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Italian Pages 414 Year 1979
UNIVERSALE ECONOMICA FELTRINELLI
FRANCO CATALANO
FASCISMO E PICCOLA BORGHESIA Crisi economica, cultura e dittatura in Italia (1923-1925)
i Universale Economica
Franco Catalano
Fascismo e piccola borghesia Crisi economica, cultura e dittatura in Italia (1923-1925)
Feltrinelli Economica
Prima edizione: marzo 1979 Copyright by ©
Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prefazione
È solo per quelli che sono senza speranza che ci è stata data la speranza. [B enjamin ]
Ancora la storiografia forse non è riuscita a chiarire al cuni fra i problemi fondamentali del fascismo delle origini, anzitutto quello riguardante l’inizio della dittatura, se su bito dopo il 28 ottobre '22 oppure dopo il discorso del 3 gennaio '25 (con cui Mussolini pose termine alla secessione dell’Aventino). Questo libro non pretende certo di dare un giudizio definitivo su tale problema, ma, partendo da un articolo di Gramsci del 1° settembre '24, in cui scriveva che il fascismo moriva perché non era riuscito ad arrestare, an zi aveva accelerato, la crisi delle classi medie, cerca di ri costruire in che cosa consistette una simile crisi, che sa rebbe stata provocata da un intenso processo inflazionisti co che allontanò la piccola e media borghesia dal regime (giunto, nel '26, vicino al baratro da cui si salvò con la quota 90). La minaccia di essere abbandonato da quello stra to sociale, che lo aveva appoggiato dal '19 al '22, spinse Mussolini a seguire una politica trasformistica nel tentati vo di attrarre a sé la vecchia classe dirigente liberale; ma questo provocò nel suo partito lotte intestine fra gli estre misti alla Farinacci e i moderati alla Bottai, con la forma zione di correnti di dissidenti. Il lavoro si è proposto di definire i motivi reali della nascita di tali correnti (dove, come e perché), e di ricercare anche fino a che punto i par titi di opposizione (il comunista, il socialista e il popolare) avvertirono questa crisi dei ceti medi e se intravidero o no la possibilità di inserirsi attivamente nel gioco politico che si apriva. Il libro si sforza, inoltre, di cogliere la parteci pazione a queste vicende economiche, politiche e sociali della cultura fascista e no del tempo, nella convinzione, che 5
è dell'autore, che, nella storia, tutti i complessi aspetti della vita siano strettamente collegati l'uno all'altro: l’eco nomico al politico e al morale e al culturale. Per quanto riguarda l’aspetto morale, all'autore di questo libro pre me mettere in rilievo come la sua attenzione sia stata at tratta soprattutto dalle arti istrioniche di Mussolini, che con grande abilità seppe usare ora la violenza ora la blan dizie, riuscendo a crearsi non un consenso di massa (che presuppone sempre una adesione sincera e senza secondi fini), ma una base di concreti interessi in chi, pur di sal vaguardare questi interessi, passò con indifferenza dalla democrazia (o pseudodemocrazia) prefascista alla dittatura. Si trattò, anche in questo caso, della continuazione di at titudini trasformistiche, di questa “nostra malattia più perniciosa," come è stata definita da G. Dorso, che ha carat terizzato quasi - se non tutti - i governi italiani dal Depretis a oggi, una malattia che rappresenta veramente la costante più intramontabile e più radicata nella nostra ani ma. Eppure, bisognerà pure che, una buona volta, questo nostro popolo di antica civiltà, come si suol dire con una manifesta retorica, faccia di tutto per liberarsene, si da riacquistare il senso dell’onestà, della coscienza integra e pulita, dell’umiltà, dell’altruismo, della giustizia e dell'amore per gli esseri diseredati, miseri e tormentati, ansiosamente anelanti a un raggio di sole e di luce: che sono, poi, i veri valori di cui la vita di ogni uomo dovrebbe essere intessuta, se vuole veramente viverla.
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Capitolo primo
La politica economica liberistica del fascismo
Forse si è discusso troppo a lungo se la dittatura fasci sta sia cominciata quasi subito dopo la marcia su Roma del 28 ottobre 1922 oppure con il discorso alla Camera del 3 gennaio 1925, con cui Mussolini pose praticamente termi ne alla secessione dell’Aventino in seguito al delitto Mat teotti. Si tratta, manifestamente, di una discussione ozio sa, dal momento che uno storico ufficiale della rivoluzione fascista, F. Ercole, afferma che gli stessi “liberali filofa scisti,” che diedero il loro appoggio al governo dopo l’ot tobre del ’22, erano, “pur senza volerlo confessare a se stes si o ad altri (quando erano sinceri), molto più fascisti che liberali.” Questo perché fare atto di adesione allo Stato fasci sta non significava accettare lo “Stato-Partito in contrappo sizione allo Stato-Popolo, quale sarebbe stato lo Stato de mocratico-liberale, vale a dire uno Stato in cui gli inscrit ti a un Partito esercitino la sovranità sugli altri, in contrap posizione a uno Stato, in cui la sovranità appartenga in distintamente e ugualmente a tutti i cittadini individual mente considerati: ma significa uno Stato deciso a segui re uno scopo politico concreto, in contrapposizione a uno Stato che voglia mantenersi al di sopra e al di fuori di ogni indirizzo politico concreto, per rispettare la libertà di tut ti i Partiti o di tutte le fazioni, comunque sorgenti e operan ti nell’ambito della sua sovranità meramente formale: uno Stato, in altri termini, che pone il suo scopo nell'interesse della Nazione, e a questo scopo subordina tutti i principii, compreso quello della libertà, non ammettendo che possa esistere, nello Stato e sotto la garanzia delle leggi dello Sta to, la libertà di agire a danno della Nazione. La superiori tà di cui, subito dopo la Marcia su Roma, parlava Mus solini, in nome del Fascismo, era, insomma, non la superio rità giuridica, ma la superiorità politica dello Stato, vale a dire la superiorità della idea (la sovranità integrale della 7
Nazione sugli individui), che esso ha la missione di incar nare di fronte alla contrastante idea della fazione, della setta, del Partito. Interprete degli interessi e realizzatore della volontà della Nazione non può essere che lo Stato, a mezzo del suo unico organo legittimo, che è il Governo.” Fu partendo da questa convinzione che il duce potè, nel discorso pronunciato a Roma all’Assemblea generale del consiglio nazionale delle corporazioni, il 4 novembre 1933, dichiarare, rievocando quei primi momenti del regi me, che “quando, nel giorno 13 gennaio 1923, si creò il Gran Consiglio del Fascismo, i superficiali avrebbero po tuto pensare: si è creato un istituto. No. Quel giorno fu sepolto il Liberalismo politico [...]. Quando, con la Milizia, presidio armato del Partito e della Rivoluzione, quando con la costituzione del Gran Consiglio, organo supremo della Rivoluzione, si die’ di colpo a tutto quello che era la teoria e la pratica del Liberalismo, si imboccò definitivamente la strada della Rivoluzione [...].” E l ’Ercole rincalza osservan do che la “funzione di fatto esercitata, nel Regime dai due Istituti rivoluzionari del Gran Consiglio e della Milizia, consi stè, “in sostanza, nel garantire al Partito Nazionale Fascista la possibilità di esercitare la dittatura sullo Stato demo cratico-liberale.” In verità, questi due organismi, inseriti, surrettiziamente nello Statuto albertino, erano rivoluzio nari rispetto al vecchio Stato democratico liberale, in quan to il gran consiglio si sovrapponeva, e lo sostituiva di fatto, al consiglio dei ministri, mentre la milizia prendeva il po sto tenuto fino allora dall’esercito. Mussolini chiariva, il 1° febbraio del ’24 nel gran rapporto alle camicie nere, ta le carattere extra-legale (ma considerato del tutto legale e normale, perché proveniente dall’unica rivoluzione che il fascismo poteva vantarsi di aver compiuto) della milizia, allorché disse che essa era, senza dubbio, la difesa armata del regime, anche se non era “soltanto, come si va dicen do da taluni, una Milizia di Partito,” ed era pure “agli or dini del Governo e dello Stato,” come quando le sue le gioni combattevano in Libia, o accorrevano in Sicilia per l’eruzione dell’Etna, o si adattavano a servizi di ordine pub blico. Fu per questo motivo, per difendere cioè la rivoluzio ne operata dalle camicie nere, che, per tutto il 1923 e fino al delitto Matteotti - che contribuì a spostare su altre ba si il dibattito politico -, il duce difese strenuamente la mi lizia contro gli antifascisti, che andavano predicando la necessità di una normalizzazione: questa appariva ai fasci sti il sogno di un impossibile ritorno al passato perché sa 8
rebbe stata una restaurazione di ciò che il regime si van tava di avere definitivamente sepolto. Da ciò la decisa di chiarazione di Mussolini, il 28 gennaio 1924, all’assemblea del partito: “[...] Quanto alla normalità, bisogna intender ci. Se la cosidetta normalità costituzionale deve risolversi in una gigantesca truffa all’americana ai danni del Fasci smo sino a farne qualche cosa di incolore e di insapore, sen za più rispondenza nell’animo delle nuove generazioni [...], dichiaro che questa normalità non è nei miei gusti [...]. Se, per spiegarmi chiaro, per normalità si intende lo scioglimento della Milizia, che non è di partito, ma è na zionale, che deve servire a tenere a bada tutti coloro che abbiamo risparmiato, dichiaro, fin da questo momento, che non cadrò mai vittima di questo trucco della normalità.” Ma, andando a vedere un po’ più a fondo che cosa in tendesse il duce con il termine, tanto abusato, di rivoluzione, si scorge che esso significava per lui, solamente la volontà di durare a qualsiasi costo, “malgrado qualché illusorio conato di restaurazione parlamentaristica,” alimentato come scrive l’Èrcole — dagli “ostinati provocatori del di sordine e dai tenaci avversari della Nazione” (l’8 giugno 1923, al Senato, nel discorso sui primi sei mesi di esercizio del potere, il duce esclamò: “[...] quando un Partito ha il Governo nelle mani, lo tiene, se lo vuole tenere, perché ha delle forze formidabili da utilizzare per stabilire sem pre più saldamente il suo dominio [...]” e, poco dopo, I’ll luglio, parlando alla Camera sulla riforma elettorale mag gioritaria Acerbo, affermò, con maggior forza: “Il potere lo abbiamo e lo teniamo, e lo difenderemo contro chiun que. Qui è la Rivoluzione: in questa ferma volontà di man tenere il potere”); oppure significava un segreto appoggio alla reiterata minaccia della seconda ondata fatta da al cuni gerarchi più estremisti e violenti, specialmente da Fa rinacci. Tanto che l'Èrcole ritiene di essere in grado di so stenere che la volontà mussoliniana di durare a qualsiasi costo e la minaccia della seconda ondata furono, “in so stanza, nella prima fase del Regime, i massimi strumenti di forza posti da questo a servizio dello Stato, e gli uni ci freni per gli elementi antinazionali, disorientati e dispersi, ma non del tutto estirpati.” Come si scorge, si trattava di una ben misera rivolu zione e, se tale amava definirla Mussolini, si vede che il suo spirito pseudo-rivoluzionario di un tempo si era ap passito del tutto, nel prevalere di una concezione che fa ceva della pura forza e della volontà (del resto, anche il 9
suo periodo cosiddetto socialistico non era stato impregna to di volontarismo e di attivismo, tipici della piccola bor ghesia reazionaria dei primi decenni del secolo?) il con tenuto e l’essenza della rivoluzione. Pertanto, non aveva torto l’economista Maffeo Pantaleoni (in “L’Idea naziona le” del 6 luglio 1923), quando metteva in rilievo che la te si che piaceva molto ai fascisti - “far credere che siavi stata una rivoluzione” - era “del tutto insussistente [...]. Ma, oltre ad essere storicamente falso che siavi stata una rivoluzio ne fascista, questa opinione è dannosa al fascismo perché può riuscire da un lato deviatrice della sua azione, e, dal l'altro parare contro questa ostacoli che altrimenti non sorgerebbero, ricorderò ai rigoristi del diritto costituzio nale, segnatamente ad amici britannici e americani, i qua li, nell’avvento del fascismo, hanno voluto vedere qualche cosa di messicano, o di venezuelano, che la Camera dei de putati non venne sciolta; che a Mussolini l’incarico di for mare il gabinetto lo diede il Re; che Camera e Senato, cioè il Parlamento italiano, votarono i pieni poteri, limi tati a un anno, nel tempo e a scopo di riforma finanziaria e amministrativa, in quanto a contenuto; che del gabinet to vennero a far parte due Collari dell’Annunziata, il Thaon de Revel e il Diaz; che mai consenso più generale di quello che accolse il fascismo in Italia non si ricorda; che in nessun caso una legione di carabinieri, un ploto ne di guardie regie o un reggimento di soldati si ribella rono al nuovo governo, e che in nessun luogo una qual siasi massa di popolo siasi sollevata, o abbia in qualun que modo manifestato il proprio scontento per le squa dre fasciste plaudenti a Mussolini. Non vi fu un solo sciopero. Non venne versata una goccia di sangue. L'or dine giudiziario restò autonomo, e esercitò le sue fun zioni con assoluta indipendenza. E allora?!” Si può essere d’accordo, come nota giustamente N. Tranfaglia, sul carattere “non rivoluzionario” rivestito dall’ascesa del fascismo al potere, anche se non si può accettare, a dimostrazione di tale affermazione, la trop po palese falsificazione sul “generale consenso” che avreb be circondato e accompagnato le camicie nere; e questo non solamente per le giustificazioni pseudo-legalitarie e costituzionali addotte dal Pantaleoni (e riprese, più tardi, nel secondo dopoguerra, da numerosi giuristi), sebbene si debba mettere in chiaro rilievo che il consenso venne al fascismo dai ceti dominanti e dalle istituzioni più poten ti - la monarchia, la burocrazia, l’esercito, la magistratu 10
ra, la polizia: furono appunto, se non soprattutto, questi strati sociali e questi organismi che, sotto certi aspetti, catturarono chi non desiderava nulla di meglio e che cer carono di far giungere alla conquista dello Stato i segua ci del duce in forme non eccessivamente divergenti ri spetto a quelle previste dallo Statuto albertino. Ma un altro storico del regime, G. Volpe, dopo aver notato co me da tutto il paese si invocasse un radicale mutamento di rotta, in particolare per risolvere i problemi più impor tanti, fra cui quello finanziario, continua dicendo che si invocava pure un “uomo,” “libero da legami parlamentari e forte di larga parte” della nazione, si da poter dare al l’Italia “un governo che avesse consistenza, forma, stile, carattere, volontà propria: un governo che governasse!” Ed egli si rifiutava di prendere posizione di fronte al di lemma se si fosse trattato di rivoluzione o di reazione: “Lasciamo che altri definisca. Diciamo solo che chi vole va quegli scopi e non aveva mezzi propri da suggerire, doveva accettare i mezzi scelti da quelli che si sono mes si risolutamente all’azione. I virtuosi sermoni non basta vano più. Diciamo anche, se non si dà scandalo: ‘necessi tà non ha legge.’ Anche se questa ‘necessità’ debba portar ci ad ima qualche forma di dittatura. Ma, dittatura per dittatura, a quella anonima e irresponsabile, impotente ed anarchica, sotto maschera legalitaria, del Parlamento, qua le esisteva negli ultimi tempi, con universale sdegno e nausea, noi del paese che viviamo non fuori della politi ca ma fuori del Parlamento, preferiamo quella di un uo mo, di un gruppo di uomini, cioè personale, visibile e in dividuale, inequivoca, responsabile.” Era, questa, la con dizione necessaria affinché l’Italia ricominciasse ad ave re una sua politica estera, togliendo agli “estranei la fa cilità di insinuarsi nei già troppi interstizi della nostra corazza e farla saltare.” Quanto stava succedendo, o era già successo, in Europa, sembrava assecondare tale aspi razione: “La Turchia riappare come una forza; la Russia accenna a rientrare nella vita europea. Quando la Ger mania? Dobbiamo riconoscere che la nostra fortuna è non poco legata alla fortuna di quei vinti. Il loro annien tamento è stato anch’esso uno dei coefficienti del nostro annientamento, dopo il novembre del 1918.” Era delinea ta, in queste ultime righe, una politica estera che avrebbe dovuto farci riconquistare il ruolo di grande potenza nel vecchio continente - al quale era rivolta, allora, tutta Pat ii
tenzione della nostra classe politica - e consentirci di ri prendere l’ascesa, “lenta, ma ascesa.” Da quanto era venuto proclamando il Volpe, che pure aveva dichiarato di non essere in grado di decidere se si era trattato di una rivoluzione o di una reazione, si pote va, tuttavia, dedurre che egli propendesse più verso la prima che verso la seconda, dal momento che vedeva la nascita fra i patteggiamenti e i barattamenti e i pettegolezzi e le pic cole vigliaccherie di Montecitorio e davanti ad uno “stra to politicante, spesso e opaco,” di una “falange di uomini appassionati” e di “una robusta minoranza,” animata da un “pensiero concorde, volontaria e disciplinata.” Di di verso parere era il ministro del Tesoro e delle Finanze (i due dicasteri erano stati riuniti dopo la morte di V. Tangorra, titolare del primo dicastero, sotto l’unica direzione di Alberto De Stefani), per il quale - come disse nell’espo sizione finanziaria fatta a Milano, alla Scala, il 13 maggio 1923 - “siamo in cammino verso una stazione che si spo sta, che si allontana. Il Governo delle Nazioni è come quel lo delle famiglie: ogni giorno ha il suo nuovo compito e non si può pensare al riposo. Abbiamo battuto il passo degli arditi, senza tuttavia andare, per troppa fretta, con tro gli ostacoli. Le trasformazioni degli ordinamenti fi nanziari sono legate ad un certo ritmo, alla natura e alla potenza dei congegni che servono a tradurli in atto, alle condizioni e alla resistenza del campo di applicazione. La velocità risulta sempre da un rapporto tra l’impulso e le resistenze.” E, poco dopo, ribadiva che, “guardando all’o pera compiuta, abbiamo ragione di compiacimento,” poi ché, pur non essendo possibile “mutare radicalmente in breve tempo le sorti di un grande Paese,” tuttavia il popolo ita liano, “sobrio e laborioso, ora che si sente guidato con mano ferma e da uomini che conoscono le vie dell’azione, prepara con l’opera quotidiana i suoi migliori destini.” Ma quali erano questi migliori e radiosi destini verso cui il popolo italiano avrebbe dovuto indirizzarsi con sod disfazione e con gioia? Il De Stefani aveva pienamente accolto la dottrina liberistica tipica di un Luigi Einaudi, dottrina che, peraltro, se poteva andar bene prima del la guerra, cominciava a non avere più efficacia nel dopo guerra, allorché si erano andati annunciando nuovi feno meni economici (fra cui, in particolare, quello, di notevo le importanza anche per l’avvenire, che negava al consu matore la possibilità di stabilire, con la sua domanda, il prezzo dei prodotti e dei generi che intendeva acquista li
re e la attribuiva quasi esclusivamente al produttore). Nes sun significato, infatti, poteva più avere lo sforzo - tutto einaudiano - di purificare, moralizzare la vita economi ca del paese, il che lasciava supporre che si considerasse periodo di crisi non quello delle effettive crisi economiche, bensì l’altro dell'espansione produttiva, quando a tutti, o almeno a molti, era consentito improvvisarsi impren ditori, industriali, sfruttando le contingenze favorevoli. Il De Stefani, in effetti, affermava, nell'indirizzo al presidente del consiglio, in occasione della visita di questo al mini stero delle Finanze per la revisione dei bilanci, che la “faticosa opera di questa Amministrazione” avrebbe dovu to consistere nella “graduale, ma decisa ricostruzione fi nanziaria,” secondo l’impegno assunto dal governo fasci sta verso la Nazione. In primo luogo, richiamandosi alla “concezione aristocratica dello Stato” che avevano avuto un Cavour, un Minghetti, un Sella, un Sennino e un Luzzatti, poneva un assetto più ordinato delle pubbliche spe se, che “sono,” diceva, “soltanto in parte il prodotto di una necessità, ma sono anche spesso il prodotto di male abi tudini e di un rilassamento nella concezione e nell’at tuazione dei compiti dello Stato.” In secondo luogo, insi steva - con un accento, ripetiamo, degno del più puro liberi smo einaudiano -, sulla necessità di liberare il paese “(spe cialmente per quanto riguarda le sue industrie, i suoi com merci e i suoi organismi di credito) da quello spirito di speculazione che costituisce ancora un residuo dell’econo mia bellica. Esso deriva dalle passate possibilità di gua dagni non adeguati alla fatica dell’opera, dalla sensibilità di prezzi troppo facilmente manovrabili da gente avida e senza scrupoli,” che andavano colpite, se necessario, con severe misure di polizia, “dalla degenerazione delle for ze economiche spostate dai proficui campi della produzio ne e dei commerci verso il giuoco delle combinazioni infe conde e perturbatrici.” Date queste premesse, che riscuotevano la più sincera ap provazione da parte di un altro illustre rappresentante del liberismo italiano, F. Guarneri (nella seconda metà degli anni ’30 ministro per gli Scambi e Valute, ma già esponente di primo piano della Confindustria), che trac ciava del De Stefani un ritratto quasi epico (“alto, qua drato, massiccio, una grande testa dalla chioma leonina, atteggiata talvolta a nume corrucciato, la parlata lenta, a scatti, faticosa e spesso irruenta,” esaltandone il “tempe ramento a sfondo idealista che sa umanizzare i principi del 13
l’economia classica, senza nulla togliere alla precisione quasi matematica dei grandi maestri inglesi”), ci si sa rebbe dovuti aspettare che il nuovo ministro del regime cercasse anzitutto di riordinare il sistema tributario e della pubblica amministrazione, sconquassati dai prece denti governi demo-liberal-massoni, combattendo le eva sioni e trovando nuove fonti di entrata anche per realiz zare una maggior giustizia distributiva. Al contrario, il De Stefani rilasciava dichiarazioni che miravano a tran quillizzare “le anime trepidanti di quanti avevano ritenuto che l’avvento del fascismo al potere segnasse l’inizio di una specie di palingenesi economica e sociale” - rassicu rando, cioè, proprio tutti coloro che avrebbero avuto più da temere da un governo che tentasse di stabilire una maggior giustizia fra le varie classi -, sostenendo che “chiun que può riconoscere che, oggi, non si sciopera più, che le interruzioni di lavoro, per le quali ogni pretesto era avidamente sfruttato e forse creato, sono quasi scompar se” (il che doveva suonare particolarmente gradito alle orecchie degli imprenditori e degli agrari, che vedevano un’Italia ridiventata laboriosa, accreditando la favola di un fascismo che era sopraggiunto a salvare l’Italia dalla dissoluzione in cui minacciava di cadere per gli scioperi e le agitazioni delle classi lavoratrici). Ma la sua opera veramente risanatrice non si arrestava qui, ché anzi era proseguita, con infaticabile ardore, sempre in favore dei ceti abbienti: “Noi abbiamo dato prova di rispettare e onorare il lavoro e, nello stesso tempo, di non odiare il ri sparmio, cosicché ognuno sa di poterne ora tranquillamen te godere. La politica di persecuzione del capitale è stata di colpo arrestata per opera nostra. Sono caduti vincoli e mo nopoli, si sono tolti svariati privilegi, si sono soppressi orga ni inutili e attività non proprie dello Stato, si è garantita, con adeguate provvidenze, la facilità dei movimenti ai pro duttori e ai commercianti, si è assicurata la pacifica con correnza dei Sindacati, si sono stipulati trattati benefici alla nostra espansione commerciale e alleggeriti certi da zi nell’interesse dell’agricoltura e dei consumatori.” Non si capisce bene, dopo aver letto queste parole, da che co sa il ministro traesse motivo di compiacimento, ma for se egli non si accorgeva che, invece di liberare la nazione dallo spirito di speculazione di “gente avida e senza scru poli,” (la quale aveva potuto approfittare del clima belli co per accentuare “la degenerazione delle forze economi che,” spostandole dalla produzione e dal commercio verso 14
le combinazioni infeconde, con il lasciare la più ampia li bertà al capitale), non aveva fatto altro che aggravare quel clima che aveva giudicato cosi severamente, ritenendolo mal sano e contrario agli interessi generali. Il Guarneri seguiva con malcelata ammirazione questa feconda opera, e cosi ne descrive più minutamente i va ri momenti: “Soppressi i tributi della finanza di guerra, quale l’imposta straordinaria sugli amministratori e diri genti di società, e il contributo straordinario personale di guerra che, come addizionale alle imposte dirette, grava va su tutti i cittadini; proseguita a fondo l’opera, già ini ziata dai Governi di Bonomi e di Facta, diretta a dare al l’imposta sui sopraprofitti di guerra, nella sua applicazione pratica, un assetto tale da attenuarne, per quanto possibi le, i disastrosi effetti su tutta l’economia nazionale; facili tati i concordati per gli accertamenti definitivi e per il ri scatto dell’imposta straordinaria sul patrimonio; bloccate le sovrimposte comunali e provinciali sui terreni e sui fab bricati allo scopo di arrestare la corsa degli enti locali verso la confisca della proprietà [...]; attuata la perequa zione degli oneri gravanti sulla terra mediante la revisio ne generale degli estimi catastali. La finanza apriva, inol tre, la strada a una più vasta leva dei contribuenti esten dendo l’imposta di ricchezza mobile ai redditi agrari di esercizio a carico del proprietario coltivatore [cioè dei piccoli proprietari], che una strana teoria del reddito do menicale aveva fin allora lasciati esenti, e a talune merce di operaie, agli stipendi e alle paghe assegnate al persona le addetto ai pubblici trasporti.” A tutte queste riforme, che, come si vede, tendevano ad alleggerire il carico fiscale gra vante sugli strati sociali più benestanti (ma che, secondo il Guarneri, erano ispirate dalla volontà di riordinare “ta luni tributi particolarmente vessatori”), se ne aggiunsero altre, il cui compito avrebbe dovuto essere quello di fare assumere alla politica economica e finanziaria fascista una sua propria fisionomia, e che venne definita “politi' ca produttivistica”: “Vanno ricordate,” aggiunge sempre il Guarneri, “soprattutto: la soppressione definitiva dell’obbligo generale della nominatività per i titoli di credito privati, nell’intento di favorire l’afflusso di capitale alle imprese; l’abolizione dell’imposta di successione nell’ambi to del nucleo familiare; le facilitazioni al capitale estero destinato a investimenti permanenti in Italia con la esen zione dell’imposta di ricchezza mobile degli interessi dei mutui e delle obbligazioni collocate all’estero; la estensio 15
ne del beneficio della esenzione venticinquennale dall’im posta fabbricati alle nuove costruzioni destinate a nego zi, uffici, alberghi; la riduzione delle aliquote dell’imposta sui fabbricati e la esenzione da detta imposta degli opifici industriali Era veramente la politica liberistica che si erano aspet tati gli industriali dal nuovo regime, che, una volta e ben presto tranquillizzati gli interessi predominanti, aveva fat to di tutto per venire incontro alle loro attese. Peraltro, “La Stampa,” ad opera di A. Cabiati, cercava di svolgere un'opera di “condizionamento critico” verso una simile po litica fascista. Lo stesso Cabiati, dopo aver fatto atto di adesione alla fatica di risanamento del paese condotta da Mussolini, scriveva, il 2 novembre del 1922: “Oggi l'Italia, per opera del fascismo può diventare o il Venezuela d'Eu ropa od un Jpaese risanato e forte, che riprenda quella marcia ascensionale che ha meritato col sacrificio sino al la vittoria” (si vede proprio che non capiva nulla della po sizione riservata al nostro paese dai potenti alleati, una posizione subordinata sia sul piano politico sia su quello economico, sul quale ultimo erano riservati all’Italia i settori produttivi più arretrati tecnologicamente). Tale ri sanamento, per il Cabiati, si sarebbe potuto raggiungere con una politica schiettamente liberistica, che eliminasse, nel la realtà nazionale, “i due elementi potentemente corrosi vi di una burocrazia diffusa ed inframettente e di una .oli garchia, che la concentrazione delle ricchezze provocata dal l'industria bellica e dalla svalutazione monetaria hanno reso insopportabile. Contro questi due parassitismi,” egli aggiun geva, “ugualmente perniciosi alla finanza pubblica e alla di stribuzione delle ricchezze, può puntare il fascismo, appunto perché sorto con una tradizione e per un atto rivoluziona rio.” Nulla, pertanto, c’era, in queste parole, che si discostas se dal tradizionale liberismo, al quale aveva reso ,omaggio - semplicemente esteriore - pure il De Stefani nel citato in dirizzo al presidente del consiglio; ma, poco più tardi, il 22 novembre, ancora il Cabiati metteva in guardia dai perico li che avrebbero potuto derivare da una applicazione troppo rigida del libero scambio: le “cospicue” riduzioni tariffarie. lare, della siderurgia, “giardino del protezionismo”) non dovevano indurre lo Stato a spogliarsi dei suoi attributi in favore dei più grandi gruppi finanziari. Pertanto, il Cabiati criticava con fermezza l'accennato passaggio dei 16
servizi pubblici ad imprese private, temendo la manovra dei “grossi finanzieri, i quali, svalutando con le campagne giornalistiche i servizi pubblici, si preparano a far paga re tutto in una volta allo Stato (sotto forma di minor va lore capitale di cessione) i disavanzi passati, allo scopo di assicurarsi il terreno per i lauti utili futuri.” Ma i più forti allarmi venivano dalla politica fiscale, e se la parte finanziaria delle comunicazioni del duce alla Camera era no definite, il 19 novembre, “di ordinaria amministrazio ne,” l'esposizione del De Stefani, invece, destava vive ri serve, in quanto il Cabiati riteneva che si tendesse a di sarmare “la Finanza dei mezzi sicuri di accertamento.” Una certa ambiguità si notava anche nel “Corriere della Sera” di L. Albertini, che pure, con “intransigenza nei principi,” voleva mantenersi fedele alla tradizione libe rale, che pur aveva percorso molta strada e superato gra vi pericoli. Secondo lui, il “benessere del popolo” scaturi va dall’aumento della produzione, dalla formazione del risparmio, dal conseguimento del pareggio nel bilancio, dall'attivo delle aziende statali, dalla parificazione degli stipendi pubblici e privati, e, infine, dall’esistenza di un partito socialista trasformatosi in partito operaio che aves se ripudiato “quelle concezioni antieconomiche la cui rea lizzazione è una iattura per il proletariato e per il paese” e che avesse accettato una linea liberista tale da garanti re la difesa degli interessi dei consumatori. Ma, ad una simile celebrazione dell’iniziativa privata, rispondeva L. Einaudi, che pure non aveva nascosto fino allora il suo aperto consenso agli ambienti industriali. Ebbene, era proprio lui che doveva constatare “la mancata educazione politica dei dirigenti l’industria.” Non certo che egli giun gesse a mutare le sue tradizionali posizioni di appoggio a quei “dirigenti d’industria,” in cui continuava a vedere la spina dorsale del paese, poiché distingueva nettamente fra “la grandissima maggioranza degli industriali, degli agri coltori e dei banchieri italiani, i quali vivono d’un lavoro sano e fecondo” ed i “pochi profittatori e interessati al l’oscurità e al silenzio.” La sua polemica era rivolta con tro i dirigenti della Confindustria, esponenti di una picco la minoranza, di contro alla gran parte della sana industria nazionale. Convinzione che gli offriva il pretesto per ri volgere un caldo appello a coloro che si accontentavano di vivere di un lavoro “sano e fecondo:” “Voialtri indu striali e commercianti siete voi che, dando impulso ai la vori, ai commerci, alle industrie, create i fermenti di no 17
vità, mettete l'Italia in rapporto col mondo. Come potete credere alla possibilità di un’Italia progressiva in econo mia, la quale rimanga a lungo priva degli istituti fondamentali del vivere civile occidentale, che sono la libertà di stampa, la libertà di associazione, il libero cozzo delle parti politiche, l’alternarsi dei partiti al potere a seconda delle oscillazioni dell’opinione pubblica, l’ordine tutelato unicamente dallo Stato imparziale, le pene dispensate dal la sola magistratura?” A sua volta, il quotidiano del duce, “Il Popolo d’Italia,” trovava una quasi perfetta consonanza tra il liberismo e l’autoritarismo fascista, in quanto il nuovo Stato aveva aiutato il paese ad uscire “definitivamente dal socialismo per restituire a poco a poco ogni iniziativa all’attività pri vata e per riprendere le primordiali funzioni giuridiche e politiche.” Tuttavia, si trattava di una libertà sempre limi tata all’ambito economico e subordinata ad una idea di potenza, di cui i primi tentativi di Mussolini in politica estera - ad esempio, l’impresa di Corfu del 1923 - dove vano dimostrare tutta la debolezza e la fragilità. Ma il quotidiano proclamava che “la libertà torna a riconcepir si come un dovere e non come un diritto, come un mezzo per servire una sola e grande divinità: la Nazione.” Se condo “Il Popolo d’Italia,” la politica economico-finanziaria del De Stefani rientrava perfettamente in tali direttive, con la definitiva soppressione della nominatività dei titoli e l’abolizione della tassa di successione, a proposito della quale scriveva: “Tale provvedimento è giustificato da 1) ragioni di ordine giuridico, poiché il provvedimento favo rirà sempre più il rafforzamento su solide basi dell'istituto della famiglia, alle cui sorti è indissolubilmente legata l’u nità morale della Nazione; 2) ragioni di ordine sociale a) perché la tassa ingente, non potendo colpire che una par te della proprietà, quella immobiliare sola praticamente accertabile, sfuggendo quasi completamente quella mobi liare, si risolveva in effetti in una sperequazione tributa ria; b) perché il provvedimento avrà sicuramente vaste ripercussioni dirette ed indirette sull’economia pubblica e sul movimento e l’accumulazione del risparmio, dando incremento particolarmente alla costituzione ed alla sta bilizzazione della piccola proprietà; 3) ragioni di giustizia nazionale nei riguardi delle regioni del Mezzogiorno in quanto le sorti di esso dipendono in modo principale dal sistema tributario che il provvedimento odierno concorre rà a risolvere [...].” 18
Eppure, quella Nazione di cui tanto blateravano i fasci sti, sull’esempio del loro capo, non era altro che una colo nia delle grandi potenze che erano uscite vincitrici dal conflitto: Francia, Inghilterra e USA. Lo aveva rivelato, senza alcuna ombra di dubbio, una lettera di O. Rizzini al direttore del “Corriere della Sera,” L. Albertini, del no vembre 1922: in essa si diceva che A. Giannini, inviato del governo americano, avrebbe ben presto presentato a Mus solini “un programma di politica finanziaria ed economica estera completo. Giannini proporrà, in sostanza, di essere autorizzato, come plenipotenziario, a formulare e a svol gere tutta un'azione di iniziativa italiana verso l’Inghil terra, la Francia e l’America. Dovrebbe essere una azione rapida e intensa, giacché Giannini pensa che solo in questo momento eccezionale in cui Mussolini può fare quel che vuole, si possa conchiudere qualche cosa. A parte i suoi progetti [...], Giannini si propone di ottenere per l’Italia: un trattato di commercio colla Francia; un terzo delle con cessioni ferroviarie in Anatolia; la concessione al capitale italiano (12 milioni di lire di spesa) della ferrovia bulgara al mare; altre imprese di lavori per le quali la mano d’o pera sarebbe fornita dall’Italia e il capitale (già assicura to) dall'America. Oltre all’investimento di capitale ameri cano in grandi opere di bonifica e idroelettriche in Ita lia, Giannini vuole ottenere poi altre concessioni minori dall’Inghilterra e dalla Francia: scalo aereo in Italia per le comunicazioni con l'Oriente; la valigia delle Indie e la valigia australiana in Italia, ecc. [...]. Parola d’ordine: economie formidabili e pareggio del bilancio. In tutti i di casteri uomini con l’ascia, un’ascia spietata. Compilazio ne di un testo unico finanziario che ridurrà la farraginosa legislazione attuale a una forma semplice e maneggevole, permettendo la riduzione della burocrazia finanziaria. Le poste-telegrafi dovrebbero bastare a sé; le ferrovie idem in due anni al massimo; i telefoni dovrebbero esser dati a compagnie private L...]." Come si vede, si trattava di al cuni riconoscimenti formali ad un pseudo-espansionismo a cui l’Italia aveva sempre mostrato di tenere molto (ad esempio, l’accenno ad un nostro interessamento ad un ipo tetico mantenimento dell’equilibrio nel Mediterraneo, am messo dagli alleati con l’art. 9 del patto di Londra dell’apri le 1915, mediante la cessione da parte della Turchia di una porzione della zona di Adalia, che, poi, con il successi vo trattato di S. Giovanni di Moriana, del 19 aprile 1917, era stata allargata fino a Smime, comprendendovi una 19
parte della Cilicia per giungere alla metà meridionale dell’Anatolia: trattato, peraltro, che aveva dimostrato una caducità sostanziale, ma che il Giannini sembrava voler riprendere in benevolo esame), che andavano, però, uni ti ad una specie di duro ultimatum sul piano economicofinanziario, che oltre a relegarci ad una funzione del tut to subalterna (l’Italia avrebbe dovuto fornire la manodo pera e dedicarsi alle “grandi opere di bonifica e idroelet triche,” mentre i capitali sarebbero stati di origine ame ricana: cioè ci si confinava a settori privi di grandi pos sibilità di futuri sviluppi tecnologici), ci imponeva anche, abbastanza minuziosamente, il modo come raggiungere il pareggio: “economie formidabili” e “ascia spietata,” con tutto quello che segue, che non era, poi, altro che ciò che i ceti capitalistici del nostro paese da tempo sostene vano. Né si poteva dire che il duce fosse alieno dall'adottare alcuni dei provvedimenti suggeriti dal Giannini, pur senza scorgerne interamente il significato di una coloniz zazione da parte degli USA da essi adombrato: tanto che, poco dopo, ancora il Rizzini, in seguito a un nuovo colloquio con l'inviato americano, potè scrivere all’Albertini che il Giannini era, nel complesso, soddisfatto di come stavano andando le cose nella penisola, pensando che il duce fos se un uomo abbastanza forte da poter lottare vittoriosa mente contro la burocrazia, anche se era “circondato piut tosto male” ed anche se pensava che le sue “grimaces [smorfie] sceniche possono giovare con certa gente che teme gli occhi roteanti e i pugni calati sul tavolo.” Ma aveva soprattutto trovato il Giannini preoccupato di riu scire a far concludere al nuovo governo accordi commer ciali e contratti con l’America: “Giannini,” scriveva, in fatti, “vede essenzialmente in Mussolini l’uomo forte che può aiutarlo a conchiudere gli accordi commerciali e i con tratti (come quello per il cavo Italia-Stati Uniti pel qua le la Western spenderà dieci milioni di dollari!) che egli ha in mente, l’uomo che rompe gli indugi e scavalca gli ostacoli.” Il problema fondamentale diventava, pertanto, per il Giannini, quello di fare presto a rimettere il paese in buon assetto, “giacché in questo momento il capitale americano specialmente trova una grande attrazione in Italia, attrazione che potrebbe svanire se vi fosse disordine, confusione, incapacità di ‘agguantare’ praticamente le cose, di riformarsi, ecc.” Era evidente che il “capitale americano” era interessato ad investire, in particolare, in Italia, per 20
ché si trattava di un paese relativamente sottosviluppato nel contesto dei paesi sviluppati dell'occidente europeo, che, perciò, aveva bisogno di acquistare i prodotti ad alto contenuto tecnologico che potevano venire dagli Stati Uniti; ed era pure chiaro il suo interesse a trattare con una nazione che avesse risolto i suoi problemi del risanamento interno economico-finanziario, in quanto solo in tal modo essa avrebbe potuto onorare, con adeguati pagamenti, le firme apposte agli accordi commerciali ed ai contratti.
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Capitolo secondo
I problemi dei ceti agricoli
Ma una simile rigida politica - anche se forse soltanto in apparenza, dal momento che erano molto frequenti le deroghe in favore dei ceti borghesi più abbienti - doveva finire con il favorire proprio quelle classi plutocratiche che Mussolini, troppo spesso e troppo volentieri, procla mava di voler combattere. G. Volpe, nel commento al di scorso della corona, in “Gerarchia” del giugno 1924, par lava di graduale “revisione del 'liberalismo'” e sembrava riprovare la “baldanzosa letteratura giornalistica e orato ria di parte fascista” che era stata basata sul “disconosci mento polemico del passato.” Commentando, inoltre, l’ope rato in campo economico del primo fascismo, cercava di mettere in luce che non si era voluto fare un atto “di ade sione ad una concezione liberistica”: “Che cosa ha fatto [il regime] in questo anno e mezzo? Di che cosa ora noi lo lodiamo? Ha affrettato lo scioglimento, un pezzo dopo l’altro, della ‘bardatura’ di guerra, riconducendo lo Stato alle sue fondamentali e tradizionali funzioni che non sono quelle di gestire industrie, esercitar commerci, arare la terra, ecc. Ha lasciato libera la materia dei contratti agrari [...]. Anche in fatto di istruzione, lo Stato limita quantitativamente la sua attività e incoraggia privati ed enti locali ad operare, nel campo della scuola media, in quello universitario, in quello elementare [...].” Ma tutto ciò, secondo il Volpe, non voleva significare l’adozione o l’adesione “ad una concezione liberistica,” bensì un ri conoscimento della nuova realtà in cui ormai viveva il paese, che richiedeva un accentramento ideale a cui corri spondesse un pratico decentramento. Anche se, subito do po, si dimenticava del decentramento, ed affermava: si trattava “anche di questo: crescente importanza, per un paese come l’Italia, di funzioni che solo lo Stato può eser citare (come la politica estera e ciò che con essa si con 22
nette; come le grandi opere pubbliche, capaci di agevola re la produttività economica dei cittadini e la valorizzazio ne economica del paese, ecc), e che lo Stato tanto me glio esercita quanto più esso restringe il campo della sua attività.” Il Volpe, poi, commentava ampiamente e favo revolmente il passo del discorso della corona in cui si di ceva che il governo avrebbe dovuto preoccuparsi di tute lare “equamente,” oltre che gli interessi delle industrie, trovando nuovi sbocchi per esse, pure quelli dell’agricol tura, alla quale si sarebbero dovute dare “cure sempre più vigorose, specialmente per consolidare la piccola e media proprietà e favorire il possesso familiare della terra ai la voratori da un lato, per risolvere, dall’altro, i problemi tecnici e finanziari connessi con un più vigoroso sviluppo della nostra economia agraria.” Ottimamente, affermava il Volpe: “l’ora che volge è, fra l'altro, ora di ricostituzio ne di ricchezza perduta, di aumento della nostra ricchez za. Lo sbilancio fra i bisogni e la ricchezza reale del pae se, fra i consumi e quella ricchezza, è cresciuto con e do po la guerra. Tutti vogliono vivere, e in gran parte vivo no, meglio di prima della guerra. Ed è difficile, salvo un cataclisma, tornare indietro. Le prediche sono perfetta mente inutili. Lo sbilancio si sanerà solo aumentando la ricchezza, aumentando il lavoro in patria [...]. Quindi, ciò che sarà fatto per lo sviluppo industriale del nostro pae se,■“sarà ben fatto: riorganizzazione bancaria, poiché in que sto momento si ha l’impressione di un mezzo caos; inco raggiamento a capitali forestieri, sia pure con quelle cau tele e limitazioni che servano ad evitare pericoli all’organiz zazione bellica, o monopoli e presa di possesso del nostro paese da parte di speculatori internazionali od obbedienti ai cenni di altri governi (perciò non troppo mi piace la convenzione Sinclair per i petroli!); più diffusa ed efficace istruzione tecnica e professionale d’ogni grado, ma specialmente operaia. Il rendimento del nostro operaio, si dice da un pezzo, è piccolo. Ne avrà colpa la deficienza degli impianti e del macchinario, cioè del capitale investito; ma anche la affrettata e grossolana istruzione tecnica del la voratore. Qui bisogna battere.” Tuttavia, si sarebbe dovu to ancor più aiutare “questa vecchia e un po’ stanca o pi gra terra italiana,” che era il più saldo vivaio della nostra economia, la riserva che aveva più bisogno che lo Stato venisse in suo soccorso. “Poiché l’Italia agricola ha mino re coerenza e più debole organizzazione di forze da met ter su la bilancia della vita politica italiana; ha scarsa concen 23
trazione e quindi efficienza di capitali, anche perché non of fre prospettive di grandi e rapidi guadagni; non dispone di grandi giornali e di mezzi per agire sull’opinione pubblica, salvo alcuni tradizionali, da organetto (l’Italia, “paese emi nentemente agricolo” e simili!); ha scarse capacità di vaste iniziative, anche perché molte di esse spesso trascendono l’in teresse immediato dei singoli e dei ristretti gruppi ed anche di ogni singola generazione, e sono tali che solo lo Stato le può assumere. Ad esempio, fare strade, rimboschire le mon tagne, ricostituire il terreno di intere regioni, mediante la bo nifica integrale. Il governo di Mussolini,” proseguiva il Volpe, “dà qualche buona garanzia per questi problemi dell’Italia agricola. La maggiore tranquillità raggiunta è, essa stessa, per intanto, coefficiente di primo ordine. Quella fiducia nel no stro avvenire, che è poi fiducia di poter lavorare con conti nuità e di raccogliere i frutti del nostro lavoro, benefica in nanzi tutto l’agricoltura. Se c'è attività che non guarda l’og gi ma il domani, e prospera solo se sa attendere il domani, è proprio quella agricola, lenta a maturare i suoi frutti e più legata alla natura, la quale, come si sa, non facit saltus.” Ed opponeva alla mentalità del presente quella “di 10 o 20 an ni addietro” che identificava l'agricoltura con il “piede di casa e trovava un contrasto fra le colonie e la bonifica,” poi ché il nuovo regime voleva anzi conseguire una “maggiore saldezza della nazione italiana” nonché una sua “maggior ca pacità di vita internazionale.” Infatti, in vista di queste più ambiziose mete, il fasci smo “sta provvedendo per il credito agrario,” ed aveva messo “in gestazione progetti per il latifondo e per i de mani del Mezzogiorno: questioni che, negli ultimi anni, hanno fatto più di un passo avanti, e per quel che ha ope rato 1’ ‘Opera nazionale dei Combattenti,’ e per il più ap profondito studio di che esse sono state oggetto, anche dietro iniziativa di associazioni come la ‘Federazione italiana dei consorzi agrari’ e la sua ‘Commissione di stu di tecnici ed economici.’ Ho qui ima relazione di Romualdo Trifone, su La questione demaniale nel Mezzogiorno d’Ita lia, che, discussa e approvata da quella Commissione il 6 marzo 1924 in Roma, presenta le direttive generali e (e modalità per una definitiva liquidazione dell’annosa que stione.1 Anche l'istruzione agraria si sta mettendo sopra 1 II duce, presiedendo, a palazzo Chigi, il 21 febbraio dei '24, una riunione tra i rappresentanti della Corporazione nazionale dell'agricol tura e i rappresentanti della Federazione italiana dei sindacati agricol tori, diceva: “Credo che bisogna rialzare i valori deiragricoltura ita24
una buona strada. Ecco i RR. DD. 30 dicembre 1923 e 3 aprile 1924: il primo, con la riforma di un certo numero delle attuali scuole pratiche e speciali di agricoltura, che sono messe in grado di rispondere agli scopi di una istru zione media professionale; il secondo, con la istituzione di corsi organici per l’istruzione tecnica dei giovani conta dini, impartita in ogni comune da maestri agrari, e di corsi temporanei per contadini adulti (vedi i RR. DD. 3214 e 534; vedi anche la Nota di variazione allo stato di previ sione della spesa del Ministero dell’Economia Nazionale, che porta da mezzo milione ad un milione la spesa per l’istruzione dei contadini adulti e imposta 2 milioni per le scuole professionali). Infine, qualche recente provvedi mento tende a promuovere, agevolandone l’importazione, l’uso di certe macchine agrarie. Bisognerà forse fare di più su questa strada.” Insomma, il Volpe approvava pie namente quanto aveva affermato Vittorio Emanuele III nel discorso della corona dopo le elezioni del 6 aprile ’24, secondo il quale il suo governo avrebbe dato “cure sempre più vigorose” per tutelare gli interessi dell’agricoltura, “specialmente per consolidare la piccola e media proprie tà e favorire il possesso familiare della terra ai lavoratori da un lato, per risolvere dall’altro i problemi tecnici e fi nanziari connessi con un più vigoroso sviluppo della no stra economia agraria, che tanta parte ha nella vita eco nomica e sociale del paese.” Certo, il Volpe non si na scondeva che tali tendenze liberali e tali orientamenti li berali del mondo agricolo si sarebbero scontrati con la liana. Dobbiamo dirci che è stata un po’ negletta l’agricoltura. C'è sta to, in questi ultimi tempi, uno sviluppo industriale in Italia fortissimo, prodigioso, ma la ricchezza dell'Italia, la stabilità della nazione e l'av venire di esse sono, a mio avviso, intimamente legate alle sorti ed al l'avvenire dell'agricoltura italiana. Ragione per cui vorrei che gli italiani e tutti coloro che si occupano di questioni sociali ed anche i legislatori passati e futuri tenessero al primo piano della loro considerazione le cose dell’agricoltura. Io ho la coscienza tranquilla a questo riguardo [...], e devo rallegrarmi del nuovo indirizzo che si dà all'agricoltura italiana, indirizzo tecnico, diretto a industrializzare l'agricoltura, ad esercitarla razionalmente. Io credo che l'Italia sia in grado, sia pure at traverso la compensazione delle diverse culture, di produrre tutto ciò che le è necessario e di avere anche la possibilità di esportare. Le nazioni solide, le nazioni ferme sono quelle che stanno poggiate sulla terra, sono quelle che hanno il maggior numero di piccoli proprietari. Le masse agricole italiane si sono portate bene durante la guerra." Si trattava, evidentemente, di un discorso elettoralistico rivolto ad attirare al fa scismo le simpatie della ancora molto folta e preponderante massa dei piccoli proprietari, in vista delle elezioni che si sarebbero tenute il 6 aprile '24, elezioni da cui Mussolini aveva dichiarato che avrebbe dovuto uscire una Camera fascista al 75%. Né le sue speranze andarono deluse. 25
resistenza di esigenze, “mai paghe, di alcune industrie”; ma egli aveva fiducia che il paese avrebbe avuto la vo lontà e la capacità di resistere vittoriosamente: “Si intra vede la ripresa di una battaglia che, questa volta, potreb be essere meno accademica di altre volte e più sostenuta da forze del mondo agrario che stanno muovendosi. Ma anche chi non ha terre da tutelare può chiedere,” egli scriveva, “che la politica doganale italiana si pieghi a certe esigenze dell’agricoltura. Non è solo un problema economico; non è solo problema di una classe o di una de terminata attività; ma un problema politico e morale, un problema della nazione tutta. Si tratta di equilibrare le forze produttive del paese, di rendere lo Stato capace di una maggiore autonomia, di dare ai vari elementi costi tutivi del popolo italiano una influenza politica che sia proporzionata alla rispettiva importanza economica. E sempre bene, poi, tener presente che dire ‘Italia agricola’ è dire l’Italia dei fanti e degli alpini; è dire l’Italia insu lare e meridionale che, per quanto spiritualmente salda ta alla comune patria, attende sempre che questa sani certi suoi mali profondi e dia più pratica consistenza a quello spirituale legame. Rendendo possibile al coltivato re del Mezzogiorno di aver macchine agrarie o concimi più a buon mercato, noi avremo fatto più che render pos sibile un maggiore rendimento di ogni ettaro di terra a grano.” Un altro economista agrario "liberista fisiocratico” di scuola ortodossa, allievo di U. Gobbi e di G. Valenti, era Arrigo Serpieri, che aveva già ampiamente e largamente esposto le sue idee nella Relazione generale per la sotto commissione economico-sociale del Comitato di studio sui provvedimenti a favore della piccola proprietà coltivatri ce montana e rurale - istituito dal ministro popolare del l’Agricoltura, G. Micheli, nel 1920 -, ed ancora, poco più tardi, allorché fu chiamato, dopo avere espresso un giu dizio positivo sul movimento dei fasci, a far parte dei “Gruppi di competenza” quale esperto di problemi agra ri (il principale animatore dei “Gruppi” era stato dal 1921 Massimo Rocca, di cui riparleremo più avanti); ed infine quando fu inserito nel Consiglio superiore economico, crea to dalla “Corporazione fascista dell’Agricoltura.” Fra il '20 e il '22, nella Relazione citata, il Serpieri aveva scritto che lo Stato non doveva né difendere né diffondere “artificial mente” la piccola proprietà coltivatrice, poiché i contadini capaci dovevano essere in grado di acquistare la terra con 26
i loro risparmi e di affrontare i rischi di mercato relativi alla conduzione dell’azienda agraria. Allo Stato spettava l'attuazione di una politica generale tale da creare l’ambienle economico e sociale, mediante le bonifiche, l’istruzione professionale, la difesa dell’ordine pubblico, ecc., si che me glio potesse esplicarsi la libera iniziativa privata. Il Serpieri, peraltro, ammetteva anche che lo Stato, in un periodo eccezionale, come l’immediato dopoguerra, in cui era molto forte la richiesta di terra, dovesse esercitare una funzione calmieratrice sui prezzi, cercando di evitare che la spropor zione fra domanda e offerta di un bene limitato determi nasse pericolose speculazioni. Tale azione moderatrice sui prezzi fondiari, a suo parere, nelle zone a proprietà appo derata dell’Italia settentrionale e centrale, avrebbe dovuto svolgersi per mezzo di organismi locali ai quali affidare l’ac certamento, sul mercato fondiario, di sovraprezzi e di specu lazioni intermediarie, con il compito di esercitare, soprat tutto, una pressione ed una persuasione presso i proprietari al fine di ottenere una pili abbondante offerta, di fare ricor so all’alienazione del demanio pubblico formato dalle terre dei corpi morali, obbligati alla conversazione dei loro patri moni fondiari, e delle terre provenienti allo Stato dal paga mento, “in solutum,” della tassa di successione; solo in via eccezionale, infine, avrebbe potuto promuovere l’espropria zione delle proprietà private per determinare, sul mercato, un equilibrio fra la domanda e l’offerta e prezzi “normali.” "Un’azione oculatamente svolta,” egli proseguiva, “in base a queste direttive [...] porterebbe [...] un minimo di alterazione u quel meccanismo di scelta che si attua nella libertà contratluale. Non si tratta di vaste espropriazioni di terre per divi derle meccanicamente fra i contadini: l’espropriazione, anzi, uvrebbe un ufficio affatto subordinato ed eccezionale. Non si tratta di regalare la terra o cederla a condizioni di ecce zionale favore: chi la desidera, dovrebbe pagarla a prezzo normale, il quale, se non è definibile in una forma precisa, non è neppure impossibile riconoscere, nei singoli casi con creti [...], corrispondente alla capitalizzazione della rendi la, che è oggetto delle stime ordinarie.” Il problema della estensione della piccola proprietà col tivatrice si presentava con caratteri del tutto diversi nell'altra Italia, quella meridionale: se, infatti, il regime fon diario del nord rendeva più facile l’accesso del contadino «Ila proprietà della terra, nel sud 1’esistenza, in alcune zone, di vasti latifondi sollevava gravi ostacoli. In realtà, nel Mezzogiorno, gli strati più poveri delle campagne si erano 27
gettati, come tante altre volte per il passato, ad occupare le terre comuni, che consideravano strappate con la violen za al loro uso dai feudatari o dai grossi proprietari (basti pensare che, nel 1861-’62, il deputato palermitano Corleo propose, nel Parlamento di Torino, di non “dar terreni per basso canone ai nullatenenti,” ma, ritenendolo un “concetto più scientifico, di favorire l’acquisto e il cumulo delle quote da parte dei ceti più agiati, perché solo cosi, secondo lui, la proprietà terriera sarebbe caduta “nelle mani che pos sono meglio coltivarla”), o avevano cercato di frazionare il latifondo, coltivato estensivamente e, perciò, scarsamente redditizio individuando, in simili propositi di colonizzazio ne, iniziati nelTimmcdiato dopoguerra, il fattore principale di trasformazione dell’agricoltura meridionale. Il Serpieri, pertanto, poteva criticare nella relazione, con relativa faci lità, l'ingenuità che sembrava essere al fondo di questi progetti ed opporre al frazionamento del latifondo e alla formazione di una piccola proprietà coltivatrice, la bonifi ca di quelle terre e la sostituzione, dove fosse tecnicamen te possibile ed economicamente conveniente, dell’orienta mento cerealicolo-pastorale con un altro agrario intensivo. Ed era proprio nell’agricoltura del sud che lo Stato avreb be potuto trovare, secondo il Serpieri, il terreno più pro pizio per una ampia politica di spesa pubblica volta alla realizzazione della bonifica integrale; ed era appunto là che l’intervento statale poteva assumere forme dirette (come, in generale, nelle regioni montane della penisola) e ricorrere anche, in via normale, all’esproprio. “Un inter vento anche in forme coattive dello Stato [sul latifondo] meno repugna alla più evoluta coscienza borghese, quando possa giustificarsi con la incapacità dei proprietari attuali a quelle che sono le funzioni caratteristiche, e quasi la ra gione di essere della borghesia, cioè alla applicazione delle più progredite forme tecniche di produzione.” Cosi, il Serpieri coglieva, pur senza averne una precisa consapevolezza, le caratteristiche essenziali dell’agricoltu ra settentrionale e di quella meridionale: la prima, quasi esclusivamente dedita alla produzione dei generi alimen tari - grano, granoturco, riso, ecc. - indispensabili per il consumo quotidiano della popolazione e che, di conse guenza, potevano essere considerati generi incomprimibi li, mentre la seconda produceva generi che erano più fa cilmente commerciabili perché generi pregiati - agrumi, olio, vino, grano duro, frutta secca, fichi, ecc. Ma ciò gene rava ima situazione profondamente divergente delle due 28
aree di fronte alle crisi e alle guerre, perché i contadini e gli agricoltori del nord potevano vendere i loro prodotti anche sul mercato nero, ritraendone benefici che poi li avrebbero messi in grado di acquistare le piccole proprie tà, a differenza dei contadini del sud che si vedevano chiu se tutte le vie per l’esportazione, peggiorando, in tal modo, notevolmente le loro condizioni di vita che dovevano spin gerli, alla fine del periodo critico, ad occupare le terre. Basti pensare che erano stati sufficienti circa sei anni perché la chiusura del mercato francese ai nostri prodot ti agricoli meridionali in seguito alla rottura dei rappor ti commerciali con la vicina repubblica, nel 1887 (rottu ra dovuta alla pressione degli interessi degli industriali tessili), per provocare, nel 1893-’94, quella nuova ribellio ne contro lo Stato regio ed unitario da parte dei Fasci siciliani. La guerra, dunque, che pure aveva mandato al fronte, in numero maggiore, i contadini del Mezzogiorno (anche perché buona parte di essi era andata nel Setten trione, a lavorare, nelle fabbriche belliche), li aveva la sciati molto più miseri ed affamati di terra dopo di quan to non fossero prima. Ma, ritornando al Serpieri, la sua adesione al fascismo lo portò al governo come sottosegretario per l'Agricoltu ra nel ministero dell’Economia nazionale retto dal Cor bino (1° agosto 1923-30 giugno 1924), e quasi a commento e a giustificazione dell’opera da lui svolta in tale incari co, pubblicò, nel 1925, a cura della Federazione dei Con sorzi agrari, il libro La politica agraria in Italia e i recen ti provvedimenti legislativi. La giustificazione era più ar ticolata in questo volume, in cui egli presentava la sua approvazione del “governo nazionale” di Mussolini non solo perché era convinto che avrebbe saputo attuare una netta svolta conservatrice - il “governo forte” - nella po litica italiana e, in particolare, la “restaurazione contrat tuale nelle campagne” - sopprimendo la legislazione sulle proroghe dei contratti agrari e sull’occupazione delle ter re, rivedendo i criteri adottati per favorire le cooperati ve agricole, e ritirando il disegno di legge Falcioni-Micheli sulla colonizzazione del latifondo -, ma avrebbe pure impo sto al paese il governo dei tecnici, in quel momento di crisi economica e politica della società italiana e di cat tivo funzionamento dell’apparato burocratico statale, me diante la cosidetta “gerarchia delle competenze.” Ed ap punto, esaminando i compiti essenziali del “governo na zionale,” il Serpieri, rifacendosi al rapporto tra forza e 29
consenso e alle teorie di Mosca e di Pareto, metteva in rilievo il fatto che “la classe politica giunta al potere con la ‘marcia su Roma’ deve dare ogni opera ed allargare quanto più è possibile la sua base di consenso, come a de terminare (ove non ritenga buone le antiche) i limiti del le libertà politiche concesse ai cittadini [...]. Il fascismo fu un energico sforzo di [...] rinnovare i logori gruppi dirigenti italiani, che avevano preparato mediocremente la guerra e pessimamente preparato la pace, di infondere più energica vita, più consapevolezza allo Stato. Al posto dello Stato burocratico e senza contenuto morale, socia listoide [si deve sostituire] lo Stato di poche funzioni es senziali fortemente armato e vigilante sul fronte inter no e sul fronte esterno.” Si trattava, come si vede, di una concezione dello Stato che, quasi senza averne una preci sa coscienza, mescolava il consenso alla forza, stabilendo rigidamente “i limiti delle libertà concesse ai cittadini,” in modo che non ne potessero uscire: era, certo, qualco sa di diverso dal socialismo, ma non da quel “socialismo di Stato” che, secondo il Pareto, doveva aprire la strada al “socialismo rivoluzionario” e che rappresentava il pe ricolo più grave per i buoni borghesi, “molli, ingenuamente sentimentali, deboli, che non sanno difendersi” dalla com pleta spoliazione di ogni loro avere che li minacciava da parte del nemico che si infiltrava nelle vene della vec chia società. Il Serpieri si era posto come fine quello di salvare l’a gricoltura italiana, ed assumeva volentieri le sembianze di un messia giunto sulla terra a liberarla dai suoi mali: nella prima fase del nuovo regime andava d’accordo con l’ideologia tecnocratica che caratterizzava il fascismo al lora, tanto che poteva sostenere, lui, economista liberista, l’esigenza del decentramento amministrativo, al fine di un ridimensionamento della burocrazia e di una semplifica zione dei suoi attributi: il che era qualcosa di ben diverso dalla richiesta di un ulteriore sviluppo delle autonomie locali, perché aveva, anzi, quale obiettivo, il rafforzamen to dei poteri dello Stato: “Decentramento!,” egli diceva con una certa enfasi ispirata, “chi non lo ha invocato, soprattutto fra gli agricoltori, di fronte agli incommensu rabili danni di una politica agraria attuata con criteri uniformi per tutte le numerosissime e differentissime agri colture italiane; di fronte al senso di fastidio e di sdegno destato dalle lentezze, dai vacui formalismi, dal ‘culto del l’incompetenza e orrore della responsabilità’ delle buro 30
crazie statali, tali da uccidere o tradire, nell'applicazione, anche le migliori leggi, anche la meglio ispirata azione di Stato, nel campo dell’agricoltura ?” A tale esigenza, il “go verno nazionale” rispose istituendo i “Consigli agrari pro vinciali” (Rdl. 30 dicembre 1923, n° 3.229), quali organi corporativi facoltativi, a cui erano affidati i compiti pri ma delegati ai Comizi agrari, alle Commissioni provinciali d’agricoltura, ai Comitati forestali, ecc.: a tutto ciò erano aggiunte nuove funzioni miranti all’attuazione di una po litica agraria basata sulla erogazione di fondi pubblici, sulla elaborazione dei regolamenti di applicazione locale delle leggi agrarie, ecc. Ed il Serpieri manifestava la sua profonda fede liberistica e quasi la sua grande soddisfazione nell’aver tro vato - finalmente! - un governo attento ad adottare e a seguire i suoi suggerimenti. Sosteneva pertanto che il “go verno nazionale” di Mussolini avrebbe dovuto promuovere una “restaurazione liberistica,” e, in particolare, lo svilup po dell’agricoltura, mettendolo in armonia con i principi del “liberismo fondiario” contro la pressione del movimen to contadino, e del “liberismo contrattuale” contro l’orga nizzazione sindacale dei lavoratori dei campi e la sua po litica di rivendicazioni (a cui, però, ormai, proprio il “governo nazionale” sembrava aver posto definitivamente termine). “L’indirizzo generale più utile di una poli tica agraria italiana,” egli scriveva nel libro cit., “deve ispirarsi, a mio avviso, a criteri antivincolistici, a un mini mo d’intervento statale cosi nella produzione come nella distribuzione della ricchezza; deve, in massima, tener fe de alla vecchia dottrina liberale, che vede la sicura ga ranzia di prosperità nell’iniziativa privata, libera di muover si sulla via del proprio tornaconto, stimolata e insieme frenata dalla eguale libertà dei concorrenti.” Tuttavia, questa assoluta fiducia nel liberismo si attutiva, in lui, quando richiedeva l’intervento bonificatore dello Stato “nell’interesse superiore della produzione nazionale,” ma soltanto perché, in tal caso, i provvedimenti statali non sarebbero ricaduti in vantaggio dei contadini, bensì degli agrari e dei proprietari terrieri. Infatti, per quanto appro vasse senza riserve l’orientamento libero-scambista di co lui che dirigeva la politica economica fascista, A. De Ste fani, sperando in una ripresa dell’emigrazione di massa e in una riattivazione del mercato mondiale, si dichiarava, però, contrario ad una diminuzione dei dazi sui prodotti agricoli, a cui non avesse corrisposto una adeguata ridu31
zione delle tariffe protettive per i prodotti industriali, perché, altrimenti, le ragioni di scambio fra i due settori sarebbero peggiorate determinando una diminuzione del “grado di ruralità" della società italiana. Pertanto, sempre mosso dal desiderio di difendere gli interessi agrari, egli finiva con il dichiarare: “Se poi la diminuzione del prez zo [del grano] avesse carattere permanente, tale da de terminare un nuovo equilibrio dell’economia italiana, a carattere scarsamente rurale (cosi è avvenuto in Inghil terra nella seconda metà del secolo XIX), noi crediamo che, allora, almeno a un certo limite, sorgerebbe la con venienza della protezione della cerealicoltura, per ragioni di sicurezza nazionale e d’equilibrio sociale.” La verità era che il Serpieri si preoccupava di non de primere troppo il settore primario, dato che ciò avreb be compromesso l’“equilibrio sociale” e la “sicurezza na zionale,” venendo a mancare una agricoltura forte e che potesse esercitare una funzione trainante nei confronti de gli altri settori. Ma non si capisce come sperasse di con seguire tali scopi con una agricoltura, quale era la nostra, che ben presto avrebbe rivelato tutta la sua debolezza e la sua arretratezza. Ed allora eccolo proporre a Musso lini la legge sulle trasformazioni fondiarie, da cui, poi, scaturì la legislazione sulla bonifica integrale. Essa inco minciava a prevedere un intervento finanziario per la tra dizionale bonifica idraulica a carico dello Stato, e, inol tre, l’attuazione di opere di bonifica agraria, cioè di mes sa a coltura delle terre, a cui avrebbero dovuto provvedere i privati. Infine, esortava alla creazione di Consorzi obbli gatori per i proprietari dissenzienti, nei comprensori di bonifica. Il Serpieri pensava di attuare tale bonifica so prattutto nell’Italia meridionale, dove era più urgente con trapporre alla occupazione delle terre da parte dei contadi ni una intensificazione colturale del latifondo, che non in taccasse l’assetto della proprietà fondiaria e che, anzi, au mentando il valore e il rendimento della terra mediante le opere di bonifica, offrisse una occupazione continuativa ai contadini, distogliendoli dall’obiettivo perseguito con mag gior fervore, lo spezzettamento del latifondo in tante pic cole proprietà. La trasformazione fondiaria delle zone latifondistiche - egli metteva in rilievo - “sarà eseguita nei mo di consentiti dall’ambiente fisico e dal criterio della con venienza economica, sostituendo all’ordinamento produtti vo esistente un altro più redditizio [...]. Occorre una buona volta convincersi che gli elementi dell’ordinamento rurale 32
[ampiezza della proprietà e dell’impresa, tipo di contratti agrari, ecc.] sono un riflesso dell’ordinamento produttivo; che, scelto questo, quale le condizioni fisiche e il criterio delle convenienze economiche impongono, gli altri elementi ne sono una necessaria conseguenza; che allo stesso benesse re del contadino prima di tutto importa che la produzione sia alta, quindi adatta all'ambiente, perché solo allora sarà consentito un alto compenso al suo lavoro.” Ecco come poteva chiudersi su tali note chiaramente con servatrici, per non dire reazionarie (“innamorato della sta bilità sociale,” lo diceva V. Porri, nella recensione alla Politica agraria, in “La Riforma sociale,” settembre-otto bre 1925), l’iniziale fase legislativa del Serpieri, durante la quale egli - come ha osservato E. Sereni - ha lasciato la “sua impronta decisiva” in molti settori della politica ru rale e agricola, ed in cui, “mantenendosi in un contatto par ticolarmente stretto e diretto con i gruppi agrari domi nanti dalla Toscana e dell’Emilia,” seppe “esprimere, nel la forma più chiara e conseguente, i più generali interessi di classe, la coscienza di classe stessa dell’Agraria italiana, di contro ad ogni deformazione particolaristica di quella linea politica, ch’egli era venuto elaborando in suo nome, e che il regime aveva sostanzialmente fatta propria.” Forse in quest’ultima frase si può scorgere il ruolo esercitato dal Serpieri nel momento in cui il fascismo era salito al po tere ed aveva un grande bisogno di attrarre a sé vasti strati sociali per crearsi una base di consenso sicura: a tal fine, risultò molto utile per Mussolini anche l’opera di un economista agrario liberista come era il Serpieri, il qua le era legato strettamente agli agrari del nord ed ai pro prietari terrieri del sud, ma non per questo sembrava vo ler rinunciare del tutto a rivolgere la sua attenzione al mondo dei contadini, al quale proponeva soluzioni che ne smorzavano l’impeto insurrezionale, anche se potevano apparire rivolte a soddisfarne le sue più sentite esigenze. E, come si è visto, il Serpieri pensava soprattutto alla situazione meridionale, che, fra il ’23 e il '24, in attesa delle nuove elezioni (le quali avrebbero dovuto dare, come abbiamo detto, al regime una Camera fascista al 75%), stava senza dubbio molto a cuore al duce, a cui stava di fronte il problema non lieve - o almeno dai contorni inde cisi e incerti - di conquistare il Mezzogiorno. E quando, proprio poco dopo le elezioni, la sua azione si rivelò non più necessaria (il sud, per il solito fenomeno del clientelismo elettorale, era passato quasi tutto sotto i gagliardetti del 33
le camicie nere), egli fu costretto ad abbandonare il po sto di responsabilità governativa che aveva ricoperto per breve tempo. Era intervenuto pure il delitto Matteotti a modificare radicalmente i termini della lotta politica e ad accentuare, come vedremo meglio in seguito, la neces sità di riscuotere l’assenso della media e della piccola borghesia non più blandendola ma con la forza. Piutto sto, viene spontanea un’altra domanda: che cosa poteva esserci, nel programma agrario del Serpieri, in grado di sembrare favorevole ai ceti agricoli meridionali? Questi ultimi non dovevano essere molto interessati né alla boni fica idraulica né a quella agraria sostenuta dal sottosegre tario, perché la zona del latifondo - al centro della Si cilia - non ne aveva bisogno e tanto meno ne avvertiva la necessità la fascia costiera del meridione, tutta occu pata da piccoli proprietari (ed infatti, la “bonifica inte grale,” quando fu realizzata, riguardò altre aree del no stro paese, le paludi pontine e il Polesine e l’estuario del Po). Eppure, qualcosa doveva pure esservi, e forse que sto qualcosa va ricercato nella sua avversione alla ridu zione dei dazi sui prodotti agricoli e nella sua propen sione a ripristinare - se non ad aggravare - il dazio sul grano per proteggere la cerealicoltura, dazio che, da quando era stato introdotto, nel 1887, si era risolto in vantaggio dei grandi latifondisti siciliani? Ma di nuovo2 2 Era, questo del protezionismo granario, il punto che V. Porri mag giormente criticava nel Serpieri: “Del dazio sul grano il Serpieri si di chiara difensore, non soltanto in tempi di temporaneo ribasso nel mercato internazionale (come ammettono tutti i liberisti, sull'esempio del Pantaleoni e deH'Einaudi), ma anche per ragioni di ‘sicurezza na zionale e di equilibrio sociale'” (senza dubbio, il Serpieri accettando queste ragioni, faceva sue pure le posizioni di potenza nazionale tipiche del fascismo). Avrebbe potuto, proseguiva il Porri, giustificarlo con “il compenso per i ceti rurali, taglieggiati dal protezionismo industriale: ma, allora,” egli obiettava, “il prezzo contiene in sé molti pericoli che lo rendono un nuovo cavallo di Troia. Il rincaro procurato dal pane a più alto costo agisce in senso favorevole al rialzo dei salari, e perciò dei costi di produzione; di rimbalzo persuaderà i ceti industriali protetti a difendere con maggior tenacia i dazi già concessi a loro difesa. Conse guenza: ecco reso piu difficile l’ottenere dai Paesi stranieri certe ridu zioni dei dazi agrari, posti ad ostacolo delle nostre esportazioni più ab bondanti e pregiate. Ed i Paesi esportatori di cereali, vedendo più ar dua la concorrenza sul nostro mercato, tanto più ostacoleranno le nostre vendite di agrumi ed olì ed ortaggi e frutta,” con un sensibile peggio ramento, aggiungiamo noi, delle condizioni dell'agricoltura meridionale, la sola che veramente producesse per l'esportazione. E, proprio pensan do al Mezzogiorno, il Porri incalzava: “...come mai i punti dove si pro gredì (nella zona meridionale ad agricoltura estensiva) non fecero alcun passo grazie al grano, ma con la vigna a Cerignola e San Severo, con la 34
viene la domanda: che cosa importava un simile dazio ai modesti e frantumatissimi proprietari delle zone co stiere, che si dedicavano alla produzione di merci pregia te? Può darsi che la promessa di una bonifica idraulica a carico dello Stato in terre dilavate dalle frane e dalle slavine - come aveva detto il Fortunato -, facesse loro spe rare una coltura più redditizia. Ad ogni modo, il fatto è che, verso la metà del '24, la politica agraria liberistica del Serpieri aveva dato tutti i frutti che ne aveva atteso Mussolini, e il suo allontana mento fu il segno di una svolta nella condotta del regime verso i ceti agricoli e verso i piccoli proprietari terrieri, dei cui interessi si era fatto portavoce, più o meno consa pevolmente, l’uomo politico tosco-emiliano,3 cosi come, cir ca un anno più tardi, nel luglio del '25, il duce potrà li quidare colui che era ritenuto il principale esponente del liberismo puro di stampo ottocentesco, cioè il De Stefani, perché ormai aveva stabilito, o stava stabilendo, rappor ti molto stretti con le classi industriali, delle quali il De Stefani stesso era apparso il rappresentante più diretto. Perciò, l’abbandono del Serpieri segnò la fine di un perio do in cui era stata condotta una determinata politica agra ria, della quale il duce avvertiva, in quella fase iniziale del suo dominio, l’esigenza, ed è proprio per tale motivo che intenderemmo con una certa cautela ciò che sia il Sereni sia il Foa scrivono sulla “ideologia ruralistica e sostanzialmente reazionaria” del Serpieri che avrebbe svela to alcune delle più sostanziali contraddizioni del fascismo. Il Foa, infatti, dice: “Nelle posizioni di Serpieri, nel suo illufacetta e la sulla nel cotronese od in qualche angolo dell'interno della Si cilia, con la radice di liquerizia ed il riso in quel di Sibari e S. Eu femia, col pomodoro in Val di Sete, con l'orto nell'agro romano? Trop po aleatoria resta la cerealicoltura in molte province meridionali per cau sa del clima: le 40 lire di rincaro per il dazio possono diminuire le per dite, non assicurare un reddito medio.” Ancora una volta, come già era avvenuto con la tariffa protezionistica a difesa del nostro settore tes sile e con il congiunto dazio sul grano, sarebbe stata maggiormente fa vorita la cerealicoltura del nord, che produceva il grano più intensiva mente e con il sussidio di macchine, di concimi, ecc., più moderni, a sca pito — come dimostrava il Porri — dell'agricoltura meridionale. 3 Era ormai vicino, sul piano politico, il momento che avrebbe visto l'affermazione del Farinacci, implacabile nemico del Serpieri, che aveva seguito una linea ritenuta funesta dal ras di Cremona: in un telegram ma del 19 settembre '23, quando più forte era, nel fascismo, la polemi ca sulla normalizzazione o meno, il Farinacci ricordava al duce che non doveva dimenticare “che Serpieri fu nostro feroce avversario e fu a fian co di Miglioli quando noi, per combatterne demagogismo, dovemmo condurre alla morte delle nostre camicie nere.” 35
minismo, nella sua fiducia nel potere dello Stato di riparare ai guasti del monopolio, in questo caso del monopolio fondia rio, nella sua clamorosa capitolazione di fronte agli agrari, nella sua ideologia ruralistica e sostanzialmente reazio naria, si annidano alcune fra le più significative contrad dizioni interne al fascismo.” A sua volta, il Sereni, aveva affermato: “[...] proprio in Emilia ed in Toscana, il pia no riformistico della bonifica integrale era destinato a fal lire, come lo documentavano le ripetute lamentele del Serpieri stesso per la mancata attuazione, da parte degli agrari, delle opere di trasformazione di loro spettanza [...], senza che, d'altro canto, alcuna sanzione sia mai stata pre sa nei confronti dei proprietari inadempienti.” Ancora una volta, pertanto, tale incapacità riformistica delle classi do minanti toscane ed emiliane (ed italiane in genere) sareb be incomprensibile se non si tenesse presente il “fatto che il regolatore delTeconomia, in queste regioni, non era in questo periodo, e non è, a tutt’oggi, semplicemente la leg ge del profitto medico, o quella della rendita fondiaria ca pitalistica ad essa subordinata, bensì la legge del massimo profitto, caratteristica per la fase del capitale finanziario monopolistico e del capitalismo monopolistico di Stato, la cui efficacia variamente si combina e si innesta con quel la di posizioni di rendita, di origine feudale o semifeuda le od altra, quali son quelle tipiche per la grande proprie tà di poderi a mezzadria: sicché a questa proprietà non potevano bastare i pur abbondanti profitti e le rendite as sicuratile, a spese dello Stato, dall'iniziativa riformistica del Serpieri, ma erano indispensabili quei sovraprofitti e quei complementi di rendita che la legge del massimo profit to comporta, e che solo l'inadempienza agli obblighi stes si, derivanti da quell’iniziativa, poteva assicurarle, e foss'anche a prezzo del fallimento di quella iniziativa rifor mistica stessa.” Fallimento, dunque, della politica dell'Agraria toscana e del fascismo, che avrebbe coinvolto pure il fallimento personale del Serpieri, “non solo per quanto riguarda la battaglia del grano e la bonifica integrale, bensì anche, e particolarmente per quanto riguarda gli obiettivi più larghi e ambiziosi di quella politica, quali son quelli del la mezzadria, dell’appoderamento, della ruralizzazione: che erano, poi, gli obiettivi della piena e ‘pacifica’ subordinazione del lavoro (e delle possibilità stesse di un moderno svi luppo agricolo e industriale del paese) agli interessi del la proprietà terriera e del capitale.” Non vorremmo di 36
scutere molto a lungo ciò che sostiene, in queste frasi, il Sereni, ma a noi sembra di aver dimostrato come, nel la fase iniziale della sua partecipazione al governo Mus solini, il Serpieri avesse soltanto abbozzato un piano di “bonifica integrale” (che fu, più tardi, dopo la crisi del '29, condotta avanti dal fascismo nelle zone da noi in dicate), e, per di più, in quella fase si trattava di una bo nifica rivolta soprattutto a porre un rimedio alla preoc cupante situazione del Mezzogiorno. Intento che fra il '23 e il '24 corrispondeva in pieno a quello del regime, che si preoccupava di conquistare il sud (secondo una - si po trebbe quasi dire - legge che ha sempre guidato chi è riu scito a giungere a reggere, da Roma, la cosa pubblica: Giolitti, nel passaggio dall’Ottocento al Novecento, allorché diventa il “ministro della malavita” e il coordinatore, nel Mezzo giorno, dei mazzieri che, in ogni elezione, gli dovevano fornire un certo numero di deputati fedeli; il fascismo, appunto, dalla consultazione elettorale del '21 a quella successiva del '24, e, infine, in questo secondo dopoguerra, la Democrazia Cristiana, che era stata, come Partito po polare, un partito che affondava le sue radici soprattut to nel settentrione e che si trasformò in formazione poli tica del sud già con le elezioni del 2 giugno '46 e, più ancora, con le altre del 18 aprile ’48). Insomma, la nostra conclusione sarebbe che il Ser pieri rispose molto bene alle esigenze del fascismo nel suo primo periodo, ma fu allontanato dal ministero del l'Agricoltura non appena il duce, avendo capito di aver conseguito i suoi propositi, abbandonò il programma del la “ruralizzazione” (cioè della “realizzazione di un’opera zione malthusiana” che negava la possibilità di uno svi luppo industriale), sostituendo alla difesa della piccola proprietà e della mezzadria l’appoggio ai ceti capitalisti ci in agricoltura, cercando di saldarli con quelli indu striali. Molto interessante è, a questo proposito, l’arti colo, pubblicato il 16 giugno '25 sulla rivista “Civitas,” fondata e diretta da Meda, che don Sturzo dedicò al libro del Serpieri. L’ex-segretario del Partito popolare scri veva che l’uomo politico tosco-emiliano era stato “occa sionalmente” sottosegretario all’Agricoltura e riconosceva che i provvedimenti emessi dal paternalista governo fa scista erano stati sostenuti dal Serpieri, “con uno sforzo pari alla competenza,” attraverso “il Corbino, che gli avea fiducia.” Ma criticava il “lirismo serpieriano della nuova classe agraria dirigente, la sua facilità di far de 37
creti e leggi (ai quali si crede come al Vangelo), la sua concezione dello Stato forte e deH’inserimento sindacale nazionale a scopo produttivo.” Su tutto questo ottimi smo, peraltro, planava un’ombra sottile ma tenace, che sorgeva dal dubbio che il fascismo potesse subire “l’in filtrazione di interessi economico-politici che ricaccino in dietro la oggi avanzatasi classe agraria [...]. Il dubbio, che il prof. Serpieri avanza timido, io lo esprimo,” pro seguiva don Sturzo, “assai più forte, in quanto io nego nelle presenti condizioni italiane ad ogni governo, e a fortiori a questo governo, di potere e sapere fare ‘una saggia politica agraria che contemperi liberismo e inter ventismo ai fini della produzione,’ cioè sulla linea teorica e tecnica della sintesi del problema posto dal Serpieri.” Il fatto era che i contrasti fra il capitale e il lavoro agri colo erano stati sopiti si, e il Serpieri ne era contento, ma non ricordava, o dimenticava, “che i contrasti tra l’in dustria e il lavoro non solo in Italia, ma dappertutto, han no irrobustito l’industria, quella che poteva sopravvive re, ed hanno dato una più salda coscienza di classe a intraprenditori e operai; da questa lotta si è sviluppata una più larga solidarietà di interessi fra gli uni e gli al tri, il che, oggi, in ultima analisi, è la forza politica del l’industria stessa nel suo complesso.” Come si vede, don Sturzo accoglieva (molto probabilmente, però, con scar sa consapevolezza critica) quanto era andato continuamente ripetendo il Salvemini sull’inserimento della clas se operaia del nord nel sistema capitalistico, rendendo impossibile una sua alleanza con i contadini del Meri dione. Tanto che, rivelando tutto il suo animus di fervido meridionalista, aggiungeva subito dopo: “Per la mancanza di questa lotta, di questa coscienza, di questa solidarietà di classe, l’agricoltura rimane prevalentemente a tipo do mestico, non si industrializza, non si evolve che lentissi mamente; e non può prender il posto adeguato fra i ceti agricoli e fra le regioni agricole d’Italia; è la causa fon damentale della mancanza di saldatura politica [...],” evi dentemente fra nord e sud. Ma, nelle sue parole, si po tevano notare alcune posizioni, a dir poco, ingenue, allor ché, ad esempio, sembrava intendere la “solidarietà di clas se,” generata dalla precedente lotta, come una solidarie tà di interessi fra gli agrari e i contadini; oppure allorché insisteva - come pure nei passi seguenti - sulla industria lizzazione dell’agricoltura, che non poteva essere che di ti po capitalistico, quale unica soluzione della questione agra 38
ria e di quella meridionale: “[...] manca la industrializ zazione, meno in pochi centri e per determinate culture. È possibile svilupparla in largo nel campo agricolo. Ci vo gliono capitali, tecnica, tariffa doganale adatta e trattati di commercio favorevoli.4 Il Governo dovrebbe attuare al meno tariffe doganali e buoni trattati di commercio; ma su questo punto la politica è in mano agl’industriali, an che la politica fascista, e non c’è da farsi illusione, as solutamente. Gli agrari già sono da gran tempo rassegna ti ad avere le briciole nel pranzo di Epulone.” Si osservi come, qui, il pensiero di don Sturzo sia rivolto agli agrari per i quali sarebbero stati necessari capitali, tecnica, ta riffe doganali e trattati di commercio: i braccianti, i con tadini rimanevano sullo sfondo, plebe senza voce. Ed egli ribadiva che “l'agricoltura per riprendere il suo posto a fianco dell’industria, e per poter prevalere su di essa (e non solamente in particolari interessi, ma nell'indirizzo generale), dovrebbe attuare tre condizioni; dovrebbe cioè: 4 Ci sembra importante mettere in rilievo come queste tendenze liberistiche, che abbiamo già trovato spesse volte manifestate da vari autori, siano presenti, senza alcun mutamento di fondo, anche in alcuni politici-storici più apertamente antifascisti: ad esempio, un Guido Dorso, che, nel suo La rivoluzione m eridionale (pubblicata per le ediz. Go betti nel 1925), cercava ansiosamente esempi di intransigenza morale tale da indicare l'agonia del trasformismo - la nostra malattia più perniciosa -, ma, nel '25, non scorgendo tale risveglio, che era “ancora di là da veni re,” riteneva che la questione meridionale fosse “prima di ogni altra cosa, questione di libertà economica”; di conseguenza, egli chiedeva al fascismo una politica che contrastasse vivamente con “tutte le sue esi genze di interventismo finanziario e di accentramento burocratico.” Solo molto più tardi, ristampando da Einaudi, nel 1945, il volume, riponeva tutte le sue speranze nei fatti, di fronte ai quali ogni abilità di manovra - dei ceti, delle classi o dei partiti, “pullulanti di arrivisti e trasformi sti” - era destinata a soccombere. Ogni sua speranza, pertanto, nel se condo dopoguerra, era riposta nel liberismo che gli alleati occidentali, vittoriosi, avrebbero imposto all'Italia come agli altri paesi, infrangendo le trame che la “reazione monarchica,” supporto “della conservazione, anzi della reazione nazionale,” stava accuratamente intessendo per ritornare al paternalismo e al trasformismo tradizionali. E, scrivendo la prefazione alla nuova ediz. del suo volume nel settembre del '44, quando, a Roma, si era costituito un governo di “unità nazionale” sotto la gui da del Bonomi, un governo al quale partecipavano pure i “partiti antitra sformisti,” affermava con una segreta sofferenza: “Io mi rendo conto che si deve evitare di rompere la concordia nazionale, ma guai se il rilievo fosse conseguenza di deliberazione cosciente. Preferisco, invece, ritenere che, nella fretta della costituzione del governo, non sia emerso questo fondamentale profilo della situazione. Perché, in caso opposto, dovrei concludere che i partiti antitrasformisti si espongono al disastro per una sadica voluttà di suicidio, e che essi, perciò, non sono all’altezza del com pito storico loro assegnato.” E concludeva, ribadendo la sua fiducia in un intervento “dall'esterno.” 39
organizzarsi socialmente, industrializzarsi economicamente e tentare le grandi lotte con l’industria per misurarsi po tenzialmente di fronte alla pubblica opinione del paese. Tutto ciò non avviene; non siamo neppure all’inizio, no nostante che, secondo Serpieri, sia venuto il Messia dello Stato forte. E per giunta proprio sotto lo Stato forte alla fascista non potrebbe avvenire.” Non si capisce da dove il vecchio democratico-cristia no della fine dell’800 e il popolare, poi, avesse tratto que sta esigenza di una industrializzazione dell'agricoltura, con il che accettava una prospettiva molto lontana dalla di fesa della piccola proprietà, che aveva caratterizzato la sua azione politica, difesa che egli aveva fermamente ribadito in una intervista concessa al “Secolo” di Milano, nell’ago sto del ’22, dopo la crisi del primo ministero Facta: i po polari, aveva dichiarato, “hanno un compito importantis simo: centralizzare i problemi e polarizzare le forze di equilibrio [...]. In confronto al liberalismo [...] sostengono la formazione della piccola proprietà e la stabilizzazione delle piccole economie liberamente associate. In confron to al socialismo sostengono i valori morali e spirituali del paese, l’abolizione dei monopoli di carattere proleta rio e parassitario dello Stato.” L'industrializzazione di na tura capitalistica negava, alle radici, e tendeva a soppri mere, la piccola proprietà contadina, la quale ultima, al contrario, andava forse abbastanza d’accordo con la lotta condotta dal Serpieri contro la deruralizzazione quale si era verificata in diverse nazioni europee e americane “a grande sviluppo capitalistico,” e con l’esaltazione della società rurale, che, a suo parere - come scrive S. Lanaro, in “Belfagor” -, andava protetta per i “suoi valori tradi zionali, i suoi rapporti consuetudinari e i suoi stessi pre giudizi etico-religiosi” di contro all’economia agraria che sollevava problemi di razionalizzazione produttiva, di mec canizzazione del lavoro e di riduzione dell’area coltiva bile a fini di intensificazione. Pertanto, secondo il Serpieri, i cardini di quella società rurale sarebbero stati due: la famiglia colonica e la piccola produzione indipendente. Tuttavia, il Serpieri stesso, per il Lanaro, era convinto di battersi per una causa perduta e dava come scontata “la sconfitta storica dei programmi agriculturisti”; per tanto, “nel momento in cui l'ipotesi vincente gli sembra quella di un’agricoltura di approvvigionamento tecnicamente attrezzata, fisicamente minoritaria e subordinata alla fabbrica e alla città sul piano della normazione etico 40
sociale, egli preferisce attestarsi su posizioni di difesa dell’autonomia del ‘modo di vita’ contadino, e approfittare delle contraddizioni interne di un regime come quello fa scista, che non può rischiare di alienarsi totalmente i ce ti rurali sulla cui emergenza politica e sul cui malconten to ha costruito una parte non piccola delle sue fortune” (in tal modo, il Lanaro evita di cadere nel drastico giu dizio sulla “ideologia ruralistica e sostanzialmente reazio naria,” in cui si annidavano non poche fra le contraddizio ni più significative del fascismo, che, come abbiamo visto, ha dato il Foa sulle posizioni del Serpieri). Ma può essere interessante ritornare a don Sturzo e cercare di capire a fondo il motivo sostanziale del suo mutamento: a nostro parere, esso sembra dovuto ad una analisi critica, abbastanza acuta, delle forze sociali che avevano portato alla vittoria le camicie nere. Abbastanza acuta, abbiamo detto, perché tale vittoria ci pare sia sta ta favorita soprattutto dall’appoggio degli agrari e del sotto proletariato delle campagne emiliane e, solo in via subordi nata, degli imprenditori industriali e degli operai, che appa rivano al sacerdote siciliano la nuova classe dirigente del paese, come egli di nuovo sostiene in quest’altro passo: “[...] ci vuole la battaglia in grande [per dare un forte sviluppo all’agricoltura], su un determinato terreno, le cui sorti influiscono sull’indirizzo politico generale; e man ca proprio l’esercito e l’attrezzatura. La battaglia agraria fatta dal fascismo non era che piccola scaramuccia di val lata, tra due ceti di agricoltori: i proprietari e i fittavoli della Val Padana contro i contadini; proprio la lotta che fa vorisce la disorganizzazione, pur nell’apparente ordine del le campagne conquistate col manganello, nel momento quan do le agitazioni del dopo guerra andavano ad estinguersi. L’altra battaglia, chiamiamola cosi, della marcia su Roma e della presa di possesso del Governo non è un rivol gimento agrario; e Serpieri purtroppo vede in ciò lucciole per lanterne; al più gli agrari avranno dato dei denari per una propria assicurazione campestre contro i rischi delle agitazioni contadine; lo Stato non c’entrava che per que sto piccolo compenso. Come si vede, la classe dirigente e prevalente in Italia oggi è la industriale e l’operaia dell’in dustria; e non altra. Il resto è massa, più o meno informe, su cui si esercita l’attività, ieri, di un parlamento paterna lista, senza entusiasmo né convinzione; oggi, di un Gover no paternalista anch'esso con lo stesso stato d’animo di dare sempre un colpo alla botte ed uno al cerchio.” Può 41
darsi pure che questo continuo insistere sui ceti dell’in dustria - imprenditori e operai -, sempre accomunati, possa servire a don Sturzo a scagionare del tutto le classi agri cole del Mezzogiorno - agrari e contadini -, che, peraltro, nel 1924 avevano sanzionato con il loro voto massiccio il suc cesso del fascismo. Abbiamo anche parlato di analisi cri tica condotta proprio sulle cause di questo successo, ep pure bisogna notare come il giudizio sulla stabilitasi soli darietà di classe fra intraprenditori e operai rimetteva don Sturzo nella grande corrente del pensiero meridiona listico, quella dominata da un Salvemini. (Si tratta, però, di una tesi che a noi pare errata, perché, anche se l’Italia usci dalla guerra con un sistema industriale molto raf forzato, era pur sempre un paese dal decollo industriale recente - dal 1896 -, in cui aveva ancora una grande pre valenza il settore tessile - composto di operai che oltre a lavorare in fabbrica, lavoravano anche il piccolo campicello che attorniava la loro casa: come dimostrò il fatto che il regime persegui, fin verso il 1933, una politica estera di derivazione nazionalistica, cioè volta all’espansione nella vicina penisola balcanica.) Occorre, inoltre, osservare per rendersi conto di quanto alcuni motivi fossero diffusi negli ambienti meridionalistici - come anche don Sturzo, alla fine dell’ultimo passo da noi riportato, condanni si direbbe quasi con lo stesso sdegno di un Dorso - la tra dizione paternalistica, trasformistica e tutta dedita al com promesso che risaliva all’Ottocento, alla democrazia prefa scista e che era stata ripresa in pieno dal fascismo, il qua le, perciò, non era stato affatto ima rivoluzione, bensì una continuazione del vecchio ordinamento politico. Partendo da simili premesse, don Sturzo doveva demo lire tutte le convinzioni e tutti gli orientamenti del Serpieri, il quale, a suo dire, si era professato “a gran voce e nei mo menti più discussi liberista [...] ma non tanto; interventista [...], ma fino a un certo punto. Però quando è stato all’ope ra, il suo interventismo gli ha preso la mano sul liberismo; il quale è stato da lui confinato in un piccolo angolo ripo sto: quello dei patti agrarii, ma anche qui [...] fino a un cer to punto.” In realtà, secondo l’ex-segretario popolare, l’e conomista tosco-emiliano aveva seguito “il sistema di quel la classe accomodante e flessibile, senza teorie e senza preconcetti, alla quale egli stesso fa cenno quando, parlan do della presente situazione, vuole identificarla con la classe italiana tipo, e la vuole esibire come correttivo e come integrazione del fascismo; cosa che (sia detto tra 42
parentesi) è la fissazione di questi padri nobili della com media che sono i fiancheggiatori. Quindi Tinterventismo di Serpieri va bene quando attua le sue vedute; e il suo li berismo va molto a proposito quando serve a difendere certe posizioni o certi interessi prevalenti.” Ma don Sturzo, scendendo più a fondo nell’analisi delle sue posizioni tro vava che egli riteneva che la demagogia dello Stato demo cratico avesse condotto alla rovina l’Italia agraria, rovi na da cui l’aveva salvata il nuovo regime delle camicie nere: “L’agrarismo non aveva un’anima politica, il fasci smo glie l’ha data; il fascismo è fenomeno agrario, è l’af fermazione di un ceto nuovo che sale a salvare l'Italia agraria, già rovinata e distrutta.” D’altronde, che cosa ave va fatto il Serpieri stesso per strappare i ceti fondiari dal l’atteggiamento pseudo-sindacale e dal carattere tecnico economico che avevano sempre mantenuto e farli diventa re una classe politica “nel senso vero e completo della parola,” e per impedire che se ne stessero ai margini della politica, là dove avrebbero potuto curare meglio “una se rie di interessi generali, rappresentati più significativa mente da determinati interessi privati”? Ben poco, se non addirittura quasi nulla, poiché “la vera politica agra ria, l'unica politica agraria fatta in Italia, è stata quella delle bonifiche romagnolo-emiliane, e quella della produ zione zuccheriera, cioè nel momento dell’industrializza zione dell’agricoltura; tutto il resto è stato paternalismo agrario, non politica agraria; paternalismo di incompeten ti o di competenti; paternalismo verso classi amiche e ric che o verso plebi tumultuanti per fame; ma sempre pa ternalismo e non politica.” Eppure, le plebi tumultuanti - come le definiva don Sturzo con accento ottocentesco -, e, in particolare, i contadini, stavano cominciando a crear si, tramite l’organizzazione economica, autonoma, locale, una coscienza di classe, “sul terreno degli interessi con trastanti fortemente sentiti”: “ma le Camere Regionali di Agricoltura furono respinte sotto il semplice pretesto del la regionalità contrapposta alla nazione, dell'elettoralismo contrapposto a libertà. Serpieri ripete le medesime stol te accuse per elogiare i suoi striminziti Consigli Agrari fatti proprio per la retorica locale.” Ma in queste critiche spuntava chiaramente il vecchio popolare, che del suo partito prendeva la difesa, sostenen do che “se un partito, in Italia, dal Risorgimento ad oggi, ha affermato una politica nel campo agrario, ed ha rimes so in primo piano i problemi agrari del paese, è stato il 4}
Partito popolare. Le sue vedute hanno avuto ed hanno una vera struttura economica; discutibile, ma organica: e la mira di portare la classe agricola ad una maturità di co scienza collettiva, è stata ed è principale sforzo di un nu cleo di uomini dedicati allo studio dei problemi agrari.” Si faccia attenzione ai termini che don Sturzo adopera parlando del suo partito: accenna si alla “classe agricola,” ma subito dopo soggiunge di essersi sforzato, con i suoi amici, di darle “una maturità di coscienza collettiva”: sembra quasi che abbia del tutto dimenticato la “salda co scienza di classe” che era stata, secondo lui, il frutto mi gliore scaturito dai “contrasti tra l’industria e il lavoro.” Ma si tratta di una fugace impressione, perché, conclu dendo l’articolo, allorché consigliava al Serpieri di toglie re dal suo lavoro “quel che vi è aspettazione lirica del fa scismo” e di svolgere più ampiamente “la parte tecnica che è il suo forte,” affermava pure che, solo in tal modo, egli avrebbe potuto contribuire “assai meglio a creare una coscienza di classe agraria; nella speranza, lontana per ora, che questa possa arrivare a divenire classe dirigente, al meno al pari di quella industriale e al pari delle forze organizzate del lavoro,” il che avrebbe significato, forse, secondo don Sturzo, contribuire a fare si che anche le correnti cattolico-popolari, che di quella classe si consi deravano le rappresentanti, acquistassero una effettiva e reale influenza nello Stato e nella società del paese, accanto alle forze liberali (esponenti della classe indu striale) ed ai partiti di sinistra, che affondavano le loro radici nelle forze organizzate del lavoro.
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Capitolo terzo
Tendenze protezionistiche e tendenze liberistiche dell'industria italiana
Abbiamo molto brevemente accennato poco sopra che, daH’incidente di Corfù per i successivi dieci anni, il fa scismo, molto probabilmente anche perché condizionato dall’arretratezza del nostro sistema industriale, continuò la politica estera nazionalistica preoccupata di tenere aperte le vie dell’espansione nei Balcani, che si erano dimostra ti, da diversi decenni, un mercato molto favorevole ai prodotti tessili. Infatti, come afferma il Guameri, il go verno italiano condusse “lunghe e laboriose trattative” con quello jugoslavo, che si conclusero con un esito po sitivo e condussero alla “stipulazione di un trattato di amicizia e di pace fra l’Italia e la Jugoslavia, col quale veniva chiusa onorevolmente una lunga e tormentosa pa gina della storia italiana del dopoguerra, con l’annessio ne di Fiume all’Italia; veniva, in pari tempo, data la pace al nostro confine orientale e tolta di mezzo una delle maggiori ragioni di inquietudine della nostra vita nazio nale e della situazione internazionale. Il trattato veniva firmato a Roma da Mussolini e da Pasic, il venerando ca po del Governo jugoslavo, il 27 gennaio 1924, in un’atmo sfera di grande cordialità.” In verità, lo stesso Mussolini celebrò, con fervido entusiasmo, l’accordo, una prima vol ta quello stesso 27 gennaio, quando disse che si chiudeva un periodo della tormentosa storia del dopoguerra e che se ne apriva un altro (“Una saggia valutazione,” aggiun se, “degli interessi reciproci ci ha condotti a realizzare un'intesa che abbraccia tutte le relazioni fra i due paesi e le rende feconde ai fini dello sviluppo crescente dei nostri popoli, la cui collaborazione economica, politica, spiritua le costituisce un elemento essenziale per la pace europea”; gli fece eco Pasic quasi con identiche parole), e ima secon da volta alla 83“ riunione del consiglio dei ministri, in un discorso dedicato prevalentemente al risolto problema di 45
Fiume (né si dimenticò di rendere il dovuto omaggio al la “ardimentosa marcia da Ronchi,” intrapresa, nel 1919, da G. D’Annunzio), in cui accennò al fatto che l'accordo politico sarebbe stato completato “da un accordo com merciale di rapida conclusione e che si sta elaborando in questi giorni a Belgrado. Anche l’accordo commerciale avrà la sua importanza nello sviluppo dell’economia nazionale e della stabilità dei rapporti fra i due paesi.” Il “Corriere della Sera” dell’Albertini, sempre all’opposizione del regime finché questi non fu estromesso dalla direzione del giornale (no vembre 1925), esaltava e, pur avendo dissentito fino allora dalla politica interna ed estera svolta dal regime, manife stava il suo “plauso più pieno ed aperto” per “l’intesa realizzata” da Mussolini con lo Stato jugoslavo: “Della sua forza,” proseguiva, “egli s’è valso nel modo più con gruo agli interessi e al destino dell’Italia, dando, oltre tutto, una prova palmare agli stranieri della nostra conti nuità statale e dirimendo all’intemo un contrasto di passio ni annoso e profondo.” Secondo il quotidiano milanese, era compito del governo procedere per quella strada senza “titubanze e ritorni,” mostrando di “volere fermamente la nostra dignità e l’altrui libertà, di intendere che le no stre fortune non sempre si identificano con la rovina degli altri, di interpretare con saggezza gli obblighi che i trat tati impongono ai vinti, di collaborare dovunque, sul Re no come sul Volga, a quella che (con frase derisa, ma sug gerita da un bisogno su cui ridere sarebbe stolto) fu ed è chiamata la ricostruzione d’Europa.” Potevamo diventare una grande potenza solo raccogliendo “via via attorno a noi, con fiducia e rispetto, le minori nazioni d’Europa”: “L’espansionismo di domani,” concludeva, “è soprattutto di ‘influenze’; e sarà primo chi l’avrà capito prima.” La politica estera del duce, fra il 1923 e il 1926 (e, poi, per diversi anni, fino al 1933), fu indirizzata, grosso modo, ver so i paesi dell’oriente europeo e del levante, ai quali ci lega vano - osserva il Guarneri - antiche tradizioni commerciali (convenzione commerciale con la Turchia, 24 luglio 1923; con l’Albania, 20 gennaio 1924; con Lungheria, 20 luglio '25; con la Bulgaria, 27 ottobre '25; con la Grecia, 24 novembre '26) op pure verso l’America latina, in particolare l’Argentina, e ver so l’Egitto, tutte zone industrialmente arretrate, che non avevano filature meccaniche o che avevano ancora telai a mano. Cosi, ad esempio, nell’anno finanziario 1924-’25, “su 134 mila quintali d’esportazione di filati non merce rizzati,” metteva in rilievo il Mortara nelle sue annuali 46
Prospettive economiche, “56 mila erano diretti alla Bulga ria, alla Romania e alla Jugoslavia; 21 mila alla Turchia e all’Egitto; 12 mila all’Argentina; quantità minori a mer cati industrialmente progrediti (Germania 11 mila, Sviz zera 3 mila). L’esportazione dei tessuti è anch’essa diret ta per la massima parte al Levante, ai Balcani, all’America meridionale.” I fattori sfavorevoli erano dati dagli alti prezzi delle macchine sul mercato italiano in conse guenza della protezione con cui era difesa la siderurgia, mentre un altro fattore sfavorevole, dato dall'alto costo del carbone, era stato quasi del tutto eliminato con l’im piego, quasi generalizzato, dell’energia idroelettrica. In fine, uno dei fattori più favorevoli alle esportazioni era dato, secondo il Mortara, dai salari italiani che appari vano, nei confronti internazionali, fra i più bassi: “Alla vigilia della guerra, il salario medio giornaliero dei nostri operai cotonieri era di circa 2 lire. Il corrispondente sa lario medio era di lire 4,10 nella Gran Bretagna, di 6,70 negli Stati Uniti. Nel 1925, il salario medio era salito a li re 14,40 in Italia, a 37 nella Gran Bretagna, a 66 negli Sta ti Uniti.” 1 E, poi, anche trattati commerciali con gli Stati 1 Ma questa penetrazione, che era sembrata, in un primo momento, favorita dal fatto che era venuta meno la concorrenza dei paesi più forti commercialmente in quella zona, aveva a poco a poco incontrato sempre crescenti difficoltà da parte - scriveva la stampa fascista - di “una specie di epidemia ricorrente” che serpeggiava nei circoli politici danubiani, lasciando, però, intravedere abbastanza chiaramente come, dietro ad essa, stessero gli interessi della Francia, che non voleva farsi sfuggire una in fluenza determinante in quel settore. “Epidemia,” continuava la stampa citata, “che taluno ritiene di poco conto, altri micidiale: di fatto è per sistente, noiosa e cronica come il raffreddore. Ed è l’aspirazione alla Con federazione Danubiana: politica, o, nel peggior dei casi, economica.” Infatti, tale aspirazione - che aveva iniziato a manifestarsi nel dicembre 1924 - trovava il suo centro, sia sotto l'aspetto politico sia sotto quello economico, a Vienna, “dove non ci si può rassegnare a non essere più la capitale dell'impero.” La corrente nettamente politica avrebbe voluto, affermando di difendere l’equilibrio europeo, una confederazione di tipo asburgico ma con prevalenza slava, mentre l'altra, l'economica, si sareb be accontentata di “un Zollverein danubiano, lasciando ai vari stati la più ampia autonomia nazionale.” Ma aveva subito protestato Parigi, ri tenendo che essa avrebbe rafforzato la Germania e le avrebbe dato una influenza pericolosa sui paesi della penisola balcanica. Secondo i gover nanti parigini sarebbe stato meglio se Vienna avesse mirato ad una in tesa doganale con la Boemia e la Jugoslavia: il che, però, metteva in vivo allarme i fascisti, per i quali ciò avrebbe voluto dire “la marcia al mare per la Boemia, con l'isolamento assoluto per l'Italia e l’Ungheria, la cui nascente amicizia [che sarà confermata da un trattato di amicizia italo-ungherese, il 5 aprile '27] turba assai gli interessi altrui.” Né ai nostri quotidiani o periodici era sfuggita “l'opera di espansione vera mente meravigliosa” sviluppata da Praga nei paesi danubiani e balca47
dell’Europa centrale (Svizzera, Cecoslovacchia, Germania, ecc.), intesi ad “assecondare una tendenza che non può es sere soppressa, la quale spinge i prodotti ortofrutticoli dei paesi del sud verso i paesi del nord.” Ma tutti questi settori produttivi (a cui bisognava ag giungere, oltre alle materie prime grezze e semilavorate di manufatti tradizionali, anche le “nuove attività industria li che si erano venute affermando durante la guerra” e che nei nuovi accordi “trovavano riconosciuto il diritto di cittadinanza”) avevano interessi spesso divergenti: in ef fetti, se i generi agricoli e i tessili, l’energia elettrica av vertivano l’esigenza di una politica doganale che fosse ispirata il più possibile al liberismo, non altrettanto avve niva per la produzione di quelle industrie che avevano co minciato a svilupparsi negli anni immediatamente precedennici: “Acquisto di immobili in Jugoslavia, compartecipazione in società industriali in Polonia, in Ungheria, in Romania, nuovi impianti e rin novo di quelli esistenti, vendita sotto prezzo di manufatti: bisogna rico noscere, a parte ogni considerazione politica, un piano veramente orga nico I fascisti non potevano nascondere un certo nervosismo per una simile espansione in Jugoslavia, soprattutto perché “il progetto di unità doganale dovrebbe rivolgersi contro l'unica entità economica che potrebbe affacciarsi come concorrente in quel paese. E cioè contro l’Ita lia, la quale dalla Jugoslavia attinge enormi quantità di materie prime senza poterle pareggiare con prodotti lavorati” (infatti, dal 1° gennaio al 31 marzo del '24, le esportazioni italiane erano ammontate a 94.484.507 di contro a 103.726.548 di importazioni, mentre nel corrispondente periodo del '25 il disavanzo era andato aumentando notevolmente: 109.026.048 di esportazioni contro 180.194.734 di importazioni). La stampa fascista era propensa ad attribuire tale peggioramento dei term s of trade, alla man canza di una “metodica organizzazione economica e politica” e di una “qualunque conoscenza diretta,” anche nelle zone dove pure si chiedeva l'intervento della nostra industria: “Cosi in Ungheria, cosi in Jugoslavia, dove ci si stupisce che i limoni, indiscutibilmente di produzione italiana, si debbano comperare a Salonicco o a Vienna, e che i tessuti italiani, ricercatissimi, debbano essere offerti in vendita da polacchi o da levan tini, o che le banche italiane si rifiutino di lavorare se non attraverso certe alleanze comiche con le proprie concorrenti.” “Come credere,” si domandava, nel '27, di fronte a tanti contrasti, “I problemi del lavo\ ri,” “che la pace possa durare se l'intrigo ritorna a tessersi nella turbo lenta e irrequieta situazione dei Balcani?” In verità, la situazione era turb o len ta e irreq u ieta, ma quasi certamente soltanto perché quei paesi temevano che la condizione che era stata loro riservata nel consesso delle nazioni europee - di fornitori di materie prime e di prodotti agri coli agli Stati occidentali più avanzati sulla via dello sviluppo economi co -, riservasse ad essi un avvenire di sempre più grave sottosviluppo, e fosse loro impedito di giungere alle soglie del decollo economico. Fu, senza dubbio, questa, una delle più profonde ingiustizie dei trattati di pace, che, fra l'altro, contribuì a mantenere una vasta area in una si tuazione di miseria e costringendo i popoli che vi abitavano a vivere non come consumatori dei prodotti industriali bensì a tirare avanti ele mosinando prestiti che in nessun modo avrebbero potuto rimborsare. 48
ti la guerra e che avevano ricevuto da quest’ultima un for te impulso: ad esempio, l’industria chimica, che, dalla Relazione generale della “Commissione per lo studio del regime economico-doganale” (istituita il 23 gennaio del 1913 e che aveva condotto alla nuova tariffa doganale del 1' luglio 19212 - cioè in piena crisi -, attorno alla quale si erano accese vivaci discussioni, poiché, da un lato, i libe risti sostenevano che questa tariffa aveva subito aumenti altissimi di dazi, che, in taluni casi, erano addirittura proi bitivi, mentre coloro che la difendevano affermavano che essa avrebbe permesso la creazione, in Italia, di nuove industrie necessarie alla vita nazionale), risultava aver segnato notevoli progressi (“Le industrie chimiche appar tengono a quei rami di attività economica che hanno avu to più forte impulso dalla guerra”: era stato anche il ramo in cui gli investimenti di capitali erano stati più cospicui); la siderurgia e la meccanica, che, già avversarie un tempo, avevano stipulato, nel dopoguerra, una intesa che venne sanzionata, nel settembre del 1926, con la formazione del sindacato siderurgico internazionale, che riunì “in pacifi ca collaborazione i nemici di ieri” (così scrive il Mortara). Un sindacato, molto probabilmente imposto dagli interessi della siderurgia francese predominante in Europa, che, già nel ’24-’25, cominciava a sentire gli effetti negativi del lo smembramento del bacino carbonifero della Vestfalia. Tale smembramento era stato voluto dal governo della vi cina repubblica nei trattati di pace, con cui si era annes sa la Lorena, ricca di minerali di ferro, lasciando alla Germania le miniere di carbone, sicché una nota della “Rivista di politica economica” faceva rilevare che se era “interesse dell’industria tedesca acquistare in Francia cir ca 7 milioni di tonnellate di minerale, la Francia ha tutto l’interesse di rifornirsi in Germania di carbon fossile.” Si trattava, pertanto, di un sindacato che faceva pesare sul vecchio continente l’importanza preponderante della 2 Si tratta della tariffa doganale fatta approvare dal Giolitti per mezzo di un decreto, il 21 giugno, proprio mentre stava per abbandonare la presidenza del consiglio, senza avvertirne il Parlamento [scrive alquanto sdegnata “La Ligue du libre-échange,” del giugno 1923] e in una riunione di alti funzionari e di esperti interessati che avevano lavorato nel più grande segreto. In realtà, fu, da parte del vecchio uomo politico, un vero e proprio colpo di mano, che, abbinato, come era successo con i prov vedimenti protezionistici del 1887, al dazio sul grano, aveva contribuito in maniera decisiva, a rimettere la società nazionale su due trampoli net tamente antidemocratici, perché mirante a soddisfare gli interessi di due categorie per le quali il benessere comune non aveva alcun senso. 49
siderurgia francese e della meccanica tedesca: e nelle aspi razioni dei produttori d’oltralpe era la conquista di tutti i mercati europei (da quelli altamente sviluppati come l’inglese o il tedesco a quelli quasi sottosviluppati come l’italiano o il romeno), deH’America del sud, del Giappone e della Cina. Ma un simile quadro era oscurato dalla diffi cile situazione in cui si trovava la metallurgia europea in seguito alla concorrenza americana, il che avrebbe potuto richiedere una limitazione generale della produzione. “Gli impianti di Europa dovranno per lungo tempo limitarsi ad operare a circa il 50% della loro capacità; per alcuni sarà necessario ridurre ancora di più la produzione e forse do vranno sparire. Si va verso un periodo di accordi restrittivi, in un primo tempo fra connazionali, e in un secondo tempo fra produttori europei. Tutti ne sentono la necessità, ma ciascuno difende le proprie posizioni, e le necessità economiche si trovano complicate da considerazioni di or dine politico.” In simili contingenze dovette sembrare agli imprenditori metallurgici e meccanici italiani quasi una fortuna la possibilità di essere protetti e difesi dal l’accordo delle industrie dell’Europa centrale, accordo che avrebbe fatto aumentare, ma non oltre una certa misura, i prezzi, anche se il Mortara notava, “tra parentesi, che il rialzo dei prezzi della ghisa e dell’acciaio sarà accolto sen za eccessivo rammarico dai nostri produttori, i quali ne gli anni scorsi si lamentavano della sfrenata concorrenza estera.” Né si prospettava come probabile “il successo di una intensa azione a base di dumping diretta ad abbatte re le nostre industrie siderurgiche e meccaniche. Il Gover no vigila e può sempre intervenire con provvedimenti ef ficaci.” Tuttavia - proseguiva il Mortara -, c’era un rischio derivante dalla costituzione del sindacato, ed era quello “di vedere consolidata ed estesa l’egemonia della Germania fra i pae£i importatori di prodotti siderurgici e meccanici in Ita lia: egemonia della quale passate esperienze ci hanno inse gnato i pericoli.” Ancora il Mortara cercava di dimostrare, citando le parole di un “industriale spregiudicato e intelli gente, e non uno dei soliti economisti ignoranti e pieni di pregiudizi,” come le condizioni di inferiorità in cui si trova va l’Italia, per la lontananza dei mercati di approvvigio namento del carbon fossile, rendessero poco conveniente il “perseguimento di una autonomia o pseudo-autonomia” nella fabbricazione della ghisa. “La cronaca statistica degli ultimi anni,” e lui poteva affermarlo con piena conoscenza poiché dal 1920 studiava minutamente l’an 50
damento dell’economia nazionale, “dimostra che, in mol ti casi, l’alto dazio di importazione non basta a rendere economicamente conveniente la fabbricazione della ghi sa, specialmente di quella da fusione. E qui aggiungiamo, tra parentesi, ancora una volta, che, nell'interesse del l’economia nazionale, vorremmo vedere sostituito al dazio di importazione un premio di produzione, il quale avreb be uguale efficacia protettiva, ma consentirebbe il livel lamento del prezzo della ghisa e dell’acciaio in Italia con quello del mercato mondiale, con vantaggio dell’industria meccanica e di tutte quelle forme di attività economica che impiegano macchine.” Del resto che esistesse, nel 1923-’24, un “partito prote zionista,” che rimase in vita anche negli anni successivi, e che in quel periodo faceva capo al “trust giornalistico,” che comprendeva il “Corriere italiano” di F. Filippelli, “Il Nuovo paese” e “L'Impero,” con alle spalle la Banca commerciale italiana, gli arm atori Parodi, la Fiat e altre grandi industrie,3 era cosa abbastanza nota. Ma il regime doveva difendere l’industria siderurgica e quella mecca nica - tutte in forte deficit (ad esempio, le importazioni di macchine ed apparecchi salivano dal 131,4 milioni nel 1913 a 462,7 nel 1923, a 590,6 nel 1924 ed a 1.059,4 nel 1925, mentre le esportazioni passavano da 25,5 milioni nel 1913 rispettivamente a 155,4, a 178,9 ed a 222,2: il Mortara l’attri buiva alla “scarsa capacità di resistenza dell’industria na zionale,” all’accorta e tenace penetrazione tedesca sul nostro mercato) -, tranne il settore dei veicoli - la Fiat -, non troppo considerato nelle statistiche, ma che aveva fatto grandi progressi nelle esportazioni: nel 1913 46,8 milioni di importazioni contro 43,4 esportazioni, nel 1923 68,9 con tro 325,2, nel 1924 101,3 contro 510,2 e nel 1925 137,7 contro 760,1.4 Eppure, nel tempo stesso, Mussolini era costretto 3 Come denunciò R. Farinacci sul suo giornale, “Cremona nuova,” il 30 settembre '23 e come aveva, in precedenza, scritto il Pantaleoni al De Stefani verso la metà di quell'anno: “Il partito protezionista, che si rifà con dazi e premi è il principale sostenitore del nuovo giornale [il “Corriere italiano”]. Perciò la Banca, interessata all'industria predetta è pure della combutta. I caporioni sanno benissimo che la cuccagna non durerà assai alla lunga. Ma è per questo, per poter far durare, che han bisogno di fare p re sto ed energicamente danari.” 4 E. Giretti, che già aveva implacabilmente denunciato, sull'“Unità” di G. Salvemini, le gravi pretese dei “trivellatori,” cioè di coloro che sfruttavano posizioni di privilegio derivanti da un regime doganale rispon dente alle loro esigenze, continuava instancabile la sua critica su “La Riforma sociale,” diretta da L. Einaudi, oltre che sul “Corriere della Sera.” Il Giretti era membro del gruppo libero-scambista italiano e si op51
a preoccuparsi soprattutto dell’industria tessile e dei pro dotti ortofrutticoli del Mezzogiorno, che, come abbiamo dimostrato, rappresentavano la voce più attiva nel nostro commercio internazionale, in direzione di alcuni paesi. Si è visto, infatti, quanta importanza rivestisse, per noi, la penisola balcanica (dove, a poco a poco, si andarono de lineando due opposti schieramenti, l’uno - comprendente la Bulgaria, l'Austria e l’Ungheria, cioè le nazioni sconfit te - che faceva capo all'Italia, e l’altro - comprendente la Romania, la Jugoslavia e la Cecoslovacchia, le nazioni vit toriose nel conflitto - che faceva capo alla Francia). Esortavano, in quel periodo, il duce ad una politica commerciale liberistica anche le esigenze dell’industria idroelettrica, “divenuta,” afferma il Mortara, “in pochi an ni una delle basi dell’assetto economico del paese”: con un terzo degli impianti in esercizio che era di costruzio ne posteriore alla guerra (“e presto,” osservava ancora il Mortara, nel 1927, “la proporzione salirà alla metà”), e difponeva alle argomentazioni con cui l’ingegnere E. Redaelli, legato al suo collega e cointeressato ing. G. E. Falck, presidente dell’Associazione degli industriali metallurgici e meccanici italiani ed uno dei maggiori esponen ti “del privilegiato ed ultra-protetto ‘Consorzio delle ferriere nazionali,'* cercava di giustificare il protezionismo siderurgico. Il Consorzio monopo lizzava il mercato dei ferri e degli acciai di prima lavorazione, imponen do “i suoi prezzi e le sue condizioni a tutte le industrie che hanno per oggetto di elaborare e trasformare nelle maniere più diverse i laminati e profilati di ferro e di acciaio” (scriveva nella seconda metà del '25). La battaglia del Giretti era condotta anche in nome dei piccoli industriali, alcuni dei quali, che desideravano mantenere l’anonimato per non incor rere nelle eventuali rappresaglie da parte dei grandi produttori, gli ave vano inviato delle lettere in cui era espresso con vigore il malcontento dei “piccoli fabbricanti”: e questi piccoli imprenditori chiedevano al gover no risoluti provvedimenti liberistici, una riduzione del dazio di entrata sul ferro, “per moralizzare l’ambiente e rendere cosi anche impossibili queste vere e proprie sopraffazioni, che i siderurgici esercitano su tante piccole, ma coraggiose ed utili industrie.” Il Giretti cercava pure di spie garsi come nascessero e vivessero i cartelli industriali mediante “accordi innaturali” fra gli industriali e il gruppo di industriali siderurgici. Il fatto era che, dopo la guerra, si era accentuato il processo di formazione dei tru st, che non era rimasto sconosciuto nell’anteguerra, sebbene, allora, i vari paesi, consapevoli della grave limitazione di autonomia che ne sarebbe loro derivata, avessero tentato di porre dei limiti a una ecces siva espansione, tentativi, in buona parte, abbandonati dopo il con flitto. Cosi, si poteva capire ciò che al Giretti sembrava inspiegabile. In verità, un simile “accordo innaturale e molto strano” avveniva soltan to perché sia gli uni sia gli altri produttori trovavano un ben preciso tor naconto in questa unione, soltanto in apparenza innaturale, dal mo mento che scopo comune era di ritagliarsi la fetta maggiore del mercato interno. “Codesta situazione,” proseguiva il Giretti, quasi ad illustrazione di ciò che siamo venuti dicendo, “è tipicamente rappresentata dal fatto che il grande stabilimento italiano, di meritata fama mondiale per la fab-
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ferenziando i prezzi secondo gli usi (62,5 centesimi per ogni kwh. se destinato alla illuminazione e 13,4 se venduto per forza motrice, per una media di 19,4 centesimi, che era il prezzo di vendita fra i più bassi del mondo), tale settore aveva contribuito allo sviluppo di alcune industrie - co me le elettrosiderurgiche, le elettrochimiche, in definiti va quelle che trasformavano materie prime in tutto o in parte importate (cotone, lana, ferro, ecc.) - che altrimen ti avrebbero dovuto morire. I vantaggi offerti all’econo mia nazionale da un decollo cosi rapido, che aveva fatto passare la produzione effettiva di kilowatt-ora da circa due miliardi nel 1913 e da appena 4 nel 1919 a 7,2-7,4 nel 1925 ed a più di 8 nel 1926 (un decollo, tuttavia, che aveva aggravato la disparità fra l’Italia del nord e quella del sud: i 3/4 della produzione erano dati dall’Italia continen tale e solo 1/4 da quella peninsulare e insulare, mentre il consumo era massimo nelle regioni settentrionali - 270 kwh. per abitante -, alto nelle centrali - 212 -, minimo nelbricazione delle automobili FIAT, fa parte, nello stesso tempo, del ‘Con sorzio delle Ferriere Nazionali' e dell’ ‘Associazione fra i Fabbricanti fili ferro, acciaio e derivati,' presieduta dall'ing. Redaelli. - Evidentemente, come fabbrica di automobili, la FIAT non ha mai avuto alcun torna conto a legarsi col gruppo delle industrie siderurgiche italiane interessate a vendere cari i loro prodotti. Può darsi che taluni dei suoi dirigenti ab biano pel passato guadagnato fior di quattrini dalle loro speculazioni borsistico-siderurgiche; è però indubitabile che molte disgrazie sono avve nute agli azionisti della FIAT per non aver resistito alla tendenza per versa di associare le sorti della loro sana e vitale industria a quelle di organismi parassitari e tenuti su artificialmente con le dande ed il pop patoio del protezionismo governativo.” E il Giretti metteva in rilievo come tale stato di cose, “questa illogica ed innaturale confusione di inte ressi tra le aziende tipo FIAT ed i grandi stabilimenti siderurgici,” avesse trovato “un incentivo potente nelle necessità e congiunture della guerra, e nel fatto che, a guerra finita, il Governo non seppe, o non volle, attuare immediatamente la ‘smobilitazione industriale,' sia pure facendone sopportare i sacrifici all'erario nazionale. Un gran torto,” egli proseguiva, “dei governanti di quel periodo è stato quello di non avere energicamente negato i mezzi finanziari alla megalomania, che aveva invasato le menti dei capitali delle industrie belliche e dei banchieri loro soci. Non manca rono coloro che videro per tempo il pericolo, e cercarono di prevenirlo e scongiurarlo, ma rimasero delle Cassandre inascoltate e schernite, sino a quando non vennero a dare loro ragione i disastri della ‘Ansaldo,' della ‘Ilva,’ del ‘Lloyd Mediterraneo,' coi salvataggi della ‘Banca italiana di scon to,' del ‘Banco di Roma' e coi miliardi di relative passività accollati ai contribuenti italiani, col mezzo del famoso ‘Consorzio Valori Industriali.'” Come si vede, per il Giretti, in questo ambito della politica economica, non era possibile notare alcuna differenza fra il comportamento dei gover nanti prefascisti e quello dei governanti fascisti, tanto che lo stesso Con sorzio per sovvenzioni su valori industriali servi a Mussolini per fare un grande favore al Vaticano con lo smobilizzo del Banco di Roma (entrato in grandi difficoltà nei 1923) e per facilitare il concordato con i creditori della Banca italiana di sconto (fallita sul finire del 1921). 53
le meridionali - 46 - e ancora più basso nelle insulari - 28), cosi erano descritti dal Mortara: “L'energia idroe lettrica prodotta nel 1926 corrisponde a quella che si sa rebbe potuta ottenere da 9-10 milioni di tonnellate di car bone; l’aumento di produzione dal 1913 al 1926 corrispon de al risparmio di una maggior importazione di 7 milio ni di tonnellate. Quando si consideri che l’importazione totale di carbone fossile si aggira sui 12 milioni di ton nellate all’anno, senza sensibile aumento sul 1913, appa re la grande rilevanza di questo sviluppo, che tende a di minuire la nostra dipendenza dall'estero ” ed a garantire la “sicurezza nazionale,” perché “costituisce un rafforza mento della capacità di azione e di resistenza del paese.” Inoltre, lo sviluppo degli impianti idroelettrici aveva reso possibile il sorgere e il fiorire di parecchie industrie, “con correndo a compensare altri fattori d’inferiorità che gra vano su di esse nella concorrenza internazionale; consen tendo l’elettrificazione, ha aumentato la capacità di alcune linee ferroviarie di grande traffico, ed ha determinato mi glioramenti nella celerità dei trasporti ed economie nel costo; promovendo la diffusione delle applicazioni agri cole aiuterà direttamente l’elettrificazione delle colture, già indirettamente favorite dall’uso dell'elettricità nella industria dei concimi chimici.” Una politica di natura liberistica era considerata in dispensabile da tali industrie - ed esse erano pure in gra do di imporla al governo, qualora avesse assunto un di verso orientamento, insistendo sul “tornaconto nazionale” che imponeva “il massimo acceleramento possibile delle opere per lo sfruttamento delle energie idrauliche” - per ché il risparmio italiano era scarso e riluttante agli in vestimenti industriali; perciò era necessario ricorrere al risparmio estero che, come vedremo, affluiva con una certa abbondanza anche se ad un saggio d’interesse, per la rimunerazione degli investimenti, piuttosto alto, proprio “mentre i prezzi di vendita dell’energia sono tenuti bassi cosi dalle limitazioni statali come dalle condizioni stesse delle industrie consumatrici, che non consentirebbero for ti rialzi.” Per quanto riguarda i capitali esteri, basta leg gere ciò che scrive E. Conti, presidente allora della so cietà elettrica “Conti” e poi della “Edison,” nel suo taccui no'. sotto la data del 13 novembre 1922, cioè poco dopo l’ascesa al potere del fascismo, annotava che, “analizzan do i diagrammi di incremento di questa mia azienda,” ci si accorgeva che gli aumenti seguivano “un parametro cre 54
scente,” e che i miglioramenti erano diventati, in un cer to senso, automatici, dato che “i bisogni di un paese an cora giovane come il nostro si sviluppano costantemente.” Il che negava l'utilità di quella “disciplina nazionale” e di quell’“ordine sociale” con cui le camicie nere avevano oc cupato lo Stato italiano il 28 ottobre, almeno dal punto di vista economico, poiché l’incremento di cui parlava il Conti nel novembre doveva essere, senza dubbio, comin ciato prima della fine d’ottobre, nel clima del regime liberal-democratico che il duce si vantava di aver definiti vamente seppellito. Il Conti continuava, sempre sotto la stessa data: “Per il continuo sviluppo del mio programma di sfruttamento delle forze idrauliche (sto iniziando o stu diando altri serbatoi nell’Ossola, al Busin, al Toggia, al Kastel, all’Ober-see, allo Schwarz e conseguente aumento di tutte le linee di trasporto e distribuzione), capitali me ne occorrono moltissimi ed il problema finanziario è co stantemente l’oggetto dei miei studi e delle mie trattative. In questi ultimi tempi i capitali americani, e in misura minore, anche gli inglesi, si orientano -verso la possibilità di impieghi in Italia. Si tratta di una questione importan te. 'Aes aliena, mala servitus,’ ci hanno insegnato a scuo la; ma in un periodo di transizione come l’attuale, è ne cessario, per la nostra ricostruzione economica, ricorrere anche al capitale estero, purché ne sia facile l'ammorta mento e non troppo grave l’interesse. Anche agli effetti valutari, le Società elettriche si trovano in condizioni favo revolissime perché le nostre derivazioni idrauliche, alme no quelle tecnicamente ben studiate, possono produrre energia a buon mercato, cioè a prezzi di concorrenza sul carbone; le spese per l'interesse e l’ammortamento di even tuali prestiti esteri rappresenteranno una somma di gran lunga minore di quella che si dovrebbe esportare per l’ac quisto del combustibile. Estinto il debito, gli impianti rap presenteranno sempre un valore che al paese non costa più niente, mentre continuerà a produrre ricchezza. In questo senso ho scritto una serie di articoli per il “Popolo d’Italia,” anche per divulgare la conoscenza del problema e tentare di ottenere dal Governo per questi prestiti l’eso nero dall’imposta di ricchezza mobile, in modo da render ne il costo complessivo sopportabile. Con varie case este re mi sono già messo in rapporto, principalmente con la Aldred e con la Blair di New York, entrambe dispostissime ad accordare larghi finanziamenti.” Forse si ricorderà quanto aveva detto il Giannini al 55
Rizzini (e che questi aveva riferito a L. Albertini da Lon dra fra il 1° e il 20 novembre ’23) sulla buona disposizione del governo americano a fare investimenti di capitali “in grandi opere di bonifica e di idraulica” in Italia, e sulla sua speranza di riuscire ad ottenere concessioni anche dall’Inghilterra e dalla Francia. Evidentemente, come ri sulta dal Conti, i privati e le banche statunitensi avevano già pensato ad avviare capitali sul nostro mercato per collocarli, in particolare, nell'industria idroelettrica, che, ad un calcolo puramente economico, sembrava essere quella più redditizia. C’era, però, una notevole differenza fra i capitali che provenivano dai privati e quelli che po tevano venire sollecitati dal governo degli USA, perché i secondi, a differenza dei primi, mal nascondevano l’intento di confinare l’Italia in settori che né agli stessi Stati Uni ti né alla stessa Inghilterra importavano molto, disponen do in abbondanza di carbone. Ma, in tal modo, il nostro paese sarebbe stato impegnato, per lungo tempo, in una fase di pre-industrializzazione (che potrebbe paragonarsi ad una fase di creazione delle infrastrutture indispensa bili per il posteriore, futuro decollo), come sarebbe, sen z’altro, avvenuto se esso si fosse dedicato alle bonifiche o all’energia elettrica; la conseguenza, però, sarebbe stata che l’Italia avrebbe assunto il ruolo di un paese sottosvilup pato, che non era assolutamente in grado di partecipa re al grande commercio mondiale. Intanto, il Conti proseguiva nello sviluppo della sua azienda, sicuro di poter contare sul benevolo appoggio dei vari ministri, e se questo fosse venuto meno, di quel lo dello stesso Mussolini: il 27 febbraio '24 annunciava, trionfante, di aver distribuito ai suoi azionisti il 9% e di essere sicuro di arrivare ben presto al 10%. Ed aggiunge va: “[...] dovrò aumentare il capitale sociale ad almeno centocinquanta milioni. Converrà pure inglobare i resi dui debiti con una unica operazione, in modo da non do vere correre dietro a frazionate decurtazioni, rinnovazio ni e simili. Oltre che dagli americani, ho delle proposte da una ‘Investment Registry’ di Londra; ma penso che finirò, per ragioni di minor costo, a intendermi con qual che istituto nazionale, come la Cassa di Assicurazioni So ciali o una Unione di Casse di Risparmio, o l’Istituto per Sovvenzioni su Titoli. Siamo ben quotati e non avremo che l’imbarazzo della scelta.” Più tardi, il 23 novembre '25, enumerava accuratamente le industrie del suo grup po che avrebbero avuto bisogno di ulteriori ampliamenti, 56
o quelle di cui pensava di acquistare il pacchetto di mag gioranza (e metteva pure in rilievo, con soddisfazione co me l’aumento del capitale a 200 milioni andasse di pari passo con l’aumento del dividendo, portato al 12%), e la sciava anche scivolare tra le righe un accenno a non me glio specificati “sussidi governativi.” 5 5 Ma, il 5 dicembre '24, riferendo alcune accuse che erano state mosse alla classe industriale “nelle assise aventiniane,” cercava di scagio narne se stesso e i suoi amici industriali, affermando: noi siamo abbastanza intelligenti per sapere che nessuna prosperità di singoli può essere duratura se non si inserisce nella tranquilla prosperità del Pae se: e questa non può ottenersi dove le classi si oppongono tra loro come sfruttati a sfruttatori. Chi può pensare a risolvere le lotte economiche con la violenza, seminatrice di rancori, che sono tanto duraturi quanto più repressi?” Ma ciò che aggiungeva subito dopo non faceva che con fermare la sua benevola simpatia per il fascismo, almeno nei primi mo menti: “Naturalmente, io non ho dimenticato quale era la situazione del Paese nel periodo compreso fra l'armistizio e la marcia su Roma I Governi dell'epoca, incapaci a frenare le inconsulte agitazioni: una poli tica fiscale ed economica tra tumultuaria e spogliatrice, per cui poco era lasciato al risparmio, e questo poco ancora assorbito dallo Stato sotto forma di prestiti per cui quasi nulla restava alle necessità delle ricostru zioni.” Conseguenza, triste, di quella situazione erano stati, per lui: “scioperi, sabotaggi, servizi pubblici disorganizzati, raccolti abbandonati nei campi, mandrie lasciate senza custodia nelle stalle, fenomeni culmi nati nell’occupazione delle fabbriche.” Non era forse naturale,” egli si chiedeva sicuro di ottenere una risposta affermativa, “che la borghesia del pensiero e del lavoro, la borghesia che amava la patria e la famiglia, la borghesia risparmiatrice, si orientasse verso un movimento che rista biliva “l'autorità dello Stato, che voleva la tutela del lavoro, la discipli na, le gerarchie e, al di sopra di tutto e di tutti, una patria rispettata e potente?” E rendeva omaggio al fascismo, che, sia pure adottando una compressione giustificata nei primi tempi, aveva assicurato “l'ordine al quale aspiravamo. Non vi sono più scioperi generali, né interruzioni dei servizi pubblici: la disciplina è entrata nelle aziende: cosi pure l'ope ra di restaurazione finanziaria è cominciata, anzi in gran parte avviata.” Constatando il “gran passo” compiuto “nella storia del nostro risorgi mento economico,” non riusciva a rendersi conto come mai serpeggiasse, nel paese, al quale amava richiamarsi cosi spesso, un senso di disagio profondo: “Io mi domando allora come mai, e lo stesso Capo del Go verno lo ha riconosciuto, il consenso del Paese non è più lo stesso dei primi tempi? E perché il disagio spirituale che sentiamo anche noi pro duttori, che non abbiamo desiderio di crisi ministeriali, che non abbiamo rancori da servire, né vendette da compiere, né aspirazioni politiche da accontentare, e che siamo egualmente lontani dagli zelatori più ap passionati, come dalle denegazioni degli aventiniani? Noi abbiamo,” continuava, “l'impressione, o almeno io ho l'impressione, che alla re staurazione economica non abbia corrisposto la restaurazione del co stume: e tutti sappiamo che la prima non può essere duratura senza la seconda. Le violenze: troppo si è creduto di indulgere all'imperio delle violenze [...]. Le gerarchie: io avevo proprio sperato, e non solo per il desiderio egoistico di essere lasciato da parte, che, con l'avvento del fascismo, partito di giovani, le antiche classi, ormai superate, dovessero cedere il posto alle nuove formate dalla guerra, che avrebbero apportato il fervore della loro fede nei pubblici uffici [...]. È triste, ma riconosco 57
Il notevole sviluppo del settore idroelettrico - il cui in cremento di capitale è detto dalla “Rivista di politica eco nomica,” particolarmente forte6 - è documentato anche dal le parecchie decine di migliaia di dollari che arrivarono in abbondanza, pure negli anni seguenti, d’oltreoceano. “A chi andarono i dollari in arrivo?” si chiede G. Mori, e cosi enumera le industrie che ne beneficiarono: “La Fiat, nel luglio '26 emise un prestito di 10 milioni di dollari-oro, l’Isotta Fraschini ne emise uno di 1.750.000 dollari nel maggio 1927, la Edison uno di 10 milioni di dollari nel di cembre '25 ed un secondo di 5 milioni nel dicembre '26, la SME uno di 12 milioni di dollari nel febbraio 1927, la SADF che mi ero completamente sbagliato! È certo che i tempi ultimi non hanno portato avanti né i più preparati né i più degni £...]. Altro punto: la legislazione. Il Paese non sente il bisogno di costanti inno vazioni,” che non fanno altro che spingere i cittadini “a non obbedire alle leggi, perché ne suppongono la precarietà. Finalmente la giustizia: in questi ultimi anni non posso dire che lo Stato abbia sempre assunto la figura dell'Ente superiore a tutti i partiti e giusto verso tutti [...]. Troppo deleterio è il senso della denegata giustizia.” Era certo un severo processo alla nuova classe politica fascista, che ne colpiva alcuni aspet ti, ma che si lasciava sfuggire i più importanti, che consistevano nel forte processo inflazionistico, di cui lui non poteva avvertire i funesti effetti, perché la svalutazione della moneta portava con sé maggiori bisogni statali, a cui egli rispondeva attuando nuovi impianti idraulici, mentre gli aumenti delle spese erano facilmente coperti dal “graduale aumento delle tariffe,” senza minimamente pensare che la “pace so ciale,” che lui pure esaltava, aveva contratto le possibilità di consumo della popolazione, che, pertanto, non era in grado di sopportare tale “graduale aumento delle tariffe.” 6 “Sospinta a grande e fortunata espansione,” scrive R. Morandi, nella sua S to ria della grande industria, in un rapido ma significativo scorcio delle vicende del settore elettrico, “la industria idroelettrica arri va ad un balzo a strutture monopolistiche fortissime, tanto da diventare una delle rocche più temibili e meglio guardate del capitale finanziario. Un solidissimo cartello e l'interconnessione bancaria dei capitali, verrà ad avvincere strettamente i sei grandi trust che si spartiscono tra loro le zone di sfruttamento e di distribuzione. Domina nettamente su tutto il gi gantesco complesso della Edison [...]. Esso si erge come l'unità finan ziaria più cospicua nel campo dell'industria italiana. La disciplina di fer ro che lega questi potentati, imprigionerà nelle sue maglie senza diffi coltà le aziende municipalizzate, che sul sorgere erano state dispensa trici di tante promesse al consumatore. L'aggressività finanziaria dei monopoli elettrici si farà sentire su tutto il sistema industriale, ma in modo particolare nel campo della metalmeccanica. A misurarne la po tenza, basterà dire che, a 10 anni dalla guerra, il capitale versato a disposizione dell'industria elettrica, risultava parti a 1/5 del capitale complessivamente attribuito a tutte le società industriali e commerciali italiane assieme prese. Il rapporto si stabiliva nella misura di 2,4 con l’industria metalmeccanica, di 3,7 con l'industria del rayon, di 5,4 con l’industria cotoniera.” Tale ascesa fu favorita oltre che dai motivi che esponiamo nel testo, anche dai rapporti che gli industriali di questo ramo mantennero con alcuni gerarchi, ad esempio, Volpi, Ciano, Belluzzo. 58
uno di 5 milioni di dollari nel marzo 1927, la Generale Elettri ca Cisalpina uno di 6 milioni nel gennaio 1927, la SIP uno di 11.170.000 nel febbraio 1926, la Lombarda per la Distribuzione di Energia elettrica uno di 15 milioni nel gennaio 1927 ed uno di 6 milioni nel 1928, la Unione Esercizi Elettrici per 6 mi lioni di dollari nell'ottobre 1926.” “Quasi 90 milioni di dol lari in totale,” commenta il Mori, “un po’ meno di 2 miliar di di lire del tempo e circa il 4-5% del capitale di tutte le anonime italiane del tempo (quel dato corrisponde, nel 1969, a circa 10.000 miliardi di lire). Ma, come si vede, su quei 90 milioni di dollari, ben 48 erano stati assegnati ad industrie elettriche, cioè un buon 50%, senza alcuna proporzione con i milioni che inondavano l’Italia e che venivano distri buiti con cosi gravi disuguaglianze fra le nostre aziende. Né si può pensare che tale diseguale distribuzione non fos se, sostanzialmente, favorita dal governo fascista.” Tut tavia, a questo punto, dobbiamo ricordare ciò che scris se M. Mitzakis, in un suo libro pubblicato nel 1931, in cui sostiene che era un preciso interesse della grande indu stria americana “que le marché européen retrouvàt son pouvoir d’achat antérieur,” quasi preannunciando la fun zione che sarebbe stata, nel secondo dopoguerra, del pia no Marshall. Sebbene, anche in quest’ultimo non si pos sa del tutto vedere soltanto una generosa politica ideali stica tutta volta ad alleviare le sofferenze e le carenze di cui soffrivano i paesi europei, bensì si debba scorgere l’interesse americano mirante a creare un vasto mercato di assorbimento dei propri prodotti. Altrettanto, forse, era avvenuto prim a del 1930, e, in particolare, negli anni cru ciali fra il ’23-’24 e il ’26, cruciali non solo per il fascismo bensì anche per tutto il sistema economico mondiale, in cui si andava sempre più affermando, attraverso una du ra lotta commerciale, la potenza degli Stati Uniti, i quali, rendendo omaggio alla tuttora ampiamente dominante dot trina classica e ottocentesca, miravano a ristabilire, attra verso il puro gioco liberistico del mercato, le condizioni per un traffico internazionale ordinato e regolato da pochi paesi, ancorati ad una moneta stabile quale unità di scambio. Nessuno, pertanto, cercava di rendersi ragione dei grandi mutamenti intervenuti, in conseguenza della guerra, nell’economia mondiale; e nessuno rifletteva sul fatto che, se, nel secolo scorso, il succedersi continuo di fasi recessive a fasi espansionistiche era stato possibile perché non esistevano paesi o classi che osavano ribellar si alla situazione di miseria in cui tale politica economi 59
ca li faceva ricadere (e quando cominciarono a renderse ne conto, allora fu il momento del conflitto), ciò non po teva più continuare nel dopoguerra. Questo avevano ampia mente dimostrato da un lato la rivoluzione russa e, dal l’altro, nelle nazioni occidentali, la reazione totalitaria, inter venuta in quel periodo (ma si trattò di un fenomeno comu ne, fra le due guerre, a molti paesi) in Italia nel '22 e nel Portogallo, nel '26, dopo i travagli di una deflazione che apri la strada al lungo governo autoritario di Salazar. Sicché la nostra ipotesi che gli sforzi dell’America fos sero rivolti a tenerci fuori dai mercati mondiali, esce av valorata, anche perché, allora, le esportazioni statuniten si non consistevano più, come nell’anteguerra, di materie prime e di prodotti agricoli, cosa del resto naturale in un paese che era uscito dal conflitto con un potenziale indu striale notevolmente rafforzato. In una analisi del commer cio estero durante il 1924, svolta dalla “Rivista di politica economica,” risulta che “i prodotti finiti e pronti per il con sumo, che da dopo la guerra in poi hanno rappresentato la categoria più importante delle sportazioni americane, aumen tarono di 110 milioni di dollari, ossia dell'8% in confron to all’anno 1923. Detto aumento fu dovuto alle maggiori esportazioni di macchine, autoveicoli, olii minerali, fer ro ed acciaio”; “Durante il periodo prebellico un terzo delle esportazioni degli Stati Uniti era rappresentato da materie prime, che superavano considerevolmente le spe dizioni di articoli manifatturati. Nel 1924, invece, detta percentuale era diminuita al 29,5%, mentre le esportazioni di prodotti m anifatturati erano aumentate al 35,3% del valore totale di esportazione.” “Durante l’anno 1924 le esportazioni di macchine aumentarono, in valore, rispet to al periodo pre-bellico, dell'87%; le esportazioni di ma nufatti di cotone e di macchine agricole aumentarono an che in valore di circa il 300%.” Dopo tale esame, il con sigliere commerciale presso la R. Ambasciata italiana di Washington, lanciava il suo grido d’allarme, che comincia va ormai a rispecchiare la consapevolezza di una grave minaccia per la vecchia Europa da un cosi manifesto pre dominio di una sola grande potenza, timore appena vela te dal richiamo al liberismo ottocentesco, di cui l’Inghil terra si era accontentata, pur avendo fatto, esso, l’interesse nazionale, di assicurare un fluire rapido e pacifico degli scam bi commerciali. Ma, anche in questo caso, non si scorgeva, o non si voleva scorgere, quanto fosse stata dannosa quella tutela britannica, che aveva finito con il contrastare o il 60
frenare lo sviluppo economico di altri paesi. La “Rivista” cit., pertanto, scriveva: “Nel periodo pre-bellico gli Stati Uniti rappresentavano un paese esportatore di materie prime e viveri; essi offrivano buone opportunità, quale ricco mercato, alla industria europea. La situazione è og gi completamente mutata, e invece di rappresentare una economia coordinata a quella europea in generale, questo paese ha oggi funzione di concorrente temibile e molto agguerito. - La crescente percentuale di prodotti industriali esportati rispecchia altresì il fatto che l’attuale potenzia lità industriale degli Stati Uniti è alquanto in eccesso alla domanda ed al consumo domestico. Il commercio di espor tazione comincia a rappresentare una necessità economi ca nazionale. Ciò è chiaramente dimostrato dal forte au mento dei prestiti all’estero. Considerando in linee gene ralissime i due movimenti dei capitali e delle merci, si no ta che, durante il 1924, gli Stati Uniti riuscirono ad aumen tare la favorevole bilancia commerciale a circa un miliar do di dollari principalmente perché concessero un volume di nuovi prestiti all’estero per circa un miliardo e due cento milioni di dollari. - Ciò mostra come il recente sviluppo del commercio di esportazione degli Stati Uni ti poggia su basi alquanto dubbie e su cui non potreb be attendersi una salubre espansione. Il movimento del 1924 rappresenta una ulteriore proroga, una posticipazio ne alla reale ed effettiva soluzione del problema econo mico internazionale, accentuatosi dopo la guerra nelle re lazioni tra gli Stati Uniti e gli altri paesi, specie quelli europei. La concessione del prestito all’estero rappresen ta la prima fase di un nuovo movimento economico: essa dovrà essere seguita dalla restituzione. Detti prestiti ven gono concessi dagli Stati Uniti sotto forma di esportazio ni di merci: la restituzione potrà solo avvenire con il ri cevimento di prodotti e di servizi. - Appare quindi evi dente la manifesta contraddizione esistente nella presen te politica economica degli Stati Uniti tra la facilitazione degli investimenti di capitali all’estero da un lato, e l’ec cessivo protezionismo, che ora si vorrebbe estendere an che all’agricoltura, dall'altro. - Siamo senza dubbio in un periodo di transizione: la nuova posizione economica in ternazionale di paese creditore è destinata a provocare l'abbandono del protezionismo da parte degli Stati Uniti. - Ed è opportuno a questo punto accennare all'esempio dell’Inghilterra durante le prime decadi del secolo scorso: dopo le guerre napoleoniche, il periodo in cui detta na 61
zione assumeva celermente la posizione di paese credito re. La mutata posizione economica internazionale provo cò un mutamento radicale nella politica commerciale; i re sidui del mercantilismo vennero completamente eliminati, la politica delle restrizioni fu sostituita con il liberismo commerciale. E detto mutamento fu adottato principal mente, se non esclusivamente, nell’interesse nazionale bri tannico” (il corsivo è nostro). E concludendo la sua minu ta analisi delle correnti di traffico statunitensi, il consiglie re commerciale osservava che “l’industrializzazione di que sta Confederazione va aumentando in dipendenza verso le regioni nuove t dell’Asia e dell’America latina] di prodotti grezzi e materie prime, che offrono altresì ottime oppor tunità per l’adsorbimento dei manufatti. Quale finale ri sultato, va diniinuendo l’importanza occupata in preceden za dall’Europa nell’economia americana.” In definitiva, pertanto, questa politica nei riguardi del vecchio continente ricordava molto da vicino l'imperiali smo francese e inglese degli ultimi decenni dell’Ottocento, quale era stato descritto dall’Hobson nel 1901 e da Lenin nel 1916, un imperialismo basato essenzialmente sulla espor tazione di capitali e che esigeva l’abbattimento delle bar riere doganali perché era troppo sicuro della sua supe riorità, che gli avrebbe consentito di invadere i mercati europei con prodotti a basso costo, in quanto poteva av vantaggiarsi di un notevole progresso tecnologico. Certo, gli USA potevano essere liberisti - proprio come la Gran Bretagna nel secolo scorso - per ciò che concerneva la produzione industriale, ma erano protezionisti nei con fronti dei generi alimentari e delle materie prime (basti vedere la preoccupazione destata nei paesi europei dall’in tenzione, che si delineò fra il ’24 e il ’25, del Federal Oil Con servation Board di limitare fortemente l’esportazione del petrolio - di cui allora gli Stati Uniti erano i maggiori pro duttori -, in previsione dell’eventualità che l’America non ne avesse più disponibile per l’esportazione: il che diffuse la paura che, oltre un aumento del prezzo, l’indu stria petrolifera russa potesse presto dominare il merca to europeo). Così, Mussolini e il regime fascista cercarono di con durre una politica economica che si mantenesse in bilico fra il protezionismo e il liberismo, anche se, pure a stori ci recenti - come il Gualerni - l’aver stipulato nuovi trat tati commerciali sembri confermare un quasi totale abban dono della “politica protezionistica che era sfociata nelle 62
leggi doganali del 1921.” Ma lo stesso Gualerni, subito dopo, mette in rilievo come il regime finisse con il favorire “le industrie tradizionali, con la conseguenza che, nel campo siderurgico e della meccanica pesante, si passa di salvatag gio in salvataggio, e in quello tessile si dà luogo ad una ca pacità produttiva condannata a rimanere in gran parte inu tilizzata.” Una politica di salvataggio che non può essere de finita come politica liberistica, e che si rendeva tanto più urgente per il nuovo regime perché, nel settore metallurgi co e meccanico (settori, per il nostro paese, relativamente recenti, o almeno più recenti che in altri paesi dell’Euro pa occidentale e centrale), si incominciava già ad avvertire la minaccia delle esportazioni americane: secondo i dati forniti dall’“Iron Trade Review,” la produzione statunitense della ghisa passò da 30.654 migliaia di gross tons nel 1913 a 40.026 nel '23, mentre quella delTacciaio subiva anch’essa un sensibile aumento salendo da 31.301 migliaia di gross tons a 44.944. Ma l’altro grande paese europeo che si era impo sto, in Europa, come produttore di ghisa, era la Francia, con un quantitativo superiore a quello dell’Inghilterra; e la stessa Francia era in grado di fare larghe esportazioni di acciaio in Germania (7.500 migliaia di gross tons di ghi sa nel 1924 e 6.850 di acciaio nello stesso anno), e tanto più di invadere il mercato italiano, che era confinato in una posizione molto più debole: 250 migliaia di gross tons di ghisa nel 1924 e 1.100 di acciaio. Una simile situazione doveva contribuire, se si ricorda quanto abbiamo detto sopra sulla differente politica economica desiderata dai va ri settori produttivi, a spingere il duce ad adottare mi sure protezionistiche per quanto riguardava i prodotti si derurgici e veniva a creare un nuovo solco fra le due nazio ni latine (insieme con quello che già le divideva nei Bal cani), spingendo il fascismo ad appoggiarsi all’altro Stato che era stato danneggiato dai notevoli mutamenti interve nuti dopo la guerra, cioè la Gran Bretagna. Questa, mal grado qualche tentativo di sussulto, iniziò allora una pro gressiva deteriorazione nel commercio mondiale, che, poi, si fece manifesta dopo la seconda guerra mondiale. In fatti, se quale mercato di esportazione negli USA conser vava il 2° posto, con una percentuale, però, di gran lunga inferiore a quella dell’anteguerra, nel commercio di im portazione dagli Stati Uniti scendeva dal primo al decimo posto, mentre la Germania passava dal 2° al nono, ma gua dagnavano molte posizioni il Canada (al 2° posto), il Giap pone (dall’8° al quarto) e le Indie Olandesi (dal 7° al quinto). 63
Ma ci interessava di più porre in risalto l’opera di me diazione a cui fu costretto il duce fra gli opposti interessi delle potenze mondiali e fra le divergenti esigenze dei ce ti produttivi italiani. Non si può assolutamente sostenere, a nostro parere, né che Mussolini abbandonò la politica protezionistica per una schiettamente liberistica né che adottò senza riserve quest’ultima: la sua condotta rivelò la preoccupazione di non inimicarsi l’una categoria o l’altra, ma di aggiogarle sempre più al suo carro, solleticandone le aspirazioni e le più o meno aperte tendenze. Fu pro prio per tale motivo che il regime non potè non dare ascol to ai tessili, che chiedevano a gran voce ai nazionalisti che confluirono, superando alcune diffidenze e remore,7*lo nel fascismo, il 25 febbraio del '23, e che erano gli espo nenti della vasta area tessile - una grande restaurazione liberistica, tale da smantellare le bardature protezionisti che - disse M. Pantaleoni, definito da F. Gaeta: “intellet tuale forcaiolo” -, da abolire ogni legislazione sui sovraprofitti di guerra, qualsiasi imposta sul patrimonio, la fu nesta nominatività dei titoli, il monopolio delle assicura zioni e i monopoli delle cooperative (rosse), il sovvenzionamento alle industrie, il credito per via legislativa all’a gricoltura, la mediazione dello Stato nei conflitti del lavo ro. Perciò, il nazionalismo, che pure proclamava, come ab biamo già visto, per bocca del Pantaleoni su “Politica,” che il fascismo non era stato una rivoluzione (invenzione, questa, anche se per opposti motivi, degli antifascisti e dei fascisti), con le sue recise richieste liberistiche voleva di struggere proprio quello Stato uscito dal travaglio liberale e democratico dell’Ottocento per ridare il potere integro e intatto all’alta borghesia, che continuava senza riserve
7 II 10 luglio del 73 G. Emanuel scriveva al direttore del “Corriere della Sera,” riferendogli alcune voci che correvano a Roma sul mal contento dei nazionalisti: “Nonostante l'atteggiamento servilmente uffi cioso dell'/dea Nazionale, il dissenso fra fascisti e nazionalisti cresce: un amico mi riferisce che, trovandosi l'altra sera ad un pranzo al quale era convitato Paolucci [l'affondatore della V iribus Unitis, durante la guerra], per lealtà avverti d'essere avversario del fascismo. E con sorpresa udì l'altro, dopo un po', dire che delle 63.000 camicie azzurre solo 14.000 erano passate al fascismo in seguito alla fusione: il resto ri maneva pronto e libero, e, quanto alle armi, ciò non li preoccupava, perché per muovere contro i nemici (in caso di necessità) c'erano i comandi dei corpi d'armata che avrebbero provveduto...” Come si vede, lo spirito di origine dannunziana - lo spirito del poeta della immaginifica spedizione su Fiume, del settembre '19, allorché non esitava a get tare la sedizione nell'esercito per seguire la sua stella - non era stato dimenticato da questi nazionalisti, anche se monarchici e liberali. 64
l’antico disprezzo dei ceti nobiliari per la plebe o la popu lace, considerata una classe inferiore corvéable à merci, taglieggiabile a piacimento. In verità, il Pantaleoni espri meva con perfetta adesione il pensiero degli industriali, i quali si aspettavano dal regime - come scriveva l’organo dell’associazione imprenditoriale lombarda - la “rapida soluzione degli urgenti problemi della finanza, della buro crazia e dei pubblici servizi." Il che voleva dire richiedere una politica diversa da quella seguita fino allora dai pre cedenti governi, e che cosi era sintetizzata dal presidente della Federazione degli industriali di Milano, F. Targetti: “La politica di intervento statale, di confisca di capitali, di finanza demagogica, l’alto costo della mano d’opera in sieme con il suo pessimo rendimento” che avevano paraliz zato, dopo l’armistizio, la produzione italiana. Tuttavia, lo stesso Targetti era costretto ad ammettere che la mano d’o pera non era mai stata “tanto volonterosa dall’armistizio in poi, come nei tempi di torbidi politici.” Ma gli imprenditori dovevano necessariamente insistere sul quasi tacito accordo che avevano ora stabilito fra loro e uno Stato che, prima, era intervenuto nel processo produtti- ' vo e che aveva colpito soprattutto il ceto industriale me diante alte e ingiuste imposte; pertanto, erano sicuri di po ter far ricadere sul ministero dell’on. Mussolini tutto il loro peso, in modo da determinare una svolta netta (altro che non rivoluzione! essi, al contrario, intendevano l’ascesa al potere delle camicie nere come un reciso mutamento ad opera di un potere più attento ad accondiscendere alle lo ro esigenze). Infatti, in una riunione dell’Alleanza parla mentare economica, presieduta dall'on. Olivetti, ed alla quale fu presente anche il ministro delle Finanze, De Ste fani, nel novembre del '22, venivano riassunte nel modo seguente le rivendicazioni degli ambienti economici: “ 1) Con guagliare la pressione fiscale alla potenzialità di sviluppo delle energie produttive; 2) ridurre le spese al minimo ne cessario; 3) risanare i pubblici servizi e abbandonare tutte quelle attività che possono essere più proficuamente eser citate dall’iniziativa privata; 4) dare alle energie individuali la tranquillità indispensabile per la loro funzione,” con una politica doganale che facilitasse il miglioramento dei cambi e la rivalutazione della moneta, e, infine, con una politica estera che, “riponendo la Nazione nel posto che di diritto le spetta, [permettesse] alle forze economiche nazionali di valorizzarsi nella civile competizione internazionale.” In particolare, per quanto riguardava i servizi pubblici, l’Al 65
leanza formulava un voto, che cioè tutti i servizi pubblici di carattere industriale passassero all’iniziativa privata, pas saggio che si riteneva possibile in un termine relativa mente breve per i servizi minori e che avrebbe dovuto esse re fatto solo in un secondo momento per l’azienda ferrovia ria. Simili richieste erano avanzate con fermezza, perché l’adunanza aveva avuto la netta sensazione che, questa volta, finita la vuota inconcludenza dei governi liberal-democratici, le sue parole non sarebbero state buttate al vento, ma sarebbero state ascoltate con attenzione; del resto, la stessa presenza del De Stefani al convegno stava a signi ficare che, nelle alte sfere, era apertamente riconosciuto e apprezzato il “valore del contributo che i produttori [davano] alla politica economica del paese.” La risposta del ministro delle Finanze non si fece aspet tare troppo e la posizione ufficiale del gabinetto Mussolini fu da lui stesso esposta il 25 novembre del ’22, allorché comunicò alla Camera il programma finanziario del “Go verno Nazionale Fascista”: “Il problema tributario è un pro blema assai più modesto di quel che molti possano imma ginare,” esclamò, “è un problema di accertamento, di sem plicità, di economicità, di generalità.” Tutto giusto, ma quel problema dell 'accertamento rimaneva li, quasi una minac ciosa frana che incombesse su di lui, se fu costretto anche a constatare che “mezzo milione di contribuenti sfugge all'im posta di ricchezza mobile. Provvederò ad imporre il rispetto alle leggi finanziarie ed alla persecuzione giudiziaria dei tra sgressori.” Verso i quali, peraltro, non seppe che rivolgere un’umile preghiera: “chiederemo a coloro che frodano, il sa crificio di non frodare,” affermazione che doveva essere sem brata vuota di qualsiasi significato anche ad un liberista incallito, che doveva pur sapere come salde leggi e inte ressi concreti e reali governassero l'agire economico de gli uomini: non umili e sommesse preghiere, pertanto, occorrevano, ma un nuovo ordinamento, se quello vecchio era superato, tale da imporre a tutti i cittadini “l’impera tivo della legge.” Grandi parole, a cui seguiva subito do po un revirement, una specie di voltafaccia, in verità un po’ troppo spudorato: infatti, il De Stefani annunciava di aver presentato per la discussione alla Camera la propo sta di estendere “ai salariati l'imposta di ricchezza mobile. Io vi dico,” proseguiva accalorandosi, avendo trovato fi nalmente la sua vera strada, “che se i salariati, e partico larmente talune categorie speciali di essi (speciali a ri guardo dell’opera prestata e delle condizioni particolarmen 66
te favorevoli del loro contratto di lavoro) saranno chia mate, come propongono questi disegni di legge, a iscri versi nei ruoli dei contribuenti, noi non lo faremo per pu ro scopo finanziario, ma piuttosto per un alto scopo mora le, politico ed equitativo.” Alto scopo morale che egli giustificava con la volontà di non cadere di nuovo nell'errore dei passati governi, che consideravano il problema fiscale avulso dalla sua base na turale, che era l’economia della nazione. E sempre più infervorato continuava, dimenticando completamente le “forme ingiustificate di protezionismo finanziario” che po co prima aveva condannato, dichiarando: “I nostri sfor zi devono concorrere a realizzare nel Paese quelle condi zioni di produttività e di benessere, quella ripresa di traf fici che costituiscono anche la condizione delle abbon danti entrate. Una politica economica che liberi da ogni impaccio i congegni della produzione e degli scambi ha maggior effetto, nel quadro delle entrate di quello che non possano avere aumenti di aliquote o nuove imposte su un organismo inceppato nelle sue iniziative e nei suoi mo vimenti.” Un simile criterio finanziario indiretto, secon do lui, conciliava “l’interesse della privata economia con l’interesse dello Stato e della pubblica finanza.” Di con seguenza, bisognava parlare chiaro: “una finanza fondata su criteri di persecuzione del capitale è una finanza fol le,” il che lo portava ad affermare che conveniva più “che impedire l’ammortamento del capitale, premendo sul risparmio che si reinveste e che è stato conteso dallo Stato all’attività economica privata, premere sui consumi,” soprattutto se si intendeva agire efficacemente “nell’interes se vero e definitivo delle popolazioni più disagiate. La lot ta contro la formazione del capitale privato ricade sulle spalle dei lavoratori. Noi agevoleremo, per quanto lo con sentono le attuali condizioni, la formazione del rispar mio,” anche se, premendo sui consumi, si peggiorava il tenore di vita dei lavoratori e se ne deteriorava la situa zione. Dopo queste premesse, poteva concludere, quasi trionfalmente e lasciando intravedere tutta una politica or ganica adeguata ad esse, di voler “procedere con criteri sperimentali, e per punti, alla revisione delle tariffe, e spe cialmente di quelle di cui si può sospettare che la loro ec cessiva altezza possa aver contratto la materia imponibi le e indotto i contribuenti alla frode.” La politica fatta intravedere era stata metodicamente ap plicata nel ’23-’24, quando, nel discorso preelettorale alla 67
Scala (30 marzo ’24), il ministro delle finanze dava “al pub blico italiano e straniero” - come scriveva L. Einaudi sul “Corriere della Sera,” elogiandone l’operato - il “glorioso annuncio del pareggio conquistato” e cianciava di diminu zione della circolazione e di stabilità finanziaria. Ma ciò che, senza dubbio, doveva essere giunto più gradito ai ceti economici dominanti, era stato quello che il De Stefani ave va detto sulla attività del governo nel campo delle imposte dirette e delle tasse sugli affari: “dal novembre 1922 ad oggi sono stati emanati provvedimenti numerosi di dimi nuzione di aliquote e di abolizione di imposte. Si è ridot ta l’imposta di successione nel nucleo familiare e ridot te a più miti aliquote le successioni non esentate si è abo lita l’imposta sugli amministratori e dirigenti delle socie tà anonime; si è abolito il contributo personale di guerra; si sono trasformate in proporzionali le aliquote progressi ve sulle imposte dirette reali; si è perfezionato, allargando ne la portata, il regime delle esenzioni per le nuove costru8 “Il Popolo d'Italia” esaltava, nel luglio del '23, il significato morale e sociale, al tempo stesso, dell'abolizione della tassa di successione: “Tale provvedimento è giustificato da: 1) ragioni di ordine giuridico, poiché il provvedimento favorirà sempre più il rafforzamento su solide basi dell'istituto della famiglia, alle cui sorti è indissolubilmente legata l'uni tà morale della Nazione; 2) ragioni di ordine sociale a) perché la tassa ingente, non potendo colpire che una parte della proprietà, quella im mobiliare sola praticamente accertabile, sfuggendo quasi completamen te quella mobiliare, si risolveva in effetti in una sperequazione tribu taria; b) perché il provvedimento avrà sicuramente vaste ripercussioni dirette ed indirette sull'economia pubblica e sul movimento e l’accu mulazione del risparmio, dando incremento particolarmente alla costitu zione ed alla stabilizzazione della piccola proprietà; 3) ragioni di giusti zia nazionale nei riguardi delle provincie del Mezzogiorno in quanto le sorti di esso dipendono in modo principale dal problema tributario che il provvedimento attuale concorrerà a risolvere.” Intanto, però, il Mortara osservava che se “ancora nel 1923-24 l'aumento del getto dell'impo sta patrimoniale compensa la diminuzione del getto delle altre imposte straordinarie,” nel 1924-25, invece, “le diminuzioni soverchiano gli au menti e nel 1925-26 sembrano prevalere ancora maggiormente. L'imposta sui profitti di guerra, che aveva reso 1.444 milioni di lire nel 1920-21, ne ha reso soltanto 384 nel 1924-25, e l'imposta sugli aumenti di patri monio derivati dalla guerra è discesa da 547 milioni nel 1920-21 a 110 nel 1924-25.” Nello stesso tempo aumentavano in misura notevole le impo ste indirette, che avevano reso, nel 1924-25 quasi sette volte più che nel 1923-24: sicché, sempre al Mortara, non sembrava “facile inasprirle ulte riormente senza eccessivo aggravio dei consumatori e contrazione dei consumi.” Inoltre, i dazi segnavano un sensibile aumento nel 1924-25, “per circa metà dovuto ad aumento delle sopratasse di confine. Nell'e sercizio in corso [1925-'26] cresce fortemente il getto dei dazi, nonostan te la conclusione di importanti trattati di commercio, sia per lo sviluppo delle importazioni, sia per il maggiore svilimento della lira, sia per il rista bilimento del dazio sul grano che, in piena applicazione, dovrebbe ren dere in media 500 milioni di lire all'anno.” 68
zioni [...].” Con un sensibile crescendo, annunciava, inoltre, che si era “predisposta la riduzione delle aliquote della im posta fondiaria e della imposta edilizia,” pur se si era “ge neralizzato il tributo mobiliare secondo disegni di legge predisposti dai Governi precedenti [benevola concessione, con cui abilmente si attirava la sincera approvazione dcll’Einaudi, il quale diceva che il ministro era “troppo grande scienziato per non rendere omaggio, pur affermando il net to contrasto verbale tra i due regimi, al principio della continuità della storia], applicandoli però con tariffe più miti.” Si vantava, infine, “di avere abolito, per favorire la ripresa economica italiana, la obbligatoria nominatività dei titoli, che si sarebbe risolta in ulteriori aggravi”; di avere esentato, “per lo stesso fine, dall’imposta di ricchezza mo bile i redditi dei debiti contratti all’estero per investimenti capitalistici nelle industrie italiane e, per favorire ad un tempo la nostra espansione industriale e commerciale, si sono esentati dalla stessa imposta i redditi provenienti dal le succursali estere delle aziende italiane.” Aveva, pertanto, ragione M. Rocca, che, dopo essere stato fervente fascista, se ne era allontanato, fra il '23 e il ’24, per raggiungere il gruppo dei dissidenti (di cui parleremo più avanti), quando esclamava, con l’indignazione del neofita, che voler essere “liberista” in una società come la moderna, con uno Stato che era il bersaglio di assalto dei potenti ce ti economici, significava “favorire i più forti contro i più deboli, concedendo libertà e protezione ai primi e nul la ai secondi.” E in tal modo riassumeva i provvedimenti adottati dal regime in favore della borghesia industriale e agraria: “rinuncia al monopolio sulle assicurazioni vita a beneficio essenziale di due grandi compagnie private [ac contentando un voto espresso dalla Federazione imprese assicuratrici fin dal luglio ’22]; riforma tributaria che limi ta la progressività dell’imposta complementare a cifre re lativamente basse di imponibile, invece di superarle o di essere proporzionate per tutti; il sistema di concedere grandi lavori a trattativa privata, spesso a poche ditte; l’immutato indirizzo della politica doganale a favore pre cipuo dell’industria pesante; i 300 milioni di sovraprofitti condonati alle grandi industrie, mentre le medie fortune colpite dalla medesima tassa penano a pagarla; il contri buto alle autostrade; il salvataggio oneroso non solo d’in dustrie, di banche e dei loro depositari, ma persino dei lo ro azionisti [a proposito delle banche, quasi sicuramente il Rocca si riferisce soprattutto al salvataggio del Banco 69
di Roma, controllato dai cattolici ed al quale, scrive il Sal vemini, “il Vaticano e la Santa Sede avevano affidato i loro capitali,” e per cui lo stesso card. Gasparri, segretario di Stato del pontefice, aveva richiesto il benevolo intervento del governo fascista; Mussolini non si fece pregare molto ed evitò il fallimento del Banco “al prezzo, si disse, di un miliardo e mezzo di lire,” somma che, è superfluo dirlo, usci dalle tasche dei contribuenti italiani]; l’inflazione mo netaria a servizio della borsa e della banca; il consenso a prestiti italiani a Stati esteri, dopo aver abolito la tassa di successione per attirare capitali esteri in Italia.” “Persi no la riforma Gentile,” aggiungeva il Rocca, “ottima nei suoi capisaldi fondamentali, [era stata] applicata in modo cosi catastrofico da favorire esclusivamente gli alti ceti della grande ricchezza a detrimento, a schiacciamento dei ceti medi” (eppure, tale riforma, in questa nostra Italia che ha la grande virtù di passare indenne nelle sue strut ture civili e sociali attraverso i grandi avvenimenti che hanno assunto talora la parvenza di ' rivoluzioni, è quella che ancor oggi regge la nostra scuola, perché abbiamo sempre avuto classi dirigenti fedeli al principio che nulla si deve muovere per mutar de’ tempi - cioè per quanto mu tino i tempi). Riassumendo, in tutta l’azione del gover no, tra la fine del ’22 e il '24, due soli provvedimenti - a suo parere - erano stati emanati a vantaggio “di ristretti gruppi di classi umili e medie, mentre le misure a benificio dell’alta borghesia [erano state] vaste e generali.” Questo passo del Rocca è molto interessante perché ci lascia chiaramente scorgere come il fascismo fosse, in de finitiva, al servizio dell’alta borghesia industriale ed agra ria; come il tanto sbandierato liberismo del De Stefani si risolvesse in un inganno per quelle categorie che veramente l'avrebbero desiderato e come, pertanto, il duce fosse costretto ad una faticosa opera di mediazione fra oppo sti e divergenti interessi (il che avveniva, forse, anche nel la situazione internazionale, in cui si intrecciava un libe rismo altisonante con un più sostanziale protezionismo, raggiungendo il risultato di aggravare le diseguaglianze economiche fra le varie nazioni e fra le varie zone di uno stesso paese, rigettando sempre più nell’arretratezza, nel sottosviluppo e nel sottoconsumo le nazioni o le zone me no favorite). Ed interessante è il passo che abbiamo ri portato del dissidente perché richiama un lucido articolo di Gramsci, del 1° settembre '24, sulla crisi italiana, che 70
può spiegare molte cose di quell’anno cruciale che fu il 1924: in esso, Gramsci, dopo aver cercato di spiegare come la crisi delle classi medie avesse portato al pote re il fascismo (perché, in Italia, “lo scarso sviluppo del l’industria e il carattere regionale dell’industria” stessa, avevano consentito alla piccola borghesia, “molto nume rosa,” di apparire la sola classe “territorialmente” nazio nale, sicché la crisi capitalistica del dopoguerra, sotto forma di un pressoché totale sfacelo dello Stato unita rio, aveva “favorito il rinascere di una ideologia confusamente patriottica e non c’era altra soluzione che quella fascista”), cosi proseguiva, mettendo in rilievo l’inarresta bile, anzi accentuatasi, crisi dei ceti medi, pur dopo l'au spicata vittoria delle camicie nere: “Il regime fascista muore perché non solo non è riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi me die iniziatasi dopo la guerra. L’aspetto economico di que sta crisi consiste nella rovina della piccola e media azien da: il numero dei fallimenti si è rapidamente moltipli cato in questi due anni. Il monopolio del credito, il regi me fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è verificato dalla picco la e media alla grande borghesia, senza sviluppo dell’ap parato di produzione; il piccolo produttore non è neanche divenuto proletario, è solo un affamato in permanenza, un disperato senza previsioni per l'avvenire [...]. Le classi medie,” concludeva, “che avevano riposto nel regime fa scista tutte le loro speranze, sono state travolte dalla crisi generale, anzi sono diventate proprio esse l'espres sione della crisi capitalistica in questo periodo.” A parte l’accentuazione fatalistica che si poteva nota re in queste osservazioni di Gramsci (per il quale il fasci smo era ormai entrato in agonia, solo ritardando la rivo luzione proletaria, senza, però, renderla impossibile per ché aveva contribuito a far si che la rivoluzione proleta ria stessa, “dopo l’esperimento fascista, sarà veramente popolare”), era evidente che esse smentivano in pieno le roboanti e magniloquenti affermazioni del De Stefani sulla cosiddetta “stabilità finanziaria,” che non era altro che una sua pia speranza e niente affatto una effettiva realtà (tanto che il Mortara la diceva apparente): infatti, verso la fine del ’24 si parlava ormai apertamente, sulle ri viste economiche, di deprezzamento della nostra moneta 71
e di progressiva diminuzione del suo potere d’acquisto ed il Mortara attribuiva la causa - o le cause - del peggiora mento del cambio italiano a diversi fattori: all’indeboli mento delle rimesse dei nostri emigrati; agli abbondanti acquisti di divisa estera da parte del Tesoro per evitare i danni che aveva sofferto la Francia in seguito alla violen ta campagna contro il franco (campagna di cui si poteva no comprendere abbastanza facilmente i motivi, consi stenti nella volontà della grande potenza d’oltreoceano che, pur rinchiusa nel suo isolazionismo, controllava abil mente la vita economica dei paesi europei ed anche del l’Inghilterra di impedire che la Francia diventasse una nazione esportatrice di prodotti chimici, metalmeccanici, siderurgici e tessili: “La Francia,” esclamava con un cer to orgoglio P. Lyautey, “è un paese dalle notevoli trasfor mazioni che è entrato nel grande commercio internazio nale”); e, infine, i prestiti concessi a Stati esteri (Austria, Ungheria, Polonia e Germania), prestiti favoriti dal fat to che, sul mercato italiano, il saggio dell’interesse dei titoli di Stato e dei titoli privati era eccezionalmente basso. A tutto ciò si aggiungeva, ad accrescere il males sere della popolazione, il movimento in ascesa dei prezzi all’ingrosso, fino a giungere, alla fine del '24, sia negli in dici del Bachi sia in quelli della Camera di Commercio di Milano, ad un livello “non più raggiunto da alcuni an ni”: il primo indice registrava un rialzo da 98,3 nel 1923 (1920 = 100) a 127 nel ’24, mentre il secondo ne segnava imo da 497,95 a 573,67 (1913 = 100). Molto sensibile era stato l’aumento, proprio nel '24, del prezzo del grano (il frumento tenero nostrano da L. 104,60 al quintale nel ’23 a L. 162,50 nel dicembre ’24) in conseguenza della scarsità del raccolto nazionale e della situazione del mercato in ternazionale.’ 9 Nelle sue Prospettive economiche per il 1926, il Mortara notava che “la tendenza all'assestamento delle relazioni internazionali in Europa, tendenza visibile attraverso i persistenti contrasti e attestata dall’ado zione del progetto Dawes per un preliminare assetto del problema dei risarcimenti bellici [il piano Dawes dava alle annualità la stessa durata dei nostri pagamenti per i debiti e, tenendo conto della prima di esse, che era iniziata il 1° settembre '24, il valore in lire-oro accertato in base allo stesso interesse del 5%, risultava nei fatti press'a poco equivalente all'onere risultante dai nostri impegni: lire-oro 4.515.903.460]; l'afflusso in Europa di capitali nord-americani [che, uniti a quelli inglesi, si calco lava che avessero reso al Tesoro, convertiti in lire-carta, al cambio del tempo, circa 27 miliardi di lire]; Teliminazione dello squilibrio tra i prezzi dei prodotti industriali e quelli dei prodotti agricoli negli Stati Uniti; il risultato dell'elezione presidenziale [il repubblicano Coolidge 72
Era evidente, pertanto, che la situazione e il tenore di vita delle classi lavoratrici e dei ceti medi, a cui era proi bito turbare la “pace sociale,” andavano continuamente peggiorando, facendo nascere in essi un cupo m alconten to, foriero di tempesta per il regime. Sicché, quando Gramsci, partendo dalla “disgregazione sociale e politica del regime fascista” (che segnava, secondo lui, “la crisi storica della società capitalistica italiana, il cui sistema economico si dimostra insufficiente ai bisogni della po polazione”) e dalla constatazione che l’essenza del fasci smo e il sistema di rapporti di forza che esso aveva crea to nella società italiana erano “svaporati alquanto” (un sistema consistente “nell’essere riuscito a costituire una organizzazione di massa della piccola borghesia”), traeva l’esaltante auspicio che non fosse molto lontano il momen to della lotta della classe operaia per una fase preparatoria, di transizione alla successiva fase della lotta per il potere. “Noi possiamo prevedere solo un miglioramento nella posi zione politica della classe operaia, non una sua lotta vittorio sa per il potere”: lo “Stato operaio e contadino” sarebbe eletto nel 1923] hanno contribuito a determinare, al di qua e al di là dell'Atlantico, condizioni propizie allo sviluppo dell'attività economica. Per quanto le anormali condizioni degli ultimi anni abbiano alterato il consueto andamento dei cicli economici, sembra potersi affermare, dall’osservazione dei principali paesi industriali, già iniziata una nuova fase d’espansione. È carattere normale di tal fase il rialzo dei prezzi, determinato dall’impossibilità di un immediato adeguamento dell'offer ta al rapido sviluppo della domanda di merci [...].’ La tendenza dei prezzi al rialzo non dipese, però, soltanto dall'“improvvisa espansione della domanda,” perché una forte contrazione di alcuni prodotti di es senziale importanza per il consumo (grano, la cui scarsità si ripercuoté sui prezzi di altri alimenti; le fibre tessili), contribuì a mantenere ec cezionalmente alti tutti i prezzi. “L'azione di queste cause generali di rialzo dei prezzi si manifesta in particolare nel nostro paese. La rela tiva scarsezza del raccolto del frumento nel 1924, la grande importan za delle industrie tessili nell’economia nazionale, rendono specialmente sensibile il mercato italiano a tale azione. Il ritmo dell’attività indu striale, d’altronde, si accelera anche da noi; la brusca cessazione del l’indebitamento dello Stato [in seguito al piano Dawes, che aveva al meno dilazionato il pagamento delle riparazioni, contro cui era insorta tutta la stampa fascista, dichiarando ogni pretesa di pagamento degli ex-alleati odiosa, iniqua e vana] ha fatto riversare negli investimenti produttivi masse di risparmio, che prima affluivano ad impieghi im produttivi, ed ha favorito l’espansione delle industrie.” Né questo era sufficiente a spiegare il fatto che i prezzi fossero stati, nel 1924, in net ta e rapida ascesa, poiché erano intervenute pure cause di natura psicologica, come l’acuirsi e il diffondersi di manifestazioni di sfiducia verso il governo, “che tuttavia si attacca tenacemente al potere. Questo contrasto, suscitando la previsione di violente repressioni del malcon tento, influisce in modo sfavorevole sui cambi: negli ultimi giorni del l’anno, il dollaro rasenta le 24 lire [nel 1914 era al corso di L. 5,18], la sterlina supera le 113 lire [nel '14 era a 25,22].* 73
venuto più tardi, non appena ci fosse stato un “grande partito” capace di “attirare nelle nostre organizzazioni il più gran numero possibile di operai e contadini rivolu zionari.” Cosi, anche se la sua posizione appariva un po’ mi nata da una forse cieca fiducia fatalistica, non si poteva, tut tavia, sostenere che non avesse un serio aggancio con la realtà. Che cosa era stato, in effetti, il delitto Matteotti, se non il tentativo disperato e tragico dei gerarchi in ca micia nera di riconquistare una certa credibilità nei con fronti dei ceti medi, che la gravità della crisi stava disper dendo per altre strade, allargando e rendendo manifeste le crepe che, a distanza di neppure due anni, stavano de componendo quel corpo che era parso cosi massiccio e cosi robusto? E se le opposizioni, raccolte nell’Aventino, non avessero avuto il timore “di essere travolte da una possibile insurrezione operaia” e non si fossero risolutamente rifiutate di “uscire dal terreno puramente parla mentare,” limitandosi ad agitare la “questione morale,” senza assecondare “l’ondata di democrazia” che era la caratteristica essenziale “della fase attuale della crisi po litica italiana,” molto probabilmente il regime sarebbe sta to travolto. Ma proprio da questo fallimento delle oppo sizioni costituzionali Gramsci prendeva lo spunto per pro clamare la sua grande speranza nelle classi lavoratrici, con le quali il suo partito era stato l’unico a mantenere il contatto, e nell’“azione del proletariato rivoluzionario.” Ma, forse, egli scorgeva, o credeva di scorgere, un prole tariato rivoluzionario che, in verità, non esisteva, perché riteneva che il ruolo delle masse operaie nella società ita liana avrebbe potuto essere decisivo in quel momento di crisi, in cui c’erano “di fatto due governi nel paese, che lottano l’un/ contro l’altro per contendersi le forze reali della organizzazione statale borghese.” Questi sono i mo tivi che impedirono che il fascismo venisse rovesciato: un blocco delle opposizioni troppo fedele ad una tattica le galitaria, pur nella lotta contro un regime che non aveva mai dimostrato eccessivo rispetto per il puro gioco par lamentare e democratico; ed un partito, quello comunista, appoggiato dai giovani della nuova generazione, che non si era ancora profondamente radicato nelle classi lavora trici. Ma - ancora un ma - esistevano veramente queste classi lavoratrici omogenee e animate tutte dalla stessa coscienza di classe, che non avrebbe dovuto essere altro che una precisa consapevolezza della propria dignità di 74
uomini? E sarebbero, esse, state in grado di dirigere “una lunga guerra civile alla quale non [avrebbero potuto] non prendere parte il proletariato e i contadini,” che lo stesso Gramsci finiva con il considerare inevitabile se si fosse voluto veramente distruggere il fascismo? Questo, sebbe ne in altri momenti osservasse che la crisi politica - il de litto Matteotti - e la crisi economica e sociale avevano dimostrato apertamente che il fascismo non poteva “con seguire nessuna delle sue premesse ideologiche.” Infatti, esso diceva “di voler conquistare lo Stato,” e, nel tempo stesso, “di voler diventare un fenomeno prevalentemente rurale. Come le due affermazioni possano stare insieme, è difficile comprendere. Per conquistare lo Stato occor re essere in grado di sostituire la classe dominante nelle funzioni che hanno una importanza essenziale per il go verno della società. In Italia, come in tutti i paesi ca pitalistici,” egli proseguiva, “conquistare lo Stato signi fica anzitutto conquistare la fabbrica, significa avere la capacità di superare i capitalisti nel governo delle forze produttive del paese. Ciò può essere fatto dalla classe operaia, non può essere fatto dalla piccola borghesia che non ha nessuna funzione essenziale nel campo produtti vo, che, nella fabbrica, come categoria industriale, eserci ta una funzione prevalentemente poliziesca non produtti va. La piccola borghesia può conquistare lo Stato solo alleandosi con la classe operaia, solo accettando il pro gramma della classe operaia: sistema soviettista invece che Parlamento nell’organizzazione statale, comuniSmo e non capitalismo nell’organizzazione dell’economia nazio nale e internazionale.” Come si vede, in questa visione di Gramsci erano scom parsi del tutto i contadini ed egli giungeva anzi ad ipotiz zare, per il successo della rivoluzione soviettista, una al leanza fra classe operaia e piccola borghesia, trasforma tasi naturalmente da ceto improduttivo a ceto produtti vo. Era una posizione che non ci si sarebbe aspettata pro prio da lui che aveva parlato, anche in questo articolo del settembre '24, in attesa di riprendere il tema con mag giori approfondimenti nel '26, di alleanza operai del nord -contadini del sud (che non poteva rispondere alla situa zione della società italiana di allora, ma che poteva ser vire - come vedremo meglio - quale parola d’ordine in tesa a risvegliare energie nuove o sopite e quale critica dell'antico Stato ottocentesco, prefascista e, infine, fasci 75
sta). Si trattava, dunque, di una formula che era stata da lui ripresa dal marxismo del secolo scorso anche se ri sentiva (in misura limitata e debole) della grande lezione leniniana della rivoluzione russa del 17, che aveva visto entrare nella storia le vaste masse contadine delle ster minate campagne. Il che rivelava, tutto sommato, una sua scarsa aderenza alla concretezza della realtà sociale del l’Italia di allora, nella quale avevano una certa importan za le classi che lavoravano nella fabbrica (con una notevole differenza, però, fra il settore tessile - che manteneva sal damente un posto preminente: basti pensare che, ad es., nella provincia di Bergamo, si ebbe un “enorme sviluppo dei' cotonifici e dei lanifici,” con un crollo della piccola industria e con un ampliamento delle fabbriche esistenti e l’apertura di nuovi stabilimenti con nuovi posti di lavo ro - e i settori metalmeccanico e metallurgico, dove gli operai erano esclusivamente occupati nella fabbrica men tre nel tessile dividevano la loro giornata, part time, fra il lavoro in fabbrica e la coltivazione del modesto appez zamento di terra), ma senza dubbio una importanza di gran lunga superiore avevano i contadini, in particolare i picco li coltivatori, che sono sempre stati, nella storia di Francia e d'Italia, moderati e conservatori e, in Italia, influenzati dalla predicazione del clero e, perciò, sollecitati a votare per il Partito popolare nel ’19 e nel ’21, e per la Democra zia Cristiana in questo dopoguerra. Eppure, nel ’24, Gramsci sembrava non si ponesse nemmeno il problema della con quista al suo partito dei ceti rurali, perché rivolgeva co stantemente il suo pensiero al lavoratore rinchiuso nella fabbrica, da cui avrebbe dovuto uscire fuori, spinto dalle cellule e dalle Commissioni interne, a “suscitare un largo movimento nelle fabbriche che possa svilupparsi fino a dar luogo a un’organizzazione di Comitati proletari di cit tà eletti dalle masse direttamente, i quali, nella crisi socia le che si profila, diventino il presidio degli interessi gene rali di tutto il popolo lavoratore.” Non si capisce, tuttavia, con quale programma, oltre a quello rivoluzionario, questi Comitati rivoluzionari (che sono, peraltro, un accenno di estremo interesse perché il Partito comunista sosterrà qual cosa del genere durante la Resistenza), avrebbero dovuto svilupparsi, agire, perché non si può considerare un pro gramma quello di porsi “a capo delle masse nelle piccole lotte quotidiane per il salario, per la giornata lavorativa, per la disciplina industriale, per gli alloggi, per il pane.” 76
Capitolo quarto
Il settore tessile e la fusione nazionalismo-fascismo
Abbiamo visto la riluttanza con cui molti nazionalisti accettarono (o si misero su posizioni di contrasto) la fu sione con il fascismo, riluttanza probabilmente generata dal timore che Mussolini - del quale non potevano dimenticare le dichiarazioni sull’Italia espansionista e imperialista, di chiarazioni che erano state avvalorate, nel '23, dalla impre sa di Corfu - intendesse abbandonare quella che essi rite nevano la naturale nostra zona di influenza, cioè i Balcani, sui mercati dei quali si era avuto, nel dopoguerra, un note vole incremento delle vendite dei filati e dei tessuti di co tone ed anche dei manufatti (da 6,8 milioni nel 1909-13 a 24,0 nel 1925) e di tessuti di lana (da 13,4 a 95,3). Questi ulti mi promettevano ulteriori sviluppi, e, ad ogni modo, le esportazioni delle materie tessili e dei loro prodotti segna vano l’attivo più consistente della bilancia commerciale italiana, cosi come l’avevano rappresentato nell'anteguer ra: nel '22 si erano avute esportazioni per 4.361,6 milioni che erano saliti, nel '25, a 8.350,4, contro, rispettivamente, 678,9 e 1.405,4 di prodotti dell’industria metalmeccanica. Pertanto, il settore tessile era ancora quello veramente por tante della nostra economia (sebbene fosse, nel tempo stes so, un settore che dimostrava quanto recente fosse stato il decollo industriale italiano e quanto sostanzialmente arre trato fosse il nostro sistema produttivo, tanto che il Mortara metteva in rilievo come uno dei principali fattori d’infe riorità dell’industria italiana, in tale settore, consistesse “nel maggior costo degli impianti, specialmente delle mac chine, e del loro mantenimento”). Forse - ma avanziamo questa tesi unicamente quale ipotesi perché sentiamo il bisogno di dare una spiegazione il più possibile logica (anche se essa sembra esserlo solo per chi scrive) di ciò che è avvenuto e di ciò che avviene si potrebbe far risalire il dissidentismo (al quale abbiamo ac 77
cennato a proposito di M. Rocca) che tormentò il fascismo fra il 1923 e il 74, alla pressione di questi predominanti in teressi degli imprenditori tessili. Lo tormentò, ma consen ti a Mussolini di mediare abilmente fra le due tendenze che, come si è visto, si erano manifestate nell’industria ita liana. Sarebbe possibile giungere ad una simile conclusione tenendo presente la fase di crisi che attraversarono sia la produzione di filati e di tessuti di cotone sia i manufatti di lana (che erano i due settori tessili più importanti, per ché lo “sviluppo della nostra industria serica ha trovato ostacolo nella' povertà del mercato interno” e nella concor renza della seta artificiale), proprio in quell’anno 1923. Infat ti, è pressoché unanime la constatazione che vi fu, allora, unà depressione del consumo, che l’attività procedette al quanto stentatamente e che diede segni di incertezza. Ad esempio, in una pubblicazione della Camera di Commercio e Industria di Bergamo sulle caratteristiche economiche della provincia (pubblicata nel 1924), si mette in rilievo che “molti cotonifici hanno ridotto le giornate lavorative per evitare il più possibile la formazione di stocks, danno si agli industriali [...]. Questa diminuita attività, messa in rapporto con le fortissime spese generali e le tassazioni che pesano sull’industria, giustifica quello stato di pesantezza e di disorientamento che si nota nel campo cotoniero. Il nu mero degli operai occupati nelle industrie durante l'anno 1923 è piuttosto diminuito [corsivo nel testo]. Un migliora mento notasi nel loro rendimento pel regime di maggio re disciplina che è venuto instaurandosi. L’orario di lavoro rimane normale e cosi pure le mercedi, le giornate lavorati ve settimanali subirono invece qualche riduzione.” Certo, questa crisi era motivata si da diversi fattori (fra cui gli industriali amavano addurre i seguenti: l’inquietudine po litica del mercato balcanico; la scarsa penetrazione nel mer cato latino-americano; la politica protezionistica di gran parte degli Stati; l’aumento dei prezzi della materia prima; il limitato potere d’acquisto della lira nei confronti del dol laro e della sterlina; la forte incidenza del dazio sulle mate rie coloranti ed il ritardato rimborso di quello sulle merci esportate - draw-back), ma era anche una crisi generata dalla speculazione che, nel periodo bellico e nell’immediato dopo guerra, aveva favorito l’apertura di piccole e medie fabbri che e l’ingrandimento di quelle esistenti. Ad ogni modo, la cri si del 73 parve talmente grave ai datori di lavoro berga maschi da far loro intravedere “la possibilità di ulteriori riduzioni nelle giornate lavorative” per gli alti costi e le 78
difficoltà nel collocamento dei manufatti (sebbene la ridu zione del numero degli occupati dovesse considerarsi un fe nomeno che ormai durava da alcuni anni se, nei diversi settori di produzione presente in provincia di Bergamo cotone, lino, canapa, cappelli di feltro, tessili vari -, l’indi ce degli addetti per unità locale con più di 10 lavoratori andasse, nel 1911, da 431,7 a 447,6, per segnare poi un vero crollo nel 1923 con 343,9). A sua volta, il M ortara faceva notare come la produzione di tessuti e altri manufatti fos se rim asta quasi stazionaria dal 1911-'13 (che pure era stato un periodo in cui l’industria in tale ramo aveva languito “nell’inoperosità”) e nel biennio 1922-’24: di fronte a 1.500 migliaia di quintali nel primo, stava una produzione di 1.570: sicché, tenuto conto delle importazioni e delle espor tazioni, rimanevano disponibili per il consumo interno 1.170 migliaia di quintali di manufatti di cotone ogni anno men tre, nell'anteguerra, se ne erano avuti 1.200. “La popolazio ne è aumentata di oltre un decimo,” proseguiva il Mortara, “e perciò il consumo medio per abitante è diminuito. Secondo calcoli dell’Associazione Cotoniera Italiana, il consumo medio annuo per abitante era stato di 3,5 chilo grammi nel 1909-13. Nell'ultimo biennio cotoniero, secon do il nostro calcolo, sarebbe disceso a 3 chilogrammi. Né sembra prevedibile a breve scadenza una forte espansione del consumo interno” (era, questa, una delle prime conse guenze della “pace sociale” che il fascismo si vantava di ave re imposto ai rissosi italiani e che gli industriali aveva no accolto con piacere, senza pensare che essa avrebbe ri chiesto una contrazione dei salari e degli stipendi e, di con seguenza, una riduzione del consumo). Si è visto che gli industriali bergamaschi mettevano in primo piano, come causa principale della crisi che avevano subito nel 1923, l’inquietudine politica dei mercati balca nici, il che stava ad indicare quanto la penetrazione in essi stesse loro a cuore. Perciò, dalla crisi alla condanna della politica estera grandiosa che potevano aver creduto, con la occupazione di Corfu, essere quella preferita dal duce, il passo era breve, soprattutto perché tale occupazione an dava in una direzione del tutto contraria ai loro interessi. Infatti, ritornando brevemente su questa misera e appa rente prova di forza contro gli ex-alleati, O. Rizzini scrive va da Londra all’Albertini che, dopo le violente dichiarazio ni del duce e dei fascisti secondo cui “l’Italia deve mangiarsi quanto più Mediterraneo è possibile” (errore enorme, egli aggiungeva, perché “ogni nostro gesto è interpretato come 79
un colpo di mano mediterraneo”), il Salvemini gli aveva giurato “di essere certo che, entro cinque anni, se le dia mo il pretesto, la Francia ci attaccherà. Messi i pedi sul collo della Germania e finché la Germania è debole, essa cercherà di dare una gran legnata all’Italia che teme (Me diterraneo, interruzione delle comunicazioni coi serbatoi africani, preoccupazioni demografiche, ecc.). Salvemini è catastrofico e vede l’Italia del nord occupata dalla Francia, quella del sud e la Sicilia, per amore di equilibrio, dall’In ghilterra. Egli opterà per l’Inghilterra.” Il Rizzini, pur di cendo queste previsioni un po' troppo pessimistiche, era, tut tavia, portato ad ammettere di avere paura anch'egli “del la Francia perché può essere tentata ad assicurarsi cinquan ta; cent’anni di predominio, nel quale una sola nazione sia armata fino ai denti.” E palesava pure la sua paura del “nazionalismo italiano irresponsabile. Continuiamo a sbrai tare che siamo la più grande, la più intelligente, la più perfetta nazione del mondo, che gli anglosassoni son dei cretini, i francesi dei porci invidiosi di noi [...]. E con tinuiamo: gliela faremo vedere noi. Il Mediterraneo deve diventare un lago italiano, ecc. Io mi augurerei,” conclude va, “che cosi fosse un giorno, ma mi pare che il miglior modo di arrivare, se è possibile, all’impero romano rico struito, sia quello di non gridarlo sui tetti e di prepararsi silenziosamente [...]. Bisogna che spuntino dei bei denti per servire l’appetito del nostro stomaco romano. Non li abbiamo per ora. E non è dunque malaccorto gridare che vogliamo il Mediterraneo, ecc., ecc., mentre non ci teniamo neppure ritti sulle gambe?” Ecco il motivo per cui la fusione nazionalisti-fascisti fu considerata da non pochi nazionalisti (sebbene lo stesso Corradini scrivesse, su “L’idea nazionale,” che il fascismo era “pretto nazionalismo, perché subordinava la classe alla nazione,” e anzi, “più precisamente, una grande realiz zazione di nazionalismo [...]. Tra Tuna e l’altra manifesta zione c’è una continuità mirabile”) con sospetto, come con fessa uno dei capi storici del nazionalismo, il Federzoni che, in un suo libro di memorie pubblicato in questo secondo do poguerra (in cui, peraltro, risalta chiaramente quanto la sua posizione fosse ambigua), comincia, parlando della fusione con il respingere l’opinione di coloro che cerca vano di “far risalire al Nazionalismo una quota parte no tevole delle responsabilità del Fascismo,” ma non si ram menta, o finge di non rammentare, che questo fu, per cer ti rispetti, la deformazione, se non la parodia, del na 80
zionalismo corradiniano; e per certi altri, in qualche mo mento, ne fu addirittura la negazione. “Del resto,” pro segue, “che oggi sia condannata o rinnegata da molti Ita liani un’anacronistica dottrina politica che proponeva a una nazione di quaranta e più milioni di anime un fine di poten za e di espansione, è cosa naturalissima e direi quasi ine vitabile. Nella fase di ripiegamento che succede alla cata strofe, causata dalla pessima attuazione di una terribile aleatoria avventura, quella dottrina non può provocare nei più se non un senso di sazietà. Ciò non significa che essa abbia perduto il suo grande ed essenziale contenuto di ve rità, il quale sopravvive e si manifesta pur ora, attraverso esperienze ideologiche differenti o putacaso antitetiche, nel l’azione e nelle aspirazioni, di altri popoli più fortunati. Meno che mai dovrebbe essere lecito dimenticare l’utile missione che il Nazionalismo italiano adempì fra il 1903, data della fondazione del ‘Regno,’ e il 1923, data della fu sione dei due movimenti politici.” Siamo, qui, di fronte ad un passo che andrebbe commentato quasi periodo per pe riodo, ma vogliamo soltanto far notare che il Federzoni, dopo aver sostenuto che il fascismo fu “addirittura la nega zione” del nazionalismo, celebrava “l’utile missione” adem piuta dal suo movimento nei confronti del primo. Né pote va concludere in altro modo, soprattutto di fronte alle ac cuse che, dopo il 25 luglio del 1943, gli rivolsero “molti ami ci dell’antivigilia” di essere stato, proprio lui, “uno dei fau tori della fusione,” a cui, prima della marcia su Roma, era stato “recisamente contrario, resistendo alle smaniose im pazienze di eminenti colleghi nella direzione dell’Associa zione nazionalista.” A fargli mutare parere e a convincerlo ad uscire dal suo “atteggiamento di riserbo” era stato, alla fine dell'ottobre '22, il “concentramento dei ‘Sempre pronti per la Patria e per il Re’ [la milizia azzurra comandata da R. Paolucci] nella Capitale,” che era stata in grado (ma si era trattato di una illusione non si sa se di allora o posterio re, naturale in chi non desiderava nulla di meglio che farsi illudere) di “indirizzare Mussolini su una via che appariva la migliore possibile.” Sicché, una volta “formato il nuovo governo con un programma ricostruttivo inquadrato in una dichiarata ortodossia monarchica e costituzionale, risultò impossibile ricusarsi all’invito perentorio di Mussolini per la fusione, sebbene molti nazionalisti si mostrassero general mente riluttanti a mutare da azzurro in nero il colore della camicia.” Anche qui, però, il Federzoni si sentiva quasi in do vere di attenuare la cattiva impressione che poteva nascere 81
nel lettore per quella debolezza nei riguardi dell’"invito pe rentorio” del duce, e, pertanto, si sforzava di sostenere che la fusione, più che per obbedienza verso il presidente del consiglio, era avvenuta per “motivi di coscienza,” dovuti al fatto che, “massimamente nelle province del Mezzogior no,” si erano andate determinando “situazioni locali intol lerabili per grottesca insincerità e pericoloso settarismo. Erano cominciati gli attriti e i tafferugli. Camicie nere e camicie azzurre, novissime le une e le altre, avevano pre so, per esempio nelle Puglie, l’uso di dare l’assalto alla se de del partito'concorrente, e c’erano già stati m orti e feri ti. Si era in diritto di sperare che, con la fusione, anche per gli iniziali riconoscimenti impegnativi di Mussolini circa una tal quale superiorità di valori intellettuali che il Nazio nalismo presentava in paragone del Fascismo, si sarebbe potuto esplicare nell’ambito di questo un’influenza modera trice e educatrice. A dire il vero,” continuava il Federzoni, “tali beneficii furono minori di quanto si era previsto; ma non può dirsi che mancassero. Il contrasto fra i due movi menti continuò, accanito benché incruento, entro il PNF. In molti fascisti della ‘vecchia guardia’ c’era più che altro un ri gurgito di sentimenti massonici e repubblicani: ora tutti si professavano antimassoni e avevano accettato la Monar chia, ma non perdonavano al Nazionalismo d'averli forza ti a cambiare strada. La distensione fini per coincidere 'grosso modo’ col divergere delle due tendenze già contra stanti nel Partito: la rivoluzionaria e la legalitaria.” Ancora una volta, l’esponente nazionalista, che poi diede la sua alacre opera per la fascistizzazione dello Stato co me ministro dell’Interno dopo il delitto Matteotti (“il mio compito,” egli scrisse, “si riassumeva nel fermo ristabili mento della legge su tutto e su tutti e, se possibile, nella pacificazione degli animi [...]; potevo contare su la bene volenza degli elementi che nel Fascismo avevano visto, a ragione o a torto, soltanto una forza restauratrice dell'ordi ne e del sentimento di Patria e che, conoscendo la mia fe deltà a taluni principii fondamentali, mi consideravano ancora un uomo rappresentativo della corrente nazionali sta ”), palesava tutta la sua ingenuità - non si sa se sin cera o apparente - nel ritenere che il nazionalismo - o, meglio, la sua sola persona - avesse una cosi forte influen za su Mussolini, e sui fascisti in genere, da permettere di tentare l’“arduo cimento” di restaurare l’impero della leg ge su tutto e su tutti, l’ordine e il sentimento di patria, che pure i gerarchi e le camicie nere avevano sempre procla82
mato ad alta voce e retoricamente di volere infondere nel popolo italiano; quel sentimento traviato dal regime parla mentare e dall’azione dei rossi, che avevano mistificato “le masse lavoratrici mettendole contro la patria o fuori della patria”: “Portiamo,” gridò il duce a Perugia, il 30 ot tobre del '23 celebrando l’anniversario della marcia su Roma, “nello spirito il sogno che fermenta ancora nel nostro animo: noi vogliamo forgiare la grande, la superba, la maestosa Ita lia del nostro sogno, dei nostri poeti, dei nostri guerrieri, dei nostri martiri.” Eppure era, forse, proprio questa smisurata tenacia di marciare “con passo sicuro e romano verso la mèta infalli bile,” e questo additare al popolo italiano, finalmente re dento dalla benefica violenza squadristica e diventato “la borioso e gagliardo,” la “strada della sua espansione nel mondo,” che non poteva essere completamente accetto dai nazionalisti. I quali sembrava che preferissero rimanere fe deli alla vecchia politica dei governi liberali, che avevano consentito al settore tessile di svilupparsi in misura note vole ed a loro di raggiungere una funzione di primo pia no nella vita politica del paese. Ecco perché potevano ap parire legalitari, di destra e moderati nei confronti dei sansepolcristi e dei diciannovisti, che li consideravano “una specie di aristocrazia conservatrice.” E tale essi erano, in effetti, molto probabilmente - anche qui avanziamo una ipo tesi - perché quei sansepolcristi e diciannovisti erano l’e spressione del nuovo capitalismo più aggressivo, nato con e dalla guerra su basi fondamentalmente speculative, e, perciò, deciso a difendere in ogni modo la nuova posizione conquistata, esigendo dal governo una politica economica protezionistica più adeguata ai loro interessi. Visti sotto questo aspetto, gli squadristi della prima o della seconda ora trassero in inganno persino il Gobetti, che, nella sua “Rivoluzione liberale” (febbraio 1924), intessé un aperto elo gio del più violento e del più incolto di quegli squadristi, cioè del Farinacci, che, diceva, era “il tipo più completo e rispettabile che abbia espresso sinora il movimento fasci sta. Non solo come uomini politici, ma come coscienze, per disinteresse e austerità personale, i ras Farinacci, Barbiellini, Baroncini, Forni sono superiori a tutta la schiera dei ciarlatani del revisionismo [...]. Farinacci non teme di par lare di Bissolati come del suo vecchio maestro, e un demo cratico autentico non può esitare a sentirsi oggi cento volte più vicino a Farinacci che a Massimo Rocca [...]. I patti di lavoro ispirati da lui nel Cremonese, come quelli di Forni, 83
Baroncini e degli altri ras, non sono un tradimento per il movimento proletario, sono i migliori patti di lavoro vigen ti oggi in Italia [...]. Farinacci è nemico del prefetto, non può soffrire gli ordini di Roma, di quelli che non vedono e credono di vedere, e risolvono tutto con schemi teorici e leggi generiche. Di fronte al prefetto, Farinacci rappresen ta la rivoluzione, il principio dell’autogoverno, la sovranità popolare. Rendiamogli onore: lo spirito di Bissolati è in lui, almeno nei limiti in cui può esserlo un fascista. È un disce polo onesto: non ha venduto Cristo per i trenta denari di un ministero dei lavori pubblici.” Ma si trattava, evidentemente, di un abbaglio o di un equivoco (a parte gli alquanto confusi discorsi, che sono stati fatti anche di recente, sulle “istanze popolari locali” che sarebbero state rappresentate dal Farinacci, il quale avrebbe pure raccolto “i sotterranei fermenti strapaesani e provinciali” che divennero, più tardi, “una componente della formazione di giovani che sarebbero passati nelle file della Resistenza”!!), abbaglio ed equivoco di cui non avreb be potuto non accorgersi quando, nel febbraio del ’25, dopo il discorso mussoliniano del 3 gennaio che praticamente po neva termine alla secessione dell’Aventino, il ras cremone se venne chiamato alla carica di segretario del partito. Mussolini potè, allora, manifestare tutta la sua abilità di mediatore tra la “faticosa opera di difesa dell’ordine” - cosi scrive il Federzoni - svolta dal ministro dell’Interno e il “dinamismo irresponsabile di Farinacci” (mediazione di cui il duce si compiaceva, come risulta dallo stesso rac conto del Federzoni: “il nostro antagonismo era esploso più aspro del solito in un rumoroso alterco al cospetto del Duce. Era un giorno d’estate del 1925, e dalle finestre aper te del salone di palazzo Chigi, a quanto mi fu poi assicura to, i nostri urli si udivano in piazza Colonna: Mussolini as sisteva come un giudice indifferente, ma sotto quella sua maschera d’impassibilità lasciava trasparire di tratto in tratto l’intimo compiacimento”). In un grosso equivoco era, indubbiamente, caduto il Gobetti, allorché parlava dello “spirito di Bissolati” che continuava ad aleggiare nel suo discepolo ma, forse era soltanto lo spirito che aveva accomunato, nella battaglia interventistica, i due uomini; cosi quando ricordava i patti di lavoro stipulati, auspice Farinacci, nel Cremonese, definendoli i migliori vigenti in Italia, ma dimenticava la violenta opera di repressione dei contadini in cui si era distinto l’aspirante ras della città della bassa pianura padana prima che il fascismo salisse al 84
potere (per cui l’indice dei loro salari aveva dato inizio alla precipitosa discesa dalla punta massima del 1921 di 766.66 - 1913-14 = 100 - a 733,33 nel '22, a 695,55 nel '23, a 626.66 nel '24, ecc.); e infine, il Gobetti, tutto preso dalla pseudo-rivolta farinacciana contro il prefetto e contro gli ordini di Roma in nome della “rivoluzione, del principio dell’autogoverno, della sovranità popolare,” dimenticava che il ras cremonese aveva sempre mirato a risolvere lo Stato nel partito, sovrapponendo, nelle province, ai prefet ti i gerarchi scelti da lui, si da fare del direttorio fascista un altro governo che subordinasse, mantenendo sempre la struttura centralistica del vecchio Stato, le autorità locali alla Roma perfettamente fascistizzata, e dando inizio a quel la miserevole e deprimente distinzione tra “fascisti” ligi al partito e “antifascisti” contrari, elogiando i primi e vitupeperando i secondi.1 Certo, l’influenza dei nazionalisti ebbe un chiaro accento conservatore, e P. Togliatti, nelle sue lezioni sul fascismo del ’34, interpretava la fusione tra il fascismo e il nazionalismo come il tentativo della borghesia di riorganizzarsi e di ri creare gli strumenti tradizionali mediante i quali control lava ed esercitava il suo potere sullo Stato (poiché, mani festamente, dubitava, o almeno, era sospettosa verso il regime delle camicie nere): “Non per niente,” scriveva il Togliatti, “il legislatore di questa dittatura è stato Rocco, un nazionalista; non per niente, una delle più grandi per sonalità è stato Bottai, un nazionalista anche lui. In tutte le tappe è stata condotta una lotta fra fascisti e nazionalisti per la soluzione dei problemi fondamentali dello Stato e del partito. La soluzione di questi problemi ha sempre una sostanza che viene dal partito nazionalista, la sostanza della loro soluzione è sempre nettamente reazionaria e borghese.” li stato detto che nella valutazione, tutto sommato, positi va, del Farinacci da parte del Gobetti, come nelle conside razioni di Togliatti sulla influenza decisiva del nazionalismo nella lenta costruzione dello Stato fascista (per quanto si debba tener ben presente, a tale proposito, la volontà media trice a cui voleva rimanere fedele il duce nella prima fase del suo dominio), non si avvertiva soltanto la preoccupa 1 II “Non mollare,” bollettino d'informazioni antifascista fiorentino, rispondeva con grande dignità alle ingiunzioni del piccolo ras: “Farinacci ha detto alle opposizioni, nel discorso del 22 marzo [1925]: O a rre n detevi o rivoltatevi. Ben detto! Noi abbiamo scelto. Non ci arrendiamo. Ci rivoltiamo. Ma i modi e i tempi della rivolta intendiamo sceglierli noi. È chiaro?” 85
zione che operazioni politiche del tipo di quelle di Bottai, volte ad una riunificazione bonapartistica della borghesia, comportassero la spaccatura del fronte antifascista, sorret to non da un preciso carattere di classe, ma da una generica, sia pure fondamentale, esigenza morale. Il che deve con durre ad una constatazione molto grave sulle vecchie oppo sizioni democratiche, raccolte sull’Aventino, constatazione riguardante la loro confusione politica e sociale, dal mo mento che, se quegli uomini di alta levatura morale - un Turati, un Amendola, ecc., - avessero compreso che contro il fascismo - il quale non esitava ad usare la forza e la violen za tutte le volte che ve ne fosse bisogno - non si poteva lottare agitando unicamente la famosa “questione morale,” tna era indispensabile unirsi alle masse popolari per condur re un’azione.più efficace, avrebbero sentito pure il bisogno di mutare tattica e strategia (se, però, ne fossero state capaci, cosa su cui si possono nutrire molti dubbi). D’altronde, se anche fosse avvenuta la paventata spaccatura del fronte anti fascista, essa avrebbe dovuto essere accettata come un van taggio, perché avrebbe potuto impedire che ci si continuasse a trastullare - nel campo antifascista - con fantasmi che non avevano alcun senso, e si sarebbero separati coloro che intendevano opporre alla violenza fascista un’altra violenza, più nobile in quanto mossa da ideali più alti, da coloro che, invece, si adagiavano in una stanca ed opaca rassegnazione.
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Capitolo quinto
II “selvaggio rivoluzionario” di Mino Maccari
Separazione che sarebbe stata più urgente dopo che il duce aveva chiamato, all’inizio del ’25, il Farinacci alla se greteria del partito, suscitando un vivo risentimento nei gruppi squadristici, i quali videro nel ras cremonese, come abbiamo già notato, l’incarnazione del potere centrale con tro i poteri locali, del partito burocratizzato contro l'auto nomia delle province. Era, pertanto, inutile e fuori stagione ormai che Curzio Suckert [Malaparte], dalle colonne del suo “La Conquista dello Stato,” gridasse: “È giunto il mo mento di dimostrare che la direzione del Partito non è una dipendenza del Viminale, ma un vero e proprio comitato ri voluzionario che vuol finalmente realizzare contro chiunque la volontà del Fascismo.” E il Suckert si sforzava di dare una parvenza culturale alla politica farinacciana, insistendo sul tema “fascismo come Controriforma,” e, pertanto, italia nità contrapposta al mondo barbaro moderno: sicché, se Gobetti faceva scaturire il fascismo dalla mancanza di una riforma seria e profonda nella storia dell’Italia, egli, al con trario, celebrava la Controriforma quale momento essen ziale di quella storia. E si rifaceva alla “chiarezza cattoli ca della nostra tradizione,” che era stata minacciata dal “clima e dai fatti storici nostrani,” poiché, secondo lui, era “pacifico che se il liberalismo a fondo democratico, contro il quale Gioberti e i neoguelfi nulla poterono, ha deviato, ne gli ultimi cento anni, per opera di Cavour e dei teorici con seguenti il corso naturale, indagato in una ininterrotta tra dizione di tre secoli, della nostra vita storica, questo si deve più che allo stato delle cose d’Italia, alla natura del l’ideologia liberale, natura contraria e impropria a quella della nostra tradizione.” Come si vede, il Suckert esaltava una “ininterrotta tradizione di tre secoli della nostra vita storica,” una tradizione che raccoglieva tutti gli aspetti, più o meno deteriori, della “chiarezza cattolica,” del Giober 87
ti e del neoguelfismo, dimostrando quanto, in definitiva, la sua Controriforma fosse, veramente e soltanto, una pura Controriforma, una negazione risoluta dell’altra tradizione italiana dell’Ottocento, liberale e democratica. Né si riesce a capire come potesse opporre il fascismo provinciale, storico e riformistico (o controriformistico) al supposto fa scismo liberaleggiante che, insediatosi a Roma, impediva la “conquista dello Stato.” Forse che quello spirito contro riformistico avrebbe favorito una simile conquista dello Stato da parte dei parvenus fascisti, o non avrebbe pro mosso piuttosto una riconquista di Roma e dell’Italia da parte del Vaticano? Sullo stesso Garibaldi, il Suckert dava un tagliente giudizio negativo, essendo stato incapace di qondurre sino in fondo l'“ira spietata e tirannica” per aver ceduto ad un falso e democratico umanitarismo: “Poiché non bisogna1- dimenticare,” scriveva, “che Garibaldi, eroe decadente, una specie di tiranno romantico e democratico, riguardoso e di cuor debole, col quale la bontà e la pietà, interrompendo la bella tradizione tirannica degli eroi ari stocratici, spietati e senza riguardi, italiani fino all’odio per gli stessi italiani, entrano da maestre nella storia delle no stre contese.” Insomma, Garibaldi aveva tradito la rivolu zione da lui stesso suscitata, e il Suckert non pensava che, molto probabilmente, il grande compromesso di Teano con la monarchia fu dovuto al fatto che egli aveva compreso di aver destato le forze primitive dei contadini meridionali, che minacciavano di volgere in altra direzione la sua rivolta contro il governo imbelle e corrotto dei Borboni, in una di rezione che mirava a risuscitare le antiche usanze medioe vali che neppure la piccola borghesia risorgimentale - in questo perfettamente d’accordo con la grande borghesia era disposta ad accettare. Un’altra rivista, “Il Selvaggio” di A. Bcncini e M. Maccari, aveva cominciato ad uscire tre giorni dopo (il 13 luglio '24) la “Conquista dello Stato” del Suckert: il Maccari aveva fatto suo un cattolicesimo più strapaesano - è stato detto -, meno controriformistico, quale era stato elaborato da Bargellini, Lisi e Betocchi nel Calendario dei pensieri e delle pratiche solari, e si distingueva dal Suckert oltre che su questo motivo, anche nella interpretazione di Garibaldi. Egli respingeva con sdegno il falso e imbalsamato eroe dei due mondi dei libri di testo, pur sostenendo che c’era un Ga ribaldi che poteva servire al fascismo, il Garibaldi “che agiva secondo gli dettava l’impulso della sua anima generosa, sen za aspettare il consenso di tutti gli italiani, un italiano che 88
rispondeva davanti alla sua coscienza di ogni atto compiuto nel nome d’Italia.” E giungeva a tracciare una linea che andava dal garibaldinismo ottocentesco agli altri episodi di ribellione contro il vecchio Stato italiano, che era meglio rappresentato dal Cavour, l’anticipatore e il fondatore di ogni tendenza parlamentaristica: “Nessuno oserà negare che, tranne la parentesi garibaldina, la gente italiana era ormai schiava di una lunga tradizione panciafichista, borghese e pantofolaia. Il pioniere del rinunciatarismo si chiama Cairoli (quello della politica delle mani nette); Sforza, Nitti, Or lando sono discepoli di quella deplorevole scuola. - Noi fa remo la storia del rammollimento italiano, insegnato persi no nelle scuole a mezzo di quel famigerato Cuore di De Amicis e nelle caserme a mezzo dei cosiddetti Bozzetti militari dello stesso autore. - Contro tanto rammollimento e tanta mediocrità, la prima reazione è la settimana rossa di Anco na; poi vengono i fasci rivoluzionari, poi la guerra italo-austriaca, infine il fascismo sotto l'aspetto dello squadrismo. Il compito del quale, come si vede, è quindi ben più vasto e più importante che non sia stata l’azione antibolscevica.” Un netto contrasto, pertanto, esisteva, a suo parere, fra Ga ribaldi e il Cavour: quest’ultimo, detto anche “il grande straniero,” aveva posto termine al Risorgimento come ri voluzione ed aperto la strada all’antirisorgimento, al libe ralismo, al parlamentarismo, tutte degenerazioni rispetto al la spinta innovatrice del moto di liberazione dallo straniero. Ma comune al Suckert ed al Maccari era la critica dura ed aspra di Roma, la capitale conquistata dagli squadristi, e dell’accordo di bottega con il quale il duce, dimenticando le sue origini provinciali, aveva attirato al suo movimento la borghesia, che, tuttavia, dopo il delitto Matteotti, aveva rapidamente nascosto i distintivi di cui si fregiava prima per passare all’antifascismo, considerato il futuro vincitore, e per ritornare, dopo la delusione dell’Aventino, al fasci smo. In verità, “Il Selvaggio” cercava di conciliare cose inconciliabili, e Bencini chiedeva al regime che consolidas se economicamente il ruolo della borghesia, ma, nel tempo stesso, elevasse le condizioni di vita dei lavoratori median te le organizzazioni sindacali. Era una contraddizione tipi ca del periodico ispirato dal Maccari, il quale rappresenta va una zona della sua Toscana - attorno a Colle Val d’Elsa -, in cui accanto alla mezzadria e alla piccola proprietà qua si sempre minacciate di collasso sebbene fossero due cate gorie dagli interessi divergenti, c’era una piccola industria che aveva accolto gli echi della predicazione socialista. Ro 89
mano Bilenchi - la cui simpatica figura abbiamo conosciu to in questo dopoguerra e che ci rimarrà costantemente nel ricordo - dirà che, emarginati da lungo tempo, i piccoli borghesi di Colle Val d’Elsa erano stati, nel secolo scorso, garibaldini, i loro figli vagamente anarchici e socialisti, i loro nipoti squadristi e rivoluzionari: insomma, avevano sempre mostrato una vivace reazione contro lo Stato e contro il governo centrale o di Roma in nome di una te nace fedeltà alla equazione fascismo = strapaese. Secon do il Maccari, il fascismo aveva espresso l’essenziale ori gine da cui era scaturito, cioè “cattolicismo, ruralesimo, classicismo, realismo, gerarchia, autorità,” principi che era no stati sempre la caratteristica del movimento strapaesa no, ma che, sommati l’uno all'altro senza alcun criterio, dimostravano( abbastanza chiaramente quanta e quale fosse la confusione che regnava nella testa del Maccari. Eppure, da tali affermazióni c’era chi - come G. Contri - traeva lo spunto per scrivere che “la capitale della rivoluzione fasci sta è strapaese.” La realtà era che lo stesso “Selvaggio” si aggirava in una atmosfera ambigua e che non era capace - o non voleva esserlo - di chiarire tutte le contraddizioni che stavano avvolgendo il fascismo e che, fra il '24 e il '25, stavano per dimostrare l’effettiva irrealtà delle prospettive rivoluzionarie di chi contemplava l’esperienza delle squadre fasciste dal suo minuscolo angolo appartato. Cosi, lo stes so Maccari osservava - nel gennaio del ’25, poco dopo il di scorso del 3 gennaio del duce - con una certa amarezza, quasi lamentando le sue belle illusioni tradite o svanite: “Abbiamo portato un rispetto di cui dobbiamo arrossire al la borghesia e ai cosiddetti ceti elevati che hanno covato il più feroce antifascismo. Abbiamo bastonato il facchino che poteva aver bofonchiato: accidenti a Mussolini e a quei vi gliacchi venduti dei fascisti (frase assolutamente innocua e in fondo leale). Ma quante volte non abbiamo tollerato la de nigrazione perfida, abile, continuata del professor B., del marchese C.? - Perché non li abbiamo picchiati e cosi di ra do? - Perché gli operai, i contadini, i lavoratori inscritti ai fa sci hanno preferito stangare i propri simili piuttosto che stangare il proprietario, il fattore, il segretario comunale antifascista?” Fu questa delusione che fini con il convince re il Maccari dell’utilità di una attività più intensa sul piano culturale, abbandonando, almeno in parte, quello politi co: infatti, in un articolo del dicembre '24, ripubblicato, poi, nel novembre dell’anno successivo, “Il Selvaggio” sostene va che “se il fascismo vuol essere espressione viva e dina 90
mica di italianità, non deve prescindere da uno [...] stato di fatto. Vi è un fascismo italiano, ma in seno ad esso vi è un fascismo toscano, emiliano, ecc. - Questa divisione logi ca, inevitabile è una realtà concreta e va pesata. Tentare di distruggerla sarebbe sciocco e antistorico. E allora bi sogna favorirla. Prima di tutto, questo problema, se si può chiamar problema, va fatto emergere, va riconosciuto e accettato [...]. L’esperienza ci insegna che bisogna fare da sé; e noi ne abbiamo dato un esempio. - Ora sentiamo il bisogno di dire la nostra parola, di alzare la nostra propo sta. - Dovrebbe esistere, anzitutto, un istituto o un circolo di cultura fascista toscano con sede in Firenze o in Siena, regolarmente sussidiato dal partito e dalle federazioni pro vinciali della regione, il quale avrebbe la funzione di racco gliere le attività intellettuali degli artisti e dei letterati fascisti, promovendo mostre permanenti, pubblicazioni, cicli di conferenze.” Del resto, quasi a contraddire tale tendenza, c’era un arti colo più tardo dello stesso Maccari che ribadiva un tema su cui egli cercava di insistere, cioè la mancanza di uno stile fascista, il propagarsi di un costume retorico e l’inca pacità dei gerarchi ad avanzare critiche al regime quando ciò fosse stato necessario. Ma a dimostrare l’aspirazione de gli intellettuali a rinchiudersi nella “tanto deprecata 'tor re d’avorio,'” si possono ricordare altre affermazioni di U. D’Andrea, il quale si chiedeva, senza, però, nemmeno sfor zarsi di dare una risposta adeguata al problema: “come mai i giovani d’ingegno di oggi passano dalla politica all’arte pura, o agli studi storici, mentre i giovani alla fine del se colo e all’inizio del nuovo, passavano dalla speculazione fi losofica e dall’arte pura alla politica? Il fatto,” concludeva, “per chi l’intenda, non è senza significato e noi lo sotto poniamo, con la dovuta subordinazione, alle superiori ge rarchie.” Si può capire questa condanna della “tanto de precata ‘torre d’avorio,’” da parte degli scrittori del “Sel vaggio,” i quali avevano creduto seriamente nella intrinse ca volontà rivoluzionaria del fascismo (non si parlò, forse, a lungo della rivoluzione fascista?), e che avevano pensato che il regime intendesse lottare non solo contro il bolsce vismo, il soviettismo, ma anche contro i ceti privilegiati che erano annidati nella vecchia società e che avevano comandato a loro piacimento: erano tutti quelli che, con il Maccari, si dicevano, ora, gli “ex-nulla,” che si erano tramu tati da repubblicani in monarchici, e da rivoluzionari in difensori dell’ordine stabilito, sempre senza protestare, sol 91
tanto con “qualche sarcasmo” che era uscito dalle loro labbra: “Un bel giorno,” annotava con una aperta amarezza il Maccari, “gli ex-nulla hanno visto Mussolini col collare dell’Annunziata. ‘Visto. Si approva’ [...]. Finché son venute le elezioni politiche del 6 aprile [1924], con relativa indige stione di rospi, sopportati al suono di ‘Giovinezza’: gli ex nulla hanno fatto i galoppini, gli elettori, i comizianti, han no sudato 4 camicie [...] per mandare al parlamento il Gio vanni Ponzio, il tolstoiano Viola, la ciabatta dannunziana Sem Benelli.” Dichiarano, allora, sul finire del '24, che si mettono sull’attenti, salutano romanamente il duce, “e, con voce chiara e ferma, gli dicono: ‘Duce, Duce, se il fa scismo è ridotto a patteggiare con Vettori, se i nostri 3.000 morti sono caduti soltanto perché qualche giovanotto por tasse la tuba,,noi ex-nulla domandiamo il permesso di tor nare nel nulla.’” Erano tutti atteggiamenti, questi del fiorentino Maccari, che non potevano essere accolti con piacere da Mussolini, tutto intento a condurre una politica mediatrice fra le va rie correnti presenti, allora, nel suo partito e tra il fasci smo e l’antifascismo. In effetti, la celebrazione dello stra paese (che implicava la negazione di una visione unitaria e l’emergere di correnti locali e disgregatrici della grande costruzione nazionale che il duce vagheggiava); il rinchiu dersi nella “torre d’avorio” e il passaggio all’arte pura (che contrastava con la concezione che il fascismo aveva mu tuato dal Gentile, di una stretta fusione tra la teoria e la pratica: “La teoria vera è sempre una pratica,” disse ap punto il Gentile nel ’24, “una forma di vita: è l’uomo stes so impegnato, non certo per una cieca fatalità d’istinto, ma per consapevoli convinzioni e maturati propositi sorretti da un intuito sicuro del fine a cui bisogna tendere”: il che fu, poi, tradotto dal fascismo in termini più volgari nel motto proclamato da Augusto Turati, nel periodo della sua più fervida adesione al regime: “Libro, moschetto e fede. La fede che illumina il libro e santifica il moschetto, facendone l’arma giusta e bella”); e, infine, la lotta con tro le classi più abbienti e il non voler credere che la rivoluzione - come l’intendevano i gerarchi perfettamente inseriti nel sistema - non si fosse più fermata, dopo il 28 ottobre, non segnasse il passo, ma avanzasse e continuasse a realizzare sempre nuove realtà e nuove certezze; erano tutti, senza dubbio, motivi che il duce non poteva appro vare, anche se, dopo la segreteria Farinacci, chiamava, nel ’26, all’alta carica A. Turati, più adatto e più propenso 92
al compromesso, alla mediazione, indispensabili nella fa se di costruzione dello Stato fascista. Era, infatti, il nuo vo segretario che elencava, nell’ottobre del ’26, le ragioni “per le quali noi possiamo trovarci uguali anche se siamo dissimili. Ognuno di voi ha dentro di sé,” proseguiva, “qualche cosa in cui vorrà riconoscersi: forse un segno di dolore e di tormento, certamente un grande spasimo di speranza”: frasi in cui si scorgeva forse un’apertura verso gli “ex-nulla.”
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Capitolo sesto
Il fascismo e il Risorgimento: reazione o rivoluzione? Lo Stato etico dei gentiliani
Pertanto, Mussolini, in quei primi anni del suo novello “regno,” si trovava a dover conciliare, mediare fra le ten denze centrifughe dei ras locali e le aspirazioni ad una au tonomia delle province, da un lato, e, dall’altro, le esigenze di uno Stato accentrato, quale egli voleva costruire: fra le richieste dei ceti industriali protezionistici più aggressivi e i bisogni di quelli libcristici, soprattutto dell’esteso set tore tessile, che aveva mutato atteggiamento rispetto al 1887, quando era stato l’ispiratore e il più deciso sostenitore della rottura dei rapporti commerciali con la Francia; fra le posizioni protezionistiche degli agrari cerealicoli e quel le degli agricoltori e dei piccoli proprietari che intendeva no vendere sui mercati esteri i loro prodotti pregiati; fra la volontà della piccola e media borghesia, che mal sopportava, come vedremo meglio più avanti, la continua erosione del potere d’acquisto dei suoi stipendi o salari per il pi'ocesso inflazionistico e quella contrastante della grande, che invece vedeva volentieri l’inflazione perché essa le creava condizioni vantaggiose nelle esportazioni dei suoi prodotti. Lo fece con una abilità alquanto rozza e anche un po’ grossolana, come quando, dopo il delitto Mat teotti, negli ultimi giorni del 1924, obbedì alle recise in giunzioni degli squadristi fiorentini e toscani che gli im posero di porre termine allo stato di incertezza in cui il fascismo era precipitato, altrimenti l’avrebbero fatto loro, rispolverando i manganelli e tutti gli altri strumenti della violenza degli anni 1920-’22: ne derivò il discorso del 3 gennaio ’25, che fu pronunciato dal duce con il solito tono ultimativo e truculento, sebbene ne avvertisse l’inoppor tunità in quanto avrebbe potuto irritare maggiormente la piccola borghesia. Secondo Gramsci, il quale preparò una relazione per la riunione del Comitato direttivo del PCI del 2-3 agosto ’26, la corrente farinacciana rappresentava 94
“obbiettivamente due contraddizioni del fascismo. 1) La contraddizione fra agrari e capitalisti nelle divergenze d’in teresse specialmente doganale [su questo punto abbiamo già insistito, dandone, però, una interpretazione diversa]. È certo che l’attuale fascismo rappresenta tipicamente il netto predominio del capitale finanziario nello Stato, ca pitale che vuole asservire a sé tutte le forze produttive del paese. 2) La seconda contraddizione è di gran lunga la più importante ed è quella tra la piccola borghesia ed il capi talismo. La piccola borghesia fascista vede nel partito lo strumento della sua difesa, il suo Parlamento, la sua de mocrazia. Attraverso il partito vuole fare pressioni sul go verno per impedire di essere schiacciata dal capitalismo. Un elemento,” aggiungeva, “che occorre tener presente è il fatto dell’asservimento completo in cui l’Italia è stata messa dal governo fascista verso l’America. Nella liquida zione del debito di guerra sia verso l’America che verso l’Inghilterra il governo fascista non si è preoccupato di avere nessuna garanzia sulla commerciabilità delle obbli gazioni italiane. La borsa e la finanza italiane sono esposte in ogni momento al ricatto politico dei governi america ni ed inglese, che possono, in ogni momento, gettare sul mercato enormi quantità di valori italiani. Il debito Mor gan, d'altra parte, è stato contratto in condizioni ancora peggiori. Sui cento milioni di dollari del prestito il go verno italiano ha a sua disposizione solo trentatré milio ni. Degli altri 67 milioni, il governo italiano può disporre solo coll’alto consenso personale di Morgan, ciò che si gnifica che il vero capo del governo italiano è Morgan.” Da questo passo di Gramsci si possono trarre alcune osservazioni abbastanza interessanti: a parte l’affermazio ne che il fascismo rappresentasse il predominio sullo Sta to del capitale finanziario (un po’ generica e su cui si po trebbero sollevare dei dubbi, se si considerano i numerosi fallimenti di banche, che decisero il governo - come scri ve il Guarneri - a sottoporre a preventiva autorizzazione l’apertura di nuovi istituti; a imporre limiti ai fidi ban cari per favorire una razionale distribuzione del risparmio fra i diversi settori della produzione ed evitarne l’investi mento solo in alcuni, o peggio, solo in poche aziende; a dettare disposizioni rivolte a rafforzare la consistenza pa trimoniale delle aziende e la formazione di riserve; infine, a sottoporre alla vigilanza dell'Istituto di emissione tutti gli enti bancari su cui non si esercitava la vigilanza del ministero dell’Economia nazionale), sono da mettere in ri95
lievo altre due affermazioni, come quella che riteneva che la piccola borghesia potesse fare pressioni sul governo per impedire di venire schiacciata dal capitalismo (che po trebbe sembrare in contrasto con la precedente, perché se il fascismo rappresentava il predominio del capitale finan ziario in che modo avrebbe, poi, potuto difendere la pic cola borghesia dalla forte pressione del capitalismo? pro babilmente evitando, o almeno ponendo termine, al pro cesso inflazionistico che, favorendo le esportazioni, avvan taggiava i ceti capitalistici e danneggiava fortemente i pic coli e modesti risparmiatori), e . l’altra sulla dipendenza dell’Italia non solo e non tanto dai ricatti dei governi ame ricano e inglese quanto dall’alto consenso personale di Mor gan (la casa J. P. Morgan & C. di New York aveva conces so, il 1° giugno '25, un prestito di 50 milioni di dollari a un consorzio costituito, fra le banche di emissione italiane, sotto la presidenza di B. Stringher, direttore generale del la Banca d’Italia, e per agevolare tale azione, il consiglio dei ministri aveva istituito, il 25 agosto ’25, una sorveglian za sul mercato dei cambi allo scopo di eliminare le opera zioni a carattere speculativo e instaurato “in materia di costituzione di società e di aumenti di capitali una disci plina intesa ad evitare operazioni malsane, unicamente inspirate al desiderio di trar profitto dalla situazione cri tica della moneta e dei cambi per fare opera inflazionisti ca, in netto contrasto colla politica del Governo”). Ancora Gramsci, ansioso, come sempre, di trovare un varco nelle chiuse - e che si andavano ogni giorno più chiudendo - maglie del fascismo per inserirvi l'iniziativa delle classi lavoratrici, che avrebbero potuto, a suo parere, “irrompere violentemente nella scena politica al momento della rottura dei rapporti esistenti,” sosteneva che la dife sa degli interessi della piccola borghesia, mediante il fa scismo, avrebbe potuto assumere una intonazione naziona lista nuova e in contrasto “contro il vecchio nazionalismo e l’attuale direzione del partito che ha fatto sacrificio della sovranità nazionale e dell’indipendenza politica del paese agli interessi di un gruppo ristretto di plutocrati” (cioè quelli del gruppo Morgan, anche se rimaneva forse un pro blema da approfondire, che riguardava l’intreccio di inte ressi che si era stabilito tra il fascismo e il “ristretto grup po di plutocrati” americano, intreccio che, nel '26, era ormai molto chiaro ed evidente). Ma in che cosa consiste va la differenza tra il vecchio e il nuovo nazionalismo? Dalla lettura della relazione di Gramsci sembra che il 96
nuovo nazionalismo fosse sostenuto dalla piccola borghe sia, colpita e falcidiata dall'aggravarsi del processo infla zionistico, mentre il vecchio era più teorico, più staccato da interessi concreti, il che gli consentiva di perseguire fi ni politici più consoni alla sua collocazione nella vita ita liana. Infatti, Gramsci scriveva che la tendenza che faceva capo a Federzoni, Rocco, Volpi voleva “tirare le conclu sioni di tutto questo periodo dopo la marcia su Roma. Essa vuole liquidare il partito fascista come organismo po litico e incorporare nell’apparato statale la situazione di forza borghese creata dal fascismo nelle sue lotte contro tutti gli altri partiti. Questa tendenza lavora d'accordo con la Corona e con lo stato maggiore. Essa vuole incorporare nelle forze centrali dello Stato da una parte l’Azione cat tolica, cioè il Vaticano, ponendo termine di fatto e possi bilmente anche di diritto al dissidio fra la casa Savoia ed il Vaticano.” Egli era, inoltre, convinto che se i partiti di opposizione miravano a creare ed a mantenere, “sia pure in forme inadeguate e vischiose,” un distacco tra le masse popolari e il fascismo (cosa che era storicamente vera per ché nemmeno i massimalisti, i riformisti e i repubblicani avevano mai avvertito il bisogno di stabilire un rapporto serio e fattivo con le masse popolari, trovandosi, cosi, nel momento del pericolo, come campati in aria), l’Azione cat tolica, al contrario, rappresentava “una parte integrante del fascismo, [che] tende attraverso l’ideologia religiosa a dare al fascismo il consenso di larghe masse popolari, ed è destinata, in un certo senso, nell’intenzione di una tenden za fortissima del Partito fascista (Federzoni, Rocco, ecc.), a sostituire lo stesso Partito fascista nella funzione di massa e di organismo di controllo politico sulla popo lazione.” Affermazioni che erano sbagliate e non del tutto esatte, perché i nazionalisti si erano sempre dimostrati anticlericali, anche se il Rocco, nell’indirizzo di risposta al discorso della Corona del 22 giugno ’21, aveva dichiarato di avere ormai superato l’antico anticlericalismo risorgimentale, che era stato, allora, un anticlericalismo “a base patriottica” per ché la Chiesa “combatteva l’unità della Patria” ed era na turale, perciò, “che, in nome della Patria, si facesse del l’anticlericalismo.” Ma, dal momento che il Vaticano ave va permesso, con l'abolizione del non expedit, l’ingresso delle forze cattoliche nell’orbita della vita nazionale, sa rebbe stato “stolido e ripugnante” mantenere vivo un at teggiamento che non aveva più alcun significato. Cosi - pro 97
seguiva il Rocco - aveva abbandonato la posizione di un tempo, “anche a costo di essere gratificato del titolo di clerico-nazionalista,” sostenendo che “la religione é trop po fondamentale elemento e la Chiesa Cattolica è, per l’Italia, istituzione troppo essenziale e troppo legata al la sua tradizione e alla sua missione, perché lo Sta to italiano possa ignorare e la religione e la Chiesa,” proprio nel momento in cui da organi ufficiosi del Vaticano venivano delineati i termini di un possibile accordo. Ma in che cosa avrebbe dovuto consistere ta le accordo per il Rocco? Soltanto nel riconoscimento del la sovranità territoriale della Santa Sede sui palazzi pon tifici e in quello del pontefice come sovrano, cioè come soggetto di diritto internazionale. Inoltre, un altro punto fondamentale dell’accordo avrebbe dovuto consistere nel sottomettere il clero italiano allo Stato: “Altra cosa è in fatti l’indipendenza della Santa Sede che, per la sua mis sione universale, deve essere piena ed intera; altra cosa è l’indipendenza del Clero nazionale dallo Stato nazionale, che non può ammettersi se non si vuol creare un altro Sta to nello Stato." Come si vede, il Rocco ri duceva le pretese del Vaticano a ben poca cosa, ed era sua convinzione che lo Stato italiano avrebbe potuto anche accettarle senza rinunciare per nulla alla sua preminente autorità. Più tardi, nel novembre '25, in un discorso al Senato sulla massoneria, diceva di non pretendere “di convertire il mio maestro senatore Ruffini alla mia concezione dello Stato Nazionale, Stato sovrano che domina tutte le forze esistenti nel Paese,” e sosteneva che con la dottrina professata dal Ruffini stesso, secondo cui non esistevano limiti alla li bertà, si cadeva “insensibilmente, ma sicuramente, nell’a narchia [...], anche a costo della salvezza della Patria, anche a costo della disgregazione dello Stato, anche a costo del l’anarchia!” Per tale motivo, per non cadere nell’anarchia, cercava un appoggio nel Vaticano, nella Chiesa cattolica, la quale, affermava, “qualunque siano le questioni contin genti che può avere con essa lo Stato italiano, è una gran de istituzione, ed è una istituzione che ha sede in Italia, che è una gloria italiana, e che noi, come italiani e come cattolici, rispettiamo ed amiamo [Applausi vivissimi e pro lungati'.1.” Da questa restaurazione dello Stato e da questa rinasci ta della Nazione che egli riteneva attuata dal fascismo, de rivava un giudizio molto aspro e duro sul Risorgimento, su quel periodo tanto celebrato fino allora, ma che, dopo 98
l’ascesa al potere delle camicie nere, veniva messo in di scussione sia dagli antifascisti più giovani e più assetati di azione, come un Gobetti, un Gramsci, un Rosselli (che vi scorgevano le premesse del nuovo regime, risalendo più vo lentieri a tutti coloro che erano stati gli sconfitti del moto di unità nazionale, i Pisacane, i Cattaneo, i De Sanctis, ecc.), sia dai fascisti, che lo condannavano per non avere avuto il concetto dello Stato forte e pronto a subordinare agl’interessi generali tutti gli interessi particolari e ad op porre all’arbitrio dei singoli l’impero inviolabile della leg ge, favorendo cosi il graduale sgretolamento dello Stato stesso. Il Rocco, dunque, dopo avere, una prima volta, nel citato discorso del 22 giugno ’21, detto che, come conse guenza di sedici secoli di imbellicosità e di disgregazione e di quattro secoli di oppressione straniera, le masse ita liane erano state colte spiritualmente impreparate dalla ricostituzione dell’unità nazionale, sicché il moto del Ri sorgimento, che era stato opera di una piccola minoranza di intellettuali, non era stato compreso dalle masse stesse che gli si erano rivelate estranee o ostili, nel ’23 (v. il di scorso pronunciato al teatro dell'Unione a Viterbo, il 25 febbraio su Nazionalismo e fascismo), muoveva una ser rata critica sia al Risorgimento sia al post-Risorgimento: infatti, sosteneva che, raggiunta l’unità, i due grandi par titi che, pur attraverso errori e deviazioni partigiane, ta lora funeste, avevano condotto la lotta per l'indipendenza, erano sembrati vuotarsi di ogni contenuto nazionale. “Qua si che l’indipendenza e l’unità fossero state fine a se stesse, tanto la destra storica quanto la sinistra, che fra di loro avevano dissentito sul metodo per la lotta della in dipendenza, si trovarono come smarrite. Non pensando che, unita l’Italia, bisognava renderla grande e possente, gli antichi partiti storici non seppero ritrovare la loro via e, dopo alcuni anni, man mano che venivano meno gli uo mini che avevano personalmente partecipato alle lotte del Risorgimento, andarono perdendo ogni ideale politico per dissolversi in una quantità di gruppi e di clientele a base personale. Il trasformismo non fu soltanto l’amalgama dei due partiti storici; fu anche, e soprattutto, la conseguenza di un processo di dissolvimento, per cui gli antichi parti ti del Risorgimento avevano perduto quasi interamente ogni carattere nazionale.” La realtà era, secondo lui, che “per il modo stesso con cui fu condotta, la lotta del Ri sorgimento conteneva in sé i germi di una fatale debolezza per lo Stato che da essa doveva nascere. La lotta per la 99
libertà esterna, ossia per l’indipendenza dallo straniero, apparve, durante quasi tutto il Risorgimento, certamente nella prima fase di esso, come un aspetto della lotta per la libertà interna, ossia per la partecipazione del popolo al Governo e per gli ordinamenti costituzionali. Questa par te cospicua, e talora preponderante, che il liberalismo e la democrazia individualistici ed antistatali, ebbero sopra il nazionalismo, spiega come dal Risorgimento nascesse uno Stato inizialmente debole. Lo minavano già dalle sue ori gini l’ideologia liberale e quella democratica che si erano mescolate ed infiltrate profondamente nel moto nazionale del Risorgimento. È naturale che per parecchi anni an cora dopo l’unità, codesto originario difetto del nuovo Stato nazionale continuasse a manifestarsi. - Meno si com prende invece come, man mano che si allontanava da quel periodo di formazione statale della nuova Italia, l'elemen to nazionale, invece di rafforzarsi, andasse scadendo, e le ideologie liberali e democratiche, che, dati i tempi, ave vano avuto una loro funzione utile anche dal punto di vista nazionale durante il Risorgimento, ma che, dopo tutto, costituivano evidentemente un peso morto da cui era ur gente liberarsi, si andassero invece sempre più rafforzando e dilagando in modo da condurre in brevi anni lo Stato alla impotenza ed alla paralisi.” Era chiaro che questa interpretazione del moto risor gimentale era troppo inquinata nel Rocco, già nazionali sta e poi fascista, dal mito della patria e della Nazione (con la M maiuscola) “grande e possente,” al di fuori e al di là di qualsiasi considerazione di natura economica: per ché come avrebbe potuto l’Italia - che aveva conseguito l’unità e l’indipendenza dallo straniero presente sulla no stra terra, ma che, anche dopo il 1860, aveva continuato a rimanere una specie di colonia della Francia e dell’In ghilterra, che ci avevano aiutato nei due anni miracolosi del '59 e del ’60, tanto che il Cavour, quasi per riconoscen za, apri, mediante una politica rigidamente liberistica, le porte alla penetrazione nella penisola dei prodotti di si stemi industriali molto più avanzati - elevarsi “alla posizio ne di grande potenza”? E, poi, tralasciando altre conside razioni, il trasformismo non era stato soltanto la caratte ristica del Depretis, perché era adottato, dal ’23 al ’24 e, in parte, al '25, anche da Mussolini, il capo delle camicie nere, che pure si era proclamato espansionista ed impe rialista. Infine, come si poteva pretendere che le genera zioni della seconda metà dell’Ottocento, il periodo delle 100
ideologie liberal-democratiche, del positivismo, dell'evolu zionismo, della grande fiducia nella scienza (ma anche delrimperialismo francese e inglese), potessero comprendere e preannunciare la degenerazione dello spirito di naziona lità in nazionalismo angusto e sopraffattore e violento dei primi decenni del Novecento? Un altro filosofo, il Gentile, che, a differenza del Croce (il quale, dopo il discorso del duce del 3 gennaio '25, scel se l’antifascismo), tranne qualche dissenso, rimase tuttavia sempre fedele al regime, esaltava nel Risorgimento tutto quanto si era, a suo parere, opposto al dissolvimento dello Stato e delle forze morali del paese e si era mantenuto fe dele alla concezione dello Stato come forza e, quindi, del la libertà, allo Stato “il quale non è una soprastruttura che s’imponga dall’esterno all’attività e iniziativa individuale per assoggettarla a una coazione restrittiva; anzi è la sua essenza stessa, quale si manifesta a capo di un conve niente processo di formazione e sviluppo [...]: Stato e in dividuo, sotto questo aspetto, sono tu tt’uno.” Pertanto, egli vedeva il Risorgimento con una simile lente deformante e metteva in luce tutte le correnti che, richiamandosi alla tra dizione italiana del Vico, non si erano rifiutate di ricorre re alla dittatura, nei momenti decisivi: “Il liberalismo ita liano del Risorgimento,” il Gentile proclamò con ferma convinzione in una conferenza tenuta all'Università fasci sta di Bologna, nel ’25, su Libertà e liberalismo, “pur con qualche venatura d'individualismo segnatamente economi co, come in Cavour, è pervaso di spirito mazziniano. Tut ti, prima o poi, direttamente o no, si abbeverarono a quel la fonte; e, nell’ardore dell’impresa che avevano nelle mani, tutti, Cavour compreso, non pensarono mai ai diritti na turali degli italiani: pensarono all'Italia libera, all’Italia in dipendente, una, e forte bensì di ordinamenti costituzionali moderni, ma in quanto questi potessero garantirne la for za, assicurarne il futuro progresso, ammetterla nel conses so delle grandi nazioni d’Europa. E quando si trattò di agi re e di farla, questa Italia, senza ulteriori attese e prepa razioni, tutti, Cavour compreso, e non occorre ricordare Mazzini, Garibaldi, Ricasoli, Farini, videro nella dittatura la salute e sdegnarono il chiacchierio fazioso delle assem blee, che nel '48 e nel '49 fecero cosi cattiva prova.” In par ticolare, il Gentile credeva di poter risalire al Mazzini, il quale, secondo lui, “diceva che la vera libertà non è quella del liberalismo individualistico,” cosi proclamava in un altro discorso, a Firenze, nel Salone dei Cinquecento, nel 101
marzo del '25, “che non conosce nazione al disopra degli individui”: contro tale liberalismo, che, per lui, era tipico della “vecchia Italia, dell’Italia del Rinascimento,” il Maz zini stesso “lanciava l’accusa dell'esecrato, cieco ed assurdo materialismo.” Questo era “l’alto concetto mazziniano della nazione, che potè riscuotere il sentimento nazionale degli italiani, e porre il nostro problema nazionale come proble ma di educazione e di rivoluzione: di quella rivoluzione, senza la quale neanche Cavour, sarebbe stato in grado di fare l’Italia. Questa la nazione, per cui gl’italiani non po tranno non sentirsi sempre affiliati della Giovine Italia mazziniana e oggi si dicono fascisti.” Si può vedere quale strano miscuglio di concetti e di idee vi fosse in questa posizione del Gentile, da quel Cavour, che, sebbene avesse “qualche venatura d’individualismo se gnatamente economico,” tuttavia avrebbe aderito alla con danna mazziniana del cieco ed assurdo materialismo; da quella Italia libera e indipendente e anche forte di moder ni ordinamenti costituzionali, ma creata da una schiera di uomini (messi insieme alla rinfusa) che videro la salvezza nella dittatura e sdegnarono il chiacchierio fazioso e in concludente delle assemblee; da quel concetto mazziniano della nazione che si pose come problema di educazione (o di evoluzione) e di rivoluzione, nel tempo stesso, senza la quale ultima nemmeno il Cavour sarebbe stato capace di fare l’Italia; e, infine, da quella diretta derivazione del fa scismo da un Risorgimento visto quale un esempio di rea zione, anche se, per ammettere l’Italia “nel consesso delle grandi nazioni d’Europa,” fosse stato necessario ricorrere ai moderni ordinamenti costituzionali. Né si riesce a com prendere come un paese, economicamente debole ed arre trato in quanto a sviluppo economico e industriale, potes se assidersi, o venire accolto, fra le “grandi nazioni d’Eu ropa”: il che, in effetti, non avvenne, e lo stesso Mussolini dovette accorgersi ben presto, dopo la sua ascesa al po tere, di come l’Italia, rigenerata dalla rivoluzione delle ca micie nere, fosse considerata dalle grandi nazioni un paese di secondaria importanza, al quale non era troppo diffici le imporre la propria volontà. Eppure, da tutta questa con fusione, si potevano estrarre alcune idee che rappresenta vano la linea conduttrice del pensiero del Gentile: anzi tutto, la celebrazione dello Stato “forte, in quanto etico, direttore della civiltà,” che il filosofo sosteneva essere sta to “il testamento politico della Destra” risorgimentale, di uno Spaventa, di un Fiorentino, dello Stato superiore ai 102
singoli individui che lo compongono, idea che, più tardi, venne accolta ufficialmente e teorizzata nella dottrina del fascismo pubblicata sulla Enciclopedia Treccani (ma, in realtà, scritta dal Gentile stesso). E, proprio perché Stato etico, e Stato che aveva non solo una sua dottrina ma anche una sua filosofia ed era “prima di tutto una concezione totale della vita,” esso si poneva al disopra del cattolice simo e della religione romana tradizionale: “Il fascismo,” scriveva in un art. sui Caratteri religiosi della presente lotta politica, in “Educazione politica” del marzo '25, “non ri cade nelle incertezze pratiche del mazzinianismo di fronte al cattolicismo, volendo influire sopra un popolo, che, quan do s'è provato a riformare il suo cattolicismo, non ha mai saputo fermarsi, come altre nazioni, ai mezzi termini di una dottrina evangelica sottratta al suo svolgimento sto rico e fissata alla meglio in una forma di accomodante teologia tra il mistico e il razionalista, ma è trascorso di rettamente e risolutamente alla negazione d’ogni sopran naturale e sovrintelligibile per spaziare liberamente nel campo della pura filosofia. Il fascismo, che intende la ne cessità della vita religiosa dello spirito, fuori della quale non c’è se non il materialismo dell’individualismo liberistico o della socialdemocrazia, intende perciò innestarsi nel tronco antico, ma pur sempre vivo e poderoso, della religiosità storica, italiana, che, per effetto dell’innesto, si ravviverà e getterà nuovi germogli e rinverdirà in no velle fronde.” Ma c'era qualcuno - osservava lo stesso Gen tile - che traeva il pretesto da una simile concezione poli tica del fascismo per dire che essa non andava “oltre il liberalismo di antico stampo classico” e, prendendo in esame la politica ecclesiastica del regime, con “miopi mi sconoscimenti e scipiti sghignazzamenti da inintelligenti superficialissimi,” giungeva a condannare “cotesta politica in base all’attribuzione generica di una pretesa tendenza conservatrice o reazionaria alla politica fascista.” Accusa che il Gentile respingeva sdegnosamente, dichiarandola “destituita d’ogni fondamento,” anche perché, a denunciar ne l’inconsistenza, sarebbero, a suo parere, bastate “le preoccupazioni dei conservatori contro altri caratteri evi dentemente e audacemente rivoluzionari, o, se si vuole, innovatori della politica sociale del fascismo. E,” prose guiva infervorandosi, “basterebbe pure il fatto delle au dacie, che a taluno sono sembrate addirittura temerarie, del fascismo in alcune delle sue più appassionate riforme, promosse con grande energia da uno spirito assolutamente 103
antitetico, per ogni verso, a ogni criterio di ordinario con servatorismo.” Insomma, si sarebbe potuto giustamente chiedere da chi avesse fatto un po’ di attenzione a tutte le contraddizioni di questo seguito di affermazioni gentiliane, cos'era il fa scismo? Conservatore perché continuatore di quello che veniva celebrato come il più puro ed unico Risorgimento, cioè quello della Destra (in cui erano fatti rientrare tutti gli artefici dell'unità, da un Mazzini a un Cavour, da un Garibaldi a un Ricasoli, da un Gioberti a un Farini), del Risorgimento, perciò, che aveva visto, nei momenti decisi vi, la salvezza nella dittatura, era rifuggito dal “chiacchie rio fazioso delle assemblee,” oppure quello “evidentemen te e audacemente rivoluzionario,” perché cercava di inne starsi nel tronco antico della religiosità storica? Avrebbe dovuto apparire impossibile, per chi avesse letto con spi rito critico tutte queste contrastanti affermazioni del filo sofo siciliano, riuscire a districarsi con la speranza di giun gere a qualcosa di serio e di saldo. Eppure, il Gentile con tribuì, in quegli anni, a creare una scuola che accolse alcune sue posizioni, spesso senza ben comprenderne le palesi contraddizioni. Ad esempio, la rivista “Vita Nova,” mensile dell’Università fascista di Bologna, che era stata fondata da L. Arpinati, “il creatore puro, silenzioso e mi rabile del fascismo eroico di Bologna, dove più che altrove si sentono le vibrazioni intense di tutto il fascismo, che si traducono in opere stupende di italianità” (cosi era celebrato, con una enfasi sotto cui non si sente niente, nel terzo anniversario della marcia su Roma, l’esponente del fascismo bolognese, di cui la rivista segui le sorti, ces sando le pubblicazioni nel 1933, travolta dalla crisi che colpi l’Arpinati e i suoi fedeli), mise al centro del suo interesse la riforma (gentiliana) della scuola, lo Stato eti co, il corporativismo, la critica al cattolicesimo. Giuseppe Saitta, che ne era il direttore, era pure l’interprete più coerente del pensiero del maestro: in un articolo, infatti, uscito sul periodico nel numero del dicembre '25-gennaio ’26, e intitolato, in modo molto significativo ed eloquente, Reazione o rivoluzione!, egli scriveva che lo stato fascista vagheggiato da lui stesso e dal suo gruppo “è quello che Mussolini, interprete magnifico dell'anima nazionale, vuo le, cioè lo Stato che trovi in se stessso le ragioni imma nenti del suo sviluppo, che sia, in altri termini, sufficiente a se stesso: insomma, lo Stato religioso, o lo Stato come religione. Lo Stato cosi concepito, non può temere tra 104
monti; perché solo cosi esso è l’organismo vivo, unitario, che comprende in sé la totalità della vita del popolo [...]. Che è lo Stato divinato dal Mazzini e dal Gioberti, veri e immediati precursori della concezione fascista.” Ma, per quanto il Gioberti fosse ricordato come l’assertore del primato italiano e il Mazzini come il critico implacabile del “liberalismo individualistico,” che finiva con il cadere nell’“assurdo materialismo,” si sente abbastanza chiara mente che, in questo passo del Saitta, il richiamo ai due padri di continuo ricordati dai gentiliani, era una aggiunta, una postilla che disturbava il precedente discorso e che vi era stata inserito di forza. Questo anche se altri colla boratori, come A. Lodolini, riprendevano il motivo del collegamento tra il Mazzini e il fascismo e insistevano su esso con alquanta pesantezza: “Se è vera la premessa di Bovio che il mazzinianesimo è fondatore di civiltà, vera è la con seguenza che il fascismo è regime.” E, per avvalorare tale affermazione, il Lodolini metteva in rilievo come la So cietà nazionale Giuseppe Mazzini funzionasse ormai “come sezione del grande Istituto nazionale fascista di cultura,” che avrebbe dovuto “irradiare dal Palazzo littorio di Ro ma non una fede novella, ma la fede fascista pura [...la quale] deve contare [...] soprattutto sul consenso degli italiani. Dei giovani, degli studenti, degli operai, di coloro cioè che non hanno ancora imparato a dare per avere. Di coloro che debbono unirsi per non impararlo mai.” Di conseguenza, il Lodolini sembrava volersi rivolgere agli elementi disinteressati e del tutto privi di qualsiasi ambi zione di fare carriera sotto la copertura del regime, sic ché, è stato detto, la contrapposizione che seguiva le frasi appena riportate, appariva particolarmente dura: “[...] i cattolici han deciso di restare fuori del fascismo, mentre i mazziniani (almeno quelli aderenti all’Unione mazziniana) han deciso di fondersi col partito totalitario. È qui, forse, l'indice delle due coscienze [...]”: particolarmente dura vo leva essere per il Lodolini (il quale, anche più tardi, nel maggio del ’26, approfondiva il rapporto tra mazzinianesi mo e fascismo, negando che il Mazzini potesse appartenere al partito repubblicano - l’art. veniva dopo il fallimen to del Gruppo repubblicano autonomo romagnolo - e scorgendo in questo il nucleo centrale di tutta la visione della vita tipica del fascismo) la contrapposizione, in quan to egli criticava non i mazziniani, che erano confluiti nel nuovo partito delle camicie nere, bensì i cattolici, che non 105
avevano, a suo parere, imparato ad unirsi per non cadere nel pericolo di imparare “a dare per avere.” Ma i due temi essenziali che a questi giovani erano ve nuti dagli insegnamenti del filosofo siciliano, erano, forse - a parte quello a cui abbiamo accennato, e che era pure esso importante -, quelli che riguardavano - come si è già visto nel passo del Saitta - la concezione dello Stato “religioso,” e lo “Stato come religione,” e, pertanto, come inglobante in se stesso la vecchia religione della Chiesa cattolica ufficiale, da un lato, e, dall’altro, l’acritica (e in capace di penetrarne la vera essenza) celebrazione del ca rattere rivoluzionario, autonomo, originale e nazionale del fascismo. Sul primo tema, basta leggere ciò che scriveva Rusticus, nella rubrica Noi e gli altri del mensile bologne se, allorché poneva tra il fascismo e il cattolicesimo tem porale una netta antitesi; oppure insisteva, in polemica con 1’“Osservatore romano,” sulla violenza storica della Chiesa “non solo contro i corpi, ma sopra tutto contro gli spiriti”; oppure ancora affermava che il fascismo, do po avere giustamente piegato il “massonismo,” doveva ora abbattere “l’altro cancro roditore della vita italiana, il cle ricalismo”; oppure, infine, stabiliva una netta antitesi fra 10 Stato cattolico e lo Stato fascista, il quale ultimo “non vorrà mai aspirare,” diceva, “a diventare Stato cattolico, pur continuando a rispettare la religione.” Nell’aprile del l’anno successivo, ancora Rusticus denunciava la vanità delle iniziative culturali dell’“infaticabile Padre Gemelli,” 11 quale aveva lanciato “l’idea di contrapporre all'Enciclo pedia Treccani, diretta dal Gentile, un’enciclopedia catto lica. L’idea è buona, anzi ottima, e noi l’approviamo,” ag giungeva con un malcelato velo di ironia, “perché cosi l’illustre frate, che ha il merito di aver fondato un Istituto universitario del Sacro Cuore, di cui ancora ignoriamo i risultati, dimostrerà per l’ennesima volta che il pensiero cattolico nulla ha da dire di veramente nuovo nel dominio scientifico. Si fa presto a trovare i milioni, ma ciò che è difficile, difficile assai, è trovare le teste, e di teste colte, sapienti, con tutta la buona volontà, non ne scorgiamo molte nel campo cattolico. Noi non osiamo dare dei consi gli a padre Gemelli, ma non possiamo fare a meno di dirgli che è bene egli si persuada di questa semplicissima verità, che per fare opera egregia ed efficace e sopra tutto scien tifica nel campo della cultura, bisogna prepararsi formi dabilmente. Ora appunto è la preparazione solida, moder na che difetta ai cattolici, che sono spesso brava gente ma 106
credono ingenuamente di sconfiggere il pensiero naziona le e moderno a furia di quintali di carta stam pata.” A parte la vis polemica di questo passo, se ne potrebbe ro dedurre alcune radicate convinzioni - anche se sentite da Rusticus alquanto rozzamente senza un adeguato filtro culturale -, si direbbe quasi respirate e assorbite dal cli ma e dall’ambiente che lo circondavano: fra esse una so pra le altre si imponeva, cioè che, di fronte al pensiero cat tolico, arretrato e che non aveva nulla di nuovo da dire, stesse il pensiero nazionale e moderno, che non era poi altro che il pensiero del fascismo, il quale, pertanto, veniva inserito in una lunga tradizione e che, proprio per tale motivo, era sicuro di poter riportare la vittoria nella con tesa con l’avversario. In realtà, questa era effettivamente l’atmosfera in cui vivevano i gentiliani di “Vita Nova,” co me chiariva, nello stesso numero dell’aprile ’26, il Lodo lini, con un maggiore e più approfondito spessore cultu rale: “il regime ha superato il punto più critico di qualsiasi governo nazionale, affermando la santità del principio reli gioso e risolvendo il dissidio tra laicismo e fede.” Si trat tava, peraltro, di un “superamento in senso esclusivamente italiano, particolaristico, unilaterale, nazionale [una serie di aggettivi di cui, a dire la verità, non si riesce bene a scorgere il nesso]. Il Risorgimento italiano, da Gioberti a Mazzini (cioè da coloro che, da opposte parti, lo conce pirono come punto di partenza e non punto d’arrivo) è innalzato allo splendore di un fenomeno religioso. Nessuna meraviglia, dunque, che la ripresa della marcia d’Italia sia stata fatta e proceda in nome di Dio [...]. Ma il fattore religioso è elemento naturale di ogni grandezza politica e sarebbe assurdo prescinderne. Né è pensabile ad un fatto re religioso che non sia il cattolico. L’Italia s'è mostrata aliena dal movimento della Riforma, non tanto per la pressione del papato sulle coscienze (efficace soltanto se l’Italia fosse stata unitaria), quanto per l’areligiosità della sua indole.” Anche questo passo andava letto senza badare troppo alle contraddizioni di cui era infarcito, perché il fattore religioso veniva detto dal Lodolini l’elemento na turale di ogni grandezza politica, da cui, perciò, sarebbe stato assurdo prescindere (e non lo avrebbe potuto certa mente il fascismo che a quella “grandezza politica,” alla potenza, aspirava), un fattore religioso che non poteva es sere che il cattolico, che aveva trovato la sua culla, e il modo come ascendere allo splendore e alla influenza che aveva raggiunto, in Roma (che, ora, il regime voleva resti 107
tuire all’antica grandezza fra le genti), ma, subito dopo, metteva in rilievo come l’Italia si fosse mostrata aliena dalla Riforma per l’“areligiosità della sua indole”: allora quel fattore religioso-cattolico era accettato unicamente quale pretesto per salire alla grandezza lungamente deside rata, senza minimamente credervi e interpretandolo in sen so del tutto strumentale. E che tale fosse realmente il ri posto pensiero del Lodolini, lo si poteva comprendere da ciò che scriveva nel seguito dell’articolo, allorché dichiara va eccessive e superflue le preoccupazioni sulle concessioni che il fascismo avrebbe potuto (o voluto?) fare al Vaticano (nel '26 appunto cominciarono le trattative fra Pio XI e Mussolini, che condurranno, nel febbraio del '29, alla firma dei patti lateranensi): nutrire simili preoccupazioni signi ficava, secondo il Lodolini, che si era pensato “davvero alla classica conciliazione e che si ammette il pericolo della sia pur minima violazione del sacro territorio della patria.” Invece, “il fenomeno della restituzione di un sentimento religioso e di una Chiesa all’Italia [fenomeno che poteva avvenire solo perché esisteva uno Stato forte; si osservi, inoltre, come la restituzione di un sentimento religioso e di una Chiesa all’Italia avvenisse per una benigna conces sione che il regime faceva ad un popolo che altrimenti non avrebbe voluto saperne, ma che era costretto ad accettare ubbidendo passivamente alla imposizione che gli cadeva ad dosso dall’alto], è meramente unilaterale: riguarda noi e non il Vaticano [...]. Lo Stato non abdica nulla a favore del Vaticano [...]. Chi abdica, per forza, chi perde un vero monopolio, una posizione di privilegio blindata è proprio il Vaticano [...]. Lo Stato onnipotente,” proseguiva il Lo dolini, sempre più acceso in questa visione di uno Stato supe riore, etico, “della concezione mussoliniana, vigila qualsiasi attività si svolga nel territorio nazionale, e, come inquadra nella legge le immense forze del lavoro e della produzione, cosi impone il riconoscimento giuridico delle associazioni religiose. E non dimentichiamo che massima associazione religiosa è la Santa Sede!” Ecco, dunque, spiegata, forse più con un atto di fede che con una dimostrazione logica, la possibilità, per il fa scismo, di imporre la sua volontà alle immense forze del lavoro e della produzione e alle associazioni religiose, anzi alla sola associazione religiosa che contasse, la Santa Sede. Interessanti erano, tuttavia, le osservazioni con cui il Lo dolini concludeva il suo articolo, interessanti perché sem bravano introdurre, in quella assoluta fiducia (solo appa108
rente, perché, come abbiamo detto, ispirata da un atto di fede), un dubbio, di cui terrà conto Mussolini nella elabo razione del concordato: “Il Partito popolare è sfumato e il cardinale Gasparri è al suo posto. Il metodo cambia, il fine resta. Bisogna trovare l’azione che irretisca lo Stato. O ci sbagliamo, ma la formidabile Società dell’Azione cat tolica è destinata a succedere al Partito popolare. Non più il mostruoso cambio con le furie rosse; non più il partito estraneo apparentemente alla Chiesa; non più il turbine che avvolge e solleva le masse. L’Azione cattolica è lenta, to gata, conservatrice, ortodossa. Ma essa è destinata a con trollare la stampa, i fenomeni sociali, l’attività politica e morale dei cattolici. Dispone di mezzi infiniti; dirige istituti grandiosi. Quand’essa sarà in pieno sviluppo, sarà impos sibile per i cattolici restare fascisti. Il fascismo è milizia che non ammette (nel campo politico e sociale) due padro ni; non permette la distinzione tra le qualità d’italiano e di cattolico con prevalenza di quest'ultima. È chiaro [...]. Ma forse l’Azione arriva tardi [...]. Inoltre, la formula di Mussolini si traduce ogni giorno in nuove leggi: e qual siasi istituto (o sociale, o scolastico, o politico) deve essere inquadrato nella legge. Quelli che appresta l'Azione cattoli ca rischiano dunque di restare molto platonici, specie se diretti a impadronirsi della base dello Stato fascista, ossia delle masse operaie e produttrici. L’avvenire della politica ecclesiastica italiana è dunque quanto mai pacifico, per quanto arduo. Non dimentichiamo (pel nostro orgoglio e per la nostra disciplina di fascisti) che esso è soprattutto un aspetto della politica estera. Per quella interna ricor diamo, semplicemente, che siamo riusciti a disperdere il Partito popolare, che è stato più pericoloso di dieci im peri austro-ungarici messi insieme: e lo abbiamo fatto con la fede in Dio e con l'amore nell’Italia. A contenere le vel leità offensive dell’Azione cattolica basterà molto meno, e cioè la pratica della legislazione fascista.” Ma il capo delle camicie nere, il quale veniva cosi messo in guardia su ciò che stava avvenendo nelle file del cattolicesimo, preferirà un cauto aggiramento delle forti posizioni tenute dall’azione cattolica piuttosto che uno scontro frontale, che forse, più realisticamente di questi esaltatori del suo regime, giu dicava pericoloso. Infatti, con il concordato, frutto di una sottile opera di compromessi, di do ut des e di concessioni reciproche, otteneva una recisa limitazione degli interventi dell’azione cattolica nel campo sociale mediante la sua totale sottomissione alla gerarchia ecclesiastica e il divieto 109
esplicito di occuparsi di altro che di una propaganda spi rituale (Mussolini aveva perfettamente capito, come gli aveva suggerito fin dal '26 il Lodolini, che nell’AC si erano rifugiati tutti quegli iscritti al Partito popolare che non intendevano rinunciare ad una azione sociale: stava a di mostrarlo il fatto che essa, dal ’25-’26 all’inizio del '29, era passata da poche migliaia di associati a circa 26.000). Nel tempo stesso, peraltro, il duce concedeva alla Chiesa il controllo sull’istruzione e sull’educazione, sulla famiglia, sui preti spretati, ecc. Ecco perché il concordato assunse l’aspetto di un grande compromesso, di una spartizione in due zone d’influenza della vita del cittadino, il quale ve niva consegnato, sotto l’aspetto religioso e spirituale, alla Chiesa, e, sotto l'aspetto materiale, allo Stato. Perciò, si può dire, a giusta ragione, che questo accordo fra lo Stato e il Vaticano contribuì, in misura decisiva, a sopprimere la libertà del privato cittadino, che non trovava più alcun spi raglio per far valere la sua autonoma iniziativa. Abbastanza legato al tema dello Stato etico era, come abbiamo detto, nei gentiliani di “Vita Nova,” l’altro tema del fascismo quale rivoluzione: il Saitta, in un articolo dell’agosto '25, Controriforma, giudicava negativamente “al cuni scrittori fascisti,” che, “per una reazione naturalissi ma alle forme liberali e socialistiche, si rivolgono con sen so nostalgico al periodo della Controriforma, la quale rap presenterebbe ai loro occhi la vera tradizione italiana che è tradizione essenzialmente cattolica, ed esprimerebbe il senso più profondo dell’autorità, che il fascismo si è pro posto di restaurare.” Ma a tale giudizio negativo sulla Con troriforma, faceva seguire subito una vivace polemica con tro la Riforma, in cui sentiva “presente il concetto della spontaneità, della libertà, ma la spontaneità e la libertà sono dell’individuo, e però rappresentano il regno dell’arbi trario.” Di conseguenza, se alla Controriforma si rivolge vano alcuni autori fascisti, che contemplavano “il concet to dell’autorità come necessità ferrea, a cui non è lecito sottrarsi,” alla Riforma, intesa come libertà che sconfi nava nell’arbitrio, “si rivolgono, con animo accorato, gli antifascisti di tutte le gradazioni” (era evidente, dapprima, l’allusione al Suckert, mentre, dopo, era chiaro il richiamo al Gobetti). Ma, ci si potrebbe chiedere, quale era la posi zione che il Saitta voleva tenere in una discussione che coinvolgeva il fascismo e i fascisti da un lato, e, dall’altro, l’antifascismo e gli antifascisti, mentre il suo pensiero di gentiliano “di sinistra” (se ci è dato usare simili colloca
no
zioni) si chiariva come anticlericale e anticattolico? Era forse una posizione di centro, di mediazione fra i due poli opposti? Non sembra, anche perché una tale posizione sa rebbe stata rifiutata sia da lui sia dai suoi camerati, i qua li presentavano sempre il fascismo come l’unica valida rivoluzione del loro tempo: il Lodolini, nell’art. cit. del l’aprile del '25, sosteneva che il superamento del dissidio tra laicismo e fede era il “capolavoro del fascismo, e, cer tamente, il segno più caratteristico per cui si fa conoscere come ‘rivoluzione.’” E, poco dopo, parlando dei rapporti fra lo “Stato onnipotente della concezione mussoliniana” e la Santa Sede, aggiungeva che occorreva “liberarsi, con coscienza rivoluzionaria e prontamente rinnovatrice, delle vecchie posizioni mentali, e considerare il problema con le seguenti riassuntive premesse: 1) Il regime fascista elimina automaticamente ogni residuo di ‘questione romana,' per ché esso è l’esaltazione della nazione ed assegna a Roma una missione tutta italiana, egoisticamente, imperialmente italiana. 2) La formula di Mussolini assorbe e completa quella di Cavour e di qualsiasi periodo storico; non ammet te dubbi e non tollera interpretazioni che non siano tota litarie. 3) Dopo l’esperimento della Destra (Risorgimento), dopo l'abbozzo rivoluzionario della Sinistra (primo cin quantesimo del regno), la rivoluzione fascista si avvia a ridare una religione all’Italia e a dominare il Vaticano.” Parrebbe che tutto lo spirito rivoluzionario del fascismo do vesse confinarsi in una lotta a fondo contro le “vecchie posizioni mentali,” abituate, nell’Italia dominata da secoli dalla lunga ombra del Vaticano, a tenere un atteggiamen to di rassegnata soggezione alla Santa Sede: per cui si celebrava il fascismo che aveva posto termine a tale situa zione e che aveva dichiarato automaticamente risolta la “questione romana,” dominando il Vaticano (una pia illu sione!). Non si riesce assolutamente a vedere in che cos’al tro consistesse il vantato e supposto rivoluzionarismo di questi gentiliani. Né contribuiva molto a dipanare la ma tassa uno scritto del Saitta, Il problema spirituale del fa scismo (in “Vita Nova,” maggio-giugno-settembre '26), scrit to che era molto polemico contro tutti coloro che, “futuri sti o pseudonazionalisti,” non erano che “retori bolsi che cercano di farsi largo e che non si vergognano di adope rare metodi e mezzi della vecchia demagogia, che lo stile fascista avrebbe dovuto seppellire per sempre [...]. Si chia mano tutti i giorni rivoluzionari, ma se chiedete loro quali sono i termini dentro cui condensano il loro spirito rivo lli
luzionario, essi non sanno che mormorare la solita parola: azione. Ma che cosa è codesta azione che non sia illumi nata da una idea precisa? Il vuoto concentrato.” Il Saitta condannava vivacemente anche quei “quacqueri del fasci smo” che “vogliono e non vogliono la cultura: la vogliono in quanto espressione del loro misoneismo nazionalistico o reazionario, che si riduce a zero via zero; non la vogliono se per caso in essa scorgano l’ombra odiata [...] di non so qual filosofo straniero, cioè dell'idealismo di cui saranno sempre incapaci di intendere un solo concetto. Ora c’è bisogno di dire a certi imbecilli [...] che l’idealismo nostro è squisitamente italiano e che non c’è nulla in esso di te desco?” Tutto si riduceva, in questo passo, alla condanna aspra e dura del misoneismo nazionalistico reazionario (il che poteva anche essere giusto); ma chi era oggetto di tali scomuniche perché condensava il suo spirito rivoluzionario nella sola parola “azione,” del tutto priva di una “idea pre cisa,” gli avrebbe potuto chiedere su quale idea precisa si appoggiava il suo rivoluzionarismo che, come quello dei suoi camerati, non riusciva a concretarsi in un preciso e definito programma. Ciò avveniva perché questi filosofi e questi autori avevano imparato tutta l’indeterminata astrat tezza di cui era maestro il Gentile, che aveva fatto consi stere il vero spirito rivoluzionario soltanto nella celebra zione dello Stato etico o dell’Uomo-Dio e nella lotta contro il Vaticano, il cattolicesimo che era penetrato, nei secoli, fin nelle midolla del popolo italiano. Anche D. Cantimori, il quale aveva aderito al partito fascista nel 1926, parlava, in “Vita Nova” di questo periodo, con accenti gentiliani, della “riforma intellettuale e morale” idealistica quale era stata impostata dal filosofo siciliano: “lasciamo ai chiac chieroni, ai dannunziani ed ai futuristi l’amare la patria, ma lavoriamo per essa: che è il vero amare! Questo con cetto, se gli altri popoli non l’hanno, all'Italia il Fascismo 10 vuol dare; e questo concetto, se Dio vuole, è la tradu zione in parole semplici della morale idealistica. Non ono riamo Dio, non meditiamo su Dio: ma lavoriamo per rea lizzare lo spirito, pel quale siamo differenti dalle bestie e creatori del mondo, e che possiamo anche chiamare Dio, ma non è certo ì'Unser Gott, né il buon Dio, ma l’Uomo, 11 vero Uomo che è dentro tutti gli individui che si agita no nel mondo.” La tematica dello Stato - è stato detto appare decisiva nel Cantimori fin dai suoi primi scritti, ed era una tematica che si opponeva alle “fumose ideologie 112
delle 'razze' e delle missioni degli ‘spiriti dei popoli,’ lon tanissime dalla chiara tradizione italiana” (affermazione, questa, che non poteva essere considerata del tutto esat ta, poiché quelle “fumose ideologie” stavano ad indicare un ritorno al positivismo della seconda metà del secolo scorso - che era stato vivo in Italia come in molti altri paesi -, pur se nettamente degradato e peggiorato). Tutta via, ci sembra che il Cantimori, nella cascata di frasi che abbiamo appena citato, vada al di là dello Stato etico di gentiliana memoria, con la morale idealistica che richiede di lavorare per la patria (che è il vero amare\) e con l'in citamento a lavorare per realizzare lo spirito, cosa che rende 1’Llomo diverso dalle bestie e creatore del mondo, un Uomo-Dio. Insomma, egli sostituisce allo Stato etico, allo Stato-Dio, padrone dell’anima e del corpo dei sudditi, l’Uomo-Dio, altrettanto padrone, nei confronti degli altri esseri, una volta che abbia raggiunto la perfetta fusione con la divinità: in un articolo su “Vita Nova” del ’27 (Religione e religiosità. Chiarimenti nella concezione attualistica della religione) il Cantimori sostenne l’identità di po sizioni del Croce e del Gentile nel concetto dello “Spirito immanente nell’uomo, come Pensiero, come Dio che è nel nostro animo e si manifesta nella nostra storia; e ci spin ge a lavorare, poiché questo è il solo modo di riconoscerlo e servirlo e di renderlo veramente il Dio vivente”: sicché colui che sarà riuscito a riconoscerlo, a servirlo e a ren derlo veramente il Dio vivente, avrà conseguito un note vole potere sugli altri individui. Si era, come abbiamo detto, piuttosto lontani dalla for mula gentiliana che, secondo il Saitta, era stata compen diata da Mussolini nella sua lapidaria formula: “Tutto per lo Stato e nello Stato,” e che, ancora il Saitta, diceva, dopo un accenno polemico ai nazionalisti, derivata dai padri del Risorgimento, Mazzini e Gioberti. Si era, invece, vicini a quan to scriveva, nel luglio '26, C. Pellizzi, in un articolo che anticipava, nel titolo stesso, Aristocrazia imperiale, ciò che sarebbe seguito dopo: “Ho osato eccepire che il fasci smo presenta già anche troppi caratteri d’una frateria, e che semmai gli occorrono istituti e caratteri civili, non fra teschi. Caratteri umani. Caratteri politici individuali; da educare appunto in coloro che voglian dirsi fascisti. E per far questo giova prendere altra retta, e seguire quella che io chiamerei 'la dialettica delle aristocrazie.’ Uso la parola dialettica a bella posta, benché la sappia sgradita a tutti i miei critici,” la cui concezione dello spirito non per ii?
mette loro di vederne “l’intima vita e la perpetua origina lità creativa, né, quindi, la dialettica. Per vero non è più tempo di nascondarelli o mezze parole. L’ideale confuso ma attivo di molti fra questi nostri scrittori è una specie di granducalismo secentista, mimetico, livellatore, buro cratico, accentratore, buzzurro.” Mentre il Pellizzi, si bat teva per creare le aristocrazie, il Cantimori ricercava un tipo di Uomo che, lavorando, fosse stato capace di ren dere palese il Dio vivente, cioè lo spirito che è immanente nell’essere umano, come Pensiero, come Dio che è nel no stro animo e si manifesta nella nostra storia; per quanto si dovesse fare in modo che la sua presenza nascosta di ventasse una presenza manifesta, il che, per il Cantimori, era concesso non a tutti, ma a pochi. Ecco, da ciò, i punti di contatto fra i due, dal momento che pure quest’ultimo, più tardi, nel '31, affermò che l’uomo moderno “è insoffe rente di educazione astratta e di imposizioni in nome di ideali o di autorità statiche e immobili, che vogliano pre determinare la sua vita in un ordine fisso ed immutabile, comodo alle animule tremebonde di chi teme la lotta, ma inaccettabile agli spiriti virili.” Certo, rimane, sotto alcuni aspetti, inesplicabile come potessero conciliarsi lo “spi rito gregario” che intendeva educare il fascismo nei suddi ti e la denuncia del Pellizzi di un regime ridotto a frateria e della propensione di molti scrittori ad una specie di li vellamento burocratico, accentratore, buzzurro, con la de nuncia del Cantimori di una educazione astratta (che, pe rò, si sarebbe dovuto specificare meglio in che cosa consi stesse) e di imposizioni in nome di autorità statiche e im mobili. D’altronde, questa ambiguità di fondo che si può notare in quasi tutta la storia di “Vita Nova” e dei suoi collaboratori, risalta chiaramente anche laddove il Can timori cerca di definire il fascismo come la nuova rivolu zione del nuovo tempo: il fascismo, pertanto, a suo pare re, non è affatto un movimento nazionalista e sciovinista, soltanto preoccupato di contemplare una “italianità rinchiu sa in se stessa, sull’esempio dello sciovinismo francese”; e non è nemmeno uno Stato del tipo medioevale o assoluti stico o capitalistico, nel quale viene sancita la libertà del l’iniziativa privata: esso è, al contrario una “nuova sintesi” economica e politica. Fin qui, a dire la verità, sapremmo ben poco della ef fettiva realtà politica e sociale soprattutto, del fascismo. Infatti, lo stesso Cantimori si sente in dovere di prosegui re sforzandosi di chiarire più a fondo il suo pensiero e po 114
lemizzando contro chi interpretava il fascismo come rea zione o come puro ritorno al passato. Autorità, Ordine e Giustizia, che il regime si vantava di aver ripristinato, non significavano Reazione, Restaurazione, perché il fascismo non era affatto un dono piovuto dal cielo per attenuare o li berare i conservatori e i reazionari dalla paura che loro infondevano gli uomini che si richiamavano al mondo mo derno, “da quei fastidiosissimi uomini moderni che hanno ancora la perversa idea di essere uomini e non servi, di pensare e non di ripetere i loro dogmi, di avere una dignità come lavoratori e come cittadini, e non di accontentarsi delle elargizioni e dei permessi paternamente accordati da loro, sublimi privilegiati per diritto di nascita o di autosuggestione, di denaro o di posizioni acquisite.” Inoltre, il fascismo non poteva essere identificato con il culto rea zionario della nazione, che andava intesa - come affermava pure la “Critica fascista” del Bottai - il punto di partenza per una conquista di natura spirituale e politica, e non ter ritoriale, “non chiusa in se stessa, ma europea e che si po ne come europea,” non anticipazione di una nuova, e pur sempre molto vecchia, Restaurazione, bensì di una nuova Rivoluzione, che mettesse fine al “plutocratismo materiali stico moderno.” Pertanto - concludeva il Cantimori -, il fascismo era la vera Rivoluzione di popolo, in una forma concreta e decisa, radicata neH’intimo dell’Italia moderna, continuazione del Risorgimento e dei suoi valori, punto d’arrivo di tutta la storia italiana. Ebbene, anche qui, la stessa difesa d’ufficio dello spirito rivoluzionario del re gime, conduceva il Cantimori a invischiarsi in alcune con traddizioni, che ne dimostravano, in definitiva, l’inconsi stenza: in realtà, quell'insistere sull’inserimento totale e senza residui del fascismo nel mondo moderno e quel ri fiuto di accettare il mondo vecchio (ma quale era?), giu dicato espressione della Reazione e della Restaurazione, mal si accordava con la condanna del “plutocratismo mate rialistico moderno” (ma, allora, quale era moderno, il nuovo movimento rivoluzionario o questo “plutocratismo materialistico,” in cui si sentiva, fin troppo manifesta, l’in fluenza delle grandi frasi fatte lanciate enfaticamente dal duce al popolo italiano?), e soprattutto mal si accordava con la finale affermazione, della Rivoluzione di popolo quale continuazione del Risorgimento e punto di arrivo di tutta la storia italiana, il che voleva dire interpretare il fascismo come conclusione di un lungo, precedente svi luppo storico. 115
Già B. Spampanato, in un articolo del novembre '26, Socialismo e ripresa rivoluzionaria, aveva posto l’accento su questa Rivoluzione di popolo rappresentata dalla ri volta delle camicie nere contro lo Stato liberal-democratico-socialista: “Il comuniSmo fu stroncato,” egli scrisse, con minore dignità filosofica del Cantimori, ma forse con una maggior concretezza, “e il riformismo, da quello governativo di Bonomi a quello frondista e pudico di Tu rati, crepò quasi di inedia. Il potere fu preso dai rivoluzio nari. E il meglio, quella realtà innegabile che è l’unità na zionale dei cittadini, la libertà del lavoro, l’elevazione dei proletari: il meglio del socialismo, ricomposto e misurato in una suprema formula nazionale, fu dal fascista Musso lini attuato. Quei massoni, scacciati ad Ancona, furono ri messi alla porta. I legalitari di Reggio Emilia, sbattuti al muro. Il metodo rivoluzionario mussoliniano preparò le fondamenta del regime, che i socialisti, come già i liberali, non seppero porre.” Indubbiamente, era necessaria una bella spudoratezza per fare del fascismo del camerata Mussolini l’erede delle posizioni difese dai socialisti e dai comunisti, tant’è vero che lo Spampanato era costretto a notare come la libertà del lavoro e l'elevazione dei pro letari fossero stati inquadrati, dal nuovo regime, in una suprema formula nazionale e nell’unità nazionale dei cit tadini, cioè erano stati sottoposti alla preminente affer mazione della grandezza della Nazione in una indistinta unità, in cui avrebbero dovuto scomparire le divisioni di classe, che potevano disturbare quella potenza dell'Italia redenta. Di conseguenza, come si vede, neppure in questo passo era scomparso l’atteggiamento generico, vuoto e in farcito di fumosa retorica di questi scrittori - storici e filo sofi o pubblicisti di più basso livello - nei riguardi del giudi zio sul fascismo come la nuova rivoluzione del secolo XX°: abbiamo visto che tutte le definizioni presentavano punti deboli o palesi contraddizioni, finché lo stesso gruppo rac colto attorno a “Vita Nova” - che aveva esaurito il rivoluzionarismo del fascismo nella lotta contro le infiltrazioni e l’influenza del Vaticano sul nostro paese - dovette cede re di fronte all’accordo fra Stato e Chiesa sancito dal duce (che era già stato presentato, a suo tempo, come l’artefice del metodo rivoluzionario) con i patti lateranensi del feb braio '29: fra i collaboratori della rivista, ci fu chi - ad esempio, il Saitta - rimase fedele alla prima impostazione anticlericale, mentre qualche altro - ad esempio, il Car lini - veniva accentuando la sua esigenza di antipaganesi116
mo e di religiosità cristiana. Il fatto era che, nel tempo stesso, entrava in crisi pure il gentilianesirno, che molti avevano creduto fosse la cultura ufficialmente adottata dal regime, e, con esso, si esauriva del tutto, dopo il '30, lo spirito pseudo-rivoluzionario, di cui avevano fatto mostra, negli anni precedenti, i collaboratori di “Vita Nova.” Ed era venuto anche il momento di attenuare la vivace pole mica contro l’ideologia e il mito del “buon selvaggio,” ti pici dello strapaese della rivista “Il Selvaggio” del Maccari e del Suckert, un mito che faceva di quel selvaggio il presunto erede di una rustica e incorrotta saggezza, di una antica virtù rurale, e che era nato, in verità, in ambienti culturali piccolo-borghesi. Ma piccolo-borghese era anche “Vita Nova” del Saitta, il quale pure aveva reagito, fin verso il '29,1 contro quello sfondo clericale e cattolico che avvertiva nei “selvaggi.” Questi dicevano, con una certa magniloquente retorica, di essere “giovani di buoni studi," contenti di servire un utopistico fascismo per bene, sano ed intrepido, senza macchia e senza paura: era sempre la so lita trasfigurazione mitologica che al misurato e razioci nante Saitta doveva dare qualche fastidio. Tuttavia, dopo l’accordo fra lo Stato e la Chiesa - che fu avversato, nei modesti limiti possibili, dal Gentile - ogni dissidio cessava e sempre più frequenti si facevano gli interventi di auto ri del “Selvaggio” in “Vita Nova,” la quale, da allora, co minciò la parabola discendente, tanto che l’ultimo numero del 1932 si apri - scrive M. Ciliberto - “con una serie di propositi che costituiscono, in effetti, una severissima auto 1 Ad esempio, nel numero del febbraio '28, R. Pavese, che si rivelerà uno dei più duri e aspri avversari del gentilianesirno, in un articolo su F a s c is m o e c r is tia n e s im o , scriveva apertamente: “io non credo conve niente né giustificato un atteggiamento di assoluta intransigenza circa i rapporti tra fascismo e cattolicesimo; perché, anche a prescindere da ogni contingente valutazione di opportunità politica, sarebbe un rinunciare ad uno strumento, forse prezioso, di penetrazione nelle coscienze e al più naturale (tradizionale) elemento coesivo della latinità” (ma era mai pos sibile che questi scrittori, anche in quattro righe, dovessero fare entrare tutto, dalla valutazione contingente di opportunità politica allo stru mento, “forse prezioso,” di penetrazione nelle coscienze e all'elemento coesivo della latinità?). Affermazioni che non potevano essere lasciate senza risposta dal Saitta, il quale, infatti, aggiungeva una nota (redazio nale) in calce, in cui cercava di precisare la sua posizione: “a noi pare che il problema della relazione fra il fascismo e il cattolicismo debba essere impostato diversamente. Giacché non si tratta di vedere se il cattolicismo come cristianesimo o religione sia in antitesi col fa scismo, bensì se le esigenze politiche del primo possano fondersi, o, almeno, coesistere, con quelle del secondo. Cosi, noi pensiamo, il proble ma da risolvere diventa di natura squisitamente politica e non più di natura religiosa.” 117
critica dell'azione svolta negli anni precedenti. La rivista muore quando già si appresta a rientrare nei ranghi: nello stesso periodo (nel ’31) la ‘Nuova Italia,’ già diretta da Luigi Russo passa a un comitato di direzione di cui fa parte Francesco Ercole. L’idealismo [gentiliano] declina mentre il fascismo di sinistra rivela progressivamente, con chiarezza, il suo carattere sostanzialmente velleitario e ■propagandistico,’ la sua costituzionale fragilità, la sua funzione di strumento di aggregazione intorno al fascismo” degli intellettuali disposti a lasciarsi incantare dai suoi appelli, ormai fattisi vigorosi e imperativi, e non suffi cientemente pronti a resistere o a scoperchiare il vaso di Pandora, che sembrava affascinarli.
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Capitolo settimo
La crisi della piccola e media borghesia
Accennando al dissidentismo che, negli anni più difficili per il fascismo e per Mussolini (cioè fra il 1923 e il 1925), tormentò il regime, abbiamo detto che, probabilmente esso poteva farsi risalire alle stesse origini economicosociali che avevano giustificato il nazionalismo (il settore tessile in crisi); ma, riflettendo meglio sul problema, ci parrebbe di dover modificare tale giudizio: infatti, il na zionalismo partiva da lontane premesse anche di politi ca estera (i Balcani, l’Adriatico e il predominio italiano in quel settore come garanzia di sicurezza per le nostre espor tazioni tessili), premesse che il dissidentismo non ebbe af fatto, perché fu, al contrario, un fenomeno abbastanza li mitato nel tempo e scaturito da molteplici cause. Fra le quali metteremmo, ora, in primo luogo, il crescente males sere della piccola e media borghesia per Finasprirsi del processo inflazionistico. Anche prima della marcia su Ro ma, nel periodo di più intenso sviluppo - 1919 prima metà del 1920 -, quegli strati sociali erano stati duramente col piti dalla inflazione, i cui effetti non riuscivano ad elimi nare, come facevano i lavoratori che, con le agitazioni e gli scioperi, potevano mantenere un abbastanza stabile rapporto fra il costo della vita e il loro salario. Questo per ché il ceto medio - impiegatizio, o agricolo (piccoli colti vatori), o industriale (piccoli imprenditori) - non era an cora giunto ad ammettere lo sciopero come arma di difesa contro un andamento, per esso, sfavorevole, dell’economia nazionale. Ma dopo il 28 ottobre e dopo che Mussolini si vantò, con enfasi (anche per ingraziarsi sempre più gli stra ti conservatori delle grandi borghesie occidentali), di aver riportato la pace sociale nel paese, furono travolti nello stesso malcontento sia gli operai e le classi lavoratrici sia la piccola e media borghesia.1 1 “L’Italia commerciale,” organo della piccola e media borghesia 119
Ma sarebbe forse opportuno guardare meglio da che co sa era originato quel malessere della piccola borghesia: ad esempio, è interessante leggere ciò che scriveva “La Giustizia,” organo dei socialisti riformisti e che veniva ripreso, nel maggio del '23, da “La Plebe,” organo della Fe derazione provinciale socialista (riformista) pavese, sulla nuova tassa di ricchezza mobile da cui erano gravati i pic coli proprietari e i mezzadri: le tabelle per questa tassa erano state fatte “apposta per far pagare di più ai piccoli che lavorano. I piccoli proprietari che lavorano da sé e che hanno i calli sulle mani, pagheranno di più di quelli che possono far lavorare gli altri. Ed infatti, per la nostra provincia di Pavia, pei terreni coltivati a vite che sieno in seconda categoria di catasto, al proprietario che non lavora lui ma ha i mezzi per far lavorare gli altri, sarà attribuito e dovrà pagare per un reddito di L. 17 alla pertica se in montagna, L. 40 se in collina e L. 32 se in pianura; al piccolo proprietario che invece deve lavorare lui e fare la vita del nullatenente, verrà attribuito e dovrà pagare per un reddito di L. 24 alla pertica in montagna, L. 56 se in collina e L. 45 in pianura. Dunque, il piccolo proprieta rio povero e che lavora figurerà per 7 lire di più in monta gna, per 24 di più in collina e per 13 di più in pianura, più che il piccolo proprietario agiato che può far lavorare gli altri: ci sarà proprio la tassa sul lavoro. E come per le viti, lo stesso dicasi per i campi. Per i seminati di seconda categoria di catasto, il proprietario che fa lavorare sarà tassato per un reddito di L. 5,40 alla pertica in montagna, L. 12 in collina e L. 16 in pianura; a quello invece che lavora lui si attribuirà un reddito quasi doppio. Per i prati asciutti, al piccolo proprietario che non lavora verrà attribuito per ogni pertica il reddito di 11 lirq, a quello che lavora di L. 14. Perfino i perdapé [dial, pavese: chi si economica, cosi elencava gli elementi che determinavano il carovita: “L'aviazione assorbe oggi Lire 500 milioni, secondo il bilancio statale; • La Milizia Nazionale costa nel 1924 Lire 30 milioni; - Gravano sulle entrate in forte aumento, miliardi di spese non previste; - Le Banche accordano troppe facilitazioni alle esportazioni di derrate alimentari che mancano al fabbisogno del nostro Paese; - Speculazioni sulle esportazioni cd importazioni; - Pazzesca pressione tributaria; - Elevato costo dei tra sporti; - Spaventosa deficienza del patrimonio zootecnico; - Elevatissimi fitti per i locali adibiti a uso industria e commercio; - Inesistenza di un organo centrale regolatore e quindi mancanza di collegamento con esso delle Camere di Commercio per la razionale affluenza delle derrate ali mentari, sia vegetali che animali sui principali mercati; - Mancanza as soluta di una politica annonaria di tutela e di equilibrio” (cfr. D e te r m ù n a titi d e l c a r o v ita , in “L’Italia commerciale,” 2 novembre 1924), 120
sente superiore agli altri] della Lomellina, che lavora no 12 ore al giorno, vedranno attribuito alle loro ri saie i redditi di L. 100 alla pertica se di seconda categoria di catasto e L. 70 se di terza categoria e dovranno pagare per questi redditi, mentre gli altri piccoli proprietari che non lavorano pagheranno solo in proporzione di L. 70 alla pertica per le risaie di seconda categoria e L. 53 se di ter za! - Ma v’è ancora di più. Il mezzadro che ha per sé solo una terza parte dell’uva, si vedrà attribuito e dovrà paga re per un reddito superiore a quello del suo padrone che ha i due terzi! Per i vigneti di seconda categoria di catasto, al padrone sarà infatti attribuito un reddito di L. 13 per pertica in montagna, L. 30 in collina e L. 24 in pianura, e al suo mezzadro invece L. 21,50 in montagna, L. 50 in col lina e L. 40 in pianura: cioè al mezzadro quasi il doppio del padrone. Proprio la tassa sul lavoro! Il bello si è che se un proprietario fa lavorare a giornata una pertica di vigna in collina, gli attribuiscono un reddito di L. 40 a lui solo; se la dà a mezzadria, gli attribuiscono il reddito di L. 30 a lui e L. 50 al mezzadro! E al mezzadro, che ha sola mente un terzo del raccolto, si attribuisce un reddito quasi uguale a quello attribuito al piccolo proprietario che la vora! Dove si vede che la nuova tassa è organizzata in modo da toccare anche i piccoli proprietari che non lavo rano, toccare un po’ di più quelli che lavorano e toccare più di tutti i nullatenenti mezzadri. Cosi è per i vigneti di seconda categoria di catasto e cosi è anche per quelli di prima e di terza categoria [...].” Virgilio, che firmava que sto articolo su “La Plebe,” diceva di voler far conoscere questi numeri e queste considerazioni a tanti piccoli pro prietari “che prima hanno dato i loro figli alla guerra e, poi, credendo di far bene, li hanno dati al fascismo.” E soprattutto avrebbe voluto che “la gente piccola si per suadesse che la politica grossa e delle grosse parole porta a questi risultati.” Infine, Virgilio, confortato dalle criti che che quasi tutti avevano mosso alle nuove tabelle, si mostrava fiducioso che se ne parlasse anche alla Camera e al Senato e che, in quella sede, “si potesse cambiarle in meglio e con un po’ più di giustizia.” Fiducia, peraltro, che una nota redazionale dichiarava esagerata e fuori luo go, perché “la Camera è stata ridotta dal Governo fascista ad un fantoccio impotente. Avuti i pieni poteri dai depu tati dei partiti borghesi, il Governo dittatoriale si infischia del Parlamento e dei suoi diritti. Fa e disfà, senza curarsi se i suoi provvedimenti colpiscano la popolazione lavora ci
trice già tanto tartassata, mentre una minoranza parassi tarla profitta scandalosamente della ricchezza nazionale.” Contro la pseudo-riforma tributaria, di cui pure il mi nistro delle Finanze, De Stefani, andava tanto orgoglioso,2 muoveva serrate critiche anche “Politica nuda,” periodico di polemica nazionale, aperto fiancheggiatore e difensore del regime, ma, nel tempo stesso, molto legato alle classi medie, definite “l’ossatura dello Stato e la laboriosità or dinata.” In una nota in neretto a pié di pagina, il 1° feb braio del ’25, aggiungeva che a queste ultime era stato “‘ru bato’ il pieno voto plurimo, contro il quale ebbe il soprav vento la menzogna democratica. Ad esse non sarà 'regalata' l’imposta complementare, malgrado la decretata andata in vigore per il 1925. Subito deve essere 'sospesa' questa im posta mostricciattolo, che sembra inventata, nella forma attuale e nella sua immaturità sostanziale, a spremere del le lirette, attraverso uno sterminato ed improduttivo la voro burocratico,” specialmente a tutti i “travettisti pub blici e privati.” Per quanto riguardava quella che veniva definita “imposta ermafrodita sui redditi agrari,” G. Car tella scriveva che tutto il complicato ammasso di decreti e di circolari, era tramontato, lasciando il posto, con gran de sfogo del buon umore della burocrazia, “a nuove tavole mosaiche, che hanno allagato il bel regno, classificandone e valutandone flora e fauna... umoristicamente. E il reddi to agrario netto (senz’altro!) ci è stato servito: per semi nativi asciutti o irrigui, per risaie, per orti stabili o a grande coltura, per vigneti, per seminativi vitati, per prati 2 La parte dedicata a tale problema nel suo discorso alla Scala del 30 marzo '24, in cui si vantava di avere arrestato “la marcia verso il fal limento, cosi l'onorevole Giolitti definiva militarmente la nostra situa zione di allora,” senza aver fatto ricorso ad un contributo indiretto a larghissima base, ma, poco dopo, il 27 giugno '24, al Senato, era costret to a difendere i criteri che aveva seguito per la R i c o s tr u z io n e e c o n o m i c a e fin a n z ia r ia d e l l ’I ta lia , e, per quanto riguardava la pressione tri butaria, cercava di “circoscrivere il reale contenuto della leggenda poli tica di nuovi sacrifici che il Governo e particolarmente io stesso, avrem mo imposto ai cittadini,” facendo presente il pericolo che sarebbe deriva to se si fosse dato “libero corso a quella leggenda senza approfohdirne, ogni qualvolta se ne presenti l'occasione, la reale consistenza.” Metteva, poi, in rilievo come la sua in fa tic a b ile - tutti servitori disinteressati dello Stato e del bene comune, erano questi fascisti! - opera fosse stata domi nata dalla “viva e costante preoccupazione di agevolare una reale e non effimera o illusoria politica tributaria democratica” ed esortava a valutare i provvedimenti non “secondo il giudizio immediato e super ficiale delle folle,” bensì "nei loro effetti concreti e definitivi,” senza volere escludere “che lo Stato debba talvolta addossare ai cittadini il prezzo delle loro illusioni, quando questo prezzo sia compensato dall'or dine sociale.” 122
asciutti o irrigui senza rotazione, per frutteti, in triplici classi per ettaro, per montagna, collina e pianura, sia di pertinenza del proprietario diretto conduttore con brac ciantato o manuale coltivatore dei terreni suoi, sia del proprietario e del colono per le coltivazioni a colonia del le varie specie, sia del bestiame! Dalla metafisica alla ta vola pitagorica! E i pazienti agricoltori, che stavano per addestrarsi ad astrusi calcoli non mai perseguiti, si son visti taglieggiare ineccepibilmente. Ma via! Ma via!” In una nota redazionale, che seguiva questo articolo, era det to che tale imposta era “idiota, nefanda e immorale,” e si spiegava che si doveva definire immorale, perché non rispettava il principio che a parità di reddito dovesse cor rispondere parità di aliquota. Insomma, si trattava di una imposta che avrebbe dovuto essere radicalmente modifica ta per porre termine alla rivolta tributaria di alcune pla ghe, rivolta che era dai pubblici poteri “forzatamente tol lerata.” E lo stesso Cartella aveva concluso il suo artico lo parlando di questa ribellione: “Che intere regioni ab biano opposto il loro veto ad un tributo che altre pagano, non era mai accaduto' prima d'ora. E non sappiamo dar ragione a quelle regioni che pagano, altro che per lor ci vica ortodossia, ché ci sembrano le altre più intelligenti. Chi raddrizzerà,” concludeva fra indignato e sconsolato, “le gambe a questo tributo cane?” Ed anche l’imposta com plementare non era risparmiata dall’esame che ne faceva lo stesso Cartella nel numero successivo del periodico (15 febbraio ’25), in cui elogiava l’“elaborato progetto Meda,” scaturito da annose discussioni (era quello stesso proget to a cui si richiamava spesso e volentieri il De Stefani), che avevano condotto a mettere in luce “la diversità es senziale del reddito in afferenza all’imposta normale (og gettivo) ed in relazione all'imposta complementare (sog gettivo),” affacciando “molteplici possibilità, attuabili in modo da salvare il più possibile i principi di morale tri butaria, che l’odierno decretato tributo trascura o lede!” Sicché, prendendo, ancora una volta, le difese dell’umile travet, sosteneva che l’elaborazione teorica, sul piano buro cratico, sarebbe stata sufficiente “per evitare errori, spere quazioni, empirismi e per intendere la tassazione alle mag giori fortune, invece di mietere miseria nei campi smunti del travettismo! ” I provvedimenti adottati, infatti, ave vano l’aspetto di un aggiornamento empirico di dati, ed era no quanto di più affrettato e mostruoso si potesse archi tettare, “punto solleciti di alcun sentimento perequativo. 123
punto abili di alcun tecnico pregio; e tutto si vorrà basare su dichiarazioni che, dopo l’esperimento dell’imposta pa trimoniale, non verranno (e giova gridarlo, se non si vuol far torto all’intelligenza degl’italiani!), per rimettere allo spiedo ed arrosolare, ancora una volta, i fringuelli che sono in panie da tempo!” Come si vede, la piccola e media borghesia rurale e ur bana - del terziario, i cosiddetti travet - aveva diversi e gravi motivi per essere scontenta della politica del nuovo regime nei suoi confronti, tanto che, in quegli anni, quasi tutti i partiti si preoccuparono di averla alleata: alcuni fra essi, come vedremo, per poter combattere con maggiori probabilità di successo il fascismo, e quest'ultimo per di fendere il potere di recente conquistato. In particolare, i riformisti, che facevano capo al Partito socialista unitario, e nel quale erano rimasti, dopo la scissione di Roma dai massimalisti dell’inizio dell’ottobre '22, Turati, Trampoli ni, Treves, Morgari, Agnini, Modigliani, ecc., cercavano di reagire contro la propaganda e la “denigrazione elettorale” (erano vicine le elezioni del ’24) dei “cugini massimalisti,” i quali diffondevano tra gli operai e nelle campagne un opuscolo che era una denuncia della collaborazione di classe tentata dai riformisti. Infatti, vi si leggeva: “Da un lato, avete i cosidetti socialisti unitari, che vi presentano un simbolo attraente, su cui c’è scritta anche la parola Socialismo. Ma se nelle loro file ci sono ancora molte ani me socialiste, quel Partito ha abbandonato in realtà il So cialismo per seguire le vie della collaborazione di classe (la solita collaborazione del lupo con l’agnello) e tenta oggi di appoggiarsi sui ceti medi, rinnegando il passato glorio so del Partito socialista.” A tali accuse rispondevano sia “La Giustizia” sia “La Plebe,” la seconda sostenendo che “nell’attuale situazione, collaborazione di classe è la fatale, momentanea alleanza del proletariato con tutti quei ceti e gruppi che vogliono, come noi, abbattere la dittatura fasci sta e restaurare le libertà democratiche.” Secondo “La Ple be” una simile alleanza era ima necessità inderogabile, per ché “la classe operaia, terrorizzata, disorganizzata ed affama ta, non può da sola riconquistare quelle condizioni che se no una premessa indispensabile della sua vita, vale a dire del socialismo. La dittatura fascista non potrà essere ab battuta se non dalla più vasta e profonda unità di forze; perciò, noi riteniamo semplicemente deleteria la propagan da massimalista, che tende a mantenere il proletariato nel l’isolamento mortale in cui fu cacciato dal fascismo.” Al 124
l’altra accusa, di appoggiarsi ai ceti medi, “La Plebe” si chiedeva: chi sono i ceti medi? “Sono,” rispondeva, “all’ingrosso, i piccoli proprietari ed i ceti intellettuali.” Ed aggiungeva, con una certa foga: “Orbene, in molta parte della nostra provincia, nell’Oltrepò, nel Corteolonese, nel Bobbiese, il Partito socialista trovò sempre cospicue forze precisamente nei piccoli proprietari, i quali, in definitiva, sono degli sfruttati come, e talvolta più dei proletari veri e propri. Per questi piccoli proprietari, il socialismo sarà liberazione non meno che per i braccianti e gli operai. E noi dovremmo abbandonarli a se stessi, agli inganni del partito popolare e del fascismo, renderli nemici del pro letariato per una male intesa purità di classe? Noi dovrem mo respingere dalle nostre file i ceti intellettuali come se il socialismo interessasse soltanto i fabbri ed i contadini?” A sua volta, “La Giustizia” affermava che la collaborazio ne di classe dei riformisti mirava a sottrarre ai reazio nari ed ai plutocrati larghe masse ed a chiarire l’identità di interessi che univa i produttori ed i consumatori. Ma quest’ultima nota andava forse più in là di quanto aveva detto “La Plebe,” allorché collegava gli interessi dei pro duttori (gli industriali e imprenditori) con quelli dei con sumatori; ed una certa stonatura si avvertiva pure nella conclusione: “I nostri massimalisti non danno prova di molta acutezza di spirito quando qualificano un tradimen to la difesa che noi facciamo degli impiegati, professioni sti, ecc., ecc., sfruttati economicamente e moralmente”: po trebbe apparire alquanto difficile mettere tra gli sfruttati i professionisti, la maggior parte dei quali aveva aderito al fascismo. Il fatto era che “La Plebe” era, probabilmente, più vicina della “Giustizia” alla realtà sociale delle campa gne pavesi e della Lomellina, come dimostrava una predica ai piccoli proprietari (10 luglio 73), soprattutto ai piccoli coltivatori della vite, ai quali la fillossera stava distrug gendo il raccolto e che, per ripiantare i vigneti, erano an dati incontro a gravi spese, perché avevano dovuto acqui stare nuove barbatelle, che si erano rivelate non buone, mentre chi le aveva vendute si era “arricchito sulla vo stra miseria” ottenendo, per di più, dal governo nazionale premi ed onori. Inoltre, era stato lasciato credere loro che sarebbero state soppresse le tasse che avevano pagato fi no allora, con i governi liberal-democratici, e che avevano ritenuto eccessive (e di ciò venivano incolpati i socialisti, “che spendevano tanti denari”); ma, al contrario, le im poste si erano fatte sempre più pesanti: “La tassa sul vino 125
è rimasta e vi si sono aggiunte più di prima le contravven zioni. È venuta la nuova tassa sul reddito agrario e più siete piccoli e più vi si tormenta. Tutti i comuni hanno messo anche la tassa sul bestiame che prima molti di voi non conoscevate. Ed hanno aumentato il focatico. E non diminuisce la sovrimposta né sui terreni né sui fab bricati.” Si trattava, come si sarà potuto vedere, di una analisi abbastanza acuta della condizione fortemente peggiorata della piccola e media borghesia, che però era costretta ad uno scoperto equilibrismo per non cadere dalla collabora zione di classe fra proletariato e ceti medi alla collabora zione di classe fra proletariato e datori di lavoro: il che avveniva sia in R. Rigola, il quale aveva fondato, alla fine del '24, a Biella “Il Lavoro,” settimanale del Partito socia lista unitario, ma che scriveva, nel giugno del '25, un arti colo su “La Giustizia” cercando di chiarire la funzione del suo partito: “Il Partito unitario è l’erede e il continuatore di quel revisionismo che trasse origine principalmente dal la constatazione del permanere dei ceti medi, e portò al l'adozione della formula che dichiarava non essere la lot ta di classe incompatibile con la collaborazione di classe”; sia pure in B. Buozzi, che, parlando al VI congresso nazio nale della FIOM (Milano, 24-26 aprile ’24) su cinque Mini di lotte intense e di opere feconde, dopo aver ricordato quan to aveva detto recentemente sulla necessità che continuas se ad esistere la lotta di classe (ma “intesa nel modo più civile”), aggiungeva di non volere, con tale richiamo, “vie tare la collaborazione fra imprenditori e lavoratori nel campo tecnico della produzione. Per noi, quel qualunque concordato che segna la fine di un conflitto fra capitale e lavoro, segna sostanzialmente una tregua. Se la tregua è leale, nell’interno dell’officina la stessa discussione sul l’applicazione dei concordati, si risolve in una collabora zione.” Era chiaro che la posizione degli unitari era più favorevole alla collaborazione che alla lotta (baste rebbe, per comprenderlo, rifarsi alla lunga tradizione turatiana di collaborazione con la borghesia iniziata con il Giolitti e che fu dovuta interrompere allorché questi lanciò l’Italia alla conquista della Libia, ma che il Tu rati avrebbe voluto riprendere dopo la guerra, se non ne fosse stato impedito dai massimalisti). Si trattava di una collaborazione esperimentata con la media e pic cola borghesia urbana (tipico è, a tale proposito, il ca 126
so di Milano, città dove esisteva una larga massa lavora trice ma sopraffatta da estese e vaste categorie di com mercianti del settore terziario che rappresentavano la for za dei riformisti), mentre nelle campagne i socialisti ap poggiavano le richieste dei salariati e dei braccianti, perché i piccoli coltivatori erano stati controllati dai cattolici prima, poi dal Partito popolare. Tuttavia, “La Plebe” difendeva gli interessi di questi piccoli proprietari, accomunandoli, co me si è visto, ai “proletari veri e propri”: il fatto era che - lo abbiamo già detto - il periodico della federazione uni taria pavese doveva rispondere ad una realtà specifica, che era la realtà contadina in mezzo a cui agiva. Ma una interpretazione di tale linea politica più aderente a quella della “Giustizia” proveniva da alcuni articoli de “La Stam pa,” la quale, in occasione di un convegno degli unitari te nuto nell’aprile del ’25, osservava come le critiche dei mas simalisti che miravano a scorgere nelle posizioni del PSU il tentativo di “sommergere” il proletariato “nelle classi medie,” accennassero ad un processo di rivalutazione politi ca, anche da parte di un partito operaio, di quei ceti in cui non pochi avevano scorto una docile massa di manovra per il movimento fascista. Per il quotidiano torinese, il fatto che una parte almeno dei lavoratori e dei loro rappresen tanti mostrasse di volgersi verso una più stretta collabora zione con forze che fino allora erano state intransigente mente respinte e combattute, apriva “prospettive di gran de rilievo e i partiti medi [...] debbono riflettervi adeguatamente” (art. Possibilità): essi erano sollecitati a porsi il problema di un nuovo programma che tenesse nel dovuto conto i fattori economico sociali, cioè di un programma che, in un certo modo, andasse incontro alle esigenze delle classi che ora si aprivano appunto ad una collaborazione. Le correnti più avanzate della democrazia liberale, l’Unio ne nazionale e la Democrazia sociale in particolare, se ve ramente aspiravano a rappresentare i ceti medi, avrebbero dovuto cercare di stimolare in essi “una coscienza di clas se, che non potrà essere identica a quella del proletariato (se no, tanto varrebbe lasciarsi assorbire dal socialismo), ma dovrà essere nettamente distinta da quella delle clas si capitalistiche e risolutamente contrapposta (ecco, oggi, un punto capitale) alla plutocrazia reazionaria” (art. Parti ti medi). L. Salvatorelli veniva di rincalzo a queste esorta zioni, il 1° maggio (Il peso della bilancia), non rifiutandosi di porre in rilievo anche quelli che, a suo parere, erano 127
stati gli errori della piccola e media borghesia: “Ragione precipua di debolezza della media e piccola borghesia,” egli, infatti, scriveva, “è il suo spirito di estraneità, e pos siamo dire di ostilità, verso il proletariato”: il che l’ha fatal mente spinta nelle braccia del nazionalismo, “mettendola a servizio di oligarchie politiche ed economiche, sue nemiche naturali.”
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Capitolo ottavo
I ceti medi e il Partito popolare ( don Sturzo)
Sembra molto strano che di questa crisi dei ceti medi urbani e agricoli non si siano quasi accorti - cosi almeno sembra - i popolari, che avevano la loro base elettorale so prattutto nelle zone di piccola e media proprietà rurale del nord. Uno storico del movimento cattolico e popolare, il De Rosa, ha scritto che la posizione di don Sturzo era di netta antitesi al capitalismo industriale, allo statalismo eti co o burocratico e all’alternativa rivoluzionaria proletaria (naturalmente, tale posizione non rappresentava quasi nul la di nuovo rispetto alla tradizione politica ed economica dei cattolici, che si erano costantemente battuti contro lo statalismo e il capitalismo - simboli della borghesia -, che avevano lottato contro la borghesia liberale accusata di avere soppresso, nel 1870, il potere temporale, e contro il rivoluzionarismo, più immaginario e supposto che reale, del proletariato e del suo partito e del suo sindacato: fra’ il '19 e il ’22 si ritenne più urgente sconfiggere quest’ulti mo pericolo e i popolari scelsero, pur senza derivarne alcun vantaggio, la via delle alleanze con le varie frazioni libera li, prima, e, molti di essi, i clerico-fascisti, con il partito di Mussolini). “Dunque,” aggiunge il De Rosa, “lo schema del la lotta politica sturziana era sempre il medesimo: combat tere industrialismo e statalismo dando spazio ai ceti medi, raccordare la lotta della borghesia alle prospettive di una politica antiparassitaria e antimonopolistica, sia nel set tore pubblico che privato, potenziare l’agricoltura e ban dire i protezionismi, contenere il sindacalismo sul terreno delle rivendicazioni professionali.” Dando spazio ai ceti me di, ed il Partito popolare rispettò fedelmente un simile pro gramma, anche perché lo spirito moderato e conservatore della piccola borghesia rispondeva perfettamente alle ten denze dei cattolico-popolari, altrettanto moderate e conser vatrici. Era strano, pertanto, ripetiamo, il vedere come i po129
polari non cercassero subito dì approfittare della crisi del le classi medie per riconquistare l’influenza su esse che si erano volte al fascismo, come chiariva il Salvatorelli nel suo libro Nazionaliascismo, in cui tratteggiava l’aspetto piccolo-borghese del fenomeno fascista: interpretazione che era accolta con soddisfazione dal “Popolo d’Italia,” il qua le, peraltro, aveva ospitato, sul finire del '22, un articolo dell'esponente del sindacalismo fascista, E. Rossoni, che non risparmiava promesse e lusinghe: “Le classi medie so no quelle che hanno sempre fatto le spese del basso e del l’alto, che sono rimaste sempre sbandate perché non ‘arriva rono mai fino all’incoscienza di rovinare la Nazione per i loro interessi’ [...]. Il sindacalismo nazionale, che vuole essere un sindacalismo di ‘selezione,’ doveva soprattutto pun tare a queste classi medie che, se la guerra è stata combat tuta dai contadini e dagli operai come massa, hanno for nito alla guerra i quadri dei nostri meravigliosi ufficiali.” Ebbene, proprio quando la piccola e media borghesia en trava in una grave crisi in conseguenza della politica eco nomica del fascismo, i dirigenti popolari non facevano sen tire la loro voce e non tentavano nemmeno di inserirsi in tale crisi per sfruttarla ai loro fini. Solo don Sturzo muoveva alcune riserve su un aspetto particolare della politica fascista, quella riguardante la riforma fi nanziaria del De Stefani, esaminando i risultati del primo anno di governo del nuovo regime: uno dei punti di maggiore turbamento e disquilibrio è stata - so steneva giustamente - “la imposta straordinaria sul patri monio, che, per una serie di errori, è divenuta una vera im posta sul reddito, punto morto della riforma. De Stefani non affrontò questo problema, e cercò invece altre entrate con la imposta di R.M. sui redditi agricoli e sui salari (non bene inquadrati in provvedimenti organici), ed ha continua to nel sistema empirico dei predecessori. Per giunta, de magogia a rovescio, invece di rettificare le aliquote della tassa di successione, l’ha abolita per i primi gradi, facen do getto di circa 250 milioni. Questa tendenza antidemocra tica del ministro De Stefani è segnata in tutto il suo fati coso processo di sistemazione tributaria: l’abolizione delle imposte sugli amministratori, l’abolizione delle imposte a carico di ditte nazionali aventi filiali all’estero, l’esonero della complementare alle società e ditte azionarie, sono ele menti sicuri deH’orientamento industriale capitalistico del nuovo regime tributario. Si comprende bene che l’ag gravio debba pendere verso i consumi e verso l’agricoltu 130
ra. Politica sperequatrice e antiproduttiva quanto altra mai.” Una politica, peraltro, aggiungeva lo Sturzo, volutamente sperequatrice e antiproduttiva, perché il suo pen siero andava all’Italia meridionale, delle cui sorti con tinuava a preoccuparsi vivamente, e alla piccola borghe sia, che era costretta a sopportare, in gran parte, il peso maggiore di quelle sperequazioni in uno Stato che rima neva sempre lo stesso, con le stesse ingiustizie e gli stes si problemi insoluti. Infatti, affermava ancora don Stur zo, l’Italia era governata dall’“agrarismo della Val Pada na e, con maggiore efficacia, dall'industrialismo lombar do-ligure; i loro metodi sono più in grande [rispetto a quelli del Depretis e del Giolitti, quest’ultimo duramente combattuto dal sacerdote siciliano]; si spendono milioni per mantenere giornali e per sfruttare lo Stato. Ieri gli industriali e finanzieri lombardo-liguri facevano lo stesso aiutando i socialisti, per far da contrappeso alle correnti della piccola borghesia, che finiva per pagarne i costi e concorrere a determinare i profitti della grande industria parassita. Oggi, capovolte le situazioni, è il fascismo che giova, e concorre a creare uno spirito pubblico in sostan za analogo al precedente, che, superando le aberrazioni violente dei rossi (la solita biscia che morde il ciarlatano), è servito e serve alla medesima industria parassita e alla stessa speculazione bancaria. Cosi, nel fondo, si ritrovano i medesimi attori e i medesimi interessi, che né Giolitti ieri dominò né oggi Mussolini domina.” In verità, lo Sturzo era convinto che il governo fa scista non fosse altro che una continuazione della condot ta dei precedenti governi, ad esempio in politica estera, in cui mancava “un serio e ben studiato orientamento italiano”; un appunto, però, aggiungeva subito, che “non si può fare solamente al governo fascista, deve farsi an che ai governi precedenti e alla stessa tradizione della Consulta.” La simpatia e la fiducia con cui molti guarda vano a Mussolini, distinguendolo dal suo partito, richia mavano “la medesima fiducia di molti e la stessa asperi tà di pochi”; fiducia e asperità educate dall’“abitudine italianissima di voler vedere più gli uomini che le idee,” che aveva fatto guardare per anni e per decenni a De pretis ed a Giolitti, i quali avevano potuto “dominare al disopra dei propri partiti e al di fuori delle proprie idee politiche, da dittatori senza dirlo, domando parlamenti e disintegrando partiti, accarezzando e minacciando la Chie sa: arte di politica, non teoria né fede.” Infine, la speran ti
za di non pochi che il duce fosse capace di vincere e di su perare le violenze verbali e il rassismo locale, aveva fatto si che le prime fossero “ridotte a stile parlamentare, ma sostanzialmente le stesse, e che le seconde [fossero] ri portate al livello dei mazzieri di De Bellis e dei camor risti di Peppuccio Romano o dei maffiosi di Vittorio Ema nuele Orlando. Come si vede,” concludeva amaramente, “una concezione paesana e passatista, di marca giolittiana e di stile meridionale.” Era, secondo lui, la vecchia e anti ca Italia che risorgeva con il fascismo ed egli non crede va affatto che Mussolini fosse l’uomo in grado “di stare al disopra del suo partito in evoluzione” per cogliere “i momenti che passano e realizzare la novità dello spirito”: questo perché se egli avesse saputo condurre a termine tale esperimento, avrebbe dovuto “superare tanto l'ille galismo della massa, quanto l’affarismo degli industriali e degli agrari, che premono sul suo partito.” Né Musso lini riusciva a penetrare ed a sentire gli svantaggi della dittatura, ché anzi era portato a “ipervalutarne” i van taggi. Pertanto, tutto sembrava rinchiudersi per don Sturzo, ogni spiraglio per il futuro si oscurava; ed allora cerca va di sottrarsi a questa stretta, che minacciava di soffo carlo, ricorrendo ad un fatalismo, che era, solo in parte, attenuato da un tentativo di intervento volontaristico nel la vita politica e sociale. Infatti, esprimeva la speranza - quasi incrollabile - nella nuova situazione internaziona le, quale era uscita dalla guerra, una situazione che non poteva più essere quella delle egemonie nazionali, che aveva generato il conflitto, “né quella dei sogni imperia listi di predominio, né quella del feroce protezionismo e dell’accumulo di ricchezze e dell’accentramento di pote ri in poche mani.” Era nata, al contrario, l’esigenza di “una politica di convergenza fra i popoli, di cooperazione economica, di elevazione morale, allargando cosi la cer chia dei confini umani.” Parole che erano, senza dubbio, nobili e che tracciavano le linee di una convivenza fra i popoli ed i paesi tale da impedire il ripetersi di quelle ten sioni che avevano condotto alla guerra, ma erano pure parole che, scritte fra il 1923 e il 1924, non avevano al cun senso e rivelavano una sorda incapacità di capire le vie che la società intemazionale intendeva percorrere e che trovavano la loro logica nei protezionismi (in cui si erano rinserrate tutte le nazioni, non appena cessato il rumore delle armi); nei nazionalismi spinti ancora più al l’eccesso di quanto non lo fossero stati nell'anteguerra e che 132
apparivano sempre più sopraffattori e violenti e ignari di un benessere comune e soprattutto di una solidarietà di una convergenza - fra i popoli: nazionalismi che, inevi tabilmente, degeneravano negli imperialismi e nell’accu mulo di ricchezze e nell’accentramento del potere in poche mani. Cosi, don Sturzo poteva ripetere che l’Italia, Musso lini e il fascismo erano inseriti in una “fortissima realtà democratica,” che era ormai indistruggibile e che viveva e lottava nel mondo moderno, nel cui ritmo anche noi non avremmo potuto non vivere, “oggi più di ieri, per lo spo stamento di ricchezze e di economie avvenute in Europa per causa della guerra, e per la ripresa di interessi mo rali e politici che debbono avere per base la solidarietà internazionale.” Ma anche qui, il sacerdote siciliano mo strava di non capire che tutti gli Stati europei - quelli più forti e quelli che credevano di potersi ascrivere nel loro novero - volevano ritornare alla situazione preguerra, che aveva visto, all’interno di ogni paese e sotto la copertura di una dottrina economica liberistica, le classi dirigenti compiere ogni sforzo per mantenere alcune regioni in una condizione di grave sottosviluppo - che era funzionale al lo sviluppo delle altre regioni, più favorite -, e, nella poli tica del vecchio continente, conservare intatta la suddi visione di ruoli fra una Europa occidentale, industrializ zata, ed una Europa orientale, fornitrice alla prima di ma terie prime o di generi agricoli, mentre doveva importare tutti i prodotti industriali. Ma era estremamente difficile che lo Sturzo riuscisse a penetrare, in tutta la loro realtà, simili diseguaglianze che stavano ripetendosi tali e quali nel dopoguerra, perché egli aveva bisogno di considerarle finite e frantumate dal conflitto: solo da ciò poteva sorgere la sua speranza: “Il movimento nazionalista chiuso in sé,” scriveva, “la corrente agrario-reazionaria, il culto della violenza post bellica, sono anacronismi di popoli vinti e poveri: non posso no essere la base della politica italiana senza retrocedere di un secolo. Per queste considerazioni, dal punto di vista del la politica italiana, l’esperimento Mussolini non può avere uno sbocco imperialista, egemonico, dittatoriale, ma deve avere uno sbocco liberale-democratico, cioè deve percorrere le fasi involutive del fenomeno fascista, e, dopo avere opera to una specie di massaggio sul corpo della nazione, ritorna re al punto di partenza.” “Non può,” “deve,” sono tutti, co me si vede, atti di fede in una evoluzione fatalistica, impres sione rafforzata da altre sue frasi: “il fascismo del 1923 non 133
può, per l’Italia, che essere una parentesi; quello del 1924 già sente i mutamenti attorno a sé e dentro di sé,” affermava scambiando quelli che erano labili segni per certezze. “Ha la forza di vincersi e di modificarsi? Ancora è possibile sul fascismo l’opera di alcuni uomini, quali Mussolini, dato che le idee non hanno salda base di convinzioni e gli interessi che vi si son formati attorno sono ancora in piano insta bile? Il facile passaggio di masse socialiste, di democratici e liberali sotto il fascio littorio non contribuiscono certo al rassodamento di direttive e alla formazione di idee; e quin di lo spostamento dei dirigenti e specialmente del capo, por ta con sé troppo facilmente i gregari e determina nuove correnti. Per gli ottimisti, e non son pochi, c’è ancora speran za che il buon senso italiano si riprenderà di tutte le esage razioni, e che la realtà vivente farà sentire le sue leggi e il suo influsso.” Si trattava pur sempre di un “atto di fede” e quasi pate tico era il richiamo alla speranza di “non pochi ottimisti” ed al “buon senso italiano” che avrebbe avuto la forza di ri prendersi di tutte le esagerazioni e di poter ricominciare una nuova esistenza come se il fascismo fosse stato una rapida parentesi e un breve incubo, tutto sommato, vantaggioso per ché avrebbe dato all’Italia la possibilità di “superare, con ogni sforzo, forme esagerate di vita esteriore, e di poter com prendere che ogni indisciplina collettiva si sconta. Una classe dirigente verrà fuori che non sarà strettamente fascista, ma che avrà fatto giustizia di vecchi-in frolli men ti e di declama zioni demagogiche e retoriche, di esagerati nazionalismi e di turbolenze squadriste; e se le mancherà sufficiente prepara zione, avrà avuto una esperienza notevole che ha inizio col 1915.” Certo, da tutte le premesse che abbiamo ricordato, non si poteva scorgere come e quando sarebbe nata la nuova clas se dirigente: tutto rimaneva affidato all’oscuro, e ignoto agli uomini, fato. Anche se qualche lieve sintomo di una eventua le azione si faceva stentatamente luce nel suo pensiero, co me nella fiducia nel popolarismo che, escludendo dalla sua azione l’illegalismo, voleva “agire moralmente per modifi care la corrente fascista e determinare le forze più coscien ti e in evoluzione verso piu sani concetti di Stato costituzio nale e verso più umana concezione del rispetto altrui.” Ma era, anche questa, una fiducia forse più mormorata nell'inti mo che espressa, perché lo Sturzo non ne poteva fare asso lutamente a meno, e che, probabilmente, sembrava avvalo rata dal risultato delle elezioni del 6 aprile '24, che avevano visto cinquecentoquarantatremila votanti per il suo partito 134
nel Settentrione e novantaquattromila nel Mezzogiorno (una netta divisione, che rivelava come il PP, quale partito d’op posizione, fosse molto più forte al nord, dove aveva raccolto i maggiori consensi fra le masse contadine e fra le classi medie urbane, conseguendo in alcune regioni, ad esempio il Veneto, e in alcune zone, da Bergamo-Brescia verso le pro vince del nord della Lombardia, una maggioranza incon trastata), con un “esito,” notava la rivista “Civitas,” “di gran lunga superiore a quello che i più ottimisti potessero attendere”; sicché, era lecito dire “che il Partito popolare è uscito quasi intatto dalla lotta, nel senso che ha con servato in efficienza la sua formazione essenziale, ed ha dato prova di essere ancora, nel Paese, vivo di una vitali tà che trascende le momentanee fallanze e disgregazioni imputabili alla eccezionalità della situazione politica ita liana.” Ma il periodico era portato ad imputare il più bas so numero di voti riportato nel Mezzogiorno ai metodi clientelari notoriamente applicati su vasta scala “nelle regioni da Roma in giù,” e non al fatto che, nemmeno fra il 1919 e il 1922, i popolari erano riusciti a fare brec cia nella società meridionale, come, d’altronde, non vi erano riusciti né i fascisti né, pur se in minor misura, i socialisti, che potevano vantare una ben più lunga tradi zione storica. Erano tutti partiti localizzati nel setten trione, ed infatti, il 6 aprile, le correnti politiche che non erano entrate nel listone fascista ottennero, nel nord, più voti di quest’ultimo; ma ciascuna di esse si era presen tata separatamente, non potendo, pertanto, usufruire dei vantaggi riconosciuti alla lista che avesse raggiunto la maggioranza relativa dalla legge Acerbo, una legge che lo Sturzo definì un “mezzuccio politico per tirare avanti con meno illegalità possibili, cercando una legalità formale, che rinsaldi l’attuale dominio. Il domani è sulle ginoc chia di Giove!” Inoltre, c’era un altro motivo che rendeva il sacerdote siciliano alquanto cauto, motivo che andava ricercato nel la riforma Gentile, che, oltre a concedere ai cattolici l’in segnamento religioso, sanciva anche, mediante l’esame di Stato [che il PP aveva lungamente, ma sempre invano, richiesto ai precedenti governi democratico-liberali], “la parificazione morale della scuola privata con la scuola pubblica.” Don Sturzo si chiedeva perché mai si fosse do vuto battagliare per tanti anni attorno a tali problemi, e, ancora una volta, faceva ricorso a spiegazioni che stava no fra lo psicologico e l’astratto moralismo: “Mistero del 135
l’anima collettiva! furono certo ragioni politiche, insieme a pregiudizi anticattolici, che, sviluppati durante il nostro risorgimento, sboccarono nei tentativi anticlericali di po litica interna della sinistra laica massoneggiante, e che portarono la lotta sul terreno dell’insegnamento religio so.” Eppure, una simile politica propensa ad accogliere le istanze avanzate dalla Chiesa non era soltanto della “si nistra laica massoneggiante” risorgimentale, perché anche il nazionalismo si mostrava “favorevole alla religione,” at tirandosi la simpatia di “certi centri culturali e politici dei cattolici troppo condiscendenti,” non vedendo “tutta la immoralità dei suoi principi.” Don Sturzo, cosi, si tro vava preso, da un lato, dalla soddisfazione per il conse guimento delle conquiste morali attese dalla coscienza cattolica, e, dall’altro, dal bisogno di non cedere al “clerico-fascismo di Mussolini e dei vecchi clericali, risorti ne mici dei popolari [a proposito di questi, che si erano but tati subito nelle accoglienti braccia del regime, è da osser vare come il sacerdote non avesse messo tra le masse so cialiste, i democratici e i liberali che erano passati sotto il fascio littorio, anche i suoi ex-amici, i vecchi clericali che avevano visto in un movimento reazionario la loro se de naturale],” il che poteva preoccupare “il vero ambien te cattolico,” pur non riuscendo a “gettare catene alla Chiesa, la quale vigila perché nulla venga compromesso da calorosi abbracci. L’Italia del 1923 ha solo guadagnato in proposito una esperienza, che non valeva la pena lotta re per tanti anni contro quel catechismo, nel quale credo no [sic] la maggioranza dei suoi figli.” Senza pensare, poi, che “il vecchio mondo democratico, pur con estrema dif fidenza, ci sarebbe arrivato anch’esso.” Ma, ancora una volta, una simile difesa ad oltranza della Chiesa, che, secondo lo Sturzo, mai aveva approvato le violenze, né consentito all’oppressione dei deboli, né era sta ta “connivente con i violatori delle leggi umane e divine,” appariva fuori luogo di fronte al comportamento del Vati cano, che, fra il '23 e il ’24, dava - come scriveva A. Finocchiaro Aprile in un articolo sul “Giornale d’Italia” del 1° febbraio '24, articolo subito ripreso da “Civitas” nel suo nu mero del 16 febbraio - il suo benestare alla nomina, da par te del guardasigilli, A. Rocco, di una commissione per lo stu dio delle modifiche da introdursi nella legislazione ecclesia stica, nomina che assumeva un ben preciso significato poli tico, dal momento che erano chiamati a far parte della com missione “ben quattro prelati, noti per la loro intelligenza 136
e perizia, che saranno (e non potrebbe essere diversamente) eco fedelissima di desideri ed aspirazioni delle alte gerar chie ecclesiastiche.” Concludendo, il sacerdote siciliano ri badiva il suo fatalismo allorché affermava che il primo an no di governo fascista aveva dimostrato che “le critiche e le opposizioni, contenute nel loro ruolo dalla forza degli av venimenti, possono illuminare, stimolare, correggere, ma, date le presenti condizioni generali, non arrivano a impedi re un esperimento che ormai molti ritengono debba fare il suo corso nella vita politica italiana.” Ed ancora più rica deva in esso quando, esaminando l’influenza del nazionali smo sul fascismo (che riteneva preponderante), sosteneva che il primo “sviluppa l'industria parassita, aumenta le spese militari, crea un’economia di speculazione particolarista in nome della nazione. La questione economica, spe cialmente nei paesi a scarsa produzione e senza materie pri me, come l'Italia [...], determina in un secondo tempo una controreazione per depauperamento delle classi medie, dei piccoli redditieri, degli impiegati e dei lavoratori, cioè del le cospicue masse popolari. Nella controreazione democra tica, le masse proletarie socialistoidi saranno forse l’elemen to di giuoco dei plutocrati, pur nella persuasione che esse servono alla propria ideologia; il socialismo più acceso ca drà nelle convulsioni comuniste, a vantaggio della reazio ne conservatrice; finché le forze delle classi medie della nazione non diventeranno la nuova classe politica dirigen te.” Era, forse, la nuova classe dirigente che avrebbe do vuto portare la patria “ad un periodo di pace interna e di sviluppo estero, quale le condizioni morali dei popoli euro pei ci danno diritto,” e lo Sturzo scorgeva sintomi incorag gianti nel fenomeno “nuovo e notevole” rappresentato dall’“orientamento dello spirito pubblico verso i valori intel lettuali morali religiosi” e nel superamento dell’“incantesimo di pregiudizi e di avversioni” che era stata la caratteri stica della “vecchia mentalità anticlericale della borghesia.” Insomma, pensava che si potesse assistere, dopo il fascismo, al sorgere di una società in cui si fossero sviluppati “i ger mi interiori” di un “avvicinamento spirituale dell'anima italiana verso la Chiesa,” che non avrebbe dovuto susci tare, nelle masse lavoratrici e nelle correnti democratiche, il timore che essa volesse appoggiare, “con la sua influen za, correnti reazionarie o tentativi dittatoriali.” Ma, intan to, si sarebbe potuto (e dovuto) chiedere, che cosa era pronto e disposto a fare egli per peparare, o affrettare, l’avvento di una tale società, rigenerata dai “valori intel137
lettuali morali religiosi”? Nulla, poiché, oltre al suo atteg giamento fatalistico, questa visione si poneva in una sfe ra extra o meta-politica, priva di un serio e concreto ag gancio con la rugosa ed effettiva realtà. Probabilmente, erano più ancorate a questa realtà le osservazioni di un certo G. Sergi (su “Civitas” del 16 marzo ’24), il quale si chiedeva: “E il futuro?” cercando di formulare la seguente risposta: “Qui è più che mai dif ficile avere concetti che meritino di essere esposti. Non vogliamo omettere tuttavia dall’esprimere il pensiero che mentre riteniamo definitivamente morto e sepolto il libe ralismo, e sorpassati quindi tutti i rapporti positivi o nega tivi che a lui ci legarono nello svolgimento della nostra azione pubblica, non riteniamo che possa escludersi una futura riviviscenza dell’idea liberale il giorno in cui l’Italia sentirà il bisogno, e si troverà in grado, di darsi un regime degno di uomini liberi. Non saranno certo più né i Salandra, né i Giolitti, né gli Orlando, né i De Nicola, né i Giovannini [che era entrato nel listone fascista], gli uomini a cui l’Italia si sentirà indotta a guardare: ma certi postu lati di giustizia, di libertà, di uguaglianza dei cittadini, di impero della legge, di ordinamenti riposanti sul consenso popolare, di inalienabili garanzie costituzionali, di control lo sulla pubblica amministrazione, dovranno risorgere. Al lora, il Partito popolare, che avrà saputo sopravvivere, potrà trovare nei nuovi liberali degli alleati ai quali unir si per scrivere la prima pagina di un nuovo periodo della vita nazionale.” Si trattava, senza dubbio, di riflessioni che anticipavano i tempi, perché, nell’immediato secondo dopoguerra, la democrazia cristiana (continuatrice, ma so lo in parte, del partito popolare, anche se perdureranno alcuni dati di fondo essenziali), molto spesso sarà allea ta dei liberalcrociani - dalla vocazione conservatrice per la loro nostalgia della democrazia prefascista - e accet terà dalla tradizionale politica economica liberistica di stampo ottocentesco le linee della sua condotta in tale campo (non avendone una propria). Ma i popolari, in tal modo, più che scrivere, con i “nuovi liberali,” la “prima pagina di un nuovo periodo della nostra vita nazionale,” diventeranno i continuatori della vecchia Italia, che era riuscita sempre a catturare il partito o le correnti politi che che, di volta in volta, salivano al potere, facendo si che diventassero l’espressione del clientelismo parassitario del mezzogiorno e, nel tempo stesso, dei potenti ceti economici del settentrione, anch’essi sostanzialmente parassitari: en138
trambi, infatti, hanno costantemente ricercato il sostegno dello Stato e di chi deteneva - o detiene - il potere per sfruttare le scarse risorse che un paese, povero, poteva offrire. Invece, lo Sturzo condannava “il principio teorico del nazionalismo,” in quanto aveva un fondamento pagano ed era immorale perché faceva “la nazione primo-etico e ragio ne assoluta della società umana,” e sottoponeva “l’individuo alla legge ferrea di un dominio collettivo” e celebrava “lo sforzo moralizzatore del cristianesimo,” che, “sorto in nome di una divina fraternità,” si sforzava di vincere “tutti gli egoismi (compreso quello nazionalista) che, nel tempo e nello spazio, predominano sugli uomini, e di trasformare a bene le costruzioni inique del mondo; perché totus mundus in maligno positus est." II cristianesimo, secondo lui, era destinato “a salvare di nuovo l’Europa dall’imbarba rimento e dalla rovina,” e il cattolicismo, “non rimpiccioli to come una religione nazionale, né favorito come uno stru mento di potere, né legato alle sorti di alcune nazioni con tro delle altre,” avrebbe dovuto continuare “la sua missio ne nel mondo, mentre la lotta fra i popoli segnerà le sue tregue e l’internazionalismo svilupperà i suoi progressi.” Come si vede, l’Italia, per don Sturzo, sarebbe uscita quasi rigenerata dalla triste esperienza del nazional-fascismo, per ché finalmente ricongiunta ad un rinnovato e purifi cato cristianesimo, che non approvava le violenze, né con sentiva l’oppressione dei deboli né era connivente con i vio latori delle leggi umane e divine. Era un cristianesimo ri chiamato alle origini e fautore di progresso e di intese so pranazionali fra i popoli, ed è forse per tale motivo che le sue previsioni del futuro - pur se utopistiche, perché si ba savano su una rigenerazione della Chiesa cattolica, non po co difficile da condurre a termine - potevano apparire più attraenti che non la avvilente alleanza dei popolari con i fascisti delineata, con convinzione, dal Sergi. Alleanza che, fra l’altro, nel momento in cui veniva avanzata, era in buo na parte superata nei riguardi di un dibattito che si svolgeva intenso sulla stessa rivista “Civitas” e ad opera dello Stur zo, rifugiatosi a Parigi e a Londra, dove era arrivato il 25 ottobre ’24, sulla possibilità di un accordo fra i popolari e i socialisti, quale il sacerdote siciliano vedeva realizzato “da parecchio tempo,” in Germania, fra socialdemocrati ci e centro cattolico. E, in Italia, egli affermava in una in tervista a “La Stampa” (pubblicata il 14 aprile '25), socia listi e popolari stavano a fianco sull’Aventino. E prosegui139
va: “Un gran giorno per la democrazia europea sarà quel lo in cui i socialisti del continente abbandoneranno i po stulati anticlericali o almeno antireligiosi. Forse che un abbandono analogo non venne consentito, in altri tempi, dal liberalismo?” E anche si chiedeva: “Popolari e demo cratici hanno fatto un nuovo passo avanti: hanno preso posizione sul terreno della difesa costituzionale. Vorran no collocarsi lealmente sul terreno costituzionale anche i socialisti, rinunziando a un metodo rivoluzionario e a un’azione diretta incompatibili col concetto moderno del lo stato? Ecco il grande quesito. È come un Capo delle Tempeste da superare.” Era un problema arduo e diffi cile, ma la cosa importante era che si cominciasse a di scuterne, pur se un simile accordo incontrava l’opposizio ne di uomini influenti nel PP, come un De Gasperi1; ed 1 II De Gasperi riprese il problema in un articolo su “Civitas” del 1° maggio '25, articolo, peraltro, che non poteva nascondere l'imbaraz zo dei dirigenti popolari nel doversi differenziare, da un lato, dal cor porativismo di marca fascista e, dall'altro, dal p e r ic o lo di ricadere sul Partito socialista, con il quale il PP era stato costretto ad allearsi per adeguare la sua protesta contro il delitto Matteotti a quella delle altre correnti politiche. “Quando si trova che il corporativismo fascista,” egli scriveva, “ha ereditato le formule di uomini nostri come il Vogelsang e il De Mun, e si ricordi che la rappresentanza dei sindacati nel Par lamento ebbe dei ferventi sostenitori proprio nelle assemblee cattoliche internazionali d e ll'U n io n e d i F r ib u r g o , si sarebbe tentati di credere che le linee della nostra ricostruzione sociale non dovrebbero passare lon tane da quelle del sindacalismo fascista. Ma l'apparente identità riguarda solo le formule. Lo spirito che le anima e l'idea cui devono servire sono diverse: là il popolo in un rinnovato assetto di eguaglianza giuridica e di fraternità sociale, qui lo stato hegeliano nell'assolutezza del suo ca rattere e delle sue finalità.” Poi, passando a parlare dei rapporti con i socialisti, affermava che soltanto “la preminenza del problema costitu zionale” poteva spiegare “il fatto che i partiti a sfondo religioso” si tro vassero “sullo stesso fronte politico coi cosiddetti partiti di sinistra.” Ma, aggiungeva subito, mostrando la sua palese preoccupazione di differen ziare il suo partito: “non si tratta di blocco nel senso che gli individui si distacchino dal partito d'origine per assumere un colore più incerto e una rappresentanza più comprensiva, né si vuol creare forme di tran sizione cosi care ai trasformisti di tutte le ore. L'Aventino non produce il socialistoide o il clericaloide, non tende né a gentilonizzare né a massoneggiare. Mentre il fascismo crea il libero-fascista, il demo-fascista, il clerico-fascista, sgretolando e tentando di dissolvere il Partito liberale, il Partito popolare e il Partito democratico, l'Aventino rispetta i limiti organizzativi e spirituali di ciascun gruppo e al blocco degli individui so stituisce l'intesa dei partiti. Codesta non è una compromissione bloccarda vecchio stile, ma un patto federale che corrisponde ad un alto grado dell'evoluzione politica del nostro Paese.” E respingeva le critiche di tutti coloro che avevano assistito “impassibili all’imbarco della tórba multicolore nella barca governativa,” ma che, ora, menavano “tanto fa risaico scalpore perché i popolari, nel combattimento politico imposto dal fascismo, si trovano sulla stessa linea tattica dei socialisti. Qui nes suno ha abbassato bandiera,” precisava ancora con puntiglio, “nessuno 140
era un problema che soltanto le opportunità offerte dal dopoguerra, sempre perdute dai partiti democratici, po tevano dare la forza di affrontare. L’Italia, in cui si era realizzata una rivoluzione totalitaria (difesa da parecchi in Inghilterra come l’unico modo per vincere il pericolo bolscevico, al che don Sturzo ribatteva, quasi con sdegno, che “l’Italia non è né può diventare comunista: un paese che vive di agricoltura intensiva, che ha inoltre diffusa la piccola proprietà fondiaria, che ha un artigianato svi luppatissimo e una media borghesia laboriosa, non è af fatto un paese bolscevizzabile”), era pure la nazione per la quale sarebbe stato più urgente giungere ad una tale collaborazione, perché in essa si manifestavano aperta mente le gravi conseguenze del conflitto mondiale, conse guenze che consistevano nel dilemma: “se lo stato moderno, che si va sviluppando sotto la pressione economica del dopoguerra, possa ancora mantenersi nel complesso uno stato economicamente liberale, ovvero debba accentuare la caratteristica di uno stato economicamente interventi sta,” con tutte le soluzioni richieste da “questa specie di socialismo di stato” (e che non erano altro che le solu zioni imposte dal fascismo). Anche il sacerdote siciliano, dunque, prospettava, co me ideale, uno “stato economicamente liberale” e ripe teva, in un’altra intervista per l’“Echo de Paris,” non pubblicata ma uscita poi su “Il Popolo” nel luglio '25, ha mai lasciato supporre che il mutuo patto di tolleranza civile compor ti la transigenza nella dottrina e un minor impegno nell'applicarla. Quando i popolari hanno ospitato le opposizioni, non hanno avuto biso gno di tirare un velo sul Crocifisso appeso nelle loro sedi; e la figura del Cristo ha dominato sulle assemblee che invocavano la libertà. La li bertà di vivere e di battersi per un ideale politico, la libertà di riunirsi e di associarsi per il progresso sociale, la libertà di servire la Patria secondo la propria fede, la libertà che prima delle leggi al cittadino fu garantita all’uomo dal Cristianesimo, il quale, di fronte all'antico ce sarismo, rivendicò i diritti imprescrittibili della personalità umana. Se questa libertà non verrà riconquistata, la Democrazia Cristiana fu un sogno della nostra giovinezza che non ha ritorni, la riforma sociale una costruzione tolemaica e l’enciclica che ci parlò delle C o s e N u o v e [la D e r e r u m t i o v a r u m di Leone XIII, del 1891] un epitaffio sulla tomba di un’epica ormai sepolta.” Abbiamo ritenuto opportuno riportare tutto questo lungo passo per due motivi: il primo perché esso sta ad indicare come il De Gasperi abbia voluto dedicare molto più spazio a p u r g a r e i popolari dall'accusa di avere stretto un accordo con i socialisti che non a liberarli dalla supposizione, che poteva essere nata in taluno, di un rapporto fra le linee cristiane della ricostruzione sociale e il sindacali smo fascista. Il secondo perché palesa lo sforzo del dirigente popolare (allora segretario del suo partito) di rivestire di un manto cattolico-cri stiano l ’Aventino, sottraendolo ad altre eventuali influenze di diverse correnti politiche, e, naturalmente, soprattutto di quella socialista. •141
che “il Partito popolare ha sempre sostenuto la necessi tà di 'governi di coalizione’ contro l’idea di ‘governi di partito,’ e ciò anche perché il mio partito sostiene, an che oggi, il sistema della rappresentanza proporzionale. Con questo piano, quando avverrà che le opposizioni do vranno succedere all’attuale governo,” aggiungeva, “il Partito popolare piglierà il suo posto nella coalizione dei partiti, se ciò corrisponderà al suo piano e al suo pro gramma. Il Partito popolare sente di potersi assumere l’one re del potere, nell’interesse della vita del paese e per la dife sa delle libertà costituzionali e dei principi di democrazia cristiana.” Queste dichiarazioni, cosi esplicite, in favore di “governi di coalizione” o di governi retti dai popolari, suonano alquanto strane, perché rivelano che don Sturzo, nell’esilio, ha rotto ogni legame che lo teneva avvinto ad una politica e ad una posizione fatalistiche: ha deciso con risolutezza, forse perché l’esperienza di altri paesi gli ha in dicato la strada per contribuire a fare uscire l’Italia dalla tormentante soggezione alla dittatura. Ma ancora più stra na appare la dichiarazione secondo cui il suo partito sa rebbe stato disposto ad “assumere l’onere del potere,” dichiarazione che negava radicalmente l’atteggiamento te nuto dai popolari nel recente passato, allorché, nel ’22, du rante la crisi del governo Bonomi provocata dal PP, era stato designato quale nuovo presidente del consiglio, se condo le regole parlamentari, un uomo di questo partito, il Meda, il quale, però, si era rifiutato di accettare, quasi sicuramente perché, perdurando il dissidio fra lo Stato e la Chiesa, un cattolico primo ministro si sarebbe trovato nella condizione di rispettare le esigenze laiche proprie dello Stato oppure di obbedire alle direttive che gli sareb bero giunte dal Vaticano. Il dissidio fu, poi, risolto, come è noto, per mezzo dei patti lateranensi, che consentirono ad uomini politici che si richiamavano “ai principi cristia ni nel campo etico e sociale” di salire alle più alte cariche del paese. Ma don Sturzo non avvertiva molto un simile ostacolo ed ancora nel luglio ’25 ribadiva che il partito popolare era un “partito democratico, e nessuno dubita del suo lealismo alla monarchia costituzionale,” e che si sape va bene “che il partito popolare non dipende dal Vatica no né dai vescovi, ma assume da sé le proprie responsa bilità politiche, poiché la chiesa è al disopra della poli tica.” Contemporaneamente a questa eventuale soluzione del problema italiano - che egli ora intravedeva abbastanza 142
chiaramente -, si faceva, in lui, più netta una interpretazio ne che si potrebbe dire classista della crisi che aveva at traversato la penisola: “Il fenomeno fascista,” dichiara va al “Daily News,” sempre nel luglio '25, “non può spie garsi che come un attacco reazionario delle classi possi denti (che usarono il fascismo come loro strumento) con tro le istituzioni democratiche e le classi lavoratrici. In tale attacco hanno fallito. Oggi il fascismo cerca di so pravvivere. Tenta diversioni antiliberali e anticostituzio nali. Abbonda in manifestazioni estremiste poiché cerca invano mezzi per ottenere il consenso del paese (che non ha intero) e per dare consistenza al suo dominio.” In que sta nuova prospettiva anche il giudizio sugli ex-amici di partito, diventava aspro e duro, come forse non lo era stato per il passato, quando accomunava i cattolici di de stra, che erano subito emigrati verso i lidi fascisti, con le altre forze che sostenevano il regime: “Il fascismo al go verno non è un contenuto di programmi e di idee: è un 'adattamento' di uomini, che si muovono entro un trian golo ben disegnato: fascismo estremista; interessi capita listici; filo-clericalismo.” Tuttavia, anche in questo mo mento, non riusciva ad evitare un velo di fatalismo, come gli accadeva allorché prendeva le difese dell’opposizione italiana, che aveva fatto l’ultimo tentativo di scalzare il fascismo con l’Aventino, un tentativo fallito, alimentando l'accusa di molti di essere “forte in parole e debole in azione.” Il che non era affatto vero - egli esclamava con appassionata energia -, perché anzi quella che era conside rata una accusa diventava un merito dell’opposizione stes sa, che, senza “offrire alcun pretesto per rappresaglie,” voleva impedire che la reazione si scatenasse “ancor più furiosamente” e favorire una dissoluzione del fascismo ad opera di “forze morali e ideali” e non della violenza e della rivoluzione. “In ciò,” concludeva, “risiede la forza dei partiti di opposizione. È per questo che l’opposizione si astiene da gesti inutili; è per questo che subisce la per secuzione con serenità, avendo fede nell’avvenire.” Era la posizione tenuta dagli aventiniani in esilio, che non vollero mai ammettere di essere stati sconfitti nella lotta impari, che li aveva visti opporre all'azione degli avversari le parole e la statica fede in un avvenire migliore, che avrebbe dovuto scaturire dalle loro “forze morali e ideali”; era, inoltre, la posizione tipica della generazione educata nel clima del positivismo ottocentesco, che, però, veniva vi gorosamente contestata dalla nuova generazione. 143
Capitolo nono
II Partito comunista e Gramsci di fronte alla crisi della piccola borghesia e del fascismo
Un netto contrasto con lo Sturzo si poteva avvertire in uno dei più ricchi ingegni di questa nuova generazione, in An tonio Gramsci, tutto proteso, invece, aìl’agirc più che al con templare. In un articolo, non firmato, su “L’Ordine nuovo” del 15 marzo '24 (Contro il pessimismo), Gramsci scriveva che occorreva reagire “energicamente contro il pessimismo di alcuni gruppi del nostro partito, anche dei più responsa bili e qualificati,” perché il pessimismo voleva dire inerzia, mancanza di prontezza nelle decisioni, stanco adattamento alla situazione in cui il fascismo di Mussolini, con il suo “roteare degli occhi nelle orbite” e con il suo “pugno sem pre chiuso nella minaccia,” aveva rinchiuso l’Italia, oppure voleva anche dire, nell’incapacità di scorgere le vie aperte per una iniziativa individuale e collettiva, una indifferente o titubante nostalgia del passato: “Il pessimismo prende prevalentemente questo tono: ritorniamo a una situazione pre-Livorno, dovremo rifare lo stesso lavoro che abbiamo fatto prima di Livorno e che credevamo finito. Bisogna di mostrare,” egli proseguiva, “a ogni compagno come sia er rata politicamente e teoricamente questa posizione [...]. Non ci troveremo più in una situazione pre-Livorno, perché la si tuazione mondiale e italiana non è, nel 1924, quella del 1920, perché noi stessi non siamo più quelli del 1920 e non lo vor remmo mai più ridiventare. Perché la classe operaia ita liana è molto mutata, e non sarà più la cosa più semplice di questo mondo farle rioccupare le fabbriche con, per can noni, dei tubi da stufa.” E la sua critica e la sua polemica contro l’occupazione delle fabbriche era continua, tanto da rivelare quanto si fosse ormai allontanato dalle posizioni che aveva sostenuto nel 1919-20, allorché, su “L’Ordine nuovo,” aveva cercato di “tradurre in linguaggio storico italiano i principali postulati della dottrina e della tattica dell'Interna zionale comunista”: il che significava aver sostenuto “la 144
parola d'ordine dei consigli di fabbrica e del controllo sulla produzione, cioè l’organizzazione della massa di tutti i pro duttori per l’espropriazione degli espropriatori, per la sosti tuzione del proletariato nel governo dell’industria e quindi, necessariamente, dello Stato.” Il fatto era che Gramsci, qua si rifiutandosi di trarre i dovuti insegnamenti da quel ripie gamento della rivoluzione russa su se stessa quale era stato indicato dalla “Nuova politica economica” (NEP) e che era stato reso più evidente dalla morte di Lenin, pensava che si fosse entrati, soprattutto “oggi [nel 1924], nel periodo del la rivoluzione mondiale” e considerava una sconfitta del fa scismo e della reazione (anzi, “se vogliamo essere sinceri, l’unica sconfitta fisica e ideologica del fascismo e della rea zione in questi tre anni di storia italiana”) l’essere riuscito a strappare dalla “ganga del Partito socialista dei blocchi” e dall’"amorfa gelatina socialista,” alcuni nuclei, “i quali af fermavano di aver fede, nonostante tutto, nella rivoluzione mondiale, i quali, coi fatti e non con le parole, che pare brucino più dei fatti, riconoscevano di aver errato nel 1920-21-22.” E, inoltre, il fatto era, in particolare, che egli voleva si riprendere il programma e la posizione assunta negli anni 1919-20, ma adattarli alla “situazione oggi esistente in Italia.” Una situazione che gli diceva come “il problema urgente, la parola d’ordine necessaria [fosse] quella del governo ope raio e contadino: si tratta di popolarizzarla, di adeguarla alle condizioni concrete italiane, di dimostrare come essa scaturisca da ogni episodio della nostra vita nazionale, co me essa riassuma e contenga in sé tutte le rivendicazioni della molteplicità di partiti e di tendenze in cui il fascismo ha disgregato la volontà politica della classe operaia, ma specialmente delle masse contadine.” Si trattava, forse, di una specie di riscoperta, dopo la fase, per cosi dire, operai stica del 1920 (che aveva portato alla scissione di Livorno dal Partito socialista, e anche alla sconfitta se, nella autocriti ca del '24, Gramsci diceva che “noi ci limitammo [allora] a battere sulle questioni formali, di pura logica, di pura coe renza, e fummo sconfitti, perché la maggioranza del prole tariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi”), della più importante lezione leniniana, consisten te, come aveva già scritto nel '17 in un articolo di commen to alla rivoluzione russa, Rivolta contro il capitale, e come ripeteva ancora nel '24, in una costante lotta “per compren dere e interpretare i bisogni e le aspirazioni di una classe contadina innumerevole, dispersa su un immenso territo 145
rio.” Ora, in Italia, non esistevano le stesse condizioni economico-sociali oggettive della Russia degli anni '10, e c’era, anzi, una classe operaia che, pur non avendo la prevalenza, manteneva tuttavia una sua importanza nella vita economica del paese. Ecco, dunque, la nuova formula escogitata da Gramsci - una formula adeguata alla situazione italiana del governo operaio e contadino. Ma, in un primo momento (ad esempio, nell’articolo su “L’Unità” del 22 febbraio ’24), egli era convinto che le masse contadine fossero influen zate soltanto dalla destra (che era rimasta nel PP dopo che i clericali reazionari avevano raggiunto le file delle ca micie nere) e dal “cosiddetto 'centro,’” ma, in particolare, dalla prima, la quale era composta “di professionisti, di borghesi medi e piccoli,” che, nel dopoguerra, avevano “eser citato verso le masse popolari una funzione analoga a quel la che i reazionari cattolici esercitavano verso le masse aderenti ad essi attraverso l’organizzazione della Chiesa.” Era stata essa a fare accettare a quelle masse un program ma riformista nei riguardi dello Stato italiano, facendo loro credere “che il soddisfacimento dei loro bisogni di libera zione economica e politica si potesse ottenere senza spezzare la macchina dello Stato, senza sostituire a uno Stato bor ghese, sedicente liberale, uno Stato degli operai e dei con tadini, senza porre agli operai e ai contadini il problema della conquista del potere politico. Questo gruppo è certa mente responsabile della sconfitta di cui i contadini [popo lari] subiscono oggi le conseguenze tanto quanto i contadini socialisti; e il suo disagio politico diventa di giorno in gior no più grande, perché di giorno in giorno i contadini stessi si stanno convincendo che oggi un programma ‘riformista’ non ha più nessun significato.” Un programma “riformista” che era sfociato nel fascismo, il quale mirava a dare alla dittatura di classe della borghesia una struttura e una sta bilità permanenti: pertanto, tutti coloro che avevano un in teresse economico di classe da far valere e da difendere, tro vavano dinanzi a sé “sbarrata la via inesorabilmente. Ogni contadino popolare per ciò deve oggi concludere quello che noi concludiamo: che nessuna conquista è possibile, se non come conseguenza di una lotta che si proponga di togliere di mezzo l’ostacolo unico della dittatura del fascismo. Il gruppo borghese che ha inquadrato e politicamente diretto la mas sa popolare nel dopoguerra, viene in questo modo ad aver esaurito la propria funzione.” La conclusione che Gramsci traeva da una simile analisi era che l’effettiva crisi del PP risiedeva nel fatto che il suo gruppo dirigente non era più 146 /
capace di comprendere e di risolvere i problemi che assilla vano le masse che lo seguivano; ma non per questo il Par tito popolare si sarebbe potuto facilmente rassegnare a per dere l’influenza che esercitava sulle masse stesse, “a prescin dere dalla vita che queste masse contadine conducono e dal la mentalità che in esse si crea.” Cosi, diventava inevitabile che il blando atteggiamento di opposizione al fascismo doves se apparire, e venire erroneamente interpretato, come “l’in dizio di intenzione di lotta che nei capi non esiste.” Secon do Gramsci, tutto ciò rendeva “inevitabile che il dissidio debba finire per portare a crisi ben più profonde delle attuali,” crisi, peraltro, che avrebbero potuto essere evitate, con una “soluzione chiarificatrice,” soltanto quando, nel seno del partito, fosse sorto un gruppo che avesse avuto “il coraggio di riconoscere che il programma ‘riformista’ degli anni passati non ha più nessun valore oggi, e che, se è vero che le masse hanno oggi bisogno di legalità e di li bertà per riprendere e sviluppare le loro conquiste economi che, è pur vero che libertà e legalità oggi si acquistano solo abbattendo la dittatura del fascismo. Anche per i popolari,” concludeva, “o almeno per quelli che operano nell’inte resse delle masse che li sostengono, il programma ‘rifor mista’ deve risolversi in un programma di lotta, e di lotta non per conquiste e rivendicazioni personali.” Gramsci, con questi giudizi - di cui vedremo ben presto i limiti -, definiva, con grande chiarezza, quali erano tutte le esitazioni, le incertezze e le ambiguità della linea politi ca seguita da un partito che voleva - come il Partito po polare nel primo dopoguerra e altri partiti che si richia mavano, o si richiamano, al magistero e alla dottrina della Chiesa - rappresentare interessi divergenti - della borghe sia o del proletariato e soprattutto dei contadini -, che voleva, cioè, essere un partito interclassista, una specie di ircocervo che non dovrebbe assolutamente esistere nel la vita politica, perché questa possa svolgersi con una sua lineare limpidezza e non con tortuosi e inammissibili com promessi. Infatti, quello che Gramsci diceva il “riformi smo” dei popolari non era altro che l’abitudine al compro messo, al trasformismo appunto, per conciliare interessi contrastanti e spesso opposti. Ma anche il pensiero di Gramsci non era, in questa fase, esente da debolezze, in quanto negava o respingeva per sé e per il suo partito ogni possibilità di intervenire per favorire l'auspicata evo luzione delle masse contadine, e stava ad aspettare che il loro disagio divenisse “di giorno in giorno più grande” fino 147
a convincersi, in piena autonomia e da sole, che un pro gramma “riformista” non aveva più alcun senso per loro. Inoltre, la linea che egli indicava era tutta basata sulla fiducia che la “soluzione chiarificatrice” scaturisse dal seno dello stesso Partito popolare, mediante l’azione co raggiosa di un gruppo che riconoscesse spontaneamente gli errori compiuti, di un gruppo che, poi, avrebbe dovuto agire sulle masse, conducendole alla lotta contro il fasci smo in nome di una libertà e di una legalità che lasciasse ro intravvedere lo sviluppo delle conquiste economiche. Si sarebbe trattato, insomma, di una sovrapposizione della volontà di pochi su quella di molti, di una escrescenza che poteva sorgere come poteva rimanere nascosta nel pro fondo terreno, e che, ad ogni modo, rifiutava un rapporto organico e storico fra il partito e le classi lavoratrici, e che anzi si accontentava di un rapporto puramente gerarchi co, dall’alto, poiché considerava queste prive di iniziativa e di autonoma volontà. Ma l’aspetto più grave di tale analisi gramsciana era che essa finiva col rendere impossibile qual siasi partecipazione attiva del suo partito al processo di pro gressiva liberazione dei contadini, delegando un compito cosi importante ad altre forze politiche. Ma questo periodo doveva durare poco, e già il 2 luglio del '24, in un articolo su “L’Unità” (La crisi della piccola borghesia), si poteva dire che Gramsci avesse trovato la strada per uscire da quell’impasse, di cui, molto probabil mente, non si era neppure reso conto. E l’aveva trovata nelle conseguenze dell'assassinio di Matteotti, che aveva generato una crisi economico-politica “tuttora in svilup po” e di cui non si potevano prevedere ancora “quali sa ranno i suoi sbocchi conclusivi.” Questo perché era una crisi che presentava aspetti diversi e molteplici: “Rileviamo innanzi tutto,” proseguiva, “la lotta che si è riaccesa in torno al governo fra forze avverse del mondo plutocratico e finanziario per la conquista da parte degli uni e la con servazione da parte degli altri di un’influenza preponderan te nel governo dello Stato. Alla oligarchia finanziaria fa cente capo alla Banca commerciale si contrappongono quel le forze che un tempo si raccoglievano intorno alla fallita Banca di sconto ed oggi tendono a ricostituire un proprio organismo finanziario che dovrebbe scalzare la predomi nante influenza della prima. La loro parola d’ordine è 'co stituzione di un governo di ricostruzione nazionale,’ con la eliminazione della zavorra (si intendono i patrocinatori della attuale politica finanziaria). Si tratta, in sostanza, 148
di un gruppo di pescicani non meno nefasti degli altri, che, sotto la maschera dell’indignazione per l’assassinio di Mat teotti ed in nome della ‘giustizia,’ muovono all’arrembag gio delle casse dello Stato. Il momento è buono e natural mente cercano di non lasciarselo sfuggire.” Tuttavia, que sto non era certo quello che attirava maggiormente l’at tenzione di Gramsci, poiché a lui premeva mettere in ri lievo, dal punto di vista della classe lavoratrice e come una cosa che interessava direttamente questa, “la ripercus sione fortissima degli avvenimenti di questi giorni” sui “ceti medi e piccolo-borghesi: la crisi della piccola borghe sia precipita.” Chi avesse riflettuto sulle origini e sulla natura sociale del fascismo, avrebbe capito subito la no tevole importanza di tale nuovo fattore, che veniva a sgre tolare “le basi della dominazione fascista.” L'“improvviso e radicale spostamento dell'opinione pubblica” (ed anche inaspettato e impensato, aggiungeremmo noi), avrebbe do vuto porre i “partiti della cosiddetta ‘opposizione costitu zionale'” in prima fila nella lotta politica: cosa di cui Gramsci, come meglio vedremo fra breve, dubitava forte mente, sicché tutta la responsabilità dell'azione contro il regime ricadeva sul “campo operaio,” al quale non era mancata - sempre secondo Gramsci - “la immediata ripercussione di questo spostamento di forze” avvenuto nelle file avversarie. “Il proletariato,” scriveva con la soddisfa zione che gli proveniva dall’aver finalmente individuato la soluzione al problema che l'aveva tormentato, “ha oggi la sensazione di non essere più isolato nella lotta contro il fascismo e ciò, oltre all’immutato spirito antifascista che lo anima, determina nell’animo suo la convinzione che la dittatura fascista potrà essere abbattuta ed entro un pe riodo di tempo assai più breve di quanto non si sia pen sato per il passato. Il fatto che la rivolta morale della po polazione tutta contro il fascismo [dopo il delitto Matteot ti], nella classe operaia si è manifestata con sia pure parziali scioperi, come forma energica della lotta; l’aver sen tito il bisogno e l’aver ritenuto possibile, sotto certe con dizioni, lo sciopero generale nazionale contro il fascismo, dimostra che la situazione va mutando con una rapidità del tutto imprevista. Chi ha dei dubbi in proposito vada fra gli operai e sentirà come sono accolti i malinconici comu nicati della Confederazione generale del lavoro imploran ti la calma, nei quali si definiscono ‘elementi irresponsa bili’ ed 'agenti provocatori’ quanti fanno propaganda per 149
l'azione: questo linguaggio eravamo abituati un tempo a leggerlo nei comunicati polizieschi...” La realtà era che Gramsci accomunava i dirigenti ri formisti della Confederazione del lavoro con le altre cor renti politiche che facevano parte, come diceva con un certo disprezzo, dell'" impotenza dell’opposizione costitu zionale,” impotenza che si era rivelata particolarmente grave e insanabile proprio in seguito all’uccisione di Mat teotti. Erano, quelli di tale opposizione, partiti che, con una larvata parvenza di resistenza al regime delle camicie ne re, cercavano “evidentemente di attirare a sé la piccola borghesia ed in parte quegli strati della borghesia, che, vivendo ai margini della plutocrazia dominante, risentono in parte le conseguenze del suo predominio assoluto e schiacciante nella vita economica e finanziaria del paese. Essi tendono verso sistemi meno dittatoriali di governo.” Avevano conseguito, con l’Aventino, una prima base che avrebbe potuto rappresentare la premessa per condurre una lotta più a fondo contro il fascismo, ma era stato appun to in quel momento che si era rivelato quanto la loro azione fosse incerta, equivoca ed insufficiente, poiché rifletteva, “in sostanza, l’impotenza della piccola borghesia ad affron tare da sola la lotta contro il fascismo, impotenza deter minata da un complesso di ragioni, dalle quali deriva l'at teggiamento caratteristico di questi ceti eternamente oscil lanti fra il capitalismo ed il proletariato.” Perciò, secondo Gramsci (a stare almeno a ciò che dice in questo articolo), la piccola borghesia sarebbe stata, “nel passato,” attirata ed egemonizzata dai partiti dell’opposi zione costituzionale, i quali avrebbero fatto leva sul suo desiderio-volontà di sottrarsi al “predominio assoluto e schiacciante” della plutocrazia dominante. Ma rimaneva, a questo punto, scoperto il modo come quella piccola bor ghesia era pervenuta alla lotta contro il fascismo, a meno che non si voglia ammettere uno stretto rapporto, quasi una fusione - cosi parrebbe - fra essa e i partiti di oppo sizione, la cui deprecata impotenza proveniva dalla impo tenza congenita della stessa piccola borghesia. Questa era sempre oscillante fra il capitalismo e il proletariato e sper duta nella illusione di poter “risolvere la lotta contro il fa scismo sul terreno parlamentare,” dimenticando che la na tura fondamentale del regime dominante era la dittatura ar mata e che la sua vera essenza era costituita “dalle forze armate operanti direttamente per conto della plutocrazia capitalistica e degli agrari.” Ecco perché - Gramsci affer 150
mava con forza - qualsiasi azione che si fosse mantenuta soltanto sul piano parlamentare sarebbe stata impotente: “Qualunque sia il carattere del governo che potesse deri vare, si tratti del rimpasto del governo di Mussolini o del l’avvento di un governo cosiddetto democratico (ciò che d’altronde è assai difficile), nessuna garanzia potrà avere la classe operaia che i suoi interessi ed i suoi diritti più elementari saranno tutelati, anche nei limiti consentiti da uno Stato borghese e capitalista, fino a quando quelle forze [della plutocrazia e degli agrari] non saranno eli minate.” Nella convinzione, dunque, che, per vincere sul serio, sarebbe stato necessario scendere sul terreno del l’azione diretta contro tali forze, e che sarebbe stata una grave ingenuità l'affidarsi allo Stato borghese, fosse esso pure liberale e democratico (poiché anche questo non avreb be esitato “a ricorrere al loro aiuto, nel caso non si sen tisse abbastanza forte per difendere il privilegio della borghesia e mantener soggetto il proletariato”), Gramsci giungeva alla conclusione che soltanto la classe operaia avrebbe potuto condurre una reale ed effettiva opposi zione al fascismo: “[...] la classe operaia è la sola classe che possa e debba essere la guida direttiva in questa lot ta ”; per le elezioni politiche del '24, il partito comunista ave va cercato di costituire, di fronte all’opposizione costitu zionale e di fronte agli “impotenti piagnistei socialdemo cratici,” l’“opposizione operaia,” ma era rimasto solo e isolato. E veramente isolato poteva apparire Gramsci quando si rinchiudeva in queste posizioni di netta impronta ope raistica (allo stesso modo che isolati erano rimasti i la voratori metalmeccanici delle industrie del nord durante l’occupazione delle fabbriche, quando non avevano ricer cato nessuna alleanza), ma egli usciva da un simile isola mento allorché si richiamava alla realtà della sua terra, la Sardegna, ed ai suggerimenti che gli venivano dai compa gni, come G. Marcias (7 sardi e il blocco proletario, in “L’Unità,” 26 febbraio ’24). Questi sosteneva che i sar di, “popolo demograficamente e politicamente depresso,” non potevano liberarsi dagli oppressori, che non erano tutti nell’isola, perché i più potenti e grossi erano nel con tinente, se non alleandosi con il partito “più rivoluzionario” italiano. Ed aggiungeva che “la parola d’ordine del blocco operaio e contadino deve trovare i più entusiastici ade renti tra i sardi di buona fede, che vogliano veramente liberare la loro isola dalle miserie e dalle piaghe che la 151
fanno letteralmente deperire.” Pertanto, “alleanza delle masse lavoratrici sarde con il proletariato rivoluzionario del continente, per la instaurazione di un governo di ope rai e contadini. Questa è la parola intorno a cui devono stringersi i sardi che, nel 1919, hanno creduto che fosse giunto finalmente il tempo della liberazione popolare dalla schiavitù del militarismo e del protezionismo del Gover no di Roma.” E ancora G. Frangia (Comunisti della Sarde gna, all’opera!, in “L’Unità” del 21 settembre ’24) faceva notare che aveva fatto bene il PC a prendere l’iniziativa della costituzione di una Sezione italiana dell’Internazio nale dei contadini (Krestintern, creata nel '23 come un or ganismo dell'Internazionale comunista), perché tale ini ziativa avrebbe avvantaggiato non solo i contadini, che si sarebbero trovati riuniti in “una organizzazione politica spiccatamente rivoluzionaria,” la cui finalità era “il radicale sovvertimento dell’attuale ordinamento sociale che li ren de schiavi di una minoranza di sfruttatori,” ma avrebbe avvantaggiato pure gli operai industriali, che, finalmen te, “nella loro diuturna ed aspra lotta per la propria eman cipazione” si sarebbero sentiti fraternamente aiutati dai contadini. Poco dopo, il 1° dicembre, G. Carta, in “Il Seme” (Sardegna. I lavoratori della campagna) allargava il suo discorso, prendendo in esame i vari strati di contadini esistenti in Sardegna e soffermandosi particolarmente sui piccoli proprietari, che, in gran numero, lavoravano per una parte dell’anno alle dipendenze dei grossi proprietari; e ne descriveva le miserrime condizioni: “Gialli, magri, scheletrici, stanchi, laceri, coll’espressione delle privazioni sul viso; vedevansi, assieme ai braccianti sulle piazze dei paesi e delle città, domandar lavoro agli usurai delle no stre contrade. Percepivano un salario infame e di ciò i padroni profittavano per poter meglio comandare su di essi. Mangiavano solo pane ed anche in piccola quantità, poiché il salario non bastava neanche per ciò.” Le loro condizioni, però, erano migliorate fino al 1922 anche per l’influenza indiretta esercitata dalle lotte ingaggiate e vinte da altre organizzazioni isolane e continentali, ma, poi, era venuta “la reazione dei negrieri e le istituzioni della classe lavoratrice furono distrutte col ferro e col fuoco e, con esse, cessarono le agitazioni per il miglioramento dei sa lari.” In tal modo, “i piccoli proprietari di Sardegna si ac corsero che, col cessare dei movimenti operai e dei mi glioramenti di salari e coll'abbattersi della reazione fascista sui lavoratori delle fabbriche, venne nelle loro case la 152
miseria, determinata dalla crisi vinicola, granaria e casea ria, che non sono altro che un’offensiva, una reazione lar vata dei capitalisti riuniti in ‘trust’ contro i piccoli pro prietari ed i piccoli pastori.” Ecco perché i miseri lavora tori di campagna, che sostenevano la costituzione dell’As sociazione di difesa dei contadini del Mezzogiorno, alimen tavano profondi sentimenti ostili sia ai governanti in ca micia nera sia ai capitalisti, ed avevano finalmente capito che i loro interessi coincidevano “perfettamente con quelli di tutti gli sfruttati e che la loro lotta deve avere come base la guerra ai detentori delle ricchezze mercé l’unione sacra degli operai e dei contadini per l’abbattimento della borghesia e l’instaurazione del governo dei Consigli degli operai e dei contadini.” Certo, Gramsci non aveva bisogno di questi suggeri menti o di queste esortazioni, dal momento che, come ab biamo detto, l’alleanza degli operai e dei contadini rien trava perfettamente nella sua visione della lotta economicosociale e politica, avendo derivato dalla grande esperienza della rivoluzione russa e dell’intervento decisivo di Lenin, la consapevolezza della importanza dei contadini; e se ab biamo parlato di qualche suo periodo che può essere defi nito operaistico, è stato soltanto perché, ad esempio per l’ultimo, subito dopo il delitto Matteotti, egli si era preoc cupato di trarre, dal sovvertimento determinato nella vita nazionale da quell'assassinio, tutti i motivi possibili per ima eventuale azione contro il regime. Gli era sembrato, pertanto, che l’unica classe omogenea e decisa alla lotta contro il fascismo fosse quella operaia. Ma, una volta trascorso il momento opportuno per la formazione di una “opposizione operaia” e per lo sciopero generale, la situa zione non presentava più soluzioni rapide, come aveva cre duto all'inizio, ma prospettava anzi soluzioni a tempi lun ghi; era naturale, quindi, che si richiamasse all’altro mo tivo di fondo del suo pensiero, all'alleanza operai-contadi ni, che era favorita dalla crisi, in apparenza irrimediabile, delle classi medie, una crisi che, secondo lui, era la mani festazione palese di una più vasta crisi del regime capita listico, iniziata, in Italia come in tutto il mondo, con la guerra, e che non era stata affatto sanata dal fascismo: questo, con i suoi metodi repressivi, non aveva segnato affatto una ripresa e uno sviluppo dell’economia naziona le. Forse, non era del tutto esatta questa interpretazione della “crisi radicale del regime capitalistico,” perché, dopo la guerra, l’economia italiana, cosi come quella degli altri 153
paesi, aveva attraversato diversi stadi: un primo, fra il ’19 e la prima metà del '20, di boom, di elevata espansione produttiva; il secondo, dalla seconda metà del ’20 al mar zo-aprile del '22, di violenta e profonda depressione (pure questa generalizzata); infine, a partire dal superamento del la recessione, era cominciata una nuova ondata ascendente e inflazionistica, i cui effetti negativi per il ceto industriale ed agrario (inevitabili scioperi e agitazioni) erano stati bloccati dal fascismo. Senza dubbio, la società internazio nale era uscita dal conflitto con notevoli scompensi e con gravi mutamenti strutturali, e lo stesso ricorso, nel nostro paese, ad una aperta dittatura ne era stato il sintomo più evidente: ci si era trovati di fronte ad un inasprimento del le tensioni nazionalistiche che avevano generato la ten denza di ogni paese a rinchiudersi in se stesso, o, meglio, a crearsi una zona da esso controllata e sottratta alla pe netrazione di altri paesi; mentre la creazione del primo Stato comunista, oltre ad eliminare un vasto mercato che era stato sfruttato fino allora colonialisticamente per reddi tizi investimenti e per vendervi i prodotti industriali rica vandone materie prime e generi alimentari, aveva gettato un’ombra paurosa su tutte le borghesie e le classi dirigen ti conservatrici e reazionarie del vecchio continente, facen dole vivere nel continuo assillo di un dilagare del morbo. Pertanto, si era entrati in una nuova società che aveva perso del tutto l’antica sicurezza e che era costretta, per poter sperare di sopravvivere, a rendere sempre più oppri mente e pesante il controllo sulle classi inferiori e subal terne o sulle zone e sui paesi sottoposti al predominio del le zone e dei paesi più evoluti e più ricchi: in ultima ana lisi, cioè, a creare diseguaglianze insopportabili che diffi cilmente avrebbero potuto essere tenute nascoste o segre te, ma che sarebbero, o prima o dopo, scoppiate clamo rosamente. Ecco da che cosa proveniva la crisi della piccola bor ghesia, dal fatto di essere costretta a “rientrare nei ran ghi,” avrebbero detto i fascisti, a riprendere una posizio ne secondaria e anch'essa subalterna, dopo essersi illusa di avere, mediante il fascismo, fatto un passo decisivo ver so la conquista del potere e verso l’assunzione di una piena responsabilità nella conduzione politica e sociale del paese. Gramsci, in una relazione al Comitato centrale del PC del 13-14 agosto '24 (La crisi italiana), descriveva lucidamente tale stato di cose, anche se non lo inquadrava in una pro spettiva più vasta: “Si dice generalmente, e anche noi co 154
munisti siamo soliti affermare,” egli sosteneva, “che l’at tuale situazione italiana è caratterizzata dalla rovina delle classi medie: ciò è vero, ma deve essere compreso in tutto il suo significato. La rovina delle classi medie è deleteria perché il sistema capitalistico non si sviluppa, ma invece subisce una restrizione: essa non è un fenomeno a sé, che possa essere esaminato e alle cui conseguenze si possa provvedere indipendentemente dalle condizioni generali dcU’economia capitalistica; essa è la stessa crisi del regime capitalistico che non riesce più e non potrà più riuscire a soddisfare le esigenze vitali del popolo italiano, che non riesce ad assicurare alla grande massa degli italiani il pa ne e il tetto. Che la crisi delle classi medie sia oggi al primo piano è solo un fatto politico contingente, è solo la forma del periodo che appunto perciò chiamiamo ‘fasci sta.’ Perché? Perché il fascismo è sorto e si è sviluppato sul terreno di questa crisi nella sua fase incipiente, perché il fascismo ha lottato contro il proletariato ed è giunto al potere sfruttando e organizzando l'incoscienza e la pe coraggine della piccola borghesia ubriaca di odio contro la classe operaia che riusciva, con la forza della sua or ganizzazione, ad attenuare i contraccolpi della crisi capita listica nei suoi confronti. Perché il fascismo si esaurisce e muore appunto perché non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, non ha appagato nessuna speranza, non ha lenito nessuna miseria. Ha fiaccato lo slancio rivoluzio nario del proletariato, ha disperso i sindacati di classe, ha diminuito i salari e aumentato gli orari; ma ciò non basta va per assicurare una vitalità anche ristretta al sistema capitalistico; era necessario perciò anche un abbassamen to di livello delle classi medie, la spoliazione e il saccheg gio della economia piccolo-borghese e quindi la soffoca zione di ogni libertà [...]. Perché,” si chiedeva Gramsci, risalendo alle origini del fascismo e sollevando un proble ma molto interessante, a cui dava una soluzione, a nostro parere, alquanto superficiale, ma che allora, e pure in se guito, era comune a molti, “in Italia, la crisi delle classi medie ha avuto conseguenze più radicali che negli altri paesi ed ha fatto nascere e portato al potere dello Stato il fascismo? Perché da noi,” era la sua risposta, che abbiamo già ricordato altrove, “dato lo scarso sviluppo dell’industria e dato il carattere regionale dell’industria stessa, non solo la piccola borghesia è molto numerosa, ma essa è anche la sola classe ‘territorialmente’ nazionale: la crisi capitali stica aveva assunto, negli anni dopo la guerra, anche la 155
forma acuta di uno sfacelo dello Stato unitario e [...] non c'era altra soluzione che quella fascista, dopo che nel 1920 la classe operaia aveva fallito al suo compito di creare coi suoi mezzi uno Stato capace di soddisfare anche le esi genze nazionali unitarie della società italiana.” Si sarebbe potuto osservare, a proposito di quest'ultima analisi retrospettiva della nascita del fascismo, che essa era troppo semplicistica e riduttiva e che raddossare ogni responsabilità alla piccola borghesia - in base ad un giu dizio che fu, verso il 34, accolto anche da Togliatti nelle sue Lezioni sul fascismo - era tale da togliere la com plessità che è sempre inerente ad ogni evento storico. Inoltre, Gramsci avrebbe dovuto dimostrare in che cosa erano consistiti, nel 30, lo slancio rivoluzionario del prole tariato e il fallimento della classe operaia nel suo compi to di creare un nuovo Stato, che avrebbe dovuto, fra l’altro, “soddisfare le esigenze nazionali unitarie della so cietà italiana,” cioè rispondere alle richieste “di una ideo logia confusamente patriottica” e venire incontro agli av versari sul loro terreno per evitare la soluzione fascista. Ma se avesse esaminato con attenzione le vicende del 30, si sarebbe accorto che nemmeno l’occupazione delle fab briche era stato un momento rivoluzionario del proleta riato urbano, soprattutto perché troppo limitata ad una sola categoria - gli operai metalmeccanici e metallurgici -, isolata da altre categorie di lavoratori, che allora avevano un notevole peso nell’economia del paese, come quella tes sile, e del tutto dimentica delle condizioni dei contadini: in alcune città, come Torino, gli operai metalmeccanici ave vano una importante consistenza, mentre in molte altre cit tà, province e regioni della stessa Italia settentrionale era no pressoché inconsistenti (ad es., a Bergamo e provincia di fronte a circa 26.000 operai tessili stavano solo circa 800 metalmeccanici). Tuttavia, abbandoniamo una simile analisi retrospetti va e veniamo alle speranze che Gramsci vedeva spalancar si a causa della nuova crisi della piccola borghesia: una prima volta, neH’immediato dopoguerra, questa si era volta verso la destra conservatrice e reazionaria per “odio contro la classe operaia” (un altro giudizio piuttosto som mario e affrettato), ora egli sperava che la nuova crisi, dovuta ai primi anni di governo delle camicie nere, avesse contribuito a spostarla a sinistra, verso un’alleanza con le classi lavoratrici. Dal punto di vista economico, infatti, il regime fascista aveva accelerato la rovina della piccola e 156
media azienda, stritolando, con il regime fiscale, con il monopolio del credito, ecc., la piccola impresa commer ciale e industriale. Ed anche nelle campagne il processo della crisi si era rivelato “più strettamente legato con la politica fiscale dello Stato fascista. Dal 1920 ad oggi, il bi lancio medio di una famiglia di mezzadri o di piccoli pro prietari è stato gravato di un passivo di circa 700 lire per aumenti di imposte, peggioramento delle condizioni contrattuali, ecc. In modo tipico si manifesta la crisi della piccola azienda nell’Italia settentrionale e centrale. Nel Mez zogiorno intervengono nuovi fattori, di cui il principale è l’assenza dell’emigrazione e il conseguente aumento della pressione demografica; a ciò si accompagna una diminu zione della superficie coltivata e quindi del raccolto. Il raccolto del grano è stato, l’anno scorso, di 68 milioni di quintali in tutta Italia, cioè è stato, su scala nazionale, superiore alla media, ma è stato inferiore alla media di tutta Italia; è completamente fallito nel Mezzogiorno. Le conseguenze di una tale situazione non si sono ancora ma nifestate in modo violento, perché esistono nel Mezzogiorno condizioni di economia arretrata, le quali impediscono al la crisi di rivelarsi subito in modo profondo, come avviene nei paesi di avanzato capitalismo: tuttavia, già si sono ve rificati in Sardegna episodi gravi del malcontento popola re determinato dal disagio economico.” E, questo, un passo molto interessante che si presta a diverse considerazioni: forse è una delle prime volte che Gramsci parla dei mezzadri e dei piccoli proprietari, in serendoli molto probabilmente nelle “classi medie,” e che mette in rilievo il loro profondo malessere e l'aggrava mento delle loro condizioni di vita. Ma, stranamente, limi ta l'area della “piccola azienda” al nord e al centro della penisola, quasi essa non fosse stata - allora come oggi largamente diffusa pure nel Mezzogiorno, per il quale anzi preferisce dire che “intervengono nuovi fattori”: assenza dell’emigrazione, diminuzione e fallimento del raccolto del grano. Eppure avrebbe dovuto conoscere bene la situazione della sua Sardegna, che, in quanto a diffusione della picco la proprietà contadina, era sullo stesso piano delle altre regioni meridionali; dimostrava però di essere perfetta mente al corrente del fatto che esistevano “nel Mezzogior no condizioni di economia arretrata,” di tipo ancora arcai co e feudale, il che avrebbe dovuto obbligarlo a ricercare un superamento della frantumatissima e sparsa piccola proprietà terriera, che non consentiva un reddito suffi157
dente al contadino - sempre oberato di debiti e ai limiti della pura sussistenza - e nemmeno una sia pur modesta accumulazione di capitale. Un partito che avesse voluto veramente e seriamente convogliare le forze delle campa gne insieme con quelle del proletariato urbano verso lo sbocco della “rivoluzione proletaria”, avrebbe dovuto sfor zarsi, in tutti i modi, di modificare tale arretratezza - che non permetteva nessuna coscienza di classe - e favorire la creazione di forme di conduzione cooperativa o associata. Invece, per il momento, Gramsci preferiva ritornare al compito che avrebbe dovuto svolgere la borghesia le gata alla fabbrica e alla classe operaia, quando, nella rela zione già citata più sopra, dichiarava vana la “premessa ideologica” del fascismo di volere conquistare lo Stato, perché “in Italia, come in tutti i paesi capitalistici, conqui stare lo Stato significa anzitutto conquistare la fabbrica, significa avere la capacità di superare i capitalisti nel governo delle forze produttive del paese. Ciò può essere fatto dalla classe operaia, non può essere fatto dalla piccola borghesia che non ha nessuna funzione essenziale nel campo produttivo, che, nella fabbrica, come categoria industriale, esercita una funzione prevalentemente poliziesca, non pro duttiva. La piccola borghesia può conquistare lo Stato solo alleandosi con la classe operaia, solo accettando il programma della classe operaia: sistema soviettista invece che parlamento nell’organizzazione statale, comu niSmo e non capitalismo nell'organizzazione dell'econo mia nazionale e internazionale.” Ad ogni modo - egli ribadiva - il dato fondamentale di quella fase era “la crisi della piccola borghesia e il passaggio della stra grande maggioranza di questa classe sotto la bandiera delle opposizioni.” Delle opposizioni, si noti bene, e que sto doveva portarlo a valutare più benevolmente, pur man tenendo integro il fondo negativo del suo pensiero, “il sistema delle forze democratiche antifasciste,” la cui for za maggiore consisteva nel Comitato delle opposizioni che era riuscito a imporre una certa disciplina “a tutta una gamma di partiti che va dal massimalista a quello popo lare.” E il fatto che massimalisti e popolari potessero la vorare su uno stesso piano programmatico era il tratto più caratteristico della situazione, anche se esso rendeva ine vitabilmente “lento e faticoso il processo di sviluppo degli avvenimenti e determina la tattica del complesso delle opposizioni, tattica di aspettativa, di lente manovre av volgenti, di paziente sgretolamento di tutte le posizioni del 158
governo fascista. I massimalisti, con la loro appartenenza al comitato e con l’accettazione della disciplina comune, garantiscono la passività del proletariato, assicurano la borghesia ancora esitante fra fascismo e democrazia che una azione autonoma della classe operaia non sarà più pos sibile se non molto più tardi, quando il nuovo governo sia già costituito e rafforzato, quando un nuovo governo sia già in grado di schiacciare un'insurrezione delle masse di silluse e dal fascismo e dall'antifascismo democratico. La presenza dei popolari garantisce una soluzione intermedia fascista-popolare come quella dell'ottobre 1922, che diven terebbe molto probabile, perché imposta dal Vaticano, nel caso di un distacco dei massimalisti dal blocco e di una al leanza con noi.” Egli doveva riconoscere che le forze più grandi erano state portate “alle opposizioni dai popolari e dai riformisti, che hanno largo seguito nelle città e nelle campagne. L’influenza di questi due partiti viene integrata dai costituzionali amendoliani, che portano al blocco l’ade sione di larghi strati dell’esercito, del combattentismo, del la corte.” Ma non rinunciava alla veemente polemica contro i massimalisti che, accettando di valere nel comitato quanto il partito dei contadini e i gruppi di “Rivoluzione liberale,” avevano, alla fine, assecondato lo sforzo dei partiti interme di (riformisti e costituzionali) e dei popolari di sinistra, che era stato quello di “mantenere nella stessa compagine i due estremi.” Di nuovo, non si rifiutava di ammettere che “l’atteggiamento compatto e unitario delle opposizioni” aveva registrato successi notevoli, fra cui, il più importante gli appariva l'aver provocato la crisi dei “fiancheggiatori,” l'avere cioè obbligato i liberali a differenziarsi nettamente dal fascismo ed a porgli precise condizioni. Eppure, an che in questo successo egli scorgeva un motivo di debolez za delle forze democratiche, perché proprio esso aveva spostato a destra il blocco e accentuato il carattere con servatore dell’antifascismo, sicché poteva concludere con un accento fra il sorpreso e l'amaro: “i massimalisti non si sono accorti, i massimalisti sono disposti a fare le truppe di colore non solo di Amendola e di Albertini, ma anche di Salandra e di Cadorna.” Tuttavia, sebbene la “situazione obbiettiva” non fosse sostanzialmente m utata dal delitto Matteotti in poi (poiché esistevano sempre due governi nel paese che si contendeva no la conquista dell’organizzazione statale borghese: l’e sito di tale lotta sarebbe dipeso oltre che dalla crisi gene rale e dall’atteggiamento dei partiti costituzionali, anche, 159
e soprattutto, dall'“azione del proletariato rivoluzionario guidato dal nostro partito”), Gramsci si sforzava di co gliere tutti gli elementi che gli consentissero una “politi ca di movimento” e non di stasi o di rassegnazione: la cri si della piccola borghesia (delle classi medie); il supera mento, da parte del partito comunista, della fase più acuta della crisi senza perdere il contatto con le grandi masse lavoratrici, il che gli aveva consentito di evitare di rimanere isolato e di venire “travolto dall’ondata democra tica”; la convinzione, che andava diffondendosi nella clas se lavoratrice, che il blocco aventiniano rappresentasse “un semi-fascismo che vuole riformare, addolcendola, la dittatura fascista, senza far perdere al sistema capitalistico nessuno dei benefizi che il terrore e l’illegalismo gli hanno assicurato negli ultimi anni con l’abbassamento del livello di vita del popolo italiano”; infine, la speranza che i massimalisti modificassero la loro politica e raggiungesse ro i comunisti, convincendosi che il fascismo aveva solo ri tardato la rivoluzione proletaria, non l’aveva resa impossi bile, ma aveva anzi contribuito ad allargare ed approfondi re il terreno di tale rivoluzione. Quale deve essere - si chiedeva Gramsci animato da una decisa volontà di dare alla crisi una soluzione radicalmente diversa dal compromesso che era vagheggiato dalle oppo sizioni democratiche ed antifasciste, unite nel respingere una eventuale “ondata rivoluzionaria,” proprio nel momento in cui parecchi episodi politici stavano a denotare “il di sgregamento del sistema fascista, il distacco lento ma ine sorabile dal sistema fascista di tutte le forze periferiche” - “l’atteggiamento politico e la tattica del nostro partito nella situazione attuale?” Dopo una valutazione più criti ca e più spassionata, doveva ammettere che non si era decisamente entrati in una situazione rivoluzionaria, ben sì “democratica,” poiché “le grandi masse lavoratrici so no disorganizzate, disperse, polverizzate nel popolo indi stinto. Qualunque possa essere perciò,” proseguiva, “lo svolgimento immediato della crisi, noi possiamo prevede re solo un miglioramento nella posizione politica della classe operaia, non una sua lotta vittoriosa per il potere. Il compito essenziale del nostro partito consiste nella con quista della maggioranza della classe lavoratrice, la fase che attraversiamo non è quella della lotta diretta per il potere, ma una fase preparatoria, di transizione alla lot ta per il potere, una fase insomma di agitazione, di propa ganda, di organizzazione.” La realtà era che egli aveva 160
tratto “molti insegnamenti” dalla crisi Matteotti, la quale aveva fatto capire “che le masse, dopo tre anni di terrore e di oppressione, sono diventate molto prudenti e non vo gliono fare il passo più lungo della gamba. Questa pruden za si chiama riformismo, si chiama massimalismo, si chia ma ‘blocco delle opposizioni.' Essa è destinata a scompa rire, certamente, e anche in un periodo di tempo non lun go; ma intanto esiste e può essere superata solo se noi, volta per volta, in ogni occasione, in ogni momento, pur andando avanti, non perderemo il contatto con l’insieme della classe lavoratrice.” Confessava, insomma, che le ulti me drammatiche vicende non avevano fatto altro che raf forzare quelle correnti politiche contro cui si batteva, e la tattica che proponeva come l’unica valida al suo partito era difficile e complessa, dato che consisteva in una lotta, a sinistra, contro i gruppi e le tendenze “che vogliono, per fanatismo, forzare la situazione” e far saltare al pro letariato la “fase di transizione,” e, a destra, contro chi proponeva un compromesso con le opposizioni e ten tava di intralciare “gli sviluppi rivoluzionari della nostra tattica e il lavoro di preparazione per la fase successiva.” Tutto proteso ad attrezzare il “nostro partito in modo da diventare idoneo alla sua missione storica,” esortava, con accesa passione, a lavorare affinché, in ogni fabbrica, in ogni villaggio esistesse “ima cellula comunista, che rappresenti il partito e l'Internazionale, che sappia lavo rare politicamente, che abbia dell’iniziativa.” 1 A tal fine, però, occorreva combattere contro “una certa passività che esiste ancora nelle nostre file,” e che si manifestava con la tendenza a “tenere angusti i ranghi del partito.” “Dobbiamo, invece,” proclamava sempre più entusiasman dosi in questa visione di un futuro carico di soddisfazioni 1 È, questa, una esortazione che ci sembra molto importante perché richiama molto da vicino un altro invito, rivolto dal Partito comunista agli altri partiti del CLN durante la Resistenza, tra la fine del 1943 e i pri mi mesi del '44: anche in quella nuova situazione i comunisti, nell’Italia occupata dai nazi-fascisti, lanciarono la parola d'ordine della ramificazione il più estesa possibile dei Comitati, che avrebbero dovuto sorgere nelle fabbriche, nelle cascine e nei caseggiati, nei villaggi, ecc., nelle più pic cole località in cui si raccoglievano, anche in piccole o piccolissime comu nità, gli uomini. Ed era una proposta di notevole rilievo politico perché mirava a far trovare agli alleati, quando fossero arrivati, già perfettamente organizzata una vita locale su basi di un netto e sicuro antifascismo. Av versata all'inizio dagli altri partiti, tale proposta venne accettata dal CLNAI all'unanimità fra il giugno e l'agosto del '44, allorché sembrava che gli alleati stessero per sfondare la linea gotica e sfociare nella pianura padana. 161
e di risultati, “diventare un grande partito, dobbiamo cer care di attirare nelle nostre organizzazioni il più gran nu mero possibile di operai e contadini rivoluzionari per edu carli alla lotta, per formarne degli organizzatori e dei di rigenti di massa, per elevarli politicamente." Solo in tal modo avrebbe potuto essere costruito lo “Stato operaio e contadino,” e solo in tal modo la lotta per la rivoluzione avrebbe potuto essere condotta vittoriosamente: “Altri menti si torna davvero, come gridano i reazionari, agli anni 1919-20, agli anni cioè dell’impotenza proletaria, agli anni della demagogia massimalista, agli anni della scon fitta delle classi lavoratrici. Neanche noi comunisti,” escla mava con energia, “vogliamo tornare agli anni 1919-20.” Eppure, il compito che gli era sembrato, in un primo mo mento, facile, tornava ad essere difficile quando pensava che il Partito comunista, in quel periodo della sua storia, non poteva proporsi di creare un organismo che supplisse la Confederazione del lavoro, influenzata dai riformisti, i quali potevano accontentarsi di “corporazioni di operai qualificati,” mentre i comunisti volevano tutto il contrario e intendevano “lottare per riorganizzare le grandi masse.” Che era, naturalmente, un lavoro duro e lungo, a cui, però, non era assolutamente possibile rinunciare, e, perciò, so steneva che il partito doveva proporsi “il problema di svi luppare, attraverso le cellule di fabbrica e di villaggio, una reale attività. Il Partito comunista rappresenta la to talità degli interessi e delle aspirazioni della classe lavo ratrice: noi non siamo un puro partito parlamentare. Il nostro partito svolge quindi una vera e propria azione sindacale, si pone a capo delle masse anche nelle piccole lotte quotidiane per il salario, per la giornata lavorativa, per la disciplina industriale, per gli alloggi, per il pane [...]. Occorre pertanto suscitare un largo movimento delle fabbriche che possa svilupparsi fino a dar luogo a un’orga nizzazione di comitati proletari di città eletti dalle masse direttamente, i quali, nella crisi sociale che si presenta, diventino il presidio degli interessi generali di tutto il popolo lavoratore.” Una simile azione nelle fabbriche e nei villaggi avrebbe rivalorizzato il sindacato, ridandogli contenuto ed efficienza, ed avrebbe anche aiutato a con durre una lotta efficace contro i riformisti e i massimalisti, e, solamente nella misura in cui il partito fosse riuscito a conquistare effettivamente la maggioranza dei lavora tori ed a trasformare molecolarmente le basi dello Stato democratico, avrebbe dato tutta la misura dei suoi pro 162
gressi sul cammino della rivoluzione, consentendo pure il passaggio ad una fase successiva di sviluppo. Ulteriore Ease che sarebbe stata la reale dimostrazione della “no stra volontà di abbattere non solo il fascismo di Mus solini e Farinacci, ma anche il semifascismo di Amen dola, Sturzo, Turati.” Peraltro, per ottenere ciò, era ne cessario “riorganizzare le grandi masse e diventare un grande partito, il solo partito nel quale la popolazione la voratrice veda l’espressione della sua volontà politica, il presidio dei suoi interessi immediati e permanenti nella storia.” Erano, senza dubbio, queste di Gramsci, posizioni pun tuali e molto interessanti, che tuttavia potrebbero solleva re qualche perplessità: cosi, ad esempio, quando, cele brando giustamente in Giacomo Matteotti il primo degli homines novi in contrasto con quelli della vecchia gene razione (in “Lo Stato operaio,” 28 agosto ’24), affermava che, da circa quarant’anni, la società italiana cercava in vano di uscire dal dilemma fra uno Stato - una classe di rigente -, alcune ristrette categorie privilegiate che non riuscivano più a soddisfare i bisogni elementari della enor me maggioranza della popolazione, e l’opera di “animosi pionieri” che avevano risvegliato “alla vita civile, alle ri vendicazioni economiche e alla lotta politica le decine e centinaia di migliaia di contadini e di operai” (senza, peraltro, dare ad essi una esatta indicazione dei mezzi e delle vie per giungere “a una concreta e completa af fermazione di sé”). E concludeva, sostenendo che la crisi ita liana, giunta all’esasperazione, si sarebbe potuta superare unicamente “con l’avvento al potere dei contadini e degli operai, con la fine del potere delle caste privilegiate e con la costruzione di una nuova economia, con la fondazione di un nuovo Stato.” Ma, per ottenere questo, era necessa ria “una organizzazione di combattimento, alla quale gli elementi migliori della classe lavoratrice aderiscano con entusiasmo e convinzione, e attorno alla quale le grandi masse si stringano fiduciose e sicure. È necessaria una organizzazione nella quale prenda carne e figura una vo lontà chiara di lotta, di applicazione di tutti i mezzi che dalla lotta sono richiesti, senza i quali nessuna vittoria totale ci sarà data.” A dire la verità, sia la precedente “organizzazione di comitati proletari” nelle città e nei vil laggi, sia questa “organizzazione di combattimento” ap paiono, ad una valutazione più seria, quasi del tutto prive di significato, soprattutto perché non è possibile trarre da 163
esse un programma di azione, dal momento che “la con quista del potere, la distruzione dello Stato dei borghesi e dei parassiti, la sostituzione ad esso di uno Stato di con tadini e di operai,” non avrebbero potuto avvenire soltan to per un atto di volontà, risoluta e determinata, si, ma astratta e senza un preciso contenuto. Sembrava che Gram sci esaurisse tutta la volontà di riscossa e di liberazione delle masse in una ipotetica organizzazione rivoluzionaria non solo nelle parole ma anche nella sua struttura e nel suo modo di lavorare,” senza minimamente preoccuparsi delle basi programmatiche su cui avrebbe dovuto fondarsi tale organizzazione, a meno che non credesse che bastas se un cenno o un appello generico per raccogliere le clas si lavoratrici - operai e contadini, la cui partecipazione alla lotta comune, adesso, è vista in maniera estremamen te nebulosa, incerta e disorganica - attorno al vessillo del “partito di classe degli operai, del partito della rivoluzio ne proletaria.” E quanto più parlava di “rivoluzione prole taria” tanto più cadeva nell’indistinto, e nel vago. Peraltro, quasi avvertendo il vuoto in cui si aggirava con simili pro spettive, cercava di reagire fornendo al sindacato indicazio ni che soltanto molti anni più tardi saranno accolte quali prassi normale nella lotta sindacale: “Perché la lotta sindacale diventi un fattore rivoluzionario,” scrive va nell’Introduzione al primo corso della scuola interna di partito, dell’aprile-maggio ’25, “occorre che il proleta riato l'accompagni con la lotta politica, cioè che il prole tariato abbia coscienza di essere il protagonista di una lotta generale che investe tutte le questioni più vitali dell'organizzazione sociale, cioè abbia coscienza di lot tare per il socialismo. L’elemento ‘spontaneità’ non è suf ficiente per la lotta rivoluzionaria: esso non porta mai la classe operaia oltre i limiti della democrazia borghe se esistente. È necessario l'elemento coscienza, l’elemen to ‘ideologico,’ cioè la comprensione delle condizioni in cui si lotta, dei rapporti sociali in cui l’operaio vive, del le tendenze fondamentali che operano nel sistema di que sti rapporti, del processo di sviluppo che la società subi sce per resistenza nel suo seno di antagonismi irreduci bili, ecc.” Queste linee per una efficace azione sindacale, che incidesse profondamente nel tessuto e nei rapporti sociali, erano, indubbiamente, qualcosa di molto più del la “vera e propria azione sindacale” consigliata nella re lazione ricordata sopra, e per cui il Partito comunista avreb be dovuto porsi “a capo delle masse anche nelle piccole 164
lotte quotidiane per il salario, per la giornata lavorativa, per la disciplina industriale, per gli alloggi, per il pane.” Qui si trattava di piccole e modeste rivendicazioni corpo rative, che avrebbero interessato il ceto operaio e non l’in tera classe lavoratrice, mentre la lotta del proletariato contro il capitalismo condotta su tre fronti - economico, politico e ideologico -, che si riducevano ad uno solo che “riassume e rappresenta tutte le esigenze della lotta ge nerale,” acquistava un significato complessivo che mira va a “porre concretamente il problema fondamentale del la nostra rivoluzione: quello dell'alleanza tra operai e contadini.” La parola d’ordine che egli poneva al partito, nella rela zione al Comitato centrale del maggio '25 (in “L’Unità” del 3 luglio ’25) - studiare “quali sono i problemi essenziali della vita italiana e quale loro soluzione favorisce e de termina l'alleanza rivoluzionaria del proletariato coi con tadini e realizza l’egemonia del proletariato,” - doveva dar gli effettivamente la sicurezza di aver fatto diventare, o di poter far diventare, il suo partito “un fattore essenziale della situazione italiana,” un partito ormai dominante e pronto a sacrificare “gli interessi immediati per gli inte ressi generali e permanenti della classe.” Eppure, a que sto quadro mancava un fattore di estrema importanza, che era dato dalla piccola borghesia. A tale proposito, co me abbiamo messo in rilievo, Gramsci aveva ben presto compreso il processo di lenta disgregazione del blocco classi medie-fascismo, che si era costituito nell’immedia to dopoguerra: il che gli aveva dato una forte speranza di riuscire a riprendere l'iniziativa politica. Ma con l'espres sione “classi medie,” lo stesso Gramsci intendeva parecchie cose, e, ad ogni modo, non sembra affatto che volesse riferir si ai piccoli proprietari rurali, che, insieme con i contadini, erano, in realtà, mantenuti in una posizione subalterna ri spetto alla borghesia, alla borghesia intellettuale e agli operai. In Un esame della situazione italiana - un testo che Gramsci discusse, come relazione, nella riunione del Comitato direttivo del PC del 2-3 agosto ’26 - si trova analizzato il distacco della piccola borghesia dalla dittatu ra con acutezza, ma, nei passi che riporteremo, si vede come per piccola borghesia egli intendesse soprattutto la classe media urbana. Dunque, secondo lui, accanto alla tendenza Rocco, Federzoni, Volpi - che lavorava d’accordo con la corona, Io stato maggiore, il Vaticano e gli elementi più moderati 165
dell’Aventino -, c’era l’altra tendenza, “ufficialmente im personata da Farinacci,” che rappresentava, “obbiettiva mente,” le due contraddizioni del fascismo: “1) La con traddizione tra agrari e capitalisti nelle divergenze d’in teresse specialmente doganali. È certo che l’attuale fa scismo rappresenta tipicamente il netto predominio del capitale finanziario nello Stato, capitale che vuole asser vire a sé tutte le forze produttive del paese; 2) la seconda contraddizione è di gran lunga la più importante [per Gramsci, dal punto di vista politico] ed è quella tra la pic cola borghesia ed il capitalismo. La piccola borghesia fa scista vede nel partito lo strumento della sua difesa, il suo Parlamento, la sua democrazia. Attraverso il partito vuole fare pressioni sul governo per impedire di essere schiacciata dal capitalismo.” Ma, nel momento stesso in cui la piccola borghesia credeva di scorgere nel regime uno scudo protettivo, reagiva vivacemente contro l’asservimento completo in cui l’Italia era stata messa dal go verno fascista verso gli Stati Uniti: infatti, con la liquida zione del debito di guerra all’America e all’Inghilterra ave va lasciato, a queste due nazioni, la possibilità di gettare, ogni volta che l’avessero voluto, sul mercato mondiale enormi quantità di valori italiani, e, poi, il debito Morgan era stato contratto, come si è visto, a condizioni disastro se. Erano tutti elementi che, tendenzialmente, avrebbero potuto servire alla piccola borghesia per assumere, nella difesa dei suoi interessi, pur attraverso il partito fascista (ma era una illusione che, secondo Gramsci, sarebbe ra pidamente venuta meno ed egli si preparava appunto per il post-fascismo), “un’intonazione nazionalista contro il vecchio nazionalismo e l’attuale direzione del partito che ha fatto sacrificio della sovranità nazionale e dell’indipen denza politica del paese agli interessi di un gruppo ristret to di plutocratici.” Che fare, allora? si chiedeva Gramsci; quale posizione avrebbe dovuto tenere il Partito comunista? La risposta era pronta: “[...] compito del nostro partito dev’essere quello di insistere in modo particolare sulla parola d’ordine degli Stati uniti soviettisti d’Europa, co me mezzo di iniziativa politica fra le file fasciste,” cioè contrapporre al predominio delle potenze anglosassoni, o dei soli Stati Uniti che non nascondevano la loro volontà di sostituirsi alla Gran Bretagna nella guida dei popoli europei, un altro blocco dei paesi del vecchio continente, uniti attorno all’Unione Sovietica. Sarebbe stato per l’espan sionismo imperialistico americano un colpo gravissimo, ma 166
era una proposta che adombrava una divisione del mon do civile (o almeno dell’Europa) in due zone e che sicura mente avrebbe incontrato difficoltà talmente enormi da farla naufragare rapidamente: perché si sarebbero dovuti unire paesi per tradizioni, strutture sociali ed economiche e politiche lontanissime. Senza pensare, poi, che una parte dell’Europa aveva un quasi assoluto bisogno degli aiuti degli Stati Uniti che, pur chiudendosi nell’isolazionismo, erano costretti a ricercare ed a trovare i mercati per gli investimenti dei loro capitali (secondo i vecchi metodi del l’imperialismo della fine dell’Ottocento) nelle nazioni eu ropee. Un blocco soviettista non avrebbe avuto alcuna pos sibilità di sopravvivere a lungo, anche se quegli investimen ti massicci di capitali americani furono come la corda che sostiene colui che sta per lanciarsi nel vuoto per impiccar si: e lo si comprese chiaramente, nel ’29, con lo scoppio del la più grande crisi economica che avesse mai colpito il siste ma capitalistico. Altri elementi di rottura fra la piccola borghesia e il capitalismo - che Gramsci era pronto a cogliere come un sintomo di instabilità del fascismo - erano dati dalla “nuova organizzazione delle società per azioni coi voti pri vilegiati” e dal “dislivello verificatosi in quest’ultimo tempo fra la massa del capitale delle società anonime che si va concentrando in poche mani e la massa del risparmio na zionale,” un dislivello che dimostrava come le fonti del ri sparmio stessero essiccandosi, “perché i redditi attuali non sono più sufficienti ai bisogni.” Infine, l’ultimo - il terzo - elemento di una non lontana crisi del regime, Gramsci lo scorgeva nel lavorio che avveniva nel campo delle cor renti democratiche per giungere a costituire “un certo raggruppamento con carattere più radicale che nel passa to. L’ideologia repubblicana si rafforza, inteso ciò nello stesso senso che per il fronte unico, cioè negli strati medi dei partiti democratici e, in questo caso, anche in buona parte degli strati superiori.” Sembrava che i vecchi capi ex-aventiniani, lo stesso Amendola, perfino i popolari, si dichiarassero repubblicani, al fine di determinare su ta le terreno “un raggruppamento neodemocratico che do vrebbe prendere il potere al momento della catastrofe fa scista e instaurare un regime di dittatura contro la destra reazionaria e contro la sinistra comunista.” Di fronte a tutti questi elementi, ben più decisivi, il pro blema Farinacci si rimpiccioliva, anche perché era evi dente che la tendenza del ras cremonese mancava, nel par 167
tito fascista, “di unità, di organizzazione, di principi gene rali,” per ridursi soltanto ad un vago e diffuso “stato d’ani mo.” Quello che veramente importava a Gramsci, “dal no stro punto di vista,” era che “questa crisi, in quanto rap presenta il distacco della piccola borghesia dalla coali zione borghese agraria fascista, non può non essere un ele mento di debolezza militare del fascismo.” Debolezza mi litare si, ma Gramsci faceva osservare che quella che si sarebbe potuta dire l’armatura esterna del regime (le for ze armate, gli ufficiali dell’esercito, una parte della stessa milizia e i funzionari dello stato in genere, cioè della buro crazia di cui bisognava tenere molto conto in situazioni quali l’italiana) non avrebbe consentito un passaggio im mediato dal fascismo alla dittatura del proletariato: sa rebbe stato, invece, possibile che si passasse ad un go verno di coalizione, nel quale uomini come Giolitti, Orlan do, Di Cesarò, De Gasperi dessero una maggiore garanzia capace di frenare e allontanare la crisi rivoluzionaria del capitalismo, “spostare gli avversari, logorarli, disgregarli.” Nel 1926, quando scriveva questa relazione, c'era appe na stato il grande sciopero generale inglese,2 che aveva do2 Si tratta dello sciopero generale che giunse dopo che, nei due an ni precedenti, il numero degli scioperi e degli scioperanti era salito no tevolmente e dopo che era caduto il governo MacDonald, il vecchio capo delllLP (International Labour Party), e si era formata, nel partito la burista una corrente di sinistra, che aveva proclamato dalle colonne del “Lansbury Labour Weekly” lo slogan “il socialismo della nostra epoca.” Esso veniva come naturale reazione alla politica di stabilizzazione (o di ri valutazione) della sterlina che, nel 1925, era stata condotta a termine con inflessibilità da Churchill, ristabilendo la convertibilità della moneta bri tannica per ridare al suo paese il ruolo preponderante negli scambi com merciali che aveva tenuto per tutto l’Ottocento. Ma un simile ritorno del la sterlina alla parità-oro precedente la guerra, generò una profonda crisi da cui la Gran Bretagna parve non risollevarsi più e peggiorò notevol mente le condizioni delle classi lavoratrici. Ecco perché l'idea di uno sciopero generale - per resistere all'offensiva degli imprenditori che sol lecitavano riduzioni di salari per diminuire i costi della manodopera incontrò subito la spontanea adesione non solo dei lavoratori del settore metallurgico ma anche dei ferrovieri, dei lavoratori dei trasporti, degli edili e dei tipografi, determinando una unanimità che sorprese non sol tanto il governo ma anche i capi sindacali. Questi ultimi volevano soltan to una vittoria “difensiva” e non la distruzione, che avrebbe potuto risul tare disastrosa, del movimento laburista, che, invece, era auspicata da Churchill la cui risolutezza fece passare in secondo piano l'ala conservatri ce moderata, guidata dallo stesso primo ministro Baldwin: Churchill, espo nente dell’estrema destra, voleva lo scontro frontale e l'annientamento dell'avversario politico e sociale. “Il 4 maggio 1926,” ha scritto E. Hobsbawm, “gli operai inglesi scesero in sciopero, dando la più grande dimo strazione di solidarietà organizzata cui avesse mai assistito l'lnghilterra, e forse ogni altro paese. Nove giorni dopo, altrettanto compatti, tornarono al lavoro [non del tutto, perché gli operai, il 12, di fronte alla minaccia 168
minato la scena internazionale, e che aveva sollevato alcu ni “problemi fondamentali per il nostro movimento,” in particolare quello delle capacità di resistenza del regime borghese-capitalistico. Si trattava di un problema molto interessante non solo da un punto di vista “teorico e scien tifico, ma anche dal punto di vista pratico ed immediato”: era, perciò, una questione che aveva non tanto un valore di astratta analisi storica quanto piuttosto una ben pre cisa importanza per impostare una corretta direttiva di lotta politica. Tuttavia, per chiarire con esattezza tale pro blema, bisognava, nel campo internazionale, distinguere fra “quel gruppo di Stati capitalistici che sono la chiave di volta del sistema borghese e l’altro gruppo degli Stati che rappresentano come la periferia del mondo capitali stico” (noi, oggi, indicheremmo, con tale suddivisione, i pae si sviluppati e i paesi sottosviluppati, o, almeno, per usare un termine gramsciano, arretrati). Era chiaro che l’Italia, con la Polonia, il Portogallo, la Spagna, le nazioni dei Bal cani e, in parte, anche la Francia, rientrava nel secondo gruppo, dei paesi periferici. A questo punto, Gramsci trac ciava una breve storia degli ondeggiamenti, delle perples sità e delle varie vicende delle classi medie: “Ciò che mi pare caratteristico della fase attuale della crisi capitalistica consiste nel fatto che, a differenza del ’20-'21-’22, oggi le for mazioni politiche e militari delle classi medie hanno un ca rattere radicale di sinistra, o almeno si presentano dinanzi alle masse come radicali di sinistra. Lo sviluppo della si tuazione italiana, dati i suoi caratteri peculiari, mi pare possa, in un certo senso, dare il modello per le diverse fasi attraversate dagli altri paesi. Nel T9 e '20 le formazioni militari e politiche delle classi medie erano, da noi, rapdi rappresaglie, ripresero lo sciopero fino al 14], traditi dai loro dirigenti. Fu questa la gloria e, nello stesso tempo, la tragedia, dello sciopero gene rale. Fu una battaglia combattuta stupendamente da soldati guidati da generali i quali non volevano combattere, né sapevano farlo.” Pertanto, lo sciopero si chiuse con un fallimento che lasciò via libera ai provvedimenti restrittivi da parte del governo: aumento delle ore di lavoro, riduzione dei salari, arresto dei lavoratori che avevano fatto il picchettaggio (3.149 persone processate), proibizione di raccogliere il denaro per gli scioperan ti, legge del 1927 che dichiarò illegali gli scioperi generali e di solidarietà, e rifiuto di applicare sanzioni contro i proprietari di miniere che non avessero proceduto ad un ammodernamento dell'estrazione del carbone (cfr. G. D. H. Cole, S to r ia d e l m o v im e n to o p e r a io in g le s e , voi. II, 1900-1947, Milano, 1965; E . H obsbaw m , 1926: s c io p e r o g e n e r a le i n In g h il te r r a . N o v e g io r n i a m a g g io , in “Rinascita,” 23 maggio 1964; M. B eer , S t o r i a d e l s o c ia lis m o b r ita n n ic o , voi. II, D al c a r ti s m o a l s o c ia lis m o m o d e r n o , Firenze, 1964).
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presentate dal fascismo primitivo e da D’Annunzio. È noto che, in quegli anni, tanto il movimento fascista come il movimento dannunziano erano disposti anche ad allearsi con le forze proletarie rivoluzionarie per rovesciare il go verno di Nitti, che appariva come il mezzano del capitale americano per asservire l’Italia (Nitti è stato, in Europa, il precursore di Dawes). La seconda fase del fascismo (’21 e ’22) è nettamente reazionaria. Dal '23 si inizia un processo molecolare per cui gli elementi più attivi delle classi me die si spostano dal campo reazionario fascista nel campo delle opposizioni aventiniane. Questo processo precipita in una cristallizzazione che poteva essere fatale al fascismo nel periodo della crisi Matteotti. Per la debolezza del nostro movimento, debolezza che, d’altronde, aveva essa stessa un significato, il fenomeno è interrotto dal fascismo, e le clas si medie sono respinte in una nuova polverizzazione po litica. Oggi, il fenomeno molecolare ha ripreso su una scala di molto superiore di quello iniziatosi nel '23 ed è accompagnato da un fenomeno parallelo di raggruppamen to delle forze rivoluzionarie intorno al nostro partito, ciò che assicura che una nuova crisi tipo Matteotti difficilmen te potrà avere un nuovo 3 gennaio. Queste fasi attraversate dall’Italia, in una forma che chiamerei classica ed esem plare, le ritroviamo in quasi tutti i paesi che abbiamo chiamati periferici del capitalismo. La fase attuale italia na, cioè un raggruppamento a sinistra delle classi medie, la troviamo in Ispagna, in Portogallo, in Polonia, nei Bal cani.” La conclusione che Gramsci immediatamente trae va da queste osservazioni - ai fini operativi -, pur se do vevano essere perfezionate ed esposte in forma più siste matica, gli sembrava che potesse essere la seguente: “real mente noi entriamo in una fase nuova dello sviluppo della crisi capitalistica. Questa fase si presenta in forme distinte nei paesi della periferia capitalistica e nei paesi di avan zato capitalismo.” La tipica forma distinta dei paesi sottosviluppati, o del la periferia, era data dal fatto che in essi “tra il proleta riato e il capitalismo si distende un largo strato di classi intermedie, le quali vogliono e, in un certo senso, riescono a condurre una propria politica con ideologie che spesso influenzano larghi strati del proletariato, ma che hanno una particolare suggestione sulle masse contadine.” Era, questo, un fenomeno che Gramsci conosceva molto bene e su cui aveva riflettuto a lungo e che formerà anche uno dei motivi conduttori dei suoi scritti sulla questione me170
ridionale. Il Mezzogiorno si presentava come la zona più arretrata di un paese già arretrato - “una grande disgre gazione sociale” -, la cui struttura era formata da tre strati: “la grande massa contadina amorfa e disgregata; gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale; i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali” (ad esem pio, un B. Croce o un G. Fortunato). Nelle società, dove le forze economiche si erano sviluppate in senso capita listico, prevaleva un nuovo tipo di intellettuale, allevato dagli industriali: l’organizzatore tecnico, lo specialista del la scienza applicata; mentre, nelle società a prevalente ba se contadina e artigiana, esercitava ancora un ruolo note vole, o addirittura preponderante, il vecchio e tradizionale tipo di intellettuale, democratico nella sua faccia conta dina ma reazionario nella faccia rivolta verso il grande proprietario e il governo, politicante e corrotto (cosi dice in Alcuni temi della questione meridionale del ’26). Nel l'Italia meridionale, appunto, era di gran lunga prevalente “questo tipo con tutte le sue caratteristiche,” poiché si trattava di un intellettuale uscito “prevalentemente da un ceto che nel Mezzogiorno è ancora notevole: il borghese ru rale, cioè il piccolo e medio proprietario di terre che non è contadino, che non lavora la terra, che si vergognerebbe di fare l’agricoltore, ma che dalla poca terra che ha, data in affitto o in mezzadria semplice, vuol ricavare: di che vivere convenientemente, di che mandare all’università o in seminario i figli, di che fare la dote alle figlie che de vono sposare un ufficiale o un funzionario civile dello Sta to. Da questo ceto gli intellettuali ricevono un'aspra av versione per il contadino lavoratore, considerato come una macchina da lavoro che deve essere smunta fino all’osso e che può essere sostituita, data la superpopolazione lavo ratrice; ricavano anche il sentimento atavico e istintivo della folle paura del contadino e delle sue violenze distruggitrici e quindi un abito di ipocrisia raffinata e una raf finatissima arte di ingannare e addomesticare le masse contadine.” Ed ancora: “Il contadino meridionale è legato al grande proprietario per il tramite dell'intellettuale.” La fondamentale esattezza di questo giudizio sull’intel lettuale del Mezzogiorno,’ gli era stata pienamente confer3 L’intellettuale meridionale non era altro che un piccolo borghese che realizzava “un mostruoso blocco agrario,” funzionando “da intermediario e da sorvegliante del capitalismo settentrionale e delle grandi banche” e, aggiungiamo noi, della classe politica dirigente locale e nazionale. Ad essa portava i voti di tutti gli abitanti dei vari paesi che ciascuno 171
mata dalle elezioni del 6 aprile, allorché il fascismo era stato messo “nettamente in minoranza” nell’Italia set tentrionale, “cioè là dove risiede la forza economica e po litica che domina la nazione e lo Stato,” ma dove era anche molto più difficile mettere in pratica i sistemi mafiosi, camorristici e clientelari che avevano buon gioco con le plebi del sud e di cui si erano serviti quasi tutti i primi ministri - soprattutto dal Giolitti in poi -, per avere un parlamento docile e prono ai loro voleri. La realtà era che, nel nord, esistevano abbastanza consistenti isole di proleta riato urbano, di contadini salariati e braccianti (nella bas sa pianura padana, la cui agricoltura era basata sulla gran de proprietà che dava in conduzione la terra ai fittabili, un ceto che aveva rappresentato, dal Settecento, la bor ghesia rurale), e di piccola borghesia attiva e intrapren dente, che, nel “periodo Matteotti,” aveva tentato di “gui dare essa la lotta per l'abbattimento del regime fascista, traendo dietro a sé le altre classi mobilitabili per questa lotta”: ma il fallimento dell’Aventino aveva fornito “la ri prova,” scriveva Gramsci in un articolo, Elementi della situazione, in “L’Unità,” 24 novembre ’25, “della impossi bilità che nel periodo dell’imperialismo la piccola borghe sia guidi una lotta contro la reazione, forma e strumento del dominio del capitale e degli agrari.” Era stato questo il motivo - unito alla convinzione che il proletariato industriale fosse, “da noi, solo una minoran za della popolazione lavoratrice” - che aveva spinto Gram sci ad occuparsi della quistione agraria (cfr. il resoconto dei lavori del III Congresso del PC di Lione, Cinque anni di vita del Partito), approfondendo la ricerca di una linea per l’attività fra i contadini. In che cosa consisteva ta le attività? “Il partito,” egli sosteneva, “deve tendere a creare in ogni regione delle unioni regionali dell’Associazio ne di difesa dei contadini,” pur tenendo presente che oc correva “distinguere quattro raggruppamenti fondamenta li delle masse contadine, per ognuno dei quali è necessario trovare atteggiamenti e soluzioni politiche ben precise e complete.” Il primo raggruppamento era costituito dai con tadini slavi dell’Istria e del Friuli, che risentivano molto controllava, mediante una vasta rete di clientele, favori leciti e il più spesso illeciti, senza offrire alcun programma agli elettori, ma “una larga messe di croci, di appalti, di promozioni ai propri fiduciari disseminati nell’interno. ” Cosi costituiva “una specie di ‘onorata società' che prospera, che spadroneggia in buona parte delle Amministrazioni comunali, che si insinua nelle provincie e in tutti i pubblici uffici, che si impone oggi con la prepotenza sfacciata e domani con loschi raggiri.” 172
della questione nazionale; il secondo era dato dal “Partito dei contadini,” che aveva la sua base soprattutto nel Pie monte e al quale era possibile applicare i “termini generali della tattica agraria del leninismo,” anche perché si trovava nella regione che aveva “uno dei centri proletari più effi cienti in Italia.” Gli altri due raggruppamenti erano di gran lunga i più importanti e richiedevano al partito la maggiore attenzione: “1) la massa dei contadini cattolici, raggruppati nell’Italia centrale e settentrionale, i quali so no direttamente organizzati dall'Azione cattolica e dal l'apparato ecclesiastico in generale, cioè dal Vaticano; 2) la massa dei contadini dell’Italia meridionale e delle isole.” A proposito dei primi, Gramsci si era già lamentato con Togliatti, il 18 maggio '23 (nell’anno che è stato detto da P. Gobetti di generale “inerzia” e che servi invece a Gramsci stesso per un ripensamento autocritico dell’esperienza e dell’elaborazione consiliare), per non aver saputo sfruttare il congresso di Torino del Partito popolare (aprile 1923) come una occasione propizia ad “affermazioni essenziali nel problema dei rapporti fra proletariato e classi di cam pagna.” Ma neppure questo interessamento, che lasciava prevedere la successiva formulazione dell’alleanza operai contadini, dimostrava che egli fosse riuscito a comprende re quale era effettivamente la base di massa dei popolari e dei cattolici nelle campagne, da quali categorie di contadini o di lavoratori della terra era composta: il PPI non poteva certo contare sui salariati e sui braccianti, che erano or ganizzati dal Partito socialista, perché si faceva forte del l’adesione dei piccoli proprietari e dei coltivatori diretti che, da una ormai lunga tradizione e dal preciso interesse di difendere (e, se possibile, ampliare anche di poco) il proprio minuscolo e frantumato fazzoletto di terra, erano spinti verso le correnti politiche o i partiti che si presen tavano con un volto moderato e conservatore. Gramsci sembrava quasi meravigliarsi del fatto che i popolari non fossero penetrati nel Mezzogiorno, ma qui incontravano, al lora, un forte ostacolo nel predominio clientelare e ma fioso esercitato dalla piccola borghesia intellettuale (secon do un fenomeno molto ben descritto dallo stesso Gramsci), che, governativa per vocazione, ed anche per necessità, era stata prima giolittiana, poi diventerà fascista e, infine, in questo secondo dopoguerra, democristiana, pur di non per dere mai il contatto con chi deteneva - o detiene - il po tere e poteva - e può - dispensare, con maggiore o minore larghezza, ai sudditi. 173
Da questo derivava la fiducia che Gramsci riponeva, in base ad una coerente linea approvata a grande maggioran za a Lione, in una azione che favorisse le formazioni di sinistra che si manifestavano fra i contadini cattolici e che gli apparivano “strettamente legate alla crisi generale agraria iniziatasi già prima della guerra nel centro e nel nord d’Italia [ma quella crisi aveva colpito molto seria mente anche l’Italia del sud, che, da ogni tensione sul piano internazionale, vedeva chiudersi gli sbocchi com merciali per i suoi prodotti pregiati]. Il Congresso ha af fermato che l’atteggiamento assunto dal partito verso i contadini cattolici, sebbene contenga in sé alcuni degli elementi essenziali per la soluzione del problema politico religioso italiano, non deve, in nessun modo, condurre a favorire i tentativi, che possono nascere, di movimenti ideo logici di natura strettamente religiosa. Il compito del par tito consiste nello spiegare i conflitti che nascono sul ter reno della religione come derivanti dai conflitti di classe e nel tendere a mettere sempre in maggior rilievo i ca ratteri di classe di questi conflitti Un simile program ma doveva sembrare a Gramsci non troppo difficile da rea lizzare, dal momento che poteva avere l’appoggio di G. Miglioli, un fenomeno che aveva “una grande importan za” nell'indicare “che le masse contadine, anche cattoli che, si indirizzano verso la lotta rivoluzionaria.” Queste parole erano pronunciate alla Camera il 16 maggio '25 e, poco dopo, il 1“ agosto, R. Grieco, inviando un rapporto del Consiglio italiano contadino al Consiglio internaziona le contadino (Krestintern), parlava dell’opera svolta dal Miglioli in seno a quest’ultimo organismo di Mosca e si proponeva pure di distribuire fra i contadini bianchi un opuscolo in cui si spiegasse “il perché il Miglioli ha assun to la nota posizione verso l’Internazionale dei contadini. Fra i contadini cristiani,” proseguiva, “l’azione del Mi glioli è certamente seguita con interesse. Abbiamo avuto occasione di parlare con alcuni amici intellettuali del Mi glioli, i quali ci hanno fatto l’impressione di avere una visio ne più radicale del Miglioli stesso nei rapporti tra contadini e classe operaia. Noi cercheremo,” concludeva, “che costoro agiscano sul Miglioli e, in certo [sic, forse: senso], ne control lino e ne sollecitino l’attività.” Anche in questo caso del Mi glioli, né Gramsci né Grieco mostravano di avere capito a fondo il significato della sua propaganda basata sui “consigli di cascina,” intesi quali strumenti di collaborazione fra il proprietario terriero e il fittabile da un lato e i contadi 174
ni, dall’altro; né avevano capito che tale propaganda si era diffusa soprattutto nella zona nord della provincia di Cremona, verso Crema, e nella Bergamasca, dove, cioè, la piccola proprietà coltivatrice si era inserita, più o meno largamente, fra la grande proprietà. Il Miglioli, pertanto, rimaneva fondamentalmente fedele alla impostazione data dal Partito popolare alla questione contadina, e ciò forse può spiegare l’incertezza, notata dal Grieco, sul problema dei rapporti fra classe operaia e contadini. Al solito, quasi inspiegabilmente, sia il rapporto sia le tesi di Lione (cfr. La situazione italiana e i compiti del PCdl), non dicono proprio nulla sulla “funzione della mas sa contadina meridionale nello svolgimento della lotta anticapitalistica italiana,” pur sostenendo - ma soltanto a parole - che “i contadini meridionali sono, dopo il proleta riato industriale e agricolo dell’Italia del nord, l’elemento sociale più rivoluzionario della società italiana.” La ve rità era che, ancora una volta, nessuno riusciva - o era riuscito - a penetrare nella loro effettiva realtà le caratte ristiche peculiari delle classi sociali delle campagne nel Meridione. Gramsci stesso aveva tanto parlato, come si è visto, rallegrandosene, di crisi della piccola borghesia e delle classi medie, ma non era stato capace di affrontare il pro blema del piccolo coltivatore diretto o del piccolo proprie tario, che rappresentavano - e rappresentano tuttora - l’os satura più salda e più diffusa di quelle classi medie. Co si, nel suo rapporto, Gramsci partiva da un discorso gene rale - ed anche un po’ generico - sui rapporti che inter correvano fra il capitalismo italiano e i contadini meridio nali, che non potevano essere confinati nei normali rappor ti storici fra città e campagna, quali erano stati creati dallo sviluppo del capitalismo, ma erano “aggravati e radicalizzati” dal fatto che tutto il sud e le isole, economica mente e politicamente, funzionavano “come una immensa campagna di fronte all’Italia del nord, che funziona come un’immensa città.” Il che aveva determinato e tendeva a determinare “una vivacissima lotta a carattere regionali stico e profonde correnti verso il decentramento e le auto nomie locali.” Affermazione in se stessa giusta, per quan to Gramsci avrebbe dovuto sapere come l’aspirazione delle popolazioni verso il regionalismo o il decentramento fosse causata da uno sfruttamento di tipo coloniale al quale esse erano state sottoposte nello Stato accentrato italiano e da una grave e radicale incomprensione delle esigenze elementari di vita dei ceti rurali, alla cui situazione di 175
estrema miseria non veniva additato nessun concreto ri medio. Ne derivava quello che lamentava lo stesso Gram sci, cioè che i contadini meridionali, “a differenza dei tre raggruppamenti precedentemente descritti,” non avevano “nel loro complesso, nessuna esperienza organizzativa au tonoma. Essi sono inquadrati negli schemi tradizionali del la società borghese, per cui gli agrari, parte integrante del blocco agrario-capitalistico, controllano le masse contadi ne e le dirigono secondo i loro scopi.” La guerra e le agi tazioni operaie del dopoguerra, che avevano indebolito l’apparato statale, avevano, almeno in parte, risvegliato le masse contadine del Mezzogiorno, ed avevano favorito la nascita di movimenti degli ex-combattenti e di “vari par titi di 'rinnovamento,' che cercavano di sfruttare questo risveglio della massa contadina, qualche volta secondan dolo, come nel periodo dell’occupazione delle terre, più spesso cercando di deviarlo e quindi di consolidarlo in una posizione di lotta per la cosiddetta democrazia, come è ultimamente avvenuto con la costituzione della ‘Unione nazionale.’” Ma, viene spontanea l’osservazione che sarebbe stato suffi ciente avere una anche minima conoscenza della storia dell’Italia meridionale, per scorgere come sempre, dal Set tecento in poi (o, meglio, dalla rivolta di Masaniello del 1647), tutte le volte che il tessuto statale del Mezzogiorno ha risentito le conseguenze di un indebolimento del potere centrale, le masse contadine si sono mosse compatte al l’occupazione delle terre; dalla fine del secolo XVIII, al lorché nel sud si fecero sentire le ripercussioni della rivo luzione francese, opera della borghesia che aspirava a passare in proprietà privata i beni demaniali o le terre comuni, tali occupazioni si intensificarono: nel 1799 con l’ab battimento della repubblica partenopea attaccata dai conta dini guidati dal cardinale Ruffo; nel 1848; nel 1858 con la spedizione del Pisacane; nel 1860 con una delle più grandi in surrezioni popolari che abbia avuto il nostro paese, il brigan taggio, che vide la ribellione dei contadini contro l'estensione al Meridione della legislazione borghese piemontese e il pas saggio alle persone più abbienti del pascolo comune; nel 1893-’94 con i fasci siciliani, esplosione di un profondo mal contento degli strati più umili per i provvedimenti protezio nisti del 1887, che avevano favorito il settore tessile ma chiu so il mercato francese ai prodotti ortofrutticoli del Mez zogiorno; nel 1919-’20 quando le masse contadine ebbero la sensazione che lo Stato fosse entrato in gravi difficol 176
tà; infine nel secondo dopoguerra. Si trattava, pertanto, di un fenomeno endemico nella società meridionale, di cui rappresentava quasi una valvola di sfogo, e non si poteva assolutamente guardare a quei moti delle plebi del Mezzo giorno con un certo disdegno o con sufficienza - come sembrava fare Gramsci nel passo citato -, perché altri menti il Partito comunista avrebbe ripreso anch’esso l’at teggiamento di superiorità e di voluto distacco che avevano tenuto i socialisti settentrionali di fronte ai fasci siciliani, considerati quasi delle jacqueries di tipo medioevale; da essi bisognava separare le proprie responsabilità, come se loro avessero raggiunto una piena maturità di classe e non ci fossero, invece, anche al nord, ampie zone di sottosviluppo, in tutto simili a quelle del sud. Ma, forse, Gramsci risaliva alla sua esperienza sarda che non conosce va tali estese occupazioni di terre, ed aveva elaborato le sue posizioni partendo dalla situazione dell’Italia setten trionale (dove, peraltro, ed egli ne era perfettamente con sapevole, “il proletariato industriale [era] solo una mino ranza della popolazione lavoratrice”) e dagli avvenimenti generali della vita del paese, che, soprattutto con le ele zioni del 6 aprile, avevano determinato “un passaggio in massa della piccola borghesia meridionale al fascismo,” rendendo “più acuta la necessità di dare ai contadini me ridionali una direzione propria per sottrarsi definitiva mente all’influenza borghese agraria.” Il solo capace di or ganizzare la “massa contadina meridionale” era, a suo pa rere, “l’operaio industriale, rappresentato dal nostro par tito. Ma perché questo lavoro di organizzazione,” aggiun geva, “sia possibile ed efficace, occorre che il nostro par tito si avvicini strettamente al contadino meridionale, che il nostro partito distrugga nell’operaio industriale il pregiu dizio inculcatogli dalla propaganda borghese che il Mezzo giorno sia una palla di piombo che si oppone ai più grandi sviluppi dell’economia nazionale e distrugga nel contadino meridionale il pregiudizio, ancora più pericoloso, per cui egli vede nel nord d’Italia un solo blocco di nemici di clas se.” Qualora questi risultati non fossero stati conseguiti, la borghesia, “sconfitta nella sua zona [cioè il Settentrio ne],” avrebbe potuto concentrarsi nel sud per fare di tale parte della penisola “la piazza d'armi della controri voluzione.” Ci saremmo trovati, in definitiva, nella stessa situa zione in cui si erano trovati, nel 1799, i repubblicani gia cobini partenopei, assaliti dalle orde dei contadini che, con 177
la benedizione della Chiesa di Roma, distruggevano le con quiste civili realizzate da un ceto politico illuminato ma borghese, che si era battuto per imporre una nuova società borghese, contro cui si scagliava il risentimento delle mas se popolari delle campagne che volevano, invece, ripristi nare le antiche usanze feudali, dalle quali si sentivano più protetti e difesi. Ancora una volta, dunque, Gramsci la sciava intravedere la possibilità che una controrivoluzione reazionaria, adesso, della borghesia poggiante sulle forze conservatrici dei contadini, i cui problemi non erano stati risolti “in modo chiaroveggente e rivoluzionariamente sag gio” dal partito comunista, facesse perdere al proleta riato tutte le conquiste di classe faticosamente conseguite. Ma che cosa proponeva Gramsci per risolvere gli oppri menti problemi che assillavano i piccoli coltivatori che costituivano - lo ripetiamo di nuovo - la struttura portan te dell’agricoltura meridionale? Nulla, assolutamente nul la; e l’invito e l’esortazione a risolvere la quistione “in mo do chiaroveggente e rivoluzionariamente saggio,” aveva un accento da filosofo deH’illuminismo settecentesco, che, con fidando nella ragione e nelle idee chiare, era sicuro di po ter vedere spuntare una nuova società a breve scadenza. Ma, ripetiamo, quale era il programma che Gramsci so steneva per i contadini del Mezzogiorno, che occupavano le terre, ricordando che di esse godevano per un diritto che si perdeva nella notte dei tempi e che erano state loro strappate dalla borghesia con la violenza e con i sol dati dell’esercito napoleonico o piemontese, o si sforza vano di allargare, anche se di poco, i confini del loro mi nuscolo e frantumato possesso? Il liberare dagli opposti pregiudizi sia “il contadino meridionale” sia “l’operaio in dustriale,” poteva essere un lodevole intento, che non agi va, però, in maniera concreta ed effettiva, sugli interessi dell’uno e dell’altro e, soprattutto, che non contribuiva affatto a migliorare la loro condizione economica, umana e sociale. Questa posizione falsa e priva di prospettive per i piccoli proprietari meridionali era possibile solo perché mancava, alla base, una esatta comprensione di una realtà che non rientrava in alcuni schemi generici e generali, che impedivano di calarsi veramente nella condizione di quei poveri contadini. Tant’è vero che, anche nelle tesi del III congresso di Lione, si trovano affermazioni che provengono da un si mile apriorismo: “come risulta dalla nostra analisi,” era detto in esse, “le forze motrici della rivoluzione italiana 178
sono, in ordine di importanza, le seguenti: 1) la classe operaia e il proletariato agricolo [del nord, come se fosse stato tutto omogeneo, schierato sulle stesse posizioni di lotta di classe, e come se non ci fossero state, anche in quel nord mitizzato, zone agricole di greve ed opprimente ar retratezza, egemonizzate dal clero e dai cattolici]; 2) i contadini del Mezzogiorno e delle Isole e i contadini delle altre parti d’Italia.” E proseguivano affermando che “lo sviluppo e la rapidità del processo rivoluzionario non sono prevedibili al di fuori di una valutazione di elementi sog gettivi: cioè nella misura in cui la classe operaia riuscirà ad acquistare una propria figura politica, una coscienza di classe decisa e una indipendenza da tutte le altre classi, dalla misura in cui essa riuscirà a organizzare le sue forze, cioè a esercitare di fatto un’azione di guida degli altri fat tori e in prima linea e concretare politicamente la sua alleanza con i contadini. Si può affermare, in linea gene rale, e basandosi del resto sulla esperienza italiana, che dal periodo della preparazione rivoluzionaria si entrerà in un periodo rivoluzionario ‘immediato,’ quando il prole tariato industriale e agricolo del settentrione sarà riuscito a riacquistare, per lo svolgimento della situazione ogget tiva e attraverso una serie di lotte particolari e imme diate, un alto grado di organizzazione e di combattività.” Perciò, “la forza motrice della rivoluzione italiana” avreb be dovuto essere “il proletariato industriale e agricolo del settentrione,” che, tuttavia, non aveva ancora acquistato quella coscienza di classe decisa e quel grado di organiz zazione e di combattività tali da consentirgli di far pas sare il paese dal periodo della preparazione rivoluzionaria a' periodo rivoluzionario “immediato,” e da concretare po liticamente l’alleanza con i contadini, i quali, ancora una volta (come sempre, del resto), erano oggetto di azione politica e sociale e non soggetto cosciente e partecipe. In fatti, questi contadini continuavano a rimanere una clas se subalterna, se le tesi, parlando di quelli del Mezzogior no e delle isole, dicevano che essi dovevano “essere posti in prima linea tra le forze su cui deve contare la insurre zione contro la dittatura industriale-agraria, per quanto non si debba attribuir loro, all’infuori di una alleanza col proletariato, una importanza decisiva. L'alleanza tra essi e gli operai è il risultato di un processo storico naturale e profondo, favorito da tutte le vicende dello Stato italia no”: il che equivaleva a sostenere che nemmeno il Partito comunista avrebbe potuto agire per preparare e sollecitare 179
una simile alleanza, dal momento che tutto avrebbe do vuto essere, fatalisticamente, “il risultato di un processo storico naturale e profondo, favorito dalle vicende dello Stato italiano.” Come si poteva sperare di fare una rivolu zione, nell'Italia di allora - e di sempre, del secolo scorso oppure di oggi -, in cui pure si ammetteva che esisteva una grande maggioranza di popolazione delle campagne, senza coinvolgere queste e, in particolare, senza adoperarsi attivamente per educare in esse una matura e consapevole coscienza di classe? “Per i contadini delle altre parti d’Italia,” continuavano le tesi, senza meglio specificare a quali contadini si ac cennasse, se soltanto alle “masse dei contadini slavi dell’Istria e del Friuli” e al “partito dei contadini” che aveva la sua base in Piemonte, di cui aveva parlato Gramsci nel suo rapporto, o anche a contadini di altre zone, “il pro cesso di orientamento verso l’alleanza col proletariato è più lento e dovrà essere favorito da una attenta azione po litica del partito del proletariato. I successi già ottenuti in Italia in questo campo indicano, del resto, che il problema di rompere l’alleanza dei contadini con le forze reazionarie deve essere posto, per gran parte, anche in altri paesi del l’Europa occidentale, come problema di distruggere la in fluenza della organizzazione cattolica sulle masse rurali.” Era un problema giusto, ma ci si sarebbe dovuti rendere conto che le “masse rurali” controllate dagli organismi cat tolici erano, in particolare, costituite di piccoli proprietari e non di salariati e braccianti, e che, perciò, si sarebbe dovu to operare in quella direzione, promuovendo, come abbiamo già detto, cooperative o forme di conduzione associata della terra, dalle quali i miseri e tormentati possessori di piccoli campi potessero trarre nuove ragioni di vita e non condurre una esistenza fra l’emigrazione interna o esterna, la soggezio ne al clientelismo e alla mafia ed una sudditanza schiavistica al potere politico o a quello economico, che approfittavano dei loro sudori per creare fortune non insidiate. Sia Gramsci sia le tesi si preoccupavano degli ostacoli allo sviluppo della rivoluzione che derivavano non solo dalla pressione fascista ma anche dai vari gruppi in cui si divideva la borghesia. Il primo, nell’art. cit. su “L’Unità” del 24 novembre ’25, criticava duramente “i capi del par tito massimalista,” che mascheravano “l’inerzia e la pas sività col vuoto verbalismo rivoluzionario e con le pose estremiste,” e che facevano propaganda “per la costituzio ne di un nuovo raggruppamento politico che racco[gliesse] 180
alcuni dei rottami dell'Aventino,” mentre un'azione analo ga svolgevano “sopra altri strati della classe lavoratrice e della piccola borghesia antifascista gli unitari e i repub blicani; fra le popolazioni rurali i popolari; fra le masse agricole della Sardegna i sardisti, e fra quelle del Mezzo giorno e della Sicilia l’Unione nazionale e la democrazia sociale.” Di fronte a questa penetrazione il Partito comu nista, a suo parere, avrebbe dovuto “riportare il proleta riato ad avere una posizione autonoma di classe rivoluzio naria, libera da ogni influenza di classi, gruppi e partiti controrivoluzionari, capace di raccogliere intorno a sé e di guidare tutte le forze che possono essere mobilitate per la lotta contro il capitalismo.” E ancora aggiungeva, chia rendo meglio il suo pensiero, che il PC avrebbe dovuto “adoperarsi per strappare alla influenza [dei gruppi e dei partiti controrivoluzionari] gli strati anche più arretrati della classe operaia e far sorgere dal basso un fronte uni co di forze classiste. Questo fronte unico deve avere una forma organizzata e la forma di esso è data dai comitati operai e contadini. Tutti i tentativi di costituzione di or ganismi rappresentativi di massa devono essere favoriti e sviluppati con tenacia e costanza, come avviamento alla realizzazione pratica del fronte unico dei comitati operai e contadini.” Riprendeva, con una certa monotonia, quella che si poteva considerare la sua posizione-chiave di questo periodo ed in cui riponeva tutte le sue speranze per una azione rivoluzionaria, cioè la formula della alleanza operai contadini, senza riflettere che fra gli operai e i contadini esi stevano ceti diversi e spesso anche contrastanti, i cui in teressi, divergenti, mal si sarebbero potuti accomunare. Uno studio esatto, scientifico, delle stratificazioni sociali non può non essere la premessa indispensabile, in qualsiasi periodo storico, per una efficace azione politica. A loro volta, le tesi, riprendendo le impostazioni di Gramsci, osservavano che i gruppi in cui si divideva la borghesia tentavano di esercitare la loro influenza “sopra ima sezione della popolazione” o sul proletariato “per far gli perdere la sua figura e autonomia di classe rivoluzio naria. Si costituisce, in questo modo, una catena di forze reazionarie, la quale, partendo dal fascismo, comprende i gruppi antifascisti che non hanno grandi basi di massa (liberali), quelli che hanno una base nei contadini e nella piccola borghesia (democratici, combattenti, popolari, repubblicani), e anche negli operai (partito riformista), e quel li che, avendo una base proletaria, tendono a mantenere le 181
masse operaie in una condizione di passività e far loro se guire la politica di altre classi (partito massimalista). Anche il gruppo che dirige la Confederazione del lavoro deve essere considerato a questa stregua, cioè come il veicolo di una influenza disgregatrice di altre classi sopra i lavoratori.” Era uno stato di cose che avrebbe potuto es sere modificato soltanto mediante “una sistematica e inin terrotta azione politica della avanguardia proletaria orga nizzata nel Partito comunista.” Una speciale attenzione do veva essere dedicata ai gruppi o partiti che avevano o cer cavano di formarsi una base di massa, “come partiti demo cratici o come partiti regionali, nella popolazione agricola del Mezzogiorno e delle Isole (Unione nazionale, partiti d’azione sardo, molisano, irpino, ecc.).” Si trattava di mo vimenti che rappresentavano un ostacolo “alla realizzazio ne della alleanza tra operai e contadini. Orientando le clas si agricole del Mezzogiorno verso una democrazia rurale e verso soluzioni democratiche regionali, essi spezzano la unità del processo di liberazione della popolazione lavo ratrice italiana, impediscono ai contadini di condurre a un esito la loro lotta contro lo sfruttamento economico e po litico della borghesia e degli agrari, e preparano la tra sformazione di essi in guardia bianca della reazione. Il successo politico,” concludevano le tesi, “della classe ope raia è, anche in questo campo, in relazione con l'azione politica del partito del proletariato.” Come si vede, l’intercsse del Partito comunista e dei suoi dirigenti era attratto, più che dalla “pressione fascista,” dalla influenza che i partiti democratici borghesi - che andavano dal libe rale al massimalista e alla Confederazione del lavoro - pote vano esercitare non solo sulle classi agricole (che, poi, veniva no compendiate in una sola categoria, cioè i contadini), ma perfino sul proletariato, impedendogli di portare a buon fine il “processo di liberazione della popolazione lavoratrice ita liana.” Ed ancora affiorava, vivo e insistente, il timore che i contadini, pur sfruttati dalla borghesia e dagli agrari, si pre stassero a diventare la “guardia bianca della reazione.” Era un timore che effettivamente doveva preoccupare, ma, per in dividuarlo meglio, si sarebbe dovuta fare quella analisi della stratificazione sociale della popolazione delle campa gne, la cui mancanza, già diverse volte, abbiamo detto es sere il difetto più grave della posizione dello stesso Gramsci e dei suoi compagni. In effetti - come abbiamo ripetutamente fatto notare -, fra coloro che troppo rapidamente e troppo genericamente 182
erano classificati come contadini, c’era anche il piccolo pro prietario, che non era adeguatamente preso in considera zione, con le sue tendenze moderate e conservatrici, dal PC, come si può scorgere anche daH’articolo di R. Grieco su II V Congresso del Partito Sardo d'Azione (in “L’Unità,” 2 e 11 ottobre ’25). Il Grieco conduceva una dura polemica contro il Partito sardo d'azione, definito “il comitato sar do dell’Aventino,” in cui “gli interessi dei contadini, dei pastori e dei pescatori della Sardegna” erano sopraffatti dalla “ideologia conservatrice dei capi opportunisti e de mocratici.” Erano questi ultimi che impedivano ai conta dini sardi di “redimersi dalla schiavitù economico-politica del grande capitale,” cercando e trovando un alleato nel solo regime che potesse garantire “la vitalità e lo sviluppo delle conquiste contadine,” cioè nel governo operaio-con tadino. Sul tema della ricerca e della scelta, da parte del partito contadino, di un alleato, che fosse “la classe capa ce di tenere il potere,” il Grieco si diffondeva a lungo, ma accennava non poche volte ai contadini poveri come ai na turali alleati degli operai rivoluzionari, e solo di sfuggita parlava della “maggioranza dei contadini medi” (espressione molto vaga che non si capisce bene che cosa volesse indica re): “[...] a che cosa può tendere un partito rivoluzionario contadino? Poiché si pone irresistibilmente un suo pro blema del regime, esso è destinato a diventare un ele mento della reazione. Solo se la classe contadina accet ta il problema del regime economico-politico contenu to nello formula governo operaio-contadino, essa può ga rantirsi la vittoria e (ciò che più conta) il rafforzamen to della vittoria. Solo creando delle unioni contadine regionali (e in questo concetto di unioni regionali è tanta parte del problema contadino italiano) che rag gruppino la totalità dei contadini poveri, e la maggio ranza dei contadini medi, magari federate nazionalmente, e le quali si propongano di affiancare la lotta della classe operaia, solo cosi la classe contadina può diventare una forza rivoluzionaria effettiva.” Certo, non si riesce a capire che cosa volesse dire il Grieco con quella “maggioranza dei contadini medi,” quasi contrapposta alla “totalità dei contadini poveri”: forse che sarebbe stato sufficiente rac cogliere nelle proprie file soltanto una parte dei contadini medi e abbandonare a se stessa l’altra parte? Ma, allora, quest’ultima dove sarebbe andata a finire? Con le forze rea zionarie o con quelle rivoluzionarie? Ma che la direttiva che puntava sui “contadini poveri” fosse suggerita o con183
sigliata dal partito, sta a dimostrarlo un altro breve arti colo di Gienne, in “L'Unità” del 30 settembre '25 (Movimen to giovanile in Sardegna), che, infatti, affermava: “[...] sic come l’economia sarda si basa sull’agricoltura, bisogna co minciare ad organizzare un serio lavoro tra i giovani la voratori dei campi, nelle campagne e nei villaggi. Organiz zare delle conferenze, delle riunioni, far aderire i conta dini poveri alla Associazione di difesa fra i contadini po veri; unire tutti gli operai ai contadini, far penetrare il comuniSmo profondamente in tutti i giovani lavoratori del l'isola.” Né rivestiva grande importanza il fatto che, ancora Gienne, il giorno seguente, 1° ottobre, chiarisse come era composta la popolazione della Sardegna, di contadini-lavoratori, di piccoli mezzadri, di contadini salariati e di pastori; né che nel modo seguente descrivesse la vita di que sti diversi ceti: “i piccoli proprietari terrieri possiedono un po’ di terra, il cui prodotto non basta a soddisfare i più elementari bisogni di chi lavora; [sono] co stretti] perciò a supplire lavorando la terra di qualche proprietario, mediante il compenso di 8 o 10 lire al giorno. Si badi be ne, al giorno, e cioè non per 8 ore ma dal sorgere al tra montar del sole, con qualche breve intervallo per la ma gra colazione e desinare [...]. Il piccolo proprietario con tadino, quasi sempre analfabeta, spesse volte improvvi samente, senza ch’egli possa credere alle proprie orecchie ed ai propri occhi, vien cacciato fuori dal suo campicello che è stato venduto all'asta per un paio di centinaia di lire”; “Altrettanto potrebbesi dire dei piccoli mezzadri, affittuari, ecc., i quali, oltre a pagare un esorbitante cano ne annuo al proprietario della terra o cedere a questi la metà del prodotto della terra, sono costretti a pagare tas se e poi tasse allo Stato che non fa niente per migliorare le sorti e le condizioni dell’agricoltura. Le tasse poi sono un vero malanno: vengono giù improvvise che il contadino non si aspetta nemmeno e che bisogna pagare: altrimen ti c’è il sequestro e il campicello va messo all’asta. Quello dell’asta è un fatto che costituisce una piaga nella Sarde gna,” una piaga per i piccoli mezzadri, ecc., ma non per quelle persone che si arricchivano "per mezzo delle com pere fatte per mezzo dell’asta,” quasi sicuramente d’accor do con l’esattore erariale. I contadini salariati (che erano i contadini poveri di cui i comunisti parlavano) non sta vano meglio: “sfruttati in modo inumano dai proprietari di terre e dai nobilucci locali, si contentano di poche lire 184
al giorno. Si può dire che della vita non godano nessuna comodità: vivono per lavorare, lavorano per mangiare. L’orario delle 8 ore è sconosciuto; l'organizzazione non esi ste, esisteva in qualche centro, ma ormai il fascismo ha civilizzato anche la Sardegna, riducendo il tenore di vita dei contadini nelle condizioni di 51 anni fa.” Infine, i pasto ri venivano ingaggiati ad annate e percepivano da 500 a 1000 a 1200 lire di paga all’anno, “secondo la loro età e capacità di lavoro: hanno un vitto e un po’ di biancheria, a seconda delle modalità fissate nel contratto o del bisogno che il padrone ha d’ingaggiare il servo e a seconda l’ar rendevolezza di quest’ultimo. Come si vede, condizioni più che pessime: le cattive annate poi fanno il resto.” Una simile analisi, cosi puntuale e minuta, che riusciva a squarciare il velo della realtà sociale sarda, avrebbe dovuto condurre a indicazioni precise per l’azione, ma Gienne, se era capace di fotografare una situazione, non lo era altrettanto quando era messo di fronte al compito di proporre soluzioni: era solo capace di dire che i giovani contadini sardi e gli adulti, “troppe volte turlupinati dai politicanti democratici autonomisti e fascisti,” avrebbero presto compreso “che solo il comuniSmo è la fine del loro sfruttamento, è l'inizio di un'era migliore.” Né, ripetiamo, c’era troppo da meravigliarsi di questa sordità di fronte ai problemi concreti da parte dei dirigenti comunisti, dal mo mento che abbiamo visto gli stessi Gramsci e Grieco par lare di alleanza operai-contadini senza minimamente sfor zarsi di penetrare negli anfratti dei diversi strati che com pongono una classe, che non può mai essere presa come un blocco granitico e compatto (cosi facendo, c’è il peri colo di cadere in un marxismo deteriore e, sotto certi aspetti, idealistico). Tipica è, a tale proposito, la meravi glia che traspare dal rapporto del Grieco del 1” agosto '25, già citato sopra, in cui egli parla di un giro fatto in Pie monte “per renderci meglio edotti della situazione. Da di chiarazioni fatteci da uno dei capi attuali del partito dei contadini (deputato Prunotto di Alba) abbiamo appreso che il partito contadino non ha un numero di aderenti su periore a 25 mila (ma noi siamo certi che anche questa cifra è un bluff), mentre i capi contadineschi hanno fatto sempre credere di avere oltre 100 mila famiglie di conta dini nelle loro file; abbiamo appreso altresì che il 10% degli iscritti è composto di braccianti e salariati, cosa che noi ignoravamo, il 35% di piccoli mezzadri e piccoli fittavoli, il resto di piccoli proprietari, dei quali molti conta 185
dini poveri [cioè circa il 55%!]. Si verifica un notevole eso do di contadini dal partito dei contadini, perché questo partito non dà nessuna garanzia di difesa alle masse che vi aderiscono.” Anche queste erano constatazioni prezio se, che avrebbero potuto essere alla base di un lavoro pro ficuo, solo però se il partito comunista non avesse pre stato la sua attenzione esclusivamente ai contadini poveri ma avesse anche intravisto 1’esistenza dei piccoli mezza dri, dei piccoli fittavoli e dei piccoli proprietari e si fosse proposto di venire incontro alle loro esigenze. Infatti, quel “notevole esodo di contadini dal partito dei contadini” non avveniva, quasi certamente, perché i contadini, stan chi del loro partito, si volgevano a creare o a rafforzare un’ala sinistra che stringesse rapporti con il PC, quanto piuttosto perché, trascinati dal loro spirito intimamente conservatore (si può dire che non ci sia nessuno più fero cemente conservatore di chi ha una piccola cosa sua da difendere), venivano attirati dal fascismo: il Grieco notava che dei “capi contadineschi” alcuni erano “in opposizione al fascismo,” mentre altri erano “filo-fascisti e dirigenti di un presunto neo-partito chiamato partito contadino na zionale.” Evidentemente, quei dirigenti dovevano avere un seguito, e sarebbe molto interessante sapere con esattezza da chi era composto: si vedrebbe quasi sicuramente che erano soprattutto i piccoli coltivatori a lasciarsi riassor bire dal regime. Ad ogni modo, non è forse possibile sostenere che nes suna traccia sia rimasta nel Grieco e nei suoi compagni dalla esperienza fatta durante il giro in Piemonte, o al meno sarebbe una affermazione eccessiva e ingenerosa, poiché si può scorgere il ricordo di quella esperienza in un appello diretto dalla Internazionale contadina al V Con gresso del Partito sardo d’azione, tenuto a Macomer: dopo una premessa che prendeva in esame la situazione economico-sociale della Sardegna “una delle regioni relativamen te più ricche, ma con una popolazione che è fra le più povere”), risalendo anche al periodo post-unitario, dal 1861 al 1887 (“i commerci con la Francia in vino, carne, lana, ecc. procedevano regolarmente; i porti occidentali, che so no i migliori, lavoravano alacremente. Le leggi doganali del 1887 fanno cessare improvvisamente il commercio, le banche falliscono inghiottendo i risparmi dei contadini, dei pastori e dei pescatori: questi si indebitano fino ai capelli, e, per pagare i fitti, si danno al disboscamento, alla produzione del carbone. Cosi, la ricchezza pubblica ha 186
un colpo formidabile: il disboscamento rovina le condizio ni agricole dell’isola ed il contadino sardo diviene più po vero”), e dopo una serrata critica del partito sardo d’azione (che aveva abbandonato la sua piattaform a originaria, accogliendo “antichi schiavisti sardi ed avvocati di vec chie cricche e politicastri d’ogni politica,” tanto da diven tare “il legame necessario fra la politica schiavista del ca pitale continentale e i contadini sardi”), il Grieco - che, più tardi, disse di avere scritto lui l’appello per conto del l'Internazionale contadina - esponeva il “programma degli operai rivoluzionari d’Italia,” un programma che mirava “alla costituzione di una Repubblica italiana dei soviet operai e contadini,” che desse “nelle mani degli operai e dei contadini il potere politico ed economico ed il pos sesso dei mezzi di produzione. Che cosa significa,” egli si chiedeva, “questo programma per gli operai e per i contadini sardi? Esso significa: 1) che le miniere saranno nazionalizzate, cioè che il prodotto minerario invece di es sere esportato grezzo, sarà lavorato in Sardegna; 2) le grandi proprietà terriere, e quelle di coloro che posseggo no la terra e non la lavorano, saranno espropriate senza indennizzo e date ai contadini sardi che non hanno ter ra; 3) le forze idriche della Sardegna, già industrializzate, diverranno proprietà della classe lavoratrice sarda e non dei capitalisti; 4) che, essendo soppresso il protezionismo degli industriali, i contadini sardi non dovranno pagare anche il premio ai loro affama tori; 5) che la emigrazione sarà soppressa, potendo la industrializzazione della Sar degna assorbire la mano d’opera contadina esuberante; 6) le saline saranno tolte al lavoro dei galeotti e date al lavoro degli operai; 7) saranno tolti alla speculazione dei privati i caseifici, e gli industriali non potranno più affit tare i pascoli ed imporre i prezzi che vogliono monopoliz zando la produzione, ma il regime pastorizio sarà regolato dalle associazioni cooperative dei contadini e dei pastori; 8) la industria del sughero sarà affidata ai contadini; 9) le ferrovie sarde saranno amministrate dai lavoratori della Sardegna; 10) i piccoli fittavoli non pagheranno più il fitto ai padroni; 11) i debiti e le ipoteche dei piccoli contadini verranno annullati; 12) i contadini che hanno poca terra ne avranno quanta è sufficiente ai loro bisogni familiari; 13) gli impieghi pubblici saranno dati ai figli dei contadi ni della Sardegna, i quali saranno messi nelle condizioni di coprirli; 14) un Consiglio, composto di operai, di conta dini, di pastori e di pescatori, cioè composto dai rappre 187
sentanti di tutti gli elementi produttori, diventerà l'ammi nistratore della ricchezza e regolerà la produzione non per la borghesia sarda o italiana o estera, ma nell’interesse degli operai e dei contadini della Sardegna e dell’Italia; 15) una lotta senza quartiere sarà condotta dallo Stato soviettista contro la guerra imperialistica e contro la minac cia di un ritorno della borghesia capitalistica spodestata.” Indubbiamente, si tratta di un programma interessan te, ma che solleva diversi problemi; il Grieco, in una nota inserita in una raccolta di Scritti scelti (pubblicati nel 1966), ha affermato di aver prospettato “ai lavoratori sar di un tipo di Stato socialista federativo in Italia, nel qua le la Sardegna entrerebbe come Repubblica federata.” Peraltro, dalla lettura del documento non parrebbe, per ché anzi ne scaturiva una visione dell’isola quasi intera mente separata dalla penisola, poiché tutti quei provve dimenti (nazionalizzazioni, espropriazioni, soppressione del l’emigrazione e abolizione del protezionismo industriale, esclusiva assunzione negli impieghi pubblici dei figli di contadini sardi, consigli di operai, di contadini, di pastori e di pescatori, e, infine, lotta contro la borghesia spode stata), se potevano essere concepiti come un esperimento in vitro in una ristretta zona, non avrebbero potuto essere estesi a tutto il paese, a meno di non volersi impegnare in una azione a molto più ampio respiro e tale da coinvolge re l’Italia intera: altrimenti, come avrebbe potuto vivere la Sardegna isolata e senza alcuna relazione con uno o più paesi capitalistici? Perciò, il programma, sotto questo aspetto, rigettava risolutamente ogni federazione di re pubbliche e delincava una ristrutturazione della Sardegna su basi strettamente autonomistiche, verrebbe fatto di dire autarchiche. Inoltre, il documento ondeggiava ancora, sen za riuscire a prendere una posizione decisa, fra la ten denza a favorire e a mettere in primo piano la spartizio ne delle terre (una specie di occupazione legalizzata), op pure le associazioni cooperative (limitate, peraltro, a set tori ben definiti), o un aiuto ai piccoli fittavoli e piccoli con tadini; si continuava, inoltre, a parlare di contadini (poveri) a cui sarebbe stata affidata, ad esempio, l’industria del sughero; ecc. Si trattava di una incertezza (contadini po veri, piccoli coltivatori, cooperative?) e di una ambiguità che durerà a lungo nel Partito comunista e che si farà sentire anche in questo secondo dopoguerra, ma che, al lora, poteva essere giustificata perché scaturiva da una elaborazione teorica troppo scarsa e rapida. 188
Come si è visto, con Gramsci e con il Grieco abbiamo cercato, nei limiti delle nostre possibilità, di discutere ap provando e confutando certe posizioni quando ci è sem brato opportuno di doverlo fare, ma, almeno, abbiamo trovato - ed è quello che maggiormente conta - frequenti e seri motivi di discussione e di dibattito. Ma se andiamo a vedere, invece, gli scritti di P. Togliatti relativi a questo periodo, rimaniamo quasi stupiti per la povertà dei proble mi sollevati o affrontati. La questione della piccola borghe sia, che tanto rilievo aveva avuto in Gramsci, non rientra af fatto nell’ambito delle sue osservazioni: ne parla, non come questione, bensì come una nota di sfuggita, quando, in occa sione del congresso del Partito popolare di Torino del '23, ne dice l’anima “di carattere quasi esclusivamente bor ghese,” ed afferma che essa è composta di “una piccola e media borghesia di professionisti, la quale è mossa in par te da interesse politico, ma in parte anche da convinzione e da motivi ideologici”; e, poi, dopo la crisi Matteotti quando afferma che la situazione italiana si è chiarita mo strando il grave isolamento del fascismo “dalla grande mag gioranza delle forze reali e della opinione pubblica del paese. Il crollo è soprattutto notevole,” prosegue, “per quello che riguarda il sostegno dato al fascismo dalla pic cola borghesia: gli strati decisivi della piccola borghesia si mobilitano con rapidità contro il fascismo, schierandosi dietro i gruppi della opposizione antifascista liberale, de mocratica o riformista. Questo spostamento apre natural mente la via a un ritorno in campo di forze antifasciste più profondo e più vasto di quello effettuatosi il 6 aprile. Il fascismo, di fronte al crollo, rimane sbalordito e perde il controllo completo di sé.” Questo articolo, su “Lo Stato operaio,” è dell’ottobre '24; già prima, nell’agosto, Togliat ti aveva scritto che il regime era venuto meno allo scopo che si era prefisso, di creare intorno a sé una unità di tutte le forze della borghesia, sicché restava aperta una via che era quella della “progressiva mobilitazione, sul terreno della lotta antifascista, di tutte le energie utilizzabili in essa, che due anni di dittatura e di terrore hanno fatto m aturare: energie di classi medie e piccolo-borghesi, ma in prima linea le energie di operai e contadini.” Ma era stato costretto a riconoscere che la classe operaia non era ancora (o, almeno per il momento, più) in grado di pren dere l’iniziativa, perché “la disorganizzazione in cui l’hanno gettata tre anni di reazione le impedisce di essere il fat tore determinante della situazione.” Che cosa rimaneva 189
da fare, allora, quale “via maestra” si apriva per “abbatte re il fascismo come regime di compressione per la mag gioranza della popolazione italiana? Una sola via,” egli sosteneva, “quella della manovra diretta a chiamare in campo e organizzare gli strati più profondi della popola zione, a spostare il centro dell'attenzione politica dal parla mento alle forze reali del paese, a diminuire la capacità di resistenza del fascismo opponendogli una mobilitazione degli operai e dei contadini per la lotta diretta, armata, contro le bande che sono l’unico sostegno del suo potere.” In tal modo, Togliatti si proponeva - anche se aveva dovuto ammettere che alle votazioni del congresso nazionale della FIOM deH’aprile '24, cioè di quello che era considerato l’organismo sindacale più combattivo, il Partito comunista e, in genere, le correnti rivoluzionarie, avendo riscosso solo il 10°/o, avevano subito una sconfitta e avevano rivelato “alcune deficienze gravi” - di fare si che la classe operaia, che pure non gli sembrava in grado di assumere l’inizia tiva, si battesse contro l’opposizione costituzionale bor ghese, il cui intento era sullo stesso piano fascista, volen do impedire ogni ripresa del movimento operaio e non sovvertire ma conservare il “regime capitalistico borghe se.” La sola soluzione per le opposizioni non poteva esse re ormai - aggiungeva - che una “alleanza proclamata, o di fatto, coi gruppi di destra, cioè l'aperta adesione al programma di mantenere intatta tutta la sostanza reazio naria del regime fascista, cambiando però l’insegna di esso e chiamandolo, anziché fascismo, ‘Stato liberale nor malizzato.’ Anche i capi del partito socialista propendono per essa e parlano di un ritorno in parlamento per facili tarla! È il tradimento aperto, confessato, spudorato, di ogni proposito di lotta antifascista intesa come lotta per la liberazione delle grandi masse dal giogo della reazione. Di fronte ad esso, la crisi della opposizione, cioè del bloc co indistinto di forze proletarie, semiproletarie, e piccolo borghesi e borghesi che si è raccolta dietro la guida di Amendola, Sturzo, Turati e l’Avanti', non potrà non spez zarsi. La parola che il Partito comunista ha lanciato dal l’inizio della crisi sta per ricevere attuazione: da una par te i borghesi, dall’altra i proletari e i proletari organiz zati sopra un fronte di classe per la lotta contro il fasci smo quanto contro la borghesia liberale, per la sola solu zione possibile del problema italiano, per l’instaurazione, attraverso la lotta antifascista aperta e violenta, di un go verno di operai e di contadini.” 190
E senza posa Togliatti celebrava “la funzione della classe degli operai e dei contadini come unico possibi le centro di raccoglimento delle energie che all’Italia pos sono dare un effettivo rinnovamento di tutta la campagna [sic! forse: compagine] dello Stato.” Ma si trattava di formulette, che erano, fra l’altro, espresse in maniera ap prossimativa, e che ritornavano continuamente, senza la viva problematica, l’intensa forza dialettica e la spesso tormentata e scavata riflessione interiore che avevano in Gramsci, il quale, pur con i limiti che abbiamo cer cato di mettere in luce, andava tuttavia alla ricerca del modo migliore per inserire, nelle complesse e in tricate vicende di quel momento, la sua risoluta volontà di agire, sempre rinnovata e adeguata alle cangianti situa zioni. Togliatti, al contrario, sembrava non aver la forza per scoprire - verrebbe fatto di dire, per inventare - nuove so luzioni e creare nuovi miti, tali da scaldare il cuore e da trascinare ad una concreta attività. Anche la sua analisi del successo del fascismo, delle forze sociali e politiche che lo avevano sorretto e dei precedenti storici era alquan to opaca: “Il partito ha raccolto attorno a sé,” scriveva nel settembre del '23, “una classe la quale ‘voleva’ esser portata alla conquista dello Stato, anzi, alla creazione di uno Stato nuovo.” Questa classe (?) era stata la piccola borghesia, che aveva sostenuto i fascisti “per la certezza che da essi sarebbe sorto un nuovo ordine di cose.” Ma era rimasta delusa, perché, in economia, “la grande indu stria ha avuto mano libera e lo Stato ha dato, col suo in tervento, valore di legalità alle truppe con le quali essa ha saccheggiato e disperso il piccolo risparmio italiano. Il patto del 1887, col quale si vendeva il pane dei conta dini del Mezzogiorno per ingrassare la borsa dell’industriale e del banchiere del Nord è stato rinnovato,” mentre, in politica, la parola d’ordine era di “tornare all’antico. Si parla della vecchia Destra e della sua tradizione ri presa. In realtà un'altra tradizione è stata ripresa: quel la della Sinistra peggiore, quella di Depretis e di Giolitti” (che, però, a dire la verità, non poteva essere considerata, tutto sommato, peggiore di quella del Crispi, del Di Rudini, del Pelloux, del Saracco, del Sonnino). Accanto a quella tradizione, forse più potente ancora, c’era “la buro crazia, la grande forza che da cinquant’anni assorbe ed annulla tutte le energie che, con la loro vivacità, minaccia no troppo gravi pericoli. Il duce ha ereditato da Dronero [cioè da Giolitti, che aveva il suo feudo elettorale a Dro191
nero, in provincia di Cuneo] l’arte di allettare, l'arte di corrompere, l'arte di distribuire impieghi, l’arte di prepa rare un voto, l’arte di servirsi delle elezioni [...]. Ha il pi glio del dominatore, in realtà è già un dominato. Chi lo domina è la vecchia anima dello Stato italiano, di cui es so credeva di servirsi e che, invece, si è servita di lui, della sua forza brutale e cieca, per troncare un processo di svolgimento nel quale troppi germi di cose nuove effet tivamente erano contenuti. È Roma, la tradizione, la forza livellatrice e assimilatrice, la continuità dello Stato buro cratico, conservatore e sbirro, che ha vinto, e in modo trionfale.” Eppure lo squadrista che si aggirava per i pa lazzi della capitale e vedeva a guardia di essi i moschetti delle camicie nere e queste scambiarsi per le vie saluti roma ni, credeva di essere, “egli, povero figlio di piccoli borghesi lombardi o di proletari meridionali, il trionfatore. Quel le camicie nere, quei moschetti, quel saluto romano, hanno qualche cosa di funereo, qui. Sono le pompe funebri rese al cadavere della rivoluzione, della piccola borghesia ita liana, che lentamente si sta putrefacendo, sotto questo cielo immutabile di Roma [...].” Chi abbia una anche modesta dimestichezza con la pro sa e con il periodare di Gramsci, potrà subito rendersi conto di quanto questa forma di Togliatti sia stentata, scar na e sciatta. In particolare, a chi ha presente l’ansioso additare ulteriori prospettive capaci di risvegliare gli spi riti, si accorgerà quanto siano povere queste analisi di To gliatti: con la lenta ed assolata putrefazione del cadavere della piccola borghesia sembra che debba concludersi definitivamente un discorso che, per Gramsci, cominciava proprio allora. Per quanto riguarda, infine, la “parola d’or dine” dell'alleanza operai-contadini, essa era veramente, nel futuro capo del PCI, una formula, che veniva ripetu ta meccanicamente senza averla fatta scaturire, come era ac caduto per Gramsci, da un travaglio spirituale, che poteva essere stato anche penoso in quanto aveva almeno, in parte, imposto una revisione della politica precedentemente seguita, basata sui consigli operai di fabbrica. E tutti dovrebbero sa pere che con le formule, vuote e non vissute nell’intimo, non si può costruire nulla che abbia la forza di innovare effettivamente, e ancor meno di rivoluzionare la vita solita e comune.
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Capitolo decimo
Il trasformismo mussoliniano e l’adesione al fascismo delle clientele meridionali
La crisi della piccola e media borghesia poneva seri problemi anche - e, forse, soprattutto - al fascismo, che era arrivato al potere con l’appoggio che gli era venuto da tale ceto, specialmente nel Settentrione: e parrebbe che Mussolini comprendesse quasi subito la grande importanza che rivestiva per il suo regime l’apporto dei clerico-fascisti, i quali, indubbiamente, controllavano i piccoli e medi coltivatori e proprietari più di quanto non lo facessero le altre correnti (la sinistra del Miglioli e il centro di don Sturzo) del PPI. Cosi, adducendo un pretesto non me glio motivato, cacciò, dopo il congresso di Torino del ’23, gli esponenti popolari che erano entrati nel suo ministero. Inoltre, per quanto riguardava la piccola e media borghe sia urbana, egli non era nelle condizioni di poter rinuncia re alla sua adesione, perché essa inseriva il movimento delle camicie nere nella storia d’Italia, in particolare di quella risorgimentale e rappresentava l’indispensabile trait d’union, legame, con la società italiana: la piccola borghe sia era stata, spesso, nell’Ottocento, radical-democratica e giacobina, ma, con il nuovo secolo si era spostata a de stra, diventando nazionalista, interventista e, ad ogni mo do, contraria alle classi lavoratrici. Sotto questo aspetto, un piccolo capolavoro va definita l’operazione che condus se alla fusione del fascismo con il nazionalismo, molto desiderata non solo dal duce (il quale voleva combattere quella che è stata definita dal De Felice la “massiccia penetrazione nazionalista” nel Mezzogiorno, una penetrazio ne che aveva assunto non poche volte “il carattere di aper ta concorrenza, non solo organizzativa, ma anche politi ca al fascismo”), ma pure da molti di coloro che, ben pre sto, alimenteranno la corrente più o meno apertamente dissidente dei revisionisti (Rossi, Rocca, Bottai, ecc., soste nuti da “Il Giornale d’Italia”), che erano decisamente per 193
“una vera e propria fusione,” essendo convinti di poter portare al fascismo quel contributo di competenza e di cultura di cui aveva bisogno e di essere in grado di equi librare l’influenza degli “intransigenti”; mentre altri na zionalisti erano più favorevoli ad una federazione, che ga rantisse loro di mantenere una certa autonomia e di non disperdere del tutto la propria fisionomia. Sia gli uni sia gli altri, tuttavia, avevano la netta consapevolezza di rap presentare una forza politica che, a differenza dei rozzi fascisti, aveva elaborato una chiara e matura dottrina po litica, sul piano internazionale e anche su quello interno Di fronte, però, al risoluto rifiuto dei fascisti, designati dal gran consiglio, il 12-13 gennaio del ’23, a far parte della commissione incaricata di discutere i rapporti del PNF con l’ANI, chiesero almeno che il loro movimento soprav vivesse come “organo di elaborazione della dottrina nazio nale e di propaganda nazionale” e che venisse loro conces so un terzo dei posti nella direzione del PNF, e nel gran consiglio. Ma anche questi tre progetti, presentati dal Roc co e dal Gugliemotti, furono respinti da Mussolini, sicché ai nazionalisti non rimase che accettare la fusione a condi zioni tutt’altro che favorevoli (ratificata il 26 febbraio da parte della commissione mista, il 4 marzo dal comitato centrale dell’ANI e il 12 marzo dal gran consiglio). La decisione venne accolta con spirito diverso nel nord e nel sud, tranne in poche province di quest’ultima zo na principalmente ad opera di alcuni uomini, come ve dremo fra poco: infatti, a Milano l’opposizione alla fusio ne fu capeggiata da D. Alfieri e buona parte dei nazionali sti milanesi si rifiutò di accettare il concordato, fondan do, nel marzo '23, una Associazione imperialista italiana, che, in seguito, si chiamò Associazione imperialista monar chica, e, infine, Associazione nazionalista monarchica. La dissidenza trasse, invece, origine dal vecchio clientelismo nel Mezzogiorno, dove “i fascisti,” nota il Gaeta, “assiste vano al concentramento dei più disparati interessi attorno al nazionalismo, ad un nuovo dislocarsi delle vecchie cric che liberal-democratiche in cerca di punti di confluenza per continuare a servirsi in qualche modo dello Stato. In prevalenza, si trattava del vecchio sottobosco politico meridionale che cercava di adeguarsi, con una spregiudi cata prontezza, alla nuova situazione politica generale, fiutata con intuito consumato.” In effetti, le cose si erano svolte cosi: “La tattica impiegata dai gruppi locali giolittiani, liberal-nazionali, democratici fu quella di costituire 194
rapidamente delle piccole sezioni fasciste che inquadras sero i propri sostenitori ed escludessero gli aderenti ai gruppi avversari; gli esclusi si riversarono nelle sezioni na zionaliste o le fondarono dove non c’erano e dove potero no.” Un simile clientelismo è, d’altronde, documentato da un dispaccio del prefetto di Catania (oltre che da un detta gliato memorandum della segreteria regionale di Basilica ta dell’Ass. nazionalista italiana, a firma di U. d’Andrea, in cui, peraltro, si metteva in rilievo esclusivamente il clien telismo di marca fascista, a differenza di quanto faceva l’ispettore generale PS Di Tarsia, il quale, in una sua in chiesta, nella stessa Basilicata, affermava che, poiché il fascismo nella zona era nato “per iniziativa dei proprie tari,” i nazionalisti non avevano rifuggito dal creare la propria organizzazione “sulla piattaforma dell’antica lot ta di classe,” facendo leva sui contadini) del febbraio ’23 al ministero dell’Interno (riportato dal De Felice), dispaccio che faceva presente le difficoltà che avrebbe incontra to la fusione nella sua provincia: “la fusione [...] sarà im possibile e, in molti luoghi, potrebbe essere la rovina del fascismo più puro e più vero, che è poi quello sorto nelle minoranze e che non può essere sopraffatto da maggio ranze camuffatesi nazionaliste, ma che rappresentano sol tanto vecchie camarille abbarbicate al potere, perché da questo traggono compensi e guadagni.” Ma quando quel prefetto parlava di “fascismo più puro e più vero, sorto nelle minoranze,” alludeva senz’altro al fascismo del Set tentrione, e non poteva immaginare che anche il partito che aveva occupato da poco lo Stato, si sarebbe lasciato corrompere dalle “vecchie camarille abbarbicate al po tere,” che, nel Meridione, erano più forti di qualsiasi pote re centrale. Il contrasto, peraltro, tra camicie nere e ca micie azzurre derivava anche da altri motivi, perché, nel partito fascista, erano la destra ed i moderati a guardare con simpatia ai “cugini” nazionalisti, mentre gli “intransi genti” ed i vecchi squadristi rimproveravano loro la rigi da fedeltà alla monarchia, il conservatorismo “ancien re gime,” o “vecchia maniera,” ed alcuni rapporti con determi nati gruppi economici che avrebbero potuto imprigionare e snaturare il fascismo “rivoluzionario.” Certo, nessuno che avesse osservato con attenzione la politica italiana dal l’anteguerra in poi, poteva negare che il nazionalismo era collegato, come abbiamo detto altre volte, con gli interes si dell’industria tessile, che continuava a guardare, con occhi cupidi, ai Balcani e all’opposta sponda adriatica 195
come alla propria naturale area di espansione, tant’è ve ro che, fra il '22 e il '23, non pochi nazionalisti pensavano ad un colpo di mano in Dalmazia e lo andavano predican do, se non addirittura preparando. A prova di ciò sta il fatto che Mussolini fu costretto ad impartire, il 28 novem bre '22, disposizioni per impedire qualsiasi azione contro la costa dalmata. Malgrado queste disposizioni, e sebbene il duce rilasciasse al giornale jugoslavo “Trgovinski Glashik” una dichiarazione da cui risultava che il suo governo non aveva “alcuna aspirazione sulla Dalmazia,” il timore di un improvviso colpo di mano continuava a rendere in quieti i rapporti fra i due paesi, tanto che Mussolini do vette ammonire, il 30 agosto, i prefetti delle province adriatiche che “il governo fascista non intende essere imbaraz zato da azioni private.” Ma le aspirazioni espansionistiche ed imperialistiche erano parte integrante della dottrina fascista (come aveva dichiarato lo stesso duce alla riunio ne di piazza San Sepolcro del '19), e, perciò, il primo mini stro italiano faceva, verso la metà del '23, l’ingloriosa spe dizione di Corfu, quasi a dimostrare ai nazionalisti che il vero espansionista era lui, Mussolini: per lui i nazionalisti, come aveva detto con convinzione prima del '22, “da buoni partitanti legati a un sistema mentale rigidamente immutabile,” continuavano a biascicare le “giaculatorie strategiche del 1914,” come se nulla fosse cambiato nel mondo. Inoltre, il nazionalismo era imperialista, mentre il fascismo era espansionista; era monarchico mentre il fascismo, al di sopra della monarchia, metteva la nazio ne. Espansionista era perché non si arrestava ipnotizzato dall’Adriatico, un “modesto golfo” rispetto al Mediterra neo, “nel quale le possibilità della espansione italiana so no fortissime.” Nemmeno questa spedizione, tanto celebrata, come ab biamo già detto, dalla stampa del regime, era riuscita a modificare la fisionomia “moderata” assunta dalla pseu do-rivoluzione dell’ottobre e poi accentuata dalla fusione con i nazionalisti: era significativo, a tale proposito, il commento del Cantalupo sull’organo nazionalista, l’“Idea nazionale” del febbraio '23, alla confluenza del suo parti to in quello fascista: “Noi siamo fascisti,” egli scriveva, “da quando, scacciato il Borbone ed ammessa contempo raneamente la necessità cavouriana, sabauda e garibaldi na di condurre a Roma la capitale, risolvemmo sintetica mente e definitivamente entro di noi la discussione tra la coscienza religiosa e la coscienza patriottica [...]. Per non 1%
aver mai concepito altra forma di regime che la monar chia, per non aver mai neppur supposto che occorresse distruggere il papato per conquistare la totale unità del la patria, per avere respinto il veleno socialista fin dalle prime manifestazioni epidemiche, noi siamo fascisti dal 1800.” Si trattava di una chiarificazione, “in linguaggio giornalistico,” conclude il Gaeta, “d'una parziale mezza verità: la filiazione nazionalfascista dallo stato moderato uscito dal processo risorgimentale italiano.” Ad una simile interpretazione, in chiave moderata e conservatrice, del fascismo su cui si erano innestate le for ze nazionalistiche, tentò di ribellarsi, a Napoli, A. Padova ni, una specie di ras sui generis, fino alla metà del ’23, della capitale partenopea e della Campania, dove era chia mato, per antonomasia, “il capitano.” Molto stimato da Mussolini per il suo passato di valoroso combattente sia sul fronte libico sia su quello della prima guerra mondia le, e per l’ardore con cui aveva guidato di persona le azio ni degli squadristi contro le organizzazioni rosse. Per la fierezza del carattere e il suo disinteresse, rimase, anche do po che Mussolini aveva reso, con il discorso di Napoli del 24 ottobre '22, un aperto omaggio alla monarchia e al sovrano (c’è chi dice dietro consiglio dell’altro gerarca napoletano, Nicola Sansanelli, ma, evidentemente, il du ce aveva già deciso di fare un simile atto che gli avrebbe spianato la via verso il potere: intanto cadde il teatro, come scrisse un cronista del tempo per dare l’idea dell’en tusiasmo suscitato dall’abile attore nel popolo, fra cui era anche il Croce, accorso ad ascoltarlo), un repubblicano con vinto e, secondo il suo temperamento, non nascose affatto tali suoi sentimenti. Secondo le sue precise accuse, P. Gre co, capo dei nazionalisti della Campania, manteneva una stretta alleanza con la camorra dominante nel nolano, ter ra d’origine del Greco stesso, e in Terra di Lavoro, dove egli aveva il suo feudo elettorale; inoltre, i nazionalisti erano aggiogati al carro del clientelismo e del trasform i smo. Tutto ciò, il Padovani non poteva sopportare, poi ché egli mirava a moralizzare la vita politica del capoluo go campano, senza risparm iare nemmeno il suo stesso par tito. G. Dorso, in La rivoluzione meridionale, riconosce che il “capitano” tentò di creare un “nuovo mondo brancolan do superbamente nel caos. Formò sezioni, ne sciolse, desti tuì fiduciari, rifece direttori, impastò, spastò, sempre cer cando di raggiungere una perfezione politica, che era una categoria puramente formale. Siffatto sforzo, assurdo dal 197
punto di vista politico, ma bello dal punto di vista morale, fu deriso universalmente, tanto sembrò impossibile che un uomo solo potesse, col semplice irrigidirsi, riformare il co stume politico di una regione.” Lo stesso Dorso lo definisce il viceré di Napoli,” per il suo aumentato potere fra il '22 e il '23: ma presto sopraggiunsero giorni amari per lui, poi ché il suo duce lo obbligò dapprima a dimettersi dalla mas soneria, e poi gli ordinò di procedere alla fusione con i nazio nalisti. Il Padovani pensò di opporre un netto rifiuto; poi, però, per non andare incontro a sanzioni disciplinari, cer cò di chiedere garanzie e propose che, per la Campania, si modificassero le disposizioni impartite, nel senso di non ammettere automaticamente nelle file fasciste i provenien ti dal nazionalismo, ma l’ingresso avvenisse solo dietro do manda personale di chi volesse operare il passaggio, una domanda da sottoporre all’esame degli organismi dirigen ti del PNF, incaricato di indagare soprattutto sui requi siti morali del firmatario. Tuttavia, una tale richiesta destò la reazione del Greco e dei suoi seguaci, costringendo Mussolini ad una faticosa opera di mediazione: in un lungo colloquio offri al Pado vani il comando della mvsn in Emilia-Romagna - la re gione che aveva deciso il successo delle camicie nere -, mentre il Greco sarebbe stato ammesso al gruppo parla mentare fascista con l’ingiunzione di rinunciare a qual siasi attività politica in Campania. Il “viceré di Napoli” rifiutò sdegnosamente il compromesso e si dimise dal partito e dalla milizia: “Il Mezzogiorno,” diretto dal Pre ziosi, creatura del Farinacci, commentò: “Aurelio Pado vani, con fiera e rigida coscienza, è giunto alle conclu sioni che il suo modo di concepire il fascismo gli impo ne. Le ragioni della sua condotta risalgono alla limpi da sorgente della fede abbracciata nell’ora dei dubbi, dei rischi, dei pericoli, e serbata pura dai contatti e dalle transazioni.” Tuttavia, non era ancora venuto il momen to del ras di Cremona, perché si era al maggio del ’23, e il duce, allora, cercava di non irritare troppo gli elemen ti moderati, di destra si potrebbe dire, del suo partito, perché era da essi che poteva sperare un collegamento con l’opinione pubblica conservatrice del paese e, pertanto af frontò risolutamente gli incidenti dei “fedelissimi” del capitano, fra cui si manifestavano ribellioni agli ordini ro mani. “I poliziotti,” ha scritto D. Farina, “hanno ricevuto istruzioni categoriche di sorvegliare i più turbolenti che vanno in giro armati di bastone. Costoro sono tradotti in 198
questura e diffidati: non possono portare al braccio nep pure un sottile fusto di bambù. Allora escogitano una beffa, arrotolando pagine di giornali a foggia di bastone con manico pure di carta appeso al braccio. Gli agenti nicchiano ed ecco qualche testa calda riprerfdere a por tare un nodoso bastone mimetizzato in fogli di giornale.” Avendo provato l’inutilità dei metodi forti per sedare il malcontento e il fermento dei camerati napoletani, Mus solini tentò una conciliazione, inviando nel capoluogo campano il Balbo con l’incarico di persuadere il viceré a ritirare le dimissioni. Ma non ci fu nulla da fare, ed allo ra il direttorio del PNF respinse le dimissioni del Pa dovani, “e, considerandolo colpevole di grave e ostinata indisciplina lo espelle dal partito e con lui tutti gli even tuali consenzienti, singoli e fasci.” Una decisione, peral tro, continuava il comunicato, che non doveva “essere in terpretata nel senso che l’on. Greco possa diventare il nuo vo leader del fascismo campano. Egli deve limitarsi ad essere un gregario disciplinato.” Una deliberazione che, oltre ad essere ispirata al solito machiavellismo, rivelava che il duce aveva urtato contro una resistenza tenace e imprevista, che gli aveva reso impossibile il gioco di altale na fra la destra e gli squadristi estremisti, che sognavano una rivoluzione (non si sa, però, di quale tipo e con quale programma): gli erano utili e necessarie entrambe le ali, in quel periodo, e non poteva rinunciare a nessuna delle due. Infatti, avendo soppresso, o mirando a sopprimere, la dialettica dei partiti politici, dei sindacati e delle forze sociali, doveva cercare di non distruggerla anche all’inter no del suo movimento. D’altra parte non poteva cedere, dare, non appena salito al potere, l'impressione di debolez za a tutte le camicie nere e a tutti i simpatizzanti di fron te alla ribellione di colui che era stato il suo luogotenen te nella città che aveva “dato il viatico alla rivoluzione fa scista.” Perciò, non diede ascolto alle vibrate, e spesso espresse con la solita retorica stile liberty, proteste che giungevano da Napoli o da altre città, come, ad esempio quella degli squadristi della “Serenissima” - detta la più spericolata e intrepida nelle spedizioni punitive -, con cui si comunicavano le irrevocabili dimissioni e si rivolgeva al duce la seguente domanda, molto enfatica: “Se i nostri mor ti potessero risorgere e potessero vedere lo scempio che del fascismo si vuole fare nella Campania, finora esempio a tutte le regioni per disciplina sentimento compattezza, sarebbero pronti nuovamente a morire?” Oppure come 199
l’altro telegramma, non meno eroico, con cui “i cento soci della cooperativa noleggiatori automobili sorta e creata da Aurelio Padovani,” dichiaravano che, “apprenden do le di lui dimissioni da nostro comandante e dal partito, non possono che seguirne l’esempio. Essi, con le lagrime agli occhi, tolgono i segni del littorio dal loro garage e li conservano gelosamente ricordando al loro capo Padovani che i cuori di tutti i soci e i cento motori delle loro macchi ne sono pronti a pulsare all’unisono come già seppero fare nelle recenti, gloriose giornate della rivoluzione.” Tuttavia, ispirata ad un opposto animus pugnarteli contro il decaduto proconsole della capitale del Mezzogiorno, era pure la lettera del duce al direttorio nazionale del PNF, mirante a bloccare ogni tentativo, fatto da qualche gerarca, di far rientrare il Padovani nel partito: “Mi pare che sia pro prio l’ora di finirla col continuare a prosternarsi conti nuamente e inutilmente davanti alla deità irata del signor capitano Aurelio Padovani. Io stesso, che pure sono un temperamento un po’ difficile, ho fatto con lui e per lui quello che non avrei fatto con mio padre e con mio figlio. Ora basta! Quindi dev’essere mantenuta la sua espulsio ne dal partito. Egli è il fascista più indisciplinato d’Ita lia.” Eppure, ancora una volta, Mussolini fu costretto a rinunciare a questa posizione cosi rigida quando il delit to Matteotti provocò, a Napoli, violenti scontri tra i fasci sti e gli oppositori, con alcuni morti e diverse decine di feriti. Allora il duce senti il bisogno del viceré per ripor tare la calma nella città e lo invitò a palazzo Venezia per un colloquio. Il Padovani avverti di trovarsi in una posi zione di forza, il che gli diede la possibilità di parlare chia ramente, e forse anche duramente, a Mussolini: gli disse che era necessario, perché il fascismo potesse ottenere un vero consenso popolare e acquistare credito presso l’opi nione pubblica e i governi stranieri, ripristinare tutte le libertà, in primo luogo quella di stampa. Inoltre - e qui insisteva sul suo vecchio e preferito motivo moralizzatore - avrebbe dovuto essere effettuata una radicale e profon da epurazione nelle stesse file del fascismo. Solo a queste condizioni - concluse - si sarebbe messo di nuovo agli ordini del duce. Il quale, però, respinse recisamente questa specie di ultimatum e telegrafò al prefetto di Na poli ordinandogli di tener d’occhio il Padovani in modo da impedirgli un eventuale colpo di testa. Cosi si spegneva, a poco a poco, nel silenzio e nell’o blio, l’avventura di A. Padovani, che aveva creduto - scris200
se ancora G. Dorso - “di possedere una grande idea. Egli si trovava in uno stato di esaltazione, che gli faceva appa rire miracolosa la sua formula di intransigenza. Egli vede va nel nazionalismo campano l’anticristo, il principio del male contrapposto al principio del bene e considerava re probi tutti quelli che si opponevano o soltanto dubitavano dei suoi sforzi. Ma in questa lotta Padovani era destinato a sicura sconfitta.” Si avverte, in queste parole dell’antifa scista conseguente e rigoroso Dorso, una vena di simpatia e di partecipazione al triste destino di colui che era appar so e rapidamente scomparso nel cielo della Campania ani mato dalla decisa volontà di redimerla dai suoi mali seco lari. Ma l'errore del Padovani fu di ritenere che tali mali consistessero soltanto nella camorra, nel clientelismo e nel trasformismo che, senza dubbio, rendevano più opprimen te la situazione degli strati più umili e più bassi, ma che erano solo una componente di quella situazione in cui en travano ben altri elementi. Insomma, egli - riprendiamo le già citate parole del Dorso - tentò di costruire “il nuo vo mondo brancolando superbamente nel caos,” cioè sen za una precisa idea di come dovesse essere il nuovo mon do vagheggiato e intravisto e che avrebbe dovuto nascere sulla base del fascismo, di un fascismo epurato con in transigenza ma che pure rimaneva “una categoria puramen te formale,” che mai sarebbe giunta a spogliarsi dei carat teri originari, che erano la violenza, la sopraffazione e il disprezzo dell’individuo: lo stesso culto del popolo napo letano per la figura carismatica del capitano, stava a di m ostrare come egli non si preoccupasse troppo di far pas sare quei suoi fedeli dall’umiliante rango di sudditi al ruo lo ben più dignitoso, anche se fastidioso, di cittadini. Questo nostro giudizio potrà, forse, sembrare un po' troppo duro, soprattutto se si pensa alla soddisfazione apertamente dimostrata dal Croce e dall’Amendola per la eliminazione del Padovani, la vittoria del nazionalfascismo e il venir meno del pericolo di una lotta decisa con tro il clientelismo camorristico e trasformistico della clas se politica meridionale. A tale proposito - osserva il Colapietra -, “per toccar con mano, durante una crisi acutissima, il fondo conservatore, patriarcale, borghese, che animava” sia il Croce sia l’Amendola di fronte ad un eventuale e paven tato mutamento rinnovatore, non sarebbe male porre a con fronto un discorso del primo, Il paradiso abitato da diavoli, con l’articolo con cui il secondo commentava, sul “Mon do” del 24 maggio ’23, “il caso Padovani.” Entrambi si ri 201
volgevano alla borghesia, alla “classe colta ed intellettua le delle nostre provincie a cui spetta il prossimo dovere di amare e di far amare la patria,” come diceva il Croce, alla borghesia turbata e sviata dalla sua funzione direttri ce da una “artificiosa agitazione,” che non era stata altro che la conseguenza di “sfoghi di rancori lungamente re pressi” ed esacerbati ad arte da “tirannie di proconsoli lo cali," come affermava l’Amendola con una allusione fin troppo trasparente al viceré. Peraltro, il filosofo, nella sua conferenza napoletana, dopo aver genericamente riprovato la moda, recentemente diffusasi “con esempi nauseabon di,” di ingiuriare i popoli sulla base di pregiudizi radica ti ma ingiustificati, si diffondeva sulla necessità di “una robusta vita etico-politica” nella società quale esigenza sen tita da chiunque guardasse “con interessamento e solleci tudine politica all’unità ed al ritmo generale della vita.” Una simile esigenza lamentava di non ritrovare a Napoli (a differenza dell’Amendola, il quale riteneva che il Mezzo giorno fosse stato impermeabile al bolscevismo per una sua virtù politica innata e autentica), il cui popolo guar dava le cose “senza riscaldarsi,” con spregiudicata ironia, senza riuscire a concepire il dovere della lotta, che il Cro ce, astrattamente e teoricamente, pensava connaturata alla vita sociale e alla stessa vita umana. Ma solo astrattamen te e teoricamente, perché - nota giustamente il Colapietra - “dove e contro chi e perché esercitare tale lotta? Qui il Croce tace, e non potrebbe altrimenti, perché il suo pro tagonista, nell’epoca murattiana come oggi, è esclusivamente la borghesia intellettuale ed agraria, proprio cioè quel che, da Padovani a Dorso ed ai comunisti, stava per diventare la materia del contendere, e già come tale era stata identificata dal Salvemini. Onde il discorso del Cro ce non può che chiudersi a mezzo, e rivolgersi ad evoca re le lotte, più che mai eticamente intese, del passato an ziché a precisare quelle, inevitabilmente sociali, dell'avve nire: è in nuce la conclusione pontificale della Storia del Regno di Napoli, una sfilata di ombre magnanime, il Pan theon meridionale, in cui il circolo etico-politico del Mezzo giorno s’è chiuso una volta per sempre.” È proprio cosi: la storiografia del Croce, tutta e soltanto affisata nella contem plazione degli eroi, dei personaggi-protagonisti, delle élites borghesi, non era in grado di comprendere il formicolare di basso e minuto popolo (la plebe) che, confusamente, si agitava al di sotto. Ma, verrebbe fatto di chiedersi: que sto popolo lo vedeva o lo comprendeva il Padovani? Si 202
ha l’impressione che ciò, in lui, non avvenisse, perché la politica continuava a rimanere una prerogativa dei grandi uomini, i quali facevano e disfacevano a loro pia cimento, destituivano, impastavano e spastavano come lo ro piaceva. Ci siamo dilungati, forse troppo, su questo episodio del Padovani perché esso aveva rapporti, da un lato, con il nazionalismo e, dall’altro, con il combattentismo: la sua azione, infatti, chiarisce come, effettivamente, il nazionali smo sentimentale, in molti, e antisocialista, nei più, abbia veramente costituito “l’anello di saldatura fra la classe dominante, gli agrari e gli interessi finanziari e della confindustria, e la piccola borghesia cittadina,” facendo di quest’ultima la massa di manovra dei primi, “senza che fosse ben chiaro ai fascisti ‘cittadini’ il risultato pura mente reazionario” delle tendenze in apparenza violente mente eversive, di palingenesi sociale, che ne costituiva no il contenuto e il metodo; “e senza che ci si rendesse ben conto, nell’assoluta mancanza di cultura tecnica e politica, caratteristica del gruppo, della vacuità dei miti ‘sociali’ agitati per giustificare il proprio operato.” Mol to probabilmente, anche il rivoluzionarismo del Padovani fu più di facciata che sostanziale e trovò il terreno fertile nell’ambiente napoletano che, dall’Ottocento in poi, dal Bakunin, aveva accolto con calore e seguito ogni dottrina e movimento che si presentasse con un aspetto anche va gamente anarchicheggiante. E bisognerebbe studiare me glio se lo stesso Padovani non sia stato appoggiato dall’e lettorato abituato al clientelismo del ceto politico liberale, il quale, in una fase di transizione, quale fu quella fra il ’23 e il '24, era portato a lottare contro i nuovi padroni che si erano insediati, con arroganza, a Roma. Qualcosa di simile a quanto era avvenuto a Napoli e in Campania avvenne pure in Sardegna, dove, in un pri mo momento, il fascismo, per mezzo del gen. A. Gandolfo, mandato nell'isola da Mussolini alla fine del ’22 a sosti tuire il prefetto di Cagliari come rappresentante del fa scismo e del governo con pieni poteri, non solo parve ri prendere - sostiene l’Aquarone - le “tendenze decentratrici che avevano caratterizzato gli studi ed i progetti de gli ultimi governi anteriori alla marcia su Roma,” ma anche dare maggiore importanza alla nuova generazione “politicamente estranea al trasformismo e al ministerialismo,” scri ve il Sechi, “seriamente decisa a tradurre in azione con creta le aspirazioni, indeterminate ma sincere, ad un or205
dine sociale e a una prassi politica più onesta e respon sabile. Le sue radici,” prosegue il Sechi, “affondano nel la piccola borghesia urbana e rurale, cioè in uno strato della popolazione ancora debole, privo di organicità so ciale e compattezza ideologica, che riflette le caratteri stiche storiche della penetrazione del capitalismo nell’i sola. Questo spiega perché la piccola borghesia sia sta ta una clientela politica passiva (il boss elettorale dei parlamentari sardi è costituito, in prevalenza, da proprie tari fondiari, ceto commerciale e industriale) e abbia ap poggiato tutti i tentativi di ribellione del proletariato sar do, dopo l’Unità, finendo, più tardi, riserva di caccia dei partiti radicale e socialista.” Siamo di fronte, però, ad af fermazioni che si contraddicono l'una con l’altra: come si può conciliare, infatti, quella “generazione politicamente estranea al trasformismo, ecc.” che viene spinta alla ribal ta dal fascismo, con quella piccola borghesia che, pur es sendo stata, dopo l’unità, una clientela politica passiva so prattutto dei proprietari fondiari (gli unici attivi in Sar degna, dove non esistevano ancora industrie), appoggiò tuttavia i tentativi di ribellione del proletariato sardo (che non potevano essere rivolti che contro gli agrari) e che. più tardi, diventò una riserva di caccia per i partiti radica le e socialista? Si dovrebbe dire che una tale piccola bor ghesia è stata veramente maestra nell’arte del trasformi smo, da essa esercitato con sottile raffinatezza. Ma, tralasciando queste, a nostro parere, evidenti con traddizioni, ci sembra di poterne constatare un’altra, forse più grave, consistente nella riluttanza della base ad ab bandonare gli “uomini che, seppure con errori e deviazio ni pericolose, seppero farsi interpreti dei suoi bisogni e dei suoi ideali.” La stessa documentazione su questo pro blema sta ad indicare la lentezza e la difficoltà che incon trano le “forze giovani” ad imporsi, sebbene avessero o credessero di avere - l’appoggio dei rappresentanti del governo centrale. Il 16 febbraio ’23, il prefetto di Sassari, M. Sani, scriveva in un suo rapporto: “queste lotte tra fascisti e sardisti che occupano in primo piano la vita po litica dell’isola, sono solamente l’aspetto esteriore ed ap pariscente; perché fra le quinte agiscono sempre gli espo nenti degli antichi partiti i quali non possono assolutamente vedere senza preoccupazioni l’eventuale coalizio ne delle forze giovani, che stanno per raccogliersi sotto un’unica bandiera, con che essi dovrebbero rassegnarsi a scomparire. Qundi non preoccupa tanto il sardismo di 204
Nuoro con le sue ramificazioni, né il nucleo socialcomu nista di Tempio, quanto la neutralizzazione di coloro che sembrano meno temibili, ma sono i veri agenti disgrega tori.” L’apporto delle “forze giovani,” peraltro, non sem brava affatto scontato, perché nell’isola esistevano due movimenti - il Partito sardo d’azione e l’Associazione na zionale combattenti - che raccoglievano già nelle loro fi le gran parte di quelle forze; eppure, precisava il Gandolfo, senza esse il fascismo avrebbe còrso il pericolo di “morire nei corridoi di Montecitorio,” vittima dei tradi zionali partiti politici. Ed egli giungeva a sostenere che la valorizzazione del regime in senso rivoluzionario e tale da consentire al paese di raccogliere i frutti dell’acuta crisi post-bellica, poteva essere determinata soltanto da un mo vimento popolare di massa, pur se a carattere antifasci sta. Queste preoccupazioni erano condivise da alcuni uo mini del PSd’A, come un Lussu, il quale temeva, sopra ogni altra cosa, che il paese potesse ricadere nelle mani delle vecchie consorterie politiche dell’anteguerra. Per ciò, l’alternativa che si poneva era chiara ed esplicita e non avrebbe potuto condurre che a una soluzione: “o con tro il fascismo,” scrive il Sechi, “in un movimento nuovo, di sinistra, antidemagogico (cioè antisocialista), non co munista (perché l’ideologia del PCd’I non-» sarebbe adat tabile alle condizioni precapitalistiche della Sardegna), e, quindi, tanto meno democratico, o dentro il fascismo allo scopo di rinnovarlo e conquistarlo dall’interno.” Cosi, un gruppo di dirigenti sardisti fece atto di adesione al fa scismo, ottenendo una certa influenza negli organi diri genti del partito; ma soltanto una certa influenza, poiché segretario politico per la provincia di Sassari fu nomi nato l’avv. Antonio Leoni (era passato al fascismo da pochi giorni e riscuoteva le simpatie sia dei vecchi fasci sti sia dei sardisti), coadiuvato da tre membri provenienti dal PSd’A; la funzioni di segretario politico per la pro vincia di Cagliari furono provvisoriamente demandate a un triumvirato composto da un fascista della prima ora, da un nazionalista e da un sardista. Il direttorio fu in tegrato con altri cinque membri, tutti sardisti, mentre se gretario politico della sezione di Cagliari fu nominato il leader nazionalista sardo e cosi pure nazionalista fu co lui al quale il gran consiglio affidò, nel marzo del '23, l’in carico di commissario politico per la Sardegna. Come in altre occasioni e in altri luoghi, questo com promesso, che parve avvantaggiare i nazionalisti, destò, 205
nella cosiddetta ala di sinistra del fascismo, una vivace rea zione, provocando le dimissioni del delegato regionale dei fasci e del delegato provinciale di Sassari. Ma gli organi di stampa nazionali e le agenzie parlarono del “passaggio in massa” dei reduci sardi al fascismo, e la giunta ese cutiva del gran consiglio prese atto, con piacere, dell’avvenuta fascistizzazione della “grande maggioranza” del PSd’A. Tuttavia, se, da un lato, l’ambiguo compromesso (che rivelava, ancora una volta, l’esigenza in cui si trovava il duce di accontentare ora gli elementi di sinistra ora quelli di destra) generò del malumore in coloro che rite nevano, forse sinceramente, che (come aveva detto lo stes so Mussolini visitando la mostra degli artisti del “Novecen to”) “il ’900 [fosse] un anno importante perché segna l’ingres so di gran parte del popolo italiano nella vita politica. Non bisogna essere malcontenti che ciò sia arrivato”; dal l’altro, generò “acredine e delusione” nella classe dirigen te, che controllava i due giornali dell’isola, “La Nuova Sardegna” e “L’Unione sarda,” e "che subito cercò di mi nimizzare i tentativi del PSd’A di giungere a un accordo, denunciandoli come “un vago tentativo di pochi, un se gno di disorientamento di un partito che più non esiste e che non sarebbe mai dovuto esistere per il male che ha fatto alla nostra gente in Sardegna e più ancora fuori di essa” (“La Nuova Sardegna,” 10-11 marzo ’23). Inoltre met teva in luce (quel compromesso) il carattere antipatriottico e separatista dei sardisti, proprio nel momento in cui il duce proclamava, parlando dell’emigrazione, che “il mio governo abolisce i campanili perché gli italiani non veda no che l’immagine augusta della Patria. Questa è l’opera alla quale il mio Governo intende con tutta la sua pas sione e con un senso religioso di fede.” Né tralasciava dal mettere in guardia i dirigenti fascisti dall’affidare compi ti direttivi “alle nuove reclute,” fra cui sarebbero state in primo piano “alcune personalità sulle quali pesa partico lare responsabilità delle deviazioni antinazionali cui si la sciò andare il partito nell’ultimo anno; dal divieto dei fe steggiamenti per il principe ereditario alla minaccia del la insurrezione armata contro i fascisti del congresso di Nuoro.” E poco più tardi, nel maggio, concludeva con una specie di ultimatum, affermando che “la penetrazione nel fascismo di siffatti elementi non può che nuocere alla compattezza delle sue forze; e forse pure offuscare, dinan zi alle masse, le sue idealità; e il conferimento ad essi di funzioni direttive e di controllo non può non apparire 206
come una improvvida abdicazione dell'autorità e della di gnità fascista.” Era alquanto strano sentire questi individui parlare di idealità, di autorità e di dignità del fascismo, mentre non miravano ad altro che ad impedire una eventuale intesa degli stessi fascisti con i sardisti in funzione scardinatrice del loro antico predominio clientelare sulla vita politi ca dell’isola; avrebbero, insomma, voluto indurre i nuovi padroni a ricercare i propri alleati nella vecchia classe di rigente ed erano mossi, come metteva in rilievo il “Gior nale di Roma,” dallo “scopo evidente di disgregare forze che potrebbero essere domani unite.” Ma il Gandolfo e i due più noti esponenti del sardismo confluiti nel fasci smo, Pili e Putzolu, non si arresero, respingendo - scri ve il Sechi - “ogni proposta di collaborazione e i suggeri menti che vengono da più parti per una tattica più fles sibile e possibilista nei confronti del mondo politico del l’anteguerra.” I due massimi rappresentanti del fascismo sardo poterono, con la tipica coerenza degli ex-azionisti, proseguire “l’opera di rinnovamento dell'ambiente politico regionale, colpendo con lo stesso vigore e senza pietà gli uomini da sempre responsabili, personalmente e politi camente, dello sfacelo generale delle condizioni dell’iso la,” ma appoggiando “l’impegno di Gandolfo"à fare del fa scismo lo strumento di punta della modernizzazione del l’isola. Il prefetto giustifica, cioè, sul terreno concreto del le realizzazioni, la linea dell'unificazione col PSd’A e dà una dimostrazione inconfutabile della carica moralizzatri ce e antitrasformista del fascismo. La lotta senza quartiere contro le vecchie camarille democratico-liberali e contro l’opposizione sovversiva di sinistra [guidata dall’“azione subdola e pertinace” degli “ultimi autonomisti tipo on. Lussu e on. Cao”], è un momento caratterizzante del suo impegno. L’intensità della pressione esercitata dalle vec chie forze esige da parte del fascismo una risposta che non dia adito a dubbi. La condotta degli avversari e degli esclusi dalla ‘fusione’ è ispirata a una tattica a doppio bi nario, ma è anche il prodotto di un reale disorientamen to.” In effetti, alla base delle “velleità di rilanciare” una confusa, improbabile e spontaneistica operazione antifa scista, “o, più semplicemente di polemica antigovernati va, c’è un coacervo di rancori e di interessi da soddisfare.” Gli avversari dell’operazione condotta in porto dal Gan dolfo si fecero sentire anche a Roma, accusando sia il Gandolfo stesso sia l’alto commissario Caprino di essersi 207
accordati solamente con alcuni esponenti sardisti, rappre sentanti di una piccola frazione del partito; di non aver tenuto nel debito conto, per far convergere sul fascismo un consenso di massa, della borghesia “sana ed operosa,” impadronendosi, come aveva fatto il prefetto di Sassari, dell’Unione industriali e commercianti e della Cassa agri coltori, comprendente circa 700 piccoli proprietari. Of fri un aiuto a questa campagna “calunniosa e diffamatoria” dei capi liberali conservatori, il segretario della milizia volontaria fascista, M. Rovello, che si dichiarò ripetutamente contrario alla fusione, accettando la posizione del vecchio marchese, “ridotto ormai a fare il lattaio,” Giacomo di Villahermosa, fondatore di una associazione “Mussolini-Italia,” forte, all’inizio del '24, di circa 1.0001.500 iscritti, ma di cui le autorità fasciste di Cagliari chiesero insistentemente lo scioglimento, per porre ter mine alla sua attività scissionistica. Secondo il Rovello, la fusione avrebbe portato all’egemonia, in seno al par tito fascista, di Pili e degli “elementi più bacati e com promessi” con le tendenze bolscevizzanti e separatistiche del PSdA, evitando lo scioglimento di quest’ultimo e facendo confinare i benemeriti uomini liberali “nei cam pi d’internamento sindacali.” Sempre secondo il Rovello, l’azione del Pili sarebbe stata un seguito ininterrotto di arbitri e di illegalità, con metodi che sarebbero ricaduti sugli stessi membri dei fasci, i fedeli “diciannovisti,” che erano stati espulsi e sostituiti con altri individui noti per il loro settarismo antifascista, per il loro sistematico sabo taggio all’opera della milizia, la loro inettitudine e il loro opportunismo. “Che tra la fine di aprile e il dicem bre [del ’23],” nota il Sechi, “gli esponenti della vecchia classe dirigente non si ritraggano dinanzi a nessun espe diente per screditare il fascismo sardo, nella forma che ha assunto con l’ingresso dei sardisti, e provocare, con l'allarmismo, un intervento delle autorità centrali, del partito e del governo, in misura tale da portare ad un rimescolamento delle carte (ad essi favorevole) nella si tuazione politica, non esistono dubbi.” In realtà, proprio in questo periodo, il Gandolfo de nunciò diverse volte “l’offensiva romana” delle forze de mocratico-liberali sarde e il loro tentativo di ottenere nella capitale ciò che non riuscivano ad ottenere a Ca gliari, per la sua opposizione. “Io al mio arrivo in Sar degna,” scriveva al quadrumviro M. Bianchi, esponendo le difficoltà contro cui aveva dovuto, e doveva lottare, 208
“dovevo scegliere tra. due soluzioni: una comoda ma di sonesta: affidare il fascismo nelle mani delle vecchie con sorterie che, cambiando etichetta, avrebbero perpetuato i loro sistemi e rafforzato le loro posizioni; una difficile, ma onesta, quella cioè di epurare finalmente l'ambiente dal marasma che l’aveva per anni avvelenato, stroncando coraggiosamente le persone più rappresentative dei vecchi e odiosi sistemi camorristici e attingendo alla purissima fonte delle forze giovani dell’Isola. Ho pretèrito la secon da Eppure, dopo alcuni mesi era costretto a ricono scere, con una certa stanchezza, che tutta la sua forza di volontà non era riuscita a vincere la tenace resistenza de gli avversari, tanto che chiedeva a Roma “di essere soprat tutto sorretto dagli organi centrali presso i quali, a salvaguardia del mio prestigio e della mia autorità, dovrebbe essere inibito assolutamente l’accesso di quei tali signo ri,” riferendosi ai vari Dessi-Delipieri, Carboni-Boy, Sanna Randaccio, tutti rappresentanti della antica e combattu ta classe politica. E di nuovo, in rapporti e lettere a Mus solini, al Bianchi e al Finzi, si lamentava, chiamando di rettamente in causa i romani presso i quali tutti coloro che si opponevano alla sua politica erano sicuri di ottene re ascolto e soddisfazione: “Ogni volta che io colpisco, o sto per colpire qualcuno, o tutti i componenti di uno di quegli aggregati di uomini, che si formano allo scopo di prevalere per ambizione o per materiali interessi nella vita pubblica di questo disgraziato paese, il colpito, o i colpiti, trovano modo di correre a Roma, parlare, o far parlare in loro vece una persona onesta, influente e ma gari anche all’apparenza patriottica, la quale deve rap presentare la situazione dell’Isola e la mia opera alla luce delle loro miserevoli passioni, passioni che non voglio neppur definire politiche, perché non meritano un tal nome.” Ma, a poco a poco, cresceva nel Gandolfo1 la sensazio1 Confessiamo di non capire molto bene ciò che scrive G. Sotgiu sulle “manovre demagogiche e corruttrici con le quali il generale Gan dolfo, inviato da Mussolini in Sardegna per conquistare al fascismo i sardisti, riusci a spezzare l'unità del Partito sardo e ad assorbirne un gruppo di dirigenti”; a suo parere, “il trionfo definitivo del fascismo por tò, come conseguenza, anche alla caduta delle prospettive che il PSd'A aveva aperto.” Ma, poco dopo, mette in rilievo gli “elementi di debolezza della politica sardista,” in quanto “la battaglia istituzionale per l'autonoxnia non riuscì a legarsi sufficientemente a quella sociale (anche se non mancò una notevole iniziativa in direzione della cooperazione) e nei con fronti del movimento operaio organizzato [ma esisteva, allora, in Sardegna?] si ricercò non un terreno di incontro, ma di concorrenza, che talora de generava nella rissa. L'autonomia, pertanto, era sentita, anche nel pri209
non riuscire più a contrastare efficacemente “i notabi-ne di li sardi” e “l’irriducibile ostinazione dei grandi elettori,” mentre veniva meno la possibilità, per il fascismo isolano, di resistere agli antichi centri di poteri. Il fatto era che si affievoliva sempre più l’appoggio che, almeno inizialmen te, il Gandolfo aveva ricevuto dal centro, un appoggio vol to a scardinare ed a disintegrare più che la ragnatela clien telare degli antichi padroni della Sardegna, la resistenza dei sardisti, attestati, in maggioranza, su posizioni che avrebbero potuto contrastare la penetrazione della nuova dottrina delle camicie nere: tanto che, nell’ottobre del ’23, egli rivolgeva al Bianchi un appello pressante che era an che una precisa denuncia di una incapacità, o non volontà, di agire seriamente: “Un intervento rapido e chirurgico occorre se si vuole evitare che il male assuma proporzioni più allarmanti e che il fascismo in provincia di Sassari ser va da comodo paravento a clientele personali.” Ma ormai la lotta contro gli ambienti democratico-liberali si poteva dire conclusa, e contribuì, in maniera decisiva, a porre termine ad essa il viaggio che il duce fece nell’isola, da Sassari a Cagliari, da Macomer ad Iglesias e ad Arbatax fra I’ll e il 13 giugno, dopo che si era già tenuto il con gresso straordinario di Macomer (4 marzo), su una base che avrebbe rappresentato un notevole successo per i sar disti, poiché prevedeva: 1) scioglimento dei fasci dove la fusione non era ancora avvenuta; ricostituzione di essi af fidata ad una commissione mista; decadenza di tutte le cariche del fascismo sardo meno quella del segretario re gionale; congresso regionale da indirsi al più presto; 2) lad dove non esisteva una sezione fascista, la sezione sardista mo dopoguerra, dalle popolazioni delle campagne sarde, contadini e pastori; ma è difficile non cogliere il distacco tra queste posizioni e quelle di una parte del gruppo dirigente.” Ma, allora, come si possono denunciare le “manovre demagogiche e corruttrici del Gandolfo,” se la lotta per l'autonomia - la cui importanza era avvertita anche dai conta dini e dai pastori (fino a che punto: forse si rendevano esattamente con to dello sfruttamento cui erano sottoposti da parte degli imprenditori del nord?) - si risolvette soltanto “in accanite, violente, e, talora san guinose battaglie per spazzare via le vecchie clientele, per conquistare le amministrazioni comunali, cosi da avere le basi necessarie per una lotta più generale di rinnovamento dell'isola”? Ebbene, la lotta contro le vecchie clientele non era forse condotta pure dal gen. Gandolfo, certo su un piano quasi esclusivamente politico, come, del resto, era, secondo il Sotgiu, quella condotta dai sardisti? Entrambi non capivano a fondo le implicazioni di natura economica e sociale di una simile lotta c credevano che liberare la Sardegna dalle clientele parassitane e camor ristiche fosse sufficiente per ridare all'isola la libertà e la dignità da lungo tempo perdute. 210
diventava senz’altro sezione fascista; 3) impegno del rappre sentante del governo a sollecitare la realizzazione, nel più breve termine possibile, del progetto di autonomia regionale amministrativa; il riordinamento amministrativo della Sar degna avrebbe dovuto essere attuato assumendo come punto di riferimento la regione e non le province. Gli autonomisti sardi che si preparavano ad entrare nel par tito fascista consideravano queste concessioni come il pri mo passo verso il conseguimento delle loro aspirazioni, che consistevano nell’impegno a prendere in esame la que stione doganale nei riguardi dell’isola e a risolverla non appena fossero stati compiuti gli studi tecnici necessari; e nel riconoscimento dell’identità del programma del PSd’A con il programma fascista. Ma Mussolini, ricevuto il patto concordato fra il Gandolfo ed un esponente sardi sta, il Pili, lo respinse con un dure dispaccio: “Proposte capi sardisti sono assolutamente inaccettabili. Non intendo fare nessuna benché minima concessione su terreno au tonomia.” Eppure, quello che il Sechi definisce “processo di erosione” destinato a condurre alla liquidazione “la prin cipale forza di opposizione esistente nella regione,” era già cominciato con il passaggio ai fasci di alcuni rappre sentanti del partito sardo (14 febbraio), ed a nulla era valso il congresso di Macomer, che, secondo “Il Popolo sardo,” deplorò “la secessione di alcuni degli organizzati” appro vando il seguente ordine del giorno: “Il congresso, riaf fermando la fede intatta e immutabile negli ideali de? PSd’A dichiarati dai Congressi, e la ragion d’essere della sua organizzazione e della sua azione pratica; riconoscen do che le dichiarazioni di conformità programmatiche e i propositi manifestati dal governo fascista forniscono giustificazione all’opera del Direttorio; nell’attesa che il governo fascista inizi opere di effettiva e vigorosa realiz zazione; deplora la secessione di alcuni degli organizzati che non vollero attendere alle decisioni, sole legittime, del Congresso, e passa all’ordine del giorno.” A dire la verità, non si riesce a capire quali fossero i propositi manifestati dal governo fascista e nemmeno si capisce come si potesse sperare che il regime iniziasse “opere di effettiva e vigorosa realizzazione,” soprattutto dopo il dispaccio intransigente del duce, che aveva svuo tato di qualsiasi significato il congresso sardista. E che da Roma fossero venute direttive restrittive lo si era già capito da una lettera di E. Lussu pubblicata il 18 febbraio su “Il Popolo sardo,” al direttorio del Psd'A e della fede 211
razione dei combattenti, in cui rendeva minutamente con to dei rapporti che aveva tenuto con il Gandolfo, in seguito alle pressioni di “numerosi amici.” Il Lussu aveva chie sto al generale che “volesse precisare il suo pensiero che, peraltro, aveva già comunicato ai nostri amici. Precisò chiaramente le sue proposte: 1) scioglimento di tutti i Fasci esistenti nell’Isola e del Partito sardo d’azione; 2) ricostruzione in un primo tempo, attraverso le sezioni com battenti, del nuovo Partito fascista con a capo me. - Ri sposi che il Partito aveva gli organi direttivi e che era ne cessario consultarli: ma che mi sembrava che questa fu sione sarebbe stata eventualmente possibile solo a queste condizioni: 1) Immediato impegno del Governo per la rea lizzazione delle aspirazioni autonomistiche della Sardegna; 2) Concessione temporanea dell’Isola franca, esenzione cioè dell'Isola dai dazi doganali; 3) Il Partito sardo d’azione, aderendo al Fascismo, non rinuncia a nessun suo punto programmatico, conserva il suo indirizzo e le sue caratte ristiche; 4) Accettare senza discutere le mie dimissioni da deputato e il conseguente ritiro dalla vita pubblica.” In un secondo colloquio il Lussu espose “lealmente le ragio ni per cui io mi sarei mostrato favorevole alla unificazio ne dei due partiti, superando ogni teorica riluttanza: per ché il Partito sardo d’azione, aderendo al Fascismo ma conservando le sue caratteristiche idealità programmatiche, avrebbe realizzato in dieci anni ciò che nessuno di noi avrebbe mai sognato di ottenere in 50 anni; perché avreb be attuato il suo sogno di rinnovamento isolano e di mo ralizzazione della vita pubblica [...]; perché, essendo la Sardegna paese essenzialmente di produttori proletari (con tadini. piccoli produttori e pastori), si sarebbero nettamente messi in rilievo i suoi interessi e si sarebbe potuto ottenere finalmente anche quel riscatto (che ci sembrava utopistico) del proletariato minerario, le cui condizioni sono avvilenti per qualsiasi nazione civile; perché con forti organizzazioni sindacali avrebbe potuto sostenere in seno al Partito Naziona le magnifiche battaglie e dare nuovi orientamenti; perché avrebbe potuto accelerare quel processo di chiarificazione che, presto o tardi, dovrà irreparabilmente dividere i pio nieri del fascismo rivoluzionario dai monarchici conservatori; perché, in altre parole (non l’ho detto, ma era im plicito), il fascismo sarebbe diventato sardismo.” Si era, evidentemente, in una fase in cui i sardisti credevano di poter trattare da una posizione di forza, illusione destina ta a durare poco, perché anche i successivi abboccamenti 212
con il generale, “perfettamente identici” al primo, non die dero alcun risultato, sicché il Lussu concludeva: “Io ho atteso fino ad oggi: le condizioni poste non si sono avvera te. Deve quindi considerarsi definitivamente fallito ogni tentativo di accordo.” Rimaneva, secondo lui, un fatto im portante, e cioè che “il Fascismo, trattando con il Partito sardo d'azione, ha dimostrato solennemente che noi non siamo un partito antinazionale: esso, infatti, non avrebbe certamente cercato accordi con noi se fossirrio davvero sta ti quei pericolosi separatisti della leggenda forcaiola de mocratica isolana.” Ma a questa “leggenda forcaiola democratica isolana” era molto vicino Mussolini, che non solo manifestò net tamente la sua volontà di non fare la “benché minima concessione su terreno autonomia” nel dispaccio ricordato del 2 marzo (che, probabilmente, diede origine “allo stato di sfacelo materiale delle organizzazioni sardiste esisten ti” e alla loro confusione ideologica e politica, divise fra la tendenza alla fusione immediata, quella che chiedeva ga ranzie almeno di una incipiente realizzazione degli impe gni presi, e una terza che esortava a diffidare dalle “pro messe chiare e precise” avanzate tramite il Gandolfo, perché quelle promesse erano “in stridente contrasto con l'essenza del movimento fascista, e con la pratica poli tica adottata fino ad oggi da quel partito e dal suo go verno”), ma che ribadi tale precisa volontà nei discorsi che fece, durante la sua visita, alle popolazioni dell’isola, “va sta riserva di fede, di patriottismo e di passione italiana.” Ciò su cui insistè, con la sua veemente retorica, fu, in particolare, la devozione dei sardi - “fortissimi e sdegno si” combattenti che si erano “macerati nel sangue e nel fango delle trincee” con “lo sforzo magnifico e sanguino so della nostra razza” - al fascismo e al governo nazionale che di esso era l’espressione (che “conta su di voi e voi potete contare su di lui,” essendo un governo “scaturito da una duplice vittoria di popolo”). A tale proposito gridò “al popolo di Sassari” che i sardi erano “stati trascurati, dimenticati per troppo tempo! A Roma si sapeva e non si sapeva che esisteva la Sardegna. Ma da quando la guerra vi ha rivelati all’Italia, bisogna che tutti gli italiani ricor dino la Sardegna non soltanto a parole, ma a fatti [Applau si fragorosi].” Era una polemica contro i vecchi governi liberal-parlamentari, ma il merito di aver rivelato la Sarde gna all’Italia intera non era da attribuirsi al fascismo, bensì' all’eroismo dimostrato in guerra, perché anche per Mus 213
solini 1’incontro con quella gente rappresentò, sotto di versi aspetti, una sorpresa: “ho visto i vostri lineamenti, ho messo i miei occhi nei vostri. Ebbene, oggi ho ricono sciuto che voi siete dei virgulti superbi di questa razza italiana che era grande quando gli altri popoli non erano ancora nati, di questa razza italiana che ha dato tre volte la sua civiltà al mondo attonito o rimbarbarito, di questa razza italiana che noi vogliamo prendere, sagomare, fog giare per tutte le battaglie necessarie nella disciplina, nel lavoro, nella fede.” A parte quel pesante insistere sulla razza italiana e sulla grandezza di un’altra età, di cui Mus solini amava molto vantarsi come se da quella grandezza potesse derivare un diritto alla potenza nel presente, si comprende come non sia stato senza un chiaro significato il fatto che egli abbia voluto cominciare la sua visita da Sassari, che era la città in cui si avvertiva più vivace una palese o segreta opposizione al fascismo e in cui erano più forti le correnti autonomistiche. Qui tenne un discorso che fece un vivo appello alla mozione degli affetti, tutto incentrato sulla gloria di cui si erano ricoperti i fanti sar di nel conflitto (“Sono sicuro che come la Sardegna è stata grande nella guerra, sarà altrettanto grande nella pace. Vi saluto, o magnifici figli di quest’isola solida, fer rigna e dimenticata. Vi abbraccio spiritualmente tutti quanti. Non è il capo del Governo che vi parla: è il fratel lo, il commilitone, il trincerista”) e sull’abbandono in cui “qualche burocrate, che si attarda a poltrire,” lasciava la città: “Oggi ho sofferto quando mi hanno detto che que sta città non ha acqua. È tristissimo che una città di eroi debba subire la sete.” A Cagliari, invece, città più sicura e che aveva saldamente radicato il fascismo “nelle coscien ze,” potè parlare dei problemi che l’avevano spinto a re carsi nell’isola: ribadire, cioè, pur se in forme un po’ atte nuate e velate da grandi manifestazioni di ammirazione e di fervida partecipazione, l'ostilità a qualsiasi forma di autonomia: “Passando per le vostre terre ho ritrovato qui, vivo, pulsante, un lembo della Patria. Veramente que sta vostra isola è il baluardo della nazione all’occidente; è un cuore saldo di Roma piantato in mezzo al mare no stro [Acclamazioni]. Talune catene delle vostre montagne mi ricordano le prealpi comasche; talune vostre pianure la Valle del Po; ma soprattutto ho visto, nelle folle che si sono raccolte attorno ai gagliardetti, i bellissimi germogli della razza italiana, immortali nel tempo e nello spazio [Acclamazioni]. Mi sono domandato: come dunque è av 214
venuto che, ad un dato momento, si è potuto pensare nel continente che questa isola di eroi e di salde coscienze si fosse intiepidita nel suo fortissimo amore verso la madre Patria? Non ho mai creduto a ciò. Era un enorme equi voco: non era in gioco la Patria; erano piuttosto in gio co i pavidi ed inetti governanti di Roma che troppo tempo vi avevano dimenticati [Applausi]. Credo, e lo affermo qui al vostro cospetto, credo che poche regioni d'Italia pos sano rivaleggiare con voi in fatto d'amor di Patria [Ap plausi].” E un altro “equivoco” definì quanto gli avevano riferito, che la Sardegna, “per ragioni speciali di ambien te, era refrattaria al fascismo. Da oggi le coorti e le le gioni, le migliaia di camicie nere solidissime, i sindacati, i Fasci, la gioventù tutta di quest’isola, è là a dimostrare che, essendo il Fascismo un movimento irresistibile di rinnovazione della razza, doveva fatalmente toccare e con quistare quest'isola dove la razza italiana ha le sue ma nifestazioni più superbe [Applausi].” Proclamò, inoltre, che le migliaia e migliaia di giovanetti che avevano avuto il martirio delle trincee, che avevano ripreso, poi, la lotta civile, che avevano vinto, avevano anche “tracciato un solco tra l’Italia di ieri, di oggi e di domani”; ed ag giunse, rafforzando il tono oratorio: “Certamente dovre te ancora essere partecipi di questo grande dramma. Certamente, voi volete vivere la vita della nostra grande collettività nazionale, di questa nostra adorabile Italia, di questa bellissima madre che è il nostro sogno, la no stra speranza, la nostra fede, la nostra certezza, perché passano gli uomini, forse anche i Governi, ma la nazione, l’Italia, vive e non morirà mai.” C’era, in queste parole e nella posizione che esse rive lavano, l’umiliante ed offensiva celebrazione, come al so lito, magniloquente dei veri italiani, che avevano sentito “l’amor di Patria nelle fangose trincee, dallo Stelvio al mare” (che, pertanto, erano i vincitori e che avevano un ancor maggiore diritto di rappresentare la Nazione, per ché, dopo la vittoria al fronte, si erano battuti per un’al tra vittoria, “che abbiamo pagato con tanto generosissi mo sangue di giovanetti che si sono immolati per schiac ciare il bolscevismo italiano”), di contro a tutti gli altri che non avevano partecipato a quella, per lui esaltante, vicenda. Il duce si rivolgeva soltanto alla eletta schiera, che portava “nel cuore la fede che, a un dato momento, [aveva fatto] partire da tutte le città e da tutti i vil laggi d’Italia migliaia e migliaia di fascisti per scendere 215
a Roma,” a conquistare la capitale. Al popolo di Iglesias, in una delle sue brevi ma ardenti allocuzioni, disse: “È opportuno si sappia che la Sardegna è una delle prime re gioni d’Italia, anche perché ha dato il maggiore contri buto di sangue alla guerra vittoriosa. Come capo del fascismo, sono lieto di essermi trovato con le eroiche camicie nere e avere visto la splendida fioritura del fa scismo che porterà una totale rinnovazione nella vostra terra.” Cosi riassumeva il significato della sua visita, unendo strettamente la generazione del Carso e dello Stelvio con quella della marcia su Roma, chiedendo, e qua si esigendo, un impegno totale di fusione dell’isola con la Patria, e prendendo, a sua volta, l’impegno di “tornare a visitare le vostre città, i vostri villaggi,” nell’intento di rendere omaggio a “popolazioni laboriose, tranquille e ve ramente pazienti,” ma “troppo a lungo dimenticate e con siderate quasi come una colonia lontana.” Era, quest’ul timo, l’altro motivo ricorrente nei suoi discorsi alla folla, per cui assicurò “il popolo di Macomer” che “d'ora innan zi la Sardegna può contare sul Governo,” ed al “popolo di Arbatax” promise la “pronta soluzione dei suoi problemi,” però “secondo l'urgenza e l’utilità.” Eppure, aveva escla mato a Cagliari che i problemi della Sardegna “li hanno conosciuti tutti i governanti da mezzo secolo a questa par te: sono problemi presenti alla coscienza nazionale, e se fino ad oggi non sono stati risolti, gli è che a Roma man cava quella ferrea volontà di rinnovamento che è perno, essenza e fede del Governo fascista.” Sembrava che vo lesse attribuire le tendenze autonomistiche alla solitudine, alla dimenticanza e all’abbandono in cui era andata a po co a poco degradandosi la popolazione sarda: ma ora - il duce continuò a ripetere - la situazione è radicalmente m utata e voi avete a Roma un governo che comprende i vostri bisogni; pertanto le vostre attese non saranno più cosi lunghe come per il passato e, soprattutto, non rimarranno senza una adeguata risposta. Era, in certo qual modo, il compromesso a cui Musso lini era stato costretto per ottenere, in cambio, il consenso dei sardisti, sebbene la forza di questi ultimi fosse notevol mente diminuita dopo la seconda scissione (26 aprile ’23) del PSd’A che vide uscire dal partito, per orientarsi ver so il fascismo, diversi esponenti di primo piano, come il Pili e il Putzolu, mentre altri avrebbero esortato i rilut tanti: ad esempio, lo stesso Lussu, secondo il racconto del Pili, avrebbe detto: “vi prometto che fra qualche mese sa
rò con voi, oppure mi ritirerò completamente dalla vita politica.” Perciò, il viaggio del duce venne proprio nel mo mento giusto, quando i suoi avversari stavano ormai di sgregandosi, incapaci di resistere alla offensiva della vec chia classe dirigente, appoggiata manifestamente dal fa scismo, dietro il quale si intravedevano chiaramente gli interessi del mondo industriale del nord, come aveva de nunciato L. B. Puggioni, che abbiamo già visto diffidare delle promesse del Gandolfo. In una analisi acuta sulle origini del fascismo e sulla sua pratica di governo, egli, infatti, aveva detto: “Il fascismo, nessuno può ignorarlo, è sorto e si è sviluppato soprattutto per il valido appoggio morale e finanziario dell’alta banca, dei grossi proprietari terrieri e dei grandi signori dell'industrialismo parassi tario dell’alta Italia. Ancora oggi, come ieri, è la coalizione della grande industria italiana che impone al governo il mantenimento della inesorabile barriera doganale che pa ralizza tutta la produzione agricola e dissangua il mezzo giorno ad esclusivo vantaggio di ristrette categorie di pri vilegiati che identificano l’interesse proprio con quello del la patria.” La denuncia riprendeva tutto quello che diversi meridionalisti da tempo andavano affermando (e che ri marrà, come è noto, anche nel Dorso nell'immediato se condo dopoguerra), mentre, forse, dopo il primo conflitto non sarebbe bastata una abolizione del protezionismo, per ché non si poteva essere sicuri che il liberismo favorisse la penetrazione nel nostro mercato di prodotti a più buon prezzo, data la ormai palese tendenza alla costituzione di grandi monopoli. Il Puggioni, peraltro, aveva proseguito il suo discorso mettendo in rilievo gli effetti che la liber tà doganale avrebbe avuto su tutto il Mezzogiorno: “Con cedere alla Sardegna la sua libertà doganale, significa sot trarre notevoli guadagni ai più validi sostenitori del fa scismo, aprire una porta alla concorrenza delle industrie estere; significa dare un esempio invidiato a tutto il Mez zogiorno d’Italia, il quale, trovandosi nelle nostre mede sime condizioni economiche, e costituendo, come nói, age vole campo di sfruttamento dell’industrialismo italiano, riparato contro la concorrenza estera sotto le materne ali delle tariffe doganali, aspira anch’esso a una piena libertà commerciale che consenta vita e rigoglio alla sua produ zione prevalentemente agricola e armentizia.” Osservazioni in se stesse giuste, ma che non definivano, anzitutto, di qua le tipo e con quali strutture avrebbe dovuto essere incen tivata la produzione agricola, e che, poi, confinando il sud 217
nel solo settore agricolo, senza prevedere un contempora neo e adeguato sviluppo industriale, lo avrebbe sempre man tenuto nella condizione di colonia del Settentrione. Ma l’intreccio di interessi tra il fascismo, l’alta banca, i proprietari terrieri e l'industrialismo parassitario erano tali da indurre il duce a troncare ogni velleità di autono mismo in Sardegna, perché appunto quell’intreccio lo avreb be costretto a subire l'alleanza con “la gramigna delle false democrazie e delle cricche faccendiere.” Cosi, dopo la vi sita di Mussolini, fu nominato un Comitato regionale, del quale facevano parte i due fiduciari provinciali del PNF sotto la presidenza del Gandolfo. Il quale, però, adducendo a pretesto i molteplici e pesanti incarichi, si dimise dal Comitato: probabilmente perché si rifiutò di avere al suo fianco i due funzionari fascisti. “Le dimissioni di Gan dolfo,” scrive il Sechi, “sono una vittoria degli ambienti democratico-liberali di Sassari. Decisi a fare leva sul fa scismo, non esitano persino ad incepparne le azioni e s’av valgono, per i propri disegni di conservazione del potere, dei suoi dirigenti. Il maggior punto di forza di essi è la prefettura.” Il cui piano (ben delineato in due promemo ria, del gennaio 1924, di G. Solinas, direttore della Cassa provinciale di credito agrario, e G. Alivia) è di “far entra re nel fascismo tutto lo stato maggiore democratico, che era [...] al potere prima della rivoluzione fascista e co stringere quindi i fascisti autentici ad uscire.” D’altronde, i principali enti ed istituti della provincia erano rimasti, come se nulla fosse successo, nelle mani della vecchia classe dirigente, la quale controllava la Commissione di ricchezza mobile, le Commissioni di sconto presso la Ban ca d’Italia e il Banco di Napoli, la Camera di Commercio, il Comitato agrario, la Congregazione di carità dell’Ospe dale, la Prefettura e la Federazione provinciale con le se zioni del PNF. Disponeva, dunque, di un potere economi co che sarebbe stato molto difficile scalzare, ed il Gandolfo era riuscito solo ad imporre le dimissioni od a nominare commissari prefettizi in circa 60 comuni su 256 in provin cia di Cagliari. Il 24 novembre comunicava al duce che cadevano “ogni giorno le roccaforti, grandi e piccole, che finora avevano costituito il comodo rifugio dei compari degli onorevoli Cocco-Ortu, Sanna Randaccio, Carboni Boy, ecc., ed ogni caduta rivela aggruppamento di incon fessabili interessi, malversazioni del pubblico danaro, mi serabili cricche di truffaldini, che vengono regolarmente deferite all’autorità giudiziaria per le definitive sanzioni .21 &
penali. È una santa opera di educazione morale e politica di cui la Sardegna aveva assoluto bisogno, per redimersi dall’abiezione in cui uomini senza scrupoli l’avevano im miserita, per dare la piena sanzione dell’assoluto e ripristi nato impero della legge al di fuori e al di sopra di qua lunque inframmettenza o favoritismo”. Anche il Sechi, a questo punto, si chiede quanto di vero ci fosse “in questa sorta di crociata contro la corruzione,” ma, tuttavia, rico nosce che nel Gandolfo agi, “psicologicamente, la convin zione dell’intima moralità del fascismo, e quindi della sua superiorità su tutte le forze,” non “sospettando minimamen te le ambiguità e la doppiezza della politica del partito e del governo. ” E che la politica del partito e del governo fosse macchiata di ambiguità e di doppiezza è indubbio, perché Mussolini, che aveva fatto approvare la legge mag gioritaria Acerbo e che si preparava a nuove elezioni, vo leva a tutti i costi ottenere il sostegno della antica classe liberal-democratica, che avrebbe potuto portargli moltis simi voti, con i deteriori metodi clientelari cui era da lun ga pezza abituata. Quei metodi clientelari che l’Amendola, per un quasi innato spirito conservatore, celebrava come una delle maggiori virtù della gente del Meridione: “Si ode,” aveva detto nel discorso di Sala Consilina, il 1° ot tobre del '22, “ancora e sempre, ripetere il tema della ri scossa del popolo meridionale dal giogo delle camarille e delle clientele, che ne avviliscono il costume politico. Cosi si disse quando si volle il suffragio universale; cosi si è ripetuto quando si batteva in breccia il collegio uninomi nale. Senonché le riforme si aggiungono alle riforme, e l’argomento resta sempre in piedi, a disposizione della retorica politica, che abitualmente si accompagna alla que stione meridionale. Orbene: io ho rivendicato altra volta, nella sede parlamentare, e rivendico anche oggi, il valore sociale, politico e morale, delle cosi dette 'posizioni per sonali,’ attraverso le quali si organizza la vita pubblica del Mezzogiorno. Esse rappresentano, bene spesso, patrimoni preziosi di prestigio e centri naturali ed insopprimibili di un'organizzazione di rapporti politici, assai più sana di quel la che è rappresentata dalle tessere dei partiti cosi detti di massa. Esse hanno dietro di sé tradizioni vecchie e vi gorose, ed hanno contribuito efficacemente in tutto il do poguerra (e contribuiranno anche domani) a preservare una larga parte di Italia da pericolosi sconvolgimenti po litici. Che cosa si pretenderebbe oggi di tentare contro questa naturale organizzazione della grande maggioranza 219
delle popolazioni meridionali? Non vi sono che due vie da prendere: o assicurarsene l’adesione e il dominio morale, con la persuasione e con le buone opere civili, o coalizzare contro di essa tutte le minoranze dei malcontenti, degli squalificati, degli irregolari. Non auguro questa seconda via, che conduce allo sfruttamento fazioso degli elementi tor bidi e dei rancori locali, a nessun partito il quale si pro ponga di lavorare onestamente per l’avvenire d’Italia. ” In verità, questo passo dimostra una quasi viscerale condanna di “tutte le minoranze dei malcontenti, degli squalificati, degli irregolari,” come se gli individui rientranti in simili categorie (per volontà divina o per colpa loro?) non potes sero avere anche una precisa e coerente dignità di uomini e come se il loro destino fosse soltanto quello di vivere in una umile soggezione nei riguardi del ceto superiore, che, godendo di “posizioni personali” e rappresentando “patri moni preziosi di prestigio,” aveva contribuito efficace mente a preservare una larga parte - cioè il Mezzogiorno della penisola “da pericolosi sconvolgimenti politici.” Ecco dove si manifesta in pieno lo spirito conservatore, per non dire reazionario, dell’Amendola, in una simile idilliaca difesa d’ufficio di una società in cui imperano pochi individui su una massa senza nome e senza vita au tonoma e propria: è un tentativo di consolidare la strut tura economico-sociale tradizionale della vecchia borghesia del Mezzogiorno, di una borghesia che aveva, di volta in vol ta, votato e fatto votare le masse che controllava - come abbiamo già detto - per la corrente politica o per il par tito che deteneva il potere: per la Destra, per la Sinistra, per Crispi, per Giolitti e, infine, nel '24, per Mussolini e il fascismo. Aveva rappresentato - cosi li aveva sdegnosamen te e irosamente definiti il Salvemini - gli ascari di cui ogni governo era sicuro di potersi servire per consolidare il suo potere. Era la situazione che anche il Di Vittorio, in un ar ticolo in “Pagine rosse, ” del 16-24 aprile '24, denunciava con il tormento di vederne consolidato il regime, dopo le ele zioni del 6 aprile: “Bisogna considerare,” egli scriveva, “che nel Sud non sono stati mai i cittadini elettori a fare le elezioni politiche. I deputati li ha sempre fatti il gover no. Cosi si spiega come in sessant’anni di unità, nonostan te l’umiliante inferiorità con cui è stato trattato da tutti i governi, il Mezzogiorno ha dato sempre dei plebisciti ad es si [...]. I grandi terrieri del Mezzogiorno, persuasi di poter sostenere, con speranza di successo, una lotta contro la plutocrazia del Nord pel possesso dello Stato, si sono ras 220
segnati alla loro inferiorità politica, cercando di trarre la maggiore utilità possibile dal sistema su cui si fonda l’equi librio nazionale ch’essi non possono rompere, e si sono resi complici e strumenti dei padroni dello Stato. Con tale complicità essi fanno una splendida carriera politica: di vengono deputati e senatori e infeudano i poteri locali per rifarsi sui contadini e sui fittavoli e piccoli proprietari dei tributi ch’essi pagano allo Stato.” Altiò che la “retorica politica” o le “tradizioni vecchie e vigorose” di cui si riem piva la bocca l’Arnendola; si trattava di una vita politica affogata nel clientelismo, nella camorra e nella mafia che è durata indenne durante il fascismo e il post-fascismo e che dovrebbe essere estirpata invece di essere celebrata come la “naturale organizzazione della grande maggioranza delle popolazioni meridionali.” Questo perché essa ha sem pre contribuito - e tuttora contribuisce, come abbiamo det to - a chiudere il cerchio che soffoca il popolo italiano, sottoposto da un lato, all'arroganza di una burocrazia e di una classe politica che si avvalgono di tutti gli strumenti che mette a sua disposizione lo Stato, e, dall'altro, di un ceto economico del settentrione, che è quello che impone il suo volere ai governanti, che sembrano stare a Roma quali suoi delegati e proni ai suoi cenni di comando. È solo “la confluenza di interessi fra plutocrazia del Nord,” no tava con profonda tristezza il Di Vittorio sulle orme di tanti meridionalisti che l’avevano preceduto, “e grandi terrieri del Sud, che rende solido l’equilibrio nazionale basato sulla inferiorità e sfruttabilità del Mezzogiorno, è la necessità comunemente sentita di tenere soggette quelle regioni, come riserva di forze vandeane destinate a difen dere il regime dagli assalti proletari. L’unica possibilità di rivalsa,” proseguiva, “largamente accordata dallo Sta to ai grandi terrieri, dei danni, che pur essi risentono dal predominio economico e statale del Nord, è quella di sfrut tare intensamente contadini salariati, fittavoli e piccola pro prietà rurale. È evidente, pertanto, che questi ultimi sono i soli a sopportare, con una vita di fatica debilitante, compen sata da una miseria acuta che rende pietosa, umiliante ed Indegna d’esser vissuta la loro miseranda esistenza, il peso gravoso del predominio dello sfruttamento del Nord e l'ingordigia illimitata dei grandi terrieri del Sud [...]. Il nemico è uno solo, con branche e denominazione diverse: la borghesia plurocratica del Nord, di cui si sono resi facili strumenti i grandi terrieri del Sud.” Si sente, in queste parole, la viva esperienza di chi era vissuto al fian221
co di quei poveri contadini, fittavoli e piccoli proprietari, condividendone la miseria “che rende pietosa, umiliante ed indegna di essere vissuta una miseranda esistenza,” ed è appunto questa umana partecipazione che ci rende cosi simpatica la figura di Di Vittorio. Anche il Partito sardo d’azione aveva tentato di ribel larsi alla condizione di colonia a cui era stata ridotta l’iso la, ma con idee troppo vaghe e con programmi troppo con fusi, sicché era stato facile per Mussolini porre termine ad un movimento che si batteva per una autonomia di cui non si riusciva ad intravedere gli sbocchi. Il duce era intervenuto - come abbiamo osservato - nel momento per lui più opportuno, quando, in previsione di nuove ele zioni, aveva bisogno dell'apporto dell’antica classe dirigen te meridionale con le sue organizzate e fedeli clientele. Altrettanto era avvenuto in Sicilia, dove - scrive G. C. Marino - il duce disponeva di quella macchina dello Sta to, affinata e potente, con la quale “Giolitti si era assicu rato a lungo il controllo della situazione siciliana.” Ed an che qui. Mussolini agi abilmente, pur se più allo scoperto mancando una effettiva resistenza: incominciò con il man dare nell’isola, verso la metà del '22, P. Bolzon, “per in quadrar [la] nel movimento nazionale” servendosi del “vecchio e deplorevole costume del favoritismo e della corruzione”; ma, poi, eliminò il segretario politico del fascio palermitano nel quadro di un “rinnovamento” che sembrò, al contrario, a molti fascisti della prima ora, un esempio dell’inquinamento che aveva corrotto le loro file. Tuttavia, nel '23 inviò in Sicilia M. Rocca, che dichiarò, in una intervista concessa a “Il Mezzogiorno d’Italia,” nel settembre, di avere trovato nell’isola “una perfetta coscienza mussoliniana,” anche se “il fascismo, co me partito e non come stato d’animo, non [aveva] ragione di esistere,” non essendovi bolscevismo. In verità, era una dichiarazione molto abile perché faceva scaturire la “per fetta coscienza mussoliniana” non tanto dalla necessità di una dura lotta contro il soviettismo, il comuniSmo, bensì da una spontanea adesione ad un movimento che si era pre sentato come rinnovamento e come reazione al “malgover no” di cui la Sicilia aveva sofferto soprattutto sotto i pre cedenti governi liberal-democratici. La fusione con i nazionalisti avvenne senza grandi op posizioni, ed anzi, in un memorandum di L. Tasca (autore di un libello Elogio del latifondo) - che il Marino assegna al marzo 1923 ma che, probabilmente, è del marzo '24 - si 222
passava in rassegna la “situazione nei riguardi degli agri coltori siciliani e più specificatamente delle provincie occi dentali.” Per la provincia di Palermo, il Tasca scriveva: “Gli agricoltori della provincia furono i soli prima del no vembre 1922 a sostenere la lotta contro la demagogia di tutti i partiti politici e ad essi si uni lo scarso nucleo, allora esistente, di nazionalisti, che oggi costituiscono i più autorevoli rappresentanti del fascismo nella provincia di Palermo.” Perciò, la stretta alleanza fascisti-nazionalisti era stata ben vista dai “signori della terra,” che avevano sciolto il Partito agrario, un partito che, diretto dallo stesso Tasca, si era ripromesso, nel periodo dell’eversione e del l’occupazione delle terre, di costituire una “rappresentanza specifica,” una specie di Partito-antipartito, degli agricoltori siciliani. Volevano, essi combattere, anche con il “boicottag gio dell’erario,” le “tendenze espropriatrici” accolte persi no dai rappresentanti della liberal-democrazia romana, i qua li “avevano adottato, al fine di riuscire alla conquista dei collegi elettorali, la tattica dei partiti estremi, quella cioè di promettere alle masse i beni degli altri,” e che avevano fondato una Società degli agricoltori siciliani: fu ben vista, naturalmente, da questo ceto di latifondisti e di grossi pro prietari in funzione conservatrice e restauratrice di un po tere che avevano, per un certo periodo, temuto di dover perdere. Ad ogni modo, il gioco politico che dovette condur re il duce in Sicilia fu complesso e forse più difficile che in Sardegna, dove esistevano forze politiche organizzate e attestate su ben precise posizioni. Doveva anzitutto tener conto di queste attese reazionarie dei “terrieri,” i quali con trollavano, in particolare, la popolazione delle campagne, tramite la vecchia mafia nei centri rurali, che, a differenza della nuova o giovane, composta “di pochi ladruncoli di campagna che vivevano di furtarclli,” aveva “carattere di conservazione, di ossequio alle autorità.” Questa, gravitando intorno al Circolo dei borghesi “presieduto dal ricco proprie tario,” sosteneva “gli elementi d’ordine.” Mussolini era co stretto, pertanto, a rinnegare ciò che aveva detto a uno dei pochi deputati fascisti eletti, nel ’21, nel Mezzogiorno, Giu seppe Caradonna che, il 1° novembre '22, aveva recato il “saluto di tutti i fascisti meridionali e il dispiacere di essi per non aver visto nessun deputato meridionale assunto al Governo.” Allora, l’importanza del sud doveva essere appar sa al duce del tutto secondaria rispetto a quella del nord, che aveva dato al suo partito la grande maggioranza dei de 22}
putati2; pertanto, gli aveva risposto, brevemente e secca mente: “Questa, che pare un’esclusione arbitraria e doloro sa, è invece un’esclusione calcolata. Io ho il potere anche per risolvere nazionalmente il problema del Mezzogiorno d’Italia. Tale risoluzione è al sommo delle mie aspirazioni ed è perciò che ho voluto renderla più radicale e più gene rale, evitando che i piccoli problemi agricoli agitati e profes sati dai deputati e governanti meridionali potessero intral ciarla e paralizzarla.” Ma, fra il ’23 e il '24, quelli che aveva definito “piccoli problemi agricoli” gli si imposero con tut ta la loro urgenza, come potè scorgere da alcuni sintomi significativi: ad esempio, la Confederazione nazionale delle corporazioni fasciste era riuscita a penetrare nella fascia dei ceti impiegatizi ed anche, sebbene “in numero non anco ra imponente,” in quella di “alcune categorie di operai (metallurgici, gasisti, tranvieri, cementisti),” ma non aveva trovato molta rispondenza nei contadini, “forse anche per difetto di organizzazione degli organi della Federa zione” di Palermo, come cercava di giustificare e di giustifi carsi il prefetto in una sua relazione, ma, “più verosimil mente,” aggiunge il Marino, “per la resistenza opposta dal PPI [che, peraltro, aveva una scarsa influenza], dai residui della forza socialista e, soprattutto, dalla stessa vi schiosità della fase di conversione al fascismo dei maggio renti e delle ‘maffie’ locali.” Vischiosità, però, che fu vinta, ancora una volta, dalla corsa di molti notabili locali verso quel partito che sem brava dovesse risultare il vincitore e, pertanto, il futuro di spensatore di favori e di prebende: fenomeno di sottomissione al potere che discendeva da Roma e di schietto clientelismo verso i sudditi che ciascuno poteva vantare. Il questore di Palermo cosi descriveva la situazione in una relazione del gennaio '24: “L’interesse a prendere par te alla vita pubblica è sentito prevalentemente dalle per sone che in ciascun centro hanno una posizione elevata. Mirando a procacciarsi una condizione privilegiata, esse 2 Infatti, nelle sole circoscrizioni dell’Emilia (Bologna-Ferrara-RavennaForli e Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia) gli eletti erano stati otto, mentre due erano stati mandati alla Camera da Alessandria, uno da Como-Sondrio, 2 da Mantova-Cremona, uno da Novara, due da PadovaRovigo, due da Pola-Parenzo, due da Genova-Porto Maurizio, uno da Milano-Pavia, uno da Torino, uno da Verona-Vicenza, e due da Trieste; il centro-sud, invece, ne aveva dati 1 da Ancona-Pescara-Macerata-Ascoli Piceno, due da Aquila-Chieti-Teramo, uno da Bari-Foggia, uno da CataniaMessina-Siracusa, due da Perugia, uno da Pisa-Livorno-Lucca-Massa Car rara, uno da Roma, uno da Siena-Arezzo-Grosseto, due da Firenze. 224
riescono ” ' ' renti. I vari gruppi poi vengono conquista dei posti al Municipio o al Consiglio provinciale e possono trovarsi, pure in campi opposti, nelle elezioni politiche. Tutti però ambiscono di mettersi dalla parte del Governo, sperandone appoggi e favori, e se non sono da quella parte, non di sperano di potervisi trovare in seguito, quando saranno riu sciti a scalzare gli avversari. Non vi è pertànto contrasto di idee, di programmi, di aspirazioni di bene generale, ma l’unica meta da raggiungere è potere acquistare il predo minio nella vita pubblica del Comune o della Provincia, secondo la entità delle proprie forze personali.” Giusta mente il Marino osserva che si trattava di una analisi che, per quanto, purtroppo, corrispondente in gran parte alla verità, rivelava l’“ottica del settentrionale sbarcato in Sicilia,” che era portato a mettere in rilievo “una realtà integraliter depressa, culturalmente inferiore, nella qua le i ‘veri’ partiti politici mancano, non essendovi ancora molto sviluppata la educazione politica.” Senz’altro era una analisi di natura illuministica, ma di cui Mussolini dovet te tener conto e cercare, sempre su esortazione del que store di Palermo, di giungere ad una “lista nazionale,” in cui fossero inclusi “non soltanto gli esponenti fascisti, ma anche quelli dei combattenti e Deputati uscenti, on. Orlan do, di Scalea, di Scordia e Cirincione,” cioè una lista “mi sta di fascisti e di elementi nazionali.” Le pressioni più forti furono fatte su Orlando, del quale si temeva, in un primo momento, l’intenzione di abbandonare la vita poli tica, e che, in un secondo momento, accettò precisando, in una lettera pubblicata da “L’Ora” di Palermo, le condi zioni che voleva rispettate: “dichiaro fin da ora che la mia eventuale partecipazione alla lista nazionale abbia ad avere questo significato preciso, che sia in ricognizio ne non soltanto delle qualità dell’uomo [...], ma altresì delle idee liberali e democratiche che ho sempre professate ed alle quali intendo rimanere fedele, e significhi inoltre [...] che la costituzione attraverso la quale si è formata l’u nità d’Italia sia da considerarsi sacra e inalterabile nel suo spirito essenziale e che non vi sia altra sovranità che quel la del Parlamento di cui Sua Maestà il Re è parte e capo.” Condizioni che vennero sostanzialmente accettate, soprat tutto perché era pure interesse del duce non promuovere una lista troppo scopertamente reazionaria, per i motivi che diremo fra poco: e dalle trattative usci un accordo di carattere conservatore tale da accreditare “la mistificazio225
ne legalitario-costituzionale del fascismo” e occultare “il ruolo delle forze reazionarie.” Senza dubbio, osserva il Marino, l’ingresso nel listone di Orlando e degli altri eminenti fiancheggiatori meridiona li, come un Salandra, un De Nicola, un Nava, “fruttò a Mus solini molto di più di quanto apparentemente concesse: assorbì l’influente prestigio personale delle ‘posizioni sto riche’; ottenne che gli agrari, convinti ad accontentarsi di una rappresentanza affievolita, svolgessero la funzione di grandi elettori degli uomini nuovi del nazionalismo fascistiz zato [...], che, da soli, avrebbero potuto contare soltanto su poche migliaia di voti ’autonomi.’” Del resto, i terrieri collegati con la mafia potevano essere soddisfatti di essere riusciti a fare approvare una lista con a capo il “Presidente della Vittoria,” come enfaticamente, nell’orgia di retorica seguita alla guerra, era stato detto l’Orlando, che, insieme con altri uomini politici meridionali, veniva fatto oggetto, parecchi anni più tardi, nel 1951, di una recisa denuncia da parte del Salvemini: infatti, dopo avere osservato che i deputati meridionali erano stati eletti dalla stessa mafia meridionale, lo storico pugliese si chiedeva: “Meridionali furono alcuni presidenti del Consiglio: Rudini, Crispi, Or lando. Che cosa mai fecero costoro, non per tagliare, ma almeno per accorciare le unghie a quella mafia? Aiutaro no spesso ad aguzzarle.” E lo stesso Salvemini ribadiva quanto abbiamo osservato sopra, diceva cioè di non capi re come mai il Mezzogiorno stesse apparentemente all’op posizione, ma mandasse “alla Camera deputati ascari, che si curavano solamente di votare per tutti i ministeri.” Ben diverso dal tagliente giudizio del Salvemini era - e non poteva non esserlo, data la sua posizione sul cliente lismo meridionale che abbiamo già visto - quello dell’Amendola, il quale, nel ricordato discorso di Sala Consilina, esprimeva la sua fiducia che il Mezzogiorno avrebbe respinto qualsiasi nuova “calata di conquistatori” e la sua speranza in un contrasto civile su programmi concreti: “il fascismo, vigoroso per il numero degli aderenti, per i successi riportati e per le esuberanti speranze, afferma di voler circolare per tutta l’estensione del territorio nazio nale e di mirare al Mezzogiorno. Questo fatto richiama tut ti noi, cittadini e uomini politici del Mezzogiorno, a chia rire il nostro atteggiamento al riguardo. Il Mezzogiorno è aperto ad ogni corrente di pensiero e di sentimento, e non solo non si chiude in una incomprensione ostile d’ogni nuovo valore politico, ma anzi reclama per sé il 226
vantaggio che deriva alla pubblica opinione dalla libera concorrenza delle idee, e dal contrasto delle diverse dot trine, onde gli sia possibile di scegliere per sé il meglio fra i valori ideali e personali che si disputano il campo. E gli uomini politici, che nel Mezzogiorno siano degni di tale nome, debbono aspirare a mantenersi vivi e dirit ti di fronte all’urto di altre idee e di altri uomini; mentre non potrebbero rassegnarsi a vegetare in un recinto chiuso, lasciato fuori mano dalle correnti vive del Paese. Venga adunque, il fascismo nel campo delle nostre lotte civili, ma venga armato di idee costruttive, se ne possiede, e di me todi civili. Il Mezzogiorno non è terra di conquista, e men tre accoglierà ospitale ogni libera discussione, ogni civile contrasto, respingerebbe sdegnoso la calata dei conquistatori. Nel '19, quando l’alta e la media Italia piegavano sot to l'ondata bolscevica, il Mezzogiorno non piegò né si scos se: baluardo dello Stato e della società italiana. Esso non ha perciò verso il partito fascista alcun debito di gratitu dine, né saprebbe tollerare l’importazione di metodi ai quali mancherebbe, tra le sue popolazioni amanti dell’or dinato lavoro e fedeli allo Stato, qualsiasi giustificazione di difesa sociale o di ritorsione politica. È dunque neces sario, se il fascismo vuol tentare questa prova, che esso venga col viatico di un programma positivo, e di idee fe licemente costruttive. Quale programma? Quali idee? Qualche primo indizio indurrebbe a credere che esso ten terà di raccattare un programma specifico attraverso la litania ben nota dei problemi più propriamente meridiona li, oggetto di cosi ponderosa e trita letteratura politica. Ebbene, se cosi sarà, possiamo esser certi che nulla di nuovo potrà essere detto in questo campo.” Qui c’era quasi tutto: la celebrazione della cultura me ridionale, viva nel contrasto con le diverse dottrine e nel rapporto con tutte le correnti del paese (era la celebra zione di quella cultura che poteva vantare, in particolare, li pensiero conservatore di un Cuoco), mentre agli uomi ni del Mezzogiorno, degni di tal nome, era lasciato soltan to il compito di “scegliere per sé il meglio fra i valori idea li c personali che si disputano il campo,” ma che veniva no elaborati in altre regioni (e non si sarebbe trattato, nllora, di una “calata di conquistatori,” anche se sul piano cullurale e morale?); l'esaltazione del Meridione che non nvova piegato sotto l’ondata bolscevica e che, solo, aveva rap presentato il “baluardo dello Stato e della società italia na,” il che stava ad indicare che l’Amendola non aveva af 227
fatto capito il significato della lotta politico-sociale svol tasi nel nostro paese fra il ’19 e il ’22 e che aveva, ancora una volta, accentuato le differenze fra il nord e il sud, il primo evoluto economicamente e politicamente e il secon do arretrato e sottosviluppato: la marcia su Roma era partita da Milano e dall’Emilia, dove più acuta e intensa era la lotta di classe, lotta che non esisteva affatto nel Mezzogiorno, che viveva ancora in condizioni feudali, co me ebbe a dire diverse volte T. Fiore, nelle lettere sulla Puglia. E l’Amendola ripeteva il suo apprezzamento per le genti del Meridione - anche qui, un apprezzamento sen za un filo di seria comprensione -, “amanti dell’ordinato lavoro e fedeli allo Stato,” del quale, secondo i meridio nalisti di cui, però, egli non riusciva a condividere gli aspri e duri giudizi, non avevano proprio nulla di che ralle grarsi. Infine, egli chiedeva al fascismo up “programma positivo” e “idee felicemente costruttive,” come se il po ter esporre ordinatamente tutto questo potesse far di menticare la violenza con cui le squadre delle camicie ne re avevano indiscriminatamente attaccato e calpestato ogni avversario. Sembrava, insomma, che ci fosse, nell’Amendola, una quasi deliberata volontà di dimenticare il clima di sopraffazione, di lotta civile che il fascismo ave va introdotto nella vita nazionale e che fosse disposto a considerarlo alla stessa stregua degli altri partiti demo cratici purché avesse presentato al paese un bello e sem plice programma, ma positivo e costruttivo. Si avvertiva sempre, al di sotto delle sue parole, la nostalgia per la vecchia società prefascista e postbellica, in cui il Meridio ne aveva avuto il grande merito di alzare un baluardo in valicabile contro l’espansione del bolscevismo ed in cui le sue popolazioni si erano distinte per il fatto di essere amanti di un ordinato lavoro e fedeli allo Stato. In una simile visione chi minacciava di corrompere la società italiana era molto più il nord che il sud. Ed anche quando chiedeva a Mussolini di formulare un programma per la ricostruzione del Mezzogiorno quale lui stesso aveva espo sto “agli amici della provincia convenuti a Salerno,” nei seguenti semplici termini: “accompagnare ancora, con devozione e con spirito di sacrificio, lo sforzo della finan za nazionale verso il raggiungimento dell’equilibrio, e col locare un’ipoteca nazionale sui primi margini attivi che si verificheranno in avvenire onde attuare un grande piano ge nerale di creazione, nel Mezzogiorno, degli impianti fonda mentali necessari alla vita di un popolo civile, col metodo or 228
ganico ed intensivo che fu impiegato per la ricostruzione delle terre liberate,” mostrava chiaramente di proporre un programma con un ingenuo spirito illuministico. Crede va nel “raggiungimento dell’equilibrio” in uno Stato domi nato dal capitalismo selvaggio e sempre più desideroso di affermarsi quale era nato dalla guerra e che era ora favorito dal fascismo come se fosse stata una cosa semplice e priva di difficoltà il “collocare un’ipoteca nazionale sui primi [o sui secondi o sui terzi, dopo la guerra e la crisi del ’21?] margini attivi che si verificheranno in avvenire” in un pae se che aveva sempre assistito ad un forte aumento delle im poste indirette e allo spadroneggiare dei possessori di gran di capitali; e, infine, come se fosse stato sufficiente indicare, in un modo cosi impreciso, la necessità di creare “gli im pianti fondamentali” nel Mezzogiorno per farne decollare l'economia (ma impianti in quale settore? Questo punto era lasciato dall’Amendola in una astrattezza tale da togliergli qualsiasi possibilità di realizzazione). Senza dubbio, il duce non prevedeva nemmeno questo misero programma, ed infatti, nel breve viaggio in Sici lia che si poteva già definire pre-elettorale (20-22 giugno ’23), disse al popolo di Catania, angosciato per una eruzione dell’Etna che minacciava Linguaglossa, di essere andato nell’isola “per compiere un dovere: il più alto dei doveri di fascista e di italiano. Sono venuto per dimostrare col la mia presenza che la Sicilia è regione particolarmente cara al mio Governo, che è Governo fascista e Governo nazionale.” E nelle sue brevissime parole non seppe fare altro che ammonire tutti gli italiani ed esortarli “a tener fede a quel semplice trinomio: concordia, lavoro, disci plina,” che era, di per sé, tutto un programma, ma un pro gramma di repressione e di innaturale fusione delle clas si per il bene supremo e per la salvezza della Nazione. Il giorno seguente, il 21, al popolo di Messina, di fronte alle baracche, in cui ancora la popolazione viveva dal ter remoto del 1908, affermò che “il Governo che ho l’onore di presiedere si è trovato sulle braccia una infinità di pro blemi arretrati. Non faccio accuse al passato: è una con statazione di fatto”; e promise: “Questi problemi dovran no essere risolti, saranno risolti, perché è utile, perché è necessario, perché è doveroso.” Manifestava, in tal modo, la sua sempre abbondante retorica, sostenuta da una for malmente incrollabile fiducia nella volontà dell’uomo, come se nulla potesse resistere a ciò che questi avesse de ciso. Subito dopo, sempre al popolo di Messina, rivolgeva 229
parole che dovevano blandirne l’amor proprio e inorgorglirlo, facendogli dimenticare la triste condizione in cui viveva: “Il tempo in cui le isole, che tanto sacrificio di sangue hanno dato alla nostra gloriosa e vittoriosa guer ra, erano dimenticate o trattate come colonie, questo tem po è ormai lontano, sepolto, sotterrato per sempre [Applau si]. La fraternità e la solidarietà nazionale non devono es sere più, d’ora innanzi, soltanto delle parole per le cerimo nie, ma devono essere opere concrete di solidarietà naziona le ed umana. L’Italia deve molto alle sue isole: la Sardegna e la Sicilia furono dimenticate purtroppo, ma queste iso le dimenticate, nell’ora del cimento, si sono ricordate super bamente della Patria comune [Applausi].” Si potrebbe qua si dire che dava un colpo al cerchio e uno alla botte, poiché da un lato esaltava i sacrifici che la popolazione delle due isole aveva offerto alla Patria, ma, dall’altro, dopo aver proclamato la sua marmorea volontà di risolvere i problemi di Messina e della Sicilia, li rimandava ad una non meglio specificata “fraternità e solidarietà nazionale.” Il 22, da una intervista da lui concessa all’inviato de “Il Giornale d’Italia,” si poteva intravvedere che tutta la soluzione di quei problemi consisteva, secondo lui, in un limitato pro gramma di opere pubbliche1 soprattutto nel campo dell’e3 Una politica di lavori pubblici era già stata iniziata, ad esempio, a Roma, dove l'urbanistica fascista volle che fossero abbattute le cata pecchie più vicine alla città, “che offendono la vista,” e che gli abitanti fossero trasferiti “su terreni di proprietà del Governatorato, siti in aperta campagna e non visibili dalle grandi arterie stradali.” Le catapecchie e le baracche insieme con le “casette,” piccole costruzioni in muratura con il solo piano terreno senza servizi igienici e senza acqua, si erano venute costruendo dalla fine del secolo precedente alla prima guerra mon diale e queste poverissime comunità si erano addensate nei terreni ab bandonati della campagna romana, molto lontano dal centro e lungo le vie consolari. Per lo più i vari insediamenti raccoglievano abitanti pro venienti dalle stesse zone: sulla Casilina, a Centocelle e Torpignattara si erano fermati i ciociari; al Quadraro e sulla via Tuscolana i siciliani e i calabresi; sulla Flaminia e la Cassia i marchigiani, gli umbri e gli abruzzesi. Erano abitanti addetti quasi tutti al deposito del tram, o alla nettezza urbana, o allo scalo merci o, come manovali, ai cantieri. Intanto, mentre si r ip u liv a n o le baracche, il governo di Mussolini, per favorire l'edilizia, approvava uno sbocco graduale degli affitti già previsto dal R.D. del 7 gennaio '23. Poco dopo, un altro R.D.L. (8 marzo '23) accor dava l’esenzione venticinquennale dall’imposta di fabbricazione per tutte le nuove costruzioni, il che, se promosse una più intensa attività da parte dell'Istituto case popolari e dell’Istituto nazionale case impiegati dello Stato (Incis), incentivò anche la stipulazione di “convenzioni” da parte dei privati per la edificazione su decine e decine di ettari: si diede, cosi, inìzio alle costruzioni a piazza Bologna, a viale Romania, ai Parioli, a piazza Quadrata, all’Aventino, e, in misura molto più intensa, tra la via Salaria e la via Nomentana, lungo via Tagliamento e corso Trie 230
dilizia: “A Messina,” dichiarò, “occorre 'sbaraccare' per amo re o per forza. Non è possibile che si perpetui questa esisten za beduina che è contraria alle più elementari norme del la civiltà. Il Governo ha già preso l’impegno di provvede re e provvederà. Queste popolazioni laboriose della Sici lia vanno curate. Il Mezzogiorno è la grande riserva del la nazione. Il suo stato demografico lascia tranquilli sul le sorti future della Patria. Non si rileva'alcuna decaden za demografica come per qualche altra regione d’Italia. La Sicilia che ha campagne lussureggianti merita tutta l’at tenzione del Governo nazionale.” Non poteva assolutamente trattenersi dal mescolare le questioni che interessavano più direttamente la gente a cui si rivolgeva, con altre affermazioni generali dietro cui egli molto facilmente si sperdeva: lo “sbaraccamento” di Messina unito al pro gresso demografico della Sicilia e, più in generale, del Mezzogiorno che dava affidamento per le “sorti future della Patria.” L’accenno, poi, alle campagne lussureggian ti dell’isola lasciava capire come egli vedesse veramente la situazione dell’isola attraverso la lente deformante di una vacua retorica, perché non era capace di scorgere, in quelle “campagne lussureggianti,” la miseria, l’abbruti mento sociale e fisico degli uomini che lavoravano in tan ti minuscoli fazzoletti di terra. Ma le dichiarazioni più in teressanti furono fatte dal duce in risposta alla commis sione della città di Messina: aveva ricevuto, nel pomeriggio del 22, una rappresentanza di mutilati ed invalidi di guer ra, una commissione di Reggio Calabria, l’arcivescovo di Messina ed una commissione della città, formata da ele menti liberali e democratici, che gli furono presentati dal ministro Giovanni Antonio Colonna Di Cesarò, il quale af fermò che i partiti liberale e democratico “sono unanimi stc. Già nel '24 si ebbe, quasi a significare il passaggio di Roma da città «trattamente legata al suo contado a capitale del futuro e fantasticato, per allora, impero dei fascisti, la sparizione di piazza Montanara, che era il mercato della manodopera che affluiva dall'agro. Infine, nel 1923 era stata nominata una commissione “per lo studio della riforma del plano regolatore di Roma” che propose una variante al piano regolatore del 1909 e alla relazione del 1918 con cui si proponeva di non demolire Il centro storico, ma di rispettarlo nella sua integrità e di risanarlo. Il 1" gennaio del '26 fu creato il Governatorato di Roma, i cui uffici tecnici presentarono, il 28 ottobre 1930, un nuovo piano regolatore al duce, con notevole anticipo sulla data fissata. Fu questo piano che, praticamente, di nt russe buona parte del centro storico per lasciare posto alla m a e s to s a via dell'Impero e alla via del Mare, un piano che permise anche l'elevazione del massimo dell'altezza per i fabbricati intensivi a 35 metri. Fu il piano definito “quanto di peggio c'era nella cultura urbanistica romana in que gli anni.” 231
nell’appoggiare il Governo fascista nella collaborazione per l'opera di ricostruzione e sono anche decisi a seguirlo nel l’indirizzo politico che egli indicherà.” A tali profferte, Mus solini rispose che il suo governo, “pur essendo un Gover no fascista, è composto di clementi di diversi partiti. Certi provvedimenti gravi sono presi per gli interessi della na zione, come il chirurgo per salvare il malato deve ricorre re al ferro. Tutti,” egli prosegui, “dobbiamo trovarci d’ac cordo in un programma di disciplina e di lavoro e i partiti devono essere concordi sopra ciò. Il popolo italiano marcia sopra grandi strade e gli uomini non possono marciare con passo diverso.” E concluse dicendo che “ogni collaborazione gli è bene accetta quando sia leale e sincera come quella offertagli oggi, ma ò fieramente respinta quando non sia tale.” Dove andava, allora, a finire il vanto di avere costitui to un governo con la collaborazione di diversi partiti, se questi ultimi, entrando nella coalizione, dovevano in prati ca spogliarsi delle loro vesti ritenute alquanto sudicie e spor che e rivestirsi di altri panni condecenti, che li avrebbero costretti ad accettare, senza discutere, “un programma di disciplina e di lavoro” e la grandiosa “marcia sopra grandi strade”? Tuttavia, diversi sintomi, fra il ’23 e il '24, gli dimo strarono che la collaborazione incondizionata, sottomessa e ubbidiente non era accettata da tutti, nemmeno in Sici lia, dove esistevano alcune zone d’ombra che si rivelava no non facilmente penetrabili dalla propaganda fascista. Non sembravano disposti a piegarsi di fronte a tale pro paganda alcuni esponenti democratici del combattentismo, “figure ormai isolate,” nota il Marino, “deH’interventismo di sinistra che, nel dopoguerra, era stato una componente im portante della politica della negazione, sotto la spinta della parola d’ordine vincere la p a c e G. Maggiore Di Chiara, direttore del pugnace foglio umoristico “Il Babbio,” che, un po’ piu tardi, dopo il delitto Matteotti, guidò la solleva zione degli strati antifascisti della borghesia e la cui “in fluenza elettorale” era considerata molto “fastidiosa” dal questore di Palermo. Nel febbraio del '24 egli aveva de scritto il nuovo prefetto come un “vero tipo di funziona rio fascista: rapido, straordinariamente dinamico, auda ce [...], una specie di Mussolini in veste vuoi di Questo re, vuoi di Prefetto” e vuoi anche di sindaco; per questo atteggiamento, giudicato dalle autorità irriguardoso, era stato ammonito, verso la metà del '23, dal direttorio pro vinciale fascista, che, prendendo in esame l’attività gior 232
nalistica svolta dal Di Chiara, aveva espresso “il parere che ogni pubblico attacco rivolto ad una autorità politica fascista rappresenta critica e menomazione al Governo e alle direttive fasciste,” e, pertanto, lo aveva invitato a desi stere da ogni campagna o attacco del genere e a rientrare volenterosamentc “nella più stretta disciplina di parti to.” Sembravano impermeabili alla propaganda anche al cuni nuclei, nelle campagne, composti da fedeli al combat tentismo democratico, nuclei “temibili” per il regime, tanto che il fenomeno dovette essere messo in rilievo dal questore di Palermo, che, in una relazione al presiden te del consiglio del gennaio del '24, disse che “quasi dap pertutto sono sorti aspri dissidi tra i fascisti ed i combat tenti, tanto che in alcuni Comuni si è costituito un par tito dei combattenti, dove si annidano buona parte dei combattenti ed i rivali dei fascisti.” Tuttavia, come si vede, mancava nell’isola una oppo sizione cosciente, coerente e, si direbbe oggi, progressista (quale, almeno in parte, esisteva in Sardegna), e chi si schie rava contro il fascismo lo faceva per lo più per difendere le proprie antiche posizioni clientelari e i propri centri di potere: ad esempio, Colonna di Cesarò, che era ministro delle Poste nel gabinetto Mussolini, incerto sull’avveni re della cosiddetta “svolta” del duce, riuscì ad organizza re, “nella lista della ‘democrazia sociale,’ una sorta di 'fascio' sicilianistico dei notabili che coltivavano una in vitta fiducia nei titoli ‘storici’ e nel patrimonio di amici zie dei ‘feudi’ elettorali,” aggregando pure forze dell'agra ria. Per quanto riguardava la democrazia sociale, la sua po sizione era molto ambigua, poiché credeva quasi di poter trattare da pari a pari con Mussolini, ritenendosi investi ta del privilegio e del “dovere di accordare la propria cooperazione per la ricostruzione nazionale,” e dichiarava che non avrebbe tollerato che il fascismo “sopprima o ne ghi i principi sui quali essa si basa e per i quali anche in futuro continuerà a lottare” (che erano i “principi di li bertà, progresso sociale e sovranità popolare,” purché rimanessero sotto la sua tutela e non passassero sotto quella di Roma); nel frattempo, prometteva di non voler risparmiare il suo sostegno al governo in tutto ciò che era ri chiesto dalle forze nazionali per la “rinascita” del paese e per “risollevare le sorti del popolo siciliano dalla sua soffe renza storica.” Una analoga, e forse più grave, ambiguità si poteva osservare nei discorsi di Biagio Di Pietra, il qua le riconosceva nel capo delle camicie nere colui che “ha 233
portato alla maestà del Re la fedeltà della giovinezza di Vittorio Veneto,” ma, proprio in virtù dei meriti politici e morali che derivavano da tale riconoscimento, pensava di poter negare al fascismo il “diritto di [usare] metodi rivoluzionari,” volti a travolgere, insieme con il liberali smo e la democrazia, “la legge del progresso” e a sostitui re “la legge del partito alla legge dello Stato.” Avrebbe dovuto suscitare il riso, se non si fosse stati in un periodo cosi drammatico, questo tentativo di mettere interessi che non si aveva il coraggio di palesare alla luce del sole, sot to il nobile e puro usbergo del liberalismo e della demo crazia. Infine, un altro oppositore, l’on. Restivo, disposto a vendersi pur di avere la “promessa di qualche lauta soddi sfazione anche per l’avvenire” (fu nominato presidente del la Camera di Commercio di Palermo), in una riunione del Consiglio camerale del 3 marzo '24, sostenne “che le indu strie del Nord si trovano in condizioni favorevoli rispet to a quelle del Sud perché non pagano i dazi sul carbone e sull’olio industriale” (che acutezza e che penetrazione po litico-economica!), ma si affrettò a concludere “dicendo che il Capo del Governo, che, con mano ferma ed animo risoluto, regge i destini d’Italia, non vorrà che avvenga una lotta fratricida, ma provvederà perché tutte le nostre forze na zionali, strette in magnifico fascio, chiudano le porte di casa nostra alla concorrenza straniera per la gloria e la salvezza della Patria nostra.” Forse il solo che condusse una lotta aperta e intransi gente fu l’on. Finocchiaro Aprile, che aveva abbandonato la democrazia sociale, e che, alla vigilia delle elezioni, il 4 aprile, nella piazza del Duomo di Termini Imerese, se condo la relazione del sottoprefetto al prefetto di Palermo, “iniziando pubblico comizio, cui assistevano fra aderenti e oppositori circa 1.000 persone, attaccava partito fascista compressore di libertà di pensiero, di parola, di stampa e spiegando motivi che l’avevano consigliato a rimanere al l’opposizione, diceva essere il Partito Fascista l’esponen te del capitalismo settentrionale contro il Mezzogiorno di Italia. Interrotto da membri locale Fascio, stavasi deter minando urto evitato da nostro pronto intervento. Orato re intanto continuava attaccando violentemente S.E. Mus solini e Partito Fascista e, richiamato inutilmente da me a modificare il suo dire, fui costretto, onde evitare disor dini, disporre lo scioglimento del comizio caricando più volte la folla senza alcuna conseguenza.” A questa decisa opposizione capeggiata dal Finocchiaro Aprile e che rac234
Coglieva pure alcune modeste correnti della socialdemocra zia con E. La Loggia, leader riconosciuto, bisogna aggiun gere la lista della “Bilancia,” di una destra costituzionale che si erigeva a difesa dello Stato di diritto calpestato dalla legge Acerbo, mentre i popolari, che, peraltro, avevano una scarsa diffusione nell’isola, avevano condotto una sottile ma costante polemica contro il “bolscevismo bianco” e l'indirizzo antifascista che era stato impresso al partito da don Sturzo, il quale, quasi tradendo la sua terra natale, era passato a difendere gli interessi dell’industria settentrionale. Alcuni suoi uomini più rappresentativi, come un don Mi chele Sclafani di Girgenti, attivissimo e “instancabile orga nizzatore dei lavoratori dei campi” mediante una fitta re to di organismi cooperativo-creditizi, e il deputato nisseno E. Vassallo, detto “popolare centrista,” si fecero i pro motori, fin dall’agosto del ’23, di un partito siciliano di ispi razione cattolica che mal nascondeva un effettivo atto di adesione al fascismo. Il Vassallo, abbandonando il PPI, provocò - scrive il Serpieri - la confluenza del suo no tevole numero di cooperative “combattentistiche” nel sin dacato provinciale fascista di Caltanissetta. Ma cercò di porre le condizioni per un tale passaggio, che avrebbe do vuto avvenire dopo l’approvazione da parte delle autorità fasciste di un programma “nazional-popolare,” che preve deva: “a) far produrre la terra più intensamente possibile; b) espropriazione e quotizzazione dei latifondi di proprie tari assenteisti; c) collaborazione col governo per impor re il ristabilimento della autorità sulla delinquenza rura le; d) forte impulso all’istruzione agraria.” In particolare, Il secondo punto veniva incontro a quelle che erano ormai le aspirazioni secolari dei contadini non solo siciliani, ma dell’intero Mezzogiorno, anche se potevano nascere forti dubbi che il regime intendesse accoglierle. Perciò, erano condizioni che dovevano mascherare una resa completa ni partito che si era impadronito dell’Italia: insomma, un tentativo di “salvare la faccia” di fronte ai suoi com battenti e ai contadini che lo seguivano. Anche lo Sclafani volle fare altrettanto, allargando la sua prospettiva, ma proponendo un partito siciliano che non si riesce a capire per che cosa dovesse battersi: infat ti, minacciato di dimissioni dal segretario provinciale del Inscio di Girgenti, si piegò subito all’“invito categorico” e fece atto di sottomissione al potente partito che gli face va sentire la sua voce imperiosa. Ma, nel fare ciò, avan zò la formula del partito siciliano: “Ho sempre sostenuto,” 2»i
scrisse in una lettera-programma, “che i Popolari, coi quali trovasi il clero, almeno in Sicilia [forse perché, a suo parere, questo stretto accordo non avveniva nel nord], avrebbero dovuto lavorare a fianco dei fascisti, perché si potesse esercitare quell’azione di rigenerazione morale del l’isola che un Governo volenteroso, non legato da interessi elettorali ai capoccia delle clientele siciliane [o era un illu so o voleva illudersi!], può attuare agevolmente [...]. Per questo, non ci si può rassegnare al fatto di non associarsi nella stessa azione [in diretta polemica con lo Sturzo], dato che cattolici organizzati e fascisti, con sentimento di verso, hanno lo stesso intento e sentono lo stesso bisogno di liberare la Sicilia da tutta la zavorra di quei partiti locali che soffocano gli interessi della regione [...]. Pertanto, io pen so che sarà necessario costruire in Sicilia un grande par tito che sia unicamente siciliano [...]. Uniamoci una buona volta Pro Sicilia nostra, perché si tratta della prosperità della più popolosa e generosa regione della grande Ita lia.” Ritornano alla mente, leggendo queste ultime paro le, le “campagne lussureggianti” celebrate dal duce; ma, in verità, il suo atto di adesione sembrava che avesse il fiato molto corto: perché che cosa voleva dire denun ciare la “zavorra dei partiti locali che soffocano gli in teressi della regione”? Se ne sarebbe dovuto dedurre che, allora, la colpa o la responsabilità dello stato di ab bandono in cui viveva la Sicilia dipendeva principalmen te dai “partiti locali” e non dalla politica economica dei governi centrali volta a favorire determinati gruppi del nord. Ma, se cosi stavano le cose, come poteva sperare lo Sclafani di abbattere tutta quella zavorra che opprimeva l’isola mediante un partito “unicamente siciliano,” anche se grande? Come si vede, egli Si avvolgeva in gravi con traddizioni, probabilmente per non urtare e non irritare troppo i nuovi alleati fascisti, che dovevano apparire anch’essi membri di un partito composto in prevalenza di settentrionali. Ad ogni modo, il partito popolare era entrato in crisi, pur se esercitava ancora una certa in fluenza su qualche centro contadino, mediante le Casse rurali, su elementi del sottoproletariato cittadino e su alcuni commercianti. Il che non era sufficiente a fargli superare la crisi, che proveniva non solo da alcuni diri genti, che erano passati, con facilità, nelle file fasciste, ma anche, e forse soprattutto, dai “meno abbienti, che costituivano il nucleo cospicuo della [sua] compagine,” i quali l’accusavano di non aver fatto nulla “per attenua 236
re i danni del fallimento della Banca cattolica,” un fal limento che aveva travolto “tante piccole fortune” di mi sera gente che aveva affidato a questa banca i suoi sten tati risparmi. Infine, la politica del regime, molto abile nel concedere ai cattolici quello che era stato sempre negato dai precedenti governi liberali, provocò una scis sione nel clero, che si schierò parte per la lista naziona le e parte per il partito popolare: gli effetti di una tale politica furono messi in rilievo dal sottoprefetto di Corleone: “in questo Circondario [il PPI] ha perduto assai della sua forza in seguito all’avvento del fascismo, il qua le, essendo stato capace di ricollocare il Crocefisso nelle scuole e di prescrivere in esse l’istruzione religiosa, ed avendo anche mostrato di voler tenere cordiali rapporti col Vaticano, i quali lasciano intravedere una non lontana conciliazione tra questo e lo Stato italiano, si ha catti vato la simpatia di molti cattolici e di gran parte del clero che voteranno indubbiamente per la lista nazionale e fascista.” Certo, il clero doveva essere attratto dalla prospettiva, che gli veniva aperta dal fascismo, di una conciliazione fra la Chiesa e lo Stato dopo la lunga rot tura, ma non giungeva a pensare che questa gli era of ferta da un partito e da un governo che non celavano le loro tendenze autoritarie e totalitarie: Mussolini avreb be, più tardi, potuto decidere da solo in una materia tanto delicata solamente perché aveva soppresso ogni li bertà e si aspettava che il popolo italiano rispettasse l’u miliante funzione di osannante dei suoi successi a cui l'a veva ridotto. Il quadro che usciva da questa complessa situazione era, per il duce, nel complesso, soddisfacente, pur ri velando qualche aspetto non del tutto rassicurante per la presenza di una opposizione aperta o strisciante, anche in chi dichiarava di avere aderito pienamente e sincera mente al nuovo verbo calato dalla pianura padana e da Roma: infatti, nella grande adunata di Palermo del 2 marzo '24, in cui venne presentato il listone, l’oratore uf ficiale, R. Paternostro, disse: “Da noi non esistevano par titi a base di idee, ma a base di uomini, che pur di con servare il potere, si asservivano ai peggiori elementi e fomentavano le discordie locali. Il Fascismo ha rotto i partiti locali, incuneandosi fra essi, selezionando, conten tandosi di pochi, ma buoni elementi.” In definitiva, per ciò, si mostrava di credere in un fascismo risanatore di antichi mali, un fascismo che si sarebbe accontentato di 2V
raccogliere, alle elezioni, pochi, ma buoni consensi. Fu probabilmente per questo motivo che Mussolini, nel det tare, il 1° marzo, le istruzioni per le “adunate provinciali,” insisteva sulla necessità di adottare una tattica moderata: “Relativamente alle adunate provinciali di domani, sarà bene che le Federazioni provinciali e i candidati prenda no accordo circa il tono da dare ai discorsi. Pur riaffer mando rintendimcnto del Governo e del Partito di con durre la lotta con vigore, con chiarezza inequivocabile in confronto di tutti i partiti di opposizione, è bene che gli oratori usino un linguaggio non violento ed assicurino che la lotta sarà condotta in modo da assicurare ogni libertà alle altre liste, i cui candidati però dovranno beninteso essere pronti a sostenere tutti i contradditori con i can didati del Partito Fascista [...].” È questo telegramma, un piccolo capolavoro di ipocrisia, perché diceva di voler condurre la lotta con chiarezza e con vigore contro le opposizioni, dopo, però, aver fatto di tutto per svuotarle dal di dentro; prometteva e garantiva la libertà agli ora tori delle altre liste, quella libertà che qualsiasi rappre sentante di prefettura o di questura era pronto a tron care con la scusa di “evitare disordini” (come nel caso del Finocchiaro Aprile), il che lasciava intendere che il dovere dei candidati di opposizione di concedere il con tradditorio poteva essere impunemente violato dai can didati del listone. Così, ancora prima delle elezioni, gli interessi che era no stati attratti nell'orbita del partito dominante, erano molti e vasti e diffusi sia nelle città sia nelle campagne, dovunque un personaggio “di rispetto” avesse avuto la sua clientela di contadini, di artigiani e di piccoli bor ghesi. La borghesia “democratica” si converti senza in dugio, attraverso una serie di abdicazioni, costrette o spontanee, ma sempre sorrette dalla speranza di potersi assicurare la continuazione della vectehia influenza. “Ci fu, in altri termini,” osserva il Marino, “un estremo, e a volte disperato, esercizio di quella prassi camaleon tica del notabilato che era stata l’epifenomeno provin ciale del trasformismo parlamentare. La lista del Fascio, soprattutto, fece da catalizzatore delle diffuse reazioni di autodifesa personale generate dall’agonia del blocco giolittiano.” Ecco perché le elezioni si conclusero “in un modo trionfale” per il regime, urlò il duce al popolo di Palermo, il 5 maggio '24. Questo discorso nel capoluogo della Sicilia fu il più articolato di quelli da lui pronunciati 238
nel viaggio di ringraziamento alle forti e generose popo lazioni del Mezzogiorno, che gli avevano dato una maggio ranza indiscussa e indiscutibile di voti. Riprese motivi che erano già stati presentati da altri oratori come una gran de lode per quelle popolazioni, ad esempio l’aver serbato un contegno “di equilibrio e di saggezza negli anni in certi del dopoguerra. Qui, ove gli spiriti sono abituati alla luce solare e ai dettami della saggezza antica e mo derna, qui non vi furono oscuramenti di civiltà, qui non vi fu imbestialimento collettivo; qui era la riserva, qui era la valanga che sarebbe fatalmente salita se l’Italia avesse veramente raggiunto l’orlo estremo dell’abisso! tAcclamazioni entusiastiche].” Ma, per fortuna, sembrò volesse dire, era venuto il fascismo a salvare il paese dall’imbestialimento che lo minacciava rendendo inutile l’in tervento dell’isola. La sua visita alla Sicilia era un “pelle grinaggio di amore” che gli aveva dato il modo di cono scere ancora più a fondo “i vostri antichi e per molto tem po inappagati bisogni.” “So quello che vi occorre,” aggiun se. “Potrei numerare i paesi ed i comuni che non hanno strade, che non hanno acqua; non ignoro la desolazione del latifondo, né mi è sconosciuta la tragedia oscura della zolfara.” Ma una cosa era conoscere tutti questi problemi cd un’altra avere la volontà precisa di affrontarli, ed egli proclamò di avere questa “volontà di risolverli e li risol verò [Il popolo prorompe in una entusiastica, prolungata ovazione].” Per fortuna, affermò con una stupida lusinga, poiché ben sapeva che per lui non aveva alcuna importan za, “si aggiunge oggi l’ausilio delle nuove forze e delle nuove generazioni. Siete voi, e soprattutto voi, che do vete porre con tenacia instancabile, con diligenza inflessibile, i problemi della vostra Isola, in modo che da proble mi regionali appaiono in un dato momento nella loro vera essenza di problemi nazionali [Entusiastiche approvazioni].” Voleva forse essere un accenno alle forze autonomistiche, che erano chiamate alla prova ed alle quali pareva che egli volesse affidare la soluzione dei vasti e complessi problemi che angosciavano la Sicilia, pur avendo detto poco prima di avere, lui solo, la volontà di risolverli. Subito dopo, diede ini zio, secondo il vecchio costume dei tribuni (ma pure nuovo perché ripreso dal D’Annunzio a Fiume), ad un diretto colloquio con il popolo, in cui le sue efficaci arti istrionesche si esaltavano: “Ebbene, popolo palermitano, se l’Italia ti chiede ed esige da te la disciplina necessaria, il lavoro concorde, la devozione assoluta alla Patria, che cosa ri 2)9
spondi tu, o popolo palermitano? [Tutto il popolo prorompe in un formidabile ‘si!’]. - E se domani è necessario che la valanga dei tuoi petti salga ancora, se è necessario ripulire tutto quanto non ha più ragione di esistere, sei tu pronto a marciare? [La folla prorompe in un nuovo, poderoso ‘si!’]. - Popolo palermitano! Sei veramente degno della tua storia e della tua gloria. Sei veramente un popolo garibal dino! Poiché non ancora furono impegnate tutte le bat taglie, non ancora può dirsi finita l’opera di redenzione e di ricostruzione.” Il duce dava, senza dubbio, come scontato quello che la marea di voti che si era abbattuta sul listo ne (475.495 voti su 697.005 votanti, con tutti i 38 candidati eletti) gli sembrava dovesse significare: una concorde e as soluta conversione del popolo palermitano e siciliano ai principi della rivoluzione fascista, una disposizione totale alla disciplina (il che voleva dire una confusione ed una fusione degli interessi dell’umile gente con quelli degli agrari, della borghesia e della burocrazia che erano sem pre vissute, traendone grossi vantaggi, all’ombra dei pos senti ceti capitalistici del nord, dei mafiosi, uniti tutti nella devozione alla Patria: una parola quest’ultima che con l’altra di Nazione, sarebbe servita, durante il ventennio, a contrabbandare le poco pulite speculazioni e lo sfrutta mento del popolo italiano da parte di una minoranza di eletti). Per quanto riguarda, poi, la necessità di “ripulire tutto quanto non ha più ragione di esistere” e di prose guire sino alla fine “l’opera di redenzione e di ricostruzio ne,” si trattava, anche qui, di una esigenza che sarebbe stata giusta se, proprio con le elezioni, Mussolini e il fasci smo non avessero dato la più manifesta dimostrazione di non volere ripulire bensì di volersi semplicemente inserire nella vecchia realtà politico-sociale dell’isola, senza rico noscere agli abitanti dell’isola nessun diritto di partecipa re o di interloquire negli affari dello Stato. Infatti, Musso lini proclamò pure che “quando la libertà non è tutelata dall’ordine diventa licenza e caos [...]; non si possono go vernare le nazioni senza avere polsi di ferro e volontà d’ac ciaio.” Era un nuovo machiavellismo, che gli storici del re gime - un Ercole, un Volpe - riprendevano e rispolverava no per adattarlo alla concezione che della politica aveva il duce, una concezione che risaliva appunto al “crudo em pirismo dei Principi, dei signori, dei condottieri che ope ravano fuori della morale, senza ideali o preconcetti ideo logici, e adeguavano freddamente i mezzi agli scopi,” qua le, a loro parere, era stato descritto dal Machiavelli. Ma 240
Mussolini aggiungeva un pizzico di populismo che invece di avvicinarlo al popolo, come forse avrebbe voluto, lo al lontanava ancor di più, ponendolo sul piedistallo - che ri teneva essere il suo - del grande uomo, dell’uomo supc riore che si estolle sulla comune e misera umanità: culto che egli aveva avuto anche durante il periodo socialista (o, meglio, pseudo-socialista) della sua vita, nel prim o ante guerra: “Questo stile di governo, che è il mio stile e del quale rivendico orgogliosamente tutta la responsabilità, non impedisce di andare al popolo, di andare verso il po polo che lavora e che soffre e che non turba l’ordine pub blico, verso il popolo che c la base granitica sulla quale si costruisce la grandezza delle nazioni, di andare verso que sto popolo non vendendogli del fumo, ma dicendogli la verità aperta con cuore fraterno.” Si badi: il duce si van tava orgogliosamente di saper governare con polso di ferro e volontà d’acciaio, ma di saper andare anche verso il po polo “che lavora, soffre e non turba l’ordine pubblico,” cioè non crea ai suoi governanti problemi o difficoltà con agitazioni o scioperi, perché, secondo lui, la grande virtù del popolo doveva essere di lavorare e di soffrire in silen zio. E, infine, dopo un avvertimento minaccioso agli oppo sitori (che in Sicilia, dispersi nelle varie liste, erano stati pochi, circa 170-180 mila): “Noi abbiamo Roma per diritto di rivoluzione! Soltanto da un'altra forza, e solo dopo un combattimento che non potrebbe non essere asperrimo, ci potrebbe essere tolta! [Applausi interminabili, frenetiche acclamazioni],” ecco la radiosa prospettiva per il popolo sici liano: “Vogliamo fare e faremo ogni sforzo perché il popo lo della Sicilia possa rapidamente mettersi all’avanguardia di tutto il popolo italiano.” Un’altra minaccia, simile a quella appena vista, gridò, il 10 maggio, sempre roteando gli occhi e contorcendo le ma scelle, al popolo di Catania, che lo aveva avvolto nella sua “travolgente passione di patria.” E dalla Sicilia poteva lan ciare tali minacce, perché l'isola, con la sua risposta quasi plebiscitaria, gli doveva aver dato l’impressione e la sen sazione viva di essere un grande condottiero, il nuovo con dottiero della nuova Italia, destinato a far riprendere al paese “le sue gloriose vie del mondo: le strade del m are,” dopo averla redenta all'interno. La minaccia pronunciata a Catania fu la seguente: “[...] grido ancora una volta, davanti a questa adunata di popolo, che la marcia su Roma è un fatto compiuto e irrevocabile e che la vecchia Italia è veramente sepolta per sempre! E del resto, vorresti 241
tu, o popolo di Catania, ritornare a quei tempi? [Un sol grido formidabile risponde: Wo!’]. - Vorresti forse rico minciare lo stile della bassa politica di tutti i giorni [Afo!], senza luce di ideale? [A/o!]. -Ebbene, vorrei che l’urlo pos sente di questa moltitudine giungesse a coloro che sono sordi perché non vogliono sentire, che sono ciechi perché non vogliono vedere, e che vivono di gramissime illusio ni, delle quali farà giustizia la nostra volontà e la storia italiana [Entusiastiche acclamazioni al Duce e all’Italia].” Le gramissime illusioni che il duce attribuiva ai suoi av versari, dopo un mese, con il delitto Matteotti, si sarebbe potuto dire che fossero le sue, che aveva creduto di aver in mano tutta la nazione e che si vedeva, invece, investito da un’ondata di indignazione che sembrava dovesse tra volgerlo e che lo spingeva a dire, alla Camera dei deputati, che il suo governo puntava i piedi di fronte alla specula zione che si tentava di fare prendendo a pretesto l'episodio criminoso e nefando e che si sarebbe difeso a qualsiasi costo. Come cambia rapidamente la fortuna delle genti e degli individui, si sarebbe potuto dire: ieri sugli altari, oggi nella polvere. Ma ritorniamo alle giornate siciliane dell’apri le, cosi “vibranti di entusiasmo” e che gli avevano fatto sentire “l’impeto e il fremito delle moltitudini siciliane”: erano state giornate tumultuose e cariche di entusiasmo, per cui, sicuro di un consenso unanime del quale erano partecipi pure gli “autentici contadini,” aveva potuto vol gersi sprezzante a quei “pallidi politicanti di Roma che non si muovono dai loro salotti, dove fanno le piccole, in sulse cospirazioni di dettaglio.” Ed in questa atmosfera tanto eccitante, per lui, aveva potuto riprendere la stupi da retorica dei “trenta secoli di civiltà” del nostro popolo, di “questo popolo che ha dato per ben tre volte al mondo attonito il sigillo della sua potente civiltà, questo popolo che oggi vive composto, disciplinato, ordinato, ha una espe rienza storica di incalcolabile valore, poiché si tratta di scegliere, o popolo di Catania, si tratta di scegliere fra le teorie brumose, antivitali, antistoriche, e il nostro quadra to, romano spirito, che affronta la vita come un combatti mento, e che è disposto a morire quando l’idea chiama e batte la grande campana della storia [Una dimostrazione indicibile di consenso copre le parole del Duce']” E, termi nando la sua visita all’isola a Siracusa, proclamò che “non soltanto la valle Padana, le regioni meridionali, l’isola di Sicilia, ma tutta l’Italia è fascista, e di ciò sono persuasi tutti, meno pochi illusi, fanatici e paralitici politicanti,” 242
e che con un simile popolo “l’Italia non potrà essere che grande e forte quale io l'ho sempre sognata.” Come si è notato, a differenza del precedente viaggio, in cui Mussolini aveva parlato diverse volte dei gravi proble mi che affliggevano ancora quelle povere popolazioni (ma allora si era trattato di un viaggio pre-elettorale, che do veva essere necessariamente carico di promesse), questa volta aveva accennato solo rapidamente ad essi parlando a Caltanissetta, quando aveva detto che bisognava cambiare metodo rispetto ai passati governi, che avevano approntato moltissimi programmi (“oserei dire troppi”) e, occorreva, invece, “parlare pochissimo e agire moltissimo.” Ma, in tutti gli altri incontri, sempre avvolti in un “fremito in vincibile di passione e di fede,” aveva esaltato, celebrato, magnificato la travolgente, splendida e trionfale vittoria elettorale, con una retorica stantia, bolsa, irritante, che strappava gli applausi a popolazioni che per lunghissimo tempo erano rimaste abbandonate e dimenticate. Nulla esse potevano ripromettersi dal fragore scoppiettante dei discorsi, dei colloqui, delle incitazioni ad entusiasmarsi per prospettive che si sperdevano nel vuoto dei cieli, con cui il duce le aveva intrattenute per alcuni giorni in uno spettacolo pirotecnico e ricco di colpi di scena, con il primo attore che si sbracciava, che mimava esattamente come nella siciliana “opera dei pupi.” E che nulla fosse di sposto a concedere all’isola fedelissima il fascismo, fu di chiarato apertamente ed inequivocabilmente da un espo nente, antemarcia e squadrista della prima ora, di Paler mo, A. Cucco, in occasione delle elezioni amministrative dell’agosto '25: “la condizione che dettano quelli che del Fascismo costituiscono i quadri dinamici, i quadri giova ni, le forze di oggi che saranno anche le forze di domani, quelli che sono il fascismo senza precedenti, senza vecchie tradizioni, senza gravosi impacci di autorità formata nelle vecchie organizzazioni o clientele, senza passività politiche: gli squadristi, per esempio, gli idealisti: ecco tutto. La condizione che noi dettiamo è questa: che il Fascismo deve essere servito e non deve servire a nessuno. La direzione, l'assoluta direzione, deve restare nelle mani di quelli che, per avere sempre obbedito, sono i soli che abbiano il di ritto di comandare. Se c'è un interesse morale e politico, 6 quello di formare fascisticamente, con un mutamento di metodo, quella mentalità che pesa sulla vita siciliana da secoli: e ridurre, in forza di un principio rigoroso di auto rità, ridurre a niente quelle decrepite e già cadenti cama 21)
rille.-1 nostri capisaldi sono questi: che il Fascismo farà le elezioni [amministrative], dovunque, coi suoi uomini, e che quello che comanderà, ovunque, sarà il Fascismo e gli uomini dovranno servirlo e ubbidirlo.” Sono senz’altro parole ben altrimenti chiare di quei farfugliamenti retorici del duce nell'aprile dell’anno pre cedente, e la condanna delle “vecchie organizzazioni o clientele,” di cui, peraltro, il fascismo si era largamente servito nelle elezioni politiche del ’24, era netta, cosi come pure esplicita e risoluta era la dichiarazione con cui il Cucco rivendicava al solo fascismo “il diritto di comandare,” arrogandosi, nel tempo stesso, il dovere di “ridurre a niente quelle decrepite e già cadenti camarille” che avevano cosi a lungo detenuto il potere nell’isola. Una simile fiammata di sdegnosa lotta contro le cadenti camarille, una lotta che si sarebbe risolta ben presto e non avrebbe richiesto grandi sforzi perché si trattava di un ceto ormai decrepito (il Cucco, perciò, chiamava a raccolta le sue falangi per una impresa che sarebbe stata rapidamente vittoriosa, dando nuova gloria a chi avesse partecipato ad essa), si poteva capire nel clima del '25, caratterizzato, all’inizio, dal discor so del duce del 3 gennaio (con il quale aveva messo a tacere la secessione dell'Aventino) e dalla segreteria del PNF di quel grande rivoluzionario che fu R. Farinacci, del quale abbiamo già parlato. Egli si era acquistato tale nomea solo con il suo violento estremismo, creando a Mussolini, nel periodo della faticosa mediazione cui fu costretto que st’ultimo, non poche difficoltà con il suo atteggiamento di “Gran Segretario” e con la sua velleità di assumere accen ti duceschi. Naturalmente, il tentativo di scardinare le vec chie clientele, nascondeva il proposito del Cucco di creare altre camarille fedeli al regime, e fu, molto probabilmente, questo segreto - ma non troppo - intento a decidere il Pre sidente della Vittoria, V. E. Orlando, a dichiarare che il '25 palermitano ebbe un significato di “una grande prova che supera fatalmente i termini di una vicenda munici pale, per riassumere il travaglio che agita la vita del Pae se,” ed a spingerlo sulla via dell’opposizione con un mani festo da lui lanciato verso la fine di luglio quale capo della “Unione per la libertà,” una unione che raccoglieva oltre agli orlandiani anche i democratici, i popolari e i socialriformisti (una coalizione liberaldemocratica). Il manifesto conteneva, senza dubbio, espressioni nobili e che sembra vano rispecchiare una sincera convinzione: “Se è vero che la storia presenta a volte dei ritorni al passato, anche 244
questo è e deve essere un ritorno: questo che si esprime nella unanime e indomabile consacrazione delle regole di libertà e di giustizia, che sono vanto d’ogni popolo civile, e che i patiboli e le battaglie consacrarono alla vita d’Ita lia. Da tali regole non può prescindere, senza danno e sen za onta, la vita dei popoli: non può la violenza sostituirsi ai civili dibattiti, né un malinteso spirito di autorità op primere i diritti fondamentali dei cittadini, per una pre tesa finalità di comune bene, sotto cui si nasconde l’am bizione del potere.” Si sentiva di essere di fronte ad un ve ro “principe del foro,” dalla eloquenza forbita e raffinata: ma bisogna cercare di vedere che cosa c'era dietro questa improvvisa conversione dell’Orlando, perché, venendo die ci giorni dopo le arroganti affermazioni del Cucco, posso no apparire una difesa interessata delle proprie posizioni, delle proprie clientele (che, come si era visto dalle ele zioni del '24, erano molto vaste e si estendevano ben al di là della provincia di Palermo), posizioni e clientele che ora venivano attaccate dal fascismo. Questo pericolo, che pro veniva dal partito con il quale aveva collaborato l’anno precedente, avrebbe potuto far crollare tutta la impalca tura su cui si reggevano il suo potere e la sua influenza, e se le intenzioni del Cucco si fossero verificate, non gli sa rebbe rimasto che ritirarsi a vita privata, dopo avere assi stito allo sgretolamento delle sue “amicizie.” Fu per questo motivo che, molto probabilmente, l’Orlando, richiamandosi alla tradizione prettamente siciliana dei Vespri, assunse le difese anche della mafia con senso di orgoglio e di fierezza per la storia, la cultura e la specificità della sua isola. Cer to, il suo dicorso, a tale proposito, era alquanto contorto e perdeva la brillante efficacia di quando parlava di liber tà e di giustizia, vanto d’ogni popolo civile: ma ciò si può comprendere perché troppo palese era il suo interesse a so stenere una intelaiatura che stava per dissolversi, o cosi almeno egli temeva: “Ora io vi dico [o palermitani] che se per mafia si intende il senso dell’onore portato fino alla esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e so praffazione portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte, se per mafia si intendono questi sentimenti e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal segno si tratta di con trassegni indivisibili dall’anima siciliana e mafioso mi di chiaro e sono lieto di esserlo! Che se invece per mafia si intende quella delinquenza che abbiamo noi e che hanno 245
tutti i paesi dell’Italia e del mondo, ebbene in tal caso io non posso che dire questo: che se in quanto vi sono per sone le quali per le loro necessità debbono subordinare ad un permesso d'armi la loro fede politica ed il loro voto elettorale, è evidente che nessuna di queste persone (se ce ne sono) può seguire noi, che, certamente, non abbiamo nulla da offrir loro.” Ma come era possibile, vien fatto di chiedersi, intende re per mafia sentimenti e atteggiamenti come il senso del l'onore, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffa zione, la generosità che fronteggia il forte e indulge al de bole, la fedeltà alle amicizie? Non riuscire a scorgere quanto di delittuoso, di sopraffattore, di violento ci fosse in essa, era veramente, per un uomo come l’Orlando, che ben doveva conoscere l'ambiente siciliano e in particolare quello palermitano, un voler chiudere deliberatamente gli occhi di fronte alla realtà. Cosicché non ce la sentiremmo assolutamente di commuoverci, come fa il Marino, per l’elaborato e maestoso fraseggiare sulla libertà e dire che esso dimostra come “la ‘rivolta’ di Vittorio Emanuele Or lando salderà nell’antifascismo gli elementi della prote sta sicilianistica con le significazioni, più ampie e profon de, della battaglia liberaldemocratica guidata, nell’orizzon te nazionale, da Giovanni Amendola,” una volta “individua to nella ‘libertà’ (nella libertà in generale, senza specifica zioni di programmi o particolari referenti pratici) ‘il ter reno di combattimento.’” E ancor meno saremmo disposti ad accettare l’altro commento, sempre del Marino, al passo sulla mafia, in cui “molto più che di un inno alla ma fia (come superficialmente, anche se non del tutto a torto, si è spesso notato e scritto),” si vorrebbe vedere il “va lore di testamento di una generazione politica decisa a preferire un dignitoso ‘suicidio’ ad una morte lenta per declassamento e per asfissia nelle spire del vassallaggio.” Senza dubbio, l’Orlando doveva aver capito, verso la metà del ’25, che le pretese del fascismo miravano, come abbia mo detto, a spodestare la vecchia classe dirigente dai posti e dalle funzioni che aveva tenuto ed esercitato, in favore di una nuova classe dirigente più docile e di uomini più pronti a diventare “rigidamente, quasi ferocemente uomini d’ordine,” sempre, naturalmente, ad maiorem gloriarti del regime che avrebbe potuto vantarsi di aver cauterizzato “col ferro e col fuoco,” come ordinò il duce al prefetto Mori, incaricato dell’operazione in un dispaccio, definito da un apologeta dell’epoca “storico”: d’altronde, che cosa 246
non si proiettava nella storia o non acquistava valore di storico per la fluente retorica fascista?, “la piaga della delinquenza siciliana.” La lotta contro la mafia si risol vette - cosi ha scritto il Petacco - nel “classico gioco ma fioso, di attaccare la mafia per meglio difenderla, di sol levare un gran polverone solo per nascondere il vero obiet tivo.” Né tardarono ad accorgersi di questo carattere del la tanto vantata campagna antimafia non solo le popola zioni, ma anche alcuni partiti e perfino le autorità di go verno locali. Tutto ciò divenne molto chiaro quando il Cucco acquisi alla coalizione organizzata contro Orlando G. Lo Monte, uno dei più noti capi mafiosi dell’isola, fa cendo appunto comprendere come il fascismo volesse soltanto servirsi del cosidetto “impegno rigeneratore” per poter meglio combattere i vecchi notabili. Già il 28 luglio, un giorno dopo il discorso dell’Orlando, con cui cercava, in verità, di convincere la mafia a non abbandonare i suoi antichi e fedeli alleati, 1’“Avanti!” metteva in rilievo come il carattere della lista fascista, sostenuta dai “pezzi grossi della cosiddetta mafia rurale,” fosse tu tt’altro che “mora lizzatore” e “innovatore,” secondo quanto andavano sbandie rando i suoi promotori. E, poco dopo, il 1° agosto, il pre fetto di Palermo, in una relazione al ministro dell'Interno, dimostrava un certo stupore per l’“influenza” indiretta mente accordata dal governo alla mafia mediante “la pro tezione incosciente” accordata da Lanza di Scalea “all’on. Lo Monte, noto capo politico della mafia siciliana, suo grande elettore.” Il fatto era che l’accordo mafia-fascismo avveniva, molto probabilmente, su una specie di grande compromesso, per cui il fascismo riconosceva alla “mafia rurale” il controllo sulle campagne della Sicilia occiden tale e centrale, ripristinando, proprio il 24 luglio, una volta lanciata la “battaglia del grano,” il dazio sul grano nella misura di L. 27,50 al quintale (dazio che sarà elevato, suc cessivamente e gradualmente, a L. 40,40 nel ’28; a L. 51,40 nel ’29; a L. 60,60 nel ’30 e a L. 75 nel ’31), con grande sod disfazione dei proprietari terrieri latifondisti dell’isola e dei mafiosi che ne rappresentavano il contorno: tutti ri conobbero al regime, ed anzi sancirono, uno stretto rap porto fascismo-capitalismo del nord, che, naturalmente, non era disposto a rinunciare al Mezzogiorno come a pro pria colonia di assorbimento dei suoi prodotti. La media zione fra i due gruppi di interessi avveniva attraverso il fascismo, che, in tal modo, riprendendo in pieno la tradi.zionale politica del ceto dirigente nazionale insediato a 247
Roma (politica che, dal 1887 in poi, aveva sempre avuto come piloni di appoggio il protezionismo industriale da un lato e il dazio sul grano dall’altro), si garantiva un totale ed assoluto predominio sulla vita del paese. Ecco perché la sottile, ed abile schermaglia condotta dall’Orlando, sot to l’apparenza di difendere le vecchie e risplendenti idee di libertà e di giustizia, non riusciva a celare che la posta in gioco era di gran lunga più importante, poiché si tra t tava, per la classe politica che egli rappresentava, di con tinuare a m antenere o di cedere del tutto l’influenza che aveva gelosamente custodito fino allora e che si era, mol to probabilmente, rafforzata negli anni del dopoguerra, quando il vecchio schema di governo era entrato in crisi soprattutto per la pressione delle masse popolari e per il conseguente sm arrim ento della classe politica liberal-democratica. Ora il nuovo compromesso liquidava e faceva uscire di scena, per il momento, quelle figure di notabili che avevano lasciato si la Sicilia e il Mezzogiorno in balla dei più forti gruppi economici del settentrione, mantenendo però sempre un certo distacco, e subentravano altri indi vidui affam ati e assetati di guadagni e di ricchezze, di onori e di posti che perm ettessero di agire, quali “mafiosi redenti,” nel clima ovattato dello “Stato padrone” e, per il suo reazionarismo, perfettam ente adeguato ai loro inte ressi e ai loro intenti. Tuttavia, parrebbe che, almeno in un primo tempo, il fascismo e lo stesso prefetto Mori, che tale politica fini con l’avallare (sebbene si augurasse che l’atavica fame di terra dei contadini siciliani potesse un giorno venire saziata e reclamasse una “giusta mercede per gli onesti lavoratori dei campi che ora [con la sua protezione] pos sono affrontare, senza paure, le quotidiane fatiche”), cer cassero una alleanza con la grande borghesia terriera: in fatti, il Prefettissimo (o “prefetto d’assalto,” come pure veniva definito, o anche “prefetto del Piemonte,” perché egli era nativo di quella regione e chi lo chiamava in tal modo voleva caricare l’espressione di tutto il lontano risentimento delle popolazioni meridionali per la conquista regia piemontese del 1860), per impedire che i proprietari fossero costretti a dare i propri fondi in affitto a esponenti della mafia sulla base di contratti imposti con la minaccia di violente rappresaglie, emanò una ordinanza con cui sta biliva che tali contratti potessero essere rescissi dalla par te che si considerava danneggiata. “Ai proprietari terrie ri,” scrive il Petacco, “la riform a spalanca prospettive a 248
lungo sognate. In breve tempo, centinaia di contratti sono rescissi. Per ottenere l’annullamento dell’atto basta rivol gersi alla commissione, presieduta dal prefetto, e dimo strare che il contratto in questione è stato sottoscritto sotto l’imposizione mafiosa. Nella sola provincia di Pa lermo, 320 gabelloti, che controllavano circa 28 mila ettari di terreno, sono sfrattati da un giorno all'altro. Possidenti e latifondisti possono cosi riconquistare senza fatica la piena disponibilità dei propri feudi. Ovviamente l’opera zione comporta un fortissimo incremento della rendita fondiaria. Fondi che rendevano quattro o cinquemila lire all’anno, vengono ora dati a gabella per cinquanta o sessan ta mila lire. Soltanto il reddito dei contadini, che da gene razioni lavorano su quelle terre, resta immutato.” Ma, po chi anni più tardi, verso il '28, quando il duce si accorse che l’opera moralizzatrice del “prefetto d’assalto” andava troppo oltre, colpendo personaggi che egli stesso aveva innalzato alle più alte cariche dello Stato, come il gen. Di Giorgio, l’“eroe del Grappa,” e soprattutto quando avverti che le ripercussioni negative su alcuni prodotti tipici del l’economia agricola siciliana - come il grano per le zone a latifondo, malgrado il forte aumento del dazio, oppure il vino in seguito alla rivalutazione della lira decretata da Mussolini nell’agosto del '26 (la quota 90) - tendevano ad alienargli le simpatie dei terrieri,* allora pensò che fosse 4 Infatti, come risulta da una pubblicazione. L ’e c o n o m ia ita lia n a n e l a cura dell'Associazione fra le società per azioni e della Confedera zione generale fascista dell'industria italiana, la produzione granaria era stata, nel 1928, superiore di quasi 9 milioni di quintali a quella dell'an no precedente, un aumento che non era stato determinato da un corre lativo aumento della superficie coltivata, la quale era risultata anzi al quanto inferiore, bensì da un incremento nel rendimento unitario. Ma, pro prio per quanto riguarda tale rendimento, si poteva notare che mentre esso era passato da 15,5 a 17,9 per ettaro nell'Italia settentrionale, da 9,7 a 11,6 nell'Italia centrale, da 7,4 a 10,3 nell’Italia meridionale, in quella insulare, invece, si era avuto un rendimento “molto inferiore a quello del 1927, da 9,4 a 8,8 in conseguenza della produzione siciliana che è ri sultata di circa un quintale per ettaro inferiore a quella dell'anno prece dente.” Queste cifre - proseguiva L ’e c o n o m ia ecc. - “ci permettono di rilevare quale enorme differenza esista fra il rendimento unitario delle regioni settentrionali e quello delle regioni meridionali e insulari, prese nel loro complesso. Ancora maggiore appare la differenza se si consi derano soltanto alcune regioni: dai 23,3 quintali in media per ettaro della Lombardia si scende agli 8,8 quintali della Sicilia.” Come è noto, la produzione del grano interessava soprattutto la zona del latifondo al centro dell'isola. Anche la produzione olearia faceva registrare un au mento in tutte le regioni, tranne in Sicilia, e la produzione vinicola, che aveva superato tutti gli anni del dopoguerra, eccetto quella eccezional mente elevata del 1923, nel centro e nel meridione, nelle isole rimaneva 1928,
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opportuno far cessare l’azione del Mori e il 16 giugno del '29 lo licenziò con poche e lapidarie parole: “La ringrazio dei lunghi servizi resi al Paese.” Da quell’istante tutto ri tornò come prima e i capi deM’alta mafia, ormai al sicuro da ogni sorpresa, aderirono senza più alcuna paura al fa scismo, mentre i grandi proprietari non “avevano più bi sogno delle coppole storte per tenere a freno i braccianti e i fittavoli più inquieti,” perché c’era chi si era sostituito con maggiore efficacia alle “coppole storte.” Ma chi usciva da queste vicende con le ossa rotte era il vecchio ceto po litico abituato a dominare la vita della Sicilia, usciva con le ossa rotte perché prima esso era solito tenere sottomessa la mafia, alla quale era di estrema utilità la sua opera di mediazione con il governo centrale, cosa che, ora, non serviva a nulla avendo, questa, stabilito diretti rapporti con la capitale e con i fascisti che vi detenevano saldamente il potere. In maniera pressoché identica avvenne, anche nelle altre regioni del Mezzogiorno, la fuga dalle formazioni o dalle clientele liberal-democratiche verso il fascismo; basta leg gere, per la Puglia, le bellissime Lettere di T. Fiore [a G. Dorso], da noi già ricordate, in cui, con accenti tra gobettiani e salveminiani e con una profonda e sincera ripul sa morale, viene tracciato questo quasi generale piegarsi di fronte al vincitore, che ormai possedeva lo Stato. “È inutile aggiungere,” egli scrive nella prima lettera del 15 gennaio '25, “che gli amministratori socialisti sono stati quelli che hanno resistito meglio,” (tutt’altro che bene, pe rò) alle pressioni che i governi esercitavano per salvare interessi particolaristici ed imporre creature loro. “Ora son rimasti in piedi soltanto il voltacasacca di Grumo, fascista per girellismo congenito, ed un altro, il democra tico di Triggiano, che ha, credo, abbracciato la croce co si, pro bono pads, per non vedere le cose cambiate nel paese. In fondo, bisogna dirlo, molta gentarella, di libertà non ha bisogno, e quel tanto di lustra che ce ne veniva dal giolittismo e che.lo stesso fascismo, se fossero soddisfatti certi suoi interessi, potrebbe venire indotto a lasciare nei nostri paesi, soddisfaceva alle sue esigenze elementari. Con mio dispiacere il Sindaco non c’è ed io non posso in trattenerm i del suo socialismo fascista e chiedergli che cosa mai intenda salvare, restando al Comune.” E, poi, quasi stazionaria; soltanto la produzione agrumaria, che, però, era tipica delle coste dove prevaleva la piccola proprietà, segnava un aumento. 250
la conclusione amara e sofferta: “D’altra parte, la virtù d’andarsene, cioè di mollar l’osso, non è virtù italiana, anzi da noi anche gli avversari darebbero dell’imbecille a chi lo facesse; sapienza politica è curvarsi tanto ed ab bicarsi da confondersi con ogni nuova forma e colore.” E nella sesta lettera dell’agosto '26, tornava con appassiona to sdegno sull’ignobile trasformismo dei “grandi elettori,” dei “capeggiatori,” di quelli che la gente chiamava, per “la loro aria sbravazzona,” “gli assessori di piazza.” Erano individui indispensabili agli antichi e ai nuovi deputati, per ché non c’era impresa rischiata che essi non ne uscissero con onore, non c’era operazione di mazzieri che potesse compiersi senza di loro, né missione presso il prefetto, o addirittura a Roma, che, affidata a loro, non fosse corona ta dal successo. “Avvocati senza professione,” proseguiva, “o contadini semianalfabeti tolti alla vanga, non importa; sono d’ingegno, di bella lingua, di poca grammatica, di faccia tosta, irresistibili. Quando tutti passavano, quando tutto intorno pareva uno sfacelo, per la febbre di esser primi a fuggire, allora si che essi rivelarono il loro talento! Si chiusero sdegnosamente da parte per qualche mese, poi, ricordando che tutte le strade conducono a Roma, vi tor narono come per l’antico, si allungarono tronfi in un taxis, risalutarono i vecchi amici dei Ministeri, annodarono amici zie coi nuovi padroni, insegnando loro come farsi rispettare dalla burocrazia e come e dove far bordello nella capitale, ne tornarono quando gli amici già trepidavano per loro, creden doli perduti. E vennero in giro con un sorriso più malizioso del solito, non già fascisti, ma mussoliniani, col ritratto di Mussolini all’occhiello, e volevano dire superfascisti, supe riori ai fascisti.” Sono tutte pagine da leggere con grande piacere queste in cui il Fiore si chiedeva: “Ma i giovani [nel fascismo] dove sono?,” e quando continuava ad infierire, senza pietà alcuna (giustamente), contro uomini che non ave vano né volevano avere un passato politico, perché erano sta ti tutto, giolittiani, salandrini, approvarono e applaudirono la guerra e, alla fine, sfociarono nel fascismo; oppure dove racconta di coloro che, “dopo avere affilato le armi con tro il trasformismo politico, oggi, costretti all’inazione, sono a casa. Aspettano. Son travagliati da crisi varie, reli giose, filosofiche, politiche. Alcuni diedero impensatamente nella ragna del fascismo, per sdegno del passato, per bi sogno di fare; ora, uscitine fuori, si dibattono in sé dispe ratamente, non ben guariti dal contagio.” Ed aggiungeva di aver trovato interessante ciò che gli aveva scritto uno 251
sul senso di delusione e di vuoto provato nel vedere “come si mettevano in pratica i principi fondamentali pei quali avevo fondato il partito [...]. Le mie vicende mi portano ad invidiare i perseguitati politici dell’opposizione, gli esuli, i cacciati. Meglio mille volte la persecuzione dei tuoi ne mici che il colpo di pugnale del tuo compagno di fede.” Ma il Fiore esortava a non lasciarsi ingannare da simili la mentele: “è una pena,” concludeva con il suo solito senso di umiltà e di fraterno amore per tutti gli umili, “ascoltare i loro propositi truci di vendetta proprio contro i compa gni di ieri, assistere alle loro ire folli, vederli affascinati da visioni sanguinarie ancora. Non si sa come m aturerà in loro il senso dell’umiltà, come potranno spersonalizzarsi e sentirsi degni di riprendere l’azione con puro amore.” D’altronde, quanto fosse vivo, nei seguaci del mussolinismo, questo decadente senso dell’azione per l’azione, que sto vuoto e insulso attivismo, che sembrava, ai fascisti, potesse essere redento dalla rivoluzione che ne sarebbe scaturita, è stato colto molto bene anche da uno scrittore toscano, V. Pratolini, in Lo scialo, quando fa dire di un suo personaggio, squadrista della prima ora: “ora s'è messo in disparte. È in disaccordo coi suoi camerati. Sem bra perché la rivoluzione secondo lui è abortita”: puro gu sto fine a se stesso del menar le mani, dell’imporsi con la forza da parte di una piccola borghesia che voleva vendi carsi delle frustrazioni che aveva dovuto subire nel do poguerra e che aveva pure un più lungo risentimento con tro il vecchio Stato liberale che l’aveva sempre tenuta al margine della vita politica nazionale: ma rivoluzione a qua le scopo? con quale intento? era molto difficile capirlo dalle sue posizioni, in cui entravano parecchi motivi, dalla forza e dalla violenza alla rivolta, tutti, però, ugualmente ciechi e privi di effettivo impeto costruttivo. Ma l’interesse che, ancora oggi (in questo dopoguerra) ha reso cosi attuali queste Lettere, tanto che la loro ristam pa è apparsa opportuna, è l’analisi storico-politico-economi ca che il Fiore traqcia per chiarire, forse prima a se stesso che agli altri, il perché della triste condizione in cui vive va - e vive tuttora - la sua gente. Egli è portato, quasi istin tivamente, a ricercare quel perché nel giudizio che sulla questione meridionale avevano dato tanti illustri uomini distinguendo fra motivi interni e motivi, per cosi dire, ester ni. Fra i primi il Fiore poneva la mancanza di una vita au tonoma dei Comuni, dispersa in uno Stato organizzato centralisticamente, in completa balia del capriccio del potere 252
centrale, sicché esclamava di non riuscire a vedere “la rot tura della camicia di Nesso del parassitismo che ci esanimisce, ci soffoca e ci brucia senza un’organizzazione della nostra vita, sia economico-sindacale che politica e di par titi e di enti autarchici tale che spezzi quella esistente e le impedisca di ricomporsi, regionale indi e non nazionale.” Perciò, auspicava vivamente la formazione di “uno Stato regionale,” sebbene aggiungesse, con una onestà e una chia rezza di visione politica che gli fa onore, che l’ostacolo mag giore “alla vita locale autonoma, come ad un nuovo unitari smo politico, è in noi,” nella struttura socio-economica del le province pugliesi come di tutte le altre province meri dionali. Bisognava, dunque, ricercare “le prime cause delle nostre deficienze politiche” ed egli si apprestava a mostrare il fenomeno in azione mediante un rapido esame: “Nella conformazione estremamente varia del Leccese, perdura la grande, grandissima proprietà assenteista e cieca, affidata ai ‘servi,’ contadinucci che vi rubacchiano ma vi perdono ogni decoro, accanto alla media e alla piccola, più numerose, più sveglie e fattive, accanto al bracciantato misero e in sofferente di dominio. Ma la sostanza di questa vita resta ovunque feudale, anche nelle cittadine di mare aperte ai commerci ma dominate direttamente e indirettamente dai terrieri.” E subito dopo prorompeva in una veemente - ma quanto dolorosa! - condanna-denuncia: “Sotto la vernice di gentilezze, di rassegnazione, di mollaccionismo, sotto gli splendori di colore della natura, dovunque privi legio e protezione feudalistica, abbiezione, miseria morale e assenteismo.” Ma guardiamole anche noi, con la guida del Fiore, que ste varie classi, incominciando dalle più basse, dai con tadini, per i quali la questione più grave era quella della terra: “sotto ogni dibattito politico-amministrativo loca le, sotto ogni divisione incolmabile di parti, è difficile che non ci siano i termini di una lotta per la conquista della terra; in ogni nostro paese c’è una quistione demaniale, ragionevole o assurda, allo stato acuto o latente. Pensano ancora i contadini che il Re sia il padrone della terra, co me nel diritto pubblico barbarico, e che quei re norman ni, svevi ed angioini concessero loro la terra in piena le gittimità. È noto che le quistioni demaniali si trascinano, da noi, da secoli, sono la storia passata, tutta.” Ebbene, i contadini sentivano il “fermento malvagio del passato, per quello che loro è stato tolto, per quello che è stato mal dato,” sotto lo sguardo di uno “Stato compiacente.” “An253
:he oggidì, sotto la vernice di fascismo e di antifascismo, m molti paesi si agitano ardenti quistioni demaniali. Sono oggi i detentori di demani che hanno in mano il fascio, domani sono i loro oppositori. Quando, dopo trent’anni di ricerche e di spesa da parte del Comune, una quistione è in porto, una definizione è, bene o male, abbozzata, una sentenza è emessa, vien fuori un nuovo pseudomovimen to, imposto dal governo, ad intorbidar le acque, ad appella re, a rimettere i detentori, con deliberazioni, alle autorità comunali, in condizioni di resistere vantaggiosamente.” A questo punto, il Fiore si poneva il problema, urgente e ar dente, di dare “l’apertura di uno sfogo e di una soddisfa zione a tante aspirazioni, a tanti bisogni cosi a lungo compressi, a mezzo della soluzione delle questioni dema niali, o piuttosto, poiché quelle sono per lo più aggrovigliatissime, a mezzo di riforme agrarie, che mirino ad av vicinare sempre più la terra a chi la lavora”: il che avreb be dovuto essere “preliminare ad un qualsiasi serio orien tamento del Mezzogiorno, ad una qualsiasi nostra parteci pazione alla vita unitaria, con conseguente eliminazione di pericoli di jacqueries piccole ma continue, ed irrobusti mento della compagine nazionale.” Insomma, a suo parere, si trattava di ricercare una soluzione con una “larga con cezione politica,” capovolgendo radicalmente “l’indirizzo sin qui seguito.” Si sarebbe ottenuto un simile capovolgi mento facendo corrispondere “la nostra azione sociale, con la maggiore serietà storica” a ciò che si attendevano i con tadini, i braccianti e i fittavoli, il cui cuore si gonfiava, an cora oggi più che mai, di fronte al “mito indistruttibile della terra.” Doveva, pertanto, venire enunciato, come “fine dichia rato di un buon governo,” il distruggere la grossa proprietà assenteista, senza, però, cadere in “innovazioni affrettate e ridistribuzioni antistoriche,” bensì mantenere “un realismo effettuale” che non facesse, però, perdere di vista “i nostri grandi ideali di redenzione.” Per conseguire un tale scopo esisteva, secondo lui, una sola maniera: “attuare, attuare, attuare in modo consono al momento storico. E noi dobbia mo d’ora innanzi, anziché esasperare l’antitesi fra contadi ni e proprietari piccoli o grandi, come si è fatto per il pas sato, senza nessuna preconcetta preferenza per la grande proprietà, favorire lo sviluppo della piccola: è, questo, uno stadio inevitabile della vita di molte regioni, della Francia some del Mezzogiorno d’Italia.” E ricordava, a sostegno del la sua affermazione, che ciò era “ofmai pacifico anche per \ comunisti” e citava l’on. Grieco, il quale aveva scritto che 154
l'andar predicando per le campagne meridionali la “socia lizzazione della terra,” voleva dire, in realtà, rinunciare a far si comprendere ed a consolidare lo stata quo, anche dove il potere locale era detenuto dai socialisti. Si noti, anzitutto, lo spirito con il quale il Fiore affron tava l’arduo, e indubbiamente complesso, problema, uno spirito e un tono che ricordavano quelli della borghesia il luminata che si era formata, a suo parere, nel 700 pure nel Regno di Napoli, “ricca di cultura e di coraggio civile,” che aveva aspettato la redenzione dei mali di cui soffriva la so cietà, per sé e non certo per la misera plebe dall’opera di un sovrano anch’egli illuminato; tuttavia, rispuntava nel Fiore quasi la nostalgia per una classe di intellettuali illu minati che avesse avuto “la forza di avviare la soluzione dei problemi della nostra terra, dei nostri contadini,” come, egli era convinto, avrebbe fatto quella borghesia settecente sca se, dopo il '60, non fosse stata “distratta, sviata, corrot ta, depauperata, spezzata, distrutta dall’unitarismo monar chico e conseguente centralismo statale.” Ed ancor più pro fonda diventava la sua convinzione nella virtù risanatrice di una società agricola composta di piccoli proprietari che avrebbe realizzato il sogno russoiano di una società di eguali, sogno che, durante la Rivoluzione francese, fu accolto dai giacobini e che, nel secolo scorso, passò alle correnti democratico-radicali - quando vedeva come il contadino diventato, lui, proprietario della terra, prodigasse “a que sta tutte le sue cure e sforzi estremi c la proverbiale la boriosità e lo sparagno più tirato” (sembra di rileggere la stupenda novella La roba del Verga), “talché, sopra Miner vino e intorno a Santeramo quei disperati hanno fatto la vori di scasso fantastici, per piantarvi qualche sarmento o qualche mandorlo, con risultato economico nullo, o quasi. Ma,” concludeva con rammarico, “questa terza categoria di piccoli o piccolissimi proprietari diretti è molto scarsa ancora nella zona murgiana, e in genere ad ovest di Bitonto.” Eppure, sostenere la diffusione più estesa possi bile della piccola proprietà coltivatrice (punto che è en trato, più tardi, sulle macerie del fascismo sconfitto, nei programmi di tutti i partiti democratici, che si riorganiz zarono tra la fine del ’42 e i primi mesi del ’43), si poteva dire che fosse ormai la difesa di una posizione superata anche nel primo dopoguerra, quando, come è noto, si as sistè all’acquisto, soprattutto nel nord, di piccole e picco lissime parcelle di terreno da parte di chi era riuscito a mettere insieme un modesto capitale; e ancor più anacro 255
nistica e superata diveniva nel sud, né poteva valere a renderla attuale la “grande fame di terra” dei contadini, i quali, se fossero entrati in possesso di un minuscolo e frantumatissimo fazzoletto di terra, sarebbero stati imme diatamente travolti, in particolare negli anni dal '23 in poi, in regime di inflazione, dai prezzi crescenti, che se da un lato (come ha messo in rilievo G. Carano-Donvito) li avvantaggiarono favorendo “colture più intensive e più delicate” e “migliorie,” li svantaggiarono per il crollo dei prezzi agricoli dovuto a “una crisi di sovrapproduzione,” e molto di più li svantaggiarono con il forte dislivello fra i prezzi dei prodotti industriali (in costante e inarrestabi le ascesa) e i prezzi dei generi agricoli e alimentari. Ma di questo fenomeno parleremo fra poco, mentre ora ci pre me far notare come né i contadini né i piccoli proprietari fossero in grado di rispondere adeguatamente a tale squi librio, perché non avevano alcuna forza contrattuale (a meno che non si fosse sentito il dovere di propugnare, per le sempre più misere popolazioni rurali, non tanto la deprecata socializzazione quanto piuttosto la riunione in cooperative, in una coltura associata, tale, insomma, da dare più peso ai dispersi e disorganizzati coltivatori diretti); chi faceva il tentativo di farsi udire dai governanti erano “gli agricoltori e i signori, inclini allo scialare e far chias so,” dice con grande disprezzo il Fiore, “alle musiche e alle femmine, ovvero raccolti nella tirchieria più rabbio sa,” i quali, però, nutrivano “fiducia nel governo, hanno sempre nutrito fiducia nel governo.” Ricolmi di questa totale fiducia non si stancàvano “di presentargli la nota della serva: qualcosa sempre strapperemo con qualche curvatura della schiena, con qualche finta, con qualche lo de. Che cosa vogliono si sa, ed è una pena udir sempre le stesse cose. ‘Noi speriamo di poter avere concimi a buon mercato,’ dicono nel convegno di San Pancrazio. ‘Noi in vochiamo maggiori facilitazioni sul prezzo delle macchine agricole; noi desideriamo riduzione di prezzi nei traspor ti ferroviari; noi abbiamo bisogno di credito agrario su vasta scala.’ Dopo ciò, i consorzi nominano soci ad hono rem, offrono pergamene, spediscono telegrammi, ecc., ecc., ecc. E un commendatore si reca a Napoli, a congresso, a ripresentare la sua brava nota, anche lui, concimi, tra sporti.” Naturalmente, il Fiore non mette in discussione la validità di quelle richieste, che avrebbero dovuto essere volte a combattere, con maggiore energia e con più digni tà, “il dominio bancario-industriale del Nord,” che sor 256
reggeva 'Timmobilismo dei padroni di quaggiù” e che si collegava anche, con un filo quasi invisibile, al centra lismo, al burocraticismo, alle oligarchie parassitarle e al le malefatte del potere esecutivo, tutte escrescenze putre fatte che avevano potuto, e potevano, prosperare per l’ar roganza dei padroni settentrionali e per la viltà di quelli meridionali. Erano cose che “la mentalità democratica, con quella sua incomprensione dei postulati economici del proletariato” non poteva né riusciva a comprendere. “An che qui,” soggiungeva il Fiore, “come poi farà l’on. Amen dola al Congresso dell’Unione Nazionale, si parla delle malefatte del potere esecutivo, ma mi paiono ancora lon tani dal veder chiaro che la marionetta è mossa dalle oli garchie parassitarle, il cui dominio rende effimere e sol tanto nominali le democrazie.” Senso del dominio su cui “i nostri signori,” gli agrari, la sapevano lunga, perché “han no, pare, essi più degli altri, o essi soli, il senso dell’eterno e del transeunte”: sapevano, ad esempio, che dove arriva va il contadino “con la sua laboriosità e parsimonia mira colosa, per poco che possa reggersi, la grande proprietà, presto o tardi, è intaccata, corrosa, sparisce; sanno che elevare il contadino vuol dire metterlo in condizione di non subire più il secolare dominio, mantenuto con tan ta fatica, con tanti sacrifizi, e dominare lui, alla sua volta, con Dio sa quali grandi novità!” Proprio per questo mo tivo i terrieri avevano aderito “entusiasticamente a tutti i governi succedutisi sul nostro suolo, a cominciare da quel lo repubblicano della rivoluzione del 1799 [...]. Da allora, quanti ne son passati di governi, quanti ne son mutati di indirizzi? [...]. Ma il proprietario del Mezzogiorno resta; nell’edificio sociale nostro è la colonna basilare, che nul la può scuotere, è il nostro dio Termine, il tabù. Intuisco no anche che tutto quello che oggi si dice e si scrive e si fa, tutto l’anfanare recente, non è molto serio, o ciò che è lo stesso non condurrà a risultati seri? Certo, non è contro di loro tutto questo dinamismo verbale; oggi, più che mai, nulla li minaccia, nulla li turberà nel loro senso feticistico della proprietà, della proprietà a qualunque costo, della maggior proprietà possibile, nel quale si esaurisce ogni loro senso giuridico, pel quale ogni vessazione più sbalorditiva contro il contadino è legale e legittima; nulla, nessuna rivoluzione verrà mai a distur barli.” Né si salvavano, in questo esame impietoso anche se con tinuamente venato di turbamenti e di penosa partecipa 257
zione, i cosiddetti tecnici, che il Dorso aveva definito “tec nici del fascismo,” perché andavano “dicendo e bandendo che la politica non deve turbare la visione serena ed ob biettiva dei problemi eminentemente tecnici, ultima e stra na illusione di poterli risolvere con qualsiasi governo, che segua politicamente un qualsiasi indirizzo. Né diversamen te si è rifugiata sotto il manto della apoliticità la Federa zione agraria provinciale [di Bari], che non aveva sino al 6 aprile meriti fascisti da vantare, anzi veniva dal sinda calismo fascista locale minacciata di continuo di invasio ne e distruzione, e poi fini per dare il suo tecnico al listo ne.” In definitiva, pertanto, anche i tecnici erano colpevo li di concorrere alla “viltà universale,” e, quasi “dimentican do le loro passate compromissioni politiche, di far la fac cia di servi sciocchi solo per salvar qualche posizione lo cale,” o per la “speranza di contrastare alle nullità che si fanno innanzi, o per la illusione che, dati i termini di un problema, la soluzione nasca da sé, al di fuori dell’opera umana e della specifica azione politica, nella stupida illu sione che, convenientemente illuminato, un governo, su essi termini, non possa non accettare quell’unica soluzio ne tecnica.” Insomma, tutti, dai grandi signori ai tecnici (malati fin nelle ossa di trasformismo, il più deleterio per la concreta educazione politica e civile di un popolo), tut ti pronti a passare armi e bagagli dal Giolitti al Salandra e, poi, al nazionalismo e, infine, al fascismo, non appena vi “hanno scorto uno scudo più saldo o piuttosto un’arma più rumorosa.” Ed anche lotte intestine fra tali ceti, dal momento che i beati possidentes “odiano a morte la poli tica, specie quella dei ceti medi,” mentre, poi, l’odio dei due strati superiori si riversa, congiunto e come un torrente in piena, su chi è al gradino più basso della scala sociale, i contadini, le plebi - tanto per riprendere un termine mol to usato nel Settecento per indicare il quarto stato -, che si trovano sperduti “in mezzo a tanta libertà borghe se,” sicché si può dire che vi siano “città, quali Cerignola, Andria ed altre, dove, ancora pochi anni fa, costituiva no una classe completamente segregata dal resto dei cit tadini per usi, costumi e lingua, come ancor oggi è dedi ta all’abigeato, piaga dei nostri paesi, ed una volta al bri gantaggio; amorfa, impenetrabile, irremovibile.” Potrebbe sembrare che questa dura ed inclemente re quisitoria del Fiore, mossa da un intenso amore per la sua terra sulle cui piaghe egli si china sdegnato ed offeso ma nello stesso tempo dolente, rappresentasse una società 25S
chiusa in un immobilismo che risale nella notte dei tem pi, sempre costretta a contemplarsi quelle piaghe senza mai riuscire a trovare un rimedio o una tregua al dolore. Eppure non era cosi, perché, ad esempio, a Lecce, città antifascista nelle elezioni del '24, il regime delle camicie nere, conquistate le “cricche dominanti pellegriniane,” potè, con il loro aiuto, fare inurbare “tranquillamente il catonismo provinciale all’ombra delle mazze, minacciando sterminio alla città infedele, ed anche le elèzioni comunali [del ’25] furono fatte, alla chetichella, senza disturbo di candidati e molto meno di elettori: cosi i nuovi barbari, che non sanno ridere, passarono.” Si era avuto, in tal mo do, un avvicendamento nel ceto dirigente locale, poiché i po polani (si noti la differenza marcata rispetto alla plebe: popo lani, sempre secondo una lunga tradizione storica e filologi ca, starebbero ad indicare una categoria che sta fra le classi subalterne e la borghesia, forse più vicino a quest’ultima che alle prime) si affrettarono a “divenir borghesi,” e, in tellettuali e individualisti come erano, “appunto pel loro bisogno prepotente di novità, di godimenti e di discussio ne, non possono liberamente accettare se non il dominio della cultura, della finezza e dello spirito liberamente espresso: e tutta la formazione, tutte le tradizioni sono di democrazia, sia pure di ispirazione massonica, nella qua le si ritrovavano il ceto medio di professionisti e commer cianti ed anche gli operai, ossia appunto di liberi contrasti c autonomo sviluppo. Perciò, il fascismo le si presentò subi to come antitetico alla sua mentalità.” Questa è la descrizio ne che il Fiore fa del lento trasmutare da un ceto all'altro per la “città togata” di Lecce, nella quinta lettera, ma, nel la prima, aveva dato una visione un po’ diversa di un tale fenomeno sociale, facendone intravedere sfaccettature più variegate: “è questa classe di signori [trasformisti e cama leonti], tramontata da noi una trentina d’anni fa, che si vorrebbe oggi rivalorizzare; e ne venne a tessere le lodi a Bari tempo fa nientemeno che S. E. Balbino Giuliano. Di leguò il loro dominio da allora ed essi trasmigrarono via, senza molto chiasso, sotto le ondate dei piccoli commer cianti, dei grandi fittuari e dei professionisti, le ‘pagliet te,’ che si erano nel frattempo formati e sognarono la re pubblica di Bovio e l’irredentismo di Imbriani, per instau rare il popolarismo liberale di Giolitti. Ma anche questi ceti medi erano dovunque spariti, negli ultimi dieci anni, strillando, sotto la ben più ampia marea dei cafoni più o meno rossi, ed oggi, pur di tornare a galla, vanno abbrac259
dando anche la croce del fascismo. Ma erano rimasti nei nostri paesi: i primi [cioè quelli che erano trasmigrati via], invece, gli esuli di Magonza, non son tornati che due anni fa, quando coraggiosamente occuparono i caffè per vigi lare la distribuzione dei rinfreschi alle milizie moventi al l’assalto dei Comuni.” Secondo questa analisi, anche in Puglia, come in Sicilia, vi sarebbe stata, almeno nei primi anni, indecisione a Roma su chi favorire, i vecchi notabili oppure la borghesia dei “paglietti”: ma la cosa era in se stessa indifferente perché entrambi garantivano una ub bidienza quasi assoluta ai cenni del potente vincitore, al quale assicuravano pure, con la loro sottomissione, la pos sibilità di continuare l’antica politica dello Stato italiano basata sullo sfruttamento del Meridione in favore degli interessi dei padroni settentrionali. Tutt’al più, si sarebbe assistito ad una lotta intestina fra due gruppi, entrambi preoccupati di assicurarsi i vantaggi, sia economici sia po litici, che il servilismo avrebbe loro procurato. La conclusione che il Fiore poteva trarre da questi mu tamenti doveva essere, per un altro verso, incoraggiante, perché la cosa più importante era che si rimettessero in moto gli ingranaggi sociali arrugginiti e da lungo tempo iner ti: infatti, se era vero che i contadini continuavano a for mare, nei paesi, una macchia scura “in un angolo della piazza, immobili, a gruppi e gruppetti, come segregati si lenziosi, vere mandrie fuori della vita,” “consunti dal de siderio sterile della terra,” meditando chissà quali vendet te (“qualche taglio clandestino di ulivi o di viti?” oppure “qualche più vasta ribellione, qualche scoppio d'ira cie co?”) e riflettendo, in silenzio e torvamente, sulla “ingiu stizia immane” di cui credono di essere vittime, era pur anche vero che, in nessun modo, si sarebbe potuta creare una storia che non fosse soltanto “un tessuto di egoismi di gruppi sparuti, senza risonanze profonde, senza eticità,” senza stimolare o ottenere la loro “viva partecipazione.” I; Fiore, sempre cosi intensamente partecipe del dramma degli abitanti della sua terra, era turbato da questo spet tacolo, vedendo come il contadino restasse tenacemente attaccato “alla terra, al campicello paterno,” con un misto di rassegnazione e di segreta rivolta che ormai non riusci va più a manifestarsi apertamente. “E se quest’anno, per le mercedi più basse, non ha potuto mandare il ragazzo a scuola né fargli le scarpe, se lui crepa sempre di fame e di malaria, che farci, se non aspettare, sperare, pregare?”; eppure quelle che allora erano ancora plebi si erano solleva 260
te in massa dopo il 1860, in quel gran moto sociale e popola re che fu il cosiddetto (dai piemontesi) brigantaggio, per la conquista della terra, in nome del re (Borbone), vantan do: “Purtème scritte 'mbronte: - Evviva Frangische se conde!” “ed avrebbero formato il loro Stato, lo Stato dei contadini, se... Ma non è detto,” aggiungeva il Fiore con un moto di speranza che cercava soltanto, un po' ansio samente, di tramutarsi in certezza, “che,, oggi, che han no, più o meno dovunque, acquistato finalmente co scienza della lotta di classe e che, per i recenti avve nimenti, vi si irrigidiscono sempre più, non possano esse re ravviate a dignità di cittadini e ragionevolmente contenute In regime di libertà, cioè di graduale raggiungimento dei loro desiderata, meno tasse e più terra. È, questa, la libertà da loro invocata, la libertà di lavorare e di produrre per sé. E mi pare che vedano bene.” Si, senza dubbio, vedevano uene, sebbene anche il Fio re, che pure era arrivato (in contrasto con tutta la mi nuta analisi che abbiamo visto nelle pagine precedenti) a Intuire, o a vedere, che i contadini avevano raggiunto, ai traverso vie tortuose e spesso tragiche, una “coscienza di classe,” cioè il senso preciso della loro dignità di uomini, molto difficilmente, se le cose stavano realmente cosi, si darebbero accontentati di quella “libertà di lavorare e di produrre,” che, con spirito da filosofo illuminato, il Fiore «tesso benignamente concedeva. In un altro passo, lo stu dioso dei mali della sua gente, osservava che i contadini, "dopo i contatti con i fortunati lavoratori del Nord, dopo uvere intravisto la possibilità di un paradiso di benessere c d’indipendenza, mai più si rassegneranno definitivamente nil 'antico stato, a limitare sempre più i propri bisogni. In un modo o nell’altro, prima o dopo, acquisteranno sem pre maggiore coscienza di diritti sempre più vasti, sen tiranno con sempre maggiore esasperazione l’intollerabi lità della loro abbiezione secolare e dell’antieconomicità del loro lavoro presente. Ma quando? Ma come arrivare n questo? Come sollecitare il processo? Mi pare che que lita sia la questione.” Qui il Fiore ci appare su una po rzione un po’ più avanzata di quella che traspariva dal passo riportato poco sopra; ma forse proprio perché «cmbrava attendersi una redenzione, o meglio una libe razione, dei contadini più profonda e più radicale, non guidata benignamente dall’alto, bensì' autonoma, doveva essere portato, inevitabilmente, a porsi domande alquan to angosciose: “Ma quando? Ma come? Come sollecitare 261
il processo?” Domande che sembravano non tenere conto della nube nera, pesante, incombente e minacciosa del fa scismo, che era venuto ad alterare, in gran parte, il nor male, ed auspicabile, processo di naturale elevazione dei ceti inferiori e subalterni, rigettandoli in quella miseria da cui disperatamente stavano sforzandosi di uscire: era tale presenza delle camicie nere che rendeva molto pro blematico il rispondere alla domanda: “Come sollecitare il processo?” ed anche difficile il trovare una qualche plau sibile risposta alle altre due domande: “Ma quando? Ma come?” Tutto sembrava slittare in un tempo infinito, in un orizzonte che si confondeva, a perdita d’occhio, con il cielo, a rendere sempre più dolorosi il turbamento e l’an goscia, soprattutto in chi, come il Fiore, aveva riposto tutte le sue speranze nei contadini, rivelando, in ciò, quan to avesse appreso ed assorbito la grande lezione della Ri voluzione russa e di Lenin, che per primi, nella storia del nostro secolo, avevano dato l’esempio di una rivolu zione contadina (e tutte le altre rivoluzioni - la cinese, la cubana, l’algerina, la vietnamita - saranno poi contadine). Un fievole, per quanto non eccessivamente approfondito, barlume di speranza gli veniva dall’insistenza con cui Gram sci e il suo gruppo (e lui poteva averla risentita tramite i contatti con il Grieco) battevano sulla alleanza operai del nord-contadini del sud, come si può vedere in un altro passo della quarta lettera, che, però, ci pare la risultante di tutta una complessa educazione, che, quasi sicuramen te, era partita dal Croce e, attraverso l’insegnamento gram sciano, era approdata al Salvemini, in cui, sebbene mode rato, si poteva avvertire un certo anarchismo: “per me, come per molti altri, se il socialismo ha adempiuto sin ora in Italia alla maggiore e più effettiva funzione di liberalismo [v., a tale proposito, la posizione del Croce che, nel 'XI, sa rà chiaramente espressa nella Storia d’Italia], se, come tut to dimostra, il partito liberale italiano, che fu liberale solo per antifrasi e per beffa, è ben lontano dal trovare la sua strada e dal misurare i suoi errori, insomma dal rinnovarsi mostrandosi capace di piantare nel costume politico del pae se tutte le singole libertà, se della vecchia democrazia, fi nita nel giolittismo, non c’è più nulla da fare, ed ogni nuo vo tentativo in tal senso riporrebbe pianamente il Mezzo giorno nell’antico quadro di servitù e di sfruttamento, se l’essenza del socialismo consiste nell’abolizione di ogni privilegio, nella libertà per tutti, nella capacità autonoma dei lavoratori di realizzare il trionfo del lavoro all’infuori 262
di ogni paternalismo e di ogni non necessaria statizzazio ne, di ogni dominio dittatoriale di gruppi e di partiti, se esso non è solo espressione d’interessi materiali ma con cezione politica di libertà concreta e di vita individuale intesa come autonomia, se insomma nel socialismo, nel marxismo stesso come lotta di classe si esaurisce il li beralismo, se la redenzione del Mezzogiorno non può es sere voluta ed operata che dagli interessati, agricoltori e contadini, con iniziativa propria, con mezzi propri, con politica propria, è ad esso che tocca stringere in salda al leanza i contadini ed i piccoli proprietari nostri con le or ganizzazioni proletarie del Nord [v. Gramsci], è ad esso che tocca suscitare ventate di autonomismo nei campi affini del piccolo commercio, della piccola industria, della borghesia intellettuale, per dirigere una veemente azio ne libertaria contro le consorterie economico-politiche che soffocano il paese, contro il centralismo statale che ne emana, il quale, in regime di libertà o di oppressione, è sempre tirannico e prima fonte di ogni male [v. Salvemi ni]. Uomini che intendano questo organicamente, che si preparino a questa azione, e non siano disposti a farsi ac calappiare da formule, da vantate necessità, da schemati smi di partiti, ce ne sono quaggiù, e tu [si rivolgeva al Dor so] li conosci: non ho bisogno di fartene i nomi.” L’accostamento indiscriminato di diverse soluzioni e di diverse prospettive di azione, se pone il Fiore al punto d'in contro di diversi insegnamenti, lascia un po’ sconcertato il lettore, che non riesce più a trovare il bandolo della matassa, cioè a capire quale vuole essere il punto di partenza e qua le il punto di arrivo. Infatti, esaminando il passo più da vicino, si può osservare che è quasi sicuramente giusto il dire che, nell’ultimo decennio del secolo scorso, il socialismo svol se le funzioni che avrebbe dovuto svolgere il liberalismo - ma non seppe perché ormai andava piegando verso la conser vazione e la reazione -, almeno un certo liberalismo ottocen tesco, non assolutamente quello della Destra storica ma quello dei suoi oppositori democratici e radicali; ma non sembra altrettanto giusto fare una sola cosa del libera lismo, del socialismo e, addirittura, del marxismo come lotta di classe. Si tratta di una indebita confusione di ter mini ciascuno dei quali ha dietro di sé una storia legata a ben determinate vicende sociali e politiche. Cosi pure la scia piuttosto perplessi il chiamare, come fa il Fiore, a rac colta gli interessati, agricoltori e contadini e metterli insie me nella eccitante e splendida visione della “redenzione del 263
Mezzogiorno”: sarebbe stato un voler unire il gatto e il to po nello stesso cesto, perché chi avrebbe potuto convincere gli agricoltori a rinunciare spontaneamente ai privilegi di cui essi godevano ed al predominio che esercitavano, sen za che a ciò fossero costretti da un'aspra lotta del ceto con siderato, allora, da essi privo di qualsiasi possibilità di far sentire la sua voce? Ed ancora, come si sarebbe potuto "stringere in salda alleanza i contadini cd i piccoli proprie tari nostri,” dal momento che gli interessi degli uni erano nettamente in contrasto con gli interessi degli altri e chi era riuscito a conquistare un sia pur piccolo e sminuzzato fazzoletto di terra pensava di essere ormai passato nel ran go dei proprietari e non si staccava né si allontanava dal suo minuscolo appezzamento perché gli sarebbe sembrato di ri nunciare alla faticata indipendenza (anche se molto rela tiva)? E, infine, alla alleanza che esso (il socialismo e, di conseguenza, i socialisti, perché non si è mai vista un’idea astratta, non rappresentata da uomini concreti, in carne ed ossa, procedere ad aggregare classi sociali, a determinare schieramenti politici) proponeva fra contadini-piccoli pro prietari e proletariato del nord, si opponevano quei mo tivi che abbiamo già esposto quando abbiamo preso in esame la posizione di Gramsci in questo periodo. Il Fio re, però, aggiunge alla formula gramsciana la speranza di poter creare un vasto fronte contro il parassitismo, contro il trasformismo e contro l'innata tendenza alla sog gezione nei riguardi del potere centrale, un fronte costituito dalle popolazioni del Mezzogiorno, dal piccolo commercio, dalla piccola industria, dalla borghesia intellettuale in cui avrebbero dovuto essere suscitate “ventate di autonomismo” al fine di averle partecipi nella “veemente azione libertaria contro le consorterie economico-politiche che soffocano il paese e contro il centralismo statale.” Ma anche in que st’ultimo caso, le rivendicazioni che sarebbero state pre sentate dai piccoli commercianti, ecc. (sommamente desi derosi di essere liberati dalla tutela che li opprimeva e quasi travolti da una “ventata di autonomismo”), erano rivolte contro lo Stato centralizzato della tradizione e il potere che si espandeva per i rami del paese da Roma. Al contrario, i contadini (aggiungiamoci anche i piccoli pro prietari) e il proletariato del nord avevano problemi da risolvere che li portavano a scontrarsi con una persona ben concreta, l’agrario o l’imprenditore - sempre, perciò, il padrone - e non avevano, allora, la forza di chiamare in causa il governo o lo Stato, troppo lontani e che appariva 264
no loro non direttamente responsabili del malessere pro fondo che sentivano scorrere in tutto il corpo, prostran dolo e togliendogli energia fisica e forza morale. Ma fare un simile discorso al Fiore sarebbe stato molto difficile, perché egli era convinto che “l’Italia agricola,” e, in parti colare, quella del Mezzogiorno, nutrisse “una formidabile massa di risentimenti” contro le imposte e la concorrenza straniera, contro le pubbliche spese improduttive e le am ministrazioni municipali, che vivevano tutte sulle sue spal le, succhiandone avidamente il sangue fino a sottometter la “a nuova servitù, nuovo ingarbugliamento e assoggetta mento e spegnimento di energie,” fino alla “morte defini tiva” del Meridione, “alla quale dolorosamente temono che siamo già arrivati Giustino Fortunato ed altri.” Ed anch’egli avvertiva, piantato come un aculeo nell'animo, questo dolore veramente immenso, che gli occupava tut to lo spirito: “Qui sono le lagrime di venti secoli che aspettano,” cosi concludeva la seconda lettera e la sua figu ra ci è cosi cara e il suo ricordo è in noi cosi tenace pro prio perché abbiamo sempre ammirato in lui una totale dedizione alla sua gente e alla sua terra.
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Capitolo undicesimo
Effetti negativi dell'inflazione sul Mezzogiorno
Le conseguenze dell’inflazione ricaddero, come si è detto, soprattutto sui ceti meno abbienti, e, ad ogni mo do, portarono, come sempre avviene in tali periodi, ad una ridistribuzione della ricchezza e ad un nuovo assesta mento delle classi sociali. La minuziosa analisi del Carano-Donvito ci può permettere di vedere cosa successe, allora, nel Mezzogiorno: ad una fase, che aveva caratte rizzato l’Ottocento e i primi anni del Novecento, in cui i proprietari di capitale contante erano stati ritenuti fortu nati di fronte alla proprietà fondiaria, “che viveva (o vi vacchiava) addirittura da ‘cenerentola’” (anche durante la guerra “con l’enorme assorbimento di mano d’opera” l’esercito formato dai contadini specialmente del sud e dopo con le occupazioni delle terre, la terra aveva rap presentato “più che la delizia, la vera croce dei proprieta r i”), era sopraggiunta l’inflazione a capovolgere le posi zioni, poiché i proprietari di terra andarono su “(specie oggi col ripristinato dazio sul grano”), mentre caddero giù, “proprio a toccar terra con le spalle, gli antichi pro prietari di odierni [...] chiffons de papier.” Inoltre, l’indu stria rurale, avendo bisogno di più largo capitale-salari che non l’industria manifatturiera, rimase più esposta al le gravi falcidie provocate “dalle successive ondate inflazioniste con conseguenti svalutazioni della moneta.” Ta li svantaggi dei proprietari fondiari furono, peraltro, com pensati dalla “maggiore ‘vischiosità’ dei salari agricoli, i quali aumentano meno dei salari manifatturieri, in funzio ne dello svalutamento della moneta; anche perché, ge neralmente, i salariati agricoli sono meno organizzati di quelli industriali.” Questo esame sembra che possa chiarire il successi vo alternarsi di diversi strati sociali - sempre borghesi, ad ogni modo - che ci ha descritto, con tanta efficacia, il Fiore: 266
al vecchio dominio dei terrieri era succeduto il dominio dei “paglietti,” dei possessori dei chiffons de papier, espo nenti del ceto medio, che, però, era stato cacciato dal tro no dalla “più ampia marea dei cafoni”; con la vittoria del fascismo era nata la sorda lotta fra gli agrari e i rentiers (i possessori di pezzi di carta, precipitati in una dolorosa condizione per la svalutazione dei loro titoli “acquistati, una volta, con moneta a pieno valore aureo”), poiché sia gli uni sia gli altri volevano ritrovare la preminente posi zione sociale che una volta avevano tenuto. Posizione minac ciata, già prima della guerra, con le trasformazioni “nel la nostra proprietà fondiaria” in seguito alle larghe “‘ri messe’ degli emigranti,” che avevano favorito la forma zione di nuovi capitali e di nuovi capitalisti. In tal mo do, “posizioni debitorie liquidate attraverso spezzettamen ti, allottamenti e vendite di grosse, medie e piccole pro prietà da lunghi anni indebitate, agli 'americani,' specialmente” avevano effettuato dei “benefici passaggi di terre ni da proprietari esauriti economicamente e fiaccati mo ralmente, a nuovi proprietari forniti di nuove energie economiche (di più larghi, adeguati ‘capitali d’esercizio’) e di novello, più vigoroso spirito d’intrapresa”; si era as sistito, perciò, all’ascesa sociale dei cafoni, un ceto che si era faticosamente sollevato dal basso, dalla misera vita del contadino, mediante questi capitali che erano giunti, “come l’acqua ristoratrice delle arsure campestri, come l'os sigeno, come il sangue arterioso,” a ridare nuova vita alla “nostra economia.” In quel tempo, c’era chi censurava, chi derideva “perfino T'avidità di terra’ da parte degli emigra ti rimpatriati e i lauti prezzi pagati agli antichi proprie tari.” Ma non solo sulla terra si erano sparsi quei capitali, che anzi avevano avviato una “lenta, ma promettente, indu strializzazione, che è quanto dire la nostra resurrezione.” Perché, notava il Carano-Donvito, “la storia della econo mia politica c’insegna come tutti i paesi cerchino di su perare la ‘fase agricola’ e di passare a quella ‘industriale,’ manifatturiera, col relativo progresso economico-civile.” E nel “problema dell’industrializzazione” consisteva, secon do lui, “il centro di tutta la cosi detta e ridetta complessa Questione meridionale.” Sotto questo aspetto, egli conti nuava, era “nota, antica, la nostra povertà di capitali insuf ficienti anche per il più modesto esercizio della tradizio nale agricoltura. Ove trovare i capitali prima di tutto per sviluppare, migliorare l’agricoltura, e poscia iniziare il pàs267
saggio alla sua industrializzazione?” Ebbene, l'inflazione era sopraggiunta a stroncare, “quasi sul nascere, questo magnifico movimento, annientando, o quasi, tutto il capitale mobile, liquido, linfa dei nuovi investimenti, pur con tan ti sacrifici accumulato.” In queste affermazioni che vole vano essere del puro economista, si avvertiva quello che acutamente coglieva anche il Fiore, cioè “il signore di cam pagna, abituato, per secolari tradizioni di famiglia, a vive re sulla terra e della terra, a preferire questa alla vita cit tadina, a non sottrarsi a nessuno dei doveri che il possesso della terra impone.” Questo perché sembrava di scorgere, sempre sotto l’apparente manto scientifico dell’economista, una certa soddisfazione per il fatto che “i ‘rivoli d’oro’ del l’emigrazione” erano passati accanto alle sue terre senza intaccarle (avevano intaccato le terre di altri) e, poi, si era no rivolti all’industrializzazione. Ma in quale sacra tavola dell’economia era mai scritto che i capitali necessari a tale industrializzazione dovessero provenire da altri cieli o da altre fonti che non l’agricoltura? Dove era detto che questi capitali dovessero piovere sulle terre del sud e non prove nire da una accumulazione effettuata nel settore primario? Ma guardiamo da che cosa fu originata la rivoluzione indu striale inglese del Settecento: si ebbe prima un processo di accumulazione nell’agricoltura, dove era stato portato a termine il passaggio dall’agricoltura feudale basata sul pos sesso indiviso della terra, sul pascolo comune, all’agricoltu ra capitalistica, basata sulla conduzione per mezzo dei fit tavoli; in un secondo tempo, i capitali accumulati in quel set tore si indirizzarono verso le industrie, che erano prevalente mente le tessili, le più necessarie ad una crescente popo lazione e le più basse nella scala della produzione indu striale. E da che cosa nacquero i capitali indispensabili per dare inizio al take-off, al decollo industriale dell’Ita lia settentrionale a partire dal 1896? Anche in questo ca so, a noi sembra, dall’accumulazione primitiva verificatasi nell’agricoltura: infatti, se è giusta (come crediamo che lo sia) la nostra interpretazione di quell’evento, il dazio sul grano, che fu concesso agli agrari italiani, nel 1887, non appena approvato il protezionismo industriale, favori maggiormente gli agricoltori del nord, i quali pro ducevano a costi di gran lunga inferiori a quelli degli agricoltori del sud, che non erano ancora riusciti a supe rare lo stadio di una coltivazione arretrata e dal basso rendimento. Cosi, quando si presentò l'occasione propi zia, nel Settentrione fu possibile trovare i capitali dispo 268
sti ad investirsi nell’industria, e, pure in questo caso, nel l’industria tessile. Ma il fatto è che il Carano-Donvito, in questo suo sag gio - scritto probabilmente verso la fine del '25, poiché par la dei “tragici corsi della lira della metà del 1925” -, si sforza di dimostrare che i più danneggiati dalla inflazione furo no i “proprietari locatari,” “di tanto rovinati di quanto, per converso, si sono, per mera congiuntura, avvantag giati i loro locatori.” In conclusione, nell’arduo duello, chi ebbe la meglio furono i fittuari, per i quali “il ripri stino del dazio sul grano è stato il buon resto [...] del carlino. Esso, certo, ha creato nuove condizioni o posi zioni di rendita fondiaria (o ricardiana), determinando un repentino “capovolgimento sociale.” Ed egli si diffon deva neU’illustrare la differente situazione creata al sud dalla svalutazione, rispetto al nord, perché il primo si trovava a più stretto contatto con i paesi balcanici a valu ta più deprezzata della nostra; cosi questi paesi erano in grado di far concorrenza ai prodotti agricoli italiani, mentre il secondo era più vicino a paesi addirittura con moneta aurea (Svizzera e, con l'inizio del ’24, anche la Germania), o soltanto in via eccezionale più svalutata del la nostra (la Francia), il che rappresentava un grosso van taggio per le esportazioni industriali. Inoltre, nei riguardi dello stesso Mezzogiorno, nel commercio interno, il Set tentrione godeva di una posizione favorevole, perché ven deva manufatti “in condizioni privilegiate di fronte alla con correnza industriale estera, in quanto la nostra valuta de prezzata ci ostacola negli acquisti presso i Paesi esteri in dustriali, che sono per lo più a valuta migliore della nostra.” D’altra parte, il nord, proprio da questa situazione, era messo in grado di comperare “da noi meridionali prodotti agrari a condizioni privilegiate,” senza pensare, poi, che esso poteva avere maggior convenienza, attraverso i como di porti di Fiume e soprattutto di Venezia e di Ancona, a ritirare “derrate dai paesi agricoli del vicino Oriente, ap punto per le condizioni della nostra valuta superiore in confronto di quella dei paesi balcanici.” Affermazioni che sembrano contraddette dai dati che abbiamo sul commer cio estero e che, perciò, possono apparire dettate da una posizione preconcetta: infatti, si può notare come il com mercio d’esportazione vada aumentando verso quelle na zioni del centro-Europa, che erano si avvantaggiate per avere una moneta forte, ma che non erano certo invoglia te ad acquistare da noi i prodotti industriali, essendo 269
molto più avanzate sulla via dello sviluppo tecnologico, anche se compravano, indubbiamente (però, non ci è pos sibile dire con precisione in che misura, mancandoci da ti suddivisi per settori merceologici), i prodotti della no stra agricoltura meridionale, da esse sempre molto desi derati: gli scambi con l’Austria salirono da 335 milioni di lire nel '23 a 686 nel '24 ed a 666 nel ’25; con la Francia da 1.581 nel ’23 a 1.823 nel ’24 ed a 2.204 nel ’25; con la Germa nia da 697 nel '23, a 1.565 nel ’24 ed a 2.025 nel '25, con l'Inghil terra da 1.211 nel ’23 a 1. 493 nel ’24 ed a 1.852 nel '25; con la Svezia da 33 nel '23 a 48 nel '24 ed a 71 nel '25. Il disavan zo commerciale era stato, per l’Italia nel complesso e per questo gruppo di paesi, di 93 milioni nel '24 e di 1.038 nel ’25. Una breve informazione sulla “Rivista di politica eco nomica,” dell’aprile '25, sul nostro commercio estero nel '24, metteva in rilievo come, in quest’anno, le importazio ni fossero state, quasi esclusivamente, di materie greggie e di materie semilavorate, mentre scarsissime erano state le importazioni di prodotti industriali, e quelle di generi alimentari avevano registrato “addirittura una diminuzio ne”; invece, l’aumento delle esportazioni era stato dovuto al gruppo dei generi alimentari che aveva superato di circa un miliardo e mezzo quelle del '23. Inoltre, nel '25, si notava un “aumento molto notevole” nelle importazioni di cotone greggio e di lana, e da ciò si poteva capire che il governo fascista non aveva affatto rinunciato alla politica di stampo nazionalistico, sempre di penetrazione nella penisola bal canica. In effetti, se andiamo a guardare i trattati commer ciali stipulati nel '25 con alcuni paesi di tale zona1 ol tre che con la Germania, si può notare che i negoziatori italiani si preoccupavano si di ottenere condizioni favore voli per i prodotti agricoli del sud, che più facilmente trova vano un mercato internazionale disposto a comprarli (come i limoni, l’olio di oliva, gli aranci, i mandarini, le mandorle secche, i cedri, le nocciole, le carrube, i fichi secchi, l’uva e il vino, in particolare il vermut e il marsala), ma cercavano pure di favorire, nei vari trattati, i prodotti industriali tipici del Settentrione (ad es., i filati di cotone e i tessuti di lana, alcuni lavori di vetro, le gomme per ruote da veicoli, le 1 L'Albania, e soprattutto l’Ungheria, che era minacciata da una in tesa, appoggiata dalla Francia, tra la Cecoslovacchia, l’Austria e la Jugoslavia, il che vorrebbe dire — scriveva M. Griffini sempre sulla “Ri vista di politica economica” del marzo 75 — la marcia al mare per la Boe mia, con l ’isolamento più assoluto per l’Italia e l’Ungheria, la cui na scente amicizia turbava assai gli interessi altrui, tanto che c’era chi — co me il Nitti — vaticinava una unione austro-italo-ungherese. 270
macchine agricole con i loro accessori, le automobili, le mo tociclette, ecc.). Non bisogna, peraltro, dimenticare che la forte inflazione incentivava le nostre esportazioni. Ad ogni modo, come si è visto, i negoziatori italiani in sistevano maggiormente su quei prodotti agricoli tipici del Mezzogiorno, e, diremmo, non certo della grande proprietà terriera, bensì della piccola proprietà disseminata lungo le coste. Lo stesso Carano-Donvito era costretto a riconoscer lo: “noi siamo compratori di prodotti agricoli di prima ne cessità e venditori di prodotti agricoli di lusso: primizie, vini, mandorle, olii.” E tale osservazione, caduta nel suo discorso quasi per caso, lo portava a parlare dei “lavoratori ‘manuali,’” che “qui, nel Mezzogiorno, sono la grande mag gioranza dei ‘contadini’” (non si riesce a comprendere il perché di tutte quelle virgolette nell’accennare ai lavora tori manuali e ai contadini, come se volesse mantenere le distanze da tale classe inferiore), ma solo per ripetere quanto aveva già detto, che “i salari agricoli sono ancora più vischiosi dei salari industriali” e che i contadini era no, “in generale, meno ‘organizzati’ degli operai manifat turieri” e, infine, che si era avuta una “grande prevalenza dei ‘lavoratori della terra,' la cui ‘offerta’ è aumentata dal le misure limitatrici estere della nostra emigrazione.” Con cludeva il saggio mettendo in rilievo che se lo Stato aves se premuto sulla inflazione “come metodo di tassazione,” la condizione dei meridionali sarebbe diventata più grave di quella dei settentrionali, data “la più primitiva strut tura economica del Sud, col minor sviluppo del credito e col minor uso di titoli di credito, che sostituiscono larga mente la moneta nei paesi più evoluti”; se, al contrario, lo Stato fosse ricorso alla “imposizione del capitale,” anche in tal caso la situazione del Mezzogiorno sarebbe stata più disagiata, perché vi prevaleva “la ricchezza immobiliare, che è meno occultabile agli effetti dell'accertamento della imposta sul patrimonio della ricchezza mobiliare, che pre vale nella struttura economica del Nord.” Pertanto, in ogni caso, i meridionali avrebbero pagato, pur essendo più poveri, in imposte, “relativamente sempre più in confron to dei Settentrionali.” E, proprio alla fine, il Carano-Don vito si lanciava, ancora una volta, in una celebrazione dei “piccoli risparmiatori,” di quei piccoli risparmiatori che avevano osato sfidare l’Atlantico e che, per primi, avevano dato “forse la maggiore speranza, la maggiore promessa di un rinnovamento, di una rinascita del nostro Mezzo giorno,” perché avevano cominciato, con i loro sudati e 271
faticosi risparmi, a sanare una delle più gravi deficienze dell’economia meridionale, cioè “la scarsezza e l'insufficien za del capitale d’esercizio.” Per esso e con esso, “negli ul timi anni dell’anteguerra, spuntavano sull'orizzonte an cor nebuloso di questo povero Mezzogiorno, i primi raggi forieri del sole dell’avvenire, quando la guerra e la infla zione richiusero gli orizzonti e distrussero ogni speranza vicina.” Tanto più il Carano-Donvito poteva lanciarsi in questa esaltazione degli umili risparmiatori, perché essi rappresentavano, come abbiamo detto, un ceto sociale che non mirava affatto a scardinare le vecchie struttu re politiche ed economiche del sud, ma si inseriva in esse e cercava soltanto di acquistare un piccolo appezzamento di terra, anche se incolto, da fecondare con il suo lavoro tenace e costante. Perciò, la piccola proprietà viveva accan to alla grande, senza dare alcun fastidio a quest’ultima, che anzi traeva, dall’esistenza di quella, la sicurezza di avere incatenato il piccolo coltivatore alla difesa della società. Tuttavia, una notazione ci ha particolarmente inte ressato nel saggio del Carano-Donvito, una notazione ten dente pure essa a porre in rilievo la sostanziale diffe renza fra il nord e il sud, su un piano, però, non più stret tamente economico: “Tutte le lauree e i diplomi di guer ra hanno più largamente inondato il Sud che il Nord, ove gli smobilitati hanno avuto maggiori possibilità di occu pazioni industriali e commerciali. In questa parte d’Italia, invece, il più gran numero ha cercato uno scudo, un via tico in una laurea o in un diploma, ciò che ha ancora più inasprita la concorrenza nelle cosi dette professioni libere, diminuendo la possibilità di aumentare i compensi in cor relazione dello svalutamento della carta-moneta”; e, poco dopo, aggiungeva che dalle condizioni generali economiche determinate dalla guerra e dall’inflazione, era derivato so prattutto “il numero rilevante degli 'impiegati' (ossia di persone a ‘redditi fissi’ forniti dalle provincie meridiona li).” In realtà, i dati statistici ci dicono che, in tutta Italia, gli iscritti erano stati stazionari o in diminuzione nelle fa coltà scientifiche (da 7.386 nel '23 a 7.339 nel ’24 e nel ’25), di ingegneria (da 8.007 a 8.418 ed a 7.962 nel ’25) e di medicina (da 9.429 a 9.105 ed a 9.126), mentre si era avuto un sensibile aumento nelle facoltà di giurisprudenza (da 7.991 nel ’22 a 8.288, a 8.864 ed a 9.391), la facoltà dei “pagliet ti” meridionali, di economia più contenuto dopo un breve arresto (da 5.559 a 4.976, a 4.693 ed a 5.806), ed una lieve fles 272
sione nella facoltà di lettere (da 3.894 a 3.566, a 3.720 ed a 3.740). Non abbiamo i dati relativi alle singole Università, ma si può essere sicuri di non sbagliare se si afferma che il maggior numero di iscritti ad economia o a lettere si trovano nel Mezzogiorno (da ciò il numero sempre più ri levante degli “impiegati” che godono di un reddito fisso e che sono pressoché inamovibili, a differenza degli ope rai o dei contadini su cui pende la spada di Damocle del licenziamento: infatti, l’inflazione, che erode il salario, porta con sé, per queste due ultime categorie, anche la minaccia costante del licenziamento e della disoccupazione). Però, potrebbe anche darsi che dati più minuti, e più pun tuali, riuscissero a dimostrare come la contrazione degli iscritti nelle facoltà scientifiche si sia accompagnata, pu re nel Settentrione, con un affollamento delle facoltà umanistiche, alla ricerca del cosidetto “pezzo di carta” che consenta, poi, di aspirare ad un impiego pubblico. Cosi come può anche darsi che l’espansione delle facoltà uma nistiche sia stata dovuta, nel '24 e anni seguenti, alla ri forma Gentile, la cui impostazione idealistica fu nettamen te favorevole appunto alle discipline umanistiche, a gra ve scapito delle scientifiche, di cui il Gentile era poco pro penso a rispettare l’autonomia e che avrebbe voluto far rientrare nel grande mondo della cultura classicistica, per mettendo loro, tutt’al più, di rimanere ai margini, quali umili ancelle. È molto significativo, a questo proposito, ciò che scriveva, il 1“ gennaio '24, l’organo della Confederazione generale del lavoro, “Battaglie sindacali,” quasi a dimostrare la verità (in cui, però, noi non crediamo) di quell'antico detto latino, nihil sub sole novi, che si adatta ad una società che non riesce a scorgere i mutamenti che pure avvengono di continuo negli eventi umani e che crede in un incessante ripetersi di sempre uguali problemi. Secondo l’organo del la CGdL, dunque, l’Italia si trovava, allora, “in questa cu riosissima condizione: non riesce a mandare all'estero masse di emigranti semi-analfabeti, e non sa che farsi del pletorico, e sempre crescente, numero di avvocati, inge gneri, professori di lettere. Ma le Università seguitano a vomitare laureati: e la coltura è salva.” E qui il periodico sindacale svolgeva un’analisi più approfondita di questa pletorica situazione delle nostre Università: “Nel 1914, in un periodo di crescente prosperità economica, si pensava che il bisogno di lavoro intellettuale aumentasse vieppiù. Poi, la guerra arrestò il benefico progredire civile ed eco nomico, e il dopoguerra vide pullulare un’infinità di sedi 273
centi lavoratori intellettuali: vide crescere il numero di iscritti e il numero di laureati. - Adesso la condizione de gli intellettuali (e sono sempre compresi in questa parola anche quei cosidetti lavoratori della mente che fanno un lavoro quasi meccanico, di tavolino) è veramente preoccu pante. L’aumento dell’offerta e la diminuzione della do manda conducono a salarii bassissimi: non esiste, o qua si, ordinamento sindacale della categoria. - E le università continuano a riempirsi di studenti. E ai concorsi governa tivi per posti da scrivano si presentano tremila domande per mille impieghi vacanti; si presentano dei laureati per coprire uffici in cui cristallizzeranno nella copiatura di documenti. - Cosi si creano gli 'spostati.' E se ne creeranno continuamente, ove non si provveda a rilevare la capa cità di assorbimento delle varie carriere. - Gli studenti del le facoltà di diritto, scienze, lettere e medicina erano, in Italia, nel 1913-14, poco più di 24 mila. Oggi sono oltre 40 mila. Il doppio” (cfr. R. Tremelloni, Interrogare le cifre. Il mercato del lavoro intellettuale, nel numero cit. di “Bat taglie sindacali”). Abbiamo detto che nihil sub sole novi, perché questo preoccupato “grido di allarme” lo abbiamo sentito anche in tempi molto vicini al nostro, ed è, sempre e in ogni caso, un grido che risuona allorché una politica economica di stam po liberistico provoca, nelle fasi di crisi, una contrazione dell’attività produttiva ed un più rallentato sviluppo so ciale del paese. Allora l’eccessivo numero dei laureati spaventa e atterrisce perché non si scorge come e dove possano essere assorbiti; ma ciò è dovuto a governi inet ti o incapaci e, pertanto, sempre sottomessi alla più o me no lecita volontà di potenti gruppi di interessi; a gover ni incapaci di perseguire la ricchezza dove si trova per colpirla con la manovra fiscale, che sola darebbe loro la possibilità di effettuare investimenti tali da favorire ve ramente il progresso del paese, anche per non ridursi, qualora venga a mancare questa energia, a fare investimenti su base clientelare, addirittura mafiosa, oppure ispirati da precisi intenti elettoralistici. Ma, ritornando al '23-’24, la presenza del regime fascista, che aveva proclamato di voler far riprendere allo Stato la funzione di assoluta neutralità nella vita economica in terna quale era auspicata dalla dottrina liberal-liberistica dell’Ottocento (di quale neutralità, in effetti, si trattas se si potè vedere dalla repressione costantemente eserci tata verso le agitazioni delle classi lavoratrici) aveva portato 274
ad una maggiore disoccupazione e, di conseguenza, ad una chiusura verso i giovani che, usciti dalla scuola, cercavano un lavoro. Infatti, come aveva scritto ancora il Tremelloni, mettendo a confronto i due periodi, nel ’14, in un periodo di prosperità economica (anche su questo, però, ci sareb bero da fare parecchie osservazioni), “si pensava che il bi sogno di lavoro intellettuale” dovesse “aumentare vieppiù.” Ma alle vicende successive caratterizzate da una forte e vio lenta deflazione tra la metà del '20 e i primi mesi del '22, era subentrata una inflazione che aveva ridotto il consumo interno e pertanto anche la produzione. Ebbene proprio al l’inizio di quella nuova fase, invece di avere un governo che stimolasse il sempre più debole consumo, si era avuto, per la miopia delle classi dirigenti politiche ed economiche, il fascismo, che aveva contribuito ad aggravare quel fenomeno. Cosi, era stato possibile capire quanto fosse utopistica, in regime capitalistico, la prospettiva di un incessante aumento di richiesta di lavoro intellettuale. E il Tremelloni ricordava appunto il caso, sintomo allora di uno squilibrio profondo, di tremila domande per mille posti di scrivano.
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Capitolo dodicesimo
Contrasti tra
vecch i
e n u ovi fascisti nel Meridione
Ora, se si pensa che il numero di chi, pur essendo magari laureato, si adattava a fare il concorso per scrivano o per qualsiasi altro impiego pubblico, era, percentualmente, molto più alto al sud che al nord, si può facilmente com prendere come l’inflazione, con il notevole rialzo dei prezzi, dovesse colpire soprattutto questo ceto di “paglietti,” di impiegati piccolo borghesi. Fu, molto probabilmente, per tale motivo che, nel Mezzogiorno, il dissidentismo fu opera di questo ceto, come, ad esempio, avvenne in Sicilia: a Palermo la dissidenza fu alimentata dal contrasto fra il Cucco e Giuseppe Maggiore Di Chiara, che era detto dal primo “intelligente, astuto, rotto politicamente da tanti anni,” mentre il Maggiore denunciava sprezzantemente il suo avversario, definito “servo dei servi di tutti i Cani dei tartari della provincia.” Il Maggiore controllava il setti manale umoristico “Il Babbio,” ma fu espulso dal Partito fascista nel luglio del '23, e subito dichiarò di volersi ser vire della libertà concessagli dall’espulsione per continuare la vivace lotta contro il fascismo palermitano, accusato di essersi ridotto ad una “associazione di pavidi, disposti a tutte le complicità e a tutte le omertà.” Egli, inoltre, so steneva che i “nuovi” capi fascisti ignoravano “le meravi gliose classi siciliane, piccole e medie [...], e i contadini,” perché erano “d’istinto agrari e pretini, coscaioli e ma fiosi, polizieschi e prepotenti”; pertanto, auspicava che mo risse il fascismo “apocrifo” per consentire la rinascita, ad opera dei combattenti e dei mutilati, del fascismo vero. In provincia di Caltanissetta fu attivo sostenitore della dissi denza il dott. Francesco Savà, ex combattente e legiona rio fiumano, che, a partire dall’ottobre del '23, dalle co lonne del settimanale da lui fondato, “La Rinascita,” con dusse - scrive il Micciché - una violenta campagna deni gratoria contro il segretario provinciale del PNF, mentre 276
nel trapanese il dissidentismo rivelava l’acuta insofferen za nei confronti di molti fascisti “della sesta ora” e della adesione, che si faceva sempre più fitta, di notabili libera li, radicali, ecc., ma che erano elettoralmente forti. Si cri ticava soprattutto, duramente, l’apertura operata dai fasci in favore di "tutte le cariatidi tarlate della politicaglia lo cale, tutti gli Arlecchini, in perpetua corsa dietro l’albero della cuccagna, tutti i delusi, tutti i vili rifiuti da parte di tutti i partiti,” uomini che avevano aderito “con tranquilla indifferenza” al fascismo, “come indifferentemente [si sa rebbero iscritti] nel partito clericale o comunista,” tentan do, ogni volta e soltanto, di conquistare posizioni di pre dominio. Anche qui la polemica dei dissidenti fu molto vi vace e continua, dall’agosto del '23, quando essi fecero uscire un settimanale, “La Vanga,” contro il segretario provinciale del PNF, che ribatteva tramite l'organo uffi ciale dei fasci, “La Vedetta fascista.” Anche in provincia di Messina, i dissidenti (che si esprimevano per mezzo del periodico “La Libera parola” e che erano, in gran parte, fascisti della prima ora e combattenti indipendenti, “alcu ni dei quali già appartenenti al fascio futurista del capo luogo”), fra il '23 e il '24, insorsero contro la recente iscri zione al PNF dell’on. Crisafulli Mondio; il loro ideale era “un fascismo mussoliniano,” che fosse realmente intransi gente nei riguardi degli uomini che avevano aderito da poco al partito, e specialmente del Crisafulli, la cui iscrizione era stata sostenuta dal segretario provinciale unicamente per scopi elettoralistici, che dovevano essere stati appro vati a Roma, e, di conseguenza, dallo stesso Mussolini, al quale questi dissidenti tentavano di riallacciarsi in una difesa strenua di un “puro” fascismo delle origini. Sotto tale manto cercavano di nascondere il loro malumore per le posizioni di potere che i crisafulliani erano riusciti, in breve tempo, a conquistare, forti di una loro preesistente rete di interessi clientelari, mettendo in rilievo la scon fitta dei dissidenti nella lotta per la supremazia sul pia no provinciale e comunale. Concludendo, si può forse accettare, con qualche preci sazione, il giudizio che il Micciché dà su questi gruppi dissi denti, i quali, “sorti in ambienti diversi, e variamente alimen tati nel corso della polemica, agitavano la vita del fascismo siciliano, impegnando nella polemica i nuovi dirigenti pro vinciali e comunali. Essi, tuttavia, solo raramente elevarono il tono della loro polemica, fino a darle precisi contenuti politico-ideologici. Sempre emergenti, negli scritti via via 277
pubblicati sulla “Vanga,” “Il Babbio,” ecc., erano il personali smo e il municipalismo. Di conseguenza, molto scarsa ri sultò, nel complesso, l’incidenza dei fasci autonomi e dei gruppi dissidenti sulla struttura organizzativa e sull’in dirizzo politico generale del partito fascista nell'isola. Il fascismo ufficiale presto avrebbe avuto buon gioco su gran parte di essi.” Un giudizio sostanzialmente esatto, abbiamo detto, ma la precisazione che avremmo desiderato avreb be dovuto consistere nel porre in chiaro che tale lotta avvenne in tutto il Mezzogiorno e che essa fu la manife stazione più evidente e palese del malessere da cui furo no colti i “paglietti” meridionali, la media e la piccola bor ghesia, nell’assistere ad una lenta, ma inarrestabile, ero sione delle posizioni che credevano di aver conquistato al seguito dei nuovi padroni dell’Italia, e nella, inizial mente alquanto confusa ma via via sempre più chiara, percezione che i beneficiari della “rivoluzione” fascista finivano con l'essere, ancora una volta come sempre per l’addietro, i vecchi notabili, le “cariatidi tarlate” e la “politicaglia locale,” pronti a travestirsi da Arlecchini pur di rimanere a galla. Certo, non che essi, i dissidenti, avessero in mente una linea di condotta o un programma preciso con cui affrontare il difficile periodo, sia sul piano poli tico sia su quello economico, in cui il paese era immer so; tanto più che, come si è visto, continuavano ad appel larsi al mussolinismo, ritenuto esente da ogni macchia, con tro il fascismo degenerato quale era praticato dalle nuove autorità locali. In questa lotta, personalistica e municipa listica, tendevano ad esaurire tutta la loro azione, che veniva, in tal modo, a mancare di una giustificazione più ampia, che veramente potesse opporla a quella dei loro avversari. Eppure, una simile lotta generò, al duce, alcune difficoltà, poiché egli non poteva abbandonare a se stessi i gruppi di dissidenti, che lo avevano aiutato, nei primi momenti della sua azione, a penetrare, almeno in parte, in una realtà cosi tenacemente chiusa; ma neppure - e forse tanto meno - era in grado di rinunciare all’apporto dei voti clientelari che gli erano garantiti dal passaggio nelle file del suo partito delle vecchie e antiche cariatidi. Insomma, ancora una volta. Mussolini era costretto ad ima opera di mediazione fra le due opposte tendenze, che nel sud apparivano alquanto degradate, come vedremo, ri spetto all’Italia del nord: mediazione che tentò anche nella 42‘ riunione del gran consiglio del fascismo, del 22 luglio ’24, quando disse che l’estremismo fascista non esisteva 278
“se non come stato d’animo. Si tratta di uno stato vicino alla gelosia. C’è sempre qualcuno che teme, che sospetta, che trepida, che sta continuamente sul chi vive. In fondo, anche questo stato d'animo insonne è necessario come ele mento compensativo delle altre tendenze al quieto vivere e al compromesso.” In termini alquanto sbrigativi e sem plicistici era, tuttavia, quasi teorizzato, in queste parole, il suo continuo sforzo di usare l’una tendenza come “ele mento compensativo” dell’altra avversa. Infatti, pure in questo discorso, affermò che il governo avrebbe dovuto agire sul partito “inflessibilmente per migliorarlo, e ren derlo idoneo alle nuove necessità. Non solo bisogna libe rarci dai fannulloni, dai profittatori, dai violenti senza scopo; ma bisogna che tutto il Partito si raccolga in una disciplina più severa, meno formale, più alacre, più attiva, meno prodiga di quelle esteriorità, che, ripetendosi, stan cano e diventano convenzionali. Anche la necessaria in transigenza deve essere intelligente. La fascistizzazione dell’Italia deve avvenire, ma non può essere forzata. Sareb be illusoria. Vorrei che si creasse, pur conservando la cor te di disciplina per i dissidi personali, anche un organo superiore, insospettabile, di controllo sull’attività politi ca e privata dei dirigenti del Partito. Non mi dispiacerebbe che il capo di quest’organo fosse un estraneo al Partito.” Con il che veniva incontro alle esigenze dei cosidetti estre misti, che proclamavano di battersi, come si è visto, per ii ritorno ad un fascismo puro e senza rapporti con gli uo mini del tramontato regime democratico-liberale, ed an cor più doveva accontentarli allorché gridava, suscitando i calorosi applausi dei suoi gerarchi, che “Indietro non si torna!” e che quel periodo era concluso. Ma, nel tempo stesso, denunciava la “manovra tentata e abortita pieto samente” di mettere il nazionalismo contro il fascismo, la cui fusione, abbiamo visto, aveva destato non poche per plessità e contrasti nelle file delle camicie nere: “Dalla fusione in poi, gli ex-nazionalisti sono stati dei fascisti pu ramente e semplicemente. I posti da essi occupati sono inferiori a quelli cui potevano aspirare data la loro prepa razione dottrinale. Il fascismo, preso sempre dalle neces sità dell’azione, non ha mai avuto il tempo di piegarsi su se stesso, per meditare sui problemi essenziali. In un periodo di alta tensione politica, il riserbo su questo argo mento si impone, specie nel mio caso. Si tratta di stabilire degli orientamenti necessariamente generali e di appron279
tare gli strumenti per tutte le congiunture, anche per quelle che appaiono impossibili.” Era, sotto certi aspetti, preziosa questa confessione di una subordinazione del fascismo e dei fascisti nei con fronti del nazionalismo e dei nazionalisti sul piano cultu rale e dottrinale; una subordinazione, peraltro, che era avvertita da lui, che aveva vissuto e che viveva più acuta mente i problemi del nord che non quelli del sud, dove i nazionalisti si erano, per lo più, perfettamente inseriti nel tessuto clientelare sfruttandolo ai loro fini. Nel Setten trione, invece, i nazionalisti erano nati sulla spinta di in teressi economici ben definiti - gli interessi degli industria li tessili, abbiamo detto -, da cui avevano tratto i motivi essenziali per un loro programma politico ed economico. Pertanto, il duce poteva si esclamare che la linfa del na zionalismo gli era stata indispensabile per presentarsi sul la scena nazionale e internazionale con una certa dignità dottrinale, ma non poteva convincere i suoi seguaci che, soprattutto nel Mezzogiorno, si vedevano incalzati dalla muta dei nazionalisti, ansiosi di non lasciarsi sfuggire o di riconquistare i posti che avevano occupato con un la voro assiduo e che era perdurato tenace nelle più sva riate situazioni politiche: con il Giolitti, nel dopoguerra e, infine, pure dopo la vittoria del fascismo. Nel luglio del '24 ancora più profondamente doveva es sere sentita dal duce la necessità di tener unite tutte le tendenze del partito, soprattutto dopo il violento scossone che aveva dato al fascismo l’assassinio di Matteotti (ecco, da ciò, la sua confessione, sempre nella riunione del gran consiglio ricordata, rivolta esplicitamente alle popolazioni del Meridione: “Ho detto al neo-ministro dei Lavori pub blici che egli deve trascurare l’Italia da Roma in su e che deve avere occhi, orecchi e fondi soltanto per l’Italia me ridionale e le isole, dove talune condizioni di vita sociale sono forse in arretrato di mezzo secolo”). Del resto, la stessa campagna elettorale era forse servita ad attenua re un po’ i dissidi che gli estremisti avevano scavato fra sé e le cariatidi, gli Arlecchini, mentre l’abile - per quanto piuttosto rozza - opera di mediazione di Mussolini aveva contribuito a far convivere la media e piccola borghesia con gli “assaltatori sistematici delle carriere governative, gli scampati di naufragi senza onore e senza gloria, avanzi di piraterie esauste e disperse, gente maestra di scaltrezza e di menzogna.” Cosi notava, con un velo di amarezza, il “padre nobile” del fascismo in Basilicata, Nicola Sansa280
nelli, sotto la copertura della benedizione del clero, per cui, a Potenza, monsignor Razzoli manifestava apertamente la sua ammirazione per il governo fascista, nel quale intra vedeva “un alto programma civile, religioso, economico” (chissà perché osava addentrarsi sul terreno, per lui, mi nato dell’economia!), in quanto aveva “ricollocato il cro cifisso nelle scuole” ed era “in via di provvedere alle necessità economiche del clero” (cfr. N. Calice sulle lotte politiche e sociali in Basilicata). Perciò, mons. Razzoli am mirava Mussolini perché era in procinto', stava, era sulla via “di provvedere alle necessità economiche del clero): si vede qui quanto il punto di vista provinciale, settoriale e corporativo togliesse al buon sacerdote la possibilità di guardare le cose un po’ più dall’alto, in una prospettiva nazionale. D’altra parte, erano queste le arti che il duce sapeva usare, e, una volta che il suo regime si fosse stabilizzato, si poteva essere sicuri che anche l’estremismo fascista sa rebbe stato riassorbito. Nel Mezzogiorno poteva esserci, nel nuovo ordine delle camicie nere, un po’ di piccola o grande gloria per tutti: per il clero, conquistato dalle pro messe di beni tangibili e di concrete concessioni; per la piccola e media borghesia, attratta dal compito che le ve niva assegnato, che era quello di gonfiarsi il petto e di proclamare ad alta voce che essa assolveva ad una mis sione, che aveva una funzione alta e insostituibile nello Stato; alla grande borghesia e ai notabili locali, lusingati dal fatto che il potere sembrava essere stato restituito loro. Eppure, a guardare più a fondo, ci si poteva accorgere che si trattava di un misero gioco degli specchi, e che nessuno aveva più una sua realtà da custodire o da di fendere e che tutto non era altro che parvenza, flatus vocis: il clero occupava una sua posizione nella nazione fascistizzata purché si riducesse a incensare chi aveva fat to la rivoluzione e ora intendeva - come il duce disse all’Augusteo il 22 giugno del ’25, Intransigenza assoluta creare gli italiani del fascismo con un modo di vita incon fondibile (“E quale è questo modo di vita?” si chiedeva “Il coraggio, prima di tutto; l’intrepidezza, l’amore del ri schio, la ripugnanza per il panciafichismo e per il pacifondaismo; l’essere sempre pronti ad osare nella vita indi viduale come nella vita collettiva ed aborrire ciò che è sedentario”: una definizione del nuovo “modo di vivere” del tutto degno di un animale scatenato alla ricerca del cibo nella foresta e pronto a disputare agli altri animali 281
la preda catturata); la piccola e media borghesia non si accorgeva che, calpestandola ed umiliandola, il regime giungeva a negarle, in definitiva, qualsiasi possibilità di autonoma iniziativa; la grande borghesia e i notabili non si rendevano conto di conservare un certo prestigio senza po tere effettivo, perché quest'ultimo era passato, in ma niera molto più pesante che per il passato, al capitalismo del nord, che filtrava le sue esigenze attraverso la classe politica che si era impadronita di Roma. In questo quadro di marché des dupes, quelli che più soffrivano erano gli strati inferiori, i contadini, i piccoli proprietari, l’evane scente ceto operaio, gli ultimi della scala su cui si riversa va intero il peso di quelli che stavano al di sopra, con aggiunta l’oppressione di uno Stato che aveva abbandonato anche l’ultima, il più spesso puramente formale, difesa delle classi meno abbienti, avendo fatto calare su di esse l’opprimente cappa di piombo di una tutela che non la sciava alcuno scampo.
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Capitolo tredicesimo
La classe operaia del nord e il ceto medio impiegatizio contro il regime
Le categorie che più soffrirono di tale situazione fu rono, anche nell’Italia del nord, in particolare quelle ope raie, i contadini salariati e braccianti ed i piccoli colti vatori. Essi, tuttavia, in quella fase che poteva essere defi nita di transizione (sebbene, giustamente, a nostro parere, lo stesso Mussolini, in un breve scritto su “Gerarchia” del giugno ’25 - Il primo tempo della rivoluzione - abbia re cisamente affermato che “il volto della nostra rivoluzione già si delincava nel novembre del 1922, e anche il suo ca rattere antiparlamentare, antidemocratico, antiliberale,” e che solo “taluni politicanti, affetti da miopia mentale” po tevano esercitarsi a “definire come semplice crisi mini steriale, sia pure extraparlamentare,” quella del 28 otto bre, mentre essa aveva assunto subito “il carattere di ri voluzione” totalitaria), riuscivano, sebbene in parte e con fatica, a difendersi ed a difendere da una troppo grave degradazione il loro tenore di vita con l'arma dello sciope ro, che non era stato ancora del tutto soppresso. Anco ra, sopravvivevano i sindacati democratici, che furono sop pressi con il patto di palazzo Vidoni, del 2 ottobre 1925, con cui la Confederazione generale dell’industria riconosce va “nella Confederazione delle corporazioni fasciste e nel le organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclu siva delle maestranze lavoratrici”; il che significava, come chiari con una “relazione lucida e dettagliata” il mini stro Rocco, nella 68* riunione del gran consiglio, dell’8 ot tobre, che tutti i sindacati, “sia di datori di lavoro sia di lavoratori, debbono essere legalmente riconosciuti e sog getti al controllo dello Stato,” fornendo il pretesto al du ce di scrivere che la legislazione sociale fascista aveva fatto si che “le umili classi laboriose si sentano, attraverso le sagge leggi tutelatrici del lavoro e della loro vita, sem pre più intimamente legate ai destini della patria comu 283
ne.” Eppure proprio nei sindacati democratici le masse lavoratrici - come hanno testimoniato B. Buozzi e F. S. Nitti - dimostravano di riporre ogni loro fiducia. Indub biamente, gli scioperi erano diminuiti nel 1923, passando, secondo i dati raccolti dal Bureau International du Tra vail (B.I.T.) e ripresi da R. Tremelloni sulla “Critica so ciale,” da 22.234.476 nel T9 a 31.569.218 nel ’20, a 8.180.263 nel '21 (l’anno della crisi), a 6.716.914 nel '22 ed a 296.469 nel '23 (cfr. anche “L’Economia d’Italia,” 15 dicembre 1924): si era avuta, dunque, una contrazione a picco, segno che la nuova “Trinità,” come era detta da “La Plebe. Organo del la Federazione socialista unitaria pavese,” proclamata dal duce, e con la quale si chiedeva che i lavoratori si inchi nassero di fronte al “trinomio: ordine, gerarchia, discipli na,” aveva avuto un almeno parziale successo. Tuttavia, i partiti che si richiamavano alle classi popolari non si rassegnavano e cercavano di vivere e di continuare a lot tare pur nelle avverse condizioni e pur manifestando, co me era naturale, profonde differenze nel giudicare e nelYaggredire una realtà che si era fatta cosi aspra e cosi dura, spesso senza che qualche partito lasciasse intrave dere di aver condotto una seria analisi del perché il fa scismo aveva potuto assidersi padrone a Roma e da li impartire ordini a tutta l’Italia. Fra questi era il Partito so cialista unitario (gli ex-riformisti, che erano stati espulsi dal Partito socialista dai massimalisti nel congresso di Roma dell’ottobre '22, nell’ormai vano ed estremo tenta tivo di scongiurare la vittoria delle camicie nere favorendo la collaborazione dei compagni riformisti con la classe dirigente liberale), di cui “La Plebe,” riprendendo le pub blicazioni il 27 aprile ’23, riportava, in prima pagina, un manifesto della Direzione, che cercava di rendersi conto e di rendere ragione ai propri iscritti del perché il regime fascista avesse soppresso la festa proletaria e popolare del 1° maggio: “Nel raccoglimento pensoso chiedetevi, la voratori, perché vi si contende ancora di avere un giorno per voi? Che cosa è questa potenza che, dopo tante pro messe in tempo di pace e in tempo di guerra, vi condanna alla riduzione dei salari, mentre crescono i profitti, vi strappa ad una ad una tutte le guarentigie politiche e par lamentari, vi impone forme non vostre di sindacati, ed entrando violentemente perfino nei vostri concordati, vi proibisce, come un delitto, il Primo Maggio?” La domanda restava senza risposta e, subito dopo, il manifesto cadeva nel solito fatalismo di origine positivistica e ottocentesca 284
di cui questa corrente del socialismo non era stata capace di liberarsi nemmeno di fronte alla violenza squadristica che aveva di colpo cancellato le conquiste realizzate in tan ti anni di lavoro fiducioso ed alacre: “La Direzione del Partito socialista unitario, mandandovi il più fervido sa luto di Primo Maggio, vi dice di avere fede. Il declinare delle fortune del Partito politico del Socialismo in Italia è fatto contingente del nostro Paese e nulla tocca alle ra gioni essenziali ed internazionali del socialismo, portato fatale e necessario dello sviluppo del capitalismo stesso e delle sue divisioni di classi e di Stati. L’imperialismo, che non riesce a dare la pace al mondo, nemmeno con le con quiste e lascia il mondo trascinarsi nei conflitti della Ruhr e dell'Oriente per la insaziabile avidità dei monopoli sulle materie prime, dà prova dell’insuccesso finale di quella politica che è soltanto forza e sprezza le ragioni ed il di ritto. Perciò, l’Internazionale dei lavoratori vive e vivrà preparando la pace e la giustizia nei rapporti esterni co me nei rapporti interni degli Stati, garantendo rapida la ripresa ascensionale verso le supreme idealità umane.” Infine, esortava a tornare ad “altri Primi Maggi - i pri mi -, in eguale atmosfera di compressione; chiusi in cir coli, vigilati come i cristiani antichi nelle catacombe. Tor niamo collo stesso cuore, col sentimento rinnovato e pu ro ai Primi Maggi delle origini. Nel sacrificio getteremo molte scorie che fatalmente erano venute a noi coll’ingrossare troppo rapido del movimento, portando germi di de bolezza e di dissolvimento.” Era, senz’altro, un seguito di belle e nobili frasi, questo manifesto, che poteva far ricordare lo stile letterariamen te colto dello stesso Turati; ed anche quell’addossare la responsabilità della perdita della libertà alle scorie ed al troppo rapido ingrossamento del movimento operaio, che avevano portato con loro “germi di debolezza e di dissol vimento” - quasi per vedere scaturire il crollo da tali cau se e non dalla violenza, dall’esercizio spregiudicato della forza, dall’incapacità ad affrontare, da parte dei dirigenti politici e sindacali, in maniera adeguata la crisi economi ca che, fra la metà del '20 e i primi mesi del '22, abbatté lo slancio del proletariato contribuendo a consegnare l’Ita lia alla volgare e rozza prepotenza delle camicie nere - po teva rivestire una certa grandezza d’animo, ma che rimane va fine a se stessa, senza una conclusione che conducesse all’azione; cosi come tutto il manifesto rivelava quanto quel ceto dirigente fosse lontano ora dalle concrete e 285
quotidiane sofferenze delle masse, e, come era stato nel passato, dal loro travaglio. Predicava la pazienza e la spe ranza in un lontano futuro, che sarebbe inevitabilmente spun tato quando, elevati la coscienza e i cuori, i socialisti avessero assolto l’impegno “di migliorarci, di educarci, di renderci più forti, più buoni, più degni di celebrare degnamente i Primi Maggi futuri, della liberazione e della giustizia.” Ed intanto i contadini, come scriveva diverse volte “La Plebe,” erano costretti ad accettare contratti-capestro, che li riportavano “a un’epoca molto più arretrata di quella stessa in cui essi vivevano prima che l’organizzazione no stra sorgesse”; le delizie del nuovo regime, sempre se condo “La Plebe,” erano consistite - denunciava il periodi co nel luglio del '23 - nel far sparire tutto ciò che di buono “v’era nei vecchi concordati. Il resto è stato peggiorato e vi si sono aggiunte clausole che ribattono ai polsi del proletariato l’antica catena della schiavitù. Chi legge il concordato fascista deve arrossire di onta e di vergogna e chiedersi se è possibile che tutto questo avvenga in Italia e in Lomellina.” E intanto tornava “il carovivere. I prezzi aumentano, i salari e gli stipendi diminuiscono o vogliono diminuire,” tanto che, nel marzo del '24, ancora “La Ple be,” tornava sconsolata sull’argomento del caroviveri: “come dovremmo fare a non tornarvi? Non calmieri, non spacci comunali, non importazioni di grosse partite di ro ba; i prezzi dei generi sono sempre alti, anzi aumentano sempre; e gli affitti sono diventati impossibili; e le paghe invece diminuiscono, e governo, provincia, comune, ecc., ecc., tutti tolgono, o a poco a poco o in una sola volta, il carovivere, come se le cose andassero bene! Come si de ve vivere?” Forse sarà bene, giunti a questo punto, dare qualche notizia più precisa su questa situazione: in effetti, gli in dici del costo della vita salgono, dal ’23 al '25, più rapida mente di quelli dei salari: i primi, infatti, passano da 495 nel primo semestre del '23 a 493 nel secondo, poi con un primo balzo a 517 nel primo semestre del '24 ed a 536 nel secondo, e con un secondo notevole balzo rispettivamente a 594 e 623 finendo per toccare, al 31 dicembre, la punta (non ancora massima) di 649 (prendendo come base il 1913-14 = 100). I salari, invece, seguono ma con maggiore fatica, poiché salgono da 480 nel primo semestre del ’23 a 476 nel secondo, a 475 ed a 487 nel '24, a 513 ed a 555 nel '25 per terminare, nel dicembre di quest'anno, a 580. In un articolo sulla “Riforma sociale,” Ernesto Rossi, pren 286
dendo lo spunto da una pubblicazione dell'Ufficio del la voro e della statistica del Comune di Milano e integrandola con altri dati forniti dal ministero dell’economia nazionale e dalla Cassa nazionale infortuni, faceva una prima osser vazione esaminando le variazioni percentuali dei prezzi del pane e della carne (base il 1921 = 100): il pane da 101,79 nel '22 era passato a 102,40 nel '23, a 104,19 nel '24, e, poi, con la solita repentina impennata, a 149,10 nel '25, mentre la carne aveva un andamento molto più contenuto, perché aumentava soltanto di pochi punti, dà 86,70 nel '22 a 84,29 nel '23, a 93,41 nel ’24 e a 100,72 nel '25. “Se si pren dono in considerazione,” notava il Rossi, “i prezzi di questi due generi, si vede subito che, rimanendo identiche le al tre condizioni, gli operai con salari bassi devono aver risentito più degli altri l’aumento del carovita, perché la spesa per il pane rispetto a quella per la carne costitui va una percentuale superiore del loro bilancio ed il prez zo del pane è aumentato molto di più di quanto non sia aumentato il prezzo della carne.” Ma, forse, altre conside razioni si possono fare su questi dati partendo da ciò che dice sul commercio estero italiano del ’23 e del ’24 G. Cu rato, sempre su “La Riforma sociale”: nel ’23 il passivo della nostra bilancia commerciale per quanto riguardava i cereali era stato di 3.079 milioni, mentre quello riguar dante la carne di 210 milioni; nel ’24 il deficit per i cereali era stato di 1.875 milioni e per la carne di 181. Questo di verso passivo può forse giustificare il diverso andamento dei prezzi dei due generi, senza, peraltro, voler dimenticare le osservazioni che faceva M. Camis, professore di fisio logia all’Università di Parma, il quale, dopo un minuto raf fronto del regime alimentare del popolo italiano con quello della popolazione di altri paesi, scriveva: “La razione ali mentare del popolo italiano, popolo che conduce nella sua grande maggioranza la strenua vita del lavoratore agricolo od industriale, ha un contenuto energetico di 910.000 ca lorie annue, vale a dire è del 9% inferiore alla razione mi nima fisiologicamente necessaria per un uomo che com pia un lavoro mediocre. La razione alimentare media del popolo italiano è deficientissima in quella parte che è co stituita di sostanze azotate e specialmente sostanze azo tate di origine animale. Le proteine animali contenute nel la sua dieta rappresentano al massimo la metà della quan tità minima fisiologicamente necessaria.” Un’ultima osser vazione viene spontanea considerando le correnti del no stro commercio estero: all’esportazione la cifra maggiore 287
spettava alla Francia, subito dopo venivano gli Stati Uniti, poi l'Inghilterra e la Svizzera, più indietro rimaneva la Germania e trascurabili gli altri paesi; all’importazione, invece, l’Italia risultava largamente dipendente dagli Sta ti Uniti, che coprivano più di un quarto della nostra im portazione totale, mentre a grande distanza venivano l’In ghilterra (meno della metà degli USA) e, ancora più lon tani, Francia e Germania, con le altre cifre poco note voli in rapporto al totale. Era chiaro che la dipendenza dagli Stati Uniti era da mettersi in relazione alle for ti importazioni di generi alimentari e di cotone, che erano i gruppi maggiormente deficitari. D’altra parte, G. Mortara, ricercando, nelle sue annuali Prospettive econo miche per il 1925, le cause di una simile tendenza al rialzo dei prezzi, sosteneva che avevano agito “varie circostan ze,” come, ad esempio, l’assestamento delle relazioni in ternazionali quale si poteva scorgere dall’adozione del pia no Dawes “per un preliminare assetto del problema dei risarcimenti bellici; l’afflusso in Europa di capitali nordamericani; l’eliminazione dello squilibrio tra i prezzi dei prodotti agricoli e quelli dei prodotti industriali negli Stati Uniti; il risultato dell’elezione presidenziale”: tutti motivi che, a suo parere, avevano contribuito “a deter minare, al di qua e al di là dell’Atlantico, condizioni propi zie allo sviluppo dell’attività economica.” Ed aggiungeva che, “per quanto le anormali condizioni degli ultimi anni abbiano alterato il consueto andamento dei cicli economici, sembra di poter affermare, dall’osservazione dei principali paesi indu striali, già iniziata una nuova fase d’espansione. È carattere normale di tal fase,” concludeva, “il rialzo dei prezzi, determi nato dalla impossibilità di immediato adeguamento dell’offer ta al rapido sviluppo della domanda di merci. Infatti, nella seconda metà del 1924 si vede salire il livello medio dei prezzi negli Stati Uniti, nella Gran Bretagna, in Germania, in Francia, cioè nei quattro maggiori paesi industriali.” In tale contesto, l’Italia gli sembrava particolarmente sen sibile nel subire l’azione di queste cause generali, data la “relativa scarsezza del raccolto del frumento nel 1924 e data anche la grande importanza delle industrie tessili nel l’economia nazionale,” che erano proprio i due settori in cui si era fatto maggiormente sentire, fra il ’23 e il ’25, un eccezionale rialzo dei prezzi. Eppure, è una legge - diciamo legge molto impropria mente, perché si tratta piuttosto di una affermazione che scaturisce da un esame delle ripercussioni sulla vita poli 288
tica provocate dai mutamenti che, periodicamente, sono sempre avvenuti, in misura più o meno grave, nel ciclo economico, e dal passaggio da una fase di depressione ad una fase di espansione - quasi costante che, nei periodi in cui il ritmo della produzione si accelera generando ten sioni inflazionistiche, salgano al potere partiti o correnti o uomini politici disposti - come ci pare di aver già mesou m rilievo - a concedere maggiore libertà alle classi la voratrici, anzitutto - se si tratta di partiti o di uomini politici borghesi - per non compromettere la stabilità del loro potere. Questo, infatti, potrebbe essere sottoposto alle violente reazioni di chi vede sempre più peggiorare il suo te nore di vita e si sente ridotto quasi alla disperazione, e, poi, anche per lasciare che le normali contrattazioni sul costo del lavoro fra le classi antagonistiche attenuino il disagio per gli uni (i proletari) e ristabiliscano una certa maggior giustizia distributiva per gli altri (i capitalisti e la grande borghesia: ma sempre con l’intento, per quei par titi e quegli uomini, di non vedere intaccata la loro posizio ne). Al contrario, in fase di depressione e di contrazione della produzione diventano naturali regimi che mirino a compri mere le esigenze e le richieste del proletariato e della picco la e media borghesia, assumendo un atteggiamento neutra le od ostile (sotto la parvenza di un liberismo male inteso e peggio applicato) nei confronti del sempre più forte disa gio delle categorie subalterne, alle quali si nega ogni pos sibilità di uscire dalla soggezione in cui sono sempre più ricacciate. Invece, alla fine del '22, quando già era inizia to il nuovo ciclo espansionistico ed inflazionistico, in Italia giungeva al potere il fascismo, che si proponeva, in nome della maestà suprema e intangibile della Nazione (di fron te alla quale tutti dovevano inchinarsi e abolire le distin zioni di classe e di ceto e sacrificare i propri interessi) di reprimere le naturali aspirazioni degli strati inferiori. Voleva permettere, in tal modo, una più facile e più rapida - per ché protetta e difesa dai pubblici poteri - accumulazione di capitali (leciti o illeciti, poco importava, come vedremo fra breve), e far si che l’iniziativa privata fosse posta in condizione “di poter estrinsecarsi libera da ogni im paccio,” scrive il Grifone, il quale aggiunge: “Sgravi fi scali, denaro abbondante e a buon mercato, abolizione delle bardature di guerra (vincolismo degli affitti, monopoli di Stato nel commercio), diminuzione dei salari: sono queste le più immediate aspirazioni dei padroni: esse trovano pron ta eco nei provvedimenti governativi.” Pertanto, il regime 289
fascista sovvertiva in pieno la legge di cui abbiamo appena parlato, ma lo faceva perché era palesemente e, verrebbe fatto di dire, spudoratamente un regime di classe. Su questi aspetti della situazione italiana di allora ri torneremo fra poco, perché prima vorremmo citare altre considerazioni tratte dal Rossi dall'attento esame dei dati da lui raccolti, i quali gli consentono di dire, per quanto riguardava gli operai dell’industria, “che la riduzione ge nerale dei prezzi avvenuta nel 1922 ha corrisposto a un miglioramento dei salari reali per gli operai delle indu strie milanesi; nel 1923 l’indice del caro-vita è rimasto presso a poco lo stesso, ma i salari nominali sono stati ridotti e quelli reali hanno subito assai spesso un peggio ramento maggiore del miglioramento che avevano avuto nell’anno precedente; negli anni successivi gli aumenti dell’indice del caro-vita hanno corrisposto ad un notevole peggioramento dei salari reali, peggioramento che si è at tenuato nel primo semestre del 1926. Gli scarti maggiori si riscontrano per i salari degli apprendisti, dei garzoni e dei manovali.” E per i lavoratori dei campi afferma che dal ’22 le condizioni dei contadini “obbligati” continuarono a peggiorare, un peggioramento che egli riscontrava “anche in altre provincie d’Italia. Nel fascicolo del luglio di quell’anno degli Indici del movimento economico italiano della Regia Università di Padova e di Roma era, infatti, riportato un grafico relativo ai salari dei braccianti nella provincia di Ferrara, da cui risultava un ‘andamento stazio nario in forte contrasto con l’andamento dei prezzi e del costo della vita.’ Mentre in tale pubblicazione l’importanza di questo rilievo è attenuata dalla considerazione che ‘il contratto di lavoro a giornata in provincia di Ferrara era an dato riducendosi in seguito alla maggiore diffusione ripre sa dal contratto di lavoro a compartecipazione/ per il Mi lanese va osservato che le condizioni dei lavori agricoli in genere sono peggiorate più di quanto possa apparire dai patti, perché molti proprietari preferiscono non impegnar si più per un anno intero con contadini ‘obbligati,’ pren dendo i lavoranti a settimana come ‘avventizi’ [...]. Inol tre, i contadini ‘avventizi’ non hanno diritto né alla casa né al perticato, né agli altri benefici, che fanno risentire meno agli ‘obbligati’ l'aumento del caro-vita, e non riscuo tono alcuna paga quando, per il maltempo o per altri mo tivi, non possono lavorare.” Cosi, Mussolini, inizialmente, subendo l’influenza di eco nomisti che si proponevano sopra ogni cosa di reagire con 290
tro il socialismo, che, nei quattro anni dalla fine della guerra al '22, aveva predicato “un programma d’azione contro il verso della storia” (scriveva M. Grieco), aveva adot tato una politica liberistica (con parecchie smagliature, però), lasciando una quasi assoluta libertà al ceto industriale, il quale aveva, con il consenso del governo, agito sui salari per superare all'interno e all’estero la concorrenza degli altri paesi più avanzati tecnologicamente. Gli era sem brata, questa, l’unica via per la riduzione dei costi di pro duzione, ed il regime l’aveva di buon gradò assecondato. La svalutazione della lira aveva, poi, senza dubbio, contribuito a rendere i nostri prodotti competitivi sui mercati inter nazionali, tanto che il settore merceologico che segnava il più forte attivo, malgrado il gravoso deficit delle importa zioni di lana e cotone, era quello tessile, con circa 1.100 milioni di lire nel '23 e circa 1.200 nel ’24. Ma ciò che mag giormente doveva aver impressionato gli ambienti eco nomici dell’alta Italia era il fatto che, a differenza di quan to era avvenuto per l'addietro, era possibile diminuire i salari: “Ancora nei primi mesi del 1923,” scriveva il Mortara, “sembra siano prevalse le diminuzioni di salari sugli aumenti; negli ultimi mesi [in cui il costo della vita ave va ripreso a salire più rapidamente], in seguito all’intensificarsi delle agitazioni operaie (il numero degli scioperi è salito, nel 1924, a 335, dei quali 243 nel secondo semestre; il numero degli scioperanti a 162 mila), e della pressione politica delle masse lavoratrici, sono stati concessi sensi bili aumenti. Ma nel complesso dell’anno 1924 il salario medio nominale degli operai delle industrie è stato press’a poco uguale, e il salario reale inferiore, a quello del 1923. Noi riteniamo che il livello medio dei salari reali nel 1924 sia stato inferiore anche a quello del 1913.” Questa af fermazione dello studioso attento e serio sollevò una lun ga serie di contestazioni e di critiche, che ricordano molto altre accese discussioni sul costo del lavoro a cui abbiamo assistito di recente nel nostro paese ed in cui si avvertiva chiaramente l’intenzione da parte dei contestatori di aver ragione ad ogni costo. Per tale motivo riteniamo oppor tuno riportare integralmente, anche se lungo, il passo che il Mortara ha dedicato a tale problema: “Dicendo che il sa lario reale del 1924 era più basso di quello del 1913 inten diamo dire che il salario giornaliero percepito dall’operaio nel 1924 gli consentiva di acquistare una quantità di merci e di servigi inferiore a quella consentita dal salario del 1913; ossia che il tenore di vita dell’operaio era peggio 291
rato. Il giudizio non si riferisce a una singola città, o re gione, né ad una singola industria, ma al complesso della popolazione operaia italiana. - Un nostro cortese contrad ditore (R. Targetti, Rivista di politica economica, anno XVI, fase. I) asserisce che il salario reale del 1924 era su periore del 32% a quello d’anteguerra, poiché valuta a 625 il numero indice finale del salario nominale, a 475 il nu mero indice del costo della vita. Questa valutazione si riferisce all’Italia intera. - Osserviamo semplicemente che quando in un paese le condizioni di abitazione delle classi operaie peggiorano gravemente (come sono peggiorate in Italia dal 1914 al 1924), il consumo medio individuale dei cereali si restringe, quello delle carni decade qualitativa mente se pur non decresce quantitativamente, quello dei tessuti di cotone diminuisce d’un quarto, quello dei tessuti di lana di un settimo, il nuovo risparmio delle classi po polari si riduce di molto, è prudente riflettere alquanto prima di accusare di scarsa ponderatezza chi afferma es sere diminuito il salario reale, cioè essere peggiorato il tenor di vita. Non è certo l’aumento di pochi consumi vo luttuari (zucchero, caffè, tabacco, seta artificiale) suffi ciente a compensare tante e tanto gravi restrizioni di con sumi primari. - Altri (C. Gini, The present economie sta tus of Italy, ecc.) accenna ad un aumento del 17% nel salario reale degli operai milanesi, dall’anteguerra al 1924. A Milano nel decennio 1913-23 il numero dei vani abitabili è aumentato di 30 mila, il numero degli abitanti di 90 mi la; il consumo delle carni d’ogni sorta è disceso da 66 chi logrammi per abitante nel 1913 a 60 nel 1924, quello del vino da 152 litri per abitante, media 1904-13, a 138 nel 1924, quello della birra da 9 a 8 litri. Ecco documentato l’aumento dei salari reali [...]. - Il presidente della Con federazione generale dell’Industria, in un suo discorso del 28 aprile 1925, affermava: ‘Si sono bensì prodotte statisti che con cui si vorrebbe dimostrare che i salari reali at tuali sono minori dell’anteguerra: tutti sanno come sia dif ficile la esatta rilevazione dei guadagni operai; abbiamo avuto prove noi stessi di tali difficoltà; ma da ripetuti ri lievi fatti abbiamo potuto concludere che anche in lireoro i salari attuali sono maggiori di quelli pagati nel 19131914. Del resto il crescere dei consumi e l'aumentato te nore di vita delle classi operaie ne sono la conferma più palese e irrefutabile.’ Quanto al migliorato tenor di vita [ribatteva il Mortara, alquanto sdegnato per la superfi cialità di questo contraddittore], ci riferiamo alle osser 292
vazioni precedenti. Quanto al salario ridotto in oro, osser viamo che se anche esso supera il livello d'anteguerra, com’è perfettamente vero, ciò non dimostra che sia aumen tato il salario reale, essendo il potere d’acquisto dell’oro, rispetto alle merci ed ai servigi, fortemente diminuito. Riconosciamo esatta anche l’affermazione che è aumentato il salario reale orario, per conseguenza della diminuzione delle ore giornaliere di lavoro. Ma il benessere delle classi operaie non dipende dal salario orario, bensì da quello giornaliero. - Non crediamo [concludeva, sicuro di aver fatto valere le sue ragioni nella breve schermaglia] con queste poche osservazioni di aver esaurito la trattazione di un problema che meriterebbe di essere approfondito sulla base di rilevazioni obbiettive quali solo lo Stato può compiere, poiché gli interessati sono i meno adatti a giu dicare serenamente; teniamo soltanto ad affermare che il nostro giudizio non è dedotto dal semplice risultato arit metico del confronto tra un numero indice dei salari e un numero indice del costo della vita, ma è desunto da una ampia e ponderata considerazione di tutti i segni del te nor di vita dei lavoratori manuali.” La serenità e l’indipendenza di queste osservazioni e di questo giudizio, che, nel '26, indubbiamente, facevano onore al Mortara, ci ricorda un altro esempio di indipendenza dimostrata, proprio in quell’anno (quando cioè il fascismo stava procedendo alacremente alla emanazio ne delle “leggi costruttive,” che dovevano fondare “lo Stato sindacale-corporativo,” ponendo termine del tutto agli scio peri) dai pretori di Thiene e di Caltanissetta, che, con due loro sentenze, sottoponevano il divieto penale dello scio pero alla condizione che fosse dato ai lavoratori il mez zo di far valere altrimenti quello che veniva da essi con siderato un diritto elementare. Sentenze che erano, se condo la rivista del Bottai, “Il Diritto del lavoro,” una “astrazione filosofica bandita dalla concezione fascista nel campo dei rapporti tra individuo e Stato. Non esistono diritti di fronte alla concezione unitaria e superiore dello Stato oltre quelli che vengono riconosciuti. Onde moltissi me di tutte quelle prerogative assegnate all’individuo come sue facoltà naturali innate, di libertà, e simili, di fronte al nuovo ordinamento sono prive di significato. Lo Stato può sacrificare ai suoi interessi quelli del singolo; di guisa che quando lo Stato vieta lo sciopero, non bisogna ricer care se in compenso sia riconosciuto altro diritto.” Non si poteva, forse, condensare ed esprimere con maggiore 293
asprezza la nuova e totalitaria dottrina mussoliniana del cittadino, o meglio del singolo, che doveva completamente annullarsi nello Stato sovrano e nella Nazione. Di fronte ad essi i diritti naturali dell’individuo della tradizione illuministica settecentesca - poi sfociata nella Rivoluzione francese, in quell’89 che segnò una svolta decisiva nella storia dell’umanità -, diritti che riconoscevano all’indivi duo stesso come innato il diritto alla libertà (più tardi di ventati anche diritti dei lavoratori) erano cancellati dal la novella concezione dello Stato come potenza ed eretto in Ente supremo che annullava inesorabilmente ogni ante riore diritto; ed era anche un attacco alla residua indipendenza della magistratura, una lezione di cui quest’ultima non avrebbe potuto non tenere conto per il futuro. Riprendiamo il discorso al punto in cui l’abbiamo in terrotto per aprire questa lunga parentesi, che, peraltro, ci è sembrata doverosa anche per chiarire alcuni aspetti del la nostra vita odierna e per far comprendere gli argomenti di cui si servono, senza alcuna variazione lungo i decen ni, le classi padronali, soprattutto quando si sentono ap poggiate dal potere politico o rafforzate da crisi economi che che finiscono sempre con il prostrare il proletariato. Ed appunto fra il '23 e il '25 la politica del duce, rivolta a scaricare esclusivamente sulle masse popolari il greve peso di una ristrutturazione del nostro sistema produttivo (che, tuttavia, fin dopo il ’30 rimase basato sui settori che si erano affermati da tempo dopo il primo inizio del de collo industriale, in particolare su quello tessile, men tre si affacciavano prepotentemente alla ribalta altri set tori, come quello dell’energia elettrica), valse ad attirare al fascismo la simpatia degli industriali, i quali risposero con una leale comprensione verso il regime, anche nei mo menti più difficili: infatti, dopo il delitto Matteotti, “L’In dustria lombarda,” derogando alle sue abitudini di non occuparsi di politica, scrisse, volgendosi apertamente agli stranieri che sembravano voler approfittare di quel tri ste episodio per affermare che l’Italia stava ritornando ad essere “una quantità trascurabile,” che, al contrario, essa era “viva e sana, pronta a tenere e a difendere il suo posto nel mondo.” Dove si vede come il linguaggio di sfida piva la grandezza di un popolo solo se questo popolo pos sedeva la forza di picchiare i pugni sul tavolo, avesse con tagiato anche gli imprenditori. Ma se l’industria rivela va un “considerevole progresso,” come afferma il Mortara (fra società nuove costituite e aumenti di capitale di so 294
cietà esistenti, nel 1925, erano stati chiesti al risparmio privato e allo Stato - che, tramite la Sezione autonoma del Consorzio sovvenzioni su valori industriali, tramutato, nel 1926, in Istituto di liquidazioni, non aveva certo lesinato il suo concorso che si era elevato a circa 7 miliardi, contri buendo, in tal modo, ad espandere notevolmente la circo lazione bancaria e, quindi, l’inflazione - 9 miliardi di lire, in confronto ai 6 del 1924, ai 4 del 1923 ed ai 3,4 nel 1922), non altrettanto avveniva della situazione economica del paese, che, invece, segnava un deciso peggioramento. Giu seppe Prato, uno dei vecchi economisti che consideravano i rentiers (i redditieri) il solo sostegno di uno Stato e che condannavano gli spéculateurs come rovina della società, riprendeva la sua polemica contro quest’ultima categoria dalle colonne della “Riforma sociale” del 1925, dicendo “non gratuita” l’accusa che “insigni economisti” rivolge vano “da tempo alla famigerata sezione autonoma del consorzio per anticipazioni su valori industriali” di favo rire la “perdurante inflazione.” Egli adduceva, a giustifi cazione di queste affermazioni, il fatto che mentre la circo lazione a debito dello Stato si riduceva, fra il 1924 e il '25, di circa un miliardo, e quella del commercio di circa due miliardi e mezzo, le operazioni di risconto su valori, in vece, “a comodo di speculazioni ignote, se non equivoche, più che triplicavano [passando da 1.320 milioni di due an ni prima a 4.582], compromettendo da sole il risanamento progressivo della situazione.” Secondo lui, “codeste fami gerate ‘bande nere’” rappresentavano una minaccia ben più seria per ogni società, che avesse nel suo seno “una classe molto numerosa e potente di persone, che dalla rovina monetaria attendono e sperano lucri eccezionalissimi, e, cioè, in pratica, l’appropriazione facile e quasi integrale del risparmio della collettività senza difesa.” E prose guiva, in questo articolo I disfattisti della lira, nel suo veemente atto d’accusa contro i fautori “d’una bancarotta liquida trice,” sostenendo che “l'andazzo a dilatare ipertro ficamente le dimensioni di imprese e di impianti, trasfor mando in immobilizzazioni grandiose i continui appelli al mercato per aumenti ed annacquamenti di capitali (fatti di cui recenti sentenze han documentati altri moventi scor retti), delle società azionarie [...]; l'illimitato ricorso al credito, sotto ogni forma, per finanziare l’attesa dei so pravalutati profitti futuri; tutto il complesso di operazioni eccitanti ed in parte illusorie a cui è connesso il movi mento di ascesa di parecchi notissimi titoli, fonte, negli 295
ultimi mesi, di cosi facili lucri ai frequentatori delle nostre borse, convergono indubbiamente, anche se non sono l'ese cuzione di un piano consapevole, a creare ed accentuare nei gruppi plutocratici, guidatori del movimento, un cre scente interesse all’annullamento automatico della valuta in cui sono espressi i debili contratti, le obbligazioni pat tuite, le promesse prodigate munificamente.” Il Prato concludeva, non riuscendo più a moderare il suo sdegno e contrapponendo efficacemente i due ceti dei rentiers e degli spéculateurs: “Abbandonare all’audacia di masnade di pirati le sorti dei superstiti tenaci delle mas se silenziose, riproduce lo spettacolo triste della spensiera tezza delittuosa, che, in tanta parte della penisola, con dannò allo sterminio non riparabile di una rapina steriliz zante avanzi ancor magnifici del fitto manto di selve, pre sidio e tutela secolare alla fecondità indefettibile del vec chio suolo della patria.” Si poteva dire che si fosse giunti a quello stadio che M. Grieco definiva del “sovversivismo del capitale,” definizione che, venendo da chi aveva difeso il liberalismo come quello che aveva saputo, e sapeva, of frire una soluzione alla crisi “di questa civiltà” (mentre nessun partito e corrente ideologica era stata in grado di fare altrettanto) non poteva destare molti sospetti. Ma, in verità, un simile chiamare sul banco degli accusati gli speculatori, dimenticando del tutto il particolare clima e il regime che consentiva che essi agissero indisturbati, ci sembra che fosse una esercitazione pressoché inutile, e potesse anzi servire a sviare l’attenzione da ciò che ve ramente era importante. Pertanto, è forse più opportuno tornare alle minuziose e concrete osservazioni del Mortara, che ci danno un quadro abbastanza esatto della si tuazione di quegli anni: le cause del forte rialzo dei prezzi (l’inflazione, secondo i calcoli di alcuni economisti, al 30 giugno 1925, aveva decurtato gli averi dei risparmiatori italiani del 72%) andavano ricercate soprattutto nei se guenti motivi, che erano tutti da imputarsi ad una azione del governo che si era svolta in una determinata direzio ne piuttosto che in un’altra: “È aumentata la pressione tributaria, è aumentato il peso della protezione doganale, sono stati allentati i pochi vincoli, che ancora rimanevano, al movimento dei prezzi (l'effetto più importante in que st’ultimo campo è stato quello del rialzo delle pigioni).” G. Matteotti pubblicò, sulla rivista inglese “The Statist,” il 7 giugno 1924 - “tre giorni prima che venisse assassinato,” nota E. Rossi -, una lettera che, con il suo solito stile 296
asciutto, essenziale, privo di qualsiasi retorica (esattamen te l’opposto dell'amore per le grandi frasi risonanti, ma prive di un effettivo contenuto, tipiche del fascismo), “è un modello di chiarezza e di sintesi sulla politica finan ziaria del primo periodo della dittatura mussoliniana): suo intento era stato di dimostrare che quel poco di buo no che aveva fatto il nuovo regime non aveva assolutamente nulla a che vedere con il fascismo, perché era “il risultato di uno sviluppo che ha preso inizio diversi anni prima del regime fascista.” Perciò, il suo- sforzo era stato quello di rivalutare i governi liberal-democratici, senza voler porre, in nessun modo, il problema di quanto e di come quei governi avessero, anche se non volutamente, favorito l’ascesa al potere delle camicie nere. Ad ogni modo, egli metteva in forte rilievo fino a che punto si esercitasse il predominio di un partito sulla vita del paese: “Il nu mero degli impiegati militari e civili è stato ridotto,” egli osservava alquanto sarcasticamente, “da 115.000 a 110.000 (esclusi gli impiegati ferroviarii): vale a dire in una pro porzione quasi eguale a quella dell’ultimo anno del ‘vec chio regime.’ Le spese, peraltro, sono aumentate di altri 100 milioni di lire; e nei dicasteri del signor Mussolini (esteri e interni) il numero degli impiegati è cresciuto di un migliaio. Soltanto nella amministrazione delle ferro vie si è avuta una grande riduzione di impiegati, assunti in servizio durante e dopo la guerra, ma l’obiettivo prin cipale di questa riduzione fu di liberarsi di impiegati non fascisti. Anzi, nel primo anno dell’amministrazione fasci sta, oltre 16.000 impiegati ferrovieri furono assunti in ser vizio permanente al posto di avventizi mandati via col pretesto della ‘economia.’” Ancora con un accento ironico affermava che “la sola grande ‘riforma’ finanziaria del go verno fascista” era stata la soppressione della imposta di successione: “e noi consideriamo essa sia stata un grave errore.” Per quanto riguardava il maggior numero di cit tadini che pagavano l’imposta sul reddito, anche qui il me rito non andava al governo fascista, perché il suo “me rito” consisteva “soltanto nell’avere incluso nella lista dei tassati anche i meno pagati tra i salariati delle pubbliche amministrazioni, ai quali si ridussero i salari del 5 e del 10 per cento.” Concludendo, Matteotti diceva che il peso di tutte le imposte, nuove o vecchie aggravate o distorte, era “veramente grave, considerando le condizioni econo miche del paese”; questo perché “le imposte sui consumi popolari formano quasi il 60 per cento delle entrate dello 297
Stato, e le imposte indirette ammontano al 68 per cento delle entrate complessive. Il costo della vita cresce, men tre i salari sono diminuiti di circa il 15 e il 20 per cento. Tre quarti dell'Italia sono ancora poveri; hanno bisogno di lavoro e di capitale per dare impiego alla crescente po polazione.” E, insistendo sulla sua convinzione relativa alla bontà del precedente regime, sosteneva che “oppri mendo il popolo, il fascismo può far credere agli osserva tori stranieri che vi sia uno stato di quiete e di pace, ma esso non ha risolto nessuno dei problemi vitali della nostra vita economica e sociale. Il presente ritorno ad uno stato di violenze e di inquietudine, eredità delle passate dominazioni straniere, impedirà certamente il sano svi luppo che le energie della nazione avrebbero altrimen ti potuto conseguire.” Si può capire da questo articolo di Matteotti che il governo mussoliniano, invece di arrestare, come si vantava di aver fatto, la circolazione bancaria, ne aveva promosso una “vasta espansione” - secondo il ponderato giudizio del Mortara -, che aveva offerto alla speculazione sulla lira “un’ottima base per le sue operazioni.” Queste avevano provocato, naturalmente (insieme con altre circostanze particolari, come “la fuga dei capitali dagli investimenti azionari nel 1925, c l’ingente domanda di divisa estera in previsione di uno scarso raccolto granario nel 1926”), “una fase di ampie oscillazioni e di decisa svalutazione della lira”; sicché, scossa la fiducia nella stabilità d’acquisto della nostra moneta, “si verificavano emigrazioni di capi tali all’estero, acquisti di materie prime e di prodotti este ri in quantità esuberante al bisogno immediato, aumento della velocità di circolazione della moneta stessa.” I cambi salivano ad altezze notevoli, “fino a destare un vero al larme,” scrive il Guarneri: il corso del cambio, inaspritosi nell’ottobre del '22, per l'influenza degli avvenimenti po litici di quel mese, non rimase affatto “relativamente sta bile,” come sembrerebbe leggendo il Guarneri, ma conti nuò a salire, passando, la lira, da 13 dollari alla fine del ’22 a 19 negli ultimi mesi del ’23, e raggiungendo, nel '24, le 24 lire, mentre la sterlina superava le 113 lire. Il feno meno “si acuiva fino a destare un vero allarme nei me si di giugno e di luglio del '25,” quando il corso massimo della nostra valuta su Londra, da 117,50 del mese di gen naio, saliva in giugno a 138,47 e in luglio a 144,92. Il che voleva dire che, negli ambienti finanziari intemazionali, si nutriva scarsa confidenza nella cosiddetta pacificazione 298
seguita al discorso del duce del 3 gennaio, se è vero che, sul finire del 74, si erano acuite e diffuse “le manife stazioni di sfiducia verso il Governo,” cosi scriveva il Mortara, “che, tuttavia, si attacca tenacemente al potere. Questo contrasto, suscitando la previsione di violente re pressioni del malcontento,” aveva influito negativamente sui cambi. Ma questa sfiducia - come si è visto - non era venuta meno nel ’25, allorché altre cause erano intervenu te, quale, ad esempio, quella additata dal Mortara e con sistente nell’enorme eccedenza del valore1delle importazio ni sulle esportazioni (quasi sei miliardi di lire nel primo semestre del 1925), che, tuttavia, era stata in parte causa ma anche in parte conseguenza dell’andamento dei cambi. Tale peggioramento nelle quotazioni della lira determinava una inversione di tendenza nel mercato finanziario italia no: una “crescente scarsità di denaro, a prezzo carissimo, e una crescente pesantezza delle borse.” I titoli crollava no, e ciò era dovuto anche al fatto che le loro quotazioni avevano raggiunto altezze eccezionali, “fuori di ogni rap porto col loro rendimento effettivo,” e cosi non trovavano più collocamento presso il risparmio. La Borsa rese re sponsabile di tale situazione il ministro De Stefani, il qua le, come si è visto, il 10 luglio ’25, dovette abbandonare la carica, sostituito dal Volpi. Questa grave crisi, “scoppia ta,” dice ancora il Guarneri, “in un momento di vigo rosa ripresa delle attività produttrici [ma si trattava di una ripresa, come si definirebbe oggi, drogata, perché ba sata sulla progressiva svalutazione della lira, e cioè sul sempre più alto livello di inflazione], rendeva più dura la opera di ricostruzione dell’economia nazionale.” Ma era tutta la vita del paese ad essere colpita, e più le masse popolari e i ceti medi che non l’alta borghesia, la quale anzi continuava a godere della situazione politica ed eco nomica creata dal fascismo. Il quale concesse agevolazio ni e facilitazioni ai prestiti contratti all’estero (con un de creto degli ultimi mesi del '22 e con successivi provvedi menti del luglio '23 e del settembre e dicembre '25, del feb braio '26), partendo da una quanto meno strana posizione su tale problema, perché ora Mussolini affermava che l’Italia aveva un assoluto bisogno di capitali da giustifi care le più ampie esenzioni fiscali sugli investimenti stra nieri, ora, invece, proclamava che l’Italia stessa aveva una cosi grande abbondanza di capitali da renderle possi bile altrettante esenzioni fiscali sugli investimenti all’este ro “per favorire la espansione delle attività economiche 299
italiane nel mondo.” Pertanto, si vede che, secondo il suo mutabile umore, il duce un giorno avvertiva, o fingeva di avvertire, la posizione, in definitiva, subordinata dell’Ita lia nei confronti delle grandi potenze, ed un altro giorno amava dichiarare a voce spiegata la volontà espansioni stica del suo partito: e sempre, nell’uno e nell'altro caso, si preoccupava di avvantaggiare le aziende private, di fa vorire i “padroni del vapore.” Faceva in modo che que sti ultimi riuscissero ad evadere alle imposte, che avreb bero dovuto colpire i loro redditi, riacquistando le obbli gazioni esentate perché emesse all’estero, nel primo caso, e consentendo, nel secondo caso, che i prestiti agli im portatori stranieri (la Germania, l’Austria, la Polonia, l’Un gheria, la Grecia, l’Argentina, cioè i paesi dell’area centroeuropea e balcanica e del Sud America che - come rico nosce anche il Guarneri - “erano paesi a cambi controlla ti e già in stato di latente insolvenza o prossimi a dichia rarla”) fossero fatti al fine di procurare le lire con cui ac quistare dalle industrie italiane i prodotti senza mandare in Italia le loro merci che avrebbero potuto fare concor renza ai nostri prodotti. “Ma di ciò,” osserva il Rossi con amaro sdegno, “poco si curavano i grandi industriali, che, guardando esclusivamente al loro ‘particulare,’ vedevano crescere tanto più i guadagni quanto più agevolmente tro vavano uno sbocco ai loro prodotti, anche se, in definitiva, i loro prodotti erano pagati con i quattrini dei connazio nali. Il decreto 30 dicembre 1923, n. 3026, esentò dall’im posta di ricchezza mobile anche i redditi delle succursali e delle filiali all’estero delle società italiane, e perfino gli stipendi e gli assegni pagati da tali società agli impiegati e agli operai ad esse addetti.” Ai tanti privilegi benignamente concessi al “popolo grasso” - come lo chiama il Rossi -, con la scusa, avallata dall’autorità scienti!ica e oggettiva quale poteva essere quella di un Guarneri, di liberare le forze produttive na zionali da tutti gli impacci e da tutti gli ostacoli che, so prattutto nel primo dopoguerra, ne avevano impedito il libero sviluppo, doveva necessariamente corrispondere un aggravio del carico tributario sul “popolo minuto.” Tan to che, verso la fine del '25, alcuni commentatori dei fatti economici del regime, come un Gino Arias (su “Gerar chia”), nelle sue pur cosi caute rassegne, era costretto a riconoscere che buona parte - non poteva arrivare a dire tutta - della politica economica del governo fascista era sbagliata ed aveva condotto il paese in una strada senza 300
uscita: perciò, se fosse stato “possibile,” egli scriveva, “av vantaggiare un poco, per un certo periodo, quelli che han no avuto maggiori danni dall’alto costo della vita, senza esporre le attività produttrici a crisi violente, sarebbe [stato] un atto di buona politica e di giustizia distributi va”: si notino tutti quegli incisi “un poco,” “per un certo periodo,” e poi quella lunga espressione per indicare le classi lavoratrici e la piccola e media borghesia, che essen do, secondo la terminologia paretiana, un ceto di rentiers aveva molto sofferto dal processo inflazionistico. Per quan to riguardava le classi lavoratrici, qualche possibilità di difendersi la conservavano ancora - come abbiamo detto mediante lo sciopero, e nel marzo del '25 gli operai del settore più combattivo, il metallurgico, erano entrati in agitazione per rispondere alle ripetute diminuzioni di sala rio che avevano notevolmente peggiorato le loro condizio ni di vita. Nemmeno i sindacati fascisti erano stati in grado di resistere al malcontento salito impetuosamente dalla base ed erano stati costretti ad assecondare lo sciopero, destando, naturalmente, grande meraviglia negli industria li, i quali erano convinti che essi non sarebbero mai ri corsi a una simile arma di lotta. Immediatamente era scesa in campo anche la FIOM, che, come è noto, con servava sempre un notevole ascendente sui lavoratori, e questo aveva deciso i fascisti a ricercare un accordo per isolare i loro avversari e potersi presentare agli operai con un successo. Cosi, infatti, avvenne, ché gli industriali pro testarono si, ma si adattarono a “nuove concessioni,” scri veva “L’Industria lombarda,” “nel vivissimo desiderio di non aggravare la situazione già difficile e di non peg giorare la valutazione che all’estero si fa del nostro Paese. Il benessere degli italiani,” concludeva, quasi rinfacciando ai fascisti di averlo dimenticato, proprio loro che lo ave vano sempre proclamato, “non può essere disgiunto da quello dell’Italia.” “Battaglie sindacali,” l’organo della CGdL, il 12 marzo titolava la prima pagina su tutte le colonne: 200 mila metallurgici lombardi iti sciopero - Il movimento metallurgico si estende - La FIOM ha chiesto un riesame completo della situazione - Gli operai stiano disciplinati agli ordini della loro libera oganizzazione. Lo sciopero era partito da Brescia ed il Comitato regionale lombardo della FIOM faceva distribuire un manifesto agli operai ricordando che gli industriali si erano valsi della speciale situazione creata dal fascismo per annullare “ogni vostra conquista, frutto di tanti stenti e di tanti sacrifici. 301
Le ingiustizie e le sperequazioni createsi in seguito alla vio lazione e all’annullamento delle precedenti norme di la voro, non potranno essere colmate che con la stipulazione di un organico e regolare concordato.” A Brescia erano state sciolte le organizzazioni confederali e forse questo vi aveva favorito l’agitazione e lo sciopero, ma i dirigenti della FIOM si accorsero ben presto di trovarsi in una po sizione alquanto difficile, perché sulla destra erano, almeno in apparenza, scavalcati dal sindacato fascista, il quale, ap profittato del fatto che la FIOM stessa aveva respinto l’accordo del settembre '24 quale era stato preparato dagli imprenditori, sostenendo, in polemica, di volere “un con cordato generale,” l'abolizione delle “gravi sperequazioni nelle condizioni di lavoro di diverse località e di numerosi stabilimenti,” e di battersi, infine, perché i salari fossero “periodicamente riveduti in relazione alla fluttuazione del costo della vita”: era stato in questo periodo che, secondo “Battaglie sindacali,” l’on. Turati era arrivato “a procla mare che gli operai hanno il diritto di ficcare il naso nei registri degli industriali per controllare se i salari sono proporzionati ai profitti”: sia la FIOM, perciò, sia Fon. Turati riconoscevano implicitamente ed anche esplicitamente la posizione del tutto subalterna, di un certo controllo si ma di un controllo ai fini di un adeguamento salariale in base al costo della vita o in base ai profitti, della classe lavoratrice. Potè cosi assumere la direzione dello sciopero l'esponente del sindacato fascista, Rossoni, il quale dichia rò che i suoi camerati erano pronti a ricorrere a quest’arma di lotta quando gli industriali non dimostravano sufficienti disposizioni al collaborazionismo, mentre alti esponenti del regime, come Augusto Turati e Farinacci, avevano dato il lo ro consenso e promesso l’aiuto degli squadristi, come era av venuto nel precedente sciopero di Carrara. Ma, per il mo mento, “Battaglie sindacali” mostrava di non temere trop po questa concorrenza, e si augurava che “sul terreno eco nomico si risolva vantaggiosamente per gli operai che so no con noi, e, anche se oggi si trovano capeggiati dai fa scisti, non c’è che da constatare, ancora una volta, che le corporazioni (sia quando stanno ferme sia quando si muo vono) sono condannate a dimostrare la bontà dei nostri vecchi metodi sindacali.” Forse, più allarme destava nella FIOM la costituzione dei “Comitati d’agitazione,” “fioriti nelle fabbriche torinesi per iniziativa di [...] ignoti ope ranti nella sfera delle formazioni cellulari comuniste. I comunisti una ne fanno e un’altra ne pensano per creare 302
imbarazzi alle organizzazioni sindacali.” Infatti, secondo “Battaglie sindacali,” “questa dei ‘Comitati d’agitazione’ non è che la ripresa, sotto mutata denominazione, di quei famosi ‘Consigli di fabbrica’ promossi nell’immediato do poguerra dal gruppo comunista torinese facente capo al l’Ordine Nuovo.” E l’articolo di fondo del 12 marzo, dopo avere esaminato che cosa significava quella parola agita zione (i Comitati erano utili soltanto se potevano diven tare strumenti della politica del partito), esortava il sin dacalismo vero - quello socialista unitario - a “difendersi da questo pericolo che risorge. Se i 'Comitati d’agitazione’ si propagassero, non tarderebbero a prendere la mano alle organizzazioni responsabili, o, quanto meno, le farebbero trovare di fronte a molte situazioni forzate e compromes se.” Approvava, pertanto, il Consiglio direttivo della Fiom, sezione di Torino, che aveva sconfessato i “Comitati” e diffidato i propri soci dal farne parte in termini molto duri: “Ravvisando nel fatto denunciato l’inizio di eventuali scissioni nel campo sindacale, non tollera né riconosce Co mitati di agitazione costituiti ed operanti senza la preven tiva autorizzazione della Organizzazione e si riserva fin d’ora di prendere gli opportuni, necessari provvedimenti a carico di coloro che non si atterranno rigidamente alla di sciplina sindacale.” 1 Ma il secondo giorno, sempre sotto l’alta guida del Farinacci che, per l’occasione, aveva esautorato il Rossoni, le corporazioni si accordarono con gli industriali otte nendo un assegno speciale giornaliero di L. 2,20 invece di L. 1,20, quota che avrebbe dovuto essere modificata, a partire dal maggio, “in relazione alle variazioni del costo della vita.” Per tutte le altre richieste - si osservi la voluta genericità di questa espressione - dovevano essere deman date al presidente del consiglio. Cosi, anche la FIOM fu 1 D'altronde, l'atteggiamento dei dirigenti sindacali, in particolare di alcuni (D'Aragona, Rigola) non era stato né era molto edificante, anzi era stato incerto e, in fin dei conti, anche disposto ad una collaborazione con il fascismo, tecnica, si diceva, ma che sarebbe stata pur sempre una collaborazione: il segretario della stessa Confederazione, che era ap punto il D'Aragona, aveva avuto diversi colloqui con il duce per concre tare i termini di tale collaborazione. Tuttavia, la necessità di mantenere In vita la CGdL doveva spingere quei dirigenti a resistere e ad op porsi al tentativo del fascismo di instaurare, nel mondo del lavoro, un monopolio a favore delle corporazioni; se ciò si fosse verificato, le li bere organizzazioni del proletariato non avrebbero avuto più alcuna possibilità di continuare ad esistere. Ecco perché la presenza della Con federazione, sebbene i suoi dirigenti fossero propensi a cedere, rappre sentava una garanzia, per quanto contrastata, di libertà. 303
costretta a ordinare la cessazione dello sciopero in Lom bardia e in Piemonte, suscitando - scriveva, il 20 marzo, “Battaglie sindacali” - le reazioni degli “opposti estremi smi”: “Bell’affare, dicono i fascisti, ritornare al lavoro sen za aver mutato le condizioni del nostro concordato. - Tem po perduto, dicono i comunisti, se non si è riusciti ad ab battere il fascismo.” Ma era una massima-vangelo per i di rigenti socialisti unitari della CGdL, non “esaurire mai le energie proletarie, soprattutto non bisogna esaurirle quan do ci sono altre battaglie da combattere per la rivendica zione della libertà e dell’autonomia sindacale”: il che vole va dire rimandare ad un molto ipotetico futuro ciò che non si era stati capaci di fare subito. E il manifesto della FIOM e delle organizzazioni ad essa associate UldL, SNOM, e USI) ribadiva tale posizione: “Riprendete il lavoro col fer mo proposito di dare nuove energie alle vostre organizzazio ni per recuperarle a nuove battaglie. L'agitazione continua e continuerà.” Questa repentina fine dello sciopero susci tò una vivace polemica tra la FIOM e i fascisti: da parte del la prima si affermava che quello delle corporazioni era sta to puramente uno sciopero economico, mentre quello suo voleva essere uno sciopero politico, politico perché “i la voratori aderenti alla FIOM, aderenti alla Confederazione del lavoro, non intendono assolutamente di essere consi derati come minorenni o interdetti.” Per il periodico, se un significato avevano dimostrato di avere le due giornate, era stato quello di “rivendicare ai lavoratori confederali il diritto di trattare da sé i propri interessi.” Ma non tardarono molto le polemiche sul successo o sull'insuccesso dello sciopero, premendo a ciascuna delle due parti in contrasto - i confederali e i fascisti - far vede re che erano usciti vincitori. La FIOM, nel manifesto ricor dato poco sopra, mise in rilievo “il peso decisivo delle no stre forze” da essa portato, rigettando la responsabilità di un risultato, in ultima analisi, modesto, su chi, “pur go dendo della più ampia libertà, ha piegato a pressioni e convenienze d’ordine politico in ispregio degli interessi d’ordine economico e sindacale.” Ad ogni modo, conclu deva con un tono trionfalistico che mal nascondeva la realtà di una sconfitta che avrebbe potuto essere risoluti va per la continuazione delle lotte del lavoro in Italia, “di quel poco che vi è stato concesso, il merito è esclusivamente nostro.” A distanza di tempo, solo nel maggio, ri spondeva Mussolini con un articolo su “Gerarchia,” in cui, parlando di Fascismo e sindacalismo, citava “i grandi scio 304
peri metallurgici di Lombardia del marzo scorso” per di mostrare come si fosse trattato di “scioperi che documen tano resistenza di un ‘fatto’ e di una realtà imponente,” quale era dato dalla ormai constatata esistenza di un “sin dacalismo fascista,” dal quale “non si può prescindere.” Quegli scioperi avevano definito esattamente le posizioni di tale sindacalismo: “movimento collaborazionista [con gli imprenditori], ma senza esclusione pregiudiziale assoluta di lotta.” Certo, per la dottrina fascista, lo sciopero dove va essere “una eccezione” che avesse in sé i suoi obietti vi definiti, mentre i socialisti lo avevano concepito “co me un atto di ginnastica rivoluzionaria a fini remoti ed irraggiungibili.” Per quanto riguardava, in particolare, gli scioperi del marzo, il duce dichiarava la sua “vivissima soddisfazione” per l’“imponente sviluppo organizzativo del le corporazioni,” le quali avevano dimostrato luminosamen te, “a confusione di tutti gli avversari, che il sindacalismo fascista può contare su forze imponenti anche fra le mas se operaie urbane.” Una simile manifestazione gli doveva giungere ancor più gradita (ma si sarebbe dovuto vedere quanto di spontaneo c'era stato nella adesione delle masse la voratrici e quanto, invece, di imposto) perché l’anno pre cedente, in un discorso al Consiglio nazionale delle corporazioni, egli stesso era stato costretto ad osservare che la “situazione del sindacalismo fascista [era] soddisfacente nelle campagne,” ma non altrettanto lo era “la situazione di quella che si potrebbe chiamare la popolazione operaia urbana” (si noti, anche qui, la sottigliezza della perifrasi: “quella che si potrebbe chiamare,” quasi a celare, ad oc chi indiscreti, quanto soggiungeva subito dopo). Era in atto la ripresa industriale ed alcune industrie realizzava no “già degli utili abbastanza notevoli”: “E perché?” si chiedeva o fingeva di chiedersi “Perché la massa lavora di piu [...]. È certo che i datori di lavoro utilizzano lo sta to di pace sociale instaurato dal Governo fascista.”2 Per 2 “Battaglie sindacali” parlava, a proposito di questo discorso, di “ese quie del sindacalismo fascista,” ed osservava che, “per fare la collaborazione di classe, bisogna essere in due, ma ci sono datori di lavoro che non ne vogliono sapere; potrebbero migliorare le sorti dei loro operai e invece fanno perdere loro la pazienza. Ma i datori di lavoro non devono profittare dello stato attuale, instaurato dal fascismo, per soddisfare i loro egoismi. - Bella predica, ma niente altro che predica. I padroni non ne vogliono sapere. - Prima, assai prima che l’on. Mussolini scon giurasse i padroni in nome della patria, lo stesso invito era stato loro rivolto e ripetuto per secoli in nome di un ideale assai più alto e vasto che quello della Patria, in nome di Dio, in nome della carità cristiana, comminando le pene dell'inferno ai padroni egoisti e avari. - Tutto inu-
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tanto, il duce poteva affermare, “con piena cognizione di causa e con coscienza tranquilla, che gran parte delle in dustrie italiane non solo non [erano] forzate a peggiora re le sorti di coloro che [contribuivano] alla elevazione dell’industria, ma [erano] in condizioni di migliorarle.” “So lo cosi,” concludeva, “la collaborazione di classe diventa una cosa seria.” Ma come potevano guardare con simpa tia al regime i lavoratori urbani, che erano soggetti ad un molto più intenso sfruttamento, favorito dallo stesso re gime? Nei giorni in cui si teneva il convegno di palazzo Chigi, la “Gazzetta Ufficiale” pubblicava un decreto che consentiva una deroga alla legge sulle otto ore in tutte quel le occupazioni che richiedevano un lavoro discontinuo o di semplice attesa a custodia (deroga molto desiderata da gli industriali), e veniva reso noto che nello stabilimento della Società metallurgica di Livorno, fra gli esercizi 1921'22 e 1922-’23, gli operai erano scesi da 923 a 759 ma la pro duzione annua era salita da 5.602 a 6.292 tonnellate, con un aumento di circa il 30% sul prodotto medio per ope raio; inoltre, sempre in questo stabilimento, la paga me dia, nei giorni di effettivo lavoro, era stata, nel 1921-’22, di L. 31,20 di cui L. 6 per caroviveri e, nel 1922-’23, era sce sa a L. 26,48 di cui L. 2 per caroviveri. D’altronde, era sta to lo stesso presidente del consiglio a chiarire senza mez zi termini, di fronte alla Confederazione dell’industria, qua li erano gli intenti del suo governo: “la politica governa tiva continuerà nel suo indirizzo, diretto a considerare l’avvenire dell’industria intimamente collegato con l'av venire del Paese ed a vedere negli industriali coloro che danno il maggiore impulso allo sviluppo della produzio ne e della vita economica nazionale [...]. Essi possono es sere certi che il Governo nazionale terrà sempre nella massima considerazione i loro postulati.” E, proprio per te nere nella massima considerazione i postulati degli industria li, obbligava gli operai a dare il loro consenso alle presta zioni straordinarie con un compenso ridotto; ad accettare che nei nuovi contratti venissero introdotte “norme vantile. I padroni, anche nei secoli di fede, non hanno mai obbedito al Van gelo, per quanto riguarda i loro operai. - E l’on. Mussolini spera di riuscire in un'impresa che Gesù Cristo non ha potuto compiere in venti secoli? - Per indurre i padroni a concedere il concedibile c'è voluto la libera organizzazione operaia. Ogni qualvolta la forza di questa è stata compressa, i padroni ne hanno profittato, sempre. - Che è quanto avvie ne ora. ‘I datori di lavoro non debbono profittare dello stato attuale instaurato dal fascismo,' dice Mussolini. Benissimo; non debbono. Ma ne profittano. Cosa vuol farci?” (29 maggio '24). 306
tagglose all’industria, e modificate o abrogate molte di quelle che rappresentavano un ingiusto ostacolo,” cosi scriveva “L’Industria lombarda” agli inizi del ’24, sul con tratto di lavoro per l’industria del vetro, cristalli e specchi, “alla libera attività della direzione delle ditte e alla disci plina negli stabilimenti.” Tutto questo mentre, come ave va messo in rilievo lo stesso Mussolini, la produzione ave va ormai raggiunto e stava anche superando i limiti pre bellici (oltre che nell’energia elettrica, nella lana e nelle sete artificiali, nell’acciaio); una espansione, notava il Mortara, favorita dall’aumentato rendimento dei lavoratori e dalla riduzione delle mercedi che avevano diminuito i co sti “con sensibile vantaggio nella concorrenza internazio nale.” Il fatto era che era in corso un enorme trasferimen to di ricchezza - dovuto, in buona parte, pure all’intenso processo inflazionistico - dalle classi meno abbienti a quelle più agiate, dalle masse popolari alla grande bor ghesia. Un analogo trasferimento di ricchezze e di risorse av veniva nelle campagne: per dimostrare come la nuova si tuazione, creatasi con la vittoria delle camicie nere, si ri solvesse esclusivamente in vantaggio degli agrari e dei fittabili, vogliamo riportare, dopo quanto abbiamo già messo in rilievo, alcuni passi di un articolo (L’ingordigia agraria e la riscossa dei contadini) pubblicato da “L’Indi pendente” (supplemento a “La Plebe”) nel luglio '24: “I signori agricoltori devono essere molto grati al fascismo ed ai professionisti della delinquenza in esso annidatisi per servire con fedeltà ed onore i forzieri agrari! - Mercé l’opera assidua e persuasiva dei cavalieri del pugnale e del manganello, i nostri agricoltori hanno potuto liberamente affondare le mani rapaci nelle tasche smunte dei poveri contadini e spremerne fino all’inverosimile il misero conte nuto. Il modo con cui si sono trattati i contadini quest’an no è un vero atto di brigantaggio, una canagliata da sac comanni, degna solo dell’ora fulgida che attraversiamo nel bel paese d’Italia, ora più che mai rinnovellata [...]. La sfacciata improntitudine della classe agraria s’è manife stata quest’anno in tutta la sua vorace esosità, colla pro mulgazione del concordato (??!!) fatto in due minuti attra verso l'assemblea di pochi, ma buoni agricoltori, adunati nella sede della loro corporazione, senza l’ombra di ima di scussione purchessia colla rappresentanza dei lavoratori [...]. Altro che negare la lotta di classe! Qui è la bestialità più smaccata.” Perché? “Vediamo: nel cosiddetto concorda307
to di Quest'anno mancano tutti i principali capisaldi che for mavano fin qui la spina dorsale di ogni contratto di lavoro: commissioni paritetiche comunali, ufficio arbitrale circonda riale, imponibile di mano d’opera, penalità ai trasgressori, ecc. Inoltre, tutte le tariffe sono state ridotte: i limiti di età in rapporto alle tariffe orarie peggiorate vergogno samente; le paghe delle donne pei lavori straordinari, dal le medesime eseguibili colla stessa capacità e produttivi tà degli uomini (raccolta grani, risi, cereali, ecc.), ridotte a una vilissima quota che indica tutta la rapacità degli agrari, mentre fin da alcuni anni era ormai consacrato e riconosciuto che la mano d’opera femminile non poteva essere compensata, per questi lavori, in misura inferiore alla mano d’opera maschile. Le stesse tariffe dei lavori ordinari per le donne, già modestissime fin da prima, so no state ridotte ancora.” Ma non c’era una “ragione dimo strata e dimostrabile” che potesse giustificare tali furti ai danni della povera gente, proseguiva sempre più indi gnato “L'Indipendente”: non c’era, perché, “come tutti sanno, il costo della vita sale continuamente, e il tenore di vita dei lavoratori dei campi va ogni giorno diminuen do fino all’abiezione [...]. Per contro, invece, dobbiamo anche constatare che il prezzo dei prodotti agrari è sem pre in aumento, e in modo impressionante quello dei ri soni, che hanno raggiunto ultimamente le L. 130 per quin tale contro L. 100 dell’anno scorso.” Ma non era solo il proletariato a venir colpito da questa politica rabbiosa e selvaggia (che si può tentare di com prendere inquadrandola in una prospettiva più lunga e scorgendo in essa una reazione dei capitalisti - vecchi e nuovi, cioè di prima della guerra e di dopo - contro la paura in cui avevano dovuto vivere per quattro anni, dal ’19 al ’22, di una supposta, nelle loro menti malate e os sessionate, ascesa al potere della plebaglia, di quegli esseri considerati inferiori e indegni di assidersi al loro desco: cioè come una vendetta del capitalismo), perché la furia distrut trice del fascismo si abbatteva anche sulla piccola e media borghesia, sui piccoli coltivatori come sugli impiegati, sugli artigiani come sui piccoli produttori dell’industria, tutte categorie profondamente moderate e conservatrici, che ora, però, tendevano a distaccarsi dal fascismo al qua le pure avevano dato il loro appoggio. Infatti, per quanto riguardava gli impiegati privati, il governo emanava un decreto-legge il 13 novembre '24 relativo appunto al con tratto d’impiego privato, con il quale abrogava il decreto 308
luogotenenziale del 9 febbraio ’19: il commento che, su “L’E conomia d’Italia,” faceva a tale decreto-legge fa-ira (si na scondeva sotto questo pseudonimo, evidentemente per non essere riconosciuto), era cautamente critico, sebbene tra le righe si potesse intravedere il suo malcontento. Comin ciava con il lamentare l'apatia e l’assoluta inerzia degli impiegati che non si interessavano di ciò che li toccava co si da vicino e non avevano la forza di reagire alle “man chevolezze ed anche peggioramenti” che si notavano “in qualche parte del Decreto.” Eppure, avrebbero dovuto sve gliarsi e far sentire la loro voce prima dèlia discussione e della approvazione della Camera, che avrebbe tradotto in legge “quest’ultimo Decreto.” Infine, esortava l’impiegato ad essere “geloso delle locali disposizioni che lo favoriscono, poi ché esse sono il frutto delle proprie agitazioni di un decennio, mentre non deve ritener cosa vana perseverare nella lotta e tendere a sempre più migliorare le proprie condizioni: per il proprio benessere e della famiglia, nella diuturna lotta per la vita.” A proposito degli impiegati statali, e particolarmente della burocrazia, di cui il fascismo si vantava di aver attuato una sostanziale riforma, “Politica nuda,” periodico di po lemica nazionale, per la penna di lite ego (un altro pseu donimo), dimostrava, verso la fine del '25, come tale ri forma, “genialmente concepita, fu attuata non solo in mo do errato, ma financo contrario ai postulati del Governo fascista.” Questo perché non aveva affatto rispettato i due principi che avrebbero dovuto prevalere: quello del decen tramento e l’altro della sburocratizzazione e, di conseguen za, la riduzione degli uffici e la valorizzazione dei singoli uffici e la responsabilità diretta. Cosi, bastava “dare una scorsa ai vari provvedimenti susseguitisi in questi due an ni di governo fascista per convincersi come la burocrazia centrale abbia fatto di tutto per avvilire gli uffici periferi ci, per molestare il personale con punture continue al punto che, più volte, chi scrive, convinto fascista e non dell’ultima ora, ha dovuto ammettere, con una stretta al cuore, che certi provvedimenti non potevano spiegarsi se non con un animo deliberato di nuocere al governo ed a) programma fascista.” Si era assistito in quella che era passata come “riforma De Bellis (escludiamo di proposi to S. E. De Stefani),” - il De Bellis non poteva ritenersi uno degli ultimi collaboratori, ché, anzi era stato, in tal caso, 11 rappresentante politico delle direttive governative e mussoliniane (tutte tendenti a realizzare un sempre più rigi do centralismo), - ad una tenace opera della burocrazia cen309
trale preoccupata soltanto di svalutare il personale esecu tivo per impedire - scriveva, lui, Ille ego, pur fedele fasci sta ma che non poteva più nascondere il suo risentimento, che doveva essere comune a tutti gli impiegati più bassi nella gerarchia - l'infiltrazione di questo personale nei suoi ranghi. “E se è cosi,” si chiedeva il succitato Me ego, “non è questa la prova certa della esistenza, nella burocrazia, di ca ste chiuse, le quali necessariamente diventano potenti e talvolta superiori a qualsiasi Governo? Più volte è sta to detto che la vera riforma burocratica doveva consenti re l’ascensione delle categorie inferiori a quelle superiori mediante, beninteso, una rigorosa selezione e l'avvicenda mento del personale delle funzioni esecutive alle direttive rompendo, cosi, tradizioni ed interessi di casta e armoniz zando inoltre la dottrina con la pratica; e allora perché la riforma De Stefani e De Bellis ha sanzionato il princi pio delle carriere chiuse ed ha reso impossibile anche allo stesso Ministro di valersi deH’opera dei veramente migliori, indipendentemente dalla categoria di loro pertinenza? È onestamente giustificabile il fatto che un Ricevitore o un Ispettore del Demanio o un Agente delle Imposte, per quanto d’ingegno e coltura eccezionali, non possono assur gere ai posti direttivi? Evidentemente, nell'interesse del l’amministrazione; no.” Questa era la borghesia “degli uffizi,” piccola e media, che, come quella meridionale, doveva confessare la sua insoddisfazione e il suo malcontento verso il regime che non le aveva, in ultima analisi, dato tutti quei favori che essa si aspettava in cambio del suo leale e costante so stegno. Il do ut des non aveva funzionato sino in fondo, anzi, proprio nel momento in cui sperava di raccogliere i frutti della sua fedeltà, si vedeva dimenticata dal suo duce, che andava alla ricerca di altre alleanze. Cosi, di ventava pronta, da fascista della prima ora quale era, per 10 più, stata, a passare nelle file del dissidentismo estre mista e pseudo-rivoluzionario, pseudo-rivoluzionario per ché non aveva, neppure esso, un programma concreto di trasformazione della società e si limitava a rimpiangere 11 “diciannovismo,” un ritorno alle origini che rimarranno sempre un mito travolto dal fascismo giunto al governo. Ma si trattava veramente di un mito assurdo ed impossi bile da realizzarsi, perché ormai il fascismo si era intrec ciato con tanti e cosi corposi interessi e ne aveva respinto ai margini tanti altri, da far supporre che se si fosse veri ficato qualche mutamento, non sarebbe stato certo per 310
far passare il potere dalle mani di una tendenza fascista ad un’altra, bensì per un rivolgimento più completo. Il nuovo regime aveva, pertanto, almeno questo merito, di aver posto fin d’allora il problema della sua successione in termini radicali, problema, però, che veniva avvertito da alcuni (ma erano molto pochi, i giovani e risoluti op positori), per niente compreso da altri, e, infine, negato del tutto, come era naturale, dai fascisti, sia quelli di stret ta osservanza sia quelli dissidenti.
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Capitolo quattordicesimo
II fatalismo dei socialisti unitari (riformisti)
“La Difesa,” giornale della Federazione provinciale mi lanese dei lavoratori della terra, nel maggio '23, in un ar ticolo (Baruffe in famiglia), parlava della “poca concordia” che regnava nel campo fascista: “Il campo fascista è a rumore. Volano cazzotti e... calano manganelli. Inchieste, relazioni, sfide, duelli. Insomma un'ira di Dio! Ma questo è niente, in confronto di quello... che bolle in pentola. Da indiscreti, si sa, infatti, che regna poca concordia nel campo fascista. I fascisti della prima ora (quelli, per in tenderci, che hanno fatto la guerra ai nostri Sindacati e alle nostre Cooperative) non vedono di buon occhio l’afflui re al partito di molta gente che, durante la vigilia, stava alla finestra, sia pure incoraggiando gli squadristi a pic chiare sodo, sulle teste socialiste, assolutamente refrat tarie... alla nuovissima propaganda della grandezza nazio nale. I fascisti, diciamo 'puri,' sono dunque parecchio arrabbiati della piega che va prendendo il partito e, quando possono, strepitano liberamente contro gli intrusi che... vanno nel partito ad occupare i posti più onorifici e... remunerativi. - Questa dei posti è una questione grossa che, daH’indomani della marcia su Roma, tiene agitato il campo fascista. Infatti, leggendo i giornali fascisti, si ha la sensazione di vedere schiere di individui correre, af fannarsi, passare gli uni sul corpo degli altri, pure di arri vare ai primi posti. Accidenti che spettacolo! E pensare che soltanto pochi mesi or sono si rimproverava al nostro partito lo stesso difetto. Si vede che l’ambizione e la bra mosia degli uomini non cambia, militino essi sotto l’una piuttosto che sotto l’altra bandiera. - La stessa, anzi, mag giore, frenesia di arrivismo s’è scatenata fra l’esercito di coloro che credono di avere requisiti sufficienti per diven tare deputati. Per mesi e mesi hanno gridato abbasso il Parlamento, ma ognuno, per proprio conto... affila le armi 312
e si prepara al cimento elettorale. E si ha un bel gridare, ma la medaglietta esercita sempre grande forza di attra zione anche... fra gli iconoclasti del littorie. - Intanto, sic come gli aspiranti sono molti, troppi, e ognuno lavora per proprio conto, fregandosene delle gerarche e della disci plina, i più autorizzati giornali fascisti e gli stessi organi centrali del partito, denunciano lo sconcio e minacciano il finimondo contro i falsi fascisti, che piantano grane e congiurano per i posti [...]. 'Facciamo tutto per la patria e per la sua grandezza, dicevano [i fascisti]; ora gli stessi giornali scoprono che ci sono fra loro 'molti ambiziosi che, quando parlano, si riempiono la bocca col nome d'Italia, sventolano la bandiera tricolore, ma dietro quella bandiera si nasconde il loro egoismo da soddisfare. E allora che valore avevano le critiche di questi fascisti contro di noi? Aveva no questo valore: ‘Levati di li che ci voglio venir io.' - E che sia cosi lo conferma la deliberazione della Giunta del partito fascista, che ha deciso di espellere i due depu tati Misuri e Pighetti. Ma questo esempio non basterà a ricondurre la calma nei ranghi... della ufficialità fascista. Occorreranno altri tagli. E poi?... Basterà la disciplina imposta a tenere assieme gente venuta da opposte parti. Certo. L’interesse può molto, e oggi, col partito che gover na, molta gente spera... - Le delusioni verranno in seguito e le discordie si accentueranno. - Le rampogne, le sfide e le espulsioni possono essere segni precursori... se è vero che il tuono annuncia il temporale. - Vedremo. - Infatti, anche nelle istituzioni cooperative, ecc., passate a loro e nei Sin dacati fascisti, dove prima bastavano due impiegati con 700 e 1.000 lire al mese e chiamavano i socialisti succhioni, ora vi è magari il triplo di personale con lauti compensi, an che se la tecnica e la competenza consistono solo nel di chiararsi fascista.” È un articoletto tutto impegnato nel mettere in rilievo l’onestà e la serietà della precedente classe politica, l’arri vismo e il carrierismo della nuova fascista, che stava, pe rò, cercando di eliminare i “puri,” i “fascisti della prima o ra”; si vede molto bene e si capisce tutta la fretta che queste nuove schiere del regime ponevano in una lotta che avrebbe dovuto concludersi o con un loro ritrovato e con solidato potere oppure con una loro sconfitta, che avrebbe lasciato aperta la strada all’affermazione degli antichi fascisti che miravano ad occupare, loro, i posti migliori. E si scorgono anche le incertezze che condizionavano il du ce, il quale da un lato minacciava “il finimondo contro i 313
falsi fascisti,” dando, in apparenza, ragione ai paleo-fasci sti, ma, d’altro lato, espelleva i dissidenti Misuri e righet ti, dando, in tal modo, ragione ai nuovi fascisti bramosi e ambiziosi. Ma, soprattutto, si intravede molto bene la posizione di questi socialisti unitari, che guardavano sem pre la realtà con un atteggiamento di fatalistica rassegna zione, come se quella realtà stessa - una diversa oppure una che si richiamasse al passato prefascista - dovesse cadere dal cielo regalata da una divinità oscura e impe netrabile nei suoi voleri, e non dovesse essere, invece, una creazione della loro volontà attiva e duramente e sen za posa rivolta a combattere ciò che si riteneva con trario alle più elementari leggi del vivere civile: richiamo a quello che oggi è detto, con una espressione che quasi fa rabbrividire, Vinterventismo della cultura, e che noi pre feriremmo dire obbligo morale ed umano di ogni uomo po litico e dell’intellettuale, in qualsiasi campo quest'ultimo operi, scientifico-letterario-storico, ecc. Alcuni mesi dopo, il 13 ottobre, “La Difesa” ritornava sulle baruffe nel campo fascista con un altro breve artico lo: “La baruffa che tiene in discordia il campo fascista, non è limitata ad alcuni capi, come vogliono dare ad inten dere i giornali del partito che oggi tiene il potere. No. Se la crisi che ogni tanto travaglia il partito di Mussolini dipendesse dall'ambizione di qualche ‘ras’ che smania per diventare deputato o ministro, la malattia sarebbe cura bile (basterebbe allontanarli dal partito). Gli è invece che gran parte dei dirigenti (e lo confessano i pochi che non nutrono ambizioni) lavora [...] per crearsi la sua brava po sizione personale contro le direttive del partito. - A questo proposito abbiamo letto nei giorni scorsi degli scritti di fascisti (come Massimo Rocca [l’autore di Fascismo e fi nanza:], ed altri) che sono veri atti di accusa. Dicono, questi fascisti, in sostanza, che ci sono dei loro compagni che sono dei veri e propri tiranni, che ne hanno fatto e ne fanno di tutti i colori per mantenere il loro dominio e non andiamo a guardare il significato penale di parecchi perché ci verrebbe la pelle d’oca. - Noi non avevamo bi sogno che proprio dei fascisti venissero a dirci che molti dei loro capi agiscono in modo odioso. - Tutti i giorni ve niamo a conoscenza di fatti cosi terribili da far gridare vendetta. Però non possiamo che rallegrarci che anche nel campo avversario sorgano voci di protesta e di rampogna contro i delitti che ogni giorno vengono consumati da api e sottocapi fascisti, contro l’umanità, contro la civiltà. 314
Ma, come dicevamo in principio, la crisi che tiene in discor dia il campo fascista, non deriva soltanto dall’ambizione e dalle avidità dei capi fascisti locali. C’è dell’altro. C’è che manca assolutamente il consenso delle masse lavoratrici, sul la compattezza e sul consenso delle quali dovrebbe poggiare il fascismo. - I lavoratori non poterono fare a meno di aderire ai Sindacati fascisti. Per molti, il dilemma era que sto: o la tessera fascista o la disoccupazione, cioè la fame. Cosi i Sindacati si ingrossarono. Ma tutti sanno (e i capi fa scisti per primi) che lo spirito, l’animo di quei lavoratori è ancora e sempre con noi. Una prova di quanto diciamo l’ab biamo nella gioia (soffocata) che i lavoratori provano sen tendo che i fascisti attaccano briga fra loro [...]. La vera crisi fascista è la mancanza di consenso, ed il consenso non si ottiene né col manganello né col peggioramento dei sala ri ed orari.” E rispuntava, qui, fra le righe, il solito e tra dizionale fatalismo, un fatalismo a cui si ispirava tutta l’a zione di questa corrente socialista, un fatalismo che si po teva notare, più evidente, in un altro articoletto, in cui era detto: “Noi, ingiuriati, calunniati e bastonati, siamo sempre al nostro posto con la coscienza tranquilla ed a fronte alta, sicuri che la nostra modesta opera a difesa dei lavoratori rappresenta la civiltà, il progresso ed il bene della Nazione”; oppure nella ferma convinzione espressa da “La Plebe”: “Nessuno dei frutti raggiunti andrà per duto. Il cammino ascensionale riprenderà.” Nemmeno il delitto Matteotti valse a svegliare gli unitari dall’atteg giamento passivo che era loro connaturato e furono soltan to capaci di raccogliere “la deprecazione ed il compianto per l’orribile delitto” del proletariato e di notare con pia cere il desiderio, diffuso anche fra i contadini, di avere notizie più precise sull’assassinio: “Ho avuto modo di con statare,” si scriveva dal Corteleonese a “La Plebe,” “in diversi paesi che parecchi fra i migliori e coscienti conta dini inviarono appositamente a Pavia dei messaggeri per attingere notizie e per acquistare i giornali proletari che venivano poi letti avidamente e fatti circolare fra la mas sa.” Fatalismo e passività che sono molto evidenti an che nel maggiore rappresentante di questa tendenza, il Turati, il quale, nell’autunno del ’24 scriveva, sconfortato, alla sua Kuliscioff di sentire che “con il passare del tem po il nemico ripiglia fiato, e che l’episodio del povero Mat teotti ha ormai dato tutto ciò che poteva dare.” Ma era la stessa Kuliscioff, con la sua profonda percezione della real tà, che confessava ed analizzava acutamente, sebbene con 315
falsi fascisti,” dando, in apparenza, ragione ai paleo-fasci sti, ma, d’altro lato, espelleva i dissidenti Misuri e righet ti, dando, in tal modo, ragione ai nuovi fascisti bramosi e ambiziosi. Ma, soprattutto, si intravede molto bene la posizione di questi socialisti unitari, che guardavano sem pre la realtà con un atteggiamento di fatalistica rassegna zione, come se quella realtà stessa - una diversa oppure una che si richiamasse al passato prefascista - dovesse cadere dal cielo regalata da una divinità oscura e impe netrabile nei suoi voleri, e non dovesse essere, invece, una creazione della loro volontà attiva e duramente e sen za posa rivolta a combattere ciò che si riteneva con trario alle più elementari leggi del vivere civile: richiamo a quello che oggi è detto, con una espressione che quasi fa rabbrividire, l'interventismo della cultura, e che noi pre feriremmo dire obbligo morale ed umano di ogni uomo po litico e dell’intellettuale, in qualsiasi campo quest’ultimo operi, scientifico-letterario-storico, ecc. Alcuni mesi dopo, il 13 ottobre, “La Difesa” ritornava sulle baruffe nel campo fascista con un altro breve artico lo: “La baruffa che tiene in discordia il campo fascista, non è limitata ad alcuni capi, come vogliono dare ad inten dere i giornali del partito che oggi tiene il potere. No. Se la crisi che ogni tanto travaglia il partito di Mussolini dipendesse dall’ambizione di qualche ‘ras’ che smania per diventare deputato o ministro, la malattia sarebbe cura bile (basterebbe allontanarli dal partito). Gli è invece che gran parte dei dirigenti (e lo confessano i pochi che non nutrono ambizioni) lavora [...] per crearsi la sua brava po sizione personale contro le direttive del partito. - A questo proposito abbiamo letto nei giorni scorsi degli scritti di fascisti (come Massimo Rocca [l’autore di Fascismo e fi nanza:], ed altri) che sono veri atti di accusa. Dicono, questi fascisti, in sostanza, che ci sono dei loro compagni che sono dei veri e propri tiranni, che ne hanno fatto e ne fanno di tutti i colori per mantenere il loro dominio e non andiamo a guardare il significato penale di parecchi perché ci verrebbe la pelle d’oca. - Noi non avevamo bi sogno che proprio dei fascisti venissero a dirci che molti dei loro capi agiscono in modo odioso. - Tutti i giorni ve niamo a conoscenza di fatti cosi terribili da far gridare vendetta. Però non possiamo che rallegrarci che anche nel campo avversario sorgano voci di protesta e di rampogna contro i delitti che ogni giorno vengono consumati da api e sottocapi fascisti, contro l’umanità, contro la civiltà. -
Ma, come dicevamo in principio, la crisi che tiene in discor dia il campo fascista, non deriva soltanto dall’ambizione e dalle avidità dei capi fascisti locali. C’è dell'altro. C’è che manca assolutamente il consenso delle masse lavoratrici, sul la compattezza e sul consenso delle quali dovrebbe poggiare il fascismo. - I lavoratori non poterono fare a meno di aderire ai Sindacati fascisti. Per molti, il dilemma era que sto: o la tessera fascista o la disoccupazione, cioè la fame. Cosi i Sindacati si ingrossarono. Ma tutti sanno (e i capi fa scisti per primi) che lo spirito, l'animo di quei lavoratori è ancora e sempre con noi. Una prova di quanto diciamo l’ab biamo nella gioia (soffocata) che i lavoratori provano sen tendo che i fascisti attaccano briga fra loro [...]. La vera crisi fascista è la mancanza di consenso, ed il consenso non si ottiene né col manganello né col peggioramento dei sala ri ed orari.” E rispuntava, qui, fra le righe, il solito e tra dizionale fatalismo, un fatalismo a cui si ispirava tutta l'a zione di questa corrente socialista, un fatalismo che si po teva notare, più evidente, in un altro articoletto, in cui era detto: “Noi, ingiuriati, calunniati e bastonati, siamo sempre al nostro posto con la coscienza tranquilla ed a fronte alta, sicuri che la nostra modesta opera a difesa dei lavoratori rappresenta la civiltà, il progresso ed il bene della Nazione”; oppure nella ferma convinzione espressa da “La Plebe”: “Nessuno dei frutti raggiunti andrà per duto. Il cammino ascensionale riprenderà.” Nemmeno il delitto Matteotti valse a svegliare gli unitari dall’atteg giamento passivo che era loro connaturato e furono soltan to capaci di raccogliere “la deprecazione ed il compianto per l’orribile delitto” del proletariato e di notare con pia cere il desiderio, diffuso anche fra i contadini, di avere notizie più precise sull’assassinio: “Ho avuto modo di con statare,” si scriveva dal Corteleonese a “La Plebe,” “in diversi paesi che parecchi fra i migliori e coscienti conta dini inviarono appositamente a Pavia dei messaggeri per attingere notizie e per acquistare i giornali proletari che venivano poi letti avidamente e fatti circolare fra la mas sa.” Fatalismo e passività che sono molto evidenti an che nel maggiore rappresentante di questa tendenza, il Turati, il quale, nell’autunno del ’24 scriveva, sconfortato, alla sua Kuliscioff di sentire che “con il passare del tem po il nemico ripiglia fiato, e che l'episodio del povero Mat teotti ha ormai dato tutto ciò che poteva dare.” Ma era la stessa Kuliscioff, con la sua profonda percezione della real tà, che confessava ed analizzava acutamente, sebbene con 315
una certa parzialità, le cause di una tale inerzia: “Si ac cusa il re, si accusano le opposizioni, si accusano i par titi e l’autorità giudiziaria perché non salvano il Paese dal disastro. Purtroppo, non c’è che un coefficiente che manca, e l’essenziale: ed è la mancanza del popolo, che non sente e non si commuove per ragioni idealistiche.” E pochi giorni dopo, esprimeva una timida e segreta spe ranza: “Se il Paese, se la gioventù, i ceti non organizzati e non organizzabili, facessero sentire la loro voce, forse le speranze potrebbero diventare più rosee e fiduciose.” Ebbene, era proprio questo collegamento che mancava quasi del tutto agli unitari (come pure ai massimalisti, fi gli di una stessa età storica), ed il pessimismo della Kuliscioff sul popolo “che non si commuove per ragioni idea listiche” non aveva alcun significato perché ella avrebbe dovuto confessare che un intervento attivo del popolo nel la vita politica del paese non era mai stato preso in con siderazione dai suoi compagni, tutti e soltanto impegnati nello sforzo di dare al proletariato organismi di difesa e di tutela, politici e quasi prettamente parlamentari, ma non di partecipazione. Tanto che la stessa Kuliscioff ac cennava all'augurio che facessero sentire la loro voce “il Paese [non meglio specificato], la gioventù e i ceti non organizzati e non organizzabili,” cioè tutti quegli strati nei quali non era penetrata la propaganda dei socialisti, anche perché essi si erano rivolti in particolare ai ceti organizzati e organizzabili, cioè il proletariato industria le, che era, secondo la dottrina classica di Marx, la vera ed unica classe rivoluzionaria, o almeno quella su cui un partito socialista avrebbe dovuto soprattutto con tare; la conseguenza, molto grave, era che i contadini, la gioventù e i ceti non organizzati e non organizzabili - ad esempio, i disoccupati -, non rientravano nella prospettiva marxiana, la quale, pertanto, non era in grado di affron tare, con una adeguata base teorica e con una visione chiara e organica delle alleanze necessarie agli operai, le fasi di crisi, fosse questa provocata da processi deflazio nistici o da processi inflazionistici.
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Capitolo quindicesimo
Incertezze dei socialisti unitari e contrasti con i massimalisti. Il problema dei piccoli proprietari
Ben poche speranze però, potevano nutrire le correnti antifasciste in un loro trionfo pacifico e spontaneo per un cedimento improvviso del regime, se vedevano, nelle zone agricole, come la Lomellina, i fascisti chinare il ca po, ubbidienti, di fronte alla tracotanza degli agrari e dei fittabili, che apertamente si ribellavano al patto fatto loro firmare dagli esponenti di quello che il Rossoni aveva cominciato a definire “sindacalismo integrale,” che non era, poi, che quello fascista, che sarebbe sfociato, di li a poco, nelle corporazioni. Ogni tanto, qualche settimanale fascista sembrava risvegliarsi ed allora denunciava, facen dosi forte di ciò che aveva detto il duce sul presunto ob bligo che avrebbero avuto i datori di lavoro di non appro fittare troppo della pace sociale instaurata dal regime, agrari e fittabili additandoli per nome al pubblico disprez zo: ad esempio, nell’ottobre del ’23, “Il Risveglio,” foglio fascista di Mortara, segnalava ai suoi lettori i signori agra ri di Confienza, De Giorgi di Nicorvo ed il fittabile della Cascina Torre (Robbio), definendoli i peggiori, fra gli agricoltori lomellinesi, perché “ostili alle organizzazioni sindacali e noncuranti dei concordati. Violatori,” aggiun geva, “da tempo e ripetutamente in vario modo, ma sem pre gravemente, dei patti di lavoro, non oggi intendono munirsi di regolare contratto. Questi signori, per igno ranza crassa e per un protervo idiotissimo senso di indivi dualismo, ostentano dispregio per ogni disciplina sindaca le. Essi credono di poter impunemente far i loro comodacci, sollevando ondate di esasperazioni da parte dei la voratori, i quali, rigidi nel compiere, verso i datori di la voro, i propri doveri, esigono con santa ragione che, a lor volta, i datori di lavoro adempiano scrupolosamente, ver so i lavoratori, agli obblighi fissati nei patti di lavoro adot tati in tutta la Lomellina e prescritti da chiare delibera 317
zioni prefettizie. Abbiamo denunciato all’autorità i tre agricoltori indicati; pubblicheremo il nome e dcnunceremo del pari alle autorità gli agricoltori che vorranno imi tare i tre. Occorre tener ben presente che il ritorno alla legalità non significa garanzia di ‘immunità’ per i prepo tenti, e che in tutti i tempi, nonostante la ’legalità,' fra gli ingiustamente lesi nei propri diritti, c’è stato sempre qual cuno che ha saputo farsi sentire.” “La Plebe” rispondeva quasi subito facendo altri nomi di agrari e di fittabili che, di quello stampo, erano legione e che, pur con i nuovi con cordati che il fascismo aveva concluso in fretta concedendo loro “libertà di collocamento e di pagamento quasi identi che a quelle di venti anni fa,” si dimostravano “ugualmente incontentabili” rivelando “una ‘forma mentis’ che è tra i fattori che rendono inevitabile [...] la lotta di classe.” Il fatto era, concludeva l'organo della Federazione unitaria di Pavia, che essi sentivano “che il fascismo è ancora trop po agrario per fare sul serio; sanno benissimo che il sinda calismo fascista, che nega la lotta di classe, vale a dire l’evidenza, non può essere pericoloso per loro; e non si sgomentano delle sparate a polvere di qualche irriducibi le mentalità bolscevica passata al fascismo per istinto di conservazione.” Anche “La Difesa,” in merito al concordato agricolo per l’Alto Milanese, osservava, nell’aprile del '23, che la Federazione dei lavoratori della terra aveva firmato si il patto, ma dichiarando “che si trattava di un passo indie tro in quanto si è dovuto cedere molto ai proprietari.” Ep pure, malgrado ciò, l’Associazione dei proprietari non aveva sanzionato l’accordo ed aveva sconfessato i loro rappresentanti che avevano discusso e firmato il concor dato. Si era distinto, fra essi, “il ben noto reazionario prof, e commendatore Colombo, proprietario di Sedriano,” che aveva preso posizione contro il “più elementare spi rito di conciliazione e di pace a cui si ispirava il concorda to,” che, peraltro, era stato firmato dai rappresentanti degli agrari, “dal duce della provincia per i fascisti, ora comm. avv. C. M. Maggi” e dai rappresentanti delle orga nizzazioni dei contadini bianchi e rossi. Già in precedenza, l’on. Bellotti, segretario delle Federazioni della terra, ave va inviato al ministro dell’Agricoltura una interrogazione, sebbene sapesse che non avrebbe sortito nessun effetto con creto, perché, se i proprietari tiravano straordinariamente il can per l’aia, questo era dovuto al fatto che si sentivano pro tetti dallo stesso ministro, “che, essendo anch’egli un pro 318
prietario, non si preoccupa minimamente del sordo mal contento dei poveri lavoratori.” Verso la metà del '24, la situazione non era affatto mutata, e lo stesso Bellotti, in tervenendo ad una imponente assemblea dei contadini, de nunciava, come riferivano “Battaglie sindacali,” “le inadem pienze da parte dei proprietari,” che si ripetevano “con una frequenza impressionante. E i Sindacati fascisti non fanno nulla per esigere il rispetto dei concordati da loro stipulati e sottoscritti. Fece rilevare come i fittavoli, oggi, si trovino a mal partito a cagione dell’esodo della mano d’opera agri cola, che viene ad impiegarsi nei lavori edilizi della città. Ciò è conseguenza dei licenziamenti avvenuti, nell’ultimo S. Martino [11 novembre del ’23], di molte famiglie obbli gate col pretesto di assumere personale più idoneo, mentre, in effetti, non miravano che ad eludere le condizioni con trattuali ed a creare il mezzo per aumentare il canone di affitto per locali di abitazione. Credevano, infatti, i proprie tari, col licenziamento degli obbligati, di creare una riserva di avventizi, ma questi, che hanno capito il giuoco, vengono in città a lavorare mentre la terra esige braccia che la fecondi.” Senza dubbio, la Federazione della terra doveva dibat tersi tra difficoltà di ogni genere, e la zona che più desta va preoccupazioni nei suoi dirigenti era quella dell’Alto Milanese, i cui contadini erano rimproverati da “La Di fesa,” ripetutamente, di “avere ripudiato, con grande gioia dei proprietari, il concordato del 1920, che fissava il con tratto novennale ed il diritto dei contadini al rimborso delle spese fatte pel miglioramento dei fondi, oltre alle altre garanzie del contratto.” Ma quei contadini trovavano relativamente facile recarsi nella non lontana grande città - ad ogni modo, molto più dei contadini della Lomellina -, oppure supplire al mancato lavoro nei campi con il la voro nelle numerose fabbriche tessili, alle quali gli accor di del governo con alcuni paesi balcanici avevano consentito di incrementare in misura notevole le esportazioni.1 La Fe’Infatti, la produzione dei filati era ascesa a circa 1.740 migliaia di quintali nella campagna cotoniera 1923-'24 ed a circa 1.850 in quella 1924-25, cifre superiori di circa 100 mila quintali alla media delle cam pagne cotoniere 1911-12 e 1912-13. Per i tessuti ed altri manufatti di cotone, accanto ad una produzione che era passata da 181.956 migliaia di quintali nel 1910 a 164.410 nel '23, a 173.270 nel '24 ed a 198.530 nel '25, si aveva un consumo interno di circa 1.110 migliaia di quintali, consumo che corrispondeva a 2,80 chilogrammi per abitante, in confronto a chi logrammi 3,50, che era stata la media del quinquennio 1909-1913. Era evidente, dunque, che l'esportazione aveva supplito, in buona parte, al 319
derterra, inoltre, era nella alquanto strana situazione di sostenere e di difendere il patto firmato dai fascisti, per ché gli agrari cercavano insistentemente di sottrarsi ad esso, di negargli validità e di ripudiarlo. Oppure i proprie tari ricorrevano ad un’arma più sottile, che consisteva nell’avanzare la richiesta di riesumare l’arbitrato obbligatorio, che aveva sempre rappresentato, per loro, “la tirannia codificata contro cui si scagliarono le pietre delle loro argo mentazioni... in nome della dea libertà.” “La Difesa” cosi commentava questa, in apparenza, assurda richiesta: “Ma sapete che i dirigenti della Confederazione generale dell’a gricoltura sono, come si dice, dei bei tipi? Quando il fasci smo era appena nato e si esercitava col manganello, gli agra ri gli furono larghi di aiuti e di incoraggiamenti. Fra fascisti ed agrari per molti mesi si è filato il più perfetto amore... in odio al socialismo. Ora le cose incominciano a cambia re. I due amanti si fanno dei dispettucci. Il fascista giura... che finirà per rompere la testa all’Agraria se questa non si decide a passare completamente sotto le sue tende. L’A graria s’impunta, strilla, vuole la sua libertà e per farla al diminuito consumo interno, dovuto soprattutto al peggioramento del te nore di vita, tanto che nel biennio '23-74 si erano avute esportazioni per circa 6 miliardi di lire (passando, per i tessuti, a 517 migliaia di quin tali nel 74 ed a 642 nel 75 da 341 nel 1910 e 428 nel 1911). Il Mortara afferma che “l’esportazione dei filati è diretta per la massima parte a paesi della penisola balcanica e del Levante [...], e solo in modesta propor zione a paesi industrialmente progrediti.” Altrettanto avveniva per i tessuti che trovavano i principali sbocchi nei Balcani e nel Levante, che assorbivano i tre quinti delle nostre esportazioni in tale settore (in Romania anda vano, nel 74-75, filati per 15,9 migliaia di quintali contro i 9,2 nel 1913; in Bulgaria 24,1 contro 4,9; in Jugoslavia 15,3; manca il dato per il 1913, mentre i tessuti avevano subito il seguente andamento; verso la Grecia da 12,3 nel 1913 a 23,5 nel 73-74 ed a 38,5 nel 74-75; verso la Romania da 9,1 a 35,1 e a 35,4; verso la Bulgaria da 4,2 a 17,9 e a 10,8; verso la Jugoslavia - anche qui manca il dato per il 1913 - da 53,1 a 43,3 rispettivamente nel 73-74 e nel 74-75). Cosi, il Mortara poteva scri vere che “la Jugoslavia, la Grecia, la Bulgaria, la Romania assorbono grandi quantità di tessuti italiani" e se la Turchia non aveva registrato un simile aumento, ciò era dovuto al fatto che aveva subito diminuzioni territoriali con il trattato di Sèvres. Era diminuita l’esportazione verso l'Eritrea, dove eravamo battuti dalla concorrenza dell'industria asiatica, ma ci eravamo rafforzati sui mercati delle Indie olandesi, dell’Egitto e dell'Argentina: il che destava allarmi sulla stampa inglese, perché la Gran Bretagna era abituata ad un quasi secolare predominio sui mercati mondiali per quanto riguardava i tessili. Ma il Mortara tendeva a smi nuire la minaccia italiana, affermando che era stata “esageratamente ap prezzata la capacità di concorrenza dell'industria italiana.” Come si vede, anche in questo campo, n ih il s u b s o le n o v i, dato che sembra essere quasi una legge naturale che il paese che ha conquistato un mercato, non si adatti tanto facilmente a perderlo e lo difenda con le unghie e con i denti, sforzandosi di allontanarne ogni pericoloso concorrente. 320
fascista propone... l’arbitrato obbligatorio. Ecco. Noi sti miamo gli agrari... capaci di tutto, ma non avremmo mai pensato che arrivassero, loro!, a proporre l’arbitrato ob bligatorio [...]. Ma le cose, vedrete, si accomoderanno,” era la giusta convinzione del giornale. “Non è possibile che i due dimentichino i servigi che graziosamente si sono scambiati. Torneranno a... collaborare per il (si dice cosi) superiore interesse nazionale.” I proprietari tentavano pu re di liberarsi dall’abbraccio fascista che minacciava di sof focarli, strillando maledettamente e rivendicando la liber tà di fare da sé di fronte allo sforzo dei dirigenti fascisti di “unire in un solo calderone sindacale padroni e lavora tori per... esercitare con profitto la loro funzione di arbi tri.” In questo atteggiamento contrario alle imposizioni delle camicie nere, gli agrari avevano l’intero e convinto appoggio dei fittabili, che, dopo avere ottenuto la libertà di assunzione della mano d’opera, che era stata coartata e impedita dalle organizzazioni rosse, mediante l’abolizio ne delle Commissioni di avviamento al lavoro e degli Uf fici di collocamento, pochi mesi più tardi erano stati costretti ad assistere alla ricostituzione di quegli organismi cosi invisi da parte degli stessi fascisti, i quali si preoccupavano di non essere del tutto abbandonati dai braccianti. Pertanto, il grido “Viva il fascio” era rimasto loro in gola. Ecco per ché l'alleanza agrari-fittabili si ricreava di continuo nel la solidarietà degli interessi, tanto più che, in definitiva, il leone fascista si dimostrava un leone di carta. Nel di scorso del Bellotti, di cui abbiamo riportato il breve rias sunto di “Battaglie sindacali,” sembrerebbe, invece, che i fittabili potessero assumere ima posizione diversa da quel la dei proprietari, perché colpiti dal forte esodo della ma nodopera, ma si trattava di un dissidio che rapidamente si ricomponeva. Dubitiamo, perciò, che la prospettiva indi cata al movimento contadino da G. Di Vittorio, in un arti colo su “L’Unità” del settembre '24, in cui accennava alla istituzione di una Associazione dei contadini in difesa dei mezzadri e dei piccoli fittavoli meridionali, potesse realiz zarsi anche nel settentrione: scriveva, infatti, il Di Vittorio: “La nostra obiettiva esposizione dimostra chiaramente come, mentre i contadini si vedono annullato il cinquanta per cento delle loro sudate fatiche, i proprietari realizza no utili altissimi. Questa grave, insopportabile ingiustizia, che fa ripercuotere unicamente sui lavoratori gli effetti disastrosi della crisi, riducendoli alla fame, comprova il carattere brigantesco dei patti di mezzadria e di piccola 321
fittanza che sono stati imposti ai contadini, approfittando largamente della disoccupazione cronica che li colpiva e della mancanza di una grande, forte organizzazione di con tadini, che avesse la forza di porre fine alla sconfinata in gordigia dei grandi terrieri! - In tali condizioni la istituen da Associazione di difesa fra i contadini del Mezzogiorno ingaggia senza esitazioni la lotta in difesa dei più vitali in teressi dei mezzadri, dei fittavoli e dei piccoli proprietari (pur essi danneggiati, se pure in misura minore), e dei con tadini in genere.” I termini della lotta politica e sociale, pertanto, nel passaggio dal sud al nord, si modificavano nella pratica impossibilità di opporre al fascismo una larga alleanza di classi e di categorie che avevano interessi divergenti, co me quella che auspicava il Di Vittorio (e che, seppure in misura minore, era forse impossibile anche nel Mezzogior no, dove, probabilmente, i fittabili non erano esponenti di una borghesia agiata che aveva investito i suoi capitali nella terra, ma rimanevano pur sempre separati dai con tadini da tutta una impalcatura ideologica che non avrebbe mai consentito loro di abbassarsi al livello di una classe con siderata inferiore), e tutt’al più si sarebbe potuto giungere ad una più ristretta intesa fra i contadini e i piccoli pro prietari (se questi ultimi, però, avessero rinunciato, alme no in parte, a un atteggiamento sempre e duramente anti-contadino) in contrasto con il blocco avverso, formato da fascisti-agrari-fittabili. Poteva sembrare, questa allean za fra contadini e piccoli proprietari, una speranza non del tutto immotivata, perché “le tabelle per la nuova tassa di ricchezza mobile” - scriveva nel maggio del '23 “La Plebe” ricadevano soprattutto sui piccoli proprietari e sui mezza dri (abbiamo già riportato tutto il passo). Da tutti i parti colari riferiti dal periodico, si poteva vedere che il fascismo al potere era riuscito nell’intento, che era già stato di tutti i governi precedenti dall’unità in poi, di far pagare le tasse - “la ricchezza mobile, o l’esercizio, o il focatico, o il bestia me, o l’anticristo!” - non solo ai contadini, ai salariati, ai braccianti, agli avventizi, agli obbligati, alle mondine che aderivano tutti alla socialista unitaria Federazione della terra, ma anche ai piccoli proprietari che lavoravano e ai mezzadri, senza nemmeno porsi il problema di farle pagare ai “grossi.” Dovevano, pertanto, pensare, questi socialisti unitari, che non fosse molto lontano il giorno in cui sarebbe diven tato inevitabile un accordo dei contadini con i piccoli pro322
prietari, che, una volta - ricordava “La Plebe” - avevano mandato i loro figli a distruggere le cooperative, con il mi raggio di una “Italia nuova, piena di libertà e senza tasse,” e si ritrovavano, invece, addosso la tassa sul vino che rima neva, a cui si era aggiunta “quella sui redditi agrari e le minacce di proibire quasi la vendita dei nostri prodotti,” rovinando “quasi completamente la nostra agricoltura!” A questa breve corrispondenza da Broni, il giornale aggiun geva un commento, in cui ribadiva “quel che abbiamo detto le cento volte. I piccoli proprietari sono lavoratori, e possono star bene solo quando sta bene il lavoro. -Essi hanno credu to, perché ebbero alcune annate favorevoli, di seguire la causa dei grossi capitalisti; pagano ora per questi e vanno a male col lavoro che è oppresso.” La stessa cosa avveni va con i piccoli esercenti, che cominciavano a non essere contenti del nuovo radioso ordine di cose. Erano tutti pic cola gente che aveva ritenuto, facendo distruggere qualche cooperativa, di diventare grandi; ma avevano sbagliato i loro calcoli, perché “chi dava loro da vivere era, e dovrebbe ancora essere, la piccola gente: schiacciata questa, col loro aiuto, rimasero bene in piedi solo i magnati, ed il piccolo commercio langue, ed è gravato di tasse.” “È inutile,” con cludeva “La Plebe,” “i piccoli devono sempre unirsi coi pic coli ed aiutarsi a vicenda.” Sul problema dei piccoli e dei ceti medii si apri ben presto una polemica fra gli unitari ed i socialisti massi malisti, che avevano espulso i primi dal vecchio partito in cui avevano vissuto uniti, all’inizio del ’22, nella speran za che, collaborando con la classe dirigente liberale, po tessero evitare la vittoria del fascismo; essi avevano co me loro organo l’antico “Avanti!” Fra il settembre e l’ot tobre del '23, C. Treves, in un articolo sulla “Critica so ciale,” credeva di poter vedere, nelle ormai annunciate nuove elezioni, dipanarsi “un processo inesorabile di sele zione e di trasformazione” nel fascismo: questo perché lo Stato mostrava la tendenza a ricuperare “la sua signoria, riscattandosi dalla limitazione particolaristica del partito. E del partito l’elemento-massa si porrà alla deriva della massa della concentrazione, e l’elemento-individualità si troverà davanti alle ipotesi più estreme, non escluden do, per quelli che al fascismo hanno portato generose illusioni di emancipazione dalle vecchie signorie parlamen tari-plutocratiche, il loro passaggio all’opposizione sovver siva.” Ma era a questo punto che l'analisi del Treves diven tava forse un po’ troppo semplicistica ed anche alquanto 323
superficiale, poiché, partendo dalla crisi che trapelava aper tamente dalle file delle camicie nere, giungeva ad afferma re, con il solito fatalismo della sua corrente, che l’esito della lotta era “segnato dalla necessità delle cose, superiore alla volontà degli uomini.” A noi questa “necessità delle co se,” che avrebbe dovuto travalicare la “volontà degli uomi ni,” può far sorridere, come, allora, destava una critica aspra e serrata da parte della nuova generazione; ma, evi dentemente, si trattava, per gli unitari (e in buona parte anche per i massimalisti) di una radicata visione della vita e degli eventi umani a cui non avrebbero potuto rinunciare senza vedersi crollare addosso il castello che vi avevano costruito sopra. Infatti, per il Treves, il passaggio dei fasci sti alla opposizione era facile: “Molti dei ceti medii, quasi tutti i combattenti, molti fascisti si sentiranno soffocare nelle angustie di una concentrazione clerico-finanziaria, in trepida a spogliare lo Stato dei suoi servizi, a chiudere le scuole pubbliche, a scaricare di tasse i ricchi per caricarne i poveri... Allora molti diranno tra sé e sé: ‘Ah! non per que sto!...’” Tuttavia, lo stesso Treves non si faceva molte illu sioni sul post-fascismo e diceva che, se era lecito rallegrarsi del corso che stavano prendendo le cose, non era possibile “illudersi che la normalità costituzionale, che seguirà im mediatamente, sia per essere un eliso di gioie per le classi lavoratrici.” “La Plebe” prendeva lo spunto da questo arti colo per indicare quale, a suo parere, avrebbe dovuto essere il dovere degli unitari qualora si fosse voluto evitare che, un atteggiamento inerte da parte loro, agevolasse l’instau razione di una “concentrazione plutocratica,” da cui sarebbe scaturita si la legalità invocata ma anche l’asservimento economico e politico del proletariato. L’organo pavese par lava già di ricostruzione di tutto ciò che era stato di strutto prima dalla guerra e poi dalla reazione, una rico struzione in cui le classi lavoratrici avrebbero dovuto in contrare l’aiuto della borghesia democratica: “Ma come a questa opera ricostruttrice non soltanto il proletariato è interessato, bensì ancora quella parte della borghesia che nella ripresa economica, nello sviluppo e nel perfezionamen to della produzione, e quindi nella pace e nella libertà, tro va la sua ragione di vita; cosi la ‘ricostruzione’ non potrà essere compiuta se non dalla forza del proletariato e della borghesia democratica coalizzate. Quest’ultima, oggi, in Ita lia, è titubante, disorganizzata, disorientata. Qua e là qual che tentativo timido di riscossa si affaccia e sembra affer marsi. Di fronte a tali tentativi il nostro Partito non deve 324
rimanere inerte. Ecco il suo compito: contro la concentra zione plutocratica che si avanza, esso deve suscitare la concentrazione socialista democratica.” Proprio su questo compito e su queste linee direttive si svolse la polemica con i massimalisti (che erano l’obiet tivo da colpire più immediato per gli unitari) e, indiretta mente, con i comunisti. I “cugini massimalisti” - cosi li de finiva “La Plebe,” ai primi dell’aprile ’24, quando si era in piena campagna elettorale - avevano diffuso tra gli operai e nelle campagne un “opuscoletto polemico di propaganda elettorale,” nel quale si poteva leggere, come abbiamo già visto, uno spunto contro “i cosidetti socialisti unitari,” i quali presentavano “un simbolo attraente, su cui c’è scrit to ancora la parola Socialismo. Che cosa sono i ceti medi?” s? domandava “La Plebe,” scavando sempre più il dissi dio con i cugini (anche questo passo lo abbiamo riportato, ma ci sembra opportuno riprenderlo adesso). “Sono, all’ingrosso, i piccoli proprietari ed i ceti intellettuali. Orbene, la molta parte della nostra provincia, nell’Oltrepò, nel Corteolonese, nel Bobbiese, il Partito socialista trovò sempre cospicue forze precisamente nei piccoli proprietari, i quali, in definitiva, sono degli sfruttati come, e talvolta più dei proletari veri e proprii. Per questi piccoli proprietari il so cialismo sarà liberazione non meno che per i braccianti e per gli operai. E noi dovremmo abbandonarli a se stessi, agli inganni del partito popolare e del fascismo, renderli ne mici del proletariato per una male intesa purità di classe? Noi dovremmo respingere dalle nostre file i ceti intellettuali come se il socialismo interessasse soltanto i fabbri ed i contadini?” Era proprio questo, senza dubbio, il punto di maggior dissenso fra gli unitari e i massimalisti, i quali perseguiva no un programa di assoluta intransigenza nei riguardi di tut te le frazioni della borghesia, ritenendo che essa operasse sempre, sotto qualsiasi tinta, a danno del proletariato, pur non negando che, quando si muoveva su un terreno liberal-democratico, facesse al proletariato meno male; ma, aggiungevano, ritardava il processo di evoluzione e di maturazione politica e sociale delle masse popolari e le allontanava dalla mèta finale. Si trattava di una posizione che voleva essere rigidamente classista e che portava a basarsi unicamente sul proletariato, in particolare su quel lo urbano, in cui Marx aveva scorto la sola classe rivolu zionaria. Né si poteva dire che un simile programma non avesse qualche effettivo riscontro nella realtà del nostro 325
paese: come si poteva, infatti, ricercare una alleanza con gli intellettuali, che si erano dimostrati, nella loro grande maggioranza, ostili al proletariato e che erano confluiti, in maggioranza, nelle file del nazionalismo favorevole alla guerra e del fascismo, sostenitore del grande valore idea le dell’intervento? Oppure, come si faceva a tentare una alleanza con i piccoli proprietari, dal momento che la base più solida, per i socialisti, erano sempre stati, nelle campagne, i salariati, i braccianti, ecc.? Tuttavia, la sepa razione fra le due correnti del socialismo, anche se artifi ciosa sul piano ideologico e culturale, era giusta e, ver rebbe fatto di dire, quasi inevitabile sul piano politico e sociale, perché se i massimalisti rimanevano fedeli e attac cati al proletariato, inteso esclusivamente come lavoratori delle fabbriche e dei campi, gli ex-riformisti, poi unitari, erano sempre rimasti più legati ad un ceto medio generi co di piccoli esercenti, in minima parte di piccoli coltiva tori (i quali avevano trovato un rifugio più adatto ai loro interessi nel partito popolare), e di ceto medio cittadino: tant’è vero che anche i 24 deputati che ottennero nelle ele zioni del 6 aprile '24 (“Il nostro partito,” esclamava “La Ple be,” “fra i partiti proletari, è quello che ha ottenuto il maggior numero di rappresentanti in Parlamento”), erano quasi tutti dell’Italia settentrionale ed erano stati mandati alla Camera dalle città (in Lombardia tre su quattro, ed il quarto era stato Bellotti, esponente della Federterra). Ma prima dei “ludi cartacei,” come li aveva chiamati il duce, c’era stato chi, nel PSU, aveva manifestato il suo dis senso sulla linea tenuta dai dirigenti, una linea che era con sistita in una strenua difesa del “programma del 'sociali smo democratico,’ sempre seguito dai socialisti italiani nel periodo che va dal 1892 al 1912,” quando era avvenuta l’ir ruzione di Mussolini (per socialismo democratico intende vano l’aspirazione alla “restaurazione delle libertà politi che e civili, fuor delle quali è utopistico sperare che le organizzazioni proletarie possano vivere e svilupparsi”), e, pertanto, in una dura lotta contro i massimalisti, di cui venivano denunciate continuamente le collusioni con i co munisti, dei quali, secondo “La Plebe,” non avevano “an cora ufficialmente abbandonato il programma (mozione di Bologna)”; e verso i comunisti gli unitari erano violenti e li dicevano “quattro gatti affamati in cerca di allodole da azzannare. I comunisti si sono meritatamente acquista to il discredito universale ed è bene che insteriliscano nel lo ro isolamento.” Il dissenso di un certo E. Frigoli era stato 326
provocato dalla deliberazione di un “recente convegno nazionale socialista unitario” (forse quello del 24 giugno della Federaz. soc. unit., a Milano) con cui si era espressa una “irriducibile opposizione (presente e futura) al gover no fascista” e al fronte unico proletario. Dopo aver re spinto sdegnosamente l’accusa dei massimalisti di essere caduti nella collaborazione di classe2 e dopo aver accetta to quella che agli avversari politici poteva sembrare una denuncia ma che per loro non lo era affatto, di avere cioè ricercato l’alleanza dei ceti medi, gli unitari vedevano na scere nel loro stesso seno una proposta che mirava, in ul tima analisi, a far perdere i caratteri che il PSU cercava di difendere accanitamente: perché, raccogliere l’esortazione a deporre la “recisa avversione al cosiddetto fronte unico” avrebbe voluto dire rinnegare la propria tradizione e accettare “la peggiore delle collaborazioni” perché con i massimalisti ed i comunisti, una collaborazione sarebbe stata peggiore per fino dell’altra con i fascisti. Il Frigoli, applicando alla situa zione italiana del '23 una nota tesi marxiana, affermava che si era di fronte ad un “capitalismo giunto al sommo del suo sviluppo,” che, pertanto, “per mantenersi in sella deve cessa re di essere liberale per diventare reazionario,” anche se ciò avesse aperto la strada all’“inevitabile sbocco rivoluziona rio.” Ed apertamente scendeva sul terreno dei massimali sti, sostenendo che “le teoriche socialiste non conoscono contatto alcuno con gli elementi borghesi.” Da tali premes1 In un articolo di fondo, C o lla b o r a z io n e e D itta tu r a , in “L a Plebe,” 27 agosto 1923, si respingeva una simile accusa nei seguenti termini: “[...] nei confronti del governo fascista, la cosidetta collaborazione non è af fatto per noi una questione di tattica. Qualsiasi considerazione, se un compromesso col governo fascista possa apportare o meno benefici con tingenti al proletariato, deve essere preceduta necessariamente da un'al tra considerazione: se, cioè, quel compromesso sia conciliabile col METODO e quindi coi principii del Partito socialista. Con ciò la questione tattica scompare completamente. Il METODO del Partito socialista unitario è la DEMOCRAZIA, ossia l'antitesi in diametrale ed inconciliabile contra sto col metodo fascista, la DITTATURA. Ne viene che una collaborazione comechessia con l'attuale governo non solo non potrebbe comunque apportar vantaggi duraturi al proletariato, ma, equivalendo ad una tran sazione con la dittatura, sarebbe la rinnegazione più aperta dei nostri principii e la liquidazione del Partito. La collaborazione, perché non sia sterile dedizione, suppone che i due contraenti agiscano su un terre no di perfetta eguaglianza politica, ed in piena libertà. Ciò in linea pre giudiziale, suppone poi che gli interessi di coloro che stringono il patto confluiscano in un punto, sia pure transitorio, comune. Esistono oggi queste condizioni? La domanda non abbisogna di risposta. Concludendo, per il Partito socialista unitario, oggi, la questione della collaborazione semplicemente non esiste. Esiste invece la sola necessità inderogabile della lotta per la libertà integrale del proletariato italiano.”
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se scaturiva la conclusione: “Cerchino tutti coloro che vo gliono la liberazione del proletariato i contatti a sinistra. Il fronte unico rianimerà i lavoratori, richiamerà i dispersi, mentre i patteggianti col nemico, delusi del fallimento, an dranno alla deriva. Allora i lavoratori, ricordandosi di esser tali, vedranno la loro liberazione attraverso l’unità in nome del socialismo!" Erano parole che sembravano ai dirigenti unitari tante imprecazioni, ed essi replicavano offesi, insi stendo sulla solita posizione, cioè che il loro scopo imme diato era la “riconquista delle libertà democratiche, perché, aH’infuori di esse, il proletariato non potrà mai realizzare alcuna conquista duratura.” Ma da diverse parti dovevano giungere analoghe proposte, se Sino era costretto a respin gerle, nel dicembre ’23, rispondendo ad “alcuni vecchi com pagni” che avevano scritto: “Noi stiamo in disparte perché vediamo il Partito diviso; mentre la reazione si riunisce e tende ai blocchi [resi necessari dalla legge Acerbo che ave va modificato la proporzionale in senso maggioritario], non dovremmo anche noi unirci per la comune difesa? Uniti tor neremmo ancora forti, mentre cosi divisi come ora... siam canaglia!” E Sirio a spiegare che, prima di ri-fondersi, i due tronconi del socialismo dovevano mettersi d’accordo sul modo come usare la nuova forza che sarebbe derivata loro; e, soprattutto, a chiarire ciò che differenziava gli uni tari dai massimalisti: “Ci sono ancora dei compagni [...] che pensano che il mondo possa o debba rifarsi con la vio lenza; credono inutile la conquista dei poteri anche cen trali, quale si apprestano ora a fare i lavoratori d’Inghil terra; aspirano ad essere forti per l’istinto di rappresaglia; non si persuadono che la civiltà del lavoro dovrà essere civiltà di educazione, di altruismo, di fratellanza e di soli darietà umana.” Avvicinandosi le elezioni, il PSU avanzava la proposta di astenersi, incontrando, però, prima il rifiuto dei comu nisti e, poi, dei massimalisti e dei repubblicani. Si era avu ta, allora, una “nuova lega elettorale dei comunisti e dei terzinternazionalisti [guidati da Serrati, Riboldi, Maffi],” che aveva voluto “presentarsi alle masse sotto il nome di ‘alleanza social-comunista,’ sventolando la bandiera delT'unità proletaria.’” Una volta fallito l’accordo per l’asten sione, nessun altro accordo - proclamavano gli unitari era possibile fra socialisti e comunisti: e di nuovo riba divano la loro ormai ben nota posizione: “Fra chi vuole abbattere la dittatura fascista per instaurare la propria, usando gli stessissimi sistemi della prima contro tutti
gli avversari, socialisti compresi; c chi vuole invece (come noi vogliamo) abbattere la dittatura per sostituirla con un ordinamento democratico, nel quale ogni partito abbia la possibilità di farsi valere unicamente in ragione della pro pria forza e coscienza politica: fra costoro non esiste nes suna possibilità di intesa.” Per “La Plebe,” l’alleanza terzinternazionalista-comunista non era “altro che uno dei trucchi volgari, nei quali i bolsccvichi nostrani si sono da tempo dimostrati maestri, per disgrazia del proletariato italiano!” Molto probabilmente, questa intransigenza e que sta decisa e continuamente gridata ostilità degli unitari contro una anche lontana ipotesi di alleanza, derivava dal fatto che essi dovevano avvertire che la base su cui pog giavano era molto fragile e si lasciava facilmente attirare dalla sirena fascista: i piccoli proprietari non erano af fatto quel piedistallo cosi sicuro quale avevano amato raffigurare (dimostrando, peraltro, una ingenuità molto grave in uomini politici e in sindacalisti, come se non aves sero mai avuto il modo di provare fino a che punto giun gesse la loro fedeltà all'idea socialista), ed anzi, al di qua e al di là del Po, si mettevano insieme con “i grossi latifondisti o fittabili delle terre grasse.” A loro volta, i lavo ratori e le lavoratrici delle filande e dei filatoi nell’Alto Milanese e in Brianza, come disse il comm. A. Ferrario, rappresentante dei filandieri in una assemblea tenuta a Milano, il 2 maggio '24, erano rientrati ordinatamente nei ranghi, tanto che il Ferrario poteva constatare “con pia cere la quasi assoluta mancanza di contrasti con le mae stranze, per il ristabilirsi dei migliori rapporti con esse, in virtù del migliorato spirito e per un giusto sentimento della necessità di produrre senza scosse e interruzioni”: cosa di cui si preoccupavano molto gli industriali della seta, i quali - osservavano “Battaglie sindacali” - avevano tratto notevoli profitti “dalla sciagura che colpi il Giap pone (il più temibile concorrente) per aumentare i prezzi a più non posso. Il terremoto nell’estremo oriente, scuo tendo le case del Giappone, rafforzò le casse dei serici ita liani. Dalla fortuna sulla disgrazia, naturalmente gli ope rai non approfittarono per un solo centesimo.” Ma si può capire questa “quasi assoluta mancanza di contrasti,” in un settore produttivo, quello tessile, i cui lavoratori si adattavano a salari inferiori avendo, vicino, il piccolo orto o campicello da cui trarre il proprio sostentamento: il che si traduceva in minor coscienza di classe, che è poi sempre anche minor consapevolezza della propria dignità umana, 329
e, di conseguenza, sul piano politico-sindacale, in una ade sione al socialismo riformista e unitario, che era quello dai contorni più vaghi e imprecisi. Da quanto siamo venuti dicendo, si può capire come, se qualche partito dell’opposizione era isolato, questo era proprio il PSU: infatti, esso aveva respinto volutamente e sprezzantemente la concentrazione proletaria, ossia il fronte unico per il governo operaio, cullandosi nella irrea lizzabile prospettiva della concentrazione democratica (qua li erano i partiti democratici che avrebbero potuto far par te di una simile concentrazione?), e, nel tempo stesso, av vertiva che gli strati su cui si era esercitata la sua influen za, o che almeno sperava di poter convogliare nella sua iniziativa, a poco a poco si allontanavano. Cosi, rimaneva solo su posizioni che ormai erano di una fedeltà ad un astratto marxismo, perché non aveva - e nemmeno si era sforzato, per una precedente educazione che gli era pene trata fin nel profondo - voluto capire l’insegnamento volon taristico di un Lenin: come quando Leo scriveva, su “La Plebe” dell’ottobre 'li, di essere convinto che l'unica rivo luzione possibile per il proletariato era quella indicata dal socialismo, e chiedeva ai compagni di restare “fermi nel nostro marxismo” (un marxismo dei testi sacri e non della vita che continua a svolgersi), di ostinarsi “a credere che solo dall’antitesi delle classi si avvererà il superamento delle classi con l’abolizione del salariato,” e di credere fermamente sempre “che tale superamento e la trasforma zione del salariato in libero produttore, siano le condizio ni indispensabili per una nuova civiltà.” Forse (ci scusiamo di tutte queste forme dubitative: probabilmente, forse, ma esse ci sembrano naturali in problemi che non hanno un supporto adeguato di documenti o di testimonianze) fu questo sostanziale isolamento che parve convincere, verso la metà del ’23, alcuni “uomini socialisti, dirigenti,” scri veva “La Difesa,” “del movimento operaio che fanno capo alla Confederazione generale del lavoro,” ad accettare le profferte di Mussolini, che non era riuscito a persuadere tutti i lavoratori ad unirsi al suo carro: “Questo ha ria perta la discussione sull’opportunità di accettare o no di collaborare con la borghesia prima e col fascismo ora. Alcuni dirigenti della Confederazione del lavoro e vari so cialisti [...] erano favorevoli a collaborare con gli avver sari per poter difendere in qualche modo il proletariato e, pur non rifiutando di trattare con Mussolini, non sono pe rò dello stesso parere e non accettano di collaborare.” Ma 330
si vede che questo atteggiamento non era penetrato nella massa degli iscritti, se, il 23 e 24 agosto ’23, si tenne a Mi lano una riunione dei rappresentanti di tutte le organiz zazioni dei lavoratori d’Italia aderenti alla CGdL con l’intento di esaminare in tale riunione (che, come rife risce “La Difesa,” “riuscì numerosa”) se era il caso di ac cettare, se chiamati dal duce, “a collaborare con lui nel Governo fascista.” La discussione mise in rilievo una certa divergenza di vedute perché vi furono i favorevoli e i con trari ad una simile collaborazione: alla fine fu votato il seguente ordine del giorno: “Il Convegno, udita la relazio ne D'Aragona, rilevando che l’azione svolta dal Comitato esecutivo è stata rigorosamente intonata all’indirizzo con federale, l’approva e conferma al Comitato la sua fiducia, ribadisce il principio dell’indipendenza dell’Organizzazione sindacale dalla politica dei Partiti e dei Governi, afferma che tuttavia l’indipendenza dai Partiti impone alla Confe derazione una sua politica di lavoro che ha per base essen ziale la libertà intesa non con un ristretto e miope egoi smo corporativistico, ma compresa in una più ampia con cezione che involge tutti i problemi della vita moderna, riunione, stampa, parola, nei quali sta la garanzia dei cit tadini che è il presupposto della garanzia degli operai. Di chiara che la politica confederale non può avere pregiudi ziali e deve valutare nei suoi sviluppi il concreto indirizzo della politica del Governo; conferma il suo proposito di agire, pur fra le difficoltà del momento, per la difesa di quegli interessi operai nei quali, in trenta anni di lotta, si identificano veramente [con] il processo di elevazione del l’ambiente agricolo industriale italiano e la effettiva prova che i lavoratori non si sono straniati dalla Nazione, ma furono e sono gli artefici più generosi e disinteressati della sua grandezza.” Era un ordine del giorno estremamente ambiguo ed esclusivamente preoccupato di dare un colpo al cerchio (piano ed attutito) e un colpo alla botte (più forte e vigoroso) infatti, si faccia attenzione al crescendo che chiude l’ordine del giorno, con una piaggeria nei con fronti del fascismo, che non era affatto degna di un organi smo che aveva alle spalle trenta anni di lotte in favore della classe lavoratrice: parlare di interessi operai che dovevano identificarsi con il processo di elevazione dell’ambiente agricolo-industriale; di lavoratori che non si erano straniati dalla Nazione (con la N maiuscola) e che erano sempre stati “gli artefici più generosi e disinteressati della sua grandezza.” Il crescendo terminava assumendo quasi un tono fascista, 331
abbastanza trasparente negli accenni alla Nazione e alla sua grandezza. Evidentemente, i partecipanti alla riunione milanese, (che avrebbero dovuto essere tutti elementi qua lificati) non erano al corrente delle condizioni che P. B., sempre su “La Difesa,” aveva posto ad una eventuale colla borazione: “se Mussolini potesse dare garanzie, che i suoi gregari non permetteranno di dare, e cioè libertà ai la voratori di far funzionare le organizzazioni loro, poter svol gere la loro azione in difesa e per le conquiste economiche, libertà di propaganda, sia pure nei limiti delle leggi, liber tà di vita e riparazione ai danni recati alle cooperative e Case del popolo, e leggi sociali,” se tutto ciò il duce avesse potuto dare, allora sarebbe stata possibile una fattiva col laborazione “per avviare la nazione verso quella sistema zione e ricostruzione tanto necessaria.” E neppure dove vano avere avvertito, quei dirigenti sindacali che avevano discettato sulla collaborazione o no, le perplessità avanzate da “La Plebe,” la quale criticava gli sfacciati incitamenti dell’"Avanti!” ai confederalisti e agli unitari a dare inizio “alla pretesa collaborazione col governo fascista,” atten dendosene dei benefici, per, “in ogni caso, poter poi, con la consueta doppiezza, gridare al ‘tradimento’ dei riformi sti. Il bello si è che anche nel campo massimalista, e perfi no comunista, vi è parecchia gente che desidera aperta mente e sinceramente che la Confederazione mandi al governo qualche suo rappresentante!...” Ma verrà giorno - concludeva il periodico pavese - in cui anche codesta opera nefanda dei massimal-comunisti (compita contro il proletariato ad esclusivo interesse delle loro screditate congreghe) sarà compensata come si merita.
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Capitolo sedicesimo
Il dissidentismo fascista e sue caratteristiche: Forni in Lomellina e Misuri in Umbria
Inoltre, a rendere ancor più debole ed incerto il pro cedere degli unitari, era intervenuta, in quel periodo, la crisi interna che travagliava il fascismo e che generava aperte tendenze al dissidentismo: si trattava di un feno meno che doveva incidere sul PSU, perché minacciava di togliergli buona parte dei suoi seguaci, dal momento che questo dissidentismo si collocava sulla destra e mostrava di volersi rivolgere a quei ceti moderati (piccoli coltivatori, piccoli esercenti, ecc.), che, quasi sempre, avevano aderito alle correnti o ai partiti conservatori oppure al Partito po polare. Le prime avvisaglie si ebbero, alla metà del 73, con alcune espulsioni dal PNF di elementi che avevano già un passato di lotta (contro i sovversivi), come, a Vi gevano, l’avv. Ramella, per indegnità e perché, diceva il giornale dei fasci, “Il Corriere di Vigevano” (che era stato prima “organo dei pacifici liberali”), ambiziosissimo, o ‘ nientemeno che i signori Antonio Ferrari, ex socialista ed ora grosso industriale in materiale elettrico, e il dott. Cantoni,” espulsioni che, secondo “La Plebe,” confermava no il giudizio che gli unitari avevano sempre dato “di que sta specie di camaleonti della politica: arrivismo, insensi bilità, irresponsabilità, e simili bazzeccole.” Poco dopo “La Giustizia” dava la notizia di un grave dissidio scop piato in seno al fascismo pavese tra “il sottoduce della provincia ed i membri del Direttorio della Federazione.” Il sottoduce era C. Forni, il cui contrasto con gli esponenti locali e nazionali del regime andò facendosi sempre più vio lento. Esponente locale del revisionismo o dissidentismo fu, oltre a Cesare Forni in Lomellina, Alfredo Misuri in Umbria, mentre su un piano più vasto, nazionale, ma, come vedre mo, con posizioni più o meno divergenti, si ponevano M. Rocca e G. Bottai, i quali potevano disporre di organi di stampa che andavano da “Critica fascista,” la rivista del 333
Bottai, al “Corriere italiano,” e, poi, con legami più allen tati, “Il nuovo paese” di Bazzi e “L’Epoca.” Il Rocca te neva, nel PNF, una posizione sua che lo distingueva, in parte, dagli altri dissidenti orientati a destra: infatti, dal l’anarchismo originario era passato ad una specie di fa scismo liberal-conservatore (come disse egli stesso in un articolo sul “Popolo d'Italia,” nel gennaio ’24), che dava maggior rilievo più che alle riforme politiche, finanziarie e amministrative, alla non meglio definita “rivoluzione morale,” e sosteneva la necessità di rinnovare la vita pub blica e costituzionale, senza sopprimere “gli organi poli tici esistenti, ma integrandoli con altri tecnici ed economi ci,” facendo ricorso ad un vago e generico “despotismo illuminato,” quale avrebbe potuto essere attuato da Mus solini, ed a cui “si potrà chiedere di non durare oltre il necessario,” e che fosse “rivolto unicamente al bene del Paese, di sopra e in contrasto a molti interessi indivi duali e di parte, talvolta dello stesso Partito fascista.” Do veva essere certamente una posizione scomoda, perché ri velava una certa insofferenza verso il fascismo quale si era venuto costituendo dopo essere arrivato al potere; inoltre, quell’accenno alla “rivoluzione morale” ed al ca rattere temporaneo del regime, pronto a sacrificare gli in teressi personali e individuali di fronte “al bene del Pae se,” e l’appello al “despotismo illuminato” del duce, al quale era riconosciuto il compito di guidare il partito e di di rimere eventuali contrasti, dovevano suscitare non poche resistenze. Forni, in Lomcllina, non tardò a schierarsi contro le autorità locali ed anzi, nelle elezioni amministrative del l’autunno ’23, fece presentare, in alcuni paesi della provin cia, ad esempio a San Giorgio, una “lista di semi fascisti dissidenti per combattere il dispotismo ambizioso dei di rigenti del Fascio locale.” Contro ogni previsione, questa lista inflisse alla lista ufficiale del PNF “una durissima le zione”: lo stesso segretario del fascio fu persino escluso dalla minoranza, avendo raccolto “un numero risibile di voti.” “Naturalmente, il Direttorio si recò subito dal Duce Forni, affermando che la lista vittoriosa era composta di bolscevichi; ma la patacca non attaccò ed il Forni ritenne bene di lasciar correre l’acqua per la sua china, tanto più che i neo-eletti si affrettarono a correre ai suoi piedi a fare atto di sottomissione. A sindaco venne eletto il neo ingegnere Lorenzo Camera, ex-combattente ed ufficiale del l’esercito e ad assessore anziano l’agricoltore Gobbi Cele 334
ste, pure ex-combattente e sottufficiale dell'esercito.” In tal modo, il potere locale venne ridato a chi lo aveva sem pre detenuto, ai rappresentanti degli agricoltori e di una borghesia benestante, perché quel neo-ingegnere non poteva certo essere un figlio del popolo. Ma ben presto giunse la scomunica anche per il ras lomellino, il quale fu costretto a dimettersi dal Partito fascista in seguito ad un lodo della Corte di disciplina: “La Plebe” commentava affermando che “la ingloriosa fine del mastodontico condottiero delle squadre lomelline, che conquistò la piazzaforte di Milano” nell’ottobre del '22, non era un motivo di particolare giu bilo pensando alla situazione generale che andava sempre più aggravandosi. Tuttavia, il provvedimento non recava molta meraviglia, perché, conoscendo la rivalità del Forni con l’on. Giunta, si poteva prevedere la sconfitta del primo, da quando il Giunta era stato nominato segretario del gran consiglio e, poi, immesso nella segreteria generale del par tito, mentre “la liquidazione... coloniale dell’on. De Vecchi (a cui il Forni era legato a filo doppio),” lasciava intrave dere quale sarebbe stata la sua sorte. Il Forni, pertanto, era venuto a trovarsi “in manifeste condizioni di inferio rità di fronte all’avversario principale, il quale non tra scurava di creargli numerosi dissidenti in Pavia ed in Vi gevano, dove numerosi erano gli insofferenti alla dittatura forniana.” Perciò, il tentativo del Forni di resistere fu age volmente infranto, mettendo in pericolo anche tutti gli amici, “o meglio le creature, i fiduciari da lui posti alle segreterie dei fasci più importanti e alla direzione del giornale [“Il Risveglio”], uomini che si appoggiavano alla sua robusta persona sia per lo stipendio sia per la soddi sfazione delle proprie ambizioni.” Seguiva, sul giornale uni tario pavese, una breve ed ironica descrizione delle am basce e dei tormenti di alcuni “anticommendatori” che nutrivano un desiderio morboso della medaglietta: “Im maginiamo la loro sovraeccitazione in questi giorni. Si trovano davanti ad un dilemma cornuto e terribile: o so stenere il Forni (come impone il più elementare dovere di riconoscenza) e rassegnarsi alla radiazione dalla lista dei futuri candidati politici, o dargli il calcio dell’asino per avere probabilità di entrare in lista, ed allora l’ingratitu dine sarebbe cosi nera ed evidente che la massa elettorale saprebbe farla scontare.” Con il Forni, infatti, cadevano parecchi altri più piccoli ras locali, come l’avv. Varni di Voghera, che era stato uno dei più violenti contro l’amministrazione socialista, e di 335
cui, ora, veniva soppresso il giornale “Il Vessillo” (“l’or gano del sottopartito Varni”), ma che, nel momento della disgrazia, trovava un appoggio nella popolazione, che de nunciava l’atto “violento c camorristico, frutto di un si stema che disonora l’Italia,” e che sentiva di dover reagire perché, sia ieri sia oggi, era stata violata la legge ed erano state colpite, per rappresaglia, “le autonomie locali nostre.” Intanto il Forni andava, in previsione delle elezioni poli tiche del 6 aprile, a fare propaganda per se stesso e per la propria lista, in quei paesi dove era sicuro di essere ac colto bene: andava, infatti, a Varzi, un paese di montagna i cui abitanti dovevano nutrire sentimenti moderati e con servatori, e il corrispondente de “La Plebe” comunicava che “fu qui il cap. Forni, e davvero si è visto che la gente del fascio non è tanto benvoluta: Forni fu ascoltato con piacere e anche applaudito.” Avvicinandosi le elezioni, l’atmosfera si faceva incandescente, e a Pavia i dissidenti scambiavano “fior di legnate cogli ‘ufficiali,’” e nella zona di Voghera la lotta tra fascisti andava acuendosi giorno per giorno: “Abbiamo già avuto tre comizi,” si comunica va, “uno di Maso Bisi in piazza, al quale hanno assistito pochissime persone, ed a cui ha seguito un corteo com posto quasi esclusivamente di forestieri; l’altro dello zaz zeruto Lanfranconi annunciato per il mercato in piazza Vittorio e tenuto invece in piazza Foro Boario mentre più intenso era il mercato. Questo comizio non ha servi to ad altro che a far allontanare la gente e far sorgere qualche battibecco. Successivamente si ebbe una confe renza dell’ing. Cesco Avanza alla sede del Fascio, alla qua le dovevano partecipare anche tutti gli inscritti al sindacato [...]. Per finire, ogni tanto scoppia qualche diverbio con bastonate fra dissidenti. Sere sono, bastonatura generale fra un folto gruppo di ufficiali e dissidenti, qualche schie na e qualche faccia ammaccata. Si prevedono, però, dato l’orgasmo che regna, nuovi incidenti. Per adesso, sfoggio enorme di forza pubblica. Sono state perquisite le abita zioni dei dissidenti più in vista: il dottor Bottini, il rag. De Scalzi, capo dei dissidenti, l’ex sindaco Tirelli, Segolini ed altri.” E di una bastonatura “selvaggia” fu vittima lo stesso Forni, una bastonatura che segui, di poco, alla fine di marzo del '23, un comunicato fascista che dichiarava il Forni “nemico del Governo.” La rottura era completa ed era stata resa più irreparabile dal fatto che il capitano si era presentato, con una sua lista, per le elezioni del 6 aprile in concorrenza con la lista dei fascisti: questi ulti* 336
mi dovevano aver valutato subito il pericolo che rappre sentava il Forni per un pieno successo del loro partito, e, pertanto, avevano deciso di dargli una lezione more solito, secondo il costume ad essi consueto. C’era chi esortava gli unitari ad approfittare delle cre pe che si erano aperte in quel blocco massiccio che sem brava dovesse essere il fascismo, ma per tentare di inse rirsi in un simile dissidio, che diventava sempre più ima grave frattura, sarebbe stato necessario che anche il PSU adottasse la condotta ed i sistemi spregiudicati del capi tano, il quale non aveva esitato a farsi il portavoce del malcontento dei piccoli proprietari come dei fittabili: insom ma traduceva, senza troppi scrupoli, nella pratica, il pro gramma sociale che anche gli unitari avevano sbandiera to, senza rendersi ben conto della necessità che ne sa rebbe scaturita di scendere sul terreno della collaborazio ne di classe. Infatti, “i fittabili forniani, dove l’hanno po tuto, hanno fatto scioperare in segno di protesta per le randellate prese dal loro capo”: il che stava ad indicare co me il Forni fosse diventato il portavoce delle richieste dei fittabili. Le elezioni diedero un risultato che era tutt’altro che la “travolgente” vittoria di cui parlarono i fogli fascisti (forse perché avvantaggiati dalla falsificazione provocata dalla legge Acerbo), ma i deputati del listone, “eletti più che dal Paese dal duce che precede e non segue, non rappresen tano che se stessi e la sconfitta del fascismo, e, per quanto riguarda i liberali, i democratici e i cattolici imbarcati nel listone, la propria liquidazione.” In effetti, a Pavia, contro i 2.942 voti riportati dai fascisti, stavano i 1.535 voti dei socialisti unitari, i 1.174 dei massimalisti, i 397 dei co munisti (un totale di 3.106 voti ai partiti proletari, circa duecento in più della lista fascista), i 1.174 dei popolari, i 415 dei fascisti dissidenti, i 233 dei repubblicani e i 121 dei democratici. Il Forni riscosse il maggior numero di preferenze, seguito dal socialista unitario Montemartini, che, però, non venne eletto. In alcune constatazioni post elettorali, Pallante Rugginenti, su “La Plebe,” osservava che, nel nord, la somma dei voti riportati dall’opposizione pro letaria era un successissimo (più di un milione, cosi ri partiti: 420 mila agli unitari, 362 mila ai massimalisti e 266 mila ai comunisti), mentre il maggior successo il fa scismo lo aveva ottenuto nel Mezzogiorno, dove aveva im barcato, palesando “una tal quale preoccupazione,” “nel listone, a scapito della conclamata intransigenza, gli uo
mini del liberalismo e della democrazia svertebrata.” Un altro punto debole per le opposizioni era stato dato dalle zone agricole, perché, secondo il Rugginenti, “dove esiste l’isolamento campestre delle abitazioni, distrutta la Le ga, il Circolo, la Cooperativa, non rimane alcun centro per la classe lavoratrice.” Ma questa è, forse, una analisi un po’ troppo sommaria, perché sarebbe stato opportuno distinguere fra zona e zona agricola c vedere più da vi cino che tipo di conduzione vi era nelle singole zone, se grande proprietà con salariati e braccianti, o piccola pro prietà, o mezzadria, ecc. Questo perché pure diversa, a se conda della struttura agricola, doveva essere stata la ri sposta degli abitanti sul piano elettorale: non è senza signi ficato, infatti, che, come ne davano notizia “Battaglie sin dacali,” dalle autorità fasciste venissero sciolti, nel Man tovano, alcuni sindacati aderenti alle corporazioni, ma che pure erano colpevoli di “avere nel loro seno dei soci che hanno votato, nelle elezioni politiche, per le liste di oppo sizione.” Era stato un vero scandalo: “Dei corporazionisti che votano contro la lista fascista?! Si sciolgano senz'altro i Sindacati fedifraghi e traditori!” Cosi, dopo tale ingiun zione, il segretario economico provinciale del Mantovano, Giuseppe Moschini, non aveva esitato un istante ed aveva subito emanato l’ukase: “Sciolgo d’autorità i Sindacati la voratori di tutte le categorie dei seguenti Comuni: Asola, Bigarcllo, Carbonara, Castelgoffredo, Ostiglia (eccetto Correggioli), S. Benedetto Po, Sustinente. In seguito ne do vranno seguire altri pei quali ho chiesto informazioni. I Segretari economici comunali e mandamentali invieranno dettagliate istruzioni.” Inoltre, lo stesso Moschini deplo rava la “irriconoscenza” dei lavoratori agricoli mantovani che avevano votato per i socialisti. A tale proposito, biso gna osservare che i paesi oggetto dello sdegno fascista era no tutti, tranne Asola, nella bassa sul Po o al di là del fiume, praticamente in Emilia, in una zona cioè in cui la propaganda socialista era penetrata molto nel profondo e che si era sempre distinta, dagli ultimi decenni dell’Ot tocento in poi, per combattività e per la precisa volontà di difendersi mediante l’arma dello sciopero. Ma era anche una zona dove prevaleva la grande proprietà con i brac cianti e i salariati, che si erano costantemente schierati con i socialisti, oppure si erano diffuse le cooperative, anch’esse di origine socialista. Non vi era spazio, pertanto, per il dissidentismo di destra fascista, che, espandendosi con la spregiudicatezza comune in uomini che avevano 338
preso attiva parte alla precedente offensiva contro tutti gli organismi proletari, minacciava di togliere il terreno sotto i piedi agli unitari: abbastanza vicine erano, infatti, e coincidenti le due aree di influenza, con la differenza che i dissidenti, come abbiamo detto, non avevano molti scrupo li a convogliare anche i fittabili, gli agrari, esercitando, in ultima analisi, la stessa repressione sui contadini di quan do erano fascisti ufficiali. “La Plebe,” nell’articolo di Rug ginenti, non potè non lasciar trasparire una certa delu sione per non essere riusciti, gli unitari, a fare breccia nel muro dei piccoli proprietari, che avevano votato per il listone fascista, esprimendo il loro spirito tradizionalmen te moderato e conservatore, ed allora ripiegò su una con fortante constatazione, sulla resistenza degli operai delle fabbriche che avevano “clamorosamente sconfitto” il li stone: “è nei grandi centri industriali che l’operaio, ban dito dalla Lega, dal Circolo, dalla Cooperativa, si ritrova nella fabbrica: e qui discute, e qui si comunica le impres sioni, le angosce e le speranze; e qui riafferma la sua fe de; e qui ricostruisce la Lega. Signori, ecco l’enorme osta colo che si frappone alla realizzazione del vostro folle so gno medievale: la fabbrica, questa ciclopica opera della civiltà borghese, entro cui germoglia la civiltà socialista. Fatalmente!” Un altro “ardito di tutte le spedizioni fasciste” era sta to, in Umbria, Alfredo Misuri, che un lodo De Vecchi-Teruzzi del 1922 diceva un “temperamento leale, vivace, an goloso, esageratamente fascista, non molto tagliato per gli opportunismi ed i mezzi termini della politica vecchio sti le.” Tuttavia, il contrasto con i dirigenti ufficiali del fasci smo era maturato da tempo, da quando il Misuri aveva scritto, il 31 marzo '22, una lettera a Mussolini, diffon dendola poi anche per la stampa, in cui, fra l’altro, affer mava che tra le varie forme di deviazione dei burocratici e degli immaturi c’era il fatto che “mentre in Parlamento costituimmo alla Destra un legame nuovo di leale intesa e patriottica collaborazione, mentre tu spesso indichi ai tuoi la rotta decisamente a destra, i sullodati signori [i bu rocratici e gli immaturi] nel paese, sempre a perseguire e completare il loro indirizzo demagogico, sterzano verso sinistra e non disdegnano contatti e intese con quella de mocrazia, filiata malauguratamente dai blocchi, che volle isolarci in Parlamento, e con quella massoneria che, per es sere occulta e intemazionale, è antifascista per definizio ne.” La sua posizione di destra era già nettamente chia339
rita, ma il dissidio sia con Mussolini e i gerarchi romani sia con il Comitato regionale umbro andò sempre più aggravandosi, anche per motivi personali, in cui si inseri vano ambiziose denunce del Misuri, come quella lanciata agli ex-camerati della sua regione di “non perseguire la purificazione del fascismo, ma un vero e proprio interesse elettorale.” Gli rimaneva, a consolazione per i risentimenti che si era attirato con questa lettera aperta rivolta “Ai miei lettori! Ai fascisti Umbri della prima ora!” “la pioggia di lettere, di telegrammi” che gli giunsero da ogni parte: “un plebiscito di strette di mano, di abbracci, di parole vibrate e sincere da parte di galantuomini con o senza camicia nera; un diluvio di inviti a recarmi presso nuclei fascisti.” Il 9 maggio '23 il Misuri veniva espulso dal partito dalla Giunta esecutiva del PNF e, poco dopo, bastonato dai suoi camerati, i quali misero in atto ciò che un comunicato uf ficioso dell’Agenzia Volta aveva minacciato da parte di “co lóro cui è demandata la cura e la responsabilità di assicu rare la vita e le fortune del movimento fascista,” cioè la de cisione di ricorrere a “qualunque mezzo pur di impedire il radicarsi e il diffondersi di un sistema di insubordinazione assurdo e pernicioso.” Malgrado questa punizione esempla re, il Misuri rassicurava la Giunta che non avrebbe trasfe rito “nel campo nazionale quella pretesa indisciplina che si è creduto portasse nel campo fascista.” E dichiarava uffi cialmente che sarebbe rimasto “a far parte, anche senza iscrizione regolare, della destra nazionale” e che non si sa rebbe “più affatto” occupato degli affari interni del fasci smo ufficiale. La polemica da parte sua contro il giornale fascista di Perugia, “L’Assalto,” che lo accusava di voler mettere “a soqquadro la Regione intera,” aveva assunto ben presto toni vivacissimi, né il Misuri si dimostrava disposto a cedere, sentendosi forte per l’espulsione di gruppi di stu denti a lui fedeli e per le dimissioni di parecchi fascisti del la prima ora, che se ne andarono protestando contro “l’in filtrazione nei fasci di gente di ogni risma” e contro “la schifosa, spudorata ingratitudine di questi nuovi pseudo fascisti.” Il che gli dava il modo di proclamare che avreb be continuato a servire “gli uomini liberi della mia re gione, che non piegano la schiena sotto un dominio che è un vero e proprio bolscevismo tricolore: che approvano la dittatura del Grande [cioè di Mussolini], ma detestano le sotto-Dittature degli omuncoli.” Tutto, pertanto, lasciava intendere che egli era usci to dal fascio da destra, posizione che manifestò molto 340
apertamente nel discorso che tenne alla Camera, il 29 maggio ’23, in sede di discussione sull’esercizio provviso rio: sostenne, in tale occasione, che la stragrande maggio ranza del paese e gli oscuri artefici delle multiformi ope re umane volevano soltanto poter lavorare in pace, sic ché non conveniva “all'onorevole Presidente del Consiglio disfarsi di questa Camera,” che gli avrebbe dato il modo di dedicarsi alla soluzione di problemi ben più importanti che non fossero quelli “grettamente elettorali,” e non avrebbe nemmeno subito “l'assalto delle ambizioni bellui ne di tutti gli antiparlamentari di maniera” che si stavano già azzuffando per “venire a sedere qua dentro.” Pertan to, criticava l’elaborazione della nuova legge elettorale maggioritaria Acerbo, dicendo che era una “mirabolante riforma elettorale” minacciata “come una specie di anno mille per i reprobi, e promessa come una specie di nirvana per gli eletti.” Il paese, egli soggiungeva, non voleva affat to “avventure derivanti da improvvisazioni” e quand’anche si fosse mostrata l’impellente necessità di rinnovare la rap presentanza nazionale, egli affermava, sicuro di interpre tare il pensiero di quella “grande maggioranza” in nome della quale aveva subito cominciato a parlare, che il pae se avrebbe voluto tornare “al collegio uninominale (pietra angolare dell'edificio distrutto).” Secondo lui, sarebbe sta to meglio, più che perdersi fra gli appetiti di tutti coloro che si erano proposti di sfruttare il fascismo “come agen zia elettorale,” che il governo cominciasse a considerare “il nucleo sano dell’opposizione, come correttivo benefico al l’azione del Governo.” E sulla esigenza di “decomprimere gra dualmente e smobilitare gli spiriti e le organizzazioni,” ri mettendo il fascismo, che avesse riconosciuto sinceramen te la funzione storica “della nostra monarchia millenaria,” in armonia con le “sane correnti nazionali,” insistè diver se volte, senza accorgersi che, in tal modo, manteneva viva la distinzione mussoliniana fra gli italiani sani e nazionali e gli altri, sovversivi e antinazionali. Ma il nucleo essenziale del suo discorso fu dato dalla sua esortazione, dopo aver condannato “gli apocalittici annunzi dei soliti che sciorinano il repertorio dei tempi ulteriori della rivo luzione,” a non identificare il Partito e lo Stato: “La ge neralità dei buoni cittadini [in nome della quale il Mi suri intendeva far sentire alta la sua voce] non crede, co me anche non credono gli amici sinceri del Governo, che giovi alla ricostruzione nazionale il continuo insinuarsi e sovrapporsi vicendevolmente di poteri e di gerarchie; 341
non credono che il Governo nazionale si avvantaggi inti tolandosi secondo alcuni 'Governo fascista.' Più in alto deve spaziare l’autorità del Governo!” Certo, il suo discor so ondeggiava continuamente dalle critiche e dai rilievi che potevano farlo avvicinare all’antifascismo agli elogi sperticati all’azione del duce, alla sua mente poderosa, quasi cercando, cosi, di proteggersi le spalle. Ecco perché credeva di poter dichiarare di non aver voluto tenere un “colloquio col Governo” antifascista, un colloquio che vole va essere, “ed è fermamente inspirato dal desiderio di coo perare ad inserire più profondamente il fascismo risanato nella vita nazionale.” Eppure, il suo giudizio negativo sul partito che, per mezzo del gran consiglio, tracciava le di rettive al governo, oppure l’altro sulla indebita confusio ne tra la milizia e l’esercito, la prima pur sempre una mi lizia di partito che sembrava voler assorbire il “regio Esercito,” sembravano avvicinarlo pericolosamente alle opposizioni, che chiedevano insistentemente la “normaliz zazione,” cioè la soppressione di quei due organismi ecce zionali - gran consiglio e milizia volontaria sicurezza na zionale -, che uno storico della rivoluzione fascista, l’Èr cole, ha detto i “due Istituti rivoluzionari” del regime, e che lo stesso Mussolini aveva difeso, sostenendo che con il gran consiglio era stato sepolto il liberalismo politico e con la milizia le camicie nere avevano imboccato definiti vamente la strada della Rivoluzione. In definitiva, ogni suo sforzo pareva rivolto a legalizzare il fascismo, ad inserirlo nella vita della nazione, un fascismo, però, che si riducesse al “nucleo sano,” ai “pochi ribelli della vigilia,” epurando si di tutti i simoniaci, i profittatori, i burocrati che stava no invadendo il campo e si sovrapponevano a tutto ed a tutti, e che, nella loro “cieca intolleranza,” chiamavano “fangosi” quelli che non consentivano con loro. Il discorso del Misuri fece - è lui stesso che lo scrive una grande impressione e “Mussolini prese un cappello ad dirittura napoleonico”: i deputati che erano andati a con gratularsi con l’oratore, fra cui anche il Corgini, sottosegre tario all'Agricoltura, vennero espulsi, mentre di nuovo il Misuri veniva aggredito e ferito alla testa da colpi di basto ne. “Il dissidentismo dilagava,” nota con soddisfazione il deputato umbro: “da molte parti venivano rivolte a me ed a Corgini sollecitazioni per coordinare questo movimento sotto direttive precise”; ed ancora: “intanto i fasci indipendenti si costituiscono e si moltiplicano per ogni dove, e molti altri sono in germe.” Ma forse, questo dilagare del dis342
sidentismo e dei fasci indipendenti era più nella sua acce sa fantasia che nella realtà: abbiamo visto la posa, per co si dire, gladiatoria da lui assunta nel discorso del maggio '23, una posa che gli doveva venire naturale perché era per suaso di essere l’esponente della grande maggioranza del po polo italiano, che conveniva con lui nella richiesta di un pro cesso meno rapido e di un rinnovamento graduale che non rinnegasse completamente il passato: “Non bisogna troppo inebriarsi col ripetere a se stessi la scottante parola ‘Rivolu zione’!” proclamava assumendo la posa eroica di chi ve deva chiaro, solo lui!, nelle tenebre. “Il contenuto di que sta particolare rivoluzione, man mano che ci si allontana dall’avvenimento, appare sempre più contesto dalla volontà di dare un tono e di accelerare il ritmo della vita statale. Il tono è stato dato: forse anche troppo. Il ritmo si è accelerato: anche troppo; tantoché in alcuni rami della cosa pubblica ha prodotto scosse persino eccessive e de molitrici. Ma nell’intenzione del nuovo regime era la finalità di adattarsi sull’antico fin dove fosse possibile, perfe zionando gradualmente i vecchi istituti sopravvissuti in sieme con i nuovi. In tal guisa si è cercato istintivamente di completare la rivoluzione con la naturale evoluzione. Bene aveva ammonito il saggio: ‘Natura non facit saltus.’” Queste affermazioni erano in un discorso che il Misuri avrebbe dovuto pronunciare nella discussione sulla proro ga dei pieni poteri al governo (dicembre ’23) se la Camera non fosse stata sciolta in previsione delle nuove elezioni. A suo parere, il governo era fatto oggetto, per la sua poli tica “slegata, inorganica, arbitraria, sospinta e risospinta dagli onnipotenti del Ministero,” di un “invisibile malcon tento” che si diffondeva nella popolazione, la quale era portata a rendere lo stesso governo e il regime responsa bili delle incertezze e degli arbitri. Tuttavia, riconosceva che era prematuro dare un giudizio definitivo su una azione di governo ancora in formazione ed in elaborazione ed alle prese con “immanenti problemi di intima costitu zione statale e concernenti complessi argomenti politico giuridici e tecnico-economici.” Ma egli proclamava di ave re la formula per risolvere tutte queste difficoltà, una formula di natura politica che avrebbe potuto dare una “certa sicurezza statica alla maggioranza parlamentare: acquisire, cioè, le forze del centro, cosa che si sarebbe potuta ottenere se si fosse rinunciato a pretendere quello che, con “frase molto descrittiva, fu definita la collaborazione in ginocchio,” quale troppo spesso volevano “i settari 343
di conversione recente ed i giovanissimi, tutti presi da una pericolosa infatuazione.” Il 31 gennaio '24, facendosi sem pre il portavoce della “grande massa dei cittadini” che avrebbe potuto essere “la guardia più sicura del Governo restauratore,” e per infrangere l’atmosfera di pesante re pressione che colpiva lui e i nuclei dissidenti che aderivano alle sue direttive politico-sindacali, fondava, a Roma, l’As sociazione costituzionale Patria e Libertà, dichiarando ad alta voce che “la rivolta morale è in cammino irresistibil mente e non vi sarà forza umana capace di arrestarla.” II manifesto di questa associazione iniziava (nella Premessa) celebrando il fascismo delle origini, “che era romanticismo, cavalleria, difesa della società e della civiltà,” e prosegui va dicendo di sentire che, per la “forza inestinguibile della fede delle origini, l’anima della grande maggioranza degli italiani è con noi, militi volontari, oggi come ieri, della causa della libertà.” Subito dopo, però, questa sicurezza di rappresentare una notevole massa, la circoscriveva e la limitava: “Vogliamo orientare attorno a noi, definitivamen te, quella equilibrata coscienza media che si forma in seno ad ogni classe sociale desiderosa di tornare ad una duratura normalità di vita.” In effetti, il Misuri, che aveva raccolto il malessere di questa “equilibrata coscienza media,” poteva giustamente dire di esserne l’esponente, dando una voce alle sue richieste di una “duratura normalità di vita,” di un ritorno al passato, cioè allo “Statuto fondamentale del Regno,” di una fine, voluta da “moltissimi buoni cittadi ni,” degli eccessi di ogni genere e delle “messianiche pro messe di improvvisati tribuni.” Il Misuri, e la grande mag gioranza degli italiani che lo seguivano, erano convinti che si stesse attraversando un periodo di transizione e che dipendesse dalla loro battaglia la possibilità di giungere ad un assetto politico-sociale piuttosto che ad un altro. Nella parte seconda (il Programma), si ribadiva la necessità di salvaguardare “la intangibilità dei ‘pilastri fondamentali’ dello Stato, primo dei quali la Monarchia”; si sosteneva che la libertà individuale, l’inviolabilità del domicilio, la li bertà di stampa, l’inviolabilità della proprietà, il diritto di associazione dovevano tornare ad avere “pieno ed in tero il loro valore,” insieme con “la necessità del ritorno ad una pacifica convivenza civile.” Inoltre, si insisteva sul fatto che il rispetto dovuto alla religione esigeva che es sa non venisse piegata a strumento di governo e tanto meno di partito; che la scuola, “resa accessibile anche ai meno abbienti, ricostituita con organicità di vedute, 344
senza strettoie formali, deve rispondere sempre meglio alle necessità dell’educazione del popolo”; che i tributi fossero commisurati alla “potenzialità contributiva della Nazione”; che lo Stato non doveva invadere “il campo riservato alla iniziativa privata, ma preparare l’ambiente perché la attività umana, singola e collettiva possa libera mente e facilmente svolgersi nell’interesse della produ zione e della Nazione. Ogni monopolio sindacale è danno so alla produzione”; che la politica doganale fosse ispirata “alla difesa degli interessi nazionali,” mentre “l’industria madre del Paese è l’agricoltura,” alla quale dovevano essere rivolte speciali cure; che un popolo numeroso e prolifico come il nostro non poteva non essere espansionista, ma un simile elementare diritto alla vita doveva essere realiz zato con dignità e fermezza mediante una politica pacifica e non con “esagerazioni imperialistiche.” L’aspirazione del Misuri rimaneva quella di ritornare “alla coscienza dello Stato liberale,” di cui lamentava il tramonto e la sparizione “dal novero delle entità politiche operanti,” ma che rimaneva pur sempre eterna ed indi struttibile: si era ridotta in polvere e si era disseminata costituendo il lievito invisibile e vitale di tutti gli altri aggruppamenti politici, meno gli estremi, poiché “l’assolu tismo fascista si tocca e si confonde con l’assolutismo co munista.” E con una vena scoperta di trionfalismo parla va del vero dissidentismo dal contenuto “etico e politico,” che continuava a dilagare: quasi per chiarire meglio in che cosa consistesse questo dilagare, passava in rassegna le regioni dove il dissidentismo aveva maggiormente attec chito e parlava delle sue caratteristiche in ogni zona: “In Lombardia ed in Romagna il vago desiderio nostalgico della preistoria, dà luogo al movimento dei diciannovistv. criterio essenzialmente cronologico di differenziazione, che vuol tornare ai primi informi enunciati politici, ormai classificati come fenomeni transitori della psicosi post bellica. In Toscana ed in Lomellina un desiderio di salvare, in mezzo al naufragio comune, almeno il prestigio del Capo, oltre ai postulati delle origini adattati alla realtà storica, fa nascere i Fasci Nazionali. Infine, un po’ dapper tutto, con programma e finalità precise, prende piede il nostro movimento della 'Patria e Libertà,’ che, se le paro le non avessero subito tanta sfortuna, potrebbe definirsi una neo-liberal-democrazia con spirito fascista.” Come si vede, se il dissidentismo in Lombardia, in Romagna, in Tosca na ed in Lomellina era caratterizzato, secondo il Misuri, dal 345
tentativo di ritornare alle origini, quello umbro, invece, del movimento “Patria e Libertà,” era caratterizzato da un ritor no alla liberal-democrazia rinnovata dallo spirito fascista. Per questo, forse, il Misuri stesso doveva essere intimamente consapevole di rappresentare, nel quadro del dissidentismo italiano, qualche cosa di originale e di più maturo culturalmente e politicamente: infatti, egli assegnava al suo movimento non solo il compito di ribellarsi - una ri bellione, peraltro, “circoscritta nello spazio e nel tempo” - al prepotere del socialismo, ma anche l’altro prevalente di restaurare “l’autorità dello Stato, moderatore supremo delle civiche attività nell’ambito delle leggi, garante del pacifico evolversi dell’assetto politico-sociale, risultante dal vitale contrasto delle tendenze e delle idee, non dal mo nopolio e dal predominio d’alcuna tendenza su tutte le al tre.” Erano note, queste, che definivano sempre meglio gli aspetti moderati e conservatori del dissidentismo del Mi suri, la cui portata, peraltro, era detta, dal “Corriere Italia no,” “lievissima nei risultati nocivi,” ma nefanda e stolida, anche perché “pubblicamente spudoratamente appoggiata dalla stampa antigovernativa, dalla riformista Giustizia alla repubblicana Voce”: prova convincente, per i fascisti, pur se indiretta, del suo spiccato carattere antifascista. Anche Mussolini, nel discorso alla 42a riunione del gran consiglio del 22 luglio '23, minimizzava l’influenza dei suoi amici dissidenti, senza, tuttavia, rompere del tutto i rapporti: “Dichiaro che io non ho ben capito ancora dove i cosiddetti revisionisti vogliono andare a parare. Bisognerebbe che que sti nostri amici specificassero. Si tratta di una ricaduta nel lo stato democratico-liberale, con tutti gli annessi e connes si? Si vuole invece rivedere i quadri e i gregari? O si vuole, come sembrerebbe logico, rivedere le posizioni mentali e politiche del fascismo per adeguarle alla nuova realtà, cioè al possesso del potere politico? In quest’ultimo caso, il re visionismo avrebbe una reale utilità. È evidente che, as sunto il potere, bisogna diventare dei legalitari e non con tinuare ad essere dei ‘ribellisti.’ L’insurrezione non è un fine, è un mezzo. Oppure il revisionismo vuole condurci ad un riesame delle nostre posizioni programmatiche? Il revisioni smo, insomma, è una porta sul futuro, o è un ritorno al passato? Ho allineato degli interrogativi che pongono il problema.” Come si vede, il tono del duce era tu tt’altro che ultimativo, ché anzi traspariva dalle sue parole l’intenzione di evitare una polemica troppo aspra, anche se si poteva comprendere che rifiutava abbastanza risolutamente quel 346
la “ricaduta nello stato democratico-liberale,” dal quale si vantava senza posa di aver liberato il popolo italiano. Ed in questo doveva avvertire di essere d’accordo con l'opinione pubblica moderata e conservatrice, che i dissidenti o revi sionisti dicevano di rappresentare, perché quell’opinione pub blica attribuiva alle debolezze del precedente regime liberal-democratico il lento scivolare della vita nazionale ver so il socialismo e il soviettismo del dopoguerra. Invece, Mussolini si dichiarava d’accordo sulla necessità di ade guare le posizioni mentali e politiche del fascismo alla nuova realtà, cioè al possesso del potere politico, e, subito dopo, ribadiva, con sincera apparente convinzione, che oc correva cessare di essere dei “ribellisti” per diventare dei legalitari. Era ciò che, in definitiva, il Misuri aveva richie sto, ed era pure ciò che la “grande maggioranza” del paese, tutti coloro che volevano “vivere e lavorare in pace” vole vano, quando manifestavano il desiderio che non si parlasse più di seconda ondata e che il nuovo potere cercasse di in serirsi nelle vecchie strutture più che rivoluzionarle. E tutto questo il duce lo sapeva molto bene e sapeva anche che senza l’appoggio di tale maggioranza sostanzialmente conservatrice non avrebbe potuto governare: cosi, nel '24, prometteva “cinque anni di pace e di fecondo lavoro al po polo italiano,” e poneva fra i primi compiti del suo gover no quello di “governare il Partito [...]; io credo che il nuo vo Governo dovrà agire sul Partito inflessibilmente per mi gliorarlo e renderlo idoneo alle nuove necessità.” Ed egli tributava un plauso ed un omaggio “al laborioso e ordinato popolo italiano,” ed a chi gli rinfacciava di non avere una dottrina, rispondeva con orgoglio “che non vi è alcun mo vimento spirituale e politico che abbia una dottrina più salda e determinata della dottrina fascista. Abbiamo delle verità e delle realtà precise e sono: lo Stato, che deve essere forte; il Governo, che deve difendersi e difendere la nazione da tutti gli attacchi disintegratori; la collaborazione delle classi; il rispetto della religione; la esaltazione di tutte le energie nazionali. Questa dottrina,” concludeva, “è una dottri na di vita, non una dottrina di morte.” Su diversi punti, pertanto, concordava con il Misuri e con i dissidenti di destra, ma, nel tempo stesso, non poteva sopportare che una più o meno larvata ribellione cercasse di sottrarre alla disciplina a cui egli costringeva i suoi se guaci la popolazione nelle province, facendone tanti fo colai che nutrivano l’ambizione di svolgere una loro politi ca, anche in contrasto con quella del centro quando questa 347
non fosse stata gradita. Ecco da ciò l’espulsione dei revi sionisti e la dura lezione impartita agli esponenti più in vi sta della dissidenza. Ma c’era, forse, anche un altro motivo che lo spingeva ad agire in tal modo, ed era che, proprio nelle province, aveva bisogno di appoggiarsi su elementi che gli si dichiarassero fedeli per interesse o per qualsiasi altro movente, che fosse nobile o no poco importava; gli preme va, insomma, poter contare su uomini legati a lui o perché aveva consentito che facessero una rapida carriera o perché aveva loro restituito il prestigio e le cariche di cui gode vano nel precedente regime. Non solo al fine di avere sin gole persone che cantassero le sue lodi, ma soprattutto al fine di catturare tutti quelli che si aggiravano nell’orbita di quei personaggi: ed è indubbio che le arti del clienteli smo erano molto più conosciute da quegli individui che dai suoi squadristi. Infine, l’ultimo motivo che poteva aver lo spinto ad agire inflessibilmente nei riguardi dei piccoli ribelli era che, cosi facendo, dava un esempio alle popola zioni di sapere imporre l’autorità del governo centrale an che sui ras locali, che spesso, come pure nel caso del Mi suri, avevano preso attiva parte alla guerra civile che ave va insanguinato città e regioni intere e che si dichiaravano disposti a rispondere all’appello, mettendo a tacere il loro dissenso, se la lotta avesse ripreso a infuriare con violenza e fossero stati necessari animi risoluti.
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Capitolo diciassettesimo
Il Bottai e il suo dissidentismo ortodosso
Ma se colpiva in basso, il duce non toccava chi era col locato in alto, ed un Bottai, ad esempio, poteva continuare a sostenere press’a poco le stesse cose che aveva sostenuto il Misuri, ed anzi fondare, a partire dal giugno '23, una rivi sta, “Critica fascista,” senza correre il pericolo di dover affrontare la minacciosa vendetta di Mussolini. La realtà era che questi, ancora una volta, doveva, in quella prima fase del suo potere, svolgere una, per lui, faticosa opera di mediazione, fra gli estremisti che si definivano la sinistra e la destra, fra coloro che avrebbero voluto portare avanti la rivoluzione e coloro che, invece, erano più propensi ad ar restarla e ad inalvearla in un governo conservatore. Né po teva dimenticare che il popolo italiano era, in maggioranza, moderato e alieno “dall’esercizio spregiudicato della violen za manuale o verbale.” In particolare, sul Bottai doveva avere agito la constatazione, divenuta evidente con il dissi dentismo della Lomellina e dell’Umbria, che non tutti era no strenui difensori di quella alquanto mitica provincia, da cui, come abbiamo visto, un Maccari si aspettava la “se conda ondata,” che, utilizzando gli intransigenti, i selvaggi, gli ex-nulla, avrebbe dovuto spazzare via l'ancien régime, la vecchia e tarlata classe dirigente: c’erano, al contrario, anche quelli che volevano che il governo vincesse sul par tito, che si smettesse di gridare ai quattro venti la rottura con il passato, di voltolarsi nella fascinosa e fascinante, ma pur sempre vuota, rivoluzione. Erano tutti coloro che avreb bero preferito una ripresa della tradizione. In questo quadro moderato si sarebbe potuta mettere anche la fusione dei nazionalisti con i fascisti, nei confron ti della quale abbiamo visto le reazioni negative degli squadristi più violenti e pronti a combattere - scriveva C. Suckert - contro gli intellettuali, prendendo questi come tipici esponenti di una “gente malfida, maligna, soprattut349
lo vile, nemicissima d’ogni rivolgimento” e che, prendendo a pretesto il malcontento del popolo, aveva “sempre reso impossibile da noi una vera rivoluzione nazionale.” E quan to quella fusione fosse, in effetti, reazionaria fu messo in rilievo anche da P. Togliatti, nelle sue Lezioni sul fascismo, del 1935, quando scorgeva in essa il tentativo della borghe sia di riconquistare il consueto predominio e controllo sul lo Stato: “Non per niente il legislatore di questa dittatura è stato Rocco, un nazionalista, non per niente una delle più grandi personalità è stato Bottai, un nazionalista anche lui. In tutte le tappe è stata condotta una lotta fra fascisti e nazionalisti per la soluzione di problemi fondamentali dello Stato e del partito. La soluzione di questi problemi ha sempre una sostanza che viene dal partito nazionalista, la sostanza della loro soluzione è sempre nettamente reazio naria e borghese.” Non certo che se la “soluzione dei pro blemi fondamentali dello Stato e del partito” avesse avuto una matrice puramente ed esclusivamente fascista, si sareb be potuto dire che era meno reazionaria e conservatrice, perché la tendenza all'espansionismo imperialistico era più di Mussolini e dei fascisti che del Federzoni o del Bottai e dei nazionalisti; e cosi pure la collaborazione delle classi antagonistiche - borghesia imprenditoriale o agraria da un lato e classi lavoratrici, dall’altro - si poteva si trovare nel nazionalismo, ma, ad esempio, nel Corradini tale collaborazione era un appello “alla solidarietà nazionale di contro alla lotta di classe,” con una accentuazione moralistica, perché chiedeva che gli individui, le classi, le generazioni donassero “parte di loro medesimi” alla nazione, “con spi rito di sacrificio,” si sarebbe dovuto dire secondo lui “con un'espressione cristianeggiante,” ed “epicamente, virtù eroi ca di un popolo. Ma nell’una e nell’altra espressione è evi dente il carattere “morale”: non aveva, insomma, quella du rezza con cui il duce imponeva la “pace sociale” ed una “per fetta disciplina,” richieste non dalla volontà degli uomini, ma “dalle obiettive circostanze.” Ed effettivamente, il cli ma sociale del paese era profondamente mutato nel do poguerra rispetto ai primi anni del secolo, quando il na zionalismo aveva conosciuto, con la penetrazione nei Bal cani e con l’impresa di Libia, il suo momento più fulgido, mentre, nella nuova età - una età di ferro -, la lotta di classe aveva assunto un’asprezza inconsueta e ignota per l’addietro, asprezza dovuta al fatto che il proletariato sem brava - adesso veramente - ergersi come la classe a cui spettasse sotterrare la borghesia. 350
Ecco perché, sotto certi aspetti, doveva apparire na turale la vivace reazione dei selvaggi del Maccari, che esor tavano Mussolini ad abbandonare Roma, “città dei mer canti” ed a tornare indietro al tempo delle lotte delle squadre nelle province; oppure affermavano che il partito esisteva soltanto nell’azione individuale dei gregari. Ed era proprio il Maccari ad esprimere questa intima ribel lione contro una sotterranea, ma manifesta, normalizza zione che faceva correre il pericolo ai selvaggi e agli squa dristi di perdere tutti i vantaggi che credevano di avere ottenuto: “Ma l’anima rivoluzionaria del fascismo, se non trova le sue espressioni nel governo, nel parlamento, nel le commissioni, nelle gerarchie, trova altra via per rivelar si, per urlare la propria passione e il proprio tormento. Questa passione e questo tormento (nobilissimi e necessa ri) noi non li troviamo nelle fredde circolari, nelle cam pagne giornalistiche addomesticate a bacchetta, noi li tro viamo negli occhi dei nostri camerati, noi li sentiamo nel la voce aspra dell’umile gregario, dello squadrista senza cariche e senza galloni e senza medagliette, quando chie de: ma che si fa?” Si noti la polemica contro chi, invece, giunto ultimo si era precipitato a coprirsi il petto di gal loni e di medagliette: ed a lui erano state offerte cariche negate, secondo il Maccari, a chi le aveva meritate molto di più. C’era ancora chi poteva rivendicare, nel '25, sotto la se greteria Farinacci (che era stato un modo come svuotare di ogni impeto la ribollente rivolta), il diritto alla violenza e Sugo di Bosco poteva scrivere: “[...] gli squadristi e spe cie quelli più inviperiti (e cioè i veri e più simpatici fa scisti) non attraversano un periodo troppo soddisfacente per loro. E poiché sono giovani, impolitici, insofferenti, volitivi e irriflessivi, si trovano talvolta 'fuori del seminato.’ Cosi il fascista scansafatiche, il fascista per opportunità, colui che sta alla finestra [...], passa per il fascista model lo, esempio di disciplina e di obbedienza, mentre lo squa drista che al fascismo offre quotidianamente la propria giovinezza e la propria vita, tutto ardente della passione rivoluzionaria, si vede considerato come un ribelle impic cioso, come un peso, un ostacolo, un danno. Porco mon do! Come rimediare? Possibile che proprio il fiore della gioventù fascista si debba far mettere nel sacco? Non c’è, o amici, che un segreto: l’intelligenza.” Si, l'intelligenza, cioè creare una cultura autonoma, una specie di contro-cultura, da opporre oltre che a quella tradizionale pure a quella fascista? Ma sembrava molto 351
difficile che i selvaggi fossero capaci di tanto, e, indub biamente, tale compito doveva apparire loro molto arduo, perché erano più abituati a far valere la forza dei muscoli che il cervello. Tant’è vero che lo stesso Mino Maccari, che sotto lo pseudonimo di Matto Anonimo, iniziò sulla sua ri vista la pubblicazione di un romanzo a puntate dal titolo ambizioso Le cronache del sogno ovvero i selvaggi alla conquista d'Italia, cioè un racconto di come avrebbe po tuto (e dovuto) essere la rivoluzione, non riuscì ad anda re al di là di due puntate, dopo aver scritto, nella prima puntata, parole che rivelavano quanto lui stesso fosse privo di idee costruttive e di vere iniziative nel campo culturale: *[...] come può darsi che una rivoluzione [quella del 28 ot tobre '22] non abbia portato con sé il lungo incendio dei tragici avvenimenti che naturalmente e fatalmente la espri mono nel tumulto drammatico delle vicende, delle sorpre se, dei colpi di stato, delle rapide fortune, delle precipitose catastrofi, sulla ridda degli uomini che appaiono e scom paiono, che trionfano e cadono, dalla polvere all'altare, dal l’altare alla polvere, mentre le folle delirano nell’entusiasmo e urlano nell’odio, e innalzano al cielo, e calpestano nel fan go idoli e idee? [...] E a noi vorrebbero dare a bere che la rivoluzione fascista s’è esaurita in tre giorni, con una pas seggiata incruenta, coronata dal saluto romano di centomi la camicie nere tranquille e soddisfatte in un paesaggio do menicale? Ah canaglie! Ve la facciamo noi la storia.” Pas so che può dividersi, alquanto nettamente, in due parti: la prima, un seguito quasi inebriante di “parole libere,” in un crescendo in cui si celebra la sua arte, o meglio il suo artificio, di scrittore dannunzieggiante, e la seconda in cui depone i coturni e “s'ingaglioffa,” come avrebbe detto il Machiavelli, scende ad un linguaggio e a espressioni più terra terra e in accordo con quello che avrebbe dovuto es sere il linguaggio dei selvaggi. In questo tentativo si esau riva ogni sforzo del Maccari di tradurre in una linea di pensiero organica e coerente le vicende che aveva vissu to negli ultimi anni: si sentiva che a lui e ai suoi came rati mancavano un pensiero e un programma con cui resiste re all’offensiva dei moderati, di coloro che volevano far rientrare la rivoluzione nella tradizione e rinchiuderla en tro argini alti che non potesse superare. Buon gioco aveva, pertanto, il Bottai nell’imporre len tamente la sua concezione e la sua interpretazione del fa scismo non come rivoluzione bensì come continuazione di una lunga storia: in una conferenza all’Augusteum di Ro 352
ma, nel marzo '24, cosi chiariva il suo pensiero a tale pro posito: dopo aver criticato la concezione tipica del libe ralismo, concezione nata con la democrazia, che faceva dello Stato la risultante “meccanica del giuoco delle varie forze politiche in lotta tra loro, cosicché non resta ad es so che un compito di amministrazione e di polizia,” per ché caratteristica di epoche di transizione, sosteneva che il fascismo si inseriva nel liberalismo risorgimentale, non quello dichiarato insufficiente, bensì quello che per il fat to stesso di essere, di governare, “per le forme della sua organizzazione e per lo spirito che ispira la sua azione, spi rito di libertà, quale afferma la storia [...], che non è ar bitrio individuale ma volontà superiore, sintesi di libertà e di autorità che, per realizzarsi, si oppone anche al libi to degli individui”: insomma, si trattava di un liberalismo che, invece di limitarsi a contemplare lo svolgersi della vi ta sociale, si imponeva, come volontà superiore, ad essa e si opponeva al “libito dei singoli,” realizzando, in tal modo, una libertà che sembrava disperdersi nell’alto dei cieli, una libertà superiore e universale. E, tutto preso da questo ten tativo, che gli doveva apparire coronato dal successo di di mostrare, in sintesi, come il fascismo si riconnettesse “allo sviluppo della storia contemporanea, per abbattere il bana le luogo comune dell’opposizione che nega ogni significa zione spiritale e dottrinaria al nostro movimento,” inne stava “la nostra rivoluzione intellettuale” nel gran solco della critica ottocentesca alla Rivoluzione francese, ma non a quella negativa di un Bonald, di un De Maistre, di un Burke, di un Taine, perché fra quella critica e il fascismo sta va la filosofia idealistica di un Kant e di uno Hegel, che in vestiva “d’una nuova e più viva corrente critica i principi dell”89”; stava la critica profonda e rivoluzionaria di G. Sorel, che, preoccupato di rialzare i valori morali e spirituali, condannava il “culto delle utopie ugualitarie” e la “pretesa positivistica di trasformare il socialismo in scienza”; stava “la grand’opera di Alfredo Oriani che ristabilisce il cul to degli eroi e degli ideali contro la democrazia livella trice e contro il socialismo materialistico e predica la re ligione della Patria immortale”; stava “l’opera recente e viva di Enrico Cor radini” al quale era riservata la gioia e la gloria di presiedere alla fusione nazionalfascista, che aveva aperto al fascismo la strada verso “la sua rivolu zione intellettuale” e lo aveva inserito “in una tradizione politica, che potrà essere discussa, ma non negata.” Forte di questa tradizione il movimento delle camicie nere potè353
va alzare la diga “contro il criticismo anarchico dell'op posizione e contro l’anarchica ignoranza che s’infiltra nel lo nostre organizzazioni per snaturarne lo spirito”: il fa scismo, perciò, con quella tradizione alle spalle che risa liva addietro nel tempo poteva guardare con serena indif ferenza l’agitarsi incomposto sia delle opposizioni ester ne sia delle sotterranee e continuamente affioranti oppo sizioni interne. Su tali basi, il Bottai doveva essere sicu ro di avere l’assenso non tanto del Gentile quanto del Croce, la cui filosofia era derivata, pur piegando verso de stra e non verso sinistra, dall'idealismo hegeliano e che, in quel periodo, era particolarmente impegnato nel com battere i residui del positivismo e del materialismo che serpeggiavano nella nostra cultura. Ed infatti al Croce il Bottai si richiamava, fra tanti altri, allorché definiva l’es senza .del nuovo, e pur vecchio, Stato fascista, “che, non essendo una semplice associazione basata sul libero ar bitrio dei singoli o fondata su un contratto sociale, si op pone come stato etico, risolvente la democratica antitesi Stato-individuo in un rapporto produttivo, allo Stato li berale e democratico.” E qui faceva seguire tutta una serie di illustri precedenti: Machiavelli, Vico, Spaventa, De Meis, il nazionalismo, la filosofia di Gentile e di Croce, a palese dimostrazione di come il fascismo avesse proceduto alla “sua vittoriosa affermazione, non solo in virtù della sua forza materiale, ma più ancora perché anziché essere un ritorno innaturale, coincide con la rinascita dello stesso pensiero italiano!” Si può quasi avere l’impressione, leg gendo questa conferenza, di un diligente compito, in cui il buon alunno si sforza di mettere in fila tutte le nozio ni che ha appreso qua e là, accompagnandole con una se rie di citazioni che dovrebbero dimostrare la sua erudi zione. Come fanno, infatti, a stare insieme Kant ed Hegel con Sorel, con Oriani, e soprattutto con il nazionalismo e con il Corradini? Per quanto riguarda, poi, l’altra serie di nomi (Vico, Spaventa, De Meis, ecc.), essi rientrano maggiormente nella corrente cultura dell’epoca, influen zata dall’idealismo gentiliano e crociano. Più originale si poteva dire il Bottai, ad es., quando cer cava di teorizzare la differenza tra un fascismo agrario, squadristico, e un fascismo cittadino, più tendente alla normalizzazione, rifacendosi alla sua esperienza della guer ra, in cui aveva individuato negli arditi un fenomeno “più cittadino che rurale, più operaio che contadino,” distinzio ne, peraltro, che non aveva alcun senso, come se tutti i ce354
t' contadini fossero squadristi, violenti, e amanti delle gran di gesta punitive, a differenza di quelli cittadini, portati al la moderazione e alla temperanza. La realtà rivelò quanto fosse errata una tale separazione tra due fascismi. Molto probabilmente, quando il Bottai tracciava questa linea di demarcazione, pensava a ciò che era successo nel 1921, al lorché il fascismo si era ingrossato trovando seguaci soprat tutto nelle campagne emiliane e della bassa pianura padana e diventando, in tal modo da cittadino quale era stato fino allora, contadino, o meglio agricolo-agrario; ma si era trattato di un periodo caratterizzato da una grave cri si che aveva espulso dalle fabbriche la manodopera che vi si era recata nei momenti precedenti di boom produttivo e che era ritornata alla campagna con l’esasperata ansia di trovare un posto di lavoro a qualsiasi costo anche in frangendo le norme ed i patti che le leghe avevano stipu lato con gli agrari dopo lunghi anni di lotte e di sacrifi ci. Il fascismo, facendosi il portavoce di quelle esigenze che vedevano unite classi diverse - il sottoproletariato contadino e gli agrari - era riuscito a diventare un parti to di massa, distruggendo tutte le vecchie organizzazioni socialiste. Forse, ripetiamo, continuava ad agire sul Bot tai il ricordo di quel tempo, che era sopraggiunto in una fase, come vedremo, che era stata per lui di transizione e che, perciò, doveva averlo ancora più vivamente impres sionato. Oppure, avvertiva che la sua interpretazione del fascismo, cosi carica di spunti culturali, non poteva esse re adatta alla popolazione dei campi, ma occorrevano ascoltatori più colti e più pronti a cogliere le inflessioni di un discorso più elevato, quali potevano essere, appunto, i cittadini. Si veniva, pertanto, a stabilire una alquanto net ta differenza tra il revisionismo dei Forni e dei Misuri, che si potrebbe definire un revisionismo campagnolo o rura le, e il suo che, invece, proclamava di essere un revisioni smo colto e cittadino. La strada che aveva percorso il Bottai era stata piutto sto lunga, dal nazionalismo venato di futurismo dell’ante guerra (“Eravamo partiti per la guerra con nel capo rom banti parole, come queste: ‘un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’abisso esplosivo [...], un automobile ruggente che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della vittoria di Samotracia’”), un futurismo, peraltro, accolto non per la sua visione della vita in apparenza nuova e che rompeva con il passato quan to per i suoi motivi estetizzanti e rombanti, che era crolla355
to insieme con “tutto quel meraviglioso castello che chia mavamo progresso. Abbiamo capita la menzogna della ci viltà industriale.” In effetti, la sua appartenenza al fascismo - confessava egli stesso - era stata un atto di fede più che di raziocinio cosciente, ed il crollo della fiducia nel pro gresso e la scoperta della menzogna della civiltà industriale, stavano a dimostrare come lo stesso futurismo fosse stato una falsa reazione al passato, ché anzi ne aveva continua to molti aspetti, perfino dell’inviso positivismo (la fede nel progresso), nella assillante preoccupazione di rendere il nuovo, che era il suono, il rumore della civiltà industriale (ma questo vano rincorrere il percepito suono della realtà non era stato forse anche nel Pascoli o nel D’Annunzio?). Di conseguenza, gli era stato relativamente facile passare dal la parvenza di una rivolta contro la tradizione, nel grande e sicuro alveo di quest’ultima: “Noi sentiamo ch’oggi la necessària e salutare rivoluzione antitradizionale futurista sta per cessare, non già per ritornare, come vorrebbero al cuni, nella tradizione, ma per seguitare la tradizione: il che è ben differente.” Nel dopoguerra aveva assistito alla fine della “borghesia stato,” della antica classe dirigente che si era sperduta nell’astuzia, nella furberia meschina, nell’inganno, nell’in venzione, neH’illusionismo pur di poter conservare il po tere di fronte alle due correnti montanti: il fascismo e il massimalismo. Ma contro la “rivoluzione miracolista, antiitaliana” del secondo stava la “rivoluzione tradizionale, ita liana, spontanea, perché generatasi istintivamente nella nostra coscienza, del primo.” Era una lotta, per lui, impari fra un'idea viva e un’idea morta, quella che aveva vivo il “senso di continuità storica, che ci persuade, anzitutto, a non attendere da nessun miracolo esoterico la novità, ma a ricercarla in noi, col più intenso lavoro di affinamento e di educazione. Lo spirito, quindi, rivoluzionario, di che la guerra e l’agitato periodo postbellico, che à avuto testé il suo epilogo, ci ànno caricato, è uno spirito profondamen te tradizionale, il che non vuol dire né reazionario né xeno fobo: tradizionale, non conservativo, che sarebbe in irri ducibile antitesi con l’aggettivo ‘rivoluzionario.’” A poco a poco veniva meglio definendo che cosa intendesse con un simile inserimento attivo, non conservatore, nella tradi zione: quando, ad esempio, criticava, con una certa asprez za, in un articolo del luglio del ’22 su “La Patria (Italia “cellulare”)," la “vita intellettuale che chiamerà cellu lare, impastoiata di vecchie categorie mentali, formata 356
di residui, di derivazioni,” una vita a cui mancava “una fresca e diretta visione delle cose immediata, lineare, acerba.” Riteneva che fosse venuta l’ora che scendessero “dagli altari codesti babuassi oracoleggianti,” il cui più grave difetto era di non aver mai tenuto conto di quel pic colo fatto storico, che si chiamava la guerra, perché “la Pa tria ha bisogno di gente alla buona, di gagliardo cervello e di fegato sano.” Si potrebbe dire che il Bottai stava attra versando il momento radicale della sua vita, che gli faceva dire, nell’ottobre del '22, poco prima della marcia, che il fa scismo, all’insaputa della gran maggioranza dei suoi stessi proseliti, era “sul punto di ricrearsi, di abbandonare alcuni aspetti e forme della sua origine per assumere quella che, per lungo ciclo d’anni, sarà l’idea informatrice della vita na zionale. In questo distaccarsi progressivo dal suo passato,” continuava, “per una creazione nuova ed attuale di disci plina politica, occorrono inimicizie leali, aperte, senza sot tintesi.” Ma occorrevano pure amicizie altrettanto leali, aperte, senza sottintesi ed egli le trovava più che nei fasci sti della prima ora, i quali ad un certo momento si sarebbe ro sentiti a disagio, negli altri, nei fascisti dell’ultima ora, che sarebbero stati più disposti “alle nuove e più positive funzioni del Fascismo.” Tuttavia, sembrava che ancora non sapesse indicare be ne quali dovessero essere queste “nuove e più positive fun zioni,” che, nell’agosto, cominciavano lentamente ad usci re dalla nebulosa in cui erano rimaste avvolte: “La fase ne gativa del fascismo è conchiusa, o quasi. Alla sua funzione storica di negazione e di distruzione [...] subentra, natural mente, una funzione di tramite tra il proletariato e la Na zione. Il fascismo è portato a compiere l’inserzione imme diata dei lavoratori italiani nella compagine formidabile di passioni e di interessi, di tradizione e di avvenire, di sof ferenza e di gioia che è la Nazione. E diciamo: 'è portato,’ con intenzione. Perché ciò è inevitabile; perché ciò si deve fare. Non comprendere questo, sarebbe sciupare, negare la vittoria. Ogni vittoria è assunzione di responsabilità. La re sponsabilità dell’elevazione morale e materiale del prole tariato italiano è stata, per trapasso spontaneo, assunta dal fascismo.” Nell’intento di assegnare al fascismo una fun zione storica positiva e costruttiva dopo quella precedente, oramai sorpassata, negativa e di distruzione, il Bottai non ne riusciva a trovare altra che quella di inserire immediata mente i lavoratori nella Nazione, oppure quella dell’eleva zione morale e materiale del proletariato: si capiva che non 357
si era ancora del tutto liberato dagli schemi che la lotta con tro il socialismo gli aveva inoculato. Tutto sommato, si sa rebbe trattato di riprendere con maggior lena l’opera già iniziata dagli avversari di ieri, ora sconfitti, e di portarla a compimento, anche se con un accento un po’ diverso, perché si inseriva, nel suo discorso, la “compagine formi dabile di passioni e di interessi che era la Nazione, un ente superiore a tutti gli individui. Ma il fascismo ve niva pur sempre concepito come tramite fra il proleta riato e la nazione stessa, in maniera non diversa da come i socialisti concepivano il loro partito: quale compito avreb be dovuto essere specifico di un partito, se non di essere un trait-d’-union fra una - o fra le - classi sociali e il potere? C’era anche una certa ingenuità in questa proclamata nuo va funzione positiva del fascismo. Ripensando molti anni più tardi, nel 1949, alle vicende del “colpo di stato,” il Bottai attribuiva a quei rapidi istan ti la genesi delle sue posizioni posteriori: dopo la revoca dello stato d’assedio da parte del re, scriveva, si era capito che “l’insurrezione era definitivamente terminata, anche di fatto. Bruscamente, il tratto di strada che ci restava da per correre, dai bivacchi a Roma, mutava rotta: daU’illegalità al la legalità.” Ma un simile mutamento di rotta, che nel '49 gli sembrava chiaro, non era altrettanto evidente nel ’22, ed anzi “ai più seguitò a sfuggire per mesi e mesi dal primo avvento al potere,” perché “vi sono nell’azione politica giunture e con nessioni di tempi, che il grosso non percepisce nel momento giusto o addirittura mai.” Infatti, non si era perso “tra noi il vezzo di mettere a contrasto i diritti, si diceva, della ri voluzione con il diritto che dal moto innovatore stesso si trasfondeva nella struttura dello Stato.” A distanza di ven tanni poteva affermare che “cotesto illegalismo postumo” rimase sempre “uno dei tarli corroditori del sistema creato” dal fascismo e che fini con il portarlo “a consunzione: una sorta di antifascismo interno al sistema, ben altrimenti valido, a determinarne la progressiva inefficienza, dell’an tifascismo esterno.” Era, pertanto, molto improbabile che soltanto lui avesse compreso quella necessità di un muta mento di rotta, sebbene, sempre a vent’anni di distanza, notasse con grande chiarezza che nella notte del 29 otto bre “il Fascismo mutò di accento. Non solo cessò d’esse re una rivolta, ma iniziò un nuovo assetto e disegno della rivoluzione: una rivoluzione al potere con in mano gli stru menti e gli organi necessari all’esercizio del potere, padro na non solo delle leggi in atto, ma, quel che più conta, del 358
la legislazione attiva. Averlo afferrato subito, mentre in torno a noi urgono e premono altre forze e passioni e in teressi, e con tanto veloce intuito da non abbisognare nep pure d’approfondimento, è come discoprire in sé quella forza critica che è la forza stessa di una rivoluzione, quale noi oggi intendiamo: con un suo intrinseco potere, coi suoi fatali inesorabili sviluppi che non si possono contrastare, ma neppure si debbono passivamente seguire, con una ‘continuità’ che esige, da parte di chi ne sia a capo, inter pretazione assidua e scaltrita.” Ma ciò che noi mettiamo in dubbio è che il Bottai avesse afferrato subito e con veloce intuito il vero significato di quello che si era svolto e si stava svolgendo sotto i suoi occhi: non era stato affatto in grado, nell’ottobre del ’22 né nei mesi successivi, di cogliere l’inizio di “un nuovo concetto e disegno della rivoluzione” e di manifestare subito quella forza critica che avrebbe dovuto scaturire da un adeguato approfondimento dei fatti. Tant’è vero che, ancora nel dicembre del ’22, sosteneva che una omogeneità politica del fascismo, “partito sorto da un reclutamento avvenuto in un’atmosfera passionale,” non era ancora stata possibile e dichiarava necessario che gli uomini, i quali si proponevano di potenziarlo, riuscisse ro nel loro compito: “Il Governo fascista,” proseguiva, “à bisogno, a parer nostro, non già di una base irrequieta e imprecisa, dalle fondamenta cedevoli e sussultanti, che im pedisca la necessaria integrazione delle forze sane e pure, ma, anzi, di assicurarsi nel Paese un attivo centro d’attrazio ne di tali forze. Noi abbiamo fede che ciò possa farsi piana mente. Non bisogna mai dimenticare che noi siamo nati con una tale promessa di ricostruzione nazionale che non possiamo e non dobbiamo accontentarci di essere un nuo vo partito pur che sia. Abbiamo non tanto una parte da di fendere entro i confini gelosi dei suoi programmi, quanto una funzione da compiere, vasta, al di sopra delle picco le cose e delle piccole persone che sono in questo grande partito.” Una posizione cautamente moderata risaltava abbastanza nettamente da questo passo in quell'appello alle “forze sane e pure,” la cui integrazione nelle file del fascismo era impedita dalla “base irrequieta e sussultan te” e in quella ampia e vasta funzione da compiere, che travalicava il vecchio programma sinistrorso di piazza San Sepolcro e che dimenticava le piccole cose e le piccole per sone per mirare ad altri confini più lontani, in cui gli ita liani potessero scorgere una vera ed effettiva promessa di ricostruzione nazionale. Non c'era ancora alcun accen 359
no ai motivi su cui insisterà fra non molto e che nasce ranno, in lui, da altre esperienze e come risposta ad una di versa situazione. In un successivo articolo della fine di di cembre ’22 (Dopo due mesi), lamentava che non fosse an cora nata una “bella, maschia, argomentata opposizione” quale quella che aveva reso piena di movimento e talvol ta drammatica la vita politica e parlamentare della passa ta Italia: c’era soltanto una “opposizione da servi spauriti, che va dal tono squinternato e untuoso dei giornali demo cratici a quello volgare e velenoso della sopravvissuta stam pa sovversiva.” In tal modo, il “nuovo ordine di cose” cor reva il pericolo che “dal gregge degli avversari si levi im provvisamente qualcuno, col gozzo gonfio di ira, a dar voce di protesta al pettegolezzo diffuso e minuto”; sicché, se condo lui, spettava “ai fascisti, a loro, in prima linea, un compito di autocritica, di analisi spregiudicata e serena. Creiamo a noi stessi,” esortava i suoi camerati, “da noi la nostra opposizione.” Taluno ha visto, in questo incitamento a creare “a noi stessi la nostra autocritica,” la matrice di “Critica fa scista,” il cui primo numero usci il 15 giugno del '23, con un articolo-premessa del Bottai che chiariva non essere sua intenzione di dare inizio “alla nostra opera, scrivendo la formula sacramentale che se ne sentiva il bisogno e che viene a riempire una lacuna”: egli avvertiva che il “no vanta, e forse più, per cento dei nostri compagni di lotta vivono in uno stato di perfetta beatitudine né provano bisogno alcuno di riempitivi.” E sapeva pure che gli “spe cialisti dell’organizzazione,” che non conoscevano “che il consolidamento del numero, della folla, della moltitudine,” avrebbero ritenuto dannoso “tentar di rimuovere tale per centuale di incuriosi dal suo appagamento e che molto più convenga lasciarla alla sua ferma contentezza.” Eppure, si era deciso ugualmente a fare uscire la sua rivista, nella speranza che la sua fatica non riuscisse del tutto ingrata né inutile “a quel dieci, e forse meno, per cento di fascisti per i quali anche le più materiali e soldatesche gesta del la nostra triennale rivoluzione furono strumento di più alte e durature conquiste.” Lo sosteneva soprattutto la malcelata fiducia di concorrere a “creare quella classe nuo va di dirigenti di cui il Fascismo à urgente bisogno per so stituire l’antica,” e gli piaceva credere “che la seconda ondata abbia a essere finalmente l’avvento, sopra gli uo mini che ànno esaurita la loro funzione, degli uomini at ti a fare del Fascismo il centro sensibile della vita na 360
zionale.” Il periodo che stava attraversando il movimento delle camicie nere era di trasformazione, di “raccoglimen to meditativo, attraverso cui la forza materiale è in via di potenziarsi in forza morale.” Come si vede, questo moti vo del lento prevalere della forza morale su quella mate riale era il suo preferito e risentiva, forse, alquanto di una vecchia retorica di stampo umanistico. Si trattava di una fase, in definitiva, di crisi, ed egli proclamava di non avere avuto e di non avere “nessun timore ad ammettere che una crisi esista nel Fascismo e complessa. La parola crisi,” soggiungeva, “non à, che noi sappiamo, nessun signi ficato tenebroso. Crisi non significa morte o catastrofe, in buona lingua italiana. Non comprendiamo quindi il timo re di usarla, per indicare il fervore di innovazione che per vade tutto il Fascismo.” Non si capisce bene dove potesse vedere un simile “fervore di innovazione,” nel giugno del '23: forse nella creazione del gran consiglio e della milizia, oppure nella legge Gentile, o ancora nella legge elettorale maggioritaria in gestazione? Erano tutti provvedimenti che miravano a consolidare ed a perpetuare la conquista del po tere da parte del fascismo e non si potevano certo dire di innovazione. Infatti, il Bottai ammetteva, con una segreta soddisfazione, che il fascismo stava operando, mediante un formidabile travaglio, “il suo trapasso da stromento di ri voluzione e di conquista in stromento di conservazione, nel senso non demagogico della parola, e di stabilizzazione di al cuni determinati valori politici e spirituali.” Insomma, il fa scismo, se mai era stato rivoluzione o scardinamento di un vecchio assetto politico, ora procedeva alla restaura zione di quei valori che sembravano essere stati da esso combattuti, ed alla loro stabilizzazione. Il travaglio da cui era colto il regime^ era comune a tutti gli italiani, e, pertanto, egli esclamava, “guardare nella crisi del Fasci smo come negli sviluppi d’un fenomeno a sé, che non in teressi la vita della Nazione, è fare opera vana e, spesso, cattiva, che gli avversari compiono con cotidiana inoppor tunità, a cui è d’uopo rispondere con tale chiarezza e con tale evidenza, che dimostrino come noi scorgiamo, nell'an goscioso problema della nostra definitiva formazione, un problema italiano, e fascista in quanto italiano. Era na turale che, una volta conquistato il potere, il moto inte riore che à sempre agitato nel profondo il Fascismo, affio rasse in più palesi manifestazioni. In un certo senso può dirsi che non il Fascismo è in crisi, ma che il Fascismo sintetizzi la crisi di tutta la vita italiana: crisi di formazio 361
ne, crisi di crescenza, crisi di definizione di valori.” Piutto sto che imporre al partito “una specie di ripiegamento tattico,” egli preferiva “studiare, vagliare ed agitare i ter mini di questa crisi meravigliosa, dalla quale sta per na scere una nuova classe dirigente,” e che preannunciava “una nuova coscienza fascista.” Ciò che con maggiore evidenza risaltava da questa lun ga celebrazione della crisi come strumento di progresso e di più precisa definizione dei valori che avevano concor so a formare il fascismo (ma quali erano?), era la ribadi ta consapevolezza che ormai il regime si identificava con il popolo italiano, e che perciò tutto quello che interessa va il primo doveva interessare pure il secondo: ecco per ché il Bottai criticava qualsiasi “ripiegamento tattico” op pure qualsiasi tentativo di nascondere la realtà sotto un “ottimistico entusiasmo”: egli voleva, invece, procedere senza esitazione alcuna nella “serena, decisa, appassionata volontà di chiarificazione,” sicuro che essa avrebbe porta to ad una accentuazione dei valori tradizionali - che non potevano non essere valori di conservazione e di stabilizza zione -, verso i quali egli con tutte le sue forze cercava di sospingere l’incerta e ancora traballante navicella del fascismo. Ma, ancora una volta, bisogna osservare come in un simile sforzo di mettere in luce, nel partito, valori che gli sembravano più adeguati alla sua effettiva realtà e di portare alla luce la nuova e vera coscienza fascista, non si possa scorgere nulla delle sue posizioni posteriori, che consisteranno ncll'imporre la preminenza dello Stato e del governo sul fascismo, o almeno nel far coincidere l’uno e l’altro. In un articolo del 1° novembre ’23 (La Marcia su Roma), si poteva sentire questa sordità e questa angustia di interpretazione critica: “Crediamo di non arrecare of fesa a nessuno, bensì giovamento alla nostra causa, ram memorando le molte passioni che trascinarono verso Ro ma la moltitudine nostra: passioni d’ogni sorta, ad arte ec citate e scaldate per creare la spinta ad agire, passioni di uomini, ognuno dei quali compieva un proprio atto par ticolare, passioni di provincie, ognuna delle quali parte cipava al moto con una sua propria mentalità, passioni di categorie e di classi, ognuna delle quali tendeva ad una sua speciale rivendicazione. La storia dell’atto che si com pie, non è la storia, ma le cronache di ognun che ne sia attore. Ufficio delle commemorazioni avrebbe a esser quello di soprapporre alle cronache la storia e tram e gli insegnamenti. E noi diciamo precisamente questo: che molti fasci 362
sti sono ancor rimasti alle cronache.” Il Bottai rimaneva qui sul piano della esortazione ad uscire dalla cronaca per entrare alla storia, la sola che fosse in grado di far superare le “passioni d’ogni sorta” e di aiutare a trarre dall’evento il dovuto insegnamento. Ma, gli si sarebbe potuto chiedere, quale era l'insegnamento che egli stesso traeva dalla marcia? La necessità di una svolta moderata, verso destra, median te una immissione senza traumi del fascismo nello Stato? Si badi, inserimento di un partito che continuava a rima nere quello che era stato e che, perciò, avrebbe messo in pericolo la svolta moderata auspicata, perché era mol to difficile che il fascismo, il quale viveva tuttora nell'en tusiasmo e neH'ottimismo generati dalla recente vittoria, riuscisse a temperarsi, a frenarsi sollevandosi nella più alta sfera della storia (in questa distinzione fra cronaca e storia sembra di sentire l’eco affievolita, e ripetuta pedan temente, della lezione crociana). Il suo grido: O italiani, vi esorto alle storie, doveva restare inascoltato, soprat tutto perché lanciato con un tono troppo professorale, ti pico di colui che si rivolge con una saccente superiorità alle turbe e alle masse cercando di volgerle docili ai suoi voleri. Questa confusione di motivi e di idee non era stata dissipata nemmeno da un suo precedente articolo del 1° ottobre (Esame di coscienza), in cui venivano ripresi di versi spunti di un altro articolo di M. Rocca, del 15 set-, tembre, Fascismo e paese, che avevano valso a quest’ul timo l’espulsione dal partito, poi revocata dallo stesso Mus solini, che, in quei momenti, dava esempio di moderazione: infatti, poco prima, il consiglio dei ministri aveva appro vato una sua dichiarazione che rendeva omaggio al paese, che, “nella sua enorme massa laboriosa, desidera una cosa sola: di essere lasciato tranquillo. E devo dichiarare che, mentre minoranze politiche danno ancora segno di irre quietudine, le vaste masse lavorano silenziose e contribui scono più di tutti efficacemente colla loro disciplina alla ricostruzione della nazione”; e cui riconosceva apertamente che “tutti i partiti, compreso il Fascista, sono in un movi mentato periodo ’di revisione, di chiarimento, forse di tra sformazione” (30 agosto). Quasi sicuramente erano state queste dichiarazioni del duce ad aprire la strada alla pole mica dei revisionisti, della quale era un'autorevole espres sione lo scritto del Rocca, cioè di un membro del gran con siglio: “La rivoluzione fascista,” egli sosteneva, “nell’ampia e fulminea intuizione del Duce nostro, doveva essere [...] 363
la rivoluzione compiuta dai fascisti ma per l'Italia intera e non per i fascisti medesimi; la rivoluzione capace di vio lentare prima, ma di convertire poi l’Italia intera [...], in modo che il fascismo, lungi dal marcire in una supposta torre d’avorio tramutantesi in una scatola di conserva, si espandesse spiritualmente fino a fondersi, ad annegarsi, a disperdersi nella nuova e diffusa e salda coscienza nazio nale [...]. La disciplina formale imposta non si sa bene a servizio di quali satrapie provinciali e di quali ambizioncelle personali [...], non basterà mai ad evitare l’errore in cui i socialisti trovarono la disfatta: l'opposizione alla cultura, alla capacità tecnica e all’intelligenza. Basterà an cor meno ad evitare la separazione (sterile e funesta per il partito) fra esso e il Paese, e, a lungo andare, forzatamen te fra il partito e il Governo, il cui capo non rinuncerà mai a rappresentare l’anima e la grandezza di tutto il Paese [...]. Noi domandiamo al partito, umilmente, acco ratamente, di riconciliarsi con l’Italia di Mussolini: e, per riconciliarsi, di troncare la parodia della rivoluzione e del la disciplina verbali, eternate nel troppo vantato ricordo d’una violenza vittoriosa, oggi che la sua necessità è scom parsa; abbandonate Luna e l’altra all’arbitrio degli pseudo-mussoliniani in sessantaquattresimo che parlano in suo nome, a sua insaputa, come suoi amici o come dittatorucoli provinciali della propria elettoralistica agenzia.” La condanna di chi pensava di poter perpetuare e di rinno vare di continuo il “ricordo d’una violenza vittoriosa” era molto netta, cosi come netta era pure la condanna dei “dittatorucoli provinciali” che parlavano e sparlavano in nome del duce, il quale, a sua volta, doveva rappresenta re “l’anima e la grandezza di tutto il suo Paese” (corsivo nostro), volendo rallier (far aderire) al regime gli uomini colti, i tecnici, gli intellettuali, dato per scontato che aves se già ottenuto il consenso delle masse popolari (!). L’errore dei socialisti, affermava il Rocca, era stato quello di non aver cercato l’appoggio di questo ceto colto, ma che cosa avrebbero dovuto fare le correnti politiche di sinistra per raggiungere questo scopo, dal momento che l'intellighentzia era, allora, quasi concordemente schierata con i partiti reazionari, della destra? Avrebbero dovuto rinunciare al le loro caratteristiche essenziali per rivestirsi di altri pan ni, più condecenti e più puliti, tali da convincere la pic cola e media borghesia intellettuale a spostarsi verso di essi? Vincere profondi e radicati interessi, o supposti in teressi, non sarebbe certo stato possibile con alcuni più 364
o meno piccoli accorgimenti. Ma, senza dubbio, il fasci smo al potere doveva affrontare il problema di questa ca tegoria, per sua natura avversa agli estremismi e favore vole si ad un regime conservatore, che non fosse, però, rea zionario, o almeno che giungesse alla reazione per gradi, insensibilmente. Alla metà del ’23 poteva sembrare che la tendenza re visionista riscuotesse l’approvazione aperta dello stesso duce, se l’ufficiale “Corriere italiano,” il 16 settembre, pubblicava un articolo (Governo e fascismo nella realtà politica), in cui ribadiva le affermazioni del Rocca, ed an zi dava loro un accento più netto e risoluto: “Occorre, se condo noi, rinnovare l’organismo, rifare sopra basi nuo ve la struttura disciplinare e regolamentare del partito, crearlo insomma ex novo. Esso non risponde più ai tem pi, è superato dall’imponenza stessa della civiltà politica di cui fu l’artefice e il padre. È insufficiente, insomma, a comprendere in sé, per moltiplicarne gli echi e gli effetti, questa grande realtà nazionale che oggi viviamo e alla qua le aderiscono ormai, volenti o nolenti, uomini, ceti, classi, dalle origini più diverse. La stessa vita di provincia non può più a lungo restar soffocata sotto l’arbitrio capriccioso e tirannico di qualche capo che continua contro gli isti tuti statali la lotta del ’19, del ’20 e del '21, come se dal no vembre essi non fossero passati sotto la gestione e il con trollo diretto del governo fascista. Se a questo radicale rinnovamento del partito fascista non si potesse arrivare, sarebbe meglio annullarlo, lasciando che le forze sane e fresche che in esso operano e vivono, si inserissero gagliar damente nella più libera e vasta corrente nazionale. Miglio ri forse ne sarebbero i risultati [...].” C’erano già, in nuce, in questo passo (per quanto espressi spontaneamente, sen za una precisa coscienza critica) i motivi su cui più tardi insisterà molto il Bottai, e, in particolare, l’esigenza di re golare e disciplinare il partito facendolo rientrare, ordina to e senza velleità di autonomia, nella grande realtà nazio nale a cui aderivano uomini e ceti dalle più diverse pro venienze. Tuttavia, ancora il Bottai, nel ricordato articolo Esame di coscienza analizzava e definiva in otto punti in che cosa consisteva la crisi del partito, preferendo in sistere, in gran parte, sulla progressiva invasione e sulla penetrazione del partito nella vita del paese, con abusi, confusioni di poteri che lo sottraevano ad ogni disciplina e ad ogni controllo:” 1) Mancanza, dal giorno che Benito Mussolini assorbito nelle più gravi cure del governo cessò 365
di essere il Capo del Partito, in senso pratico, pur rima nendone il Capo ideale, d’un uomo che alle cose del Par tito si dedichi esclusivamente, continuamente e autorevol mente; 2) Esistenza d’una Giunta Esecutiva, creata con inve stitura dall’alto, che volle essere il più possibile felice, ma non riuscì' nella creazione d’un organismo direttivo omoge neo, animata da una volontà unica, lineare, precisa; 3) Abuso, anche nei gradi inferiori, di investiture dall’alto, che rara mente corrispondono alle reali esigenze dell’organizzazio ne, e che spesso montano la testa degli investiti; 4) Persi stenza di un sistema disciplinare rigido, militaresco, ricco di formule primitive, ottimo in tempi di azione po litica, esecrando per l’uso tirannico ed abusivo che ne fan no la maggior parte dei capi locali; 5) Persistenza di qua dri, creati in un'atmosfera di lotta e di violenza, incapaci di informarsi (sic) alle necessità nuove di maggiore studio, meditazione e responsabilità; 6) Confusione di poteri, di attribuzioni e di autorità tra i vari rami dell’organizzazione fascista (partito, milizia, sindacati, cooperative, gruppi di competenza) e mancata definizione dei loro rapporti; 7) Per sistente confusione tra i poteri dello Stato e i poteri del par tito, per cui questi, in ispecie nelle provincie, tendono a so vrapporsi a quelli; 8) Indefinitezza programmatica delle at tuali funzioni del partito.” Cosi, anche lui, Bottai, aveva divulgato il suo ottalogo, che puntava, pur con una certa indeterminatezza e debolez za, sulla esigenza di eliminare le investiture dall’alto per sostituirle con le elezioni dal basso; ma quando si fosse raggiunto tale obiettivo e si fossero meglio definite le funzioni del partito si sarebbe forse posto termine al cli ma di illegalità e di violenza materiale e morale con cui il fascismo governava? Ecco, allora, spuntare la richiesta che, secondo il Bottai, sicuramente avrebbe contribuito a sa nare la situazione: cioè la distinzione fra i poteri dello Stato e i poteri del partito. Ma una simile richiesta, nell’ottalogo, rimaneva quasi confusa, un punto fra gli altri, e non diventava il leitmotiv fondamentale. Tuttavia, il suo pensiero si andava meglio precisando, nella prima metà del ’24 prima nella polemica contro i selvaggi e gli estre misti antistatali del suo stesso partito, e, dopo, in seguito alle ripercussioni del delitto Matteotti. Ed appunto in un articolo del luglio, egli ricordava come da parecchio tem po e senza aspettare che arrivasse il trauma del delitto, avesse domandato al partito di fare un esame di coscien za, solo che quell’esame di coscienza, la cui esigenza era 366
stata avanzata, come si è visto, il 1° ottobre del '23, era piut tosto vago e generico, mentre ora sembrava acquistare mag giore concretezza. Rispondeva al Suckert di non aver vo luto conciliare, o addirittura fondere, il revisionismo con il liberalismo, inteso quest’ultimo come ideologia politica, perché la sua proposta era di collegare strettamente il fa scismo con la dottrina filosofica del liberalismo, intenden dola come affermazione e analisi del processo unitario della storia. Sempre in risposta al Suckert, sosteneva che, fra un simile liberalismo e il “fascismo storico” della “Con quista dello Stato,” non c’era grande differenza se non nell’indicazione di chi avrebbe dovuto attuarlo: per il Suc kert era, naturalmente, il Farinacci, per Bottai, invece, Mussolini e con lui quei fascisti che credevano nello Stato. Inoltre, respingeva quelle che riteneva nostalgie vane, cioè alleanze con correnti e gruppi di sinistra, perché una tale “mescolanza di uomini” non avrebbe fatto altro che riacutizzare la crisi che aveva già colpito il partito dopo la marcia su Roma e per buona parte del ’23. A suo pare re, si sarebbe dovuto passare alla formulazione di una piat taforma programmatica, ideologica e concreta che sola avrebbe consentito di misurare la gravità o meno dei con trasti. E concludeva: “Non si è compreso che la conquista del potere da parte del fascismo, come non è un episodio qualsiasi della vita nazionale, cosi non deve essere un epi sodio qualsiasi della vita del Partito. Nel ‘fatto compiuto' della conquista del potere si racchiude, in sintesi, la nostra potenza rivoluzionaria, la quale deve esplicarsi con il tra durre le idee in istituzioni. Noi non abbiamo il potere per ché abbiamo fatto la rivoluzione, ma abbiamo il potere per ché dobbiamo fare la rivoluzione. E la rivoluzione si fa quando si ha il potere in mano, in modo profondamente diverso da quello in cui l’intendono certi robespierrini di nostra conoscenza: si fa cercando un nuovo equilibrio delle attività e delle funzioni dello Stato, rielaborandone i principi e consolidandone negli istituti e, se occorre, nella costituzione medesima, le grandi idee direttive.” In apparenza, il Bottai faceva una concessione a chi continuava a riempirsi la bocca della magica parola rivo luzione, senza, però, una valida prospettiva e senza un si gnificato logico affettivo, affermando che questa doveva venire dopo la conquista del potere, e non prima, quando si era tutti tesi a superare il momento della lotta; ma po teva sembrare che la piattaforma programmatica, di cui aveva invocato la necessità, si riducesse ad una più accu 367
rata definizione delle funzioni dello Stato, ad una rielabo razione dei suoi principi e ad un consolidamento dei suoi istituti, se necessario, anche mediante modifiche dello Sta tuto. Di conseguenza, il problema non era cosi semplice, come credevano i robcspicrrini, ma diventava quello di avere una nuova classe dirigente capace di vivificare lo Stato con l’ideologia fascista; altrimenti se tra lo StatoNazione e il fascismo si fosse scavato un largo fossato, si sarebbe aperto il varco al ritorno dell’antica classe diri gente. Il Bottai, nello scrivere queste parole, aveva pre sente una “recente intervista concessa al 'Giornale d’Italia’ da Benedetto Croce, che prevede un ritorno al regime libe rale, ove il fascismo non sia in grado di creare un nuovo assetto costituzionale e giuridico.” Pericolo che, secondo lui, esisteva, perché, proseguiva, “o noi, diciamo noi fasci sti, avremo l'ardire [...] di gettarci a fondo nella politica, non per ripetere le sapienti alchimie giolittiane, ma per esprimere e stampare negli istituti, nelle leggi, nei codici, nei metodi l’idea di rinnovamento che è alla base del fa scismo, o noi falliremo, preparando il ritorno al regime e agli uomini, cui il senatore Croce anela.” Ma, ci si potreb be chiedere, dov’era e quale era l'idea di rinnovamento che al Bottai piaceva immaginare alla base del fascismo, in che cosa consisteva se non nella ripetutamente espressa vo lontà di modellare lo Stato sul Partito fascista, cioè su un partito che mirava ad esercitare un potere assoluto, to talitario e che non ammetteva più né opposizioni né criti ca e che ancor meno era disposto a lasciar la dura presa sullo Stato? Ecco perché, in quel periodo, il fascismo do veva sembrare non essere capace di creare quel “nuovo assetto costituzionale” che quasi tutti si aspettavano, il che permetteva agli pseudo-rivoluzionari una maggior li bertà di manovra, che era anche voluta dalla necessità di rispondere in maniera adeguata - cioè con la forza, per ché in altro modo non avrebbero saputo farlo - alla of fensiva delle opposizioni che si era fatta particolarmente acuta dopo il delitto Matteotti (sebbene fosse una offensi va quasi del tutto innocua - in quanto basata su una de nuncia morale a cui Mussolini e i suoi seguaci potevano prestare non troppa attenzione, pur se dovevano temerne gli effetti psicologici sulla popolazione). In maniera ancora più esplicita, ed anche più chiara, il Bottai riprendeva il problema dei rapporti fra lo Statogoverno e il partito in due articoli, del 15 novembre (Il nuovo corso) e del 15 dicembre (Perfezionare il partito), 368
che venivano quasi a commento del discorso del duce dell’ll novembre per la riapertura della Camera e al mes saggio dello stesso Mussolini alle federazioni fasciste del 30 novembre. Nel primo il capo delle camicie nere aveva dichiarato che “il cosiddetto ‘rassismo,’ che costituirebbe il fenomeno culminante della 'pressione’ fascista, è in evi dente declino. Già da parecchi mesi, il Partito si è dato una diversa costituzione. L’autorità non discende più per in vestiture dall’alto, ma si esprime dal basso, attraverso organi elettivi di diversi gradi. C’è in tutta la compagine del Partito un travaglio di selezione, di coordinazione, di adat tamento ai nuovi compiti. Gli inadatti scompaiono. Sono eliminati, o se ne vanno [...]. L’illegalismo, cioè le azioni sporadiche di violenza, sono in diminuzione [...]; l’illegali smo, anche se fascista, non solo non è tollerato, ma è se veramente punito [...]. Bisogna sentire ed accogliere il desiderio di tranquillità delle popolazioni. Vi è un bisogno diffuso di distendere i nervi, dopo che per dieci lunghi anni furono tesi fino allo spasimo. Bisogna cercare di rea lizzare non l’abbracciamento universale, che è mera uto pia, ma un minimo, e, se possibile, un massimo di convi venza civile e di concordia nazionale. Non v’è dubbio che la nazione, a poco a poco, ma fatalmente, ripudierà coloro che restano sordi a questo grido prorompente dalle vaste profondità dell’animo collettivo.” Il Maccari commentava sdegnosamente che il duce, con il suo discorso “ultranor malizzatore, legalitario, quietista, pacifista,” mandava “in congedo tutti noi, che lo servimmo in qualità di squadri sti, secondo le nostre forze inesperte e giovanili, ma ge neralmente sane e sincere.” Ed effettivamente l’impressione che doveva essere nata da quelle parole di Mussolini era una specie di benservito allo squadrismo e alle sue connatu rate violenze, come di un ferrovecchio che ormai non ser viva più. Pertanto, il Bottai non poteva fare altro che ap provare questo “nuovo corso” annunciato con tanta solen nità e con tanta segreta retorica, sostenendo che tale nuo vo corso avrebbe dovuto consistere nel risolvere final mente l’ancora irrisolto problema del rapporto governopartito. Egli era giunto a concepire lo Stato-governo, se condo una concezione puramente tecnocratica, come uno “strumento in se stesso non qualificato né qualificante,” scrive la Mangoni, “e che quindi doveva essere solamen te efficiente, e,£he era compito delle diverse ideologie ca ratterizzare di volta in volta.” Tutto ciò che si agitava nel profondo del partito - revisionismo o intransigentismo 369
non doveva trasferirsi nella concreta azione di governo, ma ridursi a un fecondo dibattito di idee, che poteva in contrarsi o scontrarsi, pur rivelando sempre la validità dell'idea. Nel messaggio, il duce oltre a polemizzare contro lo “squadrismo in ritardo” sostenne che era necessario “ri vedere le nostre posizioni morali e mentali e quindi poli tiche. Un partito che non sa o non vuol fare questo è condannato.” Il 5 dicembre, poi, parlando al Senato sulla politica interna, disse che fin dall’“indomani della rivolu zione” dell’ottobre al quesito se creare una nuova legalità o rientrare nella vecchia legalità (“Fuori della costituzione o dentro la costituzione?"), aveva scelto senza indugio la prima via; e si meravigliava che non si volesse riconoscere che “da allora ad oggi" c’era stato un processo di riassor bimento della rivoluzione nella costituzione e nella legali tà: faticoso, lento, difficile, ma, secondo lui, c’era stato. E si chiedeva c chiedeva a gran voce: “C’è stato un disciplinamento del Partito? C’è stato!” Ma il Bottai ribatteva che se Mussolini avesse proclamato le stesse cose un an no prima, quando il partito era unito, avrebbe fatto un'ope ra di “liberazione del fascismo,” mentre proclamarle quan do il partito era lacerato e frantumato in tendenze diver genti, non poteva far si che il partito stesso pervenisse ad una duratura pacificazione. Questo perché “la svolta del le vicende ha condotto il Partito a un dilemma tragico. Rimanere ancora Partito significa per il fascismo, irri mediabilmente, la rinuncia al proprio programma, cioè a se medesimo. Ricuperare se medesimo, cioè ritornare al programma, significa per il fascismo abolire il Partito. Fascismo c Partito divengono ogni giorno più termini anti tetici. Bisogna superare l'antitesi a vantaggio del fascismo, per lo spirito contro il corpo.” Sembrava che il Bottai, rassicurato da quanto aveva af fermato il duce e quasi convinto di aver raggiunto la vit toria sugli avversari intransigenti, incalzasse sempre più da vicino il duce per deciderlo a prese di posizioni ancora più nette e recise. In effetti, il 15 novembre aveva lanciato una specie di ultimatum, forte anche per aver constatato come “il ristretto cerchio di amici” che si riconoscevano nel revisionismo (sebbene lui rifiutasse tale parola come non espressiva del suo stato d’animo), si fosse “straordi nariamente allargato, fino ad essere una parte considere vole del Partito, certo la più responsabile.” “È ora,” cosi di chiarava nell’ultimatum, “che i dirigenti si rendano conto 370
che il disagio da noi segnalato esiste; e ingrandisce ogni giorno. Questo disagio può voler dire la salvezza oggi, sarà domani inevitabilmente la divisione, lo scisma, il fraziona mento.” Il Bottai, in questo che voleva essere il suo ma nifesto con il quale si poneva a capo di una ormai forte cor rente nel partito, criticava piuttosto duramente un po’ tutti, citando, talvolta, persino il Farinacci, che pure era stato uno dei suoi più tenaci e duri avversari, colui in cui si era incarnata l’altra anima del fascismo: nessuno era stato capace di “disegnare un ampio piano di adeguamen to del Partito alle necessità nuove dei .tempi, come unani me, da Farinacci al sottoscritto,” si era richiesto e “coloro che reggono hanno ripresa la slegata, discontinua, incon seguente politica del ‘giorno per giorno,’ che, osservino gli estremisti, è, fra tutte, la meno rivoluzionaria, se è ve ro, com’è vero, che una rivoluzione si fa per creare nuovi ordini. Quale ordine nuovo si è creato nel Partito Fasci sta? Nessuno, se non un peggioramento demagogico del vecchio.” Era, questa, una frecciata che colpiva direttamente lo stesso capo delle camicie nere, il Mussolini che cercava di navigare al disopra delle correnti. E, poi, pro seguiva attaccando i metodi con cui era stato guidato - o, meglio, non guidato - il partito: si era lasciata inalte rata la composizione interna del partito senza procedere all'epurazione organica delle file fasciste; l’epurare “capo per capo” in alcune province quando scoppiava uno scan dalo era un sistema pessimo perché non consentiva un rias sestamento e un riordinamento secondo un disegno rico struttivo (perché - egli si chiedeva - “liquidare oggi il raz zismo [rassismo] e non risolverlo ieri, come noi chiede vamo, in una libera iniziativa di revisione interna?”); la propaganda era fatta in modo bestiale, retorico, demago gico, ineducativo, indegno di un partito che voleva essere nuovo-, la stampa locale era tale da fare arrossire un ne gro; non si era combattuto adeguatamente il prevalere, nel le province, dei “professionisti della politica”; la politica verso l’esterno del partito era puerile, affidata al capric cio degli avvenimenti e impostata su un criterio di sog gezione, per cui erano ottimi “quegli uomini politici che si sottomettono, se pure, sottomettendosi, importino nel no stro Partito idee di contrabbando, che ne contraffacciano il volto e guastino lo spirito”; l'avere costantemente con fuso le azioni del partito e quelle del governo, aveva por tato “il Partito a corrompersi, idealmente e praticamente, nella necessaria diplomazia dell’arte di governo, cui è 371
sempre lecito, e talora inevitabile, subire adattamenti, mentre al Governo è venuto a mancare il controllo conti nuo, assiduo del Partito, depositario dell’idea e garante dello spirito della Rivoluzione.” Insomma, avendo lasciato prevalere sullo spirito la parola e sull’essenza la forma, si era finito con il navigare “a gonfie vele nel mare magno del più pacchiano dei conformismi.” A questo punto, gri dava la sua rivolta contro un tale stato di cose e, più che pregare, quasi ingiungeva al duce di muoversi per attuare le “idee di verità e di vita” che l’opposizione interna - sia di destra come la sua sia di sinistra come quella degli in transigenti - sosteneva da tempo: “Noi diciamo Rivolu zione e pensiamo che quello che è stato lo spirito santo del la nostra quadriennale insurrezione, la forza, ispiri l’azione ricostruttiva non secondo ingiunzioni di prepotenza ma se condo principi di autorità realizzata nelle leggi e deside riamo che tale forza si volga nello stesso Partito, come nel lo Stato, a comprimervi la demagogia, il lenocinio, il tra dimento che oramai tutto lo conquidono e pervadono. Il problema del Partito esiste, formidabile. Noi chiudiamo gli occhi alla realtà. Non li chiuda, soprattutto, il Duce, il quale à il diritto di pretendere che nessuno dei soprav venuti gli rovini lo stromento della sua conquista e della sua potenza. ‘Le cerimonie di queste chiese non compren dono più il tuo mistero, o Signore!,' noi gli gridiamo, al modo di un mistico tedesco, guardando dentro lo scon clusionato lavorio delle conventicole che ànno il compito di governarci. Ch’Egli ci intenda e ridia al Partito il fervo re della sua anima e la febbre del suo spirito!” Si possono notare in questo articolo, di cui abbiamo ri portato cosi lunghi passi, diversi motivi: anzitutto, il lento e graduale accostarsi del Bottai alla vociante e urlante pseudo-sinistra, dovuto forse al fatto che avvertiva mon tare nel paese tale corrente. Infatti, tra novembre e di cembre, essa trovava una espressione anche alla Camera, con la proposta di diversi deputati di affidarsi, per supera re le crescenti difficoltà provocate dagli aventiniani, ad un governo militare, e, poco più tardi, lo stesso Farinacci, alla riunione dei direttori lombardi, disse che Inattuale inquietudine che regna tra i fascisti” esigeva un “governo forte.” Verso la metà di dicembre, queste forze dissidentiste (come le disse l’ex segretario del PNF, M. Bianchi) si coagularono raccogliendo alcuni consoli della milizia fe deli al Balbo, i seguaci del Farinacci e i gruppi che face vano capo a due giornali, 1’“Impero” e la “Conquista dello 372
Stato,” mentre il Suckert con un articolo intitolato: II fascismo contro Mussolini?, ammoniva il duce a fare la politica che gli veniva suggerita dalle “province fasciste”: “Il punto di vista della gran massa dei fascisti delle Pro vince è questo, da qualche tempo: non è l’on. Mussolini che ha portato i fascisti alla Presidenza del Consiglio, ma sono i fascisti che hanno portato lui al potere. L’on. Mussolini più che ricevere l’incarico dalla Corona, ha avuto il mandato dalle Province fasciste [...]. I fascisti delle Province non ammettono deviazioni a questo assoluto do vere: o l’on. Mussolini attua la loro volontà rivoluzionaria, 0 rassegna, pure momentaneamente, il mandato rivoluzio nario affidatogli.” Era un altro ultimatum, più duro, sen za dubbio, di quello del Bottai, un ultimatum che sem brava non lasciare alcuna via di uscita al duce e neppure ai revisionisti di destra, il cui esponente, appunto il Bot tai, comprese subito la situazione e si allineò per non ve nire espulso dal fitto gioco politico, che altrimenti si sa rebbe svolto sulla sua testa. D’altronde, bisogna anche osservare che poca differenza correva tra il revisionismo moderato del Bottai e l’intransigentismo rivoluzionario, perché entrambi erano scaturiti dal malessere e dall’in soddisfazione della piccola e media borghesia, che assi stevano con timore al risorgere, favorito dallo stesso Mus solini per motivi elettorali o di potere, dei vecchi ceti di quella società che credevano di avere sconfitto per sempre. 1 revisionisti, naturalmente, temevano che ritornassero le antiche istituzioni, che erano state lo strumento con cui si era esercitato il predominio dei liberal-democratici; gli intransigenti temevano che il fascismo abbandonasse “alle pretese degli oppositori,” scriveva ancora il Suckert in un articolo, Tutti debbono obbedire, anche Mussolini, al mo nito del fascismo, in cui enunciava i nove punti del fa scismo quale lo intendeva il suo gruppo, “il suo patrimo nio ideale e le norme fondamentali del suo programma po litico e sociale, [mentre invece] deve opporsi con qua lunque mezzo a prostituire il suo patrimonio ideale e il suo programma alle mutevoli e contingenti necessità par lamentari tanto del Governo quanto delle vecchie classi parlamentari, le quali uniche si awantaggerebbero di una tale prostituzione dei principi fondamentali del Fascismo.” Di questa prostituzione cosi come della mancata tradu zione in istituzioni delle idee e della potenza rivoluzionaria del fascismo (Bottai), avrebbe fatto le spese proprio la piccola e media borghesia, di fronte alla quale, finalmen 373
te, si erano spalancate le porte di un duraturo e saldo con trollo sulle leve del potere. Si trattava di un ceto che era rimasto, durante il processo di unificazione della penisola nel secolo scorso e nei decenni successivi fino alla guerra, in posizione subalterna rispetto alla classe dirigente, che aveva sempre fatto gli interessi deH’alta borghesia, prima agraria e poi industriale. Esso aveva visto nel fascismo il movimento che avrebbe potuto farlo giun gere al potere e che, con l’ottobre del ’22, aveva scon fitto gli altri due partiti - il socialista e il popolare che avrebbero potuto contenderglielo. Infatti, lo stes so Mussolini, nel discorso alla Camera del 21 luglio 1921 (una dichiarazione di voto in cui aveva messo in rilievo le insufficienze del governo Bonomi), aveva dichiara to che “le grandi forze espresse dal Paese in quest'ora sono tre: un socialismo che dovrà correggersi e già comincià: notevole il voto confederale contro i comunisti, so prattutto notevole il nuovo punto di vista della Confedera zione generale del lavoro per ciò che riguarda lo sciope ro dei servizi pubblici; la forza dei popolari che esiste, che è potente, anche perché si appoggia, non so con quanto profitto per la religione, alla forza immensa del cattolicismo; e, infine, non si può negare 1’esistenza di un terzo movimento complesso, formidabile, eminentemente ideali stico, che raccoglie la parte migliore della gioventù italia na. Credo che a queste tre forze coalizzate sopra un pro gramma comune, che deve costituire il minimo comune denominatore, spetterà domani il compito di condurre la patria a più prospere fortune.” Mussolini, pertanto, ave va accomunato i tre movimenti politici che rappresentava no quegli strati sociali - il proletariato, i cattolici e la pic cola e media borghesia - che si erano più o meno tenace mente opposti all’unità, il proletariato perché, pur parten do da posizioni pre-capitalistiche e feudali, vi scorgeva la vittoria della classe antagonistica, la borghesia; i cattolici perché avversavano la borghesia liberale che aveva abbat tuto il potere temporale dei papi; e la piccola e media bor ghesia perché avrebbe desiderato uno Stato diverso da quello che si veniva costruendo e per il quale la grande borghesia richiedeva anche i suoi sacrifici con l’intento di allontanarla dal potere una volta conseguito l’intento. Pertanto, come abbiamo detto, una volta eliminati dalla scena politica i due temibili e pericolosi concorrenti, il fa scismo, con i ceti sociali di cui era espressione, era risulta to vittorioso su tutta la linea ed i contrasti che erano nati 374
nel suo seno, erano soltanto diversi modi di esprimersi e di intendere la vittoria da parte di un unico ceto. Ecco perché il Bottai poteva proseguire nel ’25 lo sforzo, che aveva già iniziato il 15 novembre '24, di fondere le due ani me che convivevano nel partito: problema che era parti colarmente urgente soprattutto dopo il discorso di Mus solini del 3 gennaio che, rivendicando a sé la “responsabi lità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto” (svuotando, cosi, di qualsiasi valore la protesta dell’Aventino basata tutta sulla “questione morale,” cioè sulla enor mità della partecipazione al delitto Matteotti di gerarchi fascisti), aveva ridato nuova forza agli intransigenti (“[...] la sedizione dell’Aventino ha avuto profonde ripercus sioni in tutto il paese,” ma “viene il momento in cui si dice basta! Quando due elementi sono in lotta e sono irri ducibili la soluzione è la forza. Non c’è stata mai altra so luzione nella storia e non ce ne sarà m ai”). Un altro passo nella loro direzione il duce aveva compiuto con la nomi na di Farinacci a segretario del partito, per cui si poteva ritenere che veramente questa corrente avesse avuto il sopravvento. Quasi subito, il Bottai cercava di rilanciare, in una situazione che per i fascisti si era rimessa in movi mento, la sua corrente, proponendo, il 15 gennaio, di fon dare “centri di cultura” di “Critica fascista,” nell’intento di creare, nelle varie province, alleanze fra le due tendenze per battere, uniti, la “controrivoluzione liberale” che, se condo lui, era in pieno sviluppo. Era la posizione su cui egli era convinto di poter convogliare gli intransigenti, i quali, essendo, come abbiamo detto, i rappresentanti dello stesso ceto, gli apparivano ora il naturale alleato nella nuo va lotta, che aveva messo in ombra le altre precedenti, contro il tentativo del “conservatorismo di tono liberale” di rialzare la testa. In tale alleanza, peraltro, il Bottai era sicuro di poter assumere, sul piano culturale-politico, una funzione preminente soprattutto perché, come abbiamo ri petutamente sostenuto, gli intransigenti erano del tutto privi di una posizione originale sui problemi essenziali dello Stato-governo e del partito. Tema, però, quest’ultimo che si allontanava un po’ dalla sua attenzione, se esclama va, il 15 maggio (Per arginare una controrivoluzione), che “forse senza avvedercene, e certo senza una deliberata vo lontà di farlo, noi stiamo rafforzando tutti gli istituti pub blici che dovevamo distruggere, riconsegnandoli, dopo la cura ricostituente a cui li abbiamo sottoposti a spese del nostro lungo sacrificio di sangue e di pensiero, agli stes 375
si uomini di quella vecchia classe dirigente contro cui la nostra giovinezza insorse, nauseata e sdegnata.” Giustamente è stato osservato che la concezione del fa scismo del Bottai era diversa da quella del Rocco, che lo concepiva come una restaurazione della vita politica ot tocentesca, e non come una rivoluzione-reazione contro l’“oligarchia di politici piemontesi-partenopei” che aveva retto l’Italia dell’Ottocento, quale adesso l’intendeva il Bot tai. E, senza dubbio, lo Stato a cui mirava il Rocco era più facile da realizzare, perché si trattava soltanto di inserire in ciò che già esisteva la realtà fascista, mentre lo Stato del Bottai, quale “Stato etico,” era qualcosa di nebuloso, di vago e di generico che non riusciva a riempirsi di un concreto contenuto. Per ben capire la polemica di questo ultimo contro tutto il secolo scorso, dominato da una bor ghesia conservatrice che, come abbiamo detto, aveva co stantemente escluso dall’area del potere la piccola e media borghesia, basterà rileggere in particolare un suo articolo del 1° novembre '25 (ci scusiamo ancora una volta della lunga citazione che ci pare indispensabile): “Coloro che ànno governato in nome della democrazia non àn fatto altro che adattare le forme vuote della politica transalpi na, scaturite dalla grande Rivoluzione dell’89, ad una me schinissima pratica di governo. - Il popolo era assente, e mentre cadeva la Destra nel marzo del 76 tumultuava la Romagna, mentre imperava Giolitti si adunava in file serrate nel Socialismo, mentre le assemblee costituite mercanteggiavano l’intervento, sottilizzando del pro e del contro, imponeva la guerra. La storia d’Italia dal 70 al Fa scismo è impostata su due piani diversi: una classe di bor ghesi conservatori che amministra lo Stato, il popolo che lotta per il pane e concreta, talora, attraverso questa ele mentare espressione, la propria volontà di politica. - Ma la politica democratica di tutti i governi è un tradimento perpetuo al popolo, le elezioni sono una forma di pater nalismo giacobino, il parlamento la barricata dietro a cui si asside il vecchio Stato piemontese. Era fatale che, per compiere l’opera del Risorgimento, per fare del popolo una nazione, occorresse sovvertire lo Stato, e se il Socia lismo non intese questo, per compenso lo capi il Fascismo, nato sulle piazze per chiamare alla riscossa il popolo con tro i falsi pastori.” In un altro articolo di poco successivo, del 1° dicembre, tesseva un elogio de L’antidemocrazia del fascismo, “sorto ad abbattere un regime in sostanza oli garchico e tirannico ma sedicente democratico in virtù del 376
le istituzioni sulle quali si basava. È ormai patrimonio ac quisito di una piu. illuminata critica storica che in Italia non vi è mai stata democrazia, se per democrazia s’in tende una partecipazione diretta del popolo allo Stato.” Non si può sapere con precisione a che cosa il Bottai in tendesse riferirsi con quel fugace accenno ad una “più illuminata critica storica,” perché, allora, a quanto ci ri sulta, a criticare cosi negativamente il moto risorgimen tale e unitario c’erano soltanto gli esponenti dell’opposi zione antifascista (i giovani come un Gobetti, un Rosselli, un Gramsci) che avevano subito nelle carni e nel sangue la vittoria delle camicie nere. Un Gobetti, ad esempio, nel la sua Rivoluzione liberale, affermava che gli ultimi fatti della vita italiana - scriveva nel 1924 - riproponevano “il problema di una esegesi del Risorgimento, svelandosi le illusioni e l’equivoco fondamentale della nostra storia: un disperato tentativo di diventare moderni restando letterati con vanità non machiavellica di astuzia, o garibaldini con enfasi tribunizia.” Agli italiani, secondo lui, era sempre mancato un vigoroso senso di autonomia e l’assenza di una vita libera era stata sempre l’ostacolo principale alla “creazione di una classe dirigente, al formarsi di un’atti vità economica moderna e di una classe progredita (lavoro qualificato, intraprenditori, risparmiatori).” Il che aveva impedito che nascesse “una lotta politica coraggiosa, stru mento infallibile per la scelta e il rinnovamento della clas se governante.” Con il suo ben noto rigorismo morale (che lo sosteneva dandogli un notevole vigore e una grande net tezza di giudizio), egli denunciava la mancanza di saldi le gami fra il ristretto ceto dirigente, che aveva fatto l’uni tà, e le masse popolari: “Le classi medie avevano acqui stato il governo senza istituire rapporti di comunicazione con le altre classi.” Anche dopo il 70 si era voluto mante nere il diritto elettorale ristretto ad una piccola oligarchia, quasi per premiare la minoranza che aveva preparato e vo luto l’unità e per non complicare il problema dello Stato con l’intervento delle masse popolari, sino allora “neglette e ignorate”: “Lo Stato viene corroso dal dissidio tra go verno e popolo: un governo senza autorità e senza auto nomia, perché astratto dalle condizioni economiche effet tive e fondato sul compromesso; un popolo educato al materialismo, in perenne atteggiamento anarchico di fronte all’organizzazione statale.” L'esperienza della disfatta del '22 servi anche a Gramsci per giudicare la storia italiana del secolo scorso, nei lunghi anni di carcere, quando si 377
pose l’urgente problema di spiegare come mai la libertà fosse crollata quasi senza opporre resistenza: anche per lui la causa fondamentale andava ricercata nella “immatu rità e debolezza intima della classe dirigente che non aveva saputo assolvere a quella che avrebbe dovuto essere la sua funzione storica,” cioè “dirigere le masse popolari e svi lupparne gli elementi progressivi.” In tutto il Risorgimento, a suo parere, era mancato il partito giacobino, il partito che consapevolmente sapesse legare gli interessi dei ceti ur bani con gli interessi dei ceti rurali. Cosi non c’era stato uno sviluppo organico, coordinato di tutta la società na zionale, nella quale erano perdurati alcuni squilibri estre mamente dannosi, come lo squilibrio fra città e campagna, o come l'altro fra il Settentrione e il Mezzogiorno. E Gram sci giudicava, con grande coerenza, le correnti e gli uo mini del Risorgimento in base all’atteggiamento che ave vano assunto nei riguardi del problema contadino e della questione agraria. “I moderati,” egli scriveva nelle note raccolte nel volume II Risorgimento - continuarono a di rigere il partito d’azione [che si poneva alla loro sinistra] anche dopo il 1870 e il 1876; e il cosi detto ‘trasformismo’ non è stato che l’espressione parlamentare di questa azio ne egemonica intellettuale, morale e politica." D’altra par te, la sinistra, continuando a ritenere, proprio come i mo derati, “nazionali l’aristocrazia e i proprietari e non i mi lioni di contadini” si era negata la possibilità di svolgere una efficace opposizione all’egemonia moderata e conser vatrice; persino i garibaldini, in Sicilia, spietatamente re pressero i movimenti insurrezionali dei contadini. Può sembrare alquanto strana questa coincidenza di giudizio sul secolo scorso tra un fascista come il Bottai e antifascisti tanto coerenti da lasciarci la vita come quei rappresentanti della nuova generazione. Ed è, in realtà, strana, ma si riesce a comprendere se si pensa che tutti, il fascista e gli antifascisti, si battevano per portare al po tere una classe politica che era stata confinata, durante il Risorgimento e dopo, in una posizione secondaria e mar ginale: il Bottai, come abbiamo detto, in favore della pic cola e media borghesia; il Gobetti in favore delle élites, delle “avanguardie industriali (operai e intraprenditori) del Nord,” le sole capaci di offrire “una soluzione unitaria del problema meridionale e di liberarci dal politicantismo parassitario che fu durante sessant’anni il solo effetto del l’unità”; Gramsci in favore di quel vagheggiato partito giacobino che sapesse istituire un nuovo rapporto città378
campagna e fondere il proletariato operaio con i contadini. Ma il fascista e gli antifascisti divergevano subito nel giu dizio sulla situazione presente, perché il Bottai era sicuro di avere la possibilità, mediante gli strumenti che gli of friva il regime, di costruire uno Stato al quale partecipas sero le masse che lo avevano combattuto “col Socialismo o quanto meno ignorato coH’agnosticismo,” mentre i Go betti, i Gramsci, ecc., vedevano nel fascismo, come dice va il Gobetti, “l’ultima rivincita dell’oligarchia patriottica, cortigiana e piccolo-borghese” che da ormai lungo tempo governava l’Italia, “soffocando ogni iniziativa popolare.” Nell’articolo del novembre, il Bottai riconosceva al parti to, che avrebbe dovuto stimolare il governo, il compito di appellarsi al popolo, una volta annientati i vecchi ceti dominanti, per farlo partecipare direttamente alla gestione della cosa pubblica: “Tolta la possibilità di allevare que ste masse attraverso l’esperienza politica di altri partiti che non esistono più e che non potranno risorgere, è nel fascismo che esse debbono trovare la scuola della loro educazione politica. - Bisogna quindi che il partito si or ganizzi altrimenti. Se al vertice il Capo è indiscusso e in discutibile, è necessario che gli altri non ascendano al po tere in virtù di investiture troppo spesso incontrollabili e necessariamente incensurabili [...]. Riorganizzando il par tito sopra una base democratica che permetta il controllo e la diretta sorveglianza dei gregari sui capi, potremo fare del fascismo il più grande dei partiti di masse e, nello stesso tempo, liberarci di quella gelatinosa zavorra di con sensi senza scopo che ci circonda, sostituendola coll’ope rosità viva di uomini che pensino e ragionino.” Il Bottai, sempre pronto a cogliere il pensiero di Mus solini, aveva capito il significato di quella sua esclamazio ne di vittoria: “Può darsi che, fra non molto, gran parte di Europa sia più o meno fascistizzata,” e del suo orgoglio per avere ormai debellato le opposizioni (“Le opposizioni non possono seriamente preoccuparci”: Elementi di sto ria, in “Gerarchia,” ottobre 1925), o anche del suo “atto di superbia” per avere fatto entrare le masse nello Stato: il 4 novembre, celebrando la vittoria al teatro Costanzi di Roma, aveva esclamato: “Le masse, riconciliate con la na zione, entrano, per la grande porta spalancata dalla rivolu zione fascista, nello Stato. E lo Stato, con la monarchia, ha allargato smisuratamente le basi. Non vi sono più sol tanto sudditi, ma cittadini; non vi è più soltanto una na zione, ma un popolo cosciente dei suoi destini.” Aveva 379
inizio, perciò, con il gruppo delle leggi di difesa e con l’al tro delle leggi costruttive, la creazione dello Stato fascista ed il Bottai doveva avvertire che si stava per entrare in una fase più distensiva e di elaborazione del nuovo Stato, fase alla quale egli sentiva di poter dare un contributo certa mente più grande di quello che avrebbero potuto dare gli intransigenti, la cui influenza si andava perdendo nella lon tananza. Ed ecco, cosi, la sua frecciata contro questi av versari di un tempo ncll’accenno agli altri che ascende vano “al potere in virtù di investiture troppo spesso in controllabili e necessariamente incensurabili.” Ed ecco pu re la richiesta che il partito si organizzasse diversamente, richiesta che sapeva condivisa dal Capo, il quale, nel suo discorso del 4 novembre, aveva praticamente liquidato lo squadrismo.' Ma Mussolini aveva pure chiuso quel suo di1 Forse un tentativo di risuscitare lo spirito squadristico, anche se con toni sfumati e velati, fu quello di Michele Bianchi in un suo discorso al congresso nazionale del partito (22 giugno ’25): “Il Fascismo oggi final mente non è tanto un Partito quanto una rivoluzione che si sta attuando Si spiega ora perfettamente il successivo graduale allontanamento degli elementi fiancheggiatori dal Fascismo; vi poteva essere accordo sino al momento in cui si accennava a fare soltanto dei mutamenti di ordinaria amministrazione, ma il dissenso doveva scoppiare necessariamente quan do il Fascismo si apprestava a compiere le sue più radicali trasforma zioni. - Cosi facendo, il Fascismo tiene fede alle sue origini: io ho qui lo Statuto del Partito del 1921 e se leggiamo l’articolo primo, è facile riconoscere che noi siamo oggi su quella linea [...]. Personalmente sono convinto che le vicende politiche più recenti hanno finito col giovare al Fascismo, in quanto hanno contribuito alla sua definizione, sottraendolo aH’obbligo di quella politica di indecisione e di compromesso che il moltiplicarsi dei consensi avrebbe inevitabilmente comportato. Questa de finizione è insita nello spirito unitario nazionale, caratteristico del Fa scismo, e che fa del Fascismo il discendente più diretto e legittimo del mazzinianesimo. - Grossolano errore, tanto bestiale e grossolano da non dover essere illustrato con molte parole, è quello commesso dalle oppo sizioni nella illusoria credenza che il Fascismo potesse essere cancellato dal novero delle forze politiche italiane con una stolida campagna di accuse. Non tanto a causa di questa campagna, ma per certe ragioni di ordine psicologico determinatesi nell'interno del Partito, nei mesi scorsi le nostre forze hanno subito una depressione. Vogliamo riconoscerlo per ché oggi ci sentiamo più forti, più compatti e più decisi che mai. Siamo in piena ripresa, ripresa che potrebbe chiamarsi salvezza, e il merito di ciò va attribuito quasi interamente a quel Fascismo provinciale che in tutte le ore è rimasto disinteressato, intransigente, fedelissimo." Que sto riconoscimento al "Fascismo provinciale intransigente e fedelissi mo,” in un momento in cui la sua influenza andava diminuendo, mal grado la segreteria Farinacci; la concezione di un partito non troppo allargato dal “moltiplicarsi dei consensi,” che gli avrebbe tolto la pu rezza e l'intransigenza delle origini facendolo cadere nella politica di in decisioni e di compromessi, e, di conseguenza, la sua preferenza per un partito piccolo, ma centro motore della vita nazionale; il richiamo, che par rebbe patetico, alle sacre tavole del 1921, per ribadire la coerenza e la 380
scorso proclamando che il pericolo per il partito non po teva venire “che da noi, che dall’interno del fascismo. Qui deve esercitarsi,” aveva concluso, “tutta la strenua vigi lanza delle gerarchie; i segretari dei Fasci sino all'ultimo iscritto; i sindacati sino all’ultimo contadino od operaio. Partito di masse, tale vogliamo e dobbiamo restare; ma si deve evitare che con il loro semplice peso le masse fi niscano per dirigere invece di essere dirette, finiscano per capovolgere la piramide, che, pure allargando continuamente la sua base, deve sempre terminare nella cima per fetta.” Forse su questo punto la posizione del Bottai di vergeva da quella del duce, quando faceva sentire l’esi genza di una riorganizzazione del partito “sopra una base democratica che permetta il controllo e la diretta sorve glianza dei gregari sui capi,” ma probabilmente lo faceva soltanto per rendere perfettamente consapevole Mussolini di quanto lui avrebbe potuto essergli utile in quel mo mento, che non poteva non essere di allentamento della tensione degli anni precedenti (anche se andava avvici nandosi minaccioso un altro pericolo per la lira, pericolo che il duce nell’ottobre del ’25 diceva inesistente, perché, secondo lui, “tra il severo regime fascista e la posizione finanziaria dell’Italia non v’è contrasto”; tuttavia, sarà costretto, nell’agosto del '26, a intervenire drasticamente per evitare che l’Italia cadesse nel baratro, ha scritto il Guarneri, cioè mediante la quota 90). Ma, in definitiva, non c’era una differenza sostanziale fra la posizione del Bottai e quella del duce, in quanto anche il primo trattava le mas se come qualcosa di amorfo che si poteva allevare, quasi fossero tanti cani o gatti domestici: il che sembrava facile una volta che erano stati definitivamente sconfitti i par titi politici di opposizione. Ed ancora meno si poteva av vertire una differenza, dato il suo innalzare il Capo a nu me tutelare, che se ne stava “al vertice indiscusso e indiscu tibile”: da lui dovevano scendere sui miseri mortali proster nati ai suoi piedi i comandi per impedire investiture incon trollabili e per riorganizzare il partito su nuove basi. Era un atteggiamento di sottomissione individuale - ma che doveva estendersi a tutto il popolo dei fascisti e dei non fascisti, dei volenti e dei nolenti - che annullava completamente quella base democratica che doveva consentire la diretta continuità di una politica: sono tutti elementi che possono far collocare il Bianchi fra gli intransigenti, che, duri a morire, cercavano allora una rinascita sfruttando le parole autorevoli del quadrumviro. 381
sorveglianza dei gregari sui capi. Il Bottai ricreava, senza accorgersene (il che era peggio), la struttura e la logica ferrea di un sistema dittatoriale e autoritario: è forse questo il fondamentale motivo che lo fece rimanere sem pre, pur tra momenti di più o meno palese distacco, sempre fedele al duce e al fascismo. Il quale, ormai, vin ta la dura battaglia contro i nemici esterni e contro le tendenze interne, e venuta meno per Mussolini la fatica di mediare continuamente fra l’una posizione e l’altra, poteva avviarsi verso il trionfo su un popolo di sudditi, di vinti, di piegati nell’anima e nel corpo, un popolo, però, che, non appena gliene sarà data l’occasione, si leverà decisamente per eliminare dalla vita del paese il ricordo di un ventennio di morte civile.
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