Etica minima. Scritti quasi corsari sull'anomalia italiana
 9788860303288

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Pier Aldo Rovatti

Etica • •

m1n1ma Scritti quasi corsari sull'anomalia italiana

R4faello Cortina Editore

www.raffaellocortina.it

ISBN 978-88-6030-328-8 © 2010 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 2010 Stampato da Consorzio Artigiano LVG, Azzate (Varese) per conto di Raffaello Cortina Editore Ristampe

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Indice

Premessa

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Il caso di Eluana 1. Disarmare la verità 2. La culla è vuota 3. Aveva ragione Pasolini 4. Il diavolo e la 180 5. Vita, morte 6. Eluana e una certa Federica 7. I furbi e gli ingenui 8. Il gioco d'azzardo e altri tabù 9. Il panico morale e i suoi rischi 10. All'italiana 11. Eutanasia, parola impronunciabile

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Gli italiani che stiamo diventando 12. Analfabeti di ritorno 13. La crisi è un terremoto? 14. Il nuovo Papa e il vecchio Nietzsche 15. Come la rana di Fedro 16. Italiani si diventa?

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Indice 17. Complotti ovunque 18. Mai più manicomi 19. Quando il privato e il pubblico si mescolano 20. Il governo dell'autocensura 21. Europa e incultura

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Corpi che contano 22. Corpi che contano 23. Da che mondo è mondo 24. Gelosi di Internet 25. Non farlo 26. Badanti 27. Lo scandalo del premier e l'imbarazzo dei vescovi 28. La favola della globalizzazione 29. Pasolini, il dialetto e la Lega 30. La morale è un numero? 31. Figli dei no 32. La privacy è sacra? 33. Siamo tutti esseri umani 34. Sono una donna, non una escort

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Quel muro che non cade 35. La dura esistenza del precario errante 36. Censura e autocensura 37. Il muro della finzione si è incrinato 38. Bella e intelligente 39. Parliamo di verità 40. Geneticamente vulnerabili 41. "Razionalizzare" l'università 42. Quel muro che non cade

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Indice

L'altalena emotiva 43. Uno psichiatra impazzisce 44. L'altalena emotiva che ci governa 45. Sotto 'la soglia etica 46. Governati dallo spettacolo 47. L'odio e l'amore 48. Come erano belli! 49. A Rosarno abbiamo perso tutti 50. Una società gelatinosa

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Premessa Che cosa è l'etica minima

Questo libro è fatto di eventi. Sono cinquanta scene prese dalla cronaca italiana degli ultimi tempi: dal caso Eluana, che ha suscitato un' emozione nazionale e un dibattito acceso sulla vita e la morte, fino alla "battaglia" di Rosarno, scoppio di una contraddittoria e ormai conclamata xenofobia, su cui è subito sceso il silenzio, forse anche perché quella battaglia l'abbiamo persa tutti. E fino al fango della corruzione legata agli appalti della Protezione civile, una gelatina fangosa che sembra insinuarsi dappertutto. Ma non è una cronaca dell' annus horribilis che speriamo di esserci lasciati alle spalle. Sono indizi, grandi e piccoli, locali e globali, di un comportamento della società e degli individui, del governo e dei governati; segnali che ho selezionato, di volta in volta (ogni scena ha una data), allo scopo di costruire un concreto fondale dell'"anomalia" in cui ci troviamo a vivere e nella quale si mescolano il pubblico e il privato, e la

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Premessa

realtà delle cose appare imbevuta di finzione, come se non fossimo più in grado di districarci da una narrazione "televisiva", certo più drammatica che divertente, e avessimo così perduto il bandolo delle nostre esistenze. La verità, ecco il punto. Come possiamo praticarla in questa situazione? L'"etica minima", come la chiamo, altro non è che la soglia di resistenza, il livello di sopportazione sotto il quale non possiamo scendere, non tanto e non solo come uomini e donne, ma in quanto cittadini che hanno diritti e la cui soggettività sociale non può essere compressa oltre un certo limite. Non è il lamento del pessimismo che mi interessa, mal' esercizio quotidiano della critica e l'obiettivo che esso può raggiungere, cioè l'affermazione della ragionevolezza: la possibilità di praticare ancora la verità, anzi soprattutto ora, nonostante il sipario sembri ormai calato su questa pratica. Vorrei intanto dichiarare alcune somiglianze di famiglia. L'etica minima è figlia del pensiero debole. Ne eredita soprattutto l'idea che la verità vada disarmata, spogliata dalla sua pretesa assolutistica e da tutti gli effetti di potere che questa pretesa produce. Compresa la presunta verità della morale che spesso sale in cattedra pretendendo di dettare le condotte, ma che di fatto si allontana dalla loro concretezza allo scopo di governarle. E servendosi di una serie di dispositivi (paura, allarme, panico) che immobilizzano le coscienze 10

Premessa

e i corpi. Così, l'impalpabilità del pensiero debole (roba da filosofi!) svanisce: l'etica minima si pianta nella concretezza del fare, è uno stile di vita, un'organizzazione della propria esistenza. È tutta piegata sul particolare e sulle singolarità. Non ha alcun interesse a stare a civettare con la filosofia. È una politica della soggettività. Un'altra importante affinità di famiglia avvicina l'etica minima agli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini (che viene anche chiamato in causa esplicitamente in alcune scene del libro). Quest'affinità riguarda, certo, i contenuti: la descrizione della società omologata e consumistica, di cui Pasolini è stato l'anticipatore, si conferma infatti in un orizzonte ormai attraversato dalle tecniche del consenso e dagli effetti di autocensura che governano l'attuale totalitarismo populista. E le stesse questioni dell'italianità artificiale e dell'analfabetismo di ritorno, su cui insisto, hanno qualcosa della tonalità pasoliniana. Ma è un'affinità che vorrebbe ricollegarsi soprattutto al modo della scrittura e al tipo dell'intervento - breve, secco, talora caustico, mai distaccato o neutrale. Uso il condizionale (e quel "quasi" del sottotitolo del libro) perché mi piacerebbe che fosse così e, in ogni caso, perché è questo il modello di discorso che ho avuto in mente. Non per una scelta stilistica, ma per cercare di documentare discorsivamente l'urgenza politica, per così dire, deij' etica minima, la sua 11

Premessa

necessità di stare dentro le cose e di resistere al1' appiattimento, non rimanendo seduti su una poltrona, bensì alzandosi in piedi, assumendosi il rischio delle proprie parole, adoperando l'ironia, cercando di mettersi sempre in gioco (almeno un poco). Insomma, prelevando da Pasoliniposto che ci sia riuscito - almeno una parte di quel suo spirito "corsaro". Come ho accennato, l'anomalia italiana è diventata un continuo cortocircuito fra "realtà" e "reality" (e Pasolini aveva pure intravisto la deriva "televisiva" che stava prendendo). E la politica che ci governa è diventata una "psicopolitica" che gestisce, oltre che i corpi, le nostre stesse emozioni. Non è solo il governo della paura e grazie alla paura, ma la pratica del consenso attraverso i media, attraverso un'ambivalenza tra realtà e finzione, appunto quel cortocircuito, che produce, quasi ogni giorno, un'altalena emotiva fra ciò che va male e ciò che va bene, tra il clima di odio (complotti ovunque) e l'annuncio del migliore dei mondi (il terremoto e la crisi ormai alle spalle). Ogni tanto questa colla si sbriciola un poco e si rivela per quella ideologia che è. Ma una collosità diffusa continua a pervadere ogni cosa, immobilizzando i corpi e le anime di ciascuno in uno stato di torpore da cui nessuno è immune e che tutti, in diversa misura, contribuiamo ad alimentare. Prevale così il cinismo generale della furbizia e dell'egoismo degli interessi. Chi lo nega è un

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Premessa

ingenuo, e nessuno in questa società avvolgente e collosa si sentirebbe di sventolare una bandiera così poco promettente. E poiché il cortocircuito fra realtà e reality si raddoppia in un altro cortocircuito assai poco virtuoso, quello tra il pubblico e il privato, i potenti cercano di salvarsi con la favola del gossip, e i meno potenti qualche volta soccombono dentro i cosiddetti scandali. Tutti gli altri guardano stupiti, ma nessuno sa come trattare tale mescolanza se non riducendola al luogo comune di una privacy "sacra" cui nessuno, però, crede davvero. L'etica minima si contrappone a questa potente colla che l'incultura nutre e il potere spalma. Che cosa significa, allora, disarmare la verità? Per me vuol dire, innanzi tutto, militare per il pudore e contro la presunzione. In una scena, ricordo quell'antica favola (di Fedro) in cui la rana si gonfia fino a scoppiare: essa non va applicata solo ai potenti (in attesa che scoppino da soli), ma a ciascuno di noi. Dovremmo contrastare queste ipertrofie dell'io, accorgerci dei nostri gonfiori, e soprattutto non aspettare il momento dell'esplosione. Ecco perché l'etica minima non ha niente a che fare con una morale dei valori intesi come verità assolute, anzi deve guardarsene e combatterla. In un'altra scena, considero la questione del suicidio (prendendo spunto da un convegno di studi tenutosi a Trieste). ~erché non dovremmo

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Premessa

"farlo"? Rispondo alla domanda dicendo che nessuno possiede la ricetta della verità. Non esiste una simile ricetta, laddove chi soccombe, perché vede davanti a sé un tunnel senza uscita, mostra di credere che una verità c'è e che lui ormai l'ha mancata. Penso che ciascuno dovrebbe lavorare su se stesso e sugli altri per denunciare questo vicolo cieco della verità. E che l'impianto critico che arma l'etica minima può tentare di dissipare i fantasmi che ci avvolgono e che si sono incollati alle nostre esistenze, e insomma può togliere la maschera all'anomalia italiana, solo se riesce a mettere a nudo il nostro coinvolgimento nella presunzione che ci sia una verità buona e che noi la possediamo. Spesso, nei discorsi filosofici e anche politici, si è parlato di "ospitalità": fare spazio nel troppo pieno delle nostre collose esistenze per lasciare entrare in esse altre verità e, in una parola, il diverso. Quest'apertura è ciò che ci manca e che la macchina della psicopolitica ogni giorno tende a sopprimere. Forse, però, non basta la tonalità del1' ospitare se non la equipaggiamo con la tonalità della resistenza e con quella dello scendere in campo. Perciò credo che limitarsi a un appello alla filosofia critica sia insufficiente e che occorra entrare nei dettagli dell'anomalia italiana, nella cosiddetta cronaca quotidiana, valutare i modi delle chiusure che ci imbottigliano, prendere atto delle nostre responsabilità individuali, mettere

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Premessa

in discussione le nostre esistenze, ribellarci di fronte alle ineguaglianze e alle evidenti ingiustizie, difendere i nostri spazi e i nostri tempi. Non addormentarci facendoci cullare dal piacere dell' altalena delle emozioni. Non digerire tutto perché tanto non possiamo farci niente; possiamo solo coltivare l'orticello dei nostri privati interessi. Praticare l'etica minima significa infatti accorgersi che al di sotto di una certa soglia non si può scendere, e che allora occorre alzare gli occhi per impedire che la nostra stessa vita conti ogni giorno di meno, si svuoti di ogni senso e si riduca così a denaro, tempo libero, qualche amico, sempre che non sia già annichilita nel dramma della precarietà e della sopravvivenza materiale. Pessimismo? Al contrario, sto dicendo che non c'è più tempo per il cinismo e la passività.

Una prima versione delle scene che seguono è stata pubblicata sul quotidiano Il Piccolo di Trieste, in una rubrica intitolata appunto "Etica minima". Ringrazio il direttore Paolo Possamai e Marco Pacini per averp-ii dato questa opportunità.

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Il caso di Eluana

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Disarmare la verità Il caso di Eluana entra nella coscienza e nella cultura di ciascuno di noi. È un caso esemplare del nostro presente perché ci mette di fronte, in modo diretto e spietato, al problema della soglia tra la vita e la morte e alla nostra libertà di individui di determinare noi stessi in questa soglia. Libertà difficile perché il nostro tempo, l'epoca in cui viviamo, è sempre più attraversato da un dispositivo che tende a gestire le nostre vite, quel governo dei corpi e delle anime che chiamiamo biopolitica, un assoggettamento dolce che assottiglia i diritti dei soggetti. Perciò le grandi macchine dell'ideologia e del potere sono scese in campo e si sta giocando una dura battaglia di idee attorno a un essere umano che da sedici anni, dopo un incidente che gli ha bloccato il cervello, sopravvive in uno "stato vegetativo permanente", cioè senza ritorno. Le macchine della scienza e della. Chiesa, la macchina

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Etica minima

dello Stato attraverso il lavoro della giustizia. Colpi diversi di verità si sono incrociati sul terreno dell'amore, della pietà e della sofferenza, in maniera dura e spietata; dall'amore del padre per la figlia tenuta artificialmente in vita fino al ricatto emotivo, pesante, di chi specula sulla sofferenza immaginata di un essere fatto morire di sete e di fame. Amore e "assassinio" (come ha gridato la Chiesa). Condivido fino in fondo il parere che in questa nostra società, che non vuole più mandare a morte nessuno, la maggiore violenza sia impedire a qualcuno di morire, togliergli con ogni mezzo questo diritto individuale. Infine, la Corte di cassazione, il massimo organo di giustizia, ha riconosciuto al padre di Eluana il diritto di interrompere il nutrimento artificiale (e di rispettare così la volontà a suo tempo manifestata dalla sfortunata ragazza). Non so in che misura sia un atto d'amore, certamente è un importante atto di giustizia che non ha niente a che fare con una legittimazione dell'eutanasia. Ci fa sentire tutti un po' più cittadini, tutti un po' meno assoggettati al dispositivo biopolitico. La macchina della scienza passa per un momento in second'ordine. Ma che cosa rispondiamo alla macchina da guerra dell'ideologia religiosa che tuona dall'alto delle gerarchie, ben sapendo di catturare così la voce del più modesto dei fedeli, il quale ripete che la vita è sacra, Dio ce l'ha data e Dio ce la toglie? Una risposta che 20

Il caso di Eluana

scenda nel dettaglio di questo "ce la toglie" e discuta se la teologia possa andare d'accordo con l'artificio tecnico di un'esistenza mantenuta allo stato vegetale è plausibile ma non sufficiente. A mio parere, la risposta va cercata discutendo su che cosa significhi per noi, oggi, la parola "verità", sugli effetti anche devastanti prodotti da una certa pratica della verità. Intendo una pratica assolutistica arroccata sulla semplicità indiscussa e sul radicamento di alcuni principi, come il carattere sacro della vita, ripetuti in modo acritico e spesso arrogante. A questa pratica dell'assoluto non si contrappone la pratica del relativo (tante verità), ma la molto più faticosa pratica del ragionevole. Ciò vuol dire che la verità non deve più funzionare come una macchina da guerra (magari inconsapevole per i più), ma deve essere umanizzata come mezzo di discussione civile, strumento per confrontarsi, interrogarsi, capirsi dentro la relazione sociale, che è fatta anche di amore e sofferenza. Senza questo disarmo della verità e la conseguente apertura alla cittadinanza, continueremo a brancolare come ciechi nelle sabbie mobili del dispositivo biopolitico che ci governa. Anzi, ci offriremo come corpi e anime docili al risucchio di tale dispositivo. Impugnando le cosiddette verità forti ci comportiamo come Don Chisciotte con i mulini a vento: non solo ci rompiamo il naso sbattendolo vanamente çontro il muro, ma ci

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Etica minima

priviamo dell'unico antidoto, che è appunto quello della ragionevolezza. Nella disperante complessità del nostro vivere attuale, la ragionevolezza è il tentativo di aprirci il più possibile all'altro, di guadagnare più terreno possibile alla conoscenza di noi stessi come coprnnità di soggetti, con la consapevolezza delle ombre, dei paradossi, degli errori, delle imperfezioni e delle approssimazioni, che sono il tessuto di questo vivere. 15 novembre 2008

2 La culla è vuota Quello che è accaduto la notte di Natale del 2008 nella chiesa di Santa Lucia a Bergamo merita un supplemento di riflessione. Ricordo l'episodio. Protagonista è monsignor Emilio Bianchi, che sta celebrando la messa rituale davanti ai fedeli. Siamo al momento clou dell'omelia. L'officiante comincia dicendo che, se pure ha qualche nostalgia per quel ritrovarsi "nell'unica stanza attorno alla lunga tavolata con la famiglia al completo", sospendendo per un giorno "i panni della ferialità povera per indossare l'abito della festa", non indulgerà a prediche moraleggianti sul Natale consumistico. Gli basta che i fedeli abbiano deciso di allontanarsi per un momento dal-

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le luci colorate della città e si siano spinti fin lì "per inginocchiarsi davanti al Bambino". Però, questa volta, il rito non si compirà secondo le abitudini e la culla nel presepe resterà vuota: non ci sarà nessun Bambino. Ed ecco la frase centrale di tutta l'omelia: "L'Amore non lascia mai fuori nessuno, non emargina, non rifiuta di accogliere, non dice di non avere tempo, non inventa scuse, non si na~conde dietro la paura del diverso da me. È per questo motivo che il nostro presepio quest'anno avrà la culla vuota". E ancora: "Sì, è una provocazione per interrogare le nostre vite. Oggi è Natale, ma è davvero Natale per il mio cuore?". In questo mondo attraversato "dalla guerra del benessere sprecone" siamo tutti "responsabili" perché abbiamo tutti disimparato ad amare. "Venne tra i suoi e i suoi non loriconobbero". Infatti. Così l'assenza simbolica del Bambino dalla culla può ricordarci l'assenza reale del Dio-Amore dalle nostre vite, nonostante tutte le belle parole che escono dalle nostre bocche e tutti i buoni gesti che possiamo affannarci a compiere per nascondere questo buco. L'episodio è marginale ma alquanto istruttivo. Colpisce parecchio anche me, che pure non sono credente e che non sono mai andato a inginocchiarmi la notte del 24 dicembre davanti al presepe, neppure quando ero piccolo. Anzi, il presepe mi ha sempre suscitato un senso di fastidio e di falsità (non parlo del presep!= consumistico ormai

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abitato dai personaggi-mito, dalla velina di successo alla statuetta di Obama), un senso di superstizione. Meglio l'albero con le palle colorate. Tuttavia, devo confessare che dinanzi ali' episodio di Bergamo mi sono fermato un attimo: non mi aspettavo che questa pratica, per me opaca e solo retorica, potesse rivitalizzarsi diventando veicolo di quella che lo stesso monsignore in questione chiama esplicitamente una provocazione morale. Non so come l'abbiano presa i fedeli lì riuniti e se il cosiddetto mondo cattolico si sia limitato a un sorriso per archiviare l'incidente (che è stato subito dimenticato, almeno dai media) attribuendolo alla mattana creativa di un singolo prete. Sarebbe bello che, invece, fosse il primo anello di una catena collettiva e che i prossimi Natali diventassero i Natali con le culle vuote. Ma non accadrà. Resta vero, anzi verissimo, che nessuno - credente o non credente - sembra essere preparato alla diversità, e ciò è grave perché la diversità (le diversità) è il nostro principale problema, che si fa di giorno in giorno sempre più urgente. Se c'è qualcosa come un'etica minima, un minimo bagaglio di cui munirci per abitare il mondo pubblico in cui viviamo e le case in cui ogni volta ci rifugiamo credendo di chiudere davvero la porta alle nostre spalle (ma anche solo per abitare decentemente noi stessi comunque ci isoliamo), questo bagaglio ha a che fare con il diverso e, soprat tutto, con la paura maledetta che ne abbiamo.

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Il caso di Eluana

In piena malafede ci illudiamo di sacralizzare l'identico, la nostra bella identità, che chiamiamo ordine e sicurezza. In realtà non facciamo che difenderai tutto il giorno da qualunque increspatura, incidente di percorso, iniziativa nuova, mescolanza di esperienze, cedevolezza delle abitudini. Crediamo così di poterci immunizzare dal1' esterno, che invece si infila dovunque come una corrente d'aria. Ma poi è l'interno che ci assale e allora abbiamo paura di noi stessi, come se scoprissimo con sgomento che il diverso è un dentro, prima ancora di essere un fuori. E, anzi, su quel fuori con cui siamo così poco accoglienti (o magari falsamente accoglienti) proiettiamo il disagio per la nostra stessa diversità. Dubito che ciò possa davvero incontrarsi con l'amore che quel monsignore invoca (come tanti) come una medicina adeguata. Intanto toglierei la maiuscola dalla parola, anzi proporrei di abolire tutte le impuntature maiuscole di cui ci circondiamo e di cui andiamo irrisoriamente fieri. 5 gennaio 2009

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Aveva ragione Pasolini Ogni tanto torna preoccupante la questione morale. Ciclicamente, come un male di stagione. Non prevede vaccinazioni. Si accende una luce

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rossa, scattano allarmate riflessioni. Su che cosa? Morale e immoralità, è chiaro. E si parla, ovviamente, di questa immoralità che si diffonde a macchia d'olio con vari nomi, per esempio "corruzione". Ne restiamo ogni volta quasi sorpresi, come se l'altra parola, morale, fosse un bene com une che ci è sfuggito di mano e che ora si tratta di riportare a casa. Non abbiamo idee tanto precise di questo supposto bene, di cui ciascuno sarebbe proprietario, e non sappiamo da dove venga, se e come l'abbiamo utilizzato, perché l'abbiamo stupidamente dilapidato. Sembra che sappiamo molto meglio che cosa sia l'immoralità, quasi fosse l'acqua in cui quotidianamente nuotiamo. La nostra acqua. Sarebbe dunque più verosimile chiamarla "questione immorale" e vedere come riteniamo di starci dentro senza annegare. Sarebbe meglio non prendere in giro noi stessi e dirci: eccoci qua, siamo proprio noi. Quando, più di trent'anni fa, Pier Paolo Pasolini cominciò a pubblicare i suoi scritti "corsari" (che erano articoli di giornale) e disse che ormai in Italia si era consumata una "mutazione antropologica", tutti ne rimasero profondamente colpiti e scandalizzati. Aveva ragione, sembra quasi banale riconoscerlo oggi. Chi non è d' accordo? Il fatto è che, ancora oggi, nessuno vuole crederci. Una potente ideologia moralistica ci fa continuamente velo. Dovremmo prendere atto che l'italiano me26

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dio (dunque, nessuno escluso) si muove in una specie di fanghiglia che, nobilitandola, possiamo chiamare "immoralità". Ma anche "fanghiglia" è un termine moralistico, e dunque falso. Ci muoviamo, in realtà, dentro i nostri materiali interessi piccolo-borghesi, che sono quelli del consumismo senza pietà e del reale disinteresse verso chi ci è intorno. L'altra faccia della globalizzazione (ah, se Pasolini fosse vivo!) è questo egoismo spietato. L'unico gesto "etico" che forse ci resta da spendere è guardarlo in faccia questo egoismo, cercare di capirlo e di sapere come possiamo abitarlo. Tutte le forme di pietà con cui possiamo abbellirlo risultano tentativi risibili di allontanarne la crudezza, per salvarci un po' l'anima e magari dormire tranquilli. Per esempio, non è cinismo ma realismo (e qui di nuovo Pasolini può esserci maestro) riconoscere che la frontiera fra privato e pubblico non esiste più da tempo. I vizi pubblici (delle pubbliche virtù è meglio scordarsi) fanno un unico circuito con i vizi privati: l'omologazione tra individuo e società si è realizzata in pieno, come i media non fanno che attestarci. Nessuno può nascondere sotto il tappeto i supposti vizi privati, che anzi tutti ormai sbandieriamo, perché la stoffa dell'individuo è la stessa stoffa che riveste società e istituzioni: cronaca nera, cronaca giudiziaria, cronaca politica compongono un unico vestito per tutte le occasioni e per ogni stagione. '·

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Bisogna intanto saperlo, senza continuare a illuderci che possiamo tirarcene fuori con qualche buon proponimento. La questione morale nasconde questo trucco, che una volta chiamavamo "doppia verità". Occorre smascherarla, con tutta la sua coda di valori appiccicosi e artificialmente rianimati. Per esempio, quando parliamo di "vita" (o di "vite", molte delle quali valgono per noi evidentemente meno di altre), come possiamo pontificare credendo di separare questa questione dall'egoismo che ormai respiriamo come l'aria e che, di fatto, difendiamo in ogni modo? Non sarebbe più ragionevole e salutare mettere le carte in tavola e dare un'immagine più credibile di noi stessi? Gli intellettuali (o quelli che ancora attribuiscono a se stessi un mandato critico) dovrebbero almeno avere il compito di scollare dai nostri volti un po' delle maschere con cui li imbellettiamo, e di tentare di far esplodere alcune delle parole ninnananna che ci ripetiamo automaticamente, come "morale" o "giustizia" o "tolleranza". Qualcuno di noi desidera essere immorale o ingiusto o intollerante? Non scherziamo. In cuor suo, ciascuno si sente morale, giusto e tollerante, in una parola si sente "buono". Ma "buono" e "cattivo", nella loro pedagogica e rassicurante opposizione, sono ormai un latte-e-miele ideologico di cui diffidano perfino i bambini. Quanto sarebbe meno falsificante dire "furbo" e "stu-

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pido" e dare alla furbizia, a tutti i livelli, il primato di cui essa gode nella società contemporanea, il valore talora assoluto che essa si guadagna dovunque nel privato e nel pubblico. Bisognerà riparlarne di questa furbizia come virtù regina senza la quale sei un imbecille e non conti nulla, qualunque cosa tu faccia. Altro che questione morale! 20 gennaio 2009

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Il diavolo e la 180 Dunque, in questo nostro mondo che sembra ormai solo abitato dalle merci e dai consumi, il diavolo (sì, proprio lui) continua ad aggirarsi e a produrre i suoi effetti, molteplici quante sono tradizionalmente le maschere che indossa. Nell'agghiacciante vicenda mediatica che ha portato alla ribalta la sofferenza di due donne triestine, una madre di 65 anni e sua figlia di 34 di San Giuseppe della Chiusa (frazione di San Dorligo della Valle), ci sono molti aspetti drammatici e indecenti. Abbiamo potuto farcene qualche idea attraverso una serie di articoli e interviste: abbiamo capito che Darina, la madre, esasperata, ha consegnato il suo vissuto ai media nazionali (televisione e riviste "da parrucchiera" comprese), dopo che il quotidiano Libe-

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ro (9 gennaio) si era buttato sulla sua sofferenza per trasformarla in uno squallido messaggio di denuncia contro la psichiatria triestina e la legge 180 (mentre da vent'anni gli operatori della salute mentale cercavano con un'attenzione esemplare di dipanare questa complicata "follia a due" che attanaglia lei e la figlia Eva, massacrandole entrambe). Quando, per la prima volta in vita mia, mi sono risolto a comprare una copia di Visto, ho provato un senso di disgusto guardando le grandi e dolorose foto di Darina e di Eva, e un moto di rabbia nel leggere quelle didascalie, strillate sopra le stesse immagini, che dicevano: osservate la sofferenza in questi occhi, ecco la schizofrenia. Non mi interessa qui la storia psichiatrica delle due donne: altri, meglio di me, sono in grado di documentarla. Mi interessa, invece, lo sfregio alla soggettività, la violenza di un'esibizione indotta, per la quale la parola "manipolazione" è dawero troppo stretta. E poi, appunto, il diavolo. Compare almeno due volte: la prima si chiama "demonizzazione". Demonizzazione della sofferenza mentale ostentatamente esibita come mostruosità: il piacere, questo sì morboso, di rivoltare le viscere e l'anima delle persone ritenute diverse, per scrutare la bestia che albergherebbe nei loro corpi, e il nostro godimento, come in uno zoo, a rubare queste immagini di sofferenza sfogliando di-

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strattamente le pagine patinate (ma non basta aprire la televisione?). La seconda volta, in quest'orribile vicenda, il diavolo appare, per dir così, in prima persona. Nelle vesti di un prete esorcista, con tanto di nome, cognome e indirizzo (per chi ne avesse bisogno), che cura la follia tirando fuori la bestia cornuta dal corpo delle persone, Darina compresa, che a questo galantuomo si è da sempre affidata perché le prometteva quella guarigione che i servizi psichiatrici facevano fatica a garantirle. (Ecco una buona idea per riformare la legge 180, il riconoscimento degli esorcisti!) Testimoni auricolari parlano di gemiti convulsivi e di urla, là nella canonica dove veniva praticato - sembra una specie di elettroshock senza elettrodi. È questo il mondo in cui ingenuamente viviamo? Sembra di sì, se prendiamo come sintomo l'episodio di cui sto parlando. Peppe Dell'Acqua, responsabile della salute mentale a Trieste, che si è preso cura anche personalmente di Darina e di Eva, ha provveduto alle denunce del caso: è tuttavia facile prevedere che quello che è accaduto renderà più accidentato, d'ora in avanti, lo sviluppo della delicata terapia. Dell'Acqua ha scritto un libro intitolato Non ho l'arma che uccide il leone, prendendo spunto da una cantata popolare e raccontando la storia della chiusura del manicomio, cioè la storia della legge 180. Pare, tuttavia, che qualcu-

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no creda di possederla quest'arma magica che ci libererebbe dalla bestia che talora ci sentiamo dentro. E se la scienza, spesso santificata, è lenta e nicchia quanto alle sue pretese di onnipotenza, allora che vengano gli esperti del diavolo a insegnarci come si fa. 29 gennaio 2009

5 Vita) morte Partecipazione e tensione emotiva straordinarie accompagnano l'esito della vicenda di Eluana. Tutti hanno preso parte, con sentimenti forti e opposti fra loro, a un evento che è diventato esemplare perché mette in gioco la questione della vita. I media, nessuno escluso, soffiano sul fuoco, dirigendo il nostro sguardo sui dettagli più scabrosi e nelle pieghe più intime. Se potessero, violerebbero quella linea che chiamavamo del pudore e ci darebbero la cronaca secondo per secondo di ciò che accade a un corpo tenuto artificialmente in funzione quando gli si toglie acqua e alimento. Il confronto con la tensione collettiva che attraversò, più di trent'anni fa, la battaglia per la legalizzazione dell'aborto può venire in mente, specie a chi allora c'era, ma regge solo per alcuni aspetti. Anche là la battaglia riguardava la vi-

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ta, ma in gioco era un dispositivo di legge e con esso un possibile acquisto di emancipazione da parte delle donne. Qui si tratta di un'esistenza singola, per quanto muta e inerte, e di un grumo di sofferenze che ancora la investono da ogni parte. Nessuno, nessuna scienza o filosofia, arriva fino in fondo all'enigma della vita. Forse è un obiettivo impossibile che tradisce il nostro delirio di onnipotenza. Forse è bene non arrivarci, e proprio per questo è necessario che una società civile si dia delle regole certe, rispettose, almeno ragionevoli. Ma è un fatto incontestabile che negli ultimi decenni i dispositivi che governano gli individui si siano assestati e rinforzati. Sempre di più la vita degli individui è diventata il centro agente di questi dispositivi globali e delle pratiche di potere che ne sono il funzionamento. Una vita astratta, dotata però di peculiarità precise, per esempio quella di oscurare e assorbire in sé la morte. Veniamo ogni giorno identificati con questa vita, tutta esterna, computabile, nella quale i poteri e i saperi investono se stessi e si prendono così cura degli individui. Una vita sempre più medicalizzata. Tutto ciò ci espropria della nostra vita, che quasi non riusciamo più a nominare, e ci espropria anche della nostra morte. Noi sappiamo che la morte appartiene alla vita, che vita e morte fanno una cosa sola, che non si possono separare con una divisione sancita, già misurata. Vorremmo ·,

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che entrambe, la vita e la morte, tornassero nostre, come crediamo che siano, e, quando riusciamo, affermiamo questo elementare diritto. Intanto, però, la vita viene sempre più staccata, resa oggetto, diventa anonima, alla stregua di un qualche bene o di un valore che non corrisponde a ciò che viviamo, che non ha niente a che fare con il diritto che rivendichiamo. E anche la morte, forse ancora di più, viene staccata e diventa irriconoscibile, alla stregua di un qualche male o di un accidente che arriva, di un disvalore di cui i dispositivi di potere non sanno che farsene e su cui allora si precipitano gli sciacalli della morale per ricavarne i loro profitti. Il caso, che ora attanaglia gli animi in una specie di spettacolo perverso, scoperchia, secondo me, un drammatico vuoto di cultura, il nostro attuale analfabetismo in fatto di vita e di morte, il furto di civiltà di cui siamo continuamente vittime ma di cui tutti, in qualche misura, siamo continuamente corresponsabili. C'è solo da sperare che l'episodio eccezionale serva a rendere gli occhi un po' più limpidi e ci aiuti a scorgere il crescente scippo di soggettività che caratterizza la nostra condizione attuale. E allora dovremo almeno ringraziare quel padre, il padre di Eluana, che con la sua drammatica abnegazione ha lanciato un messaggio per molti, purtroppo, ancora inascoltabile. 5 febbraio 2009

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Eluana e una certa Federica Nella prima pagina di uno di quei tabloid che vengono distribuiti gratuitamente sui sedili dei treni si leggevano due grandi titoli accompagnati da altrettante foto. Il primo diceva: "La morte di Eluana". E, subito accanto, il secondo aggiungeva: "La cacciata di Federica". Sotto, pure affiancate, le immagini dei volti delle due donne. Oscena che fosse, quella prima pagina rappresentava una verità. La sera precedente, poco dopo le venti, era arrivata da Udine una notizia che era rimbalzata su tutte le emittenti televisive: la vita vegetativa di Eluana si era interrotta prendendo in contropiede, con inatteso anticipo, un Paese da giorni teso su questa vicenda con un'intensità emotiva straordinaria, e partecipe di una corsa contro il tempo quasi assurda tra ciò che si consumava in una clinica di Udine e un decreto di quaranta parole che un governo, svegliatosi all'ultimo momento, cercava affannosamente di varare per interrompere quanto si stava legittimamente compiendo in quella clinica. Il colpo di scena giungeva nel fuoco di una battaglia dai toni estremi, nella quale la parola "assassini" veniva ripetuta contro coloro, capo dello Stato compreso, che si erano schierati per tutelare un diritto ormai acquisito. Da quell'istante in poi, tutti i programmi tele-

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visivi delle reti più importanti lasciavano spazio ali' evento e alle sue ripercussioni, così coinvolgenti che ancora adesso non si sono spente. Tutte tranne la rete pilota di Mediaset, che non molto più tardi si rifiutava di rivoluzionare il proprio palinsesto in cui era programmato l'appuntamento con Grande Fratello, il più popolare dei cosiddetti reality. Come è noto, è stata una decisione sofferta che ha portato alle dimissioni del principale uomo-immagine di Canale 5, il giornalista Enrico Mentana, conduttore del talk: show Matrix. Ma è stata anche una decisione redditizia, dato che in quella serata, durante la quale tutti siamo rimasti come strozzati dall'emozione, Grande Fratello ha ricevuto un ascolto non certo distratto, anzi da record, raggiungendo la quota di otto milioni. Otto milioni di concittadini si sono appassionati, proprio quella sera, alle sorti di Federica, al suo pianto dirotto di ex modella perché veniva eliminata dal gioco per aver tirato un bicchiere di vetro addosso a un compagno della ben nota "casa", in una delle sue esibizioni nevrotiche. Ne ha scritto diffusamente Edmondo Berselli su la Repubblica sotto un titolo chiaro e quanto mai eloquente: "Il reality batte la realtà". Poveri noi, commenta Berselli sconsolato: "A mano a mano che l'antropologia futile del reality si combina in modo stabile con lo sguardo attonito dello spettatore non reattivo, il giornalismo e l'infor-

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mazione diventano merce senza qualità, notizia irriflessa, dato grezzo di cronaca manipolabile senza problemi deontologici". Sottoscrivo parola per parola questa lucida indignazione. Tuttavia non basta dire che il reality batte la realtà, poiché c'è qualcosa di più tremendo per tutti noi, ed è quello che rende oscenamente vera la prima pagina del tabloid di cui ho parlato all'inizio. Quella sera abbiamo avuto la prova più lampante di una mutazione che già conoscevamo bene: il reality è diventato realtà, e la realtà - ancora peggio - è diventata un reality. Tra le due dimensioni non c'è partita né scontro, non c'è chi vince e chi perde, perché ormai esiste una continuità, uno spettacolo che continua e che una volta si chiama Eluana e un'altra si chiama Federica. Siamo inorriditi da questo scivolamento? Ma riusciamo a spiegare in un modo diverso quegli otto milioni di spettatori? Amano di più la finzione della realtà oppure - come credo - non distinguono più l'una dall'altra, quando la cosiddetta realtà è già caricata di spettacolo e la cosiddetta finzione ti cattura quanto e più della semplice cronaca? Esiste ancora un simile confine? E siamo così sicuri di poterlo individuare e di saperci collocare in esso con lucidità etica? Certo, poveri noi, ma proprio perché tale confine sembra diventare ogni giorno più labile e incerto, e le nostre categorie mentali ci rassicurano sempre meno. 12 febbraio 2009

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I furbi e gli ingenui Dawero il mondo è dei furbi? Mi viene in mente Ulisse. Questo eroe omerico, poi protagonista del mito dantesco, è entrato nell'immaginario collettivo come il prototipo dell'uomo astuto. È l'astuzia che gli permette di superare difficoltà immense, per esempio di resistere al canto delle Sirene. Gli attuali furbi che popolano con tracotanza le cronache italiane gli assomigliano? Direi proprio di no, anzi andrebbero molto meglio nella parte delle Sirene. Semmai, i nostri furbi dei vari quartieri (e, per estensione, del cosiddetto Palazzo) ci fanno pensare a quegli altri personaggi omerici, un po' squallidi e minori, che compongono la banda dei Proci: loro si sono piazzati a casa di Ulisse e circuiscono Penelope, vogliono accaparrarsi, mentre lui è assente, la sua donna e le sue cose. (Anche Penelope gioca d'astuzia femminile disfando di notte la famosa tela che tesse di giorno.) Ma l'astuzia di Ulisse è ben altro: sarebbe solo furbizia se non si combinasse con quel coraggio che lo spinge verso grandi im12rese con il desiderio di realizzare l'impossibile. E il primo a insegnarci "sì, noi possiamo". Possiamo sfidare limiti che sono verosimilmente invalicabili, possiamo uscire dalla gabbia di una quotidianità sbarrata. Penso al trantran delle nostre vite azzerate, al cal-

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duccio che amiamo tanto, ai genitori che dicono ai figli di restare a casa perché fuori ci sono pericoli di ogni genere, alla nostra sindrome da insicurezza, che esige una porta ben chiusa (anzi, prowista di sistemi di allarme). Alla fine del suo capolavoro teatrale, Vita di Galileo, Brecht fa dire al protagonista che felici saranno i tempi in cui non avremo più bisogno di eroi. La letteratura è maestra! Dopo Ulisse, molto dopo, arriverà un tipo inventato da Cervantes, Don Chisciotte. È astuto o ingenuo? Comunque ci insegna un po' di ironia. Il gesto romantico di Ulisse viene temperato dal gesto troppo umano di uno scalcinato cavaliere. Il grande regista Orson Welles ha tradotto stupendamente in immagini questo personaggio. Eccoci sideralmente lontani dai nostri furbetti che non credono a nulla e sono pronti a calpestare ogni patto e diritto. Senza il coraggio morale della sfida, l'astuzia di Ulisse è degradata a barzelletta. Però, senza l'autoironia di un Don Chisciotte, il coraggio di Ulisse rischia di diventare astratto, un mito inefficace di cui possiamo nutrirci anche stando comodi in poltrona. Comunque, tutto questo non tocca minimamente la casta dei Proci, che si riproduce e tira avanti per la sua strada; e che oggi sfila nei talk show televisivi, con i buoni consigli, le urla, i sensati lamenti, come negli episodi di una telenovela sempre uguale a se stessa, costruita attorno agli I

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annunci e alle mosse di chi certo si crede il più furbo del reame. Sarebbero da preferire le vere fiction, quelle con le facce di Ridge e di Brooke, o di altri, se non fosse che paghiamo di persona questo teatro di modesta furbizia, scoprendo ogni giorno che i nostri spazi di vita si stringono. Forse il romanzo di Cervantes ci potrebbe suggerire qualcosa, dato che dei folli voli di Ulisse non è davvero più il tempo. Smetterla, per esempio, di adorare la furbizia, sottoprodotto di quel coraggio. Non farne un valore, perché diventa quasi sempre una derisoria virtù da Proci. E cominciare, chissà, a diventare un po' più ingenui, il che non significa più stupidi. Provare insomma a indossare le vesti di Sancio Panza: scendere da cavallo, accorgersi che la spada è di latta e che i mulini a vento sono solo mulini a vento. Imparare almeno a sorridere dei furbi e di noi stessi. E se questo smettere di prenderci sul serio fosse l'unica molla che ci fa alzare dalla poltrona, uscire di casa e iniziare un viaggio nella città, in mezzo alla gente qualsiasi, mescolandoci agli altri? Ali' elogio della furbizia, spesso imbellita da una tinta di moralismo, preferisco l'elogio di questa ingenuità che ci spingerebbe a scaricare la ferraglia che ci appesantisce, a denudarci di fronte a noi stessi e agli altri. Un passo indietro, o a lato, un'esitazione, una pausa, una qualche salutare distanza ... E ai causidici, che già sento mormorare

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"ecco un altro modo di essere furbi", rispondo: siamo molto lontani da quest'etica minima, ben venga se riusciamo a farla un po' nostra. 18 febbraio 2009

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Il gioco d'azzardo e altri tabù Ogni tanto cade un tabù. Lo si accompagna con l'aggettivo "morale". Che cos'è un tabù? Strana parola, a pensarci, e infatti essa ha compiuto un lungo viaggio, come spesso accade alle parole: arriva dalla Polinesia, dove tapu era l'interdizione verso tutte le cose sacre, poi passa per il francese tabou e prende il significato attuale, più ampio, di ciò su cui è opportuno tacere per paura o per pudore. Il tabù morale che sarebbe finalmente caduto è quello nei confronti del gioco d'azzardo e delle cosiddette "case" in cui viene praticato. Gli avrebbe dato la spinta definitiva il presidente del Senato Renato Schifani, con il rincalzo entusiasta della sottosegretaria al turismo, Michela Brambilla, la "rossa". Ora l'Italia potrà cominciare a mettersi al passo con l'Europa (4 casinò contro i 188 della Francia e i 70 della Germania). I casinò - si è scoperto - sono una risorsa turistica, da attivare in tempo di crisi. L'aggettivo "morale"? Si scioglie come la neve, e semmai rinasce '•

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come battaglia virtuosa contro le bische e il diffuso gioco illegale, grazie al quale - a conti fatti - l'Italia non è certo la cenerentola nella classifica europea. Si sa, siamo un popolo di giocatori. Ma il gioco d'azzardo non era una specie di malattia gestita dal demonio? E la Chiesa, che cosa dice? Viene in mente la battuta su san Francesco: se allora ad Assisi ci fosse stato un casinò, chissà che non avrebbe dirottato lì le sue ricchezze! Insomma, quando entra in scena il denaro (il "dio mammone"), il tabù cede il passo. Si diventa ragionevoli: è vero, ci sono i giocatori compulsivi, e magari sono anche dei malati, ma la grande massa di chi gioca d'azzardo è ben altro! Si scopre d'improwiso, per mero interesse, ciò che un giocatore sa da sempre. Che si gioca per il piacere di giocare e non per sete di denaro, che il buon giocatore detesta barare e dunque vincere servendosi dell'imbroglio, che si mette a rischio sapendo benissimo di fare un'esperienza di perdita, e soprattutto che, se c'è un luogo in cui il denaro conta meno e talvolta perde tutto il suo valore (reale e sacrale), questo luogo è proprio la casa da gioco. La filosofia (da Pascal a Nietzsche), tantissima letteratura (da Mallarmé a Dostoevskij) ma anche una fetta cospicua del sapere scientifico (biologi come Monod ecc.) da tempo ci hanno insegnato che il caso è una componente non secon-

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daria e perfino decisiva della nostra vita, e che dobbiamo imparare a maneggiarlo se non vogliamo che i nostri cosiddetti calcoli razionali siano completamente fasulli. Oggi, poi, se volessimo continuare a usare la metafora del diavolo, così comoda ed eloquente, dovremmo seriamente chiederci se sia più diabolico un finanziere senza scrupoli, uno di quelli che appartengono alla categoria dei furbi, oppure un giocatore d'azzardo che scrupoli ne ha e proprio furbo non sembra. Quest'ultimo non inganna il prossimo e non truffa nessuno: l'unico che ci rimette, alla fine, è lui stesso. Lui prende terribilmente sul serio il gioco, non fa il burattinaio a scapito della comunità. È un ingenuo. Certo, come tale, può essere facilmente strumento dei furbi. Ma, nella sua innocenza, può anche insegnare ai mascalzoni che il denaro non è il nostro dio onnipotente, il nostro tabù, e che nella vita ci sono altri piaceri, direi più sani, del piacere morboso di arricchire, un godimento che si nutre di cinismo e che disprezza ogni senso di umanità pur di arrivare allo scopo. Se confrontiamo questi due "tipi" di uomo, viene da pensare che il tabù non si annidi nel gioco d'azzardo (un tabù tenuto in vita artificialmente e per colpevole comodità), ma altrove, addirittura nelle idee-guida che orientano il nostro comune vivere sociale, idee che sono spesso, alla lettera, "immorali", perché sacralizzano il de-

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naro e premiano le canaglie. Questo è il vero tabù, e siamo ben lontani dal farlo cadere o anche solo dal metterlo in dubbio. 5 marzo2009

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Il panico morale e i suoi rischi Se è vero che oggi, in Italia, siamo di fronte a un'ondata di panico morale, e anzi ne siamo sempre più sommersi, l'etica minima di cui cerco di parlare è l'esatto contrario. Il panico morale è un'onda di emotività irrazionale, il contagio di una paura sociale diffusa, mentre l'etica minima è un appello alla ragionevolezza dei cittadini, il tentativo di prendere una qualche distanza proprio da ogni emotività morbosa. Se è in nome della sicurezza che il nostro Paese viene autorevolmente dichiarato "la Mecca del crimine", l'effetto che si produce, moltiplicato quotidianamente dal megafono mediatico, è quello di seminare insicurezza. Una volta seminata e fatta crescere ad arte, non senza il fertilizzante dei sondaggi e di statistiche ad hoc, quest'erba velenosa invocherà una potente falce, cui si addice il nome di repressione e che sarà benevolmente accettata come rimedio al panico e alla paura. Questo circuito perverso tende a imporsi nelle teste di tutti con un evidente effetto di parali-

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si, e si scarica su alcuni capri espiatori (oggi, soprattutto gli immigrati), facendo indietreggiare ogni criterio di ragionevolezza e anzi, in una prospettiva di breve periodo, sospendendoli tutti. Si dice, non sbagliando, che ciò sia conseguenza dell'acuta crisi economica che attraversa l'intero capitalismo planetario, ma è altrettanto vero che questo panico morale sta assumendo un'esistenza autonoma e che i suoi guasti potrebbero soprawivere alla stessa crisi economica, installando stabilmente dentro ciascuno di noi una macchina autoritaria devastante. Saltato quasi completamente il principio di realtà, e intendo quel filtro etico e politico con cui verificare pratiche sociali autentiche, veniamo a trovarci, sempre più disarmati, in balìa dei fantasmi della paura, e rischiamo di dilapidare velocemente le riserve di democrazia accumulate in anni di lotte virtuose. È un allarme psichico che potrebbe anche trasformarsi in una mutazione della nostra fragile umanità, se non corriamo presto ai ripari. Le "ronde" costituiscono, a mio parere, uno dei numerosi sintomi dell'ansia di massa - figlia legittima del panico morale - di diventare ciascuno il poliziotto di se stesso, e di realizzare in questo modo il desiderio di separare con una linea netta il cosiddetto "bene" dal cosiddetto "male" (vecchia semplificazione, ma sempre buona all'uso), autorizzandosi a scaricare la propria aggressività

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sul capro espiatorio di volta in volta disponibile. Non sarà sfuggito a nessuno che è tornata baldanzosamente in circolazione una dizione nefasta che credevamo ormai sepolta: "pericolosità sociale". La pericolosità costituita dai devianti e dai diversi: cioè, dall'esercito in crescita degli svantaggiati. Il fenomeno - come tutti possono constatare - sta dilagando in ogni direzione, e oggi ci si rivolge anche all'"italianità" come discriminante, in spregio a ogni socializzazione globalizzata. Gli attacchi alla legge Basaglia fanno parte naturalmente di questo quadro, se solo riflettiamo sul fatto che il disagio mentale, emerso con dure battaglie dall'interdetto della pericolosità sociale (sancita all'inizio del secolo scorso), oggi si vorrebbe rientrasse nello stigma di un tempo. Si vorrebbe? In effetti, il panico morale che si sta impossessando dell'opinione pubblica procede spedito per questa strada, che deve essere spianata dalla diversità (altro che protagonismo!) e riportata all'ordine di prima. 12 marzo 2009

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Altitaliana Chiedo alla responsabile dell'ambulatorio per stranieri (che casualmente è anche il mio medico di base), come pensa che andrà a finire con l' an-

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nunciato prowedimento per cui i medici si troveranno di fronte ali' obbligo di denunciare gli immigrati illegali. Risponde con un sorriso ironico. Se è per questo - mi dice - l'illegalità dell'immigrato è già stata sancita come qualcosa di criminoso, ma poi tutto finirà all'italiana. Cioè? Mi spiega: tutto andrà avanti come prima, noi continueremo a curare chi ne ha bisogno e le denunce verranno dimenticate. E le intimidazioni, e il rischio dei contagi? Tutto svanirà come una bolla di sapone. Lo spero anch'io, sebbene legga in queste parole un auspicio più che un dato di fatto e sebbene abbia l'impressione che esse minimizzino volutamente la situazione. Non mi pare così scontato che si dica a un medico che deve vestire i panni del poliziotto, e le stesse reazioni dell'Ordine dei medici lo confermano. L'ipotesi è talmente grave e assurda che è verosimile sia costretta a fare un passo indietro. Ma è anche del tutto evidente che viviamo in un Paese in cui l'espressione "all'italiana", nel male e nel bene, indica una regola non scritta cui di solito si conformano i comportamenti cosiddetti normali. E anche se, come in questo caso, lo scollamento fra norme e pratiche va a vantaggio dei bisogni reali della gente, tuttavia resta preoccupante il fatto che ormai, a quanto sembra, ci siamo abituati, o comunque ci stiamo abituando, a svuotare di senso e di valore la sequela di decreti

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che ci piovono addosso un giorno sì e un giorno no. Tutti, generalmente, crediamo che si possano evitare gli ostacoli legislativi navigando a vista, e in definitiva mettendo a frutto l'arte di arrangiarsi. La pratica, d'altronde, ci ammaestra: spesso i provvedimenti, dopo una fiammata, finiscono nel dimenticatoio. Vengono in mente tanti casi: come quello dell'obbligo delle cinture nei sedili posteriori dell'auto. La gente sa che i controlli rallentano e poi svaniscono, e non ignora che sono difficili e talora tecnicamente irrealizzabili. È un sottile inquinamento morale che nonnasce certo oggi, ma che adesso si mostra in piena luce. Chi ne è responsabile? In primo luogo, come è ovvio, la responsabilità ricade sui nostri governanti. Ogni pezzo di società civile, dal mondo del lavoro alla sanità, dalla scuola all' amministrazione della giustizia, si è venuto a trovare dentro un intrico di normative, grandi e piccole, non solo arduo da dipanare volta per volta, ma sottoposto a continue variazioni, cancellazioni, sostituzioni, anche a intervalli di tempo molto brevi. Questa complicazione e confusione legislativa è il miglior terreno di coltura per quell' altra parte di responsabilità che riguarda - diciamo così - gli italiani stessi. Quando il governante è confuso, poco identificabile nel suo intento, e mostra non di rado comportamenti ispirati più all'interesse politico (e perfino personale) che al bene comune, i cittadini alimentano le condotte

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del fai-da-te, ritirano progressivamente il loro ascolto pubblico acuendo di converso il loro orecchio privato. Nel migliore dei casi, rafforzano la sensazione che il governo e lo Stato siano un altrove muto, o che parla un linguaggio improprio, mentre la realtà in cui vivono - per quanto locale - è il qui effettivo in cui si giocano tutte le partite esistenziali. Non c'è bisogno di 5ofisticati sondaggi per sapere che in Italia (rispetto ad altri Paesi europei) il senso dello Stato viaggia rasoterra e spesso non ce n'è traccia. In genere, da noi, lo Stato è vissuto come un inciampo, un ostacolo, un rischio da evitare, un occhio che ti può scrutare e che quando ti vede - ti mette a disagio perché potrebbe scoprire le tue mancanze. Per esempio, se facciamo una dichiarazione dei redditi realistica, la nostra presunta probità consegue piuttosto o dal non poterne fare a meno o dalla paura di essere sorpresi ad attraversare con il rosso. 18 marzo 2009

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Eutanasia) parola impronunciabile "Fino alla fine si deve poter sentire una vita come degna di essere vissuta e dotata di senso." Ecco una delle premesse di un testamento bio,

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logico come l'hanno inteso il cardinale Karl Lehmann e Manfred Kock, che presiedono rispettivamente la Conferenza episcopale e il Consiglio della Chiesa evangelica in Germania. Il documento è stato messo a punto nel 1999 e rivisto nel 2003. Leggiamone uno stralcio: "'Eutanasia attiva' ed 'eutanasia passiva' vanno ben distinte l'una dall'altra. Per eutanasia 'attiva' s'intende l'uccisione mirata di una persona (per es. con una pastiglia, un'iniezione o una fleboclisi). L'uccisione di persone gravemente malate e moribonde in determinate condizioni ormai è stata legalizzata in alcuni Paesi. Non è tuttavia compatibile con la concezione cristiana dell'uomo. In Germania è giustamente vietata e perseguita penalmente anche qualora avvenga dietro esplicito consenso del paziente. L'eutanasia 'passiva', invece, punta a un dignitoso lasciar morire, non proseguendo o non iniziando nemmeno un trattamento volto al proseguimento della vita (per es. l'alimentazione artificiale, la respirazione artificiale o la dialisi, la somministrazione di taluni farmaci) nel caso di malati inguaribili o terminali. L'eutanasia 'passiva' presuppone il consenso del morente ed è giuridicamente ed eticamente ammissibile". Questa voce, voce ufficiale di cattolici e protestanti che la pensano nello stesso modo, voce importante e autorevole per il suo peso, sembra provenire da un altro mondo, agli antipodi del nostro

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ma che, tuttavia, è proprio qui, accanto a noi. La differenza di cultura è impressionante, quasi inconcepibile, se rapportata ai nostri standard. Intanto, la franchezza, il nominare le cose con il loro nome, il parlar chiaro - senza gergo da azzeccagarbugli, senza furore morale, senza i veli del politichese - sul problema del fine vita, che viene descritto con accenti pacati, rispettosi, del tutto concreti, con uno sguardo fermo e serenamente realistico rivolto alle cose stesse. E poi senza tabù. Viene pronunciata la parola eutanasia come una parola che deve avere piena cittadinanza in questo discorso e che, di conseguenza, viene analizzata e articolata come una parola normale. Per noi, invece, è una parola abnorme, orrenda, diabolica. Certo, viene in mente a tutti, cattolici o laici che siamo, ci arriva fino alla punta delle labbra, ma non possiamo pronunciarla. La ricacciamo in gola, la censuriamo: vade retro! È impronunciabile, è già fuori legge in quanto parola, peggio che se fosse una bestemmia. I vescovi tedeschi la pronunciano tranquillamente e addirittura ne propongono la positività, operando un distinguo tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva. Noi non abbiamo neppure la forza di ascoltarne il suono nelle conversazioni private, figuriamoci nei discorsi pubblici e nei progetti di legge. Quanto meno, dovremmo interrogarci sui motivi profondi di questo gap culturale che ci squalifica alla stre~ua di un Paese di se-

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rie B. Sulle radici di un interdetto che appare perfino di natura psicologica. È una sottocultura, la nostra, che, di fronte a questioni serie e decisive come questa, ci fa abbassare gli occhi e guardare da un'altra parte. Un rifiuto, ormai calcinato dentro moltissimi di noi, a guardare in faccia le cose e a chiamarle con il loro nome. Un atto di genuflessione psicologica e morale di fronte a pregiudizi che sembrano ormai far parte del nostro DNA. Mentre sarebbe così normale, e perfino così owio, riconoscere che una vita deve essere degna di essere vissuta fino all'ultimo. E che questa "dignità" coincide con il fatto che, fino all'ultimo, ogni esistenza, anche la più modesta, deve conservare un "senso" e non cadere nell'anonimato della pura artificialità, per scopi che non hanno più niente a che vedere con tale senso. 26 marzo 2009

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Gli italiani che stiamo diventando

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Analfabeti di ritorno Gli italiani hanno davvero imparato a leggere e scrivere? Le risposte storico-sociologiche sembrano confortanti. Ci sono voluti molti decenni dall'unità d'Italia per superare un pesante handicap, ma oggi possiamo tranquillamente verificare che differenze e ritardi sono stati colmati e che l'italiano medio sa leggere e scrivere, anche se restano problemi di scolarizzazione e alcune sacche buie. Tutto bene, allora? No. Infatti, se guardiamo con occhi meno superficiali, il quadro cambia e la parola analfabetismo riaffiora. L'italiano medio scrive male e a fatica: non ha abitudine alla scrittura, che la scuola penalizza relegandola al margine, al punto che se questo italiano arriva ali' università porta con sé un' esperienza desolatamente limitata. Ha compitato qualche tema scolastico, qualche riassunto e, per conto suo, qualche lettera priva_ta. Non ha un'idea di

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che cosa significhi scrivere e quasi nessuna pratica. Insomma, scrive ma non sa scrivere. È dubbio che la pratica degli SMS, oggi diffusa, glielo abbia insegnato, e anzi viene più facile pensare che lo abbia allontanato dalla scrittura. Basta metterlo alla prova. Cosa che l'università evita quasi sempre, non solo nelle facoltà tecnico-scientifiche ma anche in quelle umanistiche. Le occasioni di scrittura sono ridotte al minimo, se si fa l'eccezione dei cosiddetti appunti. Il fatto che nelle nostre università una discreta parte dei docenti, del pari, siano riluttanti alla scrittura (e qualche volta penino perfino a mettere insieme un programma d'esame), la dice lunga sulla situazione generale. Così, l'italiano medio arriva ali' età adulta, entra nel mondo del lavoro (se ha fortuna) e nella cosiddetta vita sociale con un gap assai evidente quanto alla scrittura. E anche chi ci entra dalla porta principale e riesce ad acquisire una condizione favorevole per reddito e prestigio, spesso fa molta fatica a scrivere una lettera decente o a stendere un comunicato chiaro e comprensibile (non dico godibile), e non è raro che allora si rivolga a qualcuno ritenuto affidabile: politici, dirigenti d' azienda (rettori di università non esclusi), imprenditori, nessun ruolo fa eccezione. La relativa scomparsa della carta, a vantaggio della comunicazione elettronica standardizzata, completa l' opera. È un vero disastro per la povera scrittura.

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Ma, almeno, tutti sanno leggere. Davvero? E se fosse qui, dove meno ce lo aspettiamo, il bubbone più grave? A livello elementare sappiamo riconoscere lettere e parole, ma la lettura è ben altro. Chiede attenzione, una certa lentezza, riflessione. Tutte caratteristiche che stanno subendo un evidente degrado, sostituite da disattenzione, rapidità, automatismo. Siamo entrati ormai in un'epoca in cui il valore massimo è la fretta. Non abbiamo tempo e allora saltiamo le pagine, oppure riduciamo ogni pagina a qualche riga. Accade quando leggiamo un articolo di giornale (dove spesso ci basta il titolo), quando siamo alle prese con un documento e perfino quando ci rilassiamo con un romanzo. (Alzi la mano il collega che legge una tesi di laurea riga per riga.) Risultato: non c'è ascolto verso la pagina scritta, e stiamo tutti disabituandoci alla lettura, come in una specie di analfabetismo di ritorno. E non c'è bisogno di ricordare che, per imparare a scrivere, occorre saper leggere. Concludo riferendomi alle recenti esternazioni di Alessandro Baricco (uno che sa scrivere) a proposito dei denari pubblici da destinare alla cultura, e soprattutto a un aspetto curioso della sua replica ai critici. Avete letto solo le prime righe dice Baricco - e non tutto il resto, perché eravate troppo occupati con la vostra PlayStation. Per favore, staccatevi un momento dalla PlayStation ! Condivido pienamente. N~ssuno più legge per-

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ché nessuno stacca la mente da ciò che sta facendo (PlayStation è una provocazione) e in cui resta immerso anche durante la lettura. 1° aprile 2009

13 La crisi è un terremoto? Tutti ricorderanno che, fino a qualche tempo fa, i telegiornali nazionali dedicavano un discreto spazio alle informazioni sull'andamento delle Borse nel mondo. Non erano notizie secche, come accade oggi in tempo di crisi economica, bensì bollettini articolati e minuziosi con l'esperto di turno che indugiava sulle differenze rilevate nelle singole capitali finanziarie, passandole in rassegna e commentandole, quasi che il popolo dei telespettatori, pur nel suo ascolto distratto, si fosse trasformato in una moltitudine di esperti attenti e interessati anche alle minime variazioni. Quel popolo, presunto o reale, erano poi gli italiani identificabili con altrettanti piccoli risparmiatori che avevano investito i loro denari qua e là, a seconda di come tirava il vento, e che ragionevolmente volevano verificare la direzione di questo vento. Una specie di gioco nazionale non troppo dissimile da un Gratta e Vinci, dato che gli italiani, nella stragrande maggioranza, ignoravano come funzionasse il capitale finan58

Gli italiani che stiamo diventando

ziario o semplicemente che cosa fosse una Borsa e che cosa vi accadesse effettivamente. Nonostante gli sforzi dei vari esperti, chiamati ad ammantare i ,dati di una qualche pseudorazionalità, gli italiani, in genere, scorrevano i listini della Borsa con lo stesso atteggiamento con cui, il giorno delle estrazioni, si controllano i numeri del Lotto sperando che siano usciti quelli buoni. Sembravamo diventati tutti competenti in economia politica e abili conoscitori dei movimenti del mercato azionario, ma ciò era palesemente falso. Nessuno sapeva che cosa stesse accadendo nel capitalismo planetario e se la Borsa ne fosse o meno un sintomo decisivo. In realtà, era anche diventato un po' démodé parlare di capitalismo, parola vecchia e opportunamente relegata in soffitta, sostituita dalla parola mercato, più anonima, più vera, più normale, e che non evocava chissà quali scenari di scontri sociali e di battaglie fra classi. Questo sottofondo l' abbiamo neutralizzato chiamandolo "ideologia": "mercato" corrispondeva alla realtà delle cose, "capitalismo" era invece un fantasma scolorito che era meglio dimenticare. Chi aveva in casa i tre volumi del Capitale di Marx, residuo di una stagione scapestrata e giovanile, li aveva da tempo spostati nelle scansie più impervie e impolverate della sua libreria, sempre che li avesse conservati. Spero almeno si ricordi che il sottotitolo era "Critica dell'economia politica". >

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Ecco, penso che oggi potrebbe essere il caso di farli ridiscendere, quei volumi, fin sul nostro tavolo, di provare ad aprirli e a leggere qualche pagina: feticismo delle merci, circolazione, crisi del capitale ... Mi sembra, in altre parole, che la crisi economica internazionale - che ci minaccia ogni giorno più da vicino - stia mettendo a nudo il trucco di una supposta cultura, mentre non ne sappiamo quasi nulla e quel poco che avevamo appreso l'abbiamo rimosso. Anche i cosiddetti esperti stanno facendo un passo indietro e si limitano a ricette palliative. Spesso, dietro le loro analisi sulle banche e sui titoli tossici, sul come distribuire la spesa pubblica, dare ossigeno alle imprese o incrementare i consumi, occhieggia la semplice speranza che il terremoto passi alla svelta, qualcosa come un fatalismo impotente dinanzi a una macchina mondiale ormai poco governabile. Quella che Marx chiamava "critica" è sparita, perché non abbiamo più strumenti per criticare. Ed è sparito anche l'oggetto da criticare, perché ormai questo è il nostro mondo e ci siamo tutti dentro, di destra o di sinistra che siamo, come se non potessimo più prendere distanza dal capitalismo. Come se un assetto storico - una costruzione sociale, un modo di produrre e di vivere fosse diventato un fatto naturale, appunto un terremoto. Che cosa si fa quando si verifica un terremoto? Lo sappiamo bene: si contano i morti, si valutano i danni, si mettono in moto gli aiuti, si

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pensa alla ricostruzione. E "si spera" che questo terremoto sia finito e che il prossimo arrivi più tardi possibile. 8 aprile 2009

14 Il nuovo Papa e il vecchio Nietzsche Nella solenne celebrazione del Giovedì santo alla basilica vaticana, il Papa - durante la sua omelia - se l'è presa con Nietzsche. Da tempo siamo abituati agli attacchi contro il relativismo della cultura contemporanea: ricordo solo l'enciclica Fides et ratio di Wojtyla. Ridotto all'osso, "relativismo" vuol dire che ciascuno pensa per conto proprio. Il contrario è il dogmatismo, parola alquanto sdrucciolevole: chi si dichiara dogmatico? Nessuno, ovviamente. E allora meglio parlare di Verità, facendo sentire bene l'iniziale maiuscola. Il relativismo è una cosa seria: filosofia ed epistemologia (cioè, la riflessione sulla scienza) ne discutono da anni, e attualmente c'è un diffuso consenso sul fatto che senza una quota di relativismo non si ha produzione di nuovo sapere. Anche la verità è una cosa seria: come si declina questa verità al singolare con le verità al plurale che ormai abitano il nostro mondo? Nietzsche è un po' il padre nobile dell'intera questione: a lui si attribuisce l'idea che le inter..

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pretazioni non siano fatti secondari ma il fulcro del problema. Tuttavia, Benedetto XVI, nell'omelia pasquale, non parla di relativismo. Nietzsche compare all'improvviso nella sua predica, come un fantasma fastidioso subito tacitato, unica presenza laica e attuale in una riflessione rituale e tutta evangelica, dedicata al tema della "consacrazione nella verità". Una battuta lapidaria, a commento della superficialità del mondo di oggi: "Nietzsche ha dileggiato l'umiltà e l'obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi. Ha messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell'uomo". Il tormentone sul relativismo viene così aggirato per andare a colpire la presunzione dell'uomo contemporaneo, che non avrebbe più l'umiltà sufficiente per considerare l'obbedienza una virtù fondamentale. Lo spunto che il Papa introduce nel suo rapido excursus è parecchio interessante, perché appunto innalza l' obbedienza al rango di una virtù molto nobile (mentre Nietzsche l'aveva abbassata a comportamento del gregge) e la unisce strettamente alla Verità, cui il fedele dovrebbe consacrare se stesso attraverso una rinuncia e una purificazione. Questa è infatti la preghiera di Cristo, nel Cenacolo, la sera prima della Passione: chiede che gli apostoli, lì riuniti, siano consacrati nella verità, come sta facendo lui stesso, diventando a un tempo sacer-

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dote e vittima. Un sacrificio di sé che si identifica con l'obbedienza alla parola veritativa. Lasciamo perdere il fatto se si tratti qui di un at to di umiltà oppure no: se, cioè, il consacrarsi nella e alla Verità non possa essere considerato proprio come un gesto di grande presunzione, ammantato delle vesti dell'umiltà. Il pensiero debole, bersaglio abituale degli strali contro il relativismo, è, come si sa, una filosofia della pietas che tenta di combattere contro ogni poco umile pretesa di assoluto. Concentriamoci sull'obbedienza. Dietro e dentro l'obbedienza scorgiamo distintamente il potere, anzi il Potere. Il richiamo all'obbedienza, che ci farebbe uscire dall'ottusa passività del gregge nietzschiano, esorta la pecorella cristiana a riconoscere il "giusto" potere, che sta smarrendo, e ad adeguarvisi attraverso un atto di consapevole, vissuta e sofferta sottomissione. La esorta a liberarsi sottomettendosi. Dileggia (o, almeno, squalifica) la libertà in quanto tale, attraverso cui il gregge si sfascerebbe, e che ci esporrebbe a ogni pericolo, e vorrebbe convincerci che non c'è libertà per nessuno se questa libertà non si coniuga con un'ipotetica e presunta "buona sottomissione". A mio parere, è un segnale di allarme che arriva (o si ripete) con incredibile e incolmabile ritardo sugli eventi che stiamo vivendo e che la Chiesa si ostina a non vedere. Queste stesse, identiche cose potevano essere dette quarant'anni fa, e forse Pasolini le avrebbe_ stigmatizzate in uno

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dei suoi scritti corsari. Da tempo, molto tempo, le pecore sono uscite o scappate dal recinto e non ci si dà la minima pena di chiedersi (seriamente) come e perché ciò sia avvenuto, e dunque per tentare di capire in quale società ci siamo imbarcati, tutti quanti. È comodo limitarsi a tirar fuori- ancora una volta - il vecchio Nietzsche come demone da esorcizzare. 16 aprile 2009

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Come la rana di Fedro Le favole antiche sono un prezioso giacimento di etica minima. Per esempio, La rana che scoppia e il bue di Fedro. La favola dice che una rana, presa da invidia per il bue, comincia a gonfiare la sua pelle rugosa. Chiede ai suoi piccoli: sono più grossa del bue? No, le rispondono. Allora cerca di gonfiarsi ancora di più. Il bue è più grande, le dicono ancora. Lei si arrabbia e tende allo spasimo la sua pelle, finché "rupto iacuit corpore", rimase a terra con il corpo scoppiato. Questa favola, peraltro assai nota, è stata recentemente usata per dileggiare Michele Santoro e la sua trasmissione televisiva Annozero, colpevole di mancata pietas nei confronti delle vittime del terremoto abruzzese. "Ma almeno scoppio da solo", pare abbia commentato Santoro.

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Le favole antiche sono ancora una miniera perché, nella loro brevità, contengono una ricchezza di messaggi e spesso non mancano di ironia. Osserviamo solo il particolare di quei natos (cioè, i figli della rana) che con i loro "no" un po' sadici sembrano assai poco rispettosi delle pene che si dà la madre per gonfiarsi. D'abitudine Fedro mette la cosiddetta morale all'inizio e qui dice: "Inops, potentem dum vult imitari, perit". Il poveraccio, se si mette a imitare il potente, crepa. Ma chi è qui il potente, chi è il bue? Per noi, il bue non è certo un modello di potenza, ci ricorda piuttosto l'ottusa stupidità di un animale grande e grosso, dall'obbedienza paziente e alquanto opaca. Provate a dire a un potente: sei come un bue! Difficile che lo accetti come un complimento. La rana ci risulta molto più simpatica. È bruttina, ma almeno salta, si dà da fare, e quello che fa lo fa per sua libera scelta. È istintivo stare dalla parte della rana e perciò il dileggio rivolto a Santoro, servendosi della favola di Fedro, ha l'aria di essere un autogol. Ma chi è la rana? Le favole antiche vanno ricondotte alle esigenze dei tempi, e così anche la loro morale. Forse, per noi, la morale di Fedro dice poco, e allora ci converrebbe vedere se questa favola non ne contenga una diversa e più calzante all'oggi. E se i potenti fossero proprio le rane in questione? Meno simpatici, perché, è difficile conside65

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rarli dei poveracci, anzi orribili nel loro sforzo spasmodico di gonfiarsi a dismisura. Vengono in mente tanti esempi, c'è solo l'imbarazzo della scelta. A noi italiani viene subito alla mente il nostro premier, pars pro toto. Non è davvero un inops, anzi è ricchissimo, e si presta molto bene a impersonare la favola della rana che si gonfia. Certo, mancheremmo decisamente di rispetto se ci aspettassimo che scoppi a forza di tendere la pelle. E, per tornare un istante a San toro (che sarà pure lui, nel suo piccolo, una rana), se lui dileggia - come qualcuno ha supposto - i terremotati non accodandosi del tutto al dolore nazionale, che dire di un vero potente che dichiara di mettere a disposizione dei disgraziati senzatetto alcune delle sue ricchissime ville, per di più lontanucce dal luogo della tragedia? L'immagine del gonfiarsi (eventualmente fino a scoppiare) è la tipica immagine della presunzione, che è un male molto diffuso ai giorni nostri, il contrario di quel bene raro, o rarissimo, che è il pudore. Pudore nell'esternazione dei sentimenti, e soprattutto pudore nell'attribuire alle proprie idee il tono della verità assoluta. È il nostro beneamato "io", caro agli psicologi, che si gonfia facendola da padrone, oltrepassando ogni ragionevole limite. Qualcuno l'ha chiamato "delirio di onnipotenza" e ci ha raccontato che è una cosa da bambini, più che da adulti. Qualcun altro ha coniato l'espressione "infla-

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zione dell'io" e ha pensato soprattutto agli abitatori adulti della nostra attuale società omologata e consumistica. Inflazione è una parola presa dall'economia e contiene proprio il gonfiarsi di coloro (tutti?) che aspirano a diventare sempre più potenti. Forse, nella favola di Fedro, sono proprio i bambini, gli impertinenti piccoli della rana, a fare la differenza. 26 aprile 2009

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Italiani si diventa? Da molti segnali, piccoli e meno piccoli, sembra che stia avvenendo una trasformazione del nostro essere italiani. Una specie di fenomeno di ritorno, che ci spingerebbe ad andare controcorrente. Se, infatti, la corrente del consumismo, caratterizzata dall'omologazione dei consumi e dei comportamenti, ci ha portato a un modello sempre meno differenziato, molto visibile nelle giovani generazioni, adesso sembra innescarsi un processo contrario: rimarcare la nostra italianità, difenderla e recintarla, e, nel caso, perfino inventarla, contro la minaccia di altri comportamenti e culture che vengono presentati come invasivi. I segnali più rilevanti provengono dal mondo del lavoro: qui i lavoratori sono indotti a salvaguardare la loro italianit~, cioè la loro presun-

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ta qualità di lavoratori italiani, addebitando il fenomeno alla crisi economica, dunque a una contingenza. Ma non è solo così. Basta rivolgere at tenzione a una miriade di altri segnali sociali che riguardano i diritti e le regole della vita quotidiana, specialmente nelle grandi città, fino agli esempi più minuti. Il bisogno di sicurezza produce di continuo divisioni e differenze e tende a circoscrivere zone di privilegio attraverso una sequenza di provvedimenti limitativi e anche apertamente repressivi, in nome della conservazione dell'italianità. L'esempio che ci arriva da Milano è molto istruttivo. Appellandosi a motivi di tutela ed equità ( !) , la regione Lombardia ha blindato il centro storico di Milano con l' espulsione dei venditori di kebab, ritenendo che il loro numero fosse insopportabilmente eccessivo, recasse disturbo alla gente e, soprattutto, compromettesse l'immagine culturale di piazza Duomo e delle zone adiacenti, ledendone appunto l'italianità. Ma che cos'è questa italianità in cui tutti dovremmo infine identificarci? Nient'altro che un guscio vuoto, una scatola astratta, musilianamente senza qualità, un oggetto immaginario. Nell'Ottocento, Carlo Cattaneo aveva parlato dell'Italia come di una "patria artificiale". Il tempo immenso che è passato dalla definizione di Cattaneo, lombardo ma già cittadino del mondo, ne ha svuotato anche il fascino critico. Nel

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vuoto di oggi, che le retoriche retrograde e maldestre non intaccano, troviamo soltanto le sindromi di difesa prodotte dai privilegi acquisiti, il semplice bisogno di costruire recinzioni. Insomma, questa pretesa italianità è falsa, non poggia su alcuna cultura. E non è sempre vero che essa sia un sussulto identitario che si contrappone all'internazionalizzazione dei comportamenti. La globalizzazione ha tante facce, alcune delle quali anche sorridenti e capaci di generare opportunità sociali. Ma la faccia dominante, ambigua e infine densamente truce, è l' omologazione dei consumi, una sorta di divinizzazione del consumatore, la faccia del mercato. È in nome del mercato, non senza l'appoggio di sconfortanti miopie politiche, che sta parimenti awenendo quell'invenzione dell'italianità cui mi riferisco. Infatti, non si tutela chi sa quale cultura (che non esiste), ma semplicemente il diritto/privilegio del proprio supposto vantaggio economico, in breve del proprio portafoglio e dei "valori" che esso contiene. Se proviamo a pensarci in una prospettiva storica, ci colpisce il paradosso di un'Italia che, prima, tenta faticosamente di unificare dall'alto le diverse culture che la compongono, che poi diventa l"'Italietta" fascista, che quindi registra la progressiva scomparsa delle sue culture locali e popolari spazzate via dall'onda neocapitalistica dell'omologazione dei consumi, e che infine, ora, vorrebbe ritrova-

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re un'italianità che si rivela fasulla, semplice invenzione di una presunta identità da custodire. Dà tristezza quest'affannoso anelito di unità, mentre il capitalismo marcia in senso opposto e ciascuno di noi dovrebbe semmai impegnarsi per divenire davvero cittadino d'Europa e del mondo. Ma è proprio la misura contraddittoria della situazione che stiamo vivendo, in cui il deficit di cultura - posto che tale parola abbia ancora un senso per noi - si va trasformando in un pauroso vuoto culturale. O meglio: in una cultura riempita solamente dalla paura che l'"altro" ci rubi qualcosa. 27 aprile 2009

17 Complotti ovunque Non c'è bisogno di scomodare Freud per sapere che siamo tutti un po' paranoici. Vediamo nemici dappertutto e abbiamo sempre paura che alle nostre spalle qualcuno stia complottando contro di noi. Per fortuna, e grazie a quella cosiddetta normalità che ci tiene in equilibrio, abbiamo anche la capacità di capire che si tratta di una costruzione che alla lettera ci inventiamo. Siamo fragili esseri parlanti e ci arrangiamo con le proiezioni del nostro io, per definizione narcisistico e adatto a ingrandire ogni cosa, immaginando un

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mondo in cui - chissà perché - tutti gli sguardi dovrebbero concentrarsi su di noi. Insomma, la paranoia di chi vede ovunque complotti è segno di una qualche immaturità, e sarebbe meglio per noi se ci liberassimo da questa specie di infantilismo per riconoscere che siamo tutt'altro che onnipotenti, bensì alquanto impotenti e deboli: soprattutto che non siamo mai al centro della scena - privata o pubblica che sia- ma a lato di essa, anzi al suo margine. Solo così potremo acquistare un po' di verità e mantenere una posizione etica decente, come anche la migliore filosofia non ha mancato di ricordarci. Il che - beninteso - non è davvero un gioco da ragazzi e richiede una dose non piccola di energie intellettuali. Se poi prendessimo per buona la battuta di un mio amico psicoanalista, il quale mi avvertiva che "anche i paranoici hanno i loro nemici", il compito diventerebbe ancora più difficile, perché dovremmo accettare il conflitto e le sue logiche come qualcosa di normale e quotidiano che chiede rispetto e considerazione del1' altro, gli cede spazio e diritti, ne conserva il timore e ci introduce in un gioco nel quale i soggetti si avvicinano e si allontanano, confliggono quanto a desideri e interessi, e si misurano rispetto a essi. In parole povere, è questa l'idea di democrazia che dovremmo coltivare come un fiore prezioso, facendo sì che esso sia il più possibile immune dai veleni che lo attaccano, in-

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nanzi tutto dalle nostre paranoie e dai nostri deliri di onnipotenza. Oggi, più che mai, la scena pubblica sembra remare nella direzione opposta e non ci aiuta ad alleggerirci della paranoia quotidiana. Anzi, chi ci governa soffia regolarmente sul fuoco agitando ogni momento lo spettro del complotto ai propri danni. Il governante (non faccio nomi) individualizza la sua posizione e si presenta, servendosi del megafono mediatico, come vittima ai governati (che saremmo noi): vittima di complotti grandi - come quello dei giudici contro di lui- e di complotti piccoli e addirittura familiari. Il governante usa dunque la paranoia come strumento di governo, ben sapendo che essa si sparge su un terreno molto fertile e sensibile, sulle reali paranoie della gente (in un'epoca in cui - ormai - la paura attraversa le esistenze quotidiane). Mi è capitato, in questi giorni, di leggere soprattutto la stampa estera e ho potuto constatare che il caso Italia desta interesse per questo mix di pubblico e privato tenuto insieme dalla colla abrasiva del complotto. Non so se ci stiamo avvicinando al modello delle repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale: è comunque evidente che lo strumento psicopolitico di governo, naturalmente a fini di consenso, viene adoperato a piene mani. È ingenuo accontentarsi di chiedere che le faccende private e le faccende pubbliche

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restino nettamente separate, come sarebbe ovvio e civile, quando il continuo mescolarle è ormai una tecnica di governo ben rodata. L'effetto paranoia, riversato sui sudditi, è un cemento a presa rapida. Va da sé che il complotto immaginario viene ogni volta connotato con un colore (diciamo, il rosso) che squalifica gli avversari politici e che induce il cittadino a credersi circondato da nemici, più o meno occulti, ma sicuramente di quel colore. Una volta c'era la caccia alle streghe. Adesso abbiamo una sofisticata psicopatologia del complotto. 7 maggio 2009

18 Mai più manicomi Nel film di Marco Bellocchio Vincere si racconta di Ida Dalser, che amò appassionatamente il giovane Mussolini dedicandogli anima, corpo e denari (di cui non era priva). E che gli diede un figlio di nome Benito Albino, più familiarmente Benitino. Continuò ad amarlo "ossessivamente", anche quando fu scaricata da Mussolini, che si avviava a diventare "il duce". È una storia penosa. Ma dove è finita Ida Dalser? E che fine ha fatto Benitino? Manicomio, è la risposta. Viene internata, Ida, e muore in manicomio. Ancora oggi, psichiatri da televisione discettano sulle sue

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sindromi. Benitino scompare, un giorno, all'uscita dalla scuola e non se ne sa più nulla. Anche lui finirà in un manicomio. È un episodio che ci dice a chiare lettere che il manicomio, usato per togliere di mezzo le persone scomode, non è solo lo strumento che adopereranno i nazisti come laboratorio del lager per liberarsi dei deboli di mente o il regime staliniano per cancellare gli avversari politici, reali o supposti. Non è solo un mostro lontano, ma una nefandezza che appartiene anche alla nostra Italietta, dove una legge del 1904 (la cosiddetta legge Giolitti) aveva sancito il principio della "pericolosità sociale", in base al quale le procure potevano facilmente internare chiunque fosse scomodo alle famiglie o al potere politico. I più deboli e i più poveri, ma non soltanto loro. L'esistenza di questa incivile nefandezza arriva alle soglie del nostro presente. Bisognerà aspettare gli anni Sessanta per cominciare a scoperchiarla e vedere ciò che non si doveva (e non si poteva) vedere. Oggi, nel mondo, questa orribile stortura sociale non è scomparsa, ma in Italia una legge l'ha soppressa restituendo i diritti civili ai malati di mente: ricordo che questa legge conquistata dopo un lungo periodo di dure lotte, a Gorizia e a Trieste soprattutto, e legata al nome di Franco Basaglia e della sua équipe, resta un caso unico in Europa e nel mondo intero. La legge 180 sanciva la chiusura dei manicomi e affidava

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alle Regioni il compito non facile di tradurla nella pratica. Che questo compito fosse arduo è testimoniato dal fatto che dopo trent'anni esso non è stato ancora del tutto portato a termine. Ai molti che oggi sembrano avere a cuore le sorti della malattia mentale (mi riferisco ai governanti di vario colore, agli intellettuali e agli psichiatri) mi pare opportuno ricordare la nefandezza del manicomio e la decisività della svolta del 1978, perché l'impressione che spesso si ha è che si procede con una certa disinvoltura, anche da sinistra, dimenticando il punto centrale della questione: l'assoluta necessità che non si torni indietro. Abbiamo visto recentemente una puntata della rubrica Report, condotta da Milena Gabanelli, una delle pochissime cose serie e critiche che passano nella nostra TV. Vi venivano documentate situazioni di spaventosa arretratezza (per non dire altro) nel Sud e anche nel Nord della penisola, però si glissava alquanto sulla 180 e su tutto ciò che si è costruito a partire da questa svolta epocale. Non abbiamo tempo - sembrava dire la nota giornalista - per andare a vedere le cose buone fatte a Trieste e in tanti altri luoghi (non solo del Nord). Che cosa significa? Quale messaggio viene dato alla gente evitando di parlare di cosa si è fatto là dove la 180 è stata presa come un inizio ed è stata riempita di contenuti e di pratiche? Dove il malato mentale è diventato

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anche protagonista della propria vita? Sono forse argomenti meno televisivi? C'è un evidente rischio in questa forma dicomunicazione che privilegia l'emotività delle situazioni di disagio. Che, magari senza volerlo, si versi ogni cosa nel tritacarne della notizia senza erigere alcun argine alla volontà politica di chi, in modo retrivo, vorrebbe azzerare tutto. Si torna appunto a parlare di "pericolosità sociale". E c'è nell'aria perfino una qualche nostalgia del manicomio, certo non così schifoso e barbaro com'era: un po' più umano e con la benedizione della scienza psichiatrica. 14 maggio 2009

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Quando il privato e il pubblico si mescolano È un fatto che il mondo guardi in questi giorni all'Italia attraverso l'ingrandimento di un episodio che attiene alla vita del capo del nostro governo. Non è solo la stampa internazionale a battere sulla vicenda che- come ormai tutti sanno - è transitata dalla candidatura delle veline al compleanno della giovanissima Noemi, cara a Berlusconi, alla crisi matrimoniale con annuncio di divorzio, per impantanarsi nelle reticenze del protagonista, il quale non si presta ai chiarimenti che

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- considerando il suo ruolo ufficiale - sarebbero più che doverosi. Può capitare, infatti, che un italiano che vive all'estero, poniamo in Inghilterra, entri in un negozio e venga subito interpellato sulla vicenda. E può darsi che una nota compagnia aerea appresti un vistoso manifesto pubblicitario in cui Berlusconi, circondato da un nugolo di ragazzine, prometta di portarle tutte in Europa. E gli esempi possono moltiplicarsi a piacere. Ma che cosa è effettivamente in gioco? La vicenda presenta molti aspetti e solleva altrettante domande. L'aspetto che mi pare più interessante riguarda il rapporto fra privato e pubblico, se c'è o ci debba ancora essere una linea di divisione tra la dimensione privata e quella pubblica. Credo che, nel suo insieme, la vicenda sia il preciso segnale di una trasformazione che stentiamo ad accettare, perché cozza contro l'opinione comune o contro il modo di pensare che riteniamo ragionevole: quella linea si sta assottigliando fino a diventare impercettibile, e questo non riguarda solo il caso Berlusconi ma, probabilmente, l'esistenza di ciascuno di noi, anche di chi non ricopre funzioni politiche o pubbliche di rilievo. Lo scandalo insito nell'episodio specifico, che la moglie, Veronica Lario, ha definito "ciarpame senza pudore", è indiscutibile e in alcun modo può essere convertito, come Berlusconi vorrebbe, in qualcosa di irrisorio da archiviare con battute

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di spirito. Non può essere liquidato con un sorriso, né con un "sono fatti personali", e neppure con un" ci sono cose più importanti". Non si tratta solo di fatti personali e, se è vero che i problemi gravi e urgenti sono ben diversi, come qualunque italiano sa perfettamente, è altrettanto vero che, quando il privato e il pubblico tendono a mescolarsi e a diventare una cosa sola, sta accadendo un evento che tocca e modifica la vita e le forme di potere nell'intera società. Il pubblico diventa evanescente e nessun pudore protegge più il privato, sempre che di privato si possa ancora parlare in senso stretto. Ne consegue che ciascuno di noi fa sempre più fatica a rappresentarsi adeguatamente la propria esistenza e che non si capisce più bene in che cosa possa consistere il far politica in una situazione in cui il potere ha a che fare soprattutto con le esistenze individuali e con la loro pubblicità. In un suo recente editoriale, il direttore di Repubblica ha scritto che questa "è una storia nella quale l'unica cosa che non c'entra proprio nulla è la privacy. Berlusconi è infatti l'uomo che ha unito pubblico e privato fino a confonderli con la sua biografia trasformata in programma elettorale". È vero, ma in quale posizione ci mettiamo noi? Stigmatizziamo questa confusione che legittima anche il conflitto di interessi, oggi quasi derubricato, per chiedere chiarezza. Vorremmo che fosse chiara la linea di divisione tra pubblico e privato, cer-

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to, ma poi ci rendiamo conto che quella linea tende a cancellarsi nel corpo e nei corpi della società stessa e che, dunque, se allarghiamo lo sguardo, scorgiamo confini che sono solo relativamente difendibili nel modo tradizionale. Ci rendiamo così conto che siamo inermi, quanto a strumenti di pensiero efficaci per una contromanovra, perché il pubblico e il privato tendono a confondersi dovunque e non sappiamo più distinguerli con le analisi abituali. La crisi della sinistra passa anche per di qui: cioè attraverso l'incapacità di definire i legami sociali e i rapporti di potere di cui sono intrise oggi le nostre vite. Parliamo di "soggetti" e continuiamo a caricare di senso questa parola, ma sappiamo molto poco dell'identità, dei bisogni e dei desideri di questi presunti soggetti. Che cosa sono oggi i soggetti, quando privato e pubblico si mescolano? Non lo sappiamo. Con un atto di umiltà, sarebbe opportuno fermarsi a riflettere seriamente su questo nostro vuoto di sapere. 20 maggio 2009

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Il governo del!'autocensura Si è parlato spesso, negli ultimi anni, di regime. Qualcuno ha insistito sul fatto che il fascismo si sta ripresentando sotto mutate spoglie, un "nuovo fascismo" da non confondere con il vecchio.

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Voci ormai lontane dicevano che questo nuovo fascismo scaturiva dall'omologazione dei consumi e quindi anche dei costumi: dalla diffusione in ogni angolo della società di un modello piccoloborghese a vocazione conformistica e totalitaria. Difficile smentire oggi quest'analisi, ma essa non ci basta più. L'opposizione democratica, che si è fatta fievole, che sembra agire quasi solo di rimessa e rivela un evidente deficit di programma, dispone di pochi strumenti per leggere la società attuale e perciò è in crisi. Alla vigilia delle elezioni (europee e amministrative), i nodi vengono al pettine e moltissimi elettori sono parecchio perplessi. I punti interrogativi prevalgono sulle certezze. Come contrastare il populismo dilagante dei nostri governanti? Ma soprattutto: perché questo populismo attecchisce tanto? Perché - nonostante l'immagine del leader si stia deteriorando al punto da renderlo quasi impresentabile a causa dei suoi comportamenti pubblici e privati- gli italiani non reagiscono? Autocensura. A me pare sia questa la condizione emotiva e morale che sta prendendo piede un po' dovunque. Ha a che fare con la libertà, ma non corrisponde a una semplice mancanza di libertà. Equivale, piuttosto, a una sfiducia nel cambiamento, al fatto che la parola possibilità sta diventando muta, inerte, senza applicazione né verità. Il nuovo fascismo non ha la faccia violenta della censura: o meglio, non è attraverso questa

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faccia che produce consenso e ottiene il placet degli italiani. Molti diritti vengono conculcati, è innegabile, è cronaca quotidiana, ma lo Stato non è uno Stato di Polizia. Semmai, ogni cittadino è invitato a diventare il poliziotto di se stesso, e l'invito trova larghissimo ascolto. L'abilità del nostro leader è proprio quella di soffiare su questo fuoco. Pensiamo solo alla cosiddetta "politica degli annunci" che costituisce ormai una normale tecnica di governo. Psicopolitica? Se ne parla con buoni motivi, però attenzione: non è un vapore di superficie, nessuna parentela con ciò che chiamavamo ideologia o falsa coscienza. Il caso italiano non risulta poi così anomalo se guardiamo le cose sotto il profilo della biopolitica, cioè di una gestione del potere che riguarda direttamente i corpi e le anime della popolazione. L'autocensura è l'effetto, e insieme lo strumento, di un governo degli individui che si basa sull' autosorveglianza. Non occorre più un occhio esterno che scruta e controlla se quest'occhio è stato interiorizzato e ciascuno, attraverso il suo occhio interno, provvede a limitare i propri spazi di movimento, annulla progressivamente le proprie chance e libertà individuali, svuota di senso ogni socializzazione accontentandosi di surrogati tascabili, e in definitiva rende inerte ogni possibilità di crescita preferendo tutelare giorno per giorno i propri interessi egoistici. Nessun comparto della società civile sembra sfug-

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gire a tale fatalismo conservatore, solo preoccupato di quanto si può perdere. Lavorando nel mondo della scuola ne ho prove lampanti. All'università, per esempio, tutti sono affaccendati a far quadrare i conti di una riforma alquanto bizantina, a produrre piccole gabbie in cui sistemare i crediti formativi, assetti limitativi in cui incasellare le politiche dei tagli. Del quadro generale, però, non ci si occupa, e quasi nessuno si chiede quale cultura potrà venir fuori da una formazione così ingabbiata. Come se questa domanda non fosse oggi più possibile e lo spazio dell'agire fosse ridotto a trasformare le disposizioni ministeriali in una serie di pratiche conformi. Questo stesso conformismo rassegnato sembra condiviso dalla maggioranza degli studenti, che hanno dimenticato in fretta le fiammate recenti, troppo impegnati come sono a compilare piani di studio e a non sbagliare mosse per guadagnarsi un diploma triennale e l'eventuale laurea, specialistica o magistrale che sia. 3 giugno 2009

21 Europa e incultura Che cosa sta accadendo in Europa? Il voto dei giorni scorsi era europeo, non va dimenticato. In realtà siamo andati a votare proprio dimentican82

Gli italiani che stiamo diventando

do questo, dopo una campagna elettorale che si è ben guardata dall'informarci e dal responsabilizzarci, come se non votassimo per l'Europa ma unicamente per verificare le faccende di casa nostra. In più avevamo le amministrative, ed è owio che il giorno dopo ci siamo preoccupati di Berlusconi in frenata, della Lega che accelera, di Di Pietro che raddoppia i consensi, dei problemi del bipolarismo, dell'exploit personale di Debora Serracchiani e di cosa ctccadrà adesso nel PD arrancante, del voto "inutile" alle sinistre radicali divise. L'Europa era un fantasma e tale resta. Sappiamo che le socialdemocrazie hanno preso una batosta e l'estremismo di destra ha guadagnato consensi inattesi, ma siamo assai poco orientati, anzi disorientati e alquanto indifferenti al governo di Strasburgo e ai problemi connessi. Ho sentito le dichiarazioni che ha fatto a caldo Massimo Cacciari e le condivido: ci manca la cultura politica, una cultura politica europea. Non siamo gli unici, il che non consola. L' affluenza scarsa alle urne è già un sintomo eloquente (l'Italia è un caso anomalo, ma, appunto, non siamo certo andati a votare per l'Europa). Un altro sintomo sono i voti - diciamo - di protesta, le emergenze fasciste e xenofobe, il cui carattere antieuropeo è abbastanza palese. Chiamo al telefono l'amico Gianni Vattimo per congratularmi (è stato eletto nella lista Di Pietro) e gli chiedo - lui che ha già un passato da eurode-

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putato - che cosa ne pensi. Mi ricorda che in giro c'è crisi reale dell'economia e miseria palpabile, e che la miseria produce sempre reazioni politiche di tono estremistico. E la cultura? È allo sfascio, mi risponde. La cultura, appunto. Certo la cultura politica, quella cultura politica europea che non abbiamo, che nutre il nostro disinteresse e allontana da noi l'Europa. Ma il bubbone è più grande, assai più inquietante e difficile da curare, e riguarda la cultura in generale, le condizioni allarmanti in cui essa versa. La questione investe in toto la società contemporanea, la consapevolezza che abbiamo di noi stessi, le agenzie formative che dovrebbero produrre cultura: innanzi tutto la scuola, le fonti di informazione che adoperiamo e il modo in cui le usiamo, certo la televisione, ma soprattutto Internet, il mondo contraddittorio della rete. Bisogna aprire il sacco di Internet e guardarci dentro: questo sacco, che diventa sempre più grosso e più sofisticato, contiene molte opportunità, ma è anche una causa del nostro analfabetismo politico. Che non si riduce a semplice ignoranza. Internet, infatti, ha una caratterizzazione storica alquanto diabolica, direi, perché fornisce sì una forma di sapere, ma è un sapere che ha spesso i tratti dell'incultura (lascio stare, qui, la parte che ha il capitalismo in tutta questa faccenda). È ormai accertato, dalla campagna

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online di Obama fino all'uso che la nostra Debora ha fatto di F acebook, che oggi la politica senza WEB è impensabile. D'altronde, tutti sperimentiamo la necessità della posta elettronica e delle transazioni via computer per la normale vita di tutti i giorni. Chi non sa usare il mezzo elettronico già ora è un disadattato, domani verrà trattato alla stregua di un disabile. Sembra che da questo non ci sia ritorno. Ciò rende ancora più urgente uno sguardo critico che valuti con molta attenzione quante promesse di democrazia e di socializzazione vengano mantenute dall'uso del mezzo elettronico. Non c'è bisogno di leggere il libro di Umberto Eco (Non sperate di liberarvi dei libri, una conversazione con Jean-Claude Carrière), che comunque consiglio a tutti, per accorgersi che Google, cioè la fonte principale delle nostre informazioni, è un ammasso di falso e di vero, di sciocchezze e di cose serie, più simile a un' enorme montagna di rifiuti che a un tesoro di certezze. Gli studenti, e con loro moltissimi altri, vi si abbeverano, in genere senza filtri o strumenti critici: ne vengono fuori strane tesi di laurea e una miriade di cubetti di presunta verità che automaticamente ci ficchiamo in testa. Insomma, beviamo ogni giorno anche una dose del percolato tossico che la montagna di rifiuti distilla. Il quadro - si converrà - è non poco allarmante, considerato che la scuola latita e che po-

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chi leggono i giornali. Ho fatto solo un esempio, per dire che l'assenza quasi assoluta di filtri critici (chi li produce e dove?) ci porta diritti a quell'incultura di cui, con buone ragioni, ci stiamo lamentando. 11 giugno 2009

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22 Corpi che contano "Mi sono iscritta l?er gioco e spero di divertirmi", dice Eleonora. "E stata un'amica a iscrivermi", dice, a sua volta, Elisa, con aria scherzosa ... A Trieste, l'elezione della cosiddetta Miss Topolini è una grande festa cittadina, una tradizione ormai, che potrà anche non piacere a qualcuno, ma che viene celebrata all'insegna dell'allegria. Moltissime ragazze, giovani e giovanissime, vi partecipano con uno spirito che si direbbe innanzi tutto sportivo. Certo, qualcuna, e forse più di qualcuna, potrà segretamente aspirare a una carriera nello spettacolo o nel mondo della moda; tutte, però, si comportano con una certa nonchalance, mostrando di non crederci troppo e di voler vivere il concorso soprattutto come diversivo. Ci tengono a sottolineare la parola gioco, come a dire che non si prendono tanto sul serio, al punto che qualcuna confessa d.i essersi trovata presa

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in questo gioco quasi senza accorgersene. Giocare è una cosa bella e pulita, un'esperienza da valorizzare perché ha in sé divertimento e libertà, e perché poi non è vero che tutti sappiano giocare e apprezzino il gioco. Queste ragazze non sembrano avere fantasie o fantasmi in testa. E dietro di loro non si vedono madri e padri che spingono perché le figlie colgano al volo la chance e infilino la strada giusta per sfondare nella società-spettacolo, ottenendo, attraverso il successo, l'uscita dall'anonimato e un salto di vita. Non si scorge, infatti, la pressione di una qualche necessità o del bisogno di riconoscimento. Naturalmente sono in gioco soprattutto i corpi, la bellezza o la desiderabilità dei medesimi. Madri, padri e figlie non lo ignorano. Ma è un gioco, e per una volta si può giocare così con il proprio corpo (d'altronde, accade ogni giorno al bagno, basta solo passare un po' oltre Barcola), per sentirsi belle agli occhi delle altre e degli altri, e innanzi tutto ai propri. Esibizionismo o voyeurismo? Perché no? Le fanciulle sono smagate, o almeno così appaiono, e altrettanto smagate c'è da credere che siano le famiglie. Dentro certi limiti, esibire se stessi non è qualcosa di inopportuno, anzi una dose di esibizionismo è utile perché la salsa del buon vivere risulti gradevole. E non c'è neppure bisogno di essere delle bombe sexy, almeno a giudicare dalle foto: basta un corpo mediamente attraente, e chi non ritiene di averlo può sforzarsi in

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questa occasione di valorizzarsi, magari di illudersi soltanto. Quanto al voyeurismo, mi chiedo se preferiamo una società di persone che si guardano e si apprezzano o una società in cui gli sguardi si abbassano e non si incrociano. Anche qui, è questione di limiti, di "certi" limiti. Tuttavia, bisognerebbe anche farsi dire da queste ragazze che cosa pensino di Noemi. Se anche loro, vedendola mentre va a votare a Portici, con quell'atteggiamento e quell'abbigliamento da piccola diva che ha confuso il mezzogiorno con la sera, tanto è tirata, provino il senso di disgusto che ho provato io, e come me tantissimi altri. Se qualcuna di loro non abbia per caso un book pronto e, chissà, già circolante nel WEB, o se solo vorrebbe averlo. E come si comporterebbero se arrivasse, una bella mattina, la telefonata di un tipo importante, e perfino importantissimo, e dicesse loro: "Ma come, non mi riconosci?". E aggiungesse: "Sei bellissima! ". Può capitare solo a Napoli? (Ho appena finito di leggere il reportage di Massimiliano Virgilio, Porno ogni giorno. Viaggio nei corpi di Napoli.) Solo là, dove il sottoproletariato sembra avere prodotto omologazioni parossistiche, la televisione fornisce modelli di massa? Probabilmente nessuna delle aspiranti a Miss Topolini, scorgendo il braccio di una telecamera, entrerebbe in smanie e si solleverebbe la maglietta per mostrare i seni (in realtà a nessuno, perché intanto la telecamera ♦

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si è spostata). Qui da noi non c'è miseria diffusa alle spalle e ci si sente immunizzati dal pungolo della necessità. Qui si gioca soltanto. Ma è anche vero che, come si sa, ogni gioco è a rischio. 18 giugno 2009

23 Da che mondo è mondo Nella tempesta, anzi nella guerra che si è scatenata attorno alla scandalosa vita privata del premier e che vede in prima linea la tenuta della sua immagine pubblica e i diritti dell'informazione, sono ormai in campo molti attori: la stampa democratica, Repubblica in testa, una buona fetta della stampa estera, alcuni settori cattolici, la magistratura, il T g 1, i partiti. La difesa di Berlusconi è assai debole, perfino risibile, e si attacca con le unghie e con i denti alla parola "gossip", da tutti ripetuta con un automatismo che, da solo, ne rivela la completa inconsistenza. Qualunque cittadino non abbia gettato nella spazzatura il proprio cervello comprende che il gossip, qui, non c'entra nulla. Non siamo dei guardoni (c'è di meglio); siamo preoccupati e alquanto esterrefatti di fronte a ciò che il coperchio sollevato ci sbatte sotto gli occhi, e alle conseguenze che ne potranno venire. Dinanzi allo scandalo delle "ragazze di Berlusconi" e a tutti i fili che si stanno di-

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panando, nonostante le censure e gli ostacoli frapposti, anche chi pensava si trattasse di una telenovela, il cui spettacolo funzionerebbe da velo ai mali reali del Paese e alle relative responsabilità dei governanti, ha dovuto ricredersi. Vorrei considerare un poco quel filo della vicenda che ha nome "sessualità". Si dirà che non è il filo più importante a livello politico e che anzi porta acqua dall'altra parte. Ma la sessualità è un fatto sociale, riguarda ciascuno, non si riduce allo spazio ristretto del privato. È un fatto pubblico e ha a che fare con ciò che è stato chiamato il governo di sé e degli altri: insomma, nella società di oggi, ha le caratteristiche di un dispositivo di governo dei corpi e delle anime al cui interno dobbiamo cercare di indagare. Mi spiego cominciando a smontare un luogo comune che continua caparbiamente a circolare e che si può condensare nell'espressione "da che mondo è mondo". Da che mondo è mondo agli uomini piacciono le donne; da che mondo è mondo gli uomini maturi apprezzano le ragazze giovani e belle e usano il loro eventuale potere (ruolo e denari) per averle accanto, ammiranti e disponibili. Da che mondo è mondo esistono fanciulle piacenti e spregiudicate che si lasciano calamitare dai potenti, affascinate dal potere e dalla bella vita, immaginando per sé vantaggi e contropartite. Che cosa c'è da stupirsi? Le cose sono sempre andate così. Per non dire delle tantissime fantasie erotiche di co93

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loro che stavano fuori a guardare con gli occhi incollati al vetro. Siamo ancora a questo? Stiamo a spiare lo spettacolo delle feste a Villa Certosa o a Palazzo Grazioli con l'invidia non dichiarata di chi non ha avuto il biglietto d'ingresso? Direi proprio di no, anzi siamo schifati da questa scena, e ci dà il vomito chi difende Berlusconi ricordandoci che forse lui è "impotente", con ciò mettendo in burla tutto quanto. Questa logica del "da che mondo è mondo" cristallizza la società in un invincibile e pur ridicolo maschilismo, in cui le donne sono prede, geishe e approfittatrici. Si derubrica la sessualità in un fuori scena laterale e ininfluente, nel margine del "così fan tutti" (pulsioni maschili e vantaggiose inclinazioni femminili a farsi oggetto). E il sesso resta un fantasma che si aggira nell'intimità delle nostre vite e che ogni tanto, o spesso, le pungola. Ma appunto: fuori dalla scena sociale e pubblica. Un simpatico, e magari spesso ingombrante, incidente di percorso. L'avvocato Ghedini, quello che ha inventato per il suo assistito la definizione "utilizzatore finale", si proclama femminista, "chiedetelo a mia moglie e alle mie sorelle"; e con ciò la sessualità è sistemata nel suo buchetto privato, con un sorriso compiacente, mentre essa, tutto al contrario, attraversa da parte a parte le pratiche sociali, intessendosi con ogni sorta di dispositivo di potere, a cominciare dagli effetti della comunicazione televisiva e dalla gestione di tali effetti. E ciò men-

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tre dal lato dei soggetti, cioè noi, colora di sé o semplicemente dà il tono a ogni esperienza. Repressione o tolleranza? Siamo ben oltre questo dilemma, che ha segnato un pezzo della storia dell'ultimo secolo. E anche se diciamo, come poi si è detto, "tolleranza repressiva", siamo ancora lontani dallo scalfire l'esorcizzazione del fantasma della sessualità, che è esattamente il punto in cui ci siamo arenati. "Da che mondo è mondo" è la formula regressiva di questo esorcismo che adoperiamo come potente paraocchi. Di questa paterna neutralizzazione del sesso. Che male c'è se un attempato signore tiene sulle sue ginocchia un'innocente fanciulla e magari la omaggia di un casto bacetto? Di certo, in una scena come questa, non c'è nulla di vero. E quasi nulla di innocente. (Senza neppure che debbano entrare rumorosamente in scena le cosiddette "escort".) 25 giugno 2009

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Gelosi di Internet Quando ho letto che, in quel di Pordenone, un uomo di 68 anni ha scaricato la sua calibro 22 sul proprio computer troppo lento, mi sono venuti nella testa diversi pensieri. Mi sono apparse tutte le scene di rabbia, vera rabbia, cui ho assistito, e ho pensato a quanto sia normale questo ac'

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canimento violento nei confronti di un computer negligente e neghittoso. Meno male - ho poi subito riflettuto - che per vari motivi il mio uso del computer è scarso e marginale, così non devo fare la guerra con un oggetto. Infine, la pistola: siamo forse nel Far West, con la colt pronta a fare fuoco? Nel caso, gli avrei dato un calcio o avrei fracassato un portacenere. Già, dove siamo? A freddo, dopo qualche giorno, rifletto sulle tracce proposte alla prova di maturità - questo rito di passaggio diventato così light da apparire scaduto - e in particolare su quella che invitava gli studenti a considerare i nuovi media, in primis il cosiddetto socia! network, cioè Facebook e dintorni. Una furberia della nostra amata ministra per accattivarsi il popolo di Internet, che i maturandi, però, non sembra abbiano preso tanto sul serio. Alcuni miei personali "spioni" (ah, Gianni Brera!) mi ragguagliano sulla correzione(?) degli elaborati, inviandomi segnali di delusione. Molti hanno scelto approdi scolasticamente più tradizionali, Svevo compreso, e coloro che si sono avventurati sul terreno dei media hanno inanellato un rosario di luoghi comuni, o comunissimi, cavandosela con le citazioni fornite (Castells, De Kerckhove e altri), saltabeccando tra esse: va aggiunto che queste rapide e varie citazioni di esperti invitavano più alla sintesi intellettualistica - definizioni e paroloni - che a un'autentica indagine sulle pratiche reali e in prima persona.

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Più che di elaborati deludenti, parlerei allora di un rifiuto da parte degli studenti di mettersi in gioco a proposito di un segmento non insignificante della loro vita quotidiana. Un rifiuto di compiacere l'istituzione scuola in tale comoda e alquanto retorica ammoina, certo anche dettato dal timore di uscire dal seminato e dalle regole di una cosiddetta prova di maturità, dando con ciò una prova, se non altro, di difesa delle proprie vissute esperienze. Immaginiamo a posteriori la scena di una vigilia in cui telefonini e computer sono caldi e c'è un'esplosione di messaggi fino alle 8 del mattino, e anche dopo, per anticipare l' evento attraverso siti in cui la" c" di scuola può diventare una "k", e ci scappa infatti anche l'errore. Una scena che pare un altro mondo rispetto a quello che lo studente evoca un po' deamicisianamente sul foglio che va a riempire con l'antica penna. Bastava, per esempio, descriverla per varcare il fossato fra realtà e finzione, ma accade il contrario. La finzione viene impacchettata, magari anche con un bel nastrino, mentre la realtà rimane fuori, non ha accesso. Il messaggio che ne viene è proprio questa gelosa esclusione. Se me lo chiedi, non ti dico niente, perché sono affari miei che non c'entrano con la scuola e perché non sono cose da scriversi in un tema. Potremmo pensare che questi giovani, che vivono in simbiosi col WEB due punto zero e con tutto il resto dell'universo elettronico, non

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sappiano scriverne, a differenza di molti grilli parlanti. Ma sarebbe meglio capire che non vogliono farlo, e che, con questo, ci dicono che non è opportuno invadere il campo con discorsi astratti e relative filosofie: un campo che è fatto di pratiche in movimento e in continua trasformazione e che è assai più complicato e pulsante delle varie teorizzazioni (come quelle a corredo della traccia) che se ne possono fornire. La pratica di Facebook è più importante, ricca e vera di qualunque discorso sul socia! network. Ecco il punto, incontestabile. Tuttavia continueremo a discutere su questa parola "socia!", sugli orizzonti contraddittori che apre, su quanto vi è in essa di sorveglianza e di relazione libera, su chi ne trae profitto, ne approfitta o la mette a buon profitto. Almeno, però, non trascuriamo la resistenza dei giovani utenti o cerchiamo di lasciarle un posto nelle nostre dotte riflessioni. Il computer non è più solo un ospite straordinario delle nostre case. Ormai è talmente in simbiosi con il nostro vivere, talmente vicino alla nostra pelle da essere presente ovunque, quasi fosse un prolungamento di noi stessi. Come tutte le prossimità troppo accentuate produce effetti che siamo ben lontani dall'aver calcolato. Emotività di cui siamo poco padroni e che conosciamo appena. Se ti segue, lo segui. Se ti tradisce, puoi anche odiarlo e distruggerlo. 1° luglio 2009

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Non farlo "Ma per·ora rimanda ... È solo un breve invito, rinvialo", dice la canzone di Franco Battiato e Manlio Sgalambro. Come si previene il suicidio? In una giornata di studi che si è tenuta presso il Dipartimento di salute mentale a San Giovanni a Trieste e che si intitolava "Prima che accada", è stato ricordato che Trieste era una città da record, triste record, all'inizio degli anni Novanta, con un dato che superava decisamente la media nazionale: settanta casi ali' anno. Poi la tendenza si è invertita fino a oggi, abbattendo questo dato di circa la metà. Si è fatto da allora un gran lavoro di analisi e di intervento, mettendo in campo iniziative che si chiamano "Amalia" e "Telefono speciale" e con una intelligente e capillare campagna di comunicazione visiva. Ricordo solo i 366 quadratini colorati, a mo' dicoriandoli di speranza, talora composti in un totem, su ciascuno dei quali sta scritto un buon motivo per "non farlo". Vieni a dirci qualcosa anche tu, era l'invito pressante degli organizzatori. E, mentre facevo la strada per recarmi al parco San Giovanni, mi casca l'occhio sulla notizia di un episodio di cronaca appena accaduto a Imperia, dove un giovane di nome Nadir, al ritorno in auto da una festa, viene fermato e gli vie~e riscontrato un tas-

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so alcolemico di poco superiore alla soglia consentita. È un giovane senza grilli per la testa. Ma chissà cosa gli passa adesso per la mente. Forse che perderà la fiducia del padre vigile del fuoco e che non potrà più realizzare il progetto di seguirlo in questo lavoro. Una semplice multa di 200 euro produce in lui una devastazione esistenziale, un misto di sconfitta e di vergogna, qualcosa di insopportabile. Rientra a casa dalla porta di servizio, mentre di là, in cucina, padre e madre, già al corrente, lo stanno aspettando. Sentono un colpo. Penso, riflettendo su questa notizia, alle statistiche secondo cui il rischio di suicidio riguarda soprattutto gli anziani, per i quali l' orizzonte di solitudine progressivamente si allarga. Penso a tutte le analisi che convergono nell' awicinare questo rischio a un disturbo mentale non necessariamente conclamato, e che indicano come il cosiddetto schizofrenico rischi molto di più del cosiddetto ossessivo. Ma Nadir era un ragazzo "normale", fin troppo normale, di cui sarà difficile scovare il disturbo nascosto. Allora penso che siamo in una società che fa acqua da ogni parte, senza appigli se non fragilissimi: una società che non dà speranze per il futuro. Non mi rallegra ricordare che il tasso europeo di suicidi è superiore a quello italiano, né che talora il suicidio venga persino favorito da politiche a dir poco perverse. In realtà, mi domando che 100

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cosa andrò a fare a questo convegno dove mi si chiede di parlare a nome della filosofia. Ha da dire qualcosa la filosofia che serva a prevenire il suicidio? Occorre una trasformazione culturale, d'accordo. Ma dovrebbe essere una politica in grado di attraversare l'intera società, l'educazione, la scuola, ogni aspetto della formazione. E che, secondo me, riesca a dire a ciascuno: "Guarda che sei mortale". Guarda che non c'è solo la tua verità. Guarda che sei fallibile e lo sono tutti, compresi i padri, compreso il tuo. Guarda che l'unica chance che hai è costruire una distanza fra te e te stesso, e che l'errore peggiore che puoi fare è prenderti troppo sul serio. C'è un sorriso nascosto fra i versi della canzone che ho ricordato all'inizio. Catturiamolo e facciamolo diventare un passaggio verso una cultura dell'ironia, per imparare a sorridere e perfino a ridere di noi stessi. Uno dei 366 quadratini colorati dice: "Non farlo perché tutti sbagliano". Se c'è qualcosa che la filosofia può fare è ricordare che, appunto, tutti sbagliamo, tutti e non solo tu, e che se tutti sbagliano non c'è da nessuna parte qualcuno che abbia ragione e possieda la ricetta della verità. Rilassati perché tanto "la brina si scioglie", sempre e per tutti. Solo che questo consiglio dovrebbe trasformarsi in uno stile di vita e in un modo di essere dell'intera società, a cominciare dall'edu-

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cazione dei bambini. Siamo molto, molto lontani da questo, che sarebbe una vera e propria rivoluzione culturale. 5 luglio 2009

26 Badanti Excitable è il termine inglese che Judith Butler una delle pensatrici oggi più apprezzate - ha adoperato, nel titolo di un suo libro, per indicare quelle parole e quei discorsi che contengono la violenza di una provocazione, qualcosa di simile a un'ingiuria. La parola "badanti", che oggi è sulla bocca di tutti, è certamente una di queste. È usata per lo più al femminile e dunque il riferimento è soprattutto alle donne. Donne e immigrate: una doppia dequalificazione rispetto a chi è uomo e nativo, cui si aggiunge l'ingiuria della clandestinità e, ora, anche il marchio dell'illegalità criminosa. Grazie alla loro indiscussa utilità sociale, le badanti vengono adesso discriminate alla rovescia. Nell'indecente contenzioso che si è aperto nella maggioranza di governo il giorno dopo l'approvazione del pacchetto anticrisi, che criminalizza tutti gli immigrati clandestini (compreso il mezzo milione di badanti), si annuncia infine un emendamento che fa delle badanti un gruppo a parte, all'apparenza privi-

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legiato. A settembre la questione "famiglia", dopo molti allarmi, verrà ricomposta grazie a una sanatoria (in sostanza un condono, previo pagamento di un forfait di 500 euro) che, nell'immediato, toglierà dai guai tanto i datori di lavoro quanto le badanti stesse, che - a quel che sembra - potranno essere regolarizzate a tutti gli effetti, unitamente alle cosiddette colf. Questo "privilegio", dall'aria assai poco costituzionale, che ha già aperto nuovi fronti di protesta, non elimina di certo l'ingiuria di cui la parola è carica, anzi. Per me, "badanti" è una parola orribile, che resta tale anche se consideriamo i vantaggi che queste lavoratrici portano al nostro scassato e spesso quasi inesistente welfare. Badano, infatti, agli anziani che hanno problemi di validità e autonomia, tappano un buco di proporzioni allarmanti in una società che diventa sempre più vecchia. Costano poco (almeno il 20 per cento in meno di una pari lavoratrice italiana), svolgono una funzione di assistenza e responsabilità decisamente sottostimata. Se non ci fossero loro, sarebbe un disastro per le famiglie e necessariamente si moltiplicherebbero gli ospizi-lager in cui la solitudine si esaspera e si attende solo la fine. È incredibile che i nostri governanti non ci abbiano pensato prima di votare il decreto e si siano svegliati solo quando qualche ministro, sensibile ai problemi umanitari o ascoltando le proteste del mondo catto..

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lico, ha avuto un'illuminazione riguardo ai guasti sociali che si sarebbero prodotti. Oppure, dobbiamo ipotizzare che sia stata un'abile mossa da giocatori di poker? Abile? In ogni caso è difficile immaginare che il personale politico attuale sia capace di una simile intelligenza tattica. È più facile supporre che le badanti circolino anche nelle loro case e che non ci sia stato bisogno di scendere tra la gente per identificarsi con le esigenze che soddisfano. Ogni famiglia potrà regolarizzare fino a un massimo di tre badanti. Questo la dice lunga sul fatto che occorre intendersi bene sul genere di famiglie di cui stiamo parlando, non certo di tutte quelle il cui reddito supera a fatica i 1000 euro al mese. È stato giustamente osservato che "badanti" è una parola che squalifica sia chi bada sia chi è badato: fa apparire con nitidezza uno scenario nel quale tutte le relazioni dovrebbero organizzarsi attorno ali' azione del "badare", che è qualcosa di molto più aspro di un assistere o di un prendersi cura; è molto più vicino a un sorvegliare, ed è anche peggio di una sorveglianza. Ho avuto modo di osservare molte volte questo tipo di scena, improntata all'indifferenza e non scevra di qualche sottile o meno sottile brutalità. Per fortuna, gli esseri umani infrangono spesso la violenza sancita nei dispositivi, e allora capita anche che la relazione tra badante e badato si configuri come una sorta di amicizia. Ma questo

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evento, quando accade, non può diventare la chiave per leggere il fenomeno, e tanto meno un alibi per accontentarsi dello stato delle cose e accantonare il problema dei diritti negati o delle conclamate ineguaglianze. I I luglio 2009

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Lo scandalo del premier e l'imbarazzo dei vescovi I vescovi italiani hanno ribadito la loro preoccupazione per le rivelazioni sulla vita privata del premier Silvio Berlusconi. E hanno usato - immagino dopo una scelta oculata - il termine imbarazzante. Sembra una parola dal significato ovvio e trasparente per tutti, ma non credo che lo sia davvero, e allora vorrei provare a ragionarci su. Qualche politico ha anche parlato di un "tasso etico" che sta scendendo sotto il livello di sopportabilità, mentre una buona parte della stampa estera continua a rincarare la dose lamentando, a sua volta, l'insopportabilità della situazione e sorprendendosi che lo scandalo venga tranquillamente accettato dall'opinione pubblica e dalle istituzioni italiane, nonché dall'Europa stessa. L'autodifesa di Berlusconi si limita a un risibile "non sono un santo": tenta di minimizzare a parole e di ricucire pei fatti, con qualche

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mossa diplomatica, per esempio nei confronti della Chiesa stessa, le lacerazioni che si sono create con le conseguenti e temute perdite di consenso. Ma le registrazioni che intanto sono circolate (attinenti all'inchiesta aperta dalla procura di Bari) lasciano poco spazio alle battute di spirito sulla bellezza delle "figliole" italiane. Ascoltare queste conversazioni sulle notti brave di palazzo Grazioli, tra il premier e la sua escort di turno, produce uno shock aggiuntivo: chi ha uno stomaco adeguato e orecchie, per così dire, "da guardone" (non io) può affondare nei dettagli intimi della mattina dopo, che vi risparmio perché, appunto, si tratta di salvaguardare un minimo di pudore, ma che, volendo, si possono andare a raccogliere sul sito dell'Espresso. È ormai palese, e molti commentatori lo hanno mostrato con evidenza, che qui il privato e il pubblico non possono e non devono più essere tenuti distinti: le due sfere si sovrappongono e il soggetto politico in questione (che, tra l'altro, aveva costruito sulla santità del suo privato una quota non piccola del proprio consenso pubblico) deve rispondere dei suoi atti, ovvero assumersene totalmente la responsabilità di fronte ai cittadini, non solo a quelli che non lo hanno votato, ma - direi - soprattutto a quella maggioranza che gli ha dato il voto. È solo questo l'imbarazzo dei vescovi? Io penso che alla preoccupazione per il tasso etico in ra-

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pida discesa si aggiunga un'altra, forse più acuta, preoccupazione per l'incrinarsi di uno status quo che tradizionalmente ha segnato l'ideologia, la cultura e la morale cattoliche. L'identificazione tra privato e pubblico rischia infatti di far saltare la "doppia verità" che molto spesso è stata mantenuta e difesa dalla ragion di Stato ecclesiastica: una verità pubblica palese, incrementata da continue iniezioni morali (a partire dalle parole ufficiali del Papa), e una verità privata, staccata e tenuta in una zona d'ombra, tollerata come una scomoda verità a parte o sostanzialmente taciuta. Finché si può, almeno. Nello scandalo del premier, che si è riversato a macchia d'olio sull'opinione internazionale, questa doppiezza non appare più sostenibile. Ipotizzo, allora, che l'imbarazzo tocchi una zona nevralgica del mondo cattolico stesso, che in proposito ha avuto e ha i suoi problemi, sui quali ogni volta ha cercato di sten-· dere rapidamente un velo protettivo. Adesso diventa più difficile pensare che la spazzatura possa essere nascosta sotto il tappeto di casa. D'altronde, non staremmo qui a ragionare sulle oscillazioni del tasso etico (espressione, a mio parere, alquanto infelice), se qualcuno non avesse scoperchiato il pozzo nero esponendosi a ogni genere di intimidazioni. Se siamo arrivati a questo punto, lo dobbiamo all'iniziativa di chi, da mesi, ha deciso di battere il chiodo, nonostante il G8 dell'Aquila e quant'altro. Il che si-

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gnifica pure che moltissimi, e non solo a destra, hanno lavorato perché nulla emergesse e per far sì che quello che veniva fuori venisse derubricato a gossip o a "ciascuno a casa sua fa quel che vuole". Insomma, perché avesse scarso o nessun rilievo politico e morale. Ora, invece, stiamo a misurare il tasso etico come se fosse un dato oggettivo, e registriamo l'imbarazzo preoccupato di chi si sente minacciato nella propria cultura compromissoria, ma nulla ha fatto di suo, perché il coperchio venisse sollevato. 30 luglio 2009

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La favola della globalizzazione La differenza tra un noto imprenditore triestino e me è che lui è un grande estimatore dell'acqua minerale Radenska, che considera superiore a tutte le altre al punto di credere che possa diventare la prima nel mondo (entri in un bar qualsiasi del Globo e ti basta dire "Un'acqua minerale, per favore" perché arrivi automaticamente una bottiglietta di Radenska), mentre a me piacciono molto i succhi di frutta Fructal, li considero deliziosi e decisamente migliori di tutti gli altri, e vorrei trovarli sempre nel supermercato economico sotto casa, anche se il medico mi suggerisce di non esagerare troppo con lo zucchero. 108

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È probabile che desideriamo la stessa cosa, visto che entrambi questi prodotti arrivano dalla Slovenia e fanno capo industrialmente al medesimo gruppo (che si chiama Kolonel). Solo, abbiamo prospettive, per dir così, diverse. A me interessa semplicemente bere il succo che preferisco, all'imprenditore interessa invece diventare il proprietario della Radenska, far sì che essa conquisti il mercato internazionale arrivando a imporsi, dovunque, come la regina della acque minerali, battendo ogni concorrenza e assurgendo così a prodotto simbolo, come la Coca-Cola, per fare un esempio. Perciò vuole comprare la Kolonel, che versa in cattive acque, come si dice. Farebbe un ottimo affare: si porterebbe a casa la sua Radenska, i miei Fructal, l'apprezzabile birra Union, con la dote di un paio di giornali sloveni. E farebbe anche tirare un respiro di sollievo ai più di ventimila dipendenti della Kolonel. Gli domandano: "Andrà a vivere a Lubiana?". Risponde che non ci pensa neppure, perché sta benissimo a Trieste, che considera la sua città ideale. "Conosce lo sloveno?", incalza l'intervistatore. Per nulla, replica lui, in tutta tranquillità, "ma adesso mi metterò a studiarlo". Globalizzazione, ecco la parola. Mentre apprendevo la vicenda che ho appena riassunto, mi è venuto da pensare che, in un domani molto prossimo, i nostri figli, andando a scuola, trove109

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ranno tra i loro libri di testo anche un agile manuale di economia politica in cui sarà spiegato in modo chiaro come funziona la società capitalistica nella quale capita loro di vivere. È probabile che il termine "capitalistica" verrà sostituito con le parole "globale" o "globalizzata", più intuitive e meno rétro. E che, già in una delle prime lezioni di questo manuale per i giovani e le giovani- un manuale costruito con saggezza pedagogica attraverso facili esempi-, potremmo trovare la parabola che ho raccontato. Da cui i nostri figli potranno imparare che un gruppo economico riunisce senza alcun problema birre e quotidiani (infrangendo il detto comune che non si possono sommare mele con pere; "tacchi, dadi e datteri", cantavano nei cabaret milanesi degli anni Sessanta), che i denari non hanno patria (e che si possono comprare i debiti, senza bisogno di avere in cantina un deposito alla Paperone), che gli Stati nazionali contano poco o nulla nella logica globale (Italia, Slovenia o dove, non è questo il punto), la quale è infatti una macchina multinazionale. Che, infine, la forza lavoro è un dato all'apparenza marginale (fatte salve le necessarie ristrutturazioni e la ricerca costante del minor costo del lavoro; ma c'è da scommettere che il manuale non si spingerà tanto in profondità al proposito). D'altronde - si spiegherà - non vogliamo tutti che i prodotti che preferiamo si trovino a ogni angolo del pianeta?

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Forse, con un soprassalto di interattività critica, la lezione di questo immaginario manuale terminerà proponendo un esercizio. Gli studenti saranno invitati a discutere, sotto la guida dei loro insegnanti, di ciò che hanno appena letto, aggiungendo valutazioni personali. Accenno a un paio delle mie, mettendomi impropriamente al loro posto. Provo, intanto, a identificarmi con il soggetto dell'esempio. La sua vita mi è stata narrata come quella di un santo moderno, però non mi è sfuggita qualche contraddizione. Non è un cittadino del mondo alla stregua delle sue merci, ha un suo luogo cui è molto legato: la sua esistenza è infatti ben localizzata, addirittura locale, e lui non ha alcuna voglia di pensarsi, che so, a Maribor o a Lubiana, né mostra qualche interesse per la cultura e la lingua di quei luoghi diversi dal suo. Radenska e Fructal diventeranno prodotti globali, lui manterrà la sua identità triestina. Inoltre, globalizzandosi, che cosa accadrà a queste merci? Conserveranno o perderanno le loro caratteristiche qualitative, quando il modo di produrle e distribuirle assumerà dimensioni planetarie? In fondo la Coca-Cola è rimasta la stessa, ma questa considerazione non sembra tacitare del tutto l'interrogativo. Nel quale si annida una qualche resistenza, una specie di inquietudine verso l'omologazione delle merci e la globalizzazione dei consumi, come se l'una e l'altra con-

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figurassero un tipo di esistenza che non vorremmo si radicalizzasse, come se insomma credessimo che anche un'acqua minerale o un succo di frutta debbano custodire una loro localizzazione. 4 agosto 2009

29 Pasolinz: il dialetto e la Lega Pasolini è sempre stato scomodo, in vita e dopo la morte. Ogni tanto qualcuno se ne serve, o così crede, tirandolo dalla propria parte. Ma ne esce, di solito, scottato. Sull'introduzione del dialetto nelle scuole, una questione ora riaperta dalla Lega con un'iniziativa che è sembrata a molti strumentale, retorica e pretestuosa, ecco di nuovo il nome di Pasolini. È stato anche un insegnante, anzi ha sempre marcato la sua vocazione pedagogica. Si è impegnato molto sul friulano negli anni di Casarsa; poi, trasferitosi a Roma, ha valorizzato nei romanzi e nel suo primo film il gergo giovanile delle borgate; infine, negli anni Sessanta e fino all'ultimo, ha continuato ad amare i dialetti e a difenderne l'importanza. Pensate - si poteva leggere in un articolo del Giornale - che, ancora un mese prima della sua tragica scomparsa (nel 1975), ha partecipato a Lecce a un corso di aggiornamento per inse-

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gnanti, proprio sul rapporto fra scuola e dialetto, tessendo un ulteriore elogio dell'autenticità del dialetto stesso. E si aggiungeva: certo, se fosse tra noi, avrebbe guardato con particolare simpatia alla proposta politica di oggi. Pasolini, dunque, era "un leghista ante litteram" ! Che quello del dialetto nelle scuole sia un problema, è difficile negarlo. Un problema complesso, da inserire in un contesto preciso a sua volta complesso, da trattare con il massimo di senso critico e di dubbiosità. Sono andato allora a pescare nelle opere complete di Pasolini quel suo intervento di Lecce, in realtà una lunga conversazione con professori e studenti di tutta Italia, intitolata Volgar' eloquio. Pasolini è, come sempre, di un'attualità sbalorditiva. Altro che leghismo, basta andare a leggere. Non fa prolusioni. "Non so parlare", esordisce, "preferisco rispondere alle vostre domande." Gli chiedono ricette, proprio a lui che aveva appena detto, in uno dei suoi elzeviri "corsari", che sarebbe stato meglio "abolire" la scuola dell'obbligo (insieme alla televisione), e Pasolini risponde testualmente "Non so", sottolineando che è un problema drammatico che forse, ormai, non ha soluzione. "Ormai"? Siamo nel 1975: il "genocidio" consumistico si è realizzato, non siamo più un Paese pluralistico, non esistono più le culture locali. Quei valori popolari e sottoproletari, in cui lui aveva molto creduto, sono andati distrutti e

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adesso non è più possibile recuperarli. È irrealistico. La realtà ci presenta, invece, dei giovani la cui qualità di vita, irrevocabilmente omologata, è tutt'altro. I giovani parlano come la televisione: mettiamo pure un "3" in calce a un tema scritto con la lingua di Mike Bongiorno, e poi? Già, che cosa direbbe Pasolini, oggi, di fronte a una qualità della cultura giovanile che si nutre soprattutto della lingua degli SMS? Comunque, non direbbe mai "Torniamo al dialetto". E, quanto alla scuola, direbbe che qualunque iniziativa presa dall'alto, per via burocratica o istituzionale, sarebbe un errore madornale. E che il dialetto è ormai una sopravvivenza, nel senso che è diventato una "inesistenza". Recuperarlo vorrebbe dire fare dell'archeologia. "Non ho nulla contro i musei, che pure hanno una loro funzione", esclama nella stessa conversazione di Lecce, ma tentare di rianimare il "volgar'eloquio" sarebbe un'opera di museificazione. Il dialetto è morto, ecco che cosa dice Pasolini. Quello che ancora vive sono gli "accenti", se proprio vogliamo salvare qualcosa. Se ci ostiniamo ad amarlo, questo eloquio volgare, possiamo al massimo porgergli un "orecchio benevolo e fonologico". Così leggiamo nei versi che chiudono il testo teatrale Bestia da stile, che Pasolini ricorda all'inizio della sua conversazione. Ascoltare benevolmente "la lalìa ('Che ur a in!')", la voce della gente umile che parla del più e del me-

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no. Come dire: io l'ho fatto, da poeta, ma ora il mondo è radicalmente, "antropologicamente" cambiato, e questo orecchio benevolo non ci serve più e non ha più niente a che fare con la scuola che dovremmo costruire. "Mi si attribuisce di continuo", conclude Pasolini, "rimpianto e nostalgia, però io non nutro alcun rimpianto e nessuna nostalgia. Il mondo è cambiato, bisogna prenderne atto e cercare semmai di capire come, senza allontanarsi dai giovani; perciò alle vostre domande rispondo che non conosco ricette e che sarebbe meglio per tutti coltivare questa radicale consapevolezza critica." 11 agosto 2009

30 La morale è un numero? Se il diavolo in persona scendesse in campo, come si usa dire, e attraverso una massiccia campagna mediatica ottenesse il consenso della stragrande maggioranza della popolazione, o anche solo della maggioranza, questo vorrebbe dire che le sue idee diaboliche si sono trasformate in verità? In altri termini, la moralità dipende dal numero dei sì espressi dall'opinione pubblica? La morale può forse legittimarsi attraverso i numeri? Se, in coro, senza avere dubbi, e anzi con giusta indignazione, gridiamo "No!", dobbiamo

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cercare di motivare con cura la nostra immediata reazione, il che - a mio parere - è meno agevole di quanto sembri. Richiede che facciamo i conti con la realtà dell'opinione pubblica (non possiamo trattarla come una qualche incarnazione del male o come un fatto senza rilievo), sembra esigere che mettiamo sul tavolo un pacchetto di valori certi, intoccabili e condivisi da tutti, insomma una Verità con la maiuscola; e infine domanda che mostriamo dove stia questa supposta Verità, come si produca e come possa riprodursi e mantenersi. E se, per tentare di sciogliere un simile nodo (filosofico e politico a un tempo), facessimo ricorso a un'autorità esterna, a un garante istituzionale della Verità, non cadremmo forse dalla padella nella brace? Se, infatti, anche immaginassimo che il massimo rappresentante del bene, in prima persona, scendesse a sua volta in campo e con i virtuosi argomenti di cui è capace guadagnasse il consenso dei cittadini, cioè riuscisse a costruire un'opinione pubblica buona, non saremmo forse al punto di partenza, anzi in una palese contraddizione? La storia - e non solo quella degli ultimi cento anni - ha molto da insegnarci sulle due simulazioni che ho appena sintetizzato, e allora potremmo solo pensare che la soluzione, se c'è, non può passare per vie esterne, o politiche (nel senso comune che diamo alla parola), ma deve sca-

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varsi un percorso interno. Interiore? Come se fosse una partita che deve giocarsi dentro ciascuno di noi, facendo appello a quel tesoro nascosto che chiamiamo "coscienza morale". Ma esiste dawero? E che tesoro è diventato, oggi? Come lo verifichiamo, se c'è, visto che non è rappresentabile ali' esterno e non lo si può tradurre in opinione pubblica? Mi sono fatto queste ingombranti domande dopo l'omelia che l'arcivescovo Angelo Bagnasco (presidente della CEI) ha tenuto a Genova qualche giorno fa, in cui ha detto, fra l'altro, che "il bene e il male non possono essere decisi con i numeri, ma in virtù di quella voce universale che è nel cuore di ogni uomo". Alle spalle delle sue parole stanno, evidentemente, l'impresentabile (e intollerabile) "affaire" Berlusconi e il pericolo che la moralità dipenda dall'opinione dominante, ma anche il pericolo che la morale stessa impallidisca di fronte al crescente relativismo delle verità. La mia impressione - confermata da molte e autorevoli riflessioni emerse dal dibattito filosofico contemporaneo - è che così ci si vada a cacciare in un tunnel senza uscita: il binarismo (cioè di qua il bene e di là il male, con un confine netto che li separa) è una vecchia e pericolosa semplificazione tornata ogni volta a vantaggio di un potere costituito, e ha spesso annunciato scenari di scontro e prevaricazione. Se fosse vero che

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esiste qualcosa come una voce universale che parla dentro di noi, non avremmo bisogno di alcun garante esterno. Interno ed esterno, nella loro contrapposizione, sono a loro volta il residuo di un pensiero semplificatorio e a vocazione autoritaria di cui dovremmo liberarci. Ciò che è etico non dipende certo dai numeri, ma neppure da un ipotetico imperativo interiore; e se verifichiamo che oggi prevale la caricatura di un'opinione pubblica, spesso frutto di discutibili sondaggi, esistono poi le relazioni concrete fra gli individui, il loro fare società, le loro intese, un'altra idea di politica basata sul comune sforzo dei cittadini di fare emergere i loro bisogni e di rendere efficaci i loro diritti. Esiste una soggettivazione concreta come processo sempre instabile, sempre difettoso, talora paradossale e anche contraddittorio, ma effettuale e finalmente vero. Se costringiamo questo processo dentro un binario fisso, rischiamo di perderne l'elemento di verità e di svuotarlo di qualunque futuro. Qui siamo lontanissimi dai numeri (assurti ormai a divinità del nostro presente), ma siamo anche molto distanti da ogni appello al tesoro che sarebbe nascosto nelle nostre coscienze. Torniamo dunque, modestamente, sulla Terra, cioè sul terreno delle pratiche effettive e degli eventi di cui siamo o possiamo diventare i protagonisti. L'appello, semmai, dovrebbe essere proprio questo: disfarsi di tutti i vestiti

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ideologici (vecchi e nuovi) e imparare a guardare dove mettiamo i piedi, di cosa è fatta la vita che stiamo effettivamente vivendo. 19 agosto 2009

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Figli dei no Tra poco riapriranno le scuole, e non credo di sbagliare dicendo che nell'occhio del ciclone sarà soprattutto la scuola elementare, dopo una stagione in cui gli insegnanti (cioè, sostanzialmente, "le maestre") hanno parecchio protestato contro i nuovi assetti voluti dalla ministra Gelmini. Non che le medie e le superiori non abbiano i loro problemi (ogni giorno prendiamo atto di iniziative legislative a carattere restrittivo), ma la prova del nove sembra riguardare proprio i primi anni scolari. Dunque, ecco i nostri amati bambini che (dopo aver già consumato una certa carriera: nido e materna) mettono piede nell'istituzione scuola, accolti da uno stuolo di maestre in buona parte preoccupate e comunque tutte a 1000 euro al mese. Chi sono questi bambini? Riusciamo a darne un qualche elemento di identikit? Prendo spunto da una lettera aperta inviata da due genitori (genitori di due ragazzi di 9 e 12 anni), che commentano con intelligenza il "rap 1della maestra morta",

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una canzoncina ascoltata in alcuni centri estivi per bocca di quei bambini che continuiamo a chiamare innocenti. Nella canzoncina colpisce, ancor più dell'irridente augurio di morte, il modo della stessa: " ... con tre coltelli in gola, il sangue che le cola, che sembra Coca-Cola". Abbastanza per preoccupare molti di noi. Dove siamo arrivati? Un momento ... ammoniscono i genitori della lettera, e raccontano come, intanto, la filastrocca non sia cosa di oggi ma dell'altro ieri (è modellata sulle note di La notte vola di Lorella Cuccarini) e conosca molte versioni analoghe. "Cari genitori 'allarmati"', concludono, "forse dovremmo occuparci di più della società che circonda i nostri figli e non allarmarci per una filastrocca innocua." Già, quanto incidono le ore e ore passate a tu per tu con la PlayStation, o con il Game Boy, o con il Nintendo? Rispetto alle quali, anche le ore trascorse con l'occhio incollato ai comuni "cartoni" sembrano diventare trascurabili e innocue. Le maestre rilevano questi nostri figli, cresciuti a videogiochi, ed esercitano una genitorialità seconda. Ce la mettono tutta (sempre per quei 1000 euro a fine mese), spesso sanno evitare le secche della pedagogia stessa, non raramente trasformano la classe in un prezioso laboratorio in cui i bambini possano apprendere più le relazioni che le nozioni (e fa capolino persino la filosofia). Ce la fanno a disintossicarli? Non so. Tuttavia, so che la scuola primaria italiana è

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spesso un esempio per l'Europa: è la parte più viva e produttiva (nonché, certo, la più delicata) del nostro sistema di insegnamento. E che andrebbe supportata e adeguatamente remunerata. Al contrario (andate a chiedere), viene irrigidita e penalizzata. E i tre coltelli piantati in gola alla maestra? Condivido che si tratti di un divertimento assai meno pericoloso di altri: tutti ce la siamo spassata a canzonare gli insegnanti per i loro tic o semplicemente per il ruolo che svolgevano. A volte li ricordiamo proprio per questo. Vorrei, però, aggiungere che forse nella filastrocca possiamo scorgere anche un altro elemento interessante. La cosiddetta educazione dei nostri figli avviene (in modo automatico, per pigrizia o per convinzione) soprattutto a suon di "no". Ai bambini diciamo continuamente di non fare questo o quello, anche ossessivamente, come se non sapessimo dire loro altro o come se credessimo che il dir di no sia in ogni caso il principio fondamentale per formarli. Spesso, invece, è per noi genitori un modo di limitarci a tracciare confini con una sequela di divieti anche minuscoli, spogliandoci di qualunque responsabilità nei confronti di una formazione affermativa e costruttiva. Risultato: i bambini non sanno bene che cosa significhi dire di sì, ma poi come vivono (ed elaborano) tutti quei no? Non è forse vero che l'oggetto del divieto (molte volte non spiegato: 121

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"No, perché no!") diventa un oggetto di desiderio, si colora di un'appetibilità speciale e sproporzionata? Quando inizia la scuola, quei genitori alquanto incapaci (che tutti siamo) passano alle "maestre" la patata bollente, con un ulteriore gesto di deresponsabilizzazione. Faccio solo notare che la filastrocca della maestra con tre coltelli in gola può essere considerata una simbolizzazione ludica che ritengo importante (più che solo innocua) per scaricare il martellante vissuto dei no che ingombra le teste dei nostri figli. Per scaricarlo, almeno un poco, attraverso un gioco (quel gioco che la scuola, irretita nei suoi programmi, troppo presto metterà nel dimenticatoio). 26 agosto 2009

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La privacy è sacra? Come tutti gli italiani ho seguito con attenzione gli episodi della guerra tra il Giornale di Vittorio Feltri e l'Avvenire di Dino Boffo. Inutile ricordare che la prima è la testata della famiglia Berlusconi, mentre il secondo è il quotidiano dei vescovi della CEI. La bomba scoppia il 28 agosto 2009, nell'imminenza di un importante incontro di ricucitura fra il premier e il cardinale Tarcisio Bertone, se-

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gretario di Stato della Santa Sede, incontro che doveva avvenire ali' Aquila e che viene immediatamente sospeso. Il Giornale aveva titolato a piena pagina: "Il supermoralista condannato per molestie". Veniva esibita, come documento, una cosiddetta "nota informativa" sulla vita privata del direttore dell'Avvenire (che, lo ricordo, non aveva risparmiato critiche ai "comportamenti" privati di Berlusconi) in cui, fra l'altro, si legge: "Il Boffo è stato a suo tempo querelato da una signora di Terni destinataria di telefonate sconce e offensive e di pedinamenti volti a intimidirla onde lasciasse libero il marito con il quale lo stesso Boffo aveva una relazione omosessuale". E anche: "Il Boffo è un noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni". Berlusconi si affretta a smentire il suo stesso giornale dicendo che "la privacy è sacra" e che lui ne sa qualcosa, visto che da mesi è bombardato da "fantasiosi gossip". Segue una generale levata di scudi del mondo cattolico, durissima. Boffo parla di "killeraggio giornalistico". Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi, lo definisce "un attacco disgustoso". Monsignor Diego Coletti spende l'aggettivo "immorale". Perfino il Papa scende in campo e solidarizza con Boffo. E intanto la famosa "nota informativa" si rivela una clamorosa "patacca", una lettera anonima da tempo arrivata sulla scrivania di cardinali e

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vescovi che, se prima non l'avevano ritenuta degna di attenzione, ora la comparano a un "avvertimento mafioso". L'evento è destinato, per la sua inusitata violenza, a produrre una scia lunga quanto a implicazioni politiche. Ci sono intanto le menzogne da denunciare e i non detti da sciogliere. Lascio ad altri più titolati di me di valutare l'incidenza di tutto questo, che avrebbe l'aria di essere un autogol, sulla leadership del nostro premier, il quale si sta a sua volta impegnando in una grottesca battaglia a suon di awocati contro la stampa italiana e internazionale che si permette di criticarlo (lui dice" diffamarlo"). E, soprattutto, non entro nella previsione dei riassetti che questa rottura potrà produrre sul versante dei rapporti fra Chiesa e politica. Vorrei solo considerare un poco la questione del "privato". Dire che- nel caso di uomini pubblici - esso sia da ritenersi "sacro" è una sciocchezza (e, nel contesto, quasi un involontario motto di spirito). Se, per quel che riguarda l' omosessualità di Boffo, si tratta palesemente di un'intimidazione canagliesca, costruita a tavolino sulla base di veline fasulle al fine di stornare l' attenzione dal bersaglio effettivo, nel caso di Berlusconi e della sua vita privata la posta culturale è evidentemente altissima. La menzogna dei "fantasiosi gossip" non incanta più nessuno. È impudica, laddove la difesa del privato chiederebbe a ciascuno di noi, anche senza essere un personag-

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gio pubblico, un costante appello al pudore e alle condotte che vi si ispirano. Al tempo stesso, sarebbe da ciechi ignorare che nelle nostre società il confin~ che separava il privato dal pubblico si è modificato ed è divenuto incerto. Lo slogan lanciato dai movimenti femministi più di trent'anni or sono, "Il personale è politico", è stato rovesciato e snaturato da una pratica diffusa (quella che identifica sempre più la compagine sociale con un megashow), nella quale gli individui sono indotti a confessare (e lo fanno con piacere), di fronte all'occhio elettronico o a un semplice registratore, dettagli intimi e scabrosi della loro vita sessuale. E non c'è neppure bisogno che ci siano effettivamente, quell'occhio e quell'orecchio, dato che tutti tendono a comportarsi proprio come se ci fossero e come se questa chance rappresentasse l'unico modo per "apparire", per dare una testimonianza di se stessi. Sta così awenendo una privatizzazione del politico che non sembra arrestabile con campagne di opinione: esse sono sacrosante, una trincea critica da difendere in ogni modo, ma restano inermi se si limitano a sorvolare la questione del privato. Che ci piaccia o no, dobbiamo accettare il terreno di un privato che non ha più la funzione di una volta e che è entrato nella politica con un peso di cui tenere conto e con modalità alle quali non siamo abituati, come nel caso stesso dell' omosessualità, davanti al quale né una posizione

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ultratollerante né, ovviamente, una posizione forcaiola sembrano sufficienti e adeguate a interpretare gli effetti sociali e politici che si stanno producendo. Il privato non è più sacro, ammesso che lo sia stato: su questo non ci piove. Ma che cos'è, oggi, "il privato"? Ci mancano ammettiamolo - le parole giuste per costruire una risposta realistica. 2 settembre 2009

33 Siamo tutti esseri umani La velocità delle notizie allontana i fatti dagli occhi e dal cuore della cosiddetta opinione pubblica. Se i fatti non ti riguardano in prima persona, basta qualche giorno perché subito scolorino, scalzati da altri fatti e annebbiati dal grigio desiderio dell'indifferenza. In un'estate piena di eventi assai poco estivi (non c'era bisogno dell'aria fritta dei gossip, questa volta), dopo un allucinante viaggio della morte, dei 78 disperati migranti partiti dalla Libia su un ridicolo gommone senza benzina, se non quella sufficiente per uscire dalle acque territoriali, solo 5 sono arrivati semivivi alle coste italiane. Tutti gli altri, uomini e donne tra cui mamme in attesa, sono morti uno a uno, giorno dopo giorno, di sete e di fame. Questo viaggio terribi-

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le e folle durava da 21 giorni e altrettante notti, e ci è stato raccontato fin nei dettagli più sconvolgenti. La soglia minima di "umanità" è stata a dir poco ~ltrepassata, con una violenza che non regge la prova della più perversa immaginazione. Noi, che per mesi ci siamo agitati ed emozionati per il caso di Eluana, discutendo con animo turbato sulla sacralità della vita al cospetto di un'esistenza già consumata, difendendo diritti o magari contrapponendoci duramente a essi, appellandoci all'umanità e - di contro - evocando il fantasma dell'eutanasia per denunciare la disumanità, certo siamo rimasti colpiti dal viaggio che ha dato la morte a 73 migranti, mal' abbiamo digerito, un po' dimenticato, forse archiviato nel registro delle fatalità. Come se tale "respingimento" (questa è la parola tecnica) fosse qualcosa di necessario e rientrasse così nell'ordine delle cose. Mi chiedo, semplicemente, perché questa differenza? La risposta non è tanto difficile. Perché, con tutta evidenza, spento l'orrore del tragico episodio, noi crediamo che quelle vite, le vite degli immigrati clandestini, valgano di meno. Meno della nostra. Meno anche di quella di coloro, milioni, che sono morti nei lager e di cui non abbiamo finito, ancora oggi, di elaborare il lutto. Le vittime della Shoah, i racconti dei pochi superstiti, quell'infinito orrore che ha listato il Novecento, hanno infine rilanciato la domanda "Che cos'è 127

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un uomo?". Credo che nessuno, neppure i più ostinati revisionisti, abbia potuto sottrarsi a un simile interrogativo. E allora, perché adesso, di fronte ai segnali incancellabili di un'ecatombe annunciata con il nome mite di migrazioni, ci sentiamo relativamente tranquilli? Partecipiamo emotivamente, ma poi facciamo un passo a lato, come se la "favola" non parlasse davvero di noi (ma solo di "altri"). Così la gran parte di noi bada piuttosto a difendersi: i clandestini sono criminali - recita un recente dispositivo di legge -, il che allenta le nostre presuntuose coscienze e rende legittima la disinvolta pratica quotidiana dei nostri interessi. E i valori di cui ci riempiamo la bocca? E l'"uomo", !"'umanità", l'"essere umano", la "vita" individuale non negoziabile ... dove sono finiti? Una volta contano e un'altra volta no? Un disegno satirico può essere più eloquente di un libro di filosofia. Penso a una vignetta recente di Altan (da quanti anni Altan interpreta la nostra coscienza critica con immutata intelligenza?) nella quale si vede un omino macilento che dice: "Sono un essere umano!", e l'omone in divisa che ha davanti gli risponde: "Dicono tutti così". Noi siamo questi omoni, ed è come se tutti fossimo un po' poliziotti, anche se non indossiamo la giacca con i gradi. Attribuiamo a noi stessi il potere di discriminare tra chi è un effettivo "essere umano" e chi lo è solo a metà, a tratti,

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oppure non lo è affatto. Sorridiamo con un sorriso un po' amaro guardando il disegno. Gli esperti di umorismo ci insegnano che qui l' elemento che produce comicità consiste nella confusione di due contesti: immigrazione e Polizia. L'immigrato è all'interno del contesto che gli attribuiamo di solito e sul quale proiettiamo la nostra anima buona (quella che si nutre di parole come "essere umano"), mentre il grasso signore in uniforme si colloca nel contesto dell'inquisitore. A me non la fai - pare di leggere nella sua battuta-, non raccontarmi storie, tutti si proclamano innocenti, andiamo avanti, confessa piuttosto le tue colpe! Siamo tutti "esseri umani". Già, è facile dirlo, ma poi andiamo a vedere come stanno davvero le cose, e ci accorgeremo che c'è una scala con gradini più alti e gradini più bassi, e che non è vero che tutti godono degli stessi diritti. Chi è ai gradini bassi, o ai piedi della scala, diritti ne ha pochi e talora nessuno. C'è dunque una carriera per diventare "essere umano", fatta di esami e di promozioni, di prove concrete da superare. Nessuno ha in tasca la patente di "essere umano", deve guadagnarsela. Se è così, il cielo dell'ideologia umanistica, trapuntato di dichiarazioni morali, religiose, filosofiche e politiche sull'uguaglianza e i pari diritti connaturati in ciascuno, è una balla colossale che ci raccontiamo stando in poltrona. Le differenze ci sono, eccome, e mol-

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to spesso noi continuiamo ad alimentarle (anche con l'oblio dei fatti), magari proprio mentre ci chiniamo sulle vittime con gli occhi lucidi. 8 settembre 2009

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Sono una donna) non una escort Sogno o son desto? Molti se lo sono chiesto dopo aver visto l'arrivo trionfale di Noemi Letizia alla Mostra del Cinema di Venezia, e dopo aver letto che Patrizia D' Addario è diventata una protagonista assoluta nei media di tutto il mondo grazie alle sue dichiarazioni e alle sue comparse in pubblico un po' dovunque. E ora che sfida Berlusconi a denunciarla e dichiara di non essere più una escort, anche la sinistra radicale la considera una specie di donna simbolo, un'occasione per la coscienza politica delle donne di riprendere la parola dopo un silenzio alquanto imbarazzato. Già, dove siamo? In tanti ci siamo stropicciati gli occhi quando sono apparsi i verbali dell'interrogatorio di Gianpaolo Tarantini (con la "i" finale), il faccendiere di Bari implicato in traffici loschi con la sanità locale, ma soprattutto procacciatore di belle (e facili) ragazze, non una ma trenta in tre mesi, per le "feste" a Palazzo Grazioli dell'amico Silvio. Pagavo loro - così dice - il viaggio e 1000 euro nel caso di prestazioni sessuali. 130

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Come se procurare donne ai politici maschi fosse il fatto più normale del mondo. Sentite, infatti, che cosa dice in piena tranquillità: "Io ho voluto conoscere il presidente Berlusconi [ ... ]e sapendo del suo interesse verso il genere femminile non ho fatto altro che accompagnare da lui ragazze che presentavo come mie amiche, tacendogli che a volte le retribuivo.[ ... ] Voglio infine precisare che il ricorso alle prostitute e alla cocaina si inserisce in un mio progetto teso a realizzare una rete di connivenze nel settore della pubblica amministrazione, perché ho pensato in questi anni che le ragazze e la cocaina fossero una chiave di accesso per il successo nella società". Sic! Non so se le donne debbano sentirsi "umiliate", e in ogni caso è opportuno che finalmente rialzino la testa al sollevarsi di un simile coperchio. Quando ha cominciato a parlare, Veronica Lario era così che indubbiamente si sentiva. Bene informata dei fatti, l'ex moglie del premier ha lanciato un segnale molto chiaro denunciando lo schifo di una politica (si stavano facendo le liste per le elezioni europee) che reclutava il proprio ricambio pescando nel sottobosco delle veline e delle ragazze-spettacolo. Così nacque il caso Noemi, ricordate? Osservo, comunque, una mutazione sociologica dei nomi e dei ruoli. Le ragazze che sono balzate al cosiddetto onore della cronaca non sono certo le tradizionali "puttane", e anche il termine

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"prostituta", che in parte sdogana il vecchio epiteto (dotato di una sua letteratura, anche gloriosa), in questo caso va loro stretto. "Escort'' si presenta invece come un nome elitario e senza fango. A casa mia c'era una escort? E allora? Una volta si diceva "di alto bordo". Ora è come se fosse avvenuta una promozione sociale. Anche "Cicciolina" (ricordate?) è molto lontana. Oggi ci sono di mezzo la televisione e i salotti. Si è stabilizzato un immaginario diffuso di ascesa sociale in cui si confondono - come stiamo vedendo, un po' attoniti - lo spettacolo e la politica. L'ingenua confessione della prima ora, rilasciata da Noemi, fa testo: "papi" mi ha promesso che da una parte o dall'altra avrei fatto carriera. Indifferentemente, capite? Infatti i due mondi, nell'epoca di Berlusconi, si sono mescolati e non sarà così semplice sciogliere il nodo. Sempre nei verbali di Tarantini si dà come ovvia l'esistenza di una categoria nuova: la "donna immagine". Come si è notato, è una definizione interessante perché fa scomparire anche quel tanto di impudico che traspare nella pur straniante parola "escort''. Donna-immagine è un'espressione ponte che non sfregola alcun erotismo, non spaventa, non squalifica così tanto le donne, vellica il loro protagonismo, promette riconoscimento sociale. La coscienza civile e politica delle moltissime donne che hanno combattuto in questi anni battaglie di genere, a difesa

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Corpi che contano

dei diritti, delle pari opportunità, della dignità, avrà molto da lavorare (insieme a quei maschi che stanno dalla loro parte) per contrastare questo scenario, cercando di identificarsi con i soggetti al femminile che lo popolano e - insomma - lo rendono possibile. Scenario che Berlusconi non si è inventato. Lo ha solo abbondantemente usato in prima persona a vantaggio del proprio consenso popolare. 16 settembre 2009

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Quel muro che non cade

35 La dura esistenza del precario errante Mi chiama una insegnante e mi dice: "Non ce la faccio più, ho voglia di mollare tutto". La scuola è cominciata. Lei è una precaria, anche se non insegna da ieri. Adesso l'hanno mandata a Doberdò. Mi telefona in una pausa di attesa tra un mezzo pubblico e un altro, è agghiacciata dall'idea che questo percorso, alquanto scomodo, d' ora in poi se lo dovrà fare quasi ogni giorno. Certo, in auto sarebbe più agevole, ma non risulta che il precario (o supplente, comunque lo si chiami) debba disporre di un veicolo proprio. Nessuna spesa di viaggio gli sarà riconosciuta, e itempi lunghi degli spostamenti equivalgono dunque a tempi persi. La nuova sede dove dovrà insegnare le è stata comunicata solo all'ultimo. Egrazie che la sua esistenza lavorativa non è incappata nei tagli della Gelmini, non proprio irrilevanti. Grazie che a fine mese riceverà ancora quella

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paga leggera che le permette almeno un pezzo di autonomia economica (mesi estivi esclusi, naturalmente). Grazie, infine, alla scuola che si tiene questo precario, come se fosse un favore che gli fa e di cui lui deve essere riconoscente. Il caso che ho appena citato è uno dei mille casi analoghi. La normalità, più che un'eccezione. Ho scomodato l'aggettivo "errante", che è un aggettivo con una sua nobiltà. Ma è un'erranza pesante, assai poco nobile, mentre nobile è, o almeno dovrebbe essere, la professione dell'insegnare. E poi questa erranza non è solo geografica: è strutturale. Prima di tutto, non è un anno qui e un anno là, poiché gli incarichi annuali stanno diventando, se non un miraggio, una conquista. Si tratta di mesi, perfino di giorni, addirittura di ore. Puoi essere comandato in sedi diverse, ti possono ridurre le ore, che so, da 17 a 13 (con effetti sulla consistenza della paga), ti può capitare di andare a tappare semplici buchi, e normalmente le tue ore di lezione sono spezzettate e comunque non raggruppate in modo razionale. Accade che puoi avere una lezione alle 10 e magari un consiglio docenti nel pomeriggio, e allora devi stare lì, dove ti hanno destinato, a far passare quel lungo intervallo che ovviamente nessuno ti conteggia. L'orario è un'erranza nell'erranza, a macchia di leopardo, e tu ti devi arrangiare. Magari credevi di essere un po' avanti nelle graduatorie, per l'anzianità che hai già maturato,

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o per il fatto che possiedi un'idoneità (guadagnata in costosi anni di formazione), e ti scopri, invece, retrocesso perché, intanto, le SISS sono state chiuse e,nelle varie scuole sono tornati a riprendere il loro posto quei docenti che erano stati distaccati là. È già una fortuna che ti abbiano dato qualcosa. D'altronde, è noto che il recente decreto salva-precari è più fumo che arrosto: si parla di un'indennità di disoccupazione, e nessuno sa che cosa siano i cosiddetti contratti di disponibilità. Nell'esercito dei precari erranti (non esistendo a oggi altra via per arrivare a insegnare) sta la futura classe docente della scuola italiana. In tre anni dovranno essere cancellati 130.000 posti di lavoro in tale supposto bacino di scansafatiche; tuttavia sono proprio questi trentenni erranti il ricambio della nostra scuola. Ricordo che l'Italia è il Paese europeo con il corpo insegnante più vecchio. E ricordo quel che tutti dovrebbero sapere, che la scuola è il comparto sociale più prezioso per il futuro, quello su cui dovrebbero concentrarsi gli investimenti dello Stato se si vogliono evitare arretratezza e imbarbarimento. Invece, da noi si taglia, si fa in modo che ci siano almeno 25 studenti per ogni classe (con problemi di sicurezza, visto che la norma prevede un minimo di 2 metri quadrati per studente), e - come leggiamo - in alcuni piccoli paesi di montagna è a rischio perfino il funzionamento puro e semplice degli istituti.

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I precari erranti sono impreparati e scansafatiche? A me risulta il contrario, e cioè che oggi, assai più che nei decenni trascorsi, coloro che scelgono l'insegnamento, owero una delle professioni più delicate e difficili, lo fanno con una grande determinazione, conoscendo perfettamente il compito che li attende, le nuove esigenze dei giovani e dei giovanissimi, la necessità di un rinnovamento creativo dei modi di relazionarsi e della criticità del sapere. Se resistono in questo scenario istituzionale disastroso e penalizzante, lo fanno perché vogliono che scompaiano quegli "assassini pedagogici" che più o meno tutti abbiamo avuto la sfortuna di incontrare quando andavamo a scuola. Pensiamo, appunto, per un istante, agli studenti. Avere a che fare con figure erranti, che un giorno ci sono e il giorno dopo si sono dissolte, senza alcuna continuità didattica e relazionale, è un altro crimine pedagogico che si riproduce, con danno per tutti, nella scuola pubblica attuale. 23 settembre 2009

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Censura e autocensura L'autonomia della stampa e dell'informazione è in pericolo. Non è la prima volta. Ci sono già stati editti "bulgari" che hanno colpito grandi gior-

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nalisti, per esempio Enzo Biagi. Ma ora il livello dell'aggressione si è alzato e generalizzato. Berlusconi vorrebbe imbavagliare tutte le opinioni di opposizione. Non minaccia solo di denunciare alla magistratura i giornali che lo criticano, ma intende sbarazzarsi dei programmi televisivi che gli danno fastidio arrogandosi direttamente un potere di censura su di essi. Li definisce "immondizia" e si accinge a liberarsi di Annozero e poi, via via, degli altri. Ha nel mirino la terza rete televisiva, che evidentemente considera un covo di sovversivi, e non sembra curarsi troppo degli organismi di tutela esistenti come la commissione di vigilanza. Addirittura, asseconda una campagna contro il canone Rai. Questo bavaglio ha echi tristemente noti nel nostro Paese. La situazione è grave. Esige, in chi ha a cuore la democrazia, contromosse rapide ed efficaci. L'Europa e il mondo, d'altronde, guardano non senza inquietudine quanto sta accadendo qui da noi. La censura, che si sta stringendo come un bavaglio attorno alle voci della libera informazione, è oltretutto aggravata da un'autocensura diffusa, e io credo che questo fenomeno di autoimbavagliamento, ampiamente documentabile, sia il terreno più difficile da smuovere. Cerco di spiegarmi. Il nostro premier non è solo un singolo "dittatore" che detiene potenti mezzi di comunicazione e ha imparato a manovrare le tecniche del consenso spingendo il peda141

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le del populismo, così come oggi l'Italia, pur nella sua visibile anomalia, non è semplicemente un caso eccezionale fuori da ogni contesto. C'è infatti un massiccio dispositivo di potere (qualcuno l'ha chiamato "biopolitico") che attraversa tutte le democrazie occidentali in modo microfisico. La politica, i leader politici, lo stesso Berlusconi, ne sono i moltiplicatori. Rappresentano, esprimono questo potere che va diffondendosi nella società a livello locale e in maniera strisciante, e che è anonimo al punto che ciascuno ha la sensazione di esserne depositario. Se Berlusconi sostiene che lui dice e pensa quello che la maggioranza degli italiani pensa e dice (e fa, ivi compresi i comportamenti sessuali), non dobbiamo sorridere, bensì cercare di comprendere in che senso abbia ragione. Occorre, allora, rovesciare l' affermazione e preoccuparsi anche e soprattutto della condizione in cui si trova questa maggioranza di italiani. Una condizione di subalternità in cui ciascuno già provvede a limitare gli spazi di movimento, adeguandosi - giorno dopo giorno a incapsulare il proprio orizzonte di possibilità in termini sempre più ristretti. Chiediamo a un giovane di oggi che idea abbia di ciò che, per lui, è ragionevolmente e realisticamente "possibile". Scopriremo che questa parola è assai più angusta, per lui, di quanto non lo fosse ieri o ieri l'altro per un suo coetaneo. Speranze e futuro sono svaniti, resta un faticoso pre142

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sente nel quale arrangiare al meglio (e magari con furbizia) un'esperienza di vita già di per sé sbarrata. Ed è anche la bancarotta della politica, quella con la ''.p" minuscola, quella buona, quella senza la quale finiamo per essere come degli animaletti che si dibattono nel loro limitato liquido di coltura. Di qui trae alimento l'autocensura, senza la quale la censura vera e propria non potrebbe mordere. Quando ci accorgiamo, cioè, che da soli abbassiamo lo sguardo, non ci permettiamo di pensare certe cose, esitiamo a renderle pubbliche e - se del caso - a scriverle sui giornali, o facendo una lezione o solo dialogando con chi ci sta intorno. Tutto ciò non ha niente a che fare con i codici etici minimi che l'informazione autonoma e critica deve custodire e difendere, dato che "libertà di informazione" non significa per nessuno dire e scrivere semplicemente quel che gli passa per la testa, bensì "salvare" i fatti nella loro criticità e nella loro apertura di senso. Questo di oggi è, invece, conformismo, omologazione, rassegnazione, passività, abiura di ogni soggettività. L'autocensura, spesso involontaria, è una silenziosa sottomissione al potere, è lo scoprire che a poco a poco stai pensando quello che pensano tutti, e non ti ribelli più, anzi ti convinci che così si vive meglio, più tranquilli, tanto non ci puoi fare niente. Una specie di malattia infettiva, una pandemia di cui nessuno si occupa e che non ci spaventa. Di questa malattia

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non si muore, ma si diventa morti viventi. Davanti e intorno a noi accade di tutto, morti vere, stragi, crimini di ogni genere, porcherie impensabili, traffici loschissimi, stravolgimenti della morale e dei costumi, e noi diciamo: "Ah, sì?". 30 settembre 2009

37 Il muro della finzione si è incrinato C'è uno slogan di Antonio Gramsci sul pessimismo e l'ottimismo che un tempo veniva ripetuto e valorizzato. Pessimismo della ragione e ottimismo della volontà. Opportunamente modificato, esso continua a restare valido. L'etica minima è pessimista? Sì, perché ci invita ad abbassare lo sguardo sulla realtà delle cose senza abbellirle, sgonfiando ogni pretesa di cavalcarle con ideologie rassicuranti costruite su misura. No, perché solo così rimettiamo i piedi per terra e possiamo di nuovo camminare. Uscendo dalla nuvola di illusioni e finzioni in cui normalmente respiriamo, possiamo tentare di guardare in faccia la realtà e riuscire un po' a orientarci. Si è detto che la grande manifestazione di Roma per la libertà di stampa ha fatto cadere il "muro della finzione". Gli eventi degli ultimi giorni sembrano confermarlo. Basterebbe la reazione del direttore del T g 1, che ha trattato quel-

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la manifestazione come qualcosa di "incomprensibile" e farsesco, mettendo a nudo in modo clamoroso il rapporto stretto fra politica di governo e televisione pubblica. Il popolo dei supposti farabutti ha gridato in piazza: eccoci qua, lo scriviamo a chiare lettere sui cartelli e sulle magliette, siamo i "farabutti". Su Internet questa restituzione ironica aveva già creato un'onda. Si dirà che è un "popolo" di dimensioni ridotte, sovrastato da una massa che sta a suo agio nella finzione di Stato, nella politica dei proclami e degli annunci, nel sogno che la crisi sia già finita e che il terremoto dell'Aquila possa trasformarsi in una festa. Sono quelli che automaticamente usano il linguaggio delle veline governative, quelli per i quali il privato e il pubblico non si mescolano mai, che - senza riflettere neanche un momento - considerano persecuzioni le sentenze che toccano il premier, e che infine sono interessati solo ai "propri" posti di lavoro, denari, privilegi e poteri. Si nutrono di finzioni perché sono miopi ed egoisti, praticano il cinismo come unica virtù socialmente spendibile. Finzione, realtà, verità. Ecco una bella triade dall'aria filosofica, ma concretissima nella sostanza. Se la "realtà" finta, quella costruita dalla finzione mediatica e che nutre il nostro cinismo quotidiano (in cui gli "altri" sono lontanissimi, un sempliceflatus vocis), comincia a vacillare, a mostrare crepe e cedimenti, allora balugina un

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diverso volto della realtà e si fa avanti qualcosa che possiamo chiamare un'"esigenza di verità". L'ottimismo sta qui, nella percezione di questo contromovimento che potrebbe ricondurre delle illusioni ai bisogni reali. Nel momento in cui comincia a prendere piede una voglia di verità, i tempi dello smottamento non sono prevedibili da alcun esperto. Potrebbero essere tempi rapidi o rapidissimi. Come si è visto tante volte nella storia recente, il punto di "catastrofe" (come lo chiamano i fisici) può essere raggiunto al di là di ogni previsione. Prendiamo gli indici di ascolto, nell'ipotesi che la televisione sia oggi un sintomo molto importante (tutti guardiamo la televisione, la gran parte di noi vi attinge quel poco di sapere sulla realtà di cui disponiamo). Se Berlusconi che consegna le case ai terremotati a Porta a porta è un flop, mentreAnnozero fa ascolti da record, ecco un sintomo che produce ottimismo, comunque vogliamo interpretarlo. Il bisogno di informazione critica, non allineata, si sta manifestando proprio nel momento in cui si vorrebbe eliminare ogni opinione contraria al cinismo dominante. E c'è da aggiungere che coloro che hanno resistito sulla trincea dell'informazione critica, anziché disanimarsi, hanno moltiplicato la loro passione e il loro impegno, guadagnando parecchi consensi, allargando quel piccolo popolo di cui dicevo, facendo scaturire una reazione a catena. Se è vero che è stata data una

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spallata al muro della finzione, sul quale si regge ogni politica di governo, ma di cui la nostra è un esempio inedito (}"'anomalia" italiana, appunto), allora tutti i cittadini critici dovrebbero infilarsi nelle crepe e dare, ciascuno, il proprio contributo di verità. La finzione, forse, è stata condotta al suo limite di rottura. Troppe menzogne. Troppa disinvoltura nel praticarle quotidianamente. 7 ottobre 2009

38 Bella e intelligente Le parole sono armi che possono fare molto male. Ne sa qualcosa Rosy Bindi, apostrofata da Silvio Berlusconi in diretta TV nel modo seguente: "Lei è più bella che intelligente". Le donne si sono indignate, hanno affollato una riunione a Roma (più di 400, con tutti i nomi che contano del femminismo italiano), finalmente si sono fatte sentire contro questa figura di uomo post-patriarca, sessualmente in crisi, privo di autorevolezza, capace solo di esercitare il proprio potere sui corpi. Successivamente la Bindi ha stigmatizzato l'incultura istituzionale: un presidente del Consiglio non può rivolgersi così alla vicepresidente della Camera. Ma è opportuno tornare su quelle parole, passarle un po' al vaglio critico. Infatti, in esse c'è qualcosa di più della violenza

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esplicita che esprimono. L'offesa alle donne è costruita su un luogo comune assai diffuso, cui viene aggiunta un'ironia velenosa rivolta a una specifica donna. Questo veleno può essere usato proprio perché poggia su un modo di dire e di sentire che tutti gli uomini, in varia misura, sembrano accettare e adoperare. Si tratta dell'uso congiunto delle due parole "bella" e "intelligente", che esprimono comunemente due caratteristiche della donna: distinte, diverse e quasi sempre contrapposte. Adoperiamo una "e" che le unisce o un "ma" che le disgiunge, tuttavia la separazione viene assunta come un presupposto, il che non accade quando parliamo di maschi. Dunque, se togliamo l'ironia velenosa e guardiamo ciò che accade nel linguaggio di ogni giorno (nei "giochi linguistici" di cui abitualmente ci serviamo), la violenza offensiva resta. La coppia "bella" e "intelligente" viene declinata in tante maniere e sarebbe importante che ci rendessimo ben conto dei singoli usi, cominciando dall'ordine con cui proferiamo queste due parole: dire "bella e intelligente" non è la stessa cosa che dire "intelligente e bella". Elenco alcuni di questi modi di dire: "Non intelligente, ma bella", "Non bella, ma intelligente", "Più intelligente che bella", "Più bella che intelligente", "Bella e anche intelligente", "Intelligente e anche bella", "Né intelligente né bella", "Né bella né intelligente".

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Si può facilmente vedere che tanto le accezioni negative quanto quelle positive ricadono sotto il medesimo cliché, compresa l'espressione "Bella e intelligente". Basta appunto rovesciarla per rendersi conto che c'è un non detto che ci rimanda alla separazione supposta in ognuna delle frasi. Questo non detto presuppone inoltre che la donna bella è difficile che sia intelligente, e che la donna intelligente ha molte probabilità di essere brutta. Qui non è questione di politically corree!, bensì di una premessa che è giusto chiamare "maschilista" e che ha a che fare con una cultura profondamente incistata. Voglio dire che non è un problema di superficie, perché tocca in pieno il nostro modo d' essere di maschi. Se mi si dicesse: "Scegli la formula che comunque preferisci", sarei nell'imbarazzo. Nessuna va bene. E non potrei neppure cavarmela con espressioni furbe del tipo: "Bella ma intelligente" o "Intelligente ma bella". Non c'è via di uscita se continuiamo ad accostare due aspetti che non possono essere avvicinati come una specie di sommatoria di qualità che alla fine si escludono. Se poi aggiungiamo la punta avvelenata dell'ironia ad personam, come nel caso che ha sollevato la giusta indignazione della donne, viene alla luce tutto il sessismo che scorre nel nostro linguaggio comune, ed è allora di questo che bisogna preoccuparsi. Nell'episodio scatenante si dà per sottinteso, an-

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zi per inteso, che la donna cui la frase è rivolta non brilli quanto a bellezza. Qui la violenza delle parole sprofonda nel terreno della volgarità, e tutto risulta improprio e offensivo. Ma se vogliamo incrinare anche il muro di questa finzione che si annida nel linguaggio, perché la donna "reale" cominci a esistere con tutta la sua dignità, c'è da fare un lavoro a 360 gradi sui modi di comunicare e di scrivere (dovunque scriviamo o comunichiamo, in pubblico o nel privato) nei giornali, nella scuola, soprattutto in televisione, e direi in tutta la nostra cultura materiale di oggi. 11 ottobre 2009

39 Parliamo di verità La verità, nientemeno. Parola pesante di cui si sono sempre nutrite la religione, la filosofia, la scienza. Ma anche parola leggera, e perfino volatile, che sta costantemente sulla bocca di tutti. Ne abbiamo bisogno? Sembra proprio di sì, se ci guardiamo attorno: viviamo in un mondo in cui è difficile stare in equilibrio, trovare un appoggio sicuro. Soprattutto, viviamo in una contingenza pervasa dalla falsità e dalla finzione. Apparteniamo, anche se non ci piace, a una scena mediatica e politica nella quale fatichiamo a trova-

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re quello che tutti chiamiamo "realtà". Non sappiamo dove sia finita questa realtà (che evidentemente consideriamo sorella della verità), quando perlopiù ascoltiamo annunci cui forse vorremmo credere ma che poi si rivelano falsi, annunci davvero pubblicitari, che magnificano un prodotto che sul mercato poi non troviamo. Ogni giorno uno nuovo: adesso è la volta del "posto fisso", del lavoro assicurato. La crisi è finita, i terremotati hanno la casa, la flessibilità non è più un valore. Ecco lo stile di governo del nostro Paese, enfatizzato dalla televisione. A tal punto enfatizzato che finiamo un poco col crederci, ed è ciò che chiamerei autocensura il velo che frapponiamo da soli tra i nostri occhi e la realtà vera delle cose, che sempre meno riusciamo a distinguere. Ma che idea di verità possiamo contrapporre? Qui la filosofia può darci una mano, perché, per cominciare, ci permette delle distinzioni con cui esercitare un sospetto critico nei confronti della verità come pienezza: qualcosa di oggettivo che sta là, che ci sfugge e di cui dovremmo impadronirci. Ne sanno qualcosa le religioni. Ne è imbevuta la scienza. Un tempo si parlava di "ideologia", ora passata in disuso: ma c'è ancora, ed è vincente, un'ideologia della verità intesa come possesso, come pretesa di catturare la realtà, basta che la conosciamo. Ci sono mille trappole in questo modo di pensare pur così diffuso.

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E se, invece, la verità avesse a che fare con il nostro agire, con il comportamento che abbiamo verso noi stessi e verso gli altri? Se, come ha sottolineato Michel Foucault nelle sue ultime ricerche, prima ancora che un "contenuto" essa fosse una virtù privata e pubblica, una qualità che una volta era decisiva, che poi è sprofondata in un oblio generalizzato, e che oggi potremmo forse riattualizzare? Gli antichi greci la chiamavano parresia, che significa in sostanza "parlar chiaro". È una pratica che oggi sopravvive rovesciata: nessuno infatti parla chiaro. Ma il parlare chiaro e in modo veridico non è una questione linguistica e neppure una tecnica retorica. Qui, infatti, la verità si sposa con il rischio, ed è il rischio che chiama in causa il "coraggio" della verità, l'esposizione di se stessi. La furbizia, il calcolo egoistico, l'operare nell' ombra, sono il contrario del coraggio della verità, come lo è ogni tipo di autocensura. Però, attenzione, dice Foucault (e consiglio a chi ne avesse voglia la lettura del volume Il governo di sé e degli altri): questa qualità, questo stile di vita, non riguarda i potenti, bensì tutti coloro che stanno "in basso" e che non hanno strumenti di potere. Sono loro (cioè noi) che possono e devono avere il coraggio di dire quello che pensano, mettendosi a rischio: un rischio non calcolato e non calcolabile che può anche portare a gravi ritorsioni.

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Non ci leggete in filigrana quello che sta accadendo da noi? Solo alcuni, oggi, si prendono il coraggio di dire la verità in faccia ai potenti, e sappiamo bene a quali rischi vadano incontro. Vedete anche, solo da questi accenni, come la questione della verità, considerata in tale prospettiva (che, ovviamente non è l'unica), possa disegnare uno stile di esistenza, un modo di essere cittadini e soggetti. Se ci liberiamo delle doppie e triple verità ("Ti dico questo, ma intendo quest'altro" ecc.), ci ritroviamo, per così dire, "nudi" di fronte a noi stessi, vulnerabili certo, esposti certamente. Ma anche finalmente liberi: nessuna remora ci potrebbe impedire di prendere la parola e di parlare chiaro. Un progetto impossibile? Eppure, è possibile incamminarci lungo questa via sdrucciolevole e forse dare così un po' di senso alle nostre vite impantanate nell'omologazione e nel consumismo. Come negare che ciascuno di noi lo desidera e vorrebbe riuscire a farlo? Nietzsche parlava di "gregge". Come possiamo rompere la logica del gregge? In tanti modi, e tuttavia nessuno di questi prescinde da una qualche manovra sulla verità. Cambiando gioco, trasformandola in un'arma che serva a disincagliarci dalla sottomissione e a far sì che la nostra povera soggettività rialzi un poco la testa. 21 ottobre 2009

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Geneticamente vulnerabili A Udine, un paio di anni fa, si consuma un crimine. Un algerino uccide un colombiano a coltellate. Abdelmalek ha una vita travagliata, traumi alle spalle e difficoltà a integrare la propria cultura religiosa nel nostro mondo. Usa truccarsi gli occhi con un belletto di nome kajal. Viene deriso da un gruppo di giovani tra cui N ovoa. Quest'ultimo gli rivolge l'appellativo di "frocio". Abdelmalek si infuria e lo ammazza. Ma ciò che fa davvero notizia è la sentenza, ora pronunciata dalla Corte d'assise di Trieste. Ad Abdelmalek vengono riconosciute delle attenuanti, una in particolare, tanto inabituale da risultare una novità assoluta in materia: la sua "vulnerabilità genetica". La cosa è clamorosa e merita che la si consideri seriamente, dato che potrebbe profilarsi una trasformazione della nozione comune di responsabilità e anche un'idea di vita alla quale non siamo avvezzi. È un bene o un male? A qualcuno sembra una vera e propria assurdità. Abdelmalek è stato sottoposto a test minuziosi, utilizzando tecniche sofisticate di scansione cerebrale (tecniche ormai collaudate nell'ambito delle neuroscienze e della biomedicina): sarebbe risultato che possiede uno o forse entrambi gli alleli che aumentano il rischio congenito di comportamenti aggressivi, e che dunque è un sogget-

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to geneticamente a rischio. E poiché lui non è responsabile (owiamente) di tale deficit genetico, le sue responsabilità penali si attenuano. Secondo lo psichiatra Mario Novello (che ha una grande esperienza anche in fatto di perizie), non c'era alcun bisogno di scandagliare i geni di Abdelmalek: sarebbe stato sufficiente, per ottenere il medesimo risultato, lavorare sui suoi vissuti e sulle sue sofferenze psichiche, con il vantaggio che così non sa~ebbe stata messa fuorigioco, seppure parzialmente, la questione della responsabilità, sulla quale invece deve basarsi qualunque giudizio penale. Di questo passo - mi dice - ci troveremo in udienza una qualche "macchina della verità" che ci dirà che cosa fare! Il che non accade neppure negli Stati Uniti, dove da vent'anni si discute in modo approfondito e diffuso la questione della biomedicina e della cosiddetta "identità somatica". Infatti, se andiamo a vedere lo stato di tale dibattito scientifico, ci accorgiamo che esso è attraversato da molte perplessità e inviti alla prudenza. Può darsi che siamo alle soglie di una nuova etica fondata sulla genetica (e quindi di un'ulteriore dimensione del governo degli individui e anche del governo di se stessi), ma intanto nessuno (se non nelle fiction) si azzarda a parlare di "geni cattivi", e la comunità scientifica più consapevole ha ben presenti i pericoli di uno scivolamento nel riduzionismo biologico e di ricadute in forme non

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tanto mascherate di razzismo applicato al genoma. Non ci riferiamo a gruppi di popolazione avvertono-, ma agli individui in quanto tali e alle loro differenze. È un avvertimento quanto mai opportuno, ma molto discutibile. L'espressione "vulnerabilità genetica" appare invece alquanto drastica, almeno poco cauta. È inquietante, soprattutto se valutiamo dove ecome sia stata prodotta. Siamo immersi, oggi, in un contesto sociale che fa leva proprio sulla vulnerabilità dei soggetti, intesa come tecnica di potere e come riduzione degli individui a portatori di deficit o semplicemente malati. Ciò incrementa comportamenti passivi e di dipendenza, e penalizza di converso l'attività dei soggetti, la loro responsabilità (la responsabilità, innanzi tutto, nei confronti della propria vita), le chance di protagonismo di cui ciascuno può e deve disporre. Alcuni profetizzano che l'identità biologica e genetica potrebbe essere, al contrario, uno strumento di promozione soggettiva, e perfino di libertà, un vantaggio per la gestione delle proprie vite. Ma esistono validi motivi per restare perplessi di fronte all'ipotesi di un simile scenario, nel quale le nostre vite sarebbero già scandite, o potenzialmente scandite, a nostra insaputa. Nel quale, per esempio, tutti i nostri bambini sarebbero precocemente passati al vaglio per individuarne le eventuali anomalie genetiche.

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È facile scorgere in pratiche come questa, e in tutte le altre analoghe, un misto di utilità sociale e di nuove forme di controllo. Si approfondirebbe il solco tra una vita che sempre più deborderebbe da ciò che di essa possiamo sapere in prima persona, e i vissuti, cioè la vita concreta che scorre attraverso le nostre storie personali e i nostri modi di soggettivarla. C'è il rischio che la vita venga ridotta a corpo e che il corpo si allontani da noi diventando sempre più un corpo estraneo, che non ci appartiene perché si è trasformato in un corpo "scientifico". 28 ottobre 2009

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"Razionalz'zzare" l'università Qualche giorno fa è stato diffuso il disegno di legge sull'università. Dovrà essere discusso in Parlamento. Di qui all'attuazione, solo calcolando i tempi della politica e quelli tecnici, passeranno molti mesi (a essere ottimisti) durante i quali le carte potrebbero anche venire rimescolate. Il disegno riguarda l'organizzazione del sistema universitario, il personale accademico e il diritto allo studio, cioè tutto. Introduce regole di trasparenza, punta allo snellimento della macchina, separa funzioni (per esempio, al Senato accademico la didattica e la ricerca, al Consiglio

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di amministrazione la gestione), promette efficienza a ogni livello, disciplina il reclutamento ... Vi si possono dunque pescare diversi aspetti virtuosi, come si è fatto, ma se guardiamo alla linea complessiva dell'intento, la parola chiave è "razionalizzazione". Parola ben nota alla logica aziendale, e alquanto estranea al significato e alle finalità di una cultura appropriata agli studi superiori. La "qualità" che si promette è infatti di natura funzionale e i codici etici su cui si insiste sembrano ritagliati proprio sull'etica aziendale. Non c'è nessun riferimento al fatto che il laureato possa essere identificato attraverso un'idea di cittadinanza consapevole e critica, come sarebbe ovvio, mentre tutto si coagula intorno alla competenza e agli strumenti per l'accesso al mercato del lavoro. In realtà, nelle fitte pagine del disegno, questa esclusività della competenza viene data per scontata e non si indugia in alcuna considerazione al proposito, cosicché il diritto allo studio risulta identificato automaticamente con il diritto alla competenza. Il messaggio sembra rivolto soprattutto al mondo dell'azienda privata, prima che esso proweda per conto suo a produrre la competenza che gli serve e a svuotare di valore il titolo di studio pubblico. Insomma, si dà per scontato che l'università diventi sempre più simile a un'azienda sui generis che tratta da pari a pari con quel mondo. A mio parere, la

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questione è tutt'altro che scontata e l'università non potrà mai diventare un'azienda, sempre che non voglia cancellare interamente la propria gloriosa tradizione. Mi han'no poi colpito le ultime righe del documento, che dicono: "Dall'attuazione delle disposizioni della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica". Se non è una semplice formula di rito, qui casca tutto il castello delle vantate virtuosità (le promesse di reclutamento per i giovani ricercatori, per esempio) e la parola chiave "razionalizzazione" risuona quasi come una campana a morto. Con quali soldi? A costo zero, sembrerebbe. E, allora, come? Come è possibile riformare l'università, riformarla davvero, senza partire dalla premessa che gli studi superiori e laricerca sono attualmente penalizzati, che rispetto all'Europa l'Italia occupa il posto di fanalino di coda, e che dunque il primo e decisivo progetto politico dovrebbe essere quello di investire nell'istruzione per modificarne il peso? La prova del nove di quanto sto dicendo è del tutto palese in un documento che circola minacciosamente dalla fine dell'estate presso gli interessati: si tratta di un' altrettanto corposa "Nota ministeriale" in cui si fa un elenco delle cosiddette "criticità" e che sta mettendo a dura prova atenei e facoltà perché introduce pesanti restrizioni ali' offerta didattica, imponendo tagli e al-

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bttca mznzma

zando i cosiddetti "requisiti minimi" (necessari per tenere aperti corsi triennali e magistrali). La facoltà di Lettere dell'Università di Trieste (che ha appena festeggiato i suoi 65 anni di vita) ne sa qualcosa. La complicata alchimia dei piani di studio, che faticosamente era appena stata messa a punto, ha dovuto essere rivista e "razionalizzata" da cima a fondo, alla ricerca di accorpamenti e di ibridazioni varie. Il tutto in fretta e furia, sulla testa degli studenti e alla faccia del diritto allo studio. Ci eravamo sbagliati, osserva esplicitamente la Nota (riferendosi alla riforma del 1999 e ai successivi ritocchi), e adesso bisogna rimediare alla proliferazione dei corsi, che è diventata insostenibile. Dunque, stringere la cinghia. E, naturalmente, senza alcun accenno a una qualche politica di reclutamento che sarebbe, stando così le cose, decisamente fuori luogo. Gli stessi virtuosi progetti interateneo, di cui si sta parlando, presentano un volto un po' meno gradevole, se li guardiamo - come è opportuno - anche con questo occhio. Insomma, la Nota anticipa la messa in atto del disegno di legge, spingendo senza tanti giri il pedale della razionalizzazione e ricordando che finanziamenti non ne esistono e neppure si annunciano. Rivelando, a mio parere, quale sia infine la sostanza della riforma che verrà, a dispetto dei tanti specchietti che essa fa brillare. 4 novembre 2009

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Quel muro che non cade

42 Quel muro che non cade A vent'anni dalla caduta del muro di Berlino, un evento epocale, si sono fatti i conti. Molto è stato scritto valutandone importanza ed effetti, globali e locali. Si è anche opportunamente osservato che non tutti i muri sono caduti. Alcuni sono ben solidi dentro la nostra testa e davanti ai nostri occhi. Non sempre riusciamo a vederli ed è molto difficile abbatterli. Per esempio, quel muro che divide gli uomini in due gruppi ben distinti: una serie A fatta di cittadini con diritti e privilegi, e una serie B dove stanno i sotto-cittadini o quelli che è eufemistico chiamare cittadini, perché i loro diritti sono spesso carta straccia, e hanno solo doveri, principalmente il dovere di subire in silenzio l'arroganza del potere. La "drammatica" della situazione italiana, nella sua cronaca di ogni giorno (dai disegni politici come il processo breve alla tragedia di Stefano Cucchi picchiato dalla Polizia carceraria e lasciato morire all'ospedale Pertini di Roma), ci fa toccare con mano questo muro che non sembra presentare incrinature. Che non scricchiola perché è ben piantato negli interessi generali e particolari del dispositivo di potere in cui ciascuno di noi è immerso. Se c'erano interessi palpabili e condivisi per far crollare il muro di Berlino, il capitalismo glo-

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bale non ha alcun interesse materiale a buttare giù quest'altro muro che attraversa i corpi e le coscienze di ognuno. Perciò, anziché diventare più fragile, esso si rinforza e tutti siamo indotti a costruirne uno domestico a nostra misura. Muri che hanno tanti nomi, dal razzismo al semplice bisogno di sicurezza, e che erigiamo con indifferenza, talora senza accorgercene. Pensare di abbatterli, questi steccati securizzanti, è spesso l'ultimo pensiero che abbiamo, per il semplice fatto che siamo tutti impegnati nel costruirli. Ci vorrebbe un dietro front, un'inversione di marcia nella cultura e nelle coscienze. Qualcosa che appare inattuale allo stato dei fatti. Abbiamo ancora da riconoscerli questi muri. Abbatterli, poi, sembrerebbe anacronistico, un pio desiderio di qualche nostalgico. Roba da comunismo, figuriamoci. Abbiamo già dato, pare di sentir dire: non è proprio per questo che oggi celebriamo la caduta del muro di Berlino? La gran parte degli effetti devastanti di questo muro sociale e culturale di cui sto parlando resta sommersa, invisibile, sprofondata in un silenzio bianco. Raramente raggiungono la superficie le persecuzioni quotidiane dei migranti, i "crimini di pace" collegati al lavoro duro nelle fabbriche e nei cantieri, le vessazioni sulla parte femminile della società, le sofferenze dei malati mentali, le odissee dei reietti e dei diversi o anche solo la vita morta degli anziani. È vero, qualcosa ogni tan-

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to traspare, punte di iceberg che ci emozionano per un istante, in un film - il nostro - il cui plot deve comunque essere tutt'altro. L'episodio di Stefano Cucchi, il trentenne stigmatizzato a causa della droga, arrestato il 15 ottobre 2009 e morto dopo una settimana di pestaggi e cure non prestate, senza che un avvocato o solo un familiare potesse averne e darne notizia, è un segno terribile che ha squarciato per un poco la nebbia dell'omertà silenziosa, svegliando qualche coscienza. Ha segnalato alla cosiddetta opinione pubblica come, al di là dello steccato, il diritto possa venire di colpo sospeso, e ha investito sia il dispositivo carcerario sia il dispositivo medico, cancellando tutti i diritti minimi che il nostro liberalismo di facciata osanna (fondale fisso della "drammatica" di oggi), tra cui il diritto alla salute, di cui pure facciamo bella la nostra supposta civiltà. Se entriamo nel merito di questo episodio, scopriamo subito che esistono ospedali-carcere ("strutture protette" è il loro nome) nei quali, con tutta evidenza, il dispositivo medico è subordinato al dispositivo sorvegliare/punire. Basta scorrere le agghiaccianti cartelle cliniche che sono state rese note: Stefano ha perso sette chili in pochi giorni (lui che già pesava meno di quaranta chili), aveva alcune vertebre fratturate ma le lastre sono comparse dopo quasi due giorni, nessuna anamnesi, un analgesico, poi la crisi re-

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spiratoria senza che intervenga un rianimatore specializzato. Ci si limita ad annotare che si rifiuta di mangiare (vorrebbe prima parlare con qualcuno di cui si fida, ma non gli viene concesso), e soprattutto che è "un paziente molto polemico". Si poteva salvare, questa è l'opinione diffusa, e perciò è stata aperta un'inchiesta. Intanto, però, è morto. Oltre il muro, al di là dello steccato che si mantiene formidabilmente saldo, due scene restano stagliate nelle nostre menti. La scena di un ragazzo che una sera viene inghiottito dal dispositivo poliziesco e che ricompare in tribunale solo il pomeriggio del giorno seguente, dopo che nei sotterranei dello stesso tribunale tre agenti della Polizia carceraria lo hanno massacrato di botte. E la scena della morte all'ospedale, una settimana appresso: sul comodino del suo letto era visibile la lista, scaricata da Internet e messa lì quasi per dispetto, dei cibi che un malato di celiachia (quale lui sosteneva di essere) può assumere. 18 novembre 2009

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Uno psichiatra impazzisce Quello dello psichiatra pazzo è da sempre un luogo comune che appartiene all'immaginario popolare. Quando però accade per davvero qualcosa di simile, dobbiamo fermarci a pensare. Specialmente se accade nel cuore del Texas, in una cittadella militare che si chiama Fort Hood, zona nevralgica per i rapporti fra gli Stati Uniti e le loro guerre, perché lì si preparano i soldati in partenza per l'Iraq e l'Afghanistan, e lì arrivano i reduci con la loro psiche spesso distrutta. Come impazzito all'improvviso, Nidal Malik Hasan spara alla cieca contro coloro che dovrebbero essere i suoi pazienti; ne uccide 13, molti ne ferisce, e la strage assumerebbe dimensioni ancora più terribili se un'intrepida poliziotta di anni 21 non intervenisse subito colpendo a sua volta lo psichiatra. Obama si precipita a Fort Hood. Viene naturalmente aperta un'in-

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chiesta che dovrà decidere se si tratti di "semplice" accesso di follia, dovuto allo stress di chi vive ogni giorno traumi anche spaventosi, o se vi si intreccia una matrice etnica e magari una pista terroristica. Nidal è un profugo palestinese che si è integrato pienamente nella società americana, condividendone il "sogno". Ha una carriera impeccabile, anche se ci si affretta a classificarlo come uno psichiatra alquanto mediocre. Da poco gli avevano comunicato che doveva partire, lui stesso, per Kabul, e lui non voleva andare in Afghanistan, avrebbe preferito restare a casa, in America. Tutto fa pensare che l'idea di partire, al culmine di un'esperienza durissima da vivere, gli fosse insopportabile e che la sua psiche abbia catastroficamente ceduto. Ma vengono anche altri pensieri: per esempio, che la guerra sia un mostro che spacca l' esistenza sia di chi la fa sia di quelli, come Nidal, che hanno davanti, ogni giorno, lo spettacolo dei disastri che essa produce negli uomini, e che per giunta ha il compito di curarli. Pensieri owi per una coscienza critica appena disincantata, ma che il "sogno americano" non può ospitare. Deve piuttosto rimuoverli e cancellarne le tracce. Perciò Obama vola immediatamente nella cittadella sperduta nel Texas a elogiare i veterani di tutte le guerre, che sono cristiani e musulmani, ebrei e hindu, credenti e non credenti, insomma espressione di quel popolo delle diversità che è

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la società americana. Abbiamo visto ora il peggio - soggiunge-, ma abbiamo visto anche il meglio. E allude a Francheska Velez, la poliziotta eroina di padre colombiano. Vale la pena di considerare più da vicino che cosa sia Fort Hood, questo fiore all'occhiello degli Stati Uniti. Non è un campo, e in verità neanche una cittadella: è una città vera e propria, con decine di migliaia di esseri umani che ci vivono - uomini, donne e bambini - con uno stadio in cui si sono celebrati i funerali solenni delle vittime (e in prima fila c'erano le carrozzelle con i neonati), ma anche con un Resistence Campus dove appunto si impara a resistere al cosiddetto combat stress. Questo campus è diretto dallo stesso centro medico cui apparteneva Nidal, e in esso è anche attivo uno Spiritual Fitness Center il cui programma è già trasparente nel nome. Una città di 40 chilometri quadrati, un meccanismo che non può incepparsi. E dove vengono sperimentate non le armi o le tecniche di combattimento, quanto piuttosto ogni strategia psicologica, tutte le tecniche per addolcire la psiche e per fortificare gli animi: un'immensa clinica a cielo aperto per rendere duttili i corpi e le anime e per sanare "ferite" forse insanabili. Tecniche per salvare l'anima, di difesa ma anche di offesa. Se il programma di sviluppo, che voleva sfruttare i poteri paranormali a vantaggio della strategia di guerra, fosse ancora all'ordine del giorno,

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Fort Hood sarebbe probabilmente il posto più adatto per sperimentarlo allo scopo di costruire uomini capaci di "fissare le capre" (c'è un film recente sul tema). Il soldato deve diventare un superuomo con poteri eccezionali; poi, quando torna ridotto psichicamente a pezzi (se torna), allora lo si raccoglie con un cucchiaino terapeutico e si tenta di convincerlo che la vita è bella. Che significa "follia"? Tutto e niente, come sappiamo bene. È un'etichetta che permette di far rientrare le cose nei ranghi, il non rappresentabile in una scatola con sopra un nome. Ci mettiamo dentro anche il gesto omicida dello psichiatra Nidal che a un certo punto non ce la fa più, come ci possiamo mettere tutti i suicidi registrati nel recente passato a Fort Hood. E la serie di eventi che sicuramente seguiranno. Poi, ogni volta, chiudiamo il coperchio. Qui da noi abbiamo imparato qualcosa sulla malattia mentale. Per esempio che questa "malattia", trattata come tale, rinchiusa in se stessa, spesso attraverso la moltiplicazione artificiosa delle sindromi, produce altra malattia, in una catena inarrestabile. Potremmo forse partire da questo per farci un'idea della "follia" dello psichiatra palestineseamericano Nidal Malik Hasan. 11 novembre 2009

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44 L'altalena emotiva che ci governa Come funziona il nostro populismo? Attraverso quali tecniche si costruisce e si alimenta il consenso in una situazione come quella attuale in Italia? È importante domandarselo, perché tutti ne siamo in qualche modo oggetto e anche, spesso, involontari soggetti. Si è parlato, per esempio, di "psicopolitica". Che cosa significa questa strana parola? È stata usata, fra gli altri, da due noti pensatori critici come lo sloveno (ma ormai cittadino del mondo) Slavoj Zizek e il tedesco Peter Sloterdijk, che insegna a Karlsruhe, entrambi non estranei al dibattito di idee di casa nostra. È una politica di governo, tipica della fase di globalizzazione in cui siamo, che fa leva sulle emozioni e sulla psiche dei cittadini, e fa di questa leva un volano indispensabile al funzionamento del potere. Sloterdijk insiste giustamente sullo stress. I cittadini vengono rinchiusi nella morsa dello stress attraverso ogni sorta di frustrazioni, che non derivano solo dalle mancanze e dalle perdite (pensiamo a quelle prodotte dalle strettoie del mercato del lavoro o direttamente dalla perdita del posto), ma anche dalle insoddisfazioni della vita: desideri che si rivelano irrealizzabili, progetti bloccati, routine del giorno per giorno piatta e al tempo stesso affannosa, tutte le varianti

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della precarietà, cancellazione del futuro, ansia da regressione a condizioni meno vantaggiose. Cui occorre aggiungere gli stress legati a un consumismo rispetto al quale non si può indietreggiare, pena lo svilimento della stima in se stessi. Questo formidabile pacchetto di ansie e paure che ci attraversa da parte a parte viene promosso da una politica dell'emergenza (paradigmatica la psicopolitica governativa americana dopo l' 11 settembre 2001), che dice ossessivamente al cittadino qualcosa del tipo: "È un momento molto delicato, anzi decisivo, sono in gioco le sorti del Paese e i nostri valori basilari, devi fartene carico e collaborare". La parola "crisi" ha un simile effetto psicopolitico: agisce come un monito a elaborare tutti insieme il lutto di un'emergenza da cui si potrà uscire solo se ciascuno la introietta nel proprio esistere e se ne fa corresponsabile. Un popolo di vittime, come ha osservato Zizek. Se ora guardiamo più da vicino la sindrome italiana, vediamo che da noi il governo dello stress ha però una caratteristica speciale. La tecnica che viene usata, per mezzo della grande comunicazione, è quella che chiamerei dell"'altalena": una rapida, perfino vorticosa, alternanza di messaggi euforici e di messaggi depressivi, e perfino un intreccio simultaneo di entrambi questi appelli all'emotività. Non sono messaggi così fasulli, perché poggiano sull'emissione a getto

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continuo di decreti e dispositivi, o semplicemente sulla promessa o sulla minaccia di essi. Da una parte, la rassicurazione che siamo finalmente usciti dal tunnel e che tutto d'ora in poi andrà meglio. Dall'altra, l'ombra di un complotto eversivo che minerebbe la sovranità popolare, usando l'arma della giustizia e quella della delegittimazione dei governanti in quanto individui, con la conseguente chiamata del popolo stesso a identificarsi con questa tonalità emotiva al fine di combatterla. Da una parte rassicurazione che il terremoto è alle spalle. Dall'altra preoccupazione e vittimismo, che malcelano la richiesta di poteri più forti da attribuire ai governanti prima che tutto si sfasci. Un'altalena stressante che minaccia di eliminare ogni spazio di riflessione autonoma e critica, demonizzandolo in anticipo, e che tenta di ridurre i cittadini in uno stato di continua fibrillazione, in balìa della doppia faccia (una sorridente e una corrucciata) con cui ogni evento sociale viene presentato dalle tribune ufficiali. Ne scaturisce un'ansia momentanea e insieme prolungata, un'incessante messa alla prova della psicologia dei governati. Mai come ora siamo stati così ansiosi di apprendere (dalla televisione, da Internet, dai giornali, dalla radio) gli eventi quotidiani, quasi che ogni giorno possa portare alimento alla nostra fibrillazione emotiva. Capita che se un giorno non

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hai potuto raccogliere notizie (perché eri in viaggio o preso dalle tue incombenze), avverti subito che ti manca qualcosa, che hai bisogno di quell'anello che ti sei perso. Certo, è un modo per tenerci lontani dai problemi "reali", come si dice, ma questo modo, questa tecnica di governo, questa variante italiana della psicopolitica, sono altrettanti fatti dotati di realtà. Costituiscono la gestione quotidiana della temperatura delle nostre coscienze, la condizione di attesa che ci rende sudditi e partecipi di un potere da cui non è poi così semplice evadere. In alcuni momenti, il gioco dell'altalena emotiva riesce più difficile, e allora prevale la faccia cattiva e il potere, per così dire, deve accantonare la sua maschera doppia e stressante. In questi momenti può forse insinuarsi una contromanovra, una qualche ribellione delle coscienze alla dipendenza psicologica in cui sono ridotte. 25 novembre 2009

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Sotto la soglia etica Ogni tanto qualcuno dei nostri governanti ha un soprassalto e percepisce il rischio che si stia scendendo sotto la "cifra etica". Questo soprassalto dura normalmente lo spazio di un mattino. Il Potere, incarnato nel politico, porge per un istante

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l'orecchio ai molti rumori che arrivano dalla società civile e dalla parte critica dell'informazione che riesce a renderli ascoltabili, pronuncia qualche parola di convenienza, poi subito si riprende e procede come se niente fosse. A volte gira proprio la testa da un'altra parte, come nel caso dei nomi fatti dal pentito Spatuzza al processo di Torino per le stragi mafiose dei primi anni Novanta, nomi uditi in diretta TV e lasciati incredibilmente s~nza alcun commento dal Tgl serale; oppure come nel caso della manifestazione di Roma, in cui il popolo di F acebook ha letteralmente invaso la piazza reclamando civilmente le dimissioni di Berlusconi. In quest'ultimo caso l'imbarazzo era generalizzato: indizio, altrettanto incredibile, il fatto che non si è stati in grado di dire quanti fossero in quella piazza. Un milione di persone come sostenevano i manifestanti autoconvocatisi oppure novantamila come ha stimato la Polizia? Una differenza enorme, ma nessuno si è dato la pena di verificare con precisione il numero. Orecchie da mercante, è proprio il caso di dire, e ciò vale per gli innumerevoli altri eventi che hanno punteggiato il 2009, da Noemi Letizia in poi, passando per le "feste" a palazzo Grazioli e le dichiarazioni della escort Patrizia D' Addario, ma anche per il linciaggio del direttore di Avvenire (ora riabilitato in sordina dagli stessi artefici del linciaggio) o per la fangosa vita privata del

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governatore Marrazzo, distrutta dai ricatti e dai trans. Quando si è potuto, si è usata, per non ascoltare (e per dimenticare in fretta), la parola magica "gossip". Altrimenti, si è silenziosamente rivalutata l'immunità del privato, senza curarsi degli effetti devastanti nel frattempo scatenati. Così i discorsi seri e giustamente preoccupati sono diventati un ronzio perfino noioso, un disturbo dell'udito. E non parliamo del sociale: crisi economica e immigrazione, per esempio, nelle loro rispettive drammaticità (senzalavoro in condizioni insopportabili, continue angherie e aggressioni rivolte a chi ha il colore della pelle diverso), entrano da un orecchio del mercante ed escono repentinamente dall'altro. Siamo, inoltre, in un Paese in cui i giudici scomodi vengono insultati e la giustizia è considerata un intralcio agli interessi dei potenti, con la consegna di sottrarsene con ogni mezzo. La sordità è necessaria perché i mercanti non siano distolti dai loro traffici; i grandi mercanti, in primo luogo, che comunque si trascinano dietro la massa dei piccoli fino a lambire gli interessi di ciascuno di noi. Mi chiedo se questa sordità conosca un limite, visto che ogni tanto anche qualcuno dei potenti è indotto a riconoscerlo, temendo che la cifra etica sia stata oltrepassata. Sinceramente non so che cosa possa significare di preciso l' espressione "cifra etica". Cifra? Un misterioso segnale

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simbolico? E magari anche un numero che si potrebbe calcolare? O la confusione tra le due cose? Ce lo dovrebbero spiegare, ma siccome si tratta di un'interruzione retorica della sordità, nessun potente avrà la pazienza di farlo. Non si tratta di riempirsi la bocca di elucubrazioni morali (che un attimo dopo diventano moralistiche e annunciano altre sordità), piuttosto di riconoscere che c'è una soglia di sopportazione, un minimo di civiltà oltre il quale nessuno è disposto a spingersi. Questo "minimo" di resistenza alle violenze che siamo disposti a subire è un discorso che appartiene a tutti i cittadini, forse a tutti gli esseri umani. È una soglia mobile, storica, culturalmente situata, però condivisibile e condivisa. Tristi sono i tempi in cui questa soglia si abbassa. Normalmente essa dovrebbe alzarsi, in conformità ai bisogni e ai desideri della gente. Oggi è al ribasso, il che significa che la nostra società è in pericolo. Per smascherare l'ipocrisia di chi parla (ogni tanto) di cifra etica e allude a qualche rischio che potrebbe forse venire, basterebbe fare l'elenco degli sprofondamenti al di sotto di tale soglia critica che sono stati progettualmente compiuti nell'ultimo periodo. Consideriamo, da questo punto di vista, gli atti di governo (attivismo di cui perfino ci si vanta), le leggi ad personam, quelle che hanno penalizzato via via gruppi di cittadini spogliandoli di molti diritti, quelle che hanno colpito i lavoratori, le donne, gli immigra-

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ti. Un elenco impressionante e non certo compiuto. La soglia etica, anche solo guardando i provvedimenti legislativi (ma si dovrebbero fare anche molti altri elenchi), è stata regolarmente e pervicacemente abbassata, ben oltre i limiti della tollerabilità. Affermare en passant che, chissà, forse potrebbe profilarsi un qualche rischio, è una presa in giro. 9 dicembre 2009

46 Governati dallo spettacolo Ah, se fossimo un Paese normale! Invece viviamo in una bolla, in un"'anomalia" - parola che abbiamo dovuto imparare a usare incollandoci la ovvia localizzazione: "italiana". Il tema forte della settimana, l'aggressione di Milano al premier con i relativi allarmi sulla "spirale della violenza", rappresenta certo un passaggio di tono, ma non mi pare che cambi davvero lo scenario, anzi lo rinforza. L'anomalia italiana ha tante teste, e una di esse si chiama "televisione". Non voglio parlare qui nello specifico della televisione, che parrebbe meritare più di un discorso, bensì della nostra realtà e del racconto di essa con cui ci nutriamo ogni giorno: ecco una televisione che fun-

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ziona senza premere alcun pulsante! La telenovela è là fuori, e noi, appunto, la vediamo da lontano seguendo nel dettaglio le vicende più o meno fosche che ci narra. Spesso distogliamo l'attenzione da ciò che ci riguarda in prima persona, miserie o miseriucce che siano; qualche volta ci emozioniamo. Il ciclo cui abbiamo appena assistito aveva per titolo Il ritorno della mafia. E un altro è già iniziato. Si sa che il processo è un tipico espediente di queste narrazioni. Ricordo che, per molti giorni, una porzione non piccola degli italiani è rimasta con il fiato sospeso aspettando le parole di un cosiddetto pentito e le repliche dei suoi capi. Che cosa avrebbe detto il pentito Spatuzza? E che cosa avrebbero replicato i fratelli Graviano? Spatuzza ha infine nominato "quello di Canale 5" e il "paesano", dicendo di averlo saputo proprio dai suoi mandanti, cioè dai Graviano. Ed eccoli, qualche giorno dopo, i due, uno "buono" e uno "cattivo", come è televisivo che siano. Quello "cattivo" sta male, dunque non parla, minacciando di farlo semmai più avanti, quando deciderà lui. Quello "buono" si limita a pronunciare una serie di "no". Non conosce e non ha mai incontrato il senatore "paesano", così afferma davanti al mondo. Colpo di scena e sospiri di sollievo. È solo "una comica", commenta qualcuno che se ne intende. Comincia a scorrere, il giorno appresso, un fiume di opinioni, come se fossimo

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al Bar Sport un lunedì mattina, solo che qui è chiaro a tutti che è in gioco assai di più che qualche punto in classifica. Bisognerà pur ricordare che la realtà-televisione non smette di essere realtà e che, a quanto sembra, ne andrebbe nientemeno che la tenuta della nostra democrazia. Così come occorrerebbe rammentare che i tre parlano (o fanno silenzio) da dietro le sbarre, con un fardello impressionante di delitti orribili a loro carico. Sono criminali efferati, ciascuno con un proprio preciso tornaconto, che non è solo quello di alleviare le condizioni di carcere duro cui sono sottoposti. Spatuzza può coltivare perfino il miraggio della libertà vigilata. Gli effetti delle loro dichiarazioni oscurano la domanda sui motivi per cui hanno deciso di prendere la parola. Si fa una certa fatica a ragionare con mente lucida, proprio perché siamo nella realtà-televisione. Il plot è perfetto, e a pochi viene in mente di chiedersi perché mai, se Spatuzza come criminale non è attendibile, dovrebbero esserlo Filippo Graviano o suo fratello, i capi della cupola Brancaccio (ricordo che Giuseppe veniva chiamato dai suoi "madre natura"). Nessuno di loro è ingenuo, ognuno tira con astuzia l'acqua al proprio mulino. Gli effetti televisivi stemperano e infine coprono la realtà precisa delle cose: i mille dubbi, le mille crepe di conoscenza che si intravedono nella tortuosa vicenda (ci sono di mezzo le stra-

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gi dei primi anni Novanta), che si vorrebbe già chiusa da anni. Perché si riapre? Di nuovo riecheggia l'idea del complotto organizzato da magistrati che farebbero solo politica. D'altronde, come si sa, ogni telenovela ha nella ripetizione (e nella dipendenza che così rinforza) il segreto del suo successo. E se fosse l'esatto contrario? Ho infatti l'impressione che l'anomalia italiana (che non è un difetto congenito degli italiani, ma una deformazione della politica attuale e della sua cultura del consenso) sia attribuibile in misura cospicua a questo limbo televisivo in cui siamo sospesi, come se ci muovessimo in una specie di Second Lz/e caratterizzata da effetti e colpi di scena spettacolari, il che è infine un modo di governare il Paese tenendolo sospeso in una dimensione mista fra realtà e finzione, dove c'è chi vince e chi perde, chi è perseguitato e chi perseguita, con personaggi-vittima che attraggono interesse e consenso, con milioni di spettatori passivi chiamati a identificarsi o anche soltanto a partecipare emotivamente. In fondo, è un modo per dimenticare i nostri guai quotidiani, una specie di catarsi narrativa. Questo impastoiamento ci distrae, ci preoccupa e perfino ci diverte, ma ci stacca dai nostri bisogni e a volte ci impedisce anche solo di riconoscerli. Ci vorrebbe un filtro critico, qualcosa che si metta di traverso e ci riporti alle nostre espe-

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rienze, che ci svegli dal "sogno (o dall'incubo) televisivo", in cui noi ci troviamo sempre dall'altra parte, perché siamo quelli che infine vengono ridotti a guardare, a emozionarsi e a fare il tifo. A meno che la normalità cui molti aspirano non sia proprio questa. 15 dicembre 2009

47 I: odio e l'amore La parola più frequentata in questo scorcio del 2009 è la parola "clima". In senso proprio, ma soprattutto come metafora politica. Accordi internazionali alquanto sofferti (la conferenza di Copenhagen) e cronache locali sull'emergenza invernale sono stati la nostra quotidiana doccia scozzese. Neve, ghiaccio e poi l'acqua hanno messo alla prova un'Italia ancora una volta inadeguata, sfiorando un tilt disastroso quanto a treni, strade e aerei. Moltissimi hanno pagato di persona in un periodo, il Natale, in cui i movimenti sono essenziali. La metafora riguarda, invece, "il clima di odio" che si sarebbe diffuso nella società per colpa di qualcuno. Questo "clima" di tensione viene normalmente declinato nell'espressione "spirale di violenza", in cui, con un po' di paranoia, potremmo far rientrare anche lo spintone al Pa-

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pa, la notte di Natale. Tardivo, suona l'allarme. Un episodio aveva colpito e commosso tutti: il ferimento del premier in piazza Duomo a Milano, dopo un comizio. "Menti labili" trascinate all'atto violento, dirà lo stesso premier con voce ancora dolente all'uscita dall'ospedale. Adesso ci vuole "amore", unico antidoto all'odio (e all'invidia, aggiungeva): bisogna cambiare rotta, cambiare campagna, iniziare un altro racconto, più distensivo. Intanto, ancora prima di quest' elogio dell'amore, si era creata una "pausa emotiva" ed effettivamente si constatava che sarebbe stato meglio deporre le armi e rettificare la vita democratica, riportando la politica entro l'alveo di una dialettica "normale", nel quale maggioranza e opposizione possano finalmente collaborare alle riforme di cui si avverte il bisogno. È così facile? È così vero? Il governo dell' emotività è stato costruito a lungo, con determinazione e perfino accanimento. Bugie e pratica quotidiana del cinismo ne sono stati gli strumenti, adatti a moltiplicare le paure, allargare le differenze, distanziare i cittadini. Come credere che, di colpo, l'emotività si azzeri, la verità rialzi la testa, le parole dei governanti dismettano la loro maschera cinica e cominci davvero una politica dell'amore? Sarebbe bello, ma è difficile da immaginare. È più probabile che si tratti di una nuova fiction, la quale può servire a confondere le acque pro-

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muovendo una pericolosa amnesia collettiva, facendo cioè di ogni erba un fascio: con il risultato di eludere una descrizione fedele di ciò che è accaduto e sta accadendo, e di soffocare ancora una volta quello spirito critico senza il quale ogni democrazia diventa una burla. Abbassare i toni, è stato il ripetuto monito del presidente della Repubblica. Nessuno l'ha ascoltato. Ora, nella pausa emotiva di questi giorni, il monito sembra essersi diffuso e ha assunto la forma virtuosa "l'altro non è mai un nemico". Se questo diventasse davvero un programma etico, come sarebbe giusto e doveroso, i nostri governanti dovrebbero applicarlo innanzi tutto a se stessi e considerare i comportamenti che hanno tenuto sin qui, facendo dell'attacco all'avversario di turno la chiave del loro governo, a cominciare dal premier (da cui ci si aspetta un senso di responsabilità pari alla sua carica), il quale ha cercato in ogni modo di far scendere l'ombra della delegittimazione sui giudici e sugli stessi istituti di garanzia dello Stato. Come si è osservato, il linguaggio di questi attacchi (da parte del premier e dei suoi ministri e portavoce) ha spesso superato i limiti di guardia, scadendo talora nell'insulto. Qualcuno ha anche stigmatizzato "il senso di irresponsabilità" che così si è diffuso, ed è difficile dargli torto. Come è noto, lo stesso presidente della Repubblica ha reagito con fermezza, proprio alla vigilia dell'aggressione milanese.

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Nel corso della legislatura, questi attacchi si sono materializzati nel sociale, grazie ad alcuni decreti governativi, nei confronti di varie componenti, e soprattutto contro gli immigrati. Il "Natale bianco" organizzato dai leghisti fa a pugni con il "Natale d'amore" auspicato a parole dal premier- per limitarmi solo a una delle molte discrasie del clima che stiamo vivendo. Senza parlare di quella specie di lista di proscrizione, con nomi e cognomi, che si è potuta ascoltare in Parlamento proprio nei giorni in cui tutti ritenevano opportuno un abbassamento dei toni, erivolta palesemente a intimidire ogni volontà di critica, soprattutto da parte dell'informazione. Insomma, il tema del "nemico" è stato subito rilanciato con particolare veemenza dal governo e dai suoi sostenitori, aggiungendo il marchio della vergogna, in perfetta contraddizione con i "buoni" intenti sbandierati. Esternazioni governative ed esternazioni critiche dei media e degli oppositori politici non possono assolutamente essere messe sullo stesso piano, come si è cercato di far credere. I governanti devono dare innanzi tutto esempio di responsabilità, di rispetto delle istituzioni e di senso dello Stato. L'opinione critica, anche pungente, deve avere voce, senza impedimenti o intimidazioni. Solo così c'è democrazia, e solo a questa condizione si potrà tentare di uscire dal clima di odio. 25 dicembre 2009

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48 Come erano belli! Ecco, di nuovo, levarsi una canzone da organetto - come la chiamerebbe Nietzsche - che ormai conosciamo bene. Come erano belli e come si stava bene nei vecchi manicomi! Questa canzone viene suonata ancora oggi, e non per caso. I folli sono in mezzo a noi, qualcuno magari aggredisce il premier, qualcun altro si getta contro il Papa. Non è forse arrivato il momento di por mano alla legge Basaglia e cambiarla? E passi che la canzonetta venga messa in bocca alla ministra Carfagna. Ora, infatti, si scomoda un nome grosso, Oliver Sacks: un suo "elogio della follia" viene tradotto (Sacks è americano) sulla Rivista dei libri e anticipato con grande rilievo sulla stampa nazionale. Sacks è persona intelligente, ma qui inanella un sacco di sciocchezze dando un colpo al cerchio e un colpo alla botte. Dice, per chi non lo sapesse, che il nome antico dei manicomi era quello di "asili", luoghi di protezione e solidarietà. Dice che nell'Ottocento della brava gente ha messo in piedi con la stessa ispirazione i moderni manicomi. Dice che Erving Goffman (nel suo famoso Asylums) ha parlato di "istituzioni totali", ma che questo andava bene per gli anni Cinquanta. Dice che la de-istituzionalizzazione della malattia mentale ha avuto in seguito effetti assai negativi, anche

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perché le promesse della nuova farmacologia sono risultate impotenti di fronte alla depressione. Dice, infine, che i pochi manicomi sopravvissuti negli USA sono semivuoti e che solo l'uno per cento degli americani bisognosi di "asilo" riceve sollievo a caro prezzo (100.000 dollari l'anno) presso cliniche psichiatriche specializzate, mentre il restante novantanove per cento, cioè milioni di suoi concittadini, non trova alcuna protezione né sollievo in una solidarietà organizzata. In sostanza, dice che bisognerebbe rimettere in piedi dei buoni manicomi. Cita a sproposito Foucault, ma non fa neanche un accenno a Basaglia, agli esiti del suo movimento e al ruolo mondiale che esso ha avuto e mantiene. Non ne sa nulla? È molto poco credibile. Semplicemente, decide di fare silenzio. È inquietante, ma si potrebbe osservare: sono fatti di Oliver Sacks. È assai più allarmante che la sua reticenza venga colta al volo, usata e sbandierata ali' opinione pubblica italiana senza uno straccio di commento critico. Se le cose stanno così in America, e ce lo racconta uno che se ne intende, figuriamoci in Italia! Mi chiedo se dobbiamo inserire questa fallace analisi della follia nella scricchiolante telenovela dell'amore di cui siamo attoniti spettatori. Mentre attendiamo la comparsa in pubblico del volto del premier devastato da un cosiddetto folle in libera uscita, la macchina politica del-

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l'odio ha ripreso a funzionare a pieno regime. Il fantasma della follia è tornato a circolare, a invadere le prime pagine e a ossessionare i cittadini. Quale migliore occasione per cementare il vecchio luogo comune del folle, sul quale è possibile scaricare tutto, azzerando un lavoro di decenni? Il rinculo è impressionante e l'incultura che lo accompagna può rivelarsi non poco disastrosa. Le leggerezze di Sacks vengono strumentalizzate per dirci: vedete, ve lo avevamo detto, sono pericolosi, bisogna provvedere e subito. Con azzeramento culturale intendo il colpo di spugna con cui si vorrebbe cancellare tutta la cultura della follia che, con grande fatica e altrettanto merito, è stata costruita in Italia, vincendo pesanti sordità e ostacoli materiali di ogni genere. Ci sono i folli, punto. Come se fossero una categoria eterna e insondabile. Basta con questo cercare di comprenderli, socializzarli, valorizzarli, farli perfino diventare dei protagonisti. Bisogna, piuttosto, arginare, rinchiudere, eliminare il "disturbo" sociale costruendo luoghi adatti e somministrando le cure giuste. Toglieteceli dalle strade e dalla vista. Già, ma quanti sono, chi sono? Così ridotta, così barbaramente e stupidamente ridotta, la parola "folle" si può applicare a qualunque situazione, forse a qualunque individuo. Non è forse folle chi picchia un migrante, già recluso in un centro di detenzione, perché vorrebbe dormire

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su un materasso asciutto? (O dobbiamo pensare che sia lui, il migrante, il folle?) Non è forse folle quella dipendente delle nostre ferrovie che maltratta un disabile sull'Eurostar Bari-Roma? (O dobbiamo pensare che è lui un folle, romeno e senza braccia com'è, che sale sul treno privo di biglietto, con i denari per pagarlo ma non per pagare la multa?) Ciascuno, d'ora in poi, sorvegli bene i propri gesti, anche se si crede il più sano dei sani di mente: infatti basta poco per precipitare dall'altra parte, nel calderone di coloro che vengono stigmatizzati come "folli". 6 gennaio 2010

49 A Rosarno abbiamo perso tutti "A Rosarno abbiamo perso tutti." La frase è stata pronunciata e ripetuta a proposito della cosiddetta battaglia del Sud, dopo le fucilate contro gli irregolari neri che raccolgono le arance nella piana di Gioia Tauro, in Calabria, dopo la ribellione dei migranti ridotti con evidenza a sotto-uomini e a "schiavi", dopo lo scatenamento del peggiore razzismo - "caccia al negro", per parlar chiaro - che ha sconvolto per troppe ore il paese e i suoi dintorni, dopo la "deportazione" di un migliaio di questi "ultimi della Terra", dodici ore di lavoro al giorno per 15 euro, poi a dor-

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mire come animali in luoghi che sarebbe ridicolo chiamare abitazioni; e dopo che, infine, le ruspe hanno spianato i loro disgraziati e miserabili insediamenti. La frase ha fatto seguito ad altre frasi. "Troppa tolleranza" è stata quella sorprendente del ministro degli Interni. "Lo Stato non c'è" quella di chi finalmente apriva gli occhi di fronte a una realtà stranota che si trascina da oltre vent'anni in un silenzio quasi assoluto. Così, la telenovela italiana è stata interrotta per un paio di giorni da qualcosa che non ha niente a che fare con la finzione; brusco intervallo, pubblicità regresso della barbarie da stoppare in fretta, perché la vita vera e buona deve riprendere senza intralci. Il premier ferito è tornato in campo e si è ben guardato dal mettere al primo punto della sua agenda il drammatico evento, e dunque avanti come se niente fosse - con la cosiddetta riforma della giustizia, e a discutere in latino se i prowedimenti che reclama con urgenza siano ad personam o ad libertatem, magari soltanto suam, come si è argutamente notato. Come se i clamorosi fatti di Rosarno e il loro ampio contorno di razzismo esplicito e agito fossero il miglior incentivo a voltare subito pagina, mettere in soffitta la favoletta natalizia del partito dell'amore e riprendere le cose esattamente dal punto in cui l' aggressione di piazza Duomo a Milano le aveva interrotte, con la sua scia di doverosa commozione

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generale. Passi per gli insulti ali' esuberante calciatore di nome Balotelli, colpevole di essere nero e perciò odiato dai tifosi. Ma una sommossa e una caccia all'uomo come quelle di Rosarno sono davvero troppo, e allora un pesante sipario deve calare per restituirle al disinteresse che si meritano. Abbiamo tutti perso. Tutti abbiamo perduto un po' della nostra dignità; la vita civile ha fatto un passo indietro a Rosarno. Istituzioni e cittadini escono umiliati da quella battaglia. Chi per tanto tempo ha distolto lo sguardo facendo finta di non vedere la malavita organizzata in azione, con i suoi "caporali" e il suo profondo disprezzo per qualunque diritto umano. Chi ha soffiato incessantemente sulle braci della xenofobia, magari riempiendosi la bocca di parole come "integrazione". Chi si è fatto un vanto dei decreti che autorizzano i "respingimenti" e adesso, con totale cecità, invoca la tolleranza zero. Chi statuisce quanti ragazzi stranieri possano entrare in una classe scolastica e dimentica che il problema è quello dell'equilibrio tra le culture e che il prossimo futuro non ammetterà più una cultura dominante. Chi fa la guerra ai minareti e non si accorge che è già persa in partenza. Chi chiude gli occhi davanti alle reali esigenze di manodopera non specializzata. Chi pensa che il Sud sia un mondo altro e lontanissimo. Chi continua a delegare alla mafia e ai suoi succedanei la ge-

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stione di questioni scottanti e decisive per il nostro beneamato Paese. Qualcuno - è vero - si sottrae e non demorde da volontarismo e caritas, diventati beni preziosissimi nell'indifferenza generale di governanti e cittadini che hanno altro da pensare. Anche loro, però, hanno perso a Rosarno il loro umanitarismo è stato soffiato via d'un colpo. È vero, tutti hanno perso, comprese le anime belle e gli spiriti critici, con i loro sensati discorsi. La disfatta è generale. Ma ciò non toglie un computo delle responsabilità, una loro distribuzione ineguale, il bisogno di disegnare una mappa di tali responsabilità, che toccano tutti ma in cui ciascuno gioca la propria parte e di quella deve rispondere. A chi? Non tanto e non solo a una qualche coscienza morale, alle sue soglie di allarme ampiamente superate e- direi- calpestate, ma soprattutto all'idea di civiltà che ciascuno ha e deve pur avere, anche il più cinico di noi. E se parlare di idea vi pare idealistico, alla civiltà che stiamo comunque costruendo giorno per giorno, anche se non vogliamo pensarci tanto. Se ci accorgessimo che questa civiltà (fatta di cultura, di convivenza sociale, di senso dell' esistenza) si confonde con la barbarie (sopraffazione, cinismo degli interessi, sfruttamento radicale degli altri), capiremmo tutti che è scattato il codice nero, qualcosa che va ben oltre un semplice allarme. Nessuno potrà più ricorrere ali' alibi del-

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la paura e accontentarsi di pacchetti sicurezza, poiché tutti siamo imbarcati in questo gioco pesante, ciascuno con le sue brave responsabilità. 12 gennaio 2010

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Una società gelatinosa Più che "liquida" (come direbbe Zygmunt Bauman) la società attuale sembra essere "gelatinosa". Ecco un nuovo aggettivo. L'abbiamo appena imparato dall'associazione di malaffare (appalti più corruzione) che circondava la Protezione civile di Guido Bertolaso, ma possiamo benissimo generalizzarlo all'intera società italiana. Qualcosa di molle e insieme di compatto in cui stiamo galleggiando. Abbiamo l'impressione di poterci muovere liberamente, e tuttavia è solo un'impressione, visto che in questa gelatina siamo bloccati, dolcemente invischiati, impercettibilmente impantanati. Certo, qualcuno sa come starci comodamente dentro e trarne un profitto da furbi, e forse una buona fetta di italiani si illude di saperci fare con tale vischiosità, di poter camminare su una simile superficie gommosa in cui invano cerchi un appoggio e ogni volta ti pare di cadere perdendo l' equilibrio. Basta provare per accorgersi che in realtà noi, cittadini comuni, qualsiasi sforzo facciamo, restiamo piantati sul posto nella nostra

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completa precarietà. In questa società il movimento è una pia illusione. Gelatina! Ovviamente artificiale, artificiosa, però a presa rapida, subito pronta all'uso, e con un sapore ancora gradevole. Un tempo, nelle accattivanti vetrine dei migliori salumai, si scorgevano grandi vassoi in cui, come tante isole, erano collocati pezzi di pollo bollito a insaporirsi nella loro giallastra gelatina, contornati qua e là da vezzose verdurine all'aceto rossopeperone e verdecetriolo, godimenti per l'occhio e solleticazioni per il palato. Per motivi che mi sfuggono, questi vassoi sono spariti quasi dovunque, resta la metafora. Noi siamo proprio come quei pezzi di pollo abbracciati dalla gelatina. Siamo dei polli, ecco cosa siamo, anzi dei frammenti di pollo già opportunamente disossati, pronti per essere mangiati. Diego Anemone e la sua banda sono stati arrestati. Erano loro, quelli degli appalti alla Maddalena, che se la ridevano, magari a letto da soli, la mattina dopo il terremoto dell'Aquila, immaginando l'affare. Orrore! Trasaliamo, ma non senza l'atroce sospetto della normalità. Quante volte? In quante altre occasioni che non ci è ancora dato di conoscere? E quel sant'uomo di Bertolaso (cui tutti riconosciamo capacità e risultati) che ammette che qualcosa, in tanto trafficare con continue emergenze, potrebbe essere sfuggito al suo controllo? Siamo polli in gelatina, ma forse non siamo an-

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cora completamente bolliti. Non al punto di impedirci alcune semplici riflessioni. Se la magistratura fosse ridotta all'impotenza, se le norme anti-intercettazioni fossero già in vigore, oggi non sapremmo nulla di tutta questa grandiosa operazione di sciacallaggio, organizzata e prolungata nel tempo, fatta di disgustosi interessi privati con solide radici nelle istituzioni pubbliche. Magari qualcuno, vista l'aria che tira, poteva averne sentore grazie al suo accanimento critico. Tuttavia, è evidente che, ancora una volta, siamo stati presi in contropiede dall'oscenità della corruzione, condita con scenari da basso impero che le intercettazioni ci squadernano impietosamente, un gioco di favori e controfavori in cui la prostituzione d'alto bordo è merce comune, senza denari lasciati sotto il cuscino o infilati nell'indumento intimo della "massaggiatrice" di turno, dato che si tratta di graziose donazioni fatte al potente, omaggi naturalmente gratuiti perché lui si rilassi un poco dopo viaggi defatiganti. Non finiamo, dunque, di sorprenderci anche se dovremmo ormai essere completamente smagati. E non riesco a valutare bene se questa sorpresa, che si riproduce a ogni nuovo episodio di malaffare diffuso, sia da attribuire alla nostra infinita ingenuità di abitatori della gelatina o se sia un'ultima riserva di vitalità che testimonia che non siamo del tutto affondati nella rassegnazione. Forse entrambe le cose.

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Non abbiamo ancora capito? Eppure, con lucidità e con il suo sorriso beffardo (recentemente riproposto nei filmati), Bettino Craxi ci aveva spiegato vent'anni fa - nel famoso discorso in Parlamento-che lui si era comportato come tutti si comportavano e che solo inguaribili e inutili ingenui potevano opporre alle pratiche reali e consolidate risibili questioni di moralità. Se ne dovrebbe dedurre che Mani pulite è stato un semplice incidente di percorso da dimenticare. La stagione che è seguita ha infatti ripreso esattamente quel percorso là dove si era interrotto, conducendolo fino alla situazione di oggi, alla "normalità" in cui tutti stiamo navigando. Qualcosa che - come si è notato - assomiglia molto a un arresto della democrazia. La società gelatinosa pratica sistematicamente la sospensione della legalità in un apparente regime di libertà. Qualcuno è autorizzato a "passare con il rosso" poiché questo equivale a governare con efficacia e tempestività, come se ogni giorno fosse quello successivo al giorno del terremoto o quello che precede un'immancabile ulteriore emergenza. Ma tutti siamo poi liberi, liberi di adeguarci alla gelatina degli interessi addizionati (altro che conflitto!) e di partecipare al generale mangia mangia, con i benefit dei suoi indecenti corollari, basta che lo vogliamo. 18 febbraio 2010

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