quella di sua moglie che diventa vittima dell'assassino e che si salva solo grazie ad un repentino ricovero in ospedale. Ma Tellini è un uomo tormentato138 - profondamente legato alla moglie Anna la quale non esita a sostenerlo, e a incitarlo per portarlo a dimostrare la sua bravura. Anna è una donna decisamente moderna (nel senso migliore del termine) capace di conciliare il lavoro e il ruolo di moglie, indifferente verso il giudizio degli altri e tetragona nei confronti del pruriginoso.

Paolo Cavara durante una pausa di lavorazione de La tarantola dal ventre nero (1971)

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Il commissario Tellini è un uomo che dice alla moglie: “La verità è che credo di non essere fatto per questo mestiere. Non è un lavoro per me...e poi non ci capisco niente...più gente interrogo più mi confondo” 203

Questa normalità, i due protagonisti, rischiano di pagarla cara, prima diventando vittime del maniaco omicida e poi, nel finale, con la reazione umana e rabbiosa che porta il commissario ad uccidere il maniaco a mani nude dopo aver visto la moglie distesa nel letto con un ago conficcato nel collo. Nelle intenzioni di Paolo Cavara, la normalità è una scelta controcorrente e coraggiosa, che porta l'individuo direttamente all'anonimato (agli occhi degli altri) e mette in evidenza la fragilità del singolo quando questi è immerso in una società che gli tesse attorno la tela (come dimostra l'ultimo fermo fotogramma del film).

Paolo Cavara con Enrico Oldoini sul set di “E tanta paura”

In E tanta paura, invece, l’elemento “normalizzatore” è incarnato da un personaggio dissacrante e non convenzionale che viola dichiaratamente i codici del thriller e del poliziesco e che introduce nel film l'elemento - (perfettamente) bilanciato - della farsa declinata sul registro del bizzarro: il commissario Gaspare Lomenzo. Questi entra come un cuneo nella struttura narrativa di E tanta paura, si mostra come refrattario alla figura del commissario di ferro e di destra incarnato dal suo superiore.139 Lomenzo è un uomo progressista nel modo 139

Appena può Lomenzo butta via, strappa o accartoccia “Il Secolo” che legge il commissario capo, incarnazione (anche nell'abbigliamento) del giustiziere, sempre sicuro di se, manicheo nella divisione del mondo tra buoni e cattivi, e desideroso di usare la 204

di pensare, di intendere la vita e i rapporti umani. Vive la normalità del suo lavoro tra dubbi e paure, ascolta attentamente chi gli parla assieme, interpreta con intelligenza le contraddizioni che si manifestano nel suo lavoro, instaura brevi relazioni sentimentali interraziali, seduce provocanti vicine di casa e, infine, afferma di non disdegnare i menages a trois, però: “non mi va di confondere l'amore con quella cosa lì...” (mostrandosi emancipato sì, ma moderatamente). Dopo l'ispettore Tellini del trhriller precedente Paolo Cavara costruisce un altra figura atipica di poliziotto: un antieroe che riesce (anche senza trionfare) solo con la sua intelligenza, a inserire un granello di sabbia nel meccanismo perfetto di Riccio. La menzogna – leva che mette in moto il meccanismo del Male - viene evidenziata attraverso lo sviluppo narrativo che mistifica l'identità del commissario Del Re e il moltiplicarsi delle versioni dei fatti di Villa Hoffman. E' interessante notare come - a proposito di quest'ultimo aspetto - Paolo Cavara ponga, con il suo film, una riflessione sul valore aleatorio e fallace delle parole, dimostrando come basti cambiare pochi dettagli alla prima versione dei fatti che portano all'omicidio di Rosa Catena per giungere alla verità. Rosa viene condotta da Hoffmann e dai suoi amici all'interno della villa in uno scenario tra piante tropicali ed animali esotici: la giovane è un gazzella pronta ad essere divorata dalle iene che la circondano e che ridono mentre lei sta morendo. La vittima è di bassa estrazione sociale mentre i suoi carnefici sono i borghesi che un tempo erano rispettati detentori del potere, mentre ora si devono accontentare di un po' di briciole di sgradevole lussuria e di un losco traffico di diamanti. Entrambi i film, dunque, si presentano come opere attraverso cui il regista bolognese tenta di delineare per immagini un concetto che gli sta particolarmente a cuore: quello della “permeabilità al Male” di ogni individuo.140 La permeabilità dell'individuo al Male è dunque solo una questione di prezzo, non fa distinzione tra classi sociali ed è la società con le sue prerogative e con le sue priorità che determina la corruzione del singolo. Il Male è “assoluto”, incarnato da chi detiene il potere della sicurezza e del controllo: un potere pirandelliano capace violenza come soluzione dei problemi. 140 Lo dimostra chiaramente una frase pronunciata da Pietro Riccio: “La linea che divide la gente per bene dagli assassini è molto sottile... siamo tutti corruttibili, tutti noi possiamo uccidere”. 205

di rendere individui normali uno, nessuno e centomila perché annegati e mimetizzati in una folla caotica, indifferente e tacitamente consenziente.

Cavara e Annie Belle davanti alla locandina di “Manon ’70”: film che fu solo programmato, ma mai svolto (dopo “E tanta paura”)

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“ATSALÙT PÄDER”: RITRATTO D’AUTORE DI UN SEMPLICE FRATE

Sin dal titolo il film non vuole essere un biopic141 ma un omaggio, una sorta di tributo ad una figura antimoderna. Il film di Paolo Cavara riassume, in quattro capitoli, i passaggi fondamentali non tanto dell'esistenza quanto della missione del frate, e si presenta come un'opera fortemente voluta - che privilegiando la scelta di affidare ad un caratterista come Gianni Cavina il ruolo di protagonista - indica chiaramente la strada artistica che il regista intende percorrere. “Già tre anni fa stavo per iniziare un film su Padre Lino, ma numerosi contrattempi mi avevano costretto ad abbandonare l'impresa. Ora le riprese sono iniziate e son assai soddisfatto per l'estrema libertà d'azione che mi è stata concessa dalla casa produttrice. (…) il nostro rifiuto dei “divi” rappresenta una scelta ben precisa: abbiamo preferito non “dilapidare” veri e propri capitali in cachez per gli attori pur senza rinunciare ad artisti di valore, per utilizzare tutti i mezzi in favore di un'effettiva qualità del film. (…) il film presenterà la sua figura in una chiave favolistica e mistica; attraverso questa duplice impostazione cerco di dare un'immagine dialettica e poetica fuori dal comune”.142 141

Frate Lino da Parma è figlio di un funzionario dell'impero austro-ungarico, e viene battezzato con il nome di Maupas Alpinolo dopo essere nato a Spalato il 30 Agosto 1866. Compie il noviziato presso i francescani di Capo d'Istria e nel 1886 è costretto a tornare in famiglia a causa dei suoi sentimenti italiani. Due anni dopo grazie al sostegno dello zio Arcivescovo di Zara, rientra nell'ordine francescano con il nome di Frate Lino per poi venire consacrato sacerdote a Rimini il 30 Novembre del 1890. A 27 anni, il 18 Giugno 1893 giunge a Parma e si insedia nella Parrocchia dell'Annunziata sita nel rione dell'Oltretorrente. Mentre continua a dedicare la propria vita ai poveri e ai bisognosi viene nominato cappellano del carcere di San Francesco e poi del riformatorio minorile della Certosa. Muore il 14 Maggio 1924 presso il pastificio Barilla. 142 Dichiarazione di Paolo Cavara in Gazzetta di Parma, 27 Gennaio 1977. 207

Il film prende le mosse dalla lettura di un articolo (di Giorgio Torelli pubblicato su Epoca del 1973) che incuriosisce Cavara lo porta a studiare la figura del frate e a indagare su un personaggio che egli descrive così: “Padre Lino mi ha colpito come uomo senza collocazione. Uomo di Chiesa fuori dalla Chiesa tradizionalista, uomo di politica fuori dalla politica schematica. In apparenza estremamente semplice, in realtà sfuggente, pieno di dubbi e di segrete contraddizioni, confuso come certi personaggi di Conrad. Con un solo punto fermo, un unico ancoraggio testardo: l’idea della carità”143 Atsalùt Päder (“Ti saluto padre” in parmigiano) è il titolo scelto dal regista dopo aver scartato L'alfabeto di Dio e Accadde a Parma (titolo che accompagna la lavorazione). La struttura narrativa del film, è suddivisa in quattro capitoli legati ad altrettanti periodi storici (1907, 1917, 1922 e 1924) e traccia il percorso di un uomo che nella sua vita è stato imitazione di Cristo. La scelta di Padre Lino da Parma, appare integrata al periodo storico in cui egli compie la propria missione: una sorta di inverno italiano - che va dall'inizio del '900 fino all'ascesa del fascismo - mostrato nel film attraverso la totale assenza di sole ad illuminare le scene. L'inverno italiano è quello in cui padroni e contadini - in gran parte d'Italia - combattono una guerra civile indiretta destinata a sfociare nello squadrismo prima e nel consolidamento del fascismo poi. Il film tutto questo lo mostra molto bene attraverso una serie di sequenze legate tra loro da una collisione concettuale dei contenuti dove, alternatamente, si mostrano le terribili cause e conseguenze dello scontro socio-politico senza esclusione di colpi. Lo scenario storico - che in Atsalùt Päder rimane sempre spazio-sfondo - diventa determinante nel definire la figura “perdente” di Padre Lino da Parma attraverso una dimensione storica che è impressione della realtà. Il frate è un uomo che ha stabilito una priorità di valori che è quella dell'ordine francescano e che al contempo, tenta - strenuamente ma inutilmente - di opporsi alla sopraffazione della modernità. Egli vive il suo essere frate con profonda umanità, all'interno di una città, 143

Massimo Cardone, Avventurose vicende di un frate nella Parma degli anni ruggenti, in Vita-Spettacolo. 208

Parma, ormai lontana dai fasti di capitale del Gran Ducato relegata a semplice provincia del Regno in cui nei suoi rioni popolari la gente vive afflitta dalla miseria e dai pidocchi. Padre Lino, si presenta come un uomo che vive la sua missione agendo sulla linea che separa legalità da illegalità. È un uomo che vive perennemente sul filo del rasoio: egli è, al contempo, timido e impacciato, tenace e volenteroso e in perenne equilibrio tra il peccato e la santità. Porta nella città di Parma un modo di intendere la carità profondamente anticonformista attraverso l'entrare nelle case di tutti, il non disdegnare i pranzi offerti dai ricchi (perché qui è il luogo dove trova il cibo da offrire ai poveri) e il continuo interrogarsi sul valore della preghiera quando questa non è accompagnata dall'azione. La favola raccontata da Paolo Cavara vuole essere una rappresentazione soggettiva - emotivamente coinvolgente - di una carità scandalosa e pertanto profondamente cristiana. Un uomo che, progressivamente, prende consapevolezza dei limiti intrinseci alla sua missione e di come l'elemosina sia in realtà puro assistenzialismo, mentre invece i poveri più che di un bisogno di carattere economico necessitano di ricevere indicazioni di carattere morale, culturale e sociale, per potersi reinserire dignitosamente all'interno della collettività. In quest'ottica va letto il comportamento anticonvenzionale di Padre Lino, il cui modo di agire appare ingenuo e irriverente e si scontra con gli ostacoli imposti dalla società al vivere cristianamente all'interno di essa. Nell'ottica di Cavara, Padre Lino è un uomo che nel suo vivere ad imitazione di Cristo attraversa un calvario necessario che non porta verso nessun trionfo. La sua, infatti è un'azione che non prevede alcun riscatto da parte di chi ne beneficia, ed è una parabola tragica vissuta dal frate nella solitudine, nel dolore e nel dubbio che lo tormentano. “E’ un personaggio che mi ha affascinato subito e ho avuto il desiderio di conoscerlo meglio. Sono venuto a Parma e grazie alla collaborazione di Sergio Passera e don Giuseppe Cavalli, sono riuscito a recuperare un certo numero di libri per lo più di carattere anedottico. Attraverso questi frammenti e le testimonianze dei pochi superstiti che l’avevano conosciuto in vita mi sono fatto l’idea di un personaggio conradiano, sempre alla ricerca di una verifica della propria fede, al significato della propria esistenza. […] Io ho cercato soprattutto di ricostruire la vita del personaggio attraverso le piccole cose. Un personaggio che cercava costantemente il dialogo con la gente dell’Oltretorrente, con 209

gli esseri umani prima ancora che con i comunisti e i socialisti. Al di là di ogni motivo politico cercava se stesso attraverso gli altri.144

Cavara a Parma sul set di “Atsalut pader”, con Gianni Cavina (1978)

Il suo continuo incedere lungo le strade - scalzo o con i sandali ai piedi - è espressione della sua semplicità cristiana che gli permette di consumarsi per gli altri perchè il suo obiettivo è quello di servire tutti e di moltiplicare l'amore che offre al prossimo. Atsalùt Päder si apre proprio con Padre Lino che, dopo aver aiutato una papera trovata in una pozza lungo la strada, per un breve tratto la porta con sé e poi l'invita a camminare da sola; quando questa decide di continuare a seguirlo, il frate capisce che è un dono della Provvidenza perchè subito dopo, quella stessa papera serve per sfamare una famiglia numerosa. Su questa direzione si muovo le azioni successive del frate, come quella dove si nasconde dietro un angolo, con un rasoio in mano, per tagliare alle spalle il cappotto di Colabelli e così facendo glielo sottrae per poi donarlo a qualche povero. La sequenza successiva - quella dei 144

Intervista a Paolo Cavara in La Gazzetta di Parma. 210

continui inviti a pranzo dei ricchi della città - è rappresentativa dell'ipocrisia borghese: questa si mostra agli occhi della comunità come religiosa e devota mentre, dietro il perbenismo di facciata, nasconde odio e rancore verso i propri subalterni. Mentre i borghesi si intrattengono con risate e facezie il frate sottrae il cibo dai loro piatto e lo nasconde dentro la sua veste per poi portarlo in camera sua e deporlo in un armadio ormai divenuto dispensa per la carità. L'agire del frate non è finalizzato solo al recupero di cibo e vestiario e a dare risposta alle indigenze economiche dei suoi parrocchiani, ma anche al rimarcare la necessità di un comportamento morale e cristiano: in quest'ottica si inseriscono sia l'episodio nel negozio del barbiere, dove questi viene invitato a non bestemmiare e il suo cliente viene forzatamente confessato, sia la scoperta di Colabelli all'interno del bordello (la quale diventa per il frate elemento di ricatto nei confronti del borghese traditore della moglie). Non è un eroe, né un modello politico (è risibile come entrambi le parti in campo cerchino di ascriverselo), bensì un uomo che vuole vivere e morire con la gente che ama, rinunciando ad una visione oggettiva del mondo ma scegliendo di guardare ad esso con gli occhi del bambino. Ecco perchè all'interno di Atsalùt Päder, il punto di vista è sempre quello dell'infanzia - nel bene e nel male, nella gioia come nella tragedia -perchè gli adulti hanno già fatto la loro scelta se vivere dentro o fuori questo mondo, mentre i bambini no e soffrono e patiscono a causa delle scelte dei genitori. Il suo muoversi inesausto lungo i sentieri della vita è apparentabile a quello di un menestrello, di un uomo cioè che con la sua sola presenza porta conforto e allegria dove quotidianamente c'è dolore e miseria. Come un pifferaio magico che non dà illusioni, ma che impone concretezza alla realtà egli è sempre seguito da uno stuolo di bambini i quali si legano a lui come ad un padre. Nella sua missione Padre Lino non fa discriminazioni: si comporta da Robin Hood rubando ai ricchi per dare ai poveri; non esita ad entrare nel bordello per chiedere alle ragazze di prendersi cura di un neonato trovatello; si introduce nella bisca per chiedere i soldi necessari affinchè gli ideali dei poveri possano affermarsi. Nella sua ingenuità, non si accorge che, così facendo, agli occhi della comunità si sta schierando dalla parte dei socialisti. Nella sua missione vive una sorta di relativismo del peccato, secondo cui l'azione illegale ma caritatevole può essere necessaria in un mondo costituito prevalentemente da sordi. Non è casuale che gli adulti soprattutto quelli benestanti - parlino sempre con lui senza mai 211

ascoltarlo (se non quando recita barzellette a richiesta), mentre i bambini lo guardano, lo osservano, lo studiano e lo ascoltano per prenderlo a modello. In quest'ottica va letto anche l'inverno perenne che contraddistingue la messa in scena del film: qui la natura e il paesaggio sono metonimia di una società morta, e irrimediabilmente giunta al capolinea, che non fa più distinzione tra necessario e superfluo e che vive il quotidiano come una guerra continua tra chi comanda e chi deve servire. La parte del film relativa a questo scontro indiretto è forse quella più rappresentativa dell'impotenza del frate di fronte alla stupidità e alla cupidigia dell'uomo.145 Ma se il mondo dei borghesi è descritto dal regista, tra ironia e sarcasmo e con un misto di ferocia e compassione, quello dei poveri viene illustrato attraverso una serie di quadri simbolici, volti a raffigurare le parole che Padre Lino rivolge al priore dopo essere stato rimproverato per non essere mai in convento a pregare: “Però priore... penso che anche fuori è un lavoro che si fa per Dio”. E questo lavoro passa, nell'azione del frate attraverso la resistenza - che egli oppone al mondo (moderno) in cui vive - portata avanti attraverso una spiritualità “laica” che è fatta di attenzione per le piccole cose.146 Nella seconda parte del film - quella che si sviluppa attraverso le date emblematiche del 1917 e del 1922 - Paolo Cavara mostra come l'azione non violenta del frate sia destinata ad infrangersi contro la violenza dell'uomo. Se l'episodio relativo all'occultamento del ferito tedesco, appare come poco più che un accenno all'assurdità della 145

Di conseguenza a pagare il prezzo più alto di questo conflitto perenne sono i bambini, ai quali dallo sciopero generale viene tolto il latte e dalla rivalsa dei padroni vengono tagliati i piedi. La sequenza che mostra i fattori e i figli dei padroni spargere cocci di vetro lungo la strada vicino ai campi dove giocano i bambini è seguita dalle immagini di questi ultimi che giocano felicemente in mezzo alla natura inconsapevoli che quella felicità, semplice e immediata, da lì a poco si trasformerà in dolore e sofferenza. Le inquadrature che mostrano i volti in lacrime dei bambini dopo che questi hanno camminato sui cocci di vetro non sono un facile richiamo all'emotività dello spettatore, ma un urlo disperato e violento che anticipa la reazione di Padre Lino. Questi, imitando Cristo, prende su di sé la croce della sofferenza, cammina lungo la strada riempita di cocci taglienti e massacrandosi i piedi raggiunge qualcuno che possa dare soccorso ai bambini. 146 L'immagine che egli vede attraverso i vetri della cascina, quando la madre/balia che allatta il neonato offre l'altra mammella alla vecchia che le siede accanto è una sorta di quadro di una Madonna nutrice che con il suo latte ristora i due estremi della vita. 212

guerra e alla relativa divisione del mondo tra amici e nemici, quello relativo ai fatti di Parma del 1922147 mostra – attraverso tutta la sua forza devastante – l’orrore della violenza. Per mostrare l'orrore generato da quei giorni, Paolo Cavara concentra in un unico episodio gli esiti nefasti e tragici dell'assedio. Mentre i mariti sono in strada a combattere sulle barricate le donne sono in casa ad assolvere i doveri domestici e ad accudire i bambini: Padre Lino si reca da una di loro e al momento del commiato gli viene offerto un bicchier di Rosolio che i bambini - giocando intorno al tavolo - gli fanno cadere dalle mani. Durante il gioco uno dei bambini apre la finestra e improvvisamente viene freddato da un colpo di fucile. La madre corre giù in strada con in braccio il corpo del figlio ad urlare tutto il proprio dolore; Giovanni il marito, dopo aver visto quanto accaduto - ferisce un fascista ad una gamba, lo trascina oltre le barricate e lo fa pestare selvaggiamente dai propri compagni. Padre Lino vive i suoi ultimi anni, da attore della carità e spettatore delle miserie umane. L'epilogo della sua esistenza si sta avvicinando, i capelli ormai canuti circondano un viso segnato dalle rughe e dalla fatica, le gambe malferme non lo reggono più, (nonostante i suoi continui incitamenti). Padre Lino termina la sua vita tra coloro che più di ogni altro ha amato: in piazza, tra la gente che dopo averlo circondato e accompagnato veglia il suo corpo disteso sul selciato, prega stretta attorno a lui. Atsalùt Päder è quasi, un documentario per procura, che mediante la figura di Padre Lino ribadisce l'antimodernismo del regista in un film partecipe ed emotivamente coinvolgente in cui, volutamente, si spinge fino ai limiti (senza mai superarli) dell'agiografia.

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La città della pianura padana, nell'agosto del 1922 è teatro dell'assedio da parte degli squadristi di Roberto Farinacci prima e Italo Balbo poi, cui si oppongono socialisti e Arditi del Popolo. La città emiliana, dopo alcuni giorni di assedio e di barricate riesce ad avere la meglio sui fascisti costretti alla ritirata: protagonisti di quei fatti sono gli abitanti dei quartieri Naviglio, Saffi e Oltretorrente, quegli stessi in cui opera Padre Lino da Parma. 213

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PARTE QUARTA

UNA DIFFICILE MEDIAZIONE

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IL TEATRO, LA MASCHERA E IL TRASFORMISMO IN “VIRILITÀ” E “IL LUMACONE”

Il periodo mediano del cinema di Paolo Cavara propone due film decisamente atipici: Virilità e Il lumacone. Virilità è un film che ricalca - nello schema del soggetto di Gianpaolo Callegari - Pane, amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini. Quella di Virilità, infatti, è una sorta di rivisitazione del neorealismo rosa ed è al contempo una farsa di costume all'interno della cultura dello strapaese. Dal film emerge un provincialismo - giocato tra gli opposti della religione e dell'erotismo - mostrato attraverso la follia di personaggi che non diventano mai macchietta, ma che anzi assumono un aurea di credibilità (seppur come maschere). Virilità presenta come tema dominante quello dell'incomunicabilità: tra padre e figlio, tra arcaico e moderno, tra Londra e la Sicilia, tra uomo e donna e infine tra passato e futuro. Dietro la patina della dimensione farsesca con cui è orchestrata la storia narrata - in cui il regista privilegia lo sguardo sulla vita da un punto di vista comico/ironico - si nasconde un particolare interesse per le tipologie antropologiche e comportamentali di un microcosmo di paese. I personaggi del film non sono mai bidimensionali ma assumono, per certi aspetti, una profondità esistenziale finalizzata all'evidenziare come essi operino e agiscano (rischiando in prima persona) per rompere le convenzioni precostituite. "Si tratta di una commedia umana in un clima di follia razionale, dal carattere un po’ pirandelliano, in bilico tra dramma ed umorismo ma essenzialmente puntata sulla comicità. Il fatto che io giri un film del genere forse può far pensare, considerati i lavori da me fatti finora, che io affronti per la prima volta una pellicola comica. Indubbiamente è la mia prima pellicola comica a soggetto; tuttavia come autore di documentari e di film inchiesta, ritengo di averne già realizzate. La rappre217

sentazione obiettiva della realtà è infatti sempre comica. Nei documentari ad inchiesta ho sempre sottolineato questo lato che del resto traspariva in modo naturale, senza forzatura. Comunque in questo caso propongo di raccontare la follia con un senso di verità, con tutta la verità, cioè, che la follia contiene. Una follia, comunque, talmente lucida che diventa estremamente vera e semplice. Naturalmente in tutto ciò il discorso erotico c’entra perché l’erotismo fa parte della vita, della "follia” dell’uomo, della sua tragedia esistenziale. Ma è soltanto una componente, fra altre non meno importanti componenti. Tuttavia i due elementi fondamentali sono la farsa e le convenzioni in lotta fra loro, nell’ambito delle apparenze, con il loro reciproco rapporto che man mano si fa teso ed intenso fino a divorarsi vicendevolmente.148 Se da un lato Paolo Cavara, in Virilità, compie una riflessione sui luoghi comuni dello strapaese e sul pettegolezzo come strumento di affermazione di una verità inesistente, dall'altro racconta una ribellione urlata (perchè rabbiosa e animata dalla maldicenza) verso ogni forma di pregiudizio culturale e antropologico. Discorso opposto – perché declinato sui luoghi comuni della stracittà – ma coerente con la critica alle convenzioni e ai comportamenti trasformisti - emerge nel successivo Il lumacone. Il film (scritto a quattro mani dal regista e Ruggero Maccari) dietro, l’aspetto poetico, nasconde la rappresentazione caustica di una società fatta di soli servi, in cui i padroni, sono invisibili ma presenti. La corte dei miracoli costruita attorno alla figura del cuoco è fatta di personaggi dai tratti pasoliniani, puri e ignoranti. Il riscatto che giunge nel finale non può che essere pura apparenza, qualcosa di onirico, illusorio e non in grado di sollevare, le minoranze dalla loro mediocrità. Lo sguardo del regista passa attraverso una lente deformata nel costruire un nucleo di personaggi - ognuno dei quali rimanda allo stereotipo del proprio ruolo, - per meglio raffigurare comportamenti medi (nel senso di mediocri). Dietro la farsa degli equivoci, si annida una feroce critica all'ipocrisia della famiglia, al tabù della sessualità, al ritmo frenetico della città e i suoi meccanismi tentacolari e opprimenti. Il lumacone è uno scavo antropologico che - come nel film precedente - individua come unico antidoto alla degenerazione quello della follia umana. Quella de Il lumacone è la rappresentazione teatrale di un microcosmo sociale para148

Dichirazioni di Paolo Cavara in Il messaggero 17 Ottobre 1973. 218

digma di un’intera società; quella che costringe i cittadini a rinunciare a se stessi, a interpretare ruoli che non gli appartengono, a farsi servi con l'illusione, un domani, di poter essere padroni.149 All’artificiosità da quinta teatrale dell’appartamento di Gianni a Roma, Virilità contrappone l'attenzione verso le scenografie naturali teatro della vicenda – qui intese come spazio-specchio influenzato dall’agire dei personaggi: la spiaggia in cui soggiornano i due inglesi, è rappresentazione della libertà; il paese, con i suoi vicoli, i suoi antri nascosti, le sue finestre chiuse è una prigione socio-culturale da cui è difficile poter uscire; le meravigliose Gole dell'Alcantara – mostrate nel finale del film – sono rappresentazione scenografica di un ritorno alla natura, alla spontaneità e alla manifestazione dei propri sentimenti (nonostante tutto e nonostante tutti). Non a caso i paesani richiamati da Don Vito Lacasella per mostrare loro il tradimento della moglie con il figlio, possono osservare solo dall'alto ed, evidenziando tutta la loro ipocrisia, non scandalizzarsi per quanto vedono sotto i loro occhi, ma solo ammettere di aver sbagliato nel credere alle malelingue che hanno diffuso la falsa notizia dell'omosessualità del figlio di Don Vito. Quella di Virilità, è ancora una società, antropologicamente arretrata, i cui abitanti devono dimostrare agli occhi degli altri la propria potenza sessuale; una società omofoba e retrograda, in cui il sesso è più parlato che agito, in cui la volgarità domina i comportamenti di genere e in cui i giovani non hanno alcun rispetto per i vecchi. Il ritorno a casa di Roberto dal “nuovo mondo” è vissuto da lui tra innocenza e turbamento: egli è l'elemento di rottura del film - il ragazzo che ha vissuto a Londra - e che introduce nel paese natio tutta una serie di elementi dirompenti come il suo abbigliamento, i suoi due amici il cui genere di appartenenza è nascosto dal look, il suo modo (apparentemente) smaliziato e spontaneo di intendere la vita. Roberto è un concentrato di contraddizioni, forse né completamente vittima né completamente colpevole, perché il suo agire non appare dettato da un calcolo premeditato quanto da un istintivo spontaneismo 149

Come ben si dimostra sin dall'inizio surreale con Gianni ubriaco che pronuncia, di fronte ad un attonito cittadino alla finestra, una frase che appare programmatica: “Perchè io sono infelice... per colpa della cagna”. La “cagna” in questione è la moglie di Gianni, che lo ha tradito e lasciato per aspirare ad una vita migliore, per provare a salire l'ascensore sociale, per diventare borghese e successivamente padrona ma, come dimostra il finale, le ambizioni della donna sono rimaste solo sulla carta. 219

In tutta la prima parte di Virilità, Roberto e gli altri personaggi sono maschere impegnate in una spasmodica ricerca di una dimensione di appartenenza150. Cettina è moglie tormentata dal dubbio e dall'infatuazione verso Roberto; Don Alfonso è diviso tra l'opportunismo delle offerte dei fedeli per la processione e il mandato del suo magistero nei confronti della comunità; Illuminata (la serva di casa Lacasella che ricalca la Caramella del film di Comencini), è sbalordita di fronte al comportamento di Roberto (come quando lo vede cucinare uova a colazione) e al contempo mantiene un rapporto di amore/odio nei confronti del padre; infine, Don Vito vive sospeso tra voglia di modernità (il riferimento all'imminente referendum sul divorzio) e i lacci che lo legano alla sua essenza di siciliano virile (il matrimonio combinato e il comportamento che tiene in fabbrica con le sue operaie). Ne Il lumacone, invece, tanto la quinta teatrale delle scenografie quanto le maschere che si agitano sulla scena attorno a Gianni sono complementari al quadro a tinte fosche che illustra una realtà ormai conclamata: quella secondo cui le persone esistono, vivono e agiscono in funzione dei consumi. L’elemento anticonvenzionale è Gianni (incarna il concetto di carattere goldoniano), un personaggio che muta in funzione dello spazio che occupa e che subisce l’influenza di chi lo circonda. Un carattere che cambia e si adatta alle circostanze ma che non è mai completamente libero di agire soggettivamente perché pressato da forze esterne che lo sfruttano, lo trasformano in oggetto di servizio e tendono a mortificarne il candore voltairiano. Il cuoco che, anacronisticamente e romanticamente, vuole comprare il vagone di un treno per trasformarlo in ristorante, è il servo di tutti gli abitanti del palazzo in cui vive.151 Ne Il lumacone lo stesso Gianni, parlando di se stesso evidenzia la sua anomalia rispetto a questo contesto, il suo voler essere contro, il suo essere un perdente, la sua convinzione di bastare a se stesso: “Io sono come la lumaca, c'ho la casa e le corna”. Gianni è un alcolista, ma non è meno peggio del titolare indolente della pizzeria, o dell'assistente sociale mandata da “Gli Alcolisti Anonimi”, per controllare il suo astenersi dalla dipendenza. La signo150

La ricerca di un’identità è testimoniata dal continuo fare ricorso agli specchi – da parte del regista – per mostrare I momenti di crisi dei personaggi. 151 Sul palazzo in cui vivono Gianni e il microcosmo al centro del film, pende la richiesta di vendita degli appartamenti da parte di un immobiliare che vuole trasformare il cadente ma artistico palazzo in un moderno residence polifunzionale. 220

ra Gallone - che sin dal nome appare come una parodia critica di tutte quelle come lei e delle loro associazioni di appartenenza - è più interessata al suo successo personale come motivatrice piuttosto che al reale bene dei frequentatori de “Gli Alcolisti Anonimi”. 152 In Virilità sono anticipati tanto il meccanismo narrativo che l’utilizzo dei personaggi secondari che ne Il lumacone rappresentano canovaccio e maschere della farsa poetico-surreale. In Virilità si procede allo svelamento di una realtà meschina e misogina che agisce sottotraccia nei comportamenti quotidiani di tutti i cittadini di questo paese “archetipo” in cui si sviluppa il discorso sull’ipocrisia e sulle dinamiche del pettegolezzo (e sul suo affermarsi come “verità” popolare incontrovertibile). Se in Virilità il pettegolezzo e il suo diffondersi rappresentano l’anticamera della persecuzione – ben presto destinata a diventare stigma – ne Il lumacone il rapporto tra padroni e servi non solo non fa distinzione di classe ma – come in Virilità - assume la forma di una dipendenza necessaria. Come dimostrano le dinamiche erotiche della giovane coppia composta da Ginetto ed Elisa. Il primo è un “angelo pasoliniano” che appena uscito dal carcere torna a rubare, mentre la seconda è una servetta - tanto ingenua quanto consapevole che accetta di fare tutto ciò che gli viene richiesto.

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Le attività degli associati sono descritte – in modo parodistico - attraverso ridicoli meccanismi di terapia “all'americana” o mediante assurde litanie come quella suggerita ai pazienti quando entrano in un bar: “Mi dia un whiskey,... anzi no un tamarindo” (le cui parole Gianni inverte volontariamente).Ma a “Gli Alcolisti Anonimi” Gianni incontra anche Don Mauro, un prete che manifesta tutta la sua solitudine dettata dal proprio magistero, incapace di resistere alla tentazione di bere e scopertosi sessualmente attivo con l'avanzare degli anni. Quello di Don Mauro è un ritratto straziante che Paolo Cavara mitiga attraverso un ironia gentile e profondamente umana. 221

Paolo Cavara istruisce Turi Ferro e Agostina Belli sul set di “Virilità” (1974) - [getty image]

Ginetto è un furbo che dice di rubare per necessità, ma che si comporta da parassita sfruttando la bontà di Gianni e utilizzando casa sua per nascondere loschi traffici mentre si illude di trovare la felicità nei soldi. Non esita a mettere in scena una ridicola truffa per ottenere i soldi per andare al cinema e - dopo il fallimento di questa (a causa dell'ingenuità di Elisa) - quasi per rivalsa, porta la donna in un prato per scambiarsi tenerezze per poi obbligarla a spogliarsi di fronte ai detenuti del carcere che guardano alla finestra (e per mantenere la promessa che lui aveva fatto loro).153 153

La sequenza del titubante e vergognoso spogliarello di Elisa è spietata e disarmante e - nella sua lucidità e nel suo rigore - trasmette tutto il senso di perdita dei valori e di volgarità che si annidano nella società. Non a caso, durante il ritorno in macchina è la stessa Elisa a definire se stessa sinceramente, quando tra le lacrime dice: “Piango perché sono stupida perché non basta che mi tratti come un materasso che te ce sdrai sopra quando te pare...adesso pure gli spogliarelli per gli amici tua...e io dico sempre di si, a tutti... so abituata ad obbedire. Io so ‘nnata serva così come chi nasce bionda o bruna...e anche se ci chiamano collaboratrici domestiche io so ‘nnata serva e serva rimango, e quindi sempre si...si...si...”. 222

Date queste premesse sia in Virilità che ne Il lumacone, è quindi, inevitabile, che l'unica forma possibile di opposizione a questo status quo sia quella della follia agita attraverso un disincanto trasformista. Nella seconda parte di Virilità, Don Vito Lacasella, subisce una trasformazione anche fisica (da sottolineare il suo memorabile cambio di espressione al momento della scoperta del tradimento della moglie) e assume comportamenti irrazionali. Se da un lato, il pettegolezzo diffusosi sul figlio conduce verso l'incomunicabilità totale (tra padre e figlio) dall'altro don Vito si apre al dialogo con chi - fino a quel momento - non doveva essere degnato neanche di uno sguardo 154. Ne Il lumacone Gianni per mantenere le apparenze è obbligato all'arrivo, invasivo e impiccione, dei parenti a dissimulare una vita “normale”, a mostrare di vivere in una casa come si deve (e non nel suo tugurio), introducendoli nell'appartamento di Giorgina (prostituta imborghesita) L'incomunicabilità è una dominante narrativa, che anima l'infelicità dei protagonisti e che si lega al rapporto tra servi e padroni invisibili, tra cittadini che devono solo rispondere ad ordini e richieste. Il contesto ottuso e sordo in cui vivono sia don Vito che Gianni li porta – nei finali dei film - a doversi “trasformare” in folli commediografi autori di una messa in scena che – loro malgrado – sono ben consapevoli essere fittizia e inutile. Gianni ne Il lumacone, è, dunque, solo il regista di una messa in scena teatrale destinata a reiterarsi in una sorta di ultimo atto permanente. La sua è una vittoria donchisciottesca di cui rimangono solo la bellezza e l'inconsuetudine di un vagone ferroviario deposto su una terrazza romana. Anche Don Vito in Viriliità non può - per mettere a tacere le malelingue – che diventare regista di una messa in scena (una sorta di rappresentazione dei pupi siciliani) di cui egli stesso è autore e protagonista. Organizza l'incontro tra Roberto e Cettina alle Gole dell'Alcantara e - armato di fucile e in preda all'isteria - incita i suoi concittadini a seguirlo per vedere lo “spet154

Don Ciccio - colui da sempre è ritenuto “il cornuto” - gli dimostra come siano le dicerie a diventare più vere della verità: “Dimostrare di non avere le corna è difficile. Lo dicono tutti... è come se l'avessi”. Affermazione inequivocabile che fa il paio con l'amara riflessione che Roberto esprime di fronte al padre seduto sulla panchina: “E' che … certe volte uno crede che andando all'estero, viaggiando... uno diventa un altro, e invece non è vero”. Don Vito di fronte alle parole del figlio ammette come il suo mondo (e quello di quelli come lui) sia, profondamente e irrimediabilmente, distante da quello del figlio (e di tutti i giovani): “La verità... è che io e te non abbiamo niente da dirci”. 223

tacolo” del tradimento, e per poter finalmente dimostrare la virilità del figlio e la sua (perchè in fondo, dietro c'è sempre il concetto di ereditarietà). E quello delle Gole dell'Alcantara è un vero e proprio “spettacolo” con i protagonisti ignari e inconsapevoli di esseri attori di una messa in scena, cinica e goliardica, in cui il paese intero è spettatore interessato e scopofilo.

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L’AMICIZIA VIRILE, L’EROISMO SILENZIOSO E L’AVVENTURA PICARESCA. LO “SPAGHETTI WESTERN” SECONDO PAOLO CAVARA

Uscito sugli schermi italiani il 29 Marzo 1973 (quindi nel periodo di estinzione del genere) Los Amigos155 si presenta come un western atipico, frutto di quella contaminazione crepuscolare divisa tra violenza e comicità. Originariamente, il film è destinato ad essere un'opera seria e puntuale sulle gesta del vero Erastus “Deaf” Smith - un personaggio di primo piano nella rivoluzione del Texas avvenuta a cavallo del 1830. Le esigenze della produzione appaiono però contrarie alla realizzazione di un prodotto serio (e quindi economicamente rischioso) nel momento in cui il crinale intrapreso dal genere poggia prevalentemente su caratteri comico-picareschi e, così, l'intero impianto narrativo viene via via destrutturato fino alla forma attuale che si regge prevalentemente sul rapporto tra compari: un eroe e la sua spalla. Nonostante queste defezioni strutturali il film - ufficialmente firmato alla sceneggiatura da Oscar Saul e Harry Essex - in realtà fruisce dei contributi (non accreditati) di Augusto Finocchi, Lucia Drudi Demby e dello stesso Paolo Cavara. “E’ una storia popolare. La storia di un’amicizia. L’amicizia è un tema che mi ha sempre interessato. E’ il modo in cui tentiamo di uscire dalla solitudine. E nel caso di questo film ha come sfondo proprio una condizione di solitudine tremenda. Il personaggio centrale, ispirato ad un personaggio storico eroe della guerra del Messico, Deaf Smith, è sordomuto dalla nascita. Cioè condannato ad una solitudine tragica, il silenzio a vita. Forse per questo è diventato eroe, per esprimersi potentemente in una dimensione di oltranza, come nell’impresa raccontata dal 155

Girato Mezzano Romano (il fortino), Le Gole dell’Alcantara (la sorgente e il fiume) e la zona del crotonese tra calanchi calcarei e assolati. 225

film: tentativo quasi disperato di impedire un putsch nazionalistico nel Texas. L’impresa è l’occasione di mettere alla prova l’amicizia. Ears, il giovane compagno di Deaf, crede di essergli indispensabile. In realtà è affascinato da lui, tanto dà quanto riceve. Si ha sempre bisogno di chi ha bisogno di noi, voglio dire. L’amicizia è una solidarietà nella lotta, nell’esistenza. Fino a che punto resiste? Fino a che punto riesce a non diventare una strumentalizzazione e una prevaricazione? Sono interrogativi che cerco di porre perché per me fanno parte di un discorso più largo, il rapporto fra l’uomo e la società”.156 Se è vero che è sicuramente Johnny Ears ad avere bisogno del suo eroe, è altrettanto vero che, nel momento di pericolo e di maggior bisogno (fuori dalla miniera) Erastus - senza l'aiuto dell'amico e compare - molto probabilmente sarebbe destinato a fine certa. Los amigos agisce su due registri narrativi alternati, i quali mettono a confronto il carattere picaresco e guascone di Johnny con l'idealismo e il senso di giustizia di Erastus. Da questo connubio emerge un film capace di andare oltre alla retorica di un filone, già ampiamente inflazionato. Un film curioso e sanguigno che - sull’architrave dualistica e manichea della contrapposizione tra amici - è pervaso di inquietudini inspiegate figurativamente declinate sulle dinamiche e sulle impostazioni tipiche del documentario. Nel film si respira un’atmosfera mitica da ballata peckinpahiana in cui sorprende - per efficacia e inventiva - la sequenza della sparatoria all’interno della miniera 157. L’oscurità del luogo metaforizza quella uditiva che lega lo strano rapporto di amicizia tra i due compari. Erastus – come ogni eroe western – è un solitario. L’eroe può essere incarnato solo da uomini che presentano adeguate caratteristiche (un tempo quelle di principi e cavalieri) come la bellezza, l’intraprendenza, i valori morali le capacità e, ovviamente, la lealtà. Posto che la bellezza – almeno secondo i canoni tradizionali - non appartiene di certo a Erastus, non si può non notare come il suo handicap si riveli essere sia il punto di forza che guida il suo agire sia una sorta di elemento di riconoscibilità eroica e virile. Nel suo caso l’impossibilità a comunicare, oltre a diventare un valore, 156

Paolo Cavara, dall'interno della copertina del disco “Los Amigos” - Cam Edizioni. Nell’oscurità dell’anfratto resa dal nero totale dello schermo si intravedono schegge di volti illuminati solo dal bagliore fulmineo delle esplosioni. Istanti, frammenti sfuggenti in cui si percepiscono l’angoscia e la paura dei protagonisti. 157

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segna distintamente gli snodi narrativi del film e definisce la suspance. Emblematica, a tal proposito la scena - che interrompe l’esplosione programmata – con i bambini che giungono a giocare sulla strada (nel punto in cui deve avvenire l’esplosione). L’amicizia tra Ears e Deaf Smith trova, in questo momento, una nuova e più solida dimensione rispetto al momento precedente in cui l’eroismo solitario di Deaf ha messo a dura prova il sodalizio tra i due. Da questo momento in poi i due, infatti, agiscono letteralmente come la mente (Erastus) e il braccio (Johnny) senza più bisogno né di leggere il labiale né di guardarsi in faccia per comunicare. E’ come se il dramma sfiorato avesse annullato ogni barriera e fosse servito da strumento per far loro capire che solo con la reciproca collaborazione avrebbero potuto avere la meglio sul generale Morton. A suggellare questa dimensione concorre anche il non-duello finale – altro elemento di scardinamento di un genere troppo stereotipato (per la visione di Paolo Cavara) – in cui nel silenzio imposto dalla situazione l’attesa è giocata sul raccordo di sguardo (e di reciproca intesa) tra Erastus e Johnny, prima che l’eroe - senza pensarci su troppo – freddi il suo avversario (opportunamente e correttamente riarmato). Nella struttura narrativa di Los Amigos il disabile è eletto ad eroe, scelta che non è dettata tanto dalla condizione di apparente inferiorità del personaggio, quanto dalla necessità e volontà di farlo interprete (non convenzionale) dell'esercizio della giustizia. Lo spaghetti western ha conosciuto altri eroi disabili tra i quali emergono sicuramente il pistolero cieco di Blindman (1971) di Ferdinando Baldi e il protagonista muto de Il grande silenzio (1968) di Sergio Corbucci, ma l'Erastus di Los Amigos - oltre a essere personaggio storico - è sicuramente anche, rappresentazione metaforica di un'ideale molto alto come è quello della giustizia. Non a caso egli è prima colui che pone Esther (la moglie del generale Morton) di fronte agli esiti del massacro della sua famiglia per farle prendere consapevolezza della malvagità di suo marito, poi nel finale, è lui stesso a prendere voce attraverso le raffiche della Gatling Gun. Nel film, c'è un evidente legame tra il massacro iniziale - con cui viene sconvolta la tranquillità della famiglia McDonald - e quello finale all'interno del fortino: una sorta di rapporto tra causa ed effetto messo in atto attraverso una vendetta (che è tale solo apparentemente) che nasconde l'esercizio della giustizia e la difesa dei più deboli. La mitragliatrice (e il suo rumore), dunque, diventano urla di giustizia da parte di Erastus, come dimostra il fatto che solo lui riesca a far funziona227

re la macchina, mentre, precedentemente, Johnny non è stato in grado di sparare neanche un colpo. Johnny è, come si definisce lui stesso, “poca roba”, è un uomo più interessato alle donne158 che all'azione, incapace di ragionare lucidamente in virtù di un atteggiamento impulsivo e puerile. Di fronte a qualunque difficoltà non trova niente di meglio da fare che sbraitare il suo disappunto. In base alle norme di virilità il regista scrive la sintassi delle relazioni di genere stabilendo chi è eroe e chi il comprimario. Johnny, quindi, non può fare altro che la spalla in base ad una gerarchia nazionale definita in base a termini di razza e di etnia 159.

Cavara in compagnia di Anthony Quinn per “Los amigos” (1972)

Egli, pertanto, non avendo le caratteristiche adeguate per essere protagonista è obbligato ad accantonare ogni velleità di concretezza in favore della sola possibilità di sognare. Cavara, questa volontà la denuncia sin dall’inizio del film160 per poi concretizzarla visivamente 158

Anche la sua passione per le donne non potrebbe trovare compimento senza l'aiuto di Erastus che, di volta in volta gli dà i soldi per pieagarsi l’ingresso nel bordello. 159 Il suo nome nella sceneggiatura originale era Juanito e le sue origini di madre ignota messicana. 160 Il film si apre proprio con la voice-off che evidenzia i due caratteri opposti e com228

solo con l'ultima inquadratura: un urlo disperato, dipinto sul volto terrorizzato e spaesato di Johnny il quale non vede più Erastus al suo fianco. Un fermo fotogramma, in cui si concentrano le paure di quest'uomo fragile che maschera le sue debolezze attraverso un'irruenza infantile. Los amigos, nel rispetto dei codici spaziali del genere, inserisce alcuni elementi anticonvenzionali per non dire bizzarri. È interessante soffermarsi, ad esempio, sulla figura del prete/pastore: una sorta di politicante invasato la cui dottrina è finalizzata al mantenimento della purezza della razza texana. Un pastore che non è mai in Chiesa ma sempre in mezzo alla piazza, che arringa ferocemente la folla o che gestisce la sepoltura della famiglia McDonald dopo il massacro di cui è stato silenzioso partecipe. Un pastore che non guida il suo gregge ma lo frusta, con gli occhi spiritati, con una dialettica violenta e fascista, pervasa da un moralismo becero e ipocrita, e con un agire che è più simile a quello di un boia piuttosto che a quello di una guida spirituale. Nel film egli sembra essere una creatura infernale, una sorta di demiurgo diabolico in grado di plagiare e condizionare l'intera comunità. È altresì singolare il fatto che la sua morte avvenga per mano di Erastus nel silenzio più assoluto di una camera del bordello - quasi una sorta di ironica messa in scena della pena del contrappasso. Un altro aspetto – poco convenzionale per lo spaghetti western – è l'attenzione alla definizione della suspance e alla creazione del climax come nella scena del tentato omicidio di Erastus nella camera del saloon dove i tempi di montaggio sono quelli del thriller. Nella lunga sequenza del massacro finale - in cui l'alternarsi tra oggettive e soggettive fa decisamente riferimento ad un'azione mostrata da lontano, seminascosta tra gli elementi della messa in scena, ripresa come in presa diretta - voci e rumori ambientali assumono il valore di metronomo dei tempi dell'azione. Basta notare l'utilizzo del sonoro che viene fatto con la giarrettiera con i campanellini, che “annuncia” al nemico plementari: emergono tanto l'abilità e la scaltrezza di Erastus compensano la presunzione e la pavidità di Johnny: “Io sono Johnny Ears... quello che avete visto prima è Erastus Deaf Smith. È lui che conta... è un eroe. Io invece poca roba... guardatelo un po'. Io lo vedo quasi sempre da questo punto di vista... da dietro. Lui va sempre avanti, non si stanca mai, fa tutto maledettamente sul serio. Per chiamarlo ho un metodo sbrigativo: la sassata. Voi non sentite quello che gli sto dicendo...perchè non sente nemmeno lui... è sordomuto; però capisce... dite, perchè non lo mollo? … perché senza di me sarebbe perduto... è vero che è stato la guida del Presidente Houston... però eh eh... c'ero anch'io”. 229

la presenza di Erastus all'interno del fortino: egli è sordomuto e pertanto non può sentirla, ma lo spettatore si. Nel progressivo respiro epico che emerge nel film, questo si rifà, alle cadenze malinconiche venate di picaresco di opere come The Ballad of Cable Hogue (La ballata di Cable Hogue, 1970) di Sam Peckinpah. Erastus, infatti, è prima di tutto un’icona storica e le sue gesta eroiche vengono cantate da Cavara con lo stile di un menestrello. L’azione attraverso cui Smith porta avanti il discorso sulla giustizia trascende i normali parametri narrativi per venarsi progressivamente di leggenda: non si può spiegare altrimenti la scelta - apparentemente scriteriata e suicida - di attaccare da solo il forte di Morton. Ma Erastus è un puro che, come Cable Hogue, vive fuori dal tempo e nell’immaginario della memoria (storica, ma non solo). In Los amigos - come nella ballata di Sam Peckinpah - prevale la forza simbolica delle immagini su quella limitata della parola: negli ultimi quaranta minuti i dialoghi si fanno sempre più scarni e rarefatti, per lasciare spazio e voce alla dinamite e all'esplosione dei colpi di pistola prima e di mitragliatrice poi. Nonostante ciò, nell'economia del film, appare centrale l'invettiva161 colma di rabbia e di invidia che Johhny rivolge nei confronti di Erastus. Con le parole pronunciate da Johnny emerge chiara la rappresentazione parodistica del suo personaggio (anche perché è chiaramente lui a non essere nessuno senza la presenza di Erastus), successivamente acuita e amplificata dal fatto che lui non sappia usare e non riesca ad attivare la Gatling Gun162. Nell’indagare il film di Paolo Cavara si avverte la voglia di inserire il discorso sull’eroismo e sull’amicizia virile all’interno della grande tradizione del western americano. Rimane tra i fotogrammi di Los amigos la sensazione di film mancato. nel senso che i due grandi temi dell’eroismo e dell’amicizia virile - a cui ne va aggiunto un terzo, quello dell’erotismo – sono appena abbozzati nell’esito finale del film. In particolare un film come Warlock (Ultima notte a Warlock. 1959) di Edward Dmytrick - nel suo essere esempio di western psicologico - per il regi161

“Ma dove vai? Dove credi di andare? Solo ad una cosa pensi... a fare l'eroe. Erastus Smith, fa cose che nessun altro fa... devi fare per forza l'eroe per sentirti qualcuno, altrimenti schiatti. Te lo cacci o no in quella tua testaccia che sei sordomuto e senza di me non sei nessuno?”. 162 Cosa paradossale, visto che Johnny è interpretato da Franco nero, cioè Django, uno che della mitragliatrice ha fatto il suo credo e il suo verbo. 230

sta bolognese risulta essere qualcosa di più di una semplice fonte di ispirazione. Non solo per la presenza di Anthony Quinn ma soprattutto per le dinamiche che regolano l’amicizia virile con Henry Fonda (al limite dell’omosessualità). Il film di Dmytrick nel mettere in scena un personaggio eroe (Fonda) e uno spalla (Quinn) agisce da modello di riferimento per il rapporto tra Erastus e Johnny di Los amigos. Anche in Warlock Tom Gordon (interpretato da Quinn) è un disabile – in questo caso uno storpio) così come Clay Blaysedell (Fonda) nella sua ricerca di normalità si spinge fino al limite del matrimonio. I due sono destinati a separarsi: Gordon muore e Blaysedell rinuncia al suo mandato, alla vita coniugale e si allontana, a cavallo, dal villaggio come un eroe solitario. Paolo Cavara per la sua idea di spaghetti western non guarda tanto al modello italiano di riferimento bensì la sua è una ricerca di contaminazione tra la deriva picaresca e il passato glorioso del super genere di cui riprende, rivisitandoli, i due topoi cardine. Se Erastus giunge nel villaggio con il compito di esercitare la giustizia legale e riportare l’ordine, il suo personaggio rappresenta – anche fisicamente - i tratti eroici dell’invincibile (è quasi come se l’handicap rappresentasse una sorta di aura protettiva); Clay Blaysedell in Warlock ha pressapoco lo stesso compito ma egli agisce al di fuori della legalità (viene nominato sceriffo per acclamazione) e il suo eroismo si manifesta più nel mito materiale delle pistole dal calcio d’oro che nella reale volontà di giustizia. In Los amigos Erastus è quello brutto e disabile e Johnny quello bello e agile, stessa situazione di Warlock in cui Tom è brutto e storpio mentre Clay è bello ed elegante: tra i due film però è il loro agire in funzione della giustizia ad essere ribaltato di segno, mentre non può non risultare evidente come l’uno serva a guardaspalle dell’altro incarnando una sorta di figura che, per contrasto, esalta l’eroe che gli è accanto. Non a caso – soprattutto negli ultimi venti minuti di Warlock – si ritrova lo stesso schema di Los amigos in cui l’eroe ha bisogno della sua spalla e questa riconosce che senza il “suo” eroe non è niente, probabilmente non esisterebbe neanche. Los amigos, inserisce, inoltre, anche un insolita manifestazione di erotismo gentile e poetico, come dimostra il rapporto amore/odio tra Johnny e Susie. Aspetto, che nel manifestarsi, rispetta due criteri fondamentali nella definizione del cinema di Paolo Cavara: la donna, compare per la prima volta nuda come una dea in mezzo ad uno splendido scenario naturale, e successivamente si manifesta attraverso la creazione artistica del disegnatore all'interno del saloon. Il rap231

porto tra Johnny e Susie ripercorre, a grndi linee, quello tra Clay e Jessie (Dolores Michaels) in Warlock. Ad una prima fase di rapporti scostanti e respingenti ne segue una seconda di seduzione e relazione sentimentale cui fa da chiosa la volontà di condurre una vita assieme formandosi una famiglia. Se nel film di Cavara il personaggio di Susie si mostra come disinvolto nonché discinto163, la Jessie di Warlock – che, ovviamente, non può esserlo altrettanto per motivi censori – in parte fa emergere la stessa voglia anarchica di ribellione (e, forse, di emancipazione) della Susie di Los amigos. Infine, nel confronto tra Warlock e Los amigos non si può non notare come i cattivi dei due film - Abe McQuown nel film di Dmytrick e Morton in quello di Cavara - siano a lora volta sovrapponibili - se non altro per il livello di crudeltà esibito, per la corruzione morale e per essere entrambi a capo di un loro “esercito”. Ne consegue che sulla carta il film di Cavara avrebbe dovuto essere una sorta di rivisitazione del classico del 1959, o quantomeno che Warlock è stato il modello a cui tendere. Le vicissitudini produttive, chiaramente, hanno decisamente inficiato il risultato finale, e, così, oggi Los amigos può solo essere annoverato come prodotto medio con la presenze di alcune soluzioni suggestive ma nulla più. La premesse – di cui sopra – portano a concludere che sarebbe sicuramente stato interessante veder come il Cavara autore – senza restrizioni di sorta - avesse potuto operare all’interno di questo genere.

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Cosa abbastanza insolita in un genere in cui i personaggi femminili incarnano ruoli di subalternità e occupano spazi marginali della rappresentazione poichè il western è il genere che mette al centro l’uomo e il suo dovere “essere guardato”. 232

DA GOLDONI E FEYDEAU: LA TELEVISIONE DI PAOLO CAVARA:

Dato il collocamento temporale, in cui è stato prodotto, La Locandiera164 si pone come opera ibrida, sospesa tra cinema e TV. Gli anni'80, infatti, vedono la nascita della concorrenza televisiva e una Rai equamente divisa tra produzioni cinematografiche e TV. E' la qualità del prodotto che fa lo spettatore, questo sembra essere il punto di vista del regista che realizza un opera popolare (il coinvolgimento della coppia Mori-Celentano ne è testimonianza diretta) ma di alto livello, gradevole e garbata. L'ultimo film per il cinema di Paolo Cavara è, quindi, un film che è anche per la televisione, ed è un film dinamico, vitale, un inno alla vita e alla spensieratezza: una sorta di testamento poetico in cui lo sguardo fanciullesco, disincantato e mai ingenuo del regista traspare da ogni fotogramma. Cavara guarda a Goldoni con gli occhi trasognati dell’ammiratore e imbastisce uno spettacolo teatrale che lascia spazio solo alla gioia e al sogno: è sul palcoscenico165 che tutto si confonde, si mescola e si rivitalizza attraverso l'immediata e semplice libertà espressiva. Oltre ad introdurre lo stesso 164

La Locandiera viene messa in scena per la prima volta il 26 dicembre 1752 al teatro Sant'Angelo di Venezia, dopo gli anni trascorsi da Carlo Goldoni come poeta di corte nella compagnia di Guglielmo Medebac. L'autore, con quest'opera attua la riforma tecnica con cui la commedia subentra alla Commedia dell'Arte, il realismo alla finzione, e di conseguenza il dinamismo prende il posto della staticità; inoltre la “riforma” passa anche per l'artificio scenico del personaggio principale attraverso il quale si mostra una società in cui la borghesia, lentamente, soppianta la nobiltà. Paolo Cavara oltre ad aderire al testo, traduce nel film anche l'atmosfera dell'opera goldoniana: in cui l'ariosità della messa in scena serve a rendere armonico lo svolgimento dei fatti e l'ambiente diventa espressione del carattere dei personaggi. 165

Il basso continuo che attraversa tutto il film è il ritornello della canzone che apre all'arrivo dei teatranti: “Evviva il teatro, somiglia alla vita... ma poi non lo è. Evviva il teatro, somiglia alla vita... ma forse lo è. Evviva il tetro la sola realtà”. 233

Carlo Goldoni con ruolo interattivo, all'interno del film risulta di grande interesse il personaggio di Mirandolina: una donna pratica e solerte, ingegnosa e astuta che mira, soprattutto, a far funzionare bene la sua impresa.

Cavara sul set de “La locandiera”, con Gianni Cavina (1980)

Per accentuare la contrapposizione tra lei e gli altri, il regista trasforma in macchiette i personaggi di contorno, i quali appaiono irritanti, insolenti, beceri e volgari ma, soprattutto, ingenui. Operazione quest'ultima che serve ad evidenziare la misoginia del Cavalier di Ripafratta, la decadenza visionaria del Marchese di Forlipopoli, la supponenza e il gusto dello spreco del Conte d'Albafiorita, l'insulsaggine di Ortensia e Dejanira, mentre offre a Mirandolina e Fabrizio la possibilità di mostrasi con la semplicità e il disinteresse che gli sono propri (al punto che tra loro non c'è mai un processo di seduzione ma solo una chiara e puntuale richiesta di matrimonio). Mirandolina tesse la tela - abilmente e con pazienza – e, progressivamente, tutti i suoi spasimanti vi rimangono intrappolati tenendo in mano, alla fine, solo un pugno di mosche. Ella si muove con arguzia e disincanto e, ludica234

mente, si diverte a circuire il misogino cavaliere solo per dimostrargli la sua incoerenza e al contempo affermare la sua superiorità di donna. Mirandolina è un’efficiente donna in carriera: una donna d'affari che ha come obiettivo quello di far funzionare al meglio (anche qualitativamente) la sua impresa e che a questa subordina ogni attenzione estetica (non è truccata, non veste abiti eleganti...). Con malizia, stimola e utilizza al meglio le lusinghe degli uomini per costringerli ad allungare la loro permanenza nella locanda per incrementare i suoi guadagni e il prestigio del suo locale: “Grazie lor signori, ma non ho bisogno di niente. La locanda è la mia dote”. Il film – rispettando la tradizione goldoniana - è la rappresentazione del teatro della vita, cui grande contributo scenico è offerto dai numeri musicali che inframezzano la pellicola e che scandiscono il tempo e determinano il tono ilare e scanzonato della recitazione. Elementi che si coniugano perfettamente al continuo cambio di prospettiva offerto dagli snodi narrativi della vicenda e che accompagnano, figurativamente, il tessuto leggero del punto di vista comico con cui è guardata l'esistenza dei personaggi. Nel film, l'aspetto “critico” è mimeticamente offerto dalla presenza del cibo, che - come nell'opera dell'autore veneziano - diventa un vero e proprio termometro delle condizioni di vita delle varie classi sociali. Il Marchese di Forlipopoli mangia solo tre volte alla settimana, ruba il cibo dal piatto degli altri e non esita ad insozzare una cioccolata pur di potersela bere: è un nobile decaduto costretto a vendere il titolo nobiliare, incapace di affrontare la realtà, illuso di poter ottenere la grazie di Mirandolina attraverso onore e protezione. Il Conte d'Albafiorita, si ingozza di ogni leccornia, si intrattiene con donne di dubbio gusto cui offre pranzi luculliani ed è convinto che Mirandolina la si possa comprare (sperpera denaro in costosi regali) come il titolo nobiliare che egli ha acquistato arricchendosi come mercante. La locandiera (nel mezzo) alimenta in entrambi l'illusione della possibile conquista, e li porta ad uno scontro che è anche quello tra due modi di intendere la nobiltà: quella di toga (cioè di coloro che l'hanno comprata) e quella di spada (cioè di coloro che l'hanno per discendenza), entrambe comunque ormai in declino e costrette a mantenersi in vita con ridicoli e degradanti espedienti. Non dissimile è il Cavalier di Ripafratta, uomo altezzoso e scorbutico, che pensa che sia il suo lignaggio a determinare il servizio degli altri nei sui confronti: si lamenta in continuazione, impartisce ordini come se di fronte a sè avesse un esercito, ridicolizza le due commedianti e sbeffeggia i 235

due nobili mostrandogli come si siano abbassati a corteggiare una popolana. Mentre è intento nell'esercizio del suo potere, non si accorge che è lui stesso il primo ad aver ceduto al fascino di Mirandolina e che questa lo porterà al ridicolo fino a rendere pubblica la sua infatuazione. Sull'altro versante – quello degli umili - ci sono il cameriere Fabrizio, il quale serve sempre cibo agli altri e mai lo si vede mangiare, trascorre molto tempo in cantina e nella dispensa e si rode dalla gelosia per il comportamento di Mirandolina senza capire che lui sarà l'unico alla fine a poter godere delle grazie della locandiera. Oltre a lui, anche Ortensia e Dejanira - commedianti che si presentano come dame - sono costrette a servirsi degli uomini per poter mangiare, e utilizzano il loro fascino volgare e sguaiato per sedurre e ottenere. Il rapporto con il cibo nel film si lega dunque alla visione e all'intendimento dei rapporti umani, ed è dunque evidente come ne La Locandiera, l'unica a raggiungere il suo obiettivo e a portare a compimento le sue intenzioni sia Mirandolina. Tutti gli altri personaggi girano a vuoto, non concludono nulla e non ottengono niente, ma sono solo elementi necessari per la messa in scena, comprimari e comparse che con la loro presenza esaltano ancor di più la pregnanza e l'importanza della protagonista femminile. Con i successivi lavori televisivi, Paolo Cavara, continua la sua riflessione sulla commedia già suggerita con la realizzazione de La Locandiera. I lavori realizzati per la Rai all'inizio degli anni '80 si inseriscono nella volontà del regista di utilizzare la commedia come un punto di vista possibile per osservare e raccontare i fatti della vita. In fondo il regista bolognese, non fa niente altro che mettere in pratica la massima di Georges Feydeau: “Se vuoi far ridere, prendi dei personaggi qualunque, mettili in una situazione drammatica e procura di osservarli da un'angolazione comica”. Sia in Sarto per signora (tratto dallo stesso Feydeau) sia nel successivo Fregoli166, non sono tanto i personaggi e il loro comportamento a procurare la risata, bensì le situazioni, talvolta paradossali, in cui questi si trovano ad agire. Nonostante Leopoldo Fregoli faccia del trasformismo e dell'istrionismo la sua unica ragione di vita, è il contesto di vita privata, di amicizie, di famiglia, di teatro, e di successo ad evidenziare la comicità e il gusto per 166

Fregoli - sceneggiato in quattro puntate andato in onda sulla Rai il 19 e 26 Aprile e il 3 e 10 Maggio 1981. 236

lo sberleffo (venato di critica sociale) di quello che è semplicemente un attore confuso nelle sue ambizioni, ma determinato nel perseguirle, partendo dalla condizione iniziale di sfaccendato, idealista e presuntuoso. Leopoldo Fregoli arriva al successo, grazie ad una lunga serie di tappe intermedie - fatte di gioie (poche) e dispiaceri professionali (molti) - in cui costruisce con naturalezza meccanismi recitativi impeccabili, ingegnosi e perfetti. È un direttore d'orchestra, ma l'orchestra è lui stesso (come dimostra la splendida scena che chiude la terza parte dello sceneggiato) ed è obbligato a suonare uno spartito che è solo ed esclusivamente suo fatto di indicazioni sulla messa in scena, dialoghi serrati e satira sui vizi sempiterni della società. Allo stesso modo, anche Sarto per signora gioca sulle situazioni equivoche e paradossali mettendo in atto vertiginosi colpi di scena orchestrati attraverso personaggi che già sono comici nel loro ruolo sociale: la giovane coppia di sposi, il maggiordomo, una folta schiera di pretendenti ed una suocera decisamente ingombrante. Paolo Cavara, sia in Fregoli che in Sarto per Signora costruisce una sorta di iperbole della comicità modulata sui giochi di parole, sulle ambiguità, sui malintesi, ma anche sugli aspetti più seri e profondi dei rapporti umani. Il risultato è una regia giocosa mai fine a stessa ma finalizzata a valorizzare i suoi personaggi. La scelta di Feydeu e di Leopoldo Fregoli, in fondo, non appare per nulla casuale167 visto che entrambi pongono una riflessione sul rapporto tra realtà e finzione. Fregoli è interamente costruito sul rapporto tra illusionismo e recitazione, e al termine del terzo episodio si spinge fino a mettere in scena il paradosso cinematografico in cui, attraverso lo svelamento del dietro le quinte del trasformismo di Fregoli, il regista sembra ribaltare il rapporto tra la verità teatrale e la finzione cinematografica. Leopoldo Fregoli, intende la vita stessa come una forma di teatro e quindi la performance dall'orologiaio che gli provoca il licenziamento, viene trattata dal regista come una sorta di messa in scena cui segue l'inevitabile uscita dal palco. È così infatti che è raccontata la sua vita, tra entrate ed uscite di scena intervallate da canzoni e serenate, e da momenti musicali che abilmente tengono fuori scena tanto il diverbio quanto la violenza. Ma è altrettanto significativo che il suo ruolo e la sua scelta trasformistica si integrino perfettamente con il periodo storico con cui egli ini167

Il drammaturgo e il trasformista sono, storicamente, destinati ad incrociarsi a Pari-

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zia la sua traballante carriera, e non è casuale che una sequenza lo metta in relazione con dei politicanti piemontesi in trasferta a Roma.168 In politica e nella vita, tutto ormai è ridotto ad un teatrino. Lo spettacolo lo si può inscenare sempre e ovunque: davanti agli operai delle officine ferroviarie o - in maniera più grottesca e frenetica nell'osteria del padre. Il regista, in Fregoli, pone l'accento su quanto sia difficile definire il comportamento umano e su quanto in ogni essere vivente ci sia questo eterno conflitto tra realtà e finzione, tra naturalezza e interpretazione. Di conseguenza, anche la politica, non può che esserne coinvolta e così il trasformismo prima e la guerra in Eritrea del 1889 poi, diventano scenario in cui Fregoli forma il suo istrionismo e la sua temperie. Arruolatosi per fare il soldato, viene invece invitato dal generale Barattieri ad organizzare spettacoli per il Circolo Ufficiali. A Massaua avviene la svolta solista di Leopoldo Fregoli, e la stessa è frutto del teatrino della politica, che prima spinge lui e la sua compagnia a mettere in scena uno spettacolo e poi - al momento della prima - la compagnia stessa viene precettata ed obbligata ad andare in guerra. Messo alle strette, Fregoli il 14 Marzo 1890 mette in scena da solo “Il Camaleonte”, uno spettacolo teatrale in cui egli interpreta ben cinque personaggi diversi attraverso continue entrate ed uscite di scena. Presa consapevolezza delle sue potenzialità, l'attore romano si rende conto - una volta tornato nella capitale - di quanto sia difficile affermarsi senza avere un impresario alle spalle e così, dopo aver conosciuto il poeta Trilussa (Carlo Alberto Salustri) nell'osteria del padre, inizia un tour nei Cafè Chantant della capitale per raggranellare quattrini. L'incontro della svolta avviene al Circolo della Follia dove viene notato dall'impresario Cruciani che lo invita ad un provino teatrale senza compenso. Nonostante la strafottenza, l'arroganza e la supponenza di Cruciani, il successo è travolgente, e provoca nei giovani e inesperti attori della compagnia una sorta di delirio e di onnipotenza, i quali, invitano Cruciani a non accontentarsi di Roma ma a strutturare una tournèe nel centro dell'Italia: la dura realtà si para loro davanti attraverso teatri sempre vuoti. Leopoldo Fregoli, si rende conto, che per lui la compagnia è un peso - almeno nella fase iniziale della sua carriera - perchè gli impedisce di esprimere tut168

Uno dei quali afferma: “E' perfettamente inutile continuare a fare il governo di destra o di sinistra. Il trasformismo è l'unica maniera di governare”. Il fallimento politico della Destra Storica e della sinistra di De Pretis e Crispi si coniugano quindi con il fallimento iniziale di Leopoldo Fregoli al teatro Metastasio. 238

to il suo istrionisimo. Recatosi a Firenze entra in amicizia con il grande attore di prosa Ernesto Rossi, il quale lo presenta a Montelatici l'impresario che gestisce il Trianon di Firenze: invitato da questi a salvare una serata disastrosa, Fregoli manda in visibilio il pubblico del locale e si garantisce la presenza di Montelatici come suo produttore. Nel 1898 a Torino, Leopoldo Fregoli, dopo aver riunito parte della sua compagnia, comprende di quanto la realtà abbia bisogno di essere messa in scena. La realtà recitativa che egli vive non può che confrontarsi con il tema dell’identità. Fregoli con la sua scelta di tentare la fortuna in Francia risponde equamente tanto a un'ambizione personale quanto alla necessità di allontanarsi dalla realtà italiana divenuta più comica e grottesca della finzione stessa. La sua figura, progressivamente, acquisisce sia sempre maggiore consapevolezza dei propri mezzi sia un ambiguità recitativa che confonde e mescola realtà e finzione. 169 Il narcisismo è dietro l'angolo e si manifesta negli applausi a se stesso a Buenos Aires nel 1919, ma questi sono anche una provocazione nei confronti dello spettatore che non è più in grado di riconoscerlo: nella realtà, Fregoli ormai può vivere anche attraverso le sue controfigure.170 Ma tutto questo mina dall'interno la sua vita privata e il matrimonio con Velia, e nella quarta parte dello sceneggiato il regista oltre ad evidenziare i pericoli dell'interpretazione camaleontica fa emergere tutta la disillusione (anche la sua) che provoca il successo che è materia deperibile, precaria e ingannatrice. Il successo e il suo lato oscuro e i pericoli del dover interpretare un ruolo, una parte, vanno di pari passo: entrambe le cose comportano il rischio della perdita di contatto con la realtà, il prevalere della finzione, l’insinuarsi di un delirio di onnipotenza dettato dalla ricerca della perfezione, l’incapacità di fare autocritica e lo snaturamento della propria essenza.171 Ma l'attore, da abile camaleonte, riesce ad andare 169

Ecco perchè, ad esempio, dal momento della trasferta parigina, aumentano i primi piani sul suo volto, le sue immagini riflesse, fino ad arrivare alla ripresa foto-cinematografica e ad una frammentazione del volto stesso in cui ogni parte inquadrata assume forme cangianti e trasformiste. Non è casuale inoltre che il rifiuto dell'offerta di Giuseppe Paradossi avvenga di fronte allo specchio, dove Fregoli declina l'invito dicendo: “Non sono un numero... da inserire tra altri”. 170 E proprio una di queste, Romolo gli dice: “Sei tu che non sai più chi sei...”. 171 Per il trasformista quindi, sia nella vita che a teatro il pericolo è quello della perdita d'identità a causa del doverne assumere centomila, e i primi segnali di questa incrinatura esistenziale si erano già avvertiti nell'osteria del padre, quando semi dismessi i 239

oltre a questa crisi momentanea, da un lato interessandosi al cinematografo dei fratelli Lumière ed esplorandone le potenzialità in relazione al proprio mestiere e dall'altro comprendendo quanto, nel mondo dello spettacolo sia necessaria la promozione per poter giungere al successo. Non a caso è in seguito all'incendio del “suo” teatro parigino, che egli si sente obbligato ad accettare il nuovo invito di Paradossi il quale con una semplice frase gli spalanca le porte del successo: “Io rischio, ma purchè si debutti tra otto giorni all'Olimpia. Su una disgrazia come questa si può costruire il successo. Il teatro non c'è più, ma domani parleranno di voi, tutti...”. Dopo otto giorni all'Olimpia è tutto esaurito ed è presente in sala il mondo culturale, sociale e politico della capitale francese, tra cui anche un certo George Feydeau. La presenza in sala del drammaturgo offre il naturale collegamento al precedente lavoro per la televisione. Sarto per signora ha lo stesso ritmo frenetico e la stessa energia disincantata di Fregoli così come, la natura umana e i vizi ad essa congeniti - presenti in entrambi gli sceneggiati - sembrano rimanere inalterati nel passaggio tra passato e presente. Sarto per signora è modulato su due direttrici: da un lato quella del teatro in cui l'appartamento dei Molineaux e la sartoria di Bassinet diventano palcoscenico naturale con le porte che si aprono e si chiudono a fare da quinta mentre i personaggi si muovono molto liberamente - senza tener conto della m.d.p. – e vanno e vengono, entrano e escono dal quadro continuamente; dall'altro, il regista insegue il modello renoiriano de La regle du jeu (La regola del gioco, 1939) nel mettere in scena il rapporto tra padroni e servi. Sarto per signora rappresenta lo specchio deformato della Belle Epoque e utilizza lo specchio come elemento imprescindibile di una messa in scena in cui l'elemento riflesso nello specchio sullo sfondo dell'inquadratura è sempre quello equivoco. Mette in atto il gioco della confusione dei ruoli con padroni e servi (come Molineaux e Stefano) che si scambiano continuamente la parte e mantengono un rapporto di complicità per custodire i segreti sconvenienti di entrambi. 172 Paolo Cavara panni da donna, di fronte ai bagni Fregoli non sa se scegliere quello delle donne o quello degli uomini. 172 E così che è proprio Molineaux - in apertura di terzo atto - a replicare a Stefano con una battuta che è sintesi dell'ipocrisia borghese, della mistificazione della realtà attraverso i mezzucci e i ridicoli espedienti che caratterizzano questo “gruppo di famiglia in un interno”: “Le cose per male vanno fatte per bene... o non si fanno”. 240

applica al lavoro di Feydeau la strategia di Jean Renoir, il quale ne La regle du jeu elimina gli schermi dell'ironia per mettere davanti allo spettatore personaggi ridicoli e grotteschi che sono immagine deformata della società dell'epoca e - come il drammaturgo francese - elimina per i protagonisti qualunque forma di catarsi e di riconciliazione: la ricomposizione del quadro finale è pura apparenza dettata dalla necessità di apparire, agli occhi degli altri, come integerrimi e fedeli. Quello alla base di Sarto per signora è un lavoro di cesello dell'inquadratura e dei tempi scenici che Paolo Cavara porta a compimento con grande rispetto del testo di partenza. Non è teatro filmato, bensì vera e propria fiction capace di sfruttare al meglio l'unità di luogo e di spazio (nei tre atti rispettivamente: appartamento dei Molineaux, sartoria e nuovamente casa Molineaux) utilizzando riprese lunghe che facilitano la percezione dell'intera durata temporale della scena. La vorticosità della vicende contribuisce certamente alla costruzione di una messa in scena ritmata, senza sosta e che non lascia respirare lo spettatore, il quale viene catapultato in un turbillon di equivoci, malintesi e sotterfugi che lasciano sbalorditi per la loro capacità di legarsi gli uni agli altri e di determinare il comportamento di tutti i protagonisti. Se la televisione di Paolo Cavara fosse paragonata ad un oggetto, questo potrebbe solo essere l’orologio: un perfetto meccanismo in cui sia ne La locandiera, in Fregoli e Sarto per signora le lancette corrono velocemente e con il loro ticchettare dettano i tempi della messa in scena e anticipano gli snodi narrativi. Una corsa contro il tempo per riparare all'equivoco e al malinteso. La televisione di Paolo Cavara è, dunque, un meccanismo di precisione in cui ogni ingranaggio è oliato e montato alla perfezione: non esistono né tempi morti né passaggi a vuoto ma solo una caleidoscopica messa in scena corroborata da una regia vorticosa e trascinante.

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IL PROPRIO NOME NEI TITOLI DI TESTA

Le avventure di Gerard (1970) Paolo Cavara nel 1970 dirige la seconda unità di regia del film The Adventures of Gerard (Le avventure di Gerard) di Jerzy Skolimowski.173 Film che, nella versione italiana, soffre di un doppiaggio artefatto e fuorviante nonchè dell'inserimento di un inutile, quanto pedante, voice-off (non prevista nell'originale). Il contributo di Cavara alla realizzazione del film è quello, sicuramente di dirigere le scene di raccordo e di movimento (compito da sempre assegnato alle seconde unità), ma anche quello, desunto grazie a delle foto di scena, di dirigere le inquadrature del finto stupro. Inoltre, date le tematiche e gli spunti in linea con quelli del regista bolognese, non si può non pensare ad un suo contributo nella realizzazione tanto della scena del flamengo quanto in quella della taverna, con lo scambio dei ruoli tra uomo e donna, e il travestimento/trasformismo messo in scena con ironia ed acume. Il contributo di PaolaoCavara alla realizzazione di The Adventures of Gerard va comunque inteso come nulla più che un semplice momento di passaggio per pura necessità alimentare .

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L'avventura italiana del regista polacco prende le mosse da una sceneggiatura di Henry Lester, cui collaborano anche - oltre allo stesso regista - Gene Gutowski e H.A.L. Craig. Lo script del film è tratto da quattro episodi di “The Exploits of Brigadier Gerard” e un episodio di “The Adventures of Brigadier Gerard" di Arthur Conan Doyle. Lo spunto tragicomico dello scrittore inglese offre le basi per la costruzione di una storia in cui comicità di grana grossa e trasformismo sono le costanti all’interno di un film irrosolto che sfiora il ridicolo involontario. 242

Paolo Cavara ul set di “Le avventure di Gerard”

Così come sei (1978) Sul finire del 1973 - precisamente il 24 Dicembre - a Roma si incontrano per la prima volta il regista Paolo Cavara e un giovane e ambizioso sceneggiatore di nome Enrico Oldoini. L’appuntamento è fissato per le 15 in Piazza Navona. Oldoini alle 14 è ancora a tavola con alcuni amici che, vedendolo ansioso, lo invitano a bere un po’ di più per vincere la condizione di inibizione a cui l’uomo afferma di essere soggetto nel momento in cui incontra una nuova persona. I due, si incontrano e si recano al Bar Domiziano, dove, seduti ad un tavolino sotto il portico, ordinano due caffè. “Paolo fa di tutto per mettermi a mio agio; è gentile, affettuoso, quasi paterno. Però ha un aspetto che mette soggezione, m’imbarazza. Manda un fascino particolare.[…] Parla con un tono pacato, da uomo sereno, sicuro di sé. Ogni tanto fa una pausa per gustarsi una boccata del toscano che fuma con godimento.”174

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Enrico Oldoini, A proposito di “Così come sei”. Dall’idea al film. Fatti, personaggi e indiscrete avventure rubate dietro lo schermo, Cappelli, Bologna, 1978, pag.25 243

Enrico Oldoini - un po’ alticcio e un po’ timoroso - ascolta l’idea 175 che gli propone il regista bolognese da cui trarre un soggetto e successivamente una sceneggiatura. Il giovane sceneggiatore rimane affascinato dalla proposta di Cavara e - pur esprimendo alcune perplessità in merito al tema dell’incesto - accetta l’incarico di scrivere una trentina di cartelle con il soggetto dettagliato. I due si ritrovano i primi giorni del 1974 a casa del regista ma Oldoini, in merito a quell’idea non è riuscito a scrivere nemmeno una riga. L’occasione, però, per il giovane è quella di conoscere meglio il regista e la sua personalità. “Lo osservo con interesse. Paolo, nella sua casa, mi offre un’immagine più completa di sé. Noto che veste da gentiluomo, con un gusto appena trasandato, all’inglese. Un inglese che ha vissuto parecchi anni nelle colonie, come raccontano parecchi oggetti souvenir che fanno parte dell’arredamento. Non fai tempo a pensarlo, infatti, che lui ti racconta del suo amore per l’Oriente: un amore che gli nacque quando, poco più che ventenne, partecipava come documentarista ad avventurosi viaggi nei tropici. Mentre parla, ecco che il suo accento, dotato di una particolare “s” moscia, denuncia origini emiliane”.176 Tra i due c’è reciproca comprensione, lo sceneggiatore ha il timore di scrivere qualcosa di noioso e Cavara si rende conto che Oldoini è bloccato - dalla sua inesperienza. Iniziano, quindi, a chiacchierare e discutere intorno al soggetto e, a poco a poco, dal dialogo emergono personaggi, intrecci, relazioni, successione degli eventi. Dopo una lunga gestazione fatta di rifacimenti, aggiustature, revisioni, le trenta pagine del soggetto sono portate a termine con il titolo L’ultima isola.177 Il soggetto arriva sulle scrivanie di alcuni produttori, i quali ri175

Un americano di cinquant’anni, torna in Italia, paese in cui ha vissuto la sua giovinezza. Scopre che la donna che aveva amato è morta. Incontra una ragazza dall’aria triste che, inconsciamente, soffre a causa della mancanza del padre. L’americano si convince di essere lui il genitore che lei cerca e prova a darle conforto e affetto. Ad un certo punto la ragazza si innamora dell’uomo il quale, però, non le confessa i suoi dubbi e anzi, dopo i primi tentennamenti, cede al rapporto carnale con lei. La liaison prosegue per un po’ di tempo, prima di concludersi con un tragico evento. 176 Ibidem, pag.28 177 In sintesi il contenuto è questo: Mark, americano di mezza età si reca a Firenze per un viaggio d’affari. Città che già conosce perché, circa vent’anni prima, vi ha vissuto una storia d’amore con una certa Anna, la quale nel frattempo è morta lasciando una 244

spondono, quasi all’unisono, che il lavoro, seppur interessante, è fiacco e noioso, manca quella scintilla in grado di catturare lo spettatore. Nei primi mesi del 1975 Paolo Cavara si reca ad un appuntamento con Goffredo Lombardo, il patron della Titanus, per sottoporgli il soggetto. Nel frattempo, prima di quell’incontro, Cavara e Oldoini si ritrovano per rivedere il tutto; il tempo a disposizione non è molto, per cui i due compiono un’operazione di sottrazione e selezione, riducono, quindi, il numero delle pagine fino a quindici e modificano il titolo del lavoro in Firenze stanotte sei bella. Niente da fare anche stavolta, Lombardo respinge l’idea e dichiara che il contenuto non è di alcun interesse. Nuovamente il soggetto viene accantonato. Siamo a metà del 1975 ed Enrico Oldoini e Paolo Cavara entrano in società assieme al produttore Guy Luongo e fondano la G.P.E. Enterprises che dà vita al film ...E tanta paura. Il giovane sceneggiatore però non si dà pace, sembra ossessionato dalla storia incestuosa rifiutata, fino ad ora, da tutti e così chiede a Paolo Cavara se può lavorarci autonomamente. Il regista lascia mano libera ad Oldoini, anche perché comprende che quel giovane ambizioso vede quella storia come una vera e propria sfida con se stesso, un banco di prova per sperimentarsi e verificare le sue reali competenze. Siamo nel 1976, Oldoini rilegge il soggetto e avverte che i personaggi mancano di vita, mentre l’idea di base, quella raccontatagli da Cavara nel 1973 in Piazza Navona, è ottima, funziona. Comincia a prendere in mano e a leggere i testi letterari di riferimento in materia e cioè “Di là dal fiume e tra gli alberi” di Ernest Hemingway e “Homo Faber” di Max Frisch e si accorge che il tema dell’incesto pesa come un macigno sul resto della storia. Decide di atfiglia di nome Paola. La ragazza divide un appartamento con Nora, un’amica della madre che si è occupata di lei durante la crescita. Casualmente Mark viene a sapere di essere lui il padre di Paola. Comincia a “spiarla” nel negozio dove lavora come commessa, poi la va a trovare a casa. I due, tra reciproci sospetti e diffidenze, cominciano a frequentarsi ma sempre mantenendosi a debita distanza, fino a quando, la giovane - sentendosi rassicurata e protetta da quella figura così “paterna” - si innamora dell’uomo. Questi si ritrova ad essere in trappola: da un lato non vuole confessare alla ragazza di essere suo padre e dall’altro, quasi inavvertitamente, si innamora anche lui. Si abbandona, quindi, alla passione incestuosa al punto di decidere di andare a convivere con Paola. Mark decide quindi di tornare in America e chiedere il divorzio, ma al suo ritorno in Italia si rende conto di quanto assurdo fosse il suo progetto. Avverte in lei un cambiamento, una nuova sicurezza e maturità prima assenti. Mente, dice alla ragazza che non ha avuto il coraggio di divorziare, e si allontana definitivamente da lei. 245

tenuarne il potenziale, di sgravarlo della componente drammatica e di lasciarlo sullo sfondo, come un fantasma, il ricettacolo di dubbi e paure, ma nulla di più. Opta per un viraggio della storia verso l’ironia ma senza sfociare né nella commedia né nella farsa. Una sera Oldoini è a casa di Gianfranco Magnosi - un commercialista che tra i suoi clienti ha anche Marcello Mastroianni - che invita l’amico sceneggiatore a cucire la storia addosso all’attore, poi lui proverà a fargliela leggere. Tra la sorpresa e l’imbarazzo Enrico Oldoini si mette nuovamente al lavoro con l’idea fissa che il ruolo dell’americano (nel frattempo divenuto italiano e di nome Giulio) venga interpretato da Mastroianni. La sceneggiatura viene portata a termine. Durante una cena a casa di Guy Luongo ci sono anche Paolo Cavara con la moglie Annamaria e il figlio Pietro, oltre a Oldoini con la moglie Fiorella, un’occasione, questa, in cui il giovane sceneggiatore legge quanto ha scritto di fronte a quella platea interessata e curiosa. Tutti apprezzano, ma Cavara, perplesso, ritiene che offrire a Mastroianni quella sceneggiatura porti solo ad un nuovo rifiuto e all’ennesimo accantonamento. Il giorno successivo lo scritto passa nella mani di Giovanna Cau, l’avvocatessa del grande attore laziale. Questi legge la sceneggiatura che secondo lui ha, in parti uguali, pregi e difetti, ma è comunque interessante. E’ il Giugno 1976, la sceneggiatura subisce ulteriori revisioni, mentre per il ruolo femminile viene contattata Ornella Muti che rifiuta mentre la regia passa, dalle possibili mani di Cavara a quelle di Joseph Losey senza alcun esito. Il copione ormai sembra in balia degli eventi - anche la grossa crisi cinematografica è ormai imminente fino a quando non finisce nella mani di Giovanni Bertolucci. Questi mette in moto la macchina realizzativa con Alberto Lattuada alla regia Marcello Mastrioanni nella parte di Giulio e Nastassja Kinski nella parte della figlia-amante Francesca. Le riprese del film Così come sei iniziano nel dicembre del 1977. Ma cosa rimane delle idee e della poetica di Paolo Cavara in questo film? Sicuramente la matrice letteraria del personaggio maschile, non comune nel suo tormento e non gratuito nella sua estasi. Rimangono le tracce di relazioni e rapporti complessi e, soprattutto la dialettica, al contempo cinica e ingenua, con cui si confrontano Giulio e Lorenzo (Francisco Rabal). Nel film di Lattuada, seguendo le suggestioni cavariane, si avverte la sensazione che tutto ciò che vediamo sia il frutto di una proiezione di Giulio, una messa in scena, con ambienti e personaggi, della crisi di mezza età del maschio. Il film appare costruito come un lungo viaggio alla ricerca di 246

un paradiso perduto che pone Giulio a metà strada tra il naufragio e l’approdo agognato e sicuro: non a caso il primo titolo ipotizzato da Paolo Cavara nel 1974 è appunto L’ultima isola. 178 La bella Otero (1984) La mini-serie179 di Josè Maria Sanchez, si ferma molto prima dell’inizio della parabola discendente della diva, la quale negli ultimi anni della sua esistenza - per poter sopravvivere - arriverà persino a compiere piccoli furti di cibo nei supermercati. La bella Otero si conclude nel momento di massimo splendore e nel punto più alto della carriera e della vita della vedette (nonché scaltra cortigiana). Ed è attraverso lo sguardo femminile rivolto alla vita della donna - e, quindi, al contributo alla sceneggiatura di Lucia Drudi Demby - che emergono i tratti della possibile regia di Paolo Cavara. Per gran parte della prima puntata si notano tutta una serie di ellissi narrative che rendono il prodotto particolarmente interessante e ben poco televisivo - evidente traccia lasciata dalle note di regia di Paolo Cavara; così come non si può non sottolineare la presenza di un erotismo lieve e simbolico (ben sintetizzato nella presenza degli stivali rossi appoggiati sull’acqua nel luogo in cui Augustina Otero (Angela Molina) subisce la violenza carnale da parte del ciabattino). I temi più ampi, poi, si susseguono mescolandosi negli snodi narrativi successivi. Primo fra tutti, è presente - come un filo rosso che attraversa tutta la narrazione - la negatività dal mondo che circonda la giovane, ben rappresentato dalla presenza del banchiere-padrone Peruzzo che compra la gitana per tenersela in casa come prigioniera e come trofeo da ammirare e mai 178

Titolo molto caro al regista bolognese, come dimostra il soggetto inedito – con lo stesso titolo- pubblicato in questo volume 179 Diretto da Josè Maria Sanchez è uno sceneggiato Rai in quattro puntate andato in onda nel 1984. La mini-serie è un affresco appassionato e fedele degli anni de “La belle Epoque” visti e raccontati attraverso la sua stella più fulgida e luminosa Augustina Carasson Otero poi divenuta Carolina Otero ma conosciuta da tutti come “La belle Otero”. Sceneggiato da Enrico Medioli e da Lucia Drudi Demby, (quest’ultima grande amica di Paolo Cavara e in sintonia con il suo sguardo) il film avrebbe dovuto essere diretto dal regista bolognese il quale, dopo aver ideato il progetto, non riuscì a portarlo a compimento a causa della sua prematura scomparsa. Nei titoli di testa il suo nome rimane, infatti, legato solo alla dicitura “da un’idea di Paolo Cavara”, ma tali e tanti sono i temi della sua poetica che non si può fare a meno di riconoscere che gran parte del merito della riuscita dell’operazione è da ascrivere a lui e alle sue intuizioni. 247

toccare (perché lei glielo impedisce). La stessa negatività riemerge nel casuale duello mortale che porta al reciproco accoltellamento Paco e Florio: la contesa ha luogo, ancora una volta per il possesso della giovane. Ecco, proprio il concetto di donna-oggetto, gioiello da ostentare nella società ritorna più volte nella mini serie e trova il suo compimento, ipocrita e cialtrone, nel finto misantropismo della Contessa Valentina De Bruges (Mimsy Farmer), che si comporta in modo ambiguo e seducente agli occhi di Augustina ma che in realtà si serve di lei per affermare se stessa e per giocare con gli appartenenti alla sua stessa classe sociale. Altro elemento presente in maniera costante è il trasformismo, l’interpretare costantemente un ruolo (spesso non quello di appartenenza) e il cambiare camaleonticamente atteggiamenti e comportamenti per adattarsi alle situazioni, di cui proprio la stessa Augustina appare come l’esempio più rappresentativo. Anche tutti gli altri personaggi della mini serie recitano un parte sul palco della vita (altro tema fortemente cavariano), così come quest’ultima, con il suo senso e le sue dinamiche, è ben racchiusa nell’idea ricorrente del gioco e soprattutto della presenza, persino invadente, della roulette, simbolo dei continui azzardi che Augustina compie - spesso istintivamente senza calcolarne le possibili conseguenze (negative anche per lei). Infine non si può non rimarcare come Augustina Otero incarni tutte le contraddizioni del contesto in cui si muove, quello della Belle Epoque, un condensato di splendori e miserie, di trionfi e rovinose cadute, di pace con la guerra che cova sotto la cenere. Un’epoca in cui dominano figure come quella di Ernst Jurgens (Harvey Keitel), prototipo del regista demiurgo che vive di utopie (come quella del teatro cinematografato), pioniere nel senso più completo del termine, smisuratamente ambizioso e incapace di riconoscere i suoi limiti. Un’epoca, anche, in cui il cinema, con la sua finzione, il suo essere falso, il suo condurre lungo i binari di una vita sospesa diventa specchio della società come afferma lo stesso Jurgens quando dice: “Il mondo è pieno di falsi… o non l’hai ancora capito”, dando vita ad una visione dagli echi cavariani che ben si coniuga con il modo in cui Carolina Otero attraversa la sua esistenza.

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PARTE QUINTA

SOGGETTI INEDITI

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PAOLO CAVARA: “UN AUTORE NASCOSTO” di Pietro Cavara

Mi capita alle volte di rovistare nell’archivio di mio padre e di prendere in mano le cose a cui tengo di più: quei soggetti e quelle sceneggiature che egli non ha potuto realizzare. Sensazioni e ricordi preziosi tornano alla mente: di lui, della sua vitale e avventurosa ricerca del mondo, qualcosa che egli avrebbe probabilmente inteso come un “conoscere se stessi” attraverso gli altri e la natura che ci circonda. Immagini reali, talvolta presunte. Ma in questi casi quei ricordi e quelle sensazioni così preziose sono avvolte da inesorabile tristezza, da un grande vuoto. Non è solo la mancanza di un padre generoso e amico andato per sempre, di un uomo di mondo, colto e charmoso, in grado di contagiare con la sua non comune bellezza, l’eleganza congenita, la sua anima aperta – semplice e complessa nella stessa misura – spingendo a rifiutare la grettezza insita nel faticoso quotidiano. E’ anche la forte sensazione di una incompiutezza reale distribuita tra quei fogli dattilografati, per quelle pagine segnate a tratti dalla sua stilografica in termini sobri e puntuali, che non hanno avuto degna realizzazione. Ne è sicuramente mancato il tempo, trattandosi di progetti maturati in un periodo per lui ormai segnato dalla impossibilità fisica, nonostante l’inesausta gioia di vivere. E quella sensazione di disagio si fa ancora più forte se penso alla sua scomparsa alla vigilia di una serie di contratti che gli avrebbero permesso di realizzare ciò in cui aveva finalmente sperato dopo anni di fatiche. Tanti progetti: alcuni di questi probabilmente marginali, o insorti per cause contingenti, ma sempre con una loro ragion d’essere. Si trattava di opere nate mentre stava facendo un film, o anche subito dopo, e che risentono inevitabilmente nel contenuto e nello stile dell’esperienza dell’uomo sul set; o magari forse anticipavano quei film, pur mantenendosi differenti nel racconto e talvolta nel senso generale. Tutto ciò lo si desume inoltre dal fatto che i suoi collaboratori erano spesso gli stessi con cui si tro251

vava a fare questo o quel lavoro (penso ad esempio a Turi Vasile con il quale scrisse Muta femmina mia, al tempo di Virilità, o Lucile Laks, per L’inchiesta, al tempo de La tarantola dal ventre nero). In altri casi si trattava di trattamenti di opere altrui, come quelli elaborati con Andrea Barbato e Lucia Demby (rispettivamente Dalla finestra di fronte di Bob Raymond e Pierrot a Taormina di Franco Ruffo). Alcuni testi sono senza indicazione ma è facile, leggendoli, risalire a mio padre come autore, spesso quando raccontano storie di esperienze di viaggio. Infine c’erano veri e propri progetti personali coltivati da anni e che nel tempo hanno trovato sempre diversi adattamenti o rititolazioni, e persino talvolta altri collaboratori. E’ curioso ad esempio scoprire – tra quelli che hanno avuto fortuna, perché in seguito tradotti sullo schermo seppur con altra piattaforma di scrittura – che per il film su padre Lino, Atsalut päder, abbia inizialmente chiamato in causa Tonino Guerra, con il quale aveva già lavorato per Occhio selvaggio (il trattamento aveva in origine il titolo L’accattone di Dio), e che poi in verità il film vedrà come co–sceneggiatori oltre a mio padre Lucia Demby ed Enzo Ungari; o che abbia pensato a quest’ultimo per il progetto di Fregoli, da realizzare per la Rai, e in cui trovano invece spazio, oltre a mio padre, la Demby e Roberto Lerici. E’ come se mio padre abbia voluto rendere partecipi dei suoi lavori – non solo quelli a cui più teneva – persone per le quali intuiva esistesse in loro un particolare interesse, o una predisposizione al tema. Era lui che sceglieva, decideva di volta in volta con chi condividere le sue esperienze, le sue antiche e nuove storie.180 Accade poi che una stessa opera mostri successivamente un titolo diverso, ma spesso avviene che muti in una certa misura anche la storia.181 E’ così che una sceneggiatura come L’Uomo A conosce nel tempo, circa un decennio, differenti titoli, modifiche di sceneggiatura e persino differenti firme di complemento. Rititolazioni, ritraduzioni, modificazioni minime o sostanziali, nuovi collaboratori, soggetti nuovi. Comunque mai niente di identico o di asso180

Più in generale questa caratteristica decisoria mischiata a una sorta di supervisione generale della sceneggiatura è avvertibile anche nella direzione di quei film in cui il suo ruolo nella scrittura era sacrificato o per nulla accreditato, come in Virilità e La tarantola dal ventre nero, in base alle sue testimonianze rilasciate ai giornali dell’epoca. Rispettivamente: Il Messaggero, 17 ottobre 1972, Momento sera, 1971. 181 Penso al legame esistente tra L’inchiesta, Il viaggio nudo – quest’ultimo poi tra i possibili titoli anche di L’uomo A – e Gettin’ off, scritti e sceneggiati agli inizi degli anni settanta con Lucile Laks. 252

lutamente ripetitivo. Progetti importanti irrealizzati, si è detto. Ci sono anzitutto quelle opere giovanili, che possono valere come racconti fini a se stessi, nonostante il loro indubbio stile di scrittura visivo o cinematografico: esempi perfettamente autonomi, risalibili agli anni sessanta (come L’ultima isola, poi ribattezzato L’isola del pomeriggio – ma con questo titolo esiste un soggetto con una storia diversa, scritta parecchio tempo dopo). La filosofia del viaggio li permea nella fondamenta.182 Il fascino per i “mondi” da scoprire, la fuga dal mondo civilizzato e l’esperienza del diverso si trovano intrecciati a risvolti drammatici; o a implicazioni più da mondo movie, come nel soggetto sulla ragazza australiana, Una ragazza dell’altro mondo, che gli ricordava probabilmente il periodo speso in quel continente, e che magari maturò mentre girava la sfilata delle majorettes a Sidney per Mondo cane.183 “L’ambiente nel quale si muovono i nostri personaggi, – chiarì nella prefazione – durante il lungo viaggio sulla nave e attraverso i porti di mezzo mondo, permetterà di farne risaltare le vicende su uno sfondo fatto di situazioni reali, scelte tenendo conto della loro eccezionale validità documentaria e riprese con lo stile più adatto a queste esigenze. Questo sarà possibile, e di certa spettacolare efficacia, dato il particolare genere di film, dove la protagonista (una giovane bellissima australiana) assetata di curiosità e di entusiasmo, vuole scoprire e godere quell’incantevole mondo a lei sconosciuto. Le sue reazioni davanti a quelle scene drammatiche, comiche, grottesche, serviranno 182

Riporto l’incipit di L’ultima isola: “Le isole, i tropici, l’oriente, il ritorno alla natura, la fuga dalla civiltà, e magari da un lavoro meccanico che umilia l’uomo, da una affettuosa famiglia che lo imprigiona: sono sempre queste le molle che fanno scattare il meccanismo del viaggio, il gusto dell’odissea alla ricerca di un mitico paradiso dove sia possibile riscoprire l’innocenza dei rapporti più semplici e di una libertà illimitata…” (Paolo Cavara) 183 Italian film director Paul Cavara must have one of the world’s sweetest job. For months he has been travelling the world, seeking out the most beautiful women in every country he comes to. You see. Paolo is one of a six-man team making a film to be called The Women of the world, for a big Italian Company. The team started out in Hamburg, moved on to Paris, Brussels, Cannes, Nice, Tokyo, Hong Kong, Bangkok, Singapore, and New Guinea. Now they‘re in Australia. Part of the team has gone to Cairns. Paul is in Sidney trying to organize a monster parade of girls in march-past costumes at Manly. “The Australian girls are very beautiful.” He told me yesterday. With half the world behind him and places like Tahiti, the United States, India, Arabia, England, and Africa ahead of him, I asked Paul which women he preferred: His considered verdict: the Japanese. Daily Telegraph, December 15, 1960. 253

a mettere in luce il suo carattere, il suo temperamento, agli occhi del protagonista (un ragazzo italiano), che anziché il mondo, vuole scoprire lei”. (Cavara). Alcuni di questi soggetti hanno una componente sperimentale che si integra col racconto. L’incantatore, ad esempio, si rifà alla tecnica della candid camera, ma in maniera ingegnosa, lasciando intendere una perfetta simbiosi tra fiction e documentario, già presente nel soggetto precedente, ma qui con una costruzione differente. Nell’intestazione si legge: “L’incantatore racconta una favola, ma servendosi delle tecniche del documentario, e in particolare usando la macchina da presa nascosta. Questo procedimento (candid camera) non è affatto nuovo in sé e consiste, in pratica, nel filmare delle persone a loro insaputa, il più delle volte per renderle ridicole. Nel nostro caso l’uso della macchina nascosta ha una funzione completamente diversa. Serve, da una parte, a immettere una verità spontanea in un film recitato e, dall’altra, a costruire, d’accordo con i personaggi filmati di nascosto, un “seguito” sceneggiato dove la finzione, i dialoghi scritti e le esigenze del racconto si armonizzano con le sequenze “rubate”. (Cavara). La passione per il documentario sopravvisse fino agli inizi degli anni Settanta, nonostante avesse ormai rinunciato alla ambigua componente spettacolare degli inizi: ne è testimonianza il progetto nato da un racconto di Massimo Felisatti, e con lui curato, sul delta del Danubio (e che troverà alfine realizzazione ma con un’altra stesura e un nuovo adattamento184), ma sono sempre i progetti forti legati al viaggio a campeggiare, quelli coltivati negli anni, di cui esistono soggetti e sceneggiature (in qualche caso ho rinvenuto solo queste ultime nel suo archivio), o storie in cui ritorna il tema costante della violenza e dell’amore come possibilità alternativa, già presente in Occhio selvaggio e ancor più ne La cattura.185 E in molti di essi il nome “Paolo” tra i protagonisti. Ci sono titoli come I mercenari, che pensava di realizzare subito dopo Occhio selvaggio – un tema sugli assassini a pagamento nel contesto della guerra, ambientato in Africa – ; un'altra sceneggiatura, questa volta tutta di suo pugno dal titolo Tre più il destino con 184

Si trattava di una proposta televisiva in tredici puntate di 30’ ciascuno, premessa per i 7 documentari dal titolo: L’uomo e la natura. L’uomo e il delta del Danubio realizzati poi per la Rai. 185 Ne la premessa al soggetto L’inchiesta è scritto: “Questa vorrebbe essere la storia di una donna la quale, nel quadro di una latente rivoluzione di popolo, effettua una rivoluzione personale. Ossia un fatto privato – un fatto d’amore –, contrapposto a un tema universale com’è quello della guerra.” (Paolo Cavara e Lucile Laks) 254

un inizio sulla distesa di sale in cui il personaggio appare da subito caratterizzato come se fosse uscito da una istantanea fotografica186; Gettin off, lavorato con Lucile Laks, che cercò di imporre in America agli inizi degli anni settanta, più o meno dopo aver realizzato Los Amigos (uscito in quel paese come Deaf Smith & Johnny Ears) e che avrebbe dovuto essere interpretato da un giovane e all’epoca sconosciuto Al Pacino;187 infine L’Uomo A, quello che – stando alla sua testimonianza – voleva fosse il film della sua vita, dove si intrecciano l’inquinamento ambientale e quello umano e si impone la sua coscienza di ecologista critico. Pensato per essere realizzato subito dopo E tanta paura è la storia di due amici, un italiano e un americano, che girano il mondo per realizzare un documentario ecologico. Così si espresse a riguardo: “Parallelamente all’inquinamento dell’ambiente naturale, il film scoprirà anche un inquinamento umano di cui è preda, pur senza saperlo, l’americano. Il rapporto tra i due finirà, non perché terminerà l’amicizia o verranno a mancare i motivi di lavoro che li hanno tenuti vicini, ma perché essi scopriranno di non essere più “parallelamente inquinati”.188 Da questa impressionante serie di titoli ne viene fuori un autore intellettualmente in continuo divenire, la cui attività di scrittura è intrecciata con la sua storia “aperta” di regista di cinema. Esattamente come penso sia stata, almeno in parte, la sua vita: una stimolante avventura. Forse è rimasto in lui, nel momento dello sconforto, il dubbio di aver sacrificato qualcosa a cui teneva per aver scelto di dirigere magari un film minore, per aver pensato alle volte al cinema forse più come professione e come spettacolo, che come arte propria. Ma negli ultimi rari momenti di serenità della sua vita credo non rinnegasse nulla di quello che aveva fatto. Non poteva certo rimproverarsi di aver perso del tempo. E per realizzare ciò che si vuole – lo sapeva assai bene – occorrono anni di rinunce e di attese. Per questo alcuni film degli inizi degli anni settanta furono da lui diretti per coprire quel vuoto, nell’attesa di poter alfine dirigere ciò che gli era più caro. Il tempo non è stato misericordioso con lui. Ma il fatto di 186

“Denis, sull’immacolata distesa di sale sta marciando verso la foresta pietrificata. Il suo viso è arso dal sole e un rivolo di sangue che esce dalla pelle screpolata, gli dà l’aspetto della disperazione. Ha l’aria di chi potrà resistere ancora per poco. Si arresta in pp. Vediamo che i suoi occhi guardano spauriti qualcosa…” (Scena I Karatiwu. Marcia sul sale. Esterni giorno.) 187 Variety, Wed, October 18, 1972. 188 Intervista a Cavara. Il Tempo 22 gennaio 1976. 255

non esser riuscito a realizzare cose importanti non rende per questo meno significativo ciò che ha realizzato – e che comunque non è poco, e di lavori importanti ne contiene. E quei copioni conservati gelosamente nel suo archivio sono come oggetti appannati che aspettano di risplendere alla luce di chi vuol leggerli, proprio come fossero fotogrammi proiettati sullo schermo.

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PAOLO CAVARA: SOGGETTI E SCENEGGIATURE RIMASTI SULLA CARTA a cura di Pietro Cavara

“L’ultima isola” Soggetto di Paolo Cavara 11 pagine Data imprecisata. Presumibilmente seconda metà anni ’60. “The afternoon island” Traduzione inglese di “L’ultima isola” “L’isola del pomeriggio” (La casa orientale) Soggetto di Paolo Cavara (in italiano e in inglese) 25 pagine Presumibilmente anni ‘70 “Fuga a Bali” Soggetto di Paolo Cavara 26 pagine Data imprecisata. Presumibilmente seconda metà anni ’60. “Una ragazza dell’altro mondo” Soggetto di Paolo Cavara 18 pagine Data imprecisata. Presumibilmente anni ‘60 “Tre più il destino” Sceneggiatura di Paolo Cavara 198 pagine Depositato alla Siae 257

“Uao…ultrasuono” Racconto di Paolo Cavara 6 pagine Data imprecisata “L’incantatore” Soggetto di Paolo Cavara 4 pagine Data imprecisata “Dalla finestra di fronte”, da un soggetto di Bob Raymond. Un trattamento di Andrea Barbato e Paolo Cavara Data imprecisata – presumibilmente fine anni ’60 “I mercenari” di Andrea Barbato e Paolo Cavara 117 pagine. Prime quattro pagine mancanti Presumibilmente fine anni ‘60 “Poor boys high” (Viaggio di poveri ragazzi) Soggetto di Paolo Cavara e Arthur Coppoletti 18 pagine Senza data “Pensa se esistesse il mare” Soggetto di Paolo Cavara e Massimo Felisatti. Da un racconto di Massimo Felisatti. 20 pagine Presumibilmente: inizi anni ’70. “Qui il giorno è lungo come l’alba e il tramonto” Soggetto cinematografico di Barbara Alberti, Paolo Cavara, Amedeo Pagani 44 pagine 5 novembre 1970

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“Il grande viaggio” Soggetto B. Alberti, P. Cavara, A. Pagani 7 pagine – senza data “L’inchiesta” Soggetto di Paolo Cavara e Lucile Laks 22 pagine Presumibilmente inizi anni ‘70 “Enquiry” (L’inchiesta in versione inglese) 17 pagine “Il viaggio nudo” Soggetto di Paolo Cavara e Lucile Laks 23 pagine Presumibilmente inizi anni ‘70 “Gettin Off” A screenpaly by Paolo Cavara and Lucile Laks Based on a story by Cavara and Laks. 140 pagine 31 marzo 1970 “Africa amore” di Paolo Cavara e Lucia Drudi Demby 38 pagine Senza data – Oaf stampa “Troppo amore” Soggetto di Paolo Cavara e Lucia Demby 23 pagine Giugno 1971 “Casbah” (Omicidio firmato) Soggetto cinematografico di Paolo Cavara e Lucia Demby Data imprecisata

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“La sciacalla” Trattamento cinematografico di Paolo Cavara e Lucia Demby 100 pagine 8 aprile 1971 “Amico non fidarti, spara” Soggetto di Paolo Cavara 33 pagine Data imprecisata “L’accattone di Dio” Trattamento di Tonino Guerra, Lucia Demby, Paolo Cavara Prima versione del progetto su Padre Lino da Parma 65 pagine – Oaf stampa – 26 luglio 1973 “L’isola del pomeriggio” (La casa orientale) Soggetto di Paolo Cavara (in italiano e in inglese) (sono inclusi alla stesura del soggetto Enrico Oldoini e Daniele Patucchi) 25 pagine Presumibilmente anni ‘70 E’ differente da L’ultima isola e dall’edizione inglese “The afternoon island” “Postage Due” (in inglese) Soggetto di Paolo Cavara, Jerome Max Data imprecisata “Muta femmina mia” Soggetto di Paolo Cavara e Turi Vasile 13 pagine Copyright © 1974 by Cavara & Vasile. “Firenze stanotte sei bella” Soggetto di Paolo Cavara e Enrico Oldoini 16 pagine Senza data – Oaf stampa – Presumibilmente metà anni ‘70

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“Belve in amore” Soggetto di Paolo Cavara e Enrico Oldoini 24 pagine Presumibilmente seconda metà anni settanta “La rosa del deserto” Soggetto di Dardano Sacchetti, Paolo Cavara, Enrico Oldoini G.. P. E. Enterprises s.r.l. Data imprecisata. Presumibilmente inizio seconda metà degli anni ’70. “L’uomo A” 189 Soggetto di Paolo Cavara Trattamento di Paolo Cavara e Lucia Demby 89 pagine. Copyright © by Cavara . Oaf stampa “The Ego trip” (Edizione in inglese di “L’uomo A”) Soggetto di Paolo Cavara Sceneggiatura di Paolo Cavara, Lucia Demby e Alberto Silvestri 152/196 pagine Copyright © by Cavara. Ottobre 1976 – Oaf stampa “Shauri Mungu” (Il cacciatore nero) Soggetto di Paolo Cavara e Franco Prosperi Seconda metà anni ‘70 “Johnny Velvet” By Sam X. Abravanel and Lionel Chetwind Revised treatment by Paolo Cavara and Lucia Demby 58 pagine – Oaf stampa Data imprecisata “Così si gioca in paradiso” (Il bisonte di Monghidoro) Sceneggiatura di Roberto Lerici, Paolo Cavara, Gianni Cavina. 189

Sul frontespizio vi sono annotati titoli alternativi (“Viaggio di non amore”, “Amore e amicizia”, “L’ultima isola”, “Il viaggio nudo”) già presenti in opere precedenti. 261

Dialoghi di Roberto Lerici 256 pagine, prima stesura Copyright © 1979 by Cavara & Cavina “Fregoli” Programma in 3 puntate di Paolo Cavara e Enzo Ungari Prima versione del futuro sceneggiato omonimo del 1981. 6 pagine Data imprecisata. Presumibilmente seconda metà anni Settanta “Quei giorni ad Algeri”, trattamento di Paolo Cavara e Massimo Felisatti 57 pagine Roma, Ottobre 1981 “Pierrot a Taormina” di Franco Ruffo Trattamento di Paolo Cavara e Lucia Demby Giugno 1982 “Oasi” Senza specificazioni né data 34 pagine “Sangue nero” 12 pagine Senza specificazioni né data “L’incognita” 35 pagine Senza specificazioni né data “Epilogo” Senza specificazioni né data “Buon appetito” Senza specificazioni né data 63 pagine. Nuova stampa s.r.l.

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L’UOMO, IL SOGNO E IL VIAGGIO: UN’ IPOTESI DI CINEMA NEI SOGGETTI INEDITI DI PAOLO CAVARA

Alcuni soggetti inediti di Paolo Cavara – indicativamente datati tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta rivelano già alcuni temi e suggestioni – tuttavia qui ancora in fase embrionale – che diventeranno dominanti e centrali nel cinema a venire del regista bolognese.190 Anche alcuni meccanismi narrativi – come quello dell’aggressione – sono già qui rivelati sotto forma di riflessione acuta – seppur ancor chè sbrigativa – in merito sia alle dinamiche della violenza sia nei confronti di una crudeltà, endemica alla natura umana, che produce un dolore e una sofferenza – leggibili in modo ambiguo – in grado di suscitare repulsione e fascinazione. Da questi elementi – a completare il discorso qui abbozzato sulla complessità motivazionale dell’agire umano – contribuiscono sia il tema del viaggio (reale e introspettivo) come possibile risposta ad interrogativi esistenziali legati alla pervasività della società dei consumi, sia la dimensione del sogno, intesa come rifugio/guscio, protettivo e rassicurante, in cui tutto è possibile - compreso il raggiungimento di uno stato di serenità solo fino a quando gli occhi rimangono chiusi. Le suggestioni racchiuse nei tre soggetti inediti Uao … ultrasuono, L’incantatore e L’ultima isola, rimandano, dunque, ad un approccio tematico alla materia – seppur ancora poco approfondito – comunque pregnante sul versante emotivo e formale. Molto diversi tra di loro i tre soggetti costituiscono – nella loro eterogeneità - una sorta di architrave a cui è inchiodata la linea poetica e cinematografica del regista bolognese. In parti190

Dalla considerazione della gente come intesa ”grande spettacolo” in L’incantatore all’allucinante notte della Reepalbham Strasse di Amburgo – a metà strada tra Mondo cane e L’occhio selvaggio – di Uao … ultrasuono, per finire con la rincorsa all’esotismo e la fuga dal mondo occidentale di L’ultima isola 263

colar modo denotano la necessità – quasi l’urgenza, da parte di Cavara - di accorciare i tempi per confrontarsi con l’ambiguità che alligna nell’immagine che riproduce (o tenta di farlo) la realtà, la violenza e la materia. In Uao… ultrasuono la visione d’insieme delle modalità narrative con cui si sviluppa la storia rimanda alla volontà di definire una “meccanica della violenza” in cui gli ingranaggi, le pulegge, gli incastri e le leve definiscono il movimento e l’azione di una struttura meccanica in grado di stritolare l’individuo. Che il tutto avvenga in uno spazio chiuso e claustrofobico – in cui ai personaggi è negata (a priori) ogni possibilità di fuga – dominato dalla luce artificiale, stretto in una morsa sensoriale degradante e maleodorante, non fa niente altro che acuire il senso della temporaneità dell’aggressione e definire come questa – sfociando in violenza – segua meccanismi precisi e oliati a dovere. Il motore dell’intera vicenda è rappresentato dal cinismo freddo e calcolato di un fotografo pubblicitario, il quale, però, assieme alla sua modella/attrice e alla borghese annoiata in cerca di emozioni forti (qui nel ruolo meta-cinematografico di spettatore interno alla messa in scena) – costituiscono solo elementi accessori della macchina comunicativa guidata dal regista (il tedesco), il quale è intenzionato a costruire uno spettacolo sadico in cui emerge un discorso brutale, barbaro e selvaggio sulla rappresentazione del connubio tra orrido e meraviglioso. Il cinismo spietato dell’italiano costituisce – già di per sé – la base funzionale delle dinamiche di aggressione che Paolo Cavara è intenzionato ad indagare: …immagini e documenti sempre più agghiaccianti da accostare alla bellezza della loro modella. La supponenza e l’esercizio del potere connaturati al ruolo di regista della finzione non contemplano la possibile reazione del soggetto violentato, in quanto, questo – puro elemento subordinato alla rappresentazione – viene spogliato di ogni identità umana per essere ridotto alla natura di “cosa” – oggetto funzionale alla messa in scena del messaggio pubblicitario e, per correlato, merce da smaltire nella società dei consumi.. Di fronte al risveglio della dignità umana – seppur annebbiata dai fumi dell’alcool – tanto il regista quanto il suo operatore oltre chè rimanere spiazzati e sorpresi dimostrano tutta la loro incapacità – dettata dalla presunzione – nell’affrontare l’imprevedibile: da buoni “colonizzatori” delle coscienze non trovano niente di meglio che offrire dei soldi a quegli “oggetti” che, in fase di ribellione, stanno destrutturando la loro perfetta macchina riproduttiva. Loro sono convinti che, attraverso l’elargizione di denaro, sia possibile ricomporre 264

il quadro, rigettare la reazione violenta, e snaturare la coscienza degli individui per ricondurli allo stato di “cose”. Ma la “meccanica della violenza” – quella stessa che, nelle dinamiche, soggiace al Rape and Revenge – una volta attivata, non prevede né esitazioni, né intoppi: il denaro non può rappresentare il granello di sabbia che blocca l’ingranaggio e ferma la macchina. Ad una reazione ne corrisponde una uguale e contraria ma amplificata a dismisura nel suo potere distruttivo. Avviene così che lo stupro concettuale del fotografo si tramuti in stupro reale messo in atto dalle vittime della Reepalbham Strasse di Amburgo: … fino ad arrivare a seviziarle, a fare violenza alle donne, a fotografarle in quello stato con la stessa macchina che l’italiano aveva usato per loro. L’incubo “meccanico” in cui gli ingranaggi della violenza, girando, producono dolore, sangue, sofferenza e morte è destinato a concludersi solo nel momento in cui le persone ritornano tali, lo spazio chiuso riaperto e la luce naturale comincia, dall’esterno, ad entrare nel locale: il rito della vampirizzazione degli esseri umani si conclude e i demoni - della crudeltà e spietatezza insiti nella rappresentazione della società dei consumi – bruciati dalla luce del sole. Il regista è morto, l’operatore, l’attrice e la spettatrice escono di scena e la finzione può dirsi, finalmente, conclusa. Il suono indistinto e fragoroso che perfora le orecchie è segno che quella “meccanica della violenza” è destinata a ripetersi e il suo manifestarsi non potrà che essere – di volta in volta – sempre uguale e sempre diverso. L’unica risposta possibile a quest’orrore (profondamente e naturalmente umano) è rappresentata dalla fuga, dal rifugio nella “scatola dei sogni”. Qui solo la poesia e il candore dell’incontro innocente – che riecheggia il “breve incontro” del cinema classico – possono restituire lo sguardo voltairiano sulla società dei consumi così come emerge tra le righe de L’incantatore. L’incontro con il prossimo e la solidarietà sono minati dall’incomunicabilità e dall’individualismo che nella società si diffondono a macchia d’olio: …si rinchiudono in loro stessi, nelle loro case, isolandosi dal resto del mondo che è diventato nemico. Per questo è possibile solo rincorrere l’ideale, l’immagine proiettata di una felicità destinata a scomparire al primo accenno di consapevolezza. E così il viaggio diventa l’unica ragione possibile per riacquistare la purezza originaria. Non importa se questo viene compiuto tra quattro pareti domestiche riadattate a lanterna magica con la luce che proietta l’immagine cinematografica del viaggio mentre l’amore si consuma fuori dal tempo, nell’attesa che l’imprevedibile accada. Ben presto la natura 265

umana con le sue esigenze, i suoi cicli, le sue convenzioni ritorna implacabile per disarticolare il viaggio ideale dei sentimenti e riappropriarsi – attraverso la consapevolezza – delle scelte (e, soprattutto, degli egoismi) individuali – delle persone per lasciare impresse sulla parete dei desiderio solo la loro immagine: quella che al primo raggio di sole svanirà nell’etere per porre fine all’indimenticabile viaggio. Ma se il viaggio de L’incantatore si presenta solo come la rappresentazione di un sogno, di qualcosa di magico che temporaneamente si è impossessato delle vite di due persone, il viaggio reale di L’ultima isola appare già come un primo tentativo di indagare il cannibalismo sociale dell’Occidente191. Tutta la prima parte dello scritto mette a confronto due mondi non con l’intenzione di equipararli bensì di rilevare come alla morte dell’Occidente possa sopravvivere – ma non ancora per molto – il fascino esotico e misterioso dell’Oriente. Quando entrano in scena i personaggi nel loro, volutamente, essere schematici – nonché rappresentativi di modi e stili di vita diversi – si capisce come il tema dominante sia la frustrazione dovuta all’incapacità di questi uomini e donne di accettare ciò che la vita offre loro. In questo si avverte come l’assenza di spiritualità e l’inesorabile processo di secolarizzazione che attraversa l’occidente stiano erodendo le certezze dell’individuo che neanche più nella realizzazione personale riesce a trovare requie: una colonia di fantasmi che recitano per sé e per gli altri la commedia della felicità senza riuscire a nascondere del tutto le fragili strutture su cui si fonda la loro monotona vita di parassiti. Mentre questo gruppo di disperati - di uomini e donne alla deriva e in balia degli eventi – cerca, inutilmente, di costruire un simulacro di comunità fatto di relazioni adulterine ma normalizzatrici - tanto accettate a parole quanto respinte nei fatti – sullo sfondo prende forma e consistenza l’edificio dell’albergo in costruzione. C’è quindi una sorta di relazione tra l’edificio in muratura e quello legato ai rapporti personali: una sorta di rappresentazione materiale del desiderio destinata a concludersi con l’azzeramento della passione – che convoglia nella morte – mentre l’edificio alberghiero, una volta eretto, continua ad esistere per accogliere il gusto antropofagico dell’occidente: la colonia dei vecchi residenti bianchi sarà ridotta a un pittoresco serraglio 191

Da notare come il soggetto de L’ultima isola contenga alcuni degli elementi e dei tremi presenti nella prima versione di Bali (1974) di Ugo Liberatore - il film venne poi rimontato e integrato da riprese romane di Paolo Heusch per poi essere distribuito come con il titolo Incontro d’amore. 266

visitato dai turisti armati di cinepresa e desiderosi di conoscere una stravagante specie animale in via di estinzione. Tutto ciò avviene in un’isola “magica” in cui – seppur illusoriamente e temporaneamente – il gruppo di “naufraghi” viene stregato dal misticismo e dalla spiritualità endemiche agli abitanti locali. Ben presto però la magia diventa sortilegio, cioè mezzo utilitaristico – e pertanto spogliato di ogni aspetto religioso - per ottenere un risultato materiale. La distruzione concreta e identitaria provocata dalla presenza del “cannibale sociale” dell’occidente è, inevitabilmente, destinata a concludersi in tragedia: in una lotta così spietata, dove ognuno colpisce senza riguardo per l’avversario, è inevitabile che sia il più debole a soccombere. Ciò avviene anche a causa di una forza indomita - ancora pienamente esercitabile – che spinge i locali a proteggere la loro cultura identitaria e a respingere ogni forma di occidentalizzazione. L’ultima isola è ancora un porto sicuro, l’ultimo, forse, possibile ricovero per lenire le ferite inferte dallo stile di vita della società dei consumi. Se ne evince che, questo come i due soggetti analizzati in precedenza, rappresentano una sorta di viatico verso il cinema in divenire di Paolo Cavara. Qui sono già presenti tanto le riflessioni sull’equivocità legata riproduzione della violenza, quanto le preoccupazioni in merito all’ambiguità della ripresa (e riproduzione) della realtà. Tutti e tre i soggetti – nella loro incompiutezza – mantengono in precario equilibrio il rapporto tra pessimismo e ottimismo nei confronti di un futuro sociale ancora tutto da scrivere. Colpisce come in questi lavori giovanili – certamente anche venati da un entusiasmo dovuto all’età – ci sia ancora spazio per la speranza e per l’illusione, quelle stesse tensioni che anche nel cinema realizzato troveranno sempre uno spazio in quello che è senza dubbio uno dei “marchi di fabbrica” dell’autore: il credere nell’uomo e nelle sue infinite risorse. UAO… ULTRASUONO Soggetto di Paolo Cavara Uao… Uao… Uao… sono suoni che escono dalle bocche di quella gente che ondeggiante, esce dalle birrerie della Reepalbam Strasse di Amburgo. Uao… Uao… è un ultrasuono di parole senza senso vomitate assieme alla birra da questi uomini e queste donne infelici. E’ in questo ambiente che incontriamo i nostri personaggi: tre italiani e un 267

tedesco: due uomini e due donne. Il tedesco li accompagna a visitare quello spettacolo degradante e lo fa senza pietà, senza vergogna, come se lui non appartenesse a quella stessa razza. L’altro uomo, l’italiano è uno che si interessa di pubblicità e ha con sé una fotomodella che intende fotografare proprio in quell’ambiente e la sua amica, una signora di classe, della quale sembra esserne innamorato. Animalescamente le vittime cioè gli ubriaconi reagiscono alla violenza che i nostri personaggi fanno al loro residuo di pudore, minacciano i curiosi intrusi a non documentare il loro abbrutimento, esigono di essere lasciati in pace. Ma al tedesco le loro minacce non sembrano fare paura e incita invece i suoi amici a non tirarsi indietro. E li aiuta a pescare tra quell’immondizia umana, immagini e documenti sempre più agghiaccianti da accostare alla bellezza della loro modella. Improvvisamente, con fragore lo spettacolo ha inizio. Una saracinesca si è abbassata alle spalle dei nostri protagonisti che si vengono a trovare chiusi all’interno di una birreria. Sta per iniziare un nuovo spettacolo, ma questa volta gli spettatori saranno gli ubriaconi. Uno sguardo attorno, una panoramica su quelle facce dure che li stanno a guardare è quanto basta ai nostri per rendersi conto che potrebbe succedere tutto: “Malmenati, violentati, uccisi.” Vedremo ora i nostri personaggi messi a nudo, vigliacchi e eroi, ma sempre oggetti nelle mani dei loro carnefici, violentati perché avevano fatto violenza, anche senza sapere fino a che punto. Vedremo ora che è il tedesco ad essere quello più spaventato, a tentare di giustificarsi, cercare di pagare per la salvezza con tutti i soldi che hanno, ma stramazzare al suolo colpito da una scarica di botte. Assisteremo ad una lunga attesa prima che succeda qualcosa, un’attesa drammatica che quelli della birreria provocano per centellinarsi il piacere di arrivare fino in fondo. Per mettere a loro agio gli ospiti, incominceranno anzitutto col riempire le loro pance di birra. Poi, poco alla volta, gli ubriaconi incominceranno ad usare le loro vittime fino ad arrivare a seviziarle, a fare violenza alle donne, a fotografarle in quello stato con la stessa macchina che l’italiano aveva usato per loro e arriverà il momento che i nostri personaggi non saranno molto diversi da loro. Il tedesco perderà il suo stile e la sua superbia, bevendo e cantando mischiato agli altri e farà l’interprete quando serve. Le due donne, scapigliate, sudate, stracciate, sballottate da un angolo all’altro della birreria, ormai incapaci di ogni reazione. L’italiano, brutalmente malmenato per aver tentato di difenderle che cercherà solo di vomitare la birra che gli fanno bere per forza 268

perché vuole rimanere lucido. Sarà proprio questo suo gesto, questa sua ostinata volontà di rifiutare la loro violenza, pronto anche a morire pur di non subire, a far nascere un po’ di pietà, fra alcuni degli ubriaconi. Soltanto un piccolo gruppo, una minoranza, ma sarà il principio di una speranza, la speranza per l’italiano che gli uni si scaglino contro gli altri e ne nasca un nuovo conflitto dal quale poter salvare loro stessi. Bottiglie rotte, coltelli, il silenzio. La saracinesca si è riaperta e la luce bianca dell’alba entra nel locale. I nostri personaggi escono, tre soli, perché il tedesco è lì in un angolo in una pozza di sangue con un coltello piantato nella pancia.Camminano per le strade ormai deserte e parlano, ma quello che dicono è soltanto Uao… Uao… Uao… L’ULTIMA ISOLA Soggetto di Paolo Cavara Le isole, i tropici, l’Oriente, il ritorno alla natura, la fuga dalla civiltà, e magari da un lavoro meccanico che umilia l’uomo, da una affettuosa famiglia che lo imprigiona; sono sempre queste le molle che fanno scattare il meccanismo del viaggio, il gusto dell’odissea alla ricerca del mitico paradiso dove sia possibile riscoprire l’innocenza dei rapporti più semplici e di una libertà illimitate. Ma oggi, coi mezzi di comunicazione sempre più rapidi, col turismo di massa alla portata di tutti, col risveglio del terzo mondo dal lungo sonno del colonialismo e la sua rapida, smaniosa corsa verso i benefici dell’industrializzazione e del progresso, esiste ancora un luogo totalmente vergine, dimenticato dalle rotte dei bastimenti e degli aerei, fuori dal tempo e dalla storia, dove l’uomo bianco in fuga (dalla propria civiltà, da se stesso?) possa seppellire le proprie angosce, i fallimenti, i rimorsi, un luogo dove possa abbandonarsi all’estatico piacere di una vita senza coscienza, senza tempo, senza storia, immerso nella tenerezza della natura come nel confortevole rifugio del grembo materno? Se ancora esiste un luogo come questo, si chiama Bali: la dolcezza del clima, l’incanto del paesaggio, la naturale eleganza degli abitanti, la facilità della vita, l’affrancamento dagli schemi di una morale repressiva (borghese o cristiana) fanno di quest’isola un inebriante paradiso. E’ un paradiso che conquista a prima vista, e poi a poco a poco addormenta, imprigiona. Così è capitato anche a Curd, il tedesco che ha voltato 269

le spalle al miracolo economico, alla ripresa industriale e politica di questo Reich, e già da qualche anno si è assimilato alla cosmopolita colonia di europei (francesi, olandesi, inglesi), insoddisfatti come lui della civiltà dei grattacieli, delle automobili, degli elettrodomestici, delle tasse, dei conti in banca, degli infarti, di questa faticosa civiltà del benessere contro la quale hanno scelto e riscoperto il piacere dell’ozio, i privilegi di una sfrenata libertà, le gioie della vita fisica: prendere il sole, mangiare, dormire, bagnarsi nella laguna, fare l’amore. Qui, nella colonia di Bali, non esiste un domani e i ricordi sono banditi: quel che conta è un eterno presente. Come se il tempo si fosse fermato per queste poche centinaia di privilegiati in fuga. Qui anche la morte sembra un fatto domestico e naturale che non fa più paura. Forse anche per questo Michèle ha seguito Curd a Bali e lo ha sposato. Lei, parigina purosangue, colta, raffinata, elegante, esemplare prodotto di una civiltà sofisticata, probabilmente si è illusa di poter fermare il tempo, di opporsi alla fuga degli anni (ne ha quaranta) che crudelmente incalzano. Non è forse vero che il paradiso è fuori dal tempo e che la beatitudine è senza età? Ma si è trattato di un’illusione, di un inganno anche se Michèle continua a prolungarlo consapevolmente rifiutandosi di aprire gli occhi sulla realtà: un marito cinico, egoista, profondamente vile, una colonia di fantasmi che recitano per sé e per gli altri la commedia della felicità, senza riuscire a nascondere del tutto le fragili strutture su cui si fonda la loro monotona vita di parassiti. Sono degli insabbiati dei vinti che hanno smarrito il senso della comunità, della fertile lotta, del salutare dolore. Sono degli esuli volontari in un mondo che non li riguarda che non li riescono a capire, del quale colgono solo la superficiale bellezza, il fascino di un rito, la grazia di un movimento, ignorandone la storia, le contraddizioni, il faticoso progresso. Sono dei pensionati di lusso che si spengono a poco a poco, preoccupandosi solo di evitare per quanto possibile, fin quando si può, ogni occasione di sofferenza. Resterebbe l’isola, sì, affascinante ed inesauribile, un contatto attivo coi nativi, con la loro vita quotidiana, coi loro problemi; ma Michèle è appena una donna e per di più stanca, in crisi, incapace di prendere una qualsiasi iniziativa. Così non le resta che recitare lei pure la commedia della felicità e lasciarsi vivere nella dolorosa consapevolezza che presto sarà vecchia, che niente, più niente le potrà capitare. Il paradiso, ha detto qualcuno della colonia in un momento di verità, è un mito creato dall’uomo per rendere meno atroce il pensiero dell’al di là, quindi è un’immagine mor270

tuaria. Un uomo vivo rifiuta sempre l’idea del paradiso. E a maggior ragione una donna viva. Ma lo è ancora Michèle? Eppure qualcosa può ancora capitarle, qualcosa che la risvegli dal suo opaco letargo e la restituisca al mondo dei vivi. Naturalmente un uomo. L’amore. Si chiama Enrico Mattei, ha una quarantina d’anni, fa l’ingegnere. E’ arrivato a Bali con un architetto indonesiano per progettare la costruzione di un grande albergo. Enrico è un uomo inquieto, problematico, moderno, con tutti i suoi appassionati interessi ben inseriti nel presente della storia, con una curiosità onnivora e una prodigiosa vitalità. In quel mondo di fantasmi sembra calato da un altro pianeta. E naturalmente viene subito compatito dalla colonia dei bianchi. Perché si agita così? Che cosa cerca nella vita? Non ha ancora capito che tutto è inutile, che tutto il suo affannarsi, tutto il suo lavoro, tutte le sue idee, non riusciranno a renderlo felice? Per loro Enrico è un richiamo a quell’assurdo passato che si sono lasciati alle spalle. E’ un motivo in più per compiacersi del presente. E fra le tante ragioni che hanno per criticarlo, per respingerlo, perfino per calunniarlo, c’è anche il progetto dell’albergo, che essi avversano come un oltraggio alla pace dell’isola, di quest’isola di cui si considerano i conservatori spirituali, i disinteressati padroni. Nel giro della colonia, solo Curd si comporta più amabilmente con Enrico, lo ospita perfino in casa sua, e non esita nemmeno ad incoraggiare la sua amicizia con Michèle. Perché? E’ molto semplice. Quando una donna è in crisi vuol dire che ha bisogno di un amante. E al tedesco, l’ingegnere italiano sembra proprio il tipo giusto: un ospite di passaggio che regalerà a Michèle l’auspicato romanzo sentimentale e poi, al momento giusto, saprà sparire con discrezione. Curd vuole vivere in pace, senza drammi: e un adulterio ragionatamente programmato fa parte della sua filosofia. L’amore di Michèle per Enrico cresce con la forza di una passione che maturava da lungo tempo in attesa solo di un oggetto su cui scaricarsi. E’ la sua ultima occasione di donna. Anche l’ultima speranza che le resta di poter lasciare quest’isola paradisiaca per tornare nel mondo dei vivi che lottano, che soffrono, che invecchiano. Per Enrico è un amore senza tempo, probabilmente senza futuro, ma a cui si abbandona lasciandosi contagiare lui pure dal sottile fascino dell’isola. E’ un amore continuamente bruciato nei loro incontri quotidiani, un amore che si rinnova ogni giorno a contatto con la natura, con una semplicità di vita che incanta. E’ una lunga vacanza che Enrico si con271

cede a fianco del suo lavoro: l’albergo che lentamente comincia a crescere… Quanto durerà quest’amore? Se il principio, come in ogni amore, è idilliaco, presto si profila l’ombra del dramma. Cosa succederà quando l’albergo sarà finito? E ammesso che Enrico decida di portarla con sé, ammesso che si risolva a abbandonare la famiglia, la moglie, i figli, lasciati in Italia, che futuro può avere il loro amore una volta rientrati in mezzo agli altri uomini, nella loro società? Mai come ore Michèle ha sentito il peso degli anni. E a poco a poco capisce che Enrico le appartiene finché resterà a Bali, e che il loro amore può sopravvivere soltanto in quest’isola. Dunque, bisogna che anche Enrico si insabbi, che si dimentichi, che rinunci, che si spenga. Come una nuova Circe Michèle ha ora questo duro compito: stregarlo, assimilarlo all’isola, al paradiso, distruggerlo con la forza del proprio amore. E’ una lenta opera di persuasione, di sottile suggestione, una paziente conquista all’irrazionalità dell’amore, a un’esistenza fuori del tempo. Michèle si identifica ormai con l’isola. L’isola è la sua alleata nella conquista di Enrico. Due mondi sono in lotta, due concezioni dell’esistenza: da un lato c’è la vita attiva proiettata sul futuro, dall’altro la pace della rinuncia. Ma in questa sua disperata lotta per non perdere la sua ultima isola di speranza (l’amore di Enrico), Michèle ha due nemici diversamente attivi e pericolosi: suo marito Curd che le consentiva l’adulterio provvisorio ma che non può tollerare la vergogna di un definitivo abbandono, e il collega indonesiano di Enrico, per il quale Bali è soltanto un piacevole luogo di vacanza che l’apertura dell’albergo renderà accessibile a un più vasto movimento turistico. E proprio per questo, appena può, apre disinteressatamente gli occhi ad Enrico, gli distrugge l’antistorica immagine del paradiso, lo compromette continuamente in un discorso responsabile e razionale. In una lotta così spietata, dove ognuno colpisce senza riguardo per l’avversario, è inevitabile che sia il più debole a soccombere: cioè Michèle. L’albergo è quasi finito. Tra poche settimane ci sarà l’inaugurazione e arriveranno gli invitati da ogni parte del mondo. Quel giorno partirà Enrico. Ormai ha deciso: l’incantesimo dell’isola non ha funzionato. Tanto più che l’isola sta già trasformandosi. Presto la colonia dei vecchi residenti bianchi sarà ridotta a un pittoresco serraglio visi-

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tato dai turisti armati di cinepresa e desiderosi di conoscere una stravagante specie animale in via di estinzione. Sono le ultime settimane, gli ultimi giorni, le ultime ore di un grande amore condannato. Michèle più che rassegnata, sembra di nuovo felice. Decisa a godere di ogni minuto, senza rimpianti, senza paure. Enrico è travolto dalla sua vitalità, per un attimo pare riconquistato, le propone perfino di partire con lui. Ma ora è Michèle che rifiuta. Ha capito qual è il suo destino e lo accetta. Il sortilegio ha agito su di lei: quest’isola, dice a Enrico, non la potrà più lasciare. Così Enrico può partire quasi sereno. Con una certa nostalgia naturalmente, ma anche con un gran senso di liberazione. E senza rimorsi. Senza sospettare che ora, mentre lui vola a settemila metri di altitudine diretto a occidente, Michèle sta per affrontare lei pure il suo ultimo viaggio verso il regno dei morti. Proprio come aveva detto, non lascerà mai più quest’isola. Ma non esporrà neppure in pubblico il suo fallimento femminile. Non si lascerà fotografare dai turisti che affluiscono all’albergo per la grande festa dell’inaugurazione. Piuttosto che sopravvivere come il fantasma della propria illusione, preferisce spararsi, con la rivoltella del marito, un colpo al cuore. L’INCANTATORE Soggetto di Paolo Cavara PREMESSA Il carattere particolare del nostro protagonista Sergio che avvicina con amore ma sfacciatamente il suo prossimo, ci suggerisce un sistema particolare di riprese, limitatamente a quella parte del film che riguarda i suoi incontri. Con la camera nascosta intendiamo girare le scene che il nostro attore (o i nostri quando è con lui Anna) interpreterà dal vero, avvicinando la gente che non conosce, (naturalmente senza che gli stessi sappiano essere ripresi) nelle strade e nei locali pubblici della città. E’ una tecnica già usata documentaristicamente (Candid Camera) ma di sicuro effetto, se la inseriamo nel contesto di un film a lungo metraggio. Si chiama Sergio Solari, è un giovane simpatico, ottimista, senza professione e, per sua precisa volontà, senza lavoro. Abita all’ultimo 273

piano di uno di quattro palazzoni che si guardano in un cortile centrale che lui vede, tutte le mattine, quando si sveglia, aprendo la finestra della sua camera da letto. Nel cortile ci sono tante finestre, dietro le quali vivono un gran numero di persone, campionario eterogeneo di umanità che lui, proprio perché ce l’ha lì a portata di occhio, chiama “la sua televisione”. Perché per Sergio la gente è sempre fonte di uno spettacolo che lo affascina, lo diverte, lo innamora; e lui fa divertire la gente con le sue battute, con il suo modo di fare stravagante. E’ sempre pronto al sorriso, a un saluto espansivo e di ritorno ne riceve tanti, perché chi lo conosce gli vuole bene. Anche Anna, una giovane e bella signora che, acrobaticamente, si sporge dalla finestra accanto per offrirgli un caffè caldo, (ormai da diverse settimane ha preso questa abitudine) dimostra la sua simpatia per Sergio, lo fa apertamente, davanti al marito, il quale invece rifiuta con ostinazione l’espansiva confidenza che Sergio vorrebbe avere anche con lui e fa alla moglie delle furiose scenate di gelosia. Ma Anna non sopporta prepotenze, non vuole rinunciare a comportarsi così come si sente, non ci vede nulla di male in quello che fa e dice al marito che sino a che le cose stanno così, non deve accusarla di tradimento, quello che fa si chiama voler bene al nostro prossimo, al quale possiamo e dobbiamo regalare un sorriso e anche una tazzina di caffè. A Sergio piace questa maniera di vedere le cose, gli piace quella ragazza perché sente che è un po’ come lui, che non vuole vivere senza “gli altri”. Purtroppo oggi “gli altri”, cioè gli uomini, sono pieni di problemi, credono sempre meno nelle intenzioni, nella giustizia, hanno paura della violenza che dilaga nella città così si rinchiudono in loro stessi, nelle loro case, isolandosi dal resto del mondo che è diventato nemico. Ma a Sergio questo modo di vedere le cose non va, non lo accetta, vuole a qualsiasi costo sentirsi parte della società e se gli uomini lo abbandonano è lui che va a cercarli, magari tirandoli per la giacca perché lo ascoltino, perché vuole vivere con loro. Ma torniamo ad Anna che, come dicevamo, piace a Sergio, a dire il vero, un po’ più degli altri. L’incontra un giorno per caso, da un fotografo dove lui è andato per ordinare da un negativo l’ingrandimento in una foto di cinque metri per quattro, foto a colori alla quale deve però rinunciare, almeno per il momento, perché costa troppo. Da molto tempo Sergio e Anna avevano voglia di parlarsi, non solo dalla finestra accanto ma in altri posti, un po' più in libertà, senza essere disturbati dalla gelosia a volte grossolana del marito di lei. Quella che si è presentata è l’occasione che aspettavano. 274

L’inconsueto ordinativo di Sergio, e la sua buffa maniera di fare, nel tentativo di avere quella foto non pagandola, divertono Anna. Al proprietario del negozio esterrefatto, Sergio propone anche altre maniere di compensarlo, sino ad arrivare a chiedergli una prova di amicizia, insomma di dargli la foto in regalo; quella fotografia per lui è una cosa molto importante, più di una foto qualsiasi, è un bellissimo viaggio. Cosa vuole dire lo sa solo lui, fatto sta che non lo convince, ma convince invece Anna ad andare con lui in giro per la città. Ne esce una giornata molto divertente, col suo sistema di incontri improvvisati e il tempo passa veloce senza che si è fatto sera e che a casa c’è un marito geloso che l’aspetta. Hanno saputo di stare proprio bene assieme e così decidono di continuare a vedersi. I primi tempi Anna è un po’ imbarazzata dal modo di fare di Sergio. Gli piacciono il suo entusiasmo e la sua disponibilità verso la gente, ma a volte viene a trovarsi anche lei in situazioni così strampalate che farebbero venir voglia di nascondersi. Però poi capisce che solo così si può collaudare la disponibilità del tuo prossimo. Ormai Anna lo segue totalmente sino al punto che, un giorno, lascia il marito e va a vivere con lui a casa sua. Lì trova anche la fotografia di cinque metri per quattro incollata su una parete del soggiorno e anche la spiegazione che alla frase che aveva detto dal fotografo “per me non è una foto qualsiasi ma un magnifico viaggio”, perché vien lei stessa invitata a farlo. Sergio ha chiuso le finestre (e le lascerà chiuse per tutta la loro storia d’amore) e sulla foto, che rappresenta un deserto bellissimo con le dune e un piccolo cammello, ha indirizzato delle luci, schermate con della carta colorata, che ne danno un suggestivo effetto di “luce tramonto”. Lì incomincia il loro viaggio d’amore, felice, sereno, senza pensare al domani. Pensare al domani non fa parte dei programmi di Sergio e neanche Anna se lo chiede, almeno i primi tempi del loro rapporto. E’ troppo felice con lui, troppo intrigata dalle cose che gli succedono con quella gente sempre nuova che entra ed esce dalla loro vita. Però, a poco a poco, qualcosa cambia. Forse, l’allarme ce l’ha, la prima volta, quando pensa che vorrebbe avere un figlio da Sergio, e si domanda come si può avere un figlio senza avere un domani da dargli. Cerca di nascondere a Sergio questa sua nuova esigenza, perché sa che lui non potrebbe vivere in maniera diversa. Crede di riuscirci, non vuole perdere tanta felicità. Ma un giorno, che sono nella stanza del deserto, dopo che hanno fatto all’amore, Sergio le mo-

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stra di avere scoperto e va ad aprire la finestra, come per dirle che il loro viaggio è finito.

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PARTE SESTA

INTERVISTE E TESTIMONIANZE

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INTERVISTA A PIETRO CAVARA192

Chi era Paolo Cavara regista? Un uomo estremamente dolce ma anche febbrile, una persona colta e raffinata, con una grande sensibilità e un amore smisurato per la vita e per i rapporti umani che ha sempre cercato di tradurre in immagini con sobrietà e immediatezza di forme e di contenuti. Nel suo cinema non c’è mai involuzione. Io che l’ho visto dirigere sul set ho potuto riscontrare l’attenzione scrupolosa per la messinscena, ancor più la puntigliosità nella recitazione, che fosse la più spontanea possibile. Cercava di far emergere quanto di meglio c’era in ogni interprete. Mi piace inoltre ricordare la sua profonda onestà con gli altri e con se stesso e la sua ripugnanza nella professione come nella vita per quegli appoggi politici, clericali o familistici che spesso sono la norma in questo paese. Quale era il suo mondo di intendere il mestiere? Si ha la percezione di un anticonformismo ragionato e di una ecletticità ricercata con passione. Un uomo a cui qualunque schema sarebbe stato stretto.... Per mio padre il cinema non era solo una professione, credo rappresentasse un’avventura continua, un modo essenziale e talvolta imprevedibile di vivere intensamente la propria vita, esattamente come nei suoi viaggi giovanili in terre lontane. Qualcosa che amava davvero perché in fondo il film è un riflesso della vita stessa. Non è un caso che l’interesse vitale per gli aspetti meno consueti o più curiosi dell’esistenza gli derivasse, come ebbe modo di riflettere, dall’esperienza documentaristica. Dietro l’eclettismo c’era una forte personalità artistica. Se non aveva preclusioni nei temi e nello stile evitava allo stesso tempo di lasciarsi coinvolgere in maniera sconsiderata in soluzioni 192

Figlio di Paolo Cavara. Realizzata dall'autore nel maggio 2012 279

troppo intellettualistiche o in scenari estremi ma anche ridicoli, peraltro non rari nel periodo in cui ha lavorato. Il suo mondo è un raccontare per immagini vivace o riflessivo, senza inutili adeguamenti, ma anche senza mai toccare il facile artifizio, dove c’è spazio per il dramma e l’ironia, l’amore e la trasgressione. I suoi film dischiudono percorsi sempre nuovi, popolati da personaggi dai tratti estrosi, imprevedibili o anche solo troppo umani, personaggi alternativi in lotta con le convenzioni. Ma mi rendo conto di aver detto solo qualcosa di lui… Come viveva Paolo Cavara il rapporto con la critica dell'epoca? La seguiva, non potendo non leggere le critiche rivolte ai suoi film, ma non solo ai suoi, non credo però l’amasse particolarmente. Ricordo un rapporto di stima con Biraghi, che era anche un narratore, poi non so. Secondo lui alcuni critici si ostinavano a non voler capire quello che faceva. Amava di più raffrontarsi con gli scrittori: Guerra, Parise… Come sono stati i rapporti professionali tra Jacopetti-Prosperi e Paolo Cavara al tempo della loro collaborazione? Prosperi lo conosceva fin da ragazzo. Avevano fatto insieme dei viaggi in Estremo Oriente, ebbero anche dei riconoscimenti per riprese e fotografie subacquee. Ricordo anche che nella seconda metà degli anni Settanta, dopo aver rotto con Jacopetti, Prosperi si presentò a mio padre nella speranza di poter seguitare a lavorare. Mio padre decise allora di coinvolgerlo in un progetto di sceneggiatura a quattro mani, riservando a sé la regia: si chiamava Shauri Mungu (Il cacciatore nero) e avrebbe dovuto sostituire l’idea di fare un ennesimo Mondo Cane, ma alla fine non si fece più nulla. Quanto a Jacopetti non saprei. So che di recente hanno cercato entrambi in tutti i modi di occultare il lavoro di mio padre per Mondo cane e La donna nel mondo. E’ triste che due persone anziane si riducano a questo per un po’ di successo. E’ persino vile, dal momento che sapevano che mio padre non avrebbe potuto più testimoniare. Ma la verità non gioca a loro favore. Ci tengo a precisare inoltre che dei tre mio padre era l’unico ad avere una sensibilità e una capacità specificatamente cinematografica arricchita dalle sue esperienze precedenti in giro per il mondo. Gli altri facevano mestieri diversi: uno era un giornalista, l’altro un ricercatore. Non è un caso che al tempo della collaborazione alla Cineriz Prosperi 280

scrivesse a mio padre, infortunatosi dopo la tappa di Las Vegas, invitandolo a riprendersi al più presto perché la sua presenza era da considerarsi “assolutamente necessaria”. Perché il sodalizio si è interrotto e quanto il metodo di montaggio di Jacopetti vi ha inciso? Credo c’entrasse l’episodio della fucilazione in Congo. Mio padre dichiarò allora di non volerne più sapere di Jacopetti e se ne distaccò. E poi il cambiamento era nell’aria. Lombardo aveva accettato di fare I malamondo e lui firmò il contratto alla Titanus. Una volta sostenne che in Mondo cane c’era qualcosa di marginale che a lui non piaceva, qualcosa di effettistico: immagino sia in riferimento a qualche soluzione di montaggio, o all’inserimento di immagini non sue. Non saprei dire di più. Quale è stato il contributo diretto di Paolo Cavara a Mondo cane e La donna nel mondo? Mi disse senza indugi che Mondo cane l’aveva fatto lui. E anche Donna nel Mondo, che è frutto dello stesso parto. Jacopetti fu arrestato a Hong Kong rimanendo inattivo per parecchio tempo, e dopo l’incidente di macchina con mio padre in cui perse la vita Belinda Lee rimase per tutto il tempo delle riprese in stato di convalescenza. Non poté quindi realizzare quei film. Basta andare a rileggere i giornali dell’epoca e confrontare questi con le date delle riprese. Di entrambi i lavori che costituivano inizialmente un unico progetto da dividersi in due – anzi Donna nel mondo venne addirittura prima di Mondo cane – conservo ancora i soggetti pilota di mio padre e che si è probabilmente portato dietro per le riprese e i sopralluoghi – data la presenza di alcuni fogli mancanti – anche se alla fine ciò che contava era la creazione diretta, sul posto, intendo dire, l’ispirazione del momento. Nei suoi diari personali c’è segnato di suo pugno ogni spostamento, situazione per situazione e poi tutto quello che ha girato: dall’Europa all’Australia, dall’America all’Oriente: una marea. Che considerazione aveva Paolo Cavara dei mondo-movie? Aveva capito che dopo quei primi lavori le cose sarebbero andate peggiorando nel senso dell’accentuazione della violenza e del voyeurismo spinto. Decise per questo di lasciar stare. Tonino Guerra una volta gli disse spiritosamente che avrebbe potuto prendere il posto di 281

Flaherty. Mio padre ci sorrideva ricordando l’aneddoto. Ma il suo spirito gli imponeva di andare ben oltre il mondo–movie. Con “I malamondo” ha segnato una tappa ulteriore e differente nel suo percorso professionale. C'è inoltre in questo film realizzato del tutto in proprio una sensualità quasi pittorica, un tocco lieve ed essenziale che descrivono la sua poetica e il suo amore per il mondo e per la vita, già presente a tratti nei due film precedenti, come nella scena dei baci nella prima parte del film che – come è stato osservato – pare tratta direttamente dalla scena della piazza parigina de La donna nel mondo . Dirò di più: nei primi due film fatti in collaborazione c'è uno stile che non ritrovo nei lavori che Jacopetti e Prosperi hanno fatto in seguito. Lo ha notato anche un critico attento come Giovanni Grazzini recensendo Addio zio Tom. La scena degli sputi che compongono il dipinto in Mondo cane 2, ad esempio, a me pare chiaramente un tentativo di fare il verso alle modelle di Klein. C'è un pesante sarcasmo che nella sequenza girata da mio padre è del tutto assente, e che peraltro è completamente estraneo al suo cinema. C'è un po' di ironia, certo, ma come si sa, è cosa diversa. Peraltro mio padre non rinnegò mai la sua esperienza documentaristica, ma solo gli eccessi che derivano da una pratica sconsiderata. Quell’esperienza lo aveva messo dinanzi alla possibilità di delineare percorsi e psicologie che hanno segnato profondamente tutta la sua attività successiva di cinema di fiction. Il suo I Malamondo non appartiene al genere ma è declinato più sul filone del film-inchiesta, all'epoca decisamente in anticipo sui tempi. Come venne accolto? Direi bene, nel complesso, gradito tanto dal pubblico quanto dalla critica. Ad eccezione di un isterico giornalista di regime che lo stroncò per avervi sentito qualcosa di pasoliniano. Fu il maggior complimento che potesse fare a mio padre. Ci fu anche una denuncia di un privato cittadino di Lecce, mi pare, che ne chiese e ottenne il sequestro per il solito oltraggio ai benpensanti. Tentativo fallito: a Torino il film fu prosciolto e rimesso subito in circolazione. L'occhio selvaggio è una riflessione potentissima sul mezzo audio-visivo. Paolo Cavara, all’apparenza, traduce nella figura del reporter quella di Jacopetti e il suo metodo; ma egli, quanto

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era preoccupato del potere manipolatorio dell'immagine? Si intravede nel film un'urgenza narrativa quasi compulsiva.... E’ sbagliato dire che dietro il personaggio di Leroy c’è solo Jacopetti. C’è anzitutto mio padre, è lui che riflette sulla sua esperienza di documentarista (e di realizzatore solitario in prima linea – vedo lui, l’uomo di cinema, nel filmare il sultano dentro la grotta), lo ha ammesso pubblicamente. Egli si proietta in una dimensione “oltre i limiti” che ha sempre ritenuto per sé scongiurata, ma risorgente nel pensiero come una possibilità abortita, affascinato dal gioco pericoloso della macchina da presa (l’occhio selvaggio, appunto) che strega e avvinghia reporter e realtà, senza lasciare scampo. Jacopetti è solo un pretesto. Ci può essere chiunque abbia varcato quei “limiti” dietro il personaggio di Paolo. La sua eccezionalità riguarda l’esser fuori, non un valore della persona. Ma il fatto che abbia voluto chiamare il protagonista col proprio nome, al di là di quello che ne possono pensare i malevoli, è segno di essersi deciso a condurre un nuovo viaggio tutto in prima persona, nel ricordo, negli strati ombrosi del subcosciente. Era assolutamente consapevole della sostanza critica del film, ma sapeva che nessuno di noi può sfuggire al fascino contraddittorio della ri–creazione della realtà, al rischio oggettivo della strumentalizzazione di uomini e cose. E’ ciò che altrove ho chiamato la tentazione modernista del film, che fa della violenza in tutte le sue forme rappresentative il motore della trasgressione e della conformità alle regole del successo. L’atteggiamento critico se è sincero è dunque sempre bifronte: ti svela il bene mostrandoti il fascino del male a cui rischi di soccombere. Questo spiega come non potesse rinnegare completamente l’esperienza del passato rivivendola criticamente, ed è ciò che ha fatto, comunicando al contempo l’attrazione e la repulsione per il film nel film, per il suo interprete e protagonista, chiamando in causa il pubblico che ne trae soddisfazione dalla visione. Il finale è per me altamente emblematico di questo stato di cose: la sofferenza di Paolo per la morte della donna tra i cadaveri, una sofferenza ambigua e in fondo insincera (ma non totalmente – ed è qui la grandezza del gioco!) perché sporcata dalla cinica rappresentazione dell’occhio selvaggio della sua macchina da presa. Un sentimento forse credibile frammisto alla menzogna, usurpato definitivamente dalla sua spettacolarizzazione. C’è la magia della sospensione, qualcosa di sinuoso – come nella musica che l’accompagna – che non si può dire solo a parole ma che comunica altamente: per me è cinema puro. Molti critici 283

di allora in linea di massima non lo hanno capito. Si aspettavano probabilmente un film privo di tensione, magari un poco snobistico, che ripudiasse completamente il passato. No, mio padre sapeva molto bene cosa faceva, voleva quella ambiguità preziosa, la ricercava, ne sono certo, e un film secondo altri criteri non avrebbe mai potuto dirigerlo. Che tipo di produzione supportava un progetto come L'occhio selvaggio a cui prende parte anche Alberto Moravia? Quale è stato il suo contributo? All’epoca mio padre aveva fondato la Cavara film. Non so che rapporto avesse con la produttrice Georges Marci, e quale fu il contributo finanziario di entrambi (credo l’avesse conosciuta a Parigi durante la messa in scena delle modelle di Klein per Mondo cane – ho una lettera della donna in proposito). Il film fu un’impresa tutt’altro che facile. Due o tre anni di ricerche, ma alla fine ne fu totalmente soddisfatto. Gli sembrava negli anni successivi ripensando a quel lavoro di aver smarrito qualcosa che doveva ritrovare. Quanto al contributo di Moravia non so davvero rispondere. Provo a immaginare che sia più in alcune premesse concettuali espresse in forma di dialogo nel film. L'occhio selvaggio sembra quasi una sorta di preambolo (ben più consapevole e meno urlato) di Cannibal Holocaust di Deodato. Cosa ne pensava Paolo Cavara di questo film? Non so cosa ne pensasse, non so neppure se lo abbia visto. Gli piacevano Bava e Argento, e non solo. Ma nei confronti dell’esaltazione della violenza, o del compiacimento morboso per essa, specie se fine a se stessa, nutriva un atteggiamento di totale repulsione che gli proveniva probabilmente e più in generale dalla violenza vista e talvolta ripresa in giro per il mondo e dal suo rifiuto conseguente (ricordo quando uscì di pessimo umore dalla sala che proiettava Il Giustiziere della notte – anche se lì si parlava di violenza privata). La Cattura è un film profondamente intimista, forse quello dove meglio emerge l'attenzione di Paolo Cavara nei confronti dei rapporti umani. Quanto c'è di auto-biografico e quanto il racconto dei rapporti umani è importanti all'interno della sua filmografia?

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Di autobiografico ci vedo l’esperienza del viaggio che egli riproduce con stile nuovo mostrando una realtà quasi astratta segnata da percorsi naturali, boscosi, innevati, modellata da tempi sospesi, come un andare senza destinazione, senza un futuro, nell’imperturbabilità della guerra. Il mondo esterno vive in simbiosi con la vicenda dei due soldati nemici, un uomo e una donna, che alla fine ritrovano la loro straordinaria umanità, presto stroncata dalle contingenze. La passione amorosa si intreccia dialogicamente con l’apertura dei grandi spazi, il disvelamento della bellezza della natura appare allora un riflesso della coscienza umana. E poi c’è una passione quasi romantica che a volte mi rivela la sua storia passata, fatta di amori, di incontri, di rinnovate sorprese consumate durante i suoi viaggi giovanili in giro per il mondo che lo ritraggono nelle foto quasi con le stesse sembianze di John Garfield. Tornando ai rapporti umani una volta ebbe a dire che qualsiasi tipo di film si trovasse a girare doveva contenerli come elemento imprescindibile. Anche in un giallo, anche in un film apparentemente disimpegnato. Come mai la strada intrapresa da La Cattura viene abbandonata dopo un film? A causa dell'insuccesso della pellicola? No, il film da quel che mi risulta andò abbastanza bene. Alla pari dei precedenti fu visto in diverse parti del mondo, solo che col cinema doveva anche sopravvivere. La sponda commerciale, almeno allora, fu per lui obbligata. Ma seppe piegare le storie che riceveva e al contempo sceglieva, introducendovi sempre qualcosa di suo. E tanta paura, ad esempio, è un film realizzato in piena creatività, anche se lì, in verità, fu lui a proporre. Il dittico thriller degli anni '70 appare quasi un ossimoro: serio e argentiano La tarantola dal ventre nero, dissacratorio … E tanta paura. Quali erano le reali ambizioni dei due film e quale Paolo Cavara sentiva più come suo? Perchè? Ha detto giusto. Si tratta di un perfetto ossimoro. La tarantola gli fu offerto dal produttore Marcello Danon. Si trattava di sfruttare il successo del primo film di Argento, ma mio padre ha voluto potenziare tutto sull’immagine, con contrasti temporali e spaziali e con un taglio quasi documentaristico nel montaggio e talvolta nella ripresa, al punto che la trama mi pare quasi venir in secondo piano. E tanta paura lo diresse libero da condizionamenti produttivi e lo sentì più vicino 285

alla sua sensibilità. Li ritenne entrambi riusciti: certo sono l’uno l’opposto dell’altro. Del resto che interesse avrebbe avuto a fare un altro giallo sul modello de La tarantola? In E tanta paura c’è la dimensione fantastica che lo attirava particolarmente, consentendogli di ironizzare su quanto c’è di artefatto nel mondo in cui il potere si muove liberamente. La prospettiva è ludica e tragica al contempo. In fondo il criminale che agisce liberamente non conosce responsabilità al pari del giocatore. La ricostruzione surreale potenzia l’irresponsabilità totale di chi, aguzzini o poliziotti privati, detiene il potere, il possesso dei corpi e delle menti. Gli piaceva ricostruire i personaggi immettendoli in uno spazio creativo nuovo, magari inusuale (la scelta di Zapponi alla sceneggiatura non è stata affatto casuale), gli piacevano le svolte sentimentali ma mai eccessive, l’esuberanza di Placido, l’istrionismo dei personaggi negativi: Riccio appare una sorta di Mefistofele del potere, Hoffman è un totale narciso. Ecco… questo investimento di ruoli in cui si mischia l’ironia con il genere faceva parte a pieno titolo del suo eclettismo, della sua capacità di rendere il mondo curioso, fiabesco (come la storia che si snoda attorno alle figurine di Pierino Porcospino), anche se tragico. Alla base dei due film ci sono plot estremamente complessi. Quanto il regista considerava importante la sceneggiatura? Aveva la sua importanza, purché servisse a svelare visivamente sentimenti e aspirazioni dei suoi personaggi, un’esigenza che nasceva prima ancora dal suo approccio documentaristico, da un rapporto immediato con la realtà e le persone. Per questo, nonostante arrivasse a considerare con la giusta misura ogni sceneggiatura non arrivava a dipendere completamente da essa. Fu proprio l’esperienza documentaristica – come affermò in proposito – ad averlo portato a trattare le sceneggiature con rispetto, senza per questo venir meno a una capacità di improvvisazione che nasce dall’evoluzione stessa del pensiero, dalle necessità di sviluppo dell’idea generatrice, dalle felici intuizioni che nascono direttamente sul lavoro. Ma per i due gialli le cose stanno probabilmente in maniera più complessa. Per La tarantola la sceneggiatura si direbbe acquisti principalmente, anche se non solo, una ragione funzionale: quella di depistare il pubblico portandolo su strade impervie attraverso un tessuto di continui colpi di scena. In E tanta paura, come ho rilevato, la scrittura ha delle impennate verso il fantastico che trasfigurano l’esistente, pur in tutta la sua depravazio286

ne. In questo senso al pari di Occhio selvaggio anche E tanta paura può essere considerato un metafilm, nel ritradurre il genere secondo le coordinate della pura invenzione che sovverte ogni costrizione di metodo. I due thriller contengono, a volte ben mimetizzati, accenni di critica sociale. Quale era il giudizio di Paolo Cavara sulla società italiana degli anni '60/'70? Guardando i suoi film si ha la sensazione di una disillusione e della premonizione della degenerazione che ci sarà nel ventennio a seguire... Sì, è verissimo. Non amava la ricchezza e il consumismo che aveva invaso la sua epoca. Per di più era convinto che alla fine l’uomo sarebbe riuscito a distruggere l’intero pianeta rendendolo qualcosa di invivibile, complice l’influenza criminale del cretinismo istituzionalizzato, una realtà massmediatica molto simile a quella dei nostri ultimi trent’anni, un inquinamento umano parallelo se non peggiore di quello ecologico (che è anche il tema di un suo film mai svolto). Per lui che credeva nella sincerità e nella ricchezza dei gesti e degli sguardi, nell’essere felici attraverso gli altri, tutto questo non poteva che rappresentare una tragedia umana. Gli piaceva molto di Pasolini La religione del mio tempo, “quel mondo colpevole che solo compra e disprezza”, lasciando la colpa non meno feroce dell’amarezza in chi soffre per lo stato del mondo, e leggeva i suoi articoli sul Corriere. Del cinema non so cosa ne pensasse. Conosceva anche Parise. Un altro dittico come quello con protagonista Turi Ferro si gioca nuovamente sugli opposti: satira sociale (persino caustica e cattiva) Virilità, sognante e ideologico Il Lumacone. I due film appaiono pertanto complementari: cosa ha voluto dire Paolo Cavara con queste pellicole? Non credo esistesse un piano programmatico, a differenza dei thriller dove probabilmente la scelta del secondo era nettamente influenzata dalla volontà di fare qualcosa di diverso dal primo sul piano della ricreazione non conformista del genere. Non bisogna dimenticare, come ho accennato, che per lui il cinema fu un’avventura, una realtà in divenire dove la creatività era al contempo stimolata dalle contingenze, pur mantenendo fede ad alcuni importanti progetti che qua e là, col tempo, è riuscito a realizzare. Virilità è la scoperta di un progetto propostogli che ha immediatamente scatenato la sua creatività: 287

il tema è la follia dell’uomo riguardo all’erotismo. La follia umana: un tema non nuovo, da lui già sperimentato, a tratti indagato, per sua esplicita ammissione, in Mondo Cane e I malamondo, qui rivissuto in forma farsesca e popolare. Partecipa alla sceneggiatura con Simonelli, il soggetto gli consente uno sguardo comico e dunque realistico – così ebbe a specificare – sulla natura umana, in tono quasi pirandelliano. Alla fine è l’amore dei due giovani, supportato dalla folle decisione del protagonista (Turi Ferro) di rendere visibile la loro relazione, a vincere sul pregiudizio, sulla cattiveria generale, anche se quest’ultima rimane sullo sfondo come sottile ironia, fino alla fine del film. C’è cattiveria anche ne Il lumacone. Ma c’è soprattutto la vita di un uomo che cerca un motivo di rivalsa nuovo e differente nei confronti di quel mondo che lo ha ridotto alla miseria. E qui – per ricollegarci a una qualche spiegazione che giustifichi la duplicità di intenzioni già presente nel dittico precedente – interviene ancora la fantasia. Virilità, nella sua crudezza rimane attaccato alla pesantezza del vivere, Il lumacone cerca il volo, un po’ come Miracolo a Milano di de Sica, dove i poveri alla fine si innalzano con le loro scope. L’impressione è che una volta raggiunto il cielo (quel vagone che è tutta la passione di Gianni, il protagonista) il sogno improvvisamente si sciolga e quello che rimane è la povertà dell’uomo afflitto dalle sue meschinità, quelle stesse che coinvolgono i suoi simili. Anche per la sua fattura, Il lumacone sembra un film pienamente auto-biografico... C’è da intendersi: autobiografico solo nella misura in cui tratta un tema che fa parte della sua storia artistica e intellettuale. Se è così, senz’altro. L’aspirazione di un cuoco siciliano all’acquisto di un vagone che traduca i suoi sogni in realtà è la negazione del senso corrente per la civiltà mediocre che non comprende qualsiasi idealità. Ci teneva in qualche misura a questo film, significava per lui aver ripreso coscienza con tematiche meno soggette a compromessi, come invece aveva dovuto abituarsi a considerare a partire da La tarantola. L'incursione nel western di Los Amigos non appare casuale, ma sembra rispondere alla necessità di riflettere nuovamente sui rapporti umani in questo caso declinati sul tema dell' amicizia virile...

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E’ così. Anche se ha dovuto muoversi su un terreno che non amava particolarmente: quello del western, ma i due personaggi principali sembrano perfetti e poi c’è di nuovo quella incursione nel fantastico e nel comico che rende accettabile persino la violenza. Nel complesso non gli piaceva gran che. Ma devo dire che nei confronti di alcuni suoi titoli della prima metà degli anni Settanta ha sempre mantenuto un atteggiamento ambivalente. Con questo in particolar modo. Atsalùt Päder testimonia della grande sensibilità del regista. Perchè la scelta di Padre Lino da Parma? Penso che in questo film ci sia almeno una parte importante della sua filosofia di vita, la sua presa di posizione controcorrente nei confronti di una mentalità superficiale dedita all’appagamento inesausto dei beni e all’indifferenza per le persone. Fu un intellettuale emiliano, Sergio Passera e alcuni scritti di Giorgio Turrini a convincerlo di portare avanti il progetto. Ha voluto trasporre in immagini l’esperienza del frate della carità perché in essa vi ha visto un prezioso messaggio d’amore per gli altri. E’ un eros difficile, non solo agape, quello che il film e il frate francescano comunicano, e che ci riguarda tutti, ci mette costantemente alla prova. Si tratta di una donazione all’altro che non conosce limiti, di una sfida senza compromessi condotta sul filo del codice penale, in quanto Lino arriva a rubare ai ricchi per dare ai poveri e ai bisognosi. E poi ho avuto l’impressione che mio padre volesse dar vita a un personaggio che fosse l’antitesi del Paolo di Occhio selvaggio. Lo riconosco: è solo una mia ipotesi. Ho scritto come questi due protagonisti gli fossero inestricabilmente vicini e lontani sotto ogni profilo, e come la loro antitesi si misuri su diversi piani, a cominciare dalla sofferenza: tra chi può permettersi di soffrire perché è dalla parte dei vincitori, e tra chi è costretto a soffrire per una scelta sgradita che lo pone irrimediabilmente tra i perdenti, come appunto Lino. Anche lo stile, in relazione ai contenuti e all’evoluzione naturale del suo linguaggio, è profondamente differente. Qui ha voluto adottare – come spiegò – il metodo della favola, un modo per comunicare ai grandi e ai bambini in una prospettiva mistica di ricongiunzione tra la terra e il divino, che era proprio nelle intenzioni del frate. Negli ultimi tempi ricordava questo film con tanta partecipazione. Una volta disse che l’opera avrebbe raggiunto pienamente il suo scopo solo se fosse riuscita a comunicare al pubblico anche una piccola parte dell’amore che Lino aveva suscitato tra le persone che lo avevano conosciuto. 289

Era lo scopo che mio padre si era prefisso. Ricordo i titoli alternativi: L’alfabeto di Dio, Accadde a Parma. Lui scelse Ti saluto padre, un titolo che nella sua semplicità abbraccia il senso profondo di quell’amore espresso nella pellicola. Quali sono stati i rapporti con una produzione televisiva come quella della Rai? Direi buoni. Esistevano già dagli inizi degli anni Settanta. Svolse per l’azienda pubblica anche qualche servizio. La Rai dell’epoca era molto diversa da quella di oggi. Fu l’influenza della Fininvest a rovinare tutto, ma all’epoca per fortuna ancora non esisteva. Aveva pensato al film su Padre Lino otto o nove anni prima della sua realizzazione. Fu la Rai di quel tempo che gli permise di realizzarlo. Nei suoi ultimi lavori sembra venire meno la ricerca. Come mai? Forse i tempi erano cambiati per poter provare a dire ancora delle cose? Riguardo alla produzione televisiva tanto Fregoli che Sarto per signora (a cui aggiungerei La locandiera – l’unico tra questi che uscì nelle sale cinematografiche – e La bella Otero che ideò e in parte sceneggiò ma non riuscì a dirigere) erano suoi progetti. Nel senso che li concepì e li portò avanti in prima persona. La componente televisiva non deve ingannare. Certo si tratta di una ricerca in un ambito assai differente di quella condotta nel cinema: c’è il tono della commedia, che non gli era certo sconosciuto, c’era soprattutto la passione per l’eccentricità umana in chiave trasformistica. Fregoli è un po’ una sintesi di alcuni personaggi dei suoi film in cerca di considerazione, tutti ansiosi, in attesa che si apra il sipario. La rappresentazione si estende ovunque. Così la recita sul palcoscenico del protagonista si confonde con la sua stessa vita al punto che – come mio padre evidenziò – il teatro non si distingue più dalla realtà. In questo quasi continuum scenografico Fregoli recita instancabilmente ogni istante di vita, imbrogliando, ma anche divertendosi e divertendo. In fondo “la vita come teatro” è anche un’aspirazione del regista. La locandiera è un'esecuzione perfetta (persino troppo nella aderenza al testo). Il film rispecchia pienamente le volontà e le intenzioni di Paolo Cavara, oppure è stato fagocitato dalla coppia Celentano-Mori? 290

Da quel che mi risulta fu un’idea sua quella di proporre una trasposizione cinematografica dell’opera di Goldoni alla Rai. E fu lui a contattare direttamente Celentano, ricordo la telefonata. E’ verissimo: il film è pienamente aderente al testo, anche scenograficamente si mantiene fedele a una certa tradizione. Ne rimase pienamente soddisfatto, anche perché lì c’è un po’ la sua seconda natura: quella teatrale fatta di comicità intelligente e di fuoriuscita dall’abominio. Mi chiedo come avrebbe potuto evolversi artisticamente. Nonostante avesse un rapporto consolidato con la Rai in verità mirava già verso altri lidi. La sua avventura cinematografica si arrestò quando aveva tanti progetti tra le mani. In particolare quel film sull’inquinamento umano e ambientale di cui conservo gelosamente la sceneggiatura e che probabilmente, di lì a breve, si sarebbe apprestato a dirigere.

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INTERVISTA LARS BLOCH193

Lei come viene coinvolto nel progetto de L’occhio selvaggio? Conoscevo Paolo Cavara, l’avevo incontrato e mi ha chiesto se volevo fare questo film. Io ho detto si, e sono partito per un viaggio in in Bolivia. Li ho comprato un bel vestito di lino bianco - perché mi avevano detto che saremmo andati a girare nel deserto - e così, qualche giorno prima della possibile partenza, mi dicono che, anziché dirigerci in Africa a girare le prime scene: scena 1,2,3, mi chiamano e dicono che il programma è cambiato. Abbiamo dovuto cambiare, per ragione non so di cosa; così mi hanno detto che si sarebbe partiti per l’oriente. Si sta via tre mesi poi torniamo e andiamo in Africa a fare le prime scene, il primo quarto d’ora del film; a questo punto mi dicono che: “Tu capisci che non ti possiamo pagare per tre mesi e mezzo, ma qualche ruolo lo devi fare”. Ho detto: “Va bene che devo fare?”. “Sappiamo che tu hai lavorato con un fonico tutta la tournée e perciò se ti va ti facciamo fare l'assistente fonico su questo film e così ti paghiamo tutto il tempo che lavori con noi”. Io ho detto: “Va benissimo”. Quindi lei viene coinvolto anche come tecnico all’interno del film? Esatto. Era l’unico modo in cui potevo farmi pagare [ride n.d.r.] Non ho mai detto nulla di tutto ciò a Cristos - quello che aveva i materiali e stava giù da quelle parti con la sua famiglia – e che avrebbe dovuto svolgere la parte tecnica dell’audio. Dopo aver saputo di dover fare il fonico, l’indomani mi procuro la strumentazione, microfoni, nastri e tutto ciò che mi sarebbe servito e mi faccio trovare alla stazione Termini a mezzanotte. Da li partiamo per Brindisi. Faccio le valigie, vado in stazione, e li incontro Philippe [Leroy n.d.r.] per la prima volta, credo, perché no, non lo conoscevo prima. Li ho capito anche 193

Intervista a cura dell’autore – Roma 18 Ottobre 2015 292

che non c’era il fonico e a fare tutto il sonoro ero io. Facevo da assistente a me stesso. Va bene, vado. Si parte, abbiamo girato sulla nave delle scene, e poi ci siamo fermati a Bombay, perchè la nave si fermava li. Noi volevamo andare al Cairo - prima ci siamo fermati ad Aden e alcuni di noi chiedono se si può scendere ad Alessandria e da li raggiungere Il Cairo per andare al museo - poi di là avremmo preso un mezzo per raggiungere gli altri ad Aden. Nel film però non risultano scene girate ad Aden… In realtà abbiamo girato delle cose, ma lì era un gran casino, c’era la guerra – noi non l’abbiamo vista ma sentivamo gli spari e ne vedevamo gli effetti – Io ho registrato l’ambientale e gli effetti sonori si mescolavano con gli spari e i colpi della guerra. Abbiamo girato – mi ricordo delle scene con Gabriele [Tinti n.d.r.] sulla Jeep perché io mi ricordo che questa andava e io – assieme all’operatore - gli correvo dietro con il microfono. Siamo ripartiti dopo poco e ci siamo diretti in India. A Bombay, ci siamo fermati e siamo andati al famoso albergo del Taj Mahal. Poi abbiamo girato a Singapore per molto tempo - mi pare un mese e mezzo - e poi si è andati a Bangkok e poi abbiamo fatto un viaggio veloce in Corea. Lì c’erano solo Philippe e Gabriele e abbiamo fatto tre, quattro giorni. Dopo di che ci siamo tutti rivisti a Bangkok per girare altre scene li. E così. Poi siamo rientrati e nuovamente ripartiti per il deserto e per girare le scene dell’inizio del film. E l’inizio è molto buono, infatti, probabilmente perché avevamo lavorato tre mesi tutti insieme così, ci si capiva meglio. Quindi eravate una troupe affiatata? C’era un buon rapporto tra di voi come gruppo di attori? Si, quello si. Le posso anche dire che - come dice lei nel suo libro Paolo Cavara era un vero gentleman, un bravissimo uomo estremamente capace e competente. Sul set Paolo era sempre molto calmo, rilassato, molto istruito e un ottimo amico. E con lui, quando giravamo non si incazzava mai. Io sapevo quello che dovevo fare e riuscivo a farlo, e lui, secondo me, sapeva raccontare con la macchina. Anche se tu vedi il film oggi, è potente, la regia è forte, al punto che non è che ci vedi la trama che c’è sotto. No, anzi appare anche come un film moderno nei temi che affronta e anche… 293

E’ tutto vero: sia la storia moderna che il racconto di quella generazione di uomini e donne e delle loro aspirazioni. Forse era più moderno del suo tempo, all’epoca quarant’anni fa… e il film regge, anche oggi, a me piace. Ma gli sceneggiatori Fabio Carpi, Ugo Pirro e Alberto Moravia lei sa come intervengano nel progetto al fianco di Paolo Cavara? Questo non lo so, perché l’hanno scritto prima che io fossi coinvolto, credo - non so - se l’hanno scritto uno alla volta o se tutti insieme, questo non lo so. Sul suo personaggio, Paolo Cavara l’ha lasciata lavorare, gliel’ha fatto creare oppure era già scritto? No, lui mi ha dato un copione; però è come se quel ruolo l’avessero scritto apposta per me. Ricordo che all’uscita dalla prima al Trevi tutti si complimentavano, mi dicevano che ero stato bravo. No non sono bravo, sono un pessimo attore, ho fatto me stesso, perché, non so se me l’hanno scritto apposta, ma più o meno anche io avrei fatto le stesse cose se mi fossi trovato realmente nella situazione del film. Io non sono un attore, non ho studiato, non ho fatto niente. E perciò io leggevo e imparavo subito, così. Paolo Cavara ha mai parlato sul set della relazione tra il film e il suo rapporto con Gualtiero Jacopetti? No. Mai. Era un gentiluomo, lui non parlava di queste cose. Ma non credo fosse una “vendetta” su Jacopetti. Lui voleva fare un suo film, dire delle cose sue. Che poi è la verità, questi film [i mondo-movies n.d.r.] si facevano proprio così, come si vede nel film. L’80% delle cose è costruito, l’altro 20% sono immagini comprate qua e la, dai telegiornali o magazine in giro per il mondo. No, Paolo non era per niente così. Lui era uno vero, sincero, spontaneo. Il suo film parlava di queste cose, di un “figlio di mignotta” che costruisce queste cose per diventare famoso. E’ chiaro che si doveva esporre per fare questa cosa, ma no, Jacopetti – da lui – non l’ho mai sentito neanche nominare. Ma le teorie di Guy Debord - sulla società dello spettacolo sono contemporanee al periodo in cui il film è stato realizzato. Erano al centro dell’idee del film oppure semplicemente c’è stata

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una concomitanza dal punto di vista temporale tra il libro di Debord e il film di Paolo? Ma questo devo dire che non lo so. Anche perché, quarant’anni, fa io non è che pensavo molto a queste cose. Per per me era una lavoro. Sono andato, sono partito ed è stato un viaggio fantastico e una bellissima esperienza dove ho incontrato della gente con la quale sono ancora amico e ci vediamo ogni tanto. Non è che stavo molto a pensare al significato di tutto questo e ai problemi che ci potevano essere a monte. Specialmente quarant’anni fa. Ma secondo lei il film come mai per così lungo tempo è stato nascosto, dimenticato e solo adesso in qualche modo riscoperto? Non lo so. È stato fermo. Non è che ha fatto faville quando è uscito. E questo forse l’ha frenato. Perché il film è un ottimo film. Può essere, come dicevamo prima, che forse era più avanti del suo tempo. Con Paolo Cavara avevate parlato di fare altri film di collaborare per altri progetti? Lei è anche nel film successivo di Paolo, La cattura… Paolo mi ha chiamato e abbiamo fatto quello. Un’altra avventura. Molto bello [ride n.d.r.] perché viene da me e mi dice devi fare questo. Io dico che va bene. Poi loro partono, io li raggiungo, iniziamo a girare ma da subito abbiamo cambiato il piano lavoro. Allora io mi metto in macchina, ritorno indietro; mi richiamano e la stessa sera riparto, guido tutta la notte - c’avevo un’alfa romeo Giulietta spider - e arrivo l’indomani su in Jugoslavia - si chiamava così all’epoca. Meno male che mi ero portato un giradischi con della musica ecc, perchè sono stato quasi tre settimane senza far niente; però, ovviamente, io la mattina andavo giù e mi facevo servire la colazione in piscina, la piscina coperta e stavo benissimo, meglio del produttore; camminavo fuori al freddo con i cagnolini poi andavo sul set a salutare e vedere e ogni due tre giorni toccava fare un salto in Italia a prendere pasta, olio, pomodoro e tutte quelle cose lì, perché almeno un tempo all’estero il cibo italiano non c’era, non c’era la pasta. Quindi sia per l’Occhio selvaggio che per La cattura sono state due lavorazioni avventurose, dove si è divertito… possiamo dirlo?

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Si un pochino si. Mi sono divertito. Mi è piaciuto molto, tutti e due perché c’era un’atmosfera piacevole e rilassata. Non c’era nessuno che strillava. Questa è una cosa che mi hanno detto tutte le persone con cui ho parlato del modo di lavorare di Paolo Cavara che era autorevole ma senza mai alzare la voce senza mai Si si. Lui sapeva esattamente quello che voleva e quello che lui voleva che tu facessi e lo diceva gentilmente, non c’era problema. Io per esempio se avevo bisogno di aiuto mi aiutava, mi consigliava, con calma, senza criticare nè discutere quello che avevi fatto fino a quel momento. Quanto manca oggi un regista come Paolo Cavara al cinema italiano? Manca parecchio.

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INTERVISTA A FRANCO NERO194

Lei come viene coinvolto nel progetto Los Amigos? Quella di Los amigos è una storia molto divertente. Un giorno viene a trovarmi, da Londra, il produttore Joseph Janni. che era, forse, il più grande produttore di quegli anni, e di quel periodo. Lui aveva prodotto tutti i film di John Schlesinger. Però lui era di Milano - considerato inglese perchè era andato in Inghilterra molto giovane e poi ha sempre vissuto lì. Mi viene a trovare e mi dice: “Sai io voglio fare un western un po' alla Midnight cowboy in cui i protagonisti sono due uomini; vorrei tanto che tu facessi uno dei due. Tra poco è pronto il copione e te lo faccio avere”. Mi ha detto anche che questo film sarebbe stato distribuito nel mondo dalla Metro Goldwyn Mayer. La cosa mi ha incuriosito e ho accettato. Ed, effettivamente, dopo un po' di giorni mi arriva questo copione - che in inglese si chiamava Deaf Smith & Johnny Ears. Deaf Smith è sordomuto e l'altro, Johnny Ears, è quello che sente molto di più e parla sempre. Allora io leggo questo copione e gli dico sai che non mi dispiace: vorrei fare la parte del sordomuto e lui che mi dice chè è strano, perchè ha mandato il copione anche ad Anthony Quinn e anche lui vuole fare il sordomuto. E io gli ho detto: “Scusa sai, ma essendo questo un film in lingua inglese, è meglio che lui faccia quello che parla sempre che è più americano di me”. Io recito molto bene l'inglese però ho un accento che non va bene”. Lui dice questo ad Anthony Quinn e lui gli risponde di no. Questa storia andò avanti per un mese fino a quando Janni – che si era rotto le scatole – organizza una riunione. Facciamo questo incontro finalmente. E lì io avrei voluto che ci fosse una macchina da presa a riprendere, perchè era veramente divertente la discussione tra me ed Antony Quinn … io... imparare le battute.. insomma io continuavo a 194

Intervista a cura dell’autore – 11 Dicembre 2015 297

dirgli che io volevo fare il sordomuto. Alla fine abbiamo deciso di tirare la moneta, testa e croce e lui vince. E così lui ha fatto il sordo muto. il film all'inizio doveva essere una storia molto più serio, con quell'aspetto picaresco messo in secondo piano per non dire che fosse marginale. Doveva essere una sorta di ritratto di quest'eroe della rivoluzione messicana. Poi invece si è optato - in quel periodo siamo nell'epoca di “Trinità” - nel fare un film che avesse tutti e due i registri quello più serio e quello anche più comico/divertente. Si questo è vero, adesso mi sta venendo in mente che il film era più… si doveva essere uno di quei film come quello che avevo fatto io prima, Il mercenario. Qui c’erano questi due protagonisti dove uno era un po' più serio e l'altro un po' più buffone. Adesso mi ricordo. Johnny Ears nella storia originale, nel copione, era un americano. Allora dato che io ho un certo accento ci siamo inventati, nella versione inglese (non mi ricordo se anche in quella italiana) che, all’inizio, quando in voce-off faccio la presentazione dei personaggi, dico: “Si, lui è Deaf Smith e io sono Jhonny Ears, ma la verità è che il mio nome è Juanito, perchè mi ha partorito la madre di una prostituta in un carcere messicano”. Mi sono inventato questa battutina per giustificare l'accento. Perchè in America, bisogna sempre giustificare. Paolo Cavara era già coinvolto dall'inizio nel progetto? Si, lui c'era già. Mi sembra che ci fosse già. Il regista era lui si. Il film all'inizio doveva essere molto più grande anche economicamente poi è stato rimpicciolito dal punto di vista produttivo. Che cosa è successo nel frattempo? Questo adesso non me lo ricordo…; Ma questo era tipico di quegli anni, che uno iniziava un po' così e poi c'erano meno soldi… Il film dove l'avete girato? Il film l'abbiamo girato, se non sbaglio, un pochino qui nei dintorni di Roma, poi alla Dear e in Calabria, nella provincia di Crotone, dove ci sono delle bellissime dune.

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Il lavoro sul set con Paolo Cavara come è stato? Che ricordo ha di quest'esperienza? Ma, Cavara per me è stato il più grande gentiluomo che abbia mai incontrato. Sì, questa è la parola giusta: proprio un gentlemen. Questa è una cosa che mi hanno detto tutte le persone che ho intervistato, tutte le persone quando hanno esordito parlando di Paolo Cavara hanno detto queste esatte parole... Si si. Io ho lavorato in più di 200 film però devo dire che Cavara è stato nella storia, nei miei ricordi - tra tutti i registi - il vero gentiluomo. Come regista, come si è trovato a lavorare con lui dal punto di vista professionale? Era un grande professionista. Sapeva quello che voleva e diceva sempre le cose in un modo molto garbato, dirigeva le scene da grande professionista. E senza mai alzare la voce. Sapeva esattamente quello che voleva da te e te lo tirava fuori … e quasi tu non te ne accorgevi. E come ho detto in modo molto garbato. Dopo Los Amigos non avete più avuto occasione di incontrarvi? Avevate altri progetti con Paolo Cavara? Mi sembra di si, mi sembra che c'era un progetto da fare che però come sempre…. I film belli non si fanno. Io ne ho qui qualche centinaia di progetti belli, mai fatti. E purtroppo questa è un po' la legge del cinema. Parli sempre di fare progettacci e poi quelli belli vengono sempre accantonati. Vedendo il film si avverte un grande divertimento nel rapporto che lei aveva con Pamela Tiffin … Pamela Tiffin era di una simpatia incredibile. Si mi sono molto divertito. Ma mi sono divertito un po' con tutti, anche con Tony - che poi Antony Quinn negli anni a venire è diventato mio padre: perchè quando ho perso mio padre nell'84 lui venne a casa mia e disse: “D'ora in poi sarò io tuo padre e mi chiamerai papà e io ti chiamerò figlio”. Quando morì a Road Island io andai a fare il discorso come figlio.

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Lei ha fatto tantissimi western. Di questo film Los Amigos che arriva nella fase crepuscolare - quasi alla fine del genere - che giudizio ne da? È un film sufficiente, nulla di più. Ma sa, la sceneggiatura venne cambiata, venne tirato via di qua, poi via di la… insomma, il progetto iniziale è stato abbastanza stravolto… In Italia non ho mai capito il perché di questo titolaccio, come si può chiamare un film Los Amigos? Invece era più bello tradurre il titolo del film dall'originale che si Deaf Smith & Johnny Ears. Sui circuiti internazionali il film compare con quel titolo li mentre in Italia no. Il titolo originale era quello e poi è stato distribuito in tutto il mondo con quel titolo, solo in Italia, no….

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TESTIMONIANZE

Riz Ortolani “Con Paolo Cavara c’è sempre stato un rapporto di amicizia molto bello. Amicizia durata e consolidata nel tempo. Un’amicizia di famiglia con lui, sua moglie Annamaria e il figlio Pietro. L’incontro, il primo è avvenuto, ed è stato fugace, ai tempi di Mondo Cane, nel periodo relativo alla post-produzione del film coincidente con il momento in cui Paolo si è allontanato dal progetto. Ricordo una sua telefonata ricolma di entusiasmo e felicitazioni per la brillante colonna sonora di “Mondo Cane” ed il tema “More”. Quando Paolo realizza “I malamondo”, nel 1964, mi contatta per chiedermi di occuparmi della colonna musicale del film, ma io in quel periodo ero occupato con la chiusura delle partiture di “La donna nel mondo” prima e “Africa addio” poi. Proprio in quei mesi però, nonostante il mio essere costretto a rifiutare I malamondo, nasce tra di noi un’amicizia, sincera, spontanea e solida, destinata a durare nel tempo, fino al momento in cui tragicamente io e mia moglie Katina, mentre siamo a Vienna, riceviamo una telefonata da Anna Maria che piangendo ci annuncia che Paolo, alle prime ore dell’alba, li ha lasciati. La telefonata ci lascia nello sconcerto più totale; aveva sofferto molto per la gamba, ma non ce lo aspettavamo. Una grande tristezza ed impotenza. Paolo era persona colta, sensibile e amorevole, un gentiluomo sul set e fuori; un uomo che, forse, dal punto di vista professionale non ha ricevuto in proporzione a quanto ha dato. Ricordo lunghe chiacchierate con lui e la moglie, così come io e Katina possiamo dire di aver visto crescere il piccolo Pietro, ragazzo intelligentissimo e molto attaccato al padre. La sensibilità e la dolcezza di Cavara regista emergono chiaramente da due delle opere cinematografiche a cui ho avuto il piacere di dare il mio contributo musicale: “La cattura” e “Atsalùt päde”r; Film nei quali, a mio parere, emerge la sensibilità di un uomo straordinario che nel tratteggiare i personaggi 301

con pochi e misurati tocchi dimostra tutto il suo lirismo e la sua poetica di essere umano profondo e raffinato. Per “La cattura” a lui piaceva tanto il tema del film e disse “peccato, ci vorrebbe un bel testo in russo per farlo cantare a Katyna….lei si mosse subito, e, sul suo testo italiano, un russo del settore culturale dell’ambasciata, ne ricavò un bel testo in lingua russa. Suggestivo, ancora oggi ogni tanto noi lo riascoltiamo e ricordiamo quei felici momenti con vera malinconia. Sul set ricordo i suoi rapporti, con troupe a attori, pieni di una signorilità d’altri tempi, così come il suo comportamento è sempre stato ineccepibile dl punto di vista professionale. Paolo Cavara mi fa tornare alla memoria un calore e un’armonia, tanto della dimensione familiare quanto dell’amicizia, spesso sottovaluta nella sua importanza. Nonostante la nostra collaborazione professionale sia stata limitata nel numero dei film, altrettanto non posso dire del nostro rapporto umano: un rapporto di amicizia che ricordo con affetto e piacere da un lato e grande rammarico dall’altro a causa della sua prematura dipartita da questo mondo”. Riz Ortolani, Roma 24 Ottobre 2013 Gianni Cavina "Ricordare Paolo Cavara per me è un’esperienza stimolante; qualcosa che mi rammenta la gratitudine verso di lui, una persona che mi fa tornare alla mente sia la mia giovinezza che i miei esordi. Paolo Cavara, non solo rappresenta un pezzo significativo della mia vita, ma lui è stato colui che mi ha aperto la strada, l’uomo e il regista che mi hanno permesso di essere quello che sono. Il mio è un ricordo non sbiadito ma corroborato dalla presenza costante di Paolo nella mia vita. Oltre ad avere una sua fotografia sulla mia scrivania, quello che ho con Paolo è un rapporto quotidiano in cui, anche oggi, continuo a chiedergli consigli, suggerimenti, indicazioni per le mie scelte professionali e non. Certo, lui non mi può rispondere ma i segni che ricevo sono testimonianza diretta della sua presenza. Con lui ho fatto due film e proprio grazie al primo di questi, “Atsalùt päde”r, (l'altro é “La locandiera”), ho avuto l’occasione di interpretare un personaggio straordinario e prezioso come Padre Lino. Paolo Cavara mi fece un provino, mi prese e io, professionalmente, mi buttai tra le sue braccia. Lui mi guidò, mi diede i consigli, mi indicò come rendere al meglio il personaggio. Grazie a lui 302

sono quello di oggi. Quella con Paolo divenne subito una vera e propria amicizia, un legame solido e duraturo, purtroppo spezzato dalla sua prematura scomparsa. fatto, questo, che, oltre a privarmi di una persona molto cara, a lui ha impedito, come uomo di cinema, di riuscire ad esprimere appieno la sua grandezza nonché la sua autorialitá. Era un uomo dolcissimo. Esigente e diretto al punto giusto sul set, affettuoso, e premuroso nell’amicizia. Paolo mi ha insegnato molto. Con lui ho fatto cose inusuali (che non ho piú fatto per nessun altro), come quella di correre per otto chilometri prima della scena della morte di Padre Lino: il tutto per rendere al meglio la fatica, l’essere esausto e sfinito del personaggio. Ricordo, su quel set, che per la stanchezza mi addormentavo sugli scalini delle chiese e Paolo rideva. Mi sono divertito come un pazzo a fare quel film e con me tutti coloro che ci hanno lavorato. Sul set si respirava un’aria al contempo familiare e professionale. Raramente ho condiviso esperienze lavorative così positive e umanamente arricchenti come quelle fatte con Paolo. Questo vale per me ma anche per tutti coloro che con lui hanno lavorato. Voglio chiudere questa mia testimonianza con un ricordo, secondo me, molto significativo che dice di Paolo e del suo sapersi far voler bene, molto piú di mille parole. Al termine di ogni giornata di ripresa la troupe cantava una canzoncina in onore di Paolo che terminava con queste parole: “..per far la vita meno amara, fate un film con Cavara”. Ecco questo era Paolo..." Gianni Cavina, Bologna 09 Dicembre 2013 Luigi “Gigi” Proietti “Purtroppo ho avuto solo l’occasione del “Fregoli” televisivo per lavorare con Paolo Cavara. Venni contattato direttamente da lui e insieme pensammo al coinvolgimento di Roberto Lerici, il quale già lavorava con me in teatro. Il ricordo che ho di lui è quello di un ottimo regista uno di quei professionisti insieme moderni e di vecchio stampo, quello di un tempo, di quando in Italia si faceva il cinema vero. Paolo Cavara era uno di quei rari registi che ti dava fiducia e di cui ti potevi fidare; un uomo con una grande capacità di coinvolgimento, attento al dettaglio e preciso nei ritmi narrativi. L’esperienza del “Fregoli” la ricordo come una grandissima fatica affrontata con divertimento. Un set su cui, nonostante la frenesia delle riprese per rispettare i tempi e i ritmi tele303

visivi, si respirava un’aria serena e in cui il regista aveva il pieno controllo della situazione. “Fregoli” fu una delle prime fiction RAI, prodotte secondo l’accezione moderna; un prodotto in cui era necessario comprimere i tempi di ripresa e in cui l’organizzazione del lavoro era un elemento imprescindibile. Ricordo Paolo Cavara come un vero stratega: capace, come pochi altri, di dirigere contemporaneamente diverse situazioni assieme. Si può dire che c’era Fregoli anche negli ambienti, visto che in una settimana cambiavano e ricambiavano quattro o cinque volte. La velocità dell’esperienza lavorativa, purtroppo, non mi ha permesso un rapporto più approfondito con lui. Certo, simpatizzammo e nel lavoro ci fu grande partecipazione e complicità, ma non si riuscì ad andare oltre. Ricordo l’esperienza del “Fregoli”, comunque, come l’occasione, forse una delle ultime che mi sono capitate, di lavorare e di respirare l’aria del grande cinema su un set televisivo. Inoltre, mi ricordo, che Cavara all’epoca aveva un problema alla gamba e che, nonostante l’essere claudicante, riuscì a portare a termine ogni ripresa nei tempi e nelle modalità preventivate: segno, inconfondibile di un grande talento e di una grande professionalità”. Luigi Proietti, Roma, 27 Gennaio 2014 Ninetto Davoli "Ricordo Paolo Cavara come una persona carinissima, un animo buono, un modo di fare cordiale e piacevole. Ricordo anche il suo entusiasmo nel girare il film, un girare con gusto. un professionista con cui non ho mai avuto problemi, mai nessuno screzio, mai nessuna tensione. Uno di quei registi con cui si stabilisce un rapporto di fiducia reciproca: mi lasciava fare, ascoltava le mie idee, si confrontava con me ed era un piacere collaborare con lui. La lavorazione de “Il lumacone” fu comunque faticosa, visto che bisognava trasportare il vagone di un treno fin sulla terrazza del Pincio. Nell'attravresare Roma e nel girare le scene del film ambientate nel vagone, ricordo un grande divertimento e una gioia contagiosa tra me, Turri Ferro e Agostina Belli. Al termine di questa grande fatica però avevamo ottenuto quel che volevamo e ricordo che una volta giunti al Pincio ci fu una grande soddisfazione e facemmo una vera e proprio festa come se fosse un compleanno. Paolo Cavara era un regista con cui quando lavoravi quasi non ti accorgevi di essere 304

su un set e inoltre ricordo che alcune situazioni del film vennero fuori particolarmente riuscite anche grazie all'entusiasmo e alla spontaneità del suo lavoro. Ricordo un episodio in cui inaugurammo un ristorante con le riprese del film e dove Turri Ferro cucinò per noi la pasta alla norma, ricalcando nella vita reale il suo ruolo nel film: quello del cuoco. Anche in questa occasione si creò un'atmosfera conviviale piacevole in cui Paolo Cavara sembrava quasi indossare i panni del maestro di cerimonia nel gestire una situazione a metà strada tra la realtà e la finzione. Ecco questo era Paolo Cavare, un uomo di rara gentilezza di cui non posso che avere un ricordo gradevole e sereno" Ninetto Davoli, Roma, 31 Gennaio 2014 Giancarlo Giannini “Ero molto giovane sul set del film di Paolo. “La tarantola dal ventre nero” era sì un film commerciale ma la ricordo come una bellissima esperienza lavorativa. Ero circondato da bellissime donne e i collaboratori tecnici del film erano tutti di prim'ordine. Ricordo la cura di Paolo Cavara nel definire le inquadtrature, nell'orchestrare i movimenti di macchina. Un direttore d'orchestrra al lavoro con collaboratori eccezionali. Un uomo e un regista attento ai dettagli, intelligente colto, preparato. Non ricordo di lui una parola fuori posto, anzi, lo ricordo affabile e cordiale con gli attori nel renderli partecipi del suo lavoro. Un regista che non trascurava neanche le piccole cose ma che, anzi, proprio da esse traeva ispirazione e spunti. Solo un altro regista, Tony Scott mi ha trasmesso la stessa precisione e importanza del dettaglio. Ricordo di Paolo un piacere minuzioso nel fare il film, un gusto del lavoro al servizio di una confezione filmica straordinaria. Il mio personaggio, un ispettore non-convenzionale, più uomo che poliziotto, lontano da ogni possibile stereotipo, lo ricordo con grande piacere perchè è stata una di quelle interpretazioni che mi ha permesso di evidenziare, come attore, insoliti tratti umani e comportamentali di un personaggio. Paolo era un uomo elegante e molto affabile, ma anche un professionista all'avanguardia, persino in anticipo sui tempi, uno sperimentatore di classe direi. Diceva poche cose ma erano sempre quelle giuste. Era capace con pochi elementi di creare un'atmosfera semplice, essenziale ma profondamente incisiva, come quella di questo thriller dalle sfumature espres305

sioniste date dalla fotografia di Marcello Gatti. Era anche un bellissimo uomo, riservato e schivo, lontano da ogni clamore del cinema. Mi ricordo che, a seguito di quel film mi voleva coinvolgere nel progetto di un film comico di cui, purtroppo, poi non se ne è fatto più nulla. Sinceramente non so capacitarmi come il suo nome (così come quello di altri registi) sia caduto nel dimenticatoio. Persone che sono state la spina dorsale del nostro cinema e che probabilmente non hanno ricevuto per quanto hanno dato. E' un vero peccato...” Giancarlo Giannini, Roma 12 Febbraio 2014 Roberto Lerici195 “Ho saputo in ritardo, ero in Germania, poi fuori Roma, l’assurda, incredibile notizia e sono rimasto così colpito da non sapere nemmeno adesso che cosa dire di fronte ad una così inaccettabile realtà. Paolo è stato un compagno di lavoro di rara umanità e dolcezza, un artista vero che partecipava al suo lavoro con una adesione piena, senza nessuna presunzione di distacco intellettualistico. Ricordo che mi diceva che io, in qualche modo, lo completavo mettendo nel nostro lavoro quella “cattiveria” che a lui mancava, ed era vero, non ho trovato nessuno fra i registi con cui ho lavorato, così innamorato dei suoi personaggi, così capace di dar loro vita nelle immagini con tutta l’adesione e l’affetto di cui era capace. So che queste mie povere parole servono poco di fronte all’enormità della perdita ma credo che un artista abbia almeno il vantaggio, per chi rimane, di poter lasciare un’immagine di se che continua nelle sue opere e, in qualche modo, rimane con noi.” Firenze, 20 Agosto 1982

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Lettera di Roberto Lerici ad AnnaMaria Cavara – per gentile concessione di Pietro Cavara 306

Lucile Lacks196 “Per anni ho lavorato e battagliato insieme a Paolo e frequentato la vostra casa. Come tutti ho preso la misura della sua qualità più rara: la dolcezza. E malgrado la vita mi abbia abbandonato dalla vostra famiglia negli ultimi anni, il cuore ha conservato mille momenti e l’immagine stessa di Paolo, la sua espressione sorridente anche nei momenti più duri con mio marito – siamo stati assenti da Roma cinque anni – ma ho incontrato Paolo in un cinema, su di una panca del Parco dei daini. E ci siamo abbracciati con slancio fraterno. Questi ricordi carichi di stima sfociano oggi in una realtà terribile, inaccettabile. […]Sono sconvolta, il cinema non facilita i rapporti, la battaglia è stata inumana. […] Paolo era un uomo di cinema e al cinema nessuno di noi, in realtà, sopravvive”. Roma, 8 Agosto 1982 Anonimo197 Il miglior film al Festival di Mosca - 1967. Cremlino Palazzo dei Congressi 35 minuti di applausi dopo il film. Avevo 15 anni quando ho visto questo film nel Luglio 1967 nel Palazzo dei Congressi del Cremlino durante il 5 ° Moscow Film Festival. La gente rimase assolutamente scioccata dalla fantastica abilità di Paolo Cavara. Tutte le persone nel Palazzo si alzarono in piedi e applaudirono regista che era lì presente con gli attori del film. Gli applausi durarono all'infinito - almeno più di mezz'ora. Era evidente per tutti coloro che videro il concorso cinematografico che questo film era il migliore. Sono rimasto estremamente sorpreso - alcuni giorni più tardi quando ho saputo che questo film non aveva vinto nulla. Sei mesi dopo ero presente ad una conferenza in una piccola cittadina - a 150 km da Mosca una conferenza di un critico cinematografico della giuria del Festival. Raccontò una storia fantastica. Quando la commissione di selezione del 196

Lettera di Lucile Lacks ad AnnaMaria Cavara – per gentile concessione di Pietro Cavara 197 Testimonianza presente su http://www.imdb.com/title/tt0062063/ 307

film ha ricevuto questo film per la selezione erano già concordi che sarebbe stato il vincitore. Ma la delegazione cubana (URSS e Cuba aveva rapporti molto complicati in quel momento a causa del' amicizia dei cubani con Mao in Cina) protestò. Dissero che gli eventi in Vietnam erano stati mostrati in un modo sbagliato. E la loro protesta venne soddisfatta. Così abbiamo perso un regista fantastico, - perché, in caso di sua vittoria il suo destino avrebbe potuto essere glorioso. Mosca, Russia, 25 dicembre 2000

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NOTA BIOGRAFICA

Paolo Cavara nasce a Bologna il 4 Luglio del 1926. Negli anni ’50 mentre studia Architettura all’Università di Firenze inizia la sua attività di documentarista, mettendo a frutto anche la sua esperienza di operatore subacqueo. Nel 1951 assieme a Carlo Gregoretti e Franco Prosperi è artefice della spedizione pionieristica nell’isola di Ceylon. Dal 1958 collabora, anche in veste di corrispondente in Indonesia e Maldive, con Giorgio Moser alla prima serie televisiva nazionale di documentari dal titolo La nostra terra e l’acqua. Nello stesso periodo fa esperienza come aiuto regista sul set di alcuni lungometraggi di registi americani tra i quali vanno ricordati Timbuctu (1957) di Henry Hathaway, La contessa scalza (1954) di Joseph L. Mankiewicz e La maja desnuda (1958) di Henry Koster. All’inizio degli anni ’60 è tra gli artefici del progetto della Cineriz di Angelo Rizzoli Mondo cane (1962), di cui realizza quasi integralmente le riprese così come del successivo La donna nel mondo (1963) e, in parte, del sequel Mondo cane 2 (1963). In questo ultimo film non è accreditato, mentre a causa di divergenze personali, il suo lavoro nei due filmprecedenti viene offuscato dai nomi ingombranti degli altri due realizzatori: Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi. Durante uno dei viaggi che portano alla realizzazione delle riprese dei tre film, avviene la rottura con Jacopetti e Prosperi, in seguito alla vicenda avvenuta in Congo in cui un’esecuzione capitale viene fermata da Jacopetti e fatta spostare su uno sfondo più chiaro per poter meglio riprendere la scena. Dopo la separazione dal gruppo di Mondo Cane, Paolo Cavara prosegue la sua esperienza registica con I malamondo (1964), film in cui sensazionalismo e trasgressione sono si presenti, ma ben lontani dal morboso compiacimento e dall’esposizione di atrocità dei precedenti mondomovie. Nel 1967 con L’occhio selvaggio realizza un’opera in gran parte autobiografica in cui indaga la fascinazione e l’ambiguità del lavoro del reporter. Il film ha un grande successo al Festival di Mosca e vince 309

il primo premio a quello di Atlanta. Due anni dopo realizza La cattura (1969) film in cui il tema della violenza e l’analisi dei sentimenti si coniugano in una parabola sull’assurdità della guerra. Opera questa che partecipa in concorso alla XXXa Mostra del Cinema di Venezia. Negli anni successivi, cura la regia della seconda unità de Le avventure di Gerard (1970) di Jerzy Skolimowski, ed è autore del soggetto di Così come sei (1977) diretto da Alberto Lattuada. Nel contempo realizza una serie di film “mediani” in cui il suo percorso personale si intreccia con le esigenze commerciali di prodotti su commissione: La tarantola dal ventre nero (1971), Los amigos (1972), Virilità (1974). Negli stessi anni firma per la Rai una serie di sette documentari dal titolo L’uomo e la natura, Il delta del Danubio e realizza servizi e filmati per la rivista televisiva Gulliver di Brando Giordani ed Emilio Ravel. Nel 1975-’76 riprende il suo percorso di autore con Il lumacone (1975) un esperimento poetico scritto a quattro mani con Ruggero Maccari e l’inconsueto E tanta paura (1976) una sorta di parodia critica in cui destruttura tutti gli stereotipi del thriller all’italiana. Nel 1979, grazie alla produzione della Rai realizza Atsalùt päder sulla vita di Padre Lino da Parma: il film è un antico progetto maturato nel tempo in cui emerge una sorta di timore nei confronti di un nichilismo umanitario che il frate cerca di fronteggiare con le sole armi della carità evangelica e dell'amore per il prossimo. Nel 1980 realizza un adattamento fedele de La locandiera di Goldoni che vede come interpreti la coppia Adriano Celentano e Claudia Mori. Nei successivi anni ’80 lavora soprattutto per la televisione per cui realizza Sarto per signora (1980), Fregoli (1981), e dà un significativo apporto in fase di ideazione e scrittura (in collaborazione con Lucia Demby ed Enrico Medioli) per La bella Otero (1982). La sua vita termina prematuramente a Roma il 7 Agosto 1982 all’età di soli 56 anni.

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FILMOGRAFIA – ANTOLOGIA CRITICA

La nostra terra e l’acqua (1957) TITOLO ORIGINALE: La nostra terra e l’acqua PAESE DI PRODUZIONE: ITALIA Anno: 1957 Co-regia di Giorgio Moser e Paolo Cavara per documentari a tema prodotti e realizzati per la Rai Mondo cane (1961) TITOLO ORIGINALE: Mondo cane PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 1962 DURATA: 108 min Regia: Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti, Franco E. Prosperi; SOGGETTO: Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti; PRODUTTORE: Angelo Rizzoli; FOTOGRAFIA: Antonio Climati Benito Frattari; MONTAGGIO: Gualtiero Jacopetti; MUSICHE: Nino Oliviero Riz Ortolani; VOCE NARRANTE: Stefano Sibaldi La critica […] Quanto a Mondo cane, eccoci di fronte a tutto quello che fino ad oggi ogni reportage aveva trascurato, il brutto, cioè, il triste, il macabro, il doloroso, al posto dell’oleografico, dell’aggraziato, del gentile, descritti a scopo unicamente turistico (o di convenzionale folclore). Perché Mondo cane? Perché i tre registi ci descrivono tutte le contraddizioni, gli assurdi, le cattiverie, gli egoismi di cui sono spesso esempio gli abitanti di questo mondo, sotto qualsiasi latitudine si considerino. […] L’interesse del film, però, non è solo nel valore descrittivo delle singole sequenze (frutto, comunque, di una tecnica sicura e provveduta) ma è anche e soprattutto nella forza quasi truce dei contrasti suscitati, nel clima di desolazione e di angoscia che ne scaturisce e nell’aspra essenzialità di quel commento parlato che feri311

sce senza prender mai direttamente di punta e che, anche quando vuol far sorridere o ridere, lo fa con amarezza e con dolore. Troppa amarezza e troppo dolore, se vogliamo, e anche una eccessiva insistenza nel dettaglio macabro, nel clima sadico, nel particolare raccapricciante, ma son difetti che non tolgono al film il suo interesse terribile di documento, tanto più terribile quanto – ci assicurano formalmente – sempre vero dal principio alla fine. Gian Luigi Rondi, Concretezza, 16 Aprile 1962 […]Quando sono partiti per uno di questi giri del mondo, Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara e Franco Prosperi, autori di “Mondo cane”, avevano invece le idee molto chiare, cioè avevano in testa, proprio quello che il titolo esprime e volevano dimostrarlo. “Mondo cane” non è dunque un’antologia di esotismi o un album di piaceri proibiti ma piuttosto lo specchio inesorabile della crudeltà della razza umana. E non crediate che queste crudeltà siano andati a scoprirle tutte a migliaia di miglia dai nostri civilissimi paesi: molte le hanno trovate sull’uscio di casa o addirittura in anticamera. Insomma, chi è senza barbarie scagli la prima pietra. […] Civiltà e barbarie, passato e futuro si mescolano negli avvincenti fotogrammi di “Mondo cane” con una lucidità sorprendente. E’ un film fondamentalmente crudele (anche se cerca talvolta di mascherarsi dietro l’ironia), ma un film da vedere. E’ crudele come può esserlo un esame di coscienza o una ricognizione nelle pieghe più segrete della nostra anima. Certo, c’è qualche momento che potrà urtare o dispiacere, c’è qualche volta del compiacimento dove sarebbe stata meglio della pietà, ma il film è unitario e ha un carattere. […] Lamberto Sechi, Il Secolo d’Italia, 06 Aprile 1962 Mondo cane è un po’ il rovescio degli ormai numerosi film dedicati a illustrare gli aspetti lieti e festosi del nostro mondo. Gli autori – Gualtiero Jacopetti (cui si deve anche il commento parlato), Paolo Cavara e Franco Prosperi – hanno qui puntato l’obiettivo su quanto di irritante, di sconveniente, di sgradevole, di nauseabondo alligna non soltanto ai margini della civiltà moderna, ma nel cuore di essa. Lo 312

spettacolo non ha un’idea ispiratrice fuor di quella puramente esclamativa, sintetizzata nel titolo: riti ancestrali e miti contemporanei, l’orrore dei bisogni elementari e il feticismo del superfluo, le malizie della natura e le bestialità della tecnica avulsa delle sue radici umane. Tutto ciò ed altro ancora viene offerto al pubblico sul filo teso di uno scanzonato cinismo, che si colora a volte di tinte sadiche. […] Ma i punti di forza del film sono quelli che si connettono alle storture del progresso, all’altra faccia dei “miracoli economici”, delle “missioni civilizzatrici”, delle “conquiste scientifiche”. […] L’Unità, 06 Aprile1962 La donna nel mondo (1963) TITOLO ORIGINALE: La donna nel mondo PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 1963 DURATA: 110 min REGIA: Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi; SCENEGGIATURA: Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi; CASA DI PRODUZIONE: Cinematografica RI.RE, Cineriz, Tempo Film; FOTOGRAFIA: Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi; MONTAGGIO: Gualtiero Jacopetti; MUSICHE: Nino Oliviero, Riz Ortolani; NARRATORE: Stefano Sibaldi; NARRATORE DELLA VERSIONE INGLESE: Peter Ustinov Mondo cane 2 (1963) TITOLO ORIGINALE: Mondo cane 2 PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 1963 DURATA: 100 min REGIA: Gualtiero Jacopetti, Franco E. Prosperi e Paolo Cavara (alcune scene, non accreditato); FOTOGRAFIA: Antonio Climati, Benito Frattari; MONTAGGIO: Gualtiero Jacopetti; VOCE NARRANTE: Stefano Sibaldi I malamondo (1964) TITOLO ORIGINALE: I malamondo PAESE DI PRODUZIONE: Italia 313

ANNO: 1964 DURATA: 110 min REGIA: Paolo Cavara; SOGGETTO: Paolo Cavara; SCENEGGIATURA: Guido Castaldo, Paolo Cavara, Francesco Torti, Stefano Strucchi; PRODUTTORE: Goffredo Lombardo; CASA DI PRODUZIONE: Titanus; FOTOGRAFIA: Ennio Guarnieri; MONTAGGIO: Ruggero Mastroianni; MUSICHE: Ennio Morricone; NARRATORE: Marvin Miller La critica […] Paolo Cavara, che è stato uno degli autori di Mondo cane e della Donna nel mondo, è andato a scovare questi giovani su e giù per l’Europa, per le strade, nei bar, nei night-clubs, nei locali equivoci, nelle sedi delle più scombinate e anticonformiste organizzazioni giovanili. Li ha scovati, ma anziché offrircene il documento dal vero, ha creduto meglio ricostruirne la documentazione nella speranza di raggiungere effetti narrativamente più compiuti in sede di spettacolo. Un’idea come un’altra: il reportage di viaggio fatto con il cinema dovrebbe essere sempre riproduzione autentica di un’autentica realtà, ma non si può disconoscere ad un autore il diritto di interpretare personalmente questa realtà avviandola ai più difficili approdi del racconto drammatico: purché , s’intende, non ne falsi gli spunti e non ne travisi le conclusioni. Non sappiamo quanta autenticità vi sia sempre nei bozzetti sulla gioventù europea che Cavara ci ha proposto, ma è doveroso riconoscere che taluni sembrano comunque verosimili e che la loro “ricostruzione” in base ad elementi veri e ad opera di quegli stessi che realmente li hanno vissuti, ha dato qua e là convincenti risultati: come nella sequenza che, con acuto senso dell’indagine psicologica, isola in un gruppo alcune facce di giovani tedeschi annientati e stupefatti dalla contemplazione di un museo dedicato agli orrori del campo di concentramento di Dachau; come nella descrizione un po’ macabra e un po’ orgiastica di una notte di Capodanno passata da un gruppo di studenti svedesi nel cimitero di Stoccolma o come quella, soprattutto pregevole da un punto di vista tecnico, ma decisamente suggestiva, di un volo di giovani paracadutisti ripreso in modo da trasformare la caduta in una magica danza. In contrasto con queste pagine, in sé narrativamente compiute, che testimoniano in Cavara un intuito felice nel cogliere anche nella folla l’individuo, la sua psicologia, il suo stato d’animo, ve ne sono altre solo esteriormente dedicate alle proverbiali crudeltà della gioventù, nei confronti di se stessa e 314

degli altri, le feroci feste delle matricole in Olanda, le orge dell’alta borghesia che si concludono con lo sgozzamento di un porcellino da arrostire poi lì per lì, le pericolose audacie dei patiti della motocicletta, le gare di coraggio compiute nel clima classico della gioventù bruciata. Qui la ricostruzione nuoce all’intensità drammatica che non sostituisce nemmeno con un concluso senso della narrazione, consentendo ai singoli episodi di disporsi l’uno dopo l’altro senza molti nessi logici, unicamente sorretti dal comun denominatore della giovane età di tutti i protagonisti. Se questo, però, è un difetto serio, cui si dovrebbe anche aggiungere l’assenza di una concezione unitaria del film – cosa vuol dire, cosa intende dimostrare, a cosa imputa i traviamenti che ci prospetta? – ed una limitatezza di indagine che non ci consente di avere un quadro approfondito e completo dei giovani europei di oggi non si può disconoscere, almeno allo spettacolo in sé, una certa capacità di attirare l’attenzione del pubblico: per la curiosità dei temi trattati e, in più momenti, per la sensibilità con cui il regista si è sforzato di affrontarli. Con un rigore tecnico, oltre a tutto, particolarmente notevole nella pastosa e non di rado preziosa fotografia a colori e nell’originale e fertile commento musicale. Il Tempo, 22 Febbraio1964 […] Ecco I malamondo. Queste che abbiamo descritto sono fra le più interessanti sequenze del film-inchiesta che, diretto non senza abilità da Paolo Cavara, intenderebbe portare sullo schermo gli usi e i costumi dei giovani europei di oggi, dai sedici ai trent’anni, mostrando altresì tutta la loro inquietudine: quella di una nuova generazione uscita già “bruciata” dalla precedente, senza buoni insegnamenti. L’approssimativa indagine cinematografica di Cavara – riuscita per quanto riguarda la parte negativa della odierna gioventù (mentre i lati positivi sono pressochè ignorati) – mostra comunque un impegno non comune ed una certa serietà di intenti, per cui il film – ottimamente fotografato a colori – si distingue dalle pellicole più o meno dozzinali che ricalcano la ormai sfruttata formula inaugurata da Mondo cane. Questa di Cavara è insomma una “Europa cane”: una giovane Europa che stando almeno a quanto presentato sullo schermo, non induce certo ad ottimistiche previsioni. S.L., Roma, 20 Marzo 1964 315

[…] E’ anche probabile che l’idea dei Malamondo, a Cavara, sia venuta passando da una meridiano e un parallelo all’altro con la “troupe” di Jacopetti vedendo o apprendendo di figure ed episodi che ora, almeno in parte, vediamo registrati e raccolti sotto un titolo non molto chiaro ma che s’illumina assai presto, dopo un paio di eloquenti capitoli. I “Malamondo” di Paolo Cavara sono i giovani d’oggi, quelli più turbolenti come i più disciplinati: in tutti c’è qualcosa che li segna, li distingue. Nati e cresciuti in un mondo più d’ogni precedente ricco di contraddizioni, questi ragazzi non sono proprio fatti in serie: in comune, a parte l’età, hanno ben poco, o unicamente la voglia di essere giovani. Il resto è un affare personale, sia che lo compiano gli anarchici studenti di Heildelberg facendosi cretinamente sfregiare dal barbiere, sia che lo compiano i futuri colonnelli della Scuola di Saint Cyr ballando in massa il madison. L’inchiesta di Paolo Cavara procede secondo una collaudata formula: un commento parlato cui spetta di tenere insieme i disparati aneddoti e una serie di episodi che cercano, ognuno a suo modo e tutti insieme, di sbalordire, irritare, sconcertare, scandalizzare o stuzzicare il pubblico. Potremmo esemplificare e non finiremmo mai di citare questo e quel brano particolarmente “insoliti”. Certo dai Malamondo si esce soddisfatti per la ricchezza e la rarità di quasi tutto il materiale, ma non certo con le idee chiare sullo stato delle nuove generazioni. Avanti 18 Marzo 1964 […] Il tema del suo film sono quei giovani moderni che non sono riusciti a ottenere dalla generazione che li ha preceduti una eredità positiva, e che invece hanno raccolto gli aspetti ora ridicoli, ora foschi, ora decisamente criminali dell’eredità negativa di chi ha vissuto la seconda guerra mondiale. […] La crudeltà della rappresentazione non è quasi mai fine a se stessa: l’ironia è sempre in agguato (specialmente nei passi dedicati al problema del “terzo sesso”, ed allo spogliarello finale). E’ vero però anche che non tutti gli episodi sono ugualmente interessanti. Ce n’è abbastanza tuttavia perché la pellicola risulti gradevole, e si sollevi dalla media dei troppi films-inchiesta nati sulla scia del magistrale “Europa di notte” di Blasetti. L.F., Alto Adige, 25 Luglio1964 316

“I malamondo”, che il regista Paolo Cavara ha girato in varie nazioni europee, vuole essere uno spregiudicato e realistico documentario sulle condizioni della gioventù d’oggi. Il giovane regista ha raccontato, in una serie di episodi spregiudicati e realistici, il comportamento di quei giovani che stentano, dopo la parentesi drammatica della guerra, a ritrovare fiducia in se stessi e non hanno alcun ideale in cui credere. Affogati nella noia e nello scetticismo, privi di una vera carica ideale, spinti a muoversi da una frenesia sessuale che si consuma nel nulla, “i figli degli anni sessanta”, come li ha presentati il regista de “I malamondo”, appaiono in una luce di opaco squallore che mette tristezza. Con il viso pallido, l’aria emaciata, lo sguardo perso nel vuoto , questi ragazzi e queste ragazze dimostrano con il loro comportamento di aver rifiutato gli insegnamenti del passato ma di non essere riusciti a trovare un equilibrio interiore. Lacerati da mille contraddizioni e tormentati da altrettanti dubbi cercano di non pensare con lo stordirsi bevendo, facendo l’amore, impiegando le ore a loro disposizione in gesti e bravate inutili. […] Una sequenza di sapore diverso deve essere segnalata: un salto nel vuoto compiuto da cinque spericolati paracadutisti che sembrano danzare nell’aria come libellule volteggianti. Ma è l’unico momento “distensivo” della pellicola che non vuole venire meno al titolo e subito riprende il tema a cui si è ispirato il regista: la crisi dei giovani europei. Paolo Cavara ha dedicato anche alcuni episodi alle nuove generazioni italiane: sulla Versilia, in una festa di “ragazzi-bene”, per sgominare la noia viene ucciso, quasi in un rito sacrificale, un maialino con un coltello che uno dei presenti immerge nel collo della bestia tra le risa o il raccapriccio dei presenti. E si divertono anche assistendo, su di una spiaggia della Romagna, all’improvvisato spogliarello di una ragazza che, con mosse maldestre, si toglie di dosso i vestiti che cadono, uno ad uno, sulla sabbia. E con l’immagine della donna che fugge verso il mare, inseguita dai compagni, si conclude questa pellicola che offre un panorama disincantato della gioventù europea di questi anni di “boom” economico ma non certamente di rinascita spirituale. G.P.M., Piemonte Sera, Torino, 07-08 Febbraio 1964

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[…] Non tutti gli uomini, però si sono saputi adeguare alle nuove e dure leggi della vita, che ormai promette soltanto il benessere materiale, sottoforma di elettrodomestici, di utilitarie, di amori a piani quinquennali dove l’amplesso ha cadenza settimanale, condizionato com’è alle esigenze di lavoro di lei e di lui. Esistono, così, dei disadattati, specialmente fra i giovani: gente formatasi sulla scorta di una tradizione e di una cultura, le quali oggigiorno si mostrano inadeguate a dare linfa vitale. I malamondo massimamente presenta proprio questa fauna di reietti, che estrinsecano il loro rancore assumendo atteggiamenti anarcoidi, esprimendo la loro solitudine in giochi pericolosi o artificialmente intellettualistici, dove il barocco decadente e sfilacciato assurge a simbolo del disfacimento morale di questi malati del mondo. Il regista Paolo Cavara non intende addossare alla società la responsabilità della tragica situazione dei malamondo, dimostrandosi in tal modo non disponibile a suggestioni e richiami politici. Anzi, Cavara nutre speranza in un avvenire migliore; altrimenti che senso avrebbe la scena finale , prospettata all’insegna dell’ottimismo? A proposito di quest’episodio, è doveroso riconoscere ad esso originalità di concetto e buona resa cinematografica: squisito, soprattutto, il particolare della spogliarellista che si sveste al ritmo di un brano tratto dal Barbiere di Siviglia, a significare, con lieve ironia, l’ingenua e sconfinata passione della gente romagnola per la musica operistica. Secondo il nostro punto di vista, il film risulta di limitati orizzonti proprio perché tratta soltanto le ambascie di un ristretto numero di persone. Mentre, invece, il discorso poteva essere più interessante, se Cavara si fosse soffermato a diagnosticare la situazione dei sani del mondo; cioè di quelli che ottenuto tutto ciò che la attuale civiltà mette a loro disposizione, si trovano sconcertati, soli e spauriti, appunto perché la civiltà dell’elettrodomestico è incapace di offrire valori idealistici e metafisici. […] Cavara, dimostrandosi non ammanigliato a nessun carrozzone politico, ci ha dato la misura delle sue possibilità convincendoci che egli sa andate oltre la superficie delle cose, sa arrivare alla loro essenza. Nonostante i suoi precisi limiti, I malamondo è pur sempre un’opera dignitosa, che mette in luce le qualità del suo autore, attento e documentato in tutti gli episodi narrati, e non privo di sensibilità artistica, concretizzatasi nella scena dei centauri. Maurizio Testa, Il mese, I°trimestre 1964

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L’impostazione, nel presentare un vasto, variopinto e spesso grottesco campionario di certa gioventù d’oggi, appare per lo meno opinabile. Non era il caso di disturbare Bertrand Russel: addossare, ad oltre vent’anni di distanza, la responsabilità di fenomeni di costume tutt’altro che edificanti alla guerra è forse troppo comodo. Si lasci agli psichiatri stabilire quanto le convulsioni dell’ultimo conflitto abbiano geneticamente influito sulla attuale generazione. L’”equilibrio non ereditato” riguarda soprattutto genitori evidentemente troppo affaccendati per curarsi dell’educazione dei loro figli. Ma il problema, sotto questo aspetto si allarga smisuratamente, investe tutta la società contemporanea e non è questa la sede più adatta per discuterne. Paolo Cavara ha offerto del documentario cinematograficamente di alto, ed alle volte di altissimo livello: si può forse addebitargli qualche cerebralismo in riprese nelle quali volutamente intendeva usare la mano pesante ed un certo compiacimento nell’ostentare la sua maturità tecnica (specialmente nei lanci dei paracadutisti che ha voluto sottolineare con una poco convincente didascalia sul mezzo usato per le riprese). Il complesso è però molto valido, con tutte le riserve del caso circa scabrosità che, dato l’argomento, erano da ritenersi comunque scontate. […] L’Arena, 13 Marzo 1964 I malamondo sono quella parte di gioventù di tutti i Paesi europei, che non hanno ancora trovato un giusto modo di vivere, presi come sono dall’assillo di trovare un vero scopo alla esistenza. E’ tutta questione di equilibrio, poiché fatta eccezione per una percentuale minima che non trovando quello che cerca si suicida, restano gli altri e questi prima o poi se non trovano uno scopo per cui vivere, trovano la maniera di raggiungere la tarda età con un mezzo qualsiasi. Ce n’è, è vero, una percentuale che vive al limite della moralità e ce n’è un’altra che afflitta dal denaro, lo sciupa e sciupa se stessa in cose vane. Ma sono sempre minoranze. Resta però il nucleo centrale che è quello buono, quello a cui la vita chiede insistentemente tutto e dà insistentemente tutto. I malamondo, tra tutti i documentari visti, tra tutte le inchieste portate a termine in Europa e che ci hanno ammannito in tutte le salse, vuoi sexy, vuoi macabre, vuoi stomachevoli, ci sembra il 319

più azzeccato, anche se in qualche episodio resta in primo piano la scena del sangue. Forse il meglio non è stato ancora detto, ma se ne avverte l’approssimarsi, se ne ode quasi il respiro. Sono giovani, e perciò a lungo andare, anche quella storia della sessualità che prende un’altra strada, è destinata se non a finire, ciò che è impossibile, per lo meno a non far parlare più, tanto di sé. Corriere Lombardo, 18 Marzo 1964 L'occhio selvaggio (1967) TITOLO ORIGINALE: L'occhio selvaggio PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 1967 DURATA: 98' REGIA: Paolo Cavara; SOGGETTO: Fabio Carpi, Paolo Cavara, Ugo Pirro; SCENEGGIATURA: Paolo Cavara, Tonino Guerra, Alberto Moravia; PRODUTTORE: Georges Marci; CASA DI PRODUZIONE: Cavara; FOTOGRAFIA: Marcello Masciocchi, Raffaele Masciocchi; MONTAGGIO: Sergio Montanari; MUSICHE: Gianni Marchetti; SCENOGRAFIA: Pier Luigi Pizzi; INTERPRETI E PERSONAGGI: Philippe Leroy (Paolo), Delia Boccardo (Barbara Bates), Gabriele Tinti (Valentino), Giorgio Gargiullo (Rossi), Luciana Angiolillo (Mrs. Davis), Lars Bloch (John Bates), Gianni Bongioanni (The Hunter), Tullio Marini (Ruggero). La critica (Rassegna stampa integrale) Ex documentarista, assistente di Jacopetti per “Mondo cane” e “La donna nel mondo”, regista di “I malamondo”, ambiziosa inchiesta sulla gioventù europea, Paolo Cavara è passato al cinema narrativo con il ritratto di un cineasta. Se ogni uomo di cinema è un “voyeur” il Paolo di Cavara lo è in modo molto particolare. Professionalmente è un documentarista, ma di un genere speciale che ha attecchito soprattutto nel cinema italiano e che potremmo chiamare “documentarismo a sensazione”. Quel che cercano questi registi, quando girano per il mondo con una macchina da presa è il sensazionale, l'abnorme, l'impressionante. Come lo stesso personaggio di Cavara dice, in ogni spettatore c'è un sadomasochista che desidera appagarsi con quel che 320

vede sullo schermo. A questo cinico Paolo, insomma non interessa far da specchio a quel che succede nel mondo; gli preme quel che, nella realtà “fa spettacolo”. Assistito da Tonino Guerra e da Moravia nella sceneggiatura, Cavara ha inserito questo personaggio in una vicenda che è poco più che un pretesto narrativo. Fa capo a una giovane donna americana che, per una sorta di affascinazione sensuale e insieme masochistica, lascia il devoto marito, per seguire il regista nel suo itinerario afro-asiatico. Pur con qualche concessione troppo scoperta al romanzesco (l'attentato a ora fissa nel “nigth-club” di Saigon ci è parso improbabile), “l'occhio selvaggio” è un film che ha ambizioni critiche, ma ha il torto di esporle in modo schematico. Quella di Cavara è una sincerità non esente da rozzezza culturale e da semplicismo psicologico. Philippe Leroy è un protagonista monocorde che riesce a dare al suo personaggio anche una certa grandezza malefica; Delia Boccardo è volenterosa ma troppo esile attrice per reggere la parte, mentre Gabriele Tinti che recita con il cuore in mano è un operatore verosimile. Vice, Il Giorno 01 Settembre 1967 Per cominciare da principio: Paolo Cavara, documentarista e autore di un lungometraggio-inchiesta, “I malamondo” è, al fianco di Gualtiero Jacopetti per “Mondo cane” e per “La donna nel mondo”. Ora, da solo, gira questo “Occhio selvaggio”, che come protagonista ha un regista cinematografico tutto teso al “reportage” d'effetto, da colpo nello stomaco in giro per il mondo alla ricerca del sensazionale da dare in pasto ad un pubblico mai sazio (dice lui) di sensazioni violente. Difficile credere al caso quando si riscontra che le caratteristiche del personaggio della finzione sono molto vicine a quelle del personaggio in carne ed ossa, cioè a quel Jacopetti che ha firmato, pseudo-documentari, lungometraggi tutti incentrati sul basso sensazionalismo, e nei quali anche Cavara ha la sua parte di responsabilità. Cavara dice di no, che lungi da lui l'idea di fare del suo ex-socio una testa di turco, ma i risultati parlano da soli. Risulta anzi chiaro che la cosiddetta trama del film, è poco più di un pretesto romanzesco, e che il vero soggetto del racconto e la concezione distorta che ha il protagonista (si chiama Paolo, tra l'altro. Come Cavara) del cinema come veicolo non di conoscenza o di sano divertimento ma di sadismo a pagamento. Ec321

colo questo Paolo, imbastire in Africa situazioni-choc in cui immischia estranei e se stesso, eccolo nel Siam inventare situazioni che nella realtà non trovano riscontro, eccolo nel Vietnam intervenire sui fatti (le fucilazioni dei Vietcong) ed esporsi ad avvenimenti che compromettono non soltanto la gente che gli è estranea ma i suoi stessi compagni, la sua stessa donna. Quando costei muore, vittima di un'ultima impresa all'insegna del cinismo spinto alla follia, Paolo si fa riprendere mentre piange sul corpo di lei, in un finale giustamente ambiguo: piange perché capisce finalmente, quello che fa, o piange perché, sullo schermo, emozionerà gli spettatori? Un soggetto dunque enormemente interessante, cui hanno messo mano talenti come quello di Tonino Guerra e di Moravia, ma che tuttavia manca di progressione drammatica, e propone un caso limite, un personaggio-mostro: difficile credere che un essere pensante possa giungere a tali eccessi. La dimostrazione ne viene così alquanto compromessa: comunque “L'occhio selvaggio” resta sempre una fatica originale, un rispecchiamento coraggioso di certo cinema che si giudica da solo e si fa orrore, oltre che un chiaro invito agli spettatori dei futuri film-inchiesta o film-réportage a pensarci bene, prima di prendere per oro colato quello che vedono sullo schermo, con tutta l'apparenza della realtà. E' lo stesso cinema, che lo confessa, che ammette come il cinema tradisca spesso la sua missione per farsi strumento della menzogna. Da meditare. Ermanno Comuzio, Il Giornale di Bergamo, 28 Settembre 1967 E' come i film di guerra americani di qualche anno fa, dove gli orrori del conflitto e le reazioni bestiali dei belligeranti, venivano denunciate ma descritte in maniera tanto minuziosa e spettacolare che la guerra in definitiva risultava affascinante. Così ci sembra faccia il regista Paolo Cavara, il quale prende di mira un certo tipo di cinematografaro (leggi Jacopetti, di cui è stato per qualche tempo collaboratore) anatomizzandone le pretese, il cinismo e la bassa astuzia. Paolo (Philippe Leroy) è a caccia di immagini sbalorditive in Estremo Oriente. Poiché trova la realtà assai monotona, cerca di mistificarla, organizzando situazioni allucinanti: dirige una fucilazione di un partigiano vietnamita e fa perfino riprendere dall'operatore la morte della sua donna (strappata ad un marito un po' troppo compassato), che è 322

rimasta coinvolta in un attentato terroristico da lui stesso organizzato. La sua meta, insomma, è lo spettacolo raccapricciante, perché così piace al pubblico, ma soprattutto ai padroni, e lui è dalla loro parte. La denuncia rivolta a questo deprecabile individuo risulta, però, equivoca. Il regista impiega, infatti, gli stessi mezzi dell'imputato: cioè fa spettacolo con il suo cinismo. Con il risultato di rendere Paolo simpatico e confondendo così le idee alla platea, che applaudirà probabilmente il film come è successo, il luglio scorso, al festival di Mosca. Vice, L'Unità, 01 Settembre 1967 Paolo Cavara condivise con Gualtiero Jacopetti l'esperienza di Mondo cane e contribuì alla nascita di quella formula ch’essi chiamavano fra loro, con un certo orgoglio, “mondocanistica”. Jacopetti poi l'ha portata avanti da solo fino ad Africa addio. Cavara se ne era staccato nel frattempo forse per differenza di opinioni, forse per indifferenza, forse per ambizione di indipendenza. (Come vedremo, tutto questo ha una certa importanza per L'occhio selvaggio). Anche Franco Prosperi, altro collaboratore di Mondo cane, si è staccato da Jacopetti. Ultimamente ancora un dissidente: Stanis Nievo che dopo aver lavorato ad Africa addio, ha realizzato per conto proprio un Mal d'Africa più o meno direttamente in polemica con Jacopetti. Mondo cane ha creato un genere, Jacopetti ha formato degli allievi: tutti lasciano e continuano a modo proprio la formula, facendo finta o credendo di denunziarla. E' questo il caso de L'occhio selvaggio. A chi sia appena dentro alle faccende del cinema viene fatto di pensare che Cavara, narrando la storia di un regista cinematografico di documentari impegnato fino allo spasimo nel fermare sulla pellicola la realtà del suo tempo (e nel falsificarla), abbia offerto una libera interpretazione del personaggio Jacopetti, e insomma abbia inteso fare un ritratto critico dell'ex maestro. Cavara si – direbbe – ha impiantato una specie di processo ad un certo tipo di regista, ne ha documentato lo stile di lavoro, lo ha accusato, poi senza accorgersene l'ha assolto, lasciando trasparire un’ammirazione inconscia, ma non per questo meno trasparente, per “la grinta” dell'uomo. Ecco dove il film è non solo ambivalente, ma addirittura ambiguo e ideologicamente confuso. Che L'occhio selvaggio sia una specie di biografia fantastica di Gualtiero Jacopetti, non lo vorranno certo ammettere né lo stesso Jacopetti né tanto 323

meno il Cavara. Ma, al di la della parte inventiva del film, ecco i fatti. C'è un regista che si mescola con la sua piccola agguerrita troupe agli eventi più drammatici del terzo mondo e per stare addosso alla cronaca si lascia anche ferire; che vuol fornire un'immagine peggiorata, e sostanzialmente razzistica, dei popoli non bianchi, mostrandoli condannati alla decadenza dovunque non siano sostenuti dalla presenza bianca; che, dove la realtà non l'aiuta, improvvisa e inventa, cioè falsifica; che professa la teoria del cinema come violenza sado-masochistica sul pubblico, da perseguire con ogni mezzo; che è intelligente e quindi sa di essere strumento di una falsificazione della realtà chiesta dai padroni dei mass-media, ma si vanta della propria posizione ideologica di mercenario intellettuale, in quanto conscia, mentre quella degli altri è elusiva; che vive allo sbaraglio sia la propria esistenza sentimentale che quella professionale, mescolando l’una all'altra; che è governato in tutto da una specie di furore, copia lontana e decaduta, in tempi di cultura di massa, del furore che animava gli avventurieri nichilisti dei primi romanzi di André Malraux. Un intellettuale esasperato, prigioniero di una visione cinica dell’umanità e quindi schiavo obbediente delle proprie peggiori passioni. D’altra parte Paolo Cavara non sa resistere alla tentazione di vedere nel protagonista de L'occhio selvaggio il rappresentante di una specie di mito dell’eroe moderno déraciné, un campione del non impegno e di un individualismo protervo di tipo quasi rinascimentale; e finisce col fare suo malgrado, per ambivalenza affettiva nei riguardi del personaggio, un omaggio a questo avventuriero del cinema, a questo intellettuale votatosi all'esaltazione della non verità. Lo stesso stile di ripresa tradisce la dipendenza di Cavara da Jacopetti. Col pretesto si seguire la vita del personaggio-regista, Cavara dà per ambiente al film quel genere di situazioni, fucilazioni, violenze, declassamento dell’uomo, al quale Jacopetti era molto attaccato. Mentre denunzia i risvolti tragici o cinici di un certo modo di inseguire (o di tradire) la realtà, se ne fa partecipe e tradisce la sua impossibilità di respirare aria diversa. Jacopetti ha di che sorridere di questo ex-allievo ribelle. Sergio Frosali, La Nazione, 29 Novembre 1967 Niente da eccepire e nulla di sorprendente se un documentarista dalla valida e collaudata esperienza quale vanta Paolo Cavara passa ai 324

film a soggetto, anzi, è nella prassi. Ma il caso odierno sollecita un particolare interesse e vuole una chiarificazione per collocare nella giusta luce i significati reconditi o singolari dell'opera, o meglio la presa di posizione dell'autore, esperto documentarista, proprio nei riguardi di un genere fissato in un clichè generico e impersonale, visto e valutato da una sola angolazione e Cavara vuol sottilizzare, intende soprattutto rovesciare quel luogo comune per cui l'occhio della macchina da presa, ritenuto freddo, lucido e perciò neutro e imparziale collezionista di immagini immuni dalla personalità del “fotografo”, è in realtà estremamente parziale, fazioso addirittura, un mezzo, infine, con cui si può offrire del mondo che ci circonda l'aspetto che più ci fa comodo. Muovendo da queste premesse l'autore, in effetti, non ha scoperto la quadratura del circolo, ma il suo film è singolare perché tende alla concettualizzazione della tesi, cerca cioè di esprimerla attraverso la diretta esperienza di un protagonista che gira per l'appunto il mondo impegnato nella realizzazione di un lungometraggio a carattere documentaristico del tipo di Mondo cane. L'occhio selvaggio non è quello della macchina da presa, ma quello dell'autore; tanto basta, sostiene Cavara, per rendere selvaggio anche l'altro. Il protagonista, infatti, è un cinico senza un briciolo di umanità, convinto che l'uomo sia cosa fra le cose, oggetto fra gli oggetti e le immagini di cui va alla ricerca per il suo film riflettono indistintamente la sua radicata e radicale posizione mentale. Per chiarire meglio il personaggio esulando dalla precisazione di quel che può essere il suo rapporto di regista con la realtà da filmare, l'autore gli ha posto al fianco una donna, Barbara, che per seguirlo ha financo abbandonato il marito che l’ama, la quale funge da “testimone” del suo agire e del disfacimento, ma raramente riesce a essere specchio della sua coscienza obnubilata e chiusa nella morsa del più sconcertante immanentismo, ha voluto cioè presentare in modo diretto il suo rapporto con “l’essere” proprio perché balzasse più evidente la sua totale disumanità. Anche Barbara, per lui è un oggetto; l’ha conquistata facendole provare il piacere di essere tale (il che è tipico di certi prototipi femminili moderni e perfettamente conseguenziale alla loro psicologia), ma se c'è un fondo di verità nella molla che spinge la donna a seguirlo, non sono sufficientemente motivati gli sviluppi poiché ribellioni, resipiscenze, angosciosi ripensamenti, turbamenti, rendono il personaggio di Barbara giustificabile anch’esso solo alla luce di quell'immanentismo che muove, determina e condiziona anche l'amante. Era logico 325

attendersi un contrasto fra i due personaggi ma nulla appare sufficiente agli occhi di Barbara, che pure assiste non impassibile all’aberrante comportamento dell'uomo per liberarsi di lui e sfuggire allo sconvolgente fascino del nulla, all’autodistruzione. E quando la donna muore, inghiottita da quel nulla, la lacrima che solca il volto dell'uomo che alla morte in sostanza l’ha portata, c'è da credere che nulla muti in lui: gli oggetti passano, solo i sentimenti, quelli autentici, restano, possono incidere. L’occhio selvaggio ha mietuto la sua vittima, è il pedaggio che paga la civiltà proiettata verso l'autodistruzione per sradicarsi follemente da suo naturale alveo. Tesi suggestiva, dunque, quella di Cavara, ma dimostrata con manicheistica presunzione; c'è odore di letteratura nella costruzione dei personaggi, si sente Moravia (co-sceneggiatore) e ancor più si sente, esasperata fino al limite, la sua teoria oggettivistica. Che Cavara guardi con occhio al suo personaggio e a quel che esso rappresenta, è fuor di dubbio, ma la tesi, ripetiamo è proposta in modo troppo scoperto, dichiarato volutamente shocking; è lì, come un oggetto, appunto, da guardare, ma non da ammirare. Da elogiare l'interpretazione di Philippe Leroy e Delia Boccardo, efficacemente affiancati da Gabriele Tinti, Giorgio Gargiullo e Lars Bloch. Vice, Il Tempo, 02 Settembre 1967 “L'occhio selvaggio” è qui da intendersi quello della macchina da presa d'un documentarista cinematografico tanto abile quanto privo di scrupoli. Questo Paolo, in compagnia di un operatore e di una ragazza, ha l'ambizione di realizzare un film che faccia sensazione ambientandolo in quella parte del nostro pianeta che, per una ragione o per un'altra, è infelice, sottosviluppato. Cinico quant5o basta, e fors’anche di più, per svolgere il suo mestiere non badando a trucchi e cogliendo ogni occasione per ricostruire abilmente sequenze audaci o allucinanti, egli vorrebbe dimostrare che nulla è in “movimento” anzi le condizioni attuali di quel mondo che va esplorando fanno male sperare per il futuro e destano nostalgie del passato. Una tesi, ovviamente quanto mai discutibile (come la stessa materia del film, del resto) che, tuttavia si dimostrerà falsa all'”occhio” del nostro documentarista proprio attraverso le vicende che egli vive spostandosi febbrilmente dall'Algeria, alla Malaysia, al Vietnam. Da principio, Paolo è 326

pronto a tutto: paga il necessario per avere informazioni di prima mano, recluta comparse per ritrarre scene di abbrutimento, di disperazione, di degradazione; gli capita anche d'aver fortuna e di poter quindi imprigionare nella macchina da presa sequenze di reale tragicità; ma non è soddisfatto, manca la grande occasione, quella che dovrà innalzare alle vette più alte il tono del suo reportage di celluloide. Dopo aver furbescamente “ricostruito” le miserie morali di un sultano caduto in povertà (che tuttavia, con un ultimo barlume di dignità umana si rifiuterà di vendergli una delle proprie mogli per pochi dollari), Paolo approda nel Vietnam dove le occasioni per la gloria cinematografica non mancano davvero. Tale parte del film, la conclusiva, è la più ambigua, ma anche la più impegnata sul piano formale. Paolo corre con l'addolorato e sensibile operatore a “cinematografare” esecuzioni di vietcong, attende – dietro misteriose e ben pagate informazioni – attentati in luoghi pubblici; viene picchiato a sangue, mentre, appostato con il teleobbiettivo, riprende un breve, sanguinoso scontro fra ribelli e truppe regolari Non gli basta. Ha saputo che una bomba dovrà demolire un nigth. Rifiutatosi il giovane operatore di seguirlo, entra egli stesso nel locale, inseguito disperatamente dalla ragazza che lo ama (e lo disprezza insieme). Va a finire che l'ordigno uccide proprio l'innocente giovane. Accorre anche l'operatore. Paolo piange; sembra finalmente e addolorato e partecipe conscio della realtà; ma subito dopo, prega il cinereporter di riprendere la scena, ls “sua” gran scena, con quella povera ragazza fedele e innamorata che gli è morta fra le braccia. E per che cosa? Per il cinismo l'immensa ambizione di lui che guarda il mondo attraverso un occhio distaccato e “selvaggio”. Film ambizioso, discutibilissimo, ambiguo e pur interessante. Lo ha realizzato un ex collaboratore di Jacopetti, Paolo Cavara, e non sappiamo fin dove arrivi la sua polemica e fino a qual punto sia veritiera. Una critica dei metodi usati dal proprio “maestro”, una giustificazione? Un esempio del tipo di lavoro che attende coloro che si avventurano in reportage a cavallo fra cronaca – vera o falsa – e politica? Onestamente non sapremmo rispondere ai quesiti. Ma un po' di malafede affiora senza dubbio, “mitigata” dall'uso sapiente della macchina da presa(quella vera, trattandosi pirandellianamente di un film nel film), da alcune “rigorose” sequenze dal tratto drammatico ed anche dalla buona prova offerta dagli attori: Philippe Leroy, Gabriele Tinti e Delia

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Boccardo. Un'opera che farà discutere il pubblico, oltre che i recensori, un'opera, quindi, almeno sotto questo aspetto non inutile. Ran, Gazzetta del Popolo, 01 Settembre 1967 “La realtà è noiosa, la bugia è divertente” spiega il protagonista di questo film, un regista in cerca di sensazioni negli angoli più remoti della Terra. Se questo è il suo “credo” non desta meraviglia che i “réportages” si svolgano con tutti i mezzi leciti e illeciti, brutalizzando quasi sempre la realtà con cui egli viene a contatto, distorcendo e amplificando artificiosamente la poesia di cui si nutre la natura. E’ un po' la storia, se vogliamo di tanti registi che si sono buttati sulla scia di Jacopetti producendo il deterioramento di un filone documentaristico per molti versi interessante. Ma Cavara, che pure è stato un collaboratore di Jacopetti, ha esplicitamente negato ogni riferimento al regista di “Mondo cane”. Il suo è un modo di fare del cinema nel cinema, che tuttavia non si sottrae al sospetto di un moralismo di comodo. Ma è anche, la sua, un'opera di notevole polemica sulla base di problemi quanto mai attuali. Quando il protagonista vorrebbe spingere un bonzo a darsi fuoco sullo sfondo di due amanti che si baciano, trova subito la scappatella morale; che male c'è se si mescola l'amore e la morte mentre nel mondo migliaia di persone combattono e si uccidono a vicenda? Forse per questi non troppo velati motivi pacifisti, “L'occhio selvaggio” ha ottenuto il più lungo e polemico applauso al recente festival di Mosca. Ma erano e sono consensi meritati. Come già si scrisse in quella occasione su queste pagine, il debuttante Cavara rivela una sapienza figurativa e una suspense cronistica non comuni; coadiuvato in ciò da un Leroy, puntuale, preciso e malizioso sul piano espressivo. Più sacrificata, invece, è Delia Boccardo, assai bellina, in una parte che nemmeno l'intervento di sceneggiatori quali Tonino Guerra, Fabio Carpi e Ugo Pirro è valso a rendere meno posticcia. Vice, La Notte, 01 Settembre 1967 Protagonista del cinemascope a colori L'occhio selvaggio è Paolo, un documentarista incallito che il mestiere ha reso cinico. Il suo slogan, “la realtà è noiosa, la bugia è divertente”, spiega perché egli non 328

abbia ritegno a ingannare lo spettatore mostrando non la verità intima o eterna di certi aspetti del mondo o dell'umanità ma le deformazioni effettistiche, magari crudeli e grandguignolesche, L'occhio del suo obiettivo è non “selvaggio” soltanto ma risentito e velleitario. Il regista Paolo Cavara, autore con Carpi del soggetto, sceneggiato poi con la collaborazione di Tonino Guerra e l'assistenza di Moravia, ha dato efficace consistenza al personaggio e lo fa agire in un racconto un poco lento nella prima metà, assai più teso nella seconda. Questa ambientata nel Vietnam, mostra Paolo pronto a sacrificare anche se stesso pur di dare le immagini sconvolgenti (e minuziosamente predisposte) d'un attentato. Per un miracolo egli sopravvive mentre soccombe la sua donna, che della spregiudicatezza professionale di Paolo era asperrima nemica. Realizzato con impegno in luoghi “caldi”, dove la vita e la morte degli uomini hanno una relativa importanza, L'occhio selvaggio alterna immagini lucidamente autentiche ad altre visibilmente “ricostruite” non trascurando in alcuni punti di mostrare il rovescio della medaglia di certo cinema documentaristico che ama piegare il documento a troppo palesi esigenze spettacolari. Il film, pur condannandoli, non si sottrae4 ad effetti simili a quelli di cui vuole sottolineare la falsità; l'assunto umano quindi difetta a più riprese, il cinismo di Paolo diventa di maniera, il racconto isterilendosi appare freddino nonostante l'efficacia interpretativa di Philippe Leroy, di Delia Boccardo e di Gabriele Tinti. Vice, La Stampa, 01 Settembre 1967 “La realtà è noiosa, la bugia è divertente”. All'insegna di questo slogan, lo spregiudicato regista Paolo Cavara si propone di documentare le effettistiche deformazioni di certi aspetti del mondo e dell'umanità, cogliendone l'attimo abnorme, sensazionalmente impressionante. Così dove non trova ciò che desidera, egli lo ricostruisce con ogni mezzo, anche a rischio della propria vita e di quella altrui. E dapprima organizza per un gruppo di inconsapevoli turisti, un safari con lo scopo di filmare la drammatica realtà di quelle persone stremate dalla sete e dalla marcia nel deserto e salvandole all'ultimo momento. Poi passa in Malesia e nel Vietnam, dove gli capita di architettare o provocare altri “servizi” sensazionali e sconvolgenti, quasi sempre predisponendone i particolari, perfino un attentato a un “night-club” 329

di Saigon, in cui ci rimette la pelle la donna che lo amava e lo odiava allo stesso tempo. L'occhio selvaggio vorrebbe essere un contrappunto critico a quel documentarismo grandguignolesco e a volte subdolo e contraffattore che abbiamo visto realizzato da Jacopetti in Mondo cane ma soprattutto in Africa addio. L'autore, Paolo Cavara, è stato collaboratore di Jacopetti e – l'idea non era priva di interesse – voleva dare corpo al personaggio di un regista senza scrupoli, deciso ad ogni costo a offrire immagini da far fremere lo spettatore, ma con un calcolato disprezzo d'ogni valore umano fino a rasentare il cinismo più brutale – selvaggio – e con mezzi quasi sempre menzogneri. Ma voleva anche profilare l'idea di una ricerca della verità “vera”, che alla fine diventa catarticamente più cocente e dolorosa, quasi mostruosamente paradossale, al limite della mistificazione (il pianto del protagonista per la morte dell'amica e, nello stesso tempo, il suo ordine all'operatore di girare la scena). Ma il discorso partito bene (anche se metricamente un po' lento), diviene poi involuto, da ambizioso velleitario, da concettoso patologico. Spettacolo a forti tinte, L'occhio selvaggio, scorre tuttavia, con un ritmo teso e drammatico, ricco di effetti a volte eccessivi, sfruttando bene lo sfondo esotico. Philippe Leroy alterna accenti credibili con altri di maniera, ben assecondato da Gabriele Tinti e da Delia Boccardo, oltre a Giorgio Gargiullo e Lars Bloch. Eccellente la fotografia in technicolor e techniscope. Santalucia ,Gazzetta del Mezzogiorno, 13 dicembre 1967 L’ ”occhio selvaggio” è quello della macchina da presa: L'obiettivo che scruta, che indaga, che rivela verità lontane e nascoste ma spesso anche le deturpa, le falsifica, indegnamente asservendole a secondi fini. L’ ”occhio” diviene così, oltre che selvaggio, anche bugiardo e ipocrita. Il regista di questo film, Paolo Cavara, fu stretto collaboratore di Jacopetti, insieme con Prosperi per “Mondo cane” e “La donna nel mondo”, ed è interessante vedere qui con quali intenti e con quale “tecnica” vennero girati quei film cosiddetti “documentari” e gli altri, innumerevoli, che, con eguali metodi e intendimenti, vennero realizzati dagli imitatori, nonché l'ultimo, e più clamoroso, lavoro dello stesso Jacopetti, “Africa addio” (nel quale però Cavara non mise mano). Giacché questo “Occhio selvaggio” vuole appunto denunciare – in una sorta di autocritica scaturita, si suppone, dai numerosi e pro330

vocatori “falsi” di “Africa addio” che ebbero anche strascichi giudiziari, purtroppo senza esito alcuno – questo modo “selvaggio” di fare del cinema, di contrabbandare per documento, per verità vissuta, la menzogna e l'eccitazione sado-masochistica. Lo dice chiaramente il protagonista del film, Paolo (non per nulla lo stesso nome di Cavara), un regista che gira i continenti con una piccola “troupe”, alla ricerca del sensazionale e del morboso, dell'allucinante e dello sconvolgente; se non lo trova, lo provoca, lo inventa. “la realtà – dice – è noiosa, la bugia è divertente”. E poi: bisogna assecondare gli istinti del pubblico. Bastano cinquanta metri di pellicola eccitante per fargli digerire gli altri duemila”. Questo Paolo (in cui può ravvisarsi, appunto lo Jacopetti, collega di Cavara) si inoltra nel Sahara con una jeep e, nonostante abbia con sé altra gente, fa in modo di bloccarla a cento chilometri nel pieno del deserto, sotto il sole a picco e senza acqua, per il gusto sadico (e per lui inebriante) di riprendere inquadrature di uomini vacillanti e di labbra screpolate. A Singapore, in una casa di cura per tossicomani, fa scorticare qualcuno di questi disgraziati a suon di randellate (e dietro lauto compenso) per dimostrare agli ignari “come si guarisce dalla droga”; ad Aden costringe un povero “sultano” ridotto al lumicino dalla miseria ad ingoiare farfalle e a simulare di cadere in letargo; a Saigon provoca la fucilazione di un Vietcong per fissare sulla pellicola gli attimi di angoscia. (Si ricorderà l'accusa mossa a Jacopetti di aver orchestrato, per “Africa addio”, l'esecuzione di tre ragazzi mulelistii da parte dei mercenari di Ciombé). Un cinema fatto di colpi allo stomaco, di interessate e ciniche contraffazioni; un cinema tecnicamente abile quanto orrido e ripugnante. Purtroppo Cavara, che ha il merito di aver posto sotto accusa questo cinema e anche se stesso, non ha la forza penetrante, insinuante a astuta, di coloro a cui strappa la maschera. Il suo film parla spesso chiaro, ma morde poco. E rischia, questo il guaio di somigliare – per quanto va, sia pure con altri propositi, via via mostrando – ai modelli aborriti. L'”occhio selvaggio”, evidentemente, non è facile da raddrizzare. E i favori del pubblico sono sempre in causa. Franco Colombo, Eco di Bergamo, 20 Settembre 1967 Un regista può piegare la realtà? Peggio, può superarla – inventando – per il suo infernale obiettivo? Tutti ricordano le polemiche a pro331

posito dell'ultimo film di Jacopetti “Africa addio”. Ora, Paolo Cavara, che è stato al fianco di Jacopetti, ha messo al centro del suo film proprio un regista senza freni, che fa di tutto perché le immagini da lui riprese siano sempre più da choc. Ed eccolo in un deserto a documentare orrori autentici o provocati; ma poi l'esaltazione lo degrada. Non è più un regista, sia pure discutibile, e quando la sua donna gli muore accanto, lui grida all'operatore: “via, riprendi questa scena”. A non tener conto di questo difetto di fondo, il film ha scatto ed inventiva. Il protagonista piuttosto monotono è Philippe Leroy. Vice, Corriere d’Informazione, 02 Settembre 1967 Cinismo, insensibilità, calcolo, disprezzo di qualsiasi valore umano, esaltazione dell'”io” posto sul piano della più spiccata presunzione derivante da una sorta di filosofia secondo la quale l'individuo non è altro che un semplice oggetto di si può e si deve disporre a piacimento per la propria utilità, i motivi predominanti di questo film e che informano il carattere del personaggio principale. Questi, Paolo è un regista, in giro per il mondo con tre compagni di lavoro, alla ricerca di spunti eccezionali per la realizzazione di un documentario e il desiderio di filmare scene di grande effetto è tale che non esita egli stesso a creare le condizioni ideali purché l'accostamento alla realtà sia pressoché perfetto. Così in Africa dove, condotti in pieno deserto i suoi uomini, una donna e una coppia di sposi, invitati con il pretesto di una battuta di caccia, costringe il gruppo ad una estenuante marcia di ritorno di due giorni al solo scopo di riprenderli sfiniti e assetati come veri e propri dispersi cui non rimane che attendere la morte, sin quando un'auto predisposta secondo il piano, non verrà a trarli d'impaccio. Degli inconsapevoli attori, la giovane sposa, Valentina, accende la fantasia di Paolo che decide così di toglierla al marito per servirsene non soltanto sotto il profilo sessuale quanto, e soprattutto, come elemento di contrasto nelle scene che egli intende girare in Malesia e nel Vietnam. La donna cede, vinta dalla brutalità e dalla forza di carattere dell'uomo e lo segue come ipnotizzata, reagendo solo debolmente alle sue crudeli manifestazioni. Nell'animo di Paolo pietà e amore sono assolutamente inesistenti al punto che durante le riprese di un attentato, allorché Valentina rimarrà uccisa travolta da una trave, egli pur consapevole di ciò che ha perduto, non esiterà ad invitare 332

l'esterrefatto operatore ad inquadrarlo chino sul cadavere. Se lo scopo che si proponeva il soggettista era quello di mostrare fino a qual punto un individuo possa rivelarsi impietoso, esso risulta ampiamente raggiunto se non superato in eccesso. Ed è forse proprio per questo eccedere che il film perde di valore sino a risultare, in molti casi, e proprio laddove si è preteso renderlo maggiormente concettuoso, involuto. Insomma un Paolo Cavara più misurato avrebbe senz'altro reso di più. Degli interpreti Philippe Leroy dà al personaggio di Paolo la carica imposta dalla regia, mentre più convincente appare Delia Boccardo. Accanto ai due Gabriele Tinti, Giorgio Gargiullo e Lars Bloch. Colore. Vice, Il Messaggero, 01 Settembre 1967 La cosiddetta civiltà dei consumi strumentalizza anche l'orrore, anche il dolore, anche la morte per farne spettacolo, per potenziare e rinnovare costantemente i prodotti dell'industria culturale: in questo modo la verità viene tradita, la mistificazione gabellata per realtà, come in “Africa addio”, esempio ormai classico di un certo tipo di cinema, che sfrutta sapientemente, sotto il profilo tecnico, ma fraudolentemente sotto quello storico morale, le infinite possibilità di suggestione della macchina da presa. Paolo Cavara appunto, ci mostra l'itinerario mentale e pratico che percorre una specie di Jacopetti indemoniato che vuole donare attraverso riprese “dal vero” al pubblico cinico e feroce delle odierne platee, il brivido del ribrezzo della paura, dell'assassinio, del sadismo. Costui che è impersonato assai bene da Philippe Leroy, insegue tutto ciò che è abnorme attraverso i continenti senza arrestarsi davanti alle crudeltà più rivoltanti, coinvolgendo in questa repellente e sanguinosa ricerca i propri compagni di lavoro, sino al punto di utilizzare anche la morte della donna che ama per ricavarne una sequenza impressionante. Il film è spietato in questo senso, è una sintesi di quanto alcuni recenti documentari ha sadicamente offerto al pubblico (da “Mondo cane” ad “Africa addio”), però non riesce a suggerire una catarsi, un recupero qualsiasi, anche se alla fine il feroce personaggio piange sulla inquadratura che si appresta a riprendere, perché Cavara pur disprezzando ciò che rappresenta non si mantiene sufficientemente distaccato dalla materia che tratta. Si comporta insomma, come il pubblico della civiltà dei consumi 333

che pone sotto accusa: pecca, infatti di masochismo e sadismo al medesimo tempo, per cui ogni scena del suo film sottintende una specie di impietoso compiacimento che tende a coinvolgere gli spettatori, a farli quasi correi di tanto orrore. In questo modo la denuncia si liquefà in una paradossale e moralmente ammalata esibizione del “male” e del “dolore” in cui la polemica diventa indiretta e quindi ambigua anche perché non sorretta da un'ideologia precisa. Come sempre avviene in queste produzioni, che sono proprio l'esempio tipico di ciò che a parole vorrebbero condannare (fanno l'irritante e scandaloso effetto di chi bestemmia per inveire contro i bestemmiatori), la tecnica narrativa è buona, gli effetti cromatici efficaci, la recitazione oltre che del protagonista anche di Delia Boccardo, Gabriele Tinti e dei minori centrata. Il che in definitiva, aggrava la posizione moralmente e culturalmente negativa del film. V.B., L' Avvenire D' Italia, 08 Settembre 1967 In quanto all'Italia, non le fanno onore né il premio”per la migliore commedia” ricevuto grazie alla farsa di Dino Risi Operazione San Gennaro, né il successo di simpatia riportato da L'occhio selvaggio di Paolo Cavara. Quest'ultimo poteva fare a meno di scomodare un gruppetto di sceneggiatori di buon nome (Carpi, Guerra e Moravia) per un racconto dalle ambizioni ambigue, oltre che mal strutturato da un regista di buona pratica, fino a ieri soltanto nel campo documentaristico. Dopo essere stato “aiuto” di Jacopetti per Mondo cane e La donna nel mondo, Cavara aveva realizzato nel 1963 il “film-inchiesta” I malamondo tentando di imporre alla formula tracciata dal “maestro” un carattere più impegnativo (ricordiamo che Bertrand Russel in persona introduceva l'indagine sugli squilibrati stati d'animo di certa gioventù europea nata dalla guerra), ma senza andare molto oltre l'enunciazione del tema. Di analogo velleitarismo risente L'occhio selvaggio che, abbozzando il ritratto di un cinico regista teso alla ricerca ad ogni costo di immagini sconvolgenti, senza rinunciare a predisporle, se necessario, o a sacrificare per esse i valori più autentici vorrebbe essere una condanna di certo “documentarismo a sensazione” ben noto specialmente in Italia; mentre invece, a causa del sommario disegno psicologico, il film si risolve in un raccontino schematico, il

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quale non evita di speculare, alla fin fine, sugli stessi effettismi che vorrebbe deplorare. Leonardo Autera, Bianco e Nero, 1967 Paolo Cavara, documentarista e autore di un lungometraggio – inchiesta (I malamondo) è co-autore, con Gualtiero Jacopetti, di Mondo cane e La donna nel mondo. Da solo con la collaborazione di Tonino Guerra pre la sceneggiatura, ha girato questo Occho selvaggio che si aggancia con perentorietà, ma in modo polemico, ai due film Jacopettiani ora citati e a tutta la concezione “jacopettiana” del cinema in generale. Il protagonista del film è infatti un regista cinematografico tutto teso al “réportage” d'effetto, da colpo nello stomaco, in giro per il mondo alla ricerca del sensazionale da dare in pasto ad un pubblico mai sazio, secondo la sua comoda filosofia, di sensazioni violente, Le caratteristiche del personaggio della finzione sono molto vicine a quelle del personaggio in carne ed ossa, cioè a quel Jacopetti che ha firmato pseudo-documentari lungometraggi tutti incentrati sul basso sensazionalismo, e nei quali anche Cavara ha la sua parte di responsabilità. Quest'ultimo naturalmente dichiara che non si è per nulla ispirato al suo ex-socio, ma i risultati sono chiari. E' chiaro anche che la cosiddetta trama del film è poco più di un pretesto romanzesco, e che il vero soggetto del racconto è la concezione distorta che ha il protagonista del cinema come veicolo non di conoscenza o di sano divertimento, ma di sadismo a pagamento. Eccolo, questo Paolo di professione regista, imbastire in Africa situazioni in cui immischia estranei e se stesso, eccolo nel Siam inventare situazioni che nella realtà non trovano riscontro, eccolo nel Vietnam intervenire sui fatti (le fucilazioni dei Vietcong) ed esporsi ad avvenimenti che compromettono non soltanto la gente che gli è estranea, ma i suoi stessi compagni e la sua stessa donna. Quando costei muore, vittima di un'ultima impresa all'insegna del cinismo spinto alla follia, Paolo si fa riprendere mentre piange sul corpo di lei, in un finale ambiguo: piange perché capisce finalmente la portata di ciò che fa, o piange perché sullo schermo, gli spettatori si emozioneranno? Un soggetto dunque enormemente interessante, ma che tuttavia manca di progressione drammatica, e propone un caso-limite, un personaggio mostro: difficile credere che un essere pensante possa giungere a tali eccessi. Questo finale del disa335

stro in cui è coinvolta la donna, per esempio, ripreso dall’ ”occhio selvaggio” della macchina su comando del protagonista, è francamente grottesco. La dimostrazione ne viene così alquanto compromessa senza dire dei grossi difetti di struttura del film a delle sue soluzioni di comodo (la vicenda della donna attratta e respinta ad un tempo dal protagonista) o di difficile credibilità (L'attentato ad ora fissa). Ma nondimeno L'occhio selvaggio è un film stimolante e piuttosto originale in quanto in esso per la prima volta è lo stesso cinema a giudicare quel tipo di cinematografo sado-masochista che ha trovato nel documentario lungometraggio di questi ultimi anni la sua affermazione più vistosa (per passare poi, almeno in parte, nel “western all'italiana”) inserendosi così nella tendenza tutta moderna del cinema che assume se stesso a materia di trattazione, non nel senso “hollywoodiano dei termini – luci ed ombre dell'attività e dell'esistenza privata dei cineasti, anche se come abbiamo detto non mancano concessioni, nel film di Cavara, a questo tipo di invenzioni – ma in quello più vigoroso dell'autore di cinema che si interroga sull'essenza del mezzo da lui usato per esprimersi. Qui, appunto, il regista del documentario si fa protagonista, e trascendendo dai significati che il film può avere occasionalmente – voglia essere o no un attacco diretto a Jacopetti – L'occhio selvaggio diventa una presa di posizione sulle possibilità espressive della macchina da presa e, di conseguenza, sull'etica di colui che la impugna. “L'uomo con la macchina da presa” – si chiamava un film di Dziga Vertov, il padre del cinema-verità”,, colui che sosteneva l'onnipotenza dell'obiettivo rispetto ad una realtà che doveva essere accettata così com'è, senza diaframmi, ma i cui film – basati su un montaggio personalissimo e vigorosamente costruttivo – contraddicevano il “miracolismo” della macchina. Il “cine-occhio” è sempre lo strumento di una volontà , che deve essere anzitutto rispettosa della realtà, anche quando vuol restare vergine, “selvaggio”; e lo dimostra un film americano visto a Venezia nel 1959 che si intitola proprio, prima della fatica del Cavara, The savage eye, ossia “L'occhio selvaggio”, registi gli indipendenti Sidney Meyers, Ben Maddow e Joseph Strik. E' la storia di un “pedinamento” per le vie di una grande città, retto da una specie di “pietosa neutralità” che dice come l'uomo con la macchina da presa possa e debba essere, anzitutto uomo. Con, s'intende, le qualità di uomo. A questo si riduce, in definitiva, l'etica di ogni professione. Ermanno Comuzio, Cineforum n°70, 1967 336

Ricordate Charlie Tatum, il reporter protagonista dell'Asso nella manica di Billy Wilder? Era un personaggio cinico, spietato, disumano, che non esitava a giocare con la vita altrui pur di “costruire” la notizia ad effetto (nel caso specifico Tatum lasciava morire un messicano, rimasto sepolto sotto la volta franata di una vecchia miniera, per sfruttare sino in fondo il diritto all'”esclusiva”). Televisione, cinema-verità, inchieste filmate. Si scrive sempre di meno. Oggigiorno molti giornalisti hanno abbandonato la penna per la macchina da presa, ma anche sostituendo l'immagine alla parola la loro tecnica rimane la stessa adottata da Tatum: quando la notizia non c'è allora la si fabbrica, indipendentemente dal fatto di calpestare la verità, l'etica professionale, la dignità e addirittura la vita umana. Ne deriva quel tipo di cinemamenzogna col quale, purtroppo, abbiamo fatto conoscenza in questi ultimi tempi; quel cinema che, tutto teso alla ricerca di effetti sensazionalistici, si basa esclusivamente sull'artificio e sulla mistificazione. Il “cinema-menzogna” è l'antitesi del “cinema-verità”, anche se indirettamente si riallaccia a questa tecnica particolare. Secondo la teoria di Dziga Vertov la macchina da presa doveva essere lasciata completamente libera, libera di riprendere oggettivamente la realtà, così come questa si presenta a occhio imparziale. Ma la realtà è noiosa, mentre la bugia è interessante. E allora sotto con l'inganno: ecco che la verità viene distorta, le scene vengono ricostruite, la realtà manomessa pur di offrire a spettatori in vena di emozioni violente una visione scioccante, orrida, crudele dei fatti. All'occhio oggettivo della macchina da presa si sostituisce in tal modo l'occhio soggettivo dell'autore; alla visione naturale delle cose si sostituisce la visione selvaggia di una finzione creata appositamente per far colpo. Gioco pericoloso, tuttavia, che può arrivare a tragiche conseguenze se si tira troppo la corda (e infatti, nell'Asso nella manica, il messicano muore perché Tatum vuole trascinare alle lunghe il suo grosso colpo giornalistico). Ho fatto questa premessa per meglio inquadrare il film L'occhio selvaggio(da non confondersi con l'omonimo di Ben Maddow, Sidney Meyers e Joseph Strik) diretto da Paolo Cavara, presentato nel mese di luglio al Festival di Mosca e uscito ora sui nostri schermi. Questo di Cavara è un film personale e duramente polemico. Personale in quanto, pur raccontando una storia a soggetto, Cavara ci rende partecipi di esperienze in un certo senso vissute; polemico perché si 337

mette in una posizione critica nei confronti di questo giornalista per immagini. Già collaboratore di Jacopetti in Mondo cane e La donna nel mondo, autore di I malamondo (film-inchiesta sulla gioventù europea), con L'occhio selvaggio Cavara è rimasto fedele alla formula del giornalismo cinematografico e del reportage pur raccontando una storia a soggetto. Ha raccontato infatti una vicenda portandovi le sue vicende personali e guardandola dal di dentro; ha realizzato un'opera in cui si fa vedere come nascono e come vengono girati certi film-inchiesta; ha denunciato certi sistemi di realizzazione, ha condannato un ben individuato filone e la sua anima nera. Autoconfessione o complesso edipico? Forse un po' di tutto. Paolo (tale non è soltanto il nome dell'autore del film, ma anche quello della vicenda impersonato da Philippe Leroy) è appunto un regista senza scrupoli che gira il mondo alla ricerca di situazioni orripilanti e crudeli. Cinico fino ad essere disumano, quando non si imbatte nella sensazione forte Paolo non esita a provocarla ,talora perfino a crearla egli stesso. E' un tipo ambizioso e arrivista, che pur di raggiungere il suo scopo non indietreggia di fronte a qualsiasi ostacolo, che non fa distinzioni fra lavoro e sentimenti: sfrutta cose e persone sempre a proprio tornaconto. Così non esita a portare nel deserto africano un gruppo di conoscenti e fingere di aver finito benzina e acqua per riprendere i loro volti disperati; a pagare un gruppo di infermieri perché bastonino alcuni vecchi oppiomani; a riprendere la fucilazione di un partigiano vietcong e a far spostare il condannato sullo sfondo di un muro bianco perché la ripresa sia effettuata nelle migliori condizioni di luce; a filmare un attentato, di cui è stato preventivamente informato, in un locale di Saigon. Anche nella vita privata, questo essere disumano si lascia governare dal più disgustoso cinismo; tormenta una giovane donna, la strappa alla pace coniugale, la trascina nelle sue imprese e quando questa, alla fine, rimane travolta dalle macerie e muore nell'attentato al locale notturno di Saigon versa una lacrimuccia, sì, ma subito dopo ordina all'operatore di riprenderli in primo piano. Il pubblico, il suo pubblico, avrà così un'altra sensazione forte.... e questa volta senza la fatica di ricostruirla. E' chiaro che Cavara si rivolta contro il suo stesso maestro e indirizza una aspra critica allo “jacopettismo”, tuttavia l'assunto del film è grossolanamente moralistico nel suo facile schematismo, nella sua scontata prevedibilità, nel suo rozzo e forzato manicheismo di stampo populista e tutto ciò a causa di una sceneggiatura che denuncia un'impostazione eccessivamente lettera338

ria (e non per nulla Moravia è uno degli autori) e un'intelaiatura piuttosto semplicistica nel disegno dei caratteri dal taglio acerbo e psicologicamente inconsistente. Nettamente migliore la parte documentaristica, nella quale Cavara ha avuto modo di sfruttare a fondo le sue ottime qualità di cinereporter. Fra gli interpreti, oltre al già ricordato Leroy, Delia Boccardo e Gabriele Tinti. Quest'ultimo nei panni dell'operatore, è il personaggio più convincente e credibile di tutta la storia. Enzo Natta, Rivista Del Cinematografo N°11, 1967 La cattura (1969) TITOLO ORIGINALE: La cattura PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 1969 DURATA: 97' REGIA: Paolo Cavara; SOGGETTO e SCENEGGIATURA: Paolo Cavara; PRODUTTORE: Richard Irwin Marx e Samuel Marx; CASA DI PRODUZIONE: Francesca Film (Roma), Jadran Film (Zagabria); FOTOGRAFIA: Tomislav Pinter; MONTAGGIO: Carlo Reali; MUSICHE: Riz Ortolani; SCENOGRAFIA: Saverio D'Eugenio; INTERPRETI E PERSONAGGI:David McCallum (Sergente Stephen Holmann),Nicoletta Machiavelli (Anja Kovach), John Crawford (Keller), Lars Bloch (Alexei Soloviev), Demeter Bitenc (Eisgruber). La critica […]“La cattura” (tematicamente un curioso incrocio tra “il quarantunesimo” di Ciukrai e “Flashback” di Andreassi) non si differenzia in nulla dagli schemi di un normale prodotto di consumo e ne ha anzi tutta la banalità e la falsità. Ma almeno si discosta dai due precedenti del regista, ed è in questo senso da considerarsi un passo avanti. […] Avanti! 4 settembre 1969 I protagonisti sono due: Holman e Anja, in soldato tedesco e una partigiana che vicendevolmente si danno la caccia in una gola nevosa. 339

Quando il tedesco riesce a catturare la ragazza la guerra è passata oltre. I due si trovano allora in questo deserto di neve senza più avere veri motivi per essere nemici e con la possibilità di conoscersi. Al di là di ogni ideologia o fazione si viene così a creare tra loro un rapporto d’amore favorito dalla solitudine e dalla necessità di sopravvivenza… Il film non è un’analisi degli schemi della guerra tra tedeschi e partigiani nel corso del secondo conflitto mondiale, ma piuttosto una denuncia contro la violenza in genere. Il massacro provocato dalla dittatura tedesca, massacro orribile e ingiusto che già la storia ha provveduto a classificare, nel film è dato per scontato. Le vicende si svolgono in un ambiente volutamente impreciso e immaginario e la guerra è vista come simbolo di quella violenza che non ha avuto termine con la caduta del nazismo ma tuttora aleggia portando gli uomini ad armarsi l’uno contro l’altro. Giornale d’Italia, Carlino sera, 21 Maggio 1969 La tarantola dal ventre nero (1971) TITOLO ORIGINALE: La tarantola dal ventre nero PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 1971 DURATA: 100' REGIA: Paolo Cavara; SOGGETTO: Marcello Danon; SCENEGGIATURA: Lucille Lukas; PRODUTTORE: Marcello Danon; CASA DI PRODUZIONE: Da.Ma Film (Roma), P.a.c. (Parigi); FOTOGRAFIA: Marcello Gatti; MONTAGGIO: Mario Morra; MUSICHE: Ennio Morricone; SCENOGRAFIA: Piero Poletto; INTERPRETI E PERSONAGGI: Giancarlo Giannini (Comm. Tellini), Claudine Auger (Laura), Barbara Bach (Jenny), Silvano Tranquilli (Paolo Zani), Stefania Sandrelli (Alba Tellini), Barbara Bouchet (Maria Zani), Anna Saia (amica di Maria Zani), Annabella Incontrera (Mirta Ricci), Eugene Walter (Ginetto), Rossella Falk (Sig.ra Franca Valentino) La critica Anche Paolo Cavara si è immesso nel filone dei gialli all’italiana, caratterizzati nel titolo dal riferimento a qualche più o meno perico340

loso animale e nel contesto da una buona dose di spettacolare violenza […]. Ci si è immesso, comunque, con l’onestà che gli è propria, scegliendosi una storia assai concitata e galoppante, al cui servizio ha posto la migliore tecnica del brivido senza cercare di camuffare un ovvio prodotto di consumo dietro arbitrarie maschere d’impegno artistico.[…] Il principale difetto della sceneggiatura è che di pari passo con le imprese del sadico anche la schiera dei personaggi maschili si assottiglia per morti di varia origine ma tutte violente: sicché l’unico maschio sopravvissuto alla fine è ovviamente il colpevole. La ben studiata regia tiene però ugualmente viva la suspense fin dove è possibile, con l’aiuto della fotografia di Marcello Gatti, delle scenografie di Piero Poletto, delle musiche di Ennio Morricone. […] Guglielmo Biraghi. Il Messaggero 13 novembre 1971 Paolo Cavara, regista di maggiori ambizioni, cerca di salvare il salvabile di una storia “gialla” di non eccelse qualità avviluppandola in un involucro formale elegante, spostando la macchina da presa ora sui moderni edifici ed oggetti di una città di oggi, ora nelle sale di un raffinato istituto di bellezza, ora in una boutique carica di manichini di cera, e cercando di offrire qualche umana cadenza al commissario, interpretato con sicurezza da Giancarlo Giannini. […] A. Sc. Paese sera Los amigos, (1972) TITOLO ORIGINALE: Los amigos PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO:1972 DURATA: 91 min REGIA: Paolo Cavara; SCENEGGIATURA: Lucia Brudi, Paolo Cavara, Harry Essex, Augusto Finocchi, Oscar Saul; PRODUTTORE: Joseph Janni, Luciano Perugia; CASA DI PRODUZIONE: Compagnia Cinematografica, Idea Film; FOTOGRAFIA: Tonino Delli Colli; MONTAGGIO: Mario Morra; MUSICHE: Daniele Patucchi; SCENOGRAFIA: Franco Calabrese;

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INTERPRETI E PERSONAGGI: Franco Nero (Johnny Ears), Anthony Quinn (Erastus 'Deaf' Smith), Pamela Tiffin (Susie the hooker), Ira von Fürstenberg (Hester McDonald Morton), Adolfo Lastretti (Williams), Franco Graziosi (Gen. Lucius Morton), Antonino Faà di Bruno (The Senator), Renato Romano (J.M. Hoffman) La critica […] A parte la sequenza finale, impostata con gli ingredienti dell’esagerazione, tipico degli eurowestern, il film, dato il livello medio di opere del genere, non si può considerare privo di una sua sobrietà, pur non andando al di là del prodotto di routine. Risulta spesso divertente la prestazione di Anthony Quinn che interpreta la parte di un agente sordomuto. Una mimica di buona efficacia che illumina col suo risvolto umoristico la zona grigia della vicenda. M. Cipolla, Il lunedì, 28 maggio 1973 Il tema dell'amicizia ricorrente nei film di Paolo Cavara, permea interamente questo western (o più precisamente southern). [...] Los amigos descrive l'impresa che una sceneggiatura non molto peregrina anima di eventi tipici del film d'avventura in frontiera. [...] L'andamento semplicistico degli eventi, risolti spesso in modo corrivo, non impedisce al film di raggiungere una sua toccante dignità psicologica, specialmente quando, tra una sparatoria a e l'altra, Cavara si china sui suoi protagonisti a studiarne le reazioni reciproche. Sono, questi i momenti più fini del racconto, che per quanto esile non manca di poesia. [...] Guglielmo Biraghi, Il Messaggero, 31 Marzo 1973 Paolo Cavara in questo "Los Amigos" ha voluto contrapporre una volta di più l' "eroe positivo" (con due facce: quella severa di Erasmus [sic!] il sordomuto e quella pungente di Johnny tuttorecchie) all' "eroe negativo" (un laido generale che, con l'aiuto di certi consiglieri tedeschi, cerca di sottrarre lo stato del Texas al resto degli Stati Uniti). Naturalmente Erasmo e Johnny hanno la meglio sul prepotente nemico; e, significativamente, Cavara ha puntato sulla complemen342

tarietà dei due (l'uno presta all'altro i sensi che gli mancano), nonché sull'amicizia - non priva di vene misogine - che li lega per la pelle. Ma, appena enunciato il tema dell'amicizia virile, Cavara lo ha lasciato isterilire e cadere, forse perché un accettabile sviluppo dei personaggi "buoni" era legato a quello del "cattivo" (invece bloccato nella sua convenzionale scelleratezza) e a quello delle figure femminili (che si limitano a mostrare un tantino di pelle). Così anche il sordomuto e tuttorecchie restano nella convenzione e i rapporti individuali e lo spessore ideologico del prodotto non esorbitano dai limiti del fumetto. Le eventuali qualità del regista vanno dunque cercate altrove: vale a dire in un formalismo accentuato, ma, tutto sommato, assai poco stimolante. [...] E.M. Avvenire, 4 Aprile 1973 [...] Confezionato con molta tecnica e poche vere idee (il protagonista muto, la sua misoginia, ecc...) il film ripercorre ogni sentiero abituale del genere (vedi le case di tolleranza tornate di moda). Paolo Cavara cerca magari di ironizzare molte situazioni, ma resta fedele alla tematica dello spettacolo sopra ogni altra cosa, sfociando inevitabilmente verso la noia. Anthony Quinn, tutto sommato, meritava miglior sorte. L.P., L'Unità, 4 Aprile 1973 L'alluvione degli eurowestern s'è placata da tempo. Ma qualche prodotto solitario continua a giungere sugli schermi: segno che certi ingranaggi, magari per inerzia, girano ancora. Qui a manovrarli è il Paolo Cavara de "L'occhio selvaggio" e "La cattura". Qualche ambizione affiora anche stavolta, ma intorno è la spessa coltre di polvere che ricopre ormai temi, formule ed espedienti spettacolari. [...] Scontato il motivo dell'amicizia uno dei cardini del western casalingo - e quello della prostituta buona - altro dato fisso, o quasi - anche la trovata dell'eroe sordomuto (qui impersonato dal solito, rispettabile Anthony Quinn) ha già i suoi precedenti, come ne "Il grande silenzio" di Corbucci. P.P., Il Secolo XIX, 23 Maggio 1973

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[...] Per quanto non nuovo, il motivo del duetto, legato da affetto e da complementarietà, in una missione eroica si sarebbe prestato ad uno sviluppo interessante. Ma il regista, forse, ha avuto paura del tema dell'"amicizia" così poco consonante con il clima di violenza imperante nella società e sugli schermi. Vi ha lasciato solo qualche spunto, troppo poco per parlare di "momenti poetici" e troppo poco per rivalutare uno spettacolo in cui dal punto di vista tecnico sono troppo numerose le contaminazioni di generi banali come il western-spaghetti e troppo vistose le scene di sanguinosa truculenza. Anonimo, Osservatore Romano, 24 Maggio 1973 L’uomo e la natura. Il delta del Danubio (1973) TITOLO ORIGINALE: L’uomo e la natura.Il delta del Danubio PAESE DI PRODUZIONE: ITALIA Anno: 1973 Regia: Paolo Cavara per sette documentari a tema prodotti e realizzati per la Rai Virilità (1973) TITOLO ORIGINALE: Virilità PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 1973 DURATA: 92 min REGIA: Paolo Cavara; SOGGETTO: Gian Paolo Callegari; SCENEGGIATURA: Giovanni Simonelli, Gian Paolo Callegari; PRODUTTORE: Carlo Ponti; CASA DI PRODUZIONE: Compagnia Cinematografica Champion; FOTOGRAFIA: Claudio Cirillo; MONTAGGIO: Mario Morra; MUSICHE: Daniele Patucchi; SCENOGRAFIA: Lucio Lucentini; INTERPRETI E PERSONAGGI: Turi Ferro (Vito La Casella), Agostina Belli (Cettina), Marc Porel (Roberto La Casella), Tuccio Musumeci (Avv. Fisichella), Anna Bonaiuto: (Lucia), Geraldine Hooper: (Pat), Maria Tolu (Illuminata) La critica Il gioco di preferire un disonore piuttosto che un altro, nel clima folclorico dei miti siciliani, è forse la trovata migliore del film. La commedia, però, che le fa da supporto – scritta da Gian Paolo Callegari e 344

da Gianni Simonelli – esita troppo spesso sui toni cui affidarsi e se per un verso sembra optare per il gioco paesano, nell’ambito di una parodia tutta scoperta ma allegra di facce e tradizioni vernacole, per un altro verso, lasciandosi invischiare dal tema Tristano e Isotta, abbocca in più punti all’esca del sentimentalismo, sfiorando inutilmente il dramma e il melodramma. Paolo Cavara, tuttavia, nonostante i film “seri” diretti finora (L’occhio selvaggio, La cattura), rifacendosi alle satire aspre e gustose di certe sue inchieste filmate (La donna nel mondo, I malamondo), si è sforzato di porre riparo a queste incertezze puntando apertamente sul “grottesco”: con deformazioni pungenti, con facezie, con graffi e, soprattutto, con un pirandellismo messo intenzionalmente sossopra da una ventata di follia in cui molto, se non tutto, si trasforma in celia umorosa, in caricatura. Le situazioni languide, i personaggi un po’ queruli si svuotano così, in più momenti, del loro spessore negativo grazie a un piglio burlesco che tende a ridicolizzare le zitelle vogliose, le processioni in maschera, i notabili, i politici, i maldicenti di paese; ed anche con furbeschi ammiccamenti, quel cinema italiano minore che da tempo li ha fatti oggetto delle proprie farse. Certo, molti scompensi narrativi sussistono e le esitazioni sui toni da assumere non sono sempre fugate, ma alla lunga lo scherzo prevale e finisce per imporsi, senza fatiche eccessive, ai più divertiti consensi del pubblico. Come gli autori volevano. Al personaggio che preferisce esser rispettato come padre piuttosto che come marito dà corpo, con solida consistenza, Turi Ferro; meno efficace nei momenti accigliati in cui calca troppo la mano, esagerando effetti, colori, felicissimo invece nella commedia franca ed aperta che domina con disinvoltura, superando gli schemi tradizionali della recitazione dialettale a favore di una bonaria ironia costruita su doti tutte personali, sapientemente espressive. […] La fotografia di Claudio Cririllo, annebbia a bella posta la solarità siciliana con immagini pastose in cui cose e persone assumono spesso contorni sfumati, ovattati. Gian Luigi Rondi Il Tempo. Anno XXXI. n. 24 Il lumacone (1975) TITOLO ORIGINALE: Il lumacone PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 1974 345

DURATA: 94 min REGIA: Paolo Cavara; SOGGETTO: Paolo Cavara e Ruggero Maccari; SCENEGGIATURA: Ruggero Maccari; PRODUTTORE: Italian Internetional; FOTOGRAFIA: Arturo Zavattini; MONTAGGIO: Antonio Siciliano; MUSICHE: Daniele Patucchi; SCENOGRAFIA: Gianni Polidori INTERPRETI E PERSONAGGI: Turi Ferro (Gianni Rodinò), Agostina Belli: (Elisa), Ninetto Davoli (Ginetto),Francesco Mulè (Pietro), Enzo Robutti, Franco Bracardi La critica Fa piacere che Paolo Cavara, dopo la “caduta” di Virilità, abbia ritrovato una vena disinvolta e garbata per questa commedia scritta su misura con lo sceneggiatore Ruggero Maccari, per l’attore catanese Turi Ferro, qui più che mai sfaccettato e convincente. Il lumacone del titolo è un anziano cuoco siciliano trapiantato a Roma. Lui stesso si è appioppato il nomignolo in relazione alle corna, che gli ha messo sul capo la moglie fedifraga che lo ha poi abbandonato e per l’attaccamento al misero locale in cui vive e che spartisce con un ladruncolo. La sua infelice esistenza la trascina soffocando nel vino i tristi ricordi e prestando ai vicini la sua arte culinaria e qualche altro piccolo servigio. Intanto sogna di poter acquistare un vagone ristorante in disarmo da collocare nel cuore di Roma trasformato in eccentrica trattoria. Come in una favola, il sogno infine si realizzerà, allorché Gianni, il cuoco, trovato il coraggio di cancellare definitivamente il ricordo della moglie, avrà riacquistato fiducia in se stesso grazie alla sincera amicizia di cui si sente circondato. Il soggetto non è molto più di un canovaccio, ma esso è arricchito da una somma di spunti, di annotazioni, di gustosi caratteri marginali, che rendono il racconto svelto e gradevole in cui i momenti di felice umorismo si alternano ad altri più teneri e delicati. Le doti e il garbo del regista si rivelano in varie occasioni, quali la divertente riunione degli alcolisti, lo spogliarello della ragazza del ladruncolo in favore dei carcerati, la traversata del vagone per le strade di Roma.. […] L. A., Corriere della Sera ...E tanta paura (1976) TITOLO ORIGINALE: ...E tanta paura PAESE DI PRODUZIONE: ITALIA 346

ANNO: 1976 DURATA: 98 min REGIA: Paolo Cavara; SOGGETTO: Paolo Cavara; SCENEGGIATURA: Paolo Cavara, Bernardino Zapponi, e la partecipazione di Enrico Oldoini; PRODUTTORE: Ermanno Curti, Guy Luongo, Rodolfo Puttignani; CASA DI PRODUZIONE: Centro Produzioni Cinematografiche Città di Milano, G.P.E. Enterprises; FOTOGRAFIA: Franco Di Giacomo; MONTAGGIO: Sergio Montanari; EFFETTI SPECIALI: Giovanni Cappelli; MUSICHE: Daniele Patucchi; SCENOGRAFIA: Franco Fumagalli; INTERPRETI E PERSONAGGI: Corinne Cléry (Jeanne), Michele Placido (Isp. Gaspare Lomenzo), Tom Skerritt (ispettore capo), Eli Wallach (Pietro Riccio), Quinto Parmeggiani (Angelo Scanavini), Edoardo Faieta (Fulvio Colaianni [Eddy Fay]), John Steiner (Hoffmann), Jacques Herlin (Pandolfi), Enrico Oldoini (Assistente di Lomenzo) La critica Il giovane questurino non è un superman, né un duro, né un pistolero, né un mostro di deduzione. È un giovanotto che ha i gusti di molti giovani d’oggi. La sua virtù maggiore è quella che Prezzolini mette al vertice delle motivazioni umane: una sana e irresistibile curiosità. Lomenzo si ficca nell'indagine senza strafare, ci rimugina, ne viene a capo. Deve intrufolarsi non soltanto nella “mala” di basso e alto bordo, ma anche competere con le organizzazioni di protezione personale, cui i ricchi ricorrono con larghi mezzi… Una speciale immagine merita Paolo Cavara (Mondo cane), che vediamo come un abilissimo preparatore di quella specialità gastronomica che si chiama crepe Suzette. […] Forse i prestigiatori fanno di meglio: ma nella cucina del cinema ci vuole, oltre che abilità, vocazione. Accurata in tutte le sue fasi la produzione. P.F., Il Giornale degli spettacoli, 18 settembre 1976 Il film di Paolo Cavara si distacca fortunatamente dal filone esecrabile del poliziesco all'italiana e dal grand–guignol alla Dario Argento. Il giallo, condotto con ritmo, costruisce un personaggio, quello del commissario progredito, di buona cultura e nemico della violenza, articolato e simpatico, anche per l'acuto disegno che ne fa Michele Placido, con una recitazione volutamente ora tenera e ora isterica che ri347

badisce, dopo Marcia trionfale, le sue non comuni doti di interprete. E se la sceneggiatura di Zapponi, Cavara e Oldoini ha qualche aggancio troppo automatico, nonché qualche digressione giù verso il grosso pubblico, l'attenzione comunque non vien mai meno e il “pasticciaccio” riserva un finale non tanto prevedibile. E tanta paura rivela il gioco professionistico del regista (che aveva già dato con Il lumacone un'operina fuori dal comune) e, accanto a Placido, mette in mostra la bravura di Eli Wallach e Tom Skerritt, e le doti erotiche di Corinne Clery. Maurizio Porro, Corriere della sera, 18 settembre 1976 Nel mazzo dei polizieschi all'italiana che invadono ormai da troppo tempo i nostri schermi, si pesca di rado un film da non perdere. È il caso di E tanta paura diretto da Paolo Cavara: merita attenzione al di là degli strilli di cartellone che vorrebbero ricondurlo nei binari del thrilling erotico. Cavara […] ne Il lumacone aveva già mostrato un certo gusto per l'immagine anticonvenzionale, una mano sicura nella direzione degli attori. E tanta paura è un passo avanti.[…] Il pregio maggiore di E tanta paura è quello di essere un giallo solo in apparenza: la meccanica delitto–indagine–soluzione è tenuta costantemente in secondo piano, per lasciar spazio a saporiti “tagli” d’ambiente e a uno studio psicologico dei personaggi giocato sul contrasto di notazioni secche. E infatti, ogni volta che il film si libera dagli schematismi di una sceneggiatura di maniera (scritta dallo stesso regista con Zapponi e Oldoini) e lascia da parte certe insistenze sull'erotismo ginnico di Corinne Clery, Cavara rivela la mano sicura del professionista. Due sequenze, a conforto di quanto dico: la passeggiata di Placido con Eli Wallach lungo un corridoio ornato di specchi (realtà e apparenza viaggiano spesso sulla stessa carrozza) e l'inseguimento con scazzottata finale tra il commissario e un presunto colpevole. In particolare quest’ultima, montata su campi lunghissimi e medi, senza le solite acrobazie motoristiche, con un uso discreto e mai oleografico del tele, ha il taglio asciutto, il ritmo essenziale e privo di sbavature che solo il cinema americano di serie A ci ha insegnato ad apprezzare. Pierluigi Ronchetti, Il Tempo 4 Ottobre 1976

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Atsalùt páder (1979) TITOLO ORIGINALE: Atsalùt páder PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 1979 DURATA: 102' REGIA: Paolo Cavara; SOGGETTO: Paolo Cavara; SCENEGGIATURA: Paolo Cavara, Lucia Drudi Demby, Enzo Ungari; PRODUTTORE: RAI Nuova Intelligenza S.p.a.; FOTOGRAFIA: Pasquale Rachini; MONTAGGIO: Luigia Magrini; MUSICHE: Riz Ortolani; SCENOGRAFIA e COSTUMI: Giulia Mafai. INTERPRETI E PERSONAGGI: Gianni Cavina (Padre Lino), Antonello Fassari (De Ambris), Claudio Bigagli (Onesti), Marino Campanaro (Il Cieco), Michela Caruso (Irma), Marino Cenna (Sindacalista), Fabrizio Forte (Tonino), Ennio Groggia (Barilla), Ezio Marano (Avv.Carrara). La critica “Atsalùt pàder” (pronunciare “peeder” con la “e” aperta) sta, nel dialetto di Parma, per “ti saluto padre”. E’ il titolo dell’ultimo film che il bolognese Paolo Cavara ha realizzato per la Rete Uno. Fu esposto nell’autunno scorso agli Incontri internazionali di Sorrento, e comincia a girare per le sale cinematografiche prima di approdare sui teleschermi. […] Avendo per collaboratori alla sceneggiatura Lucia Drudy Dembi ed Enzo Ungari. Paolo Cavara ha attinto la documentazione su padre Lino dal processo di beatificazione in corso. Mezzo secolo dopo la sua morte, il culto degli umili alla sua tomba, sita alla Villetta di Parma, è assai intenso. Tenuto sul filo rischioso del grottesco, con oscillazioni dal comico al drammatico e al melodrammatico e qualche sbandata verso il patetismo agiografico alla fine, il film traccia il ritratto di quest’uomo del popolo che ha la vocazione della carità e che, pur sentendone i limiti nei suoi rapporti con la giustizia, la pratica a un grado quasi eroico, in una maniera “bassa”. […] Costruito su un processo di accumulazione che, nonostante le apparenze, scade raramente nel bozzettismo, “Atsalùt pàder” ha anche il merito di fornire un’occasione e un attore che finora ha fatto il caratterista di retrovia: Gianni Cavina, bolognese anche lui (e si sente, diranno quelli di Parma…), che ha alle spalle un decennio di palcoscenico e qualche film con Pupi Avati. Morando Morandini, Il Giorno, 13 Aprile 1979 349

[…]Il racconto di Cavara, che coglie il personaggio in diversi momenti della sua laboriosissima vita, si svolge con andamenti rapsodici, mostrandosi sullo sfondo i primi grandi scioperi dei braccianti agricoli, la lotta socialista contro il latifondo, la drammatica parentesi della Grande Guerra, il sorgere e l’affermarsi dei nuovi padroni. Tutto ciò è accennato con tratti a volta veramente essenziali e a volta soltanto frettolosi. Ma l’attenzione del testo e della regia è rivolta soprattutto al protagonista, descritto con affettuosa e minuziosa cura nelle molte facce della sua unica vocazione: far del bene d’istinto, senza mai fermarsi a ragionare sugli eventi di cui è pur partecipe testimone. Inevitabile che un simile carattere non subisca, strada facendo, alcuna evoluzione drammatica. Ma, come già scrivemmo da Sorrento, ai cui Incontri il film fu presentato lo scorso ottobre, Cavara ha avuto la fortuna di trovare e l’intelligenza di scegliersi un attore abbastanza fresco e fertile da poter variare con agile bravura l’univocità del personaggio: Gianni Cavina, che supera brillantemente la prova del suo primo ruolo drammatico: Nelle biricchinate a fin di bene di un fra’ Lino cui un po’ alla volta nevica sui capelli ma mai nel cuore lo seguiamo con diletto. Mentre il film gradualmente lo immerge nelle soffuse dimensioni della memoria. Guglielmo Biraghi, Il Messaggero, 13 Aprile 1979 […] Si questo padre gioviale e fantasioso, vero “giullare di Dio” simpatico a tutti, ma costantemente teso a togliere ai ricchi per alleviare la miseria dei poveri, il regista bolognese Paolo Cavara (coadiuvato nella sceneggiatura da Lucia Drudi Demby ed Enzo Ungari) rievoca l’illuminata esistenza attraverso quattro momenti chiave che vanno dal 1907 alla sua morte nel 1924. […]Dopo una decina di film realizzati sotto il segno del compromesso, Cavara ha potuto badare per la prima volta in piena libertà (egli stesso lo riconobbe l’anno scorso a Sorrento presentando Atsalut pàder agli “Incontri del cinema”) a quest’opera che da tempo gli stava particolarmente a cuore. Il risultato è di notevole onestà e di indubbia adesione all’ammaestramento che si ritrae dall’operato di Padre Lino. Ciò non riscatta, però, alcuni limiti abbastanza evidenti, che vanno dalle frequenti discor350

danze di tono (sbalzi improvvisi dal grottesco al patetico) al troppo sommario e manierato disegno storico. Lo stesso profilo umano del protagonista, spesso affidato al semplice aneddoto, non sempre si salva dal pericolo del bozzettismo. Se esso trova comunque momenti di corposa e sanguigna consistenza, lo si deve soprattutto alle naturali virtù dell’interprete Gianni Cavina. […] Leonardo Autera, Corriere della Sera, 14 Aprile 1979 […] C’è una scena del film di Cavara, in cui appare inquadrato un vespasiano. Sul vespasiano si legge la scritta “Prima i bisogni del corpo poi quelli dello spirito”. Ci pare che essa dia un senso alla figura del protagonista. Se la carità, come dice la religione cattolica, è quella affezione dell’animo che ci fa amare il nostro prossimo per amore di Dio, allora la carità di Padre Lino è una carità per così dire dimezzata, poiché l’amore che il frate sente per il suo prossimo non è necessariamente legato all’idea del padre eterno. Si apre e si chiude sul prossimo in quanto uomo, in quanto fratello. Nello stesso tempo, però quest’amore non si tramuta in azione politica organizzata: rimane in bilico fra le due concezioni, fermo in un forsennato attivismo puramente individuale. La fatica di Padre Lino, perciò, sarà una fatica di Sisifo. Intenzionalmente o no, il film ci è sembrato molto pessimista sull’azione del frate. Lino non riesce a incidere nemmeno sulla storia della città: nulla potrà sul risultato dello sciopero e, tanto meno, sull’esito della guerra e della scalata fascista. Nella lotta che egli ha ingaggiato istintivamente contro il potere è questo in definitiva a vincere, tanto vero che nel film il frate invecchia precocemente, mentre i rappresentanti del potere, i ricchi, rimangono sempre uguali a se stessi, immarcescibili. Raccontato in forma piana, talvolta troppo ripetitiva “Atsalut pàder” (il titolo fa propria la locuzione dialettale con cui egli era abitualmente salutato) riposa in buona parte sulle forti e resistenti spalle di Gianni Cavina, un attore di grande comunicativa che riesce ad ispirare anche molta simpatia. Fratello minore dell’”Albero degli zoccoli” e di “Novecento”, il film occupa un posto non indegno nell’attuale poco consolante quadro del cinema italiano. Callisto Cosulich, Paese Sera, 14 Aprile 1979

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[…] Paolo Cavara, bolognese, stoffa di narratore indubbia anche se finora non compiutamente espressa in un’altalenante filmografia, ha il merito d’essere riuscito a reggere alle difficoltà del tema. S’è accostato con affettuoso interesse al personaggio, s’è puntigliosamente documentato, ha steso la sceneggiatura in collaborazione con due valide penne, quali l’acuto Enzo Ungari di “Schermo delle mie brame”, e l’attenta traduttrice di Katherine Mansfield, Lucia Drudi Demby. Ne è uscito un film che ha struttura antologica della rapsodia; che non tradisce, nei pregi e nei limiti, i canoni della recita pubblica; che s’affida senza soverchie remore ai toni popolani. Così “Atsalut pàder” offre l’episodica dimensione delle memorie; porge momenti teneri, patetici (indubbiamente le pagine migliori del film) di cantilenata poesia, ma anche impennate del dramma, e, a tratti, svolte accelerate in una sintesi narrativa epidermica affrettata e didascalica. […]L’amico dei poveri, degli oppressi, dei carcerati continua, tenacemente, attraverso i decenni, a riempire le maniche del saio di carità e di oboli sottratti in qualsiasi maniera ai possidenti. Cavara sfiora il rischio di imputare al frate una scelta di campo, ma abilmente non v’insiste: ed è giusto così, dato che Lino aveva scelto tutta l’umanità dolente. […] Paolo Pedretti, Gazzetta di Parma, 11 Aprile 1979 […] Padre Lino ha forse il saio più unto e bisunto dell’Ordine: perché , invitato alle tavole dei ricchi lo riempie, furtivamente, di ogni ben di Dio che poi distribuisce ai poveri. In questa corsa affannosa alla carità spicciola, non va per il sottile e con la sua candida logica non si arresta davanti a certe regole di una società che gli appare piena di errori e ingiustizie: e non si ferma nemmeno davanti alle regole cui i confratelli suoi superiori debbono richiamarlo: di porta in porta, dal riformatorio al carcere, da una lagrima ad una bestemmia, padre Lino corre, corre con quel suo saio pieno di cibo e con un cuore gonfio di amarezza ma anche di confortanti sorrisi. I ricchi, è chiaro, sono le sue “vittime” preferite (perché hanno). E i potenti (perché possono). Gli uni e gli altri inoltre gli portano rispetto. […] E’ un giorno, all’improvviso, lo coglie la morte. Per la strada, naturalmente, circondato dai suoi poveri, dai suoi derelitti. Cessa di battere , quel cuore stanco, sotto il saio che, quando si apre, ancora una volta rivela i suoi “tesori”, 352

il cibo per chi non ha nemmeno l’essenziale per vivere. Un finale molto bello, quasi un quadro. Così come molto belle sono alcune immagini di una città come Parma, di certi interni o delle campagne piene di caligine (la fotografia è di Pasquale Ratini, la scenografia e i costumi di Giulia Mafai). La narrazione, nei diversi punti toccante e commovente, è quasi sempre scarna, fatta in maniera sommessa a volte sottolineata – nella sua semplicità o, al contrario nella sua tensione – soltanto dal commento musicale (di Riz Ortolani). Ma era facile cadere in due trabocchetti: il primo, una certa ripetitività di situazioni; il secondo, la retorica e il convenzionale: Così, mentre la prima parte del film risulta ben dosata sia nel racconto dei fatti sia nelle atmosfere in cui nascono e si sviluppano – poesia, tenerezza, dolore, dramma, - nella seconda parte la ripetitività si affaccia con una certa insistenza (bisogna pensare, però, che Atsalùt pàder è prodotto per la RAI e che, quindi andrà in onda probabilmente in almeno due puntate) insieme ad una fastidiosa convenzionalità di contenuti e di espressioni […] T.Scar, Il Tempo, 13/04/1979 […] Se la risposta dobbiamo desumerla dal successo con cui il film è stato accolto la sera della prima, allora è si. Se invece lo chiediamo ai frati dell’Annunciata che sicuramente, con ragioni più motivate di altri, hanno seguito in sala l’esuberante missione di carica del loro confratello , allora occorre aggiungere qualche postilla. Ma, si sa, una pellicola cinematografica se dovesse ripercorrere passo a passo tutti i carteggi non si chiamerebbe “Atsalut pàder” ma sarebbe un documentario e non avrebbe bisogno di una attore caparbio ed eclettico come Gianni Cavina, e nemmeno di un copione, di una sceneggiatura: Quello di Cavara è invece un lavoro quasi esclusivamente a soggetto, inserito in un contesto d’attori professionisti e non, che tenta di rendere, saccheggiando con gusto qua e là fra gli aneddoti del frate, i brandelli per ricostruire un abito contemporaneo e credibile di un missionario diventato quasi emblema di una fetta di città. Il regista si è servito di gente comune, di autentici protagonisti di quelle giornate del ‘22’ di amici dello stesso padre Lino. Ne ha fatto in sostanza – con gli uomini e i ricordi – un angolo di storia per una città, che forse conserva proprio questo limite, essere appartenuta cioè all’Oltretorrente di Parma e a niente altro. Dire poi che nella sala dell’Odeon la sera 353

della prima, fra invitati e attori, comparse autorità e frati, si era ricomposto quella specie di caldo entusiasmo di campanile accresciutosi nel riconoscere dalle inquadrature, angoli, vie e portoni frequentati da sempre, è conseguenza gradevole e diretta per un film girato interamente fra le mura della nostra città. “Forse si è insistito troppo su alcuni episodi che tendono ad offrire un’immagine più boccaccesca che non apostolica di padre Lino – diceva un francescano all’uscita -. Questo nostro confratello era forse un giullare in senso buono, che parlava per aneddoti, ma l’immagine che ne esce dal film di Cavara è assai aggressiva, scaltra, doti che non erano proprie di padre Lino Maupas, come poteva invece esserlo la preghiera di cui nel film non si fa quasi mai cenno”. Il pubblico “laico” invece ha reagito con entusiasmo si è divertito soprattutto in quegli approcci più vivi che padre Lino compie con gli strati emarginati di quel tempo, con le prostitute, con i ricchi, con i fascisti: Si può senza dubbio affermare che “Atsalut pàder” non ha una caratterizzazione politica, non sposa il frate alla causa del “rossi”, ma lo lascia muovere in una garibaldina e spregiudicata pratica del buon senso che marci ai limiti dei dogmi cristiani e di quelli del codice penale. Doveva uscire dal film l’immagine di un frate che ha speso senza riserve alcune decine d’anni per i poveri percorrendo senza dubbi o i tempi di un apostolato attivo e non dottrinale, basato su una carica umana incontestabile. E fin qui niente da dire. Non sempre però “Atsalut pàder”, doppiato in un discutibile dialetto bolognese ha saputo reggere il ritmo e l’immagine di un sanguigno discorso contenutistico senza dubbio non facile. Va dato atto al regista Cavara di aver realizzato il film con pochi mezzi, tuttavia non sono da tacere, sotto un profilo strettamente spettacolare beninteso, alcune pesanti artigianalità sia nella recitazione insicura che in molte scene d’insieme, dove la macchina da presa ha faticato non poco a trasformarsi in efficace strumento di lettura visiva. […] Giampaolo Poli, Il Resto del Carlino, 15 Aprile 1979 […] Alla vicenda drammatica, allegra e, per certi aspetti, picaresca di Padre lino il regista Paolo Cavara s’è accostato con pudore e discrezione mettendo insieme un film che intende restituire soprattutto il senso d’una storia d’amore, con gli slanci, i contrasti e le difficoltà che sono propri d’ogni storia d’amore, anche di quelle scoccate da una di354

mensione mistica. Aiutato da una generosa e insieme lucida prestazione di Gianni Cavina, che ha dato a padre Lino faccettato e credibile spessore. Cavara ha consegnato allo schermo una figura che sprigiona un largo margine di attualità. Un po’ meno gli è riuscita la rappresentazione del “coro”, ossia della città e del suo vario tessuto, cui Padre Lino lancia giornalmente la sua sfida. Alla diligenza di qualche sparso tocco di rievocazione ambientale si mescolano note un po’ facili di compromesso spettacolare o qualche inevitabile eco di film illustri, da “Novecento” a “L’albero degli zoccoli”. P.P., Il Secolo XIX, 13 Aprile 1979 […] Il film di Paolo Cavara è il classico prodotto pasquale per famiglie? Certo, anche perché, senza essere espressamente per ragazzi consente ai genitori il rito vacanziero di “tutti al cinema” Ma questo ritratto di Lino da Parma, frate ingenuo e ostinato, indifeso e scroccone, sceso a piedi da Gorizia agli inizi del secolo, non rientra nel clichè cinematografico della “storia dei santi” (pare che da anni sia in corso un processo di beatificazione che non riesce ad arrivare alla fine). Sembra piuttosto, il riconoscimento a posteriori di una fama popolare conquistata da padre Lino, nella città emiliana , con una sincera vocazione alla causa della carità verso i suoi simili. Il film prodotto dalla RAI-TV e realizzato con pochissimi mezzi) d’altra parte, non si avvale di una trama, non vuol essere una biografia, ma cerca di far emergere questo personaggio bizzarro e anticonformista sulle tracce della memoria e della “leggenda”. Dietro di lui, scorre la storia della città di Parma nelle sue tappe più significative. […] Il film è tutto qui, ma ha il merito di non sfruttare demagogicamente la figura simpatica e “rivoluzionaria” del frate, anzi ne sottolinea la mancanza di coscienza politica e sociale, che lo spingerà “senza sapere perché” a versare il frutto delle elemosine (talvolta addirittura estorte con il ricatto) alla Camera del Lavoro in aperta disobbedienza alle gerarchie ecclesiastiche. […] L’Unità, 14 Aprile 1979

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La locandiera (1980) PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 1980 DURATA: 109 min REGIA: Paolo Cavara; SOGGETTO: La locandiera di Carlo Goldoni; SCENEGGIATURA: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Lucia Drudi Demby; PRODUTTORE: Pietro Innocenzi; CASA DI PRODUZIONE: DADA Film, RAI – Radio Televisione Itraliana; FOTOGRAFIA: Mario Vulpiani; MONTAGGIO: Angelo Curi; MUSICHE: Mariano Detto; SCENOGRAFIA: Giancarlo Bartolini Salimbeni; INTERPRETI E PERSONAGGI: Adriano Celentano (Cavaliere di Ripafratta), Claudia Mori (Mirandolina, la locandiera), Paolo Villaggio (Marchese di Forlimpopoli), Marco Messeri (Conte di Albafiorita), Lorenza Guerrieri (Ortensia), Gianni Cavina (Ortenzio), Milena Vukotic (Dejanira) Camillo Milli (Carlo Goldoni) La critica […] Cavara si è avvicinato con rispetto al testo goldoniano. […] La locandiera, come si sa, ruota intorno al personaggio di Mirandolina, bella e saggia padrona di locanda, che si destreggia tra quattro pretendenti, frena i bollenti e accende i riottosi finchè, stancatasi del gioco e impartite le sue lezioni, licenzia la bella compagnia e mette su casa con il fedele servitore Fabrizio […] Il film porta in scena anche Goldoni, che vediamo nel ruolo di un ospite della locanda che, col suo fare sornione, tutto vede e “controlla” […] F. Bolzoni, L’Avvenire, 3 ottobre 1980 [...] Per esperienza pratica e convinzione teorica, nei rapporti tra letteratura e cinema, parteggio per un cinema impuro, sono favorevole ai tradimenti, ai liberi adattamenti, alle reinvenzioni. [...] Magari l'avessero buttata sulla commedia musicale, come fa sperare l'iniziale balletto al mercato e come qua e là s'accenna nel secondo tempo e nel finale. Il guaio è, invece, che dell'affascinante e perfida commedia goldoniana-dove tira un'aria frizzante di vendetta contro le donne- nel film di Cavara e C. è rimasto soltanto il guscio. hanno buttato via la 356

scrittura di Goldoni - i colori, i ritmi, le cadenza di un linguaggio "svelto, galante, leggero" e con che cosa l'hanno sostituita? COn l'aria fritta di una comicità rancida che lascia il fiato pesante; con i lazzi del villaggio e di un Celentano che rifanno sè stessi; con le guittate di Marco Messeri, Lorenza Guerrieri e Milena Vukotic (e a noi spiace specialmente per la Vukotic che è un'attrice intelligente); con Gianni Cavina costretto a sprecare il suo robusto temperamento comico. E' una compagnia tra cui soltanto Camillo Milli dà l'impressione di aver letto Goldoni, ma purtroppo è alle prese con un personaggio - quello dello stesso Goldoni che spia i personaggi e gli intrighi e fa le controscene che risulta pleonastico. Morando Morandini, Il Giorno 12 Ottobre 1980 [...] Paolo Cavara si prende delle libertà con questa "locandiera", un po' commedia, un po' operetta, un po' Fantozzi (c'è Villaggio che trasforma in Fracchia il Marchese Al Verde) un po' Mary Poppins. Celentano, rapato a zero, è un cavaliere alla "Yuppy Doo"; sua moglie Claudia Mori non può competere con più illustri "locandiere" ma canterella con grazia e non difetta certo d'aspetto. Alla fin fine non crediamo proprio che Carlo Goldoni (pur raffigurato nel film, testimone oculare dei ghiribizzi di Mirandolina) si dispiacerebbe di questa sua "locandiera" cinematografica a cui non mancano gaiezza e buon sangue e, tanto per essere aggiornata, un pizzico di fierezza femminista (o femminile, che qui fa lo stesso). F. Col., L'Eco di Bergamo, 2 Novembre 1980 [...] Il film ignora che il maschilista Goldoni non intese soltanto ridicolizzare i cascamorti ma anche condannare Mirandolina, l'"ingiurioso disprezzo", la "barbara crudeltà" con cui dopo aver vinto Il Cavaliere si burlava di lui. Secondo l'interpretazione più logora contrappone l'astuzia femminile alla dabbenaggine degli uomini, ma nonostante la scena in cui Mirandolina resta sola nell'ombra a meditare sui suoi casi siamo al grado zero del discorso. anziché irrobustirne il retrogusto lo trascina nel comico corrivo sperando invano di estrarne succhi surreali. [...] Qualche brio portano all'insieme, nelle parti delle 357

commedianti Milena Vukotic e Lorenza Guerrieri. E sebbene esca ovviamente malconcia dal confronto non diciamo con la Rina Morelli che trionfò nell'edizione teatrale curata da Visconti nel '52 ma anche con Luisa Ferida, Claudia Mori si fa perdonare la freddezza espressiva con la misura del tratto e l'avvenenza del volto. Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, 14 Ottobre 1980 [...] Claudia Mori, ultima della serie, mattatrice di questa produzione cinetelevisiva, tutt'altro che priva di ambizioni appartiene purtroppo alla categoria delle banali. [...] Togli la tensione, togli la sottile (c'è, nonostante tutto) misoginia di fondo, questa donne che ci godono a giostrarsi gli uomini come burattini), togli la venezianità del soggetto, cosa rimane del venerando copione? Una commediotta simpatica, un divertimento "digestivo", la cosina graziosa se il regista ha eleganza e mestiere. E Paolo Cavara li ha, riesce a comporre il quadretto accattivante; tenta (senza troppa convinzione ma con risultati non spregevoli) di portare la piece sul piano della commedia musicale all'americana (tre o quattro intermezzi cantati e danzati piuttosto ben mossi, che però non si fondono che a fatica con il resto dello spettacolo); dà spazio e colore a Gianni Cavina (il fidanzato-cameriere, che da quasi comparsa arriva allo spazio del protagonista), incanala entro limiti quasi accettabili (anche dei puristi di Goldoni) la comunicatività popolaresca di Celentano e Villaggio. [...] Giorgio Carbone, La Notte, 11 Ottobre 1980 Sarto per Signora (1980) TITOLO ORIGINALE: Sarto per signora PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 1980 DURATA: 180' (in due parti) REGIA: Paolo Cavara; SOGGETTO: Georges Feydeau; SCENEGGIATURA: Roberto Lerici; PRODUTTORE: Raffaello Monteverde; CASA DI PRODUZIONE: RAI Radio Televisione Italiana; INTERPRETI E PERSONAGGI: Alberto Lionello (Dr. Moulineaux), Mico Cundari (Stefano), Maria Rosaria Omaggio (Yvonne), Enzo Robutti 358

(Bassinet), Giusy Raspani Dandolo (Sig.ra Algreville), Lia Tanzi (Susanna Aubin). Fregoli (1981) TITOLO ORIGINALE: Fregoli PAESE DI PRODUZIONE: Italia ANNO: 1981 DURATA: 320'(in quattro parti) REGIA: Paolo Cavara; SOGGETTO e SCENEGGIATURA:Paolo Cavara, Lucia Drudi Demby, Roberto Lerici; PRODUTTORE: Anselmo Parrinello; CASA DI PRODUZIONE: RAI Radio Televisione Italiana; INTERPRETI E PERSONAGGI: Gigi Proietti (Leopoldo Fregoli), Marzio Honorato, Lina Polito, Lia Tanzi, Claudine Auger, Mario Carotenuto, Marino Campanaro, Luisa De Santis.

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BIBLIOGRAFIA

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INDICE

PREFAZIONE di Pietro Cavara

p. 9

INTRODUZIONE L’ENIGMA PAOLO CAVARA

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SEQUENZE DAL PROFONDO MARE BLU L’APPRENDISTATO SUL CAMPO

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PARTE PRIMA: GLI OCCHI CHE RACCONTANO IL MONDO PER UN MONDO POSSIBILE: JACOPETTI E LA “VAMPIRIZZA- p. 39 ZIONE” DI PAOLO CAVARA Il TRATTAMENTO DI “MONDO CANE” LO SGUARDO ANTROPOCENTRICO E L’IMPRONTA POETICA DI p. 69 PAOLO CAVARA IN “MONDO CANE”, “LA DONNA NEL MONDO” E “MONDO CANE 2” LA GIOVANE EUROPA: IL TRATTAMENTO DE “I MALAMONDO” p. 86 L’INDAGINE DOCUMENTARIA, LA METONIMIA DELLA “SOCIE- p. 110 TA’ DEI CONSUMI” E LA SOLITUDINE GIOVANILE NE “I MALAMONDO” “L’OCCHIO SELVAGGIO” E “LA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO”: p. 121 COME L’OPERA DI GUY DEBORD EMERGE NEI FOTOGRAMMI DEL FILM DI PAOLO CAVARA PARTE SECONDA: L’AGGRESSIONE, L’ARTE, LO SPAZIO E IL TEMPO ICONOGRAFIA,TEMI E STRUTTURA DELL’AGGRESSIONE NE p. 137 “L’OCCHIO SELVAGGIO” 363

SEMANTICA, ESTETICA E SINTASSI DELLA CRUDELTÀNE “L’OC- p. 151 CHIO SELVAGGIO” CAVARA/KLEIN E LE MODELLE DIPINTE DI BLU: UNA “STRA- p. 156 VAGANZA” D’AUTORE di Pietro Cavara KLEIN/CAVARA: LA SENSIBILITÀ DELL’IMMAGINAZIONE

p. 163

ANTONIONI/CAVARA: ICONOGRAFIA E STRUTTURA DELLA p. 172 RAREFAZIONE SPAZIO-TEMPORALE PARTE TERZA: SGUARDO D’AUTORE L’EROTISMO UTOPICO, LA MORALE DEI SENTIMENTI E L’ANTICONFORMISMO NEL FILM “LA CATTURA”

p. 183

GEOMETRIA DEL DELITTO, BIZZARRIA E DINAMICHE DI DOMI- p. 192 NIO IN“ LA TARANTOLA DAL VENTRE NERO” E “E TANTA PAURA” “ATSALÙT PÄDER”: RITRATTO D’AUTORE DI UN SEMPLICE p. 207 FRATE PARTE QUARTA: UNA DIFFICILE MEDIAZIONE IL TEATRO, LA MASCHERA E IL TRASFORMISMO IN “VIRILITÀ” p. 217 E “IL LUMACONE” L’AMICIZIA VIRILE, L’EROISMO SILENZIOSO E L’AVVENTURA p. 225 PICARESCA. LO “SPAGHETTI WESTERN” SECONDO PAOLO CAVARA DA GOLDONI E FEYDEAU: LA TELEVISIONE DI PAOLO CAVARA p. 233 IL PROPRIO NOME NEI TITOLI DI TESTA

p. 242

PARTE QUINTA: SOGGETTI INEDITI PAOLO CAVARA: “UN AUTORE NASCOSTO” di Pietro Cavara

p. 251

PAOLO CAVARA: SOGGETTI E SCENEGGIATURE RIMASTI SUL- p. 257 LA CARTA a cura di Pietro Cavara

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L’UOMO, IL SOGNO E IL VIAGGIO: UN’IPOTESI DI CINEMA NEI p. 263 SOGGETTI INEDITI DI PAOLO CAVARA PARTE SESTA: INTERVISTE E TESTIMONIANZE INTERVISTA A PIETRO CAVARA

p. 279

INTERVISTA LARS BLOCH

p. 292

INTERVISTA A FRANCO NERO

p. 297

TESTIMONIANZE

p. 301

NOTA BIOGRAFICA

p. 309

FILMOGRAFIA – ANTOLOGIA CRITICA

p. 311

BIBLIOGRAFIA

p. 360

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Edizioni Il Foglio www.ilfoglioletterario.it

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