Fascismi in vetrina: pubblicità e modelli di consumo nel Ventennio e nel Terzo Reich 9791254692967, 1254692967

L'abile uso dei media e della propaganda rappresenta una delle caratteristiche più evidenti dell'era fascista

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Italian Pages 348 [349] Year 2023

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Table of contents :
Copertina
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Colophon
Indice
Abbreviazioni
Introduzione
Prologo. Lo studio Dorland: un’enclave del Bauhausal servizio del regime nazista
1. Da ciarlatani ad eroi? I ruggenti anni Venti della pubblicità
1. «La réclame è una menzogna che […] seduce come fosse una verità»
2. Da Cenerentola a chiave della prosperità mondiale
3. La professionalizzazione del mestiere pubblicitario
2. L’inquadramento autoritario della pubblicità
1. La «nuova era fascista»: il congresso di Roma e Milano del 1933
2. L’epurazione nazionalsocialista dell’industria pubblicitaria
3. «La Pubblicità d’Italia»: l’istituzionalizzazione fascista della réclame
4. Il futuro della pubblicità europea sotto l’Asse Roma-Berlino
3. Tra ideologia e commercio
1. La crociata per la nazionalizzazione dei contenuti pubblicitari
2. Comprare il duce e il Führer: la commercializzazionedei simboli politici
3. Verso il fallimento della pubblicità totalitaria
4. Vendere per il Führer e per il duce
1. Berlino 1936: il trionfo della pubblicità nazista
2. La Società per la pubblicità commerciale: camice brune e know-how statunitense
3. L’Unione Pubblicità Italiana: un impero pubblicitario al servizio del fascismo
5. Una, nessuna, centomila: la pubblicità nell’era dei fascismi
1. La pubblicità collettiva tra autarchia e individualismo
2. Da donna-crisi a perfetta fascista? Le réclame per il focolare domestico
3. La razzializzazione dei contenuti pubblicitari
4. L’esclusività dei consumi nell’era dei fascismi
Epilogo. Da un futuro di benessere alla guerra totale
Bibliografia
Indice dei nomi
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Fascismi in vetrina: pubblicità e modelli di consumo nel Ventennio e nel Terzo Reich
 9791254692967, 1254692967

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Bianca Gaudenzi

Fascismi in vetrina

Pubblicità e modelli di consumo nel Ventennio e nel Terzo Reich

viella

I libri di Viella 446

Bianca Gaudenzi

Fascismi in vetrina Pubblicità e modelli di consumo nel Ventennio e nel Terzo Reich

viella

Copyright © 2023 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: gennaio 2023 ISBN 979-12-5469-296-7 ISBN 979-12-5469-258-5 ebook-pdf

Questo volume è stato realizzato con un contributo della Deutsche Forschungs­ gemeinschaft (DFG).

viella

libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it

Indice

Abbreviazioni

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Introduzione

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Prologo. Lo studio Dorland: un’enclave del Bauhaus al servizio del regime nazista

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1. Da ciarlatani ad eroi? I ruggenti anni Venti della pubblicità

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1. «La réclame è una menzogna che […] seduce come fosse una verità» 2. Da Cenerentola a chiave della prosperità mondiale 3. La professionalizzazione del mestiere pubblicitario

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2. L’inquadramento autoritario della pubblicità 1. La «nuova era fascista»: il congresso di Roma e Milano del 1933 2. L’epurazione nazionalsocialista dell’industria pubblicitaria 3. «La Pubblicità d’Italia»: l’istituzionalizzazione fascista della réclame 4. Il futuro della pubblicità europea sotto l’Asse Roma-Berlino

3. Tra ideologia e commercio

1. La crociata per la nazionalizzazione dei contenuti pubblicitari 2. Comprare il duce e il Führer: la commercializzazione dei simboli politici 3. Verso il fallimento della pubblicità totalitaria

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Fascismi in vetrina

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4. Vendere per il Führer e per il duce

1. Berlino 1936: il trionfo della pubblicità nazista 2. La Società per la pubblicità commerciale: camice brune e know-how statunitense 3. L’Unione Pubblicità Italiana: un impero pubblicitario al servizio del fascismo

5. Una, nessuna, centomila: la pubblicità nell’era dei fascismi 1. La pubblicità collettiva tra autarchia e individualismo 2. Da donna-crisi a perfetta fascista? Le réclame per il focolare domestico 3. La razzializzazione dei contenuti pubblicitari 4. L’esclusività dei consumi nell’era dei fascismi

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Epilogo. Da un futuro di benessere alla guerra totale

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Bibliografia Indice dei nomi

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A Bettina e Claudio

Abbreviazioni

ACS ALA ASCCIAAMi ASMi BArch BArchB BayHStA BLHA BWA CGBC DAF DRV DUHC, JWTA GfW IHK JWT MR, FDV MHIG MoMA

Archivio Centrale dello Stato di Roma Società generale per gli annunci (Allgemeine Anzeigengesellschaft GmbH) Archivio Storico della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Milano Archivio di Stato di Milano Bundesarchiv Koblenz Bundesarchiv Berlin-Lichterfelde Bayerisches Hauptstaatsarchiv, München Brandenburgisches Landeshauptarchiv, Potsdam Bayerisches Wirtschaftsarchiv, München Catalogo generale dei Beni Culturali Fronte del lavoro (Deutsche Arbeitsfront) Federazione tedesca per la réclame (Deutscher Reklame-Verband) Duke University, John W. Hartman Center for Sales, Advertising and Marketing History, J. Walter Thompson company archives Società per la pubblicità commerciale (Gesellschaft für Wirtschaftswerbung) Camera dell’industria e del commercio (Industrie- und Handelskammer) J. Walter Thompson company Mediateca Rai, Torino, Fondo Dino Villani Ministero del commercio, dell’industria e dell’artigianato (Ministerium für Handel, Industrie und Gewerbe) Museum of Modern Art, New York

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NSRDW OND PNF RSI RVA StAM UCP UPI USHMM WWA

Fascismi in vetrina

Lega nazionalsocialista dei pubblicitari tedeschi del Reich (Nationalsozialistische Reichsfachschaft Deutscher Werbeleute) Opera Nazionale Dopolavoro Partito Nazionale Fascista Repubblica Sociale Italiana Comitato del Reich per l’educazione economica popolare (Reichs­ausschuss für volkswirtschaftliche Aufklärung) Staatsarchiv München Unione continentale della pubblicità Unione Pubblicità Italiana United States Holocaust Memorial Museum Westphälisches Wirtschaftsarchiv, Dortmund

Introduzione

L’abile uso dei media e della propaganda rappresenta una delle caratteristiche più evidenti nonché più studiate dell’era fascista e nazista. Finora la storiografia si è concentrata prevalentemente sul lato politico di questa storia, tralasciando quello commerciale. L’obiettivo di questo studio è proporre una sostanziale reinterpretazione del rapporto tra fascismi e consumi al fine di dimostrare come la cosiddetta “propaganda economica”, la pubblicità, venne a costituire uno degli elementi chiave della strategia del consenso delle due dittature nell’arco degli anni Trenta. Prendendo le mosse dal boom propagandistico della Prima guerra mondiale, il volume illustra l’evoluzione dei modelli di consumo divulgati dall’industria pubblicitaria dai tentativi di modernizzazione degli anni Venti alla progressiva fascistizzazione dell’immaginario collettivo nel corso degli anni Trenta, per concludere con il fallimento di tale processo, che contribuì in maniera notevole alla rovinosa fine dell’era fascista. Contrariamente a quanto sostenuto da molte delle ricostruzioni elaborate nel contesto della Guerra fredda, la pubblicità non fu affatto ignorata o osteggiata in tutto e per tutto dai fascismi, ma anzi giocò un ruolo di primo piano nella loro storia fin dagli albori. Già prima della Marcia su Roma parte dell’industria pubblicitaria fornì a Benito Mussolini i finanziamenti per il suo nuovo giornale interventista, «Il Popolo d’Italia», contribuendo poi alla disfatta della stampa d’opposizione che non fosse già stata fisicamente annientata dagli squadristi. Fu tuttavia il movimento nazionalsocialista, su impulso di Adolf Hitler e soprattutto del futuro Ministro per la propaganda Joseph Goebbels, ad attribuire una rilevanza del tutto nuova al mezzo pubblicitario. L’opera di “riallineamento” secondo i dettami nazionalsocialisti (Gleichschaltung) messa in atto già nell’estate del 1933, con la creazione

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Fascismi in vetrina

del Consiglio pubblicitario dell’economia tedesca, divenne presto fonte di ispirazione per molti pubblicitari italiani, e si rivelerà fondamentale per ampi settori della dittatura fascista a partire dal lancio della campagna autarchica in risposta alle sanzioni imposte in seguito alla brutale aggressione dell’Etiopia nel 1935. Sulla base di fonti d’archivio italiane, tedesche e statunitensi in larga parte inedite, questo libro mette per la prima volta in risalto fino a che punto il richiamo a una vagheggiata società dei consumi di stampo fascista e nazista divenne fondamentale nel tentativo di normalizzare alcuni degli aspetti più brutali dei due regimi, integrando diversi gruppi sociali attraverso la promessa di futuri consumi e contribuendo così alla loro stabilizzazione. Attraverso un misto di terrore e seduzione, i fascismi reclutarono ampi settori dell’industria pubblicitaria per fabbricare una visione prettamente fascista di (futura) prosperità da proiettare sulle masse di aspiranti consumatrici e consumatori attraverso appelli di natura commerciale. In che cosa consistevano gli aspetti esplicitamente fascisti di tali politiche? Come si sviluppò tale strategia rispetto alle tendenze anti-consumo e antiborghesi dei fascismi? Quale impatto ebbero i professionisti della pubblicità nella stabilizzazione di entrambi i regimi “dal basso”? E che ruolo giocò il richiamo a un futuro di benessere nel consolidamento delle due dittature, e nella loro disfatta finale? Come dimostrerà questo libro, ampi settori dell’industria pubblicitaria si lasciarono cooptare per proiettare delle «visioni del futuro», Zukunftsvi­ sionen, che evocassero l’illusione di una società del benessere a cui avrebbero avuto accesso solo ed esclusivamente i membri della comunità nazionale fascista e nazista, intesa come un’unità politicamente e razzialmente omogenea.1 La capacità o meno di diffondere e sostenere tale visione, unita all’indottrinamento e soprattutto alla feroce repressione, elemento fondante dei fascismi, giocherà un ruolo non trascurabile nella capacità di sopravvivenza dei due regimi, contribuendo da un lato al perdurare di un certo livello di acquiescenza fino all’avvento della guerra totale, proclamata da 1. Ringrazio Hartmut Kaelble per avermi incoraggiato a sviluppare questo concetto nel contesto della cultura commerciale del periodo fra le due guerre. Cfr. anche Kocka, Hi­ storische Sozialwissenschaft: Auslaufmodell oder Zukunftsvision?, pp. 5-29. A partire dal lavoro seminale Vergangene Zukunft di Reinhart Koselleck, lo studio del «futuro passato» ha dato vita a un crescente numero di studi, cfr. Hölscher, Die Entdeckung der Zukunft; Kern, The Culture of Time and Space; Minois, Geschichte der Zukunft e Utopie und poli­ tische Herrschaft.

Introduzione

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Goebbels nel febbraio del 1943, e dall’altro al definitivo crollo di ogni tipo di sostegno alla dittatura fascista già ben prima dell’arresto di Mussolini.2 La storia della pubblicità sotto i fascismi è stata a lungo narrata come una storia di sostanziale immobilismo o, nella migliore delle ipotesi, di cieca e totale oppressione. Appannaggio quasi esclusivo degli addetti ai lavori almeno fino alla caduta del muro di Berlino (e anche oltre), queste ricostruzioni hanno offerto un ritratto alquanto superficiale degli aspetti repressivi delle due dittature, tratteggiandole come anti-moderne e del tutto antitetiche alle società dei consumi fiorite nel secondo dopoguerra.3 Tali narrazioni, oltre ad aver sminuito o passato sotto silenzio la violenta epurazione dei professionisti di origine ebraica dal settore, hanno spesso taciuto le connivenze o addirittura l’entusiastico sostegno prestato ai fascismi da parte di alcuni dei maggiori produttori di pubblicità e propaganda dell’epoca. La fine della Guerra fredda, che ha squarciato il velo sulle contraddizioni insite nell’equazione tra società dei consumi e democrazia, e il trionfo del neoliberismo hanno tuttavia dato nuovo impulso a una serie di studi di stampo più propriamente scientifico che hanno saputo mettere in luce il ruolo giocato dalle promesse di benessere materiale nella costruzione della Volksgemeinschaft nazista, a cominciare da servizi e consumi ad alto valore simbolico, quali vacanze o automobili.4 La storiografia anglofona e tedescofona ha giocato un ruolo pionieristico in tal senso.5 Se Waltraud Sennebogen ha fornito un’analisi approfondita del processo di nazificazione del settore pubblicitario, Hartmut Berghoff ha arricchito notevolmente questo quadro mettendo in rilievo la doppia strategia di «seduzione e privazione» messa in atto dal regime, e 2. La differenza nelle concezioni di «temporalità ibrida» tra fascismo e nazismo è stata ripresa e ampliata da Chris Clark, cfr. Clark, Time and Power, pp. 206-210. 3. Fanno eccezione in particolare Falabrino, Pubblicità serva padrona, Westphal, Werbung im Dritten Reich e Ceserani, Vetrina del Ventennio. 4. Per una panoramica dell’evoluzione del concetto di Volksgemeinschaft cfr. “Volks­ gemeinschaft” tra storiografia e memoria, pp. 13-35. Due sintesi particolarmente convincenti sono offerte da Birthe Kundrus e Shelley Baranowski, cfr. Kundrus, Greasing the Palm of the Volksgemeinschaft?, pp. 157-170 e Baranowski, Selling the “racial communi­ ty”, pp. 127-150. I lavori di Baranowski costituiscono un importante controparte a quelli di Victoria De Grazia, cfr. in particolare De Grazia, Consenso e cultura di massa. 5. Si segnalano in particolare Renhardt, Von der Reklame zum Marketing; Lammers, Werbung im Nationalsozialismus; Rücker, Wirtschaftswerbung unter dem Nationalsozia­ lismus, Schug, „Deutsche Kultur“ und Werbung; Berghoff, Von der „Reklame“ zur Ver­ brauchslenkung, pp. 77-112; Schwarzkopf, Kontrolle statt Rausch?, pp. 193-209.

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Fascismi in vetrina

l’importanza fondamentale giocata dai «consumi virtuali» nel tentativo di cementare la propria base di consenso.6 Pamela Swett ha approfondito il ruolo giocato dalla cultura commerciale analizzando la risposta di alcune grandi industrie – le automobili Daimler, la Beiersdorf e la Henkel, produttrici delle creme Nivea e del detersivo Persil – in modo da mettere in risalto la complessità del processo di nazificazione del settore pubblicitario e rimarcare le forti continuità con il secondo dopoguerra.7 Jonathan Wiesen ha ampliato questo panorama fornendo un’analisi particolarmente equilibrata del ruolo di alcuni esperti di marketing nella creazione dello «spazio di consumo nazionalsocialista».8 Manca tuttavia un’analisi a tutto tondo del ruolo fondamentale giocato dai creatori di pubblicità (e propaganda) nel rielaborare le imposizioni del regime,9 e dell’impatto che le loro pratiche ebbero sulla realtà quotidiana della Germania nazista. Ancora più pressante si rivela la necessità di affrontare la questione in prospettiva comparata, come recentemente ricordato da Jonathan Morris,10 non solo per superare l’ancora diffusissima tendenza ad analizzare la storia del nazionalsocialismo come entità del tutto isolata rispetto al più ampio contesto internazionale, secondo la teoria del Sonderweg tedesco, ma soprattutto per poter comprendere appieno i fondamentali punti di contatto e di contrasto tra i fascismi in tema di propaganda e consumi. Notevoli progressi si son registrati anche nella storiografia sul fascismo. Sebbene in Italia le ricerche sul settore pubblicitario durante il Ventennio siano ancora agli inizi, con alcune importanti eccezioni,11 è possibile far riferimento all’ormai consolidata letteratura sul rapporto tra fascismo e 6. Cfr. Sennebogen, Zwischen Kommerz und Ideologie, pp. 113-275; Berghoff, Enti­ cement and Deprivation, pp. 165-184. 7. Cfr. Swett, Selling under the Swastika, pp. 91-182. 8. Wiesen, Creating the Nazi Marketplace, pp. 22-117. 9. Un’importante eccezione, oltre ai recenti lavori di Pamela Swett, è la breve ma fondamentale panoramica delle motivazioni che spinsero alcuni pubblicitari ad accettare di buon grado la riorganizzazione nazista offerta da Berghoff, cfr. Berghoff, ‘Times Change and We Change with Them’, pp. 128-147. 10. Cfr. Morris, Una via italiana al consumismo?, pp. 169-188. 11. Una recente rassegna è offerta da Irene Di Jorio e da Ferdinando Fasce, cfr. Di Jorio, Pubblicità e propaganda, pp. 212-215 e Fasce, Pubblicità e comunicazione, pp. 434454. Cfr. in particolare Pinkus, Bodily regimes; Arvidsson, Marketing Modernity; Fasce, Bini, Gaudenzi, Comprare per credere, pp. 41-83. Tra i lavori più recenti che trattano la storia della pubblicità nel più ampio quadro del Novecento si segnalano Codeluppi, Storia della pubblicità italiana e Pubblicità! La nascita della comunicazione moderna.

Introduzione

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grande industria,12 oltre che a un crescente numero di lavori su determinati grafici o marchi.13 Se già Stephen Gundle aveva problematizzato la questione dell’interazione tra la cultura commercializzata e il tardo fascismo,14 Stefano Cavazza ha messo in rilievo la centralità dei consumi come pratica sociale, in cui le aspettative e l’immaginazione giocarono un ruolo di grande rilievo, ponendo l’enfasi sull’importanza dei consumi desiderati, oltre che di quelli collettivi.15 Nella sua analisi sociologica della pubblicità nel Novecento, Adam Arvidsson ha messo in risalto il progressivo affermarsi del concetto di «comfort fascista», veicolato dalla cultura pubblicitaria dell’epoca al fine di creare un legame diretto tra le aspirazioni di comfort borghese e la potenza della nazione fascista.16 Una menzione a parte meritano gli studi sulla cosiddetta americanizzazione della cultura commerciale tedesca e italiana nel periodo fra le due guerre, che nell’ultimo decennio hanno registrato una notevole inversione.17 Irene Di Jorio ha approfondito questo quadro fornendo un’analisi estremamente puntuale della nascita della professione pubblicitaria e, in particolare, di una vera e propria «cultura pubblicitaria» nel periodo fra le due guerre,18 attirando l’attenzione sul «processo di rimozione del fascismo dalla storia della pubblicità»19 – processo che definirei tuttavia in termini diametralmente opposti, come la rimozione della pubblicità dalla storia del fascismo, dal momento che molte delle ricostruzioni si son soffermate sulle 12. Tra i lavori di sintesi più recenti si segnalano i numeri monografici di «Studi storici» e della «Rivista di storia economica», cfr. L’indistricabile intreccio e The Italian eco­ nomy under Fascism, nonché Bertilorenzi, Cerretano e Perugini, Between Constraints and Opportunities, pp. 303-336. 13. Cfr. in particolare Di Jorio, La nascita di un pubblicitario, pp. 89-116; Zammitti, Dino Villani; Colizzi e Bazzani Zveteremich, Un pioniere della pubblicità, pp. 121-140. Gli ultimi anni hanno visto il proliferare di una serie di lavori di stampo compilativo, ad esempio Ottaviani, Il controllo della pubblicità e Giannini, Un Martini per il Duce. 14. Cfr. Gundle, Un Martini per il Duce, pp. 46-69 e Visions of Prosperity, pp. 151172. De Grazia aveva proposto un’interpretazione molto più antagonistica, cfr. De Grazia, Irresistible Empire. pp. 226-283. 15. Cfr. Cavazza, Consumi, fascismo, guerra, p. 307; Politica e consumi, pp. 55-59. 16. Arvidsson, Marketing Modernity, p. 62. 17. A cominciare dagli studi di Victoria De Grazia, Corey Ross e Adam Arvidsson, cfr. De Grazia, Irresistible Empire, pp. 226-283; Ross, Visions of Prosperity, pp. 52-77; Arvidsson, Between Fascism and the American Dream, pp. 151-186. Cfr. anche Schug, Wegbereiter der modernen Absatzwerbung in Deutschland, pp. 29-52. 18. Di Jorio, Propagande commerciale ou publicité politique?, pp. 99-122. 19. Di Jorio, Pubblicità e propaganda durante il fascismo, p. 213.

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Fascismi in vetrina

persecuzioni fasciste passando totalmente sotto silenzio l’apporto della cultura commerciale alla costruzione della società fascista. Questo volume si ripropone di colmare questa lacuna adottando una prospettiva che combini la storia culturale e quella d’impresa e le inserisca nella più ampia storiografia sui fascismi.20 Lo studio è dunque concepito come una storia culturale dei consumi, filone che nell’ultimo decennio ha registrato notevoli passi avanti.21 Lungi dal volersi sostituire a un’analisi di tipo economico o econometrico, al quale si rivela complementare, questo approccio ha contribuito ad alcuni dei più aspri dibattiti storiografici degli ultimi decenni – a cominciare dell’interpretazione del Terzo Reich come «tirannia della scarsità»,22 o, all’estremo opposto, come «dittatura accomodante», come provocatoriamente sostenuto da Götz Aly.23 In questo caso, oltre alla necessità di quantificare la crescita dei consumi privati in termini relativi o assoluti, indipendentemente dalle spese belliche, si è rivelata decisiva la capacità di dare il giusto peso storiografico alle percezioni dei contemporanei, che ne influenzarono l’agire politico.24 Così come è fondamentale ricordare che entrambi i regimi furono costruiti su basi violentemente coercitive, che non lasciavano alcuno spazio alla scelta di consumo (oltre che politica) e non seppero garantire un effettivo miglioramento delle condizioni materiali al di là di un simbolico numero di servizi e consumi collettivi, è anche necessario non dimenticare la portata socio-politica delle percezioni degli aspiranti consumatori e il ruolo giocato dai consumi virtuali. Lo studio ricorrerà a un approccio di tipo transnazionale e comparativo, in modo da poter dare il necessario risalto al crescente livello di scam20. La lettura sui fascismi è ormai estremamente vasta, dal classico Collotti, Fascismo, fascismi fino ai più recenti lavori sul fascismo transatlantico e mediterraneo, cfr. Finchelstein, Transatlantic Fascism e Albanese, Dittature mediterranee. Per una recentissima panoramica dei progressi della storiografia sul fascismo e il nazismo cfr. Rethinking Fascism. 21. Tra i più recenti studi sulla cultura commerciale si segnalano Reuveni, Consumer culture and the Making of Modern Jewish Identity e Wiesen, Creating the Nazi Marketplace. 22. Hartmut Berghoff e Jonathan Wiesen offrono due sintesi particolarmente convincenti, cfr. Berghoff, Gefälligkeitsdiktatur oder Tyrannei des Mangels?, pp. 502-518; Wiesen, Creating the Nazi Marketplace, pp. 8-9. Tra gli esempi più illustri di questa interpretazione cfr. Tooze, The Wages of Destruction, pp. 135-165 e i lavori di Peter Hayes, cfr. Hayes, Industry under the Swastika, pp. 26-36. 23. Aly, Lo stato sociale di Hitler, pp. 207-363. 24. I recenti lavori di Claudius Torp e Tim Schanetzky propongono una sintesi illuminante a riguardo, cfr. Schanetzky, «Kanonen statt Butter», soprattutto pp. 99-143 e Torp, Besser als in Weimar?, pp. 73-93.

Introduzione

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bio reciproco, che nel settore pubblicitario si manifestò particolarmente presto, senza tuttavia perdere di vista le importanti differenze tra le due dittature.25 Esaminare l’interazione tra fascismi e consumi in prospettiva comparata si rivela particolarmente utile non solo in virtù della natura fondamentalmente transnazionale dei consumi, ma soprattutto perché può fornire importanti spunti per l’indagine della realtà dei fascismi. Il confronto tra l’esperienza fascista e quella nazista, arricchito da un certo riguardo per la crescente influenza statunitense in entrambi i paesi, apre infatti nuove prospettive su alcuni dei temi portanti della storiografia sul tema, a cominciare dal rapporto tra fascismi e modernità, l’alternarsi di indottrinamento e intrattenimento, il “primato” della politica sull’economia, l’interpretazione dei regimi come «dittature partecipative», nonché i forti elementi di continuità con il periodo pre-fascista e soprattutto con il secondo dopoguerra.26 Un ulteriore elemento è fornito dal riferimento alla concezione di «futuro passato» che permea il volume, capace, secondo la definizione di Reinhart Koselleck, di mettere in risalto il nesso tra «esperienza» e «aspettativa» che caratterizzò la storia quotidiana (Alltagsgeschichte) dei fascismi.27 Mettere in luce il divario tra consumi reali e virtuali, emblematico della dicotomia tra realtà e propaganda nonché dell’alternarsi di coercizione e consenso che caratterizzarono entrambe le dittature, risulta fondamentale per sfatare il mito della natura imprescindibilmente democratica delle società dei consumi, nonché quello dei fascismi come totalmente anti-consumo o anti-moderni. A lungo considerati poco più che una nota di colore, negli ultimi anni gli appelli commerciali sono stati riconosciuti come importante fonte sto25. Dopo l’iniziale entusiasmo, la metodologia transnazionale e in particolare l’histoi­ re croisée sono state oggetto di molte critiche, in parte giustificate, che tuttavia non hanno prodotto valide alternative per il superamento del paradigma nazionale, cfr. i classici Werner, Zimmermann, Vergleich, Transfer, Verflechtung, pp. 607-636 e Paulmann, Internatio­ naler Vergleich und interkultureller Transfer, pp. 649-685 e la recente panoramica Alcalde, The Transnational Consensus, pp. 243-252. 26. Cfr. in particolare Carli, Il fascismo in cerca della modernità, pp. 315-324. Per un’ottima sintesi cfr. Gagliardi, “Educare” o intrattenere?, pp. 255-279. Una ottima panoramica della storiografia sul primato è offerta da Middendorf, Priemel, Jenseits des Pri­ mats, pp. 94-120. Sul concetto di «dittature partecipative» cfr. Reichardt, Faschistische Beteiligungsdiktaturen, pp. 133-157. 27. Koselleck, Vergangene Zukunft, pp. 11-28. Per una recente panoramica dell’evoluzione degli studi sulla concezione e percezione della temporalità cfr. Triola, La conquista del futuro, soprattutto pp. 42-49.

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Fascismi in vetrina

riografica in virtù della loro capacità di farsi veicolo di specifici «significati dislocati», costituendo così documenti altamente indicativi dei valori, dell’immaginario e delle aspettative dei loro contemporanei, come sottolineato dallo storico Gideon Reuveni.28 Le campagne pubblicitarie costituiscono un mezzo privilegiato per esaminare il contesto storico sia di chi le creava – grafici e pubblicitari di mestiere ma anche propagandisti di regime, alla costante ricerca di riconoscimento professionale – che di chi le consumava, quegli aspiranti consumatori i cui desideri e le cui priorità si rivelano particolarmente difficili da esaminare in una realtà di oppressione e violenza come quella delle dittature fascista e nazista. Reinterpretando alcuni dei più recenti studi in materia, questo libro si basa sull’analisi di un’ampia varietà di fonti raccolte in oltre venti archivi tra Italia, Germania e Stati Uniti, inclusi gli archivi centrali e di stato di Berlino, Monaco, Roma e Milano, gli archivi storici delle camere di commercio, delle università dedite all’insegnamento della psicologia commerciale, dell’Istituto Luce, della Fiera di Milano e del Museo degli oggetti di Berlino. A questi vanno ad aggiungersi i fondi di varie aziende – come quello dell’agenzia pubblicitaria Dorland, conservato presso il BauhausArchiv di Berlino, o l’Hartman Center della Duke University, che custodisce le carte di una delle maggiori imprese globali di quegli anni, la J. Walter Thompson Company, che aprì i battenti a Berlino e a Milano negli stessi anni. Particolarmente utile si è rivelato anche il fondo Dino Villani della Mediateca Rai di Torino, i cui oltre duecento faldoni di materiale pubblicitario, memorie e corrispondenza varia, uniti a una ricchissima collezione di riviste di settore sia italiane che straniere raccolta da Dino Villani, direttore dell’ufficio pubblicità di varie aziende nel periodo fra le due guerre, hanno fornito un’ampia gamma di materiale per la maggior parte inedito. Il materiale documentario spazia dunque dalle fonti statali alle carte d’impresa e private, includendo circolari ministeriali, documenti dell’amministrazione locale, delle camere di commercio, degli organi di propaganda e di polizia nonché d’impresa, accompagnati da una ricca scelta di fonti visive e di materiale a stampa. Nella disamina delle fonti, l’analisi testuale si intreccia a quella iconografica, contribuendo così a dare un’applicazione empirica all’ormai quasi abusata ma ancora poco praticata idea di visual turn.29 Oltre 28. Reuveni, Consumer culture, p. 30 ss. 29. Tra le eccezioni si segnala il recente studio di Gerhard Paul sulla visual history del Terzo Reich, cfr. Paul, Bilder einer Diktatur, soprattutto pp. 9-18.

Introduzione

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allo studio delle carte ministeriali e d’impresa, atte a restituire un quadro approfondito dell’interazione fra l’industria pubblicitaria e i fascismi, l’indagine è infatti arricchita dall’analisi testuale e iconografica di una serie di campagne pubblicitarie, piuttosto che di singole réclame, in modo da poter ricostruire con precisione l’evoluzione dei contenuti e dell’immaginario pubblicitario dell’epoca. L’attenzione è rivolta principalmente alla pubblicità a mezzo stampa, che, nonostante il progressivo affermarsi della radio e del cinematografo, rimase il medium pubblicitario più diffuso per tutto il periodo tra le due guerre e non cessò mai di rivestire un’importanza fondamentale per entrambi i regimi. Tale scelta è motivata anche da ragioni metodologiche, dal momento che in Germania le pubblicità radiofoniche vennero bandite a partire dal 1935, mentre in Italia la pubblicità cinematografica si sarebbe affermata solo nel secondo dopoguerra. Le pubblicità a stampa e i manifesti costituiscono dunque le fonti più comparabili, oltre che le più diffuse. Questa base documentaria garantisce la massima coerenza analitica allo studio, che include anche alcuni dei più importanti esempi di pubblicità a mezzo radio o cinematografo nonché di un’altra delle principali manifestazioni commerciali di quel periodo, le fiere campionarie. La coerenza narrativa del volume è ulteriormente rafforzata da una serie di esempi (personalità, agenzie, congressi e marchi) che vengono analizzati a più riprese durante il periodo sotto esame, al fine di mettere in risalto i punti di svolta e i passaggi più rilevanti. Unico nel suo genere, dal momento che esistono ancora pochissimi studi empirici sulla propaganda economica durante il fascismo e men che meno in prospettiva comparata o transnazionale, lo studio esamina la questione su tre livelli: quello statale, analizzando i tentativi di irreggimentare l’industria da parte delle due dittature; quello degli addetti ai lavori, incaricati di trasformare in appelli pubblicitari i diktat dei fascismi senza inficiarne l’efficacia; e infine quello dei potenziali consumatori, tramite l’analisi dei modelli di consumo a loro proposti attraverso le campagne pubblicitarie di quegli anni. Qui emerge un altro dei fili conduttori del volume, la prospettiva di genere, dal momento che i modelli femminili rivestirono una particolare importanza sia nell’immaginario propagandistico che nell’espansione commerciale dei beni di consumo, indirizzata sempre più verso le consumatrici. Tale concezione si riflette sulla struttura del libro, che è articolato in cinque capitoli, preceduti da un prologo e seguiti da un epilogo. Il prologo introduce la questione dell’interazione tra fascismi e consumi e il loro conflittua-

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le rapporto con la modernità attraverso l’illuminante esempio dell’agenzia Dorland, diretta da uno dei maestri del Bauhaus, Herbert Bayer. Perseguitata per la sua affinità con la “degenerata” avanguardia bauhausiana eppur incaricata di creare alcune delle campagne propagandistiche di maggior successo del regime nazista – inclusa l’imponente mostra Germania, inaugurata in occasione dei famosi giochi olimpici del 1936 – la Dorland si fece portatrice di uno stile pubblicitario orientato a far leva sulle aspirazioni socio-culturali più che sui bisogni materiali dei consumatori, dipingendo un futuro di prosperità per tutti i membri della comunità razziale nazionalsocialista. Il capitolo introduttivo offre una panoramica dell’evoluzione della pubblicità sia dal punto di vista concettuale che pratico nell’arco dei primi tre decenni del Novecento. Filosofi, artisti e scrittori di tutta Europa si interrogarono sulla funzione e sull’impatto del mezzo pubblicitario, nuovo araldo della modernità, osteggiato da gran parte di loro come “invadente menzogna” o cavallo di troia dell’imperialismo americano, ma anche acclamato dalle avanguardie artistiche – futuristi in primis – come arte per le masse. Dagli Uffici propaganda creati durante la Prima guerra mondiale uscirono nuove leve di pubblicitari, finora relegati al ruolo di imbonitori, che spingevano per la professionalizzazione del proprio settore attraverso la creazione di scuole, riviste e agenzie, cercando di farsi interpreti dei bisogni materiali della nuova società di massa attraverso la funzione “stabilizzante” della psicotecnica pubblicitaria. Il secondo capitolo è dedicato ai ripetuti tentativi da parte del Ministero per la Propaganda nazista prima e del Ministero della Cultura Popolare fascista poi di trasformare l’industria pubblicitaria in uno dei principali mezzi di propaganda attraverso la creazione di istituzioni, associazioni e riviste preposte all’epurazione politica e razziale del settore, quali il Consiglio pubblicitario dell’economia tedesca, fondato già nel settembre del 1933, o la rivista «La Pubblicità d’Italia», diretta tra gli altri da Alessandro Pavolini e Roberto Farinacci. Le reciproche influenze e la crescente compenetrazione istituzionale, oltre che tematica, culmineranno infine nella creazione del Comitato italo-tedesco per la pubblicità, determinato a imporre la propria visione di consumo su tutt’Europa dopo la vittoria dell’Asse Roma-Berlino-Tokyo. Il terzo capitolo illustra i paralleli tentativi di politicizzazione della sfera commerciale e di commercializzazione della politica che caratterizzarono l’era dei fascismi. La crociata per imporre uno stile pubblicitario “autenticamente” fascista o nazista prese le forme di una nazionalizzazione

Introduzione

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dei contenuti e dell’immaginario pubblicitario, di cui furono oggetto soprattutto le donne. Che si trattasse della tanto denigrata donna-crisi o delle “corrotte civette giudee”, la rappresentazione, le abitudini e il corpo stesso delle donne divenne il principale campo di battaglia sul quale attuare la fascistizzazione della cultura commerciale. A ciò corrispose un altrettanto notevole spinta alla commercializzazione degli emblemi dei fascismi “dal basso”, concretizzatasi nella proliferazione di un’ampia gamma di oggetti di consumo, dai costumi a bagno con l’effigie del duce alle pagnotte a forma di croce uncinata, che i regimi tentarono di arginare con ogni mezzo. Il quarto capitolo esamina l’impatto dei diktat di regime sulla pratica pubblicitaria dal punto di vista dei professionisti attraverso le attività di due delle principali aziende di quegli anni: l’Unione pubblicità italiana (UPI), concessionaria della stampa fascista nonché creatrice del maggior numero di campagne del Ventennio, che giunse a ottenere un monopolio pressoché totale sul mercato italiano e coloniale, e la Società per la pubblicità commerciale, versione “germanizzata” della succursale berlinese della J. Walter Thompson. Senza trascurare l’importanza dell’autocensura e delle misure repressive, il capitolo riscostruisce in maniera del tutto inedita fino a che punto alcuni settori dell’industria pubblicitaria seppero dar vita a un tipo di réclame ibrida, finalizzata a stimolare il consenso degli aspiranti consumatori attraverso l’accesso esclusivo a determinati consumi. Il quinto capitolo completa il quadro fornendo un’analisi testuale e visiva delle campagne pubblicitarie di maggior successo comparse sulla stampa italiana e tedesca dai primi anni Trenta al lancio della guerra totale. Attraverso l’analisi comparativa di una serie di prodotti, sia di base che di lusso, questa sezione illustra la realtà estremamente frammentata della cultura commerciale dell’epoca, contrassegnata dal perdurare di forti divisioni di classe nonché dalla progressiva razzializzazione dei contenuti pubblicitari. Mentre gran parte delle réclame mostrarono un assorbimento quanto meno parziale dei contenuti politici, mostrando notevoli continuità con il periodo pre-fascista e in particolar modo con il secondo dopoguerra, esse conferirono un’apparenza di normalità alla repressione politica e razziale, rassicurando i lettori attraverso l’illusione di un futuro comfort ad uso esclusivo dei membri della comunità fascista e nazista. Riprendendo le fila della parabola della Dorland, l’epilogo evidenzia come il propagare di una visione di un futuro di prosperità divenne la funzione centrale della propaganda commerciale in guerra, talmente essenziale da continuare a essere divulgata con dispendio di mezzi anche quando i

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prodotti in questione non erano più disponibili sul mercato da molti mesi. Dalle creme di bellezza Nivea alla famosa Volkswagen, il Consiglio pubblicitario nazista si adoperò fino alla fine per mantenere l’acquiescenza ai piani di dominio del regime attraverso la promessa di futuri consumi. Pur comprendendo e lodando l’importanza di simile strategia, il Ministero della Cultura Popolare non riuscì invece mai a rendere credibile tale promessa, che si rivelerà subito vacua di fronte alla miseria e alle devastazioni della Seconda guerra mondiale.

Questo libro è frutto di diversi anni di ricerca, durante i quali ho avuto la fortuna di potermi confrontare con un gran numero di stimolanti colleghi e di cari amici, che ringrazio di cuore. Oltre alla preziosa collaborazione di molti archivi e centri di ricerca, vorrei ricordare le tre istituzioni che nell’arco degli ultimi anni mi hanno accolto a braccia aperte: l’Istituto Storico Germanico di Roma, in particolare Martin Baumeister, lo Zukunftskolleg dell’Università di Konstanz, in particolare Giovanni Galizia e Sven Reichardt, e tutti gli amici del Wolfson College di Cambridge. Tra i molti colleghi e amici che si son generosamente presi del tempo per discutere alcune delle idee di fondo di questo studio desidero ringraziare: Hartmut Berghoff, Marco Bertilorenzi, Elisabetta Bini, Annalisa Capristo, Stefano Cavazza, Uoldelul Chelati Dirar, Chris Clark, Victoria de Grazia, Valeria Deplano, Laura di Fabio, Sebastiano Dondi, Andrea Franchi, Stephen Gundle, Hartmut Kaelble, Christoph Kreutzmüller, Wencke Meteling, David Motadel, Mary Newbould, Lisa Niemeyer, Jürgen Osterhammel, Gloria Pescarolo, Michele Sarfatti, Sybille Stein­ bacher, Dietmar Süß, Jonathan Wiesen. Vorrei ringraziare in particolar modo Lutz Klinkhammer e Ferdinando Fasce per i loro attenti commenti sul manoscritto finale. Un grazie particolare va ai miei maestri, Richard J. Evans e il carissimo Paul Ginsborg, che ci ha lasciato decisamente troppo presto. Sono, infine, molto grata a Valeria Galimi per il grande sostegno, a Ilaria Pavan per il sempre vivace e amichevole confronto, e a Silvia Mazzini, il cui entusiasmo mi ha accompagnato nella scrittura, dalla StaBi fino a oggi.

Prologo Lo studio Dorland: un’enclave del Bauhaus al servizio del regime nazista

Il 19 luglio del 1937, il giorno dopo l’inaugurazione della «Grande mostra dell’arte tedesca» promossa dai nazionalsocialisti a Monaco, a pochi passi di distanza aprì anche la famigerata esibizione sull’«arte degenerata». Organizzata dalla Camera per le arti visive del Reich, organo del Ministero di Joseph Goebbels, l’esposizione comprendeva circa 730 opere firmate da più di cento artisti – tra i quali personaggi dal calibro di Max Beckmann, Otto Dix e Wassily Kandinsky – etichettate dai nazisti quali tipici esempi della «dominazione intellettuale giudaico-bolscevica».1 Le opere, che non costituivano che una frazione dei 17.000 pezzi rimossi dalle collezioni pubbliche tedesche a partire dall’aprile di quell’anno, includevano capolavori espressionisti, dadaisti e neo-oggettivisti, così come centinaia di dipinti minori, disegni e libri ritenuti non germanici o corrosivi dello spirito nazionale.2 La mostra, ferocemente antisemita e anti-modernista, fu un innegabile successo e attirò più di due milioni di visitatori, cinque volte tanto quella sull’arte di regime.3 Ciò fu dovuto a una martellante campagna pubblicitaria, all’ingresso gratuito e al grottesco allestimento, ma anche alla fama di alcuni degli artisti messi alla gogna. La sua realizzazione era stata affidata a una squadra alquanto eterogenea, che andava da un giovane seguace del1. Führer durch die Ausstellung Entartete Kunst. Cfr. Zuschlag, An “Educational Exhibition”, pp. 83-104. 2. Cfr. Petropoulos, Art as politics in the Third Reich, pp. 54-62. Più in generale cfr. Ruppert, Bildende Kunst im NS-Staat, pp. 29-48. 3. Sebbene il Ministero della propaganda spesso gonfiasse le cifre ufficiali, la mostra fu effettivamente molto frequentata, come dimostrato dalla proroga da quattro settimane a quattro mesi, cfr. Engelhardt, Die Ausstellung „Entartete Kunst‟ in Berlin 1938, pp. 89188: p. 95.

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le SA (Sturmabteilungen) ad un rispettabile designer di interni berlinese.4 Il più rinomato pubblicitario tedesco, invece, non prese parte all’organizzazione dell’evento ma costituì uno dei bersagli dello spettacolo diffamatorio. Si trattava di Herbert Bayer, già responsabile dell’Officina réclame del Bauhaus e ora direttore creativo della filiale berlinese della famosa agenzia pubblicitaria statunitense Dorland. Nella vetrina di una delle nove stanze volutamente stipate e mal illuminate svettava infatti un suo dipinto del 1924 intitolato “Paesaggio del Ticino”.5 Dopo aver lasciato la sede Bauhaus di Dessau per Berlino nel 1928, Bayer si era costruito una brillante carriera alla Dorland, e ben presto salì alla ribalta come uno dei grafici e pubblicitari più ricercati del paese.6 Tale reputazione aiutò l’agenzia a sopravvivere all’onda d’urto della Grande Depressione, nonostante il ritiro di molti dei suoi clienti internazionali, nonché alle vessanti imposizioni dettate dalla politica di “allineamento” (Gleichschaltung) del settore pubblicitario attuata dai nazisti dall’aprile del 1933. L’esperienza della Dorland fu fondamentale per diversi transfughi della Scuola del Bauhaus, la cui combinazione avanguardistica di tecnologia, arte e artigianato era stata ostracizzata dai nazisti ben prima della sua chiusura definitiva. Ma l’importanza della Dorland va ben oltre l’ormai nota storia della persecuzione delle avanguardie da parte del nazionalsocialismo, e forse perfino oltre gli studi sulle zone d’ombra di alcuni esponenti della Scuola.7 Fu sotto la guida di Bayer, infatti, che l’agenzia riuscì ad assicurarsi commesse di grande prestigio da parte dello stato nazista, prime fra tutte le tre esposizioni propagandistiche più riuscite organizzate dallo stato nazista a partire dal 1934: «Popolo tedesco – lavoro tedesco» (Deutsches Volk – Deutsche Arbeit, 1934); «Il miracolo della vita» (Wunder des Lebens, 1935) e «Germania» (Deutschland, 1936).8 La trilogia, 4. Hartmut Pistauer, ventiquattrenne membro delle SA, fu posto a capo dell’organizzazione, mentre l’Istituto per la propaganda culturale ed economica tedesca, diretto dall’architetto Waldemar Steinecker, si occupò dei piani di visita e del catalogo, cfr. Zuschlag, An “Educational Exhibition”, pp. 90-97. 5. Sul Reklamewerkstatt cfr. Droste, Bauhaus, 1919-1933, p. 180 ss. Cfr. anche Lüttichau, Entartete Kunst Munich 1937, pp. 69-71; 202. 6. Cfr. Berliner Adreßbuch, 1929, Teil II, p. 9, a partire dal 1929. Cfr. Schug, Vom Newspaper Space Salesman, pp. 5-25. 7. Cfr. Bauhaus-Moderne im Nationalsozialismus, soprattutto pp. 9-47. 8. Cfr. Rössler, Mediatisierung von Alltag im NS-Deutschland, pp. 211-230 e Brüning, Bauhäusler zwischen Propaganda und Wirtschaftswerbung, pp. 24-47.

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come venne ribattezzata dalla stampa nazionalsocialista, culminerà nella mostra internazionale «Germania», inaugurata in concomitanza con i giochi olimpici del 1936 e concepita come vetrina di una Germania nazista dinamica e prosperosa, intenta a celare le crescenti persecuzioni razziali. Come fu possibile una tale inversione di rotta? Quali furono le motivazioni che spinsero il Ministero della propaganda ad affidarsi ad un artista che avrebbe poi bollato come «degenerato»? E quale fu il percorso che portò la Dorland, e Bayer in particolare, ad assumere questi incarichi? Fondata nel 1928 per occuparsi delle pagine pubblicitarie della rivista «Vogue», la Dorland berlinese apparteneva a una schiera di grandi aziende pubblicitarie statunitensi e britanniche lanciatesi alla conquista del vecchio continente nei tardi anni 1920.9 L’allora direttore artistico di «Vogue», il celebre designer di origini turche Mehemed Fehmy Agha, si adoperò per assumere come direttore creativo l’astro nascente dell’Officina réclame del Bauhaus. Ben presto Bayer e il suo «studio dorland» (a caratteri minuscoli, secondo il tipico stile grafico del Bauhaus) si affermarono come una delle agenzie di maggior successo della Germania weimariana, capace di creare prodotti visivi immediatamente riconoscibili sulle pagine dei principali quotidiani e riviste illustrate del paese grazie all’abile combinazione di suggestioni artistiche e commerciali.10 Situata sul Kurfürstendamm, già allora una delle strade più alla moda di Berlino, in breve tempo la Dorland riuscì ad annoverare tra i suoi clienti ditte di fama mondiale quali la Elizabeth Arden, la Packard, l’United States Airlines e le Imperial Airways britanniche, oltre a un numero sempre maggiore di marchi nazionali, come il celebre collutorio Odol e le calze Rogo, le raffinate sigarette austriache Nil e importanti aziende italiane quali la Cinzano o la fabbrica di auto NSU, di proprietà della FIAT dal 1929. Sin dal principio l’agenzia si concentrò soprattutto su prodotti di lusso, tra cui gli apparecchi radio (Schaub e in seguito Philips), le bevande alcoliche (il cherry brandy Bols), le automobili (Packard, come dicevamo, e Hudson Essex) nonché gli annunci per il settore turistico, che reclamizzava ai ceti più abbienti e mondani della capitale.11 9. Cfr. Schug, Wegbereiter der modernen Absatzwerbung, pp. 29-52. 10. Sulla produzione artistica di Bayer fino al 1938 cfr. Herbert Bayer: das künstlerische Werk 1918-1938. 11. Cfr. Bauhaus-Archiv Berlin, Studio Dorland, Berlin, réclame a stampa, 1928-1944 [in corso di catalogazione].

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La chiave del successo della Dorland non risiedeva soltanto nel suo indiscusso prestigio artistico, ma anche in campagne ben concepite, basate su ricerche di mercato e tecniche psicologiche all’avanguardia. Con un dipartimento creativo che contava all’incirca una dozzina di disegnatori grafici più altri quattro/cinque pubblicitari di professione, la Dorland era strutturata sul modello delle nuove agenzie full service di stampo statunitense, i cui diversi reparti rispecchiavano una divisione taylorista del lavoro. Questa rigorosa struttura organizzativa, combinata al genio creativo di Bayer e all’utilizzo delle più moderne tecniche di persuasione, diede vita ad un unicum nel panorama pubblicitario della Repubblica di Weimar. Orientandosi verso specifici gruppi di consumatori provenienti dalle classi agiate, i professionisti della Dorland idearono pubblicità che miravano a far leva sui loro desideri trascendendo la sfera dei meri bisogni materiali, per puntare su più astratte fantasie di autorappresentazione. Come vedremo, nel prediligere beni e vacanze di lusso la Dorland ricorse spesso e volentieri a quello che in seguito sarebbe stato definito il metodo del soft sell, imperniato sulla scelta di concentrarsi non tanto sulle qualità intrinseche e l’utilità del prodotto, ma soprattutto sulla sua capacità di plasmare l’immagine del consumatore, vendendo «il beneficio piuttosto che il prodotto: il prestigio anziché l’automobile, il sex-appeal anziché la semplice saponetta».12 Non limitandosi a vendere un oggetto, dunque, ma uno stile di vita. Questo approccio, che si sposava particolarmente bene alla necessità di conquistarsi la fiducia dei futuri consumatori, si rivelerà particolarmente adatto alla creazione di specifiche «visioni del futuro» (Zukunftsvisionen), già evocate dalle pubblicità di marche prestigiose e ora concepite dagli organi di propaganda per evocare il miraggio di una società del benessere futuro, alla quale avrebbero avuto accesso tutti i fedeli membri della comunità nazionale. Nonostante la sua indiscussa fama, la Dorland si trovò in difficoltà finanziarie già pochi mesi dopo la sua apertura. Nell’autunno del 1929 «Vogue» fu infatti costretto a ritirarsi dal mercato tedesco a causa della concorrenza di riviste femminili già affermate come «Die Dame» o «Elegante Welt».13 Il crollo della borsa di Wall Street poche settimane dopo spinse moltissime imprese statunitensi ad abbandonare la Germania. A differenza di gran parte dei suoi rivali, la Dorland riuscì tuttavia a sopravvivere alla 12. Marchand, Advertising the American dream, p. 10. 13. Cfr. la storia celebrativa Moments of Consistency, pp. 51-53.

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crisi finanziaria del 1929 grazie all’intervento di uno dei suoi dipendenti più lungimiranti, Walter Kurt Matthess, che nel gennaio 1930 acquistò l’agenzia da Condé-Nast, rimanendone poi proprietario fino al 1989.14 Già direttore della sezione réclame della rivista «Querschnitt», di proprietà della casa editrice Ullstein fino all’arianizzazione di quest’ultima già nel febbraio del 1933, Matthess era approdato alla Dorland per occuparsi delle pagine pubblicitarie di «Vogue».15 Intuendo il potenziale insito nella combinazione tra l’eccellenza grafica e le moderne pratiche pubblicitarie promossa dall’agenzia, Matthess concentrò tutti i suoi sforzi nel mantenere Bayer come direttore creativo e coltivare la fama modernista dello studio. Dopo il rogo del Reichstag, la Dorland si trovò in una posizione piuttosto precaria non soltanto a causa delle sue radici statunitensi ma soprattutto per la presenza al suo interno di personalità invise al nuovo regime, primi tra tutti i collaboratori di origini ebraica nonché gli artisti di provenienza bauhausiana. Già a partire dall’estate del 1933 il regime nazista aveva istituito una ferrea rete istituzionale al fine di controllare la pubblicità commerciale, considerata fin da subito uno strumento estremamente utile per promuovere modelli di consumo e di condotta sociale compatibili con i princìpi razzisti e nazionalisti del regime. Tra gli strumenti principali dell’allineamento del mondo della réclame figuravano l’organo ufficiale di controllo, il Werberat der Deutschen Wirtschaft, il Consiglio pubblicitario dell’economia tedesca, creato in seno al Ministero della propaganda nel settembre del 1933, e la Lega nazionalsocialista dei pubblicitari tedeschi del Reich (NSRDW), l’associazione di categoria cui tutti i professionisti del settore erano obbligati ad iscriversi per poter lavorare.16 Le compagnie straniere, o considerate tali, vennero sottoposte a duri processi di «arianizzazione» o «germanizzazione» (ossia la vendita forzata o l’esproprio di imprese di proprietà ebraica o estera), che solitamente si concretizzarono nell’assorbimento da parte di agenzie dalle spiccate sim14. Ivi, p. 46. Cfr. anche Swett, Selling under the Swastika, p. 29. 15. La prestigiosa Ullstein fu tra le prime case editrici ad essere arianizzata nella famigerata Deutscher Verlag già nel febbraio del 1933. Cfr. Hung, ‘The ‘Ullstein Spirit’, pp. 158-184 e Berndt, Die Restitution des Ullstein-Verlags, pp. 63-87. 16. La Nationalsozialistische Reichsfachschaft Deutscher Werbeleute (NSRDW), nata dalla Gleichschaltung, il cosiddetto “allineamento” della Federazione tedesca della réclame (Deutscher Reklame-Verband, DRV), comprendeva all’incirca 18.500 membri, vedi capitolo 2.

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patie naziste.17 Nel caso della Dorland, Matthess, in quanto “ariano” (per quanto sposato in prime nozze a una donna ebrea), poté detenere la proprietà dell’azienda e riuscì così a salvarla. La sua principale concorrente, la J. Walter Thompson, non ebbe invece la stessa fortuna, e fu trasformata nella Società per la pubblicità commerciale sotto la guida di un fedele membro delle SS. La Dorland fu dunque l’unica agenzia di stampo statunitense che riuscì a conservare la propria struttura sostanzialmente intatta, almeno sino al 1938, anno in cui Bayer decise di emigrare negli Stati Uniti. I guai tuttavia non finirono qui. Stando agli storici d’impresa Alexander Schug e Hilmar Sack, nei primi mesi dopo l’ascesa di Hitler la Dorland subì vessazioni pressoché quotidiane da parte della Gestapo al fine di epurare oppositori politici ed ebrei da ogni attività produttiva. Il poeta satirico, cabarettista e pittore Joachim Ringelnatz, che vi lavorava come copywriter, fu uno dei primi ad essere messo all’indice già agli inizi del 1933, spegnendosi poi di tubercolosi in condizioni di totale indigenza l’anno successivo.18 Ancora a metà giugno del 1934, in una lettera a Ilse Gropius, Bayer ricordava che il suo studio doveva continuare a battersi «per ottenere l’autorizzazione a esercitare qualsiasi tipo di attività pubblicitaria». Fin dalla sua istituzione il Consiglio pubblicitario si era infatti ripetutamente rifiutato di concedere la licenza necessaria per l’esercizio della professione pubblicitaria alla Dorland, citandone «la politica commerciale internazionale», probabilmente a causa dei legami con la casa madre newyorkese, e «l’impiego di collaboratori ebrei» come motivazioni principali.19 Gli archivi della Dorland non permettono di ricostruire l’identità dei collaboratori perseguitati, purtroppo, fatta eccezione per alcuni dei principali esponenti del Bauhaus, che però cooperarono in maniera solo saltuaria con lo studio, inclusa Irene BayerHecht, fotografa di talento e consorte di Bayer fino al 1929.20 17. Cfr. ad esempio Bajohr, ‘Arisierung’ in Hamburg; Dean, Robbing the Jews, in particolare pp. 17-172. 18. Joachim Ringelnatz †, «Frankfurter Zeitung», n° 594, 21 novembre 1934. Cfr. Woesthoff, „Denken Sie nur an Edison, an Fahrrad“, pp. 80-88. 19. Citati in Moments of Consistency, p. 61. A causa della protratta chiusura del Bauhaus-Archiv non è stato possibile verificare l’esatta datazione di queste citazioni. 20. Nata negli Stati Uniti e cresciuta in Ungheria, lavorò a fianco di Bayer fino alla loro separazione alla fine del 1928, pochi mesi prima di dare alla luce la loro unica figlia. Dopi il ritorno negli Stati Uniti nel 1938 si dedicò al lavoro di traduttrice. Alcune sue opere sono ora esposte al Museo di Arte Moderna (MoMA) di New York. Cfr. Rössler, Bauhausmädels, pp. 158-167.

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Non è dunque possibile accertare quando, di preciso, l’agenzia fu costretta a licenziare il proprio personale di origini ebraiche. Fatto sta che già nell’aprile del 1934 era stata inaugurata la prima mostra della trilogia di regime, «Popolo tedesco – lavoro tedesco», allestita sul Kaiserdamm con la collaborazione di personalità quali Ludwig Mies van der Rohe e Bayer stesso.21 Molto è già stato scritto sulla centralità delle mostre propagandistiche finalizzate all’immersione e all’integrazione di vari strati della popolazione nell’universo nazionalsocialista.22 Le immagini giunte fino ai giorni nostri ci danno un’idea della monumentalità dell’impresa. Sull’imponente entrata costruita con enormi colonne a forma di martello, non dissimili dai fasci che due anni prima avevano decorato l’ingresso della Mostra della rivoluzione fascista, troneggiava il simbolo del Fronte del lavoro tedesco (DAF, Deutsche Arbeitsfront), un enorme ingranaggio con svastica al suo interno.23 L’allestimento della mostra rappresentò un grande successo per la retorica nazionalistica e produttivistica del regime.24 Viste le tempistiche si può ipotizzare che le autorità abbiano fatto pressione sullo studio affinché si occupasse dell’evento con la minaccia di non concedere l’autorizzazione a praticare pubblicità. Questa apparente contraddizione – negare la licenza in base alla propria propaganda anti-modernista e antisemita da un lato, reclutare le eccellenze avanguardistiche al fine di aumentare il proprio prestigio, soprattutto al­ l’estero, dall’altro – fu in realtà alquanto tipica del nazionalsocialismo (e, in parte, anche del fascismo), e ne contraddistinse le politiche culturali e commerciali fin dal principio.25 Oltre a costituire un’evidente dimostrazione del carattere policratico del regime, che fu animato da costanti lotte egemoniche 21. Cfr. Cohen, Ludwig Mies van der Rohe. 22. Nel caso del Bauhaus cfr. Weißler, Bauhaus-Gestaltung in NS-Propaganda-Auss­ tellungen, pp. 48-63. 23. Cfr. Bundesarchiv Koblenz (d’ora in poi BArch), Bildarchiv, Db 440 (Messen und Ausstellungen), Aktuelle-Bilder-Centrale, Georg Pahl, immagine n° 102-15750. L’archivio immagini del Bundesarchiv conserva una discreta collezione di immagini della mostra: dal n° 102-15748 al n° 15756 e 15780; da n° 102-03531 a n° 03535; B 145, P063513. 24. La Germania nazista non aderì mai del tutto al modello corporativista, cfr. Neumann, Inter-war Germany and the corporatist wave, pp. 124-143 e Pasetti, L’Europa corporativa, in particolare pp. 261-268. Sulla circolazione transnazionale del modello corporativo fascista cfr. Pasetti, L’Europa corporativa, pp. 18-30 e i contributi di Corporatism and Fascism. 25. Per una panoramica della storiografia su modernismo e nazismo cfr. in particolare Betts, The New Fascination with Fascism, pp. 541-558, Bavaj, Die Ambivalenz der Moderne e il classico Herf, Reactionary modernism.

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tra vari gruppi di potere, spesso con agende ben diverse se non contrastanti, questa incoerenza aveva una ragione di ordine molto pratico. Malgrado la condanna ufficiale di Bayer in quanto esponente della “cultura giudaicobolscevica” del Bauhaus, infatti, Goebbels e i suoi collaboratori – i quali mostrarono sempre un vivo interesse per le moderne pratiche pubblicitarie, come vedremo – intuirono subito il potenziale della sua fama internazionale e si adoperarono per utilizzarlo a vantaggio della causa nazionalsocialista. Nonostante l’iniziale penalizzazione della Dorland, il Ministero della propaganda non esitò dunque a sfruttarne i talenti a patto che portassero lustro al regime e stimolassero i consumi. La successiva inclusione di Bayer tra gli artisti “degenerati”, per quanto paradossale, rappresentò un’inversione di tendenza solo apparente, che illustra in maniera emblematica le contraddizioni intrinseche dei fascismi, e dei loro rapporti tutt’altro che antitetici con la modernità – e il modernismo – e con i consumi. Oltre a mettere in risalto l’evidente discrepanza tra propaganda e realtà tipica dell’era dei fascismi, l’esperienza della Dorland mette inoltre in rilevo quella che assurgerà a finalità principale della pubblicità commerciale durante il Ventennio e il cosiddetto Terzo Reich: la funzione di consolidamento del consenso attribuitale da entrambi i regimi che, in palese contrasto con i ben più roboanti proclami «contro la vita comoda», in realtà le conferirono un ruolo di spicco nel tentativo di fascistizzazione delle società italiana e tedesca a partire dai primi anni Trenta. È chiaro dunque che, anche in questo caso, l’ostilità del regime si abbatté principalmente su persone considerate «aliene» o «nemiche», come i collaboratori ebrei e gli oppositori politici, mentre a chi si allineò ai dettami del regime furono spesso garantiti notevoli profitti. Per quanto riguarda la Dorland, è ipotizzabile che la scelta iniziale fu dettata da ragioni di sopravvivenza, il che tuttavia spiega solo in parte perché lo studio continuò e anzi intensificò la propria collaborazione con il regime negli anni successivi. Non solo l’agenzia non fu mai costretta a chiudere i battenti o ad essere assorbita da imprese vicine al partito, ma al contrario prosperò grazie a importanti commesse affidatele sia da alcuni dei più famosi marchi tedeschi sia dall’apparato statale nazista; una condotta, questa, che ha spinto la più recente storiografia a porre in rilievo i notevoli compromessi accettati dallo stesso Bayer fino al 1938.26 26. Cfr. Brüning, Bauhäusler zwischen Propaganda und Wirtschaftswerbung, e più recentemente Meißner,’Quand l’art moderne devient commercial’, pp. 27-48 e Rössler, Herbert Bayer, pp. 44-62.

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Questo atteggiamento fu in realtà molto più diffuso di quanto la spesso agiografica letteratura sul Bauhaus del periodo della Guerra fredda abbia voluto ammettere, animata come fu dalla necessità di presentare modernità e fascismo come antitetici in tutto e per tutto. Come dimostrato dallo storico dell’architettura Winfried Nerdinger, esponenti dell’avanguardia come van der Rohe o perfino Walter Gropius non furono in realtà osteggiati in tutto e per tutto già a partire dal 1933, bensì vennero inizialmente incoraggiati da alcuni settori dell’apparato nazionalsocialista, al quale sottoposero varie proposte negli anni 1933-1935. Nel tentativo di trovare un loro spazio all’interno del firmamento nazionalsocialista, i due ex-direttori del Bauhaus si aggrapparono alla speranza di far assurgere il modernismo a cifra dell’arte tedesca.27 Fu solo dopo il fallimento di questa strategia che entrambi si decisero ad emigrare, Gropius già nel 1934, van der Rohe nel 1937. La parabola di Bayer seguì un percorso non dissimile, con l’importante distinguo che per almeno quattro anni l’ex responsabile dell’Officina réclame riuscì a trovare un modus vivendi più che soddisfacente con il regime. Un aspetto, quest’ultimo, che pur non incrinando l’interpretazione canonica del Bauhaus come vittima del nazismo, indica la necessità di riesaminare il ruolo di alcuni suoi membri, anche alla luce del fatto che nella seconda metà degli anni 1930 Bayer giunse a essere uno dei grafici meglio remunerati di tutto il Terzo Reich.28 A tale proposito, l’esperienza della Dorland fa già presagire quello che costituirà il leitmotiv della storia dell’industria pubblicitaria nell’era fascista (e non solo): il primato dei profitti. La storia d’impresa della Dorland sostiene che, una volta ottenuta la licenza, pochi mesi dopo, Bayer ne approfittò per trasformare l’agenzia in un’«enclave della modernità Bauhaus».29 Secondo questa interpretazione, fino al 1934 l’agenzia costituì il punto di ritrovo per alcuni dei maestri della Scuola, quali Walter Gropius, László Moholy-Nagy e Marcel Breuer, e diversi ex studenti vi lavorarono per periodi più o meno brevi. In realtà, gran parte delle sue creazioni pubblicitarie spesso non rispecchiavano gli stilemi dell’avanguardia bauhausiana, rifacendosi piuttosto a uno stile che la storica dell’arte Magdalena Droste ha definito «organico», caratterizzato 27. Cfr. Nerdinger, Bauhaus-Architekten im „Dritten Reich‟, pp. 153-178. 28. Cfr. Moments of Consistency, pp. 69-71. Diversi furono gli esponenti del Bauhaus dal passato antisemita, cfr. in particolare Weber, The Bauhaus Group. 29. Moments of Consistency, p. 61.

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da un’innovativa miscela di tipografia, fotografia e illustrazioni.30 Tra le eccezioni più esemplari si ricorda tuttavia la sezione pubblicitaria dell’iconica rivista «die neue linie».31 La filosofia della Dorland si discostava inoltre in maniera evidente da quella del Bauhaus per quel che riguardava uno dei cavalli di battaglia della Scuola, quello di arte per le masse, in grado di produrre oggetti di design su scala industriale. Vero è che l’agenzia riuscì comunque a conservare alcuni dei marchi grafici dell’Officina réclame, inclusa la sua predilezione per il fotomontaggio e la razionalizzazione quasi eterea degli spazi, e soprattutto ad assicurare ad alcuni dei suoi dipendenti una certa continuità lavorativa – spesso cruciale, come abbiamo visto, per non finire nell’indigenza più assoluta. Nei primi anni 1930 la Dorland si era avvalsa del contributo di diversi bauhausiani quali Carl Schlemmer, fratello di Oskar Schlemmer, Hinrich Bredendieck, che dopo una parentesi svizzera si trasferirà al New Bauhaus, di Chicago, nel 1937, e Xanti Schawinsky, che per via delle sue origini ebraiche si trasferì a Milano già nel 1933, dove avviò una fruttuosa collaborazione con il noto Studio Boggeri.32 Qui Schawinsky lavorò per la Cinzano, la Illy, la Motta e la Olivetti (per la quale disegnò il modello Studio 42), ideando anche il noto manifesto di Mussolini per il «SI» plebiscitario delle elezioni del 1934, in cui il corpo del dittatore è composto dal fotomontaggio di una folla di persone, un chiaro riferimento al frontespizio del Leviatano di Thomas Hobbes del 1651.33 In realtà dopo il 1934 furono pochi i bauhausiani che l’agenzia fu in grado di arruolare. Primo tra tutti il pittore e cineasta Kurt Kranz, che lavorò come braccio destro di Bayer fino al 1938, mettendosi poi in proprio, nonché, per un breve lasso di tempo, i fratelli Hans Ferdinand e Hein Neuner.34 Fino al 1938 l’agenzia si avvalse anche dell’arte grafica di Max 30. Herbert Bayer: das künstlerische Werk, pp. 10-15. Cfr. Meißner,’Quand l’art moderne devient commercial’, p. 40 e Brüning, Bauhäusler zwischen Propaganda und Wirt­schaftswerbung, pp. 31-41. Cfr. anche Schug, Herbert Bayer – ein Konzeptkünstler, pp. 173-185. Sullo sviluppo dell’arte cartellonistica dall’epoca guglielmina a Weimar cfr. Heller, Fili, German Modern, p. 9 ss. 31. Cfr. Rössler, Das Bauhaus am Kiosk. 32. Cfr. Hin Bredendieck; cfr. anche Bianchi, Fotografia modernista e pubblicità. 33. Cfr. Archivio Grafica Italiana, http://www.archiviograficaitaliana.com/project/ 226/s (ultimo accesso 3 agosto 2022). 34. Cfr. Kurt Kranz, „Als Nachfolger des Studio Herbert Bayer übernehme ich alle Arbeiten des Ateliers“, «Gebrauchsgrafik» (1938), Anzeigenteil. Cfr. anche Kurt Kranz e Moments of Consistency, p. 62.

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Gebhard, membro del KPD (Partito comunista tedesco) dal 1927 e creatore del tuttora celebre logo dell’azione anti-fascista (due bandiere rosse in un circolo), che riuscì a mantenersi grazie a diversi progetti realizzati sotto mentite spoglie.35 In questi anni lo studio poté lavorare per lo più indisturbato. Fu in questo periodo che la Dorland conobbe la sua fase più controversa. Nel marzo del 1935 fu inaugurata la seconda mostra commissionata dal regime, «Il miracolo della vita», animata da un’abile commistione di conoscenze anatomiche d’avanguardia – una delle opere di maggior richiamo fu l’Uomo di vetro, ammirabile ricostruzione del corpo umano – e becera propaganda eugenetica e abilista, che culminerà poi nell’Azione T4, l’euta­nasia forzata di persone con disabilità fisiche o mentali. Qui i livelli di estetizzazione dell’immaginario nazionalsocialista toccarono vette tali che due anni dopo le opere di Bayer (catalogo incluso) furono esposte alla London Gallery.36 Va sottolineato che Bayer si guardò sempre dal firmare immagini esplicitamente politicizzate, come nel caso dei contenuti creati per la rivista del DAF «Freude und Arbeit», illustrata da Kranz e dai Neuner a partire dal 1936.37 Egli si concentrò piuttosto su raffinate stilizzazioni all’apparenza apolitiche, come nel caso del prospetto de «il miracolo della vita» (oggi conservato al MoMA di New York), durante la stesura del quale raccontò di aver dovuto far fronte all’incomprensione degli ideologi di partito per la sua arte.38 È tuttavia innegabile che la sua fama ed il suo estro creativo agirono da richiamo e conferirono all’ideologia nazista la credibilità necessaria a normalizzare alcuni degli suoi aspetti più brutali – le sue politiche razziste ed eugenetiche o le sue mire espansionistiche in primis. La fruttuosa collaborazione di Bayer col regime peraltro non si limitò alla trilogia. Tra le numerose commesse vinte tra il 1933 e il 1938 per conto di diverse associazioni nazionalsocialiste si contano altri lavori per 35. Cfr. Mescher, Kampfkunst, «der Freitag», 10 (2019), n.n. 36. BArch, Bildarchiv, Da 184 {Geisteskranke und Behinderte}, Aktuelle-Bilder-Centrale, Georg Pahl, Bild nr. 102-16745-8; e G VII a {Ausstellungen (A-Z der Namen)}, Bild 183 – Allgemeiner Deutscher Nachrichtendienst – Zentraldienst, immagine n° 183-19920820-507. Una notevole raccolta dei lavori di Bayer per la mostra è conservata al MoMA ed è visionabile anche online. Sul linguaggio visivo impiegato da Bayer nella trilogia cfr. Rössler, Mediatisierung von Alltag im NS-Deutschland, pp. 211-230. 37. Cfr. Brüning, Bauhäusler zwischen Propaganda und Wirtschaftswerbung, p. 27. 38. Cfr. Moments of Consistency, pp. 71-72.

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il Fronte del lavoro e il suo dopolavoro, la Kraft durch Freude (KdF), inclusa la mostra «Vivere sani – lavorare bene» del 1938, che dedicò un’intera sezione al famoso KdF-Wagen o Volkswagen, promessa di prosperità per tutti i fedeli membri della Volksgemeinschaft, un numero imprecisato di manifesti e pamphlets, nonché l’imponente esposizione organizzata per celebrare i primi quattro anni della dittatura, dal titolo «Datemi quattro anni di tempo».39 Per quanto l’iniziale collusione con il regime fosse stata dettata da ragioni di sopravvivenza, la scelta di collaborare attivamente probabilmente scaturì invece dall’ambizione, o quanto meno dall’impossibilità di accrescere la propria fama senza scendere a notevoli compromessi. La terza esposizione nazista, «Germania», costituì l’evento culminante della trilogia, anche perché si svolse nell’estate del 1936, in concomitanza con le famose Olimpiadi. In un momento in cui gli occhi di tutto il mondo erano puntati su Berlino, la mostra fu concepita in modo da presentare il nazismo come forza modernizzatrice che promuoveva il benessere del popolo tedesco e al contempo ne coltivava le tradizioni, celandone il carattere più propriamente militarista e le crescenti persecuzioni di ebrei, Sinti e Rom, oltre che di oppositori politici, di cittadini LGBTQ+, disabili, “asociali” e altri bollati come nemici. L’allestimento attirò una moltitudine di visitatori da tutta la Germania e dall’estero – oltre un 1,3 milioni, secondo la stampa dell’epoca.40 Nonostante l’iniziale dibattito circa l’eventualità di boicottare l’evento, l’esclusione degli atleti di origine ebraica da parte della Germania passò presto in secondo piano, e gran parte della stampa estera venne colpita alquanto favorevolmente dallo spettacolo nazista.41 Per l’occasione Bayer disegnò un elegante prospetto: sulla copertina una grande Germania stagliata su fondo bianco che, da Berlino, irradiava per tutto il globo, mentre al suo interno figurava una panoramica di grandi pensatori e condottieri tedeschi, da Gutenberg a Goethe, da Federico il Grande a Bismarck, senza dimenticare il conte Zeppelin. La reinterpreta39. Stando alle memorie di Kurt Kranz, Bayer era generalmente restio a firmare composizioni di natura esplicitamente propagandistica, cfr. Brüning, Bauhäusler zwischen Propaganda, pp. 26-28. Un altro collega bauhausiano, Walter Funkat, affermò addirittura che Bayer «possedeva un talento particolare nel prender contatti con la gente di partito», cfr. Moments of Consistency, p. 71. 40. Cfr. Weißler, Bauhaus-Gestaltung, p. 62. 41. Cfr. Large, Nazi Games, p. 121 ss. La Spagna del Fronte popolare fu una dei pochissimi paesi a boicottare Berlino 1936, organizzando dei giochi paralleli nei giorni del colpo di stato franchista.

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zione di Bayer, ottimo esempio della «modernità addomesticata» di quegli anni, dava l’impressione di smorzare in parte il tono nazionalistico dei contenuti, garantendo tuttavia ulteriore visibilità, oltre che prestigio, a una narrazione che inseriva la «nuova Germania» nazionalsocialista nella storia secolare del paese, come ideale coronamento dell’evoluzione dell’«anima del Volk tedesco».42 Quanto lo stile di Bayer differisse dai consueti illustratori di partito risulta particolarmente evidente nel paragone con la copertina del catalogo, su cui troneggiava una statuaria testa d’aquila, ben diversa dalle linee nitide e leggere del direttore creativo della Dorland. Stavolta il catalogo fu infatti affidato a Kurt Schmid-Ehmen, scultore tra i più vicini al regime, che figurerà poi in tutte le «Grandi mostre dell’arte tedesca», dal 1937 al 1944. Schmid-Ehmen è, per l’appunto, ricordato come il creatore dell’emblema nazionalsocialista, l’«aquila del Reich», di cui creò molte versioni per decorare i principali palazzi del regime, inclusa quella di nove metri che coronava il monumentale padiglione disegnato da Albert Speer per l’esposizione universale di Parigi del 1937.43 Tale evoluzione è in un certo senso emblematica del destino di Bayer di lì a poco. Con la progressiva radicalizzazione delle politiche culturali, sempre più proiettate verso la militarizzazione dello spazio pubblico, l’atteggiamento schizofrenico dei nazisti nei confronti di Bayer raggiunse l’apice con la sua inclusione tra gli «artisti degenerati» a partire dal 1937. Da un lato messo all’indice, dall’altro corteggiato in virtù della sua utilità, Bayer era pienamente consapevole dell’ambiguità della propria posizione, come testimonia una lettera scritta poco prima di lasciare definitivamente la Germania: Durante tutti questi anni, fino al 1938, la mia vita…ha seguito una routine quasi borghese. Sono ufficialmente etichettato come artista degenerato, ma posso fare il mio mestiere indisturbato. Sono sempre molto occupato: a volte delle mostre, altrimenti manifesti, inserzioni pubblicitarie, ecc… Ma ultimamente ogni cosa ha perso il suo interesse… perché il livello generalmente basso imposto da Hitler si ripercuote anche sul mio lavoro.44 42. MoMA archives, object n° 553.1999, Herbert Bayer, Deutschland Ausstellung, 18.Juli bis 16. August 1936, retro. Si noti come i tre condottieri siano posti in rilievo con colori più intensi (come Schiller). Sul concetto di modernità addomesticata cfr. Rössler, Vielfalt in der Gleichschaltung, pp. 150-195. 43. Cfr. Fiss, In Hitler’s Salon, pp. 316-342. 44. Citato in Moments of Consistency, p. 72.

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L’aspetto che più colpisce di questa esternazione, oltre allo sfatare una volta per tutto il mito di un Bayer costretto ad emigrare dopo esser stato privato della possibilità di lavorare in quanto “degenerato”, è la prevalenza di preoccupazioni d’ordine professionale, più che politico. Per quanto nel 1938 l’autocensura fosse ormai una pratica consolidata, l’interesse principale di Bayer rimase, per tutto questo periodo, la sua arte, la possibilità di esercitarla e diffonderla con successo. È necessario sottolineare questo aspetto anche perché molti furono invece i bauhausiani che furono costretti, pur di non scendere a compromessi, a vivere una vita di angoscia e privazioni, a rifugiarsi all’estero o in «esilio interiore», o addirittura che furono assassinati nei campi di concentramento.45 Quanto a Bayer, pochi mesi dopo decise di porre fine a ogni ambiguità trasferendosi a New York, dove aveva già programmato una retrospettiva sul Bauhaus con Gropius e fu subito assunto come direttore creativo della sede centrale della Dorland. A Berlino gli succedette Richard Roth, che conservò il nome dell’agenzia continuando a creare campagne pubblicitarie di successo sino al 1943, quando la réclame verrà ridotta al silenzio dalle ormai insostenibili ristrettezze economiche imposte dal secondo conflitto mondiale. Senza mai dimenticare le sue origini statunitensi ma profondamente radicata nell’esperienza avanguardistica bauhausiana, la Dorland occupa un posto centrale nella storia della pubblicità commerciale nel periodo tra le due guerre. Con la sua sapiente miscela di avanguardia artistica e moderne tecniche pubblicitarie, l’agenzia offre una chiave di lettura privilegiata per l’analisi non soltanto dell’atteggiamento del regime verso l’emergente cultura dei consumi, ma anche e soprattutto di come queste due forze, apparentemente contrapposte, interagirono nel quotidiano, giungendo spesso a un compromesso estremamente proficuo. La capacità della pubblicità commerciale di diffondere messaggi apparentemente apolitici, differenziando a seconda dei bisogni e delle aspettative dei gruppi sociali a cui si rivolgeva, finirà infatti per assumere una rilevanza centrale per entrambe le dittature. Nonostante il loro atteggiamento ambiguo verso la cultura commerciale, i fascismi non presero alcuna misura drastica contro l’industria pubblicitaria ma anzi ne sostennero notevolmente lo sviluppo, purché essa ne 45. Hahn, Wege der Bauhäusler in Reich und Exil, pp. 202-213. Tra la vastissima letteratura su esilio e «esilio interiore» cfr. Hermand, Kultur in Finsteren Zeiten, pp. 175198 e 282-290.

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avallasse gli scopi nazionalistici e razziali. Dal canto loro, molti professionisti, sia in Germania che in Italia, accettarono di buon grado la fascistizzazione della professione in quanto garantì loro un prestigio molto più elevato di quello che erano stati in grado di conseguire fino a quel momento – indipendentemente dai costi umani, ancor prima che politici e sociali, che tale politica comportò. Il motivo di questo patto faustiano era semplice: incoraggiando l’illusione della normalità, e soprattutto instillando nelle «masse da nazionalizzare» l’idea che un futuro luminoso e prospero fosse dietro l’angolo, tale connubio avrebbe aiutato i due regimi a ottenere il consenso necessario per trasformare in realtà la loro violenta visione di comunità nazionale razzialmente e culturalmente omogenea.46

46. Mosse, La nazionalizzazione delle masse.

1. Da ciarlatani ad eroi? I ruggenti anni Venti della pubblicità

Ogni muro tappezzato di réclame è una sorpresa metafisica Giorgio De Chirico1

Nel gennaio del 1915, poco più di un mese dopo l’espulsione di Benito Mussolini dal Partito socialista a causa del suo rifiuto della linea pacifista e internazionalista adottata allo scoppio della Prima guerra mondiale, il primo sindaco socialista di Milano, Emilio Caldara, fu incaricato di istituire una commissione d’inchiesta sulla provenienza dei finanziamenti per «Il Popolo d’Italia». Durante l’udienza del 22 febbraio, il futuro dittatore dichiarò «che i fondi pel suo giornale egli li aveva avuti dall’Agenzia Italiana di Pubblicità, rappresentata dal Dottor Jona».2 Dopo essersi recato in Svizzera alla ricerca di finanziamenti per il suo nuovo giornale interventista, incassando il rifiuto della potente intermediaria di pubblicità a stampa Haasenstein & Vogler (H&V), Mussolini riuscì infatti a ottenere i fondi necessari in tempo record grazie alla creazione dell’Agenzia Italiana di Pubblicità (AIP).3

1. Giorgio De Chirico a Parigi nel 1925, dopo aver contemplato un muro ricoperto di cartelloni a opera di Leonetto Cappiello, cfr. L’arte della pubblicità, p. 32. 2. Archivio di Stato di Milano (d’ora in poi ASMi), Gabinetto di Prefettura, 1° versamento, 1848-1939 (Post-Unitario II, d’ora in poi GPPUII), b. 565, Giornali e Riviste, f. L’Impresa Moderna, lettera dalla Questura al Commissario civile per la provincia di Milano, 22 settembre 1915. 3. Cfr. Falabrino, Pubblicità serva padrona, p. 121.

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Guidata da Giuseppe Jona, fondatore nel 1912 della rivista di pubblicità «L’Impresa Moderna», l’AIP agiva in realtà da «cerniera pubblicitaria»4 fra Mussolini e un gruppo di grandi industriali «di orientamento più o meno interventista, o, almeno, interessati a un incremento delle forniture militari».5 Fra questi figuravano produttori di acciaio, degli zuccheri, di munizioni o cantieri navali, come i vertici della Edison, l’Unione zuccheri, il vicepresidente della FIAT, Dante Ferraris, i proprietari dell’Ansaldo, i fratelli Perrone, e gli armatori Parodi di Genova, che assicurarono a «Il Popolo d’Italia» il sostegno finanziario per promuovere la causa interventista. Stando alla relazione della commissione, che due giorni dopo deliberò che Mussolini non si fosse reso «colpevole di alcuna indegnità morale e professionale», dal momento che aveva rilasciato delle regolari cambiali all’AIP, «il Mussolini nel suo contratto con l’Agenzia Italiana di Pubblicità volle inclusa una clausola che gli permettesse di rifiutare inserzioni che egli ritenesse incompatibili con l’indirizzo del proprio giornale».6 Già navigato direttore dell’ «Avanti!», Mussolini era ben cosciente del potere della pubblicità a stampa, che avrebbe usato abilmente negli anni a venire non solo per garantire il sostentamento della stampa fascista e per far pressione sui propri avversari, ma anche per presentare il proprio «prodotto», l’Italia fascista, nella miglior luce possibile.7 Lungi dal costituire un aspetto insignificante oppure una semplice vittima della macchina fascista, la pubblicità ha giocato un ruolo di primo piano nella storia del fascismo fin dall’inizio, come strumento di finanziamento e di censura. Il controllo degli introiti pubblicitari veniva infatti usato sia come meccanismo di repressione delle pubblicazioni invise al fascismo che come incentivo per gli organi di stampa e le imprese fedeli al regime. Esemplare è il caso del «Corriere della Sera», che nel periodo della crisi Matteotti attraversò notevoli difficoltà a causa delle pressioni esercitate da Mussolini su alcuni industriali affinché ritirassero i loro annunci dalle pagine del quotidiano dei fratelli Albertini,8 o dell’Unione Pubblicità Italiana (UPI), che come vedremo sarebbe diventata la più potente impresa pubblicitaria italiana grazie al sostegno prestato alla stampa di regime, soprattutto durante la crisi econo4. Falabrino Effimera & bella, p. 103. 5. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, p. 277. 6. Relazione della Commissione d’inchiesta per far luce sui discussi finanziamenti ottenuti da Mussolini in occasione della nascita de «Il popolo d’Italia», ivi, allegati. 7. Sul concetto di «prodotto Italia» cfr. Ceserani, Vetrina del Ventennio, p. 241 ss. 8. Cfr. Benadusi, Il Corriere della Sera, p. 42.

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mica dei primi anni Trenta. Tuttavia solo con l’avvento del nazionalsocialismo e il lancio della campagna autarchica il fascismo colse appieno anche le potenzialità “positive” del mezzo pubblicitario, rispecchiando l’evoluzione dell’Ufficio stampa in Ministero della cultura popolare, cioè da strumento di carattere prevalentemente negativo, di censura e di informazione, a un’arma positiva dedicata alla realizzazione di vaste campagne di propaganda.9 Le fasi iniziali del fascismo si distinsero infatti per un atteggiamento alquanto repressivo nei confronti della réclame e più in generale dei consumi, con slogan «contro la vita comoda» come Non comprate!, nonché per una spiccata avversione alle tendenze individualistiche ed edonistiche incarnate dalla pubblicità moderna, che si accompagnò ad altisonanti quanto anacronistiche esortazioni a un ascetico ritorno alla retorica del suolo patrio. Anche se è necessario tener ben presente la portata dell’ostilità del fascismo nei confronti della cultura consumistica, occorre anche ricordare gli importanti legami intrattenuti dal regime con molte delle grandi industrie e in particolare con quei ceti medi desiderosi di godere di quella stessa vita comoda.10 Questa tendenza si sviluppò in parallelo, più che in antitesi, alle crociate anti-borghesi del Ventennio.11 Soprattutto a partire dall’inizio degli anni Trenta questi temi verranno infatti affiancati da ripetuti appelli a consumare alla maniera fascista, che promettevano l’accesso a determinati consumi, di tipo rigorosamente nazionale, che sarebbero stati esclusivo appannaggio dei membri della società fascista, intesa come un’unità politicamente e razzialmente omogenea – basti pensare ai famosi prodotti Balilla, ma anche ai consumi collettivi incoraggiati dall’Organizzazione Nazionale Dopolavoro (OND), come avremo modo di vedere più avanti. Fino ai primi anni Trenta le attenzioni del regime fascista si concentrano sulla pubblicità quasi esclusivamente a fini economici o repressivi. Significativo è il caso del GAR, il Gruppo Amici della Razionalizzazione, che nella maggior parte delle storie della pubblicità viene portato ad esempio della presunta animosità del fascismo nei confronti della pubblicità e più in generale della modernizzazione dell’industria.12 Nato nel 9. Cfr. Ferrara, Il Ministero della cultura popolare, pp. 26-27. 10. Cfr. ad esempio Ceserani, Vetrina del Ventennio, p. 158 ss., che tuttavia enfatizza eccessivamente la presunta irreconciliabilità fra il fascismo e la cultura pubblicitaria. 11. Cfr. Buzzegoli, La polemica antiborghese nel fascismo, soprattutto pp. 56-86. 12. Cfr. ad esempio le molte ricostruzioni celebrative pubblicate da «L’Ufficio Moderno» dopo la Seconda guerra mondiale come Lenti, Nascita, vita e morte del GAR, «L’Ufficio Moderno», 50, n° 5 (1976), pp. 579-583.

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1931 nell’ambito della rivista pubblicitaria «L’Ufficio Moderno», il gruppo riuniva 46 fra i più importanti sostenitori del modello fordista di produzione industriale, inclusi Adriano Olivetti, Roberto Tremelloni e Libero Lenti, nonché politici antifascisti del calibro di Piero Caleffi e Lelio Basso.13 Si trattava, in primo luogo, di giornalisti, economisti e pubblicitari dalle simpatie prevalentemente anti-fasciste, a cominciare dal direttore de «L’Ufficio Moderno», Guido Mazzali, ex redattore dell’«Avanti!».14 Il gruppo includeva anche l’ex ferroviere Dino Villani, reinventatosi pubblicitario, che avrebbe ideato alcune delle più fortunate campagne degli anni Trenta, inclusa quelle per il panettone Motta, pubblicizzato mediante la sponsorizzazione del Giro d’Italia, o il concorso «5.000 lire per un sorriso», antesignano di Miss Italia.15 I membri del consiglio direttivo del GAR attirarono presto le attenzioni della polizia fascista. Le riunioni mensili del gruppo erano sorvegliate da diversi informatori, che riferivano poi al Questore di Milano. Fino al marzo del 1933 gli incontri furono ritenuti leciti, fatta eccezione per la presenza di Mazzali, il quale, come specificava il Questore, «ha precedenti quale socialista. Egli però non ha dato luogo a speciali rilievi con la sua condotta politica e non consta svolga alcuna attività e non è ritenuto elemento pericoloso».16 Nel 1934, tuttavia, probabilmente come misura preventiva, il GAR venne assorbito nel Centro studi di economia corporativa, e nel 1937, con l’inasprirsi del processo di fascistizzazione dell’industria pubblicitaria, il gruppo fu sciolto. La repressione non colpì soltanto i pubblicitari, ma incluse anche studi e riviste grafiche, come nel caso del periodico «Campo Grafico», che, dopo essersi distinto per la moderna veste grafica e soprattutto per le idee innovatrici dei suoi editori, il pittore Attilio Rossi e il grafico e cartellonista Carlo Dradi, fu chiusa nel 1937.17 Un destino analogo toccherà a Mazzali, che nel 1940 fu arrestato e mandato al 13. Cfr. Carotti, «L’Ufficio Moderno» di Guido Mazzali, pp. 67-91 e Bigazzi, Modelli e pratiche organizzative, p. 957. 14. Cfr. Archivio Centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Ministero dell’Interno, Direzione generale Pubblica sicurezza (1861-1981), Divisione affari generali e riservati. Uffici dipendenti dalla sezione prima (1894-1945), Casellario politico centrale 1894-1945 (d’ora in poi MI-CPC), b. 3172. 15. Cfr. Ceserani, Vetrina del Ventennio, p. 203. Su Villani cfr. in particolare Falabrino, Dino Villani e Zammitti, Dino Villani. 16. ASMi, GPPUII, b. 384, Associazioni, f. Amici del Razionalizzazione (Gruppo), lettera del Questore di Milano del 30 marzo 1933. Cfr. anche ivi, b. 423, Censura. 17. Cfr. Caccia, Formidabile quel gruppo, pp. 47-53.

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confino. «L’Ufficio Moderno», invece, continuò a essere pubblicato sino all’agosto del 1943, quando la sede di Milano venne bombardata.18 Le vicissitudini del GAR rappresentano senza dubbio un esempio calzante della spietata opera di repressione della stampa e di alcuni settori del mondo pubblicitario operata dalla dittatura fascista. Due sono gli aspetti da tener presente a riguardo: prima di tutto, è importante ricordare che, almeno in una prima fase, il mestiere pubblicitario rappresentò una delle pochissime nicchie in cui alcuni professionisti di orientamento anti-fascista riuscirono a trovare rifugio, spesso sotto mentite spoglie, a patto di trovare un modus vivendi con il regime. Come ha recentemente sottolineato Irene Di Jorio, un’interpretazione a posteriori de «L’Ufficio Moderno» come impavida roccaforte dell’antifascismo necessiterebbe tuttavia di un’analisi più articolata, vista l’adesione della rivista a importanti iniziative istituzionali, come il congresso di Roma e Milano del 1933, e soprattutto alla campagna autarchica.19 Il secondo aspetto, di gran lunga più rilevante, è che i membri del GAR, molti dei quali furono più volte arrestati e diventeranno poi importanti esponenti della Resistenza, furono perseguitati in quanto anti-fascisti, non a causa di un’ostilità a priori nei confronti della pubblicità o della modernizzazione dell’industria, che anzi troveranno nell’ENIOS, l’Ente Nazionale per l’Organizzazione Scientifica del Lavoro, fondato nel 1926 da Confindustria, e in particolare nelle pubblicazioni patrocinate da Giuseppe Bottai, due dei loro più convinti fautori.20 Lungi dal costituire un blocco monolitico, il fascismo raccoglieva infatti diverse correnti, spesso in contrasto fra di loro, alcune delle quali si adoperarono per una modernizzazione dell’industria in senso fascista già dalla fine degli anni Venti. È infine necessario sottolineare che l’impatto della dittatura in questo ambito dovrebbe essere misurato anche alla luce della sua inedita capacità di mobilitare ampi strati della popolazione da un punto di visto comunicativo. Questo, per quanto indirettamente, aveva spianato la strada all’espansione della pubblicità già dalla seconda metà degli anni Venti, come avrebbero avuto modo di sottolineare i dipendenti della filiale milanese della J. Walter 18. Cfr. Le origini – perché un ragioniere divenne editore e un politico divenne ragioniere, «L’Ufficio Moderno», 40, n° 3 (1966), p. 372. 19. Cfr. Di Jorio, Pubblicità e propaganda, pp. 212-213. 20. Cfr. Bigazzi, Modelli e pratiche organizzative, pp. 942-943 e Sapelli, Organizzazione, lavoro e innovazione industriale, pp. 55-58.

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Thompson, una delle agenzie pubblicitarie più potenti di quegli anni, con filiali che si estendevano da Buenos Aires a Giacarta. Anche se alcuni dei professionisti che ruotavano intorno al GAR si opposero strenuamente al fascismo, correndo grandissimi rischi e pagando cara la loro opposizione al regime, molti altri pubblicitari accolsero di buon grado la progressiva fascistizzazione del settore, perché prometteva di conferir loro quella legittimità e quel riconoscimento cui aspiravano da decenni. L’intento di questo capitolo è illustrare l’evoluzione dell’industria pubblicitaria italiana e tedesca nel periodo tra le due guerre, un’evoluzione che, nelle parole di Victoria De Grazia, avrebbe portato «una professione malfamata di imbonitori a diventare una corporazione di professionisti ben disciplinati, alla quale si poteva affidare il compito di comunicare in modo accorto ed efficace con un Volk trasformato come per magia da una massa di accaparratori in un esercito di eroi».21 A tal fine, le prossime pagine si soffermeranno anzitutto sulla réclame come oggetto di dibattito pubblico: fortemente criticata come ingannevole manifestazione delle tendenze più nefaste del capitalismo statunitense, nella maggioranza dei casi, ma anche esaltata come quintessenza della modernità da alcuni dei suoi più convinti fautori, le avanguardie artistiche del Futurismo o del Bauhaus. A ciò seguirà una breve panoramica del processo di professionalizzazione del settore in entrambi i paesi, un processo animato dalla creazione delle prime scuole, associazioni e agenzie pubblicitarie, che sfociarono nella nascita di ciò che Irene Di Jorio ha definito come la «cultura pubblicitaria» dell’era fascista.22 1. «La réclame è una menzogna che […] seduce come fosse una verità» Nel 1929, pochi mesi prima del crollo della borsa di Wall Street, il giornalista Luigi Barzini, al tempo direttore del «Corriere d’America» di New York, osservò: La réclame americana è una materia scientifica che si insegna nelle università giornalistiche e commerciali, si connette alla psicologia delle masse, alla mentalità delle varie classi alle quali fa appello, ed allo studio delle aspirazioni, delle tendenze e dei bisogni della gente. […] I migliori laureati in 21. De Grazia, Foreword, in Selling Modernity, p. xvii. 22. Di Jorio, Propagande commerciale ou publicité politique, pp. 99-122.

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giornalismo non vanno nei giornali, ma entrano al servizio del commercio negli uffici di pubblicità. La réclame americana è quieta, serissima, persuasiva e insinuante e rappresenta una subdola e terribile offensiva commerciale. L’Italia ne è bombardata, ma pochi se ne accorgono perché essa è mascherata da réclame italiana. Io che conosco i prodotti e la loro provenienza, la vedo per tutto nelle nostre pubblicazioni, ma non c’è in essa una parola che lasci

capire che si tratta di merce non italiana.23

Nel puntare il dito contro la pubblicità statunitense, Barzini metteva in risalto un fenomeno che già per la fine degli anni Venti era diventato piuttosto comune: la massiccia presenza di réclame a stampa che pubblicizzavano prodotti statunitensi o che si rifacevano a un immaginario tipico della réclame d’oltreoceano.24 Barzini ben illustrava l’essenza di quello che a partire dagli anni Venti venne descritto come il metodo scientifico: una forma sistematica di persuasione di massa basata su attente ricerche di mercato e sulle più moderne teorie psicologiche per garantire la diffusione di un prodotto facendo appello a gruppi sociali differenti a seconda delle loro abitudini e della loro mentalità. Cosa ancora più importante, l’analisi di Barzini è indicativa di due dei giudizi che avrebbero dominato il dibattito pubblico sulla pubblicità per gran parte degli anni tra le due guerre (e oltre). Prima di tutto, la condanna di Barzini si basava sulla concezione secondo la quale le masse erano composte da soggetti del tutto passivi, privi di qualsiasi volontà e pronti a essere plagiati. Tale visione era molto diffusa all’epoca, non solo in psicologia e in sociologia ma anche nella sfera politica e culturale – basti pensare al successo delle teorie di Gustave Le Bon sulla psicologia delle masse.25 Una simile opinione, inoltre, sottintendeva che la pubblicità, così come la propaganda, poteva essere sfruttata per influenzare il comportamento delle persone e manipolarne le opinioni e i bisogni con il minimo sforzo.26 23. ACS, Ministero della cultura popolare (d’ora in poi Minculpop), Gabinetto, b. 314, f. Report n° 78, USA, sottof. 9, citato in Anania, Tosatti, L’amico Americano, p. 29. Su Barzini cfr. Magrì, Luigi Barzini, pp. 243-300. 24. La questione dell’americanizzazione della pubblicità nel Terzo Reich e durante il Ventennio è stata oggetto di diversi studi, cfr. Ross, Visions of Prosperity, pp. 52-77; Schug, Wegbereiter der modernen Absatzwerbung in Deutschland, pp. 29-52; De Grazia, Irresistible Empire, pp.226-283 e Arvidsson, Between Fascism and the American Dream, pp. 151-186. 25. Cfr. Le Bon, Psicologia delle folle. 26. Cfr. in particolare Ross, Media and the making, pp. 213-222.

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Barzini non era certo il solo a guardare con sospetto alla pubblicità moderna. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, fior di intellettuali, giornalisti e politici di mezza Europa avevano ripetutamente messo in guardia contro l’avvento della réclame, che consideravano volgare e frivola, se non addirittura perniciosa. Le critiche arrivavano da quasi tutti gli schieramenti politici, a cominciare dai conservatori – celebri furono le battaglie dello Heimatschutz tedesco contro le pubblicità per esterni – fino ai pensatori d’impronta marxista, i primi a concepire la pubblicità come quintessenza negativa della modernità capitalista.27 Escogitata da ciarlatani per ingannare i lavoratori onesti e indurli a comprare prodotti scadenti, nel migliore dei casi la pubblicità era ritenuta superflua, dal momento che, secondo il sentire comune, i prodotti di qualità non avevano bisogno di essere promossi per ottenere il successo che meritavano.28 L’opinione dominante era che il mestiere pubblicitario non fosse che una truffa, praticata da untuosi impostori, o, nell’ipotesi più benevola, del tutto inutile. Tale convinzione avrebbe costituito la spina nel fianco dei pubblicitari italiani (e in parte anche tedeschi) almeno fino alla fine degli anni Venti. Ancora nel 1934 Francesco Flora, critico letterario e allievo di Benedetto Croce, espresse a riguardo un’opinione che ben sintetizzava il disprezzo delle élites culturali europee per il fenomeno. Nel suo best-seller ante litteram, Civiltà del Novecento, Flora sottolineava come A movere per una strada, ad aprire un giornale a entrare in un cinema, non c’è verso di uscire dal cerchio assediante della réclame. Importuna, pettegola, giocosa, malinconica, scipita, scugnizza […], compromette in tutte le maniere la libertà della gente […]. La réclame è una menzogna che […] seduce come fosse una verità.29

La profonda apprensione per la crescente presenza della pubblicità nella sfera pubblica manifestata da molti critici si legava spesso e volentieri a un altro tema particolarmente caldo di quegli anni: la paura dell’americanizzazione dell’Europa, di cui la pubblicità divenne presto una delle 27. Cfr. Spiekermann, Elitenkampf um die Werbung, pp. 126-149 e Lamberty, Reklame in Deutschland, pp. 456-490. Per un’ottima panoramica cfr. Forgacs, Ansie d’influenza, pp. 245-262. 28. Opinioni di questo tipo erano molto diffuse in Italia almeno fino agli anni Venti, cfr. Ceserani, Storia della Pubblicità in Italia, p. 55 ss. 29. Flora, Civiltà del Novecento, p. 102.

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principali incarnazioni.30 Già prima dello «choc del 1917», quando un intero mondo in conflitto poté constatare la schiacciante superiorità economica e militare degli Stati Uniti, il modello di produzione taylorista e lo stile di vita statunitense erano divenuti oggetto di dispute accese che andavano ben oltre gli ambienti industriali e politici.31 Assurti a emblema della modernizzazione grazie alla razionalità del loro modello produttivo e ai migliori standard di vita, l’ammirazione per gli Stati Uniti spesso si accompagnava a profondi timori per lo stravolgimento della Kultur europea ad opera del colosso economico statunitense, un influsso che – si diceva – avrebbe condotto alla completa dissoluzione dei suoi valori e delle sue strutture sociali.32 Secondo Gramsci, le preoccupazioni nutrite dagli intellettuali europei spesso non erano che una forma di «critica preventiva dei vecchi strati [sociali], che dal possibile nuovo ordine saranno […] schiacciati e che sono già in preda a un’ondata di panico sociale, di dissoluzione, di disperazione».33 L’avversione all’americanismo era dunque «un tentativo di reazione incosciente di chi è impotente a ricostruire e fa leva sugli aspetti negativi del rivolgimento».34 La combinazione di attrazione e repulsione che caratterizzò gli anni Venti avrebbe subito una brusca virata verso il rifiuto dopo il crollo della borsa di Wall Street del 1929, che mise a nudo tutte le fragilità del modello capitalistico statunitense.35 Come ha sottolineato la storica Janet Ward, fu Siegfried Kracauer il primo ad articolare un’analisi a tutto tondo del fenomeno nel contesto della Germania weimariana, combinando la propria istintiva fascinazione per la pubblicità all’interpretazione della medesima come un’entità invadente 30. Michela Nacci parla della «barbarie del comfort», cfr. Nacci, L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta, pp. 36-45. Cfr. anche Weltwirtschaftsarchiv, b. 164 e 486, raccolta di ritagli stampa (fino a metà anni Trenta). Fra i molti esempi di pubblicazioni coeve cfr. Meyer Die Amerikanisierung Europas. Più in generale cfr. Ellwood, The Shock of America, pp. 73-106 e De Grazia, Irresistible Empire, pp. 103-129. 31. Cfr. Saldern, Überfremdungsängste, pp. 213-244. 32. Cfr. i tre volumi Amerikanisierung, L’Americanisation en Europe e Attraktion und Abwehr, pp. 1-36. 33. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. III, p. 2179, citato anche in Forgacs, Ansie d’influenza, p. 251. 34. Ibidem. Per un’acuta analisi del rapporto fra lavoro e consumo nell’interpretazione gramsciana cfr. Capuzzo, Un nuovo tipo umano, pp. 287-302. 35. Cfr. Nacci, L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta, pp. 116-128 e Saldern, Überfremdungsängste, p. 213 ss. 

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e manipolatrice che «forzava le masse inconsapevoli a modellarsi negli stampi imposti dal capitalismo, anche nell’uso del tempo libero».36 Nel suo saggio del 1921 intitolato Langeweile (La noia), Kracauer sosteneva che la pubblicità, come la radio e il cinema, «impedisce alla gente di annoiarsi, colmando tutti gli spazi e gli intervalli della vita di città. Così, preclude qualunque uso creativo della noia, che è il momento per sognare».37 Postulando le basi di quella che diventerà poi l’interpretazione della Scuola di Francoforte della réclame quale «elisir di vita» dell’industria culturale, secondo la quale «la causa della regressione dall’illuminismo alla mitologia non va tanto cercata nelle moderne mitologie nazionalistiche […] quanto nell’illuminismo stesso paralizzato dalla paura della verità»,38 nel 1932 Walter Benjamin criticava «la pubblicità elettrica […], le cui insegne, parole e slogan colorati vigilano dall’alto»,39 in quanto incarnazione delle forze antilluministiche del capitalismo. Secondo Benjamin, «La pubblicità è l’astuzia con cui il sogno si impone all’industria».40 Il sogno diverrà poi uno dei temi portanti della pubblicità nell’era dei fascismi. Alla base di queste interpretazioni vi era una concezione semi-demiurgica del fenomeno pubblicitario, in grado di plagiare il pensiero e l’azione degli individui per i propri scopi. Non tutti condividevano questa visione esclusivamente negativa della pubblicità, tuttavia, e fin dai primi del Novecento si levarono anche alcune voci favorevoli o quantomeno neutrali, benché relativamente isolate. Nel 1907, ad esempio, Giuseppe Prezzolini dedicò al potere delle réclame il suo libro L’arte di persuadere. Concentrandosi soprattutto sull’incontro fra la tradizione letteraria e le nuove forme espressive della pubblicità, Prezzolini descriveva le quarte pagine di quotidiani quali il «Corriere della Sera» o il «Frankfurter Zeitung» come esempi magistrali di applicazione delle tecniche di persuasione di massa. Già allora il principale punto di riferimento erano gli Stati Uniti: 36. Ward, Weimar Surfaces, pp. 97-98. Nel 1927 Kracauer amplierà la sua analisi del rapporto fra taylorismo e intrattenimento attraverso l’esempio delle famose Tiller girls, le ballerine “in serie”, cfr. Kracauer, Das Ornament der Masse, pp. 50-63. 37. Kracauer, Langeweile, in Schriften, vol. 5.1, p. 278. 38. Horkheimer, Adorno, Dialektik der Aufklärung, p. 192 e p. 8. 39. Benjamin, Heißer Abend, «Frankfurter Zeitung», 429, 15 giugno 1932, e Das Kunstwerk, citato in Ward, Weimar Surfaces, p. 97. Più in generale cfr. Frisby, Fragments of Modernity, pp. 187-265. 40. Benjamin, Das Passagen-Werk, p. 232. A riguardo cfr. anche Moore, Ben, Walter Benjamin, pp. 769-790.

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Gli americani hanno raggiunto il maximum di ingegnosità nella réclame che stupisce noi europei che […] spesso […] ne sopportiamo le conseguenze e ne facciamo le spese. Presto si capirà anche da noi che le case che organizzano la réclame sono organismi assai più forti nel mondo di molti ministeri […] e che in un direttore di giornale c’è spesso una potenza maggiore che in molte altre tradizionali cariche. Il governo del mondo è più in un articolo di giornale, o nella lanciata di un nuovo modo di réclame, che in un discorso di ministro o in una allocuzione di sovrano.41

Le osservazioni di Prezzolini coglievano appieno le potenzialità di quello che negli anni Sessanta del Novecento sarebbe stato ribattezzato «il quinto potere»,42 e che il nazismo e il fascismo seppero mettere a frutto in maniera particolarmente convincente. La sua analisi colpiva per l’importanza da lui attribuita alla pubblicità, e in particolare alla crescente compenetrazione tra stampa e pubblicità che avrebbe costituito uno dei tratti distintivi del periodo tra le due guerre. Furono tuttavia le avanguardie artistiche d’inizio Novecento a conferire alla pubblicità un nuovo status culturale. Ammaliato dalle infinite possibilità offerte dall’inedito medium, lo scrittore espressionista Alfred Döblin ad esempio definì la réclame come niente meno che la «poesia del popolo», «il più autentico, vitale linguaggio della città moderna, parlato dal (non al) “piccolo uomo”».43 Per quel che riguarda l’Italia, invece, il più importante interprete della pubblicità fu il movimento futurista, che ne aveva subito intuito la possibile «forza perturbante».44 Abili propagandisti della propria arte, i futuristi intravvidero nella réclame un terreno fertile in cui sviluppare il loro concetto di «arte di massa», un potente simbolo di modernizzazione che avrebbe contribuito ad abbattere le mentalità retrograde «da ippopotami» che confinavano l’attività creativa negli spazi elitari dei musei e delle gallerie. Come proclamò Filippo Tommaso Marinetti: La pubblicità ha soltanto una ragione d’essere: quella di agganciare la curiosità del pubblico con la massima originalità, la massima sintesi, il massimo 41. Prezzolini, L’Arte di persuadere, p. 80. 42. Cfr. Bellocchi, Il quinto potere. 43. Alfred Döblin, Reklame und Literatur, in Reklame und Publikum, numero speciale del «Berliner Tageblatt», 374, 10 agosto 1929, citato in Ward, Weimar Surfaces, p. 98, che offre anche un’analisi dell’interpretazione della pubblicità nella sua opera più celebre, Berlin Alexanderplatz. 44. Enzo Benedetto, L’arte della réclame, in Arte futurista italiana, citato in Salaris, Il futurismo e la pubblicità, p. 126.

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dinamismo, la massima simultaneità e la massima portata mondiale. Deve essere quindi futurista. Non può appoggiarsi a nessun mezzo tradizionale e a nessuna forma consueta […] Considero i pittori pubblicitari futuristi come autentici artisti creatori.45

Interi poemi furono dedicati alle nuove città illuminate dai neon, e l’impatto modernizzante delle pubblicità fu glorificato nell’esuberante produzione cartellonistica futurista, il cui maggior esponente fu senza dubbio Fortunato Depero – basti pensare ai suoi celebri lavori per la Campari, o al suo manifesto Il Futurismo e l’arte pubblicitaria del 1931, il cui incipit recitava: «l’arte dell’avvenire sarà potentemente pubblicitaria».46 Scritto dopo aver trascorso tre anni a New York, dove aveva lavorato per diverse agenzie pubblicitarie, il manifesto descriveva con entusiasmo il paesaggio delle merci esposte nelle vetrine della Quinta strada: «torri di libri, paesaggi di cravatte, foreste e monumenti di matite, trofei di cappelli, flore e villaggi di paralumi, cavalcate di generi alimentari […], plastici in argento e oro, sui quali siedono, giacciono o stanno in piedi impellicciati manichini di ebano con perle e collane luminose».47 Nell’ottica di Depero gli Stati Uniti rimanevano un essenziale punto di riferimento in quanto incarnazione della modernità e della velocità a cui aspiravano le composizioni futuriste. Ciò non significava tuttavia spezzare una lancia a favore di quell’esterofilia tanto invisa a Marinetti, bensì trarre ispirazione per l’esaltazione dell’Italia fascista: «W Balbo – De Pinedo – De Bernardi – Dal Molin – Maddalena. Questi nomi hanno creato degli autentici miracoli, offrono agli artisti degli spettacoli ben più potenti che “una mucca al pascolo” […] – le battaglie aeree sopra le metropoli, le trasvolate continentali e transatlantiche, i cantieri che producono centinaia di macchine e motori al giorno».48 Anche il futurismo russo fu tutt’altro che insensibile alle attrattive della pubblicità, anche se vi si accostò da posizioni politiche diametralmente opposte. Se nei primi anni Venti Vladimir Vladimirovich Majakovskij e 45. Filippo Tommasi Marinetti in Guida Ricciardi 1936, citato anche in Salaris, Il futurismo e la pubblicità, p. 122. 46. Fortunato Depero, Il futurismo e l’arte pubblicitaria in Numero unico futurista Campari (senza numero di pagine). Depero venne spesso elogiato anche dalle riviste specializzate tedesche, cfr. ad esempio A.L. Ernè, Fortunato Depero. Ein Futuristischer Gebrauchsgraphiker, «Gebrauchsgraphik», n° 4 (1930), pp. 32-40. 47. Depero, Il futurismo e l’arte pubblicitaria. 48. Ibidem.

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Aleksandr Rodčenko avrebbero lavorato fianco a fianco per creare numerosi cartelloni, divenuti poi celebri esempi dell’avanguardia costruttivista,49 già nel 1914 Majakovskij aveva dichiarato: «non bisogna gridare ai mali e alle brutture della pubblicità, ma piuttosto spingere verso di essa artisti e scrittori, perché la pubblicità, come la guerra per Marinetti, è l’igiene del mondo».50 È tuttavia necessario sottolineare che, al di là degli intenti programmatici, i manifesti futuristi riuscirono solo raramente a trasformarsi in veicoli per raggiungere le masse, rimanendo per la maggior parte raffinate opere d’arte, commissionate da aziende già rinomate per conferire prestigio al loro marchio, piuttosto che incrementarne realmente le vendite. Tale approccio ben esemplifica ciò che Gian Paolo Ceserani ha descritto come la «comunicazione tra omologhi»,51 meccanismo tipico della Belle époque in base al quale le réclame si rivolgevano a un gruppo sociale che condivideva i gusti e la posizione sociale di chi l’aveva creata: una pubblicità delle élites per le élites, ben diversa da quella pubblicità di massa finalizzata ad ampliare il più possibile la clientela che avrebbe preso piede soprattutto dopo la Grande guerra. La fine della Prima guerra mondiale sancì infatti l’inizio di una nuova fase per la storia della pubblicità. Il grande successo delle campagne per i prestiti di guerra e l’esperienza degli Uffici propaganda dell’esercito agirono da propulsori del nuovo interesse per i metodi di persuasione di massa,52 dando una spinta sostanziale al processo di professionalizzazione del settore in tutta Europa.53 Ma quale impatto ebbero queste diverse concezioni sull’industria pubblicitaria tedesca e italiana del periodo tra le due guerre? Come si sviluppò la pratica pubblicitaria a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, e qual erano le differenze più macroscopiche riscontrabili fra i due paesi all’epoca dell’avvento dei fascismi? Questi sono i temi al centro del prossimo paragrafo. 49. Per una raccolta cfr. Kiaer, Imagine no possessions. 50. Majakovskij, Kine-Zurnal 1914, citato in La sfida della Pubblicità, p. 16. 51. Ceserani, Storia della pubblicità, p. 14. 52. Cfr. Di Jorio, Pubblicitari in guerra, pp. 75-100 e Mauri, «Fate tutti il vostro dovere!», pp. 201-220. 53. Sia in Germania che in Italia queste campagne furono le prime a raggiungere un vastissimo pubblico grazie ai manifesti creati da due dei maggiori cartellonisti dell’epoca, Achille Mauzan – su commissione di Emilio Grego – e Lucian Bernhard, cfr. Falabrino, Effimera & bella, p. 104 ss. e Aynsley, Graphic Design in Germany, pp. 58-86. Cfr. anche Grego, Come si lancia un prestito di guerra.

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2. Da Cenerentola a chiave della prosperità mondiale Nell’agosto del 1929, oltre 3.000 pubblicitari provenienti da ben 22 paesi si riunirono nella capitale tedesca per il Congresso mondiale della pubblicità.54 L’evento rappresentò una vera e propria consacrazione della fiorente industria pubblicitaria tedesca su scala globale, e un importante traguardo nella storia della réclame europea.55 Al convegno, conclusosi con una risoluzione politica d’eccezione che indicava la pace e la cooperazione internazionale come essenziali e si impegnava a garantirne l’attuazione, presero parte diversi politici tedeschi, incluso l’ex Cancelliere Hans Luther, fautore della stabilizzazione del marco durante la devastante iperinflazione nel 1923 e firmatario del Patto di Locarno.56 Presentata come «la chiave della prosperità mondiale», la pubblicità venne esaltata da politici e uomini d’affari come l’emblema della nuova Germania, impegnata nel conseguimento del benessere economico in pacifica armonia con i suoi passati nemici.57 Salutato dal «New York Times» come l’«evento del decennio»,58 il congresso comprendeva persino un’intera «cittadella» a grandezza naturale, creata per sfoggiare le ultime conquiste della réclame tedesca.59 La delegazione di gran lunga più numerosa era quella statunitense, i cui 1.500 partecipanti salparono alla volta di Amburgo per poi riferire ai propri colleghi sui progressi della réclame europea. Uno dei relatori, Stewart Mims, vicepresidente della J. Walter Thompson Company, osservò che «è possibile cogliere quanto il governo tedesco prenda sul serio il convegno per il fatto che l’ex Cancelliere […] ha presenziato alle sessioni di apertura e di chiusura, così come altri uomini ben noti nelle cerchie governative».60 54. Cfr. Berlin to welcome Advertisers today, «New York Times», 11 agosto 1929, p. 6. Pamela Swett parla addirittura di 5.000 partecipanti, cfr. Swett, Selling under the Swastika, p. 34. 55. Cfr. Westphal, Werbung im Dritten Reich, p. 12 ss. 56. Cfr. Advertisers vote peace resolution, «New York Times», 15 agosto 1929, p. 5. 57. Cfr. Duke University, John W. Hartman Center for Sales, Advertising and Marketing History (d’ora in poi DUHC), J. Walter Thompson Company Archives, (d’ora in poi JWTA), James O’Shaughnessy Papers, pamphlet dell’International Advertising Association stampato in occasione del congresso mondiale di Berlino del 1929. 58. Berlin to welcome Advertisers today, p. 6. 59. Cfr. DUHC, JWTA, JWT Newsletter Collection, b. MN8, JWT Newsletter, vol. XI n° 27, novembre 1929, p. 3. 60. Ivi, JWT Staff Meeting Minutes, b. 2, f. 2, Representatives’ Meeting Minutes, 10 settembre 1929.

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Il convegno rivestiva un’importanza fondamentale per i pubblicitari tedeschi, che a lungo avevano lottato per il riconoscimento della loro professione. Come sottolineato dall’importante rivista di settore «SeidelsReklame», «uno degli aspetti più rimarchevoli dei nostri tempi è senza dubbio l’emancipazione della pubblicità dalla sua posizione di simil-Cenerentola – beneficiaria, di tanto in tanto, di un trattamento benevolo da parte dei suoi fratelli, a lei superiori, il commercio e l’industria – a una posizione di potere riconosciuta da tutti, con pari prerogative in campo economico».61 All’evento venne annunciato che la Germania investiva ormai ben 900 milioni di marchi all’anno in pubblicità – spendendo dunque pro-capite più degli Stati Uniti – e che un lavoratore tedesco su trenta era impiegato a tempo pieno nel settore.62 Per la fine degli anni Venti l’industria pubblicitaria tedesca aveva dunque raggiunto una posizione di tutto rispetto, presentandosi come uno dei settori più vitali dell’economia di Weimar. Si trattava, tuttavia, di un colosso dai piedi d’argilla, minato da diversi difetti strutturali, a cominciare dalla mancanza di commissioni fisse o di affidabili statistiche sulla tiratura della stampa, nonché di un percorso formativo uniforme, il che lasciava ancora ampio spazio a quelle pratiche dilettantistiche o scorrette che avevano fatto il cattivo nome della pubblicità nei decenni precedenti. Meno di un anno dopo il congresso, tale sistema avrebbe rivelato tutte le sue fragilità: con l’avvento della Grande depressione in tutta Europa, moltissimi dei grandi committenti di pubblicità sarebbero falliti, o si sarebbero ritirati dal mercato tedesco. Anche nel caso delle aziende che riuscirono a sopravvivere all’onda d’urto della crisi, le spese pubblicitarie furono spesso le prime ad essere tagliate, o ridotte notevolmente, perché ancora ritenute non essenziali. Lo stuolo di professionisti che aveva fatto il successo del congresso mondiale del 1929 si ritrovò così in balìa di quella feroce precarietà economica (e politica) in cui avrebbe trovato terreno fertile il nazionalsocialismo. Gli atti del convegno ci danno la misura delle grandi disparità esistenti a fine anni Venti fra l’industria pubblicitaria tedesca e quella italiana. Berlino fu infatti il primo congresso mondiale a cui prese parte una relativamente sparuta ma vivace delegazione italiana.63 L’anno prima, i 61. Emil Friedrich Brodeck, Weltwerbewesen – International Advertising, «Seidels-Reklame», n° 8 (1929), pp. 343-347. 62. Citato in Ward, Weimar Surfaces, p. 96. 63. Diversi pubblicitari italiani avevano già incontrato i loro colleghi europei e statunitensi in via ufficiosa al primo congresso mondiale di Londra nel luglio del 1924. Per

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pubblicitari italiani avevano partecipato al convegno di Parigi, che aveva sancito la creazione dell’Unione Continentale della Pubblicità (UCP), la prima associazione di categoria a livello europeo, fondata nel 1927.64 Ancora fermamente relegati nel ruolo di Cenerentola e bramosi di legittimazione professionale, i pubblicitari nostrani combattevano ogni giorno con un mercato ancora estremamente arretrato e frammentato, in cui consumi anche basilari spesso erano ancora appannaggio pressoché esclusivo dei ceti abbienti urbanizzati. La politica fascista dei consumi implicò prima di tutto un forte riorientamento dei consumi privati (a scapito delle importazioni), che fra il 1911 e il 1938 crebbero al ritmo dello 0,7% annuo – aumentando dunque meno del reddito, peraltro colpito dalle politiche di contenimento salariale del regime. A ciò corrispose una notevole crescita dei consumi pubblici, che nello stesso periodo raddoppiarono per raggiungere il 18% della domanda interna.65 Tale sviluppo, pur rientrando nel diffuso trend europeo di espansione della spesa pubblica, assunse delle specificità tutte italiane – si pensi ad esempio alla diminuzione dalle spese previdenziali e assistenziali a favore di altre spese di carattere politico, quelle militari in primis, ma anche quelle per l’organizzazione del tempo libero tramite l’associazionismo fascista. Al tempo stesso, già dalla seconda metà degli anni Venti il regime varò una serie di misure a favore delle grandi industrie, accompagnate da una politica di concentrazione industriale e da un marcato protezionismo che mirava a sostituire le importazioni con prodotti nostrani e sarebbe poi sfociata nella campagna per l’autarchia.66 Per quel che riguarda i consumi quotidiani, si assisteva a un’intensificazione del processo di differenziazione dei consumi, che si rifletté nella diversificazione degli annunci pubblicitari. Tra questi spiccava la netta diminuzione delle spese alimentari, che scesero dal 61% and 51%, così come del vestiario e delle calzature (9%), affiancate da una modesta crescita delle spese per la casa (13%), la salute, l’igiene e la bellezza (16%) ma soprattutto per i beni durevoli, i trasporti e le comunicazioni, che dal 4% un resoconto coevo cfr. Max R. Lang, “Truth” in Advertising, International Advertising Convention, 14-19. Juli 1924, «Die Reklame», n° 8 (1924), pp. 444-447. 64. Sulla genesi dell’UCP cfr. Chessel, La publicité, p. 25 ss. 65. Cfr. Scarpellini, L’Italia dei consumi, pp. 89-90. Sullo sviluppo dei consumi durante l’era di Weimar cfr. Torp. Konsum und Politik in der Weimarer Republik, pp. 27-64. 66. Cfr. Amatori, Colli, Impresa e industria in Italia, pp. 175-177 e Scarpellini, L’Ita­ lia dei consumi, pp. 99-100.

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salirono all’11%.67 Nella pratica ciò comportò una crescita timida ma costante della pubblicità, a cominciare dalle grandi città industrializzate del nord, Milano e Torino, che videro il graduale diffondersi di alcuni beni di prima necessità, come il sapone e il dentifricio, ma anche una delle grandi novità del primo dopoguerra, i cibi preconfezionati, distribuiti attraverso i primi grandi magazzini, come la UPIM.68 Nel corso degli anni Trenta il basso potere d’acquisto dei consumatori fu tuttavia aggravato dalla sempre più scarsa qualità dei surrogati alimentari e dal consumo ancora limitato di alimenti come la carne, lo zucchero o il caffè, peraltro fortemente scoraggiato dalla propaganda a favore di prodotti nostrani, così che nel 1938 almeno un terzo degli italiani risultava sottonutrito.69 Il quadro era complicato dalla mancanza di una solida rete di associazioni e scuole professionali, simbolo di quel riconoscimento istituzionale così anelato dai pubblicitari dell’epoca, nel quale troveranno terreno particolarmente fertile i fascismi. Nel riassumere gli eventi della kermesse berlinese al Rotary Club di Milano, qualche mese dopo, il pubblicitario Nino Caimi sottolineava «la speciale condizione in cui si trova l’attività pubblicitaria in Italia, dove la quasi mancanza di organi tecnici e di sufficiente conoscenza limitano grandemente l’impiego della pubblicità e non le permettono di raggiungere un’efficacia tale da giustificare un rapido incremento pubblicitario».70 La figura di Nino Caimi è alquanto emblematica del percorso di progressiva politicizzazione della pubblicità italiana nell’arco del Ventennio, e più in generale del rapporto tutt’altro che antitetico che spesso si instaurò fra i fautori della pubblicità di stampo statunitense e i fascismi. Ex giornalista, dopo un lungo soggiorno negli Stati Uniti, Caimi venne chiamato a dirigere la ERWA, filiale milanese dell’agenzia statunitense Erwin Wasey & Co. Dopo il ritiro di quest’ultima in seguito alla crisi del 1929, Caimi fondò una sua agenzia, la Enneci. Oltre ad organizzare il lancio su grande scala dei prodotti Palmolive, che sarebbero presto diventati onnipresenti sulla stampa italiana, e delle banane somale, prodotto coloniale fino ad allora pressoché sconosciuto, Caimi 67. Cfr. Scarpellini, L’Italia dei consumi, p. 90. 68. Cfr. ivi, pp. 126-128. 69. Cfr. Vecchi, In ricchezza e in povertà, p. 23. Per un paragone con la Germania cfr. Tooze, The Wages of Destruction, pp. 135-165 e Schanetzky, «Kanonen statt Butter», pp. 59-72 e 101-143, che offrono interpretazioni alquanto discordanti dell’evoluzione dei consumi a seconda della metodologia usata, cfr. Torp, Besser als in Weimar?, pp. 73-78. 70. Cfr. Le conferenze al Rotary Club, «Corriere della Sera», 6 novembre 1929, p. 5.

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ideò una fortunatissima campagna per incentivare il consumo di birra, con uno slogan che da allora è rimasto impresso nella memoria nazionale: Chi beve birra campa cent’anni.71 Fervente sostenitore del fascismo, Caimi tentò più volte di sfruttare la propria fama per promuovere l’istituzionalizzazione della professione. Ancora alle soglie del congresso di Berlino, ad esempio, un gruppo di pubblicitari da lui guidati lanciò un appello per l’istituzione di un Ente Nazionale della Pubblicità allo scopo di favorire la professionalizzazione dell’industria italiana secondo l’esempio statunitense.72 Non tutti condividevano la cieca fede nella pubblicità americana di Caimi, tuttavia. In risposta al giudizio negativo sulla pubblicità italiana esternato da Caimi in occasione del congresso mondiale di Berlino, ad esempio, Luigi Balzaretti, co-fondatore dell’agenzia Balza-Ricc, esortava i colleghi ad emanciparsi una volta per tutte dal preconcetto che i professionisti italiani non fossero in grado di competere con i colleghi statunitensi: Qui non si intende punto affermare che nulla vi sia da imparare dagli americani: vi è anzi da imparare moltissimo. Ma da questo a impostare il problema in modo che il pubblico abbia l’impressione che solo rivolgendosi agli americani si possa aver pubblicità studiata ed eseguita modernamente ci passa la stessa differenza che c’è fra una cosa vera e una cosa fantastica.73

Nonostante il notevole ritardo economico e strutturale, anche i pubblicitari italiani avevano infatti avviato un timido processo di professionalizzazione del loro mestiere, già dotato di strumenti critici e know-how proprio, che subirà un’accelerazione a partire dalla metà degli anni Trenta. Il primo annuario dell’arte pubblicitaria italiana, pubblicato in occasione del congresso del 1929, sottolineava a riguardo che fin’ora l’arte grafica pubblicitaria italiana era troppo poco nota e poco apprezzata tanto in Italia che all’estero […]. Essa non ha ancora raggiunta la perfezione che potrebbe e dovrebbe aver raggiunto. […] All’estero erano pochi coloro che conoscevano l’arte pubblicitaria italiana nelle sue migliori espressioni, ma quei pochi erano entusiasti della sua originalità, della sua vivacità di colori e stimavano perciò l’arte pubblicitaria italiana tra le migliori.74 71. Cfr. Falabrino, Effimera & bella, p. 100 ss. e Dizionario della pubblicità, p. 57. 72. Caimi, La Pubblicità in Italia, p. 1. 73. Cfr. Lugi Balzaretti, Un giudizio sulla pubblicità italiana – che ne pensano i pubblicitari italiani?, «L’Ufficio Moderno», 5, n° 1 (1930), p. 39. 74. Annuario della pubblicità italiana, annata 1929, senza numero di pagina.

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La graduale affermazione del medium pubblicitario si manifestò non soltanto nella presenza ormai massiccia di cartelloni di ogni tipo, che in questo periodo conobbero una fase particolarmente felice, ma anche nella crescita esponenziale della pubblicità a stampa, che nel periodo tra le due guerre registrò un vero e proprio boom. Spinti dal lento ma graduale diffondersi dell’alfabetizzazione e dalla modernizzazione della produzione industriale, già agli inizi degli anni Venti i quotidiani più letti superavano la media del mezzo milione di copie giornaliere. Ciò valeva anche per quelle pubblicazioni la cui espansione fu fortemente ostacolata dalla fascistizzazione della stampa e dall’aumento del dazio sulla carta, come nel caso del «Corriere della Sera», la cui tiratura scese dalle 600.000 copie giornaliere del 1920 alle 440.000 copie nel 1926, per poi attestarsi sulle 597.000 nel 1939 e raggiungere le 780.000 copie nel febbraio 1943, pochi mesi prima dell’arresto di Mussolini.75 Per quel che riguarda la Germania, se nel 1930 l’edizione domenicale del «Berliner Morgenpost» si aggirava sulle 623.000 copie,76 entro il 1939 quella giornaliera era arrivata a 650.000.77 Questo era un risultato non da poco, se si tiene conto della concentrazione della stampa attuata dal Terzo Reich sull’onda della Grande depressione e dell’arianizzazione di grandi casi editrici come la Ullstein, proprietaria, oltre che del «Berliner Morgenpost», di un gran numero di riviste femminili, incluso l’esclusivo «Die Dame» e «Das Blatt der Hausfrau», destinato alle casalinghe dei ceti medi. Una menzione a parte merita la stampa di partito: alla fine degli anni Trenta «Il Popolo d’Italia» si aggirava sulle 250.000 copie,78 ben al di sotto di testate come il «Corriere della sera» – con l’eccezione dei numeri speciali, come quello dedicato al decennale della Marcia su Roma, che, finanziato interamente grazie agli introiti pubblicitari,79 raggiunse la ragguardevole cifra di 434.000 copie.80 Nel 1938, il nazionalsocialista «Völkischer Beobachter» arrivava invece a 620.000 copie, situandosi anch’esso al di sotto delle aspettative dei vertici del partito nazista.81 Secondo Corey 75. Cfr. Forgacs, L’industrializzazione della cultura italiana, p. 51. 76. Cfr. Kolb, Die Weimarer Republik, pp. 107-108. 77. Cfr. Adreßbuch der deutschen Werbung 1940/1941, p. 316 e ss., e ALA Zeitungskatalog 1939, la cui accuratezza è tuttavia dubbia. Per una panoramica cfr. Ross, Media and the making, pp. 297-301. 78. Cfr. Tranfaglia, Murialdi, Legnani, La Stampa italiana nell’età fascista, p. 210. 79. Cfr. Falabrino, Effimera & bella, p. 144. 80. Cfr. Tranfaglia, Murialdi, Legnani, La Stampa italiana nell’età fascista, p. 222. 81. Cfr. Adreßbuch der deutschen Werbung, p. 317.

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Ross, più che la riprova di una presunta avversione dei lettori per la stampa nazista, queste cifre erano dovute alla saturazione del mercato tedesco, dal momento che già nel 1934 circa l’80% delle famiglie ricevevano un giornale, nonché all’introduzione di nuove regole che vietavano agli editori di sovrastimare le tirature dei giornali, pratica estremamente diffusa nell’era weimariana.82 Nel 1939 la tiratura giornaliera globale dei quotidiani italiani arrivava così ai 4 milioni e mezzo di copie,83 mentre in Germania si aggirava sui 18,1 milioni, per salire a 22,3 nel 1942.84 La vera sorpresa di quegli anni tuttavia furono le riviste settimanali e illustrate, che grazie alla nuova tecnica del rotocalco videro una crescita senza precedenti, con oltre 350 riviste in distribuzione a fine anni Trenta. Se ai suoi esordi, nel 1899, la «Domenica del Corriere» aveva una tiratura di circa 70.000 copie, ad esempio, già nel 1913 raggiungeva le 430.000 copie settimanali per crescere fino alle 650.000 del 1939.85 La stampa illustrata tedesca registrò un’impennata ancora maggiore, con tirature che già prima della Prima guerra mondiale superavano il milione.86 Mentre per il 1938 il «Berliner Illustrirte Zeitung» era giunto a toccare i 1,3 milioni di copie,87 entro l’anno successivo la tiratura delle maggiori riviste femminili andava dalle 600.000 copie di «Die junge Dame» ai ben 1,4 milioni della «N.S.-Frauen-warte», organo bisettimanale dell’Associazione delle donne nazionalsocialiste.88 In tale quadro, due sono gli aspetti fondamentali da sottolineare: salvo importanti eccezioni, l’espansione di gran lunga maggiore riguardò pubblicazioni d’evasione o d’intrattenimento.89 Cosa ancora più rilevante, dal nostro punto di vista, fu il notevolissimo aumento degli spazi pubblicitari.90 82. Cfr. Ross, Media and the making, p. 298 e Fulda, Press and Politics in the Weimar Republic, pp. 21-22. 83. Cfr. Gozzini, Storia del giornalismo, p. 223. 84. Ross, Media and the making, p. 298. 85. Cfr. Gozzini, Storia del giornalismo, p. 223 e Forgacs, L’industrializzazione della cultura italiana, p. 51. 86. Cfr. Kolb, Die Weimarer Republik, pp. 107-108 e Wehler, Vom Beginn des Ersten Weltkriegs, p. 473. 87. Cfr. ivi, p. 837. 88. Cfr. ALA-Zeitungskatalog 1939, p. 265, e Lott, Die Frauenzeitschriften von Hans Huffzky und John Jahr, p. 171. 89. Cfr. Ross, Media and the making, pp. 324-325. 90. Sull’espansione della stampa in rapporto alla pubblicità cfr. in particolare Ross, Media and the making, pp. 321-329 e Forgacs, L’industrializzazione della cultura italiana, p. 110 ss.

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Mentre nelle riviste femminili tedesche la percentuale dedicata alla pubblicità salì dal 14% nel 1924 a circa il 22% nel 1939,91 entro il 1938 circa il 23% di riviste quali l’«Illustrazione Italiana» o la «Domenica del Corriere» era occupato da réclame di formato medio o grande, solitamente accompagnati da una fotografia o da un’illustrazione. È necessario sottolineare che tale evoluzione non fu progressiva ma mostrò diverse oscillazioni, legate alle diverse condizioni politiche ed economiche, dal momento che già nel 1917-1918, alla fine della Prima guerra mondiale, l’«Illustrazione Italiana» conteneva ben un terzo di pubblicità.92 Se nel 1919 la maggior parte delle pubblicazioni conteneva ancora pochissimi annunci, entro i primi anni Trenta la quarta pagina di alcune delle testate e riviste a maggior diffusione si era trasformata in una delle principali fonti di reddito per la stampa, assumendo così un ruolo cruciale per la loro sopravvivenza – o per il loro fallimento. Lo spazio inserzionistico sul «Corriere della Sera», ad esempio, era talmente remunerativo da attrarre l’attenzione di diverse compagnie estere, come nel caso del primo annuncio a due pagine pubblicato il 26 luglio del 1930 per la nuova campagna della Coca-Cola, commissionato dalla J. Walter Thompson, da poco sbarcata a Milano.93 Gli evidenti vantaggi economici non si limitavano alla stampa ma riguardavano anche le aziende reclamizzate e i pubblicitari stessi. Giulio Cesare Ricciardi, direttore della prestigiosa Guida Ricciardi, il principale annuario della pubblicità disponibile nel periodo tra le due guerre, sottolineava come tra il 1920 e il 1940 la sua agenzia Balza-Ricc aveva «venduto pubblicità per un totale di oltre cinquanta milioni di lire (senza alcuna esagerazione)» grazie alle réclame per aziende come l’Alfa Romeo, Gancia e La Rinascente.94 Anche se non è da escludere che Ricciardi avesse sovrastimato il successo della propria azienda, tali cifre sono confermate dal giro di affari dell’Unione Pubblicità Italiana (UPI), la maggiore inter91. Cfr. Gaudenzi, Women and Advertising in the Third Reich, pp. 7-8. 92. Cfr. Fasce, Bini, Gaudenzi, Comprare per credere, p. 39. 93. Forgacs, L’industrializzazione della cultura italiana, p. 113. Più in generale sulla modernizzazione dell’editoria italiana cfr. Forgacs, Gundle, Cultura di massa, pp. 95-112. 94. Cfr. Archivio storico della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Milano (d’ora in poi ASCCIAAMi), Registro delle Ditte 1958, b. 330260, Pubblicità Ricciardi; Mediateca Rai, Fondo Dino Villani (d’ora in poi MR, FDV), b. 64, Pubblicità alla pubblicità, opuscolo E ora rimbocchiamoci le maniche!. Il fondo Dino Villani è attualmente in fase di ordinamento, in questo lavoro si fa dunque riferimento ai numeri e alle diciture delle buste del versamento originale. Cfr. anche Dizionario della pubblicità, p. 49.

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mediaria di spazi pubblicitari a stampa di quel periodo (le cosiddette concessionarie), che fra il 1922 e il 1937 aveva distribuito circa un miliardo di lire in canoni di pubblicità, accumulando un capitale di ben 10 milioni e mezzo di lire.95 Questi dati non ci devono tuttavia far dimenticare che nel caso dell’Italia, fatta eccezione per le maggiori città industrializzate, si trattava ancora di una popolazione prevalentemente rurale, con un tasso medio di analfabetismo che nel 1931 si attestava al 21%,96 per non parlare della capacità d’acquisto, e su cui la pubblicità poteva dunque avere ben poca presa. Al contrario, negli anni successivi all’iperinflazione del 1923, la Germania di Weimar poteva vantare una fiorente industria pubblicitaria, che già occupava un posto di rilievo nell’economia nazionale. 3. La professionalizzazione del mestiere pubblicitario L’industria pubblicitaria italiana e tedesca degli anni Venti si presentavano come un mosaico alquanto frammentato e in continua evoluzione, caratterizzato da un proliferare di atelier artistici, studi grafici e concessionarie – fra cui spiccavano la già menzionata UPI, la Manzoni & C., la Rudolf-Mosse-Service o la Società generale per gli annunci (ALA).97 A questi si affiancarono presto le prime agenzie pubblicitarie, come la ACME-Dalmonte, la già menzionata Balza-Ricc o la Dorland – e soprattutto un numero crescente di uffici pubblicità interni alle grandi imprese, che già prima della Grande guerra avevano iniziato a svolgere un ruolo di particolare rilievo, come nel caso della FIAT, La Rinascente o la Motta in Italia, e della Lingner-Werke, produttrice del collutorio Odol, la Henkel, produttrice del famoso detersivo Persil, o le sigarette Reemtsma in Germania.98 In tale contesto vennero via via a delinearsi due concezioni apparentemente opposte del mestiere pubblicitario, gli artisti e i tecnici della pubbli95. ASMi, GPPUII, b. 555, f. UPI, memorandum della prefettura, 1937. 96. Cfr. Genovesi, Storia della scuola, p. 251 ss. 97. Per una recente panoramica cfr. Fasce, Bini, Gaudenzi, Comprare per credere, pp. 33-56, i lavori di Di Jorio, La nascita di un pubblicitario, pp. 89-116 e Pubblicità e propaganda, pp. 209-236 e Swett, Selling under the Swastika, pp. 17-46. Sulla RudolfMosse-­Service e l’ALA cfr. i coevi Hamburger, Zeitungsverlag und Annoncen-Expedition e Hermann, Die Geschichte der ALA. 98. Cfr. Falabrino, Effimera & bella, p. 116 ss. e Reinhardt, Von der Reklame zum Marketing, pp. 24-34.

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cità. Al primo gruppo appartenevano i pionieri dell’arte pubblicitaria, come l’atelier del bolognese Giuseppe Magagnoli, Les affiches Maga, che tra il 1920 e il 1932 rappresentò cartellonisti del calibro di Leonetto Cappiello, Achille Mauzan e Severo Pozzati, ma anche pittori al servizio delle grandi ditte, come il già menzionato Depero, Federico Seneca, direttore dell’ufficio pubblicità della Buitoni-Perugina, o Marcello Dudovich, che vantava una collaborazione trentennale con La Rinascente. Nel caso della Germania, grandissima influenza fu esercitata dallo studio Bernhard-Rosen, guidato dal più celebre cartellonista tedesco degli anni Venti, Lucian Bernhard, che ricorreva all’astrattismo di matrice modernista per ottenere un maggior appeal commerciale,99 o prima ancora dall’avanguardia del Deutscher Werkbund, le cui suggestioni verranno messe in pratica soprattutto dall’Officina réclame del Bauhaus, la prima a combinare nel concreto la dimensione artistica e quella commerciale per raggiungere un vasto pubblico.100 Una menzione a parte meritano Ludwig Hohlwein e Gino Boccasile, spesso ricordati come icone della réclame del periodo tra le due guerre, che diventeranno anche due dei più brutali, oltre che prolifici, interpreti della propaganda nazista e fascista.101 Fra i tecnici della pubblicità era invece possibile annoverare un sempre maggior numero di consulenti legati a riviste quali «L’Impresa Moderna» o «Seidels-Reklame», che si riproponevano di creare campagne a tutto tondo grazie all’uso di metodi cosiddetti scientifici, come la psicologia applicata o le ricerche di mercato, giocando su argomentazioni che si rivolgevano direttamente al gruppo di potenziali acquirenti secondo la tecnica del reason why. Questo metodo, concepito come il modo più efficace di “educare” le masse al consumo, che rappresenterà uno dei cavalli di battaglia delle agenzie statunitensi sbarcate sul vecchio continente a fine anni Venti – incluse le già menzionate Erwin Wasey & Co. e J. Walter Thompson – fu introdotto già agli inizi del decennio da professionisti forti di esperienze all’estero come Luigi Dalmonte,102 proprietario della ACMEDalmonte, la prima agenzia italiana fondata nel 1922, Hanns W. Brose103 o 99. Cfr. Westphal, Werbung im Dritten Reich, pp. 112-123, cfr. anche Aynsley, Graphic Design in Germany, p. 84 ss. e De Grazia, Irresistibile Empire, p. 258 ss. Più in generale cfr. Schug, Das Ende der Hochkultur?, pp. 501-530. 100. Cfr. Reinhardt, Von der Reklame zum Marketing, pp. 69-76. 101. Su Hohlwein e Boccasile cfr. capitolo V, note 71, 77-86. 102. Cfr. ASCCIAAMi, Registro delle Ditte 1958, b. 85916, ACME di Luigi Dalmonte Casoni. Cfr. anche Fasce, Bini, Gaudenzi, Comprare per credere, pp. 44-48. 103. Cfr. Schindelbeck, “Asbach Uralt”, pp. 235-252 e le sue memorie, Brose, Die Entdeckung des Verbrauchers.

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Hans Domizlaff,104 pionieri della creazione di marchi pubblicitari, come i già citati colluttorio Odol e le sigarette Reemtsma. La figura di Dalmonte incarna in maniera particolarmente efficace alcune delle contraddizioni che caratterizzarono l’industria pubblicitaria italiana nel periodo tra le due guerre. Fermamente convinto dell’onnipotenza del mezzo pubblicitario, dalle pagine del suo organo aziendale, «ACME», Dalmonte professava la sua fede nella «forza ipnotica» del pubblicitario, capace di convincere le masse a comprare certi prodotti attraverso la «pubblicità razionale» di stampo statunitense, che facesse leva sui bisogni individuali dei consumatori.105 Gli appelli in favore di réclame più incentrate sul consumatore, è bene ricordarlo, tuttavia non costituirono mai un fattore di democratizzazione in sé e per sé. Al contrario, soprattutto a partire dai primi anni Trenta Dalmonte si sarebbe dedicato sempre più alla realizzazione di un efficace connubio tra i princìpi autarchici del regime e la réclame in stile americano. Lo stesso valeva per Hanns Brose, che tuttavia, pur riconoscendo i gran meriti della pubblicità statunitense, sosteneva che fosse necessaria un’ibridazione fra know-how statunitense e sensibilità locali che mettesse i pubblicitari nelle condizioni di potersi rivolgere alla «psiche tedesca».106 L’esperienza della filiale berlinese della JWT gli avrebbe dato ragione. Il progressivo affermarsi del metodo “scientifico” si concretizzò soprattutto nella graduale erosione del monopolio delle concessionarie, degli atelier artistici e degli stampatori, che vennero gradualmente spodestati dagli studi grafici, dalle prime agenzie e soprattutto dai già menzionati uffici pubblicità delle grandi imprese. È tuttavia importante sottolineare che la presunta divisione fra la concezione “artistica” e quella “scientifica” – che in realtà avrebbero mostrato una crescente compenetrazione, dando vita ad alcune delle vette pubblicitarie più alte del periodo tra le due guerre – era motivata più dalla necessità di rendere rispettabile la professione pubblicitaria che da un’effettiva irriconciliabilità fra i due approcci. Se per gran parte del periodo interbellico sgargianti cartelloni continuarono a giocare sulle “trovate” artistiche per attirare gli occhi dei passanti, mentre le pubblicità a stampa tesero a prediligere uno stile più sobrio, con annunci in 104. Cfr. Friebe, Branding Germany, pp. 78-101; Gries, Stilgedanken zur Macht, pp. 45-73; Jacobs, Zwischen Intuition und Experiment, pp. 148-176. 105. Luigi Dalmonte, Premessa, «ACME», 1, n° 1 (1924), p. 2. Cfr. Arvidsson, Marketing Modernity, pp. 57-60 e Stefania Bonacorsi, Agenzia, in Dizionario della pubblicità, p. 7. 106. Swett, Selling under the Swastika, pp. 34-35. Più in generale cfr. Logemann, Managing Consumer Capitalism, pp. 208-223.

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bianco e nero che illustravano i benefici pratici del prodotto (il cosiddetto stile editoriale), ciò era prima di tutto la conseguenza delle possibilità comunicative del medium scelto, nonché del ceto e della funzione sociale dei destinatari. Più che una «sovversione della cartellonistica europea» per mano delle onnipotenti pubblicità di matrice statunitense, come ha sostenuto Victoria De Grazia, gli anni tra le due guerre videro i due fenomeni coesistere e influenzarsi a vicenda almeno fino al secondo conflitto mondiale, e oltre.107 Pur condividendo a grandi linee alcuni delle principali evoluzioni della pubblicità europea, l’industria pubblicitaria tedesca e quella italiana mostravano delle notevoli disparità di natura non solo quantitativa ma anche qualitativa. Se già nel 1918 gli indirizzari della capitale della pubblicità tedesca, Berlino, contavano all’incirca 80 fra concessionarie e uffici pubblicitari,108 all’inizio del 1930, quando gli effetti della Grande depressione ancora non si erano palesati, le intermediarie per mezzo stampa erano diventate 120, mentre gli uffici pubblicitari, ora suddivisi in atelier e agenzie di consulenza, erano diventati ben 225.109 Stando alla Guida Ricciardi, invece, nel 1933 su tutto il territorio italiano erano attive all’incirca 120 «aziende tecniche di pubblicità», quasi 90 concessionarie (molte delle quali erano filiali dell’UPI) e circa 80 fra artisti o scrittori, nonché un numero più esiguo di altre figure professionali,110 dati ben diversi ma probabilmente più realistici dell’altisonante cifra di 802 «ditte, agenzie e uffici» pubblicitari evocati dagli organizzatori del congresso che si svolse a Roma e Milano quello stesso anno.111 Nel frattempo, nonostante la grave battuta d’arresto subita dall’industria pubblicitaria tedesca a causa della crisi economica, Berlino contava ancora 124 concessionarie, mentre gli atelier erano stati assorbiti negli uffici pubblicitari, che si assestavano sulle 254 unità.112 La pubblicità dell’era di Weimar si presentava dunque come un’industria vivace e in costante evolu107. Cfr. De Grazia, The arts of purchase, pp. 221-257. 108. Cfr. Berliner Adreßbuch, 1918, Teil IV, p. 318 ss. Sull’evoluzione da concessionarie a agenzie full-service cfr. in particolare Reinhardt, Am Anfang war das Wort, pp. 4463. Cfr. anche le analisi coeve Heuer, Entwicklung der Annoncen-Expeditionen e Schäfer, Die Werbungsmittler. 109. Cfr. Berliner Adreßbuch, 1930, Teil II, p. 608 ss. 110. Cfr. Guida Ricciardi 1933, pp. 163-179. 111. Cfr. Congresso Internazionale della Pubblicità, p. 49. 112. Cfr. Berliner Adreßbuch, 1933, Teil II, p. 467 ss.

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zione, ben lontana dal caos imputatole dall’ideologia nazista. In tale quadro, non dobbiamo tuttavia sottovalutare l’importanza fondamentale giocata dalla percezione di molti dei professionisti pubblicitari, che dopo il disastro dell’iperinflazione si videro ricadere in una crisi economica di proporzioni mondiali, alla quale i nazionalsocialisti promisero di porre rimedio. Fu non a caso dopo l’ascesa dei nazionalsocialisti che l’industria subì le trasformazioni più profonde. Nel 1936 le intermediarie a stampa erano pressoché sparite dai registri, il che, oltre a indicare un cambiamento di terminologia, rispecchiava soprattutto l’evoluzione del settore verso agenzie e consulenti autonomi nonché verso nuovi mezzi pubblicitari, a cominciare dal cinema – dal momento che la pubblicità radio era stata bandita da Goebbels già nel 1935, al fine di destinare il mezzo radiofonico alla propaganda. Ciò nonostante, la differenza con il 1933 restava eclatante: all’incirca 70 unità erano scomparse dall’elenco delle aziende pubblicitarie attive sul territorio, un chiaro segnale del fatto che molte agenzie erano state costrette a chiudere o erano state arianizzate.113 Come vedremo più avanti, imprese che avevano fatto la storia della stampa e della pubblicità tedesca, come la Rudolf-Mosse-Service, furono costrette a chiudere o vennero assimilate da aziende vicine al Partito nazista. Nonostante il processo di marcata concentrazione industriale messo in atto dai nazisti, nel 1939 risultavano attivi all’incirca 300 «esperti pubblicitari», a cui si aggiungevano 40 «agenzie di inserzioni a stampa», incluse l’ALA e la Dorland, mentre gli «artisti commerciali», secondo le nuove categorie imposte dal regime, arrivavano a 120.114 La crescita più marcata della seconda metà degli anni Trenta tuttavia si registrò nel nord Italia, e in particolare a Milano, che alle soglie della Seconda guerra mondiale annoverava ben 127 artisti pubblicitari e almeno una cinquantina fra agenzie, studi e consulenti.115 Oltre alle differenze quantitative è necessario tener conto di importanti differenze qualitative che ancora persistevano fra l’Italia e la Germania. Nell’Italia del tardo fascismo, la scena era dominata da una manciata di grandi concessionarie come la UPI, sviluppatesi a dismisura grazie alle commissioni della stampa fascista e ancora prive di autonomia nella scelta del mezzo pubblicitario. L’industria tedesca, al contrario, subì sì un processo di marcata concentrazione, ma si presentava come una realtà 113. Cfr. Berliner Adreßbuch, 1930, Teil II, p. 469 ss. 114. Cfr. Adreßbuch der deutschen Werbung, pp. 53-65 e 71-79. 115. Cfr. Pubblicità e Propaganda, pp. 319-334.

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ben più articolata, con una pluralità di specialisti indipendenti presenti su gran parte del territorio, che già a partire dal 1930 promuovevano marchi specifici attraverso intere campagne basate sull’analisi di mercato, da distribuire attraverso un’ampia gamma di mezzi pubblicitari, dalla réclame luminosa a quella cinematografica.116 Ciò non significa tuttavia che l’Italia dei tardi anni Trenta non fosse animata da un’eterogeneità di pubblicitari, organizzati in reti sempre più specializzate di agenzie, consulenti, artisti e fotografi. Anche per quel che riguarda i mezzi pubblicitari, gli anni Trenta videro un’espansione sostanziale rispetto agli anni Venti, soprattutto nei centri urbani del nord e centro Italia. Per la seconda metà degli anni Trenta l’arte delle vetrine e la pubblicità luminosa così come quella sonora erano ormai parte essenziale del paesaggio urbano – basti pensare alle insegne luminose che campeggiavano su Piazza del Duomo a Milano, o a Piazza del Plebiscito tappezzata di svastiche, sopra le quali faceva capolino una pubblicità della Motta.117 In quegli anni fece il suo timido esordio anche la pubblicità cinematografica, con sporadiche iniziative come il Cinetreno della Arrigoni o la campagna pubblicitaria per il lucido da scarpe Sutter, con il cartoon «Notturno» dei disegnatori Sebastiano Craveri e Petronio.118 In questo contesto fu però la pubblicità radiofonica a costituire una delle novità di maggior rilievo. A partire dal 1926, anno di fondazione della Società Italiana Pubblicità Radiofonica Anonima (SIPRA), la radio dimostrò una marcata predilezione per i programmi di intrattenimento che la caratterizzerà per tutto il Ventennio.119 Esemplare in tal senso fu il grande successo della trasmissione radiofonica dei Quattro moschettieri, romanzo parodistico abbinato ad una raccolta di figurine della Buitoni-Perugina. Accompagnato da premi prestigiosi – inclusa la famosa FIAT Topolino, del valore di ben 9.000 lire – il concorso si trasformò ben presto in un vero e proprio fenomeno di costume, con tanto di arrivo in mongolfiera degli 116. Cfr. Berliner Adreßbuch, 1930, Teil II, p. 608 ss. 117. Archivio Storico Istituto Luce, foto n° FA00005207, Folla radunata in piazza del Plebiscito addobbata con svastiche, 5 maggio 1938. 118. Cfr. SUTTER, pp. 150-154, Falabrino, Effimera & bella, p. 146 e Ceserani, Comunicare il Duce, pp. 157-184. Per un’ottima panoramica dello sviluppo della pubblicità cinematografica cfr. Brunetta, Il ruggito del leone, pp. 135-160. 119. Cfr. Monteleone, Storia della radio, p. 39 ss. e 81-194 e Lanotte, Segnale radio, pp. 23-64.

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attori alla Fiera di Milano del 1936.120 Le vendite della Buitoni-Perugina schizzarono alle stelle, e per circa due anni si scatenò una folle caccia alle figurine, fin quando il concorso non si interruppe bruscamente, nel 1938. Sebbene la motivazione addotta nelle memorie dello stesso Buitoni lasciasse intendere che il concorso fosse stato messo al bando dal regime, infastidito dalla frivola frenesia delle figurine in piena febbre militarista, l’iniziativa fu invece sospesa su iniziativa di una ventina di industriali, minacciati dall’enorme successo della Perugina.121 Dopo vari tentativi di indurre il Ministero delle finanze a bloccare il concorso, le aziende proposero un concorso con premi talmente eccezionali da eclissare perfino quelli delle lotterie di Tripoli e di Merano, costringendo così le autorità a ridurre drasticamente l’entità dei premi di tutti i concorsi privati.122 Anche in questo caso, il regime non intervenne dunque per bloccare lo sviluppo dei consumi in sé e per sé, a patto che si trattasse di aziende nazionali, ma alcune ricostruzioni hanno teso a dimenticare questo aspetto. Il crescente interesse per la scienza pubblicitaria si manifestò prima di tutto nella circolazione di un numero sempre più consistente di manuali pratici in lingua italiana e tedesca (o tradotti dal francese o dall’inglese), che godettero di un’ampia diffusione nei primi decenni del Novecento.123 Anche le traduzioni delle memorie di celebri pubblicitari riscossero un notevole successo di pubblico, come nel caso dell’autobiografia del pioniere della pubblicità statunitense, Claude C. Hopkins, My life in Advertising, del 1927, prontamente tradotta in tedesco e cinque anni più tardi tradotta anche in italiano, sotto gli auspici dell’ENIOS.124 Questo trend si sarebbe 120. Cfr. Archivio Storico Perugina, settore pubblicità, fondo Angelini e Falabrino, Effimera & bella, pp. 161-167. 121. Cfr. Buitoni, Storia di un imprenditore, pp. 57-62. 122. Cfr. Ceserani, Covino, Perugina. Una storia d’azienda, p. 110; Falabrino, Effimera & bella, p. 165. 123. Fra i manuali tedeschi più diffusi di quegli anni cfr. Mataja, Die Reklame (1910), Seyffert, Die Reklame des Kaufmanns (1914), Ruben, Die Reklame (1914), Friedländer, Der Weg zum Kaufer (1923). Cfr. anche Ullstein, Wirb und Werde! (1935), pubblicato dopo essersi rifugiato in Svizzera. Alcuni di questi titoli circolarono anche in Italia, spesso in traduzione francese. Per l’Italia cfr. Cassola, La réclame (1909), Lancellotti, Storia aneddotica della réclame (1912), Roggero, Come si riesce in pubblicità (1920), Bevinetto, La pubblicità commerciale (1920), Gazzoni, Vendere, vendere, vendere (1928), Zangara, Le imprese di pubblicità (1929), Chiappelli, Le forme iniziali della pubblicità (1930), nonché Pomé, Basi e regole moderne di pubblicità (1937) e, sempre di Gazzoni, Lezioni di pubblicità (1943). 124. Cfr. Hopkins, My life in Advertising. Uno dei primi volumi ad esser tradotti fu il libro di Waldo Pondray Warren, Thoughts on Business, pubblicato nel 1906 e tradotto

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ulteriormente intensificato nel corso degli anni Trenta, che come vedremo più avanti videro un aumento esponenziale dei trattati di natura più esplicitamente ideologica, nonché un parziale spostamento del baricentro dagli Stati Uniti alla Germania, come dimostrato dalla bibliografia pubblicitaria pubblicata da Paolo Pulini nel 1936, sempre con il patrocinio dell’ENIOS.125 A godere di un’ampia circolazione furono soprattutto le riviste specializzate nate a cavallo della Prima guerra mondiale, che offrivano una piattaforma per la discussione dei diversi approcci grafici o delle ultime teorie psicologiche, come «Seidels-Reklame», «Die Reklame», «Gebrauchsgraphik» o, nel caso dell’Italia, le già menzionate «L’Impresa Moderna», «L’Ufficio Moderno» o «Campo Grafico». Fatta eccezione per la psicologia applicata, su cui torneremo, uno dei temi più dibattuti su queste pubblicazioni era la questione degli Stati Uniti come modello a cui aspirare, spesso quasi incondizionatamente, che rimase al centro dei dibattiti fra pubblicitari almeno fino alla metà degli anni Trenta, e oltre. Già a ridosso della Prima guerra mondiale libri come il celebre La spada dell’America, di Pio Cavalli, avevano infiammato le pagine de «L’Impresa Moderna» per le loro forti posizioni sull’arretratezza della pubblicità italiana,126 per non parlare della già menzionata querelle fra Caimi e Balzaretti di dieci anni dopo. Anche in questo caso, l’ENIOS non tardò a dire la sua, sponsorizzando il volume di Vito Magliocco, La pubblicità in America, pubblicato dall’Associazione nazionale fascista dei dirigenti di aziende industriali.127 Uscito anch’esso nel 1932, in previsione del congresso di Roma e Milano dell’anno seguente, il libro esprimeva un’opinione decisamente critica della pubblicità italiana, ritenendola inadeguata a sostenere l’espansione economica dell’Italia fascista. Saldo nella propria fede fascista, Magliocco attribuiva alla pubblicità un’importanza cruciale, descrivendo i metodi pubblicitari statunitensi come una delle armi più potenti a disposizione delle diverse nazioni nella battaglia per il loro futuro benessere economico.128 in italiano da Paolo Bellezza nel 1914 con il titolo Come si riesce negli affari. Entrambi i volumi ebbero molto successo anche in Germania. 125. Pulini, Mille opere sulla pubblicità, cfr. capitolo 2, note 164-167. 126. Cfr. Cavalli, La spada dell’America e Grego, Un libro italiano di pubblicità… e l’ignoranza di un giornalista, «L’Impresa Moderna», n° 4 (1920), pp. 213-216. 127. Cfr. Magliocco, La pubblicità in America (senza numeri di pagina). 128. Cfr. Prefazione, ivi. Nel secondo dopoguerra Magliocco diventerà famoso per i suoi romanzi di viaggio, cfr. Archivio Storico Istituto Luce, filmato n° KA166305, Intervista con lo scrittore Magliocco.

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Era forse nel campo dell’organizzazione e della formazione professionale che emergevano le disparità più macroscopiche fra la Germania di Weimar e l’Italia fascista. Mentre nella Germania del 1929 si potevano contare una quindicina di associazioni ed enti professionali, a cominciare dalla Federazione tedesca per la réclame (Deutsche Reklame-Verband, DRV),129 la Federazione per la protezione della réclame e il Club pubblicitario tedesco, a cui l’anno seguente si sarebbe unita la Federazione tedesca delle donne attive in pubblicità,130 gli esperti italiani faticavano a vedersi riconosciuto ufficialmente il proprio status di professionisti. La prima associazione, la Federazione Nazionale Pubblicitaria fra tecnici, specialisti e utenti, fu creata nel marzo del 1922 ed era presieduta da Emilio Grego, il principale artefice della fortunatissima campagna per i prestiti di guerra, subentrato nel 1918 a Giuseppe Jona alla guida de «L’Impresa Moderna», che diventò l’organo della Federazione.131 Medico radiologo convertitosi alla pubblicità durante la Prima guerra mondiale, Grego fu una figura di primissimo piano nel panorama pubblicitario degli anni Venti, per poi cadere nell’oblio con l’inasprirsi del clima antisemita a partire da metà anni Trenta.132 In questa prima fase, l’avvento del fascismo pose un freno alle aspirazioni di riconoscimento istituzionale dei pubblicitari, che come abbiamo visto in occasione del congresso di Berlino del 1929 peroravano ancora la creazione di un Ente Nazionale della Pubblicità. L’esempio nazionalsocialista, e in particolare la creazione, nel 1933, del Consiglio pubblicitario dell’economia tedesca, istituzione non dissimile dall’ente caldeggiato da Caimi qualche anno prima, avrebbero agito da propulsore in tal senso, diventando presto il modello di riferimento per diversi sostenitori dell’inquadramento autoritario del settore.133 Si sarebbe tuttavia dovuto attendere il 1936, sull’onda delle sanzioni e della crociata autarchica, perché la professione venisse inquadrata nell’assetto corporativo con la creazione del Sindacato nazionale fascista Agenzie e case di pubblicità, come vedremo più avanti.134 129. Cfr. in particolare Reinhardt, Von der Reklame zum Marketing, pp. 129-148. 130. Cfr. Schug, „Deutsche Kultur‟ und Werbung, pp. 124-125. 131. Cfr. Emilio Grego, La Federazione Nazionale Pubblicitaria, «L’Impresa Moderna», n° 1 (1922), pp. 99-101. Sulla figura di Grego e più in generale sulle prime associazioni cfr. Di Jorio, La nascita di un pubblicitario, pp. 89-116. 132. Cfr. Di Jorio, La nascita di un pubblicitario, p. 114. 133. Per un interessante excursus sulla nozione della Germania come «America dell’Italia» cfr. Kamphausen, Die Erfindung Amerikas, pp. 213-217. 134. Cfr. Di Jorio, Pubblicità e propaganda, p. 215.

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Le disparità fra Germania e Italia si facevano ancora più marcate nel settore della formazione professionale. Se già a partire dagli inizi del Novecento una serie di istituti d’arte insegnavano grafica e arte pubblicitaria – esemplare è il caso della Scuola Reimann, fondata nel 1902135 – entro la metà degli anni Venti molte università tedesche avevano istituito corsi di pubblicità commerciale e ancora nel 1932, malgrado la crisi economica, la materia veniva insegnata in ben 33 fra università e istituti accademici.136 In Italia, al contrario, i ripetuti appelli per la creazione di percorsi professionali riconosciuti dalle istituzioni rimasero a lungo inascoltati. Ciò non significa che i pubblicitari italiani non si adoperassero per offrire una varietà di offerte formative, che però nella maggior parte dei casi ebbero vita breve. Esemplare fu l’esperienza del corso di pubblicità promosso dalla Scuola serale commerciale dalla Camera di commercio di Milano nel 1919 e affidato da Emilio Grego. L’iniziativa fu inizialmente ben accolta, tant’è che già nel primo anno il corso contava all’incirca 85 studenti, tra cui i già menzionati Giulio Cesare Ricciardi e Roberto Tremelloni, includendo materie come le tecniche e il design della réclame e la contabilità pubblicitaria, a cui presto si affiancò la psicologia commerciale.137 Il corso venne però interrotto nel 1923.138 Anche se Antonio Valeri, membro del GAR, o Gian Paolo Ceserani hanno imputato la chiusura della scuola al «mutato clima politico»,139 ossia all’avvento del fascismo, Grego stesso indicò che la ragione era da imputarsi a una differenza di vedute con la direzione della Camera di commercio, che aveva insistito affinché ci si concentrasse unicamente sulle tecniche, senza includere l’insegnamento della psicologia ed altri aspetti più “teorici”.140 135. Cfr. in particolare 25 Jahre Schule Reimann 1902-1927, p. 10 ss. e le memorie di Albert Reimann, Die Reimann-Schule. 136. Cfr. Reinhardt, Vor der Reklame zum Marketing, p. 92 ss. 137. Cfr. ASCCIAAMi, b. 776, Scuola serale di pubblicità Scuole della Camera di Commercio I, microfilm n° 186 e 284, f. 22-23, Scuola serale commerciale. Cfr. anche Emilio Grego, L’insegnamento della psicologia commerciale, «L’Impresa Moderna», n° 7 (1920), pp. 349-352. 138. Cfr. ASCCIAAMi, b. 776, microfilm n° 186, f. 22. 139. Come Mazzali e altri membri del GAR, Valeri entrò nell’industria pubblicitaria dopo essere stato espulso dalla professione giornalistica a causa delle sue idee socialiste, cfr. Valeri, Appunti per una storia della pubblicità in Italia, p. 410 e Ceserani, Storia della pubblicità in Italia, p. 103. 140. Cfr. Emilio Grego, La “Scuola di Pubblicità”, «L’Impresa Moderna», n° 12 (1922), pp. 310-311. Irene Di Jorio ha sottolineato che il corso ottenne in realtà risultati

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All’esperienza della Camera di commercio seguirono altre iniziative, come quella della Federazione nazionale pubblicitaria fra tecnici, specialisti e utenti, che nell’autunno del 1923 annunciava la creazione della cosiddetta Università di studi di psicologia commerciale, sotto la guida, ancora una volta, di Grego,141 o de «L’Ufficio Moderno», che stando alla rivista stessa organizzò un corso per corrispondenza presso la Scuola superiore di pubblicità pratica di Parigi dal 1929,142 per giungere, come vedremo più avanti, al corso per l’insegnamento dell’arte del vendere inaugurato all’università Bocconi con il beneplacito di Bottai nel 1930. Sarà tuttavia soprattutto nel quadro dell’inquadramento autoritario della professione in seguito al lancio della crociata autarchica che avranno luogo i primi tentativi statali di istituzionalizzarne la formazione, come nel caso dell’ormai consolidata Scuola d’arte applicata all’industria di Milano, o il Centro italiano studi pubblicità e propaganda, creato a Torino nel 1939 e incentrato sugli studi psico-pubblicistici, il cui tentativo di costituire una Scuola venne tuttavia interrotto dalla guerra.143 Anche su questo fronte la Germania si presentava dunque come una realtà ben più avanzata, in cui la pubblicità era riuscita a imporsi come disciplina accademica già alla fine della Prima guerra mondiale. Tale processo di scientificizzazione seguì due percorsi principali: da un lato, come parte integrante della pratica commerciale, motivo per cui si cominciò a insegnarla in molte Scuole commerciali di università come la Friedrich-Wilhelms-Universität di Berlino (la futura Humboldt); dall’altro, in stretta connessione con la psicologia applicata, materia che aveva conosciuto notevole fortuna in Germania a partire dagli anni Dieci,144 e in particolare con la psicotecnica.145 Branca elaborata dallo psicologo di mediocri, e che diversi studenti si lamentarono delle ripetute assenze di Grego, cfr. Di Jorio, La nascita di un pubblicitario, pp. 105-106. 141. Ivi, p. 109. 142. Cfr. Arte Pubblicitaria 1900-1933, p. 29. 143. Cfr. L’attività della Scuola superiore d’arte applicata all’industria di Milano, «La Pubblicità d’Italia», 2, n° 11-12 (1938), pp. 30-33; cfr. Di Jorio, Pubblicità e propaganda, p. 218. 144. Entro la fine degli anni Trenta era stata pubblicata una quantità ragguardevole di contributi sulla psicologia pubblicitaria, cfr. in particolare Hartungen, Psychologie der Reklame (1921), Lysinski, Psychologie des Betriebes (1923) e Marbe, Psychologie der Werbung (1927). Per due panoramiche coeve cfr. Adreßbuch der deutschen Werbung, p. 268 ss. e Pulini, Mille opere sulla pubblicità. 145. Cfr. Reinhardt, Von der Reklame zum Marketing, pp. 49-99 e Nolan, Visions of Modernity, pp. 84-98.

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origini ebraiche Ludwig Wilhelm Stern agli inizi del Novecento, l’applicazione della psicotecnica alla pubblicità fu sviluppata in particolare da Hugo Münsterberg, il quale condusse svariati esperimenti, che comprendevano l’analisi della riconoscibilità dei caratteri e delle forme, l’ubicazione dei diversi mezzi pubblicitari e la memorizzazione dei differenti elementi di una réclame.146 Un’altra figura di spicco fu Walter Moede, esperto di psicologia pubblicitaria sperimentale e direttore di importanti riviste quali «Praktische Psychologie» e «Industrielle Psychotechnik»,147 che a partire dal 1920 divenne direttore del neonato Istituto di psicotecnica della Technische Hochschule di Berlino (la futura Technische Universität),148 trasformandolo in quello che sino alla fine della Seconda guerra mondiale sarà considerato uno dei principali centri sulla materia, nonché docente all’Istituto di psicologia economica della Friedrich-Wilhelms-Universität.149 Secondo lo storico Dirk Reinhardt, la Germania fu fin troppo sollecita nell’adottare questa nuova disciplina: se nel 1917 tre erano le aziende che avevano istituito un proprio ufficio di psicotecnica, già nel 1922 erano salite a 170.150 I motivi di questo successo erano molteplici, a cominciare dalla convinzione che la psicologia sperimentale fosse in grado di garantire la capacità di manipolare le masse, aspetto che l’avrebbe resa particolarmente attraente agli occhi dei nazionalsocialisti, una volta “purgata” dalle sue origini ebraiche.151 In parallelo allo sviluppo della psicotecnica, a partire dai primi anni Trenta la Germania vide l’affermarsi di uno dei cavalli di battaglia della pubblicità statunitense: le ricerche di mercato. Diverse uffici pubblicità di grandi aziende si dotarono di dipartimenti appositi, incluso quello 146. Cfr. Münsterberg, Psychologie und Wirtschaftsleben. Per una panoramica cfr. Regnery, Die deutsche Werbeforschung e Haas, Psychologen, Künstler, Ökonomen, pp. 64-77. 147. Cfr. in particolare Moede, Konsum-Psychologie. È utile ricordare che l’edizione tedesca del classico di Le Bon del 1935 includeva un’introduzione a firma di Moede. 148. Cfr. Technische Universität Archiv, TU Akte E 709, Institut für industrielle Psychotechnik und Arbeitstechnik. 149. Cfr. Humboldt-Universität Archiv, Wirtschaftshochschule (WHB), b. 279, Vorlesung über Reklame e b. 520, Institut für Wirtschaftspsychologie. 150. Cfr. Reinhardt, Von der Reklame zum Marketing, p. 91. Cfr. anche Gries, Die Geburt des Werbeexperten, pp. 353-375. 151. Cfr. Silberer, Mau, Anfänge und Geschichte, pp. 231-256 e Reinhardt, Von der Reklame zum Marketing, p. 98.

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della Leo-Werke, produttrice del dentifricio Chlorodont.152 La più importante istituzione in materia era però la Società per la ricerca sul consumo (Gesellschaft für Konsumforschung, GfK), fondata da Wilhelm Vershofen nel 1934, fra i cui membri figuravano Hanns Brose e il futuro Cancelliere della Germania federale Ludwig Erhard, il cosiddetto padre del miracolo economico.153 Nel corso degli anni Trenta, la GfK condusse dettagliate analisi di mercato per le più rinomate aziende tedesche così come per il regime nazionalsocialista.154 Questa tendenza sarebbe infine stata suggellata dall’apertura, nel 1940, di una sezione dedicata alle ricerche di mercato all’interno del Werberat der deutschen Wirtschaft, il Consiglio pubblicitario dell’economia tedesca, istituito dai nazisti nel settembre del 1933 per assumere il controllo del settore.155 Mentre per quel che riguarda le ricerche di mercato in Italia si dovrà aspettare il secondo dopoguerra, fatta eccezione per una serie di articoli usciti su «L’Ufficio Moderno», la psicologia applicata riscosse un certo successo già negli anni a cavallo della Prima guerra mondiale. Introdotta da riviste come «L’Impresa Moderna» attraverso i lavori di Octave-Jacques Gérin e Camille Espinadel,156 la psicologia applicata alla pubblicità divenne oggetto di un crescente numero di trattati, che spaziavano dal volume pionieristico L’evoluzione psicologica delle azioni pubblicitarie, del 1920, al famoso manuale dello psicologo della pubblicità, Adolfo Pellegrini, Manuale di scienza della propaganda e della pubblicità, del 1937.157 In Italia, come in Germania, questa espansione si concretizzò soprattutto nella diffusione della psicotecnica, che, come ha recentemente dimostrato Irene Di Jorio, avrebbe goduto di un certo sviluppo soprattutto nel quadro 152. Cfr. Bergler, Die Entwicklung der Verbrauchsforschung, pp. 13-15. Cfr. anche il coevo Schäfer, Grundlagen der Marktforschung. 153. Cfr. il volume celebrativo a cura di Bergler e Erhard, Marktwirtschaft und Wirtschaftswissenschaft. 154. Jonathan Wiesen offre un’eccellente analisi della GfK, cfr. Wiesen, Creating the Nazi Marketplace, pp. 153-190. Cfr. anche De Grazia, Irresistible Empire, p. 221 ss. 155. Cfr. Der Werberat der deutschen Wirtschaft, pp. 26-28. 156. Cfr. Gérin, Espinadel, La publicite suggestive e Octave Jacques Gérin, Bisogno e desiderio in pubblicità, «L’Impresa Moderna», n° 6 (1920), pp. 319-322. La prima edizione del volume includeva una prefazione a firma del pioniere della psicologia pubblicitaria statunitense Walter D. Scott, la cui influenza, sia in Germania che in Italia, fu grandissima, cfr. Forgacs, Ansie d’influenza, p. 249. 157. Cfr. Cialfi, L’evoluzione psicologica e Pellegrini, Manuale di scienza. Su Pellegrini cfr. in particolare Di Jorio, Pubblicità e propaganda, pp. 231-232.

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delle politiche autarchiche del regime fascista,158 anche attraverso le attività del Centro psicotecnico di consulenza e ricerca dell’ENIOS.159 Fu proprio con l’affermarsi delle ricerche di mercato e della psicotecnica che si registrò uno degli sviluppi concettuali più importanti del periodo tra le due guerre. Un buon esempio di questa tendenza fu, ancora una volta, Emilio Grego, che, pur essendo fra i più strenui sostenitori della «psicologia suggestiva» di Gérin e Espinadel, già nel primo dopoguerra criticava l’idea che le masse potessero essere plasmate indiscriminatamente, sottolineando come i bisogni non potessero essere «né creati né distrutti» dagli appelli pubblicitari, che avevano invece la funzione di far leva su esigenze già esistenti.160 Questo trend prese campo in Germania soprattutto a partire dagli inizi degli anni Trenta, quando alcuni esperti di psicotecnica – a cominciare da Hanns Kropff – iniziarono a concentrarsi maggiormente sui desideri individuali dei (futuri) consumatori, prendendo sotto esame bisogni primari come la salute, la socialità o il piacere.161 Secondo Reinhardt, questo mutamento, seppur finalizzato a creare un filone più «umano» di psicologia pubblicitaria che avrebbe trovato ampia applicazione attraverso il metodo soft sell, riscosse un successo particolare negli anni del nazionalsocialismo grazie al suo «effetto stabilizzante»: Da un lato, tali istanze erano molto meno disumane rispetto a quelle degli anni Venti, perché tentavano di conciliare le esigenze e i desideri dei consumatori; dall’altro, possedevano la capacità di integrar[li] in un sistema disumano, all’interno del quale ammettevano soltanto quei bisogni che avevano un effetto stabilizzante.162

Questo concetto della funzionalità della pubblicità per integrare i consumatori all’interno di un sistema totalitario disumano si rivelerà cruciale per la nostra analisi del rapporto fra l’industria pubblicitaria e i fascismi.

158. Cfr. Di Jorio, Pubblicità e propaganda, pp. 230-233. Cfr. anche Lombardo, Foschi, La psicologia italiana, p. 68 e Sapelli, Organizzazione, lavoro e innovazione industriale, pp. 334-344. 159. Cfr. Ponzo, Finalità e attività del Centro psicotecnico, pp. 71-79. 160. Ivi, p. 322. 161. Fra i suoi lavori cfr. Kropff, Randolph, Die Marktanalyse (1928); Kropff, Psycho­logie in der Reklame (1934); Id., Totalität der Werbung (1939) e Id., Die psycho­ logische Seite (1941). 162. Reinhardt, Von der Reklame zum Marketing, p. 99.

2. L’inquadramento autoritario della pubblicità

Gli anni Trenta rappresentarono un periodo di notevole cambiamento nella storia della pubblicità, tanto in Germania quanto in Italia. Dopo aver raggiunto l’apice alla fine degli anni Venti, il modello economico statunitense rivelò all’improvviso tutte le proprie fragilità, esportando una depressione di portata mondiale che sprofondò l’Europa nell’instabilità economico-politica, contribuendo al crollo della Repubblica di Weimar. Il regime nazista riconobbe immediatamente il potenziale delle nuove tecniche pubblicitarie, che impiegò prontamente nelle sue martellanti campagne propagandistiche – in maniera non dissimile dalla vendita di un nuovo sapone, come aveva consigliato Hitler stesso già nel Mein Kampf.1 Il regime fascista, dal canto suo, abbandonò progressivamente le proprie istanze anti-consumistiche e si orientò verso una concezione più borghese dei consumi privati, che si concretizzerà soprattutto nell’azione prima dell’Ufficio stampa e in seguito del Sottosegretariato per la stampa e la propaganda, futuro Ministero della cultura popolare, il famigerato Minculpop. La questione della politicizzazione dell’immaginario pubblicitario è salita alla ribalta a partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso sull’onda del ritrovato interesse per il cosiddetto soft power dei fascismi, a cui sono poi andati ad aggiungersi i recenti studi sul perseguimento della «modernità totalitaria».2 Nella nostra analisi ci concentreremo prima di tutto sull’evolversi di questo processo dai primi anni Trenta fino alla fine 1. Hitler, Mein Kampf, p. 200. 2. La letteratura sul tema è ormai vasta, cfr. in particolare Forgacs, Gundle, Cultura di massa; Martin, The Nazi-Fascist New Order for European Culture; Ben Ghiat, Italian Fascism’s Empire Cinema; Betts, The New Fascination with Fascism, pp. 541-558. Cfr. Modernità totalitaria, pp. v-xx.

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della Seconda Guerra mondiale dal punto di vista istituzionale. L’oggetto dell’indagine è costituito dall’evolversi delle politiche fasciste in materia pubblicitaria e in particolare dagli organismi creati per influenzare il settore al fine di dare vita a un nuovo tipo di réclame, capace di evocare il miraggio di una futura società dei consumi fascista e cementare così il consenso di diversi strati della popolazione. Se la storiografia tedesca ha ormai dedicato alcuni studi all’«alli­ neamento» in senso nazista (Gleichschaltung) della pubblicità durante il Terzo Reich,3 lo stesso non si può dire di quella italiana, che a volte fatica ancora a liberarsi dall’equazione fascismo-anticonsumismo che ha contrassegnato gli studi del periodo della Guerra fredda.4 Con questo non si vuole sostenere che i consumi non subirono una notevolissima contrazione, che finirà per ridurre alla fame gran parte del paese, ma piuttosto che il regime non si oppose ma anzi incoraggiò attivamente alcuni servizi e consumi, a patto che non si scontrassero con la politica dell’autarchia, al fine di incrementare il proprio consenso. Anche nel caso tedesco, tuttavia, è ancora rilevabile una certa reticenza ad allontanarsi dall’interpretazione tradizionale di una nazificazione totale e totalizzante dell’industria pubblicitaria, che spesso trascura le numerosissime istanze di auto-allineamento e di allineamento “dal basso” sia da parte delle imprese pubblicitarie che dei produttori, nonché il perdurare di pubblicità tutt’altro che politicizzate, dirette solitamente alle classi più abbienti.5 Dopo aver contestualizzato le vicende del Werberat der Deutschen Wirtschaft, il Consiglio pubblicitario dell’economia tedesca – e del suo “braccio armato”, il Comitato del Reich per l’educazione economica popolare (RVA) – il capitolo illustra gli sforzi del futuro Ministero della cultura popolare per controllare la réclame attraverso la creazione de «La Pubblicità d’Italia», rivista curata da alti funzionari del Ministero e del PNF, quali 3. Cfr. in particolare Westphal, Werbung im Dritten Reich; Sennebogen, Zwischen Kommerz und Ideologie e Swett, Selling under the Swastika. Per gli aspetti legali cfr. Rücker, Wirtschaftswerbung unter dem Nationalsozialismus. 4. Per quel che riguarda il caso italiano fanno eccezione alcuni studi, a cominciare da Cavazza, Consumi, fascismo, guerra: una riflessione, Fasce, Bini, Gaudenzi, Comprare per credere, pp. 41-83 e Di Jorio, Pubblicità e propaganda, pp. 209-236. 5. Tra le eccezioni di maggior rilievo cfr. Berghoff, Von der „Reklame‟ zur Ver­ brauchslenkung, pp. 77-112; Wiesen, Creating the Nazi Marketplace e Swett, Selling under the Swastika, lo studio più approfondito sulla nazificazione dell’industria pubblicitaria, che interpreta il caso nazista secondo la teoria del Sonderweg, prendendo in esame quattro grandi industrie produttrici di beni di consumo.

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Alessandro Pavolini, Roberto Farinacci e Giorgio Pini, redattore capo de «Il Popolo d’Italia». L’obiettivo principale di entrambi i regimi, oltre ad attuare una feroce epurazione del mondo pubblicitario, fu quello di imporre uno stile pubblicitario “nazionale”, la cui definizione, al di là dell’impiego di immagini e slogan che rispecchiassero la propaganda di regime, rimase tuttavia alquanto approssimativa. Il risultato di queste crociate, oltre alla graduale compenetrazione tra i fascismi e l’industria pubblicitaria che avrà luogo dalla metà degli anni Trenta, sarà l’emergere di uno stretto sodalizio tra l’Italia fascista e la Germania nazista, in cui la competizione cedette presto il passo allo scambio e all’emulazione. Nel settore della pubblicità, così come in quella della propaganda, l’influenza nazionalsocialista si farà infatti sentire con prepotenza già a partire dall’autunno del 1933. È importante notare come tale evoluzione ebbe luogo in campo pubblicitario ben prima che in altri settori, e non si limitò alle riviste di tecnica pubblicitaria, che già prima della fine degli anni Trenta erano in parte bilingui. Più che un pericoloso concorrente ideologico, come sostenuto da Philip Cannistraro nel suo ormai classico studio La fabbrica del consenso, per il fascismo la riorganizzazione nazionalsocialista della pubblicità assurse quasi subito a modello da emulare, seppur tutt’altro che ciecamente.6 Lo stesso valse – anche se in misura minore – per i nazionalsocialisti, che sia dal punto di vista repressivo che da quello estetico presero più volte spunto dai futuri alleati fascisti.7 Le reciproche influenze e gli antagonismi culmineranno infine nella creazione del Comitato italo-germanico per la pubblicità, fondato alla fine del 1941 per riorganizzare l’Unione Continentale della Pubblicità (e quindi l’intera industria della réclame europea) sotto la dirigenza nazifascista al fine di imporre la propria visione di consumo su tutt’Europa dopo la vittoria dell’Asse Roma-Berlino-Tokyo. 1. La «nuova era fascista»: il congresso di Roma e Milano del 1933 Il 17 settembre 1933, cinque giorni dopo la promulgazione della Legge per la Pubblicità Commerciale a opera del Ministero di Joseph Goebbels,8 6. Cfr. Cannistraro, La fabbrica del consenso, pp. 102-103. 7. Per una panoramica cfr. Schieder, L’ombra del Duce, soprattutto pp. 173-214 e 237-256. 8. Reichsgesetz-Blatt I, p. 625.

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oltre 250 delegati da tutta Europa e dagli Stati Uniti si incontrarono nella sala Giulio Cesare del Campidoglio per l’inaugurazione del quarto Congresso internazionale dell’Unione Continentale della Pubblicità (UCP).9 Organizzato a meno di un anno dall’apertura della famigerata Mostra della rivoluzione fascista, che si era avvalsa di alcuni dei pittori e grafici pubblicitari più noti del tempo (inclusi Mario Sironi e Marcello Nizzoli), il congresso fu un grande successo, ed è tuttora ricordato come l’evento di maggior rilevanza del periodo interbellico da gran parte del mondo della réclame nostrana.10 Sull’accattivante manifesto, creato da Severo Pozzati (in arte Sepo), figurava una grande calamita rossa che attirava a sé le lettere della parola «pubblicità».11 L’organizzazione – in cui furono coinvolti diversi rappresentanti delle federazioni fasciste attive nel settore, della Fiera di Milano e della Triennale di arti decorative – fu curata nei minimi dettagli da alcuni dei maggiori esperti di pubblicità di quegli anni, tra cui Luigi Dalmonte, Giulio Cesare Ricciardi e Guido Mazzali, agli occhi dei quali il congresso rappresentava la prima, vera occasione per conseguire il tanto agognato riconoscimento professionale che ancora faticavano ad ottenere. A tal fine, i pubblicitari riuniti attorno alla rivista «L’Ufficio Moderno» diedero alle stampe una serie di contributi che illustravano le conquiste della pubblicità italiana nei primi tre decenni del Novecento, incluso il compendio Arte pubblicitaria 19001933, supplemento bilingue pubblicato in concomitanza dell’evento.12 Svoltosi tra Roma e Milano, il congresso offrì al regime fascista un’importante occasione di presentarsi come forza modernizzatrice che stava trasformando il volto di un’Italia «rinnovata e rinnovatrice» di fronte a una cospicua platea internazionale, nonché di riaffermare la propria autorità in tema di pubblicità alla presenza della delegazione nazionalsocialista.13 I fun9. Archivio Storico Istituto Luce, foto n° A00050070-2, Un momento dell’inaugurazione del 5° [sic] Congresso della pubblicità svoltosi nella Sala Giulio Cesare in Campidoglio. 10. Cfr. Mostra della rivoluzione fascista. Cfr. Cioli, Janz, Arte e simbologia politica nell’Italia fascista, pp. 16-29; Carli, Per volontà del Duce e per opera del Partito, pp. 79-96. 11. Cfr. Catalogo generale dei Beni Culturali (d’ora in poi CGBC), n° 0500656469, Congresso internazionale della pubblicità. Calamita rossa e bianca su fondo nero attira le lettere che compongono la parola pubblicità. 12. Arte Pubblicitaria 1900-1933. Cfr. anche L’arte di conquistare il pubblico, «Corriere della Sera», 17 settembre 1933, p. 5. 13. Il Congresso della pubblicità saluta nel Duce l’Italia rinnovata e rinnovatrice, «Corriere della Sera», 22 settembre 1933, p. 6.

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zionari fascisti non lesinarono dunque gli sforzi per assicurarsi il successo del congresso e il prestigio internazionale che ne sarebbe conseguito. I principali organizzatori, le Confederazioni fasciste del commercio e dell’industria, alle quali a quei tempi afferiva il settore pubblicitario, idearono un fitto programma che combinava l’aspetto strettamente professionale dell’evento, che si svolse soprattutto a Milano, con un serrato grand tour delle meraviglie della Roma fascista, che prevedeva non soltanto un incontro con il duce in persona ma anche un’udienza papale, a due mesi dalla firma del Concordato con il Terzo Reich. Mussolini, ossessionato com’era dal presentare il suo “prodotto” nella miglior luce possibile, ricevette i capi delegazioni la sera del terzo giorno, mostrando tuttavia ancora limitato interesse per il tema, al di là dell’ennesima occasione di accrescere il prestigio internazionale del fascismo.14 In tale l’occasione, il rappresentante della Confederazione fascista del commercio osservò come «in futuro la pubblicità […] sarà ben di più di un fattore economico», aggiungendo che «a tal riguardo […] il Duce si augura che, grazie al congresso di Roma, i professionisti qui riuniti torneranno ai loro paesi portandovi il nuovo spirito vitale della nostra nazione».15 Pio XI invece dimostrò un vivo interesse per la pratica pubblicitaria. Il pontefice tenne un discorso di venticinque minuti «sull’importanza della pubblicità per la vita del popolo, poiché è proprio attraverso di essa e con il suo aiuto che i buoni costumi e la morale possono essere corroborati». Nella concezione del papa, la pubblicità e la morale sarebbero dovute andare di pari passo, in quanto «oggigiorno la propaganda non è più solamente una necessaria appendice dell’industria, ma è diventata più simile a una scienza». Oltre a promuovere comportamenti virtuosi, i pubblicitari si sarebbero dovuti dedicare a un obiettivo ben preciso: la censura. Ciò emerse con forza nel caso di pubblicazioni invise alla Santa sede. «In futuro la pubblicità dovrà impedire a libri come Il matrimonio perfetto, che sarebbe più corretto chiamare “Il matrimonio perverso”, di essere immessi sul mercato».16 In caso 14. Cfr. L’agenda di servizio di Benito Mussolini, 19 settembre 1933, ore 19:15. Cfr. anche Ceserani, Vetrina del Ventennio, p. 241 ss. 15. Fritz, Der Internationale Reklame-Kongreß, p. 535. 16. Ibidem. Il libro Il matrimonio perfetto, scritto dal ginecologo olandese Theodoor Hendrik van de Velde, era stato pubblicato nel 1926 e già nel 1932 aveva raggiunto la sua quarantaduesima ristampa, nonostante la chiesa cattolica lo avesse incluso nell’Index Librorum Prohibitorum a causa delle sue vedute esplicite sulla sessualità coniugale come volta al piacere, piuttosto che alla procreazione. Nell’originale tedesco l’autore gioca sull’assonanza tra «Die vollkommene Ehe» e «Die verkommene Ehe».

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contrario, la réclame si sarebbe resa «complice dell’immoralità, risvegliando gli istinti più turpi della natura umana tramite il suo ruolo pubblico».17 Il monito del papa ben riassumeva quelli che sarebbero stati i tratti distintivi della pubblicità anni Trenta, non solo fascista: l’equazione tra propaganda e pubblicità nonché la sua funzione indottrinante, oltre che censoria. Un altro dei momenti clou del congresso fu la visita alla Mostra della rivoluzione fascista, accolta con particolare entusiasmo dalla delegazione tedesca.18 Stando alla rivista «Die Deutsche Werbung», versione germanizzata di «Die Reklame» dal 1933 e organo della NSRDW, la Lega nazionalsocialista dei pubblicitari tedeschi, la «monumentale, potente e maestosa» esibizione fu un’esperienza molto suggestiva, «avvincente […] soprattutto dal punto di vista pubblicitario, grazie all’eccellente propaganda realizzata dal partito in favore del concetto di fascismo».19 Trarre ispirazione dai successi della propaganda fascista era tuttavia solo uno degli obiettivi della delegazione nazista. Di gran lunga la più forte in termini numerici, essa aveva mantenuto come portavoce il professor Hermann Karl Frenzel, veterano dell’età d’oro della pubblicità weimariana, fondatore e direttore dell’influente rivista di arte pubblicitaria «Gebrauchsgraphik» nonché consulente della filiale berlinese dell’agenzia britannica W. S. Crawford.20 Fatta eccezione per Frenzel, la composizione così come le tematiche proposte dai rappresentanti della «nuova Germania» erano tuttavia mutate radicalmente. La delegazione era guidata da Hugo Fischer – nazista della prima ora e membro delle SA nonché Capo della propaganda del Reich del Partito nazista – recentemente nominato presidente della neonata Lega nazionalsocialista dei pubblicitari tedeschi del Reich (NSRDW), che a partire dall’estate del 1933 aveva rimpiazzato la vecchia Federazione tedesca per la réclame (DRV).21 La delegazione includeva anche il suo braccio destro, 17. Fritz, Der Internationale Reklame-Kongreß, p. 536. Sui rapporti tra Vaticano e fascismo cfr. Ceci, L’interesse superiore. 18. Sull’importanza della Mostra in prospettiva comparata cfr. Thamer, Die Repräsentation der Diktatur, pp. 229-246. 19. Die faschistische Revolutions-Ausstellung in Rom, «Die Deutsche Werbung», 26, 1. Oktoberheft (1933), p. 539, e Der internationale Reklame-Kongreß, p. 538. 20. Frenzel era stato anche direttore artistico del Reklame Schau del Congresso mondiale della pubblicità di Berlino del 1929, cfr. Gaudenzi, Commercial Advertising in Germany and Italy, pp. 75-77. 21. Sebbene molti dei pubblicitari avrebbero visto di buon occhio la riorganizzazione operata dal regime, è bene ricordare che il consiglio direttivo della DRV si dimise all’an-

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Richard Künzler, che durante il congresso venne ammesso nel consiglio d’amministrazione dell’UCP come rappresentante della Germania nazista, coronando l’obiettivo di Fischer di ottenere il riconoscimento della NSRDW a livello internazionale.22 Il convegno di Roma e Milano costituì un passaggio fondamentale non solo per la ufficializzazione della NSRDW ma anche perché segnò l’inizio dell’interesse da parte del regime fascista per le potenzialità propagandistiche della pubblicità, al di là della sua già conclamata utilità per la fascistizzazione della stampa. L’accurata pianificazione, nonché i fondi che la dittatura investì nella riuscita del congresso, fanno già presagire il ruolo che il settore avrebbe acquisito agli occhi dei gerarchi fascisti negli anni a venire. Erminio Cedraschi, responsabile de «Il Popolo d’Italia» per conto dell’Unione Pubblicità Italiana (UPI), concessionaria che controllava la maggior parte dei ricavi della stampa fascista, ci tenne a rimarcare quanto il nuovo regime avesse in realtà già giovato allo sviluppo della pubblicità, affermando che «tutto quanto è stato ideato e creato in questo campo [della pubblicità] non avrebbe potuto essere né pensato né realizzato, in Italia, se non nel clima del Fascismo. La propaganda è sempre stata considerata dal Partito come l’arma più efficiente, lo strumento più poderoso per il rapido raggiungimento dei grandi fini propostisi».23 Gli fece eco Fischer, che nel comunicato stampa a chiusura dell’evento osservò: «come la Roma di oggi è stata in grado di dimostrare ai delegati esteri […], l’Italia fascista è assolutamente certa dell’importanza della propaganda per lo Stato e per l’economia».24 Nel mettere sullo stesso piano la pubblicità e la propaganda, Cedraschi e Fischer ben rispecchiavano il comune sentire delle due dittature, che negli anni a venire avrebbero conferito sempre più importanza alla cosiddetta «propaganda economica».25 Per quanto il convegno costituì senza dubbio un punto di svolta nel rapporto tra fascismo e pubblicità, durante i lavori divenne evidente che in Italia la strada da fare era ancora lunga. Anche Cedraschi sembrò voler punzecchiare velatamente i settori del regime annuncio della creazione del Ministero della propaganda, cfr. Swett, Selling under the Swastika, p. 43 ss. 22. Cfr. Ernst R. Immich, Werbefachleute zum Werberat, «Die Deutsche Werbung», 29, n° 2 (1936), p. 58. Su Fischer e Künzler cfr. Swett, Selling under the Swastika, p. 47 ss. 23. Congresso Internazionale della Pubblicità, p. 67. 24. Fritz, Der internationale Reklame-Kongreß, p. 538. 25. Cfr. ivi, p. 535, e Congresso Internazionale della Pubblicità.

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cora restii in tal senso, ricordando che uno stato non pienamente cosciente di cosa fosse la réclame non avrebbe potuto lavorare per il benessere e il futuro della nazione, e sottolineando ancora una volta come «uno Stato agnostico in materia di propaganda, non compenetrato di tutti i più vivi problemi del popolo, lontano dalla vita reale d’ogni giorno, estraniato in una funzione puramente e tradizionalmente politica, non sarebbe certamente sceso nell’agone pubblicitario».26 In tale quadro, uno degli aspetti più rilevanti ad emergere dal convegno fu l’evidente sintonia tra i padroni di casa e i loro ospiti tedeschi, e quanto il nazionalsocialismo fosse già assurto a ispirazione per diversi sostenitori della modernizzazione del settore pubblicitario in stile autoritario. Nei successivi tre anni, la riorganizzazione nazista avrebbe infatti costituito un notevole punto di riferimento per la realizzazione delle aspirazioni egemoniche fasciste, spronate dall’evidente entusiasmo mostrato da diversi pubblicitari italiani per le riforme attuate dal Terzo Reich. Tale comunanza di modi, oltre che di intenti, si rifletté prima di tutto sulle tematiche trattate, a cominciare dall’argomento del contributo inaugurale di entrambe le delegazioni: la cosiddetta pubblicità collettiva. Già sperimentata durante la Prima guerra mondiale e tornata in auge con la crisi economica, la pubblicità collettiva si basava sulla promozione di un prodotto (spesso alimentare) piuttosto che una serie di marchi distinti, proponendosi come strumento ideale per incrementare i consumi senza fomentare la concorrenza capitalistica. Tale impostazione collettiva avrebbe rappresentato una costante nella narrazione pubblicitaria del Terzo Reich e del Ventennio in quanto punto d’incontro tra una concezione ancora prettamente commerciale della réclame e la Verbrauchslenkung, quel controllo o «riorientamento dei consumi» imposto soprattutto a partire da metà degli anni Trenta sull’onda della crociata autarchica e del piano quadriennale, nel contesto dei quali le campagne collettive avrebbero dovuto rieducare i consumatori in senso nazionalista.27 È infatti indubbio che la riconversione autarchica e militaristica dell’economia segnò il principale punto di svolta nel processo di politicizzazione della pubblicità sia in Italia che in Germania. Al contrario di 26. Cedraschi, La pubblicità degli Enti Statali, in Congresso Internazionale della Pubblicità, p. 69. 27. Gli storici del nazionalsocialismo hanno dibattuto a lungo la questione del “primato della politica” sull’economia, una buona panoramica è offerta da Middendorf, Priemel, Jenseits des Primats, pp. 94-120.

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quanto sostenuto da molta della letteratura sul tema, l’allineamento a temi e modalità collettivi non si rivelò tuttavia così diffuso per quel che riguardava i contenuti pubblicitari. Se alcuni accettarono con riluttanza la svolta collettiva – soprattutto nel caso degli uffici pubblicità di alcune grandi aziende, intenti ad accrescere la fama del proprio marchio – ampi furono tuttavia i settori delle industria che accettarono di buon cuore questa “collettivizzazione”, che offriva la possibilità di accrescere i profitti delle aziende medio-piccole, meno conosciute, e così facendo di aumentare il prestigio della piccola borghesia con il pretesto di operare in favore della prosperità della nazione. Come ricorderà successivamente Giorgio Pini, «il piccolo industriale, il piccolo agricoltore, il modesto artigiano non possono affrontare individualmente una simile impresa pubblicitaria perché mancano loro i mezzi e le forze […] [La pubblicità collettiva] non è tanto un dovere quanto un interesse delle varie categorie».28 Nino Caimi, a cui fu concesso l’onore di inaugurare il congresso del 1933 proprio con un discorso sulla pubblicità collettiva, seppe incarnare bene questa evoluzione. Tra i maggiori sostenitori del modello pubblicitario statunitense, dagli inizi degli anni Trenta Caimi diventò uno dei fautori più convinti della pubblicità collettiva, dedicandosi a campagne per promuovere prodotti coloniali quali le banane somale, fino a quel momento sconosciute ai consumatori italiani, o la lotteria di Tripoli.29 Nel descrivere i vantaggi di questo nuovo tipo di réclame, Caimi fece riferimento a diverse campagne britanniche e statunitensi, oltre ai propri annunci realizzati per incrementare il consumo di birra, proponendosi come mediatore in grado di rielaborare il know-how anglosassone a fini autarchici. Non a caso fu proprio nel campo della pubblicità collettiva che il regime fascista e quello nazista dimostrarono particolare senso pratico nell’appropriarsi delle più moderne tecniche pubblicitarie, riadattandole ai lori scopi. In molte di queste campagne il prodotto veniva reclamizzato facendo leva su bisogni individuali, presentati come tutt’altro che inconciliabili con il trionfo della società fascista.30 Tale approccio rientrava nel più ampio tentativo di creare una base di consenso per il regime attraverso l’adozione 28. Giorgio Pini, Funzione autarchica della propaganda collettiva, «La Pubblicità d’Italia», 3, n° 17-18 (1939), p. III [27]. 29. Cfr. Pesavento, Paolieri, Chi è in pubblicità, pp. 196-197, e Arte Pubblicitaria 1900-1933, p. 33. 30. Sulla questione del presunto annientamento dell’individuo nella propaganda fascista cfr. Ben-Ghiat, Five faces of Fascism, pp. 94-110.

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di un compromesso tra l’apparente ascetismo dello stato fascista e le aspirazioni di comfort privato della piccola borghesia italiana che animarono il complesso rapporto tra fascismo e classi medie, come vedremo più avanti.31 Nella fase iniziale l’atteggiamento della dittatura verso la pubblicità e i consumi oscillò dunque tra un netto, ascetico rifiuto, presente soprattutto nella propaganda e nei discorsi ufficiali, e un’opportunistica accettazione a fini economici, evidente nei rapporti con le grandi industrie e le classi medie. A partire dai primi anni Trenta emerse inoltre sempre più una nuova tendenza, che si riproponeva non solo di pilotare gli introiti della pubblicità e censurarne i contenuti sgraditi ma anche di trasformare la pubblicità stessa in un potente strumento di propaganda per il regime. Il concetto di pubblicità collettiva rappresentò una notevole sintesi tra il mondo del commercio e quello della politica, atta sia a soddisfare le aspirazioni corporative del regime che ad assolvere a una funzione “educativa”, fondamentale per la buona riuscita delle campagne autarchiche e razziali. Questo aspetto, che emergerà con forza negli anni a venire, era già evidente nell’elogio di Caimi all’«arma potente e moderna della campagna di pubblicità collettiva», sia «come strumento efficacissimo di difesa e conquista di qualunque mercato interno o straniero», sia «quale mezzo indispensabile per indirizzare, educare le masse verso il consumo di prodotti più utili e quindi verso forme di vita più sana e più elevata, meglio rispondente ai supremi interessi della collettività» fascista.32 Il congresso del 1933 costituì dunque un importante spartiacque tra gli sforzi di modernizzazione sul modello statunitense degli anni Venti e il successivo tentativo d’inquadramento del settore pubblicitario nell’impianto corporativo fascista che caratterizzò gli anni Trenta. Tale evoluzione non avvenne certo da un momento all’altro, né segnò una netta separazione tra queste due tendenze, che continuarono a coesistere per la maggior parte del Ventennio. Le ragioni di questa inversione di rotta furono molteplici e ben illustrano i cambiamenti e le concezioni contrastanti presenti all’interno del regime stesso. Quel che è certo, tuttavia, è che a partire dall’autunno del 1933 l’approccio nazionalsocialista sarebbe assurto a principale punto di riferimento dei fautori di una istituzionalizzazione del settore pubblicitario in senso autoritario. 31. Cfr. Arvidsson, Marketing Modernity, p. 62 ss.; Salvati, L’inutile salotto, pp. 2528. Cfr. anche Sturani, Il fascismo in cartolina, pp. 112-128. 32. Congresso Internazionale della Pubblicità, pp. 85-93: 92.

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Nel perorare per l’ennesima volta la causa della creazione di una scuola di settore, ad esempio, Caimi si rifece immediatamente all’operato del nuovo Ministero della propaganda di Goebbels, il primo a creare un’istituzione pubblica preposta all’organizzazione dell’industria pubblicitaria.33 Richieste come queste erano state avanzate fin dal primo dopoguerra, come sappiamo, ma ciò che era cambiato era l’esplicito riferimento alla Germania, che già ben prima del riavvicinamento politico e diplomatico tra i due paesi iniziò a costituire una notevole fonte di ispirazione non solo per molti pubblicitari ma anche per alcuni settori della gerarchia fascista. La creazione del Werberat der Deutschen Wirtschaft, il Consiglio pubblicitario dell’economia tedesca, sancita quattro giorni prima dell’apertura del convegno di Roma e Milano, rappresentò un fondamentale punto di partenza in tal senso. 2. L’epurazione nazionalsocialista dell’industria pubblicitaria Nel 1935 Frederick Solm, astro nascente della pubblicità nazista e direttore dell’ex filiale berlinese della J. Walter Thompson, contattò i suoi vecchi colleghi di New York facendo ad essi una richiesta ben precisa. Carol von Braunmühl, vicepresidente del Werberat – il Consiglio pubblicitario dell’economia tedesca, di cui Solm era membro – era in procinto di intraprendere un viaggio di due mesi negli Stati Uniti per «farsi un’idea della pubblicità e degli affari americani». Solm, appellandosi all’orgoglio aziendale dei thompsoniani, chiese loro di accogliere il dirigente nazista nel loro ufficio al fine di «svelargli i trucchi del mestiere» e «mostrargli la pubblicità americana attraverso gli occhi della Thompson!».34 Stando ad un breve memorandum che Solm aveva consegnato ai suoi superiori poco prima che acconsentissero a vendergli l’ufficio di Berlino, il principale intento del Consiglio pubblicitario era quello di «purificare, uniformare e promuovere la pubblicità» nel neonato regime nazista. Sorvolando su cosa si intendesse per purificare il mondo della pubblicità, Solm si appellò ad argomentazioni che sarebbero apparse più ragionevoli ai colleghi d’oltreoceano, sottolineando in partico33. Ivi, p. 93. Cfr. Fritz, Der Internationale Reklame-Kongreß, p. 536. 34. DUHC, JWTA, Treasurer’s Office Records: International Offices Series, 19281952, b. 5, Berlin Office Subseries, 1930-1939, f. Solm, Fritz--Payment Due JWT, 1933-35, lettera da Solm a Henry Flower Jr, 23 luglio 1935.

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lare la volontà di trasformare la réclame tedesca in «un mezzo più efficiente per stimolare il consumo secondo la moderna scienza economica».35 Nel presentare una versione più neutra possibile dell’istituzione nazista, Solm enfatizzò la spinta razionalizzatrice alla base delle sue attività, che a detta sua consistevano da un lato nell’offrire ai professionisti del settore regole chiare e ben definite e dall’altro nel promuovere i consumi. Un altro obiettivo era quello di «eliminare i media pubblicitari inadeguati», misura da lui descritta come necessaria per regolamentare lo sviluppo «alquanto caotico» della réclame verificatosi durante gli anni di Weimar.36 Come vedremo nel quarto capitolo, Solm è un esempio particolarmente calzante di quei pubblicitari di professione che si unirono alla causa nazionalsocialista non solo per le loro convinzioni politiche ma anche in virtù della prestigio accordato dal regime alla loro professione e per gli ingenti guadagni che se ne potevano ricavare. La percezione di essere stati i primi a dare importanza al mestiere pubblicitario, che in realtà aveva già toccato l’apice con il Congresso mondiale di Berlino dell’agosto del 1929, e soprattutto ad operare un’ottimizzazione del settore costituirà una costante dell’auto-narrazione non solo del Consiglio ma anche di molti pubblicitari, tedeschi e non, durante il Terzo Reich, e a volte perfino fino agli anni Ottanta del secolo scorso. Durante l’iperinflazione la pubblicità tedesca aveva infatti alquanto sofferto di vizi strutturali come la mancanza di commissioni fisse o la diffusa abitudine a sovrastimare le tirature dei più importanti giornali.37 Per quanto il Consiglio pubblicitario riuscì in parte a bandire le affissioni non autorizzate, solitamente a spese delle ditte di proprietà ebraica, nella maggior parte dei casi le sue direttive furono tutt’altro che chiare. Ciò causò non pochi problemi soprattutto alle piccole aziende, costrette a districarsi in un labirinto pressoché infinito di regole a volte incomprensibili o in palese contraddizione fra loro – basti pensare che il manuale di ben 266 pagine pubblicato dal Consiglio pubblicitario nel 1938 non includeva che una parte delle direttive in materia pubblicitaria.38 35. Ivi, the Werberat der deutschen Wirtschaft – German Trade Development Board. Sulla storia del Consiglio pubblicitario dell’economia tedesca cfr. in particolare Sennebogen, Zwischen Kommerz und Ideologie, p. 153 ss. 36. Cfr. Röttger, Was will der Werberat der deutschen Wirtschaft?, p. 20. 37. Cfr. Fulda, Press and Politics in the Weimar Republic, pp. 21-22. 38. Cfr. Berghoff, ‘Times Change and We Change with Them’, p. 134; Swett, Selling under the Swastika, p. 86 ss.

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Istituito con la Legge per la pubblicità commerciale del 12 settembre 1933, il Consiglio operava sotto il controllo diretto del Ministero per la propaganda di Joseph Goebbels. La sua sfera di influenza si estendeva a «tutto il settore pubblicitario, pubblico e privato, incluse la réclame a mezzo stampa, le mostre e le fiere» così come al «trasporto pubblico e [al]la pubblicità turistica». Il Consiglio era amministrato direttamente dal Ministero e costituiva dunque una vera e propria istituzione dello stato nazista, piuttosto che un’espressione del settore pubblicitario. Nelle parole di Goebbels, il suo compito era quello di «sottomettere tutta la pubblicità commerciale tedesca a un’unica volontà uniforme, accantonare la frammentazione organizzativa causata da un pedante individualismo e gestire il settore secondo i requisiti del nuovo stato tedesco».39 Tale enfasi contro l’individualismo, bollato come “giudeo” e “degenerato”,40 a favore dell’unità razziale e spirituale del Volk si sarebbe tuttavia tradotta solo in minima parte in un effettivo riorientamento delle suggestioni pubblicitarie, e più in generale non riuscì mai a scalfire il primato dei profitti e della proprietà privata nella Germania nazionalsocialista.41 Fin dall’inizio il regime conferì una rilevanza fondamentale alla pubblicità, dimostrata anzitutto dalla rapidità con la quale i nazionalsocialisti si ripromisero di assoggettare l’industria. In questo gli ideologi di partito non erano soli. Anche elementi all’apparenza più moderati – ma non meno antisemiti – come Hjalmar Schacht, allora Ministro dell’economia e presidente della Reichsbank fino al 1939, attribuirono una notevole importanza all’allineamento della réclame, il cui scopo era quello di divenire «specchio concreto del proprio tempo».42 Nel 1938, una tesi di dottorato in economia avrebbe riassunto particolarmente bene l’idea: «Oggi la questione non è più se la pubblicità commerciale sia o meno un fenomeno necessario 39. Citato in Westphal, Werbung im Dritten Reich, p. 166. Cfr. Bundesarchiv Berlin-Lichterfelde (d‘ora in poi BArchB), Reichsministerium für Volksaufklärung und Propaganda, R 55 (d’ora in poi R 55), b. 161, Organization und Tätigkeit des Werberats und des Reichsausschusses für volkswirtschaftliche Aufklärung, 1942-44. 40. Per una prospettiva antropologica sull’avversione per l’individualismo dell’ideologia nazista e il suo legame con il razzismo cfr. Dumont, Saggi sull’individualismo, pp. 155-192. Per una panoramica storiografica cfr. in particolare Föllmer, Wie kollektivistisch war der Nationalsozialismus?, pp. 30-52. 41. Cfr. in particolare Buchheim, Scherner, The Role of Private Property, pp. 390416. Cfr. anche il recente Reshaping Capitalism, soprattutto pp. 1-57 e 181-254. 42. Citato in Brugger, Die Anzeige in der Wirtschaftswerbung, p. 153.

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alla vita economica. La sua cruciale importanza per l’economia nazionale e per l’attività imprenditoriale è stata riconosciuta in pieno dallo stato con l’entrata in vigore della relativa legge del 12 settembre 1933 e la successiva istituzione del Consiglio pubblicitario dell’economia tedesca».43 La presidenza del Consiglio pubblicitario, di nomina ministeriale, fu inizialmente affidata a Ernst Reichard, figura di prestigio e direttore generale al Ministero dell’agricoltura, il quale ebbe tuttavia un ruolo perlopiù di rappresentanza, in quanto già nel 1933 Goebbels lo riteneva «un po’ vecchio» e, come lo definì in seguito, nient’altro che «un Babbo Natale».44 Nel 1939 gli sarebbe successo uno dei protégés di Goebbels, Heinrich Hunke, nazista della prima ora, che in realtà aveva agito come vice di Reichard fin dal 1933, assicurando l’attuazione del programma politico del Partito nazista attraverso una serie di misure economiche e amministrative.45 Poco dopo esser diventato presidente, Hunke propose di creare una sezione dedicata alla pubblicità direttamente all’interno del Ministero della propaganda – idea che incontrò il favore di Goebbels ma non venne mai attuata, probabilmente per l’evolversi della situazione bellica.46 Nonostante i ripetuti conflitti di competenza con gli altri ministeri in merito alla facoltà di legiferare sul settore pubblicitario, dovuti alla natura formalmente consultiva piuttosto che legislativa del Consiglio pubblicitario, quest’ultimo acquisì presto un notevole ascendente sull’industria pubblicitaria. Oltre a subordinare l’intero settore al Ministero per la propaganda, gli altri due campi nei quali il Consiglio pubblicitario si dimostrò particolarmente efficace furono l’eliminazione di pubblicazioni invise al regime, la cui sopravvivenza spesso dipendeva dagli introiti pubblicitari, e l’epurazione della professione pubblicitaria. Ciò fu possibile soprattutto grazie al secondo comunicato del 27 ottobre 1933, che demandava al nuovo ente il diritto di garantire o revocare l’autorizzazione per operare nel settore. Tale strategia – già applicata con successo nell’allineamento 43. Greuling, Der Werberat, p. 95. 44. Goebbels, Die Tagebücher, Teil I, Vol. 2/II, p. 274 (22 settembre 1933) e Vol. 6, p. 144 (13 ottobre 1938). Su Reichard cfr. Swett, Selling under the Swastika, pp. 55-58 e 64-67. 45. Goebbels, Die Tagebücher, Teil I, Vol. 2/II, p. 150 (17 novembre 1931) e Vol. 6, p. 170 (3 novembre 1938). Il nome di Hunke compare ben 72 volte nei diari di Goebbels tra il 1932 e il 1944. Sulla figura di Heinrich Hunke cfr. Swett, Selling under the Swastika, pp. 55-60. 46. Ivi, Teil I, Vol. 8, p. 121 (18 maggio 1940).

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della stampa tedesca, e prima ancora di quella italiana, a partire dal 1926 – assicurò di fatto la progressiva interdizione degli oppositori politici, dei cittadini di origine ebraica e di ogni altro presunto “nemico” dal mestiere pubblicitario. Selezionando a priori i membri della professione, inoltre, il Consiglio avrebbe limitato l’esigenza di censurarne il lavoro. Questo compito fu affidato a una serie di associazioni di categoria, prima fra tutte la famigerata NSRDW, la Lega nazionalsocialista dei pubblicitari tedeschi, l’appartenenza alla quale divenne obbligatoria per chiunque volesse lavorare in pubblicità.47 Nata dalla nazificazione della già menzionata Federazione tedesca per la réclame (Deutscher Reklame-Verband, DRV), a partire dal 1934 la NSRDW sarebbe stata posta sotto la diretta sorveglianza del presidente del Consiglio pubblicitario, diffondendosi a macchia d’olio fino ad arrivare a ben 18.500 membri.48 Esercitare questa forma di controllo sui propri membri si dimostrò estremamente efficace nell’aggirare l’impossibilità giuridica di imporre multe e sanzioni pecuniarie. Sebbene i suoi avvisi (Bekanntmachungen) non potessero essere considerate vere e proprie leggi, infatti, questo meccanismo assicurò che la repressione potesse essere tempestiva ed estremamente incisiva. Stando al bollettino del Consiglio pubblicitario, il «Wirtschaftswerbung», solo nel 1934 furono revocate in via permanente 37 autorizzazioni.49 Sarà tuttavia con il lancio del piano quadriennale nell’estate del 1936 che si inaugurerà la fase più intensa di auto-epurazione della professione. Entro il marzo del 1937 erano stati esclusi dal settore quasi 3.000 pubblicitarie e pubblicitari.50 La prerogativa di concedere le autorizzazioni rappresentò lo strumento più potente a disposizione del Consiglio pubblicitario. Come evidenziato dal «Frankfurter Zeitung», «il Consiglio pubblicitario possiede anche altri mezzi per imporre le proprie vedute in merito all’appropriatezza di una pubblicità, che non sono meno rilevanti delle normali leggi». In particolare, «la revoca dell’autorizzazione può avere conseguenze di ben più vasta 47. I nazionalsocialisti crearono una serie di associazioni di categoria per la riorganizzazione del settore pubblicitario, quali la Reichsverband der Werbungtreibenden (RVWT), per le aziende che si avvalevano della pubblicità, il Bund Deutscher Gebrauchsgraphiker (BDG), per i grafici, o la Verband Deutscher Annoncen-Expeditionen (VGAE), per le concessionarie, cfr. Wiesen, Creating the Nazi Marketplace, p. 69 ss. 48. Cfr. Immich, Werbefachleute zum Werberat, p. 58 e Sennebogen, Zwischen Kommerz und Ideologie, p. 134 ss. 49. Cfr. Goldmann, Der Werberat der deutschen Wirtschaft, p. 5. 50. Cfr. Swett, Selling under the Swastika, p. 69.

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portata rispetto al pagamento di un risarcimento, poiché spesso comporta l’annientamento dal punto di vista economico».51 È inoltre importante ricordare che la licenza concessa non rappresentava un «diritto pubblico soggettivo» e poteva perciò «essere abrogata da un momento all’altro, con la relativa perdita della possibilità di operare nella pubblicità commerciale».52 Così, «ancora nel 1936 il Consiglio pubblicitario dell’economia tedesca era stato costretto a revocare temporaneamente l’autorizzazione […] alle aziende che si ostinavano a non seguirne le istruzioni».53 Tra le “ostinate” compagnie costrette a vivere con una costante spada di Damocle sulla testa figuravano prima di tutto gli atelier, le agenzie e i liberi professionisti di origine ebraica. L’escalation di discriminazione e violenza a cui furono soggetti questi ultimi ben esemplifica la complessità del processo di graduale radicalizzazione che ebbe luogo nell’arco degli anni Trenta. Dopo il boicottaggio delle imprese del 1° aprile 1933, la partecipazione al quale fu giudicata insufficiente dai vertici del Partito nazista, l’epurazione dei pubblicitari ebrei, o considerati tali, avvenne per gradi. Diversi grafici pubblicitari di una certa fama, che potevano sperare in ingaggi all’estero, furono spinti a lasciare il paese già nella seconda metà del 1933. È il caso del già citato Xanti Schawinsky, o di Fritz Rosen, socio di Lucian Bernhard. Perfino nel caso di artisti così celebri il percorso si rivelò tutt’altro che semplice. All’apice della sua carriera, Rosen si trovò costretto a vagare tra la Svizzera, la Francia e infine l’Inghilterra, dove nel 1940 sarebbe stato internato come “alieno”, per poi riprendere finalmente la sua attività con dei manifesti di propaganda anti-nazista, incluso il celebre poster Gran Bretagna, scudo del mondo, in cui gli aerei nazisti si infrangono contro una grande bandiera britannica a forma di scudo.54 L’obbligo di adesione alle associazioni di categoria come la NSRDW costituì senza dubbio il vincolo principale per i pubblicitari tedeschi. Secondo le regole della Lega, infatti, le richieste di affiliazione potevano essere rifiutate se il candidato era considerato «inaffidabile o altrimenti non idoneo».55 Tale 51. «Frankfurter Zeitung», 8. Februar 1938, senza numero di pagina. Citato anche in Westphal, Werbung im Dritten Reich, p. 43. 52. Goldmann, Der Werberat der deutschen Wirtschaft, p. 41. 53. Bericht über das 3. Geschäftsjahr, p. 13. Cfr. anche Flemming, Die allgemeinpolizeilichen Beschränkungen. 54. Great Britain, ‘Shield of the World’ – Help her cause, buy her goods, cfr. Westphal, Werbung im Dritten Reich, pp. 123-129. 55. Berghoff, ‘Times Change and We Change with Them’, p. 133.

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formulazione, sufficientemente vaga ma ben ancorata nel diffuso pregiudizio antisemitico contro i commercianti o gli uomini d’affari di origini ebraiche, dipinti come mercanti senza scrupoli, garantì un ampio margine di discrezionalità nel concedere la licenza per continuare a lavorare nel settore. Nella pratica, questo significò la progressiva nonché arbitraria esclusione sia di molti oppositori politici che dei cittadini di origine ebraica e delle imprese straniere. Se l’eliminazione di queste ultime fu completata entro il 1937,56 il 1° gennaio 1939 vennero ritirate anche le ultime licenze speciali concesse ai pochissimi liberi professionisti ebrei (o presunti tali) che erano riusciti a rimanere a galla fino a quel momento.57 Per la fine del 1938 il portavoce del Consiglio pubblicitario Arnold Brugger poté così annunciare trionfalmente che la pubblicità tedesca era stata «mondata» da qualsiasi influenza «straniera».58 Oltre a queste misure, il principale colpo alle imprese di pubblicità di proprietà ebraica fu inferto attraverso l’arianizzazione dell’industria. Nel caso di alcune delle grandi aziende del settore editoriale e pubblicitario, come la Rudolf Mosse o la Ullstein, l’esproprio fu messo in atto già nel 1933. La più importante concessionaria di pubblicità a stampa di tutta la Germania, la Rudolf-Mosse-Service – attiva fin dal 1867 ma notevolmente indebolita dalla crisi finanziaria – venne liquidata subito dopo l’ascesa al potere dei nazionalsocialisti, assieme all’omonima casa editrice, creatrice del «Berliner Tageblatt», il quotidiano a massima diffusione della sinistra liberale, e di altre 130 pubblicazioni, mentre la famiglia – incluso il futuro storico George L. Mosse – fu costretta all’esilio entro la fine di marzo del 1933.59 Al divieto di pubblicizzare i prodotti di industrie di proprietà ebraica sulla stampa nazionale seguirono l’interdizione dagli appalti pubblici, il censimento e i ripetuti episodi di vandalismo e saccheggio, che culmineranno poi nei pogrom della notte del 9 novembre 1938, seguiti dall’arianizzazione forzata di tutte le ditte ebraiche sancita 56. Westphal, Werbung im Dritten Reich, p. 68. 57. Cfr. Reinhardt, Von der Reklame zum Marketing, pp. 114-118. 58. Cfr. Brugger, Die Anzeige in der Wirtschaftswerbung, p. 148. 59. La Mosse è un tipico esempio della cosiddetta “arianizzazione a freddo”, cfr. Kraus, Die Familie Mosse, p. 492 ss. e Mosse, Aus großem Hause, pp. 113-115. Il progetto MARI (Mosse Art Research Initiative) della Freie Universität di Berlino ha ricostruito nel dettaglio l’esproprio della famiglia, cfr. Claudia Marwede-Dengg, Die Enteignung der Familie Lachmann-Mosse, https://www.mari-portal.de/page/die-enteignung-der-familielachmann-mosse (ultimo accesso 13 novembre 2022).

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dall’Ordinanza per l’esclusione degli ebrei dalla vita economica tedesca, del 12 novembre 1938.60 Nel caso dell’industria pubblicitaria, uno dei meccanismi più efficaci si rivelò l’introduzione dell’Ufficio per la ricerca di valuta straniera, che a partire dall’agosto del 1936 era autorizzato a esautorare ogni compagnia sospettata di trasferire capitale all’estero – parte integrante del più ampio piano quadriennale coordinato da Hermann Göring, in base al quale la necessità di stimolare la ripresa dei consumi venne messa da parte a favore degli imperativi del riarmo bellico e dell’autarchia.61 A queste si aggiunsero moltissime piccole imprese o grafici freelance, stretti tra la pressione fiscale e le intimidazioni anche fisiche, che furono costretti a liquidare le proprie attività a prezzi stracciati. Delle ben 70 tra concessionarie, atelier e uffici pubblicitari attivi a Berlino considerati di proprietà ebraica, l’80% circa venne liquidato tra il 1936 e il 1939, di cui il 25% solo nell’arco del 1938.62 Con l’importante eccezione della Rudolf-Mosse-Service, tutte queste imprese vennero subito liquidate. Tra le vittime di questa politica figuravano almeno sei professioniste, incluse Carla Rosenfeld, fondatrice nel 1926 della Moro Reklamekunst, le cartelloniste Nina Rittenberg e Alice Oelsner, che riuscì a rifugiarsi nelle Filippine nel 1939,63 e Martha Sommer, deportata nell’agosto del 1941.64 A garantire la nazificazione del settore contribuì notevolmente anche il processo di auto-allineamento attuato da gran parte del mondo pubblicitario, così come da molti altri settori, una dinamica non dissimile 60. Cfr. Dean, Robbing the Jews, in particolare pp. 17-172 e Bajohr, ‘Arisierung’ in Hamburg. Cfr. anche Evans, The Third Reich in Power, pp. 378-391 e Westphal, Werbung im Dritten Reich, pp. 97-98. 61. Cfr. Tooze, The Wages of Destruction, pp. 203-243. 62. Queste proiezioni sono basate sui dati estrapolati da vari registri commerciali raccolti nella banca dati delle ditte commerciali ebraiche (1930-45) dell’Università Humboldt di Berlino, coordinato da Christoph Kreutzmüller. Ringrazio quest’ultimo (assieme a Thomas Meyer e Eva Balz) per avermi gentilmente concesso di analizzare le informazioni relative alle imprese di natura pubblicitaria, cfr. http://www2.hu-berlin.de/djgb/public/ (ultimo accesso 12 novembre 2022) e il volume di Kreutzmüller, Ausverkauf. 63. Cfr. United States Holocaust Memorial Museum (d’ora in poi USHMM), United Nations Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA) selected records AG-018-035: Philippine Mission, Accession number: 2016.142.1, record group number: RG-67.056, List of Jewish refugees from Europe in the Philippines. 64. Cfr. Arolsen Archives, Reichsvereinigung der Juden in Deutschland, scheda n° 12674773: Sommer, Martha.

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dall’autocensura praticata dai pubblicitari italiani durante il Ventennio.65 Non dobbiamo dimenticare che anche le istanze di auto-allineamento, o meglio ancora di «auto-sorveglianza», come ricordato dallo storico Michael Ebner, furono spesso il risultato diretto della violenza coercitiva alla base dei fascismi.66 La minaccia di non ottenere la licenza o vedersela ritirare da un momento all’altro giocò sicuramente un ruolo chiave in tal senso, come abbiamo visto nel caso della Dorland. Tuttavia in altri casi i pubblicitari giunsero addirittura ad accogliere con entusiasmo la nazificazione del settore. Ancora nel 1981 Harry Damrow, ex manager pubblicitario della Hoechst AG (azienda del settore chimico tra le cofondatrici della famigerata IG-Farben), pensò bene di lodare le misure nazionalsocialiste per aver «ristabilito chiarezza, verità e regole giuste […] per tutti i partecipanti», ignorando smaccatamente, anzi negando le persecuzioni subite dai perseguitati razziali e dagli oppositori politici attivi nel settore.67 In Germania, così come in Italia, il controllo dell’industria pubblicitaria portò prima di tutto dei vantaggi economici. La pubblicità rappresentava infatti una preziosa fonte di introiti non solo per la stampa ma anche per le industrie. Stando a Heinrich Hunke, tra il 1934 e il 1938 il volume dei profitti derivanti dalle réclame era aumentato più del doppio: da 47,3 milioni di marchi a 93,5 milioni.68 Dal momento che entro il 1938 i processi di arianizzazione dei media– manifesti, giornali e riviste in primis – così come delle imprese pubblicitarie erano pressoché completi, è chiaro che i principali beneficiari di questo exploit furono le aziende vicine al Partito nazista, inclusa la potente Franz-Eher-Verlag, casa editrice del Mein Kampf e del «Völkischer Beobachter», il cui proprietario Max Amann era anche presidente della Camera della stampa del Reich.69 65. Ciò di norma era vero anche nel caso italiano, cfr. Villani, Confessioni di un persuasore, p. 43 ss. 66. Ebner, Ordinary violence in Mussolini’s Italy, p. 4 ss. 67. Damrow, Ich war kein geheimer Verführer, p. 47. 68. Cfr. Hunke, Der Werberat der deutschen Wirtschaft, p. 19. Tali cifre sembrano gonfiate se si tiene conto del fatto che in quel periodo l’industria dei beni di consumo, principale committente di pubblicità, si era già notevolmente contratta. Tuttavia Hartmut Berghoff conferma che già nel 1936 la cifra degli introiti pubblicitari incamerati dagli uffici pubblicitari interni alle varie industrie si aggirava tra 1 e 1,5 miliardi di marchi – di cui solo 220 milioni erano stati calcolati nei libri contabili del Consiglio pubblicitario, cfr. Berghoff, ‘Times Change and We Change with Them’, p. 132. 69. Cfr. Tavernaro, Der Verlag Hitlers und der NSDAP, pp. 31-81.

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Oltre a escludere dalla professione i perseguitati razziali e politici, il Consiglio pubblicitario promosse dunque lo sviluppo delle imprese “ariane”, il che a sua volta comportò notevoli vantaggi economici per la dirigenza nazista. Ciò è confermato dallo stesso Goebbels, il quale sottolineò più volte quanto il Consiglio pubblicitario favorisse il regime da un punto di vista finanziario, definendolo la «nostra fonte di capitale».70 Il futuro Ministro della propaganda, del resto, conosceva bene questo meccanismo, avendolo impiegato sin dai primi successi del «Völkischer Beobachter», che in un’occasione gli aveva permesso di comprare all’allora fidanzata Magda una Cabriolet all’ultimo grido.71 Le funzioni del Consiglio pubblicitario non si limitavano a costringere nell’indigenza o alla fuga i nemici del regime e a riempire le tasche dei camerati di partito. Nell’introduzione alla sua tesi di laurea del 1938, il giurista Georg Goldmann riassunse così la questione: «Nella sua attività di supervisione del settore della pubblicità commerciale il Consiglio pubblicitario dell’economia tedesca deve adempiere a un compito simile a quello della polizia di stato […], facendo sì che la réclame non urti la sensibilità morale del Volk».72 Questo ruolo di censura e di “germanizzazione” dell’immaginario pubblicitario diventerà uno degli scopi principali del Consiglio, come vedremo. Dietro alla natura più prettamente repressiva di questa istituzione si celavano infatti due obiettivi ancora più ambiziosi: la volontà di trasformare la pubblicità in un meccanismo di consenso, attraverso la promozione di determinati consumi dall’alto significato simbolico, e la necessità di mettere in atto il cosidetto riorientamento dei consumi voluto dal regime nazista. Se ai tempi di Weimar «la réclame non era che una potente arma a vantaggio degli interessi personali, un residuo dell’interpretazione liberista giudea dell’economia […], oggi è uno strumento per stabilire un’influenza controllata […] che miri a un’economia collettiva».73 Lo scopo della pubblicità andava dunque ben oltre l’essere uno «specchio del proprio tempo»: essa costituiva lo strumento più efficace per incidere sulle abitudini di consumo di modo da assicurare il prevalere degli interessi collettivi della Volksgemeinschaft. 70. Goebbels, Die Tagebücher, Teil I, Vol. 2/III, p. 267 (13 settembre 1933) e p. 303 (30 ottobre 1933). 71. Ivi, Teil I, Vol. 2/II, p. 137 (31 ottobre 1931). 72. Goldmann, Der Werberat der deutschen Wirtschaft, p. 5. 73. Citato in Rücker, Wirtschaftswerbung unter dem Nationalsozialismus, p. 66.

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Agli occhi di Goebbels e di Hunke, il Consiglio pubblicitario avrebbe inoltre dovuto assolvere a una funzione normativa della competizione capitalistica e del conflitto sociale, fondamentale per la realizzazione di quella cosiddetta «terza via» tra capitalismo e socialismo propagandata dai fascismi.74 Il suo obiettivo era infatti quello di promuovere il superamento dell’abitudine «degenerata» a perseguire interessi finanziari egoistici. «Per l’economia – proclamò Hunke – la soluzione non sarà farsi pubblicità l’uno contro l’altro, bensì promuovere se stessi e le proprie conquiste. Solo a quel punto morirà il codardo principio morale secondo cui le perdite altrui sono un vantaggio per sé e le proprie perdite un vantaggio altrui».75 Concentrandosi sulla produttività indipendentemente dalla propria estrazione sociale, la lotta di classe si sarebbe così trasformata in una comune ricerca di benessere solo e unicamente per i membri della comunità nazionale, intesa in senso razziale, oltre che politico. È tuttavia importante ricordare che almeno in una prima fase ciò non avrebbe dovuto significare la compressione dei consumi privati, essenziali per la ripresa economica. La questione fu sollevata più volte da Goebbels stesso, che oltre a sottolineare come «ogni bisogno ignorato lascia nuove persone senza il pane quotidiano», ci tenne a specificare che l’idea che non consumare fosse il comportamento a cui dovevano tendere i veri nazionalsocialisti era profondamente sbagliata: «viviamo forse in uno stato pietistico o nell’era del vitale nazionalsocialismo? […] non vogliamo certo mettere da parte la gioia, ma piuttosto lasciarci partecipare più persone possibile. È per questo che incoraggiamo la gente ad andare a teatro e diamo ai lavoratori l’opportunità di mettersi in ghingheri per occasioni speciali».76 Pur ricorrendo spesso e volentieri al concetto di autarchia, soprattutto a partire dal 1936, diverse furono le concezioni che animarono la crociata per l’indipendenza economica della Germania nazista. Se il commercio estero non fu mai escluso del tutto, vista la scarsità di alcune materie prime, man mano che i rapporti produttivi si fecero più sbilanciati si tese a orientarsi sempre più verso l’ampliamento del proprio «spazio vitale» a est, che avrebbe garantito il benessere dei cittadini “ariani” una volta vinta la guerra di conquista. Già nel 1934 Hunke fu alquanto esplicito a riguardo: «Per noi l’autarchia non è mai stata in opposizione al commercio estero. Siamo sempre stati contrari 74. È bene ricordare che il nazismo non aderì mai del tutto al modello corporativista, cfr. Neumann, Inter-war Germany and the corporatist wave, pp. 124-143. 75. Hunke, Die neue Wirtschaftswerbung, p. 40. 76. Citato in Swett, Selling under the Swastika, p. 52.

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all’autarchia nel senso dell’insularità. Tuttavia, abbiamo sempre ritenuto indispensabile, dal punto di vista psicologico e pratico, che il baricentro dell’economia del nostro popolo si trovasse sempre nel nostro territorio».77 Il trauma degli approvvigionamenti alimentari sul fronte interno durante la Prima guerra mondiale aveva giocato un ruolo di spicco nella formulazione di questa politica, come lasciava intendere Hunke, rimarcando la necessità che «l’alimentazione del nostro popolo sia assicurata all’interno dei suoi confini, e che i prodotti alimentari e le materie prime necessarie che non sono disponibili nel nostro paese […] in caso di conflitti – internazionali, sottointeso – vengano acquistati prima di tutto dove si trovano i nostri armamenti».78 Se l’orientamento delle preferenze del consumatore in base a precise necessità politiche ed economiche non rappresentava certo una novità nel 1933, la metodica determinazione con cui i nazisti tentarono di realizzarlo erano tuttavia inedite. Fondamentali a tal fine furono le attività del Comitato del Reich per l’educazione economica popolare (Reichsausschuss für volkswirtschaftliche Aufklärung, RVA), braccio armato del Consiglio pubblicitario, istituito nell’aprile del 1934, che a partire dal 1938 sarà incaricato di occuparsi di tutte le campagne pubblicitarie ed educative previste dal piano quadriennale, inclusa una serie di misure atte a ottimizzare il budget domestico e assicurare l’igiene del Volk.79 Nato dalla fusione tra il Curatorium per i servizi economici nazionali tedeschi e l’Istituto per la propaganda economica tedesca, il Comitato era composto da diverse sezioni, che comprendevano «l’industria dell’abbigliamento e il cibo, incluso quello di lusso e i tabacchi, la sanità e i prodotti per la cura del corpo».80 Nelle parole del direttore pubblicitario della Henkel, produttrice del celebre detersivo Persil, con l’istituzione del Comitato il Consiglio pubblicitario aveva «astutamente creato» un organo che «avrà il compito di educare l’opinione pubblica riguardo gli obiettivi […] delle più autorevoli istituzioni economiche».81 77. Cfr. Teichert, Autarkie und Großraumwirtschaft in Deutschland, p. 223. 78. Ibidem. Sui consumi alimentari nel Terzo Reich cfr. Spiekermann, “Vollkorn für die Führer”, pp. 91-128. 79. Nonostante la sua centralità, la storia del RVA non è ancora stata studiata appieno. Una buona panoramica è offerta, ancora una volta, da Westphal, Werbung im Dritten Reich, p. 141 ss. e Rücker, Wirtschaftswerbung unter dem Nationalsozialismus, pp. 291-293. 80. BArchB, R5002, Reichausschuss für volkswirtschaftliche Aufklärung (d’ora in poi RVA), b. 27, Wirtschaftsgruppen. 81. Die Entwicklung der Waschmittelwerbung, dargestellt am Beispiel der Firma Henkel, II. Teil, «Werben und Verkaufen», 26, n° 10 (1942), p. 377. Sui rapporti tra la Henkel e il RVA cfr. Swett, Selling under the Swastika, pp. 205-218 e 310.

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A possedere la quota maggioritaria del Comitato era la famigerata Cautio,82 fiduciaria anche del Consiglio pubblicitario e dell’ALA, la Società generale per gli annunci – la principale concessionaria di spazi pubblicitari a stampa, che venne accorpata alla Centrale nazionalsocialista per gli annunci (NAZ) a partire dal 1937 – il cui capitale iniziale ammontava a circa 21.000 marchi.83 Per la realizzazione delle sue «azioni educative», come «lavarsi in modo corretto» o «prendersi cura del proprio bucato», il Comitato si affidò a una serie di mostre e conferenze, accompagnate da un gran numero di articoli a mezzo stampa e pamphlets, a cui accostò un uso martellante degli spot cinematografici e radiofonici.84 Le attività del Comitato si articolavano nell’«educazione economica nazionale» e nella «pubblicità collettiva», mentre un’ulteriore sezione si occupava della réclame all’estero. In merito alla pubblicità collettiva, i vertici del Comitato sottolinearono come pur non costituendo «una novità nel campo della réclame commerciale», essa poteva essere attuata al meglio solo ora che «il nazionalsocialismo aveva risvegliato il senso di comunità». Anche per il Comitato la pubblicità avrebbe dunque dovuto rappresentare un’«arma fondamentale» contro lo spirito individualista della «competizione ad ogni costo».85 Oltre alla creazione di campagne collettive e statali, il Comitato ebbe il compito di promuovere una serie di campagne per ottimizzare il ménage domestico, tra cui quelle per la «lotta contro gli sprechi» e l’«educazione domestica», che secondo l’esperto di storia delle comunicazioni Uwe Westphal ottennero buoni risultati.86 La razionalizzazione delle scorte alimentari (e dell’economia domestica più in generale) rivestì fin da subito un’importanza centrale, che assurgerà poi a priorità a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, di pari passo con la progressiva rimilitarizzazione della società tedesca. A tal fine, il Comitato fu dotato di notevoli risorse, che investì nella 82. Cfr. BArchB, R 55, b. 360, Haushalt des Werberats und des RVA. Cfr. anche Ross, Media and the making, pp. 296-297. 83. Cfr. BArchB, Reichausschuss für volkswirtschaftliche Aufklärung, R5002 (d’ora in poi R5002), RVA, b. 27: Wirtschaftsgruppen. Cfr. anche Werkbundarchiv, vari esempi di campagne RVA [in fase di catalogazione]. 84. È bene ricordare nuovamente che la pubblicità era stata bandita dalle trasmissioni radio a partire dal 1935, cfr. in particolare Sennebogen, Zwischen Kommerz und Ideologie, pp. 182-201. 85. Cfr. BArchB, R5002, RVA, b. 27, Wirtschaftsgruppen. 86. Cfr. Westphal, Werbung im Dritten Reich, p. 145 ss.

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promozione di una serie di campagne lanciate a guerra già iniziata.87 Tra queste figurava la «battaglia contro i ratti», per la quale già nel 1941 erano state distribuite all’incirca 6 milioni di brochures in tutto il Reich.88 Le attività del Comitato si rivelarono fondamentali per la diffusione degli imperativi di consumo nazisti, il cui principale bersaglio furono le casalinghe. In un certo senso il Comitato lavorò dunque in parallelo con l’Associazione delle donne naziste, e in particolare con la sua Divisione di economia domestica, che sin dalla sua fondazione aveva promosso la divulgazione di uno «stomaco politico» attraverso una serie di corsi, pamphlets e conferenze culinarie. Come ci ricorda la storica Nancy Reagin, l’«educazione dei consumatori» propugnata dalla Divisione avrebbe dovuto spingere le donne tedesche addirittura a «bollire il pesce alla maniera nazionalsocialista».89 Quanto la maniera nazionalsocialista si discostasse dalle altre non era tuttavia dato sapere. Va ricordato che tali campagne, d’impronta chiaramente repressiva, spesso andarono di pari passo con quelle per i «prodotti popolari», i famigerati Volksprodukte, come la Volkswagen, la radio (Volksempfänger) o perfino il frigorifero (Volkskühlschrank).90 Per quanto questi beni in realtà abbiano potuto esser apprezzati solo da un ristrettissimo numero di consumatori prima della fine della guerra – o pressoché nessuno, come nel caso della famosa Volkswagen, tant’è che lo storico Wolfgang König ha parlato del fallimento della società dei consumi nazionalsocialista – essi svolsero un ruolo di primo piano nel diffondere un’immagine di ritrovata prosperità grazie ad un meccanismo che Hartmut Berghoff ha definito «consumo virtuale», in cui la pubblicità dei beni di consumo avrebbe fatto la parte del leone.91 Tra le molte campagne pubblicitarie collettive ideate dal Comitato, particolare rilievo venne attribuito alla promozione dei prodotti agricoli nazionali. Sia prima che durante la guerra, ad esempio, il «servizio ricette» del Comitato creò una vera e propria miriade di opuscoli e réclame che suggerivano alle donne come eliminare gli sprechi e valorizzare le proprietà nutrizionali delle pietanze utilizzando ortaggi esclusivamente te87. Cfr. BArchB, R5002, RVA, b. 27, Wirtschaftsgruppen e R 55, b. 942, RVA, Zuschüsse zu einzelnen Aktionen, Rattenbekämpfung 1941-43. 88. Aus dem Werbeschaffen 1941, «Werben und Verkaufen», 26, n° 1 (1942), p. 21. 89. Reagin, Comparing Apples and Oranges, pp. 256-258. 90. Cfr. König, Volkswagen, Volksempfänger, Volksgemeinschaft, pp. 10-12 e Tooze, The Wages of Destruction, pp. 147-161. 91. Berghoff, Enticement and Deprivation, pp. 165-184.

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deschi.92 Stando a Hunke, entro lo scoppio della guerra «circa 60 milioni di ricettari erano stati pubblicati e distribuiti dalle organizzazioni competenti, soprattutto attraverso il commercio alimentare al dettaglio […], godendo di un’incredibile popolarità tra le casalinghe».93 Resta da vedere quanto le donne tedesche fossero effettivamente entusiaste di queste crociate. La Germania nazista non fu la prima né l’unica a lanciarsi in simili iniziative – basti pensare alle campagne buy British della Grande Depressione, o ancor prima a quelle per il consumo del latte e altri prodotti alimentari durante la Prima guerra mondiale.94 Se gli appelli in favore dei prodotti nazionali non costituivano affatto una novità per le donne tedesche, dunque, di certo lo fu la vastissima scala con la quale il regime tentò di imporli alla popolazione.95 Stando a Hunke, nei pochi mesi tra l’inizio del conflitto e il febbraio 1940 il «servizio ricette» aveva già distribuito all’incirca 10 milioni di pamphlet finalizzati al «raggiungimento di una nutrizione efficace ed economica».96 In merito, il «Werben und Verkaufen» – erede della «Seidels-Reklame», trasformata nell’organo della Lega delle aziende attive in pubblicità del Reich nel 1935 – commentava: «Il dettagliato servizio ricette del RVA offre alla casalinga consigli preziosi su come stilare una lista della spesa non solo ricca ma anche variegata e nutriente, persino durante la guerra».97 In molti casi tuttavia il successo delle campagne del Comitato fu probabilmente dovuto alla realtà dei razionamenti piuttosto che all’effettivo sviluppo di quello «stomaco politico» tanto desiderato dal Consiglio pubblicitario.98 Con il protrarsi della guerra, le attività del Comitato si concentreranno sempre più su operazioni di propaganda ideate per celare il sempre più drastico contenimento del consumo privato a favore dello sforzo bellico.99 92. Sulla funzione propagandistica dei ricettari nel contesto delle battaglie per il grano e per le nascite cfr. Garvin, Fascist foodways, pp. 111-134. 93. Hunke, Der Werberat der deutschen Wirtschaft, p. 51. 94. Cfr. Reinhardt, Von der Reklame zum Marketing, pp. 148-168; cfr. anche Trentmann, Bread, milk and democracy, pp. 129-164, e Kühschelm, Buy National Campaigns, pp. 79-95. 95. Cfr. Reagin, Comparing Apples and Oranges, p. 260. 96. Hunke, Der Werberat der deutschen Wirtschaft, p. 52. 97. Aus dem Werbeschaffen 1941, p. 23. 98. Sui consumi alimentari in guerra cfr. Corni e Gies, Brot, Butter, Kanonen, pp. 397498 e Schanetzky, «Kanonen statt Butter», p. 197 ss. Per una prospettiva globale comparata cfr. The consumer on the home front, pp. 3-28. 99. Cfr. in particolare Berghoff, Von der „Reklame‟ zur Verbrauchslenkung, pp. 83-112.

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Oltre a fornire al regime uno degli strumenti più efficaci per silenziare la stampa d’opposizione e finanziare la propria, il Consiglio pubblicitario dell’economia tedesca e le istituzioni ad esso legate – quali la NSRDW e il RVA – si dimostrarono dunque particolarmente efficaci nel mettere in atto la progressiva estromissione di ebrei, socialisti, comunisti e altri “nemici” del regime dall’industria pubblicitaria. Decisamente meno immediati saranno invece i risultati della crociata per la nazionalizzazione dei contenuti e dell’immaginario pubblicitario. In tale quadro è bene ricordare che i modelli diffusi dalla pubblicità nell’arco degli anni Trenta, benché spesso intrisi di slogan propagandistici, non rigettarono mai la nascente cultura dei consumi in sé e per sé. Al contrario, promuovere i consumi, reali o virtuali che fossero, divenne un obiettivo condiviso tanto dai regimi quanto dai pubblicitari poiché prometteva il raggiungimento di un certo livello di consenso da un lato e del tanto agognato riconoscimento professionale dall’altro. Nella loro retorica produttivistica e autarchica, i fautori della propaganda nazista mostrarono una notevole somiglianza con i loro omologhi fascisti, i quali tuttavia si dimostrarono assai meno capaci di metterne in pratica i dettami. 3. «La Pubblicità d’Italia»: l’istituzionalizzazione fascista della réclame Il 23 marzo 1936, quattro mesi dopo l’imposizione delle sanzioni da parte della Società delle Nazioni a seguito della brutale aggressione all’Etiopia, nel corso dell’assemblea delle Corporazioni al Campidoglio Mussolini inaugurò quella che sarebbe diventata forse la più ambiziosa – e disastrosa – crociata del fascismo in campo economico: «raggiungere nel minor tempo possibile il massimo dell’autonomia nella vita economica della nazione». Cominciò così la fase autarchica del Ventennio, che avrebbe assicurato notevoli guadagni ad alcune imprese italiane ma che significò soprattutto privazioni e miseria per la stragrande maggioranza della popolazione, culminando infine nel disastro della Seconda guerra mondiale. Al contrario del nazismo, nel suo primo decennio il regime fascista aveva portato avanti una politica alquanto frammentaria e prevalentemente repressiva nei confronti dell’industria pubblicitaria, indirizzata a due obiettivi principali: da un lato eliminare le pubblicazioni, agenzie o concessionarie che non si conformassero ai diktat del regime, nel caso non fossero già state distrutte fisicamente dagli squadristi; dall’altro lato assicurare il

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prosperare delle pubblicazioni favorevoli al regime grazie all’afflusso degli introiti pubblicitari.100 Fu nella prima metà degli anni Trenta, spronato dall’esempio nazista e dal crescente isolamento internazionale in cui si era costretto, che il regime si lanciò alla conquista della pubblicità per trasformarla in strumento funzionale alla nuova crociata autarchica. Agli occhi di entrambi i regimi la pubblicità commerciale si presentava come il medium ideale per diffondere la propaganda autarchica per due motivi. Prima di tutto, in virtù della sua capacità di rivolgersi agli italiani e ai tedeschi non soltanto in qualità di membri della comunità nazionale (intesa anche in senso razziale), ma anche in quanto consumatori, nella loro sfera privata e quotidiana. Anziché trattarli con condiscendenza dall’alto, come usava fare la propaganda, la réclame faceva leva su aspirazioni e interessi personali. Questa interpretazione era condivisa da Giorgio Pini, redattore capo de «Il Popolo d’Italia», che ancora all’inizio della Seconda guerra mondiale sottolineava come fosse necessario ideare «una pubblicità magari indiretta, ma appunto perciò più persuasiva ed efficace sulle masse […], una pubblicità […] che costituisca il passaggio dalle esortazioni politiche e teoriche alla dimostrazione della pratica convenienza di determinati consumi».101 Forte di appelli modulati in base a fattori socio-economici e identitari variabili, che facevano leva su specifici bisogni materiali, la pubblicità si presentava inoltre come particolarmente adatta a suscitare la partecipazione attiva di diversi strati di popolazione, condizione imprescindibile per il perseguimento dell’autarchia. Una trasformazione così radicale delle abitudini quotidiane di consumo non sarebbe infatti stata conseguibile mediante un’adesione puramente passiva alle coercizioni del regime, bensì avrebbe comportato una mobilitazione totale dei sudditi del nuovo impero. Anche in questo caso le esortazioni di Pini si rivelavano alquanto indicative: «l’incompatibilità e la reciproca ignoranza impediscono il successo non soltanto […] nell’amore, ma anche nel commercio. Senza pubblicità niente successo! Orbene, come il successo dello sforzo autarchico è indispensabile alla Nazione, così la pubblicità è indispensabile ai prodotti ed ai servizi autarchici».102 Dello stesso avviso era Rino Alessi, direttore de «Il Piccolo» di Trieste, che nel sottolineare la funzione cruciale della pubblicità nella visione 100. Cfr. anche Gaudenzi, Press Advertising and Fascist Dictates, pp. 663-680. 101. Pini, Funzione autarchica della propaganda collettiva, p. 26-II. 102. Ibidem.

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fascista rilevava come essa era «divenuta parte integrante del giornale, non tanto per il sussidio finanziario che essa rappresenta, ma per l’opera di propaganda che svolge: opera di propaganda spesso geniale, che piace al pubblico perché esercita su di esso una vera e propria suggestione benefica». A dir suo, ciò era vero soprattutto nel caso dei regimi autoritari, nei quali la stampa aveva «superato felicemente la crisi da un eccesso di libertà» ed era «morta la fungaia dei giornali inutili e dannosi», come Alessi definì qualsiasi pubblicazione che aveva osato opporsi al fascismo. Ciò risultava evidente «specialmente nella parte pubblicitaria, che in fondo rispecchia […] vita, abitudini, costumi di un paese quanto la parte strettamente politica».103 Il fine primario di tale «suggestione benefica» era un significativo aumento dei consumi, a patto che ciò implicasse la promozione di prodotti nazionali e la riduzione dell’acquisto di prodotti esteri. Come ricordava Pini ancora nel 1938, «perché lo sforzo autarchico trovi il suo premio, occorre suscitare, favorire un aumento del consumo […]. Ciò non potrà ottenersi altrimenti che con la pubblicità».104 La capacità della pubblicità di «aumentare il consumo […] crea[ndo] nuovi bisogni od accresce[ndo] i preesistenti» assunse dunque una rilevanza vitale per la realizzazione della Weltanschauung fascista.105 La crociata per l’autarchia si rivelò fondamentale nello spronare la tanto vagheggiata istituzionalizzazione del settore pubblicitario. A differenza della Germania nazista e nonostante le ripetute richieste da parte di alcuni settori della pubblicità italiana, la dittatura fascista non creò mai un organo simile, foss’anche a livello di funzioni, al Consiglio pubblicitario nazista. Sulla spinta della campagna autarchica e dell’ascendente nazionalsocialista, il regime italiano si riorientò tuttavia verso una progressiva riorganizzazione della réclame finalizzata a esercitare forme di controllo sempre più rigide sul settore. Fin dai primi anni di governo Mussolini aveva dedicato notevole attenzione alla rassegna quotidiana della stampa. Stando alle memorie del suo factotum Quinto Navarra, raccolte da Indro Montanelli e Leo Longanesi dopo la guerra, Mussolini non si limitava ai contenuti editoriali ma includeva nella sua disamina anche gli annunci pubblicitari, elogiandone, in rarissimi casi, lo «spirito nazionale», come 103. Rino Alessi, Pubblicità nel clima fascista, «La Pubblicità d’Italia», 3, n° 17-18 (1939), p. I-IV [44 e ss]. 104. Giorgio Pini, Corporazioni, autarchia e pubblicità collettiva, «La Pubblicità d’Ita­ lia», 2, n° 11-12 (1938), p. 8. 105. Pini, Funzione autarchica della propaganda collettiva, p. 26-II.

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nel caso di una pubblicità del dicembre 1935 che specificava che «due etti dell’italianissimo Robbiola di Robbio nutrono più di una bistecca straniera», o molto più frequentemente dando in escandescenze qualora notasse annunci non confacenti al suo ideale di società totalitaria – ad esempio il manifesto pubblicitario di un celebre ristorante del quartiere ebraico di Roma, sul quale troneggiava un enorme carciofo alla giudìa.106 Lo stesso valeva per pubblicità e imprese che si servivano di rimandi alla simbologia e all’ideologia fascista a fini commerciali, come il burro Vittoria, pubblicizzato attraverso l’immagine di un enorme panettone che veniva sparato da un cannone.107 Ancora nell’ottobre del 1939 le veline vietavano di «pubblicare la pubblicità di Ditte che denominano “Impero” i loro prodotti», come il burro Impero, pubblicizzato su «La donna fascista» come «superbo prodotto dell’agro romano», o il digestivo Impero.108 Al di là delle intemperanze di Mussolini, il monitoraggio sistematico delle réclame e la loro eventuale censura inizialmente non vennero centralizzati, bensì rimasero appannaggio di diverse istituzioni, generando un costante conflitto di competenze. Tanto i pubblicitari quanto i media venivano subissati da una miriade di disposizioni a volte in palese contraddizione l’una con l’altra, che rispecchiavano gli interessi di tre principali e distinte istituzioni: l’Ufficio stampa di Mussolini (trasformato in Sottosegretariato per la stampa e la propaganda, poi Ministero, nel 1934 e, infine, nel famigerato Minculpop, nel 1937), il Ministero delle corporazioni e la Federazione nazionale fascista degli ausiliari del commercio (a cui subentrerà il Sindacato nazionale fascista agenzie e case di pubblicità a partire dal 1936).109 Come se non bastasse, anche alcuni esponenti della stampa fascista e del PNF ambivano al controllo di quella che, a ragione, consideravano un’ingente fonte di introiti dal grande potenziale propagandistico. Queste lotte per l’egemonia vennero parzialmente superate a partire dalla 106. Navarra, Memorie del cameriere di Mussolini, pp. 201, 203. Cfr. anche FalascaZamponi, Fascist spectacle, pp. 125-147. 107. Ivi, p. 202. 108. Cfr. diversi numeri de «La donna fascista» (1935), p. 12. Cfr. anche Cassero, Le veline del Duce, p. 38. 109. Il Sottosegretariato di Stato per la Stampa e la Propaganda venne creato il 6 settembre 1934 con il Regio decreto n° 1434. Negli anni successivi venne trasformato nel Ministero per la stampa e la propaganda con il Regio decreto del 24 giugno 1935, n° 1009. Il Ministero per la cultura popolare venne invece istituito con il Rd. n° 732 del 27 maggio 1937, cfr. Ferrara, Il Ministero della cultura popolare.

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metà degli anni Trenta, quando la pubblicità divenne sempre più competenza del Sottosegretariato per la stampa, che ogni giorno inondava le sedi dei giornali e le concessionarie con «note di servizio» su cosa pubblicare e cosa censurare, poi passate alla storia come le famose «veline». Come Nicola Tranfaglia e altri hanno sottolineato, le veline toccavano un profluvio di tematiche, dalle più delicate a quelle pressoché irrilevanti, nell’ossessivo tentativo di ritrarre l’Italia fascista nella miglior luce possibile.110 Questo tuttavia non significò che i conflitti fra organi competenti venissero meno, soprattutto per quel che riguarda la stampa di partito (che rientrava nelle competenze del PNF) e la censura, dal momento che il Ministero era costretto a ricorrere alla pubblica sicurezza per garantire la confisca o la soppressione di campagne e media indesiderati. Il problema venne risolto nell’ottobre del 1935 con l’ottenimento della facoltà di sequestrare qualsiasi materiale ritenuto contrario ai «princìpi politici e sociali, all’ordine pubblico e al decoro».111 Mentre agenzie, riviste e associazioni come il GAR, il Gruppo Amici della Razionalizzazione, venivano sorvegliate da polizia e informatori, incaricati di sincerarsi della loro «buona condotta politica e morale», un diluvio di veline si fece dunque carico di evitare che immagini non confacenti allo spirito fascista apparissero su pubblicazioni e pubblicità varie. Per quel che riguarda i professionisti, a lungo collocati nella sezione “Agenzie e case di pubblicità” della Federazione nazionale fascista degli ausiliari del commercio, furono infine inquadrati nel Sindacato nazionale fascista agenzie e case di pubblicità, costituito nel gennaio del 1936 e ratificato dal Ministero delle corporazioni nel marzo del 1937.112 Al Sindacato si affiancavano una serie di altri enti dello stato corporativo che rispecchiavano la pluralità di mestieri presente nel campo pubblicitario, come la Confederazione dell’industria grafica e affini o quella dei professionisti e degli artisti, tra cui figurava il noto grafico pubblicitario Federico Seneca.113 A differenza di quanto accadde in Germania, l’irreggimentazione professionale si dipanò in modo lento e a volte contraddittorio. Questo non significò tuttavia che la repressione fu meno brutale o capillare, basti pensare al già citato caso dei professionisti che animarono il GAR. La 110. Cfr. Tranfaglia, La stampa del regime, pp. 93-160. 111. Leggi dello Stato di Polizia, Art. 112, cfr. Ferrara, Il Ministero della cultura popolare, p. 57. 112. Cfr. Di Jorio, Pubblicità e propaganda, p. 215. 113. Cfr. Congresso internazionale della pubblicità, p. 51.

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creazione del Sindacato rappresentò un passo ulteriore nel percorso di radicalizzazione del settore pubblicitario, svolgendo un’azione non dissimile da quella del Consiglio pubblicitario e della NSRDW, ossia imponendo l’adesione obbligatoria per tutti i professionisti attivi in pubblicità. Questo «inquadramento e la moralizzazione della Categoria» furono messi in atto «presta[ndo] particolare attenzione al problema delle istruzioni e dei princìpi morali da fornire a tutta la categoria» al fine di «giungere al più presto e fascisticamente all’epurazione del nostro ambiente».114 È fondamentale ricordare che questa epurazione comprese anche i pubblicitari di origine ebraica, che a partire dalle Leggi razziali del 193839 verranno estromessi da tutti gli impieghi statali e da una parte cospicua delle imprese, degli esercizi commerciali e delle libere professioni.115 I numeri parziali, come sottolinea Ilaria Pavan, «parlano di 1.063 ditte ebraiche, soprattutto esercizi commerciali, ma anche piccole imprese e banche private, costretti a cessare, a vendere o liquidare l’attività entro la primavera del 1943».116 La natura multiforme dell’industria pubblicitaria – che ai tempi spaziava dai pubblicitari fai da te o i piccoli atelier di grafica alle concessionarie e a un ristrettissimo numero di agenzie fino alle società collettive o anonime – rende tuttavia difficile stabilire con certezza l’entità e le modalità dell’estromissione dei pubblicitari perseguitati dalla legislazione antisemita. Per quel che riguarda le aziende con manodopera superiore ai 99 dipendenti, la cui cessione forzata fu sancita dal decreto legge n.126 del 9 febbraio 1939, le liste non includevano imprese pubblicitarie (che ai tempi erano di dimensioni decisamente modeste), ma segnalarono un’impresa di arti grafiche, la Calcografia Carte Valori srl di Milano, che almeno in una prima fase fu tuttavia risparmiata grazie al procedimento di discriminazione del suo proprietario.117 La maggior parte delle aziende pubblicitarie fu invece interessata dalla legislazione riguardante le piccole e medie imprese. Come ricostruito da Michele Sarfatti, per le attività considerate atti di commercio secondo il codice del 1882 – incluse «le imprese di commissioni, di agenzie e di uffizi di affari», così come «le operazioni di mediazione»118 – 114. Pubblicità e Propaganda, p. 31. 115. Cfr. Pavan, Le conseguenze economiche delle leggi razziali, pp. 64-76. 116. Ivi, p. 13. 117. Commissione Anselmi, Rapporto generale, pp. 327-328. 118. Art. 3, Codice di commercio pel Regno d’Italia, annesso alla Legge del 2 aprile 1882, n° 681 (serie 3), supplemento al n° 86 della «Gazzetta ufficiale», 11 aprile 1882, p. 1.

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valevano una serie di divieti emanati dalla polizia di stato tra il 1938 e il 1942, che in genere furono attuati attraverso il mancato rilascio delle licenze amministrative.119 Nel caso di molti uffici pubblicità interni alle aziende produttrici, invece, l’epurazione venne probabilmente messa in atto attraverso i fasci aziendali. Oltre a questi provvedimenti, integrati da circa 200 circolari emanate tra il 1938 e il 1943,120 la pronta estromissione dei perseguitati razziali fu messa in atto dotando i datori di lavoro di una serie di strumenti di pressione “indiretta”, come la minaccia della revoca di concessioni e appalti a società non azionarie in cui figurassero cittadini ebrei fra i soci.121 A ciò si aggiunsero una serie di iniziative locali o private, come nel caso della Perugina, che nell’aprile 1939 richiese alle autorità un’attestazione di “arianità” per i propri amministratori.122 Con il decreto legislativo n. 2 del 4 gennaio del 1944 emanato dalla RSI sarà infine imposto il divieto di possedere o gestire qualsiasi azienda, di qualunque natura, anche se discriminate, sancendone la confisca a favore dello stato.123 Per quel che riguarda le società, invece, nel novembre del 1939 fu vietata la costituzione di società tra professionisti di origine ebraica.124 L’esclusione dalle società per azioni prevista da una bozza del famigerato decreto n. 1728 del 17 novembre 1938 – che sancì l’espulsione da tutta la pubblica amministrazione, le imprese parastatali, il PNF e le sue organizzazioni, le banche e le imprese di assicurazione – fu invece accantonata per l’intervento del Ministero delle finanze, probabilmente a causa della mancanza della nominatività dei titoli azionari, che verrà introdotta nel 1942.125 Ciò non impedì tuttavia di assicurare l’arianizzazione di queste società attraverso il licenziamento o la fuga, come vedremo, o con una serie di intimidazioni che a volte iniziarono già nel 1936. Nel caso del pioniere Emilio Grego, ad esempio, Irene Di Jorio ricorda che a partire dalla metà degli anni Trenta i suoi lavori persero completamente di visibilità, e il figlio Adriano, redattore de «Il Giornale di Genova» e possibile collaboratore de «Il Popolo d’Italia», fu scartato su ordine di Mussolini nel 119. Commissione Anselmi, Rapporto generale, pp. 307-308. 120. Cfr. Pavan, Le conseguenze economiche delle Leggi razziali, p. 14. 121. Prevista dal rdl n° 126, cfr. Commissione Anselmi, Rapporto generale, p. 74. 122. Ibidem. 123. Cfr. Pavan, Le conseguenze economiche delle Leggi razziali, p. 114 ss. 124. Cfr. Commissione Anselmi, Rapporto generale, p. 308. 125. Ivi, pp. 324-325, 332.

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dicembre del 1936, perché il duce «non voleva ebrei sulla prima pagina del giornale».126 Come illustrato da Pavan, l’emarginazione si rivelò particolarmente efficace nel caso delle libere professioni, in quanto si coniugò spesso con la volontà da parte dei colleghi “ariani” di eliminare la concorrenza.127 Dal momento che i tecnici pubblicitari non facevano riferimento a un unico albo professionale, essi furono toccati da una serie di altre disposizioni. Dall’estate del 1939, ad esempio, fu disposto che i cittadini di origine ebraica che esercitavano professioni quali quella di procuratore, esercente in economia e commercio o ragioniere fossero ripartiti in due gruppi, discriminati e non discriminati, e che questi ultimi avrebbero potuto esercitare la professione solo a favore di altri perseguitati.128 È ipotizzabile che i tecnici e gli artisti pubblicitari iscritti al Sindacato e alle altre Federazioni furono epurati entro l’estate del 1939, mentre già per il marzo di quell’anno era stata prevista l’espulsione dall’Italia dei circa 8.000 ebrei stranieri arrivati in Italia dopo il 1919.129 Tra questi figura anche un altro dei pubblicitari di origine ebraica che risulta fossero attivi nel settore – spesso nella veste di grafici – in quegli anni: Saul Steinberg. Futuro illustratore del «New Yorker», Steinberg arrivò a Milano nel 1933 per studiare architettura, laureandosi poi nel 1940. Stando all’esperta di design Ilaria Valente, fino al 1938 illustrò periodici come «Bertoldo» e «Il Settebello» e diverse pubblicità, per poi fuggire nella Repubblica Dominicana nel 1941, dopo essere stato recluso a San Vittore e internato a Tortoreto.130 Il già menzionato Xanti Schawinsky, collaboratore dello Studio Boggeri e creatore del celebre manifesto per il plebiscito del 1934, aveva invece lasciato l’Italia per gli Stati Uniti già nel 1936. È dunque plausibile presupporre che entro il 1942 i perseguitati razziali fossero stati esclusi quasi del tutto dal mestiere pubblicitario. Nel 1942 Gino Bondanini poté dunque annunciare la piena fascistizzazione del Sindacato, di cui era presidente.131 Ex fondatore del fascio democratico interventista e schedato come socialista, Bondanini rappresenta un ottimo esempio di quella classe di liberi professionisti allontanati dal loro mestie126. Di Jorio, La nascita di un pubblicitario, p. 114. 127. Pavan, Le conseguenze economiche delle Leggi razziali, p. 76. 128. Ivi, p. 74. 129. Cfr. Commissione Anselmi, Rapporto generale, p. 68. 130. Cfr. Valente, Saul Steinberg a Milano, pp. 91-92. 131. Cfr. Pubblicità e Propaganda, p. 31.

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re a causa delle loro precedenti posizioni politiche, che dopo aver trovato iniziale rifugio nell’attività pubblicitaria riuscirono addirittura a scalare i vertici delle organizzazioni fasciste.132 Oltre a presiedere il Sindacato, Bondanini dirigeva l’ufficio di Torino dell’UPI,133 che dopo la guerra verrà poi trasformata nella Società per la Pubblicità in Italia (SPI). L’esempio forse più tangibile della centralità ora attribuita alla pubblicità dalle gerarchie fasciste fu la creazione della rivista di settore più patinata di quegli anni, il mensile «La Pubblicità d’Italia», dato alle stampe a partire dal 1936. Organo del neonato Sindacato nazionale fascista agenzie e case di pubblicità, il periodico annoverava nella sua redazione gerarchi del calibro di Alessandro Pavolini, futuro Ministro della cultura popolare, e Roberto Farinacci, irriducibile antisemita e segretario del PNF, nonché giornalisti come il già menzionato Giorgio Pini e Ermanno Amicucci, allora direttore de «La Gazzetta del Popolo». Concepita con lo scopo di galvanizzare gli sforzi a favore della crociata autarchica, la rivista si fece portavoce dell’esaltazione delle campagne collettive e per il prodotto nazionale attraverso l’uso delle moderne tecniche pubblicitarie, posizionandosi in più o meno palese competizione con «L’Ufficio moderno».134 La rivista, concepita come vetrina della pubblicità italiana fascista, fu dotata di fondi considerevoli: ben 50.000 lire annue – cifra di tutto rispetto se si considera che nel 1935 lo stipendio mensile di un ragioniere era di 600-700 lire – che danno la misura della rilevanza ora attribuita al settore dal Minculpop.135 Rivista di prestigio, a cominciare dalla veste grafica e dalle immagini dai colori sgargianti in quadricromia, il mensile si prodigò per offrire un’ampia e variegata panoramica delle più recenti conquiste pubblicitarie anche dopo l’entrata in guerra dell’Italia e fino al 1942. «La Pubblicità d’Italia» proponeva un’accattivante commistione di articoli tecnici, inframmezzata di editoriali più marcatamente ideologizzati e arricchita da un’ampia sezione grafica che illustrava le ultime campagne prodotte dall’“insigne tradizione pubblicitaria italiana”. La rivista non propugnò mai l’austerità ma piuttosto mirava a incoraggiare i consumi con ogni mezzo, seppur in senso esclusivamente nazionalistico. Il mensile as132. Cfr. ACS, MI-CPC, b. 719, f. B13767. 133. Cfr. ASCCIAAMi, Registro delle ditte 1958, b. 331, Unione Pubblicità Italiana. Cfr. Pesavento, Paolieri, Chi è in pubblicità, p. 31. 134. Cfr. Roberto Farinacci, «La Pubblicità d’Italia», 5, n° 43-46 (1941), senza numero di pagina. 135. Cfr. Di Jorio, Pubblicità e propaganda, p. 226.

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somigliava molto a omologhe riviste di settore naziste quali «Die Deutsche Werbung» e «Werben und Verkaufen», e costituì uno dei principali terreni di scambio attraverso i quali i pubblicitari dei due paesi poterono confrontarsi e influenzarsi a vicenda. Nella pratica, tale politica di incremento dei consumi spesso prese le forme di una draconiana guida al consumo di alimenti italiani o di surrogati, molto simile alle campagne per il consumo di prodotti tedeschi e sostitutivi (i cosiddetti Ersatzprodukte) della Germania nazista. Lampante è l’esempio delle fibre sintetiche, tra cui spiccavano i prodotti della Snia Viscosa come la Sniafiocco, pubblicizzata come «il tessile dell’indipendenza», e il Lanital, lana sintetica derivata dalla caseina, per la quale Marinetti scrisse i «poemi industriali», tra cui «il poema del vestito di latte» o «il poema di Torre Viscosa».136 Famose furono anche le campagne pubblicitarie per il consumo del riso, sostituto nostrano della pasta, che a detta di Alessi furono talmente efficaci da dover «sospendere la propaganda svolta a suo tempo dall’Ente Risi».137 Come ha sottolineato Emanuela Scarpellini, per molti aspetti la tanto propagandata battaglia per l’autarchia non fece che dare una patina politica alla linea protezionistica adottata dal regime già negli anni Venti.138 Ciò non toglie che con il lancio dell’autarchia il regime iniziò a fare un uso massiccio di tecniche e campagne pubblicitarie. Questa tendenza si manifestò soprattutto nelle pubblicità collettive per i prodotti nostrani – riso, frutta e verdura e latticini in particolare – e per i famigerati surrogati. Tra questi si ricordano, oltre alle fibre sintetiche, il «cioccolato autarchico» – un impasto di farina di carrube, nocciole, olio e miele dovuto alla scarsità di cacao, che dopo la guerra ispirerà la nascita della famosa Nutella – e naturalmente i vari sostituti del caffè, come il Caffeol, pubblicizzato da Boccasile già nel 1930, o il caffè di cicoria, ma anche altri rimpiazzi, come una miscela di polveri di radici amare, cereali e fichi tostati, o ancora i vinaccioli d’uva lasciati a bagno e poi tostati e macinati, “prelibatezze” che spinsero i clienti dei bar a ordinare il «caffè-caffè» onde evitare che venisse propinata loro una di queste misture.139 136. Cfr. Codeluppi, Storia della pubblicità italiana, p. 52; Orsi, L’evoluzione della Snia Viscosa, pp. 39-45. 137. Alessi, Pubblicità nel clima fascista, p. IV [48]. 138. Cfr. Scarpellini, L’Italia dei consumi, p. 91. 139. Cfr. Falabrino, Effimera & bella, p. 118, Mondani, La cucina del Ventennio; Id., Dal pane nero al pane bianco.

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In maniera non dissimile dalla Germania nazista, anche se con mezzi più modesti, una valanga di manuali, pubblicità e articoli sulle maggiori riviste femminili e sui grandi periodici invase le case degli italiani (o meglio delle italiane) con consigli e indicazioni su come fare della parsimonia un valore civico, e assicurare il sostentamento della “prole fascista” attraverso l’uso di “sani prodotti italici”. Tra questi già nel 1932 si era distinta «La cucina futurista» di Marinetti, una colorata «risposta ai difensori della pastasciutta» che descriveva «i pasti meno costosi e più rallegranti».140 Nel 1935 il Decalogo delle donne italiane, un libretto tascabile distribuito alle veneziane, consigliava di rinunciare alla carne il martedì e il mercoledì,141 mentre a partire dall’anno successivo il Ministero per la stampa e la propaganda istruì la carta stampata affinché pubblicasse articoli che consigliavano di limitare il consumo di carne durante l’estate, mentre vari editoriali sottolineavano come «l’eccesso dell’alimentazione carnea è anch’esso una moda straniera contraria alle esigenze del nostro clima».142 La veemente esaltazione dei prodotti nazionali venne presto assorbita dalle aziende pubbliche e private, dando luogo a un vero e proprio fenomeno di italianizzazione e romanizzazione dei richiami pubblicitari, infarciti ora di costanti riferimenti patriottici e all’autarchia o alla gloria dell’impero, come nel caso della «matita italiana di qualità» della Fratelli Fila (fig. 1), definitasi «una compagnia granitica di forze e di capacità al servizio della Patria fascista», ma anche dell’Ala Littoria, «la linea dell’impero», della benzina Victoria, «la benzina degli italiani», del «supercarburante Littoria» dell’Azienda Generale Italiana Petroli (AGIP) o ancora delle «italianissime sigarette Principe di Piemonte», senza dimenticare i quadri romani e patriottici dipinti da Sironi per la FIAT.143 Tale enfasi sull’acquisto di prodotti nazionali non costituiva una novità in sé e per sé, ma nel contesto della dittatura fascista sortì l’effetto di trasformare le pratiche di consumo (nazionalista, sia ben inteso) in attività fondamentali per il progredire della nazione fascista, dando vita a quello che Scarpellini ha definito come «uno spazio di consumo nazionale» e contribuendo in maniera non indifferente a preparare il terreno per il 140. Cfr. Marinetti, Fillìa, La cucina futurista. 141. Cfr. Ferris, “Fare di ogni famiglia italiana un fortilizio”, p. 122. 142. Ottaviani, Il controllo della pubblicità, p. 37; Biondi, La fabbrica del Duce, p. 273. 143. Cfr. Codeluppi, Storia della pubblicità italiana, p. 75; Falabrino, Effimera & bella, p. 131.

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cosiddetto miracolo economico del Dopoguerra.144 L’Organizzazione Nazionale Dopolavoro (OND) giocò un ruolo di spicco in questo quadro. Nel tentativo di aggirare le limitate capacità di consumo dell’Italia di quegli anni, l’OND incoraggiò una fruizione collettiva di beni ai quali la stragrande maggioranza degli individui non avevano ancora avuto accesso, come ad esempio la radio, i trasporti extra-urbani o le prime vacanze “di massa”, dando vita a quei momenti ricreativi inquadrati nell’ambito dell’associazionismo fascista riassunti da Stefano Cavazza con il concetto di «tempo libero di stato».145 L’Italia del Dopolavoro fascista costituì un importante punto di riferimento per la Germania nazionalsocialista, che ne emulò l’istituzionalizzazione del tempo libero e dei consumi collettivi, spingendosi tuttavia oltre, come evidenziato dalla pronta nazificazione del settore pubblicitario –a sua volta di notevole ispirazione per le gerarchie fasciste. Il campo pubblicitario costituì uno degli ambiti in cui lo scambio e le reciproche influenze tra i fascismi iniziarono ad affermarsi già pochi mesi dopo l’ascesa al potere di Hitler. Già nel 1933 «Die Deutsche Werbung» aveva pubblicato un articolo sull’organizzazione professionale dei pubblicitari italiani, sottolineando le profonde differenze socio-economiche tra i due paesi ma esortando i propri connazionali a non perdere l’occasione di prendere spunto dall’esperienza fascista. «Malgrado le molte analogie presenti sia in termini d’ideali che pratici, è bene essere consapevoli delle profonde differenze tra le situazioni economiche» dei due paesi, puntualizzava la rivista. «Un’accettazione acritica [del modello italiano] da parte della Germania […] non è pertanto auspicabile; al tempo stesso il non prendere in considerazione le opportunità qui offerte costituirebbe una deprecabile negligenza».146 Ampiamente discussa nelle riviste e nelle pubblicazioni di settore italiane, la riorganizzazione nazionalsocialista della pubblicità commerciale divenne uno dei principali punti di riferimento per molti pubblicitari e propagandisti italiani già a partire dal Congresso del 1933. Ciò avvenne per due motivi principali: da un lato per la tanto ambita istituzionalizzazione 144. Scarpellini, L’Italia dei consumi, p. 93. 145. Cavazza, Dimensione massa, p. 254. Più in generale sulle vacanze e il tempo libero cfr. Berrino, Storia del turismo in Italia, pp. 201-238, soprattutto 227-230 e Tonelli, Tempo libero e turismo, pp. 216-222. Cfr. anche Battilani, La spiaggia come luogo di produzione e di consumo, pp. 11-45. 146. Ernst Barth, Die berufsständische Organisation der Werbefachleute in Italien, «Die Deutsche Werbung», 26 (1933), pp. 396-400.

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del mestiere pubblicitario messa in atto dai nazisti già nel settembre del 1933, dall’altro per l’opera di rielaborazione in chiave autoritaria delle più moderne tecniche pubblicitarie proposta dal Consiglio pubblicitario e dai suoi affiliati nei mesi successivi. Questa tendenza si intensificherà notevolmente con la proclamazione dell’Asse Roma-Berlino del 1936 e il progressivo intersecarsi delle réclame dei due paesi fino a giungere all’istituzione del Comitato italo-germanico per la pubblicità nel 1941. Dal 1936 in poi, il Ministero per la stampa, poi Minculpop, fece sempre più spesso riferimento alla Germania nazista in materia di legislazione pubblicitaria. Lo stesso avvenne con una serie di opere commissionate dall’ala che faceva riferimento all’allora Ministro delle corporazioni, Giuseppe Bottai.147 Dal canto loro, il Consiglio pubblicitario e il suo organo di stampa, il «Wirtschaftswerbung» sponsorizzarono un numero crescente di articoli sulla pubblicità nell’Italia fascista.148 Le riviste specializzate non furono da meno, intensificando notevolmente la frequenza e la lunghezza degli articoli dedicati al rispettivo alleato dell’Asse Roma-Berlino. Sia «La Pubblicità d’Italia» che «Die Deutsche Werbung», in particolare, pubblicarono, rispettivamente, una profusione di articoli che analizzavano nel dettaglio le strategie pubblicitarie e propagandistiche dell’altro paese. Come sottolineato dalla storica Waltraud Sennebogen, «la stretta collaborazione, gli obiettivi condivisi, l’autorappresentazione nonché il reciproco riconoscimento delle rispettive attività pubblicitario-propagandistiche risaltano soprattutto nei principali organi pubblicistici del settore».149 Simili scambi non erano nuovi, come abbiamo visto, ma assunsero una dimensione senza precedenti a partire dalla metà degli anni Trenta. Tra questi spiccavano i contributi di Louise Diel, autrice di diversi libri di notevole successo su Mussolini, il fascismo e le colonie dell’Africa orientale, ma anche sulla condizione femminile nell’Italia fascista e nell’Unione Sovietica, nonché di una guida turistica di Tanzania e Namibia, colonie tedesche fino al 1919, intitolata «Le colonie attendono!» e pubblicata alle soglie della Seconda guerra mondiale.150 147. Più in generale sui rapporti fra la cosiddetta sinistra fascista, a cominciare da Bottai, e il nazionalsocialismo cfr. D’Elia, Giuseppe Bottai, soprattutto pp. 63-83. 148. Cfr. BArchB, R 55, b. 352, «Wirtschaftswerbung». 149. Sennebogen, Propaganda als Populärkultur?, p. 130. 150. Diel, Die Kolonien Warten! Prima dell’ascesa di Hitler Louise Diel aveva pubblicato alcuni lavori sull’artista Käthe Kollwitz. I suoi scritti sul fascismo furono tradotti in italiano e in inglese, cfr. ad esempio Diel, La generazione di Mussolini; Diel, La colonizzazione

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Nel 1939 il «Werben und Verkaufen» pubblicò un suo ennesimo panegirico del fascismo che esortava i pubblicitari tedeschi a seguire le orme dei loro colleghi italiani nel far proprio lo spirito autarchico del regime. Ai suoi occhi, «gli sforzi appassionati e la novità di concezioni della pubblicità italiana, al servizio del programma autarchico» rappresentavano «un esempio e un incitamento per i tecnici tedeschi». Come riportato entusiasticamente da «La pubblicità d’Italia», la Diel metteva in evidenza la sostanziale affinità tra le posizioni dei due paesi, sottolineando che «è precisamente la propaganda che si svolge in Italia che offre particolare interesse al pubblicitario tedesco, perché la posizione fondamentale di fronte ai problemi economici è in complesso identica nei due Paesi. Tanto in Italia quanto in Germania si intende valorizzare il prodotto nazionale ed eliminare molti pregiudizi ingiusti nei confronti di esso». In tal senso, proseguiva la Diel, «la propaganda italiana a intonazione autarchica deve quindi servir da stimolo alla nostra opera e dimostrare col suo esempio che anche la pubblicità di carattere commerciale può e deve offrire le sue forze ai fini dello Stato, nel più vasto senso».151 Le riviste di settore non erano le uniche pubblicazioni dedite allo scambio italo-tedesco, peraltro: nell’influente Guida Ricciardi, il principale vademecum della pubblicità del periodo tra le due guerre, furono inseriti dei capitoli sulla réclame tedesca a partire dal 1936, e l’edizione del 1940 venne pubblicata in due lingue. Definito da Irene Di Jorio come un «esempio lampante delle frontiere porose tra pubblicità e propaganda», la Guida si presentava come un annuario ragionato di notevole utilità, che col passare degli anni assurse sempre più a bibbia dei pubblicitari orientati verso la modernizzazione del settore in senso fascista.152 Giulio Cesare Ricciardi, come abbiamo visto, verrà poi incaricato di curare la promozione pubblicitario del Piano Marshall attraverso la nuova filiale JWT di Roma. L’interesse reciproco non si limitò alle pratiche pubblicitarie, peraltro, ma si estese anche a questioni più strettamente istituzionali, come la questione dell’affiliazione obbligatoria alle categorie di settore – già messa in atto dal fascismo per epurare la professione giornalistica e applicata ora dal nazismo anche al settore pubblicitario. In questo caso, come in molti altri, italiana come l’ho vissuta; Diel, A. O. I. cantiere d’Italia e Diel, ‘Behold Our New Empire’. Sui colloqui con Mussolini cfr. Schieder, Mythos Mussolini, pp. 280-284 e 320-329. 151. G.K., Un autorevole giudizio sull’azione pubblicitaria italiana per l’autarchia, «La Pubblicità d’Italia», 3, n° 17-18 (1939), p. 77. 152. Di Jorio, Pubblicità e propaganda, p. 210.

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è possibile rilevare una emulazione vicendevole tra i due paesi, nella quale le misure repressive adottate dal fascismo furono adottate e riadattate dal nazismo, fungendo a loro volta da ispirazione (oltre che da competizione) per il regime fascista. Nella prefazione all’edizione del 1941, ad esempio, Ricciardi reiterò il sentito desiderio di creare un «Consiglio generale per la pubblicità all’interno del Ministero della cultura popolare», sull’evidente falsariga del Consiglio pubblicitario nazista, esortazione che fin dall’istituzione di quest’ultimo, e ancora nel bel mezzo della guerra, era assurta in Italia a vero e proprio leitmotiv per un’ampia fetta della professione pubblicitaria.153 Gli scambi tra i due paesi si concretizzarono, infine, anche nella pratica quotidiana del mestiere pubblicitario, come dimostreranno gli esempi dell’Unione Pubblicità Italiana (UPI), principale concessionaria della stampa fascista, e della Società per la pubblicità commerciale (Gesellschaft für Wirtschaftswerbung, GfW), nata dalle ceneri della filiale berlinese della J. Walter Thompson. Un processo simile caratterizzò lo sviluppo delle scuole e dei corsi pubblicitari, che sin dalla metà dai primi anni Venti avevano rappresentato una delle principali rivendicazioni degli esperti italiani. A partire dal 1933 il regime nazista si prodigò per imporre la propria visione non solo per quel che riguarda l’irreggimentazione ma anche la formazione dei pubblicitari, inaugurando la Scuola superiore della pubblicità del Reich (Höhere Reichswerbeschule) nel 1935.154 Questa circostanza rappresentò una differenza fondamentale rispetto all’Italia fascista, dove le prime misure in tal senso furono annunciate da Bondanini solo una volta che il paese aveva dichiarato guerra alle cosiddette nazioni “demoplutocratiche giudaico-massoniche”, e si arenarono presto con il peggiorare del conflitto.155 Gli effetti di questa politica erano visibili soprattutto nella pratica pubblicitaria quotidiana. Laddove il Consiglio pubblicitario aveva imposto normative più o meno chiare in merito alle questioni più disparate, inclusi i salari degli artisti e dei consulenti di settore, i professionisti italiani ancora faticavano a ottenere informazioni precise su tiratura, sui formati e sulle commissioni per la pubblicità a stampa.156 153. Pubblicità e Propaganda, p. 9. 154. Fritz, Der Internationale Reklame-Kongreß, pp. 54-55; Kontinentaler ReklameKongress, p. 8. 155. Cfr. Pubblicità e Propaganda, p. 28. 156. Cfr. Honorare der freiberuflichen Betriebswerber, in Adreßbuch der deutschen Werbung, p. 51 ss.

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Ciò non significa tuttavia che tra i due paesi si instaurò una totale sintonia o un’uniformità d’intenti in campo pubblicitario. Nonostante i numerosi punti di scambio e le reciproche influenze, una buona dose di competizione rimase alla base del rapporto tra i pubblicitari di entrambe le nazioni anche nel periodo dell’Asse, come illustrerà l’esperienza del Comitato italo-germanico per la pubblicità. Furono tuttavia la presenza del Ministero delle corporazioni e le velleità corporative dello stato fascista a rappresentare la più importante differenza strutturale rispetto alla Germania. Il mito di una «terza via», che nell’Italia fascista prese le forme del corporativismo, costituì uno dei punti cardinali del fascismo già a partire dal 1927, anno della Carta del lavoro, con cui il regime abolì di fatto i sindacati in senso proprio, assorbendoli quasi completamente nello stato fascista.157 L’obiettivo era quello di superare, o meglio mettere a tacere la lotta di classe, imponendo un principio di collaborazione tra le classi in nome del bene della nazione fascista e riorganizzando il mondo del lavoro in base a organismi rappresentativi delle varie attività professionali, le cosiddette corporazioni. La réclame avrebbe rivestito un ruolo di primo piano in tale assetto, dal momento che prometteva di assicurare maggiori profitti che avrebbero poi dovuto esser redistribuiti tra le varie categorie sociali. Anche nel settore pubblicitario le divisioni interne al regime andarono di pari passo con l’emergere di concezioni alquanto discordanti di sviluppo e modernizzazione dell’industria, che vennero perseguite con modalità e tempi ben diversi dalle varie correnti del fascismo. Non è un caso che i primi tentativi di modernizzazione del settore pubblicitario da parte dello stato fascista siano stati portati avanti dalla corrente che aveva in Bottai il proprio referente. Già a partire dalla seconda metà degli anni Venti Bottai si era fatto propulsore di tendenze tayloriste di sviluppo dell’industria attraverso le attività dell’ENIOS, l’Ente Nazionale per l’Organizzazione Scientifica del Lavoro.158 Nel 1930, sempre con il 157. Per una sintesi storiografica cfr. Gagliardi, Il corporativismo fascista e Santomassimo, La terza via fascista. Sul divario tra tecnici di impresa e teorici dell’economia cfr. Conti, Il fascismo, la terza via corporativa, pp. 25-44. 158. Secondo Giordano Bruno Guerri e De Felice, dopo il suo allontanamento dal Ministero delle corporazioni, Bottai si concentrò sul promuovere le tendenze razionaliste basate sul modello fordista nell’istruzione e nella formazione professionale, cfr. Guerri, Giuseppe Bottai, p. 99 ss., e De Felice, Mussolini il Duce, p. 163 ss. Cfr. Bigazzi, Modelli e pratiche organizzative, pp. 942-943; Sapelli, Organizzazione, lavoro e innovazione industriale, pp. 55-58.

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beneplacito di Bottai, venne poi inaugurato all’università Bocconi un corso libero per l’insegnamento dell’«arte del vendere», tenuto da Arturo Gazzoni – pioniere dell’Idrolitina e della Pasticca del re sole – che riscosse notevole successo tra gli studenti nonché il plauso de «L’Ufficio Moderno».159 Il corso affrontò diverse tematiche, concentrandosi principalmente sull’adozione delle tecniche tayloriste di produzione industriale e di formazione professionale, che tuttavia non raggiunsero i risultati sperati a causa dell’impossibilità del regime di imporre una programmazione industriale unificata e un sistematico controllo delle risorse.160 Per quanto l’antiamericanismo della propaganda fascista non fece che intensificarsi nel corso degli anni Trenta, diversi settori del regime si adoperarono per appropriarsi degli aspetti tecnici e organizzativi della tanto contestata società statunitense – i metodi di produzione e distribuzione industriale prima di tutto, ma anche l’industria cinematografica – nel tentativo di svuotarli dei loro significati culturali e sociali.161 L’ENIOS, in particolare, oltre a riprendere il discorso sulla psicologia applicata, pubblicò tra il 1927 e il 1943 la rivista trimestrale «L’organizzazione scientifica del lavoro» e lanciò un concorso per la migliore opera sui metodi di organizzazione industriale con cui sponsorizzò un numero crescente di trattati sull’organizzazione taylorista delle piccole industrie e delle officine, nonché sugli sprechi nelle aziende.162 In questi contributi risulta evidente che l’ispirazione taylorista non proveniva solo dagli Stati Uniti ma da diversi paesi europei, tra i quali spiccava sempre di più la Germania, come peraltro dimostrato da una più generale svolta nei processi di razionalizzazione dell’industria evidenti a livello nazionale.163 Tra questi volumi spiccava la bibliografia ragionata di Paolo Pulini intitolata Mille opere sulla pubblicità. Pubblicato nel 1936 con il beneplacito dell’ENIOS, il volume riscosse un notevole successo soprattutto alla 159. Un corso libero per l’insegnamento dell’arte del vendere, «L’Ufficio Moderno», 5, n° 2 (1930), p. 105. 160. Cfr. Sapelli, Organizzazione, lavoro e innovazione industriale, pp. 260-261. 161. Cfr. Nacci, Lʼantiamericanismo in Italia negli anni Trenta, p. 120 ss. Cfr. De Grazia, La sfida dello ‘Star System’, p. 112; Anania, Tosatti, L’amico americano, p. 30. 162. Cfr. ad esempio Pellegrini, Manuale di scienza della propaganda e della pubblicità e il rapporto sulle attività del Centro psicotecnico di consulenza e ricerca dell’ENIOS, cfr. Ponzo, Finalità e attività del Centro psicotecnico di consulenza e di ricerca dell’E.N.I.O.S., pp. 71-79. Più in generale cfr. Di Jorio, Pubblicità e propaganda, p. 231 ss. 163. Cfr Bigazzi, Modelli e pratiche organizzative, pp. 939-957.

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fine degli anni Trenta. Ragioniere specializzato in studi manageriali, Pulini aveva già dedicato un primo libro alla pressante necessità di una «organizzazione scientifica del lavoro» secondo i principi tayloristi, che venne dato alle stampe con una prefazione di Bottai. In maniera non dissimile, il volume di Pulini si focalizzava sull’implementazione delle tendenze razionalizzatrici in pubblicità, finora trascurata in favore della propaganda politica: «Non c’è dubbio che da noi […] si dà meno importanza alla propaganda commerciale – o pubblicità – che a quella politica».164 Ora che l’Italia stava finalmente ottenendo il suo «posto al sole» nonostante le sanzioni delle «nazioni cospiratrici sul lago di Léman», la conquista di più ampi mercati per l’industria e il commercio sarebbe tuttavia ben presto diventata una priorità nazionale. Questo nuovo orientamento, come ribadì Pulini, era stato recentemente riconosciuto dal Gran consiglio del fascismo, che nel febbraio del 1936 aveva decretato che lo scambio internazionale fosse una questione di interesse pubblico. Rievocando il successo delle precedenti campagne per i prodotti italiani – il riso, la birra nonché la “battaglia del grano” – Pulini sottolineò la necessità di dare ora seguito alle conquiste dell’Italia assicurando all’impero una «grande vittoria civile», ovvero «il benessere, la ricchezza», nuova grande frontiera del fascismo: «A noi manca la ricchezza e per conquistarla non vi è che una strada da tracciare […]: produrre e vendere. Vendere soprattutto, vendere molto, a tutti i popoli della terra, giacché tutti consumano ed acquistano come noi».165 Lo scopo della bibliografia era dunque quello di mettere a disposizione una scelta di mille titoli tra quelli dati alle stampe nei trent’anni precedenti. Il libro serviva un duplice intento: da un lato forniva ai lettori un’ampia gamma di pubblicazioni su psicologia applicata e tecniche manageriali, provenienti soprattutto dalla letteratura statunitense; dall’altro conteneva un cospicuo numero di contributi sul nuovo ruolo della réclame negli stati cosiddetti totalitari, frutto della vasta letteratura nazionalsocialista (oltre che fascista). Gli evidenti modelli di riferimento furono dunque gli Stati Uniti e la Germania nazista, dalle cui conquiste i pubblicitari italiani erano incoraggiati a prendere spunto nella loro battaglia per la creazione di un modello di consumo propriamente fascista. A rivelare la predilezione di Pulini per la letteratura d’oltralpe non era soltanto il grandissimo numero 164. Pulini, Mille opere sulla pubblicità, pp. 9-10. 165. Ivi, p. 11. In corsivo nell’originale.

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di opere tedesche, ma anche la sua abitudine di citare alcuni lavori anglosassoni nella loro traduzione tedesca. Per quanto i riferimenti alla Germania nazista rimanessero preponderanti, la maggioranza delle opere elencate apparteneva in realtà ancora alla letteratura statunitense (43% dei titoli). I titoli tedeschi, che permeavano in maniera evidente la concezione dell’autore, costituivano il secondo gruppo in ordine di grandezza (37%), mentre i riferimenti a contributi inglesi (12%), italiani (4%), austriaci (3,1%) e francesi (meno del 3%) erano molto più sporadici. Stando ai calcoli di Pulini, inoltre, la Germania dominava il recente sviluppo delle pubblicazioni a tema pubblicitario, con ben il 50% delle riviste, contro il 28% degli Stati Uniti, il 14% della Francia e l’8% dell’Italia.166 Il libro di Pulini non presentava tuttavia uno spaccato obiettivo della letteratura sul tema, dal momento che la selezione era stata effettuata nell’ottica di fornire adeguati spunti per il conseguimento del programma autarchico, oltre che corporativistico, del regime fascista. A tal riguardo Pulini osservò infatti che «moltissimi riferimenti ed indicazioni sono stati da me eliminati perché le pubblicazioni non rispondono alla ragione e natura dell’opera considerando lo stato presente della propaganda commerciale e della pubblicità in Italia».167 In un certo senso, la corrente di Bottai agì dunque da apripista. Se fino ai primi anni Trenta la spinta verso la professionalizzazione dell’industria pubblicitaria era stata portata avanti soprattutto da personalità che facevano riferimento a «L’Ufficio Moderno», a partire dal congresso del 1933 emerse sempre più evidente la tendenza a inquadrare tale discorso nell’ambito del sistema corporativo. Fu poi la battaglia per l’autarchia a dare una marcia in più a tale orientamento. Ancora nel 1938 Giorgio Pini ricordava il ruolo cruciale della pubblicità per la realizzazione dei «due princìpi fondamentali del Regime fascista: il corporativismo e l’autarchia».168 Da questo punto di vista il lancio dell’autarchia rinfocolò la crociata corporativista, in nome di un nemico comune: «non si tratta di vincere la partita sul solito terreno della concorrenza fra ditta e ditta, ma di battere la concorrenza straniera e di trasformare certe incallite mentalità dei clienti troppo abituati all’uso di alcuni prodotti esteri».169 L’obiettivo diventò dunque quello di spingersi oltre i parametri corporativistici di superamento 166. Ivi, p. 17. 167. Ivi, p. 163. 168. Pini, Corporazioni, autarchia e pubblicità collettiva, p. 5. 169. Pini, Funzione autarchica della propaganda collettiva, p. II [26].

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della concorrenza, di cui si constatava implicitamente il fallimento, al fine di unificare le categorie produttive attraverso lo spauracchio delle nazioni “demoplutocratiche” verso il perseguimento dell’autarchia. L’autarchia giocò dunque un ruolo fondamentale nel riavvicinamento tra l’Italia fascista e la Germania nazista, in politica estera come in pubblicità. Ciò non significa tuttavia che l’Italia abbia subìto passivamente l’influenza della Germania nazista, il cui apporto fu sostanzialmente rielaborato e riadattato al mercato italiano, e viceversa. Tale influenza, inoltre, ebbe luogo in maniera tutt’altro che univoca, e fu animata dal susseguirsi di scambi e influssi reciproci fin dagli anni Venti. Ciò è visibile anche nell’evoluzione del discorso corporativo. Per quanto il regime nazista avesse poi scelto di orientarsi verso una retorica più produttivistica che corporativistica, è indubbio che nel settore della riorganizzazione del mondo del lavoro l’Italia fascista aveva costituito una notevole fonte di ispirazione per l’ideologia nazionalsocialista già negli anni Venti. Ciò si applicava soprattutto al concetto di superamento della competizione capitalistica a favore di una condivisione dei benefici collettivi derivati da un aumento di produttività, nonché dall’espansione territoriale, che avrebbero dovuto tradursi in un maggiore potere d’acquisto dei lavoratori e in un conseguente incremento dei consumi. Il parziale successo di questa strategia, combinato a una repressione sempre più feroce, contribuì in maniera non indifferente a garantire il consenso di una parte delle classi lavoratrici tedesche nella fase centrale del regime, nonostante la crescente diseguaglianza fra ceti sociali, che costituì uno dei tratti distintivi sia dell’Italia fascista che della Germania nazista.170 Nel caso italiano ciò non si tradusse invece in significativi miglioramenti delle condizioni dei lavoratori, che andarono progressivamente peggiorando sia dal punto di vista quantitativo, con la drastica diminuzione dei salari e dei consumi alimentari, che qualitativo, con l’introduzione di prodotti di qualità decisamente inferiore, contribuendo ulteriormente al definitivo indebolimento del regime.171 170. Per una panoramica cfr. Siegel, Whatever was the attitude of German workers?, pp. 61-77; cfr. Lüdtke, The Appeal of Exterminating ‘Others’, pp. 46-67. Sulla spinosa questione del paragone fra il tenore di vita durante l’epoca di Weimar e il Terzo Reich cfr. Torp, Besser als in Weimar?, pp. 73-93 e Schanetzky, «Kanonen statt Butter», p. 195 ss. Sul tema delle ineguaglianze salariali cfr. Gabbuti, «When We Were Worse Off», pp. 253-298 e Gómez, Distribution Dynamics in Turbulent Times, pp. 1073-1098. 171. Stefano Cavazza ha parlato di un ulteriore elemento di «delegittimazione» del regime, cfr. Cavazza, Consumi, fascismo, guerra, p. 312.

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In questo quadro, furono le pubblicità a stampa e i manifesti, accompagnati dal nuovo mezzo radiofonico e dai cinegiornali, a far la parte del leone nel lancio dell’autarchia. Contrariamente a quanto avvenne per il nazismo, la stampa rimase infatti il medium prediletto dal regime fascista almeno fino a metà anni Trenta, come esemplificato dalla centralità dell’Ufficio stampa. In tal senso, l’istituzione del Sottosegretariato per la stampa e la propaganda nel 1934 rappresentò un’importante evoluzione rispetto alle funzioni dell’Ufficio in quanto, pur rispecchiando ancora la centralità attribuita alla stampa, inglobò media tecnologicamente più avanzati come la radio e il cinema, che sarebbero poi stati ulteriormente sviluppati dal Minculpop. Il combinato disposto di coercizione e consenso che caratterizzò il regime fascista (così come quello nazionalsocialista) rimarrà una costante del processo di fascistizzazione dell’industria pubblicitaria, raggiungendo il suo culmine dopo la fine dei cosiddetti «anni del consenso», tra il Concordato del 1929 e la proclamazione dell’impero fascista.172 Occorre infatti ricordare che l’avvio della campagna autarchica, con conseguente inasprimento della stretta sul mondo pubblicitario, coincise con la brutale conquista dell’Etiopia e la conseguente inaugurazione dell’impero. Secondo Dino Biondi fu proprio in questa congiuntura, ovvero quando il regime mussoliniano cominciò a interferire nei rituali della classe media, con l’istituzione della domenica fascista e la massiccia irreggimentazione del tempo libero e dell’istruzione, che tale consenso cominciò a incrinarsi, e la facciata dello stato autoritario mostrò le sue prime, significative incrinature.173 Fermo restando che ben poco dissenso poteva essere esercitato in una dittatura violenta e arbitraria come quella fascista, come ricordato in maniera particolarmente convincente da Giulia Albanese e Roberta Pergher,174 la storiografia degli ultimi decenni ha evidenziato l’importanza dell’emergere di consumi di massa attraverso la fruizione collettiva dei beni offerta dalle organizzazioni di massa di entrambi i regimi, quali l’OND e la sua controparte nazista, la Kraft durch Freude (Kdf).175 È inoltre necessario tener ben 172. Cfr. De Felice, Mussolini Il Duce. Per una critica convincente della tesi defeliciana cfr. in particolare Corner, Consenso e coercizione, pp. 425-446 e più recentemente Id., Beyond Consensus, pp. 73-83. Per la Germania nazista cfr. Evans, Coercion and Consent in Nazi Germany, pp. 53-81. 173. Biondi, La fabbrica del Duce, p. 265. 174. Cfr. In the Society of Fascists, pp. 1-28. 175. Cfr. Baranowski, Strength through Joy, in particolare pp. 162-198; I consumi, p. 55 ss.; De Grazia, Consenso e cultura di massa, pp. 176-190.

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presente la questione delle distinzioni di classe, come rilevato da Emanuela Scarpellini, che emergerà in maniera particolarmente evidente per quel che riguarda la fascistizzazione dei contenuti pubblicitari. Mentre una porzione significativa delle classi medio-alte non vide di buon occhio i tentativi del regime di invadere le sue ormai consolidate abitudini di consumo, in molti casi le organizzazioni fasciste rappresentarono l’unico sfogo per il bisogno di socializzazione e per le aspirazioni al consumo delle classi medio-basse, dopo la distruzione (spesso fisica) della rete di welfare socialista.176 Tali misure erano parte integrante del processo di progressiva radicalizzazione e militarizzazione del regime, così come lo furono il razzismo e l’antisemitismo, condizioni imprescindibili per attuare la totale fascistizzazione della società italiana. Un’ampia fetta del mondo pubblicitario prese parte attiva in questo processo, che non sarebbe stato perseguibile senza la sua partecipazione. Il concetto di «dittatura partecipativa», animata da una commistione di violenza e adesione volontaria dal basso, si adatta dunque particolarmente bene alla parabola del mondo pubblicitario durante il fascismo.177 Anche nel caso della storia della pubblicità è dunque necessaria una parziale revisione del paradigma coercizione-consenso, che oltre ad estendere la fase dell’acquiescenza almeno fino alle Leggi razziali, accolte nell’indifferenza se non addirittura nell’interesse generale, sappia render conto dell’ampia gamma di reazioni dei professionisti pubblicitari – dal rifiuto ad allinearsi, con conseguente ostracizzazione o persecuzione da parte del regime, alle più o meno volontarie istanze di auto-allineamento, fino al malcelato entusiasmo di certi settori che propugnavano un’ulteriore radicalizzazione della spinta modernizzatrice. Nonostante gli slogan anti-edonistici e la propaganda esortassero a «vivere pericolosamente», il regime si impegnò su vari fronti per promuovere il consenso delle classi medie facendo leva sul concetto di «comfort fascista», atto a delineare un legame diretto tra il comfort domestico e la forza della nazione fascista, come suggerito da Adam Arvidsson.178 Tale sviluppo rientrò in un più ampio tentativo di «legittimazione sociale» dei consumi culturali di massa – che non a caso secondo Forgacs e Gundle vi236.

176. Sulla storia del welfare durante il fascismo cfr. Pavan, Lo stato sociale, pp. 211-

177. Per una panoramica cfr. Reichardt, Faschistische Beteiligungsdiktaturen, pp. 133-157. Frank Bajohr parla invece di «dittatura del consenso», cfr. Bajohr, Die Zustimmungsdiktatur, pp. 69-131. 178. Arvidsson, Marketing Modernity, p. 62.

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dero i loro albori proprio a metà degli anni Trenta – anche se non bisogna appunto dimenticare che la partecipazione ai consumi variò notevolmente da una classe sociale all’altra.179 Fu dunque proprio il fascismo a legittimare per la prima volta la professione pubblicitaria in quanto anch’essa strumentale alla creazione dell’«uomo nuovo», milite impavido e vigoroso pronto a sacrificarsi sull’altare della patria ma anche membro esemplare di un’ideale società fascista, in cui ogni azione quotidiana – dai consumi al numero della prole, i libri di scuola e perfino la villeggiatura – sarebbe stata finalizzata alla gloria dell’impero fascista.180 Al tempo stesso, come hanno sottolineato Victoria De Grazia e David Forgacs, a partire dai tardi anni Trenta il modello consumistico diffuso dalla «cultura commercializzata» verrà a costituire un antagonista sempre più scomodo per il regime.181 Tale contrasto, più che costituire la dimostrazione dell’inconciliabilità tra consumi e fascismo, fu soprattutto frutto del fallimento del progetto di fascistizzazione della società, che spinse il regime a intensificare la sua morsa attraverso l’onnipresente militarismo e l’aumento della produzione bellica. Ci penseranno poi le miserie e le devastazioni della guerra a creare una definitiva frattura tra le aspirazioni di vita comoda degli italiani e il fascismo. 4. Il futuro della pubblicità europea sotto l’Asse Roma-Berlino Fu, non a caso, con la firma del Patto d’acciaio, il 22 marzo 1939, che lo scambio tra la dittatura fascista e quella nazista in materia di pubblicità entrò nella sua fase più intensa. Sia in Italia che in Germania molte delle pubblicazioni di settore intensificarono il numero di reportage reciproci e le sezioni bilingui, e gli scambi tra professionisti crebbero in modo esponenziale. Nel 1941 una delegazione della Federazione nazionale fascista degli ausiliari del commercio, che fino alla fondazione del Sindacato aveva rappresentato i pubblicitari anche in qualità di membro dell’Unione Con179. Scarpellini, L’Italia dei consumi, p. 108; Forgacs, Gundle, Cultura di massa, p. 21 ss. Per una recente panoramica del rapporto fra propaganda e cultura di massa cfr. Gagliardi, “Educare” o intrattenere?, pp. 255-279. 180. Cfr. L’uomo nuovo del fascismo, pp. 9-27. 181. Cfr. Forgacs, L’industrializzazione della cultura italiana, pp. 121-124; De Grazia, Nationalizing women, pp. 337-358.

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tinentale della Pubblicità, si recò in visita ufficiale in Germania per incontrare i membri del Consiglio pubblicitario nazista. Umberto Alberici, presidente della Federazione, consigliere nazionale del PNF e membro del comitato di direzione de «La Pubblicità d’Italia», guidò la delegazione, che arrivò in Germania con sotto braccio un numero speciale della rivista, di ben 500 pagine, creato al fine di illustrare lo stato dell’arte della pubblicità italiana ai colleghi tedeschi.182 Alcuni dei principali dignitari fascisti furono mobilitati per celebrare l’evento. Galeazzo Ciano, allora Ministro degli affari esteri, sottolineò succintamente come «queste visite non sono puramente atti di cortesia».183 Nel suo contributo in veste di Ministro della cultura popolare, Alessandro Pavolini entrò più nel merito: Lo scambio […] è diretto allo scopo di stabilire utili intese sia per gli scambi commerciali fra i due paesi alleati sia per la più ampia e redditizia diffusione dei loro prodotti, dopo la conclusione vittoriosa della guerra. Queste intese si inseriscono opportunamente nel quadro della sempre più stretta e feconda collaborazione fra le potenze dell’Asse, in tutti i settori della loro attività creatrice e costruttrice.184

Sottolineando come la pubblicazione si proponesse di «essere anche un saggio della nostra arte tipografica applicata alle esigenze di una pubblicità moderna e ben intesa», ossia finalizzata al prosperare dell’Italia fascista, Pavolini ricordò inoltre che la creazione del volume era stata suggerita dai vertici dell’Unione Pubblicità Italiana, che come vedremo giocò un ruolo di primo piano nello sviluppo delle campagne collettive così come nell’espansione coloniale del fascismo. Anche Ermanno Amicucci, allora Sottosegretario di stato alle corporazioni dopo i lunghi anni a «La Gazzetta del Popolo», si disse fiducioso della buona riuscita dell’impresa: Sono certo che, dalla stretta collaborazione delle due organizzazioni che presiedono in Germania e in Italia all’attività pubblicitaria, saranno intensificati gli scambi dei prodotti agricoli e industriali e rafforzate le correnti turistiche […], ma sarà anche grandemente facilitata la comune opera che l’economia dei due popoli dovrà svolgere nell’ordine nuovo che la vittoria dell’Asse assicurerà all’Europa e ai suoi spazi vitali.185 182. Cfr. anche Sennebogen, Propaganda als Populärkultur?, p. 128. 183. Galeazzo Ciano, «La Pubblicità d’Italia», 5, n° 43-46 (1941), senza numero di pagina (prima di p. 9). 184. Alessandro Pavolini, ivi. 185. Ermanno Amicucci, ivi.

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Nonostante gli interessi economici dei due paesi divergessero in maniera non trascurabile, come risulterà evidente anche nella condotta bellica, la centralità della pubblicità come mezzo per garantire l’egemonia economica dell’Asse sul continente europeo costituì un importante punto di convergenza. Tali propositi si concretizzarono nell’autunno del 1941 con l’annuncio della creazione del Comitato italo-germanico per la pubblicità e la propaganda economica. Creato su iniziativa del presidente del Consiglio pubblicitario, Heinrich Hunke, con l’approvazione del Ministero degli esteri italiano, il Comitato faceva riferimento principalmente al Ministero della cultura popolare. Il Comitato era infatti composto da membri del Consiglio per la Germania e da rappresentanti del Minculpop e da Umberto Alberici per l’Italia. Tra i suoi obiettivi principali figuravano la necessità di «approfondire ed intensificare la collaborazione nel settore della pubblicità e della propaganda economica» e soprattutto di allineare la réclame di tutto il continente europeo al nuovo spirito dell’Asse.186 I due presidenti, Hunke e Alberici, si incontrarono per la prima volta nel maggio del 1942 a Salisburgo, data che segnò l’inizio ufficiale dei lavori del Comitato. In quel frangente venne deliberato che sarebbe stato opportuno creare degli uffici centrali per l’ordinamento della pubblicità in ogni paese che ricadesse sotto il dominio dell’Asse. L’ovvio scopo di tale strategia era quello di «realizzare un’unione delle Associazioni professionali europee che corrisponda allo spirito del nuovo ordine europeo» e «dare una corrispondente nuova struttura all’Unione Continentale della Pubblicità».187 Una preoccupazione fondamentale del Comitato, pertanto, fu il futuro delle associazioni di settore una volta conclusasi la guerra. Al tema venne dedicato l’incontro del febbraio 1943, tenutosi all’Hotel Imperial di Vienna. Nel discutere le sorti dell’UCP, Alberici e Hunke concordarono che l’Unione non avrebbe dovuto essere né soppressa né sostituita, ma piuttosto «riformata adeguandola alle nuove esigenze rappresentate dallo sviluppo dell’Europa».188 Secondo l’accordo che venne concluso a Vienna, il Comi186. ACS, Ministero della cultura popolare (d’ora in poi Minculpop), Gabinetto, b. 69, f. 451, Comitato italo-germanico per la pubblicità e la propaganda economica, comunicato apparso nella stampa italiana, ottobre 1941. Sul «nuovo ordine» secondo l’Asse Roma-Berlino-Tokyo cfr. Hedinger, Die Achse, pp. 318-364. 187. ACS, Minculpop, Gabinetto, b. 69, f. 451, deliberazione. 188. Ivi, Niederschrift über die Besprechung zwischen Präsident Professor Dr. Heinrich Hunke, Berlin, und Nationalrat Dr. Umberto Alberici, Mailand, am 19. Februar 1943 im Wien, Hotel Imperial.

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tato italo-germanico si sarebbe di fatto sovrapposto all’Unione, che avrebbe avuto una segreteria generale comune, formata da due segretari generali con sede a Roma e a Berlino in rappresentanza dell’Asse, e alla cui guida si sarebbero alternati i presidenti (italiano e tedesco) del Comitato. Nonostante le reciproche promesse di leadership congiunta e paritaria, già in questa prima fase si palesò il ruolo preponderante che la Germania avrebbe svolto nella fascistizzazione dell’Unione Continentale della Pubblicità. La proposta di Alberici di dividere i compiti tra i due presidenti, ovvero lui e Hunke, ad esempio, naufragò per il rifiuto di quest’ultimo di accettare qualunque ripartizione di responsabilità, concedendo tuttavia ad Alberici la prima presidenza. Alla base di tale divario, più che la manifesta volontà di dominio di Hunke, c’era un’evidente disparità di mezzi, che contraddistinse tutta la pur breve parabola della sezione italiana del Comitato. Tra i progetti comuni era stato previsto un breve «film di propaganda economica tendente a mostrare la complementarietà degli sforzi dei due paesi sul piano economico», che come ricordava Alberici «i Camerati germanici ci propongono e ci sollecitano».189 Il film avrebbe dovuto avere uno sviluppo leggero e piacevole, accessibile ad ogni pubblico e quindi senza troppi particolari statistici. Dovrebbe parlare specialmente al cuore, in modo che gli spettatori comprendano lo sforzo compiuto e da compiersi dai due Paesi in guerra aiutandosi scambievolmente sul terreno economico come avviene sul campo militare, mediante il valore dei loro eroici soldati.190

Ciò fu tuttavia impossibile da realizzare, specialmente dal momento che, dopo che le forze della Wehrmacht erano accorse a sostegno delle truppe italiane nel mettere a ferro e fuoco il Mediterraneo orientale e il nord Africa, l’invasione dell’Unione Sovietica da parte delle forze dell’Asse giunse a un punto di svolta con la cocente sconfitta di Stalingrado nel febbraio del 1943, pochi giorni dopo la missiva di Alberici al Ministero. Le ripetute richieste di fondi – 48.500 lire per le spese d’impianto e ben 655.182 lire annue per il funzionamento – inoltrate al Minculpop affinché il Comitato potesse munirsi di una sede e lavorare «sul piano di un’assoluta parità» con la Germania rimasero disattese. Nel ribadire l’impossibilità di coprire delle spese così considerevoli, il Ministero sottolineò che 189. Ivi, lettera del Cons. Naz. Dott. U. Alberici all’Ecc. Gr. Uff. Luciano Celso, 26 gennaio 1943-XXI. 190. Ivi, allegato n° 1.

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«essendo la pubblicità alla base del lavoro del Comitato, [sarebbe] molto più opportuno che le Società, gli Enti e chiunque tragga beneficio diretto dall’attività del Comitato ne sostengano proporzionalmente gli oneri».191 Nonostante solo fino a qualche mese prima il Ministero avesse investito cospicui fondi ne «La Pubblicità d’Italia», in questa fase il Minculpop non sembrava più capace né incline a investire le sue ormai drasticamente ridotte risorse nel Comitato, dal momento che non era neanche più possibile reperire il carburante necessario per il giro dell’«autotreno di propaganda per i grandi spazi» del RVA nazista.192 La priorità attribuita alla pubblicità a partire dal 1936 sembrava dunque ormai tramontata per il Minculpop, assillato dal disastroso andamento della guerra e dal sempre più evidente dissenso di larghi strati della popolazione – basti pensare al susseguirsi degli scioperi nelle fabbriche del nord Italia nel marzo del 1943, che oltre alle iniziali rivendicazioni economiche (la scarsità di generi alimentari in primis) assunsero presto una chiara connotazione politica. La risposta del Minculpop ci fa inoltre intuire che per ampi settori del regime il settore pubblicitario non diventò mai un affare di stato in tutto e per tutto, ma rimase competenza delle imprese e degli enti che ne traevano un beneficio economico diretto. Per la fine del 1942 anche «La Pubblicità d’Italia» aveva interrotto le sue pubblicazioni e ogni tentativo di pubblicizzare il regime fascista attraverso consumi ormai inesistenti cessò ben prima della caduta di Mussolini il 25 luglio 1943. Fino al lancio della guerra totale di Goebbels nel febbraio del 1943, tuttavia, i gerarchi di entrambi i paesi – quelli nazisti in particolar modo – non persero alcuna occasione per professare la loro fede incrollabile nella pubblicità come mezzo fondamentale per garantire il rilancio dell’economia una volta che l’Asse avesse vinto la guerra. Fino a quel momento, infatti, nonostante i consumi individuali avessero lasciato il passo alla riconversione bellica già dall’autunno del 1939, la pubblicità commerciale continuò a reclamizzare beni di consumo ormai più non disponibili all’acquisto ma pubblicizzati comunque per mantenere una parvenza di normalità e proiettare le aspettative di benessere della popolazione in un futuro prossimo, che la propaganda fascista e nazista prometteva roseo. Ciò si esplicitò prima di tutto nella creazione di una più ampia «visione 191. Ivi, appunto Capo di Gabinetto, 25 marzo 1943-XXI. 192. Ivi, lettera da Alberici a Celso, 11 maggio 1942 e corrispondenza successiva di inizio 1943.

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del futuro» di benessere di un’Europa ormai sotto il dominio dell’Asse, in cui i fedeli membri della comunità razziale nazista e fascista sarebbero stati ricompensati attraverso l’accesso a beni e servizi ottenuti grazie alla conquista dello “spazio vitale” imperiale. Questa operazione, combinata con un apparato repressivo sempre più feroce, giocò un ruolo fondamentale nell’ottenere l’acquiescenza politica di diversi strati della popolazione tedesca, mentre si rivelò insostenibile fin da subito nel contesto dell’Italia fascista, già troppo provata dal crollo delle derrate alimentari. Nel commentare l’istituzione del Comitato italo-germanico, Kurt Prüfer, uno dei membri del Consiglio pubblicitario nazista, accennò come lo sviluppo di un grande mercato internazionale attraverso la pubblicità sarebbe stato parte integrante di un’Europa unita sotto le forze dell’Asse: «Proprio come nella grande politica la creazione di una nuova Europa verrà portata avanti grazie allo spirito cameratesco delle nazioni dell’Asse, così lo sviluppo della cooperazione internazionale nel campo della pubblicità».193 Lo sguardo al futuro del Comitato costituiva una componente integrante di questa strategia: «Dal cameratismo concreto orientato al futuro del Comitato italo-germanico emergeranno ben presto le fondamenta per una felice collaborazione tra tutti i paesi interessati allo sviluppo del settore pubblicitario».194 In questo contesto, pubblicitari tedeschi quali Ferdinand Frauenknecht, membro della NSRDW e già autore di una guida agli alimenti reperibili nei boschi per la «libertà alimentare del popolo tedesco» del 1939, che dopo la guerra continuerà la sua carriera come esperto di «psico-sintesi pubblicitaria», evidenziarono la necessità di sganciare una volta per tutte la réclame dal modello anglosassone e mobilitarla al fine di garantire la prosperità di tutti i membri della Volksgemeinschaft una volta terminato il conflitto: Dopo la vittoria, la propaganda economica avrà da assumere grandi compiti di responsabilità, che richiedono già fin da oggi studio e preparazione. Nello stesso modo come le potenze dell’Asse non raccoglieranno il retaggio liberalista dell’Inghilterra, così nemmeno l’attività pubblicitaria si riallaccerà al punto in cui si trovava prima del nuovo orientamento del pensiero economico. 193. Sul concetto di un’Europa unita sotto le potenze dell’Asse cfr. Fioravanzo, L’Europa fascista, Mazower, Hitler’s Empire, p. 576 ss. Cfr. anche Greiner, Wege Nach Europa e Martin, The Nazi-Fascist New Order for European Culture, in particolare pp. 74-108. 194. Kurt Prüfer, Internationale Zusammenarbeit, «Die Deutsche Werbung», 35 (1942), p. 527.

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[…] [La propaganda economica] dovrà soprattutto propugnare il miglioramento della produzione con prezzi decrescenti e con conseguente elevazione del tenore di vita presso tutti i popoli europei. Essa sarà onesta e intemerata, perché sostenitrice dell’efficienza economica e della volontà a conseguire l’agiatezza del popolo e anche perché utile all’economia nazionale.195

È tuttavia bene ricordare che le popolazioni slave e tutti gli altri popoli considerati inferiori dall’ideologia nazista non erano affatto comprese in questi piani di prosperità collettiva. Ancora nell’estate del 1942 il «Werben und Verkaufen» non cessò di commentare con soddisfazione lo sviluppo che l’attività pubblicitaria aveva conosciuto nei primi anni del conflitto e che avrebbe posto le basi per quello degli anni successivi: «Grandi imprese […] attendono la collaborazione italo-tedesca per i futuri tempi di pace, alla cui soluzione la pubblicità commerciale parteciperà con successo». E precisava: È pertanto di particolare soddisfazione poter constatare come ancora nel terzo anno di guerra in entrambi i paesi la réclame non solo adempie ai propri compiti, considerevolmente mutati per via delle esigenze belliche, ma anche che sia in Italia che in Germania si è chiaramente consapevoli dei suoi obiettivi per il dopoguerra e che già al giorno d’oggi, nel pieno del conflitto, si stanno verificando le condizioni perché sia preparata a livello tanto teorico quanto organizzativo per le sfide spirituali alle quali sarà chiamata dopo la vittoria.196

In questo quadro, «in futuro alla pubblicità commerciale sarà richiesto di svolgere un ruolo ancor più essenziale nell’attività educativa necessaria all’economia nazionale di quanto accaduto in passato», specificava la rivista. «Da questo imperativo sorgono obiettivi sempre nuovi […] per gli esperti tedeschi e italiani, obiettivi che richiedono grande competenza e in special modo la piena comprensione del nuovo spirito economico, dal quale l’Europa che verrà sarà pervasa e guidata». Ciò prefigurava una missione ben precisa per i pubblicitari dei due paesi: realizzare réclame che servissero la loro visione del futuro del continente europeo al fine «di 195. In italiano nell’originale, Ferdinand Frauenknecht, Die Wirtschaftswerbung in der Nachkriegswirtschaft. Frühe Gedanken über das Kommende, «Werben und Verkaufen», 26, n° 8 (1942), p. 280. Cfr. Frauenknecht, Billige und gesunde Nahrungsmittel aus dem Wald, e Id., Die Werbe-Psychosynthese, «Die Anzeige», 1 (1954), p. 54. 196. M. C. Schreiber, Zwischen zwei Heften: Wirtschaftliche Ziele der deutsch-italienischen Zusammenarbeit, «Werben und Verkaufen», 26, n° 8 (1942), p. 279.

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concorrere alla creazione, in tempi di guerra e di pace, di un’Europa nuova ed economicamente solida, e pertanto contribuire a garantirne la futura indipendenza».197 Come ricordato dallo storico Tim Schanetzky, il parziale successo di questa strategia si manifestò anche nel generale aumento dei risparmi, motivato dalla speranza di una più ampia partecipazione ai consumi futuri, che i vertici del regime interpretarono come prova della fiducia in loro riposta da diversi strati della popolazione tedesca.198 Un approccio simile venne propugnato fino al 1942 anche dalle riviste e dai manuali italiani, sebbene in maniera decisamente meno sistematica e articolata. Nel perorare il ruolo essenziale della «propaganda commerciale» durante la guerra, nella prefazione alla sua Guida del 1941 Ricciardi sottolineò come questa nuova edizione fosse stata ispirata dalla sua ultima visita in Germania. Ospite del Reich per promuovere i propri studi in campo pubblicitario, Ricciardi poté «constatare – mentre è in corso una guerra – e quale grandiosa guerra! – un imponente fervore di preparazione per quanto concerne la ripresa degli affari» dopo la fine del conflitto, ossia «terminata l’immane tragedia in quel modo che ognuno di noi si augura e si prospetta – e cioè con la vittoria dell’Asse e dei princìpi di giustizia sociale da esso propugnati».199 Questo bisogno psicologico oltre che politico di proiettare la realizzazione di una fantomatica società dei consumi nazi-fascista nel futuro dopoguerra, concepito al fine di rendere sopportabili le sempre più gravose privazioni belliche, permeò le dichiarazioni ufficiali del Consiglio pubblicitario e di alcuni settori del Minculpop a partire dal 1939 e si rifletté in maniera alquanto concreta su una vasta gamma di pubblicità commerciali durante la Seconda guerra mondiale. Così facendo i regimi miravano a confezionare e diffondere una promessa di prosperità per le rispettive nazioni che fosse capace di garantire loro il consenso o quanto meno l’acquiescenza della popolazione agli sforzi bellici dell’Asse. Agli occhi dei leader del Consiglio la réclame aveva un ruolo cruciale in tal senso, in quanto promuoveva l’illusione di un tenore di vita più alto demandandolo al futuro e favorendo così la stabilità politica della dittatura. Come già sottolineato da Hartmut Berghoff, «il regime era cosciente che fare appello ai desideri materiali della gente era più efficace che ricorrere ad argomenta197. Ibidem. 198. Cfr. anche Schanetzky, «Kanonen statt Butter», p. 197 ss. 199. Pubblicità e Propaganda, pp. 11-12.

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zioni politiche».200 È importante sottolineare che questa politica fu perseguita dal Consiglio pubblicitario, piuttosto che dal Ministero della propaganda tedesco, dal momento che già nell’ottobre del 1941 Goebbels aveva espresso le sue perplessità riguardo a continuare a pubblicizzare prodotti (alimentari e di vestiario in particolare) non più in vendita.201 Nel 1943 tale discrepanza di intenti avrebbe condotto allo scontro aperto tra Goebbels e il suo pupillo Hunke, di cui il Ministro tuttavia non accettò le dimissioni.202 Con il lancio della guerra totale del febbraio del 1943 il Consiglio pubblicitario rinunciò definitivamente all’idea di pubblicizzare il futuro consumo di prodotti oramai introvabili per evitare di attirarsi le ire di una popolazione sempre più provata dal conflitto. Per quanto persuaso che questa fosse la strada da percorrere, il Sindacato fascista invece non riuscì mai a perseguire questa strategia. La nazificazione del mestiere pubblicitario attuata dalla dittatura nazista rappresentò un caso assolutamente inedito nel panorama della pubblicità europea. Nella sua radicale ridefinizione del rapporto tra la réclame e i fascismi, già a partire dall’autunno del 1933 la Germania assurse a punto di riferimento essenziale per un certo numero di pubblicitari italiani, dando vita a una crescente compenetrazione di modi e di intenti che anticipò di qualche anno la creazione dell’Asse Roma-Berlino. Con il lancio dell’autarchia la necessità di influenzare i consumi acquisì una centralità senza precedenti anche per il regime fascista che, sulla scia dell’esempio tedesco, non si limitò più alla censura e all’impiego della pubblicità per finanziare la stampa fascista ma si concentrò sull’adozione di tecniche pubblicitarie d’avanguardia e sul reclutamento di professionisti al fine di realizzare quella “modernità totalitaria” perseguita da ampi settori di entrambe le dittature. La spinta alla modernizzazione del settore pubblicitario, illustrata in maniera particolarmente evidente da riviste quali «La pubblicità d’Italia», si concretizzò a partire dalla seconda metà degli anni Trenta nel notevole balzo in avanti (sia quantitativo che qualitativo) delle forme così come dei contenuti delle pubblicità, che darà poi i suoi frutti soprattutto nel secondo dopoguerra. Furono proprio i fascismi a legittimare per la prima volta il settore pubblicitario in quanto anch’esso strumentale al tentativo di plasmare l’«uomo nuovo» (e «donna nuova») a tutti i livelli, non da ultimo come consumatori. 200. Berghoff, Enticement and Deprivation, p. 184. 201. Cfr. Goebbels, Die Tagebücher, Teil I, Vol. 9 (11 ottobre 1941). 202. Cfr. Swett, Selling under the Swastika, p. 309.

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Fu su quest’ultimo, fondamentale aspetto che la richiesta dei pubblicitari di veder riconosciuto il loro status professionale si incontrò con il tentativo dei regimi di regolamentare e reindirizzare i consumi. In entrambi i paesi molti esperti accolsero con favore questa inedita attenzione prestata al loro lavoro in quanto vi scorsero l’opportunità di ottenere il riconoscimento a cui anelavano da tempo. Ciò dette luogo a diffuse pratiche di auto-allineamento all’ideologia di regime, evidenti non solo nelle riviste di settore ma anche nelle stesse campagne pubblicitarie. Ciò non significa che non vi fossero differenze anche sostanziali tra l’Italia fascista e la Germania nazista in campo pubblicitario. In Italia, ad esempio, proprio in virtù dell’iniziale disinteresse del regime per la pubblicità, salvo che come fonte di introiti e bersaglio della censura, il mestiere di pubblicitario costituì una delle pochissime nicchie in cui alcune personalità invise al fascismo poterono rifugiarsi, almeno fino agli inizi degli anni Trenta. Nella Germania nazista, invece, il processo di epurazione degli oppositori politici e dei professionisti di origine ebraica, pur entrando nel vivo a partire dal 1936, ne costituì una delle priorità fin dal 1933, come illustrato dall’esempio della Dorland. È fondamentale sottolineare che ciò non avvenne certo per mancanza di quella «feroce volontà totalitaria» invocata da Mussolini già nel giugno del 1925,203 o per una presunta maggiore mitezza del fascismo, sia nei confronti degli oppositori politici che dei perseguitati razziali, bensì a causa di differenze strutturali ed economiche ben precise, come l’arretratezza e la frammentazione del mercato italiano e la natura spesso ancora amatoriale del mestiere pubblicitario. Furono questi stessi difetti che impedirono al regime fascista di perseguire la strategia di una visione del futuro benessere da proiettare sulle masse per ottenerne l’acquiescenza, adottata dalla Germania nazista con discreto successo fino al 1942. La strategia di concentrarsi sul futuro nel bel mezzo di una guerra non appare così sorprendente, e non si limitò al periodo nazionalsocialista, come ricordato da Filippo Triola e da Rüdiger Graf.204 Ciò che colpisce, tuttavia, è come queste Zukunftsvisionen, queste visioni del futuro sarebbero assurte a vero e proprio leitmotiv degli appelli pubblicitari, intenti a reclamizzare prodotti di cui indicavano chiaramente l’irreperibilità al fine di prolungare il più 203. Mussolini, Opera omnia, vol. XXI, p. 362. 204. Cfr. Triola, La conquista del futuro, pp. 38-49 e Graf, Die Zukunft der Weimarer Republik, pp. 13-38.

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possibile l’illusione di un futuro di benessere attraverso i consumi virtuali, una volta che anche l’effimero miglioramento delle condizioni di vita dovuto all’espropriazione degli ebrei – come sostenuto dallo storico Götz Aly205 – era venuto meno.

205. Cfr. Aly, Lo Stato sociale di Hitler, pp. 207-363.

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1. Le matite Fila formano un fascio littorio, Lucio Venna, ca. 1937 (da Codeluppi, Storia della pubblicità italiana, p. 79).

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2. L’aspirina protegge la serenità della famiglia altoborghese, UPI, ca. 1941 (da «Werben und Verkaufen», n° 8 (1942), p. 294; Staatsbibliothek Berlin).

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3. Modelli di orologi e fermacarte, 1934 (da Rewriting German History, p. 277; © Bayerisches Wirtschaftarchiv, K9/774).

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4. Brevetto per protezione per radiatori di autoveicoli, 1939 (da Rewriting German History, p. 278; © Archivio Centrale dello Stato, Roma). 5. Due mondi a confronto: la «civetta giudea» e la camerata tedesca, 1938 (da Ascheid, Hitler’s Heroines, p. 2).

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6. Campagna collettiva per il consumo di formaggio italiano, UPI, 1939 (Fondo Dino Villani).

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7. Manifesto di propaganda per il consumo di prodotti italiani, Giacinto Mondaini, 1930/1931 (Fondo Dino Villani). 8. «Comprate merci tedesche e create lavoro e pane», 1934 (Deutsches Historisches Museum, Berlin). 9. Campagna collettiva per il consumo di formaggio, UPI, 1939 (Fondo Dino Villani).

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10-11. Dalla matrona romana Cornelia alla presunta vanità muliebre, campagne collettive per aumentare il consumo di verdure e frutta nostrane, UPI, 1939 (Fondo Dino Villani).

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12-13. Le macchine da cucire Necchi tra sogno e autarchia, 1939 (da «La donna fascista», n° 3 (1939), p. 8 e n° 6 (1939), p. 8; © Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze).

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14. Una tazza fumante di caffè Cirio direttamente da Rio de Janeiro, ACME-Dalmonte, 1934 (Fondo Dino Villani). 15. I benefici del caffè Cirio illustrati attraverso il classico stile editoriale, ACME-Dalmonte, 1935 (Fondo Dino Villani).

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16. Le confetture Cirio per le donne del popolo, ACME-Dalmonte, 1938 (da «Domenica del Corriere», maggio/giugno 1938; © Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze). 17. I prodotti Mellin per l’infanzia, ACME-Dalmonte, 1938/1939 (da «Domenica del Corriere», n° 25 (1939), p. 12; © Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze). 18. «Cosa cucinare al forno con 50 gr di grasso e solo un uovo?»: il lievito in polvere Dr. Oetker in tempo di guerra, 1940 (da Swett, Selling under the Swastika, p. 203).

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19. L’Aperol dice la sua sulla donna-crisi, ca. 1932 (Fondo Dino Villani). 20. «Una casalinga tedesca racconta all’altra di questo nuovo dressing per insalate totalmente diverso», Società per la pubblicità commerciale, 1936 (DUHC, JTWA).

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21. «Desiderio segreto, grandi preoccupazioni!», Studio Dorland, ca. 1939 (da Rössler, Herbert Bayer, p. 252). 22. «La signora che non deve dire di no», Studio Dorland, ca. 1939 (da Rössler, Herbert Bayer, p. 252).

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23. Concorso indetto dalla Gi.Vi.Emme e dalla rivista «Il Milione», antesignano di Miss Italia, 1939-1941 (Fondo Dino Villani). 24. «Una giovane donna sul Chlorodont», Studio Dorland, ca. 1938/1939 (da Rössler, Herbert Bayer, p. 242). 25. «Liberi dalla vita di ogni giorno», Studio Dorland, ca. 1938/1939 (da Rössler, Herbert Bayer, p. 241).

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26. Prendersi «cura dello spirito e del corpo» «alla luce del sole», Studio Dorland, ca. 1938/1939 (da Rössler, Herbert Bayer, p. 241). 27. «Certamente ci si deve godere [la vita], vedere il bel mondo – viaggiare senza preoccupazioni», Studio Dorland, ca. 1938/1939 (da Rössler, Herbert Bayer, p. 241).

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28. «Pover’uomo, così nero! Provi un po’ con questo!», vignetta razzista dell’azienda Henkel, produttrice del detersivo Persil, 1930 (da Swett, Selling under the Swastika, p. 206). 29. L’oggettivazione del corpo nero femminile nella pubblicità Ramazzotti di Gino Boccasile, ca. 1936 (Fondo Dino Villani). 30. Le gerarchie razziali e di genere nelle colonie, tende Ettore Moretti, Gino Boccasile, 1936 (Fondo Dino Villani). 31. L’estetizzazione della violenza razzista del fascismo, impermeabili Marfor, Gino Boccasile, 1940 (Fondo Dino Villani). 32. La persecuzione antisemita sposata con orgoglio dalle macchine da scrivere Everest, 1938/1939 (da Mauri, Romani di razza, p. 141).

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33-34. Le attrici del cinema statunitense testimonial dei prodotti Diadermina, ca. 1937/1938 (Fondo Dino Villani). 35. La dirompente sensualità delle calze Mille Aghi Franceschi, Gino Boccasile, 1941 (Fondo Dino Villani). 36. «Basta uno sguardo» con la cipria e il rouge Mystikum della Scherk, Società per la pubblicità commerciale, 1938 (da «Filmwelt», n° 1 (1938); © Staatsbibliothek Berlin). 37. Gli alti e bassi del corteggiamento in versione fumetto secondo la Palmolive, ca. 1938 (Fondo Dino Villani). 38. La sensualità “anti-demografica” degli annunci Palmolive, ca. 1935/1936 (Fondo Dino Villani).

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39. La ricerca della felicità individuale come leitmotiv dell’American way of life, 1939 (da «Domenica del Corriere», n° 19 (1939), p. 4; © Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze). 40. Le aspirazioni dell’alta borghesia globale negli annunci dell’acqua di colonia 4711, 1938 (Fondo Dino Villani).

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41. La dama mondana è «sempre piena di briosa vivacità – grazie alla 4711!», 1938/1939 (Fondo Dino Villani). 42. Le signore alla moda fumano mentòla, UPI, ca. 1938 (da «La Difesa della razza», n° 6 (1938), p. 6; © Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze).

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43. Un’esclusiva «mistura di qualità per fumatori esigenti», sigarette Nil, ca. 1938 (da «Die Dame» (1938); © Staatsbibliothek Berlin). 44. La promessa del comfort FIAT per tutti i fedeli membri della comunità fascista, Marcello Dudovich, ca. 1934 (Fondo Dino Villani).

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45-46. Il reclutamento femminile durante la Seconda guerra mondiale secondo la Kaloderma, 1942 (da «Die Dame» (1942); © Staatsbibliothek Berlin).

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47. La promessa di un futuro di benessere nell’Europa in guerra, radio Philips, Studio Dorland, 1939/1940 (Bauhaus-Archiv, Berlin, Studio Dorland). 48. Mantenere alto il morale anche se i prodotti non sono più disponibili, creme Nivea, 1940 (da «Die Deutsche Werbung», n° 17-18 (1940), p. 597; © Staatsbibliotek Berlin).

3. Tra ideologia e commercio

Nel maggio del 1933, a meno di due mesi dalla creazione del Ministero per la propaganda, il direttore della rinomata rivista di settore «SeidelsReklame», M. C. Schreiber, pubblicò un editoriale dal titolo «pubblicità tedesca per il lavoro tedesco», in cui sottolineava l’importanza che le réclame rispecchiassero lo «spirito della nuova Germania».1 Convinto che il nuovo Ministero avrebbe «liberato la pubblicità da inutili impedimenti burocratici»,2 Schreiber non fu certo il solo ad incoraggiare la germanizzazione della pubblicità nella speranza di ottenere maggiore libertà, oltre che maggior prestigio, per la propria categoria. Questa crociata per la nazionalizzazione dei contenuti e dell’immaginario pubblicitario avrebbe costituito una delle maggiori battaglie portate avanti dal Consiglio pubblicitario e da «La Pubblicità d’Italia» nel corso degli anni Trenta.3 Sviluppatasi di pari passo con l’epurazione di oppositori politici e perseguitati razziali, questa missione era composta da due facce della stessa medaglia: da un lato eliminare ogni influenza straniera dalla réclame e dall’altro nazionalizzarne le tematiche e l’immaginario visivo. Il secondo comunicato del Consiglio pubblicitario fu ben chiaro a riguardo: «La pubblicità deve essere tedesca nel suo carattere e nella sua espressione. Non deve urtare la sensibilità morale del Volk, e in particolare la sua volontà e i suoi sentimenti religiosi, patriottici e politici. La pubblicità deve essere 1. M.C. Schreiber, Deutsche Werbung für deutsche Arbeit, «Seidels-Reklame», 17, n° 5 (1933), p. 145. 2. M.C. Schreiber, Reichsministerium für Volksaufklärung und Propaganda, «Seidels-Reklame», 17, n° 3 (1933), p. 77. 3. Cfr. Mosse, La nazionalizzazione delle masse e Salvati, L’inutile salotto, p. 11 ss.

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gradevole e di buon gusto».4 La necessità di epurare i contenuti pubblicitari si rivelò fin da subito come uno degli indici di maggior sintonia fra il regime nazista e quello fascista, che, pur con risultati discordanti, condivisero molte delle parole d’ordine che animarono la corsa a una réclame “autenticamente” tedesca o italiana. Sia in Germania che in Italia le riviste di settore iniziarono così a essere subissate da un profluvio di slogan e direttive finalizzate a spronare i pubblicitari a politicizzare le réclame per il bene delle rispettive comunità nazionali. Formulata in maniera sufficientemente vaga da poter di fatto essere impiegata per escludere chiunque non andasse a genio al regime per motivi politici, razziali o sociali, la crociata per la purificazione della réclame prese presto le forme di una “de-giudeizzazione” radicale del settore, presentata come necessaria a garantire la protezione morale del Volk. In Germania, come abbiamo visto, ciò avvenne già a partire dal 1933, raggiungendo l’apice negli anni a cavallo tra il 1936 e il 1939, mentre in Italia la progressiva «razzializzazione» del settore pubblicitario ebbe luogo a partire dal 1936,5 per culminare con le Leggi razziali del 1938, che sancirono l’immediata estromissione di gran parte dei professionisti e delle ditte ebraiche. “Purificare” la réclame da ogni influenza straniera comportava prima di tutto l’esclusione delle compagnie straniere. Nel corso della prima metà degli anni Trenta, il combinato disposto degli effetti della Grande depressione e dei divieti del regime obbligarono molte delle agenzie estere stabilitesi in Germania a ritirarsi. Entro il 1937 la maggior parte di queste compagnie erano così state estromesse dal mercato tedesco – o germanizzate, come nel caso della filiale berlinese della J. Walter Thompson (JWT). Nel caso dell’Italia fu principalmente la crisi economica a causare la chiusura di molte filiali estere, come la già menzionata ERWA o la JWT, che nel 1927 aveva aperto i battenti anche a Milano. È importante sottolineare questo aspetto, in quanto le vessazioni del regime non sembrano aver giocato un ruolo preponderante nella decisione di queste compagnie di ritirarsi dal mercato italiano. Nel caso della JWT, ad esempio, per quanto gli impiegati si lamentassero dell’eccessiva burocrazia o della tassa imposta sulle réclame nel 1927, il giudizio sull’operato del fascismo in campo pubblicitario 4. Zweite Bekanntmachung des Werberates, II, 6, 1° novembre 1933, citata anche in Greuling, Der Werberat, p. 56. 5. Sul concetto di razzializzazione cfr. Giuliani e Lombardi-Diop, Bianco e nero, p. 57 ss.

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rimase alquanto positivo.6 Negli incontri dei vertici della compagnia, l’Italia venne descritta come un mercato dalle grandissime potenzialità ma decisamente arretrato, almeno fino a quando Mussolini ha inaugurato il suo principio di mirare a “libri, bambini e sapone” […]. Questo programma triangolare di Mussolini sta rapidamente cambiando il quadro del potere d’acquisto della gente, la nostra capacità di raggiungerla e la loro comprensione di ciò che abbiamo da dire.7

Mentre il potere di acquisto dei ceti medi e meno abbienti avrebbe in realtà subito un drastico peggioramento, che si sarebbe aggravato sempre di più nel corso degli anni Trenta, è fondamentale rilevare che imprese come la JWT percepirono gli interventi del regime fascista come tutt’altro che antitetici ai loro interessi per tutto il corso degli anni Trenta, come ricordato recentemente anche da Marco Bertilorenzi.8 Con ciò non si intende dire che la spinta a liberarsi dalle «servitù straniere»9 che avrebbe caratterizzato la fase autarchica del regime non si ripercosse pesantemente sull’industria pubblicitaria di quegli anni, estendendosi pian piano anche alla discussione sulle tecniche pubblicitarie statunitensi, come vedremo fra poco. Gli obiettivi del Consiglio pubblicitario e del Minculpop tuttavia non si fermavano qui. La crociata per la nazionalizzazione dei contenuti pubblicitari implicava infatti un progressivo assorbimento dei temi e delle immagini più proprie dell’ideologia fascista e nazista, che avrebbe dovuto esser messo in atto attraverso l’auto-allineamento di quei pubblicitari che erano riusciti a diventare membri della NSRDW e del Sindacato. Ma cosa comportava di preciso tale imposizione? Nel clima violentemente razzista e antisemita di quegli anni, l’epurazione del linguaggio e dell’immaginario pubblicitario assunse spesso i connotati di una caccia alle streghe contro ogni immagine percepita come “corrosiva dello spirito nazionale”, “giudea” o che non rispecchiasse la concezione razziale della società propagandata dai fascismi. Bersaglio di questa irreggimentazione dell’immaginario pubblico furono 6. Miss Langden to the Editor: «Mussolini arrests Adtax-dodgers», cfr. DUHC, JWTA, JWT Newsletter Collection, b. MN8, JWT Newsletter, Vol. IX n° 194, 15 dicembre 1927, p. 522. 7. DUHC, JWTA, JWT Staff Meeting Minutes, b. 4, f. 5. Activities of the Antwerp Office, Staff Meeting, 27 ottobre 1931, p. 4. Sulle vicende della JWT Milan cfr. Gaudenzi, Commercial Advertising in Germany and Italy, pp. 95-110. 8. Cfr. Bertilorenzi, Un nazionalismo immaginario?, pp. 935-958. 9. Mussolini, Opera omnia, vol. XXVII, p. 242.

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soprattutto le donne. Che si trattasse della tanto denigrata donna-crisi – caricatura di quell’ideale di donna emancipata e cosmopolita, dotata di un’indipendenza quasi eversiva, (troppo) magra e soprattutto senza figli10 – o delle «corrotte e sguaiate civette giudee»,11 la rappresentazione, le abitudini e il corpo stesso delle donne divennero infatti il principale campo di battaglia sul quale attuare la fascistizzazione dell’immaginario pubblicitario. Nel postulare una simile politicizzazione della réclame, in una prima fase i vertici del Ministero per la propaganda non avevano tuttavia tenuto conto di un fenomeno che aveva afflitto i loro futuri alleati fascisti quasi un decennio prima: la mercificazione dei simboli del fascismo. A questa massiccia manovra di ideologizzazione della sfera commerciale corrispose infatti un altrettanto notevole tentativo di commercializzare gli emblemi politici dei fascismi, che ebbe luogo a partire dai primi anni di entrambi i regimi e che avrebbe continuato a costituirne una spina nel fianco negli anni a venire. 1. La crociata per la nazionalizzazione dei contenuti pubblicitari Nel 1936, l’organo di stampa del Consiglio pubblicitario nazista, il «Wirtschaftswerbung», illustrò con un’immagine alquanto chiara in cosa consistesse di fatto la politicizzazione della réclame: Quindi da oggi creeremo la pubblicità tedesca. Dove finora sorrideva una bambola seminuda arriverà una giovane hitleriana con le trecce […]. Al posto dei caratteri tipografici grotteschi usati finora, d’ora in poi adotteremo i caratteri gotici […], ecco come si fa pubblicità “alla maniera tedesca”.12

Se l’uso dei caratteri gotici fu caldeggiato a partire da metà anni Trenta, la crociata si abbatté prima di tutto sulla comunicazione commerciale, che a partire dai primissimi anni del Ventennio e del Terzo Reich fu sottoposto ad un processo di censura dei vocaboli stranieri. Lo champagne venne trasformato in Schaumwein, la réclame divenne Wirtschaftswerbung (pubblicità economica), e il Consiglio pubblicitario stilò un lungo elenco di 10. Per un’attenta analisi dei modelli di bellezza femminile durante il fascismo cfr. Gundle, Bellissima, pp. 92-106. Cfr. anche Chang, The Crisis-Woman. 11. Muß das sein?, «N.S.-Frauen-warte», 7, n° 17 (1938), p. 536. 12. Die Werbung muß deutsch sein, «Wirtschaftswerbung», n° 14 (1936), p. 80.

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parole straniere proibite, come già fatto a suo tempo dal fascismo.13 Questo valeva anche per i nomi dei prodotti o le insegne straniere – tassate dal fascismo al fine di recuperare «la purezza dell’idioma patrio» già a partire dal 1923 – nonché per il linguaggio degli annunci pubblicitari, che furono oggetto di ripetuti richiami per gran parte del Ventennio, fino all’eventuale proclamazione nel 1940 di una legge ad hoc che sancì il «divieto di uso delle parole straniere nelle intestazioni delle ditte e nelle varie forme di pubblicità», prevedendo l’arresto fino a sei mesi o un’ammenda fino a un massimo di 5.000 lire.14 Fu tuttavia sulla rappresentazione commerciale delle figure femminili che si giocò la vera battaglia per la nazionalizzazione della réclame. Come sottolineato dall’editoriale del «Wirtschaftswerbung», i diktat nazionalsocialisti e fascisti si accanirono in particolar modo sia sui comportamenti che sull’aspetto delle donne. Questo per due motivi fondamentali: prima di tutto in qualità di soggetti chiave per la realizzazione degli obiettivi demografici e razziali tanto cari ai fascismi, e poi in virtù del loro ruolo di principali consumatrici nonché organizzatrici del ménage familiare, che le rendeva indispensabili per il successo delle politiche economiche e autarchiche di entrambi i regimi.15 Sia l’Ufficio (poi Ministero) della stampa che il Consiglio pubblicitario si prodigarono dunque per assicurarsi che le pubblicità contenessero immagini a detta loro adeguate, in cui le donne avrebbero dovuto essere mostrate nel contesto a loro più “naturale”, il focolare domestico, o comunque intente a svolgere i loro doveri di madri.16 I burocrati di regime presero con estrema serietà la cosa. La censura fu applicata a più riprese nel caso di rappresentazioni ritenute estranee allo spirito nazionale. Nella pubblicistica fascista questa strategia prese le forme di una vera e propria campagna diffamatoria contro la famosa donna-crisi, a cui il fascismo tentò di contrapporre floride massaie rurali e madri prolifiche, e che raggiunse l’apice nel biennio 1932-1933, rimanendo poi una costante della propaganda fascista per tutti 13. Cfr. Westphal, Werbung im Dritten Reich, p. 50 ss.; Raffaelli, Le parole proibite, soprattutto pp. 125-132 e 161-167; Me ne frego! 14. Ceserani, Vetrina del Ventennio, p. 121; Eja, Eja, Eja, Alalà!, p. 429. 15. La letteratura sulla storia delle donne nei fascismi è ormai vasta. Cfr. in particolare i classici Koonz, Mothers in the fatherland, De Grazia, Le donne nel regime fascista e Stephenson, Women in Nazi Germany. Sul rapporto fra donne e consumi cfr. The Sex of Things e Passerini, Donne, consumo e cultura di massa, pp. 373-392. 16. Cfr. De Grazia, Nationalising women, pp. 337-358.

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gli anni Trenta.17 Tale enfasi sulla prolificità era parte integrante della ben più articolata strategia di allevare figli per la patria così centrale alla politica di potenza di Hitler e Mussolini, perseguita con una commissione di misure repressive e incentivi – quali la tassa sul celibato, la creazione dell’Opera nazionale maternità e infanzia (ONMI) già nel 1925 e il soccorso Mutter und Kind del Welfare popolare nazista (NSV), nonché i prestiti matrimoniali e le onorificenze per madri prolifiche.18 La volontà di controllo sul corpo della donna scaturì dunque prima di tutto dalla necessità di incrementarne la fertilità, condizione imprescindibile per il perseguimento degli obiettivi demografici e razziali nonché per le aspirazioni belliche del regime. Una velina del luglio del 1932 comunicava, ad esempio, che «è stato fatto un richiamo a un giornale di Roma per un disegno rappresentante una donna eccessivamente magra. Data […] la ripercussione che i dimagramenti forzati hanno nella prolificità e quindi nella efficienza demografica, è bene che tali disegni non compaiano più».19 Il tono si fece via via più minaccioso. Nel febbraio del 1933 l’Ufficio stampa diramò un’altra velina: «È stato avvertito ai giornali che d’ora innanzi la pubblicazione di fotografie o figure di donne magre porterà senz’altro al sequestro», rincarando la dose pochi giorni dopo: «È stato raccomandato ai giornali di tornare sulla questione della “donna-crisi” cercando di arginare quanto più è possibile la tendenza che porta le donne a dimagrire per seguire mode esotiche, rendendole sterili e malate».20 Ancora nel luglio del 1937 una velina intimava alla stampa di «pubblicare trafiletti, novelle ecc. contro la donna-crisi», mentre pochi mesi dopo «Il Mattino» sottolineava che le donne dovevano essere «belle e ritondette, come direbbe Messer Ariosto, non grasse ma procaci, sinuose, salde».21 La lotta alla donna-crisi diventò presto uno degli slogan più in voga di quegli anni e venne fatto proprio da diverse riviste femminili quale «Il giornale della donna» – ribattezzato «La donna fascista» a partire dal 1935 – o riviste satiriche quali «Marc’Aurelio», nonché da pubblicazioni 17. Cfr. Willson, Empire, Gender and the ‘Home Front’, pp. 487-500. 18. Per una prospettiva comparata cfr. Ginsborg, Famiglia Novecento, pp. 205-324 e 443-560 e Salvante, I prestiti matrimoniali, pp. 39-58. Cfr. anche Minesso, Stato e infanzia nell’Italia contemporanea e Pine, Nazi Family Policy, pp. 8-47. 19. Velina del 29 luglio 1932, citata in Tranfaglia, La stampa del regime, p. 168. 20. Velina dell’8 febbraio 1933; velina del 10 febbraio 1933, ivi, pp. 168-169. 21. Citati in Ottaviani, Il controllo della pubblicità, p. 42.

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di stampo più accademico.22 Nel luglio del 1933 «Il giornale della donna» proclamò: «La donna fascista non potrà mai essere la donna-crisi!! Semplicemente perché essa sa che il suo primo dovere e il suo più ambito orgoglio è quello di essere madre».23 L’anno successivo, il critico d’arte Raffaele Calzini metteva in guardia contro qualunque deviazione dalla nozione “storica” della superiore beltà italiana, dalla quale emergeva con forza anche un’evidente contrapposizione di classe che ritroveremo poi nella propaganda nazista: Chi viaggia, lo sa […], chi percorre le strade lo vede. Anche oggi nelle campagne abruzzesi o senesi o romagnole, accanto agli infimi cinematografi dove lo sfacciato pubblicitarismo americano squaderna e sventola in fotografia il tipo sterilizzato e standardizzato della Venere nata dalla spuma di Hollywood, camminano dritte con […] la paniera sul capo, o solenni col bambino in braccio, le belle, le autentiche italiane, come regine in esilio.24

Come eloquentemente sottolineato da Calzini, la competizione con la crescente cultura commercializzata di stampo anglosassone, e soprattutto statunitense giocò un ruolo di spicco nella campagna per la nazionalizzazione dei modelli femminili. Non a caso, nel corso degli anni Trenta le invettive colpirono soprattutto tre settori nei quali l’influenza estera era maggiormente sofferta e malvista: la pubblicità, le riviste illustrate e il cinema.25 Il Minculpop non si limitò infatti a tentare di arginare la proliferazione di immagini femminili bollate come sterili o troppo provocanti, ma coinvolse più in generale tutti quei modelli di donna emancipata e mondana diffusi dal cinema e dalla cultura commerciale. Ancora nel 1938, ad esempio, il Ministero intimò di evitare ogni menzione di una delle grandi dive del Novecento – «Basta con Greta Garbo!» – e in pieno disastro bellico, nell’ottobre del 1942, vietò ogni riferimento alla celebre «venere nera» di Parigi, il cui talento contraddiceva in maniera fin troppo palese la becera propaganda razzista del fascismo: «Piantarla di occuparsi di Joséphine 22. Ad esempio È ora di dire tutto sulla donna tipo crisi!!, «Marc’Aurelio» 3, n° 21 (933), p. 1. Sulla «donna nuova» e le riviste del Ventennio cfr. Mondello, La nuova italiana, pp. 53-79. 23. G.M., Bellezza femminile italica, «Il giornale della donna» 15, n° 14 (1933), p. 7. 24. R. Calzini, La bella italiana: da Botticelli a Tiepolo, supplemento di «Domus», 84 (1934), p. 5, citato anche in Gundle, Bellissima, p. 97. 25. Cfr. in particolare Ascheid, Hitler’s Heroines, pp. 11-41; Messina, Le donne del fascismo, pp. 11-27; Gundle, Mussolini’s Dream Factory, soprattutto pp. 67-95.

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Baker, sia pure per deplorare che altri se ne siano occupati».26 Tali modelli di femminilità, in Italia come in Germania, furono percepiti come una minaccia prima di tutto per il loro carattere anti-nazionale o come il prodotto dell’influenza “giudaico-bolscevica”, il cui individualismo rampante e corrosivo avrebbe minato lo spirito collettivo della nazione proletaria fascista e del Volk germanico. Ciò che preoccupava i dignitari fascisti e nazisti, tuttavia, era soprattutto la pulsione “anti-demografica” di certe immagini femminili, quella sensualità volta al piacere invece che alla riproduzione che nell’ottica del regime assunse un deciso carattere anti-nazionale. Questo aspetto risultò evidente soprattutto nel contesto dell’Italia fascista, dove immagini non conformi alla morale cattolica furono duramente censurate. Una delle questioni principali sembrò essere la rappresentazione di donne in abiti cosiddetti succinti. A tal proposito, prima l’Ufficio stampa e poi il Ministero lanciarono un’offensiva su vasta scala contro ogni immagine che divergesse dalla morale tradizionale e costituisse a detta loro una minaccia al futuro dell’Italia fascista. Nel luglio 1933, un quotidiano della capitale venne posto sotto accusa per un editoriale sulla moda che mostrava alcune donne in costume da bagno: «è stato ripreso il “Popolo di Roma” per aver pubblicato fotografie di donne nude in terza pagina, mentre nella prima pagina vi sono le fotografie col Pontefice». Per evitare il ripetersi di simili gaffe Gaetano Polverelli, al tempo a capo dell’Ufficio e futuro Ministro della cultura popolare, intimò ancora una volta ai quotidiani di «non pubblicare fotografie di donne nude perché costituiscono un elemento antidemografico». Simili direttive furono reiterate due anni dopo da Galeazzo Ciano, ora nelle vesti di Sottosegretario per la stampa e la propaganda, il quale proibì alla stampa di diffondere foto di donne «in costume molto succinto»27 nonostante venissero utilizzate per illustrare degli esercizi di ginnastica domestica, tanto incoraggiati dal fascismo. Come illustrato da Patrizia Dogliani, lo sport e le attività ricreative divennero infatti uno degli strumenti più efficaci per «creare una cultura popolare fascista» ed educare il «nuovo italiano».28 26. Cfr. Cassero, Le veline del Duce, pp. 27, 84. Cfr. anche Righettoni, Bianco su nero, pp. 60-66. 27. Cfr. Ottaviani, Il controllo della pubblicità, pp. 43-44. 28. Dogliani, Il fascismo degli italiani, p. 200. Cfr. anche Ead., Educazione fisica, pp. 143-155.

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La strenua battaglia contro ogni incarnazione di una modernità femminile “sterile” assunse una priorità se possibile ancora più marcata nella Germania nazionalsocialista. Qui l’oggetto degli strali del regime fu la neue Frau, la donna nuova della Repubblica di Weimar, emblema di donna indipendente e disinibita con il caschetto alla maschietta in stile Louise Brooks, dedita al lavoro retribuito e alla socialità delle metropoli urbane industrializzate.29 La necessità di superare quest’immagine a favore del mito della donna tedesca, o meglio “ariana” – sana, atletica e consacrata a educare la propria numerosa prole secondo i dettami del nazionalsocialismo – diventò una vera e propria ossessione non solo per il Consiglio pubblicitario ma anche per larghi settori della stampa nazionalsocialista. Cosa comportasse di preciso il creare un tipo di pubblicità «più vicino alla natura femminile e all’essenza delle donne» venne prontamente illustrato già nel giugno del 1933 dalla rivista «Seidels-Reklame», che offrì una satira alquanto esemplare della vamp weimariana – in fondo non lontana dal celebre personaggio di Marlene Dietrich nel film del 1930 L’angelo azzurro – che il nazionalsocialismo si proponeva ora di spazzar via: Se ci chiedessimo se negli ultimi anni la pubblicità […] sia stata davvero rappresentativa della donna tedesca, la riposta sarebbe […] che non [lo] è stata affatto […]. Le vacue bamboline che venivano per esempio mostrate […] sedute sullo sgabello di un bar, con le gambe accavallate e le loro eleganti calze di seta artificiale in bella mostra, o […] intente a fare il bucato nel lavandino con tale grazia da suscitare preoccupazione per il bello smalto rosso sulle loro unghie così ben levigate risultano aliene alla maggioranza delle donne tedesche […]. La pubblicità nazionale non intende più dissipare milioni per presentare un’immagine falsa e distorta della vita familiare tedesca alla donna tedesca; vuole invece, molto semplicemente, ritornare, senza pretese e naturalmente, all’essenza della donna tedesca.30

Quale fosse di preciso l’essenza della donna tedesca non sarebbe mai stato stabilito con certezza, fatta eccezione per tre elementi fondamentali: sana, “ariana” e del popolo. Certo è che, nell’arco del decennio successivo, la dittatura nazionalsocialista investì notevoli risorse nel tentativo di eliminare slogan e immagini che non si confacessero allo spirito del cosiddetto Terzo Reich. Già a partire dall’estate del 1933, il Ministero sollecitò ripe29. Fra l’ormai vasta letteratura sul tema cfr. Boak, Women in the Weimar Republic e Lynn, Contesting and Critiquing, pp. 337-354. 30. Von Frau zu Frau, «Seidels-Reklame», 17, n° 6 (1933), p. 200.

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tutamente riviste e agenzie pubblicitarie affinché ricorressero a rappresentazioni femminili più naturali – che secondo l’ideologia nazionalsocialista significava, oltre che sane e prolifiche, “ariane”. L’esclusione di raffigurazioni che non rispecchiassero in tutto e per tutto l’ideale della supposta razza ariana ebbe infatti la precedenza. Ciò spesso si tradusse nella proliferazione di immagini di giovani hitleriane, madri devote o sane contadine che incarnassero l’ideologia Blut und Boden, sfoggiando acconciature tradizionali e comportamenti modesti, oltre a un vestiario poco appariscente. Secondo questa logica le donne non avrebbero assolutamente dovuto fumare, bere alcolici, truccarsi, guidare o concedersi momenti di svago, salvo quelli sanciti dall’associazionismo fascista e nazista. Oltre all’enfasi sulla prolificità, le donne nazionalsocialiste così come quelle fasciste ritratte dalla pubblicità avrebbero inoltre dovuto appartenere al popolo, inteso come comunità razzialmente e politicamente omogenea. Secondo le frange più intransigenti del regime, la forte componente di classe avrebbe infatti dovuto rappresentare una costante delle rappresentazioni commerciali femminili, come evidenziato anche dall’enfasi sulla parsimonia della «Seidels-Reklame». Mentre per quel che riguarda la razzializzazione dei contenuti pubblicitari i risultati non tardarono ad arrivare, come vedremo, la politicizzazione del ben più elusivo immaginario femminile non sortì sempre gli effetti desiderati. Nonostante gli indefessi tentativi, i regimi non sarebbero infatti riusciti a vietare in tutto e per tutto le rappresentazioni femminili considerate contrarie allo spirito dei fascismi nella pubblicità commerciale. Tale fallimento – oltre a fornire un ottimo esempio della pluralità di obiettivi spesso contrastanti che caratterizzò entrambe le dittature e di quanto la “volontà totalitaria” dei fascismi, per quanto brutale, non riuscì mai a tradursi del tutto in realtà – fu anche frutto della manifesta strategia di accondiscendere alle aspirazioni di consumo delle classi medie e medio-alte. La crociata per la nazionalizzazione della pubblicità commerciale non si limitò al linguaggio e all’immaginario pubblicitario ma si estese ben presto anche al bagaglio di tecniche e know-how di provenienza prevalentemente angloamericana. Sul piano istituzionale ciò si concretizzò in una critica sempre più esplicita all’efficacia dei metodi pubblicitari statunitensi, che andò di pari passo con l’acuirsi dell’antiamericanismo in entrambi i paesi.31 Già nel 1936 31. Cfr. Nacci, Lʼantiamericanismo in Italia negli anni Trenta, soprattutto pp. 161176; Becker, Amerikanisierung im “Dritten Reich”?, p. 155 ss.

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«Die Deutsche Werbung» commentò: «I metodi pubblicitari americani sono stati a lungo elogiati come modelli esemplari per e dagli esperti tedeschi». Mentre «è innegabile che le agenzie statunitensi abbiano portato avanti un’infinità di campagne ammirevoli», sottolineava l’autore, era ora necessario interrompere questa tendenza, che aveva portato molti pubblicitari a sottovalutare l’«evidente superiorità» della pubblicità tedesca.32 È interessante notare come anche in questo contesto i metodi statunitensi non furono criticati tanto per il loro carattere “non tedesco”, quanto per la loro presunta inefficacia. Dopo aver elencato una serie di abbagli nella storia della pubblicità statunitense, la rivista concludeva che: «Questi esempi dovrebbero mostrarci che “usano l’acqua per cucinare” persino negli Stati Uniti, […] che non c’è alcuna ragione per lodare i loro metodi in quanto esemplari in tutto e per tutto».33 Tale atteggiamento trovò ampia eco nelle riviste italiane di settore – soprattutto ne «La Pubblicità d’Italia» – che pur avendo condannato aspramente ogni influenza straniera ancor prima dei colleghi nazisti avevano fino a quel momento continuato a portare avanti il dibattito sulle tecniche psicologiche adottate dalla réclame statunitense. Il giudizio espresso da Rino Alessi, direttore de «Il Piccolo» di Trieste, fu in questo senso esemplare: La pubblicità dei giornali italiani è ricca di trovate, piena di armonia, varia, piana e immediata. Dice la sua parola senza ricorrere allo stolido esibizionismo delle “americanate”. Certa pubblicità fracassona che colpiva al primo momento, ma non persuadeva, è stata sostituita da forme nuove che figurano dignitosamente anche sulle colonne dei quotidiani di tecnica più raffinata.34

Tale presa di posizione prenderà sempre più campo nelle esternazioni ufficiali dei rappresentanti del regime. Ancora nel 1941, Alessandro Pavolini rimarcava la centralità della pubblicità nella concezione fascista dell’economia, «non soltanto per il vecchio aforisma che “la pubblicità è l’anima del commercio”», ma «perché anche nelle forme pubblicitarie noi dobbiamo cercare di esprimere la nostra genialità e originalità, liberandoci una volta per sempre dalla servile imitazione di mode e di sistemi che sono estranei al nostro spirito e alla nostra tradizione».35 32. Johannes Kaupisch, Sind amerikanische Werbemaßnahmen vorbildlich?, «Die Deutsche Werbung», 29, n° 1 (1936), p. 26. 33. Ivi, p. 27. 34. Rino Alessi, Pubblicità nel clima fascista, «La Pubblicità d’Italia», 3, n° 17-18 (1939), p. 48 (IV). 35. Alessandro Pavolini, «La Pubblicità d’Italia», 5, n° 43-46 (1941), prima di p. 9 (senza numero di pagina).

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Nell’esaltare l’ingegnosità della pubblicità italiana rivendicando una maggior dose di autonomia nei confronti del modello statunitense, gli esperti nostrani ricorsero generalmente a toni meno tranchant, non astenendosi a volte dal polemizzare con gli alleati tedeschi. Nel dar conto dell’ultimo viaggio studio negli Stati Uniti organizzato da «Die deutsche Werbung», ad esempio, nel 1938 l’organo del Sindacato fascista lo descrisse come una tournée di grande interesse, arricchita da diverse visite alle principali organizzazioni del settore pubblicitario statunitense.36 La rivista non mancò tuttavia di esprimere le proprie perplessità riguardo all’utilità di una simile esperienza, nonché la malcelata invidia per la stima di cui già godevano i pubblicitari statunitensi: Ciò che di più istruttivo ed eloquente troveranno […] i nostri colleghi tedeschi […] sarà soprattutto l’atmosfera nella quale vive e opera il pubblicitario americano. Atmosfera di fiducia e quindi di successo e quindi di ardita intraprendenza, ambiente ricco di mezzi e di quasi illimitate possibilità anche morali. È una valutazione questa della pubblicità che dovrà, presto o tardi, ma più presto che tardi, farsi strada anche in Europa.37

Quasi in tono di sfida, «La Pubblicità d’Italia» esortò piuttosto a visitare le aziende e i media italiani – la nuova tipografia de «La Gazzetta del Popolo» in primis – dal momento che «l’Italia fascista ha in pochi anni compiuto progressi giganteschi», e che «la potenza e il rendimento degli impianti dipendono ormai dalle macchine, le quali […] sono a disposizione di chiunque intenda comprarle. […] Abbiamo oggi a nostra disposizione tutto quanto occorre per una splendida affermazione nazionale anche nel nostro campo».38 Oltre all’acceso nazionalismo che contraddistingue queste affermazioni, è importante rilevare ancora una volta quanto la questione irrisolta del riconoscimento professionale rimase la spina nel fianco dei pubblicitari italiani almeno fino all’inizio degli anni Quaranta. Se in Germania ampi settori della dirigenza nazista si adoperarono fin da subito per attuare una razionalizzazione dell’industria pubblicitaria sul modello taylorista, i professionisti italiani furono spesso abbandonati a se stessi nel tentativo di assimilare le lezioni dei colleghi d’oltreoceano, sminuite se non addirittura osteggiate da una parte cospicua del regime fascista. 36. Viaggi e scoperte, «La Pubblicità d’Italia», 2, n° 13-14 (1938), p. 56. 37. Ivi, p. 57. 38. Ivi, pp. 56-57.

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Le frecciatine scioviniste tuttavia rivelavano un altro aspetto significativo. Per quanto a partire da metà anni Trenta la Germania fosse diventata il principale punto di riferimento per ampi settori dell’industria pubblicitaria italiana anche per la sua rielaborazione in senso autoritario del sapere angloamericano, tale incantesimo non solo non si estese mai a tutto il settore (né in generale a tutto il regime), ma, con il progredire della crociata nazionalistica, iniziò in alcuni casi a spezzarsi, facendo presagire il ben più generale disamore della dirigenza fascista per gli alleati nazisti. Dal canto loro, i pubblicitari tedeschi dedicarono un numero sempre crescente di editoriali alla pubblicità italiana, esaltandone con toni spesso entusiastici non solo le campagne più esplicitamente propagandistiche e collettive (come il famoso manifesto «Vincere!» della FIAT, o le campagne collettive per l’alluminio), ma anche gli annunci creati dall’Unione Pubblicità Italiana (UPI) per i «rimedi di famiglia» quali l’aspirina, pubblicizzata da un’elegante famiglia mononucleare ritratta nel suo comodo salotto altoborghese (fig. 2).39 Ancora agli inizi del 1940, pochi mesi prima dell’entrata in guerra dell’Italia a fianco dei nazisti, «La Pubblicità d’Italia» tornò sull’argomento, con toni tuttavia più concilianti: «Si è detto, e si continua a dire, che l’America è il Paese della Pubblicità. Nessun dubbio che la pubblicità, avendo trovato negli Stati Uniti un clima singolarmente propizio, vi abbia raggiunto la compiutezza della tecnica e l’eccellenza dell’arte». Tuttavia, proseguiva l’articolo, «niente ci autorizza a riconoscerla come un prodotto spontaneo ed esclusivo del suolo americano […] È caratteristica di tutte le masse avere sensazioni comuni e debolezze collettive su cui la pubblicità agisce a colpo sicuro».40 Gli esperti italiani, così come i tedeschi, sembravano dunque ancora convinti dell’universalità nonché dell’infallibilità delle tecniche di persuasione di massa. L’inasprirsi dei toni anti-americani, che raggiungeranno poi l’apice con l’entrata in guerra degli Stati Uniti nel dicembre del 1941, non fu tuttavia condiviso da tutti. Il congresso annuale dell’Istituto per gli studi autarchici e corporativi del 1940, ad esempio, fornì un ottimo esempio del perdurare della tendenza a prendere ispirazione dalle pubblicità statunitensi e britanniche. Uno dei principali portavoce di questa posizione fu, ancora una volta, Nino Caimi. Come riportato da «La Pubblicità d’Ita39. A. W. Post, Querschnitt durch die italienische Werbung, «Werben und Verkaufen», 26, n° 8 (1942), pp. 293-296. 40. Pubblicità alla pubblicità, «La Pubblicità d’Italia», 4, n° 31-32 (1940), p. 31.

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lia», nel suo intervento Caimi sottolineò a più riprese l’importanza dell’esperienza angloamericana, rimarcando l’efficacia delle loro campagne di pubblicità collettiva. Enfatizzando il ruolo della réclame come “braccio armato” della propaganda, Caimi ne sottolineò l’importanza fondamentale per «fare accettare, all’infuori di ogni forza coercitiva, abitudini diverse e modificati consumi», presentando le tecniche statunitensi come le più appropriate a realizzare tale scopo.41 L’apparente contraddizione tra la volontà di emulazione delle moderne tecniche pubblicitarie angloamericane e la messa all’indice dei contenuti da essi veicolati costituì una costante dell’ambiguo rapporto tra i fascismi e la modernità del capitalismo liberale. Come è stato evidenziato nel caso del cinema hollywoodiano, infatti, i fascismi coltivarono l’ambizione di potersi appropriare degli aspetti tecnici e organizzativi di questi prodotti culturali svuotandoli al contempo del loro significato sociale e culturale originario.42 Nel perseguimento della loro modernità autoritaria, pur condannando duramente le tendenze individualistiche incarnate dalla réclame statunitense, i fascismi non esitarono dunque ad adottarne le strategie di persuasione di massa al fine di consolidare, in particolare, il consenso delle classi medie. Ciò fu particolarmente vero per la Germania nazista, dove secondo il germanista Hans Dieter Schäfer questa strategia di appropriazione dell’approccio fordista e razionalista statunitense portò alla creazione di diverse forme di pubblicità politicizzata ibrida, ma come abbiamo visto si rivelò parzialmente fondato anche per alcuni settori del regime fascista, soprattutto quelli afferenti alla corrente che faceva riferimento a Bottai.43 La crociata per la politicizzazione della sfera commerciale non può esser compresa appieno se non si tiene conto del parallelo processo di commercializzazione dei simboli politici del fascismo e del nazismo che si sviluppò subito dopo l’ascesa al potere di entrambi i dittatori. Ai ripetuti tentativi di politicizzazione della sfera commerciale “dall’alto” corrispose infatti un egualmente capillare tentativo di commercializzazione dei simboli politici “dal basso”, che coinvolse prima di tutto l’immagine dei due 41. Nino G. Caimi, L’autarchia e la pubblicità collettiva, «La Pubblicità d’Italia», 4, n° 33-34 (1940), p. 17. Il corsivo è dell’autrice. 42. Cfr. in particolare Brunetta, Il ruggito del leone, pp. 135-160, Gundle, Mussolini’s Dream Factory, pp. 67-95, De Grazia, La sfida dello “Star System”, p. 112 e Anania, Tosatti, L’amico Americano, p. 30. 43. Cfr. Schäfer, Amerikanismus im Dritten Reich, pp. 199-215.

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dittatori ma anche gli emblemi dei fascismi, dando vita a una miriade di prodotti che spaziavano dai costumi a bagno con l’effigie del duce alle pagnotte a forma di croce uncinata, e che i regimi tentarono di arginare con ogni mezzo. 2. Comprare il duce e il Führer: la commercializzazione dei simboli politici Descrivendo il proprio soggiorno a Roma, nel 1929, il romanziere e giornalista Henri Béraud osservava: Mussolini è ovunque – il suo nome e pure la sua effigie, nei gesti così come nelle parole […] Dovunque si guardi, dovunque si cammini, si troverà Mussolini, ancora Mussolini, sempre Mussolini […] Il profluvio di immagini è davvero incredibile. La figura del Duce è parte dell’esistenza: domina ogni circostanza della vita italiana […] Che si entri da un cappellaio, in una gioielleria, in un panificio, in una drogheria, l’immagine del Dittatore, in funerea camicia, è lì […] Ecco alcune medaglie, ecco alcune incisioni. Ecco la sua biografia in ogni lingua […] Due passi più in là, in farmacia, alcune saponette con il profilo di Mussolini.44

Béraud, scrittore prolifico noto per i suoi reportage, caduto poi in disgrazia per il fervido sostegno prestato al regime di Vichy, ben immortalava ciò che già all’epoca era diventato uno degli aspetti più evidenti della quotidianità urbana dell’Italia fascista: l’onnipresenza dell’immagine o del nome del dittatore. Dai manifesti di propaganda che tappezzavano i muri delle principali città alle saponette profumate in vendita nelle botteghe, la “mascella volitiva” di Mussolini vegliava sui passanti col suo cipiglio austero e intimidatorio. Il duce entrava nelle abitazioni e nei circoli non solo via radio, con la sua voce stentorea, ma anche attraverso una miriade di piccoli oggetti di uso comune che cominciarono a esser distribuiti in massa a partire dalla seconda metà degli anni Venti.

44. Béraud, Ce que j’ai vu á Rome, pp. 39-41. Desidero ringraziare Gabriella Sansonetti dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma per avermi guidato nelle ricerche sui marchi e i brevetti del periodo 1918-1945. Una versione precedente di questo studio è stata pubblicata con il titolo The Commercialization of the Duce and the Führer, pp. 267-287. Ringrazio vivamente Laura Scarmoncin per la traduzione.

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Poco meno di quattro anni dopo, le strade, i negozi e le case di tutta la Germania sarebbero stati invasi dall’ingombrante presenza del nuovo Cancelliere, Adolf Hitler, il cui nome e la cui immagine venivano inculcati nella percezione collettiva da fragorose campagne orchestrate da Goebbels per diffondere il culto del Führer. Già un paio di settimane dopo l’incendio del Reichstag del 27 febbraio 1933, l’immagine del Führer troneggiava non soltanto su molti degli spazi e degli uffici pubblici, ma anche su un crescente numero di prodotti di natura commerciale, che avrebbero in breve subissato il mercato tedesco – dai medaglioni e le tazze di porcellana ai fermacravatta fino a un busto di Hitler modellato nel lardo nella vetrina di un macellaio di provincia.45 La proliferazione di questi oggetti – prontamente ribattezzati «kitsch nazionale» dai nazionalsocialisti46 – costituì un problema non trascurabile sia per il regime fascista che per quello nazista, i quali non vedevano di buon occhio una simile banalizzazione dei propri simboli politici e cercarono pertanto di reprimere o quanto meno controllare il fenomeno attraverso una serie di misure legali ed economiche. Come rivela l’osservazione di Béraud, per gran parte del Ventennio (e del Terzo Reich) la presenza del dittatore continuerà tuttavia a esser disseminata nella sfera pubblica e in quella privata attraverso una combinazione di appelli di natura non solo politica ma anche commerciale, che conferiranno massima visibilità ai loro personaggi pubblici.47 Tali iniziative, intraprese solitamente (ma 45. Cfr. Bayerisches Hauptstaatsarchiv (d’ora in poi BayHStA), Minister für Handel, Industrie und Gewerbe (d’ora in poi MHIG), b. 1149, Gesetz zum Schutz der nationalen Symbole. Centinaia e centinaia di richieste sono conservate al BayHStA, MHIG, b. 1147-1150, allo Staatarchiv München (d’ora in poi StAM), b. S 6963-6991, microfilm n° 2816-2819, così come al Bayerisches Wirtschaftsarchiv (d’ora in poi BWA), K9/774 e K9/775, Camera di commercio di Augsburg, e K1/ IX B 121, Camera di commercio di Monaco. L’ultimo fondo conserva anche una raccolta di ritagli dal «Deutscher Reichsanzeiger» a partire dal marzo del 1934, con gli elenchi dei prodotti respinti e approvati ogni mese dalle Commissioni del kitsch in tutta la Germania. Cfr. anche Westphal, Werbung im Dritten Reich, p. 44. 46. Reichsgesetzblatt, Teil I, 20 maggio 1933, pp. 285-286. Sennebogen ha dedicato parte della sua tesi di dottorato all’argomento, cfr. Sennebogen, Zwischen Kommerz und Ideologie, pp. 277-412. 47. Per una più ampia riflessione sulla cultura commerciale come causa di una radicale trasformazione dell’opinione pubblica borghese cfr. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, pp. 209-244 e l’interessante reinterpretazione in chiave di genere proposta da Asquer, Domesticity and Beyond, pp. 568-584. Sull’intreccio tra commercializzazione e politica cfr. in particolare Mergel, Verkaufen wie Zahnpasta?, pp. 372-399, Lamla, Politisierter Konsum, pp. 9-40 e Daunton, Hilton, Material politics, pp. 1-32.

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non esclusivamente) per ragioni economiche, pur trivializzandolo di fatto perpetuarono il predominio dei dittatori sulla vita quotidiana. Tale fenomeno costituisce un esempio significativo di come i miti del duce e del Führer non venissero solo imposti istituzionalmente dai vertici, attraverso l’uso massiccio di capillari strumenti di propaganda, ma anche cementati da una miriade di spinte individuali o collettive di natura non solo politica ma anche commerciale.48Benché la cruda realtà repressiva che distinse entrambe le due dittature non tardò a manifestarsi anche in una sfera apparentemente veniale come questa, la sollecitudine con la quale alcuni settori della società tedesca e di quella italiana si appropriarono e servirono del loro immaginario e dei loro slogan getta nuova luce sui processi di costruzione e disseminazione del mito dei dittatori, da un lato, e sulla ricezione e l’appropriazione di tale culto a scopo commerciali su di un piano più informale e quotidiano dall’altro. In tal senso, la convinzione che la propaganda dovesse basarsi sugli stessi princìpi della vendita di un sapone si rivela utile per mettere in rilievo non soltanto alcuni aspetti fondamentali della creazione del culto del leader carismatico, ma anche il livello di compenetrazione tra il linguaggio politico e quello commerciale che caratterizzò il Ventennio e il Terzo Reich. La commercializzazione dei simboli politici che ebbe luogo tra le due guerre rappresenta un importante antefatto della crescente compenetrazione tra la sfera politica e quella commerciale che giungerà a compimento negli ultimi decenni del Novecento ed è oggi ben visibile nella plateale commercializzazione e nel branding dei candidati o delle icone politiche – da Che Guevara a Donald Trump – dove il soggetto viene al contempo sacralizzato e mercificato.49 Mentre il concetto di sacralizzazione della politica è un tema ormai quasi abusato dall’odierna letteratura sui fascismi,50 è proprio nell’associare le due tendenze alla commercializzazione e alla sacralizzazione che vengono in mente i paragoni più stimolanti – basti pensare alla mercificazione subita a partire da metà Ottocento da istituzioni o figure “messianiche” quali la monarchia 48. La letteratura sul mito di Mussolini e di Hitler è estremamente vasta, cfr. in particolare Gentile, Il culto del littorio, pp. 235-265; Kershaw, The ‘Hitler Myth’; Gundle, Mass culture and the cult of personality, pp. 72-92; sulla tesi, ormai superata, del «mussolinismo» cfr. Melograni, The Cult of the Duce, pp. 221-237. 49. Cfr. ad esempio Casey, Che’s Afterlife. 50. Per una panoramica cfr. Gentile, Le religioni della politica, pp. VII- XIX e Steinbach, Der Nationalsozialismus, pp. 112-120.

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britannica o la Chiesa cattolica, ma anche Giuseppe Garibaldi e Paul von Hindenburg.51 Durante la dittatura fascista e nazista entrambe queste tendenze non solo coesistettero ma giocarono un ruolo cruciale nella diffusione dei culti della personalità, amplificandosi a vicenda e consolidando l’onnipresenza dei dittatori. Secondo Richard Bosworth fu proprio la «simultanea sacralizzazione e commercializzazione della vita politica» a costituire la novità fondamentale del culto della personalità di Mussolini.52 La mercificazione dei fascismi dunque agì tanto da detrimento quanto da catalizzatore del loro mito. Negli ultimi decenni, una molteplicità di media – dal cinema alle aste di eBay fino alle edicole di quartiere – ci hanno abituato alla proliferazione di beni di consumo che celebrano o quanto meno rimandano ai fascismi, che si tratti dei piatti con la svastica del film American beauty, dei grembiuli con Mussolini venduti per le strade di Roma, o perfino delle bottiglie di vino con l’effigie di Hitler. Anni fa il Museo di storia tedesca di Berlino suscitò aspre polemiche per aver incluso nella mostra “Hitler e i tedeschi” una serie di materiali ideati per promuovere il culto della personalità del Führer e garantire la sua costante presenza nel panorama politico ed estetico degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta. Oltre che con la propaganda e le parate roboanti, la figura di Hitler e i simboli nazisti vennero infatti disseminati tra il popolo tedesco attraverso una sbalorditiva varietà di oggetti di natura commerciale, che includevano mazzi di carte da gioco con i volti dei dignitari nazisti, pacchi di sigarette con uomini in uniforme da SA o foulard con piccole svastiche e fasci per celebrare la prima visita di Mussolini in Germania, nel settembre del 1937.53 Sebbene gran parte di questi articoli e dei relativi documenti venne distrutta o fu fatta sparire dopo la fine della Seconda guerra mondiale, i contemporanei concordano sul fatto che meno di due mesi dopo l’ascesa al potere di Hitler i negozi tedeschi erano già invasi da un’ampia varietà di oggetti di ogni forma e prezzo – da decorazioni di carta a buon mercato a costosi tagliacarte d’argento – che sfoggiavano croci uncinate o immagini di Hitler. Nel marzo del 1933, ad esempio, il brillante filologo Viktor Klemperer annotava nel proprio diario che sul dentifricio che era uso ac51. Cfr. Kaufman, Consuming Visions e Moore, Selling God. Cfr. Riall, Garibaldi, pp. 388-392 e Goltz, Hindenburg, pp. 117-123. 52. Bosworth, Mussolini, p. 211. 53. Hitler und die Deutschen, pp. 220-222.

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quistare in farmacia era prontamente comparsa una svastica, e che persino i giocattoli per bambini non erano rimasti immuni da questa moda.54 La Germania nazista non fu la prima dittatura a sperimentare la mercificazione di massa dei propri simboli politici. Descritto da Nino Caimi come «il miglior pubblicitario del mondo»,55 in rari casi fu Mussolini stesso a fornire il pretesto per la commercializzazione della sua persona. Già nel novembre del 1923, poco più di un anno dopo la marcia su Roma, il «Corriere della Sera» aveva pubblicato una réclame a tutta pagina della Perugina che citava un discorso fatto dal duce in occasione di una visita alla ditta: «Vi dico e vi autorizzo a ripetere che il vostro cioccolato è davvero squisito!». Disegnata dall’acclamato direttore artistico della Perugina, Federico Seneca, l’inserzione fu pubblicata su diversi quotidiani e portò lustro all’azienda sino a che non venne ritirata in seguito alle pressioni del governo.56 Da quel momento in poi, le autorità fasciste e la segreteria personale del duce sarebbero stati subissati da richieste di poter usare il nome o l’effigie di Mussolini e vari simboli del fascismo. Gli oggetti erano di natura estremamente variegata – da saponette con l’effigie di Mussolini a lampade da salotto a forma di fascio o perfino radiatori per auto con il profilo del duce, come vedremo. Sempre al 1923 risalivano il liquore Fascio e il Mussolini liquor, pubblicizzato dalla distilleria Fiori di Firenze e Trento come il «liquore commemorativo della Marcia su Roma e omaggio al Suo Duce Vittorioso»,57 mentre verso la metà degli anni Trenta comparvero un vero e proprio stuolo di prodotti a tema impero e, dulcis in fundo, la fotografia di una signorina che sfoggia orgogliosa un costume da bagno con il ritratto di Mussolini.58 La sorprendente celerità con cui le imprese e il mercato si appropriarono degli slogan e dell’immaginario dei fascismi era in parte legata alla progressiva commercializzazione della sfera politica attuata da entrambi i regimi nell’arco degli anni Venti e Trenta – basti pensare ai già menzionati concetti di “prodotto Italia” e degli italiani come dei consumatori politici, 54. Cfr. Klemperer, Lingua Tertii Imperii, p. 44. 55. Arte Pubblicitaria 1900-1933, p. 13. 56. «Corriere della Sera», 21 novembre 1923, sezione annunci. Cfr. Ceserani, Covino, Perugina, p. 108. Molto interessante è anche il paragone fra Mussolini e Rodolfo Valentino oggetto dello studio di Bertellini, The Divo and the Duce. 57. Ottaviani, Il controllo della pubblicità, p. 48. 58. Cfr. Falabrino, Effimera & bella, p. 104. La foto è riprodotta in Falasca-Zamponi, Fascist spectacle, p. 93.

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o alla creazione del “marchio” hitleriano. Prima l’Ufficio stampa e poi il Minculpop investirono un’impressionante quantità di risorse per mettere in scena e diffondere il mito mussoliniano attraverso parate oceaniche, pamphlet, manifesti, trasmissioni radiofoniche e cinegiornali, anche se – e questo è un passaggio fondamentale – come ha sottolineato Stephen Gundle, Mussolini era restio ad apparirvi troppo spesso, per non intaccare l’aura di mito che doveva circondare la sua immagine pubblica.59 Tale processo di mercificazione venne messo in pratica con ancora più incisività nel caso della Germania nazista, dove il principale ideatore del “marchio Hitler”, Joseph Goebbels, divenne la forza propulsiva alla base della commercializzazione della politica tedesca. Nei suoi diari, Goebbels si vantava di aver cementato il movimento nazionalsocialista conferendo a Hitler un’aura di infallibilità e creando così il mito del Führer, non facendo mistero del suo massiccio ricorso alle moderne strategie pubblicitarie al fine di confezionarne il culto e trasformarlo in un «marchio di fabbrica politico».60 La fascinazione era spesso reciproca, come vedremo. I collaboratori della JWT, ad esempio, si tramandarono per decenni un aneddoto in base al quale a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta la loro filiale di Berlino si era «dotata di una mascotte ufficiale di nome Joseph Goebbels. Il Ministro della propaganda nazista ha manifestato un profondo interesse nell’apprendere le moderne strategie di comunicazione commerciale e ha preso l’abitudine di trascorrere il proprio tempo libero nel nostro ufficio».61 Nel periodo interbellico la cultura commerciale e politica italiana e tedesca furono dunque caratterizzate da processi distinti ma paralleli di politicizzazione e commercializzazione. In realtà, questo fenomeno era tutt’altro che circoscritto all’Italia e alla Germania. Già negli anni Venti Mussolini era diventato una sorta di celebrità in tutta Europa, e non solo – la sua Segreteria riceveva innumerevoli richieste di fotografie autografate 59. Cfr. Gundle, Mass Culture, pp. 86-87. Cfr. anche Ceserani, “Comunicare il Duce”, pp. 157-184. 60. Cfr. Goebbels, Die Tagebücher, Teil I, Vol. 9 (12 dicembre 1941); Behrenbeck “Der Führer”, pp. 51-78. Cfr. anche Schug, Hitler als Designobjekt und Marke, pp. 325-345. 61. DUHC, JWTA, Dawkins Papers, b. 11, manoscritto inedito The J. Walter Thompson Company, cap. 4, p. 9. Mentre l’interesse di Goebbels per la pubblicità statunitense è ben documentato, questa al momento è l’unica fonte che cita le sue frequenti visite agli uffici berlinesi della JWT. Sembra tuttavia improbabile che, se il fatto non fosse accaduto realmente, i dipendenti della JWT l’avrebbero menzionato, visto che tutte le loro ricostruzioni postbelliche mostrano una spiccata tendenza a celare ogni passato legame con i vertici nazisti.

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e dediche da ogni parte del mondo62 – ed era un testimonial molto ambito dalle grandi aziende internazionali, come la Kodak o la Coca-Cola. Nel 1929, nel sovraintendere alla campagna promozionale della Coca-Cola per l’intero mercato Europeo, i dipendenti della filiale JWT di Anversa affermarono che «le immagini di Mussolini che fa il saluto romano con una bottiglia in ciascuna mano costituiscono un richiamo di straordinario interesse e sincerità».63 Nove anni più tardi, perfino Hermann Göring si fece fotografare brandendo una Coca-Cola.64 Nel complesso, diversi furono i dignitari nazisti e fascisti che vennero impiegati in un’ampia gamma di appelli commerciali in tutta Europa. In alcuni casi, erano i dignitari stessi a promuovere pubblicamente determinati servizi o beni – le campagne per il welfare fascista e nazista in primis, i prodotti del Volk o Balilla, come la Radiobalilla o la FIAT 508, ma anche le ultime novità delle grandi industrie nazionali, come la Daimler Benz o la Montecatini.65 In molti altri, venivano invece sfruttati per pubblicizzare particolari marchi, come nel caso della Perugina o della Coca-Cola. Cosa ancora più importante, spesso furono i dittatori stessi a diventare un prodotto. Ciò risultò particolarmente vero nella fase iniziale di entrambi i regimi, durante la quale si poté assistere a un fenomeno che un membro della Consiglio pubblicitario avrebbe poi descritto come «un patriottismo della propria tasca».66 Fin dalla sua fondazione, nel marzo del 1933, il Ministero della propaganda dovette lottare per tenere l’effigie di Hitler lontano dalle vetrine dei negozi o per impedire ai panifici di vendere pagnotte a forma di croce uncinata.67 In realtà questa tendenza, benché su scala ridotta, si era manifestata già ben prima del 1933 in roccaforti naziste come la Baviera, dove a partire dalla metà degli anni Venti la produzione di bicchieri e di altri articoli per la casa aveva soddisfatto una compagine di 62. Cfr. ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri (d’ora in poi PCM), Gabinetto, annate 1928-1930, e 1931-1933, b. 3.2.2 e 20.1. Cfr. anche Schieder, L’ombra del duce, pp. 51-80 e Swan, Photographing Mussolini, pp. 31-342. 63. DUHC, JWTA, JWT Newsletter Collection, b. MN8, JWT Newsletter, Vol. XI n° 27, 15 gennaio 1929, p. 7. 64. Cfr. Westphal, Werbung im Dritten Reich, p. 42. Cfr. anche Schutts, “Die erfrischende Pause”, pp. 151-181. 65. Su queste due aziende cfr. Perugini, Il farsi di una grande impresa e Gregor, Stern und Hakenkreuz. 66. Greuling, Der Werberat, p. 33. 67. Cfr. Westphal, Werbung im Dritten Reich, pp. 44-46.

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fedeli sostenitori del partito nazista, assicurando all’ancora fragile partito un gradito sostegno economico e politico.68 Dopo la nomina a Cancelliere di Hitler questo trend si trasformò tuttavia in un fenomeno di massa, e in quanto tale cominciò a essere percepito come una minaccia dal neonato regime, il quale ambiva a mantenere uno stretto controllo sui propri simboli e il proprio immaginario politico. Per quanto la mercificazione di personalità o istituzioni non costituisse una novità di per sé nelle moderne società industrializzate, la portata del fenomeno, combinata con la centralità accordata al mito e alla propaganda da entrambi i fascismi, lo trasformarono presto in un bel grattacapo, che li accompagnerà fino a guerra inoltrata. Una volta raggiunto il potere, entrambi i regimi cercarono dunque di adottare una serie di contromisure più o meno rigide per arginare la produzione e la distribuzione del cosiddetto kitsch nazionale, con vari gradi di successo. La dittatura nazista reagì prontamente promulgando già nel maggio del 1933 la Legge per la protezione dei simboli nazionali, in base alla quale era «proibito l’uso pubblico dei simboli della storia tedesca, dello Stato tedesco e del Risveglio Nazionale [l’ascesa nazista] in un modo che si presti a ledere la percezione della dignità dei suddetti simboli».69 Secondo Anna von der Goltz, una risposta così repentina era da attribuirsi al timore di banalizzare o addirittura svilire il mito di Hitler come era accaduto per Hindenburg all’indomani della Prima guerra mondiale.70 Questo provvedimento e i successivi decreti obbligavano i produttori a ottenere una licenza da quelle che divennero note come le Commissioni del kitsch (Kitschkommissionen), attive in ogni stato della Germania, che in genere includevano un membro della Camera di commercio e uno dell’Associazione degli artigiani nonché un rappresentante delle sezioni di Guardia della cultura (Kulturwart) del partito nazista. Queste, a loro volta, riferivano al quartier generale federale, il Dipartimento per l’eliminazione del kitsch nazionale, istituito presso il Ministero per la propaganda nell’agosto del 1933.71 Durante il periodo più intenso, che andò dall’insediamento delle commissioni nell’ottobre del 1933 sino alla fine del 1935, ogni 68. Cfr. StAM, Polizeidirektion, b. S 6963-6991, microfilm n° 2816-2819, corrispondenza miscellanea fra il Gutachterstelle e vari enti. 69. BayHStA, Finanzministerium, b. 66818, Reichsgesetzblatt, 20 maggio 1933, pp. 285-286. 70. Cfr. von der Goltz, Hindenburg, pp. 120-122. 71. Cfr. StAM, Polizeidirektion S 6959, microfilm n° S 2816.

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Commissione si trovò ad esaminare svariate centinaia di richieste l’anno. Una volta scemata l’iniziale frenesia, anche grazie alla legge, che riuscì in parte a porre un freno alla produzione degli oggetti più pacchiani, le richieste diminuirono notevolmente, per poi subire una nuova impennata poche settimane prima dello scoppio della guerra, quando le commissioni furono subissate di istanze di commercializzazione dell’immagine dei soldati tedeschi e della Wehrmacht più in generale.72 Le commissioni deliberavano su richieste inoltrate direttamente dai fabbricanti, spesso con dovizia di documentazione, o in base alle denunce di membri delle forze dell’ordine o di comuni cittadini, come nel caso di uno stendardo da automobile rosso, bianco e nero con la croce uncinata intravisto per le strade di Monaco da un passante nell’autunno del 1933.73 Hindenburg tuttavia non era l’unico precedente a cui fecero riferimento i nazionalsocialisti nel correre così velocemente ai ripari. Già dai primi anni Venti il fascismo si adoperò per contenere l’uso dei suoi emblemi politici attraverso un insieme di norme, che si rivelarono tuttavia meno efficaci. Al di là del dubbio gusto di alcuni degli oggetti, tali misure erano ritenute necessarie affinché il regime potesse conservare un monopolio esclusivo sulla propria simbologia. Ai produttori veniva richiesto di ottenere una licenza ufficiale presso la locale prefettura o il PNF, che avrebbe rilasciato l’usuale nota sulla buona condotta morale e politica del candidato.74 A differenza di ciò che sarebbe poi successo in Germania, molti scelsero di rivolgersi direttamente a Mussolini o a sua moglie, Rachele Guidi, appellandosi alla benevolenza o al favore personale del duce con toni agiografici o tipici della supplica.75 È necessario sottolineare che sia in Italia che in Germania le richieste di natura esclusivamente commerciale furono solitamente respinte.76 Nel caso del produttore di bicchieri Malagola, ad esempio, che si era appellato 72. Cfr. BayHStA, MHIG 1147. Sui prodotti di carattere militare cfr. anche Swett, Selling under the Swastika, p. 65. 73. Cfr. StAM Polizeidirektion S 6960, Camera del commercio di Monaco, microfilm n° 2816. 74. Cfr. anche Gundle, Un Martini per il Duce, pp. 54-55. 75. Cfr. ACS, PCM 1937-1939, b. 20.1, f. 5701-8727. Per una panoramica cfr. Scrivere alle autorità, pp. 7-20. 76. Queste osservazioni si basano sullo spoglio delle richieste conservate in ACS, PCM, Gabinetto, 1928-1930 e 1931-1933, b. 3.2.2 e 20.1; StAM, Polizeidirektion, b. S 6963-6991, microfilm n° 2816-2819.

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direttamente a Rachele Guidi ed era stato giudicato di «corretta condotta morale e politica» dalla prefettura di Milano, la richiesta di produrre bicchieri con l’effigie di Mussolini venne considerata come mossa dal solo profitto e respinta dalla Segreteria personale del duce.77 Nel caso italiano, almeno fino alla metà degli anni Trenta diversi oggetti riuscirono tuttavia a eludere il rifiuto di Mussolini rivolgendosi direttamente all’ufficio brevetti o registrando un marchio con i simboli fascisti.78 I produttori o gli artigiani colti a commercializzare articoli non autorizzati venivano sottoposti alla confisca e alla distruzione della merce o addirittura alla revoca del permesso di lavoro.79 Anche di fronte a un fenomeno estremamente simile, dunque, i due regimi perseguirono strategie alquanto differenti, che ne riflettevano le diverse strutture di potere e le modalità operative. Laddove in Germania il regime aveva istituito commissioni ad hoc, oltre ad istruire polizia e comuni cittadini affinché tenessero sotto controllo il proliferare del kitsch, l’Italia fascista era ricorsa a misure a volte più draconiane ma meno sistematiche, condizionate dal persistere di diversi centri di potere e dell’antico sistema clientelare (che si andò a sommare ai nuovi circoli di potere del fascismo).80 Ciò era visibile anche negli articoli stessi. Mentre in Germania la maggioranza degli oggetti sfoggiava l’effigie hitleriana o la croce uncinata, nel caso italiano Mussolini veniva a volte accostato alle figure tradizionali dell’Italia prefascista – come nel caso della tavola pitagorica Balilla, un «gioco informativo ed educativo» che raffigurava dio, il re e il duce quali leader supremi del paese.81 In Italia questa combinazione – rifiutare la licenza o ricorrere al sequestro e alla distruzione del materiale – si rivelò alquanto efficace nel prevenire la diffusione della maggior parte degli oggetti più stravaganti. Le istanze giunsero in due ondate principali, che rispecchiavano a grandi linee la domanda del mercato e, implicitamente, il livello di disseminazione del culto del duce e del fascismo: il primo picco fu registrato dopo la promulgazione delle cosiddette leggi fascistissime, nel 1925/1926, mentre una 77. ACS, PCM, Gabinetto, 1937-1939, b. 20.1, f. 8404, lettera dalla Regia Prefettura di Milano alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, 27 novembre 1939. 78. Cfr. ACS, banca dati Marchi e Brevetti, richieste del periodo 1921-1940. 79. Cfr. ACS, PCM, Gabinetto, 1937-1939, b. 20.1, f. 5701-8727. 80. Riguardo al perdurare di un sistema familista e clientelare cfr. Bosworth, Everyday Mussolinism, pp. 23-43. 81. ACS, Bollettino Proprietà Intellettuale, n° 11502.

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seconda e più massiccia ondata ebbe luogo in seguito all’invasione dell’Etiopia e conseguente proclamazione dell’impero fascista. Tali dati sarebbero facilmente spiegabili nel caso di busti, ritratti ed altri articoli di cui si dovettero dotare gli uffici pubblici e alcuni esercizi commerciali, sia in Italia che nelle colonie. Solitamente tali oggetti non necessitavano tuttavia di permessi speciali, proprio per il loro carattere ufficiale. Si trattò dunque per la maggior parte di beni a uso domestico o personale, spesso prodotti ed acquistati per opportunismo, probabilmente, ma non esclusivamente. Le ragioni per rifiutare una richiesta erano molteplici e non si limitavano alla protezione della cosiddetta dignità dei simboli nazionali. In alcune circostanze, l’autorizzazione per un prodotto o un prototipo fu negata a causa delle sue scarse qualità estetiche o artistiche. È quel che avvenne nel caso degli alquanto costosi orologi di marmo e metallo con il volto di Hitler e la svastica prodotti nel 1934 dalla ditta Ernst Friesinger, a cui la commissione competente negò il benestare a causa dello sgradevole abbinamento di materiali e della mediocrità del ritratto del Führer.82 I pesanti fermacarte in marmo con croce uncinata ideati dalla stessa azienda furono invece autorizzati (fig. 3). In alcuni casi la mercificazione dei dittatori e dei simboli fascisti e nazisti fu dunque ammessa a patto che la rappresentazione artistica fosse ritenuta gratificante. Ancora nel 1940, ad esempio, il Minculpop diede l’ordine di non acquistare i busti di Mussolini a opera dello scultore Giulio d’Angelo a causa del loro ritratto poco lusinghiero del duce.83 In altri casi, il rifiuto da parte delle autorità di concedere la licenza di utilizzare il nome o l’immagine dei dittatori fu seguito dall’incoraggiamento a ricorrere ad altri simboli. Per questo motivo, molti degli articoli che avevano chiesto di poter commercializzare il nome o il ritratto del Führer finirono per esibire una svastica, l’effigie di altri alti dignitari del partito, delle SA o delle SS, vari slogan o un linguaggio politicizzato. È importante sottolineare che le commissioni dei diversi stati tedeschi adottarono approcci nettamente differenti in merito all’uso di simili linguaggi, rivelando discrepanze sostanziali sia a livello locale che statale.84 Ciò era particolar82. BWA, K9/774, corrispondenza tra la Camera di commercio di Augsburg e quella di Monaco, 9 marzo 1934. 83. Cfr. ACS, PCM, Gabinetto, 1940-1941, b. 20.1, f. 49719. 84. Cfr. Westfälisches Wirtschaftsarchiv, Dortmund (d’ora in poi WWA), K 3 n° 1054, corrispondenza tra gli uffici del partito nazista locali e federali, la Camera di commercio di Bielefeld e varie aziende.

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mente evidente nel caso dei già menzionati prodotti “per il Volk”, la cui dicitura avrebbe dovuto esser riservata solo a un ristretto gruppo di beni ben precisi: qui l’autorizzazione era stata a volte concessa dai funzionari locali solo per venir revocata dalle autorità superiori, che in genere ne proibivano la produzione in quanto fuorviante. Un buon esempio è rappresentato dal calendario delVolk, che venne approvato a livello locale per essere poi giudicato un «kitsch nazionale della peggior specie» dal quartier generale anti-kitsch di Berlino, perché tentava di dare l’impressione di appartenere ai famosi prodotti di consumo a buon mercato sponsorizzati dal governo come la radio, la Volkswagen o il frigo del Volk.85 Ciò valeva anche per la maschera antigas del Volk, accusata di adoperare il termine in modo improprio al fine di evitare associazioni negative tra questi prodotti e la necessità di usare una maschera antigas. In maniera non dissimile, dopo la proclamazione dell’impero fascista il paese venne sommerso da una serie di prodotti che usavano le diciture «Impero», «Eja» o «Faccetta nera», rifacendosi a immagini femminili estremamente razzializzate che, come vedremo nell’ultimo capitolo, costituiranno uno dei tratti distintivi della réclame italiana della seconda metà degli anni Trenta.86 Tale approccio non era in realtà inedito: già nel 1921, ben prima della Marcia su Roma, l’inchiostro Impero era stato registrato come marchio commerciale, e le raffigurazioni pubblicitarie dai chiari tratti orientalistici o razziali abbondavano.87 Ma fu soprattutto dopo l’aggressione dell’Etiopia e il lancio dell’autarchia che il fenomeno raggiunse livelli inauditi, portando ad accentuare l’enfasi sui prodotti di provenienza coloniale e permeando le strategie di comunicazione commerciale di moltissime aziende. Se, come abbiamo visto, Mussolini si oppose a spada tratta alle manifestazioni più smaccatamente commerciali di questa tendenza – basti ricordare il già menzionato formaggio Impero – in molte altre circostanze questo marchio venne addirittura incoraggiato dalle autorità, specialmente nelle colonie. Un esempio particolarmente rivelatore è quello del radiatore per automobili con la sagoma del profilo di Mussolini, disegnato nel 1939 85. StAM, Polizeidirektion S 6959, microfilm n° S 2816; WWA, b. K 3 n° 1054 e b. F 138 n° 293. 86. Cfr. Pinkus, Bodily regimes, p. 57; Righettoni riporta una lista delle aziende registrate con il marchio «faccetta nera», cfr. Righettoni, Bianco su nero, pp. 75-77. Cfr. anche Piccioni, Images of Black Faces, pp. 375-396. 87. Cfr. ACS, banca dati Marchi e Brevetti, anno 1921.

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da un certo Federico Alberti, colono di Asmara, e autorizzato dal Ministero dell’Africa italiana con il nome Impero e non Dux, come inizialmente richiesto da Alberti (fig. 4).88 Questa pluralità di reazioni alle richieste dei produttori era dovuta come dicevamo all’esistenza di obiettivi alquanto eterogenei e spesso in conflitto tra di loro perseguiti da una serie di istituzioni a livello locale, nazionale o imperiale. Le lotte di potere interne ai regimi e il sovrapporsi di vari enti statali fecero sì che in alcuni casi i richiedenti potessero appellarsi a diverse sedi, ricevendo risposte ben diverse, come dimostrato dalle incoerenze riscontrate tra la Segreteria personale del duce e gli uffici brevetti o tra le varie commissioni del kitsch. A riguardo è importante rilevare che, dal momento che la possibilità di vendere questi prodotti di norma comportava un notevole margine di profitto per il produttore e per i suoi dipendenti, le autorità locali o coloniali spesso si dimostrarono più liberali nell’accordare l’autorizzazione a queste aziende – che in molti casi conoscevano di persona – di modo da sostenere lo sviluppo economico della propria regione. Questo causò numerosi contrasti sia fra i diversi enti locali che fra le amministrazioni locali e le autorità politiche dello stato centrale, le quali di solito assunsero una linea molto più dura rispetto a ogni forma di kitsch nazionale. Nel caso tedesco, per esempio, diversi enti locali deplorarono quella che ritenevano essere un’applicazione troppo indulgente della legge antikitsch in altri stati, che a loro parere garantiva a questi ultimi ingiusti vantaggi rispetto a quelli che applicavano le regole con rigore e coerenza. Nel gennaio del 1934, ad esempio, la Commissione di Monaco espresse il proprio disappunto riguardo alle discrepanze nel livello di censura imposto dalle sue omologhe in altri stati tedeschi –la Sassonia e la Turingia in primis – il che, a loro parere, poneva la Baviera in condizioni di notevole svantaggio economico.89 La situazione divenne così incandescente che il quartier generale di Berlino avvertì l’esigenza di indire un incontro fra tutte le commissioni il mese seguente. I conflitti sarebbero tuttavia perdurati sino allo scoppio della Seconda guerra mondiale, sia fra le autorità statali e federali che fra quelle locali. 88. ACS, PCM, Gabinetto, 1937-1939, b. 20.1, f. 7080, lettera dal Ministero dell’Africa italiana a Federico Alberti, 12 febbraio 1939, e da Federico Alberti al Sottosegretario alla Presidenza del Ministro degli Interni, 24 marzo 1939. 89. Cfr. BayHStA, MHIG, b. 1150, Niederschrift, 25 gennaio 1934.

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Anche se, come ha sottolineato la storica Kristin Semmens, queste misure repressive riuscirono ad arginare le manifestazioni più paradossali del kitsch nazista (e fascista), gli interessi economici e politici divergenti, le lotte di potere – sia a livello locale che nazionale – o persino i gusti estetici soggettivi fecero sì che per tutto il periodo interbellico la quantità e la varietà di artefatti che si rifacevano ai simboli dei fascismi o ai loro dittatori rimanessero comunque notevoli.90 Giusto per dare un’idea dell’entità del fenomeno, solo tra il giugno e il dicembre del 1933 le autorità tedesche ricevettero più di mille istanze, la gran parte delle quali riguardava l’utilizzo dell’immagine di Hitler o della croce uncinata a fini commerciali.91 Stando all’accurata analisi di Waltraud Sennebogen, il permesso venne accordato a circa il 25% delle richieste.92 Visto il volume delle domande, ciò significa che una quota non irrisoria di istanze venne comunque approvata, immettendo sul mercato un numero considerevole di artefatti di vario genere. Lo stesso valeva per l’Italia fascista, per la quale non è ancora possibile fare una stima complessiva ma dove la mancanza di legislazione specifica fece sì che un gran numero di articoli continuasse a raggiungere i negozi o perfino le case degli italiani. Sia in Germania che in Italia, l’autorizzazione veniva concessa soprattutto nel caso di oggetti che potevano avere un impatto positivo sull’immagine e sul prestigio dei dittatori, o che pubblicizzavano i simboli dei fascismi invece che i loro leader. Ciò che è importante sottolineare a riguardo è che i regimi non erano dunque del tutto ostili alla commercializzazione dei propri simboli, a patto che si trattasse di oggetti dall’evidente valore propagandistico. In alcuni casi – giochi o libri per l’infanzia in primis – furono addirittura i regimi stessi a promuoverne la produzione, attraverso un’interessante commistione di repressione e propaganda. Esemplare è il destino della bambola Balilla, nata un paio di anni prima dell’omonima FIAT. Lanciata dalla Lenci a partire dal 1930, questo pupazzo venne prodotto su ordine del regime fascista come punizione per aver distribuito senza autorizzazione sul mercato italiano la Maschietta, bambolina di panno stoffa raffigurante una donna androgina vestita da uomo, per giunta con una sigaretta in bocca.93 Accattivan90. Cfr. Semmens, Seeing Hitler’s Germany, pp. 77-81 e Swett, Selling Under the Swastika, p. 64. 91. Cfr. ad esempio BWA, K9/775, Camera di commercio di Augsburg. 92. Cfr. Sennebogen, Zwischen Kommerz und Ideologie, pp. 283-286. 93. Il Museo del giocattolo di Napoli (ora chiuso) e l’Archivio di Stato di Lucca (Collezione Frediani) conservano un esemplare di bambole Balilla e Maschietta (o Fadette), Ditta Lenci.

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te incarnazione della donna-crisi, la Maschietta si distingueva per i capelli corti e scarmigliati e quell’aria languida e distaccata tipica delle femmes fatales in voga all’epoca. Fu solo in cambio della diffusione della Balilla sul mercato italiano che la Lenci fu autorizzata a continuare a vendere la Maschietta all’estero. La rosa di argomentazioni addotte dai produttori nel tentativo di convincere le autorità a concedere loro un’autorizzazione rende particolarmente bene l’idea della crescente compenetrazione tra ideologia e commercio che sarebbe diventata uno dei tratti distintivi del Ventennio e del Terzo Reich. Le ragioni, pur molteplici, tendevano a concentrarsi su due motivazioni principali. La stragrande maggioranza dei produttori si appellava alla propria incrollabile fedeltà alla causa del fascismo o del nazismo, o alla propria appartenenza di lungo corso al partito. Specialmente nel caso tedesco, inoltre, le aziende spesso ricordavano di aver prodotto tali oggetti sin dalla metà degli anni Venti, vantandosi del loro impatto propagandistico e di come avessero contribuito alla costruzione del mito hitleriano. Il produttore bavarese di bicchieri verniciati Hans Zipper, ad esempio, protestò amaramente contro il ritiro della propria licenza di fabbricare calici con l’immagine di Hitler dopo la promulgazione della legge del 1933, rammentando che: Ho fatto parte del movimento [nazista] sin dal 1923 e ho prodotto bicchieri per i membri del Partito sin dai tempi del Putsch della birreria […]. Per tutti questi anni, ho prodotto questi bicchieri senza alcuna obiezione, senza che nessuno li etichettasse come kitsch: già allora era una forma di propaganda.94

Per quanto Zipper potesse essere un nazista della prima ora, è evidente che la sua preoccupazione fosse più di tipo economico che politico. Casi come questo – e ce ne furono molti – sono illuminanti per due motivi principali: prima di tutto perché evidenziano che questi oggetti erano presenti sul mercato sin dai primi anni Venti e assolvevano a una funzione propagandistica, oltre che economica, ma soprattutto perché dimostrano che nella maggior parte dei casi i produttori non esitarono a contestare la decisione delle Commissioni, facendo appello a logiche politiche per incrementare i propri profitti. Da ciò ne consegue che la produzione di tali beni era considerata un’attività alquanto lucrativa. Entrambi i regimi assunsero un atteggiamento molto favorevole nel caso di una delle tipologie più popolari (e redditizie) di prodotti, partico94. StAM, Polizeidirektion S 6991, microfilm n° S 2819: Zipper, Hans – Trinkgläser.

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larmente predisposti a trasformarsi in potenti armi ideologiche: i giocattoli e i giochi da tavolo. Come ebbe modo di sottolineare Konrad Gottschick, il Vice-Sottosegretario al Ministero per l’economia del Reich e prussiano: «Non vogliamo perdere l’opportunità che ci viene offerta qui [attraverso i giocattoli per l’infanzia] di instillare nel cuore dei bambini che giocano l’amore per il Volk e lo Stato».95 Una simile funzione era già stata esplicitata da moltissimi dei fabbricanti, incluso Karl Keßler, che così elogiava i propri articoli, inclusi vari giochi da tavolo e i palloni da calcio: «L’essenza tedesca, l’amore e la fede nel movimento nazionalsocialista dovrebbero essere risvegliati sin […] dalla più tenera età, attraverso i suoi giochi, così da creare uomini e donne adulti consapevolmente tedeschi, pronti a consolidare sempre più lo Stato Nazionalsocialista secondo gli ideali del Führer».96 Ben lungi dall’essere un tabù, dunque, una volta domata l’ondata di oggetti più kitsch, diversi articoli vennero autorizzati o persino incoraggiati, a condizione che avessero un effetto positivo sull’immagine dei fascismi. È importante sottolineare che alcuni degli episodi di maggior violenza furono indirizzati nei confronti dei commercianti non “ariani”, indipendentemente dalla natura degli oggetti in vendita. Nel novembre del 1934, ad esempio, il distretto del partito nazista di Baden Baden inviò una lettera di minacce a un fabbricante di giocattoli per aver esposto nella vetrina del suo «negozio ebreo» dei soldatini in uniforme da SS e SA.97 Spesso la questione non era dunque tanto se qualcuno dovesse trarre profitto da quali oggetti, ma chi fosse autorizzato a farlo. Ciò è dimostrato anche dal fatto che perfino alcuni degli articoli più kitsch che non avevano alcun evidente sottinteso propagandistico continuarono ad esser venduti fino ai primi anni Quaranta. La natura di tali prodotti variava dai medaglioni ai portafogli in pelle, dalle bretelle alle pantofole, dalle trombe alle luci di Natale a forma di svastica, rivolgendosi a tutte le tasche, le età e i generi.98 Questi oggetti, come ricordato da Béraud, venivano venduti nelle botteghe o agli angoli delle strade, ed erano 95. Cfr. BayHStA, MHIG, b. 1147. 96. StAM, Polizeidirektion S 6973, microfilm n° S 2817, Keßler Karl A. – Nationalsozialistische Spielwaren. 97. Cfr. Evans, The Third Reich in Power, pp. 383-384. Più in generale cfr. Bajohr, No Volksgenossen, pp. 45-65. 98. Cfr. in particolare BWA, K9/775, ritagli «Deutscher Reichsanzeiger», StAM, Polizei­direktion, b. S 6963-6991 e BayHStA, MHIG, b. 1147-1150. Cfr. anche Perry, Christmas in Germany, pp. 209-215.

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sfoggiati sia in privato che in pubblico, come nel caso del già menzionato costume da bagno con l’effigie di Mussolini, indossato sulla spiaggia da una giovane donna a metà degli anni Trenta, probabilmente auto-prodotto. La proliferazione di tali prodotti nonostante l’iniziale condanna da parte dei fascismi è significativa per due motivi. Anzitutto, perché indica quanto la feroce volontà totalitaria con cui i fascismi oppressero i propri avversari politici, i perseguitati razziali o la resistenza coloniale si fece ben più labile quando si trattava della totalità della società italiana e tedesca, soprattutto (ma non esclusivamente) dei propri circoli clientelari e dei gruppi sociali di riferimento – gli industriali e le classi medie in primis. Entrambe le dittature furono infatti attraversate da una serie di aspri conflitti incentrati sulle divergenti posizioni ideologiche non solo riguardo al consumo ma più in generale alla prevalenza di obiettivi economici o politici, che si svilupparono sia orizzontalmente, all’interno degli stessi organismi, che verticalmente, tra le amministrazioni locali e centrali. In secondo luogo, l’elevato numero di richieste avanzate dai produttori e la quantità di beni presenti sul mercato tedesco e su quello italiano attestano l’alto livello di domanda e offerta per articoli di questo genere, il che a sua volta è indizio della loro popolarità tra quella che Stephen Gundle ha descritto come una consistente «base di sostenitori».99 Il perdurare di un’ampia varietà di mercanzia a tema fascista e nazista costituisce un ottimo esempio non solo della misura in cui il culto dei dittatori riuscì a penetrare nella vita quotidiana dei tedeschi e degli italiani, ma anche del coinvolgimento di alcuni settori tanto dell’industria quanto della popolazione, che lavorarono in parallelo piuttosto che in contrapposizione alla cruda realtà coercitiva dei fascismi. Mentre a livello ufficiale il culto fu creato e disseminato attraverso imponenti campagne di propaganda e parate di massa, le ditte e in una certa misura anche i consumatori contribuirono ad adattarlo ai propri bisogni e al proprio stile di vita su di un piano più informale e quotidiano. In occasione dell’incoronazione del re britannico Giorgio VI nel maggio del 1937, l’antropologo Bronisław Malinowski stabilì un interessante paragone tra la promozione di istituzioni tradizionali quali la monarchia britannica e l’invenzione del culto della personalità di Hitler o Mussolini. Stando alla sua vivida analisi, entrambi i dittatori avevano 99. Gundle, Mass Culture, p. 86.

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creato di tutta fretta, da ogni sorta di cianfrusaglie mal assortite, i loro simbolismi e i loro rituali, le loro mitologie e le loro credenze apertamente religiose e persino magiche. Uno è diventato l’incarnazione del Dio ariano; l’altro, platealmente, si pone sul capo gli allori degli antichi imperatori romani […]. D’intorno, gli si imbastiscono fasti e riti, leggende e cerimonie magiche con un fulgore che eclissa le venerande e storiche istituzioni della monarchia tradizionale.100

La sacralità e l’aura di mito che circondavano gli infallibili dittatori costituirono una componente essenziale dell’ideologia dei fascismi nonché uno dei pilastri dell’auto-rappresentazione di entrambi i regimi per tutto il Ventennio e il Terzo Reich. Se, come ha ricordato la sociologa Simonetta Falasca-Zamponi, l’onnipresenza dei dittatori contribuì alla diffusione del loro culto tra le masse, Stephen Gundle ha evidenziato come fu proprio l’aura mistica che circondava l’immagine pubblica del duce ad alimentare il mito del leader carismatico.101 Nonostante la natura potenzialmente destabilizzante della massiccia mercificazione dei simboli politici dei fascismi e tutti gli sforzi di questi ultimi per contrastarla, una breve analisi del mercato tedesco e di quello italiano rivela la persistenza di una notevole varietà di prodotti, in cui gli intenti propagandistici e quelli commerciali spesso si intrecciavano in modo inestricabile. Se è indubbio che questo comportò un certo rischio di banalizzazione, la popolarità e il perdurare nel tempo di questi oggetti si rivelano utili per far luce sugli ormai classici dibattiti riguardo al primato assoluto della politica sull’economia, da un lato, e sul livello di consenso riscosso da entrambe le dittature, soprattutto nella fase centrale degli anni Trenta dall’altro. Se la loro produzione fu nella maggior parte dei casi frutto di un diffuso opportunismo, lo stesso è vero solo in parte per quel che riguarda il loro acquisto, dal momento che comportava comunque una spesa. Se il mito dei dittatori fu costruito e disseminato attraverso accurate campagne di propaganda o raduni oceanici orchestrati dall’alto, è necessario ricordare che l’onnipresenza dei simboli fascisti e nazisti nella sfera pubblica (e privata) fu anche frutto di una serie di iniziative di imprese commerciali e privati cittadini, che favorirono la loro commercializza100. Bronislaw Malinowski, A Nation-wide Intelligence Service, p. 112, citato in Cannadine, Il contesto, la rappresentazione e il significato del rito, p. 142. 101. Cfr. Falasca-Zamponi, Fascist Spectacle, p. 125 ss.; Gundle, The Death (and Re-Birth) of the Hero, p. 186.

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zione dal basso. Nonostante fosse stato creato principalmente per ragioni economiche, questo materiale pubblicitario cementò, de facto, la presenza egemonica di Mussolini e di Hitler nel corso del Ventennio e del Terzo Reich. Sebbene ufficialmente scoraggiate da entrambi i regimi, le rappresentazioni commerciali dei due dittatori costituiscono dunque un risvolto tanto ambiguo quanto sottovalutato dei loro culti della personalità, in quanto diedero ulteriore visibilità ai loro personaggi pubblici, consolidandone l’onnipresenza tanto in Italia e in Germania quanto all’estero. Che fosse il busto di Hitler esposto in una macelleria, un radiatore con la sagoma del duce o un paio di pantofole con la croce uncinata, i simboli dei fascismi si videro esibiti in modo massiccio su tutta una serie di oggetti di natura commerciale. Il fenomeno si dimostrò notevolmente simile in entrambi i paesi, caratterizzato come fu dall’esaltazione messianica dei due leader e dalla loro simultanea mercificazione. Facendo appello ai cittadini in qualità di consumatori, il settore commerciale aiutò a integrare i dittatori nelle vite quotidiane dei tedeschi e degli italiani, garantendo l’ulteriore penetrazione dei loro miti e fungendo così da complemento alle campagne propagandistiche. Il risultato fu quella presenza ubiqua del duce e del Führer, tanto nella sfera commerciale quanto in quella politica, che fu uno dei tratti distintivi dell’era fascista e nazista. 3. Verso il fallimento della pubblicità totalitaria Nel marzo del 1938, a pochi giorni dall’Anschluss dell’Austria, la rivista «N.S.-Frauen-warte», organo ufficiale dell’Associazione delle donne nazionalsocialiste contraddistintosi fin dal 1932 per il suo brutale antisemitismo, dedicò un lungo editoriale all’imperitura presenza di immagini femminili “degenerate” nella stampa tedesca. L’articolo accostava fotografie di «perverse» showgirls degli anni di Weimar alle foto di bionde giovani che praticavano sport o danze tradizionali all’aria aperta (fig. 5).102 Mentre le prime erano accompagnate dal commento «Voi pensate: affascinanti e divertenti? Noi pensiamo: oscene e sguaiate!», le seconde venivano descritte dalla didascalia: «Voi pensate: noiose? Noi pensiamo: in salute e belle». L’editoriale precisava: 102. Muß das sein?, «N.S.-Frauen-warte» 7, n° 17 (1938), p. 536.

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Uno sguardo a […] varie pubblicazioni che vengono propinate al popolo tedesco in milioni di esemplari ci ha fatto realizzare inequivocabilmente quanto il veleno giudeo si sia infiltrato in questo particolare settore […]. Chiunque abbia monitorato di recente un certo numero di periodici avrà notato con grande sorpresa delle tendenze che appaiono giudee, fin troppo giudee per noi. Ciò che viene presentato qui […] come “donna” è proprio quel tipo demi-monde ostile al matrimonio e alla famiglia che è l’incarnazione vivente della sterilità […], simbolo della passata epoca di decadenza.103

Secondo la rivista nazionalsocialista, il principale oggetto di controversia era il sottinteso sessuale delle immagini, che per certi versi richiamavano le preoccupazioni anti-demografiche del fascismo, senza però rimanere ostaggio del moralismo tradizionale: L’ideale nazionalsocialista è profondamente a favore della vita. Niente ci è più estraneo del moralismo. La bellezza e la grazia sono lo scopo naturale della donna. Il godimento dell’esistenza e i piaceri dei sensi sono parte della tensione generativa della vita. Una bella ragazza non è certo nata per farsi suora ma, e questa è la differenza tra ieri e oggi, non è nemmeno al mondo per fare la civetta.104

La differenza, secondo la «N.S.-Frauen-warte», sembrava consistere nella «superficiale e frivola degradazione della donna a puro oggetto di svago, [ne]l disgustoso snaturamento del sano e naturale istinto corporeo in sfacciata bramosia sessuale», che secondo le ideologhe naziste creavano un’«atmosfera distorta e malsana [che] appartiene soltanto alla sovversiva propaganda giudaica!».105 A riguardo è opportuno rilevare che, al contrario dell’Italia fascista, dove il regime non riuscì a proporre comportamenti sessuali che divergessero dall’imperante morale cattolica, diversi settori della dirigenza nazionalsocialista – le SS in particolare – propugnarono un tipo di prolificità che si proponeva di superare convenzioni quali il matrimonio o la monogamia al fine di ottimizzare le capacità riproduttive delle élites “ariane”.106 103. Ibidem. 104. Ibidem. Simili esternazioni da parte di altri organi di stampa nazionalsocialisti sono riportate in Ross, Media and the making, p. 324 ss., mentre Irene Guenther offre un’ottima analisi dei contraddittori modelli di femminilità proposti dall’industria della moda, cfr. Guenther, Nazi Chic?, pp. 91-142. 105. Muß das sein?, p. 536. 106. Cfr. Sexuality and German Fascism, pp. 1-22.

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Tali affermazioni colpiscono, oltre che per il loro virulento antisemitismo, perché rivelano come ancora cinque anni dopo il lancio della crociata per la nazionalizzazione dell’immaginario commerciale la stragrande maggioranza dei modelli propagati dalle riviste illustrate, dal cinema e dalla pubblicità fossero ancora ben lontani da quelli imposti non solo dalle frange più estremiste ma anche dal Consiglio pubblicitario o dal Minculpop. In tale quadro, la progressiva radicalizzazione della società tedesca e di quella italiana – che si concretizzò prima di tutto nella crescente militarizzazione e nell’intensificarsi della persecuzione razziale – fu la diretta conseguenza del parziale fallimento del progetto di politicizzazione totalitaria a cui ambivano i fascismi.107 Questi proclami si distinguevano per l’indefessa equazione tra quella modernità “degenerata” e quell’individualismo rampante che secondo l’ideologia nazista rimanevano due dei tratti portanti della presunta influenza ebraica, sebbene l’arianizzazione pressoché totale della stampa fosse ormai stata conseguita da anni. È altresì importante evidenziare come furono la pubblicistica nazista e quella fascista più oltranzista le prime a rilevare il fallimento del tentativo di nazionalizzazione dell’immaginario femminile, attraverso una serie di editoriali sulla falsariga della «N.S.-Frauen-warte» e un numero incessante di veline. Ci penserà poi la Seconda guerra mondiale a provocare una vera e propria trasformazione dei contenuti e dell’immaginario della réclame. Nonostante i già citati annunci trionfali del Consiglio pubblicitario, secondo il quale entro il 1938 la pubblicità tedesca era stata “mondata” da qualsiasi influenza percepita come straniera, la realtà dei consumi culturali durante il cosiddetto Terzo Reich fu molto diversa, come constatato dalla «N.S.-Frauen-warte».108 Come si evince da queste esternazioni, inoltre, i nazionalsocialisti erano ben coscienti della scarsa appetibilità dei modelli da loro propagandati, e delle difficoltà da parte di alcuni settori del pubblico tedesco di entrare in sintonia con le “noiose” seguaci della Lega delle ragazze tedesche (BDM, Bund Deutscher Mädel), la gioventù femminile hitleriana. La crociata in favore della nazionalizzazione della pubblicità si tradusse soprattutto nella stigmatizzazione di modi di apparire e comportamenti considerati nocivi ai fascismi, prima fra tutti l’emancipazione femminile, nonché la tendenza a soddisfare i propri bisogni individuali a scapito di 107. Cfr. anche Gaudenzi, Tra autarchia e vita comoda, pp. 135-156. 108. Cfr. Brugger, Die Anzeige in der Wirtschaftswerbung, p. 148.

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quelli collettivi, propugnati invece in maniera particolarmente convincente dalla cultura commerciale angloamericana. Ciò nonostante, la pubblicità commerciale non cesserà di proporre una pluralità di stili di vita incentrati sulla soddisfazione dei bisogni personali e chiaramente influenzati dal modello statunitense addirittura fino a dopo lo scoppio della guerra, come sottolineò con disappunto la «N.S.-Frauen-warte». Certo, le riviste specialistiche si profusero spesso e volentieri in lunghe invettive contro le cosiddette «americanate», ma non mancarono di tenere i loro lettori aggiornati sulle ultime scoperte d’oltreoceano, e la cosiddetta patria della pubblicità rimase uno dei principali modelli di riferimento per chiunque lavorasse nel settore almeno fino ai primi anni Quaranta. Fino alla fine degli anni Trenta la realtà dei consumi culturali nell’Italia fascista e nella Germania nazionalsocialista rispecchiò dunque solo in parte la fascistizzazione auspicata dai proclami ufficiali delle due dittature. Se da una parte il controllo della sfera commerciale e soprattutto la crescente limitazione dei consumi privati, anche più basilari, costituì un tratto portante delle politiche di regime, sempre più orientate verso lo sforzo bellico, i nuovi modelli di consumo e di cultura commercializzata che si vennero via via affermando attraverso i rotocalchi, il cinema internazionale o quello dei telefoni bianchi misero in moto nelle menti di molti italiani e tedeschi una serie di aspettative e desideri che costituiranno una sempre più antitetica valvola di sfogo rispetto alla cruda realtà del militarismo nazista e fascista.109 Lungi dall’incarnare un’ipotetica inconciliabilità tra la (futura) società dei consumi e i fascismi, questa dicotomia fu piuttosto la dimostrazione del fallimento dei tentativi di fascistizzazione totalitaria delle società italiana e tedesca, che i regimi tentarono di dissimulare con il crescente militarismo e le conquiste belliche.110 La nozione di un controllo totalizzante attuato dai regimi sull’industria pubblicitaria si dimostra perciò ben lontana dalla quotidianità di en109. Cfr. Forgacs, Gundle, Cultura di massa, pp. 175-238. Come ha sottolineato Stephen Gundle, è necessario ricordare che in molti casi il cinema dei telefoni bianchi offriva un’interpretazione alquanto moralistica del consumismo, cfr. Gundle, Cinema e mondo dei consumi, pp. 546-552. 110. La letteratura sul divario tra immagine e realtà totalitaria è ormai vasta, cfr. ad esempio Melis, La macchina imperfetta e Schäfer, Das gespaltene Bewußtsein. Per una messa in discussione del modello totalitario nel contesto della cultura commerciale degli anni Trenta cfr. anche Gundle, Un Martini per il Duce, pp. 49-50. Sull’evoluzione del concetto di totalitarismo cfr. Traverso, Il totalitarismo, soprattutto pp. 128-139.

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trambe le dittature, pur rispecchiandone senza dubbio le intenzioni. Tale discrepanza fu, prima di tutto, frutto dei numerosi conflitti di competenze, dei molteplici interessi in gioco e delle ambiguità che contraddistinsero le politiche di vari settori di entrambi i regimi verso i consumi. Il persistere di marcate differenze di classe anche nelle suggestioni pubblicitarie, inoltre, suggerisce non solo l’evidente fallimento della retorica corporativistica e produttivistica dei fascismi, ma anche l’emergere di un fenomeno altrettanto significativo, la creazione di quel comfort fascista concepito per assicurarsi il sostegno delle classi medie delineando un legame diretto tra le aspirazioni di comfort privato della borghesia italiana e il fascismo. Rimane da stabilire cosa ci fosse di specificatamente fascista in questo concetto di comfort borghese. Un’analisi approfondita delle campagne pubblicitarie aiuterà a far chiarezza in tal senso. In parte speculare agli sforzi volti a creare il «tempo libero di Stato» tramite l’OND e la KdF, questo approccio rientrava nel più ampio tentativo di ampliare il consenso popolare attraverso il raggiungimento di un compromesso tra l’austera supremazia dell’ideologia nazista e fascista, la cui scarsa appetibilità veniva rilevata anche dalla «N.S.-Frauen-warte», e le aspirazioni di benessere di larghi strati della popolazione italiana e tedesca.111 Parte integrante di tale strategia furono, come dicevamo, i «prodotti per il popolo» quali la Volkswagen, la FIAT o la radio Balilla, così come una rete di associazioni per il welfare e la previdenza sociale, la cui realizzazione rimase spesso un miraggio ma che contribuirono, in un primo momento, a sostenere quei «consumi virtuali» che giocarono un ruolo significativo nella stabilizzazione del regime e il cui naufragio contribuì in misura non trascurabile al collasso della dittatura fascista.112 Alle altisonanti esortazioni a un anacronistico ritorno alle radici bucoliche del suolo patrio che caratterizzavano la retorica di strapaese o l’ideologia Blut und Boden si affiancarono dunque appelli a consumare alla maniera fascista. Ciò fu attuato non solo per mezzo di campagne collettive ma anche attraverso un tipo di pubblicità ibrida atta a rinforzare la percezione di appartenenza alla comunità fascista tramite l’accesso a consumi e welfare che fossero alla portata di ogni “legittimo” membro della comunità nazionale una volta acquisito il cosiddetto spazio vitale in Europa e nel Mediterraneo e nel Corno d’Africa, rispettivamente. 111. Cfr. Tonelli, Fascismo e classi medie, pp. 115-128. 112. Berghoff, “Times Change and We Change with Them”, pp. 128-147.

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In questo quadro si sarebbe rivelato fondamentale l’apporto dell’industria pubblicitaria. Ma come accolsero concretamente quest’insieme di diktat i diretti interessati, ossia i professionisti della pubblicità, e fino a che punto fecero propria l’ideologia di regime “dal basso”? Il prossimo capitolo illustra in che modo agenzie e concessionarie vicine al regime, come l’Unione Pubblicità Italiana (UPI) e la Società per la pubblicità commerciale (Gesellschaft für Wirtschaftswerbung, GfW) si fecero carico di rielaborare le direttive del Minculpop e del Consiglio pubblicitario, sia che si trattasse delle campagne collettive per le banane somale che di un’automobile all’ultima moda.113

113. Cfr. Dizionario del Fascismo, vol. II, p. 442.

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Nel luglio del 1933, la bibbia dei pubblicitari statunitensi, il «Printers’ Ink», dedicò un lungo articolo al presunto fervore dimostrato da Adolf Hitler e dal suo Ministro per la propaganda, Joseph Goebbels, per la réclame “a stelle e strisce”. Sottolineando con orgoglio quanto quest’ultimo si fosse ispirato alle tecniche d’oltreoceano nel costruire la macchina propagandistica nazista, l’editoriale ne tratteggiava così il personaggio: Tra le figure che […] hanno partecipato al putsch [della birreria] vi era un individuo sarcastico, nervoso, dal piede torto, chiamato dottor Paul Joseph Goebbels. Di recente il dottore, che si è assicurato una laurea frequentando a singhiozzo quattro università diverse, è stato nominato ministro per l’istruzione pubblica e la propaganda. Qualsiasi cosa abbia fatto, che sia il salvatore della Germania o un megalomane, Hitler si è affidato quasi interamente a slogan […] resi celebri grazie ai metodi pubblicitari statunitensi.1

Pur mostrandosi scettica sulle qualifiche di Goebbels e soprattutto sulle mire del «nuovo dittatore» tedesco, la rivista riusciva a malapena a celare il suo entusiasmo per l’attenzione rivolta alle pratiche pubblicitarie da parte della dirigenza nazista, a cui contrapponeva il disinteresse dimostrato dai paesi anglosassoni. Se in «una Germania nuova, capace di suscitare tanta eccitazione e fare tanti cambiamenti» sembrava inevitabile che non vi fosse alcuna distinzione tra la propaganda e la pubblicità, «in questo paese [gli Stati Uniti] e in Gran Bretagna la prima ha l’infelice caratteristica di essere gratuita anziché retribuita». La brutale eliminazione di ogni opposizione e il boicottaggio delle imprese di proprietà 1. Hitler on Advertising - “See with Eyes of the Masses” is Advice of Germany’s New Dictator, «Printers’ Ink», 20 luglio 1933, p. 78.

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ebraica del 1° aprile di quell’anno non sembravano invece costituire una questione di rilievo per la rivista.2 Abbandonata l’iniziale cautela, il periodico si mostrò particolarmente colpito dall’importanza attribuita alla psicologia delle masse nella propaganda nazista: «Fu il dottor Goebbels, ex redattore di Der Angriff, a coniare per primo il motto “Adotta lo sguardo delle masse, ecco il segreto di una propaganda di successo” quando gli chiesero di spiegare la fortuna dei suoi metodi pubblicitari». Di conseguenza, «Hitler e i suoi esperti hanno elaborato slogan che le masse potessero comprendere con le loro limitate facoltà intellettive».3 È importante sottolineare questo passaggio, in quanto illustra come l’enfasi sull’adottare il punto di vista della folla non implicava un superamento della concezione estremamente elitaria della propaganda imperante in quegli anni, tutt’altro: si trattava di una tecnica per affinare la presa della propaganda sulle masse, non per riconoscere la capacità decisionale di queste ultime. Questo punto fu rimarcato riportando un discorso di Hitler pubblicato pochi mesi prima da «Die Reklame», che di lì a poco sarebbe stata trasformata nell’organo della NSRDW, in cui il Führer aveva sottolineato che «la propaganda […] sarà sempre destinata alle masse, la cui facoltà di comprensione è estremamente modesta. La loro intelligenza è tanto limitata quanto scarsa è la loro memoria».4 Secondo gli editori, «Adolf ha dei buoni spunti, che possono essere applicati dai pubblicitari statunitensi d’oggigiorno», prima fra tutti l’enfasi sulla ripetizione del messaggio propagandistico, che come già descritto nel Mein Kampf doveva essere semplice e univoco: cosa si penserebbe di un manifesto che consiglia un nuovo sapone e al contempo fa riferimento ad altri saponi descrivendoli come buoni? Sembrerebbe quantomeno bizzarro. Così accade con la propaganda politica. Il compito della propaganda non è paragonare pregi diversi, ma sottolineare l’importanza di un unico elemento escludendo tutti gli altri. La propaganda non deve cercare oggettivamente una verità propizia a tutti da proporre alle masse con assoluta onestà, ma deve sempre servire il proprio scopo.5

Sedotti dalla possibilità di rivestire una posizione di spicco agli occhi di un regime che prometteva di acquisire potere e visibilità internazionale, 2. La pratica del cosiddetto “pogrom freddo” era praticata già nella Germania guglielmina, cfr. Reuveni, Consumer culture, pp. 122-143. 3. Hitler on Advertising, p. 78. 4. Ivi, p. 79. 5. Ibidem.

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molti pubblicitari – negli Stati Uniti come in Europa – accolsero di buon grado l’inedita importanza attribuita alla loro professione dai nazionalsocialisti, giungendo perfino a interpretare la nazificazione del settore come il tanto atteso passo verso il riconoscimento del ruolo della réclame nelle moderne società di massa. Oltre ad evidenziare prontamente l’abile uso di tecniche psicologiche di base da parte dei nazisti, il «Printers’ Ink» rivelava quanto già nel 1933, anche in un contesto come quello statunitense, i confini tra propaganda e pubblicità fossero estremamente labili, segnati dall’esperienza della Prima guerra mondiale e della Grande depressione, che ancora imperversava. In tale contesto, il tentativo dei fascismi di trasformare i cittadini in consumatori politici attraverso la pubblicità e la propaganda economica non risultava dunque del tutto nuovo, almeno in prima battuta. Nuova tuttavia sarà la vastità e la profondità dell’intervento nazionalsocialista, che in pochi mesi riuscì a privare dei mezzi di sostentamento migliaia di “nemici” del Terzo Reich e accentrare nelle mani di pochi fedelissimi una parte notevole dell’industria pubblicitaria tedesca. Un altro aspetto degno di nota dell’editoriale del «Printers’ Ink» è che l’interesse fu, in larga parte, reciproco. Nel contesto sempre più internazionale del mondo pubblicitario interbellico, la Depressione e la profonda crisi attraversata dal vecchio continente rallentarono ma non interruppero del tutto lo scambio di tecniche e professionisti tra le due sponde dell’Atlantico. Se già negli anni Venti diversi grafici e tecnici pubblicitari avevano compiuto viaggi studio o avevano addirittura fatto fortuna negli Stati Uniti – a cominciare da Fortunato Depero, Luigi Dalmonte, Ludwig Hohlwein o Lucian Bernhard – nel corso degli anni Trenta l’afflusso di artisti spesso in fuga dalle persecuzioni politiche e razziali o dalla guerra stimolò notevolmente l’interesse dei colleghi statunitensi per le avanguardie e l’arte cartellonistica europea.6 È evidente che ciò avvenne in un contesto di rapporti di forza profondamente sbilanciati, ma gli anni Trenta avrebbero giocato un ruolo fondamentale nell’internazionalizzazione della circolazione di prati6. Sull’impatto dei designer e dei tecnici europei emigrati negli Stati Uniti cfr. Logemann, Engineered to Sell, pp. 131-192. De Grazia postula un’antitesi fra la cartellonistica europea e la pubblicità editoriale statunitense, che tuttavia si svilupparono e influenzarono a vicenda non solo durante il periodo tra le due guerre ma anche nel secondo dopoguerra, cfr. De Grazia, The arts of purchase, pp. 221-257. Cfr. Aynsley, Graphic design in Germany, pp. 58-85 e Deshmukh, The Visual Arts and Cultural Migration in the 1930s and 1940s, pp. 569-604.

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che e modelli pubblicitari sia all’interno dell’Europa che al di là dell’Atlan­ tico, raggiungendo poi il suo pieno sviluppo nel secondo dopoguerra.7 I pubblicitari nazisti e quelli fascisti erano dunque parte di uno scenario internazionale in costante evoluzione, che, in alcuni casi, avrebbe mostrato una certa simpatia per la loro causa. Sarà proprio questa rete internazionale a fornire il contesto in cui si sarebbe attuata la progressiva erosione dell’internazionalismo liberale e la diffusione di una concezione “totalitaria” di pubblicità, che avrebbe poi trionfato al congresso del 1936, organizzato ancora una volta a Berlino, ora capitale del Terzo Reich. Questo capitolo ricostruisce la prospettiva dei professionisti della pubblicità, chiamati a rispondere ai diktat e alle lusinghe dei regimi, e in particolare di quei pubblicitari che dal basso si adoperarono per mettere in atto il cosiddetto riallineamento del settore e creare delle visioni di prosperità totalitaria finalizzate a stabilizzare le due dittature. Lungi dall’essere un processo lineare, la fascistizzazione del settore pubblicitario fu possibile soprattutto attraverso una commistione di repressione, auto-censura e autoallineamento, a cui si aggiunse la spiccata tendenza di alcuni professionisti non solo a far proprio, ma addirittura ad accelerare il processo di radicalizzazione secondo un meccanismo abilmente descritto dallo storico Ian Kershaw come il «lavorare incontro al Führer» e al duce, nel caso italiano.8 Essere in grado di ricostruire fino a che punto e in che modo questi pubblicitari accettarono e rielaborarono le imposizioni del regime è fondamentale per mettere in luce il ruolo centrale giocato da alcuni di loro non soltanto nel sostenere finanziariamente i regimi ma soprattutto nella «radicalizzazione cumulativa» di questi ultimi,9 che nel contesto pubblicitario portò alla definitiva epurazione dei colleghi anti-fascisti e di origini ebraiche e alla progressiva razzializzazione della réclame. Grazie alla loro capacità di dar forma concreta non solo alle imposizioni ma anche alle promesse delle due dittature facendo leva su bisogni ed aspettative individuali, questi professionisti si sarebbero rivelati determinanti per la stabilizzazione delle due dittature dal basso, in quanto agirono da cerniera tra l’ideologia dei fascismi e le aspettative della popolazione. Così facendo 7. Cfr. Fasce, Bini, Irresistible Empire or Innocents Abroad?, pp. 7-30. 8. La commistione di spinte policratiche e interessi individuali alla base di questo processo caratterizzarono anche alcuni aspetti del fascismo, a cominciare dalla repressione anti-fascista e dalla persecuzione anti-ebraica, cfr. Kershaw, ‘Working towards the Führer’, pp. 88-106. 9. Mommsen, Der Nationalsozialismus, pp. 785-790.

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i pubblicitari, spesso in maniera più convincente dei propagandisti, avvicinarono e integrarono vari gruppi sociali nel regime e viceversa, creando pubblicità capaci di assorbire e far proprie le aspirazioni di diverse classi sociali, e ibridandole con contenuti politici. Alla base di questo patto faustiano, che porterà loro grandissimi profitti e un’espansione senza precedenti, ci fu soprattutto l’ottenimento del tanto agognato riconoscimento professionale, nonché la necessità di regolamentare il mestiere pubblicitario, ad ogni costo. Dopo una breve panoramica dell’evoluzione degli equilibri di potere all’interno della comunità pubblicitaria internazionale, illustrata attraverso l’esempio del congresso tenutosi a Berlino nell’anno delle famose olimpiadi, il capitolo si concentrerà sulla storia delle due imprese di maggior successo attive in Italia e in Germania, incaricate di tradurre in forma pubblicitaria le aberranti promesse di consumo dei fascismi, al fine di illustrare l’evoluzione del rapporto tra le dittature e gli intermediari pubblicitari dalla prospettiva di questi ultimi. Si tratta di un argomento sul quale non esiste ancora nessuno studio, nonostante la centralità di queste aziende nel creare alcune delle principali campagne pubblicitarie del Terzo Reich e del Ventennio. Ricostruire la sorte di queste imprese pubblicitarie e dei loro collaboratori ha presentato particolari difficoltà, superate incrociando fonti italiane, tedesche e statunitensi di varia natura – dai documenti d’impresa alle carte delle Camere di commercio fino ai fondi delle prefetture e dei rispettivi Ministeri della propaganda, a cui si sono aggiunti una serie di manuali, almanacchi, riviste del settore e ritagli stampa dell’epoca. Capire gli snodi principali, le difficoltà e le opportunità che si presentarono a queste aziende è assolutamente necessario per rispondere a una serie di problematiche storiografiche aperte, quali la genesi di tante delle campagne pubblicitarie e propagandistiche di quegli anni, la questione della agency dei pubblicitari nella costruzione e nella radicalizzazione dei regimi, e la questione di fino a che punto le dittature partecipative fascista e nazista riuscirono a mettere in moto specifici processi di mobilitazione sociale nel campo dei consumi. 1. Berlino 1936: il trionfo della pubblicità nazista Nel novembre 1936, a soli tre mesi dalle Olimpiadi, circa seicento delegati da tredici paesi occidentali si riunirono a Berlino per il sesto congresso internazionale della pubblicità. Per l’occasione, il Consiglio pubbli-

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citario e il Ministero per la propaganda avevano allestito uno spettacolo a dir poco imponente, che puntava ad incoronare la Germania nazista come la nazione più all’avanguardia in materia pubblicitaria, quella nella quale la réclame, oltre ad aver raggiunto un considerevole livello di sviluppo, era finalmente governata da regole “chiare” e “eque”. L’incarico da parte dell’Unione continentale della pubblicità (UCP) di organizzare l’evento cadde in un importante momento di svolta nelle relazioni internazionali della Germania nazista. Dopo aver incassato il grande successo delle olimpiadi, il paese aveva infatti appena stipulato un’intesa con l’Italia fascista resa poi famosa da Mussolini come l’Asse RomaBerlino. Oltre a sancire l’ulteriore avvicinamento tra i due paesi in materia pubblicitaria, il congresso suggellò il nuovo ruolo di assoluta preminenza della Germania nel quadro della pubblicità europea. Il regime non badò a spese per assicurarsi la riuscita dell’evento. L’organizzazione venne posta sotto il diretto controllo del Ministero e, a differenza di ciò che era avvenuto al convegno di Roma e Milano, gli incarichi esecutivi furono tutti assunti da personalità che non praticavano soltanto la professione pubblicitaria ma erano anzitutto membri del partito e spesso rivestivano una carica ufficiale. L’inaugurazione in particolare fu presenziata, oltre che dai vertici della pubblicità nazista – l’onnipresente Hunke accompagnò il presidente del Consiglio pubblicitario, Reichard – da vari rappresentanti del Partito nazista, dei ministeri, del governo e della stampa. Al di là della massiccia presenza di dignitari nazionalsocialisti tra le fila degli organizzatori, erano soprattutto le tematiche del congresso a rispecchiare lo “spirito nuovo” della pubblicità che il Consiglio pubblicitario mirava a divulgare grazie all’evento. Come era accaduto in occasione dei giochi olimpici, lo stato nazista si prodigò per sfruttare l’evento al fine di promuovere la propria reputazione internazionale e rimarcare gli aspetti positivi della propria attività di sorveglianza del settore pubblicitario alla presenza di rappresentanti dei media e dell’industria provenienti da tutta Europa e dagli Stati Uniti. I nuovi diktat vennero presentati quali mezzi necessari per dotare il mondo della réclame di regole e di un sistema “equo”, mentre le violente discriminazioni razziali e politiche vennero temporaneamente passate sotto silenzio. L’obiettivo di tale manovra era chiaro: impegnandosi per mostrare un volto mite e moderno al pubblico internazionale, il Ministero mirava a proiettare l’immagine di una nuova Germania pacifica e prospera, ben lontana dal presunto caos degli anni di Weimar.

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Questo intento sarà reso esplicito fin dal discorso di apertura tenuto dal Segretario di stato e futuro Ministro dell’economia Walther Funk, che parlò per conto del vero promotore del convegno, Joseph Goebbels: Quest’anno la Germania ha avuto il piacere di accogliere centinaia di migliaia di ospiti da tutto il mondo. Siamo felici della grande affluenza dall’estero poiché ci dà l’opportunità di mostrare la realtà del nostro paese. Spesso […] la gente ha l’impressione che un grande peso gravi sul Volk tedesco, privandolo della sua gioia e della sua felicità. Tuttavia, se gli stranieri viaggiano per le nostre terre e hanno modo di conoscere il Volk tedesco […], vedranno che non esiste alcuna oppressione e che, al contrario, i tedeschi oggi sono più felici, più allegri e più liberi di quanto non fossero prima.10

Il padrone di casa, Goebbels, non mancò di ribadire questo punto nell’arco della prima giornata, durante il ricevimento dei delegati per un tè al Ministero. Negli atti del convegno gli organizzatori ci tennero a precisare che «la possibilità di vedere il Ministro tra le loro fila fu accolta con gioia dai partecipanti».11 Non se ne trova in realtà alcuna menzione nei grandi quotidiani anglo-americani, che pure avevano trattato il congresso di Roma – e l’udienza papale in particolare, come riportato anche da «The Times of India».12 È tuttavia ipotizzabile che esser ricevuti al Ministero in pompa magna abbia quanto meno colpito alcuni dei pubblicitari che ancora faticavano a ottenere il pieno riconoscimento delle proprie istituzioni. Il Ministro li aveva accolti con una summa dei proclami diffusi nell’arco dei tre anni precedenti in merito al ruolo della pubblicità nello stato nazionalsocialista. Goebbels aveva sottolineato come la Prima guerra mondiale avesse incoraggiato un’interpretazione negativa del concetto di propaganda, poi caduto in disuso nel discorso politico degli anni Venti. Ciò a detta sua era dovuto alla disonestà e all’impenetrabilità di alcuni aspetti della vecchia propaganda, il cui buon nome il regime intendeva ora ripristinare. A riguardo Goebbels specificò che «non [era] possibile rendere positiva una cosa negativa con una buona pubblicità, così come non [era] possibile rendere negativa una cosa positiva con una cattiva pubblicità. Nella vita dei popoli il Giusto non prevale solamente in quanto tale ma perché al momento opportuno si lega al Potere». Queste parole, oltre a essere alquanto esemplari della concezione politica di Goebbels, rimarcavano la 10. Cfr. Kontinentaler Reklame-Kongress, p. 13. 11. Ivi, p. 45. 12. Cfr. The Pope Talks on Advertising, «The Times of India», 2 ottobre 1933, p. 16.

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necessità di mettere in campo massicce campagne di propaganda per assicurare la vittoria del “giusto”: «La vera grandezza consiste nella capacità di mostrare al popolo retti e nobili ideali […] utilizzando i mezzi mentali più appropriati mediante la forza travolgente e la potenza della propaganda, e di educarlo gradualmente a tali ideali. Ogni governo ha a tal riguardo un immenso compito propagandistico cui adempiere».13 Tra questi compiti spiccava la possibilità di scongiurare lo scoppio di un’altra guerra. A soli sei mesi dalla rimilitarizzazione della Renania, Goebbels proclamò che «il popolo ama la pace, se il governo lo educa a essa», invitando i partecipanti a sostenere il tentativo di «trovare un’intesa tra i diversi popoli» e a rendere tale sforzo il vero scopo del congresso, al fine di contribuire efficacemente al futuro e al benessere di tutte le nazioni.14 Gran parte delle dichiarazioni ufficiali ribadì l’intento cooperativo del congresso. Nel suo intervento, l’ex leader della NSDRW e presidente del comitato organizzativo del convegno Hugo Fischer non fece eccezione, descrivendolo come un evento che ci avvicina ancora di più al nostro grande scopo: trovare una soluzione alle sfide che accomunano i popoli d’Europa in materia di pubblicità commerciale, sfide che possono essere risolte soltanto insieme! Non credo che tale soluzione sia ancora troppo lontana […]. Ovunque si alzano le voci di coloro che lottano per lo sviluppo, la purificazione e la riorganizzazione delle sorti economiche dell’Europa e, così, incamminano una notevole fetta di mondo sulla via della pace.15

Chi volesse avere orecchie per intendere sapeva bene che la purificazione dell’economia europea avrebbe significato l’esclusione da essa di tutte le persone perseguitate dal regime in base alle proprie convinzioni razziste e ideologiche. Ma pochi sembrarono inclini a fare questo collegamento.16 13. Kontinentaler Reklame-Kongress, p. 46. 14. Ibidem. 15. Ivi, p. 11. Corsivo dell’autrice. 16. Alcune riviste di settore si mantennero relativamente neutrali, interpretando con favore l’importanza ora riconosciuta alla pubblicità dalle autorità tedesche, senza mancare di sottolineare quanto fosse urgente coltivare la cooperazione internazionale, cfr. ad esempio The Continental Advertising Convention, «Art and Industry», 21, n° 124 (1936), p. 153. Questo trafiletto tuttavia era preceduto da un lungo articolo di propaganda volto a illustrare in chiave estremamente positiva l’operato del Consiglio pubblicitario nazista, cfr. Eberhard Holscher, Advertising presentation in Germany, «Art and Industry», 21, n° 124 (1936), pp. 124-143.

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Il tema della pace, che costituì uno dei leitmotiv del convegno, fu poi ripreso nei telegrammi di ringraziamento al Führer e a Goebbels sollecitati da Fischer a conclusione dei lavori. Fischer invitò i partecipanti a sottoscrivere una dichiarazione congiunta animata dal «sincero desiderio che, ben oltre i suoi intenti strettamente professionali, il congresso contribuisca anche al progresso della pace».17 La pubblicità giocava un ruolo fondamentale a riguardo, secondo Fischer: «Noi pubblicitari non siamo forse chiamati a prendere parte con grande spirito di collaborazione a questa formidabile creazione? Non è la pubblicità anche uno strumento adatto alla comprensione, non porta forse […] i frutti del nostro lavoro da una nazione all’altra, da Volk a Volk, contribuendo così alla pacificazione del mondo?»18 Tali parole, pronunciate a pochi mesi di distanza dal patto di non intervento nella Guerra di Spagna firmato e poi disatteso sia dalla Germania che dall’Italia, più che pura ipocrisia sembravano incarnare la concezione ben diversa di “pacificazione” perseguita da Hitler, cosciente di non essere ancora pronto per uno scontro su larga scala e ancora incline a rassicurare il più possibile i vicini europei – Francia e Cecoslovacchia in primis – riguardo alle proprie mire espansionistiche. Il congresso rappresentò un vero e proprio trionfo per la pubblicità nazista. L’evento attirò circa il doppio dei delegati rispetto a quello romano19 e sancì una drastica riorganizzazione del panorama pubblicitario europeo a favore della Germania e dell’Italia. Gli equilibri di potere all’interno dell’UCP vennero stravolti: Fischer fu nominato co-presidente dell’Unione, a fianco dell’Italia – cosa non sorprendente in sé e per sé, dal momento che si trattava di un incarico a rotazione. Sorprende però il fatto che tale incarico fosse attribuito a un politico piuttosto che a un pubblicitario di professione e che fosse condiviso da due paesi che avevano appena stipulato un’alleanza politica. Alcuni cambiamenti furono prontamente introdotti nello statuto dell’associazione, compresa l’eliminazione di qualunque riferimento alla Società delle Nazioni. La sede di Berlino fu equiparata alla sede centrale di Parigi – che mantenne tuttavia l’incarico di tenere i rapporti con le associazioni britanniche, scandinave e statunitensi – e «Die 17. Kontinentaler Reklame-Kongress, p. 11. 18. Ibidem. 19. Il «Corriere della Sera» parlò addirittura di un migliaio di partecipanti, ma le cifre fornite dalle fonti tedesche sembrano più attendibili, cfr. Il Congresso della pubblicità a Berlino, «Corriere della Sera», 27 luglio 1936, p. 2.

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Deutsche Werbung», organo del NSDRW, affiancò il francese «Publicité» come portavoce dell’UCP.20 Questo cambiamento si manifestò anche a livello del consiglio d’amministrazione dell’UCP, che vide l’ingresso di un cospicuo numero di pubblicitari nazisti e fascisti. La Germania ottenne la maggioranza dei voti, con quindici preferenze, seguita dalla Francia con dodici voti e dall’Italia con otto, su un totale di 54. Ciò comportò che ai tre paesi con il maggior numero di preferenze sarebbe spettata la fetta più cospicua del finanziamento delle spese di tesoreria, con un investimento per il 1937 di 375 dollari da parte della Germania e 200 da parte dell’Italia, su un totale di 1.350 $. L’aspetto più rilevante, tuttavia, fu che il voto conferì ai funzionari nazisti e fascisti eletti nel consiglio una notevole capacità decisionale.21 Il convegno fu un successo anche per la delegazione fascista, dunque, suggellato dall’inclusione dell’italiano fra le lingue ufficiali del congresso assieme al tedesco, al francese e all’inglese.22 Il congresso del 1936 segnò dunque un notevole riassestamento degli equilibri interni all’UCP. Questo passaggio fu fondamentale non solo perché garantì alla Germania e all’Italia un notevole ascendente sull’Unione e ne rafforzò notevolmente la collaborazione in materia di pubblicità – secondo un percorso che sarebbe culminato poi nella creazione del Comitato italo-germanico per la pubblicità nel 1941 – ma anche perché legittimò a livello internazionale la svolta autarchica e corporativa di entrambi i paesi. La macchina propagandista nazista non trascurò alcuna occasione per presentare nella luce migliore l’irreggimentazione della pubblicità attuata dal regime. Tra i vari eventi ideati per la platea internazionale spiccavano una grande mostra dedicata alle ultime creazioni dei pubblicitari tedeschi e la visita delle due maggiori industrie cinematografiche del paese, la UFA e la Tobis.23 A seguito del consueto intervento sulla formazione professionale – uno dei temi da sempre cari all’UCP – più di 500 delegati visitarono la neoistituita Scuola superiore della pubblicità del Reich. Inaugurata l’anno precedente e fornita di una biblioteca e di spazi espositivi, la scuola rappresentava il fiore all’occhiello del Consiglio pubblicitario. Stando al resoconto ufficiale, i partecipanti furono particolarmente colpiti dall’allestimento in scala 20. Kontinentaler Reklame-Kongress, p. 34. 21. Ivi, p. 33. 22. Cfr. Il Congresso della pubblicità a Berlino, p. 2. 23. Sulla Universum Film A.G. (UFA) negli anni del nazionalsocialismo cfr. Kreimeier, Die Ufa-Story, pp. 241-412.

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naturale di un’intera «via di negozi e botteghe» che «illuminata dalle luci di innumerevoli vetrine era la prova tangibile delle abilità dei pubblicitari».24 Per quel che riguarda l’effettiva composizione del congresso, la delegazione di gran lunga più numerosa era quella tedesca, con ben 325 membri che comprendevano non soltanto professionisti della réclame come gli habitués Hans Domizlaff o il professor Hermann Frenzel, ma anche noti industriali come il magnate del tabacco Philipp Reemtsma, tra i maggiori finanziatori del regime,25 e il produttore di champagne Christian Andreas Kupferberg, il quale partecipò alla conferenza nella sua veste ufficiale di presidente della Federazione degli inserzionisti pubblicitari (Reichsverband der Werbungstreibenden).26 A questi si aggiungevano ben 143 ospiti esterni all’UCP provenienti dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dalla Danimarca e dalla Svezia. Tra le nazioni dell’Europa continentale, la delegazione italiana era composta da 24 delegati – il gruppo più cospicuo dopo quello francese – ed era guidata dal senatore Giovanni Banelli, membro del consiglio d’amministrazione dell’Arrigoni e del Lloyd triestino, già Sottosegretario all’economia nazionale e presidente della Federazione nazionale fascista degli ausiliari del commercio. Banelli era accompagnato dal milanese Carlo Momigliano, sottogerente della sede milanese dell’Unione Pubblicità Italiana (UPI),27 che nel corso del convegno fu eletto come rappresentante dell’Italia all’interno dell’UCP nonché membro del suo consiglio d’amministrazione.28 Di famiglia ebraica, circa due anni dopo il congresso Momigliano sarà costretto a lasciare l’Italia in seguito alle Leggi razziali. Proprio a Momigliano toccò l’onore di aprire i lavori, illustrando ciò che nella concezione fascista della pubblicità ne era diventata la punta di 24. Cfr. Kontinentaler Reklame-Kongress, pp. 54-55, e H. M. Lortz, Die Schulung des Werbefachmannes (in Deutschland), ivi, p. 8. 25. Cfr. Jacobs, Rauch und Macht, pp. 111-164. 26. Sul ruolo pioneristico della Kupferberg cfr. Swett, Selling under the Swastika, pp. 22-24. 27. Cfr. Il contributo italiano al Congresso pubblicitario a Berlino, «Corriere della Sera», 27 novembre 1936, p. 7. 28. Kontinentaler Reklame-Kongress, pp. 2-5, 8. I documenti della Camera di commercio di Milano indicano che nel 1932 Momigliano Carlo di Moisè Leone era stato nominato sottogerente della sede centrale di Milano dell’UPI. Non si hanno notizie di lui dopo il 1936 fino all’inizio del 1945, quando fonderà la Società per la Pubblicità in Italia (SPI) per amministrare i quotidiani gestiti dall’UPI fino all’8 settembre 1943, cfr. ASCCIAAMi, Registro delle ditte 1958, b. 331, Unione Pubblicità Italiana (d’ora in poi b. 331, UPI), Denuncia di modifica, 10 novembre 1932.

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diamante: la pubblicità collettiva e statale. Sin dalle sue prime parole il professor Momigliano non mancò di sottolineare l’importanza del fenomeno, mantenendosi almeno inizialmente alquanto imparziale: «Non credo di essere eccessivamente di parte […] nell’affermare che la pubblicità collettiva – della quale fa parte, per comprensibili ragioni, la pubblicità di Stato – rappresenta realmente la novità più interessante e rilevante di questi ultimi anni nel campo della réclame, cosa che dà adito a grandi speranze e necessita pertanto di un’attenzione particolare».29 L’aspetto più degno di nota del discorso di Momigliano fu proprio l’enfasi sui vantaggi economici della pubblicità collettiva, al di là dei suoi aspetti più apertamente ideologici, finalizzata a convincere una platea internazionale di esperti del settore. Come altri colleghi prima di lui, Momigliano la descrisse infatti come l’arma più efficace contro gli effetti infausti della Grande depressione – un’arma che nel caso italiano si rivelerà fondamentale non solo per la grande industria ma anche per la stampa fascista, come vedremo. Il suo intervento passò poi in rassegna le molte campagne collettive create a seguito della crisi economica da diversi paesi europei, dalla Norvegia alla Cecoslovacchia alla Polonia, soffermandosi infine sul caso dell’Italia, «il paese in cui la pubblicità di Stato e quella collettiva trovano un’applicazione ampia e diffusa […] in un’atmosfera particolarmente propizia». Fu qui che il discorso di Momigliano assunse dei chiari connotati politici: «Crediamo che nessuno dei nostri ascoltatori possa ignorare i principi basilari che sono stati introdotti in Italia grazie alla Rivoluzione Fascista guidata da Benito Mussolini e l’ordine sociale che è stato riassunto nella nozione dello “Stato Corporativo”».30 Nel descrivere con dovizia di particolari alcuni esempi di pubblicità collettiva italiana dei primi anni Trenta, Momigliano fece riferimento sia a campagne «educative», come quelle per la salute delle madri e dei bimbi o per la prevenzione della tubercolosi, sia a campagne più strettamente commerciali per il turismo, la birra, il rayon, lo zucchero e il riso – molte delle quali erano state create proprio dall’UPI.31 Nell’illustrare l’operato della concessionaria che gestiva, Momigliano sottolineò implicitamente anche un’importante differenza tra la Germania e l’Italia: nella prima, le campagne educative venivano realizzate da un’istituzione creata apposta 29. Kontinentaler Reklame-Kongress, p. 1. 30. Ivi, p. 5. Cfr. anche G.C. Ricciardi, Advertising in Italy, «Art and Industry», 21, n° 126 (1936), pp. 209-226. 31. Cfr. Kontinentaler Reklame-Kongress, p. 8.

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dallo stato nazista, il RVA, e si differenziavano notevolmente dalle pubblicità presenti sulla stampa tedesca, già allora improntate nella maggior parte dei casi a reclamizzare prodotti di marca; nel caso italiano, invece, lo sviluppo ancora embrionale della réclame di marca favorì l’espansione delle campagne collettive, che furono per la maggior parte create da una concessionaria privata di origini svizzere, l’UPI, piuttosto che da istituzioni statali create ad hoc. Oltre a illustrare l’attività dell’UPI, l’intento di Momigliano era quello di rimarcare i benefici che tutti i paesi europei avrebbero potuto trarre da un approccio collettivo, a patto che fossero disposti a seguire il «modernissimo» esempio dell’Italia fascista, dove ai pubblicitari era stato affidato il compito fondamentale di trasmettere gli imperativi economici e morali del regime all’intera popolazione: Nella nuova Italia di Mussolini, dove vige il principio di applicare i metodi più moderni, razionali e di successo, la pubblicità riceve la massima attenzione e, in ragione della sua grande influenza, è stata scelta per promuovere lo sviluppo economico e morale del paese. Da parte loro, i pubblicitari italiani ricevono da questo gradito riconoscimento il massimo incoraggiamento a prepararsi per l’egregio compito che li attende.32

Le parole di Momigliano bene illustrano il ruolo fondamentale giocato dalla prospettiva di un riconoscimento professionale e dal prestigio che ne sarebbe conseguito nell’accettazione da parte di questi professionisti degli aspetti più discriminatori e oltranzisti dell’ideologia di regime. Fu proprio questo il nucleo fondante di quel patto faustiano che avrebbe portato alla progressiva fascistizzazione della professione pubblicitaria tanto in Germania quanto in Italia. Con ciò non si intende certo dire che il mondo pubblicitario reagì in maniera uniforme o univoca ai diktat delle due dittature, al contrario. Molte furono le strategie messe in atto da questi professionisti per sopravvivere, dall’esilio interiore alla scelta spesso obbligata di autocensurarsi, dall’enfasi su modelli alternativi come quello statunitense a una parziale cooptazione di alcuni dei temi cari all’ideologia di regime fino a un’entusiastica ibridazione con la propaganda fascista e nazista. Quest’ultimo atteggiamento fu adottato, oltre che da un certo numero di fervidi sostenitori, da una maggioranza di fiancheggiatori o opportunisti che videro nell’importanza ora accordata alla pubblicità l’occasione per ac32. Ivi, p. 9.

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cumulare profitti fino a quel momento inimmaginabili. Due in particolare furono le imprese pubblicitarie che spiccarono nel panorama pubblicitario tedesco ed italiano di quegli anni: la Società per la pubblicità commerciale (Gesellschaft für Wirtschaftswerbung, GfW), agenzia full service sorta dalla germanizzazione della filiale berlinese della JWT, e l’Unione Pubblicità Italiana, concessionaria “alla vecchia maniera” e finanziatrice della stampa di regime fin dal 1922. Per molti aspetti profondamente differenti l’una dall’altra, le due imprese raggiunsero l’apice del successo facendo da tramite tra l’apparato fascista e nazista, i bisogni dell’industria e le aspirazioni dei (futuri) consumatori; ruolo che permetterà loro di costruire dei veri e propri imperi pubblicitari che si estesero fino ai territori brutalmente conquistati in Europa, nel Mediterraneo orientale e in nord Africa. 2. La Società per la pubblicità commerciale: camice brune e know-how statunitense Tra i membri del comitato onorario del congresso del 1936 figurava un giovane pubblicitario tedesco educato alla Columbia University con alle spalle diversi anni di esperienza all’agenzia statunitense JWT: Fritz Solm. Un ottimo esempio del tipo di professionista multilingue che animava la rete globale di filiali della JWT, Solm si unì alla filiale di Berlino nel 1930, dopo aver accumulato diverse esperienze lavorative in Austria, Stati Uniti e al quartier generale europeo della JWT di Londra.33 L’anno successivo Solm fu nominato direttore dell’ufficio berlinese, nella speranza di acquisire nuovi clienti locali con cui superare le difficoltà legate al ritiro di alcuni dei maggiori committenti statunitensi in seguito al crollo della borsa di Wall Street. Già nella primavera del 1933, Solm rese nota la propria intenzione di rilevare la filiale, facendo riferimento alle difficoltà che le agenzie straniere avrebbero senz’altro incontrato sotto il neonato regime, e dopo una breve contrattazione si accordò con il direttore delle operazioni internazionali della JWT, Samuel Meek, per acquistare l’agenzia. Agli inizi di dicembre del 1933 la Camera di commercio di Berlino poté dunque annunciare che la «Walter Thompson […], come previsto dalla direttiva III/28, non 33. Cfr. DUHC, JWTA, JWT Newsletter Collection, b. OV1, J.W.T. News, marzo 1930, p. 8 e giugno 1930, p. 8.

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effettuerà più alcuna transazione con l’estero»,34 e il 28 dicembre l’agenzia fu rinominata Società per la pubblicità commerciale (Gesellschaft für Wirtschaftswerbung, GfW) sotto la guida di Fritz Solm.35 Retrospettivamente, Samuel Meek diede una versione molto diversa dell’acquisizione della filiale da parte di Solm: «Quando i nazisti giunsero al potere, l’ufficio di Berlino cadde di fatto sotto il controllo del Reich. Un pezzo grosso della propaganda, Fritz Solm, presiedeva il lavoro, vestito di tutto punto per gli affari, ma con l’uniforme delle truppe speciali [SS] stirata e pronta all’uso nel ripostiglio».36 Membro delle SS e del Partito nazista a partire dal 1933, Solm sarebbe effettivamente diventato un influente membro del Consiglio pubblicitario, l’unico tra i vari componenti a dirigere un’agenzia di réclame indipendente, raggiungendo una posizione di notevole prestigio nell’industria pubblicitaria del Terzo Reich non solo grazie alle sue conoscenze ma anche attraverso una serie di operazioni alquanto losche.37 Tuttavia, almeno in un primo momento, gli unici dubbi riguardo alla vendita da parte della JWT furono di natura finanziaria, non politica. Mentre con il senno di poi Solm venne descritto come un infido nazista, a suo tempo il passaggio di proprietà si svolse in maniera molto più amichevole di quanto Meek avrebbe poi voluto ammettere nella sua ricostruzione postbellica. Solm non fu affatto imposto dal regime nazista, bensì scelto dai vertici della compagnia per dirigere la loro filiale di Berlino. Dopo il 1933 gli fu inoltre concesso di continuare a rappresentare i clienti della JWT in Germania, a patto che adempisse agli accordi finanziari presi con la casa 34. Brandenburgisches Landeshauptarchiv Potsdam (d’ora in poi BLHA), b. 70, Industrie- und Handelskammer Berlin (d’ora in poi IHKB), f. 121: Auskünfte über die Firma J. Walter Thompson, lettera a Landesfinanzamt dalla Camera di commercio di Berlino, 1° dicembre 1933. 35. Cfr. ivi, Registratur – N. 40425, 2 gennaio 1934. 36. DUHC, JWTA, Sidney Bernstein Papers, b. 9, The One World of Sam Meek, p. 54. 37. Un elenco dei membri del Consiglio pubblicitario divisi tra quelli provenienti dall’industria (sia da quella pesante che da quella al dettaglio) e dalle associazioni e istituzioni naziste è riportato in Westphal, Werbung im Dritten Reich, p. 165. La storiografia sul rapporto tra imprese e nazionalsocialismo è ormai vasta, per una panoramica delle diverse interpretazioni storiografiche cfr. in particolare i due volumi Unternehmen im National­ sozialismus e Business and industry in Nazi Germany. Fra i molti studi cfr. Feldman, Allianz and the German insurance business, Hayes, Industry and Ideology, e James, The Nazi dictator­ship and the Deutsche Bank. Sulla pessima fama di Solm cfr. Swett, Selling under the Swastika, p. 314.

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madre newyorkese. Almeno in una prima fase Solm riuscì dunque a mantenere rapporti cordiali con gli ex colleghi newyorkesi, che ancora a metà degli anni Trenta si facevano carico di revisionare i suoi lavori per la Kraft e altri clienti, e che, come abbiamo visto, nel 1935 si prestarono perfino a far da cicerone al vicepresidente e capo del dipartimento legale del Consiglio pubblicitario Carol von Braunmühl in visita a New York. Già nel 1933 Braunmühl era stato descritto da Solm come «un giovane molto piacevole e affascinante nonché intelligente, con cui ho rapporti davvero amichevoli e al quale devo molto in merito alla disputa legale per l’imposta sul fatturato… È un uomo molto influente».38 Due anni dopo Solm aveva nuovamente fatto intendere che intrattenere buoni rapporti con il Consiglio pubblicitario avrebbe aiutato il quartier generale JWT a risolvere alcune delle questioni finanziarie rimaste irrisolte dopo la sua acquisizione della filiale berlinese. Queste impressioni vennero confermate dal tesoriere della JWT, Earle Clark, che sottolineò come una transizione così rapida era stata possibile proprio «grazie ai contatti con il Consiglio pubblicitario» di Solm.39 È probabile che almeno in una prima fase Solm avesse esagerato la gravità della situazione in modo da assumere una posizione di forza agli occhi dei colleghi e dei clienti d’oltreoceano. Fatto sta che a partire dalla fine del 1933 gli ottimi rapporti da lui intrattenuti con i vertici del Consiglio pubblicitario e del Ministero gli assicurarono introiti ed opportunità di tutto riguardo sia in Germania che all’estero, attraverso le commissioni di prestigiose aziende quali la Hapag, la maggior compagnia di navi da crociera verso il nord America – inclusa la famosa St Louis, ai cui 900 passeggeri in fuga dalle persecuzioni antisemite fu vietato lo sbarco a Cuba, negli Stati Uniti e in Canada nel maggio del 1939 – o il colosso farmaceutico Schering-Kahlbaum.40 Sebbene il passaggio di proprietà avvenne in maniera rapida e senza intoppi, i rapporti con la sede newyorkese iniziarono ad incrinarsi poco tempo dopo la visita di von Braunmühl a causa delle presunte difficoltà da parte di Solm nel ripagare il corrispettivo dovuto alla JWT. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, l’adesione al nazionalsocialismo di 38. DUHC, JWTA, Treasurer’s Office Records: International Offices Series, 19281952, b. 5: Berlin Office Subseries, 1930-1939, f. Solm, Fritz--Payment Due JWT, 1933-35 (d’ora in poi SF-PD), lettera a H. Flower Jr da F. Solm, 9 giugno 1933. 39. Cfr. DUHC, JWTA, SF-PD, lettera a E. Clark da F. Solm, 4 agosto 1934. 40. Cfr. Wlasich, Die Schering AG in der Zeit des Nationalsozialismus, p. 26 ss.

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Solm spingerà i thompsoniani a giudicare retroattivamente scorretta la sua condotta nel rilevare la filiale tedesca. In realtà, all’epoca, la maggior parte della dirigenza della JWT non sembrò dare alcun peso alla fede nazionalsocialista di Solm, fatta eccezione per la filiale di Anversa, che nel giugno del 1934 dichiarò: «Per quanto ci riguarda, fate ciò che vi pare della filiale tedesca. In questi paesi sono tutti talmente irritati da ciò che fa la Germania oggigiorno che nessuno verrà biasimato, qualsiasi cosa accada».41 Salvo queste rarissime obiezioni di natura politica, allora e per tutto il corso degli anni Trenta il principale motivo di disaccordo rimasero le questioni finanziarie, e in particolare gli ostacoli in cui Solm incappò nel tentativo di inviare pagamenti all’estero, che a suo dire gli impedirono di liquidare il debito con la società di New York.42 Col passare degli anni i presidenti della JWT si trovarono a dover far fronte a un’altra preoccupazione, ossia la tendenza da parte di Solm a «correre dai nostri clienti con storielle sulla nostra persecuzione» nei suoi confronti, che assunse proporzioni alquanto preoccupanti nel caso del cosiddetto «affaire Kraft».43 Colosso dell’industria alimentare già a quei tempi e uno dei maggiori clienti JWT a livello mondiale, a partire dal 1937 l’azienda fu coinvolta personalmente nella disputa tra Solm e la JWT attraverso il suo direttore esecutivo per l’Europa continentale, E.G. Stranz. Dal momento che la maggior parte dei ricavi europei della Kraft veniva dal mercato tedesco e che Solm intratteneva legami molto stretti con il regime, Stranz si schierò prontamente dalla parte di Solm, difendendolo anche nella corrispondenza con il suo capo, il magnate James L. Kraft: «Mi associo alla posizione di Solm che è in ottimi rapporti col governo e non può permettersi di contravvenire alla legge in alcun modo».44 Ben presto la sede di Chicago confermò tale interpretazione dei fatti: «Stranz […] sarebbe disposto a favorire Solm anche solo perché immagina che goda di un’ottima posizione negli affari nazisti». Gli impiegati della JWT vennero pertanto sollecitati a «non coinvolgere in alcun modo la Kraft nella vicenda».45 Ciò nonostante la situazione continuò a degenerare, e entro i primi mesi del 1938 Solm aveva iniziato ad affidare molte delle sue 41. DUHC, JWTA, SF-PD, lettera a D. Foote da L.R. Coleman, 18 giugno 1934. 42. Un ottimo esempio fu quello della Disney, cfr. Evans, The Third Reich in Power, pp. 130-131. 43. DUHC, JWTA, SF-PD, lettera a L.R. Coleman da D. Foote, 2 febbraio 1938. 44. Ivi, lettera a J. Kraft Esq. da E.G. Stranz, 6 febbraio 1937. 45. Ivi, lettera a D. Foote da W.F. Lochridge, 22 novembre 1937.

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commesse estere alla McCann, una delle maggiori rivali della JWT.46 Come sottolineato dal direttore della sede parigina, Loyd Ring Coleman, un paio di giorni prima della cosiddetta Notte dei cristalli, i violenti pogrom antisemiti del 9 novembre 1938, questo non comportò tuttavia un’interruzione dei legami con le altri filiali europee della JWT. Solm continuò infatti a collaborare con loro soprattutto nel settore del turismo e delle navi a vapore e per assicurarsi «quello che potrebbe essere un fantastico cliente, le sigarette Kyriazi», molto in voga tra gli efendi egiziani e le élites cosmopolite europee.47 Nonostante i rapporti piuttosto tesi con i colleghi d’oltreoceano, fino all’inizio della Seconda guerra mondiale Solm continuò a rappresentare gli affari tedeschi di alcuni dei maggiori clienti della JWT, tra cui la Kodak, la Kraft, la Pond’s e la Quaker Oats, alle quali si aggiunsero importanti ditte tedesche quali le già menzionate Hapag e Schering-Kahlbaum nonché le automobili Daimler, l’industria chimica Schülke & Mayr, la birra Schultheiss e dal 1937 la Lingner-Werke, produttrice del famoso collutorio Odol.48 Grazie a questa notevolissima lista di clienti, l’agenzia acquisì ben presto una certa fama, diventando una delle ditte pubblicitarie di maggior successo dell’era nazionalsocialista. Oltre all’indiscusso prestigio, i legami con la rete internazionale della JWT e con il Consiglio pubblicitario garantirono profitti più che considerevoli alla Società per la pubblicità commerciale e a Solm in particolare, il cui reddito mensile già nel 1934 ammontava a 1.200 marchi circa, quasi la metà di quanto dovuto alla JWT per estinguere il debito della compravendita dell’anno precedente.49 Stando ai suoi racconti, come moltissimi colleghi Solm aveva perso gran parte del patrimonio di famiglia a causa dell’iperinflazione dei primi anni di Weimar – basti pensare che all’apice della crisi, nel dicembre del 1923, un dollaro americano comprava 4.200 miliardi di marchi, e per comprare un chilo di pane ci volevano 233 miliardi di marchi50 – ma grazie alla Società per la pubblicità commerciale poté ben presto contare su ingenti guadagni. 46. Ivi, lettera a D. Foote da L.R. Coleman, 10 febbraio 1938. 47. Ivi, lettera a D. Foote da L.R. Coleman, 7 novembre 1938, p. 2. Cfr. anche ivi, lettera a D. Foote da L.R. Coleman, 19 ottobre 1938. 48. Cfr. BLHA, Registratur - N. 40425, 2 gennaio 1934, e b. 70 IHKB, f. 121, lettera alla Camera di commercio di Berlino 25 giugno 1936, 15 aprile 1937. Sulla réclame Odol cfr. In aller Munde 100 Jahre Odol, pp. 140-197. 49. Cfr. JWT-A, SF-PD, lettera a H. Flower Jr. da F. Solm, 18 giugno 1934. 50. Cfr. Feldman, The Great Disorder, p. 5 e Evans, The Coming of the Third Reich, p. 68.

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Oltre a mantenere una presenza costante sulla stampa tedesca attraverso un’ampia gamma di annunci per la sua clientela, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta Solm contribuì anche all’organo della NSRDW, il «Die deutsche Werbung», con una serie di articoli sull’importanza delle ricerche di mercato e della psicotecnica, concepite da Solm come conditio sine qua non per la creazione di ogni campagna pubblicitaria di successo. Lo scopo dei suoi contributi era quello di «spezzare una lancia a favore dell’analisi di mercato […] [affermandone] in modo inequivocabile i vantaggi commerciali».51 Nel perorare la sua causa, Solm rimarcava l’importanza sociale oltre che economica della pubblicità: «La pubblicità […] influenza le politiche aziendali […] per anni. E i profitti che ne derivano significano un lavoro e un reddito certo o maggiore per persone in carne ed ossa. Le perdite, al contrario, [implicano] un indebolimento e una minaccia alla posizione acquisita attraverso […] la pubblicità e con essi un indebolimento e una minaccia per diversi posti di lavoro».52 Lo stesso valeva per l’adozione di tecniche di psicologia di massa capaci di rivolgersi a un ampio ventaglio di acquirenti. Ricordando che «la massa dei consumatori pensa in modo diverso, ha sentimenti diversi e reagisce in modo diverso rispetto al comportamento cosciente dei singoli individui», Solm sottolineava che «la ricerca di mercato non significa fare un gran numero di affari ma richiede piuttosto una conoscenza degli esseri umani».53 A livello pratico, un’accurata analisi di mercato consisteva di due fasi imprescindibili: la ricerca e l’osservazione dei mercati. Alla fase iniziale di ricerche approfondite e basate su un’ampia casistica, il buon pubblicitario avrebbe dovuto far seguire una fase di prova in cui testare sul campo le bozze di pubblicità create sulla base delle ricerche di mercato al fine di ottimizzare la campagna finale. Anche se dovremo aspettare la seconda metà degli anni Cinquanta per vedere applicate queste tecniche su larga scala, Solm e la sua Società per la pubblicità commerciale non furono gli unici pionieri delle ricerche di mercato nella Germania nazista. Come illustrato dallo storico Jonathan Wiesen, l’enfasi sulle ricerche di mercato divenne infatti oggetto di un ampio filone di studi finalizzati a creare «uno spazio di consumo nazionalsocialista» attraverso un «marketing ideologico» che si riproponeva di creare una società dei 51. Fritz Solm, Marktforschung als Voraussetzung, «Die Deutsche Werbung», 30, n° 15 (1937), p. 810. 52. Ibidem. 53. Ivi, p. 811.

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consumi nazionalsocialista priva degli «effetti culturali» di tali società quali l’individualismo e il consumismo, giudicati come «degradanti» e «giudei».54 Questa campagna fu portata avanti da istituzioni quali la già menzionata Società per la ricerca sul consumo (Gesellschaft für Konsumforschung, GfK) di Norimberga, che pur servendo interessi economici privati si riproponeva di approfondire la sua comprensione delle masse di consumatori, differenziati in base a categorie ben precise quali il genere, l’occupazione e lo stile di vita piuttosto che secondo l’omogeneità sociale e razziale del Volk imposta dall’ideologia nazista.55 Le ricerche di mercato subiranno poi un’impennata con l’avvicinarsi della Seconda guerra mondiale al fine di sostenere l’espansione bellica, come ricordato da Uwe Westphal.56 Anche nel caso dei contributi di Solm, l’aspetto di maggior rilievo fu l’enfasi attribuita ai desideri dei consumatori a discapito di una concezione più politicizzata dei consumi propagandata da istituzioni quali il RVA, che predicava l’austerità e il riallineamento delle abitudini individuali in base ai dettami nazionalsocialisti. Tale posizione non era tanto antitetica agli obiettivi nazionalsocialisti quanto esemplare dell’evoluzione di una delle concezioni chiave della psicotecnica, in base alla quale le suggestioni pubblicitarie non erano più ritenute onnipotenti, capaci dunque di esercitare un controllo assoluto su una massa indifferenziata di consumatori inermi di fronte al loro potere, ma venivano plasmate dai bisogni e dal comportamento di gruppi sociali ben distinti e di singoli consumatori. «La pubblicità – sosteneva Solm – non è un randello con cui forzare i consumatori. Il proprietario dell’azienda non impartisce ordini. Come sostiene il Führer, la pubblicità non è né uno strumento educativo né una lezione pratica. In fin dei conti il produttore riesce a vendere solo ciò che il consumatore accetta».57 L’ex thompsoniano esortava dunque i colleghi a creare réclame più incentrate sull’agency dei consumatori: «Ecco perché il concetto di “creazione della domanda” viene spesso frainteso. Il desiderio deve già esistere nel consumatore. Non possiamo crearlo dal nulla. Mediante la pubblicità possiamo solo far sì che il consumatore, tra le sue tante voglie, desideri più una cosa rispetto a un’altra. La pubblicità si deve adattare al consumatore».58 54. Wiesen, Creating the Nazi Marketplace, p. 104 ss. 55. Ivi, pp. 162-164. 56. Cfr. Westphal, Werbung im Dritten Reich, pp. 139-141. 57. Solm, Marktforschung als Voraussetzung, p. 811. 58. Ibidem.

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Per quanto non sia dato sapere a quale discorso di Hitler si riferisse Solm, al di là del già citato passaggio sulla pubblicità per il sapone, le sue parole sono emblematiche della centralità attribuita alla partecipazione dei consumatori (politici, oltre che economici) a partire dalla seconda metà degli anni Trenta. La creazione di pubblicità e propaganda si presentava dunque come un processo in costante divenire e in una certa misura reciproco, per quanto caratterizzato da rapporti di forza decisamente sbilanciati, in cui le masse da nazionalizzare erano invitate a collaborare nel plasmare le suggestioni pubblicitarie e più in generale l’idea di una futura società del benessere nazista. Attraverso il loro “pubblicizzare per il Führer”, per parafrasare la felice formula di Kershaw,59 professionisti come Solm giocarono un ruolo fondamentale nella stabilizzazione del regime dal basso, in quanto agirono da cerniera tra le aspettative dei membri della Volksgemeinschaft e l’ideologia nazionalsocialista. Attraverso pubblicità capaci di assorbire e far proprie le aspirazioni di diverse classi sociali, i pubblicitari nazisti cercarono di integrare gruppi sociali ben precisi nel regime nazista, e viceversa. Con ciò non si intende certo dire che la dirigenza nazista – animata da concezioni profondamente diverse e spesso in conflitto tra di loro – abbia perseguito questa strategia in maniera lineare o per lo meno coerente, al contrario. Si trattò di un’iniziativa perseguita principalmente dal mondo del commercio e dell’industria, oltre che della propaganda, e sposata spesso con entusiasmo dai professionisti della pubblicità anche e forse soprattutto perché aveva il potenziale di garantir loro prestigio e guadagni ancora mai visti. In realtà, come dimostrato dalle attività del RVA, diversi dei dignitari del Ministero continuarono a concepire la propaganda economica come un «randello» con cui inculcare la Verbrauchslenkung (il riallineamento dei consumi) nella quotidianità dei tedeschi, soprattutto a partire dal 1936, anno del lancio del piano quadriennale e del famoso slogan «cannoni al posto del burro» di Rudolf Heß.60 Ciò che è importante sottolineare, tuttavia, è che una parte non trascurabile di pubblicitari, spesso di chiare simpatie naziste ma non solo, comprese gli ostacoli che il regime avrebbe dovuto affrontare nel tentativo da un lato di modificare abitudini già consolidate a favore di prodotti nazionali o di qualità inferiore, e dall’altro di scollare le pratiche di consumo dall’idea di libertà di scelta incarnata dal consumismo di matrice 59. Cfr. Kershaw, ‘Working towards the Führer’, pp. 88-106. 60. Cfr. Schanetzky, «Kanonen statt Butter», pp. 145-160.

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statunitense, e si adoperò con solerzia per trovare la sintesi più favorevole alla realizzazione della Weltanschauung nazionalsocialista.61 Lungi dal rilevare un conflitto inconciliabile tra l’avvento della società dei consumi di massa e l’ideologia nazista, Solm e molti dei suoi colleghi approdarono infine a un compromesso che prometteva di risolvere le contraddizioni insite nel binomio nazismo-consumismo proiettandole nel futuro imperiale nazista. Secondo tale interpretazione, i servizi e i beni di consumo promessi a tutti i membri “razzialmente puri” della comunità nazionale non solo non rappresentavano un impedimento in sé e per sé per la realizzazione della «visione del futuro» nazista, ma anzi ne avrebbero costituito uno degli elementi di maggiore stabilità. La contaminazione tra l’assorbimento di temi tipici della propaganda nazista e il giocare sulle aspirazioni consumistiche suscitate dalla pubblicità di stampo statunitense era ben visibile nelle campagne che la Società per la pubblicità commerciale ideò per i suoi numerosi committenti, come illustrerà il prossimo capitolo. Nel caso della Società, come di molte altre imprese, i benefici della nazificazione della réclame raggiunsero l’apice con l’accelerazione dell’esproprio dei cittadini di origini ebraica a partire dal 1936 e l’inizio dell’espansione territoriale. Fu in questo periodo, infatti, che Solm assunse il ruolo di rappresentante degli interessi economici tedeschi nella réclame europea e italiana, in particolare. Già dalla metà degli anni Trenta il proprietario della Società per la pubblicità commerciale aveva intrapreso diversi viaggi all’estero per i suoi clienti tedeschi, soprattutto in sud Europa. Accompagnato dalla moglie Lola, nata a Belfast, Solm si recò più volte in Austria e in Italia per poter «acquisire una buona conoscenza dei loro sistemi di vendita e propaganda», e godersi il bel tempo, probabilmente, visto che partivano sempre nei mesi primaverili.62 Questi viaggi d’affari avvenivano principalmente per conto della Hapag e della Schering-Kahlbaum, di cui Solm visitò le sedi di Milano e Trieste più volte nel corso dell’estate del 1936, pochi mesi prima della proclamazione dell’Asse Roma-Berlino, con l’obiettivo di condurre «ricerche di mercato, che saranno utili alle esportazioni dei prodotti tedeschi all’estero».63 61. Sul rapporto fra consumo e libertà di scelta cfr. Cohen, Citizens and Consumers, pp. 203-221 e Wildt, Konsumbürger, pp. 255-283. 62. BLHA, b. 70, IHKB, b 121, lettera alla Camera di commercio di Berlino dalla Società per la pubblicità commerciale, 15 giugno 1936. 63. Ivi, Lettera alla Camera del commercio di Berlino dalla Società per la pubblicità commerciale, 3 maggio 1937.

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Negli anni successivi l’interesse della Società per la pubblicità commerciale nei confronti del mercato italiano crebbe in modo esponenziale, facilitata sia dall’incremento degli scambi e delle visite diplomatiche tra i due alleati che dai proto-consumi che si andavano lentamente sviluppando negli anni dell’impero fascista e delle Leggi razziali, tanto che Solm finì per dedicare più tempo all’Italia che a qualunque altro paese in cui era attiva la sua agenzia. Cosa ancora più importante, via via che i rapporti con la casa madre della JWT si allentavano, le numerose reti nazionalsocialiste di contatti e favori su cui poteva contare Solm garantirono alla Società per la pubblicità commerciale nuovi prestigiosi amici quali la già menzionata ALA, la Società generale per gli annunci, presto diventata la più influente concessionaria di tutto il paese. Nella Germania nazista, in maniera non del tutto dissimile dall’Italia fascista, le conoscenze personali spesso giocarono un ruolo di rilievo, e l’industria pubblicitaria non fece certo eccezione.64 Nell’aprile 1938 l’agenzia, che l’anno precedente era stata ribattezzata Società per la pubblicità commerciale Solm & Co., a riprova della crescente fama del suo proprietario, si mosse per fondare una sua filiale in Italia e più precisamente a Milano, già allora capitale della pubblicità nostrana. L’ALA fu di grandissimo aiuto in tale occasione, esortando inoltre Solm a recarsi sia nel capoluogo lombardo che a Genova, di modo da poter mettere in pratica i propri piani quanto prima.65 Anche l’allora presidente del Consiglio pubblicitario, Heinrich Hunke, amico di Solm, sostenne con entusiasmo l’impresa di Solm, sollecitando prontamente l’Ufficio di cambio valute affinché gli garantisse una «corsia preferenziale», dal momento che «la rapida apertura di una sede tedesca per la pubblicità commerciale nel nord Italia […] è altamente auspicabile». In tale occasione, Hunke riassunse la situazione con le seguenti parole: Il membro del Consiglio pubblicitario dell’economia tedesca […], Herr Fritz Solm, proprietario della Società per la pubblicità commerciale […] si sta organizzando, congiuntamente alla ALA Anzeigen, […] per aprire una filiale della sua azienda a Milano. Nell’interesse della réclame commerciale italiana, accolgo con entusiasmo questo progetto, vista la sua grande importanza per le esigenze pubblicitarie che ho potuto riscontrare in nord Italia.66 64. Cfr. ad esempio Bähr, The Personal Factor, pp. 153-171. 65. Cfr. BLHA, b. 70, IHKB, b 121, lettera a F. Solm dall’ALA GmbH, 5 aprile 1938. 66. Ivi, lettera all’Oberfinanzpräsident Devisenstelle dal presidente del Werberat, 8 aprile 1938.

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Hunke intendeva così accelerare le procedure burocratiche necessarie per la realizzazione di questa impresa, ritenuta «particolarmente desiderabile per l’economia del Volk» e che avrebbe pertanto dovuto godere di tutto il sostegno possibile da parte delle istituzioni e dei funzionari dello stato nazista. A partire dal 1933 e almeno fino al 1940, Solm riuscì dunque non solo a mantenere la reputazione dell’ex filiale della JWT Berlino, ma addirittura a trasformarla in una delle agenzie pubblicitarie di maggior successo del Terzo Reich, che oltre a rappresentare diversi clienti statunitensi in Germania si fece carico di assistere alcune delle più importanti industrie tedesche nella conquista dei mercati di tutt’Europa. Solm stesso giocò un ruolo di primo piano nell’apertura di questi mercati ai prodotti tedeschi attraverso attente campagne di stampo statunitense, che davano forma pubblicitaria al compromesso tra le esigenze dell’economia tedesca e i dettami dello stato nazista che caratterizzò gli anni precedenti allo scoppio della Seconda guerra mondiale e i primi due anni del conflitto. Pur animati da concezioni e scopi ben diversi, sia il Consiglio pubblicitario che i Ministeri della propaganda e dell’economia attribuirono un ruolo assolutamente centrale ad agenzie come la Società per la pubblicità commerciale Solm & Co., alle quali venne richiesto non solo di stimolare e allo stesso tempo condizionare i consumi, ma anche di sostenere la crescita economica delle ditte tedesche all’estero. Il nord Italia costituì uno degli obiettivi principali di questo piano di espansione commerciale, che si concretizzò a partire dai tardi anni Trenta. All’entrata in guerra dell’Italia nel giugno del 1940 diverse erano infatti le compagnie tedesche a essere reclamizzate nelle regioni del centro e nord Italia. Notevole eco ebbe ad esempio la campagna per il lancio dei prodotti di bellezza Scherk, curata da Solm per la Schering-Kahlbaum nel maggio del 1939.67 Paradossalmente, fu anche attraverso i beni di consumo tedeschi che alcune delle campagne più “americanizzate” dei tardi anni Trenta comparvero sulla stampa italiana. Il fatto che sia una delle principali concessionarie tedesca, l’ALA, che il presidente del Consiglio pubblicitario presero parte attiva in queste operazioni è alquanto rivelatore dell’importanza che il progetto di colonizzazione economica andò assumendo nella conquista dell’agognato «spazio 67. Cfr. ivi, Lettera alla Camera di commercio di Berlino dalla Società per la pubblicità commerciale, 22 maggio 19[3]9.

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vitale» già ben prima della guerra.68 Il primo e principale bersaglio furono i cittadini di origine ebraica, il cui esproprio secondo Götz Aly assicurò ai tedeschi migliori condizioni economiche di quelle che avrebbero dovuto sopportare altrimenti.69 Tali meccanismi furono messi in pratica anche nei paesi occupati dell’est e del sudest Europa, in cui la colonizzazione spesso si accompagnò all’annientamento economico e a volte anche fisico delle popolazioni slave, considerate inferiori dall’ideologia nazista. Almeno fino all’armistizio dell’8 settembre del 1943 ma in parte anche durante la RSI, lo status di alleato protesse invece l’Italia da un sistematico sfruttamento economico,70 in un contesto in cui l’intensa collaborazione tra i fascismi lasciò progressivamente il posto a rapporti di forza sempre più sbilanciati a causa dell’evidente inferiorità militare ed economica dell’Italia. Ciò non toglie che le opportunità di sviluppo offerte dal mercato del nord Italia avevano a lungo suscitato l’interesse delle aziende tedesche e subirono un’impennata a partire da metà anni Trenta, con il riavvicinamento diplomatico tra i due paesi – basti pensare alle pubblicità italiane per il Persil della Henkel, disegnate anche da Gino Boccasile, e per altre compagnie d’oltralpe.71 L’interesse era del tutto reciproco, peraltro. Approfondite analisi del mercato e dell’industria pubblicitaria tedeschi o italiani cominciarono a essere pubblicati non solo su riviste tecniche come «L’Ufficio Moderno» o «Gebrauchsgraphik» ma anche sugli organi ufficiali delle associazioni professionali di regime. Per quel che riguarda le esportazioni vere e proprie, anche se gran parte delle poche agenzie attive in Italia era ancora di dimensioni troppo modeste per lanciare iniziative su larga scala sul mercato tedesco, diverse grandi aziende come la Cinzano avevano cominciato ad apparire regolarmente sulla stampa tedesca, di solito tramite annunci creati dai loro uffici pubblicità interni, o attraverso campagne collettive per la promozione dei prodotti italiani.72 68. Un buon esempio è quello dell’Europa sud-orientale, cfr. Gross, Export Empire, soprattutto pp. 253-291. 69. Cfr. Aly, Lo stato sociale di Hitler, pp. 313-328. Per un’ottima critica delle controverse conclusioni di Aly cfr. Schanetzky, «Kanonen statt Butter», pp. 161-175. 70. Questo risultò evidente soprattutto per quel che riguarda le sistematiche spoliazioni di beni culturali messe in atto in altri paesi occupati, cfr. Klinkammer, Die Abteilung “Kunstschutz”, p. 548. 71. Cfr. ad esempio CGBC, n° 0500672017, Persil. donna sorridente ammira il candore della sottoveste pulita, 1941. 72. Anche la Dorland creò delle pubblicità Cinzano per il mercato tedesco, cfr. Rössler, Herbert Bayer, p. 280.

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Dopo l’aggressione della Polonia nel settembre del 1939, la Società per la pubblicità commerciale Solm & Co. svolse un ruolo di primo piano nella penetrazione di numerosi marchi tedeschi nei nuovi territori brutalmente occupati o annessi dell’Europa dell’est. Ancora nel novembre del 1940, in seguito al progressivo reclutamento dei dipendenti nella Wehrmacht, l’agenzia fu definita dal Consiglio pubblicitario come «una delle società di consulenza pubblicitaria più illustri della Germania», nel probabile tentativo di impedire che altri collaboratori subissero la stessa sorte dell’ex collega Wolfgang Groeger, che era stato ucciso al fronte poche settimane prima.73 Lo stesso Solm era stato reclutato poco dopo l’inizio della guerra. Fu la moglie Lola a dirigere l’agenzia al suo posto e a intraprendere diversi viaggi nel Protettorato di Boemia e Moravia, soprattutto a Praga, dove si occupò della pubblicità per l’industria automobilistica Škoda. Durante la guerra Solm collaborò sia con il RVA che con le Compagnie propaganda della Wehrmacht, come molti dei suoi colleghi del mondo della comunicazione, diversi dei quali animeranno poi i media tedesco-occidentali.74 Solm tuttavia non rinunciò alla sua vocazione di pubblicitario. Stando alle memorie romanzate dell’allora direttore delle operazioni internazionali della JWT Sam Meek, evidentemente desideroso di dissociarsi dall’ex protégé nazista, quando i tedeschi conquistarono Parigi, Fritz [Solm] era in prima linea. Recatosi immediatamente alla Thompson di Parigi in Rue de la Paix, mandò un telegramma a Sam [Meek] per comunicargli che aveva preso il controllo della filiale francese e che era pronto a riprendere ogni attività. [Gli] chiese […] dove fossero i materiali dell’ufficio e di inviargli 300.000 franchi. Sam non rispose.75

Il direttore della filiale parigina, Coleman, era invece riuscito a «fuggire con la cassa e i registri JWT quattro giorni prima che i nazisti occupassero la città il 14 giugno 1940», mentre «i fascicoli contabili furono mitragliati sulla strada nei pressi di Tours».76 Come ricostruito da Pamela Swett, 73. BLHA, b. 70, IHKB, b 121, lettera alla Camera di commercio di Berlino dal presidente del Werberat, 27 novembre 1940. 74. Cfr. Swett, Selling under the Swastika, p. 223; Uziel, The Propaganda Warriors, p. 97 ss. 75. JWTA, Sidney Bernstein Papers, b. 9; Robert T. Colwell, The One World of Sam Meek, p. 54. 76. Cfr. Hultquist, Americans in Paris, p. 481.

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durante la guerra Solm continuò a giocare un ruolo di primo piano. Si deve a lui la creazione della rivista «Signal», concepita come vetrina della “nuova Europa” nazionalsocialista e finalizzata a mettere in mostra il futuro di benessere che avrebbe atteso il vecchio continente dopo la vittoria dell’Asse.77 Promosso a Rittmeister del Comando supremo della Wehrmacht nel 1941, diventò Maggiore nel 1945, per poi morire l’anno successivo a causa di un’infezione di tubercolosi che aveva contratto volontariamente per potersi rifugiare in Svizzera.78 Pur rappresentando un caso particolare nel panorama pubblicitario del Terzo Reich in virtù delle sue origini statunitensi, la parabola della Società per la pubblicità commerciale è emblematica di quel processo di assorbimento e rielaborazione dei dettami del nazionalsocialismo dal basso che oltre ad assicurare l’allineamento dell’industria contribuì in maniera non indifferente alla stabilizzazione del regime. Tale evoluzione si concentrò soprattutto sull’epurazione di tutti i professionisti bollati come “anti-tedeschi” – tecnici e grafici di origini ebraiche in primis, ma anche oppositori politici, come illustrato dal caso della Dorland – piuttosto che sulla creazione di una precisa tipologia di pubblicità orientata a stimolare i consumi attraverso temi e tecniche tipici della moderna società di massa, che rimase invece ben accetta a patto che si rivelasse utile alla causa nazionalsocialista. Le vicende della Società per la pubblicità commerciale ben illustrano il ruolo centrale attribuito ai pubblicitari di professione da parte dei Ministeri della propaganda e dell’economia attraverso il Consiglio pubblicitario, che dalla metà degli anni Trenta si prodigò per sostenere attivamente l’espansione imperiale tedesca e valorizzare gli interessi nazionalsocialisti in tutta Europa proprio grazie alla pubblicità commerciale. Mentre il RVA realizzò una serie di campagne rieducative di chiara matrice propagandistica, finalizzate ad assicurare la salute e il sostentamento del Volk attraverso la tipica retorica del sacrificio,79 le agenzie di pubblicità private, una volta epurate, si adoperarono a volte con entusiasmo non solo per trovare nuovi mercati per i prodotti tedeschi ma anche per vendere lo stile di vita nazionalsocialista sia all’interno che al di fuori della Germania. Un processo molto simile ebbe luogo anche in Italia, paese in cui la distinzione tra collettività fascista e pubblicità privata era a uno stadio decisamente più 77. Cfr. Rutz, Signal, pp. 36-39. 78. Cfr. Swett, Selling under the Swastika, pp. 223, 314. 79. A riguardo cfr. in particolare Conti, Volksgesundheit und Werbung.

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embrionale che nel Reich. Qui fu un’azienda privata di origini svizzere, l’Unione Pubblicità Italiana (UPI), ad assumersi il compito di pubblicizzare il regime fascista. 3. L’Unione Pubblicità Italiana: un impero pubblicitario al servizio del fascismo Nella primavera del 1942, in occasione della visita del federale di Milano alla prestigiosa sede di Piazza degli Affari dell’Unione Pubblicità Italiana (UPI), l’allora presidente della Federazione nazionale fascista italiana editori Rino Alessi espresse la sua profonda gratitudine all’azienda, «dei cui servizi intelligenti e costanti a favore della stampa fascista posso esser testimone almeno dal 1924 – anno delle ultime elezioni multi-partitiche e dell’omicidio Matteotti, nda – che nella storia della nostra rivoluzione è un anno fondamentale».80 La storia dell’UPI durante il Ventennio è una storia di spregiudicato successo. Scaltre pratiche commerciali si sposarono a una massiccia dose di opportunismo politico per costruire un impero che già a metà degli anni Trenta gestiva più della metà della stampa nazionale e vantava un monopolio quasi assoluto in alcune delle colonie. Dopo la fine della Prima guerra mondiale, l’UPI subì infatti un processo di progressivo avvicinamento al fascismo, che l’avrebbe poi trasformata nella più potente concessionaria di pubblicità a stampa del Ventennio. Diventata l’intermediaria de «Il Popolo d’Italia» già pochi anni dopo la sua fondazione l’UPI si trasformò presto nella principale fonte di sostentamento della stampa fascista, a cui garantì notevolissimi introiti. Il sodalizio fu talmente redditizio da assicurare al giornale fondato da Mussolini i fondi per il famoso supplemento del 28 ottobre 1932 dedicato al decennale della Marcia su Roma, che conteneva circa 80 pagine illustrate (più 16 pagine di editoriali) e fu tra i pamphlet propagandistici a maggior tiratura di tutto il Ventennio.81 Creatrice di molte delle campagne di pubblicità collettiva del regime, l’UPI avrebbe dato vita a un filone pubblicitario ibrido, infarcito di slogan nazionalistici e autarchici, che avrebbe tappezzato le pubblicazioni e i muri di tutta Italia. 80. Il rapporto del Federale di Milano all’Unione Pubblicità Italiana, «La Pubblicità d’Italia», 6, n° 55-60 (1942), p. 23. 81. Cfr. Dino Villani, La S.P.I. e gli sviluppi della pubblicità stampa in Italia, «L’Ufficio Moderno», n° 12 (1973), pp. 1837-1838; Falabrino, Effimera & bella, p. 144.

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La parabola dell’UPI è particolarmente emblematica in quanto incarna la crescente compenetrazione tra alcuni settori della professione pubblicitaria e i vertici del regime che ebbe luogo nell’arco del Ventennio, nonché il complesso intreccio di poteri e interessi che lo caratterizzò. Le iniziali motivazioni economiche che probabilmente portarono l’azienda a sostenere l’espansione della stampa fascista cedettero via via il passo a un progressivo assorbimento dei temi più cari alla propaganda di regime che si trasformerà infine in una vera e propria comunione di intenti tra la compagnia e la dittatura. Ma partiamo dall’inizio. Fondata a Torino nel 1886 come succursale italiana della filiale svizzera della società tedesca Haasenstein & Vogler (H&V), l’UPI era specializzata nel collocamento degli spazi pubblicitari sulla stampa e, così come la sua acerrima concorrente, la A. Manzoni & C., apparteneva alla categoria di concessionarie sviluppatesi a partire da metà Ottocento in gran parte dell’Europa.82 A inizio Novecento l’azienda poteva già contare su un’ampia rete di filiali concentrate soprattutto in nord Italia ma anche a Napoli e Palermo, che gestivano le commissioni di molti dei quotidiani più letti d’Italia, tra cui «La Stampa», il «Corriere della Sera» (fino alla Prima guerra mondiale), «Il Secolo», «Il Mattino» e «Il Giornale d’Italia». Nel 1916, in risposta al diffondersi di sentimenti anti-austriaci e antitedeschi tipici del clima politico e culturale della Grande guerra, l’impresa cambiò il suo nome in Unione Pubblicità Italiana. A capo di questo impero in rapida espansione, la cui sede era nel frattempo stata trasferita a Milano, vi erano quattro cittadini svizzeri: i fratelli Charles Wilhelm e Henry-Louis Georg, Alfred Mottier e Ercole Lanfranchi, che avrebbe sovrinteso alla crescita dell’UPI per quasi mezzo secolo.83 Secondo quanto ricostruito da «L’Ufficio Moderno» nel 1933, l’UPI contribuì a gettare le fondamenta per lo sviluppo della pubblicità sulla stampa italiana, ampliando sempre più la “quarta pagina” dei principali quotidiani con piccoli annunci economici.84 In virtù del suo ruolo di concessionaria, l’Unione Pubblicità Italiana costituì un mezzo di sopravvivenza essenziale per molte pubblicazioni negli angusti anni del primo dopoguerra. Secondo la legislazione vigente a quei tempi, spesso l’impresa si trovò a far da banca alla stampa, dal 82. Sulla storia delle prime concessionarie cfr. Fasce, Bini, Gaudenzi, Comprare per credere, pp. 17-22. 83. Cfr. ASCCIAAMi, b. 331 UPI, f. 18, Denunzia di esercizio delle società legali, 26 aprile 1925. 84. Cfr. Arte Pubblicitaria 1900-1933, p. 21.

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momento che era tenuta a pagare regolarmente i quotidiani e le riviste che gestiva anche nel caso in cui i suoi clienti tardassero con i versamenti, garantendo così una certa stabilità economica.85 Tra i quotidiani che ebbero la fortuna di essere foraggiati dalle commissioni dell’UPI vi era «Il Popolo d’Italia», che l’impresa sostenne finanziariamente sin dai primissimi anni Venti. Come già ricordato, quando nel 1914 Mussolini si recò in Svizzera alla ricerca di finanziamenti per il suo nuovo giornale, la H&V non si fidò dell’ex socialista divenuto interventista. Stando a Gian Luigi Falabrino, si farà tuttavia «perdonare, durante il Ventennio, mettendo la filiale italiana praticamente al servizio del regime».86 Questo legame avrebbe a sua volta garantito all’azienda una posizione di predominio sul mercato, che si rivelerà fondamentale nei momenti di crisi economica. L’UPI non si limitò tuttavia a sostenere buona parte della stampa fascista e diversi quotidiani ad ampia tiratura attraverso indispensabili proventi pubblicitari, ma in più occasioni adottò delle misure volte a silurare le pubblicazioni invise al regime. Il supplemento de «L’Ufficio moderno» dato alle stampe in occasione del congresso di Roma e Milano del 1933, ad esempio, non mancò di ricordare la tendenza dell’impresa a rifiutare «l’appalto della pubblicità – che […] voleva anche significare sovvenzione, garanzia di vita – anche a giornali di grande diffusione» ritenuti di carattere «antinazionale»,87 come le testate socialiste «La Giustizia» e l’«Avanti!», le cui sedi erano state ripetutamente devastate dagli squadristi già a partire dall’aprile del 1919. La rivista, che a quei tempi era diretta da Guido Mazzali, ex redattore dell’«Avanti!», si affrettò poi a precisare di come ciò fosse indice delle virtù di «equilibrio, preveggenza e sensibilità politica» dimostrate dall’agenzia nei confronti di «certa stampa – fortunatamente scomparsa».88 Sebbene l’eliminazione, fisica ancor prima che economica, delle pubblicazioni che si opposero al fascismo fu causata solo in parte dalla drastica riduzione dei loro proventi pubblicitari, l’atteggiamento anti-socialista dell’UPI contribuì ad accelerarne l’indebolimento, riscuotendo particolare favore tra i vertici del PNF. È inoltre indubbio che assicurare degli introiti costanti e sempre più ingenti alla stampa fascista ne assicurò quanto meno 85. Cfr. Silvano Carpi, Un pubblicitario inappuntabile, «L’Ufficio Moderno», n. 12 (1973), p. 1834. 86. Falabrino, Pubblicità serva padrona, p. 121. 87. Arte Pubblicitaria 1900-1933, p. 21. 88. Ibidem.

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la sopravvivenza ed ebbe perciò un ruolo decisivo nel determinarne le sorti. Ancora nel 1937, la prefettura di Milano ricordava infatti che l’Unione Pubblicità Italiana «fiancheggia la stampa fascista, assicurando alla stessa, con la forma del “canone fisso” per la pubblicità, una vita amministrativa relativamente sicura. I singoli organismi editoriali sono così posti al riparo dai gravi e spiacevoli alti e bassi del mercato pubblicitario».89 L’intervento dell’UPI si dimostrò cruciale anche quando la Grande depressione si abbatté sul mercato italiano, agli inizi degli anni Trenta. Se nel 1925 l’azienda era ormai composta da ben 26 filiali sparse per tutta la penisola, con un capitale che ammontava a 400.000 lire, tre anni dopo la concessionaria gestiva circa 98 quotidiani.90 Non appena gli effetti del crollo dei mercati si fecero sentire anche in Italia gli utili subirono una notevole battuta d’arresto a causa della drastica diminuzione delle richieste di pubblicità.91 Nell’estate del 1932 l’UPI versava quasi in stato di passività, ma l’azienda non mancò di onorare i suoi contratti con le testate – come nel caso dei quotidiani milanesi «La Sera-Il Secolo» e «L’Ambrosiano», che come rilevato dal questore di Milano riuscirono a rimanere a galla proprio grazie alle entrate pubblicitarie ricevute dall’UPI. Malgrado le perdite, gli amministratori dell’azienda non effettuarono tagli del personale, che nel 1932 comprendeva ben 80 impiegati.92 La situazione cominciò a migliorare sensibilmente a partire dalla metà degli anni Trenta, quando l’inedito ruolo attribuito alla pubblicità commerciale spinse il regime fascista a servirsi dell’UPI non solo per consolidare il suo sempre più vasto impero mediatico, ma anche per ideare e lanciare molte delle sue maggiori campagne, prima fra tutte quelle per i prodotti autarchici. Entro il 1929, anno in cui la società iniziò ad essere quotata in borsa, l’UPI si era specializzata nella creazione oltre che nell’«esercizio in Italia e nelle Colonie dell’industria della pubblicità sui giornali e su qualunque periodico», e nel 1935 la sua quotazione ammontava a ben 6 89. ASMi), GPPUII, b. 555, f. “Unione Pubblicità Italiana” e situazione aziende giornalistiche relativa alla pubblicità (d’ora in poi UPI), memorandum redatto dalla prefettura di Milano, 1937 90. Ivi, Questura al prefetto, 24 agosto 1928. 91. ASCCIAAMi, b. 331 UPI, f. 18, Denunzia di esercizio delle società legali, 26 aprile 1925. 92. ASMi, GPPUII, b. 555, Giornali, f. UPI, lettera dal questore al prefetto, 19 agosto 1932.

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milioni di lire, equamente suddivisi fra i tre proprietari Mottier, (Henry) Georg e Lanfranchi.93 La posizione di egemonia raggiunta dall’UPI non solo tra le concessionarie ma più in generale in tutta l’industria pubblicitaria italiana era visibile anche dal punto di vista geografico, dal momento che nel 1937 la compagnia vantava una rete di avamposti in ben 30 città italiane (isole incluse), senza contare gli stretti contatti mantenuti almeno fino al 1929 con le ex sedi H&V di Parigi, Londra, Ginevra, Bruxelles e Barcellona.94 Oltre a «Il Popolo d’Italia» e ai già menzionati «La Sera-Il Secolo» e «L’Ambrosiano», a metà anni Trenta l’UPI gestiva lo spazio pubblicitario di altri quotidiani ad ampia diffusione, quali «La Stampa», «Il Mattino», «La Nazione», «Il Resto del Carlino» e «Il Piccolo» di Trieste, nonché l’influente «Il Regime Fascista», fondato nel 1926 da Roberto Farinacci. Secondo la prefettura di Milano, l’azienda aveva gestito un giro di affari di tutto rispetto fin dal 1922, stimando che l’UPI avesse «distribuito – dal I° al XV° Anno dell’Era Fascista – circa un miliardo di lire in canoni di pubblicità».95 L’UPI divenne così l’impresa pubblicitaria italiana di gran lunga più potente, con un capitale che nel 1937 era aumentato esponenzialmente a 10 milioni e mezzo di lire, cifra mantenuta, a detta della ditta, ancora nel 1942.96 Nel corso degli anni Venti, il grande successo dell’UPI fomentò una serie di dicerie, spesso in contraddizione l’una con l’altra. Alcuni sostennero che Mussolini fosse un azionista segreto della compagnia – un fatto mai confermato dagli atti ma adombrato soprattutto dagli oppositori socialisti e comunisti del regime, in virtù del ruolo di primo piano giocato dall’azienda nel sovvenzionare la stampa fascista.97 D’altro canto, l’agenzia venne ri93. Cfr. ASCCIAAMi, b. 331, UPI, f. 21, Denunzia di esercizio delle società in accomandita per azioni e anonime, 14 giugno 1929, e memorandum del 1935. Secondo le carte della prefettura, l’anno precedente i proprietari erano «Frera Enrico fu Guglielmo, Lanfranchi Ercole fu Domenico, entrambi residenti a Locarno, e Mottier Alfredo di Francesco, abitante a Ginevra», cfr. ASMi, GPPUII, b. 555, f. UPI, lettera al prefetto dalla questura di Milano, 24 agosto 1928. 94. Nel giugno del 1929 la questura di Milano indicava gli uffici esteri come filiali dell’UPI, ma è probabile che si trattasse delle ex filiali H&V, cfr. ASMi, GPPUII, b. 555, f. UPI, lettera dalla questura al prefetto, 7 giugno 1929. Cfr. anche ivi, memorandum della prefettura, 1937. 95. ASMi, GPPUII, b. 555, f. UPI, memorandum della prefettura, 1937. 96. Cfr. Pubblicità e Propaganda, p. 284. 97. Cfr. in particolare Falabrino, Effimera & bella, pp. 102-104.

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petutamente accusata di nascondere alcuni nemici del fascismo o di essere un’enclave di spie anti-fasciste, illazioni ben più gravi che presto attirarono le attenzioni delle autorità. Le denunce si concentrarono principalmente sulle origini straniere della compagnia e sulle affiliazioni politiche dei suoi dirigenti, che vennero portate all’attenzione del Ministero degli interni attraverso una serie di lettere anonime inviate tra il 1928 e il 1929. Nel febbraio 1928 il Capo della polizia invitò il Ministero degli esteri e il prefetto di Milano ad aprire un’indagine sull’Unione Pubblicità Italiana milanese, «appaltatrice di moltissimi giornali italiani, [la quale] non è che un’emanazione della “Publicitas” di Ginevra, già Haasenstein e Vogler, ditta massonica ebraica».98 Molti collaboratori dell’azienda furono accusati di essere nemici dell’Italia fascista, incluso l’amministratore capo Lanfranchi, il quale venne descritto come «uno dei capi del liberalismo ticinese».99 È ipotizzabile che le delazioni facessero parte di un tentativo di scre­ ditare l’azienda da parte della concorrenza. L’insistenza sul carattere «ebraico» e «massone» dell’impresa, atta a suscitare i sospetti delle autorità fasciste, indicavano una certa familiarità nel ricorrere a pregiudizi ormai radicati, poi trasformatisi in temi tipici della propaganda di regime, che già ben prima delle Leggi razziali non si risparmiò occasionali attacchi antisemiti.100 Dopo diversi mesi il prefetto di Milano concluse che tutti i soggetti denunciati potevano in realtà essere ritenuti di «buona condotta morale e politica». Inoltre, l’impresa gestiva quasi cento quotidiani, «molti dei quali fascisti, e tra questi anche “Il Popolo d’Italia”».101 Vista la totale assenza di prove relative a una qualunque «attività contraria alle direttive del governo nazionale e al fascismo»102 da parte della società e dei suoi dirigenti, le accuse vennero pertanto archiviate. La faccenda tuttavia non si concluse qui. Neanche un anno più tardi, la Direzione generale della polizia di stato veniva messa al corrente di altre 98. ASMi, GPPUII, b. 555, f. UPI, lettera al Ministro degli esteri e al prefetto di Milano dal Ministero degli interni, 2 febbraio 1928. 99. Ibidem. 100. La natura endogena dell’antisemitismo fascista è stata oggetto di molti importanti studi, tra cui Collotti, Il fascismo e gli ebrei; Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, pp. 53-102; Cassata, “La Difesa della razza”, pp. 9-55; Galimi, Sotto gli occhi di tutti e, più recentemente, Fabre, Capristo, Il razzismo del duce. 101. ASMi, GPPUII, b. 555, f. UPI, lettera al prefetto dalla questura di Milano, 24 agosto 1928. 102. Ibidem.

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insinuazioni contro l’UPI, sospettata di spionaggio a causa della sua posizione di prestigio nei circoli industriali e commerciali. Stando alle delazioni, l’UPI era «formata (specie a Milano, sede centrale) da elementi dubbi, abbondano ebrei, massoni e stranieri»,103 ragion per cui la sua approfondita conoscenza del potenziale industriale e bellico italiano era giudicata pericolosa. Anche in questo caso, si trattò probabilmente di un regolamento di conti tra fiancheggiatori e irriducibili, che reclamavano che l’istituzione fosse «affidata a mani fasciste», piuttosto che «a elementi di cui sarebbe bene fidarsi poco».104 Già a inizio marzo del 1929 l’ambasciata parigina aveva smentito queste voci, sottolineando che le azioni H&V erano in realtà state vendute «al potente Konzern nazionalista germanico Hugenberg» (ai tempi proprietario anche dell’ALA).105 Stavolta la prefettura decise di indagare in maniera più approfondita. Le ricerche evidenziarono la notevole varietà di figure che animavano l’organizzazione internazionale dell’UPI, la cui sede di Milano ai tempi contava 58 impiegati, 11 dei quali erano iscritti al PNF – percentuale non irrisoria, per quanto già dal marzo dell’anno precedente l’iscrizione al partito garantisse la precedenza nelle liste di collocamento. Tra questi figuravano anche tre membri della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN).106 Nel giugno del 1929 la questura concluse che l’UPI non era coinvolta in alcuna attività di spionaggio, e che anzi offriva un prezioso servizio al regime. È pur vero che tre dei manager presi di mira dalle delazioni si erano uniti alla compagnia dopo il 1925 – data che come sappiamo coincise con l’epurazione di molti giornalisti, ragionieri e altri professionisti anti-fascisti, che a volte troveranno rifugio tra le fila dei pubblicitari.107 Nel caso dell’UPI, tuttavia, salvo alcune pregresse simpatie liberali o vaghi rapporti con la massoneria svizzera, le autorità esclusero che vi fossero elementi ostili o pericolosi. Oltre alle indagini, questa impressione fu corroborata da due elementi: le conoscenze personali degli accusati – come nel caso dello svizzero 103. Ivi, lettera al Questore dalla Direzione Generale della Polizia di Stato (Ministro degli Interni), 20 marzo 1929. 104. Ibidem. 105. Ivi, lettera al Ministero degli esteri dalla Regia ambasciata d’Italia a Parigi, 2 marzo 1929. 106. Ivi, Lettera al prefetto dalla questura, 7 giugno 1929. 107. ASCCIAAMi, b. 331, f. 18, Denunzia di esercizio delle società legali, 26 aprile 1925.

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Carlo Grassi, uno dei maggiori azionisti e amico di Arnaldo Mussolini – e la loro posizione agiata, che, secondo il prefetto, non avrebbero mai messo a rischio con azioni politiche avventate.108 Anche Cedraschi, il responsabile de «Il Popolo d’Italia» che al congresso del 1933, nelle vesti di direttore generale dell’UPI, avrebbe speso parole decisamente a favore del regime, fu descritto come «l’anima dell’Unione», specificando che «anziché di idee massoniche è ritenuto cattolico» e una «persona corretta e leale».109 È tuttavia necessario sottolineare che, neanche tre anni dopo, l’impresa avrebbe promosso a sottogerente della sede milanese uno dei collaboratori di origini ebraiche di cui si hanno notizie certe, il già menzionato Carlo Momigliano, promosso a sottogerente della succursale di Milano nel 1932, che sarà poi uno dei protagonisti del congresso di Berlino del 1936. Poco dopo l’exploit berlinese e il coinvolgimento nell’UCP, le tracce di Momigliano all’interno dell’azienda si perdono. Stando a una ricostruzione del 1950 de «La nuova Stampa», uno dei molti quotidiani gestiti dalla sua azienda nel secondo dopoguerra, «nel periodo delle persecuzioni razziali, egli era stato costretto a fuggire in Svizzera e in Francia. Arrestato dai tedeschi, era riuscito a fuggire e a rifugiarsi a Roma, dove aveva preso parte attiva al movimento della Resistenza».110 Rimane da chiarire se Momigliano sia stato effettivamente allontanato dall’azienda in seguito alle Leggi razziali, anche perché almeno in una prima fase le limitazioni patrimoniali e i licenziamenti risparmiarono le società per azioni, motivo che avrebbe spinto diverse piccole imprese di proprietà ebraica a trasformarsi in SpA.111 La visibilità e la vicinanza al regime dell’UPI con ogni probabilità rese la posizione di Momigliano impossibile fin da subito, anche in virtù delle molte commesse statali dell’UPI – incluse quelle con i Monopoli di stato e le ferrovie, che già nel marzo 1939 richiesero assicurazioni circa il licenziamento del personale ebraico di alcune ditte appaltatrici.112 108. ASMi, GPPUII, b. 555, f. UPI, lettera dalla questura al prefetto, 12 giugno 1929. 109. Ibidem. 110. Carlo Momigliano e la moglie periti in una sciagura d’auto, «La nuova Stampa», 14 marzo 1950, p. 3. Non è stato possibile trovare riscontri circa queste informazioni nelle liste dell’ANPI o del CDEC, il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, né nei volumi di Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria, e Salvarsi. 111. Presso la Camera di Commercio di Milano non risultano modifiche per esautorare Momigliano, a cui il mandato verrà revocato solo con la messa in liquidazione dell’azienda nel 1945. Cfr. Commissione Anselmi, Rapporto generale, pp. 324 e 332. 112. Cfr. ivi, p. 74.

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È ipotizzabile che la questione sia stata discussa durante l’udienza con Mussolini del grand’ufficiale Lanfranchi e del commendatore Cedraschi, tenutasi poco più di due settimane dall’approvazione della Dichiarazione sulla razza da parte del Gran consiglio del fascismo.113 Nel dicembre del 1938, «La Stampa» – uno dei fiori all’occhiello dell’UPI – si sarebbe scagliata con particolare veemenza contro il presunto monopolio «giudeo» delle agenzie di informazione e di pubblicità nella Francia del Fronte popolare di Léon Blum.114 Riusciremo poi a ritrovare Momigliano dopo l’8 settembre a Roma, dove fondò la Società per la Pubblicità in Italia (SPI), che avrebbe amministrato tutti i quotidiani del centro e sud Italia che fino all’armistizio erano stati gestiti dall’UPI.115 Dopo la guerra, Momigliano e Lanfranchi fonderanno le due imprese sotto il nome di SPI, il che fa supporre che i rapporti fra i due fossero rimaste quantomeno amichevoli. Oltre all’estrema difficoltà nel ricostruire il percorso umano ancor prima che professionale dei pochi tecnici pubblicitari di origine ebraiche attivi in Italia all’indomani delle Leggi razziali, il caso Momigliano è esemplare dell’evoluzione dell’antisemitismo fascista nell’arco del Ventennio. In una prima fase, nonostante l’indubbio carattere antisemita delle delazioni e le convinzioni antisemite di molti gerarchi fascisti, Mussolini in primis,116 le autorità milanesi sembrarono interessarsi prevalentemente alla fede politica degli accusati, di cui indagarono i legami con l’antifascismo e la massoneria, mentre non vi fu alcuna menzione a collaboratori di origine ebraica, che pur erano attivi nell’azienda.117 Le cose cambieranno drasticamente pochi anni dopo, nel momento in cui l’equazione tra anti113. Cfr. L’agenda di servizio di Benito Mussolini, 24 ottobre 1933, ore 18:32-18:50. Lanfranchi era già stato ricevuto da Mussolini il 4 settembre 1931 e l’11 agosto 1932, forse per discutere le difficoltà affrontate dalla stampa e dalla concessionaria durante la crisi economica. 114. Paolo Zappa, Dietro i giornali – i giudei e la guerra, «La Stampa», 31 dicembre 1938, p. 5. 115. Cfr. ASCCIAAMi, b. 331, UPI, e Falabrino, Pubblicità serva padrona, p. 125. 116. Cfr. Fabre, Mussolini razzista, soprattutto pp. 225-256. 117. Ricordando gli albori de «L’Ufficio Moderno» a 50 anni di distanza, Francesco Muscia riferì di esser stato messo in contatto con Guido Mazzali da «l’amico Passigli dell’UPI», cfr. Com’è nato «L’Ufficio Moderno», «L’Ufficio Moderno», n° 5 (1976), p. 562. Le carte della Camera di Commercio di Milano tuttavia includono solo un riferimento a Giuseppe Possigli, fu Salvatore, che fu nominato Direttore commerciale della filiale di Milano subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, cfr. ASCCIAAMi, b. 331, UPI, Denuncia di modificazione, 7 giugno 1945.

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fascista e anti-italiano trasformerà in nemici del fascismo i cittadini ebrei o considerati tali.118 Da un punto di vista pratico, il clamoroso successo dell’UPI fu possibile non soltanto grazie agli stretti rapporti intrattenuti con la stampa fascista ma anche all’apertura di un ufficio tecnico, un vero e proprio studio creativo, attraverso il quale l’azienda si emancipò dalle funzioni di semplice intermediario di spazi pubblicitari, trasformandosi in un’impresa pubblicitaria a tutti gli effetti. Fu proprio la presenza di questo ufficio tecnico a dare una marcia in più all’impresa, mettendola nella posizione di poter ideare, oltre che distribuire, vere e proprie campagne sia per lo stato che per aziende private. Le campagne che ne risultarono incarnano in maniera particolarmente esemplare la graduale infiltrazione dell’ideologia fascista nella pratica pubblicitaria del Ventennio, in cui gli espliciti riferimenti alla propaganda di regime avrebbero via via ceduto il passo ad annunci che propugnavano l’autarchia facendo leva su bisogni individuali. Questi annunci, come vedremo, variavano dai disegni a tutta pagina dal notevole impatto visivo agli annunci editoriali corredati di foto in bianco e nero ispirati ai moderni princìpi del marketing e della psicotecnica. L’UPI si occupò ad esempio del lancio di diverse campagne statali, tra cui quelle per i tabacchi o i servizi postali e telegrafici, specializzandosi soprattutto nella promozione nazionale e internazionale di prodotti italiani, fondamentali per la riuscita della battaglia autarchica – in particolare riso, formaggio, frutta e verdura.119 Queste campagne venivano spesso e volentieri illustrate ne «La Pubblicità d’Italia», la quale, nei ricordi di Dino Villani, rivestiva solo formalmente il ruolo di organo del Sindacato nazionale fascista agenzie e case di pubblicità, mentre in realtà era l’organo interno dell’UPI, che ai tempi utilizzava la vecchia tipografia dell’«Avanti!».120 Per quanto un’attenta analisi del periodico confermi che si trattava in realtà del mensile del Sindacato,121 la massiccia presenza dell’UPI sulle pagine de «La Pubblicità d’Italia» combinata alle conoscenze personali di Villani tra i colleghi in questione danno la misura della crescente comunanza di intenti tra il Minculpop e 118. Cfr. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, pp. 87-102. 119. Cfr. Arte Pubblicitaria 1900-1933, p. 21. 120. Cfr. Dino Villani, La S.P.I. e gli sviluppi della pubblicità stampa in Italia, «L’Ufficio Moderno», n° 12 (1973), p. 1838. 121. Cfr. anche la serie di annunci su «La Stampa», ad esempio l’edizione del 30 di­ cembre 1938, p. 4.

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l’azienda, probabilmente veicolata anche da Gino Bondanini, presidente del Sindacato e direttore dell’ufficio UPI di Torino. La redazione de «La Pubblicità d’Italia» fu perciò ben lieta di non perdere alcuna occasione per presentare le ultime creazioni dell’UPI, descritte come la quintessenza della pubblicità italiana, in quanto corrispondevano perfettamente alle aspettative del Minculpop in materia di propaganda commerciale. Per quanto sia indubbio che il carattere anti-socialista e il sostegno economico fornito alla stampa di regime si rivelarono determinanti già nell’arco degli anni Venti, fu soprattutto con le conquiste coloniali del fascismo e il lancio dell’autarchia che ebbe luogo una vera e propria infiltrazione della Weltanschauung fascista nella pratica pubblicitaria dell’azienda. Da questo punto di vista, il 1935 rappresentò un importante punto di svolta: in quell’anno l’UPI fu infatti incaricata di ideare due grandi campagne propagandistiche, una a favore dello stato corporativo e l’altra contro le “inique” sanzioni della Società delle Nazioni. Queste saranno solo le prime di una lunga serie. Qualche anno dopo, l’impresa fu incaricata di ideare una campagna pubblicitaria su scala mondiale per l’Esposizione Universale E42, che avrebbe dovuto svolgersi nel complesso dell’EUR, creato per l’occasione, nell’anno del ventesimo anniversario della Marcia su Roma.122 Non sorprende dunque che nel corso di tutti gli anni Trenta e ancora a guerra iniziata l’UPI poté contare sui favori di una certa parte del regime, il Minculpop in primis. Nel 1937, ad esempio, nell’invitare il nuovo prefetto di Milano a seguire le orme del suo predecessore e facilitare «il compito degli esponenti dell’Unione», dal momento che «la maggior parte dei quotidiani è legata all’UPI, da cui trae i principali mezzi di vita», il Minculpop ci tenne a ribadire «quale importanza questo ministero annette alle pratiche che interessano questa azienda».123 Nell’elogiare l’operato dell’UPI, la prefettura non mancò di sottolineare un altro dei principali contributi dell’azienda alla causa del fascismo, citando i suoi sforzi per il superamento della competizione fra le grandi imprese nazionali – come nel caso della «Ligure lombarda contro Cirio, Pirelli contro Michelin-Italiana- Bergougnan & Tedeschi-Continental [sic] e Dunlop, Mellin d’Italia contro Glaxo, Gaby contro Buitoni» – contraria allo spirito corporativo dell’Italia fascista.124 122. Cfr. E 42: programma di massima; cfr. anche Falabrino, Effimera & bella, p. 144 ss. 123. ASMi, GPPUII, b. 555, f. UPI, memorandum redatto dalla prefettura, 1937. 124. Ibidem.

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Già nei primi anni Trenta, al fine di supplire al crollo della domanda pubblicitaria e superare queste animosità, l’azienda aveva promosso una serie di campagne lanciate dai «vari ministeri, come la Campagna per la Previdenza (INA), la Lotteria di Merano, la Campagna per lo Zucchero». Come precisava la prefettura, «la galvanizzazione dei clienti rimasti in piedi, ed il richiamo nell’agone pubblicitario di molti nomi importanti che se ne tengono lontani è un saggio provvedimento, oggi vivamente desiderato dall’On. Ministero della Cultura Popolare come mezzo per attuare anche nel settore pubblicitario i principi dell’autarchia».125 Oltre a realizzare campagne dagli spiccati connotati politici, l’ufficio tecnico non cessò di dedicarsi alla pubblicità commerciale, grazie alla quale continuò ad assicurare profitti sempre più notevoli ai giornali che gestiva. Stando a Gian Luigi Falabrino, nell’arco degli anni Trenta l’ufficio tecnico divenne il maggiore creatore di campagne pubblicitarie di tutt’Italia.126 L’UPI non mancò inoltre di assicurare la partecipazione a importanti eventi che già in quegli anni erano diventati emblematici, come nel caso del Giro d’Italia, durante il quale l’agenzia organizzava dei caravan che seguivano i ciclisti per tutto il paese, offrendo ai produttori italiani l’irripetibile opportunità di raggiungere «dai cinque ai sette milioni di consumatori», intenti ad affollare le strade di tutta la penisola per assistere al grande evento sportivo.127 L’edizione del 1938, per esempio, vide la presenza di carovane che sponsorizzavano marchi del calibro della Nestlé e della Martini, nonché prodotti coloniali come le banane somale, reclamizzati attraverso un’ampia gamma di media, inclusi manifesti, pubblicità sonora e degustazioni pubbliche. Erano questi i primi eventi di massa espressione di quella cultura commercializzata che ebbe origine proprio nel tardo fascismo, affiancandosi alle adunate, i balli e gli spettacoli cinematografici dell’OND. La sinergia con le istituzioni fasciste non si limitò alla cooperazione con il Minculpop o al supporto prestato dalla prefettura di Milano a partire dagli anni Trenta. Sin da metà anni Venti l’agenzia, che stando al suo biglietto da visita entro il 1937 aveva assorbito l’ufficio annunci de «Il Popolo d’Italia», vantava una stretta collaborazione con l’Ufficio stampa, 125. Ibidem. 126. Cfr. Falabrino, Pubblicità serva padrona, p. 155. 127. MR, FDV, b. 64, Pubblicità alla pubblicità, Come si può svolgere gratuitamente una suggestiva propaganda presso cinque milioni di consumatori, pamphlet dell’UPI.

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antesignano del Minculpop.128 La cooperazione si concretizzò soprattutto nella selezione di pubblicazioni desiderose di avviare un sodalizio commerciale con l’UPI. Nel 1933, ad esempio, in seguito a una richiesta da parte dei quotidiani austriaci «Neues Wiener Journal» e «Neue Freie Presse» «di procedere a [uno] scambio di pubblicità coi giornali italiani», l’UPI aveva richiesto informazioni in merito alla loro posizione riguardo al regime fascista. Mentre la prima fu classificata «fra i giornali amichevolmente orientati verso l’Italia» e di conseguenza autorizzata a trarre vantaggio dal monopolio pubblicitario dell’agenzia, la seconda venne etichettata come indesiderata in quanto, «pur non essendo un giornale a noi ostile, tiene nei confronti dell’Italia e del fascismo un atteggiamento non di rado poco simpatico e molto spesso ambiguo».129 La strategia di accentramento messa in pratica dall’UPI segnò un’ulteriore accelerazione nel corso degli anni Trenta, durante i quali l’azienda riuscì progressivamente a ottenere l’esclusiva di diverse testate e a assorbire alcune concorrenti. Pratiche di questo genere non rappresentarono certo un’eccezione nel panorama industriale e finanziario del fascismo, né in quello del nazismo, come dimostrato dalla spregiudicatezza dell’ALA, dell’UFA o della Eher-Verlag, editrice del «Völkischer Beobachter».Nel 1932, ad esempio, «Il Tevere», diretto da Telesio Interlandi, brutale antisemita e futuro fondatore de «La Difesa della razza», sporse reclamo contro la filiale romana dell’UPI la quale, «nel ripartire fra i giornali quotidiani le somme ricevute dai Ministeri delle Comunicazioni, delle Poste e delle Finanze», aveva apertamente favorito le proprie pubblicazioni escludendo da ogni beneficio altre che, come il quotidiano romano, avevano fino a quel momento gestito direttamente il proprio spazio pubblicitario.130 Visto lo strapotere dell’UPI, gli editori chiesero al prefetto di intercedere per loro conto nella negoziazione con l’agenzia, alla quale il quotidiano si dichiarò disposto a «far capo» a patto di ricevere le stesse condizioni praticate per «Il Piccolo».131 Solo due anni dopo, sarà proprio «Il Tevere», assieme a «Il Popolo d’Italia», a lanciare una violenta campagna antisemi128. Cfr. ASMi, GPPUII, b. 555, f. UPI, lettera al prefetto di Milano dal Minculpop, 7 ottobre 1937. 129. Ivi, lettera dall’Ufficio stampa del capo del governo, 8 novembre 1933. 130. Ivi, lettera dagli editori de “Il Tevere” al prefetto. 131. Ibidem.

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ta in seguito all’arresto a Torino di diversi membri di Giustizia e Libertà, molti dei quali ebrei.132 Oltre ad assicurare l’egemonia economica delle sue pubblicazioni sul mercato nazionale, la crescita dell’UPI coinvolse anche una larga fetta della stampa estera e coloniale, dove a partire dalla metà degli anni Trenta le compagnie italiane iniziarono a promuovere sempre di più i loro prodotti.133 Tale fase di espansione coincise con l’ampliamento della compagnia, che inglobò due delle sue rivali, l’Augusta Edizioni e Pubblicità e l’Interpropaganda. Anche in questo caso, l’acquisizione venne facilitata dalle gravi difficoltà economiche in cui versavano molte delle imprese nei primi anni Trenta, che al contrario dell’UPI non avevano avuto modo di ammortizzare le perdite con grandi commesse statali. Nel caso dell’Augusta – che ai tempi deteneva l’esclusiva per la stampa tedesca – il Ministero per la stampa e la propaganda aveva già ricevuto delle lamentele dal suo omologo tedesco perché la compagnia non aveva pagato alcuni quotidiani di cui si era avvalsa, pur avendo puntualmente incassato dall’Ente nazionale per il turismo italiano (ENIT) il compenso pattuito per vari annunci turistici collocati sui giornali tedeschi, incluso il «Völkischer Beobachter». «In considerazione dell’importanza, anche dal punto di vista politico, delle relazioni fra questo Ministero e la stampa governativa della Germania», nell’autunno del 1935 il Sottosegretario di stato invitò il prefetto di Milano a intervenire rapidamente per risolvere l’impasse.134 La compagnia, che si trovava già in stato di liquidazione, venne infine acquisita dall’UPI. Nel 1940 l’UPI suggellò il proprio predominio sulle pubblicazioni estere con l’acquisizione della Società anonima per la pubblicità estera (SAPE), attraverso la quale si occupò del lancio di diverse campagne turistiche e per i prodotti nazionali nelle testate coloniali ed estere. Fu tuttavia con la proclamazione dell’impero fascista che l’UPI incassò uno dei suoi maggiori successi, diventando l’unica impresa pubblicitaria ad avere accesso diretto alla stampa coloniale.135 Ancora agli inizi del 1942, tutta la stampa politica quo132. Cfr. Cassata, «La Difesa della razza», pp. 5-21; Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, pp. 98-102. 133. Cfr. in particolare Bertazzini, Towards an Economic History of Italian Colonialism, pp. 299-343 e Ertola, Predatori fascisti dell’impero, pp. 218-235. 134. ASMi, GPPUII, b. 555, b. Agenzie di pubblicità, lettera dal Ministero per la stampa e la propaganda al prefetto di Milano, 9 ottobre 1935. 135. Per una panoramica sui limiti dello sfruttamento economico delle colonie cfr. Gagliardi, La mancata “valorizzazione” dell’impero, pp. 17-49.

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tidiana e settimanale della Libia e dell’Albania veniva infatti gestita dall’agenzia – a cominciare dall’organo del Partito fascista albanese, «Fashizmi», seguito dall’agenzia di Tirana,136 o da «Il giornale di Bengasi», gestito in esclusiva dal gennaio del 1940137 – mentre in Somalia, Eritrea ed Etiopia la pubblicità dipendeva ancora dai singoli quotidiani.138 Ancora nel 1942 l’UPI vantava succursali anche a Zara, Spalato, Pola e Lubiana, e nel febbraio del 1943 si attivò per lanciare le proprie operazioni anche in Francia.139 La posizione di forza ottenuta dall’UPI sul mercato coloniale portò notevoli guadagni e prestigio all’azienda, come dimostrano anche i ripetuti tentativi di partecipare alla spartizione del bottino dell’impero messi in atto dalla sua principale rivale, la Manzoni & C., che all’epoca rappresentava ancora una porzione rilevante della stampa, in prevalenza cattolica, del nord e centro Italia. Già tre settimane dopo la fine della sanguinosa campagna d’Etiopia, ad esempio, la Manzoni si rivolse al Minculpop per manifestare la propria volontà di «collaborare allo sviluppo delle nuove aziende giornalistiche che dovessero sorgere nel nuovo Impero».140 Un rappresentante della Manzoni & C. fu prontamente invitato in prefettura per discutere la proposta, ma le trattative non sfociarono in accordi concreti.141 Nonostante la netta superiorità dell’UPI sul mercato coloniale e nazionale, la Manzoni & C. riuscì a mantenere una posizione di tutto riguardo sul territorio italiano, grazie in larga parte alla stampa d’area cattolica. Ancora all’inizio degli anni Quaranta l’azienda, che prosperava soprattutto nelle roccaforti cattoliche di Bergamo, Padova e Roma, gestiva gli spazi pubblicitari de «L’Avvenire», de «L’Osservatore Romano» e di varie pubblicazioni dell’Italia settentrionale.142 Ciò nonostante, le differenze rimanevano notevoli: se l’UPI controllava gran parte delle testate ad ampia tiratura di tutta la penisola, la Manzoni poteva contare solo su alcuni avamposti, nessuno dei quali era situato a sud di Roma. Nel 1941 il capitale della 136. Cfr. UPI, «Stampa Sera», 30 giugno 1939, p. 4. 137. Cfr. UPI, «Stampa Sera», 6 febbraio 1940, p. 4. 138. Cfr. Pubblicità e Propaganda, p. 225. 139. Cfr. ASCCIAAMi, b. 331, UPI, Denuncia di modifica, 26 giugno 1942 e 15 febbraio 1943. 140. ASMi, GPPUII, b. 555, b. Agenzie di pubblicità, lettera al prefetto dal Ministero per la stampa e la propaganda, 25 maggio 1936. 141. Ivi, Lettera alla Casa di Pubblicità A. Manzoni & C. dalla prefettura, 29 maggio 1936. 142. Cfr. Pubblicità e Propaganda, pp. 187-225.

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Manzoni & C. raggiungeva perciò i 3.420.000 di lire, contro i 10 milioni dell’UPI.143 Queste cifre, oltre a rispecchiare un’indubbia abilità imprenditoriale – nonché, nel caso dell’UPI, i proventi delle sostanziose commesse del regime e del dominio coloniale – danno la misura della crescita esponenziale della pubblicità a stampa a partire dalla metà degli anni Trenta. Il coinvolgimento nelle crociate del regime non portò tuttavia solo profitti. Esemplare è il caso dell’Italrayon, il cartello di produttori di rayon tanto pubblicizzato ancor prima del lancio dell’autarchia, che nel 1934 non riuscì a ripagare la cifra di ben 1.750.000 lire che l’UPI aveva investito nel lancio su larga scala delle loro fibre sintetiche, ponendo così fine alla collaborazione tra le due aziende.144 Come sottolineato da «La Pubblicità d’Italia», le campagne dell’Italrayon e della SNIA-Viscosa rimarranno tra i più famosi esempi di pubblicità autarchica e verranno sbandierate in moltissime occasioni pubbliche, inclusa la Mostra nazionale del cartellone del 1936, dove il posto d’onore fu tuttavia riservato al celebre manifesto di Federico Seneca, la cui figura stilizzata con il tricolore in grembo si presentava in netto contrasto con le creazioni UPI.145 Tra il 1938 e il 1939, la già tenue demarcazione tra l’UPI, «La Pubblicità d’Italia» e il Minculpop cominciò ad assottigliarsi sempre più nel comune tentativo di accelerare la svolta autarchica a seguito della crescente militarizzazione e radicalizzazione della società italiana. Fu in tale contesto che l’UPI iniziò a espandersi al di là dei tradizionali confini della réclame a mezzo stampa, assumendo una posizione di forza non più soltanto per quel che riguardava la pubblicità e la propaganda a stampa, ma anche i documentari. Nel 1939 l’agenzia aveva infatti acquisito la Incom (Industria CortiMetraggi), l’unica società privata autorizzata a produrre documentari oltre all’Istituto Luce, alle dirette dipendenze del Minculpop.146 I documentari Incom spaziavano dai temi culturali a quelli turistici e sportivi, con una netta predilezione per l’industria ma soprattutto la politica – nei primi 143. Ivi, pp. 284, 286. 144. Cfr. ASMi, GPPUII, b. 555, f. UPI, promemoria Italrayon redatto dalla prefettura, 3 novembre 1937. 145. Le fibre SNIA furono pubblicizzate anche attraverso l’organo interno della compagnia, SNIA-Viscosa. I tessili nuovi, pubblicato in quattro lingue a partire dal 1934. Cfr. Archivio Storico Istituto Luce, foto n° A00063365 , Una sala della Mostra internazionale del cartellone (in corsivo), 1 febbraio 1936. 146. Cfr. ACS, Minculpop, Gabinetto, b. 143, UPI, aggiornamento - INCOM, 4 giugno 1943.

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tre anni di attività ben 20 furono i cortometraggi dall’esplicito contenuto propagandistico quali «España, una, grande, libre», «Malta, terra italiana», «Il vero volto dell’Inghilterra» e «Due popoli, una guerra». L’azienda poté inoltre vantare una forte presenza all’Esposizione internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ricevendo premi per «Criniere al vento» (1939), «Armonie di primavera» (1940) e «Sosta d’eroi» (1941).147 Ciò è confermato anche dal fatto che le sedi dell’UPI e dell’Incom di Milano risultavano ubicate allo stesso indirizzo, come indicato da «La Pubblicità d’Italia» in occasione della visita effettuata dal federale del capoluogo lombardo nel febbraio del 1942. In tale occasione, la rivista non mancò di sottolineare ancora una volta la presunta «atmosfera di fede» con cui i dirigenti dell’UPI avevano accolto i dignitari fascisti, mostrando loro le ultime creazioni dell’azienda.148 È tuttavia necessario ribadire che l’evidente comunione di intenti tra l’agenzia e il regime non portò mai alla nomina di personalità fasciste a capo della compagnia, che rimase nelle mani dei fiancheggiatori che ne avevano fatto la fortuna nel corso del Ventennio. Malgrado lo smaccato opportunismo che in diversi casi si tramutò in entusiastica collaborazione con il regime e la presenza di impiegati di simpatie fasciste o addirittura militanti nella MVSN, in linea di massima i vertici dell’UPI continuarono a essere scelti per le loro abilità professionali piuttosto che in base alla loro fede politica, a patto che non fossero apertamente anti-fascisti. Ciò non toglie che diverse furono le personalità dell’UPI a rivestire incarichi di prestigio ai vertici delle istituzioni fasciste, come nel caso del già menzionato Gino Bondanini, che fu declassato da direttore a co-direttore della filiale di Torino a fine marzo 1945, per poi tornare alla ribalta nel secondo dopoguerra.149 Bisogna però ricordare che fino ai tardi anni Trenta lo staff di Milano includeva almeno un professionista di origini ebraiche, che fu tuttavia costretto a fuggire in seguito alle Leggi razziali. Pur dimostrando a più riprese una spiccata predilezione a lavorare per il regime – l’Ufficio stampa e il Minculpop in particolare – l’UPI rimase dunque un’impresa di carattere commerciale, il che le consentirà di essere assolta dall’accusa di collaborazionismo dopo la fine della Seconda guerra mondiale.150 147. Documentari Incom prodotti fino al 1942. 148. l rapporto del Federale di Milano all’Unione Pubblicità Italiana, «La Pubblicità d’Italia», 6, n° 55-60 (1942), p. 23. 149. Cfr. ASCCIAAMi, b. 331, UPI, Denuncia di modificazione, 27 marzo 1945. 150. Estremamente scarse sono le fonti relative al periodo 1943-1945, la cui ricostruzione è possibile solo attraverso interviste condotte dalle riviste di settore negli anni Ses-

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Questo è parzialmente confermato da uno dei molti episodi di smaccato nepotismo e corruzione che permeavano tanto il regime quanto il PNF.151 Nel giugno del 1943, a meno di un mese dallo sbarco degli Alleati, la nomina di Gianni Battista a direttore dell’Incom dopo l’allontanamento del fondatore, Sandro Pallavicini, venne fortemente osteggiata dal nuovo segretario del PNF, Carlo Scorza, che propose invece suo nipote, citando come motivazione il desiderio di «mettere alla Incom un fascista».152 Battista, diciannovista e dunque fascista della prima ora, si risentì particolarmente, facendo appello al Minculpop e al rappresentante dell’UPI, Cedraschi, perché risolvessero la questione. Quest’ultimo si era già dimostrato alquanto fermo sulla questione qualche giorno prima, allorquando l’allora Ministro della cultura popolare Polverelli aveva suggerito un altro nominativo, andando incontro a un parziale diniego, accompagnato tuttavia dall’ipotesi di creare una nuova posizione per la persona raccomandata dal Ministro.153 Dopo la guerra sarà poi Cedraschi stesso a guidare la Incom, fino alla sua prematura scomparsa.154 Erano mesi in cui il paese, ormai stremato dai bombardamenti e dalla miseria, era agitato da manifestazioni sempre più aperte e coraggiose di insofferenza verso il regime. Più che un moto di ribellione al fascismo, tuttavia, nel caso dell’UPI l’incidente deve probabilmente esser letto nell’ottica della crescente insofferenza da parte della grande industria nei confronti della gestione mussoliniana della guerra, nonché delle sempre più aspre lotte interne al fascismo, che culminarono infine nell’ordine del giorno Grandi, che nella notte del 24 luglio 1943 sfiduciò Mussolini. In tale occasione, sia Scorza che Polverelli si sarebbero schierati dalla parte del dittatore, cadendo tuttavia in disgrazia nei mesi successivi. Dopo l’armistizio si inaugurò una delle pagine più buie per l’UPI e soprattutto per il paese. Nel gennaio del 1943 la filiale di Torino sembrava ancora attiva, anche se alla disperata ricerca del personale più disparato – dai fattorini alle stenodattilografe fino a un ingegnere per dirigerne l’ufficio santa e Settanta, cfr. ad esempio Silvano Carpi, Un pubblicitario inappuntabile, «L’Ufficio Moderno», n° 12 (1973), p. 1834. 151. Cfr. Corner, Corruzione di sistema?, pp, 3-23 e gli altri contributi del volume Il fascismo dalle mani sporche; cfr. anche Canali, Volpini, Mussolini e i ladri di regime. 152. ACS, Minculpop, Gabinetto, b. 143, aggiornamento - INCOM, 4 giugno 1943. 153. Ivi, aggiornamento della posizione Incom nei confronti del Ministero della cultura popolare e del Partito. 154. Cfr. Guida Ricciardi – Pubblicità e Propaganda, supplemento mensile, 2 (1947), p. 7.

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tecnico – a causa della leva militare e degli sfollamenti dovuti ai bombardamenti sempre più massicci.155 Ancora a metà luglio la sede di Torino fu trasferita.156 Dopo l’8 settembre tuttavia se ne perdono le tracce, fatta eccezione per una nuova serie di offerte di lavoro presso la filiale torinese del marzo e nel giugno del 1944, il che fa presupporre che l’attività sia continuata, nonostante tutte le difficoltà.157 Secondo Gian Luigi Falabrino, durante la RSI Ercole Lanfranchi senior, una delle figure chiave dell’impresa, riparò nella natia Svizzera.158 Nell’immediato dopoguerra l’impresa verrà processata per collaborazionismo con il regime e con la famigerata organizzazione Todt.159 Stando alla ricostruzione de «L’ufficio moderno» e di Dino Villani, l’azienda fu tuttavia assolta, o forse amnistiata, come molte altre.160 Molti anni dopo questa versione dei fatti fu confermata dall’omonimo nipote di Ercole Lanfranchi, il quale aveva iniziato a lavorare all’UPI nel 1928 come contabile, per poi esser nominato procuratore nel 1932.161 Incaricato di questa mansione dallo zio, all’epoca amministratore unico della società, il giovane Lanfranchi divenne ben presto una figura di spicco nelle fila dell’Unione Pubblicità Italiana, alla quale si dedicò per più di cinquant’anni. In occasione del premio «vita di pubblicitario» conferitogli nel 1973, Lanfranchi ricordò infatti che la compagnia era stata prosciolta dall’accusa di «essere 155. Cfr. Pubblicità economica, «La Stampa», 7 gennaio 1943, p. 3. 156. Cfr. UPI, «Stampa Sera», 13 luglio 1943, p. 2. 157. Cfr. annunci economici, «La Stampa», 31 marzo 1944, p. 2, e 4 giugno 1944, pp. 3 e 7. 158. Falabrino, Pubblicità serva padrona, p. 125. 159. Le carte della Corte d’Assise Straordinaria non sembrano contenere informazioni riguardo all’Unione Pubblicità Italiana o ai suoi dirigenti, ma dal momento che il processo viene menzionato in più di un’intervista agli ex funzionari UPI è ragionevole ipotizzare che sia stato intentato per collaborazionismo economico, concludendosi con un’assoluzione o un’amnistia. Uno dei 161 procedimenti per collaborazionismo economico intentati dalla Corte d’Assise Straordinaria di Milano (II sezione) fa riferimento agli agenti dell’Ufficio Politico Investigativo (UPI) della RSI, cfr. f. Reg gen. 600/46, sentenza 185/46, http://www. straginazifasciste.it/cas/procedimento/?processo=1072 (ultimo accesso 18 ottobre 2022). 160. Amatori propone un utile paragone fra il caso della FIAT e quello della Montecatini, cfr. Amatori, The Fascist Regime and Big Business, pp. 62-77. L’esempio di “collaborazione tecnica” di Agostino Rocca, amministratore delegato della Dalmine e direttore generale dell’Ansaldo, rende bene la complessità e le sfaccettature del rapporto fra le grandi imprese e il fascismo, cfr. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia, pp. 195-200. 161. Cfr. ASCCIAAMi, b. 331, f. 18, Denunzia di esercizio delle società legali, 26 aprile 1925.

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stato troppo condiscendente con le testate del regime […] e di aver aderito alla Todt durante l’occupazione tedesca».162 Stando a Lanfranchi, l’UPI fu assolta «dal tribunale del CLN perché era stato facile […] dimostrare che grazie a questa politica la società aveva potuto trattenere tutti i dipendenti», cosa che «fu determinante per la nostra ripresa, quando il mercato cominciò a essere caratterizzato da una crescente concorrenza, fino a quel momento sconosciuta».163 Che l’azienda fosse riuscita a mantenere il personale era stato già rilevato a suo tempo dal questore di Milano, in effetti, mentre per quel che riguarda la concorrenza è indubbio che la fine di un regime che aveva distrutto o abolito ogni opposizione segnò un notevole cambiamento per l’agenzia. Quanto al sostegno prestato alla stampa fascista, dichiarò Lanfranchi, «il nostro principio etico-professionale è sempre stato di non rifiutare nessuna testata dello spazio costituzionale».164 Resta da capire a quale costituzione si riferisse. Un ipotetico riferimento allo Statuto albertino, per quanto bizzarro, fa presupporre che l’intervistato non fosse al corrente di aver lavorato in una dittatura monopartitica per almeno 15 anni. Si può altrimenti supporre che questa fosse la risposta standard alle critiche mosse all’agenzia per aver gestito molta della stampa di centrodestra a partire dal secondo dopoguerra, e che venisse poi applicata indistintamente a tutto il periodo di attività dell’agenzia.165 Fatto sta che nel luglio del 1946 l’UPI fu sciolta e posta in liquidazione, salvo poi essere invece trasformata in una società a responsabilità limitata nel 1953.166 Poco dopo la guerra, come si è visto, Lanfranchi e Momigliano si accordarono per riunire le due imprese sotto il nome di SPI, ritenendola preferibile alla vecchia denominazione UPI che, «anche se assolta dall’accusa di collaborazionismo, aveva una immagine che si era logorata dagli stretti rapporti che aveva avuto con la stampa del regime, anche se – a detta di Villani – essi erano soltanto economici».167 L’ufficio 162. Cfr. Silvano Carpi, Un pubblicitario inappuntabile, «L’Ufficio Moderno», n° 12 (1973), p. 1834. Sulla Todt cfr. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia, pp. 145-152 e Lemmes, Arbeiten in Hitlers Europa, pp. 462-498. 163. Ibidem. 164. Ibidem. 165. A riguardo cfr. Falabrino, Pubblicità serva padrona, p. 125. 166. Cfr. ASCCIAAMi, b. 331, UPI. 167. Cfr. Dino Villani, La S.P.I. e gli sviluppi della pubblicità stampa in Italia, «L’Ufficio Moderno», n° 12 (1973), p. 1838. Stando a Falabrino, alla morte di Momigliano nel

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tecnico venne chiuso, e la SPI tornò ad essere una concessionaria a tutti gli effetti.168 Per quanto la vertiginosa espansione commerciale (e territoriale) e il profitto possano esser rimaste le priorità dell’UPI, l’agenzia giocò un ruolo cruciale sia nel proteggere e finanziare la stampa fascista che nel dar vita ad alcune delle più martellanti e onnipresenti campagne nazionalistiche del regime, amplificandone a dismisura l’efficacia e la potenza mediatica attraverso una tentacolare rete di organi a stampa e, a partire dalla fine degli anni Trenta, anche attraverso i documentari Incom. Dopo aver contribuito all’affossamento della stampa anti-fascista, l’azienda non esitò a ricorrere a pratiche quantomeno scorrette per assicurarsi una crescente fetta di mercato, giungendo a collaborare con le forze d’occupazione durante la RSI. Fatta eccezione per Lanfranchi senior e Cedraschi, che morirono di cause naturali poco dopo la guerra, le carriere di diversi manager dell’UPI proseguiranno pressoché indisturbate nel secondo dopoguerra, contribuendo in maniera non indifferente allo sviluppo sostanziale del settore pubblicitario. Alcuni di loro avrebbero giocato un ruolo chiave nel cosiddetto miracolo economico e verranno poi celebrati come “padri fondatori” di quello che, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, diverrà uno dei prodotti più visibili della nuova società dei consumi di massa. Questi elementi di forte continuità, presenti anche in Germania – una delle tesi principali della Swett169 – non devono tuttavia farci perdere di vista le sostanziali differenze che caratterizzarono l’Italia repubblicana rispetto al Ventennio, a cominciare dal ritorno della libertà d’opinione e di scelta, politica ancor prima che di consumo, che, pur non riuscendo a mettere in atto un’effettiva defascistizzazione del settore pubblicitario, segnarono la ribalta di un cospicuo numero di professionisti perseguitati dal regime e il successivo affermarsi di una pluralità di modelli di consumo.170 La parabola dell’UPI rappresenta il caso più emblematico di quella fusione tra interessi pubblici e privati che risultò in una massiccia infiltrazione dell’ideologia fascista nei media pubblicitari. Pur mantenendo un 1950 la sua quota di della SPI verrà rilevata dai Lanfranchi, cfr. Falabrino, Pubblicità serva padrona, p. 126. 168. Cfr. Guida Ricciardi – Pubblicità e Propaganda, supplemento mensile, 2 (1947), p. 31. 169. Swett, Selling under the Swastika, pp. 227-266. 170. Interessanti paralleli sono presenti nel caso dei giornalisti, cfr. De Nicola, L’epurazione e l’ordine professionale dei giornalisti, pp. 171-203.

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approccio per molti versi tradizionale alla pratica pubblicitaria, al contrario della Società per la pubblicità commerciale, nel corso del Ventennio l’UPI riuscì a spingere all’estremo la compenetrazione tra propaganda politica e pubblicità commerciale tanto caldeggiata dal fascismo. Questa impostazione consentirà alla società di estendere al massimo la propria influenza e ottenere ampi margini di profitto pur continuando a mantenersi formalmente indipendente dalle crociate di regime. Così facendo, l’UPI si spinse ben oltre quel «matrimonio di convenienza» che avrebbe caratterizzato il legame di una larga parte dell’industria italiana con il fascismo, come descritto da Luciano Segreto,171 per situarsi in quella zona grigia tra la “collaborazione tecnica” e il fiancheggiamento vero e proprio incarnato da industrie come la Montecatini.172 I casi dell’UPI e della Società per la pubblicità commerciale sono particolarmente emblematici dell’evoluzione dell’industria pubblicitaria tra le due guerre, e in particolare di quei meccanismi di progressiva infiltrazione della propaganda politica attuata da un ristretto ma influente gruppo di professionisti. Le attività dei dipendenti della Società per la pubblicità commerciale e dell’UPI avrebbero infatti dato vita a una vera e propria ibridazione dei contenuti pubblicitari, come vedremo, al punto da renderli a volte indistinguibili dalla propaganda. In cambio, queste società ottennero protezione e dei privilegi che assicurarono loro l’egemonia sulla concorrenza. Da un punto di vista strutturale, l’industria pubblicitaria italiana e tedesca mostrò dunque una spiccata tendenza all’accentramento capitalistico, realizzato attraverso una rete clientelare di favori e corruzione grazie alla quale alcuni poterono ricavare guadagni fino a quel momento inimmaginabili. La parabola di queste imprese è inoltre esemplificativa del fallimento del progetto corporativo e produttivista dei fascismi, che si limitò a mettere a tacere la lotta di classe attraverso l’inquadramento forzato piuttosto che tradursi in un effettivo ripensamento delle gerarchie produttive. Oltre ad essere introdotta relativamente tardi – nel caso italiano, Bondanini datava l’effettivo inizio delle attività del Sindacato addirittura al 1939173 – la riorganizzazione operata sia in Germania che in Italia ebbe come obiettivo principale l’esclusione dei professionisti invisi al regime, piuttosto che una significativa ristrutturazione dei rapporti di forza interni all’industria. 171. Segreto, Entrepreneurs and the Fascist Regime in Italy, pp. 78-93. 172. Cfr. Perugini, Il farsi di una grande impresa, p. 247 ss. 173. Cfr. Di Jorio, Pubblicità e propaganda, p. 215.

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Spinte dalla logica del guadagno o dall’ideologia – inizialmente più anti-socialista che fascista, nel caso dell’UPI – queste aziende prestarono notevole assistenza finanziaria alla stampa e alle istituzioni fasciste e naziste e contribuirono ad aprire nuovi mercati ai beni industriali ed agricoli dei due paesi, mettendo in atto una sostanziale sovrapposizione tra gli obiettivi aziendali e quelli di regime. Ciò nonostante, esse non persero mai il loro carattere di imprese commerciali, il che avrebbe garantito loro una certa libertà di manovra nella scelta del personale e dell’organizzazione del lavoro – e permetterà poi a imprese come l’UPI di sminuire la portata del proprio coinvolgimento dopo la guerra. Da questo punto di vista, entrambe le imprese rientrano dunque appieno nella storia delle medie e grandi imprese durante il Ventennio e il Terzo Reich.174 Ciò che le distinse in particolare, tuttavia, fu la loro capacità di rielaborare e massimizzare la propaganda di regime. Imprese come l’UPI e la Società per la pubblicità commerciale fecero ben più che collaborare economicamente con i regimi, infatti, facendosi carico non soltanto di finanziarli e sostenere la loro espansione territoriale ma anche di trasporre in forma pubblicitaria la loro propaganda, ibridandola con richiami ai bisogni individuali di diversi gruppi di consumatori che la resero ben più appetibile e ne amplificarono notevolmente il messaggio. Proiettando queste visioni di benessere attraverso i moderni mezzi di comunicazione, queste aziende contribuirono a mascherare con una patina di rispettabilità e comfort borghese il carattere profondamente repressivo ed esclusivo dell’ideologia fascista e nazista, secondo le quali solo i membri razzialmente e politicamente “puri” della società avrebbero avuto accesso ai consumi. Se tale concezione prevedeva una possibile re-inclusione degli ex oppositori politici, a patto che fossero “ariani”, essa tagliava fuori in maniera categorica chiunque venisse bollato come “estraneo” alla comunità nazionale – ebrei, neri, sinti e rom in primis, ma anche i cosiddetti asociali, i disabili, gli omosessuali. Si trattava dunque di un benessere concepito e costruito attraverso l’esclusione, che proprio per questo avrebbe rafforzato il senso di appartenenza ai regimi da parte dei soggetti “desiderabili” attraverso una serie di pratiche di consumo sia collettive che individuali. 174. Per una recente panoramica sul rapporto fra grandi imprese e fascismo cfr. i numeri monografici a cura di Luciano Segreto e Giacomo Gabbuti, L’indistricabile intreccio e The Italian economy under Fascism, nonché il contributo di Bertilorenzi, Cerretano, Perugini, Between Constraints and Opportunities: Big Italian Business and Autarky, 19341943. Cfr. Amatori, Colli, Impresa e industria in Italia, pp. 171-192 e Bräutigam, Mittelständische Unternehmer im Nationalsozialismus, pp. 138-173.

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In questo quadro, la capacità dei pubblicitari di far da tramite tra i fascismi e le aspettative di diversi strati della popolazione contribuì in maniera non trascurabile alla stabilizzazione delle due dittature, almeno in una prima fase. Fu proprio operando questa sintesi tra i diktat dei regimi e i bisogni materiali dei tedeschi e degli italiani che i pubblicitari riuscirono ad integrare temporaneamente diversi gruppi sociali nella dittatura, da un lato, e creare l’illusione di un futuro di benessere puntando su beni «ad alto contenuto simbolico», come evidenziato da Hartmut Berghoff, dall’altro.175 In alcuni casi questo atteggiamento scaturì da radicate convinzioni politiche, come nel caso di Fritz Solm, ma molto più spesso fu motivato dallo spiccato desiderio di sentirsi riconosciuti a livello professionale, dal profitto o, in alcuni casi, dalla sopravvivenza. Ci penseranno poi le insostenibili privazioni del periodo bellico a far tramontare definitivamente quest’illusione. Le parabole dell’UPI e della Società per la pubblicità commerciale, infine, mettono in risalto alcune delle differenze più macroscopiche tra il caso italiano e quello tedesco, a cominciare dal diverso livello di sviluppo dei mercati nonché dalla preponderanza dei prodotti di marca in Germania, rispetto alla prevalenza di pubblicità collettive riscontrata nel contesto italiano. Significative divergenze emergono anche nel sistema repressivo, che, pur essendo caratterizzato da una diffusissima tendenza all’auto-allineamento in entrambi i paesi, in Italia spesso si attuò attraverso i consueti canali statali – soprattutto prefetture e questure, che in alcuni casi vennero affiancate dall’OVRA, la polizia politica – mentre in Germania ebbe luogo attraverso enti extra giuridici creati ad hoc dal regime nazista, come la NSRDW. Ma come si verificò, in pratica, questo graduale processo di infiltrazione della propaganda nei contenuti pubblicitari tedeschi e italiani? Con che modalità i professionisti della pubblicità tentarono di arrivare ad una sintesi tra le imposizioni dei fascismi e le esigenze dei (futuri) consumatori? E quale fu l’impatto reale sull’immaginario pubblicitario e sulla cultura commercializzata dei due paesi? L’analisi approfondita di una serie di campagne pubblicitarie apparse sulla stampa tedesca e italiana a partire dai primi anni Trenta fino all’incirca al 1944 – anno entro il quale la maggior parte delle pubblicazioni cessarono sia in Germania che nella Repubblica Sociale Italiana per mancanza di materie prime, macchinari o di dipendenti – aiuterà ora a comprendere più a fondo come e fino a che punto la fascistizzazione del mestiere pubblicitario si tradusse in una nazionalizzazione dei contenuti della réclame. 175. Cfr. Berghoff, Enticement and Deprivation, p. 179.

5. Una, nessuna, centomila: la pubblicità nell’era dei fascismi

1. La pubblicità collettiva tra autarchia e individualismo Nel dicembre del 1931, le pagine de «L’Ufficio Moderno» ospitarono un acceso dibattito lanciato da uno dei padri fondatori della pubblicità italiana, Luigi Dalmonte. Autorità indiscussa sia a livello nazionale che internazionale e proprietario dell’agenzia ACME-Dalmonte, il futuro presidente dell’Unione continentale della pubblicità dedicò diversi articoli alle recenti campagne collettive realizzate dall’ufficio tecnico dell’UPI per la promozione dei prodotti alimentari italiani. Le pubblicità UPI vennero criticate da Dalmonte per il loro uso eccessivo di slogan nazionalistici, che anteponevano le parole d’ordine della propaganda ad accurate ricerche sui bisogni e i desideri dei consumatori. La questione non riguardava i contenuti politici delle campagne, che Dalmonte si guardò bene dal mettere in discussione, bensì le deboli argomentazioni patriottiche su cui erano imperniate le réclame, giudicate poco efficaci poiché si aggrappavano a nozioni generiche e astratte anziché stimolare l’illusione di un benessere collettivo facendo leva sulle aspirazioni individuali.1 Questa diatriba, a fasi alterne, sarebbe durata più di un decennio.2 Secondo Guido Mazzali, che era già intervenuto nel dibattito in qualità di direttore de «L’Ufficio Moderno» nonché per il suo contributo alle 1. Cfr. Luigi Dalmonte, La pubblicità collettiva, «L’Ufficio Moderno», n° 12 (1931), p. 756; Id., Uno sguardo alla pubblicità italiana, «L’Ufficio Moderno», n. 3 (1932), p. 131; Id., Il successo di una campagna di vendita, «L’Ufficio Moderno», n° 6 (1932), p. 352. 2. Cfr. Luigi Dalmonte, Presente e futuro della pubblicità italiana, «L’Ufficio Moderno», n° 9 (1942), pp. 292-296.

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campagne collettive per la birra, le pubblicità dell’ACME-Dalmonte ricorrevano molto raramente ad argomentazioni nazionalistiche, presentando piuttosto i beni di consumo come strumenti utili ad appagare i desideri soggettivi, e rispecchiando la posizione e la funzione sociale del lettore.3 L’alternativa proposta da Dalmonte, non nuovo alla promozione di beni alimentari, era incarnata dalle sue campagne per la Cirio – di cui aveva iniziato ad occuparsi già nel 1922, ottenendone tutta la pubblicità a stampa dal 1929 e nella seconda metà degli anni Trenta anche la cartellonistica, già resa celebre da grafici del calibro di Leonetto Cappiello e Achille Luciano Mauzan.4 Forte della sua esperienza internazionale – soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Gran Bretagna e in Svizzera – Dalmonte si vantava di ricorrere alla più moderne tecniche pubblicitarie, dando vita a vere e proprie campagne su larga scala, che apparivano su un notevole numero di pubblicazioni, a cominciare dalle quarte di copertina di «Critica fascista», fondata nel 1923 da Giuseppe Bottai. Questi annunci adottavano il cosiddetto stile editoriale, ossia ricorrevano a una fotografia o a una piccola illustrazione, accompagnata da un testo più o meno lungo che illustrava i benefici pratici del prodotto. Seppur ancora lontane dalla razionalizzazione del secondo dopoguerra, le pubblicità create da Dalmonte per la Cirio e altre aziende rappresentavano un caso particolarmente interessante perché, come vedremo, promossero una serie di prodotti per la casa attraverso argomentazioni che si fecero via via più “populistiche”, senza tuttavia rinunciare a far leva su bisogni individuali. Agli slogan dell’UPI Dalmonte oppose dunque réclame nelle quali «a essere cruciali erano le esigenze dell’io, non quelle nazionali», come ha sottolineato Adam Arvidsson.5 Le sollecitazioni di Dalmonte non caddero nel nulla, e per la fine degli anni Trenta la forma e i contenuti delle campagne UPI avevano registrato un notevole cambiamento. All’inizio del 1939 l’agenzia realizzò una nuova serie di campagne collettive che avrebbero dovuto esser lanciate nei mesi successivi e che trovarono ampia diffusione su «La Pubblicità d’Italia».6 Stando a Dino Villani, che nel frattempo era diventato uno degli editori 3. Cfr. Guido Mazzali, La pubblicità collettiva in Italia, «L’Ufficio Moderno», n° 4 (1931), pp. 237-244. 4. Cfr. MR, FDV, b. 2, bevande, b. 71, alimentari, e b. 100, Campagne prodotti ACMEDalmonte 1920-1950. 5. Arvidsson, Between Fascism and the American Dream, p. 175. 6. Cfr. Progetti per tre campagne pubblicitarie collettive, «La Pubblicità d’Italia», 3, n° 17-18 (1939), p. 31.

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de «L’Ufficio Moderno», stavolta il giudizio dei professionisti fu molto positivo sia in Italia che in Germania.7 Dopo le campagne per lo zucchero e i prodotti tessili, l’UPI aveva ricevuto una nuova commissione statale per incrementare il consumo di frutta, verdura e formaggio e al contempo ridurre quello di alimenti importati dall’estero, soprattutto la carne. Il lancio di tali campagne sarà tuttavia interrotto dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, che come vedremo costituirà il momento di maggior trasformazione dei contenuti pubblicitari. Concepite per trovare ampio spazio sulla stampa italiana, queste nuove pubblicità promuovevano prodotti maturati «sotto il bel sole d’Italia», sottolineandone non più solo la provenienza nazionale ma anche gli effetti benefici sulla salute, l’aspetto fisico o perfino lo status sociale. È importante rilevare che questo mutamento non era stato totale, dal momento che all’interno della stessa campagna convivevano gli ormai classici appelli all’autosufficienza del paese e le réclame improntate alla soddisfazione delle aspirazioni individuali, che si alternavano a seconda del medium su cui dovevano essere pubblicate e del gruppo sociale a cui si rivolgevano. Nel caso della campagna UPI per i formaggi nostrani, ad esempio, alcune réclame erano ancora infarcite di rimandi all’autarchia e alla retorica di Strapaese, che facevano leva sul carattere tradizionalmente italiano e contadino del prodotto, sulla sua importanza per l’indipendenza economica del paese, sulle sue proprietà nutrizionali o sulla sua equivalenza con alimenti più costosi o non italiani (fig. 6).8 Dal punto di vista visivo, gli annunci erano solitamente illustrati con disegni realistici o, al più stilizzati, del prodotto stesso, di scene agrarie o di infaticabili lavoratori, e accompagnati da pochissime righe di spiegazione.9 Molto simili risultavano le campagne collettive per il consumo di verdure (o di pesce, nel caso italiano), accompagnate a volte da ricettari, che sia in Italia che in Germania tentarono di “indirizzare” i consumi alimentari rivolgendosi a chi in questo campo deteneva un indiscusso potere decisionale: le casalinghe. Nel promuovere pietanze popolari come il minestrone o l’Eintopf, la zuppa, queste pubblicità utilizzavano come principale 7. Cfr. MR, FDV, b. 63, Pubblicità alla pubblicità, f. Campagne collettive e di propaganda generale, p. 1. 8. Cfr. Progetti per tre campagne pubblicitarie collettive, p. 31. 9. Un’impostazione grafica molto simile verrà usata anche nella campagna UPI per il telefono, cfr. Il telefono annulla le distanze, «La Stampa», 24 agosto 1940, p. 2.

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argomentazione il legame tra un’alimentazione sana e la salute di tutta la famiglia, ricorrendo tuttavia anche ad altre motivazioni, inclusa l’importanza della parsimonia e di una vita frugale, consacrata agli ideali fascisti e al sostegno dell’economia del paese, o perfino il precetto cattolico di mangiar pesce il venerdì.10 Nel loro rifarsi ai temi tipici della propaganda politica, questi annunci mostravano non poche somiglianze con le inserzioni create negli anni precedenti dal RVA, il Comitato del Reich per l’educazione economica popolare, ma anche con le campagne collettive per i beni alimentari tedeschi – basti pensare alle pubblicità collettive per il consumo del latte o del pane.11 È tuttavia bene ricordare che la pubblicità tedesca non perse mai la sua spiccata predilezione per i marchi, rispetto alle campagne collettive, che trovarono decisamente più diffusione nel meno sviluppato mercato italiano. Inoltre, mentre in Germania la propaganda economica del RVA rimase sempre ben distinta dalla pubblicità, perché controllata direttamente dal Ministero per la propaganda, le réclame dell’UPI, pur essendo commissionate dal regime, non persero mai del tutto l’impronta imprenditoriale dell’agenzia. Ciò nonostante, è evidente che queste pubblicità vennero ideate in un clima di crescente influenza reciproca tra l’Italia e la Germania, che non si limitò ai Ministeri ma coinvolse una fetta notevole della professione pubblicitaria, soprattutto a partire da metà anni Trenta. Tale comunanza di temi fu evidente soprattutto nei manifesti di propaganda per l’acquisto di prodotti nazionali, come nel caso dei famosi poster che esortavano a non togliere il pane ai figli dei lavoratori italiani e tedeschi (fig. 7 e 8), ma non risparmiò neanche il settore più propriamente commerciale al centro della nostra analisi. Anche se la propaganda politica esula dall’oggetto di questo studio, sarà utile soffermarsi per un momento sulle differenze tra i due manifesti sul pane, che bene illustrano l’influsso delle tecniche pubblicitarie sulla propaganda, evidenti sia a livello di stilemi visivi che di efficacia. Per quanto fossero entrambi finalizzati a provocare una partecipazione emotiva nello spettatore, il manifesto italiano si rivela di grande effetto e molto più simile a un cartellone pubblicitario, con un’immagine quasi fotografica e sentimentale di 10. Cfr. ad esempio Consumate pesce, «La Stampa», 29 dicembre 1938, p. 6, o l’Eintopfsonntag (la «zuppa della domenica»), cfr. Westphal, Werbung im Dritten Reich, p. 147. Cfr. anche Reinhardt, Von der Reklame zum Marketing, pp. 148-168. 11. Come ricordato da Pamela Swett, queste campagne non differivano molto dalle loro omologhe statunitensi o britanniche, cfr. Swett, Selling under the Swastika, pp. 82-85.

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un bambino che guarda dritto negli occhi dei destinatari, coinvolgendoli personalmente;12 molto più retorico e astratto quello tedesco, che si affida a una massa quasi informe di lavoratori sullo sfondo, mettendo al centro un lavoratore e una bambina alquanto sproporzionati, oltre che estetizzati, che comunicano sì un senso di disperazione, ma si guardano bene dal farlo sembrare troppo reale. Il secondo tipo di réclame collettiva concepita dall’UPI, invece, si affidava a testi generalmente più lunghi, accompagnati da disegni appena tratteggiati e dunque più evocativi, che spesso raffiguravano contesti privati altoborghesi, come nel caso della già menzionata pubblicità per l’aspirina o dell’abbondante «mascherpone» servito da una cameriera a degli allegri commensali in occasione del Natale (fig. 9).13 Tale evoluzione dei messaggi pubblicitari, oltre a esser frutto del confronto tra diverse correnti professionali e tradizioni nazionali, rifletteva soprattutto delle chiare esigenze di mercato. Questi due tipi di annunci, infatti, pur essendo a volte pubblicati sugli stessi periodici, riflettevano un’effettiva disparità di classe, evidente non solo nelle illustrazioni ma anche nei frequenti riferimenti allo status sociale dei destinatari – come nel caso di un altro annuncio UPI per il consumo della frutta, sotto forma di macedonia, che sottolineava come «il suo comparire al termine di un pranzo denota particolare finezza».14 Anziché mettere in evidenza l’ovvio contributo alla battaglia autarchica, questo tipo di annuncio pubblicizzava questi prodotti non solo in base alle loro proprietà nutritive ma anche ai loro benefìci sul piano dell’immagine personale e sociale. L’obiettivo non era più solo l’infaticabile massaia, dunque, ma anche l’agiata signora e il suo desiderio di essere riconosciuta quale impeccabile e affascinante padrona di casa. Per quanto con il passare degli anni gran parte dei collaboratori dell’UPI si rese conto che l’eccessiva enfasi sulle argomentazioni tipiche della propaganda rischiava di sminuire o addirittura di rivelarsi controproducente per l’efficacia delle campagne, questo fu un processo lungo e irto di ostacoli. Esemplare è il caso di una bozza di pubblicità per il consumo di ortaggi, che si rifaceva a uno dei temi più in voga della cultura fascista: 12. Il manifesto era stato creato da Giacinto Mondaini, autore anche dei famosi manifesti Salvate la razza dalla tubercolosi! del 1932, cfr. CGBC, n° 0500654898 e n° 0500654641. 13. Progetti per tre campagne pubblicitarie collettive, p. 31. 14. Ibidem.

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la romanità, e i rimandi ai fasti della Roma antica.15 Raffigurando una massaia con un collier fatto di ortaggi – la «collana della massaia intelligente» – la réclame presentava i vegetali in questione come «i suoi gioielli», tanto preziosi per una brava casalinga quanto lo erano stati i figli per la matrona romana Cornelia – un chiaro, per quanto goffo, riferimento alla famosa frase a lei attribuita «Haec ornamenta sunt mea» (fig. 10).16 Simbolo di modestia e rettitudine, Cornelia ben incarnava quel modello di madre devota e pronta a sacrificarsi per la famiglia e per la patria tanto strombazzato dalla propaganda fascista. Nel contesto di questa pubblicità, tuttavia, il richiamo all’eroina suonava poco convincente e difficilmente poteva persuadere una consumatrice a introdurre più verdura nell’alimentazione quotidiana della propria famiglia.17 A parte questi occasionali abbagli, per la fine degli anni Trenta molte delle campagne collettive dell’UPI avevano iniziato ad affidarsi a tematiche più proprie della pubblicità commerciale, mostrando un uso relativamente collaudato delle aspettative individuali riguardo questioni come il mantenimento della linea o di un elevato status sociale.18 Lo scopo di questi annunci non era in realtà cambiato. Stando a «La Pubblicità d’Italia», il loro obiettivo era offrire «un importantissimo apporto alla sanità dell’alimentazione» con effetti positivi sul «tenore vitaminico» della popolazione, ma anche sulla crescita della domanda «per la produzione frutticola nazionale, produzione vastissima e che ancora può essere grandemente sviluppata specialmente nelle regioni meridionali d’Italia».19 Il linguaggio visivo utilizzato, tuttavia, mostrava un approccio alquanto diverso. La campagna per il consumo degli agrumi, ad esempio, faceva leva su una serie di preoccupazioni legate alla bellezza esteriore e all’immagine, ritenute particolarmente efficaci dal momento che ci si rivolgeva a un pubblico femminile. Mettendo in risalto i benefici del succo di limone quale «naturale ed igieni15. Cfr. Mauri, Romani di razza, pp. 129-153. Più in generale sul mito di Roma nella cultura fascista cfr. Tarquini, Il mito di Roma, pp. 139-150. 16. «Questi sono i miei gioielli», cfr. Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri novem, IV, 4.4. 17. Progetti per tre campagne pubblicitarie collettive, p. 27. 18. Nel corso degli anni Trenta tale tendenza divenne visibile soprattutto nelle pubblicità per i prodotti dietetici come quelli della Buitoni o per le pillole dietetiche Boxing in Germania (reclamizzate anche in Italia a partire dalla fine del decennio), cfr. Gaudenzi, Women and Advertising in the Third Reich, pp. 53-54. Cfr. in particolare Thoms, Dick und Dünn, pp. 242-281. 19. Progetti per tre campagne pubblicitarie collettive, p. 31.

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co mezzo curativo della bellezza femminile», la réclame sottolineava la capacità del frutto di «mant[enere] i denti bianchissimi e assicura[re] l’igiene della bocca. È un ottimo e naturale disinfettante della gola. Rende le mani bianche e dona alla pelle del viso morbidezza e candore».20 In questo caso, il riferimento a concetti razzializzati di bellezza e di bianchezza – molto diffusi nelle pubblicità di quegli anni come simboli di purezza nonché di agiatezza – costituiva la principale strategia di vendita di questo annuncio, in cui la questione di carattere sanitario passava velocemente in secondo piano. Ancora più rivelatore era il modo cui la donna veniva raffigurata. Intitolata «la donna e lo specchio», la réclame giocava sul diffuso preconcetto misogino della vanità femminile, ritraendo una giovane donna nell’atto di guardarsi allo specchio (fig. 11). La sensualità della spalla scoperta era concepita per attirare lo sguardo del lettore e comunicare al contempo l’idea di una donna lontana da sguardi indiscreti e benestante, forse intenta a farsi bella per un’occasione mondana. Il contrasto tra il realismo del frutto e il tratto sfumato usato per la donna sembrava voler sottolineare lo stacco tra realtà e rêverie. Un’immagine ben diversa dalle massaie tuttofare o dalla gioventù del littorio o hitleriana auspicate dal Minculpop e dal Consiglio pubblicitario, molto più simile alla famigerata donna-crisi o alle “civette” condannate con tanta violenza dalla «NS-Frauen-warte». Su impulso della professione pubblicitaria, le campagne collettive dell’UPI si dimostrarono dunque via via più inclini all’uso di strategie incentrate sui bisogni individuali piuttosto che su astratte nozioni di una collettività politicizzata dallo scarso appeal commerciale. Questa tecnica, presente in molte altre campagne autarchiche di quegli anni, si proponeva di stimolare un certo livello di consenso o quanto meno acquiescenza tra le classi medie attraverso il miraggio di «comfort fascista», come sottolineato da Arvidsson nella sua analisi dalle pubblicità ERWA per il supercarburante Littoria dell’AGIP, che invece di usare i temi tipici della propaganda si concentrava sulle aspirazioni borghesi dei destinatari.21 Rimane da capire cosa ci fosse di specificatamente fascista in questa idea di comfort borghese. In Germania tale tendenza sarà visibile soprattutto nelle campagne pubblicitarie per i Volksprodukte, i prodotti popolari, come nel caso della radio.22 20. Ibidem. 21. Arvidsson, Marketing Modernity, pp. 61-64. 22. Cfr. König, Volkswagen, Volksempfänger, Volksgemeinschaft, pp. 58-82.

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Al di là dei palesi vantaggi economici di tali prassi, la scelta di favorire un certo tipo di consumi servì un più ampio scopo politico: evocare una serie di sogni e di aspettative, una specifica visione del futuro che mirava a consolidare indirettamente l’acquiescenza di diversi gruppi sociali, promettendo alle consumatrici e ai consumatori la possibilità di prendere parte a un avvenire di prosperità e benessere. Nel tentativo di raggiungere tale obiettivo, i fascismi non si limitarono a lanciare martellanti campagne per i prodotti nazionali ma cercarono anche di promuovere dei beni ad alto contenuto simbolico capaci di evocare quel futuro ideale di benessere e comfort che avrebbe atteso entrambe le nazioni dopo la conquista del loro “spazio vitale” in Europa e nelle colonie. L’alternanza tra temi autarchici e individualisti non si limiterà alle campagne collettive ma costituirà una delle costanti della pubblicità dell’era cosiddetta totalitaria. Ne è riprova la campagna del 1939-1940 per la Necchi, «l’unica grande fabbrica italiana di macchine da cucire», pubblicizzata su diversi periodici, tra cui «La donna fascista», il giornale delle organizzazioni femminili del PNF.23 Nel febbraio del 1939, il prodotto veniva reclamizzato come «la realtà più bella del sogno», in un fotomontaggio in cui una scultura marmorea femminile dell’antichità classica osservava con sguardo sognante la macchina da cucire completa di mobile (fig. 12).24 Il mese successivo, un annuncio intitolato «ali per la vittoria autarchica» presentava la Necchi come «il prodotto autarchico per eccellenza», esportato in tutto il mondo, attraverso una foto dell’oggetto su cui troneggiava il disegno di un’aquila nera (fig. 13).25 Ancora nell’ottobre del 1939, la didascalia che accompagnava la fotografia decisamente più sobria di una giovane donna sorridente di fronte al mobile da cucire recitava «per la giovinezza d’Italia».26 Annunci dal forte messaggio politico come questi ultimi, frutto di un’ibridazione tra il mondo pubblicitario e i diktat sociali ed economici del nazionalsocialismo e del fascismo – quali la battaglia per le nascite, l’autarchia, la lotta allo spreco o il sostegno dell’economia di guerra – costituivano sicuramente l’aspetto più visibile della pubblicità nell’era cosiddetta totalitaria, e sono stati a lungo considerati la dimostrazione della 23. Ali per la vittoria autarchica, annuncio, «La donna fascista», n° 11 (1940), p. 16. 24. La realtà più bella del sogno, annuncio, «La donna fascista», n° 3 (1939), p. 8. 25. Ali per la vittoria autarchica, annuncio, «La donna fascista», n° 6 (1939), p. 8. 26. Necchi per la giovinezza d’Italia, «La donna fascista», n° 20 (1939), p. 8.

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totale fascistizzazione dell’industria durante le due dittature. A ben vedere, tuttavia, queste campagne, pur costituendo una presenza significativa nelle pubblicazioni italiane e tedesche degli anni Trenta, rimarranno una minoranza nel panorama pubblicitario di entrambi i paesi, soprattutto in Germania ma anche in Italia. Complice di ciò furono sicuramente le differenze strutturali e di sviluppo tra i due paesi – inclusa la prevalenza di prodotti di marca e la netta superiorità di spazi accordati alla pubblicità in Germania – ma i motivi reali furono ben altri. Come vedremo, la maggior parte delle pubblicità non subirà un simile processo di parziale o totale politicizzazione dei suoi contenuti e delle sue forme, mostrando invece significative continuità con il periodo pre- e post-totalitario, nonché con le réclame coeve di altri paesi europei.27 Nell’illustrare quest’evidente contraddizione, Jonathan Wiesen ha parlato di una «flessibilità calcolata» da parte del regime nazista, rilevando come «i temi pubblicitari variavano molto e spesso non riflettevano qualcosa di unicamente “tedesco” o “nazionalsocialista”».28 Questa nozione di «flessibilità calcolata» da parte del regime ben illustra la realtà degli annunci pubblicitari sotto entrambe le dittature perché sottolinea quello che fu il ruolo principale del mestiere pubblicitario: fabbricare consenso proiettando l’illusione di una futura società del benessere alla portata di tutti i fedeli membri della comunità nazionale. La netta discrepanza tra gli obiettivi totalizzanti e la realtà che caratterizzò diversi aspetti della vita quotidiana del Ventennio e del Terzo Reich è tuttavia anche un chiaro segnale della natura policratica dei regimi e del fallimento del progetto totalitario in entrambi i paesi. Ciò non significa che la repressione fu meno brutale, sia ben chiaro: l’implacabile esclusione degli oppositori politici e dei professionisti di origine ebraica costituì senza dubbio il principale risultato di queste manovre. Ma la “volontà totalitaria” non si tradusse sempre in un’effettiva nazionalizzazione dei contenuti pubblicitari, sia per motivi strutturali che in virtù dell’importanza dei consumi, reali e soprattutto virtuali, nell’incoraggiare l’acquiescenza di diversi strati della popolazione. Tale constatazione ci porta inoltre a rilevare quanto, fermo restando la base ferocemente coercitiva di entrambe le dittature, questo lavoro fu spesso lasciato nelle mani dei 27. Sulla questione delle continuità con il secondo dopoguerra cfr. Swett, Selling under the Swastika, pp. 227-266. 28. Wiesen, Creating the Nazi Marketsplace, pp. 67-68.

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pubblicitari stessi, che si trovarono a dover operare una sintesi tra l’andare «incontro al Führer» (e al duce) e le esigenze del vendere.29 Questo capitolo offre un’analisi sia testuale che iconografica di una serie di campagne pubblicitarie ad ampia diffusione presenti sulla stampa italiana e tedesca dai primi anni Trenta fino al 1943-1944, anno in cui gran parte di queste pubblicazioni cessarono. Sotto esame saranno sia le riviste illustrate che i quotidiani politici, destinati a diversi ceti e gruppi sociali. In assenza di dati statistici sulla recezione di queste pubblicità, che verranno raccolti solo a partire dal secondo dopoguerra, l’impatto effettivo di queste campagne è stato valutato in base alla loro frequenza e longevità sulla stampa, nonché alla reazione dei pubblicitari emerse dallo studio delle riviste di categoria. Fatta eccezione per le pubblicità commissionate dallo stato, solo le campagne più riuscite venivano infatti stampate a più riprese su un lungo arco di tempo, proprio perché avevano generato un aumento delle vendite. A tal fine, le prossime pagine si concentreranno sulle campagne, piuttosto che su singole pubblicità, di chiara provenienza – create dagli uffici réclame interni alle aziende o da agenzie a noi conosciute – di modo da poter presentare un quadro d’insieme dei tratti salienti e dell’evoluzione di queste réclame, che in caso contrario sarebbero difficili da cogliere. In virtù dell’importanza attribuita al ruolo e alla rappresentazione delle donne dai fascismi, particolare attenzione sarà rivolta ai periodici politici e d’intrattenimento indirizzati ad un pubblico femminile, quali «La donna fascista», la «NS-Frauen-warte», «Die Frau am Werk», «Grazia», «Die Dame», l’«Almanacco della donna italiana», «Die junge Dame» o «Das Blatt der Hausfrau». Come hanno dimostrato i casi del RVA o dell’UPI, le donne costituivano le principali destinatarie degli appelli pubblicitari, non soltanto in quanto consumatrici ma anche quali “incubatrici” delle politiche razziali e demografiche dei fascismi. Generalmente a capo del ménage domestico, entro gli anni Trenta le donne venivano considerate responsabili della maggior parte degli acquisti familiari. Se nel 1936 il «Seidels-Reklame» si chiedeva retoricamente: «Da quando gli uomini guardano le vetrine?»,30 il «Werben und Verkaufen» aveva stimato che nel corso dell’anno precedente il 90% delle spese era stato effettuato da donne.31 La 29. Kershaw, ‘Working towards the Führer’, pp. 88-106. 30. Cfr. Rundschau, «Seidels-Reklame», n° 11 (1936), p. 525. 31. 90% aller Einkäufe werden von Frauen getätigt, «Werben und Verkaufen», n° 3 (1935), p. 104.

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maggior presenza di inserti pubblicitari nella stampa femminile rispetto alla media italiana conferma che anche nel decisamente meno sviluppato mercato italiano vi era una netta predilezione per gli annunci destinati ad un pubblico femminile.32 Ad eccezione dei prodotti pubblicizzati prevalentemente per il genere maschile (che spesso includevano oggetti di lusso, come le automobili), gran parte delle pagine pubblicitarie era dunque dedicata alla promozione di beni reclamizzati per – e spesso attraverso – le donne. Ciò valeva non soltanto per i periodici femminili ma anche per molte delle riviste illustrate, come la «Domenica del Corriere» o il «Berliner Illustrirte Zeitung», che in quegli anni raggiunsero una notevole diffusione, seppur con significative disuguaglianze geografiche. Adottare un’analisi di genere delle campagne pubblicitarie che comparivano su queste pubblicazioni si rivelerà particolarmente utile per comprendere quali modelli e quali comportamenti vennero proiettati sulle consumatrici da nazionalizzare nel corso degli anni Trenta e durante la guerra. 2. Da donna-crisi a perfetta fascista? Le réclame per il focolare domestico Nello spoglio della pubblicità a stampa di quel periodo, la maggior e più netta differenza che salta agli occhi è il contrasto tra i cosiddetti casalinghi – come i generi alimentari, i prodotti per la cura dell’infanzia o della casa – concepiti e destinati a un consumo di massa, e i beni di lusso, oggetti non essenziali e costosi, che venivano spesso reclamizzati con un approccio soft sell, ossia non tanto per i benefici pratici quanto per lo stile di vita che simbolizzavano. Tale divario era visibile soprattutto nel confronto tra le pubblicazioni rivolte al ceto medio e medio-basso e quelle per le classi più abbienti, per ovvi motivi, ma a volte anche all’interno dello stesso periodico, e nel corso degli anni Trenta sarebbe stato ulteriormente accentuato dal diverso livello di infiltrazione delle tematiche nazionalistiche e autarchiche nei loro contenuti. Ciò era prima di tutto dovuto alla capacità delle réclame di fare appello a gruppi sociali differenti grazie a inserzioni che ne riflettessero al 32. Come sottolineato nel capitolo 2, già nel periodo tra le due guerre le donne erano le destinatarie predilette della pubblicità a tutte le latitudini, cfr. in particolare The Sex of Things, pp. 275-286.

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meglio la vita quotidiana. Ad esempio, se nel corso degli anni Trenta le riviste femminili indirizzate ai ceti medi vennero inondate da un numero sempre maggiore di réclame per i prodotti per la casa e l’infanzia – per non parlare degli onnipresenti annunci sanitari – che si fecero via via sempre più politicizzate, i periodici per le donne benestanti vennero in larga parte risparmiati dall’infiltrazione di contenuti politici, continuando a proiettare sulle loro lettrici immagini oniriche di raffinata eleganza e opulenza. Come illustrato dall’esempio della Necchi, tale contrapposizione non fu tuttavia sempre così netta e portò alla coesistenza di tendenze contrastanti all’interno degli stessi organi di stampa, che esposero le potenziali consumatrici a richiami commerciali decisamente eterogenei. Questa evidente discrepanza, oltre a esser la riprova del fallimento del progetto corporativo o produttivistico dei fascismi, ben illustra il crescente divario tra le classi popolari e quelle agiate che caratterizzò gli anni Trenta e che avrebbe poi raggiunto l’apice nel bel mezzo della guerra. Nel quadro di un generale impoverimento della popolazione, le politiche di contenimento salariale e l’effettivo peggioramento della qualità della vita, sommate alla mancanza di mobilità sociale (fatta eccezione per la nuova dirigenza politica e la sua rete clientelare) finirono per accentuare drammaticamente le disparità sociali. In tale contesto, la possibilità di accedere a beni di lusso assolse più che mai i connotati del privilegio, riservato non più solo ai ceti abbienti ma anche alle nuove classi dirigenti fasciste e naziste, in un contesto in cui, come ha sottolineato Emanuela Scarpellini, «il lusso come demarcatore sociale invalicabile» aveva ceduto «il passo a un’aspirazione generalizzata verso i consumi di lusso».33 Per quel che riguarda la prima categoria, i casalinghi, a metà anni Trenta le pioneristiche campagne dell’ACME di Dalmonte per la Cirio regnavano sovrane su molte pubblicazioni italiane – da «La Stampa» fino a «Il giornale della donna» (dal 1935 «La donna fascista»). Attraverso una commistione di tecniche pubblicitarie tradizionali e moderne, le pubblicità Cirio si articolavano in una gamma di annunci che andava dalla réclame colorata a tutta pagina, solitamente accompagnata da una fotografia o perfino da arditi collage fotografici, a piccole inserzioni in bianco e nero con semplici illustrazioni, spesso stilizzate. Queste ultime réclame erano corredate di testi più o meno dettagliati finalizzati ad illustrare i benefici pratici e la convenienza del prodotto, secondo il classico stile editoriale. 33. Scarpellini, I consumi in Italia, p. 18.

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Nel caso della Cirio, invece, l’estetica e il messaggio pubblicitario variava notevolmente a seconda del mezzo a stampa in cui sarebbero state collocate. Nella campagna per il caffè brasiliano del 1934, ad esempio, gli annunci a piena pagina erano costituiti da grandi foto evocative della baia di Rio de Janeiro by night, corredate da una piccola immagine del barattolo di caffè e di una fumante tazzina stilizzata, in cui l’enfasi sulla provenienza “esotica” del prodotto era finalizzata non solo a sottolinearne la qualità ma anche la ricercatezza (fig. 14).34 I piccoli inserti da colonna pubblicitaria sui quotidiani, invece, ricorrevano a lunghi testi che facevano leva su argomentazioni rigorosamente razionali, illustrando il moderno processo di torrefazione che subiva il caffè dopo esser stato importato dal Brasile nelle fabbriche napoletane della ditta (fig. 15) o sottolineando l’affidabilità dei prodotti Cirio.35 Ciò non significa che le pubblicità Cirio rimasero immuni dalla politicizzazione dei loro contenuti, al contrario. A partire dall’avvento delle sanzioni in risposta all’aggressione dell’Etiopia, le réclame dell’ACMEDalmonte andarono incontro a un netto processo di assimilazione di tematiche più propriamente nazionalistiche. Già qualche settimana prima delle sanzioni, a inizio novembre 1935, uno degli annunci editoriali pubblicati su «Critica fascista» sottolineava come grazie alle lattine Cirio fosse possibile preparare un ottimo caffè, «senza aggiunta di cicoria o altri surrogati».36 In questo caso il riferimento sembrava più motivato dalla necessità di mettersi nei panni dei consumatori, tuttavia, riconoscendo le crescenti privazioni quotidiane al fine di rendere più efficaci il messaggio pubblicitario. Il mese successivo, un lungo trafiletto su «La Stampa» riportava la decisione del Brasile di non partecipare alle sanzioni contro l’Italia, sottolineando come il caffe Cirio e l’estratto di carne Cirio «vengono direttamente importati dal Brasile, paese amico, non sanzionista, contro una equivalente esportazione di Conserve Nazionali Cirio», e ricordando come i due prodotti «si potranno sempre trovare in vendita in Italia».37 Tale frenesia nazionalistica non ri34. Per tutta la campagna cfr. MR, FDV, b. 2, Bevande, e b. 100, Campagne prodotti ACME-Dalmonte 1920-1950. 35. Cfr. Luigi Dalmonte, Una grande campagna pubblicitaria per la diffusione e la valorizzazione del caffè brasiliano in Italia, «L’Ufficio Moderno», n° 7-8 (1935), pp. 376-383. 36. Caffè Cirio della miglior qualità brasiliana, annuncio, «Critica fascista», XIV, n° 1 (1935), quarta di copertina. 37. La risposta del Brasile alla Società delle Nazioni, «La Stampa», 13 dicembre 1935, p. 3.

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sparmiò neanche la réclame d’oltreoceano indirizzata agli italo-americani, come ha ricordato Stefano Luconi.38 Per quanto motivata dalla volontà contingente di cavalcare l’onda anti-sanzioni, il ricorrere a temi e immagini nazional-popolari si sarebbe fatto sempre più frequente nelle pubblicità Cirio. Esemplare fu il caso della nuova campagna del 1938 per le confetture apparsa sulla «Domenica del Corriere», che si avvalse di una serie di immagini tradizionali, atte a cogliere uno Zeitgeist ormai decisamente mutato facendo appello alle «massaie d’Italia», pur senza perdere di vista le reali esigenze delle destinatarie. Quanto l’immaginario pubblicitario della Cirio fosse cambiato ce lo dimostra anche il confronto con una precedente campagna del 1930, criticata da «L’Ufficio Moderno» per l’uso di testimonial scientifici, come i dottori – una delle grandi novità della pubblicità statunitense degli anni Venti – al fine di rimarcare le proprietà nutritive delle vitamine contenute nelle conserve della ditta.39 Otto anni dopo, le argomentazioni erano rimaste relativamente simili, con una notevole enfasi sulle qualità nutritive e salutari, particolarmente benefiche per i bambini, nonché sull’ottimo rapporto qualità/prezzo del prodotto (1,75 lire per quattro etti di confettura). Le pubblicità in sé, tuttavia, presentavano notevoli differenze rispetto a quelle del 1930 (fig. 16). Secondo una strategia di mercato che sarebbe diventata sempre più comune, la vendita di primavera del 1938 offriva le confetture Cirio a un prezzo «specialissimo» destinato «specialmente al popolo», attraverso immagini di massaie delle classi popolari con tanto di scialle o di grembiule, ritratte con un bimbo in collo o il paniere sotto braccio, affiancate agli onnipresenti barattoli Cirio, capaci di proteggere il prodotto «dalla polvere, dai germi, dagli insetti».40 Questa infiltrazione di tematiche e immagini più confacenti alla retorica fascista, più che indicare un’effettiva nazionalizzazione dall’alto della réclame, dimostra che la politicizzazione fu messa in atto dai pubblicitari stessi, non soltanto per adattarsi alla “nuova era” ma anche come conseguenza della pratica pubblicitaria di differenziare gli annunci in base alle necessità del gruppo sociale a cui erano destinati. Pochi mesi dopo, una 38. Cfr. Luconi, Etnia e patriottismo, pp. 514-522. 39. Cfr. Luigi Dalmonte, Due risposte alla facile critica, «L’Ufficio Moderno», n° 11 (1930), p. 669. 40. Grande Festa della Frutta, «Domenica del Corriere», maggio/giugno 1938, sezione annunci.

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casalinga del ceto medio pubblicizzava la «doppia pentola» Cirio duplex, che «conserva le sostanze nutritive, il sapore e l’aroma delle vivande e fa risparmiare la metà della spesa del gas o carbone, perché con un fuoco solo si può cuocere in due pentole»,41 mentre due giorni dopo l’invasione della Polonia «La Stampa» riportava l’immagine di due «bimbi felici» che dormivano in un comodo letto abbracciati ai loro nuovi regali, ottenuti con la raccolta delle etichette Cirio.42 Parzialmente simile fu il caso della Mellin, ditta di Milano specializzata in cibi per l’infanzia. Anch’essa pubblicizzata dalla ACME, a partire dall’autunno del 1935 la ditta ci tenne a sottolineare a più riprese l’italianità del prodotto e della fabbrica,43 ma ancora nel 1938 preferiva affidarsi a fotografie di bambini gioiosi e pasciuti che spesso guardavano dritto nell’obiettivo e regalare opuscoli sulla puericultura, senza tuttavia fare apertamente riferimento alla retorica natalista del fascismo (fig. 17).44 Da questo punto di vista, le campagne Cirio e Mellin mostravano notevoli somiglianze con gran parte delle réclame per i prodotti alimentari e per l’infanzia tedeschi, come ad esempio i preparati Dr. Oetker, che dopo l’inizio della guerra offriranno consigli e ricette dalle pagine del «Berliner Illustrirte Zeitung» per continuare a preparare dessert decorosi, malgrado la scarsità di grassi e uova (fig. 18).45 Più che costretti da imposizioni cadute dall’alto, l’infiltrazione di temi nazionalistici o razzisti fu una scelta consapevole effettuata dalle industrie o dalle agenzie pubblicitarie, dunque, dal momento che una notevole percentuale degli annunci pubblicati nella seconda metà degli anni Trenta non ne mostrò traccia. In rarissimi casi, i riferimenti alle crociate del regime vennero quasi parodiati, come nel caso di uno dei pionieri della réclame italiana, l’Aperol, che nel bel mezzo della campagna contro la donna-crisi mostrava una signora nell’atto di farsi misurare il girovita da una sarta, intitolando: «La donna-crisi? Bisogna distinguere!» per sottolineare le 41. Pentola Cirio Duplex, «La Stampa», 2 dicembre 1938, p. 4. 42. Bimbi felici, «La Stampa», 3 settembre 1939, p. 4. Per la campagna Conservate le etichette Cirio, cfr. MR, FDV b. 62, senza nome, e 100, Campagne prodotti ACMEDalmonte 1920-1950. 43. Cfr. Il Mellin è italiano, «La Stampa», 13 dicembre 1935, p. 2. 44. Cfr. ad esempio Alimento Mellin, «Domenica del Corriere», 41, n° 25 (1939), p. 12. 45. Cfr. anche Swett, Selling under the Swastika, pp. 202-203. Sulle pubblicità Dr. Oetker cfr. anche Conrad, Werbung und Markenartikel.

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proprietà dietetiche dell’aperitivo (fig. 19).46 Anche se il riferimento alla donna-crisi dell’Aperol costituì un’eccezione – probabilmente malvista, tant’è che nessuno degli annunci successivi vi fece più riferimento47 – nel panorama pubblicitario degli anni Trenta, la sua presenza è indicativa di un aspetto fondamentale: fatta eccezione per le campagne collettive e per i surrogati, le réclame “apolitiche” – ossia modulate in base alla posizione sociale e ai bisogni individuali dei destinatari piuttosto che alle veline del Minculpop – rimasero la norma almeno fino all’entrata in guerra, e a volte anche negli anni successivi. Creata dall’ufficio pubblicità della ditta dei fratelli Barbieri, l’esempio dell’Aperol è fondamentale anche per sottolineare come negli anni Trenta gran parte delle réclame più creative venivano ancora ideate dagli uffici propaganda interni alle grandi industrie, come la Buitoni-Perugina, la FIAT, la Campari, la Rinascente, la Pirelli, la Motta o l’Olivetti, il cui Ufficio sviluppo e pubblicità verrà diretto dal “poeta ingegnere” Leonardo Sinisgalli, a partire dal 1937. È principalmente a loro che si deve il balzo sia qualitativo che quantitativo vissuto dalle réclame nel corso degli anni Trenta, oltre che all’attività delle poche agenzie pubblicitarie già in circolazione.48 Ciò fu sostanzialmente vero anche per la Germania: basti pensare al famoso Persil, il detersivo pubblicizzato dalla «Dama bianca» della Henkel, al colosso farmaceutico Bayer, che pubblicizzava la sua aspirina anche su diverse pubblicazioni italiane, o all’ufficio réclame delle sigarette Reemtsma, diretto da Hans Domizlaff.49 Sebbene con livelli alquanto diversi di sofisticatezza tecnica, anche in Germania le pubblicità per i casalinghi manifestarono tendenze molto simili, dimostrandosi il campo di applicazione più immediato per gli sforzi di nazionalizzazione imposti dal regime, senza tuttavia mai snaturare il messaggio commerciale di fondo. Una nostra vecchia conoscenza, la Società per la pubblicità commerciale di Fritz Solm, ideò svariate campagne per i prodotti di uno dei suoi maggiori clienti, la Kraft Foods (a quei tempi chiamata Kraft-Phenix). Forti di una notevole presenza su vari quotidiani e 46. Ringrazio Flaminia Bartolini per aver portato alla mia attenzione questo annuncio. 47. Cfr. ad esempio Signora! L’Aperol mantiene la linea, «La Stampa», 7 luglio 1932, p. 9. La crociata contro la donna-crisi venne prontamente rielaborata in diverse barzellette e canzoni, cfr. De Grazia, Le donne nel regime fascista, p. 287 ss. 48. Cfr. Fasce, Bini, Gaudenzi, Comprare per credere, pp. 43-45. 49. Cfr. Friebe, Branding Germany, pp. 78-101; Gries, Stilgedanken zur Macht, pp. 45-73.

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riviste tedesche, gli annunci per la Kraft di norma si affidavano a immagini relativamente tradizionali di casalinghe felici e robusti contadini immersi nella natura, pur continuando a ricorrere alle moderne strategie di mercato che avevano contraddistinto l’etica professionale della JWT. In occasione del lancio di un prodotto relativamente nuovo come il condimento per insalate miracle whip, ad esempio, la Società per la pubblicità commerciale ideò una serie di réclame che, pur rifacendosi ampiamente alle precedenti campagne elaborate dall’agenzia statunitense, mostravano alcuni segnali dell’infiltrazione di contenuti politicizzati secondo i dettami del Consiglio pubblicitario. Nelle inserzioni il prodotto veniva presentato ricorrendo all’ormai classica tecnica del fumetto, accompagnato dal consueto slogan «il dressing più venduto al mondo!».50 Le pubblicità, che vennero inviate alla sede JWT di New York per un parere, seguivano il classico stile editoriale, in cui un lungo testo esplicativo – concepito per persuadere le potenziali consumatrici attraverso motivazioni esclusivamente razionali – era illustrato dalla foto di due casalinghe (spesso chiamate per nome, per aumentare il senso di familiarità) che commentavano entusiaste i benefici del prodotto. Solitamente, gli annunci assomigliavano in tutto e per tutto ai loro predecessori weimariani, animati da donne impeccabilmente truccate, abbigliate e acconciate all’ultima moda. In alcuni casi, tuttavia, le immagini e a volte persino il linguaggio mostravano di aver recepito alcuni delle direttive nazionalsocialiste riguardo alla rappresentazione femminile. In una di queste réclame, ad esempio, intitolata «una casalinga tedesca racconta a un’altra di questo dressing per insalate totalmente diverso», l’enfasi sulle origini germaniche della massaia di destra era rafforzata dalla sua bionda acconciatura tradizionale (fig. 20). Per quanto minima, si trattava di un’importante differenza, vista la rilevanza che il Consiglio pubblicitario attribuiva al propagare esclusivamente immagini che rinsaldassero la purezza germanica e la domesticità delle donne. Da notare, tuttavia, era l’assenza dei caratteri gotici, fortemente caldeggiati dal Consiglio pubblicitario a partire dalla metà degli anni Trenta.51 Fatta eccezione per queste modifiche, le réclame continuarono a ritrarre signore borghesi nell’atto di assolvere a uno dei loro compiti, come 50. Per l’intera campagna cfr. DUHC, JWTA, JWT Microfilm Collection, microfilm n° 41. Gli annunci comparvero su diverse pubblicazioni nel corso del 1936. 51. Cfr. Sennebogen, Zwischen Kommerz und Ideologie, p. 250 ss.

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ricevere ospiti per pranzo, far visita ad altre signore per il tè o scambiarsi confidenze con le amiche. Si trattava per lo più di giovani donne – anche se il saggio consiglio di un’amica più anziana era sempre il benvenuto – e l’ambientazione, rigorosamente privata, era quella tipica delle classi medie. Pur essendo ancora dettate dalla necessità di adattarsi al gruppo di consumatrici di riferimento, le pubblicità della Società per la pubblicità commerciale ricorrevano dunque a immagini più tradizionali rispetto agli anni di Weimar, dove le donne Kraft erano state rappresentate anche all’esterno, in contesti mondani e non necessariamente nel ruolo di massaie. La capacità di Solm di pubblicizzare un prodotto di origini statunitensi tutt’altro che tradizionale grazie a tecniche d’avanguardia attraverso l’uso di contenuti germanizzati secondo le direttive nazionalsocialiste rappresentava un elemento di grande novità, oltre che non privo di contraddizioni. Ciò risultava evidente anche negli annunci per un altro prodotto Kraft, il formaggio Veleda, che tuttavia poteva essere reclamizzato attraverso immagini bucoliche di infaticabili contadini biondi e robusti, a stretto contatto con la natura (tedesca), rendendo la loro germanizzazione decisamente più immediata. Da questo punto di vista le pubblicità della Società per la pubblicità commerciale rappresentano un ottimo esempio della commistione di quelli che Jonathan Wiesen e Corey Ross hanno descritto come processi paralleli ma opposti di americanizzazione e germanizzazione della pubblicità tedesca nel Terzo Reich, che invece a volte si incontrarono eccome.52 Vista la storia della Società per la pubblicità commerciale, agenzia diretta da un membro delle SA, particolarmente prolifica nel corso degli anni Trenta – basti ricordare che sue erano molte delle pubblicità Kodak, Pond’s o Daimler – non sorprende che le sue réclame rappresentino un ottimo esempio di come l’ideologia nazista riuscì a tratti a insinuarsi nella pubblicità commerciale. Tuttavia è necessario sottolineare come l’uso di immagini e slogan germanizzati rimase minoritario nel panorama delle réclame della Società per la pubblicità commerciale, il cui scopo principale era quello di vendere prodotti (spesso statunitensi) alle casalinghe del ceto medio tedesco. Indipendentemente dal livello di politicizzazione, la capacità di adattarsi a gruppi sociali differenti a seconda del prodotto da reclamizzare continuò a costituire uno dei prerequisiti così come una delle forze della pubblicità, anche durante la dittatura nazista. Non era perciò poi così 52. Cfr. Wiesen, Creating the Nazi Marketplace, p. 67; Ross, Visions of Prosperity, pp. 52-77.

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sorprendente che gli annunci ricorressero ad immagini relativamente tradizionali per pubblicizzare un condimento per insalate o del formaggio, approcciandosi invece in maniera del tutto diversa quando si trattava di appellarsi a consumatori interessati all’acquisto di un’automobile, di una radio o di tessuti pregiati, dal momento che le suggestioni pubblicitarie potevano essere modulate non solo a seconda del prodotto e del rango dei relativi destinatari, ma anche delle loro aspettative sociali, presenti e future. Un ottimo esempio in tal senso è fornito dalle réclame per i fili di seta per cucito Amann, anch’esse molto diffuse sulle riviste femminili tedesche, realizzate dalla Dorland di Richard Roth alla fine del 1938, dopo l’emigrazione di Bayer negli Stati Uniti. Focalizzandosi ormai quasi esclusivamente sulla pubblicità commerciale – Roth, come Bayer prima di lui, continuò ad occuparsi delle copertine della rivista «die neue linie» – in quegli anni l’agenzia ideò una serie di campagne a tutto tondo per alcune note ditte tedesche come le calze Rogo o il dentifricio Chlorodont nonché per marchi internazionali quali le sigarette austriache Nil o le radio olandesi Philips. Pur dedicandosi soprattutto ai beni di lusso, la Dorland acquisì anche importanti clienti nel settore medico e dei casalinghi. Tra i prodotti per la casa più pubblicizzati dall’agenzia vi era giustappunto l’Amann Nähseide, un filo da cucito di seta naturale che la ditta del Württemberg produceva in ben mille colori. Come da manuale, le réclame Amann venivano realizzate attraverso una rosa alquanto eterogenea di stili e immagini, così da suscitare l’interesse di un pubblico più ampio possibile. Due tuttavia furono i trend più ricorrenti nella campagna ideata dalla Dorland nel 1939. Il primo tipo di réclame, tipico dei quotidiani, si affidava a simpatiche vignette di bambini la cui vivacità nel gioco provocava strappi ai vestiti per riparare i quali occorreva ricorrere ai fili da cucito dell’azienda, che con toni indulgenti cercavano di far breccia nelle madri dei ceti medi borghesi, principali destinatarie del prodotto. Il secondo tipo, invece, allettava la consumatrice con una descrizione più articolata dei possibili usi dell’articolo in una varietà di situazioni: dal vecchio pescatore che ricuciva le sue reti con i fili sottili ma particolarmente resistenti della ditta a una serie di scenari urbani in cui giovani donne esaltavano l’utilità e l’origine naturale del prodotto – non solo per sottolinearne la qualità ma anche per differenziarlo dalle famigerate fibre sintetiche sostitutive, la cui presenza sul mercato tedesco si faceva sempre più massiccia.53 53. Cfr. Swett, Selling under the Swastika, pp. 157-159.

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Alcune pubblicità ritraevano donne sul tram o prese da mille commissioni in giro per la città, come nel caso di una réclame in cui una giovane, vestita con un sobrio tailleur, veniva fotografata con sguardo rapito davanti ad una vetrina mentre ammirava «l’abito dei suoi sogni», un vestito da gran sera, facilmente adattabile alla sua figura grazie ai fili Amann, ideali per evitare scuciture agli «abiti che ti rendono più snella» (fig. 21).54 Ancora diversa era l’ambientazione dell’annuncio intitolato «La signora che non deve dire di no». Mentre la didascalia sembrava riferirsi alla signora benestante sulla sinistra, il testo spiegava che in realtà era l’attenta e disponibile commessa che «non deve mai dire di no» alle «richieste specifiche» della cliente, per quanto raro potesse essere il colore di cui aveva bisogno (fig. 22). È importante ribadire che, sebbene agenzie come l’ACME, la Dorland o la Società per la pubblicità commerciale rappresentassero ancora più l’eccezione che la norma, a metà anni Trenta questo tipo di pubblicità era già alquanto diffuso sulle pubblicazioni tedesche, in particolare sui periodici illustrati rivolti alla media e all’alta borghesia. Aziende come la Cirio, la Mellin, la Kraft o l’Amann venivano ampiamente reclamizzate sulla stampa di entrambi i paesi, venendo a costituire un importante punto di riferimento tanto per i professionisti quanto per il pubblico. Questo non significa che i quotidiani contenessero ormai solo inserzioni di questo tipo, sia ben chiaro: nel 1938 circa un quarto delle réclame presenti su quotidiani come «La Stampa» – dove la pubblicità non era più limitata alla cosiddetta quarta pagina ma inserita anche in alcune delle sezioni editoriali – erano ancora costituiti da piccoli annunci di solo testo, che reclamizzavano un’ampia gamma di rimedi di salute, più o meno scientifici, dai ricostituenti per capelli, a vari intrugli per curare l’intestino, alle pillole dimagranti, che con l’evolversi dei canoni estetici femminili videro una notevole crescita. In tale contesto, una proporzione notevole di pubblicità per casalinghi sembrarono adattarsi più o meno rapidamente al “nuovo spirito” dei fascismi, dal momento che tanto le immagini quanto i comportamenti reclamizzati non virarono mai significativamente dal modello di casalinga e madre infaticabile, devota alla propria numerosa prole. Nel caso dell’ACME o della Società per la pubblicità commerciale, ad esempio, si registrò una 54. Cfr. Bauhaus-Archiv Berlin, Studio Dorland, Berlin, f. 25, Stiller Wunsch, große Sorgen!, ca. 1939 [i materiali sono stati acquisiti dal Bauhaus-Archiv di recente e le réclame relative al periodo pre-1945 sono state catalogate solo parzialmente].

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volontaria assimilazione di alcuni dei temi più cari ai vertici del Consiglio pubblicitario e del Minculpop. Tuttavia, nonostante gli slogan collettivistici intimassero di anteporre il bene comune a quello individuale, sia in Germania che in Italia i prodotti per la casa vennero spesso promossi giocando su sogni e aspettative soggettivi, che avevano ben poco a che fare con le altisonanti parole d’ordine delle campagne autarchiche. Questo valeva soprattutto per le réclame che facevano appello all’alta borghesia, mentre le pubblicazioni indirizzate ai ceti medio-bassi si dimostrarono più permeabili alle infiltrazioni della propaganda patriottica. Ma nel complesso la maggior parte dei prodotti venne pubblicizzata basandosi su una concezione individuale del consumatore, tanto invisa ai fascismi, anziché su visioni ideologizzate della comunità nazionale. Ciò si rivelò particolarmente vero nel caso di articoli più strettamente legati all’auto-rappresentazione e alla realizzazione individuale delle consumatrici e dei consumatori. Esemplare in questo senso fu un altro importante cliente della Dorland, la Leo-Werke, azienda produttrice del dentifricio Chlorodont. Marchio ormai consolidato nel settore dell’igiene orale, assieme al famoso collutorio Odol, già nel 1930 il Chlorodont era tra i dentifrici più reclamizzati non solo in Germania ma anche in diversi paesi europei, incluse la Spagna e l’Italia. Come ricorda Gideon Reuveni, gli annunci Chlorodont apparivano sia sugli organi nazisti che sulla stampa ebraica, fino a quando non fu proibito pubblicizzare merci tedesche agli ebrei, nonché sui periodici yiddish dell’Europa dell’est.55 Probabilmente il prodotto sanitario che subì la maggiore impennata – sia di consumi che di pubblicità – nel periodo tra le due guerre, assieme al sapone, il dentifricio rappresenta un caso particolarmente interessante per la nostra analisi in quanto si collocava a cavallo tra l’onnipresente categoria di medicinali, alla cui regolamentazione entrambi i regimi dedicarono particolare attenzione in virtù della loro enfasi sulla salute corporea, e quella dei prodotti di bellezza, in notevole ascesa. A partire da metà anni Trenta questi beni verranno poi reclamizzati nella categoria dei prodotti per la cura della persona, in cui i benefici di salute vennero pian piano rimpiazzati dall’enfasi sulla desiderabilità, il benessere o perfino la libertà associata a tali beni. Illuminanti a riguardo sono le réclame Odol sulla stampa italiana, che alternavano annunci incentrati sulle proprietà mediche del preparato a disegni di sensuali signore elegantemente vestite i cui «denti profumati sono fiori delicati»,56 55. Cfr. Reuveni, Consumer culture, pp. 39-40. 56. Odol - I denti profumati sono fiori delicati, «La Stampa», 27 ottobre 1938, p. 4.

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o le campagne dell’ufficio pubblicità dell’Erba-Gi.Vi.Emme, diretto da Dino Villani, che culmineranno poi nel famoso concorso «5.000 lire per un sorriso» (fig. 23).57 Indefesso collezionista di pubblicità a stampa, che catalogava in base al tipo di prodotto e alle annate, Villani si teneva ben aggiornato sui trend pubblicitari internazionali raccogliendo una notevole quantità di pubblicazioni da tutta Europa, spesso francesi ma soprattutto tedesche.58 Dobbiamo infatti ricordare che nonostante la battuta d’arresto segnata dalla Grande depressione, il mondo pubblicitario sarebbe stato animato da una crescente internazionalizzazione, grazie non solo a un numero sempre più cospicuo di campagne che venivano pubblicate in diversi paesi ma anche agli scambi tra i professionisti di varie nazionalità – Italia e Germania in primis. Come da prassi, le pubblicità per il Chlorodont adoperavano un’ampia gamma di stili e immagini. Sui quotidiani italiani, ad esempio, semplici annunci illustrati sottolineavano i benefici per diverse categorie di consumatori, dai fumatori – che potevano così «assaporare veramente il gusto del fumo», oltre che mantenere i denti bianchissimi – alle madri, che venivano sollecitate a considerare la cura della bocca come una parte importante dell’igiene dei bambini.59 Sulle riviste tedesche campeggiavano invece pubblicità patinate dall’ampio formato, corredate di fotografie o collage fotografici, accompagnate a volte da testi in caratteri gotici, per la gioia del Consiglio pubblicitario. Pur non esimendosi dall’occasionale fotografia di una statua grecoromana, sulla scia del revival classicista che caratterizzò le arti figurative del Terzo Reich, in genere le réclame Chlorodont erano modulate a seconda del loro target: mentre la salute e la prestanza fisica giocavano un ruolo centrale nelle réclame rivolte alle madri e agli sportivi, quelle che ritraevano giovani sorridenti o addormentate – in bella quanto artificiale posa – erano di solito accompagnate da brevi testi che enfatizzavano il potere del prodotto di rendere più attraenti chi lo usava (fig. 24). In una di queste réclame, intitolata «Il pericolo minaccia nel sonno!», la Dorland fece ricorso a quella che sarebbe diventata una tecnica alquanto diffusa: i riferimenti ad altri media, i film in particolare, citando il cortometraggio documentario del 1936 Lebende Werkzeuge («utensili viventi»), prodotto dalla UFA.60 57. Cfr. MR, FDV, b. 155 e 160, Gi.Vi.Emme. Cfr. anche Gundle, Bellissima, p. 116 ss. 58. Cfr. in particolare MR, FDV, b. 107, 108, Gi.Vi.Emme. 59. Cfr. MR, FDV, b. 76, Prodotti per toilette. 60. Bauhaus-Archiv Berlin, Studio Dorland, Berlin, Gefahr droht im Schlaf!, n/c.

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L’aspetto di maggior rilievo, tuttavia, era costituito da un’altra serie di annunci della stessa campagna, apparsi su riviste patinate come «Die Dame» e improntati al tema del tempo libero. Associando Chlorodont ai sentimenti di libertà e di spensieratezza tipici di una vacanza, queste réclame – a piena pagina e quasi totalmente prive di testo – si affidavano a scenari d’evasione in cui i protagonisti potevano godere di momenti ricreativi all’aria aperta, «distaccati dalla vita di ogni giorno».61 Ancora una volta, le diverse immagini e i temi toccati rivelavano il tentativo di raggiungere molteplici gruppi sociali con strategie differenti, rivelando sia un certo livello di assorbimento del linguaggio nazionalsocialista che una ferma consonanza con aspirazioni tipicamente borghesi. Una di queste fotografie, ad esempio, ritraeva quattro sane e atletiche giovani, intente a godersi gli spruzzi del mare, senza tuttavia dimenticare che solo usando Chlorodont «la vacanza diverrà una vittoria per tutto il corpo!» (fig. 25). L’immagine ricordava da vicino le pubblicità della Nivea, che nel 1933 era stata bersaglio di una violenta campagna antisemita salvo poi assurgere a uno degli esempi più “illuminati” di pubblicità tedesca, come vedremo. L’accento sulla vittoria e sulla prestanza fisica tuttavia la rendevano parzialmente simile ai manifesti per le vacanze della Kraft durch Freude (KdF), il dopolavoro del DAF. Un altro esempio classico era l’immagine di un’allegra famigliola ariana intenta a godersi le vacanze sulle alpi al sole e all’aria aperta «senza preoccupazioni», dove la cura dello spirito andava di pari passo con quella del corpo (fig. 26).62 Era ambientata in montagna anche l’ultima di queste réclame, in cui i protagonisti venivano fotografati durante un elegante picnic, con il volante e il sedile della loro lussuosa automobile in primo piano. Mentre una quarta figura se ne stava in disparte a leggere, la giovane al centro della foto guardava dritto in macchina, e il testo esortava a «divertirsi, vedere il bel mondo – viaggiare senza preoccupazioni».63 Grazie alla tecnica del soft sell, il riferimento al prodotto reclamizzato si faceva sempre più tenue, dando l’impressione che a essere in vendita fossero più lo stile di vita e l’auto-rappresentazione dei potenziali consumatori che un tubetto di dentifricio (fig. 27). Da questo punto di vista, queste pubblicità mostravano significative somiglianze con le sempre più diffuse réclame per le vacanze o le auto61. Ivi, Losgelöst vom Alltag, n/c. 62. Ivi, Menschen im Sonnenschein, n/c. 63. Ivi, Natürlich soll man genießen, n/c.

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mobili che i regimi cercarono di rendere accessibili alle masse attraverso le attività della KdF o dell’OND, in cui dominavano l’enfasi sulla libertà (di movimento, sia beninteso) e sul consumo di beni e servizi fino a quel momento solo sognati.64 Nel paragonare questi due filoni, uno più propriamente politico e l’altro essenzialmente commerciale, emerge tuttavia un tratto fondamentale: il permanere, sempre e comunque, di chiare distinzioni di classe. Questa realtà dei consumi durante il Ventennio e il Terzo Reich emergerà con particolare evidenza nel caso di réclame per prodotti dall’alto contenuto simbolico come le automobili, gli alcolici, le calze di seta o gli articoli da toletta di lusso, come vedremo in seguito. 3. La razzializzazione dei contenuti pubblicitari Gli annunci Dorland si rivelano utili soprattutto per introdurre l’aspetto più rilevante – oltre che virulento – del processo di fascistizzazione delle réclame: la parziale infiltrazione di temi razziali e militaristi attraverso il riferimento ad argomentazioni all’apparenza neutrali come l’importanza della salute fisica o “di spirito”, che, nel contesto razzista e guerrafondaio dei fascismi si rivestirono di chiari connotati politici. Se il proliferare di rimandi alla romanità o all’età classica costituì l’effetto di gran lunga più visibile della fascistizzazione dell’iconografia commerciale sia in Italia che in Germania,65 soprattutto a partire da metà anni Trenta la ripetuta enfasi sul carattere tedesco o italiano delle imprese o sulla purezza dei prodotti assunse dei chiari (per quanto spesso impliciti) connotati razzisti. Particolarmente illuminante in tal senso era un cartone sonoro della latteria berlinese Bolle, una pioniera della pubblicità cinematografica, del 1938. Qui l’allegra danza di bianche bottiglie di latte che ogni giorno raggiungono i bambini di tutta Berlino, dopo aver spinto al suicidio un losco figuro nero, incarnazione delle malattie, si trasformava in una minacciosa colonna militare che marciava all’ombra della Funkturm, la torre della radio.66 In tale contesto, anche i richiami a pratiche commerciali oneste e tra64. Diversi esemplari delle réclame per l’auto KdF (la famosa Volkswagen) sono conservati al Bundesarchiv, cfr. ad esempio BArch, Bildarchiv, Da 234-12 Vo {KdF-Volkswagen}, n° 003/018/028 (1939), e Dc 663 {Erholung, Urlaub, Ausflüge}, n° 146-1988-019-16 (ca. 1938-1944), cfr. Baranowski, Strength through Joy, pp. 162-198. 65. Cfr. Mauri, Romani di razza, pp. 129-153. 66. Grazie a una cooperazione tra l’agenzia Karl Höffkes, lo Yad Vashem e lo United States Holocaust Memorial Museum (USHMM) diversi di questi cortometraggi sono ora

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sparenti potevano assumere dei connotati antisemiti, vista l’onnipresenza dell’antico stereotipo del mercante imbroglione in stile Shylock o dell’avido affarista nella propaganda fascista e nazista.67 Come hanno sottolineato gli storici Frank Bajohr e Pamela Swett, l’antisemitismo si trasformò dunque in una vera e propria strategia di vendita, che partiva dal rimarcare il carattere nazionale dei prodotti per arrivare al boicottaggio e all’espropriazione degli esercizi commerciali ebraici.68 Questo non significa che le réclame tedesche o italiane fossero fino a quel momento rimaste immuni dal diffondersi di rappresentazioni razziali, sviluppatesi in diversi paesi europei e negli Stati Uniti a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento.69 Già prima della Prima guerra mondiale, l’arte commerciale aveva infatti visto la proliferazione di immagini orientaliste e razziali – dal famoso “moretto” del cioccolato Sarotti alle chinoiseries e alle nere figure stilizzate di Federico Seneca per la Buitoni-Perugina.70 Nel corso degli anni Venti, prima di diventare il più famigerato illustratore della propaganda nazista, Ludwig Hohlwein era diventato una celebrità sia in Europa che negli Stati Uniti grazie ai suoi manifesti pubblicitari, in cui la gerarchia razziale tra neri e bianchi regnava sovrana.71 Un ottimo esempio è la pubblicità per la schiuma da barba Kaloderma, apparsa sulla copertina disponibili online, cfr. Werbefilm der Meierei C. Bolle/Berlin für Milch in Flaschen (Tonfilm), https://youtu.be/vUwG6PAiBow (ultimo accesso 8 novembre 2022). 67. Cfr. in particolare Lamberty, Reklame in Deutschland, pp. 431-443 e Swett, Selling under the Swastika, pp. 49-50. Cfr. anche Reuveni, Consumer culture, pp. ix-x. 68. Gli appelli a comprare tedesco o italiano iniziarono a diffondersi soprattutto dal 1932/1933, per diventare una costante di molte delle pubblicazioni di entrambi i paesi a partire dal 1935, cfr. ad esempio lo slogan ricorrente Kauft nur bei Deutschen! apparso su «Der Stürmer», annata 1936, p. 12; cfr. Bajohr, No Volksgenossen, pp. 45-65 e Swett, Selling under the Swastika, p. 69. 69. Cfr. in particolare Ciarlo, Advertising Empire e Zagatti, Colonialismo e razzismo, pp. 2-37. Cfr. anche Le rappresentazioni dei neri nell’età moderna. 70. Cfr. Pinkus, Bodily Regimes, pp. 22-81 e Triulzi, L’Africa come icona, pp. 255281. Cfr. ad esempio CGBC, n° 0500675843, Pastina glutinata Buitoni, ca. 1928; n° 0500675847, Cacao Perugina. due figure femminili portano cesti con semi di cacao, ca.1929-1930. L’evoluzione iconografica è evidente nel confronto con le opere precedenti, cfr. ad esempio CGBC, n° 0500668902, Cioccolato al latte Perugina. giovane uomo di colore e giovane donna bianca danzano insieme, 1925 e Archivio Perugina, fondo Seneca, collezione di pubblicità. 71. Cfr. Sennebogen, Propaganda als Populärkultur?, p. 136 e Ludwig Hohlwein 1874-1949, pp. 23-28 e 203 ss. Ciarlo offre un’ottima analisi della sua iconografia razziale, cfr. Ciarlo, Advertising Empire, pp. 294-297.

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del «Leipziger Illustrierte Zeitung» nell’agosto del 1924, in cui un bianco colono si rade guardandosi in uno specchio tenuto da un adolescente nero, decisamente sproporzionato rispetto all’adulto,72 o una vignetta del 1930 in cui una colona consiglia l’uso del Persil esclamando: «pover’uomo, così nero! Provi un po’ con questo!» (fig. 28).73 Come sottolineato dallo storico David Ciarlo, questa proliferazione di immagini commerciali fortemente razzializzate contribuì a familiarizzare e in una certa misura a legittimizzare la successiva introduzione di immagini razziste e antisemite presso il pubblico tedesco (e italiano).74 Nel contesto della Germania nazista, i continui rimandi alla bianchezza immacolata della Dama bianca del Persil o della carnagione di chi usava un certo tipo di crema o di dentifricio assunsero una valenza razziale, che rimase tuttavia per lo più sottintesa – senza però rinunciare a occasionali immagini ben più crude di “selvaggi” africani che cercavano di sbiancare la propria pelle facendo il bagno o addirittura bevendo i detergenti della Henkel, pubblicate sull’organo interno della compagnia.75 In Italia, se già la conquista della Libia del 1912 aveva dato notevole impulso a questo tipo di réclame, fu sull’onda dell’euforia nazionalista e imperialista che accompagnò l’aggressione dell’Etiopia che la pubblicità cosiddetta coloniale entrò nella sua fase più intensa, caratterizzandosi per una progressiva razzializzazione del linguaggio e dell’iconografia pubblicitaria.76 A partire dal 1935 lo spazio mediterraneo e imperiale costituirà infatti un aspetto sempre più presente nel panorama pubblicitario, non solo a livello di immaginario ma anche di mercato – come dimostrato dalle parabole dell’UPI e della Manzoni & C. Negli annunci, i soggetti neri venivano generalmente rappresentati come figure rassicuranti o bonarie, dalla carnagione scurissima, intente a servire o a imparare dai coloni, italiani dalla bianchezza smagliante – basti pensare al celebre manifesto per il Ramazzotti al seltz di Gino Boccasile, in cui i tratti della cameriera 72. Cfr. Poiger, Imperialism and Empire in Twentieth-Century Germany, p. 131. 73. La vignetta fu pubblicata sull’organo del personale dell’azienda Henkel, produttrice del Persil, cfr. Swett, Selling under the Swastika, pp. 205-206. 74. Cfr. Ciarlo, Advertising Empire, pp. 323-324. 75. Cfr. P. Maywald, Mohrenwäsche: Eine Betrachtung über Reinlichkeit der Neger in den afrikanischen Kolonien Deutschlands, «Blätter vom Hause», 19, n° 5 (1939), pp. 188-192, citato in Wiesen, Creating the Nazi Marketplace, p. 92. 76. Cfr. Giuliani, Lombardi-Diop, Bianco e nero, pp. 57-60 e 82-98. Cfr. anche Cinotto, Gastrofascismo e impero, pp. 53-57 e Righettoni, Bianco su nero, pp. 75-77.

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erano quasi irriconoscibili, fatta eccezione per il suo luminoso sorriso e il sensuale seno scoperto (fig. 29).77 La marcata sessualizzazione e commercializzazione del corpo femminile che fecero la fortuna di Boccasile emergevano con particolare forza nel caso di donne nere, il cui corpo veniva mostrato senza veli, sempre di proporzioni rigorosamente inferiori rispetto alle figure bianche.78 Come sottolineato da Lucia Piccioni, fu proprio «il coesistere nella percezione popolare di multiformi immagini di donna sia come oggetto del desiderio che di disprezzo» ad assicurare la tenacia del razzismo negli anni di consolidamento del regime.79 Presentati come antitetici e privi di autonomia, spesso in secondo piano, in una prima fase i soggetti neri non furono rappresentati in maniera antagonistica, bensì paternalistica o accondiscendente – dai servizievoli bambini portantini delle tende Moretti, sempre di Boccasile,80 all’etiope in tunica bianca e all’italiano in camicia nera che seminavano insieme l’arida terra sotto gli auspici di un’imponente aquila delle Assicurazioni generali, di Marcello Dudovich.81 Uno degli annunci di Boccasile per Moretti è particolarmente rappresentativo in tal senso: due coloni, armati, si abbassano con fare premuroso verso quattro bambini neri che si sono riparati nella loro tenda (senza tuttavia mai mettersi alla loro altezza). Se i piccoli sono ritratti più come cartoni animati che persone, dall’espressione quasi più incuriosita che spaventata, la colona è per una volta protagonista dell’azione – pur senza intaccare la supremazia del maschio bianco – con un notevole ribaltamento in cui il target dello sguardo voyeuristico non è più la donna ma i bimbi neri (fig. 30).82 Soprattutto a partire dal 1937, quando la violenza razzista del regime iniziò a manifestarsi sempre più apertamente, questo paternalismo appa77. Cfr. CGBC, n° 0500652412, Amaro Felsina Ramazzotti al seltz, giovane donna e servetta nera che porta un vassoio con bottiglie e bicchiere, ca. 1936. 78. Cfr. anche CGBC, n° 0500674962, Amaro Felsina Ramazzotti. donne di colore in villaggio con capanna con bottiglie di amaro, 1935. Ann Laura Stoler ha sottolineato come sia l’autorità dell’impero che le distinzioni razziali fossero strutturate secondo chiare gerarchie di genere, cfr. Stoler, Carnal Knowledge, pp. 41-42. Cfr. anche O’Grady, Olympia’s Maid, pp. 174-187. 79. Piccioni, Images of Black Faces, pp. 375-396: 392. 80. Cfr. CGBC, n° 0500652405, Ettore Moretti. tre bambini neri che portano sulla testa una canoa e due tende, ca. 1936. 81. Cfr. Falabrino, Effimera & bella, p. 141. 82. Cfr. Archivio storico, Fondazione Fiera di Milano, n° catalogo 40294, Pubblicità prodotti Ettore Moretti, aprile 1936.

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rentemente “bonario” lasciò il posto a gerarchie di “civiltà” sempre più estreme, come nella pubblicità per gli impermeabili Marfor, in cui una bianca coppia borghese al riparo dalla pioggia è giustapposta a una coppia nera seminuda che cerca di ripararsi sotto una foglia di banano (fig. 31).83 Come ci ricorda Cristina Lombardi-Diop, nel 1937 il Minculpop aveva inviato direttive molto chiare riguardo ai direttori di giornali umoristici, sottolineando come la stampa «può e deve combattere l’ibridismo di razza facendo apparire come inferiori fisicamente e moralmente le razze di colore».84 Il razzismo di Boccasile mostrerà poi tutta la sua ferocia nei manifesti di propaganda da lui creati per i Nuclei propaganda della Repubblica Sociale Italiana, che toccheranno degli abissi di abiezione razzistica e antisemita insuperati fino a oggi.85 Dopo il 1945 Boccasile avrebbe creato una versione “estiva” del manifesto Marfor, in cui le gerarchie iconografiche, sociali e razziali, anche se meno violente, rimanevano immutate.86 All’esotismo della Belle époque subentrarono dunque rappresentazioni volte ad evocare una netta gerarchia razziale nonché sociale tra colonizzati e colonizzatori, emblema visivo di quel tentativo di costruzione di una identità italiana basata sulla presunta bianchezza e “arianità” della cosiddetta “razza italica”, che accompagnò sia la gestione dell’impero, con le dure sanzioni contro le coppie miste e la progressiva segregazione, che la promulgazione delle Leggi razziali.87 È proprio nei mesi dell’ottobre-novembre del 1938 che si registra infatti l’insorgere di temi esplicitamente antisemiti nella pubblicità a stampa italiana. Un esempio che primeggia su tutti è la campagna per le macchine da scrivere Everest della Serio, «prodotto puramente italiano» che si appellava all’«orgoglio di razza» dell’«italiano di oggi [che] ha una coscienza di razza, perciò preferisce prodotti fabbricati da organizzazioni inquadrate con spirito fascista e razzista» (fig. 32).88 Nel ricorrere ad alcu83. Il Catalogo generale dei Beni Culturali usa la dicitura “primitivi”, senza commentare, cfr. CGBC, n° 0500652777, Marfor. coppia di sposi con cappello e impermeabile sotto la pioggia battente, a destra una coppia di primitivi seminudi si ripara abbracciandosi sotto una foglia di banano, 1940. 84. Giuliani, Lombardi-Diop, Bianco e nero, p. 93. 85. Cfr. Biribanti, Boccasile, pp. 216-246. Cfr. ad esempio CGBC, n° 0500670472, USA $ 2. soldato americano abbraccia la Venere di Milo; n° 0500659763, soldato americano di colore trafuga oggetti da una chiesa mentre un crocifisso cade a terra. 86. Cfr. CGBC, n° 0500672028, Ventilado Marfor. coppia sorridente cammina al sole sotto lo sguardo di una famiglia africana che si ripara sotto un parasole, ca. 1952. 87. Cfr. Giuliani, Lombardi-Diop, Bianco e nero, p. 85. 88. Cfr. anche Mauri, Romani di razza, p. 141 ss.

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ni dei più beceri leitmotiv della propaganda antisemita, come il presunto “complotto giudaico” per indebolire la “razza italiana”, un altro annuncio titolava: «siate razzisti», esortando a dare «un taglio netto alla rete tesa da coloro che attentano alla nostra integrità spirituale ed economica» e scegliere «l’unica macchina per scrivere costruita e venduta da un’organizzazione che annovera fra i suoi componenti soltanto italiani di razza».89 In molti altri casi, gli annunci si limitarono a rimarcare il carattere italiano o tedesco dei prodotti, senza ricorrere esplicitamente a parole d’ordine antisemite. Come ci ricorda Ilaria Pavan, pochi mesi dopo, nell’aprile del 1939, la pubblicità a stampa fu poi interdetta alle imprese e agli esercizi commerciali appartenenti agli ebrei, anche quelli discriminati.90 Anche nel settore pubblicitario italiano si ricorse dunque a una strategia parallela di affossare le imprese di proprietà ebraica da un lato ed esaltare le industrie autoproclamatesi “ariane” dall’altro, attraverso quella commistione di ideologia ed opportunismo che caratterizzò l’esclusione dei cittadini di origine ebraica sia dalla sfera pubblica che da quella privata. È necessario sottolineare che annunci di questo tipo rimasero in netta minoranza, sia in Italia che in Germania, dove pubblicità esplicitamente antisemite fecero la loro comparsa soprattutto quando si trattava di pubblicizzare film o pubblicazioni di propaganda – basti pensare agli abietti manifesti per L’ebreo errante, famigerato lungometraggio del 1940, o agli annunci per una serie di sedicenti trattati, tra cui Il vero volto di Giuda, pubblicizzato sulle pagine di «Der Stürmer», settimanale ferocemente antisemita fondato nel 1923 da Julius Streicher, o Come il giudaismo ha preparato la guerra, di Giovanni Preziosi, apparso su «La Difesa della razza» nel febbraio del 1940.91 Queste pubblicazioni violentemente antisemite non si discostavano in realtà molto da altre pubblicazioni di natura propagandistica per quel che riguardava la sezione pubblicitaria, rivelando una notevole presenza di campagne statali e collettive, come quelle per le polizze dell’Istituto nazionale delle assicurazioni o per lo zucchero, e per prodotti come la Radioba89. Un taglio netto, «Il Giornalissimo», 28 ottobre 1938, p. 5, riprodotto in Pavan, Le conseguenze economiche delle Leggi razziali, p. 106. 90. Cfr. ivi, p. 97. 91. Cfr. Judas wahres Gesicht, «Der Stürmer», n° 1 (1936), p. 12; Come il giudaismo ha preparato la guerra, «La Difesa della razza», 3, n° 7 (1940), p. 4. Sulla centralità della componente visiva nella propaganda antisemita cfr. Matard-Bonucci, L’image, figure majeure du discours antisémite?, pp. 27-39.

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lilla o la radio del Volk, entrambi pubblicizzati con annunci redazionali che ne esaltavano la convenienza e proponevano piani di acquisto a rate dei set radiofonici. La maggior parte delle réclame rimase tuttavia di natura apparentemente apolitica o di evasione, spaziando dalle réclame per le crociere Lloyd triestino o Hapag agli annunci locali per la famosa birreria Hofbräu di Monaco o le salsicce di Josef Pachmayr fino a vari tipi sigarette – a volte pubblicizzate da fumatrici donne. Perfino nel caso della già menzionata macchina da scrivere Everest, che iniziò ad esser pubblicizzata su «La Difesa della razza» nel 1940, gli annunci non contenevano alcun riferimento razzista. Il che fa presupporre che la campagna esplicitamente antisemita dell’ottobre/novembre del 1938 fosse stata creata per cavalcare l’onda della legislazione discriminatoria – come nel caso delle già menzionate réclame nazionalistiche della Cirio, diffuse in corrispondenza del lancio delle sanzioni nell’autunno del 1935.92 Le cose tuttavia cambieranno notevolmente con l’inasprirsi del conflitto mondiale, quando la réclame per il frigorifero FIAT cederà il passo a manifesti guerrafondai a piena pagina che illustravano la produzione di carrarmati e aerei da guerra dell’industria torinese, o la riconversione bellica della Montecatini e delle acciaierie Breda. È dunque evidente che l’esplicita razzializzazione dei contenuti pubblicitari originò principalmente da un auto-allineamento delle imprese o dei pubblicitari, in cui ideologia e opportunismo andavano a braccetto. Secondo Jonathan Wiesen, più che una conscia strategia, si trattò di far ricorso a pregiudizi condivisi sia dai pubblicitari che dai consumatori.93 Il persistere di réclame di natura prevalentemente apolitica, oltre a rivelare il chiaro fallimento dei progetti di nazionalizzazione totalitaria delle frange più intransigenti del Consiglio pubblicitario e del Minculpop, è tuttavia indicativo di tre aspetti fondamentali. Si trattava, prima di tutto, di un massiccio finanziamento alla stampa (o addirittura direttamente alla dirigenza) fascista e nazista, che ne sostenne i virulenti contenuti editoriali – nel caso di «Der Stürmer», ad esempio, di proprietà di Streicher stesso, il numero speciale del maggio 1934 dedicato ai presunti «omicidi rituali» commessi a danno dell’«umanità non-giudea» e corredato di immagini a dir poco ripugnanti consisteva di ben 7 pagine di annunci (su 20), che ne avevano 92. Cfr. ad esempio Everest – è robusta, è veloce, è economica, «La Difesa della razza», 3, n° 12 (1940), p. 2. 93. Cfr. Wiesen, Creating the Nazi Marketplace, p. 92.

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sovvenzionato la pubblicazione.94 Non dobbiamo inoltre dimenticare che, per quanto apolitici potessero essere i contenuti pubblicitari, essi erano parte integrante di pubblicazioni caratterizzate da testi e immagini di una violenza inaudita, vendute ad edicole vicino alle quali campeggiavano muri tappezzati di manifesti che esortavano a non rubare il pane dalla bocca dei bambini,95 cinegiornali o stazioni radio in cui risuonavano messaggi intrisi di quella sopraffazione, di quel razzismo e di quel disprezzo per la vita e l’opinione altrui che costituirono i tratti distintivi ed essenziali dei fascismi. Ne consegue – e questo è l’aspetto più rilevante – che queste réclame, oltre a finanziare le pubblicazioni di regime, ne normalizzarono i contenuti, dando un’apparenza di normalità e quotidianità alla repressione politica e alla persecuzione razziale, e rassicurando i lettori attraverso l’illusione di un comfort ad uso esclusivo dei membri della comunità razziale fascista e nazista. Se una tirata contro i nemici dei fascismi veniva pubblicata accanto alle réclame di un bel paio di calze o di un comodo salotto borghese, queste ultime sortivano l’effetto di normalizzare i contenuti editoriali dell’articolo, rinforzando al tempo stesso l’esclusività dell’accesso ai consumi reclamizzati, presenti o futuri che fossero. In ciò consisteva l’aspetto effettivamente fascista (e nazista) di questo comfort, nel suo determinare chi avrebbe avuto il diritto di accedere a determinati consumi e servizi, escludendo tutti gli altri in base a criteri politici, razziali e sociali basati sull’ideologia.96 Un’altra componente fondamentale della sfera commerciale del tardo fascismo fu proprio la segregazione degli spazi di consumo, dai negozi vietati ai “non-ariani” al centro urbano di Asmara, interdetto agli eritrei nella fase fascista della colonizzazione, fase in cui la possibilità di poter esercitare queste pratiche sociali definiva l’appartenenza alla comunità razziale fascista e nazista.97 Ciò era particolarmente visibile nella seconda macro-categoria di prodotti, quelli dall’alto significato simbolico. Le réclame che mostravano un 94. Ritualmord Sondernummer, «Der Stürmer», numero speciale del maggio 1934, pp. 14-20. 95. Cfr. Villari, Il segno delle avanguardie, p. 40 ss. 96. Per una panoramica del dibattito sul paragone tra razzismo coloniale e antisemitismo riguardo al tema della partecipazione e dell’esclusione sociale cfr. Axster, Arbeit, Teilhabe und Ausschluss, pp. 121-133. Olivieri ha parlato del tentativo di «creare un modello di consumo che esalti l’italianità», senza sottolinearne gli aspetti esclusivi, cfr. Olivieri, I consumi nel periodo tra le due guerre mondiali, p. 28. 97. Vorrei ringraziare Uoldelul Chelati Dirar per aver portato alla mia attenzione quest’ultimo aspetto, che attende ancora di essere esaminato a fondo.

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marcato assorbimento (esplicito o implicito) dell’ideologia dei fascismi, pur costituendo una parte notevole della produzione pubblicitaria di quegli anni, non erano che una faccia della medaglia. Anche nel caso di prodotti concepiti per un consumo di massa, le réclame continuarono infatti a giocare su una concezione nettamente individualistica delle aspettative materiali dei consumatori, servendosi di un ventaglio molto più ampio di tematiche, modulate in base al genere, al livello di istruzione e al reddito dei destinatari. La differenza più marcata sembra dunque essere consistita nell’evidente divario tra le réclame rivolte ai ceti medio-bassi e a quelli abbienti, che caratterizzò tanto la stampa italiana quanto quella tedesca, almeno fino ai primi anni della guerra. Questa pletora di modelli apparentemente contraddittori, oltre a indicare il parziale fallimento delle visioni corporative e totalitarie dei fascismi, non costituì una vera minaccia per ampi settori della dirigenza fascista e nazista, che anzi si mostrarono sorprendentemente indulgenti nel permettere ai pubblicitari e alle aziende di coltivare le aspirazioni di benessere dei cittadini “ariani”, a patto che assicurassero loro un certo livello di acquiescenza. Per quanto l’individualismo e il consumismo venissero spesso bollati come degenerazioni “borghesi” e “giudee”, contrarie allo spirito di unità spirituale e razziale da raggiungere attraverso l’abnegazione, anche materiale, e il sacrificio, questa retorica si trovò a convivere con una crescente enfasi sui premi – materiali, oltre che spirituali – che avrebbero atteso i membri della comunità razziale nella nuova era totalitaria. 4. L’esclusività dei consumi nell’era dei fascismi Sfogliando pubblicazioni apertamente politicizzate come «La donna fascista» o la «NS-Frauen-warte», appare evidente che ancora nel 1938 le pubblicità spaziavano dalle campagne collettive per il riso, il rayon o il Lanital alla promozione di beni per la casa come quelli Cirio o Dr. Oetker, fino a un’ampia gamma di prodotti di bellezza, quali la Nivea, i saponi Palmolive, o le creme Diadermina, che rappresentarono uno dei settori più in crescita di quegli anni. Presenti anche su riviste ad ampia circolazione come la «Domenica del Corriere», grazie al loro stile moderno le réclame Diadermina costituiscono un ottimo esempio di quella cultura commercializzata che trovò le sue origini proprio nel tardo fascismo. Il marchio, fondato a Parigi nel 1903 dai fratelli Giovanni Battista e Cornelio Bonetti

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come Bonetti Frères e inizialmente specializzato in sostanze farmaceutiche, fece la sua fortuna con la produzione della crema da viso Diadermina, alla quale ben presto si aggiunsero altri articoli (tra cui la cipria, il talco, il dentifricio e la crema per le mani).98 A partire dal 1962 i prodotti Diadermina diverranno poi noti come Deborah Milano, uno dei colossi della cosmesi italiana. Nelle sue réclame, Diadermina ricorreva ad una serie di tecniche che sarebbero poi state impiegate su larga scala nel secondo dopoguerra, prima fra tutte l’utilizzo di testimonial, scelte soprattutto tra le attrici del cinema hollywoodiano di quegli anni (fig. 33). I prodotti Diadermina venivano pubblicizzati con eleganti foto di scena, a volte alquanto provocanti, o di avvenenti giovani truccate all’ultima moda, ritratte nelle situazioni più varie – pronte per avventurarsi sulla neve o avvolte in sensuali vesti di seta (fig. 34). Piccole foto del prodotto accompagnavano i brevi testi, che esortavano le lettrici a «aumentare il fascino» e a «procurar[si] quella bellezza di colorito naturale che è il sogno di tutte le donne», con l’uso dei prodotti della ditta, che «aggiunge distinzione, perfeziona l’eleganza, diffonde quella seduzione, che ispira e concilia tutte le simpatie».99 Si trattava insomma proprio di quelle immagini di donne provocanti, “ambiziose” ed “egoiste” tanto invise al Consiglio pubblicitario e al Minculpop, che avevano bandito l’uso del rossetto e più in generale di trucco e pettinature “artificiose” o di immagini troppo provocanti e “antidemografiche” – standard ai quali era peraltro particolarmente difficile attenersi nel pubblicizzare cosmetici in maniera efficace. Nonostante l’evidente discostarsi dai modelli di femminilità propugnati dal regime, tali immagini non vennero mai censurate – proprio come non lo furono le famose signorine della rivista «Grandi Firme» di Boccasile.100 Contrariamente alle varie leggende metropolitane a riguardo, nell’ottobre 1938 il periodico creato da Pitigrilli e diretto da Cesare Zavattini non fu chiuso per la procacità delle sue copertine ma per aver pubblicato un racconto, intitolato «Fame» e ambientato in Italia, in cui un padre uccideva i suoi 98. Cfr. MR, FDV, b. 37, Cosmetici e prodotti per toilette. Parte del materiale visionato è conservato al Centro per la cultura d’impresa di Milano, dove è in fase di catalogazione. Ringrazio Rossella Pastoressa e Gabriella Cameran per la loro disponibilità. 99. Cfr. MR, FDV, b. 76, Prodotti per toilette, inclusi gli annunci Cipria Diadermina, Diadermina – magica crema per la pelle, Il tempo non conta per la crema Diadermina, Dentrifricio Diadermina, “Crema sportiva” Diadermina. 100. Cfr. anche Gundle, Bellissima, pp. 82-92.

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due figli dopo la morte per stenti della madre perché non riusciva più a sfamarli.101 Una cruda verità, nell’Italia del fascismo, che il regime volle mettere a tacere a tutti i costi. Anche in questo caso, le pubblicità di Boccasile rappresentano un ottimo esempio del proliferare di réclame che proponevano modelli femminili decisamente più sensuali ma anche di evasione, descritti da Paola Biribanti come una commistione tra i «gusti femminili della Milano bene e le fantasie segrete dell’italiano medio»102 – come nel caso della campagna per le calze Mille aghi Franceschi, che ancora nel 1941 facevano capolino dalle quarte di copertina di riviste come «Grazia» (fig. 35).103 La réclame non fu che una componente di questa più ampia strategia di evasione finalizzata a stimolare l’acquiescenza delle masse, ma ne costituì un aspetto essenziale. Dal cinema dei telefoni bianchi alle riviste illustrate disseminate di réclame fino ai grandi eventi come la Fiera del Levante, era un mondo che stava insegnando alle italiane e agli italiani a consumare, o meglio a sognare di poter prendere parte a una futura società dei consumi, che non necessariamente sarebbe stata democratica, tutt’altro. Rivelatori in tal senso erano alcuni dei cinegiornali Luce che illustravano le Fiere campionarie dell’epoca. In occasione della Fiera di Milano del 1937, ad esempio, che si sviluppava su «quasi 100.000 metri quadrati di superficie», in aggiunta al padiglione sulle fibre tessili nazionali, con tanto di eleganti calze in bella mostra, e ai macchinari agricoli, «che tanti primati hanno conquistato all’Italia», il giornale Luce diede ampio rilievo al «trionfo della pubblicità», incarnato da un’iniziativa della Buitoni-Perugina.104 Le due ditte, ai tempi consociate, erano presenti con un grande padiglione su cui campeggiava la sagoma del Saracino, la figurina più ricercata del già menzionato concorso radiofonico dei Quattro moschettieri, con un bambino in braccio. Tra un tripudio di bambolotti, cicogne e gadget commerciali ante litteram, «l’originale manifestazione» aveva indetto un concorso per i suoi visitatori «con cospicui premi di nuzialità e natalità» per «affianca[re] simpaticamente la campagna demografica del regime», inclusi 100.000 lire di premi in contanti e la possibilità di nutrire gratuitamente per un anno 1.000 101. Cfr. Biribanti, Boccasile, p. 81. 102. Ivi, p. 248. 103. Mille aghi Franceschi, «Grazia», XVI, n° 144 (1941), quarta di copertina. 104. Archivio Storico Istituto Luce, giornale Luce, codice filmato n° B 107908, 18° Fiera di Milano, 21 aprile 1937, minuto 01:10.

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bambini.105 Ancora una volta risulta evidente come il mondo del commercio giocò un ruolo fondamentale nel normalizzare ed avvicinare la propaganda di regime a considerevoli fette della popolazione, attraverso un sodalizio tra consumi e fascismo che si rivelò tutt’altro che antitetico, almeno in questa fase. Simili agli annunci Diadermina, anche se decisamente meno provocanti, erano le pubblicità per la Scherk, una delle case cosmetiche tedesche di maggior successo e fra i maggiori clienti della Società per la pubblicità commerciale, che inizierà a pubblicizzarla anche in Italia dalla seconda metà degli anni Trenta. Già nel 1936, secondo una ricerca di marketing condotta da «Werben und Verkaufen», la Mystikum era la cipria più utilizzata dalle donne tedesche, con il 92% delle preferenze.106 Per le modelle della Scherk, truccate di tutto punto e ben consapevoli del loro fascino, «basta uno sguardo», come recitava lo slogan della Società di Fritz Solm (fig. 36).107 Alquanto rappresentative del tipo di inserzione indirizzate alle donne del ceto medio, le réclame Scherk erano molto apprezzate dai professionisti del settore per la loro efficacia. La rivista «Werben und Verkaufen» apprezzò in particolare la scelta di una fotografia tecnica che descriveva i vantaggi del prodotto in maniera «dettagliata e scientifica», illustrando l’uso della «tavolozza Scherk» per poter acquistare la sfumatura di rossetto che meglio si intonasse all’incarnato e ai capelli dell’acquirente.108 L’ACME o la Società per la pubblicità commerciale non erano certo le uniche imprese a ispirarsi ai modelli pubblicitari statunitensi, facendoli propri. Già nel 1929, Luigi Barzini aveva osservato come l’Italia fosse «bombardata» di réclame statunitense, come abbiamo visto.109 Dettate da una forte preoccupazione per l’ascesa culturale (oltre che economica) degli Stati Uniti, le parole di Barzini erano alquanto rivelatrici di ciò che per la fine degli anni Venti era diventato uno dei tratti distintivi della stampa italiana, oltre che di quella tedesca: la notevole presenza di réclame che pub105. Cfr. Archivio storico, Fondazione Fiera di Milano, Campionaria 1937, Viale della scienza – Folla di visitatori, fotografie n° 1937_258, 1937_276, e Veduta esterna del padiglione della Perugina, n° 1937_550, 1973_551. 106. Cfr. Wer kennt die meisten Markennamen?, «Werben und Verkaufen», n° 5 (1936), p. 167. 107. Cfr. la campagna Ein Blick genügt, comparsa su diverse pubblicazioni, inclusa «Filmwelt», n° 1 (1938) e «Die Dame» per tutto il 1937. 108. Rundschau, «Werben und Verkaufen», n° 12 (1937), p. 525. 109. ACS, Minculpop, Gabinetto, b. 314, fasc. Report n. 78, USA, s.fasc. 9, citato in Anania, Tosatti, L’amico Americano, p. 29.

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blicizzavano prodotti statunitensi, o quantomeno si rifacevano agli stessi modelli di consumo.110 Un ottimo esempio in tal senso era rappresentato dal colosso statunitense Palmolive-Colgate, che nonostante la Grande depressione avrebbe rappresentato una costante del panorama pubblicitario italiano e tedesco degli anni Trenta, riempiendo le quarte pagine del «Berliner Illustrirte Zeitung», della «Domenica del Corriere» e perfino de «La donna fascista». Lanciato nel 1927 dalla filiale milanese dell’agenzia statunitense Erwin Wasey & Co, la ERWA, diretta da una nostra vecchia conoscenza, Nino Caimi, l’azienda statunitense riuscì ad assicurarsi una presenza cospicua e costante sulla stampa italiana ben oltre la chiusura dell’agenzia.111 Le pubblicità Palmolive e Colgate si rivolgevano sia ai consumatori che alle consumatrici, reclamizzando una serie di prodotti per la cura della persona, dal sapone alla crema da barba fino al dentifricio, attraverso un ampio ventaglio di tecniche, che spaziavano da accattivanti quadri colorati a piena pagina a brevi storie a fumetti – una delle tecniche statunitensi più in voga a quei tempi, da quando le ricerche di mercato avevano stabilito che le strisce di fumetti erano la sezione più letta dei quotidiani (fig. 37).112 Come indicato da Barzini, ancora negli anni Trenta i prodotti Palmolive venivano reclamizzati come realizzati in Italia, a Genova. I saponi erano tra gli articoli pubblicizzati più di frequente, appartenendo a una delle pochissime categorie di beni che a metà anni Trenta avrebbero potuto aspirare a una ampia distribuzione. Nel caso della Palmolive, una saponetta costava 1,40 lire (0,35 lire in meno delle confetture Cirio), per salire a 2,20 lire nel 1938.113 Come da manuale, le réclame Palmolive erano modulate a seconda del ceto e della funzione sociale dei destinatari: immagini di bambini paffuti e allegri si appellavano direttamente alle madri; i richiami a conservare una carnagione giovanile per essere ammirata (e infine sposata) alle giovani donne delle classi medie; i ritratti di sensuali e inarrivabili femmes fatales destinati a sollevare i timori “anti-demografici” del regime alle signore del bel mondo (fig. 38).114 Argomentazioni e immagini molto simili avrebbero caratterizzato un vero e proprio stuolo di pubblicità di 110. Cfr. Ellwood, The Shock of America, pp. 159-161. 111. Cfr. MR, FDV, b. 76 e 154, Prodotti per toilette. 112. Cfr, DUHC, JWTA, JWT Grisman papers, b. 1. Gli annunci apparvero su diversi quotidiani, cfr. ad esempio L’olio d’oliva apportatore di giovinezza, «La Stampa», 18 aprile 1939, p. 2. 113. Cfr. La vostra carnagione vi preoccupa?, «La Stampa», 4 ottobre 1938, p. 4. 114. Cfr. MR, FDV, b. 76 e 154, Prodotti per toilette.

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diverse ditte concorrenti, fra cui il sapone Sador.115 Oltre alla convenienza e alla desiderabilità, il tema centrale delle réclame Palmolive sembrava essere la ricerca della felicità, intesa in questo caso come realizzazione delle proprie ambizioni matrimoniali, secondo quello che sarebbe assurto a leitmotiv della pubblicità statunitense (e non solo) (fig. 39).116 Nei quotidiani le pubblicità Palmolive erano spesso accompagnate da lunghi testi, secondo il classico stile editoriale, e da immagini spesso provocanti, di chiara provenienza statunitense. In un primo tempo il linguaggio risultava un po’ artificioso, probabilmente frutto di una traduzione diretta di réclame create all’estero. Questa pratica – uno dei cavalli di battaglia della mission civilisatrice del capitalismo statunitense – partiva dal presupposto che i bisogni di consumo fossero universali, e potessero dunque essere invogliati dalle stesse campagne, senza prestare attenzione al contesto culturale e linguistico dei destinatari. Tale strategia si rivelò spesso fallimentare, come nel caso della prima filiale italiana della JWT, che aprì i battenti a Milano nel 1927 per richiuderli poco dopo.117 Nel caso della Palmolive, che si adoperò per adattare quanto prima le proprie réclame al pubblico italiano (almeno dal punto di vista linguistico), i diretti riferimenti al sogno americano sembrano invece aver influito positivamente sulla loro efficacia. La diffusione a macchia d’olio delle réclame della ditta nel biennio 1938-1940, a fronte di un rialzo del prezzo, fa infatti supporre che le vendite fossero aumentate. Quel che è certo è che fare appello a quella comunità globale di aspiranti consumatori che guardava sempre più all’American way of life sembrava già allora avere una certa presa. Ciò valeva non solo per le dive del cinema o le dame dell’alta società, ma anche per le madri dei ceti medi. Interessante è il caso della campagna incentrata sulle cinque gemelle canadesi Dionne, testimonial d’eccezione della Palmolive in tutto il mondo, in cui le foto delle «sorelline» – il primo caso documentato di cinque gemelli sopravvissuti all’infanzia – erano accompagnate dai consigli del loro famoso medico.118 Apparentemente fuori contesto, queste testimonial riscossero in realtà un grande successo, diventando oggetto di lunghi arti-

115. Cfr. Ecco il vostro sapone, «La Stampa», 31 luglio 1939, p. 3. 116. Cercate la felicità?, «Domenica del Corriere», 41, n° 19 (1939), p. 4. 117. Cfr. Gaudenzi, Commercial Advertising in Germany and Italy, pp. 95-110. 118. OH! Invidiate la nostra bella carnagione?, «La Stampa», 21 febbraio 1939, p. 3.

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coli nella stampa italiana, che esaltavano la prolificità e le umili origini dei genitori, temi particolarmente cari alla propaganda fascista.119 Se le pubblicità Diadermina, Scherk e Palmolive spopolavano sulle riviste illustrate e femminili dei ceti medi dei tardi anni Trenta, sulle pubblicazioni rivolte alle élites dominavano réclame per prodotti di bellezza che puntavano su scelte estetiche spesso più classiche – disegni a piena pagina di leggiadre figure dai colori sgargianti e da uno stile formale a volte esotico o comunque ricercato – e decisamente più sensuali, proiettando un’immagine quasi eterea di lusso e di evasione. La già menzionata Gi.Vi. Emme era alquanto esemplare in tal senso, in quanto incarnava quella concezione prettamente visiva (o “artistica”) della réclame ancora molto diffusa in Italia, traendo ispirazione da alcuni dei marchi esteri più consolidati, come la Elizabeth Arden o l’allora francese Coty.120 Su queste pubblicazioni spiccavano le réclame che facevano appello a quell’alta «borghesia globale» che stava assumendo dei tratti sempre più transnazionali, mostrando più punti di contatto con i propri omologhi di classe provenienti da altre nazioni che con i ceti meno abbienti del proprio paese.121 Ciò era visibile soprattutto nel caso di prodotti di grande prestigio, come alcuni marchi di sigarette, automobili, orologi o profumi, veri e propri status symbol indicativi non solo di un certo tenore di vita ma spesso anche dell’appartenenza alle élites cosmopolite di tutta Europa. A prima vista, erano questi i beni che si conciliavano più difficilmente con i progetti totalitari dei fascismi, sia in virtù del loro carattere cosmopolita che per l’evidente rifiuto di superare (o quanto meno stemprare) marcate differenze di classe a favore di un’ipotetica unità politica e razziale. In realtà, tuttavia, l’indulgenza verso le élites, vecchie e nuove, fu una delle realtà dei fascismi, e l’accesso selettivo a determinati consumi ebbe un peso non trascurabile.122

p. 5.

119. Cfr. ad esempio Le cinque gemelle del Canadà, «La Stampa», 27 aprile 1935,

120. Cfr. MR, FDV, b. 107, 108, Gi.Vi.Emme. 121. Cfr. The Global Bourgeoisie, pp. 1-40. 122. Sulla questione delle élites industriali e politiche durante il nazionalsocialismo e nel secondo dopoguerra cfr. Erker, Industrieeliten in der NS-Zeit e Frei, Karrieren im Zwielicht. Per i legami tra le élites del capitalismo liberale e il fascismo cfr. Mattei, The capital order, pp. 206-245. Gabbuti ha recentemente ricordato che le misure fiscali del primo fascismo erano indirizzate prima di tutto alle élites economiche, cfr. Gabbuti, Those Who Were Better Off, p. 2 ss.

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Per quanto ciò potesse sembrare contrario ai piani corporativistici del regime, l’accesso a consumi di lusso (a patto che fossero nazionali) costituì infatti un importante meccanismo d’integrazione delle élites, oltre che di normalizzazione e di stabilizzazione. Questa strategia tuttavia non teneva conto del fatto che riconvertire questi modelli di consumo in senso nazionalistico, svuotandoli dei loro contenuti, avrebbe comportato dei cambiamenti strutturali volti a sostenere i consumi privati che i fascismi scelsero di non attuare, proiettati come furono verso la militarizzazione e l’economia bellica. Fu questa la causa del fallimento, non una presunta inconciliabilità a priori tra consumi e fascismi. Un ottimo esempio è rappresentato dalla prestigiosa acqua di Colonia 4711, rinomata sia in Germania che in Italia già agli inizi degli anni Trenta, che si sarebbe mantenuta fedele al proprio immaginario visivo e simbolico fino a guerra inoltrata. Nota in tutta Europa, con la sua bottiglietta d’oro e acqua marina, il marchio N° 4711 era emblema di raffinatezza e distinzione, immancabile nelle abitazioni della Firenze bene, dove era situata la filiale italiana della casa madre tedesca.123 Oltre all’originale acqua di Colonia, la ditta commercializzava una crema per il viso e un sapone, tutti ampiamente reclamizzati sia sulle riviste illustrate che sui quotidiani tedeschi e italiani. Prodotti presentati a volte come «una piccola stravaganza», ma ideali per soddisfare anche i clienti più esigenti grazie a «i più alti requisiti in termini di finezza, fragranza e qualità», tratti distintivi dell’azienda.124 Nelle riviste illustrate, la 4711 si affidava a provocanti ritratti di donne dai colori pastello, a pagina intera, attraverso scelte grafiche (e comportamentali) molto più in sintonia con i suoi concorrenti francesi o d’oltreoceano che con le réclame tedesche destinate alle classi medie (fig. 40). Le modelle 4711 venivano immortalate in varie occasioni mondane, in viaggio o in déshabillé, ricorrendo a illustrazioni che spesso giocavano apertamente la carta del fascino e della seduzione. La consumatrice ideale della 4711 era ben consapevole del proprio fascino e della propria eleganza, e non lo nascondeva. Attraverso un classico approccio soft sell, il prodotto veniva presentato come uno strumento essenziale per poter realizzare i propri sogni di consumo tra una soirée elegante e l’altra. Anche gli annunci pubblicati sui quotidiani, pur essendo di dimensioni più ridotte, in bianco e nero 123. Cfr. ad esempio Sempre piena di briosa vivacità – grazie alla 4711!, «La Stampa», 22 ottobre 1938, p. 7. 124. Eine kleine Extravaganz?, «Die Dame» (1938), sezione annunci.

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e dalla sensualità meno esplosiva, non facevano eccezione, dipingendo un favoloso mondo di agio e raffinatezza, animato da automobili di lusso, collier di perle, viaggi in treno e serate di gala (fig. 41).125 Dalle pagine di «Die Dame» o della «Domenica del Corriere», le immagini del N° 4711 si affidavano non soltanto ai meccanismi di emulazione e auto-rappresentazione tipici della pubblicità, ma anche al potere seduttivo di un tipo di sensualità femminile sempre più in voga, che, come avevano sottolineato gli elementi più intransigenti, quali la «NS-Frauenwarte», non mostrava poi significative differenze con gli anni di Weimar, fatta forse eccezione per qualche treccia bionda in più. Nel complesso, la notevole differenza non solo visiva ma anche di contenuti tra queste réclame e le quelle rivolte al ceto medio, come nel caso della cipria Mystikum della Scherk, poteva apparire il risultato diretto del contrasto tra il soft sell e lo stile editoriale, amplificato dai grandi formati e dai colori sgargianti. Ma c’era di più. Sulle riviste per l’alta società, le figure femminili sfoggiavano un erotismo e una sicurezza di sé inconcepibili nelle pubblicazioni rivolte ai ceti medi, anche in quelle più alla moda. Questo edonismo permeava completamente questo tipo di periodici, e continuò a rappresentarne il carattere distintivo persino dopo lo scoppio della guerra, come vedremo. Estremamente simili erano le pubblicità per alcuni tipi di automobili o di sigarette, particolarmente interessanti, vista la manifesta volontà di osteggiare il fumo nella popolazione femminile da parte dei fascismi. Mentre addirittura fino all’aprile del 1943 dalle pagine de «La Difesa della razza» l’UPI si affidava a eleganti signore truccate intente a fumare le sigarette alla menta Mentòla, «dal gusto fresco e delizioso» (fig. 42),126 nel caso delle austriache Nil, uno dei clienti di punta della Dorland, le réclame apparse su «Die Dame» si affidavano a sinuosi disegni di signore in barca a vela, sulla spiaggia o alle corse (fig. 43).127 Oltre a esibire significative somiglianze con i loro corrispettivi europei, e in certa misura anche con i loro predecessori e successori, la stragrande maggioranza delle campagne indirizzate ai ceti abbienti non mostrarono alcuna traccia di una naziona125. Cfr. MR, FDV, b. 154, Prodotti per toilette. 126. Sigaretta Mentòla, «La Difesa della razza», I, n° 6 (1938), p. 6. 127. Le campagne Nil vennero lodate anche da «La pubblicità d’Italia», cfr. La pubblicità su riviste di lusso in Germania, «La Pubblicità d’Italia», n° 33-34 (1940), pp. 4043. Sul consumo di sigarette ed alcolici durante il nazionalsocialismo cfr. Lewy, A Sober Reich?, pp. 1179-1195.

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lizzazione dei loro contenuti o del loro immaginario, che rimase ancorato a un’idea estremamente esclusiva e individuale di lusso. Le campagne 4711, particolarmente apprezzate dalle riviste di settore, ricevettero anche gli elogi de «La Pubblicità d’Italia», organo del Sindacato nazionale fascista agenzie e case di pubblicità, che nell’autunno del 1938 dedicò quasi 10 pagine alle réclame di diverse ditte tedesche di cosmetici, prima fra tutte la 4711. Nel lodare queste réclame senza mezzi termini, il periodico descrisse con soddisfazione l’evoluzione subita dalla pubblicità tedesca durante il Terzo Reich, dove immagini piene di «grazia decorativa» avevano rimpiazzato quelle delle avanguardie grafiche degli anni Venti, «grandi macchie di colore […] con certe maiuscole più solide di un macigno».128 Tale cambiamento, secondo la rivista, era «senza dubbio alcuno» dovuto al fatto che il settore pubblicitario tedesco si stava finalmente ispirando alle creazioni dei pubblicitari italiani. Per quanto l’accento nazionalistico costituisse l’aspetto più rilevante di questo reportage, indicativo anche del crescente livello di scambio tra il mondo pubblicitario italiano e quello tedesco, è altresì importante rilevare un giudizio così positivo su campagne che divulgavano modelli di consumo improntati al lusso e alla sensualità da parte di una redazione che era composta da alcuni dei gerarchi di punta del regime. L’esclusività dei consumi sembrava esser diventata un tratto desiderabile della futura società fascista, a patto che fosse riservata ai fedeli sostenitori delle due dittature. Ciò era vero sia per le classi medie che per le élites, la cui partecipazione veniva sollecitata attraverso meccanismi apparentemente opposti ma complementari. Mentre il celebre manifesto di Dudovich per la FIAT Balilla prometteva di offrire l’«eleganza della Signora» «per tutti» (fig. 44),129 illudendo di rendere accessibili alle masse consumi fino a quel momento riservati alle classi agiate, pagine e pagine di patinate réclame rassicuravano queste ultime sul perdurare di un mondo di facoltosa eleganza a loro uso esclusivo. Per quanto con la progressiva militarizzazione del paese la retorica del sacrificio si sarebbe nuovamente intensificata, fino alle estreme conseguenze, a partire dai primi anni Trenta tali appelli furono dunque affiancati (e integrati) da altrettanti rimandi a un mirabile mondo di futuri consumi, ad 128. Nuovi orientamenti della pubblicità tedesca, «La Pubblicità d’Italia», 2, n° 1516 (1938), pp. 57-65. 129. Cfr. CGBC, n° 0500675284, La nuova Balilla per tutti, circa 1934.

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uso esclusivo dei membri politicamente e razzialmente graditi al fascismo. Una specie di carota, che, affiancata al bastone – anzi, al manganello – avrebbe dovuto convincere gli italiani a partecipare alla costruzione di una violenta ed esclusiva società dei consumi, in Italia così come nelle colonie. Pur con alcune, notevoli eccezioni, la réclame continuò a focalizzarsi sul consumatore, cosa che le permise di rendere più efficaci i propri appelli, modulandoli in base a posizioni e funzioni sociali ben precise. Nel caso di réclame finalizzate a pubblicizzare prodotti per la casa ai ceti medi, gli annunci mostrarono un notevole assorbimento del linguaggio e dell’immaginario dei fascismi, che tuttavia si fece decisamente più tenue non appena ci si allontanava dal focolaio domestico, o ci si rivolgeva alle classi più abbienti. Questa tendenza si accentuò ulteriormente nel caso di beni di evasione o di lusso, che perfino dopo l’inizio della guerra continuarono a pubblicizzare un futuro onirico di divertimenti e di privilegio, da cui sarebbero stati fermamente esclusi i perseguitati politici e razziali. Come si spiega il perdurare di una simile molteplicità di immagini e suggestioni nella réclame dell’era cosiddetta totalitaria? È indubbio che le frange più intransigenti registrarono un fallimento nel loro tentativo di imporre una nazionalizzazione in tutto e per tutto dei contenuti pubblicitari. Queste voci tuttavia non erano che una delle correnti interne a entrambi i regimi, alle quali si affiancarono coloro che, spesso su impulso dei pubblicitari stessi, concepirono la pubblicità – o meglio, i consumi che la réclame prometteva – come un ottimo strumento di integrazione (oltre che di distrazione) di diversi gruppi sociali attraverso una concezione prettamente esclusiva dei consumi. Questa constatazione, mentre non sminuisce certo le feroci intenzioni totalizzanti dei fascismi, mette in evidenza i limiti del concetto di totalitarismo nel descrivere la realtà di entrambe le dittature. Se la battaglia per la nazionalizzazione ebbe risultati quantomeno parziali sia per motivi strutturali che di consenso, ciò significa anche che l’effettiva fascistizzazione o razzializzazione dei contenuti pubblicitari, quando avvenne, fu frutto non solo delle imposizioni dall’alto del regime ma anche di una scelta consapevole da parte dei pubblicitari o delle aziende stesse. La crociata per la nazionalizzazione dei contenuti pubblicitari non riuscì dunque a intaccare in maniera sostanziale l’operato delle piccole imprese del settore, le quali, fintanto che aiutarono a mantenere una parvenza di benessere futuro, non incontrarono particolari difficoltà, purché – e questo è fondamentale – non si avvalessero della collaborazione di professionisti perseguitati per motivi politici o razziali. Nonostante il ruolo fondamen-

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tale attribuito alle réclame a partire dai primi anni Trenta, ancora alla fine di quel decennio l’incoerenza regnava sovrana tanto sulla stampa tedesca quanto su quella italiana. Ciò fu, almeno in parte, dovuto all’impossibilità di trovare un accordo sulle misure da attuare senza danneggiare l’industria, ma soprattutto alla natura policratica e al divario tra “volontà totalitaria” e realtà che caratterizzò entrambi i regimi. Mentre l’epurazione della professione pubblicitaria fu implacabile, dunque, sul piano formale la réclame rimase per lo più dominio dei pubblicitari e continuò ad attenersi ai princìpi di efficacia suggeriti dall’arte del vendere, a patto che stimolassero un certo livello di acquiescenza da parte degli aspiranti consumatori. Persino in un ambito tanto delicato come la rappresentazione femminile, la pubblicità continuò dunque a proporre una rosa di modelli molto diversi fra di loro, che più che contraddire il contenuto degli editoriali che comparivano al loro fianco, lo normalizzarono. La funzione stabilizzante delle réclame sarebbe diventata ancor più necessaria con il netto peggioramento delle condizioni materiali della popolazione, alle quali tentarono di supplire i consumi virtuali, proiettando la soddisfazione di bisogni anche basilari in un futuro tanto prossimo quanto intangibile. Ancora agli inizi del 1942, pur senza trascurare i consigli su come cucinare i surrogati ed integrare le misere razioni giornaliere, le riviste femminili italiane e tedesche dedicavano numerose pagine alla creazione di abiti da sera e di cappelli alla moda, per non parlare della mole di inserzioni dedicate ai cosmetici, spesso non più disponibili sul mercato.130 Sarà solo l’inasprirsi del conflitto a riuscire laddove gli oltranzisti del Consiglio pubblicitario e del Minculpop avevano fallito: l’evasione lascerà infatti il posto alla durissima realtà del reclutamento bellico. Al posto delle vamp seduttrici comparvero così immagini di donne in fabbrica o mentre svolgevano mansioni specializzate, con indosso abiti più pratici e un trucco molto meno evidente, intente a fare la loro parte sul fronte interno per assicurare la vittoria dell’Asse. La pubblicità dei prodotti per toilette Kaloderma apparsa sulle riviste per donne benestanti rappresenta un ottimo esempio a riguardo. Fino al 1941 la Kaloderma era ricorsa a un ricco ventaglio di modelli, spaziando dalla “bambola mondana” alla casalinga devota e giocando sulla sensualità e sull’eleganza che contraddistinse questo tipo di annunci, sia in Germania che in Italia. Con il peggiorare della situazione bellica le cose tuttavia cambia130. Cfr. Ceserani, Vetrina del Ventennio, p 214.

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rono radicalmente, e la Kaloderma, come diverse altre ditte, si adattò «alle esigenze di una grande era» attraverso una serie di réclame che si avvalevano di un inedito realismo, sottolineando come «ogni donna, ma specialmente le donne che lavorano […] hanno bisogno di un prodotto per la cura della pelle efficace e razionale» «da utilizzare con parsimonia» (fig. 45).131 L’intento, oltre che di continuare a vendere, era quello di mantenere il marchio ben presente nella mente delle consumatrici: «come prima, i nostri prodotti vengono ancora distribuiti, anche se al momento in quantità più limitate». L’aspetto più importante tuttavia era il modo in cui queste réclame si richiamavano alla campagna per il reclutamento del lavoro femminile, ritraendo queste donne mentre svolgevano mestieri che fino a quel momento il regime aveva destinato esclusivamente agli uomini e per cui vi era adesso un estremo bisogno di forza lavoro: «così come è ovvio che ogni donna oggi faccia del suo meglio per sostituire il marito negli affari e nelle imprese, è altrettanto ovvio che non dimentichi la cura razionale e sensata della pelle», recitava un altro degli annunci (fig. 46).132 Le donne venivano ritratte con un trucco molto più leggero e i capelli raccolti, in fabbrica o perfino al microscopio, il che implicava un notevole livello di competenze scientifiche ed era perciò indirizzato soprattutto alle donne dei ceti istruiti. Tutto ciò tuttavia non durò a lungo. Entro l’inverno del 1943 più dell’80% dei pubblicitari tedeschi erano stati arruolati nella Wehrmacht, e salvo rare eccezioni la maggior parte delle pubblicità a stampa cessarono nel corso del 1944.133 Per quanto riguarda l’Italia fascista, invece, le pubblicità erano già notevolmente diminuite alla fine del 1942, per poi cessare quasi del tutto nel corso dei successivi due anni.

131. Kaloderma Kosmetik – Jede Frau, «Die Dame» (1942), sezione annunci 132. Kaloderma Kosmetik – Ebenso selbstverständlich, «Die Dame» (1942), sezione annunci. 133. Cfr. Moments of Consistency, p. 75.

Epilogo Da un futuro di benessere alla guerra totale

Quando Herbert Bayer decise di lasciare la Germania, nell’autunno del 1938, l’epurazione dell’industria pubblicitaria tedesca e italiana era entrata nella sua fase più brutale. Nonostante la parziale infiltrazione di motivi nazionalisti e razzisti, la maggior parte delle pubblicità aveva continuato ad affidarsi a tematiche individualistiche, considerate più efficaci sia dagli addetti ai lavori che da alcuni settori delle gerarchie fasciste e naziste. La Dorland non faceva eccezione. Sotto la guida di Richard Roth, succeduto a Bayer, l’agenzia si occupava ora quasi esclusivamente di réclame commerciali, con una predilezione, come in passato, per i prodotti di lusso – come le auto NSU/FIAT, le calze Rogo o le sigarette Nils. Facendo leva su aspirazioni private attraverso la tecnica del soft sell, le pubblicità della Dorland svolgevano particolarmente bene quella funzione stabilizzante accordato loro da entrambi i regimi nel più ampio tentativo di ottenere il consenso o quanto meno l’acquiescenza politica di diversi strati di popolazione. Nei tardi anni Trenta, le pubblicità della Dorland – così come di molte altre imprese – si arricchirono inoltre di sempre più frequenti rimandi a un ipotetico futuro di benessere, frutto del tentativo da parte dei fascismi di dar forma materiale a una visione dell’avvenire che promettesse prosperità e benessere solo ed esclusivamente ai membri della comunità nazista e fascista, una volta conquistato il loro “spazio vitale”.1 Tale approccio, che trascendeva gli immediati fini commerciali della réclame, 1. Mentre Alexander Schug ha parlato della propensione della pubblicità dell’era nazista a mostrare una costante tendenza al miglioramento, Shelley Baranowski ha sottolineato l’importanza delle promesse per il futuro implicite nelle attività della KdF durante la guerra, cfr. Schug, „Deutsche Kultur‟ und Werbung, p. 239 e Baranowski, Strength through Joy, p. 199 ss.

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derivava ancora una volta dal combinato disposto delle iniziative di singoli pubblicitari o aziende e del Consiglio pubblicitario dell’economia tedesca. Reclutati nella Wehrmacht già nell’autunno del 1939, nei primi anni del conflitto Roth e i suoi collaboratori riuscirono a portare avanti l’attività dell’agenzia con discreto successo, dal momento che agli inizi del 1943 la Dorland figurava ancora fra le principali aziende pubblicitarie della capitale tedesca.2 Furono anni in cui alcune delle imprese più spregiudicate, come la UPI o la Società per la pubblicità commerciale, riuscirono a trarre notevoli profitti dall’espansione territoriale dell’Asse Roma-Berlino-Tokyo. L’avvento della Seconda guerra mondiale segnò il momento di maggiore trasformazione dell’iconografia pubblicitaria sia in Italia che in Germania. Le aziende reagirono seguendo tre strategie principali: alcune delle industrie pesanti impegnate nello sforzo bellico trasformarono le proprie pubblicità in veri e propri manifesti di propaganda – basti pensare agli annunci a tutta pagina della FIAT, delle acciaierie Breda o della IG Farben. Diverse aziende produttrici di beni di consumo mantennero le loro finalità commerciali, adattandosi alle mutate esigenze dei consumatori, come nel caso delle creme Kaloderma per il lavoro in fabbrica o dei pacchi Dr. Oetker da inviare al fronte. Gran parte delle altre, infine, lasciarono sostanzialmente invariate le proprie réclame, continuando a pubblicizzare sigarette e vacanze, anche se con toni più dimessi. La tecnica di adattarsi alle nuove circostanze fu adottata soprattutto dalle aziende tedesche, che in molti casi continuarono a pubblicizzare i propri prodotti anche quando non erano in realtà più disponibili sul mercato, o lo erano in quantità insufficienti.3 Il fine era duplice: tenere vivo il nome del marchio e instillare un senso di normalità nella mente dei (passati e soprattutto futuri) consumatori per sostenere il fronte interno. Tale metodo – promettere il raggiungimento (o il ritorno) di certi comfort materiali una volta vinta la guerra – venne impiegato con successo decisamente maggiore da molte aziende britanniche e statunitensi, che puntarono a sottolineare l’eccezionalità di questi sacrifici, strategia che nel lungo termine si rivelò più sostenibile e dunque più efficace.4 2. Cfr. Berliner Adreßbuch, 1943, Teil II, p. 750 e Moments of Consistency, p. 73. 3. Questa tecnica verrà poi ripresa senza soluzione di continuità nell’immediato dopoguerra, cfr. Saryusz-Wolska, Labentz. Bilder der Normalisierung, p. 46 ss. 4. Cfr. in particolare Fasce, Pubblicitari e PR, pp. 80-97 e Clampin, ‘Not the least of all’, pp. 119-144.

Epilogo

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Emblematiche in tal senso erano le réclame per le radio Philips, affidate alla Dorland a partire dal 1938. Attiva fin dal 1926, la filiale tedesca della multinazionale olandese Philips era fra le maggiori produttrici di radio del Terzo Reich. Nel novembre del 1939, le filiali tedesche e austriache della ditta, ora raggruppate nella Alldephi, l’Amministrazione generale tedesca Philips srl, furono riconvertite alla produzione bellica.5 L’azienda, in collaborazione con la sua sussidiaria produttrice di valvole radio, la Valvo, decise tuttavia di continuare a reclamizzare i propri articoli al grande pubblico attraverso una campagna ideata dalla Dorland per l’annata 1939-1940. Affidandosi al consueto stile editoriale, le réclame mettevano in bella mostra il famoso marchio a forma di scudo adottato dalla casa madre nel 1938. A differenza di gran parte delle pubblicità per apparecchi radiofonici diffuse in tempo di pace – incluso uno dei precedenti clienti della Dorland, le radio Schaub – gli annunci non contenevano alcuna immagine del prodotto in sé, concentrandosi piuttosto sul prestigio e la desiderabilità del marchio Philips.6 I testi, sempre abbinati a un’illustrazione ma più corposi del solito, esortavano gli aspiranti acquirenti ad «avere un po’ di pazienza» per la durata della guerra, perché «per una Philips vale la pena».7 Oltre ad esaltare l’eccellenza tecnica e la fama mondiale del prodotto, come da consuetudine, le réclame erano concepite per presentare l’interruzione della produzione commerciale in chiave positiva, come un breve intervallo durante il quale l’azienda stava facendo preziose «esperienze» che avrebbero portato a un ulteriore miglioramento degli apparecchi. Alcuni degli annunci si rivolgevano direttamente ai distributori per rassicurarli riguardo agli impegni presi con i propri clienti, sottolineando come l’azienda fosse al momento impegnata in questioni di vitale importanza ed esortandoli ad «attendere il giorno in cui potrete nuovamente soddisfare tutti i loro desideri Philips».8 Altre pubblicità facevano appello ai consumatori in maniera ancora più esplicita (fig. 47): Una breve attesa significa grandi vantaggi. Perché proprio adesso (che Philips si dedica a compiti più importanti), si stanno acquisendo molte esperien5. Sulle attività della Philips durante la Seconda guerra mondiale cfr. Korusawa, Wubs, Swiss and (Anglo)-Dutch Multinationals, pp. 41-44. 6. Cfr. Bauhaus-Archiv Berlin, Studio Dorland, Berlin, annunci per gli apparecchi radio Schaub. 7. Ivi, Philips… auf den Ton kommt es an!, 1939/1940. 8. Ivi, Was Philips kann, weiß jedermann!, 1939/1940.

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ze che in futuro valorizzeremo a vostro vantaggio. […] Lo vedrete voi stessi: una breve attesa significa grandi vantaggi, non per niente si dice: è il suono Philips a fare la musica!9

Oltre a mantenere il marchio della ditta ben presente nella sfera pubblica, annunci come questo normalizzavano il nuovo contesto bellico, senza nominarlo direttamente, proiettando sui consumatori l’impressione che il meglio doveva ancora venire, nel tentativo di tenere alto il morale sul fronte interno. Anche la Beiersdorf, produttrice dei famosi prodotti Nivea, non fu da meno. Ampiamente pubblicizzata non solo in Germania ma in tutta Europa (Italia inclusa), la Beiersdorf rappresenta un caso particolarmente interessante nel panorama pubblicitario del Terzo Reich a causa della violenta campagna antisemita a cui fu sottoposta già poco dopo l’ascesa al potere dei nazionalsocialisti.10 Benché soltanto l’1% dei suoi impiegati e dei suoi membri del consiglio direttivo fossero di origine ebraica, le concorrenti “ariane” e in seguito anche «Der Stürmer» lanciarono una feroce crociata contro la ditta, esortando i consumatori a non fare uso dei suoi prodotti e denunciando le sue pubblicità come «giudee»: «Il Volk tedesco non tollererebbe che in Germania le compagnie giudee competano con gli uomini d’affari tedeschi, tagliandosi i capelli alla tedesca, mentre all’estero cercano di spodestarli, andandosene in giro con i loro crespi riccetti giudei».11 Entro la fine di aprile, cinque membri del consiglio direttivo erano stati costretti a dimettersi, e a metà maggio 1933 la Beiersdorf fu dichiarata un’azienda interamente tedesca. La ditta non perse tempo neanche nel dimostrare che le sue pubblicità avevano incarnato l’ideale di bellezza femminile tedesca già prima della nomina a Cancelliere di Hitler.12 Negli anni successivi, le sue réclame divennero uno degli esempi maggiormente apprezzati non solo dalle riviste di settore ma anche nei discorsi ufficiali. Presentate come l’emblema della nuova propaganda educativa, le pubblicità Nivea venivano lodate soprattutto per le loro figure femminili, che in linea con gli ideali propaganda9. Il motto finale è un gioco di parole basato su un comune modo di dire, la cui traduzione libera è «non conta cosa dici ma come lo dici», Bauhaus-Archiv Berlin, Studio Dorland Berlin, Ein wenig warten bedeutet viel Vorteil…, 1939/1940. 10. Cfr. Bajohr, Szodrzynski, Keine jüdische Creme mehr benutzen!, p. 516. 11. Citato ivi, p. 520. 12. Cfr. Swett, Selling under the Swastika, pp. 69-70.

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ti dal Consiglio pubblicitario nazista raffiguravano bionde e sane giovani dall’aspetto naturale mentre praticavano sport all’aria aperta o prendevano il sole. Ancora nel 1938, l’annuario degli annunci pubblicitari esemplari stilato dal portavoce del Consiglio pubblicitario, Arnold Brugger, specificava: «le réclame della Nivea rivelano una superlativa padronanza della materia. Ne sono caratteristiche principali le belle foto, non banali, i testi efficaci e una struttura precisa».13 Con l’inizio del conflitto e fino alla primavera del 1941 le pubblicità Nivea non subirono grandi mutamenti, continuando a pubblicizzare i propri prodotti nonostante iniziassero a scarseggiare (fig. 48). A volte gli annunci erano corredati di una scritta in caratteri minuti che specificava che le creme dovevano essere usate con parsimonia, o che non erano in realtà più disponibili sul mercato. Il «Die Deutsche Werbung», organo ufficiale della NSDRW, apprezzò molto questa decisione, sottolineando che la società Beiersdorf non si trovava in condizioni migliori rispetto ad altre; le materie prime scarseggiavano. […] Era appropriato continuare a far pubblicità, in queste circostanze? […] Se si voleva che il nome Nivea rimanesse impresso nelle menti dei consumatori, non trovare questo nome sui quotidiani e sulle riviste per tutta l’estate avrebbe potuto arrecare un danno […] dunque non ci furono dubbi; [gli addetti] avrebbero continuato a far pubblicità, anche se non era “realmente” necessario o sarebbe potuto sembrare persino assurdo a un osservatore superficiale.14

Stando alla rivista, le «réclame realizzate nell’estate bellica del 1940 […] sono esempi di pubblicità educativa nel vero senso della parola», in grado di supplire all’urgente necessità di «insegnare ai consumatori come utilizzare il prodotto con parsimonia». Il fine ultimo di questi «illustri esempi di pubblicità edificante» dunque era «non tanto vendere, quanto orientare la domanda». L’articolo ricordava come le réclame Nivea avessero sempre ricordato alle consumatrici di evitare un’esposizione prolungata al sole, concludendo che «ora possiamo fare di necessità virtù».15 Con l’inasprirsi del conflitto, tuttavia, la crescente penuria di materie prime e di carta rese sempre più insostenibile questa strategia. Già nel gennaio del 1942, Goebbels sottolineò nuovamente quanto fosse controproducente continuare a reclamizzare prodotti non più disponibili sul mercato, 13. Brugger, Die Anzeigen in der Wirtschaft, p. 185. 14. Ratenweise braun werden, «Die Deutsche Werbung», 33, n° 17-18 (1940), p. 597. 15. Ivi, p. 598.

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motivo che lo porterà a scontrarsi con il suo pupillo Heinrich Hunke, presidente del Consiglio pubblicitario.16 Dal canto suo, fino agli inizi del 1942 il Minculpop si era affidato al consueto profluvio di veline per celare le ormai insostenibili privazioni che assillavano gran parte della popolazione, nel tentativo di mantenere una sempre più fragile facciata di normalità. Se già nel dicembre del 1940 il Ministero intimava di «non toccare l’argomento delle cosiddette code davanti ai negozi», alquanto difficili da ignorare a chiunque camminasse per strada, nel gennaio del 1942 fu imposto il «divieto assoluto […] di accennare in qualsiasi modo alla possibilità di prossimi provvedimenti per la limitazione della produzione del commercio di oggetti d’arredamento, ceramiche, vetri, pellicce ecc.», nella speranza di non intaccare ulteriormente il morale delle classi medio-alte.17 A partire dall’estate del 1942 non fu tuttavia più possibile nascondere le condizioni di totale indigenza in cui versava il paese. Si tentò dunque di limitare i danni, ad esempio vietando di associare il concetto di autarchia fascista a prodotti di scarsissima qualità, onde evitare di comprometterne definitivamente la nomea: «in Germania sono state date disposizioni per impedire che si dia l’appellativo di tedesco ai surrogati. Così pure si deve fare in Italia con l’aggettivo “autarchico”, che non dev’essere usato neanche nella pubblicità per indicare nuovi prodotti».18 Nel frattempo, entro la primavera del 1942 gran parte delle aziende tedesche e italiane avevano ridotto significativamente la propria presenza pubblicitaria, ricorrendo alle cosiddette «réclame di valore» (Wertreklame), piccoli annunci di solo testo finalizzati a ricordare al pubblico i pregi dell’azienda o del marchio, piuttosto che reclamizzare singoli prodotti.19 Alcune aziende decisero invece di congedarsi dai propri clienti, a volte in grande stile, come nel caso del detersivo Fewa, prodotto di punta dell’industria chimica Böhme Fettchemie, di Chemnitz. Reclamizzato attraverso il personaggio di Johanna, amichevole massaia in miniatura con i capelli raccolti in una crocchia e tanto di grembiule, il Fewa aveva riscosso notevole successo fin dal suo lancio, nel 1935, grazie alla sua provenienza tedesca ed efficacia – il prodotto era infatti capace di lavare senza restringere i capi delicati e perfino i tessili surrogati, notoriamente difficili da lavare. 16. Cfr. Goebbels, Die Tagebücher, Teil II, Vol. 3, p. 122 (16 gennaio 1942). 17. Cassero, Le veline del Duce, pp. 52, 80. 18. Ivi, p. 82. 19. Swett, Advertising and Consumers, p. 190 ss.

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Inizialmente osteggiato dalla categoria delle lavanderie a secco, il prodotto godeva del sostegno del Consiglio pubblicitario in virtù della provenienza tedesca di tutti i suoi componenti.20 Nel 1942, la compagnia commissionò un cartone animato di tre minuti intitolato Non ti scordar di me, ambientato all’interno di un cinema, dal cui schermo usciva Johanna per illustrare al pubblico il contributo bellico della fabbrica ed esortarlo ad aver pazienza – con tanto di canzone, intonata da tutti i presenti – promettendo che sarebbe tornata presto, ancora più efficace di prima.21 Da quel momento in poi, gli spazi pubblicitari diminuirono sempre più, e agenzie come la UPI o la Dorland si trovarono a corto di collaboratori, dal momento che gran parte dei pubblicitari erano ormai impegnati al fronte o sfollati a causa dei bombardamenti – sempre che non fossero stati precedentemente estromessi dalla legislazione antisemita, come Carlo Momigliano, o spediti al confino, come Guido Mazzali. I diversi destini di alcuni dei pubblicitari di spicco dei due paesi mettono in risalto una delle principali differenze fra il fascismo e il nazismo in campo pubblicitario (e non solo). Mentre in Germania l’auto-epurazione del mestiere pubblicitario era stata portata a termine entro il 1939, al più tardi, rendendo in parte superfluo sorvegliare i singoli professionisti, in Italia il processo di fascistizzazione della categoria si attuò su diversi piani nel corso di un arco temporale molto più esteso, raggiungendo l’apice nel 1942, quando anche quel poco e fragile consenso fabbricato dal regime si stava ormai sgretolando sotto il peso dei bombardamenti e della miseria più nera. Ciò non era dovuto a una presunta minore volontà coercitiva del fascismo, sia beninteso. Abilissima nello sfruttare il potenziale repressivo (oltre che finanziario) del mezzo pubblicitario fin dagli inizi del Ventennio, la dittatura fascista fu pronta nel tacitare qualunque opposizione e nell’escludere i professionisti di origine ebraica e gli avversari politici, ma lo fece, almeno in una prima fase, affidandosi a canali repressivi “tradizionali” piuttosto che ad istituzioni create ad hoc.  Con il proseguire del disastro bellico, le sempre più profonde divisioni interne al fascismo e il rapido cedimento del fronte interno lasciarono qualche spiraglio al riemergere di voci discordanti, che in rari casi riuscirono a contrapporsi agli imperterriti sostenitori del modello nazista come la Guida 20. Cfr. ivi, pp. 157-160. 21. Cfr. Vergissmeinnicht, Werbefilm 1942 (35 mm), https://youtu.be/iWURfEWhehg (ultimo accesso 6 dicembre 2022), a cura dell’agenzia Karl Höffkes, dello Yad Vashem e dell’USHMM.

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Ricciardi. Tra queste spiccava il già menzionato economista Libero Lenti, professore di statistica alla Bocconi e tra i fondatori del Partito d’Azione, che nella primavera del 1942 espresse la necessità di esercitare una maggiore autonomia di analisi rispetto a «concetti già elaborati dai tedeschi», in particolare quello di spazio vitale, interpretato come «una idea-forza» che necessitava «di una nuova formula sostitutiva, più aderente alla nostra psicologia e ai nostri interessi».22 L’anno successivo anche Hunke sarebbe arrivato al confronto aperto con il suo mentore Goebbels, ma si trattò di un conflitto di natura strategica e non ideologica, dal momento che tutti i membri del Consiglio pubblicitario erano convinti sostenitori o fiancheggiatori del regime. Sarà infine con il lancio della guerra totale nel febbraio del 1943, in seguito alla disfatta di Stalingrado, che gran parte delle attività pubblicitarie verranno bruscamente interrotte, a cominciare dai piani di dominio del Comitato italo-germanico. Oltre a costituire un importante mezzo di finanziamento e di censura, a partire dalla metà degli anni Trenta la pubblicità rivestì un’importanza sempre maggiore agli occhi di entrambi i regimi come strumento di fabbricazione del consenso.23 Pur con tutte le contraddizioni e i distinguo del caso, dovuti alle differenze ideologiche e strutturali fra le due dittature, il regime nazista svolse un ruolo pionieristico già a partire dal 1933, assurgendo a modello per la dittatura fascista nel momento in cui le sanzioni della Società delle Nazioni e la crociata autarchica richiesero un netto riorientamento dei consumi in senso nazionalistico. Il settore pubblicitario fu peraltro uno dei primi in cui la competizione fra i due paesi cedette quasi subito il passo allo scambio e all’influenza reciproca, che sfoceranno in una crescente compenetrazione di tematiche e di intenti già prima della creazione dell’Asse Roma-Berlino. Il motivo di tale sintonia era semplice. Sia che si concepisse la pubblicità come una forza irresistibile o, secondo le più avanzate teorie psicotecniche, come uno strumento per guidare i consumatori verso la soddisfazione dei propri bisogni personali, il mezzo pubblicitario prometteva di adempiere a tre funzioni fondamentali: normalizzare, stabilizzare e integrare. Componente essenziale di quelle politiche di «allettamento e 22. Libero Lenti, Idee per l’ordine nuovo, «L’Ufficio Moderno», 17, n° 6 (1942), pp. 174-175. 23. Shelley Baranowski ha addirittura parlato di «acquisto del consenso», cfr. Baranowski, Strength through Joy, p. 175 ss.

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privazione»24 che caratterizzarono non solo il nazionalsocialismo ma anche il fascismo, le suggestioni pubblicitarie normalizzavano la realtà brutale e repressiva dei regimi dandole una patina di comfort e rispettabilità. Così facendo, esse sortivano a un importante effetto stabilizzante, come ha evidenziato Dirk Reinhardt, che agiva in parallelo piuttosto che in contrasto con la propaganda politica, rivolgendosi agli individui nella loro sfera privata e quotidiana. Fabbricare un senso di appartenenza, o quanto meno un certo livello di acquiescenza politica, attraverso il (futuro) accesso a un determinato tipo di consumi – ad uso esclusivo dei membri della comunità fascista e nazista – era uno dei modi più efficaci per integrare diversi gruppi sociali nella macchina dei fascismi. Era proprio nel carattere esclusivo di questa concezione di comfort materiale, nell’arbitrario determinare chi avrebbe avuto modo di accedere a certi consumi e servizi, escludendo tutti gli altri in base a criteri politici, sociali o razziali, che consisteva l’aspetto effettivamente fascista (e nazista) di questo modello di consumo. Ciò non significa che i fascismi abbandonarono le loro istanze antiindividualistiche e anti-borghesi, che non cessarono mai di costituire la costante ideologica di ampi settori di entrambi i regimi. A partire dai primi anni Trenta, tuttavia, tali posizioni vennero affiancate sempre più spesso da ripetuti appelli a consumare alla maniera fascista o nazista, che promettevano l’accesso a determinati consumi, di tipo rigorosamente nazionale.25 Tale tendenza, come ha ricordato Hartmut Berghoff, era parte di una ben più ampia strategia: Da un lato, la popolazione viveva in un paese in cui il consumismo moderno aveva fatto passi da gigante. Dall’altro, doveva misurarsi con un’ideologia che traboccava di antimodernismo. […] La protezione dell’ambiente e l’ascetico anti-consumismo venivano promosse da un partito che costruiva un avanzato sistema di autostrade […]. In questo quadro offuscato, le promesse di un mondo nuovo e migliore votato ai consumi di massa, anche se non vennero quasi mai mantenute, costituirono un elemento fondamentale della doppia strategia di “persuadere e terrorizzare” di Hitler.26

Ciò era particolarmente vero nel caso di beni e servizi ad alto contenuto simbolico, come le automobili o il tempo libero, che, pur rimanendo 24. Berghoff, Enticement and Deprivation, pp. 165-184. 25. Sulla tensione fra gli imperativi della comunità razziale e i desideri individuali cfr. Baranowski, Strength through Joy, pp. 162-198. 26. Ivi, p. 179.

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in larga parte consumi di tipo virtuale – o «vicario», secondo la definizione di Mila Ganeva – svolsero un’importante funzione stabilizzante attraverso quelle visioni di prosperità futura diffuse dalle pubblicità.27 Come ha sottolineato Stephen Gundle, «l’immaginazione consumistica degli anni tra le due guerre non fu certamente contenuta, né poteva esserlo, dal progetto fascista, ma non fu nemmeno autonoma rispetto a esso».28 Anche se non bisogna assolutamente sottovalutare l’ostilità dei fascismi nei confronti della cultura consumistica, è altrettanto necessario tener ben presente gli importanti legami intrattenuti con la grande industria, impegnati nella modernizzazione dei processi produttivi, e in particolare con i ceti medi, ansiosi di poter beneficiare di quella famosa vita comoda. Più che come un ostacolo da aggirare, ampi settori di entrambi i regimi concepirono le moderne tecniche di suggestione pubblicitaria come uno strumento centrale al loro tentativo di nazionalizzare le masse. Nonostante la brutale repressione, il fascismo agì così da propulsore della cultura pubblicitaria nella sua ricerca di un modello di consumo fascista che sapesse riscuotere consensi fra le classi medie. Lungi dal costituire entità antitetiche, la cultura pubblicitaria sviluppatasi nell’arco degli anni Trenta divenne parte integrante della strategia del consenso dei fascismi, che a loro volta contribuirono significativamente a conferire importanza al mestiere pubblicitario. Ciò fu particolarmente visibile nella seconda metà degli anni Trenta, in cui la frenesia consumistica suscitata da aziende come la Buitoni-Perugina si trasformò volentieri e senza apparente contraddizione in un veicolo particolarmente efficace delle battaglie per la nuzialità e la natalità del regime. Fu la scelta consapevole di orientare l’economia verso una rimilitarizzazione sempre più radicale a determinare il fallimento di questa tattica, non una presunta inconciliabilità a priori fra consumi e fascismi, né un’ipotetica democratizzazione insita nel concetto di società dei consumi. Da questo punto di vista, il periodo bellico rappresentò una sostanziale continuazione di tale approccio, che avrebbe tuttavia esacerbato alcune delle maggiori differenze fra i due regimi. La sostanziale separazione fra pubblicità e propaganda, che aveva costituito una costante dell’era dei 27. Un esempio ormai classico è quello della motorizzazione e in particolare della già menzionata Volkswagen, cfr. Gundle, Visions of Prosperity, pp. 156-160; Becker, Auto­ bahnen, Auto-Mobilität, pp. 23-59; Ganeva, Vicarious Consumption, pp. 199-222. 28. Gundle, Un Martini per il Duce, p. 69.

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fascismi, fu mantenuta anche durante i primi anni della Seconda guerra mondiale. Nonostante la guerra avesse accelerato il processo di nazionalizzazione del privato sia in Italia che in Germania, allo scoppio del conflitto le pubblicità di entrambi i paesi non mostrarono segni evidenti di quell’euforia nazionalistica diffusa dopo l’ascesa al potere di Hitler o dopo la conquista dell’Etiopia. Con l’importante eccezione di alcune industrie pesanti, direttamente coinvolte nello sforzo bellico, le réclame italiane e tedesche si mantennero infatti ben distinte dalla propaganda – a differenza del Giappone, dove la sfera commerciale mostrò un assorbimento ben più marcato di tematiche belliciste e imperialiste.29 Pamela Swett ha imputato tale stato di cose al successo della Legge per la protezione dei simboli nazionali.30 È tuttavia probabile che tale divisione di compiti fosse piuttosto dovuta al tentativo di mantenere una parvenza di normalità sul fronte interno, che spinse entrambi i regimi a evitare, almeno inizialmente, la mobilitazione totale e la propaganda più becera nella speranza di preservare l’acquiescenza della popolazione. Sarà poi con i Nuclei propaganda della Repubblica Sociale Italiana e l’avvento della guerra totale che la commistione fra pubblicità e propaganda raggiungerà i risultati più agghiaccianti, incarnati con particolare virulenza da Gino Boccasile.31 Secondo la Swett, fu così che le aziende tedesche e il Consiglio pubblicitario nazista furono in grado di «salvare il settore pubblicitario da se stesso», sottraendosi all’onta della sconfitta, e proporre la cultura commerciale come «progetto unificante» che nel secondo dopoguerra «avrebbe preso il posto di una cultura politica caduta in disgrazia».32 Le forti continuità fra il periodo fra le due guerre e il secondo dopoguerra riscontrabili in entrambi i paesi, sia in termini di attori che di tematiche, rappresentano sicuramente uno degli aspetti più rilevanti di questa storia – anche se con le sostanziali distinzioni già rammentate, a cominciare dal ritorno alla libertà di scelta, sia politica che di consumo. È tuttavia necessario sottolineare che il Consiglio pubblicitario rimase sempre e comunque un’istituzione dello stato nazista, il cui principale obiettivo – contrariamente a quanto sostenuto dalla Swett – fu la nazificazione della professione pubblicitaria, intesa come la violenta epurazione 29. Cfr. Culver, For the Sake of the Nation, pp. 145-174. 30. Cfr. Swett, Advertising and Consumers, p. 182 ss. 31. Cfr. ivi, pp. 192-193 e Fasce, Bini, Gaudenzi, Comprare per credere, pp. 80-82. 32. Swett, Selling under the Swastika, p. 14.

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e arianizzazione del settore. Fino al 1942, la predilezione del Consiglio per i profitti e più in generale per l’espansione del settore pubblicitario non si pose necessariamente in totale antitesi con gli obiettivi del regime, ma rappresentò piuttosto uno degli incentivi offerti alla professione affinché contribuisse al consolidamento della dittatura. Se non pochi furono i pubblicitari che, a loro rischio e pericolo, si rifiutarono (o non poterono) conformarsi ai dettami dei fascismi, molti professionisti non esitarono a lasciarsi cooptare, pur di ottenere il tanto agognato riconoscimento professionale, o più semplicemente incrementare i loro utili. Come sottolineato da Jonathan Wiesen, fu proprio questa costante «dialettica fra opportunismo e ansia a definire il rapporto di gran parte delle aziende e dei consumatori con il mercato nazista».33 Stimolare un modello di consumo basato su una concezione politicamente e razzialmente esclusiva di italianità (e germanicità) diventò parte integrante dell’esperimento sociale dei fascismi grazie al coinvolgimento (più o meno volontario) di diversi rappresentanti della professione pubblicitaria, alla costante ricerca di legittimità o di profitti. Pur rappresentando un esempio particolarmente calzante di modernità fascista e nazista, inoltre, la multiforme realtà della cultura commerciale sotto i fascismi può difficilmente esser descritta come effettivamente totalitaria, presentandosi piuttosto come un’evidente incarnazione di quella modernità autoritaria che permeò ampi settori di entrambi i regimi.34 Da questo punto di vista, i fascismi agirono dunque più come dittature partecipative – non certo nel senso che riscossero un’ampia partecipazione volontaria, ma che alla feroce repressione si accompagnava la volontà di integrare alcuni strati o gruppi sociali, necessaria per poter attuare le proprie violente aspirazioni palingenetiche. Ancora nel 1938 lo psicologo della pubblicità Adolfo Pellegrini sosteneva: «l’uomo infine desidera di vedere la propria vita in bello».35 Era il compito dei pubblicitari italiani e tedeschi creare questa illusione, al fine di integrare gli aspiranti consumatori all’interno di un sistema ingiusto e disumano. In tale contesto, la capacità delle due dittature di evocare una rosea proiezione del futuro al fine di coltivare l’acquiescenza o addirittura la parteci33. Wiesen, Creating the Nazi Marketplace, p. 93. 34. Cfr. anche Fasce, Pubblicità e comunicazione, p. 443. 35. Adolfo Pellegrini, La propaganda e il suo ambiente recettore, «L’Ufficio Moderno», 13, n° 7 (1938), pp. 353-356: p. 354, citato anche in Arvidsson, Between Fascism and the American Dream, p. 173.

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pazione attiva della popolazione allo sforzo bellico e di sostenere il morale sul fronte interno (e dunque anche su quelli esterni) si dimostrò fondamentale. Furono, ancora una volta, i pubblicitari stessi a farsi carico di trasporre in realtà questo obiettivo, che come abbiamo visto serviva degli evidenti fini economici, oltre che politici. Tale strategia è stata efficacemente riassunta dallo storico Peter Fritzsche, secondo il quale «i nazionalsocialisti hanno venduto all’infinito il futuro»,36 o meglio tentarono di farlo. Entrambi i regimi colsero al volo le potenzialità di questo approccio, ma – e in questo consiste una delle differenze più fondamentali – mentre i pubblicitari nazisti furono parzialmente in grado di sostenere quest’illusione, almeno fino al 1941, in Italia la dittatura fascista non fu mai del tutto capace di incanalare in un’azione coerente la dicotomia fra il sogno bucolico e anacronistico di un’Italia preindustriale e la retorica degli strabilianti progressi delle sue aziende verso il luminoso futuro fascista. Fin dai primi anni di guerra, la crescente disillusione di larghi settori dell’industria e del commercio nonché una serie di ostacoli di natura pratica (a cominciare dalla scarsità di fondi) resero infatti impossibile una sua attuazione. L’abilità o meno di diffondere tale promessa, unita all’indottrinamento e soprattutto alla feroce repressione – elemento fondante di entrambe le dittature – avrebbe giocato un ruolo non trascurabile nella sopravvivenza dei regimi, contribuendo da un lato al definitivo crollo di ogni tipo di sostegno alla dittatura fascista già ben prima dell’estate del 1943, e dall’altro al perdurare di un certo livello di acquiescenza fino all’avvento della guerra totale.37 La promessa di un futuro di benessere non fu che un tassello di un ben più ampio mosaico di cause ed eventi – a cominciare dal drastico divario economico e militare fra i due paesi, la gestione bellica, gli insostenibili livelli di privazione a cui furono sottoposti i civili e l’evoluzione delle strutture repressive e dei rapporti di forza – ma un tassello senza il quale non è possibile comprendere appieno la storia dei fascismi, né la loro fine.

36. Fritzsche, Life and Death, p. 59. Pamela Swett critica tale interpretazione, sostenendo che la nazificazione del settore pubblicitario non era il principale obiettivo del Consiglio pubblicitario e trascurando l’apporto dei pubblicitari al consolidamento del regime, cfr. Swett, Advertising and Consumers, p. 175. 37. Stefano Cavazza identifica nel crollo dei consumi un ulteriore elemento di delegittimazione del regime, cfr. Cavazza, Consumi, fascismo, guerra: una riflessione, p. 312 ss.

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Bundesarchiv Koblenz (BArch) Bildarchiv, Aktuelle Bilder Zentrale (1933-1943)

Centro per la cultura d’impresa, Milano Materiale pubblicitario

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Mediateca Rai, Torino Fondo Dino Villani (ca. 1910-1945)

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Weltwirtschaftsarchiv, Hamburg Ritagli stampa (1933-1944)

Werkbundarchiv - Museum der Dinge, Berlin Materiale pubblicitario a stampa

Westfälisches Wirtschaftsarchiv, Dortmund Westfälische Industrie- und Handelskammern

Periodici consultati Riviste di settore «ACME» «Die Anzeige» «Art and Industry» «Die Deutsche Werbung» «Gebrauchsgraphik» «L’Impresa Moderna» «Maga» (in seguito «Il Pugno nell’occhio») «Printers’ Ink» «La Pubblicità d’Italia» «Il Pugno nell’occhio (Maga)» «Die Reklame» (in seguito «Die Deutsche Werbung») «Seidels-Reklame» (in seguito «Werben und Verkaufen») «L’Ufficio Moderno» «Werben und Verkaufen» «Wirtschaftswerbung» Giornali e periodici «Almanacco della donna italiana» «Avanti!» «Berliner Illustrirte Zeitung» («Berliner Illustrierte Zeitung» a partire dal 1940) «Das Blatt der Hausfrau» «Corriere della Sera» «Critica fascista» «Die Dame» «Deutscher Reichsanzeiger» «La Difesa della razza»

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«Domenica del Corriere» «La donna fascista» «Filmwelt» «Frankfurter Zeitung» «Die Frau am Werk» «Gazzetta ufficiale» «Gioia» «Il giornale della donna» (in seguito «La donna fascista») «Grazia» «Illustrazione italiana» «Die junge Dame» «Marc’Aurelio» «New York Times» «NS-Frauen-warte» «Il Popolo d’Italia» «La Stampa» («incluse La Stampa Sera» e «La nuova Stampa») «Der Stürmer» «The Times of India» «Völkischer Beobachter» Fonti a stampa 25 Jahre Schule Reimann 1902-1927, supplemento di «Farbe und Form. Monatschrift für Kunst und Kunstwerbe», aprile 1927. 50 Jahre Ullstein: 1877 – 1927, a cura di Max Osborn, Georg Bernhard, Berlin, Ullstein, 1927. Adreßbuch der deutschen Werbung. Handbuch für die gesamte Werbewirtschaft, Berlin, Wienkötter, 1940/1941. L’agenda di servizio di Benito Mussolini, 1923-1945, a cura di Lutz Klinkhammer e Amedeo Osti Guerrazzi, banca dati dell’Istituto Storico Germanico di Roma (consultabile nella biblioteca dell’Istituto). ALA-Zeitungskatalog, a cura della ALA Anzeigen AG, Berlin, ALA, annate 19331939. Annuario della pubblicità italiana. La collezione del più bel materiale pubblicitario dell’anno, Bolzano, Casa Editrice Reclame, annate 1929/30 e 1931. Arte Pubblicitaria 1900-1933, supplemento de «L’Ufficio Moderno», settembre 1933. Bellocchi, Ugo, Il quinto potere: bibliografia ragionata della pubblicita e delle discipline affini, Milano, Società Pubblicità Editoriale, 1968.

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Indice dei nomi*

ACME-Dalmonte, 60, 61-62, 78, 223-224, 234-235, 237, 242, 257 Agenzia Italiana Pubblicità (AIP), 39-40 Agha Mehmed Fehmy, 25 ALA Anzeigen (Società generale per gli annunci), 60, 64, 97, 193-194, 204, 210 Albanese Giulia, 120 Alberici Umberto, 123-125 Alessi Rino, 101, 143, 198 Aly Götz, 16, 132, 195 Amann Max, 93 Amatori Franco, 216 Amicucci Ermanno, 108, 123 Arvidsson Adam, 15, 121, 224, 229 Augusta Edizioni e Pubblicità, 211 Bajohr Frank, 247 Baker Joséphine, 140 Balz Eva, 92 Balza-Ricc, 56, 59-60 Balzaretti Pier Luigi, 56, 67 Banelli Giovanni, 181 Baranowski Shelley, 13, 267 Barzini Luigi, 44-45, 257-258 Basso Lelio, 42 Battista Gianni, 215 Bayer Herbert, 20, 24-36, 241, 267 Bayer-Hecht Irene, 28

Beckmann Max, 23 Benjamin Walter, 48 Béraud Henri, 147-148, 162 Berghoff Hartmut, 13, 16, 22, 93, 98, 129, 221, 275 Bernhard Lucian, 61, 90, 173 Bertilorenzi Marco, 22, 135 Bini Elisabetta, 22 Biondi Dino, 120 Biribanti Paola, 256 Blum Léon, 206 Boccasile Gino, 61, 109, 195, 248-250, 255-256, 277 Bondanini Gino, 107, 114, 208, 214, 219 Bosworth Richard, 150 Bottai Giuseppe, 43, 70, 112, 115-118, 146, 224 Braunmühl Carol von, 85, 186 Bredendieck Hinrich, 32 Breuer Marcel, 31 Brooks Louise, 141 Brose Hanns W., 61-62 Brugger Arnold, 91, 271 Caimi Nino, 55-56, 67-68, 83, 85, 145-146, 151, 258 Caldara Emilio, 39 Caleffi Piero, 42

* Per fornire uno strumento ulteriore ai lettori, l’indice include anche le agenzie pub­ bli­citarie.

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Fascismi in vetrina

Calzini Raffaele, 139 Cannistraro Philip, 77 Cappiello Leonetto, 61, 224 Capristo Annalisa, 22 Cavalli Pio, 67 Cavazza Stefano, 15, 22, 111 Cedraschi Erminio, 81, 205, 215, 218 Ceserani Gian Paolo, 51, 69 Chelati Dirar Uoldelul, 22, 253 Ciano Galeazzo, 123, 140 Ciarlo David, 248 Clark Chris, 13, 22 Clark Earle, 186 Coleman Lloyd Ring, 188, 196 Craveri Sebastiano, 65 Croce Benedetto, 46 Dalmonte Casoni Luigi, 61, 173, 223-224, 234 Damrow Harry, 93 De Chirico Giorgio, 39 De Felice Renzo, 115 De Grazia Victoria, 15, 22, 44, 63, 122 Depero Fortunato, 50, 61, 173 Deplano Valeria, 22 Di Fabio, Laura, 22 Di Jorio Irene, 14-15, 43-44, 72, 106, 113 Diel Louise, 112-113 Dietrich Marlene, 141 Dix Otto, 23 Döblin Alfred, 49 Dogliani Patrizia, 140 Domizlaff Hans, 62, 181, 238 Dorland, 18, 20-21, 24-36, 60, 64, 93, 131, 197, 241-244, 262, 267-269, 273 Dradi Carlo, 42 Dudovich Marcello, 61, 249, 263 Ebner Michael, 93 Enneci, 55 Erhard Ludwig, 72 ERWA, 55, 134, 229, 258 Erwin Wasey & Co., 55, 61, 258 Espinadel Camille, 72-73

Evans Richard J., 22 Falabrino Gian Luigi, 200, 209, 216 Falasca-Zamponi Simonetta, 164 Farinacci Roberto, 20, 77, 108 Fasce Ferdinando, 14, 22 Fischer Hugo, 80-81, 178-179 Flora Francesco, 46 Forgacs David, 121-122 Frauenknecht Ferdinand, 127 Frenzel Hermann Karl, 80, 181 Fritzsche Peter, 279 Funk Walther, 177 Gabbuti Giacomo, 220 Galimi Valeria, 22 Ganeva Mila, 276 Garbo Greta, 139 Garibaldi Giuseppe, 150 Gazzoni Arturo, 116 Gebhard Max, 33 Georg Charles Wilhelm, 199, 202 Georg Henry-Louis, 199, 202 Gérin Octave-Jacques, 72-73 Ginsborg Paul, 22 Giorgio VI, re del Regno Unito, 163 Goebbels Joseph, 11, 23, 30, 64, 85, 87-88, 94-95, 126, 130, 148, 152, 171-172, 177-178, 274 Goebbels Magda, 94 Goldmann Georg, 94 Goltz Anna von der, 154 Göring Hermann, 92, 153 Gottschick Konrad, 162 Graf Rüdiger, 131 Gramsci Antonio, 47 Grassi Carlo, 205 Grego Adriano, 106 Grego Emilio, 68-70, 73, 106 Groeger Wolfgang, 196 Gropius Ilse, 228 Gropius Walter, 31, 36 Guerri Giordano Bruno, 115 Guevara Ernesto (Che), 149 Guidi Rachele, 155

Indice dei nomi Gundle Stephen, 15, 22, 121, 152, 164, 276 Haasenstein & Vogler (H&V), 39, 199-200, 202, 203 Heß Rudolf, 191 Hindenburg Paul von, 150, 155 Hitler Adolf, 11, 28, 35, 75, 111, 138, 148154, 157, 160-161, 163, 165, 171172, 179, 191, 270, 275, 277 Hobbes Thomas, 32 Hohlwein Ludwig, 61, 173, 247 Hopkins Claude C., 66 Hunke Heinrich, 88, 93, 95-96, 99, 124125, 130, 176, 193-194, 272, 274 Interlandi Telesio, 210 Interpropaganda, 211 J. Walter Thompson (JWT), 18, 21, 28, 44, 52, 59, 61, 85, 113-114, 134-135, 152, 184-188, 193-194, 238-239, 259 Jona Giuseppe, 39-40, 68 Kaelble Hartmut, 12, 22 Kandinsky Wassily, 23 Kershaw Ian, 174, 191 Klemperer Viktor, 150 Klinkhammer Lutz, 22 König Wolfgang, 98 Koselleck Reinhart, 12, 17 Kracauer Siegfried, 47-48 Kraft James L., 187 Kranz Kurt, 32-34 Kreutzmüller Christoph, 22, 92 Kropff Hanns, 73 Kundrus Birthe, 13 Künzler Richard, 81 Kupferberg Christian Andreas, 181 Lanfranchi Ercole (nipote), 216-217 Lanfranchi Ercole, 199, 202-203, 206, 216218 Le Bon Gustave, 45 Lenti Libero, 42, 274

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Les Affiches Maga, 61 Lombardi-Diop Cristina, 250 Longanesi Leo, 102 Luther Hans, 52 Magagnoli Giuseppe, 61 Magliocco Vito, 67 Majakovskij Vladimir Vladimirovich, 50 Malinowski Bronisław Kasper, 163 Manzoni & Co, 60, 199, 212-213, 248 Marinetti Filippo Tommaso, 49, 109-110 Matthess Walter Kurt, 27 Mauzan Achille Lucien, 61, 224 Mazzali Guido, 42, 78, 200, 223, 273 Mazzini Silvia, 22 McCann Erickson, 188 Meek Samuel, 184-185, 196 Meteling Wencke, 22 Meyer Thomas, 92 Mims Stewart, 52 Moede Walter, 71 Moholy-Nagy László, 31 Momigliano Carlo, 181-183, 205-206, 217, 273 Montanelli Indro, 102 Morris Jonathan, 14 Mosse George L., 91 Motadel David, 22 Mottier Alfred, 199, 202 Münsterberg Hugo, 71 Mussolini Arnaldo, 205, 215 Mussolini Benito, 11-12, 32, 39-40, 57, 79, 100, 102-103, 106, 112-113, 126, 131, 135, 138, 147-153, 156-158, 163, 165, 176, 182-183, 198, 200, 202, 206, 215 Nacci Michela, 47 Navarra Quinto, 102 Nerdinger Winfried, 31 Neuner Hans Ferdinand, 32-33 Neuner Hein, 32-33 Newbould Mary, 22 Niemeyer Lisa, 22 Nizzoli Marcello, 78

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Fascismi in vetrina

Oelsner Alice, 92 Olivetti Adriano, 42 Osterhammel Jürgen, 22 Pallavicini Sandro, 215 Paul Gerhard, 18 Pavan Ilaria, 22, 105, 107, 251 Pavolini Alessandro, 20, 77, 108, 123, 143 Pellegrini Adolfo, 72, 278 Pergher Roberta, 120 Pescarolo Gloria, 22 Piccioni Lucia, 249 Pini Giorgio, 77, 83, 101 Pio XI (Ambrogio Damiano Achille Ratti), papa, 79 Pistauer Hartmut, 24 Pittigrilli (Dino Segre), 255 Polverelli Gaetano, 140, 215 Pozzati Severo (Sepo), 61, 78 Preziosi Giovanni, 251 Prezzolini Giuseppe, 48 Prüfer Kurt, 127 Publicitas, 203 Pulini Paolo, 67, 116-118 Reagin Nancy, 98 Reemtsma Philipp, 181 Reichard Ernst, 88, 176 Reinhardt Dirk, 71, 73, 275 Reuveni Gideon, 18 Ricciardi Giulio Cesare, 59, 69, 78, 113114, 129 Ringelnatz Joachim, 28 Rittenberg Nina, 92 Rodčenko Aleksandr Michajlovič, 50 Rohe Ludwig Mies van der, 29, 31 Rosen Fritz, 61, 90 Rosenfeld Carla, 92 Ross Corey, 15, 58, 240 Rossi Attilio, 42 Roth Richard, 36, 241, 267-268 Rudolf-Mosse-Service, 60, 64, 91-92, Sack Hilmar, 28 Sarfatti Michele, 22, 105

Scarpellini Emanuela, 109-110, 121, 234 Schacht Hjalmar, 87 Schäfer Hans Dieter, 146 Schanetzky Tim, 16, 129 Schawinsky Xanti, 32, 90, 107 Schlemmer Carl, 32 Schlemmer Oskar, 32 Schmid-Ehmen Kurt, 35 Schreiber M.C., 133 Schug Alexander, 28, 267 Scorza Carlo, 215 Segreto Luciano, 219-220 Semmens Kristin, 160 Seneca Federico, 61, 151 Sennebogen Waltraud, 13, 112, 160 Sinisgalli Leonardo, 238 Sironi Mario, 78, 110 Società anonima per la pubblicità estera (SAPE), 211 Societá italiana pubblicità radio anonima (SIPRA), 65 Società per la pubblicità commerciale (GfW), 114, 170, 184-198, 238-240, 242, 257, 268 Società per la Pubblicità in Italia (SPI), 108, 206, 217-218, Solm Frederick, 85, 184-197, 221, 238, 240, 257 Solm Lola, 192, 196 Sommer Martha, 92 Steinbacher Sybille, 22 Steinberg Saul, 107 Steinecker Waldemar, 24 Stern Ludwig Wilhelm, 71 Stoler Ann Laura, 249 Stranz E.G., 187 Streicher Julius, 251, 253 Studio Boggeri, 32, 107 Süß Dietmar, 22 Swett Pamela, 14, 196, 218, 226, 247, 277 Torp Claudius, 16 Tranfaglia Nicola, 104 Tremelloni Roberto, 42, 69

Indice dei nomi Triola Filippo, 131 Trump Donald, 149 Unione Pubblicità Italiana (UPI), 21, 40, 59-60, 63-64, 81, 108, 114, 145, 170, 181-184, 198-221, 224-229, 232, 248, 268, 273 Valentino Rodolfo, 151 Valeri Antonio, 69

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Velde Theodor Hendrik van de, 79 Vershofen Wilhelm, 72 Villani Dino, 18, 42, 207, 216-217, 224, 244 Ward Janet, 47 Westphal Uwe, 97, 190 Wiesen Jonathan, 14, 16, 22, 189, 231, 240, 252, 278 Zavattini Cesare, 255

Finito di stampare nel mese di gennaio 2023 da The Factory Roma