Esperienze di mistica spagnola. S. Teresa d'Avila, S. Giovanni della Croce, S. Ignazio di Loyola 8881252643, 9788881252640

Analisi di alcuni testi di tre grandi della mistica spagnola cinquecentesca.

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Italian Pages 276 [265] Year 1999

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Esperienze di mistica spagnola. S. Teresa d'Avila, S. Giovanni della Croce, S. Ignazio di Loyola
 8881252643, 9788881252640

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S E C O L I

D ’ O R O

GAETANO CHIAPPINI

ESPERIENZE DI MISTICA SPAGNOLA S. TERESA D’ÁVILA S. GIOVANNI DELLA CROCE S. IGNAZIO DI LOYOLA



Esperienze di mistica spagnola

secoli d’oro / 2 diretta da Gaetano chiappini e Maria Grazia Profeti

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Gaetano Chiappini

© copyright alinea editrice s.r.l. - Firenze 1999 50144 Firenze, via Pierluigi da Palestrina, 17 / 19 rosso tel. 055 / 333428 — Fax 055 / 3303 tutti i diritti sono riservati: nessuna parte può essere riprodotta in alcun modo (compresi fotocopie e microfilms) senza il permesso scritto dalla Casa Editrice ISBN 88-8125-264-3 e-mail [email protected] http:/www.alinea.it

iMMaGine di coPertina: s. teresa, Vida, cap. Xl, ms. autografo del Monasterio del escorial, c. cXcViv.

Ricerche pubblicate nell’ambito del progetto co-finanziato dal MUrst “la scrittura dei secoli d’oro”.

finito di stampare nel marzo 1999 – d.t.p.: “Alinea editrice srl” - Firenze stampa: Grafiche Bruno - Monteriggioni (Siena)

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Esperienze di mistica spagnola

Gaetano chiappini EspEriEnzE di mistica spagnola s. tErEsa d’Ávila s. giovanni dElla crocE s. ignazio di loyola

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Esperienze di mistica spagnola

alla cara e grata memoria del maestro Oreste Macrí



Esperienze di mistica spagnola

sommario pagina



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premessa

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Relazioni col nemico nelle «Moradas del castillo interior» di S. Teresa d’Ávila

55

Il triangolo delle volontà nel «Prologo» della «Vita» di S. Teresa d’Ávila

63

L’«Inno» a Santa Teresa di Richard Crashaw

89

La teologia dell’amore in Santa Teresa d’Ávila

103

Il «senso dell’amor di Dio» in Santa Teresa d’Ávila

125

La teologia della nudità dell’amore in San Giovanni della Croce

143

Dio e la volontà (Per un’analisi semantica della «Noche oscura del alma» di San Giovanni della Croce)

157

Il modello generale della semantica del «desiderio» nella prima Declaración della «Llama de amor viva» (Testo B)

171

Per un’analisi semantica della «voluntad» dell’anima nella «Noche oscura del alma» di San Giovanni della Croce

191

Il «volo d’amore» in San Giovanni della Croce

205

L’ i t i n e r a r i o d e l l a « c l a r i d a d » i n Sant’Ignazio di Loyola

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indice analitico a cura di stefano rosi

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Gaetano Chiappini

nota sUlla ProVenienza dei testi . Relaciones con el enemigo en las “Moradas del castillo interior” de Teresa de Ávila, in La espiritualidad española del siglo XVI. Aspectos literarios y lingüísticos, Mª. J. Mancho Duque (ed.), Univ. de Salamanca y UNED Ávila 1990 (Convegno Ávila, 25-27.XI.1988), pp. 45-69; 2. Le tre voluntates di S. Teresa d’Ávila, in “angeli e poeti”, 1, genn. 1999, pp. 37-40; 3. Poesia e memoria poetica / Volume in omaggio di Grazia Caliumi, a c.di G. Silvani e B. Zucchelli, Università di Parma, Parma 1999, pp. 107-128; 4. Santa Teresa d’Avila, in Storia della teologia, vol. 2º Da P. Abelardo a R. Bellarmino, a c. di G. occhipinti, ed. Dehoniane, Roma 1996, cap. 21, La teologia spirituale, pp. 570-634; (si tratta di quattro medaglioni dedicati a s. teresa, s. Giovanni della croce, s. Francesco di sales, S. Ignazio di Loyola); i testi sono corretti e modificati; 5. Il “senso dell’amor di Dio in Santa Teresa de Ávila e il “volo d’amore” in San Giovanni della Croce, in Antonio Rosmini, filosofo del cuore? / Philosophia e theologia cordis nella cultura occidentale, a c. di G. Beschin, Morcelliana, Brescia 1995, pp. 147-181 (Convegno Rovereto 6-8.X.1993); 6. Vedi n. 4;

. Dios y la voluntad (Para un análisis semántico de la “Noche oscura” de San Juan de la Cruz), in “Ínsula”, n. 50, septiembre de 1991, pp. 27-29; 8. El modelo de la semántica del “deseo” en la primera “Declaración” de la “Llama de amor viva” (texto B), in “Actas del Congreso Internacional Sanjuanista”, Ávila 2328.IX.1991, vol. 1º, Junta de Castilla y León, Ávila 1993, pp. 33-44;

9. Per un’analisi semantica della “volontà” nella Noche oscura di San Giovanni della Croce, in “rivista di letterature moderne e comparate”, vol. XlV, n.s., fasc. 3, lugliosettembre 1992, pp. 215-230; e in trad. sp. redaz. con titolo Aportaciones para un análisis semántico de la “voluntad” en la “Noche oscura” de S. Juan de la Cruz (1ª Parte, capp. 1-2), in “San Juan de la Cruz”, II etapa, año XI, nn. 15-16, 1995 /I-II, pp. 161-177;

10. Vedi n. 5;

11. Vedi n. 4 (il testo, oltreché corretto, è stato integrato di un ampio sviluppo del par.  La “chiarezza”).

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prEmEssa

Gli undici saggî sulla scrittura mistica spagnola qui riuniti, oltreché sottratti alle occasioni e circostanze che li hanno variamente motivati, si ripresentano come un possibile insieme globale dal punto di vista critico e metodologico di una precisa stagione o zona del mio lavoro. essi sono stati, pertanto, opportunatamente riportati, se dal caso, alla loro forma italiana, rivisti e corretti, nonché aumentati e integrati di elementi o parti necessarie che le contingenti ragioni di spazio e di tempo avevano lamentabilmente ridotti. a loro volta, i singoli studî, appunto, nella loro nuova condizione generale, sono da considerare come possibile progressione della linea di lettura e aderente analisi testuale iniziata con il volume Figure e simboli nel linguaggio mistico di Teresa de Ávila / Le “Moradas del castillo interior”, Quadrivium, Genova 1987, che aprì un nuovo percorso della mia ricerca. essa intendeva qualificarsi sull’analisi verbale — analogica della complessa e specialissima energia semantica che s’irradia nella scrittura mistica e la rende così profondamente singolare e sintomatica — secondo il titolo del presente volume — e a giusta e relativa distanza — come esperienza sui generis di testi così ardui e inavvicinabili con i consueti strumenti e metodi critici. dedico il volume alla memoria del Prof. oreste Macrí — nel primo anniversario della sua scomparsa (14 febbraio 1998) — che, in occasione del libro teresiano, volle generosamente incoraggiare e accompagnare quella svolta peculiare del mio camino critico e metodologico. G.c. Università di Firenze, 14 febbraio 1999



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rElazioni col nEmico nEllE «moradas dEl castillo intErior» di s. tErEsa d’Ávila

. Premessa e giustificazione del titolo con la parola relazioni non abbiamo l’intenzione di indicare che quello che chiamiamo nemico è un punto di riferimento o termine di confronto o veicolo di casualità correlativa, perché — come vedremo più avanti — il «demonio» non entra mai direttamente nelle Moradas, ma avrà, lungo l’itinerario teresiano, un’incredibile pluralità di funzioni e di manifestazioni di una presenza senza rimedio né remissioni, e sempre in agguato. Lo si può quasi considerare come omologo dell’azionismo teresiano, sebbene in negativo, anche in senso fotografico, di immagine sottostante e umbratile rispetto al visibile e luminoso del positivo. In negativo, perché rappresenterà di volta in volta la falsificazione e la maschera della verità, la contraffazione e l’artificio, il travestimento e la simulazione, l’inganno e l’illusione ottica, il miraggio e la trasfigurazione dell’errore e del male: un fantasma ossessivo che, senza poter superare certi limiti di spazio e tempo e anche d’incidenza effettuale, si può porre come la distruzione e la catastrofe del «camino», cioè, dell’anima e della salvezza, nel processo d’unificazione con il divino. E se quel momento di negazione assoluta risulta l’estremo e disperato, tuttavia, il «demonio» può collocarsi in qualunque momento lungo il percorso mistico, come elemento di ostacolo, impedimento o distrazione e deviazione, attraverso continui e inquietanti giochi di prestigio, torcimenti e false immagini (per es. di «ángel de luz») che rendono ancor più difficile e ansioso il viaggio a dio. l’anima resta implicata in uno stato d’inquietudine e insicurezza permanenti in conseguenza di strani movimenti di visioni ambigue e apparenti, seduzioni reali e simboli-

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che, della mente o nei labirinti del sentimento; di modo che il cammino dell’anima è cosparso e interrotto da incertezze e timori, reso sdrucciolevole da pericoli e minaccioso di indefinite sventure senza nome né dimensioni. E questo, come rileva e commenta teresa, non conduce davvero a costituire nient’altro che un’angosciosa e fastidiosa urgenza con il suo carico di stimoli molesti e perturbanti. Soprattutto, ciò accade nelle prime Moradas (dalle prime alle quarte), perché il «demonio» resta nelle seguenti come una presenza minore e banale in quanto l’anima s’interiorizza in unione con il divino; fino al punto di essere utilizzato e maltrattato, usato su un piano meramente strumentale, per provare e rassicurare l’anima nelle sue più drammatiche aspettazioni e nelle più rigorose necessità di riconoscimento ed autentificazione. Quanto più l’anima resta svuotata di sé, tanto più dà luogo alla Parola dello Spirito, diminuisce e vien meno allora fino a sparire del tutto la possibilità, che è l’ipotesi ostile o demoniaca, l’ambito satanico dell’«altro», fino a quando e fino a dove l’anima e dio le lasciano spazio. senza che mai l’anima possa, naturalmente, mai trascurare gli avvertimenti e le vigilanze, i timori e le cautele, che sembrano accompagnare perennemente il viaggio nel tempo dell’esilio. «Relazioni», pertanto, come possibilità non necessarie né sperimentali e piuttosto rischio permanente del «camino» e minaccia reale di deviazione e delirio senza ritorno e condanna oltre la vita: «Badate che se la vita vi finisce, mai tornerete a godere di questa luce » (I, 2, 4, 368) . Per quanto si riferisce all’ultimo membro della frase del titolo, nemico, s’intende una condizione universale e tragicamente propria della vita e della natura e condizione umana, tormento e spina inesorabile nel cuore, che affligge gli umani nelle minime servitù di ogni giorno; e, nello stesso tempo, come esponente d’opposizione interna e necessaria dialettica in ogni istante portatrice obbligata di scelte e di verifiche. Qui, naturalmente, usiamo questa parola nel senso di una negatività assoluta, che si pone in un instancabile stato di guerra e contrapposizione, e che  richiede e pretende una difesa sempre all’erta e vi Per il testo teresiano, citiamo da santa teresa de Jesús, Obras completas, Edición manual, Transcripción, introducción y notas de Efrén de la Madre de Dios, O.C.D. y Otger Steggink, O. Carm., Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1979; le traduzioni sono nostre; “Mirad que si se os acaba la vida, jamás tornaréis a gozar de esta luz”; i numeri delle citazioni indicano, in ordine, la “Morada”, il capitolo, il paragrafo, la pagina dell’opera. 2 “Harto gran miseria es vivir en vida que siempre hemos de andar como

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gile. come fanno le vergini prudenti con le loro lampade sempre pronte alla chiamata dello sposo sui bastioni della fortezza esistenziale e spirituale per paura della più facile breccia dell’assalto: Grandissima miseria è vivere una vita in cui sempre dobbiamo muoverci come coloro che hanno nemici alla porta, che né possono dormire né mangiare disarmati e sempre in sussulto se da qualche parte possono aprire brecce in questa fortezza (III, 1, 2, 376) 2.

È un’ulteriore ratifica dello stato figurale e simbolico dell’anima come «castello interiore», spazio protetto se e quando l’anima pone le sue fondamenta sull’umiltà dei suoi limiti, cioè, quando l’anima vive nella prospettiva della «filosofia del cielo», come diceva Fray Luis de León, e rivolge la sua volontà verso l’amore a Dio e al prossimo, nell’opera e non solo nel desiderio. e, invece, spazio di morte annunciata, quando l’anima rimane all’«esterno», estranea a se stessa e a dio, ignara del «castello» e del «cammino»: Immaginiamo che questi sensi e potenze che ho già detto esser la gente di questo castello [...] che sono andati fuori e vanno con strana gente, nemica del bene di questo castello [...] e che già sono andati, vedendo la loro perdizione, avvicinandosi ad esso, sebbene finiscano per non starvi dentro perché questo costume è una cosa dura, se non sono già traditori e vanno intorno (IV, 3, 2, 388) 3.

teresa indica come nucleo pericoloso di perdizione l’alterità, che gira attorno e stringe da presso la cittadella, quando non tenta di entrarvi, vista la debolezza e il venir meno dei difensori, oltretutto aiutati dalle spie e dai traditori, l’alienazione e lo sbando degli abitanti del «castello», che, come pecore vane, hanno abbandonato volontariamente la loro propria dimora e l’unità interiore. In questo caso, dunque, è l’anima stessa che diventa nemica di sé e del proprio destino. los que tienen enemigos a la puerta, que ni pueden dormir ni comer sin armas y siempre con sobresalto si por alguna parte pueden desportillar esta fortaleza” (III, 1, 2, 376). 3 “Hagamos cuenta que estos sentidos y potencias que ya he dicho que son la gente de este castillo [...] que se han ido fuera y andan con gente extraña, enemiga del bien de este castillo [...] y que ya se han ido, viendo su perdición, acercando a él, aunque no acaban de estar dentro porque esta costumbre es recia cosa, sino son ya traidores y andan alrededor” (IV, 3, 2, 388). 4 “Tienen también estas almas un gran gozo interior cuando son persegui-

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Ma la vera inimicizia è quella che non ha Dio nel suo centro, anzi l’offende e lo respinge nelle sue creature: il vero nemico è colui che si mette contro Dio e cerca di allontanare gli altri da Lui. Questi sarà propriamente il «demonio». la parola nemico è una parola raramente pronunciata da Teresa e s’identifica più spesso con un campo semantico di molte sfaccettature e motivato nell’ambito di ostacoli e gravezze: affanni («cuidados»), impedimenti («impedimentos»), difficoltà («dificultades»), travaglî («trabajos»), dubbî («dudas»), inganni («engaños»), insicurezze («inseguridades»), mali («males»), pericoli («peligros»), ecc. e tutti quanti sottolineano l’instabilità del cammino e il procedere difficile ed incerto della «povera anima», che trova forse il suo maggior nemico anche nel suo temperamento e organismo naturale («natural») e nella sua debolezza umana. nemici — o strani e non riconosciuti o incerti amici — saranno anche tutti coloro che non sanno o non vogliono capire il cammino dell’anima: come vedremo nel terzo esempio, le persecuzioni degli «amici» saranno la prova amara d’una gravissima incomprensione e causa di orribili «travaglî». Ciò che non impedisce la tenera pietas solidale e generosa, che perdona e invoca pace e salvezza dal Signore. Sarà questo un magnifico caso in cui l’anima trova la sua pace e stato positivo nella stessa inimicizia: Queste anime provano anche un gran godimento interiore quando sono perseguitate, con una pace molto maggiore di quella che abbiamo detto, e senza nessuna inimicizia verso coloro che fanno loro del male o desiderano farne; anzi sentono per loro un amore particolare, in modo che, se li vedono afflitti da qualche travaglio, se ne dispiacciono teneramente, e si farebbero carico di qualunque pena per liberarli di esso, e li raccomandano a dio con molto piacere, e preferirebbero perdere le grazie che dio fa loro perché le facesse ad essi, affinché non offendessero nostro Signore (VII, 3, 3, 444) 4. das, con mucha más paz que lo que queda dicho, y sin ninguna enemistad con los que las hacen mal u desean hacer; antes les cobran amor particolar, de manera que, si los ven en algún trabajo, lo sienten tiernamente, y cualquiera tomarían por librarlos de él, y encomiéndanlos a Dios muy de gana, y de las mercedes que les hace su Majestad holgarían perder porque se las hiciese a ellos, porque no ofendiesen a nuestro señor “. 5 “estando hoy suplicando a nuestro señor hablase por mí — porque yo no

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«Godimento», «pace», «nessuna inimicizia», «amore particolare», «con molto piacere» costituiscono qui un sistema dove non c’è posto per il male e tutta l’azione dell’anima si rivolge a dio per realizzare un bene: «li raccomandano» — cioè, l’anima si mette nel mezzo fra il nemico e dio. e la sua partecipazione non si limita a questo: il godimento, la pace sono vincolati alla persecuzione, ma la sofferenza del male non provoca inimicizia, anzi: «sentono amore» (ma la parola spagnola «cobran» è nel segno di un’acquisizione, un ritrovamento e ricupero d’amore, come se questo fosse esperienza di qualcosa di noto ma come se fosse riscoperto in valenza sempre nuova e maggiore...); e del travaglio «si dispiacciono teneramente», «si farebbero carico di qualunque pena per liberare loro», «preferirebbero perdere»... in altre parole: l’inimicizia, il far del male, il desiderio di male non appartengono a queste anime che corrispondono con amore al male ricevuto. e i nemici restan soli con i loro cattivi desiderî, con le loro perfide iniziative, ma restano avvolti dentro le buone opere e dentro le «grazie», dentro quella grazia procurata dall’anima, che offre in cambio la sua azione e il suo azionismo positivo, la sua amicizia e sacrificio... La desolata solitudine dell’odio e dell’ostilità perde il suo segno, si trasforma in bene, acquista una valenza positiva. Orbene: vogliamo qui, per ragioni d’opportunità e di spazio, scegliere soltanto tre esempî o momenti delle Moradas — delle molte frequenze (circa sessanta-settanta citazioni) — lungo il testo, che occorrerebbe studiare nel loro processo parallelo all’affacciarsi del «demonio». sempre — ricordiamo — dopo un lungo percorso dentro la scrittura; e ci riserviamo di tornare a esaminare e ad analizzare le presenze demoniache in itinere. ci limitiamo a presentare tre situazioni dove agisce quello che Dante chiamò l’«antico avversaro» (Purgatorio, XI, 20): naturalmente, sempre dal punto di vista esclusivamente verbale, come puro paradigma linguistico, da esso e dalla sua area semantica derivando in verbo il significato, cioè, da nessun a priori teologico o spiritualista o mistico in astratto. il nostro lavoro — ribadiamo — vuole e ha bisogno di situarsi nei limiti della scrittura, nell’acá dell’esclusivo campo verbale, appunto, verso il significato (anche col ricupero della grammatica — e della sintassi — e non se-

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condo il contenuto). E, in modo particolare, a noi interessa vedere la ragione possibile e il momento in cui i paradigmi (qui, il «nemico» come il «demonio) entrano nella linea sintagmatica del testo (cioè, sulla linea orizzontale della scrittura, da sinistra a destra). D’altra parte, alla sola santa Teresa deve restare l’intera necessaria responsabilità semantica. E la relazione con i suoi proprî referenti; a noi, la responsabilità di una strategia critica e analitica nel rigoroso rispetto della verità testuale e semantica. 2. Il «nemico» come negazione del «cammino» Il primo esempio cercherà di esaminare la prima entrata del «demonio» nel contesto teresiano, in I, 2, 1, 367, primi che inizî il vero e proprio «cammino» con tutti i suoi problemi e la sua coerenza spirituale e di scelta esistenziale. Per noi, di necessità paradigmatica, ripetiamo. La drammatica singolarità dell’entrata del «demonio» si affida tutta alle gradazioni interne e nei diversi livelli della scrittura, cioè, nel décalage fra le immagini simboliche e la loro funzione e uso nella realtà ansiosa e stringente della vita e dei comportamenti e posizione dell’anima e delle anime. in primo luogo, della coscienza, nel transito continuo e nelle due direzioni fra la retorica e l’esistenza esteriore ed interiore: che sono le ragioni e la verità della parola del mistico. E qui, una volta di più, si manifesta l’immediatezza e la motivazione diretta e in progress dell’esperienza mistica in relazione alla costruzione della scrittura. Voglio dire che la scrittrice, la mistica e la sua preoccupazione didattica si uniscono in uno sforzo trascendentale e s’incontrano, appunto, nell’istante in cui l’opera deriva da una partecipazione integrale di tutte le funzioni e ragioni. il «fondamento» della scrittura teresiana è un nucleo attivo di elementi esistenziali e umani, anche troppo umani, ma anche morali e religiosi. dell’anima e dello spirito che operano simultaneamente (la realtà unica dell’istante mistico): partecipazione fisica integrale, relazione vincolata strettamente con i fondamenti morali dello scrivere, risposta ai mandanti che sollecitano la scrittura, la chiamata e l’assistenza del divino verso la destinazione delle «sorelle» o «figlie» (anche in quanto «donne»). Tutti questi sono i



Esperienze di mistica spagnola

fattori inseparabili e necessari del nesso totale sul quale si sostiene l’opera: il «libro» come le «fondazioni», la «regola» come la riforma del carmelo. Un esempio al principio stesso delle Moradas: nella pratica quotidiana più prossima, al centro stesso del diario esistenziale di santa teresa, si offre l’immagine del «castello»: Mentre oggi stavo supplicando nostro Signore affinché parlasse per me — perché io non riuscivo a cogliere qualcosa da dire né [sapevo] come cominciare a compiere questa obbedienza — mi si offrí quello che sto per dire per cominciare con qualche fondamento, che è considerare la nostra anima come un castello tutto di diamante o limpidissimo cristallo, dove ci sono molte stanze, come nel cielo ci sono molte dimore (I, 1, 1, 365) 5.

l’immagine del «castello» si offre spontaneamente, come la forma coagula intimamente nel pensiero («mi si offrí»), mentre la preghiera ardente di Santa Teresa a Dio comprende già un collocarsi dell’anima della scrittrice dentro un tempo umano sotto il segno del divino («mentre oggi stavo supplicando»). Un giorno qualunque, in cerca di «qualche fondamento», in mezzo a difficoltà d’invenzione e di proposta didattica di spiegazione; al tempo stesso, di scrittura come «obbedienza». L’instabilità della scrittrice che «non coglieva» significa la perplessità dello scrittore che lancia frecce di parole e non le vede giungere al bersaglio 6; e in questa situazione di non-coscienza fra immaginazione e scrittura s’introduce il divino, con le sue «similitudini» («comparaciones»), affinché si realizzi completamente il modello integrale dio-scrittriceoPera . l’immagine appare nella mente in tutta la sua immeatinaba a cosa que decir ni cómo comenzar a cumplir esta obediencia — se me ofreció lo que ahora diré para comenzar con algún fundamento, que es considerar nuestra alma como un castillo todo de un diamante u muy claro cristal, adonde hay muchos aposentos, ansí como en el cielo hay muchas moradas”; abbiamo analizzato questa e le altre “figure” teresiane delle Moradas nel nostro Figure e simboli nel linguaggio mistico di Teresa de Ávila. /Le “Moradas del castillo interior”, Quadrivium, Genova 1987; sigla: Figure. 6 cfr. V. García de la concha, El arte literario de Santa Teresa, Ariel, Barcelona 1978, pp. 144-147; e Figure, pp. 44-45.  cfr. Moradas, I,1,1, 3, p. 365: voglio citare ancora una volta questo brano sulle “comparaciones”, perché costituisce il chiarissimo fondamento dell’analogicità dell’esperienza mistica — fin dove è possibile: “es menester que vais advertidas a esta comparación [la prima del “castillo”]; quizá será Dios servido pueda por ella daros algo a entender de las mercedes que es dios servido hacer a las almas y las diferencias que hay en ellas, hasta donde yo hubiere entendido que es posible (que todas será imposible entenderlas nadie, sigún son muchas, cuanto más quien es tan ruin como yo[...]” — ‘È necessario que facciate attenzione a

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diata e perfetta luminosità cristallina, di pietra preziosa caricata di bibliche proporzioni e qualità, come dimora simbolica di dio. esperienza quotidiana, scrittura, simbolo: sono già un fatto singolare nel momento in cui Dio stesso interviene aiutando la scrittrice; e la scrittura viene ad essere il punto d’incontro di forze diverse che determinano il limite umano e astrale dell’intelletto («consideriamo», «appena»), corto di misure e nello stesso tempo «acuto» di penetrazione, di creatura debole e fragile («non c’è ragione che ci stanchiamo») e contemporaneamente d’elezione («dal Creatore alla creatura») in una prospettiva straordinaria e che dovrebbe far pensare. e il «cammino» sarà, allora, il movimento di ritorno già segnato dalla verità incommensurabile della distanza e della «differenza», concettualmente e analogicamente insuperabili, ma concretamente sicure di remissione e di concidenza, una volta definiti i caratteri e le ragioni della relazione fra «creatore» e creatura. Posto questo termine esatto, questo confine limpido e sicuro fra il simbolo reale e la possibilità effettuale dell’anima, santa teresa passa a delineare una visione completa, una situazione inquietante: le reazioni, le omissioni e le inerzie gravi dell’anima e delle anime e la «differenza» confermata e iato della distanza in relazione al «castello». Per un momento, santa teresa lascia il simbolo reale ed esibisce una teoria, una sfilata di figure di variate dimensioni e di relazioni non realizzate con il «castello», che rappresenta la coscienza della «grande dignità e bellezza dell’anima». appaiono nel testo tutti i modi possibili di come si collocano le anime (o non si collocano) nella direzione di quel «castello». S’intende che Santa Teresa darà evidenza per prime alla non-volontà e alla non-coscienza, i primi segni negativi e atteggiamenti di ripulsa, le prime contraddizioni fra uomo-anima e «immagine» di dio: si tratta di un segno opposto e angoscioso di pazza negazione dell’«umano» («questa sarebbe una grande bestialità», I, 1, 2, 365; «non cadere in simile bestialità», I, 1, 7, 366-367). La qual cosa sarà, appunto, negazione totale del «cammiquesta comparazione o similitudine; forse Dio vorrà che io possa per suo mezzo farvi capire qualcosa delle grazie che dio vuol fare alle anime e le differenze che in esse si trovano, fin dove io ho capito che è possibile (perché tutte sarà impossibile intenderle per chiunque, in quanto sono molte, tanto più per chi è tanto sciagurato come me[...]’; cfr. anche Figure, Indice analitico. 8 “No es pequeña lástima y confusión que por nuestra culpa no entendamos a nosotros mesmos ni sepamos quién somos. ¿No sería gran ignorancia, hijas

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no»: e si noterà che in questo primo momento non compare nessun’ombra o traccia del nemico. È l’uomo stesso che si fa nemico di Dio e di se stesso rifiutando la sua propria immagine divina. Santa Teresa (I, 1, 1, 365) 8 parla di «non [...] piccola pena e confusione», cioè, di umiliante e penoso disordine e squilibrio mentale; e, soprattutto, nel testo appare l’indizio di un male dell’intelletto, il peccato («nostra colpa») originale, che, sebbene da lontano, sembra alludere al necessario penetrare del nemico nel tessuto della storia umana. Qui, è il peccato dell’ignoranza, in senso personale e collettivo («nostra colpa»): «non intendiamo noi stessi né sappiamo chi siamo». I negativi si moltiplicano smisuratamente («non è piccola [cioè, senza misure, senza confini]»; «non intendiamo, né sappiamo») e vanno verso l’intendere e il sapere. Gli astratti hanno un’enorme consistenza nel retablo (‘teatrino’) della nostra esistenza sociale («chiedessero a uno»): «pena», «confusione», «ignoranza», circa la relazione d’identità e conoscenza, circa l’origine familiare e pertinenza di luogo: «chi è e non si conoscesse né sapesse chi fu suo padre, né sua madre né di quale terra». ignoranza o indifferenza circa se stessi e i proprî, lasciare che la propria figura resti ridotta ad una massa elementare («a bulto») o profilo esterno e vaghezza di forma («engaste» ‘castone’), senza percepire o comprendere il valore, senza occuparsi della propria protezione e apprezzamento («quali beni»). Ancora, si coglie nel fondo, come mías, que preguntasen a uno quién es y no se conociese ni supiese quién fue su padre, ni su madre, ni de qué tierra? // Pues si esto sería gran bestialidad, sin comparación es mayor la que hay en nosotras cuando no procuramos saber qué cosa somos, sino que nos detenemos en estos cuerpos, y ansí, a bulto, porque lo hemos oído y porque nos lo dice la fe, sabemos que tenemos alma; mas qué bienes puede haber en esta alma u quién está dentro de esta alma u el gran valor de ella, pocas veces lo consideramos, y ansí se tiene en tan poco procurar con todo cuidado conservar su hermosura: todo se nos va en la grosería del engaste u cerca de este castillo, que son estos cuerpos” (‘Non è piccola pena e confusione che per nostra colpa non intendiamo noi stessi né sappiamo chi siamo. Non sarebbe grande ignoranza, figlie mie, che chiedessero ad uno chi è e non si conoscesse né sapesse chi fu suo padre, né sua madre, né di che luogo? // Se questa dunque sarebbe una grande bestialità, senza confronto è maggiore quella che è in noi quando non cerchiamo di sapere che cosa siamo, se non che duriamo in questi corpi, e così, come una massa, perché lo abbiamo sentito dire e perché ce lo dice la fede, sappiamo che abbiamo anima; ma quali beni ci possono essere in quest’anima o chi sta dentro quest’anima o il gran valore di essa, poche volte lo consideriamo, e così si dà poca importanza a cercare con ogni impegno di conservarne la bellezza; tutto va a finire nella grossolanità del castone o presso questo castello, che son questi corpi’). 9 Cfr. I, 1, 3, 365: “Que ansí como no nos hace daño considerar las cosas que hay en el cielo y lo que gozan los bienaventurados, antes nos alegramos y

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abbagliante contrasto, il rinvio alla forma sostanziale dell’anima come «fatta a immagine» di dio, ricordando ancora, sempre da lontano, che il serpente satanico poté sedurre Adamo ed Eva maleficamente con quell’antico «eritis sicut dii» di Genesi, 3, 5; ma il «demonio» non appare ancora nella scrittura teresiana. Qui si comincia ormai a percepire la desolazione revulsiva di quel «massa» («bulto»), senza trasparenza, senza risposta proporzionata alla «bellezza» incomparabile dell’anima-castello. E in questo si vede già un allontanamento, un’opacità dell’«immagine», una scelta di campo da parte dell’anima che si lascia dietro l’immagine di dio per qualcosa di oscuro e inspiegabile, verso uno strano rifiuto della totalità e della luce. Si tratta di una evidente brutale riduzione («grossolanità del castone») e materialistica semplificazione limitante del «corpo» e alla sua dimora nel tempo («ci tratteniamo»). Nessuna partecipazione o movimento che indichi lucidità di conduzione e attenzione («non cerchiamo di sapere», «si fa così poco conto di cercare con ogni cura di conservare»). L’anima è come un suono lontano e trasversale («lo abbiamo udito») e la «fede» è un veloce enunciato, una notizia, un vento di parole che non restituisce e non accompagna la «creatura» verso il «creatore». e, piuttosto, manifesta, in un modo più visibile e sgarbato, la sua distanza da Lui. ancora, nel § 3, santa teresa torna a presentare la pianta del «castello», dove si trovano gli interlocutori — anima e dio — specialmente nella «stanza principale», dove «avvengono le cose di gran segreto»: due le figure protagoniste, ma il panorama delle relazioni fra l’umano e il divino non dà segno di voler cambiare. Santa Teresa procede in un modo alternativo: torna a mostrare l’immagine splendente del «castello» e simultaneamente lascia intravvedere le possibili reazioni di coloro che mantengono una prudente distanza da esso — cioè da se stessi e da Dio. In I, 1, 3, 365-366 Santa Teresa fa un’allusione topica all’«esilio» terreno e mette in controluce le «cose che ci sono nel cielo», ricorrendo alla definizione del divino con tutti i suoi positivi assoluti: «così gran Dio», «bontà così buona e una misericordia così senza misura e limite». Essi annullano la distanza con i «vermi così pieni di cattivo odore», sull’altro versante degli assoluti negativi. Vedremo più avanti che codesta dialettica di luci e tenebre (I,

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2, 9, 10, 369-370) avrà prospettive funeste e preoccupanti proiezioni, fino a stabilire la linea di separazione fra Dio e il nemico, per mezzo della presenza e della scelta dell’anima, certamente, scelta negativa o a rovescio. nello stesso tempo, si avranno valide relazioni di misure e opportune verifiche di parametri per la conoscenza e la valutazione della verità dell’anima: sarà la conoscenza della sua grandezza e dignità e conferma e prova effettiva di umiltà, sarà il riconoscimento del «cammino». Per il momento, notiamo come già promettente lo scorcio sulla verticale del cielo («considerare le cose che ci sono nel cielo»), sebbene abbastanza generico, concretamente. Per suo mezzo, si affacciano anche le figure realizzate e nella loro pienezza di gloria («quello che godono i beati»), che appaiono come certificazione e felice testimonianza di un «sapere che è possibile» delle «grazie» e della loro portata di raggiungimento e ottenimento. le promesse, cioè, già compiute in altre anime, a ribadimento di una linea «beata» da seguire, con la certezza di giungere ad un fine sicuro, o «con gran consolazione» anche di un benessere terreno («non ci fa male»). si presenta, dunque, nel testo 9 una visione oltremondana di perfetta letizia e buon frutto, che si riverberano sulla terra attraverso il godimento comune e fraterno verso i «fratelli» che già sono in Dio e per gli esseri privilegiati: «i più santi», coloro che hanno ricevuto da Dio le grazie «affinché si conosca la sua grandezza», come San Paolo e la Maddalena, esempî di grande risonanza di peccatori convertiti per molto amore, il cieco «a cui diede la vista» di Giovanni, 9, 2; e anche la sicurezza di appartenere noi al numero di chi può ricevere quelle grazie («affinché noi»), in modo che ci collochiamo accanto alle altre creature per vedere fra esse dio e con le quali elevare lode e ringraziamenti. È la prospettiva della grandezza dell’anima. e santa teresa insiste molto a proposito di questo vincolo procuramos alcanzar lo que ellos gozan, tampoco nos hará ver que es posible en este destierro comunicarse un tan gran dios con unos gusanos tan llenos de mal olor, y amar una bondad tan buena y una misericordia tan sin tasa” (‘E così come non ci fa male considerare le cose che ci sono nel cielo e ciò che godono i beati, anzi ci rallegriamo e cerchiamo di raggiungere quello che essi godono, nemmeno ce lo farà il vedere che è possibile in questo esilio che questo gran Dio sia in comunicazione con dei vermi così pieni di cattivo odore, e che ami una bontà così buona e una misericordia così senza limiti”). 0 “Porque la que no advierte con quién habla y lo que pide y quién es quien

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di possibilità («è possibile che Dio faccia questa grazia»; «si potrà dire che sono cose impossibili»): come se essa comprendesse totalmente e instantaneamente o pensasse direttamente e con decisione ad incertezze, dubbî, sfiducie e incredulità dei suoi lettori o delle anime in generale. l’orizzonte umano al di sotto del «castello» — al di sotto del luogo proprio dei «beati», della laboriosità salvatrice e consolatrice di Dio, della reale potenza definitoria della relazione di creatura «fatta a immagine» — appare inerte e disperato o, forse e peggio, soprattutto, disinteressato e, piuttosto, indifferente alle offerte delle grandezze divine e alle scintillanti proiezioni delle «dimore». Non appare, dunque, il demoniaco (solo la parola colpa) in maniera diretta, ma un mondo sfibrato e molle, cupo e orizzontale, sordo e ottuso e chiuso a qualunque appello celeste. al centro di questa visione tragica di abulia e inettitudine, questa massa («bulto»), certamente, senza volto né voce, che si abbandona a se stessa, neppure conosce il proprio valore. Diremmo che per ora non c’è volontà diretta di male, cosciente: è rifiuto sostanziale, di fatto indifferenza. Ma, da parte di Santa Teresa, si è già parlato di «gran bestialità», rovesciamento e inversione totale e senza rimedio della categoria e qualità ontologica dell’umano. In tutto questo non entra ancora il «demonio» in modo esplicito. il processo è più lento e complicato — complesso — perché si agita e si dibatte nel più profondo dell’anima. successivamente, santa teresa passa a delineare la processione degli opachi, la tipologia negativa: coloro «ai quali farebbe male intendere» son coloro che risultano «assai privi di umiltà e dell’amore del prossimo», cioè, ignoranti della verità circa la natura e condizione umana di valore effettivo e dignità della dimensione «creatura». Escono i «deboli» che non è bene scandalizzare, coloro che non credono, coloro che non sembrano approfittare della grazia e non si sentono chiamati ad amare «chi usa così grande misericordia essendo così grande il suo potere e maestà». Qui, è evidente la sproporzione e mancanza di compensazione fra la meschina pochezza degli uomini e l’illimitatezza del cuore divino. naturalmente, ci sono anche coloro che «si compiaceranno e sveglieranno» (il sonno sembra la definizione comune e generale, peggiore del mondo delle tenebre che sarà l’ambito del «demonio»,

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ma molto prossimo al suo sprofondamento e abisso); e coloro che «sanno e credono che Dio dà ancora maggiori prove d’amore»: ma santa teresa si sta rivolgendo a molti, a tanti, che sembrano non far caso all’immenso patrimonio delle misure divine, che sono di libertà («così senza limite e misura»), maestà e misericordia. Tutti valori sublimi rispetto all’ottusità umana. È chiaro che lo sforzo maggiore di santa teresa ha il proposito di esaltare le prestigiose qualità della vita interiore e di far in modo che tutte le anime conoscano il «castello» ed entrino in esso. Bellezza («hermosura») e piacere («deleite») sono i due termini che caratterizzano quel «castello», e dei quali è possibile l’esperienza, cioè, l’esser condotti direttamente da Dio nel «cammino»: che ciò non avvenga è calamità gravissima: «giammai accada questo a quelle di voi che il Signore non conducesse con sé» (I, 2, 4, 366). Un’esperienza sarà — poi — la prova unica e determinante, come di chi s’inoltra nel cammino e in esso si avvolge e ad esso si dà interamente, quasi per far una cosa sola, in cui si realizzi una partecipazione completa e reciproca dimostrazione di quel «possibile» della comunicazione tra anima e dio. ancora: nel panorama umano, faccia a faccia col divino, ci sono le «molte anime che non fanno orazione», e in realtà ridotte all’esclusiva massa corporale «con paralisi o rattrapimento generale» («perlesía u tollido»), disarticolata e senza nessuna dinamica strumentale per mancanza di controllo e coordinazione motoria intenzionale («che sebbene abbia piedi e mani non li può dirigere e governare», I, 1, 6, 366): manichini, dunque, fantocci o pupazzi sprovvisti di cervello. santa teresa non usa un linguaggio evasivo: nella sua serie di riprese di questo squallore e desolazione fisica e fisiologica e mentale essa descrive una tetra parodia dell’umano (bisogna ricordare ancora la «gran bestialità»): precisamente, del ferino di queste finzioni o apparenze di uomini, neppure burattini eterodiretti e, piuttosto, «schifosi animaletti e bestie», rettili e scarafaggi, animali ripugnanti e senza grazia, indotti e identificati nella frequentazione di simili manifestazioni simboliche di corruzione e distacco dai valori del «castello». in questo l’anima trova, invece, la sua propria natura e casa, nella dinamica verso e dentro il divino. E che fuori di lì ci sia corruzione e improprietà si vede nel rilievo della contaminazione

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prodotta dai cattivi costumi e cattive compagnie, per chi è, invece, «di natura così ricca e poterne avere comunicazione e dialogo in misura non minore nientemeno che con Dio» (Ibid.). Un’umanità consumata e abbattuta che ha rifiutato il dialogo, il reciproco scambio di parole fra interlocutori, la convergenza con la Verità: per ignoranza, disinteresse o perversione del «possibile». anime inferme e paralizzate, sfigurate: son la gentucola miserabile che santa teresa contrappone all’immagine abbagliante e alla potente attuazione dinamica del «castello». diciamo, anime senz’anima, «uomini disabitati», in se stessi consumati e trasformati in «statue di sale per non voltar la testa verso se stesse». «Gli uomini che non si voltano», perché non esistono, non vedono, non sentono, di eugenio Montale... E, qui, il «voltar la testa» si verifica con pregiudizio e disconoscimento di sé («non [...] verso di sé»); «uomini che non sognano», perduti nel vuoto della propria pigrizia e leggerezza, e da se stessi ed anima distaccati. Di più: nel colloquio con il divino («orazione») ignorano e non tengon conto dell’Interlocutore così come dimenticano se stessi: Perché quella che non avverte con chi parla e quello che chiede e chi chiede a chi, io non la chiamo orazione, sebbene muova molto le labbra (I, 1, 7, 366) 0.

il «muovere le labbra» ne fa dei meri mulini di parole, macchine o robot con dischi incorporati, portatori automatici di abiti verbali, uomini-bocca o uomini-nastro inciso, non certo interlocutori di piena coscienza e responsabilità e partecipazione di quello che odono, chiedono, dicono, sentono rivolti a dio. ancora una volta, teresa usa un’espressione netta ed energica nella sua spietata e realistica rivelazione di un’umanità meccanica e stravolta nelle distorsioni e negli sviamenti delle proprie potenze e caratteri; e quel che è peggio, capace di sostituire alla definizione pura ed esatta di una situazione («orazione») nelle sue motivazioni e tratti, il proprio balbettio e inavvertenza o incapacità per corta vista e sbagliata o limitata prospettiva. Naturalmente, c’è anche chi entra nel «castello»: ma è pide a quién, no la llamo yo oración, aunque mucho menee los labrios”.  “ninguna cosa le aprovecha y de aquí viene que todas las buenas obras

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gente che ne resta sempre un po’ fuori, sono anime «molte inserite nel mondo» («Qualche volta in un mese pregano pieni di mille affari, il pensiero quasi ordinariamente a questo, perché vi sono afferrati, come dove si trova il loro tesoro lì va il cuore», I, 1, 8, 367 — essendo il tesoro non l’amico ma l’interesse e gli affari...). Son gente che sta in bilico («gran pericolo»), funamboli sulla corda del tempo («di pomeriggio in pomeriggio», «qualche volta al mese») e abbandonati agli «affari», e preda spogliata di volontà, con grave perdita del buon senso se non dell’intero senno, perché lo star avvinti alle cose esteriori li fa diventare vuoti di sé e li porta fino al punto che il loro cervello è completamente occupato dal «mondo» pieno di «traffici» e «negozî», precisamente, come dei manichini guidati dal mondo esterno da altre menti forti e capaci di pilotarli e deviarli. santa teresa si serve qui di un’espressione singolare e molto inquietante: per queste anime la propria conoscenza significa una «disoccupazione» («disoccuparsi»), un vero smarrimento e mancanza d’orientamento che disconosce l’unica e decisiva occupazione dell’anima: affidare il proprio «tesoro» solamente a se stessi, entrare in sé, seguire il «cammino». C’è una citazione di Matteo (6, 19-21): «Non affidate tesori alla terra, dove il tarlo e la ruggine li corrodono e dove i ladri scassinano e rubano. accumulate tesori nel cielo, dove né il tarlo né la ruggine li corrodono, e dove i ladri non scassinano e non rubano. Dove sta il tesoro lì starà il tuo cuore». Il testo teresiano mette in rilievo come le anime scelgono precisamente una soluzione completamente rovesciata: i tesori e il cuore sono la terra e stanno nella terra e, invece di fuggire il tarlo, la ruggine e i ladri, si preferisce cercarli con tutte le proprie forze e potenze: «pensiero», «cuore» coincidono e s’identificano con i «mille affari», «quasi abitualmente», che è tempo di vita e d’azione umana nel segno dell’«orizzontale», essendo l’uomo vincolato al «mondo» e alla terra, senza il «goût de l’éternel qui se remarque parfois chez les vivants», come dice Valéry in Eupalinos. Il «demonio» è ancora lontano dalla scrittura di Teresa, ma, paradossalmente (fino ad un certo punto) è l’uomo stesso e da sé solo ad esser inclinato a cercare il proprio abisso in una prospettiva snaturata e opposta alla sua dignità e valore, fino a far di se stesso il proprio nemico. ci troviamo, dentro il pessimismo o realismo teresia-

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no, sul versante opposto a quello di «fatta a immagine» dell’Altro, e verso la scelta del negativo invece che di dio. e, malgrado questo, le anime — delle quali santa teresa sta parlando in questo momento — entrano in qualche modo nelle prime dimore; ma il loro modo di camminare sembra come ebbro e cerebellare, come di chi ha il piede in due scarpe, senza meta né bussola («non va bene per trovare la porta»), senza conoscere la propria instabilità e squilibrio e sentono solo qualche temporaneo stimolo che né aiuta né guida alle soglie della propria dimora. È un paesaggio di sbandati, che formicola incertezza e disumanità, perdita o confusione d’anima: sullo sfondo, da lontano, teresa sembra rinviare, ancora una volta, all’«immagine» del «castello»: il sole resta sole e il cristallo non resta cristallo, perché la sua natura e statuto sono la relazione formale e sostanziale con il sole, che riflette e, allora, esso gli dà l’essere e la ragion d’essere, frutto e significato, principio e qualità: nessuna cosa gli porta vantaggio e di qui viene che tutte le buone opere che stia facendo essendo così in peccato mortale non sono di nessun frutto per raggiungere la beatitudine celeste; perché non provenendo da quel principio, che è Dio [...] (I, 2, 1, 367) .

si vede come una separazione, una non-coincidenza fra il fare («buone opere», «stia facendo») e il frutto («porta vantaggio», «frutto», «raggiungere la beatitudine celeste»); cioè, sembra impossibile la conclusione positiva dell’«operare», l’elevazione e l’avvicinamento a dio e al suo luogo proprio («beatitudine celeste»): tutto ha senso solo se codesto operare si fonda sullo stesso Dio, origine e fine di tutto («provenendo», «principio»). Con il «peccato» e con la «morte» tutto il sistema s’annulla nella solitudine umana, tragica e sradicata: nel senso di Giovanni 5, 5: «perché senza di me non potete far niente». tornando, ora, all’immagine teresiana, il cristallo che si copre e si vela al sole non riflette né luce né nulla: lo stesso cristallo si fa tenebre senza rifrazione: que hiciere estando ansí en pecado mortal son de ningún fruto para alcanzar gloria; porque no procediendo de aquel principio, que es Dios”. 2 “No hay tinieblas más tenebrosas ni cosa tan oscura y negra, que no lo

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Non ci sono tenebre più tenebrose né cosa così oscura e nera, che non lo sia molto di più (Ibid.) 2.

E così, la dinamica dell’immagine del «castello», esatta e sperimentale, malgrado la sua interna imperfezione e limite analogico, ha compiuto il suo percorso totale: dalla luce alla negazione della luce, al grado assoluto e annullamento delle forme nell’indifferenziato. diremmo che la scrittura di teresa segue e realizza la sua completa parabola figurale — e spirituale — negativa, verso e dentro una logica distruttiva e perversa. l’immagine resta totalmente nel qua («acá») di se stessa, all’esterno, nella sua propria e disperata realtà e mistero abissale e metafisico di rinuncia e di rifiuto. E si verifica inoltre la caduta e negazione del simbolo stesso. il cammino lungo e forse lento ci ha portato al nucleo negativo di codesto simbolo: ma già il processo si segnalava con tutta chiarezza e con sufficienti sintomi di interna catastrofe, un processo di impliciti rimandi, di deduzioni abbastanza facili, persino ovvie. E forse sarà questo l’aspetto più sinistro della situazione presentata da teresa: gli esseri senza forma e radice, i fantasmi e simulacri umani e non persone non hanno nulla in comune con la definizione di Boezio, così come la riferisce S. Tommaso: «Persona est rationalis naturae individua substantia» (S.Th. I, q. 29 1.3.5. ad 2 et ad 4). Con Fray Luis de León del Job diciamo che non «toman sentido de hombre» (‘non assumono senso di uomo’). Per Santa Teresa, tuttavia, è soprattutto una questione d’ignoranza della volontà, che vuol disconoscere il «centro della sua anima»: così, Dio resta nel suo spazio proprio e nello spazio opposto si è spento ogni debole indizio o barlume dell’«artificio celestiale interiore», il «castello» che rappresenta un orizzonte altro, quello dei «beati». con implicita solitudine, dentro la scrittura stessa, di quello stesso dio, a cui nessuno si rivolge, che quasi non compare: quello stesso dio che volle comunicarsi, nella sua piena libertà di «grazie senza numero né limiti», e che volle creare l’uomo «a sua immagine». In questo quadro singolare e inquietante di sterilità ed esteriorità, si istituirà poi un chiasmo paradossale e di moresté mucho más”. 3 “[...] consideréis qué será ver este castillo tan resplandeciente y hermoso,

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te, un segno gelido ed inesorabile di dinamica perversa. È una specie di appello in una piega del testo che esce fuori spontaneamente e quasi di passaggio nella scrittura, come se santa teresa non potesse far a meno di offrire un avviso definitivo: «Prima di passare avanti vi voglio dire che consideriate» (I, 2, 1, 367). E da qui viene al testo un’oggettiva inquietudine anche a livello linguistico: [...] considerate che cosa sarà vedere questo castello così splendente e bello, questa perla orientale, quest’albero della vita, che è piantato nelle stesse acque vive della vita, che è Dio, quando cade in peccato mortale (Ibidem) 3.

il simbolo si triplica e si manifesta in forme diverse di ambito figurale: «castello», «perla», «albero». Ciascuna di queste immagini appartiene al suo proprio campo semantico (struttura architettonica, gioie, ecc., botanica) e in comune ha la preziosità, la rarità, la forza, la vitalità, la fecondità, che sono i caratteri di pertinenza individuale e che qui vengono a sovrapporsi e a integrarsi per formare un’entità unica e simbolica internamente variata per scambio d’energia semantica e di rappresentazione. al centro di tutto l’insieme, tuttavia, si dovrà collocare l’elemento primario, il nucleo attivo ed attivatore, che è l’«acqua» («las mesmas aguas vivas de la vida»- ‘le stesse acque vive della vita’), identificata ontologicamente come energia vitale, quasi liquido amniotico, segno e manifestazione della vita, unica e vera, che è Dio stesso. Il simbolo complesso e triforme raggiunge, dunque, settori diversi della natura, dell’opera umana, e passa dal piano degli oggetti e pratico al metafisico, anzi, il metafisico attribuisce analogicamente ed essenzialmente alle forme naturali e alle forze endegene della natura la sua effettualità e condizione. Dio è la luce e lo splendore del «castello», Dio è la bellezza e la rarità della «perla orientale», Dio è l’albero piantato, Dio è «le stesse acque vive della vita»... Orbene, tutto questo insieme subisce una profonda disgregazione interna, d’altra parte già preparata dal momento del deciframento metafisico del simbolo stesso: la relazione viscerale fra castello-perla-albero-acque-dio. nel seguito della frase l’intromissione della realtà metafisica compromette l’inteesta perla oriental, este árbol de la vida, que está plantado en las mesmas aguas vivas de la vida, que es dios, cuando cai en pecado mortal”. 4 “[apartándonos de] Él — no puede ser agradable a sus ojos, pues, en fin,

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grità verbale del simbolo: questo è uno dei frequentissimi cambiamenti di livello linguistico teresiani, il passaggio da gradazioni normali del segno dal qua («acá») del quotidiano all’oltre («más allá») analogico — come una specie d’infrazione nella coerenza del piano linguistico e quasi una improprietas. Prosegue teresa: castello-perla-albero «quando cade in peccato mortale». Qui si dichiara la possibilità, eventuale ma non impossibile, che i tre membri costitutivi e sinonimi (questa identità potrebbe già porre a rischio l’unità linguistica) possano «cadere». Forse, solo il «castello» se fosse demolito, o l’«albero» pure abbattuto da un fulmine o dai legnaioli; non può certamente «cadere» la «perla»... Ancor più improprio — secco e repentino il passaggio dal livello metaforico al reale-metafisico — individuare la relazione castello-perla-albero — «peccato mortale». Vogliamo notare queste intime discrasie sul piano verbale per mettere in risalto la libertà linguistica e stilistica di Santa teresa — l’ultima delle sue preoccupazioni — la sua violazione della retorica con generosità ed autonomia; ma qui, d’altra parte, la retorica è totalmente e pienamente al servizio della singolarità sui generis di questa scrittura-operavita-mistero, che a sua volta è al servizio della salvezza, oltre che dell’esperienza mistica. il referente travolge e trascina con sé completamente il linguaggio e lo plasma e motiva nella sua stretta necessità e interdipendenza. E nel testo entrano ancora una volta parole come peccato, mortale, che portano insieme due ambiti semantici — e subito o prima, morali, metafisici — il «peccato», la «morte», che preparano, senza neppur troppe spiegazioni, anzi senza nessuna definizione dei rispettivi lemmi, la fase finale di questo paragrafo fondamentale per la nostra analisi. note inequivocabili, segni definitivi di aspetti della vita e della morte dell’anima appaiono nella lunga compilazione e nello svolgimento del primo capitolo e del secondo delle prime Moradas. e santa teresa passa, poi, alla situazione della riduzione al grado zero dell’immagine iniziale del «castello», alla negazione dello stesso «cammino». E giungiamo, finalmente, all’individuazione e fissazione del chiasmo tragico della condizione umana nella sua libertà di scelta e volontà. Prima di tutto, si deve partire dall’identificazione del «principio», «che è Dio, da cui la

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nostra virtù è virtù». Qui, certamente, siamo davvero al centro della vicenda, dove Dio è riconosciuto come segno e motivazione verbum-res della «virtù», la forza morale e il ben operare dell’anima, la sua forma sostanziale, della quale Dio è principio e noi lo chiamiamo referente totale. e santa teresa adotta decisamente il suo completo e responsabile atteggiamento e definisce una volta per sempre le varie espressioni delle anime nella loro incompiuta relazione con dio: «separandoci da lui». il discorso si fa chiaro e invalicabile; fra l’altro, dopo tutte quelle inerzie e indifferenze, ignoranze e indifferenze, disinteresse e apatie e ancora indifferenze..., troviamo per la prima volta un comportamento attivo, sebbene sbagliato o in tutti i modi opposto alla sua propria natura: l’anima (il plurale ci coinvolge e compromette o, comunque, impegna tutti...) dimostra un’iniziativa (eventuale, ancora una volta, ma non impossibile), ma un’iniziativa di separazione, allontanamento, moto di divisione, verso un versante di contrasto, verso l’ombra, non verso la luce. si delinea, qui, come dicevamo, un chiasmo spaventoso, che spiega, se fosse necessario, il passaggio dallo «splendente e bello» alle «tenebre più tenebrose» e alla «cosa così oscura e nera, che non lo sia molto di più». Il chiasmo: [separandoci da] Lui — non può essere gradito ai suoi occhi, dato che, infine, l’intento di chi commette un peccato mortale non è quello di accontentarlo, ma — far piacere — al demonio (I, 2, 1, 367) 4.

È il chiasmo dell’arbitrio umano, molto articolato dal punto di vista sintattico, certamente, e forse troppo pieno, ma che comprende due estremi: Egli (Dio) e demonio; un impossibile: «non può essere gradito»; al centro tutto l’insieme attivo dell’anima che opera: «fa (compie) un peccato mortale», «intento» (‘intenzione’, ‘progetto’) e due comportamenti a contrasto: «non è quello di accontentarlo, ma far piacere». Ma la figura retorica penetra troppo profondamente dentro i principî e gesti del piano etico-esistenziale per poter finire con lo specifico di quel solo motivo, perché viene ad esser la chiave caratteristica del processo el intento de quien hace un pecado mortal no es contentarle, sino — hacer placer — al demonio”. 5 “[...] porque las cosas del alma siempre se han de considerar con pleni-

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attivato da santa teresa dall’inizio della sua opera. notiamo, subito, che qui la parola «demonio» — che fa la sua prima entrata nel testo — è evocata e istituita da un’entità indefinita e del tutto eventuale ma non impossibile, ancora una volta, e che si manifesta per mezzo di morfemi: «gli dava», «gli procura vantaggio», «chi fa», «centro della sua anima», o per mezzo di perifrasi, sempre senza nome, senza figura. S’intende che «centro della sua anima» ha un grande rilievo plastico, perché evoca le moradas e la loro disposizione a pianta centrale, precisamente (cfr. I, 2, 8, 369; ma, prima, I, 1, 3, 365: in ambedue le zone si dà la descrizione della struttura del «castello» e la sistemazione della pianta delle stanze); e anche il «chi fa» ha una quota parte di sostanzialità a causa del verbo, al presente indicativo della realtà, sebbene senza riferimento obbligato e attualizzante. L’elemento che qualifica il chiasmo, tuttavia, è l’esibizione della parola «intento» (‘intento’, ‘intenzione’, ‘fine’), che indica senza alcun dubbio una tensione- verso, un’intenzione o volontà e progetto deliberato dell’anima di realizzare un preciso scopo che implica un’azione concreta. e qui, naturalmente, colui che opera il «peccato» agisce nel senso della morte, senza rendersi conto della contraddizione e della negazione di se stesso che si verifica in quell’istante. Per questo stesso, chi pecca esercita la sua volontà rivolgendola al male e alla distruzione. C’è, dunque, un progetto di tendenza, propensione e inclinazione teleologica verso un «fare» che è la propria opposizione interna, semantica, in definitiva, esistenziale e morale: un fare per distruggere, un fare per morire. e con questo esplodono tutte le contraddizioni, tutte le inerzie che santa teresa aveva analizzato e descritto nei paragrafi del capitolo precedente: nel momento in cui l’anima opta per la morte, lascia entrare — cioè — nella sua vita la morte, opera a favore del proprio abbattimento, e, mentre prende una risoluzione per annullare le proprie inerzie, finisce per compiere un’azione che, di fatto, la fa tornare, nello stesso istante, a confermarle e a saldarle con ancora maggior forza. E qui sta la più oscura follia demoniacamente indotta. santa teresa dice che l’anima «diventa e resta una stessa tenebra», cioè, giunge e resta al suo grado zero rispetto alla luce, diventa e resta negativo assoluto, sceglie ciò che si oppone al divino. «Chi fa (compie) — così lo chia-

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miamo come fa Teresa, per definire un’entità qualunque, senza nome, — si allontana («apartándonos») sulla linea del chiasmo e si muove verso l’estremo opposto: lascia la parte degli «occhi» di dio e passa dall’altra parte, a quella del «demonio». E non è solo questione di scelta o di direzione, perché in questo momento accade una cosa molto importante: gli «occhi» non sono solo sineddoche o metonimia, ma contatto diretto e sufficiente con il divino: la sintonia spontanea con lui richiedeva automaticamente (la parola è un po’ forte, ma vuol esprimere l’assenza di mediazioni) l’«essere gradito», il risultare necessariamente gradite e apprezzate le opere, il compiacersi di dio che, altrimenti, diventa assolutamente impossibile («non può»). Lo spettacolo dato dall’anima agli «occhi» è del tutto negativo e merita un giudizio totalmente conforme; anzi, teresa non offre nessuna alternativa all’impossibile, per dio, d’accettare e gradire il suo stesso abbandono, la scissione attuata dall’anima. d’altra parte, in «chi fa» non vale solo la volontà di «fare» quel «peccato», ma il rifiuto di «accontentare» Dio, cioè, di saturare le proprie valenze col divino, mettersi in asse con lui e in strettissima prossimità, quasi di contenere e placare le esigenze di dio, e in modo tacito, senza apparente manifestazione di niente, solo l’«operare» in segreta sintonia. «Far piacere», invece, anche per la ripetizione di quel «fare», comprende una sfumatura di vera azione, e il «piacere» soddisfa in profondità (in dipendenza chiara dall’«intento») tutto quello che il «demonio» può aspettare o esigere. Meglio, il «demonio» viene fatto entrare nel chiasmo del possibile o lo si colloca nel nesso che sarebbe l’abituale anima-dio. È molto strano, perlomeno, che l’inerzia, l’indifferenza, il disvalore, l’ignoranza, il disconoscimento, la non cercata autocoscienza, il non voler «cogliere nel segno», ecc. tutte le occasioni mancate dalla anime inferme, paralitiche, il non voltarsi delle «statue di sale», trovino ad un certo punto, e d’emblée, forse per paradossale casualità, la forza perversa di allontanarsi dalla luce e dalla vita: e questo, non solo per rivolgersi al «demonio», ma per farlo esistere, per dargli quella ragione ontologica ed effettuale che non avrebbe potuto avere. santa teresa sembra realisticamente spietata nella sua netta definizione paradigmatica: «demonio, che in quanto è le stesse tenebre». Per dar notizia di quell’esistenza la pone

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in negativo e assenza di luce o tragica presenza di nonluce; se non fosse per l’angoscia interiore della «povera anima», che diventa la propria negazione. senza contare che, in quel «far piacere» si potrebbe anche captare una drammatica esibizione di quel fantoccio, che ammicca al pubblico, un povero pagliaccio che si fa passare per leggero e fragile buffone per il divertimento degli altri... e quale altro, il proprio nemico! 3. Il nemico come sconvolgimento delle misure dell’anima In I, 2, 8-11, 369-370 troviamo un esempio di presenza ed azione demoniaca assai complesso di opposta fenomenologia: verso la riduzione o l’ampliamento delle misure dell’anima, sempre in direzione sbagliata. In I, 2, 8, 369 Santa Teresa torna a riconsiderare l’immagine del «castello»e delle dimore per precisarne la struttura, che essa completa per mezzo della figura del «palmito» di «molti rivestimenti» attorno al «centro», dove sta il «re». con questo santa teresa si propone d’informare circa la grande quantità di «stanze» (Cfr. Ibidem, 12, 370: «Non [...] poche stanze, ma un milione»), nelle quali possono entrare le anime. Molto importante la questione delle grandezze e quantità delle «dimore», dato che fissa immediatamente la relazione illimitata e d’ampiezza spirituale e nobiltà fra l’anima e se stessa come nella prospettiva ed elevazione a dio, nella qual cosa si manifesta un segno cosciente di dignità e valutazione generosa delle cose dell’anima. Le dimensioni di spaziosità sono chiaramente in relazione con la totalità, l’infinitezza del «sole che sta in questo palazzo», e che si diffonde in sé e intorno a sé («tutte le parti») e in tutto ciò a cui prende parte. Santa Teresa realizza qui un intenso gioco di apertura e libertà interiore, fra esaltazione e umiltà, come cambiamento interno di proporzioni che, malgrado conservino essenzialmente i limiti di contrasto fra infinito e finito, da una parte tranquillizzano quanto alla «grande dignità» come proprietà primaria dell’anima, che entra in una astrale necessità di misure e di dialettiche alternative. nello stesso tempo, santa teresa vuol convincere i suoi lettori che le valutazioni dell’anima

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possono persino superare la stessa comune possibilità di pensarle; cioè, che nessuno a volte sa e può collocarsi allo stesso livello delle capacità effettive della propria anima: e ciò, anche per sottintendere qual è l’origine della natura superiore dell’anima rispetto alla coscienza che essa può avere di se stessa... La qual cosa è un ulteriore invito ad una elevatissima commisurazione: [...] perché le cose dell’anima si devono sempre considerare con pienezza e ampiezza e grandezza, dato che non l’aumentano per niente, perché essa è capace di molto di più di quanto potremo considerare (I, 2, 8, 369) 5.

Qui, l’abituale formula perifrastica e indefinita («cose dell’anima») 16 acquista davvero la sua maggiore vaghezza senza riferimenti, anche nel senso solidale di illimitatezza, offerta dagli astratti delle tre dimensioni («pienezza e ampiezza e grandezza») di notevole consistenza e spessore, qua tali — diciamo — alla quale nessuno né niente possono attribuire più di quello che ha («non l’aumentano per niente»), come anche nessuno le può togliere niente. L’anima è «capace di molto di più», in quanto va «sempre» oltre il possibile della nostra astrazione. Questa natura estrema e radicale dell’anima implica libertà e respiro anche nei limiti soggettivi e autoimposti; ad ogni modo, purché essa conosca la propria autonomia interiore e, nello stesso tempo, che tutte le sue facoltà si possono oltrepassare. Prosegue, cioè, nelle parole di Santa Teresa, la riflessione sulla dinamica flessibile fra sapere e fare o fra sapere e scegliere, fra libertà illimitata e volontà effettuale di tenerne conto e di conformarsi ad essa. Vogliam dire, secondo la coscienza della libertà di elevarsi o di ridursi in base alla propria superiorità morale o debolezza di meschinità e respiro corto fino all’asfissia deliberata e senza rimedio: Questo importa molto a qualunque anima che faccia orazione, poca o molta, che non la metta in un angolo o la soffochi. La lasci andare su e giù per queste dimore e da tutte le parti; poiché Dio le ha dato grande dignità, tud y anchura y grandeza, pues no le levantan, que capaz es de mucho más que podremos considerar”. 16 cfr. Figure, pp. 8-82.  “Esto importa mucho a cualquier alma que tenga oración, poca o mucha,

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non si riduca e costringa a stare molto tempo in una sola stanza, o se ne ha piena conoscenza, e di quanto questo è necessario — badate d’intendermi — anche per quelle che il signore tiene nella stessa dimora in cui lui sta, che mai, per quanto questa sia elevata, le conviene altra cosa né potrà anche se lo voglia (I, 2, 8, 369) .

Resta fissa la libertà e l’espansione, il volersi dilatare ed estendere nella totalità ed ampiezza degli spazî, che è segno d’autonomia e, con questa, dell’alto sentimento di conformità e corrispondenza col divino («Dio le ha dato grande dignità»), in tutta l’accezione di pertinenza e attribuzione di possibilità: sempre il «fatta a immagine». Libertà, autoconoscenza ed autocoscienza, dunque, pongono l’anima in asse con dio, oltre il tempo e lo spazio, che sono al tempo stesso le strettoie della corta misura di sé per innaturale compressione e torchiatura («non si riduca e costringa a stare molto tempo») dell’anima. Santa Teresa propone un complicato quadro di azioni e valutazioni e passaggi e situazioni nella conoscenza del «cammino». Questo ha le sue necessità di modi e tempi — anche nella «stanza» dove sta Dio e dove il vincolo di tale necessità è naturalmente più che ristretto e possessivo («tiene»). Ma l’anima, anche quella più legata e obbligata a certi movimenti dovuti, non può da sé sola spogliarsi della sua libertà essenziale, che in dio trova la sua origine e compimento. La libertà dell’anima è in Dio e si esalta in Dio e questo anche perché la continua relazione con Lui — per la differenza o non-coincidenza delle misure — è un continuo rinvio all’umiltà (si ricordi, invece, il peccato di «dismisura», nel cap. i. del Giobbe luisiano). E contemporaneamente, per comparazione e analogia con dio come perno e cifra massima («a immagine»), rilevamento della «grande dignità» e del proprio destino dell’anima. si chiarisce, dunque, al principio del «cammino» la doppia spinta e il doppio impulso che deve avere l’anima, se essa vuole sapersi e conoscersi: prima di tutto, entrare nel «castello»; e, poi, nelle I Dimore della conoscenza di que no la arrincone ni apriete. Déjela andar por estas moradas arriba y abajo y a los lados; pues Dios la dio gran dignidad, no se estruje en estar mucho tiempo en una pieza sola, u que si es en el propio conocimiento, que, con cuán necesario es esto — miren que me entiendan — an a las que tiene el señor en la mesma morada que Él está, que jamás, por encumbrada que esté, le cumple otra cosa ni podrá anque quiera”. 8 “Y ansí torno a decir que es muy bueno y muy rebueno tratar de entrar

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sé, star ben attenta e vigilare per non essere indotta e istigata a tornare ad uscirne. Appare già, in controluce, una serie di rischi o inquietanti sintomi di alienazione verso prospettive altre e del tutto opposte. teresa utilizza immagini che cerchiamo di precisare nella loro relazione d’identità e contrasto e di cui vedremo di approfondire le ragioni di commutazione e sovrapposizione. Vediamo la situazione: l’umiltà ci aiuta molto a intendere l’ambivalenza dei segni. Questa è una misura di umanità estrema e cosciente, propria di chi conosce quello che santa teresa chiama il «nostro fango di miserie», che è precisamente la nostra qualità in rapporto a Dio. Questa profonda certezza di sé e dei proprî limiti è, pertanto, riconoscimento della distanza incommensurabile tra Dio e l’uomo («dei vermi così pieni di cattivo odore», I, 1, 3, 366) e che solo Dio, nella totalità assoluta («bontà così buona» e «misericordia così senza misura e limiti»), per amore e volontà di comunicazione annulla e revoca. Ancora, il senso del limite consiste nel seguire il «cammino» per gradi e secondo il processo delle successive dimore: E così torno a dire che va benissimo e strabenissimo cercar di entrare prima nella stanza dove si tratta questo piuttosto che volare alle altre, perché questa è la strada; e se possiamo andare attraverso un percorso sicuro e piano, perché dobbiamo voler delle ali per volare? ma cerchi il modo di approfittare meglio di questo (I,2, 6, 369) 8.

Piuttosto, e contemporaneamente, per mezzo di un’altra immagine simultanea e parallela — quella dell’ape — e senza uscire da se stessi, far in modo che il «cammino» sia volo. non tanto per sorpassare in una volta tutte le «stanze» successive, quanto realizzare un «volo» inteso come separazione e allontanamento dai proprî confini verso la considerazione dei parametri sublimi, a conferma dell’«umiltà». Così, l’anima nella propria conoscenza: creda e voli qualche volta a considerare la grandezza e maestà del suo Dio (Ibidem, 8, 369). C’è, dunque, un «volo» diverso da un altro «volo»: il primo è ricerca di termini di confronto infiniti — le qualità primero en el aposento adonde se trata de esto que volar a los demás, porque éste es el camino; y si podemos ir por lo seguro y llano, ¿para qué hemos de querer alas para volar?, mas que busque cómo aprovechar más en esto”.

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e i predicati di Dio — come continua verifica fra negativo e positivo («E a mio parere mai finiamo di conoscerci, se non cerchiamo di conoscere Dio; guardando la sua grandezza, andiamo incontro alla nostra bassezza, e guardando la sua limpidezza, vedremo la nostra sporcizia; considerando la sua umiltà, vedremo quanto siamo lontani dall’esser umili», Ibidem, 9, 369). Anzi, esattamente possiamo renderci conto della nostra vera condizione e possiamo cogliere e formulare la rispettiva definizione di riconoscimento per contrapposizione che esalta e rassicura («è chiaro che sembra una cosa bianca bianchissima vicino alla nera, e al contrario, la nera vicino alla bianca», Ibid. 10, 369). Si verifica come un’oscillazione bipolare dal minimo al massimo, da ciò che è proprio della terra al divino, con doppio profitto, dice santa teresa, a implicita conferma delle reciproche dimensioni, confronto d’umiltà e insieme progressione operativa secondo il modello eccelso; il quale, mentre ratifica la nostra pochezza, nello stesso tempo ci separa da essa per elevazione. il sapere il poco che siamo ci aiuta a diventar di più, ma già da quel poco ci siamo allontanati: il nostro intelletto e volontà diventano più nobili e predisposti ad ogni bene, occupandosi di se stessi con dio, e se non usciamo mai dal nostro fango di miserie è un grande inconveniente (Ibid.) 19.

Bisogna diventare, dunque, «d’une maison et d’une abeille», come dice Valéry. le misure riduttrici vengono superate: l’intelletto s’esalta nella prospettiva altissima del modello assoluto. Umiltà è nobilitazione. Questa è la definizione oggettiva proposta da Santa Teresa ed è, apparentemente — ma solo apparentemente — un paradosso, perché quando Santa Teresa parla di «umiltà» di Dio (cioè, come di qualità gradita a Dio; ma anche, precisamente, como qualità propria — nel senso di Mt, 11, 29 20), intende, rispetto all’uomo, conoscenza della propria dignità e natura e senso del limite di terrestrità. Diciamo, una visione realistica della propria effettiva misura. nello stesso momento, quest’autocoscienza e riconoscimento liberano un’energia positiva che è impulso attivo e tranquillizzante di «virtù» («E mi creda 19 “nuestro entendimiento y voluntad se hace más noble y aparejado para todo bien, tratando a vueltas de sí con dios, y si nunca salimos de nuestro cieno de miserias es mucho inconveniente”.

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che con la virtù di Dio opereremo nel senso di una virtù migliore che non legate fortemente alla nostra terra», Ibid., 8, 369). Naturalmente, per la coincidenza di misure e termini («virtù» con «Virtù»). Si delinea, dunque, un doppio movimento dell’anima: verso la terra e verso Dio; il primo è cammino d’umiltà, il secondo, dopo il primo, e solo per virtù di questo, è elevazione 2. Per questo si diceva che umiltà è superiorità effettuale, senza nessun pericolo di hybris, anzi come superamento di slancio di quei limiti e di quella terrestrità («implicati sempre nella miseria della nostra terra, mai la corrente uscirà dal fango di timori, pusillanimità e codardia»- Ibid., 10, 369), e da quanto l’anima ha di più meschino e triviale. Vediamo, in definitiva, che nel linguaggio di santa teresa appaiono tre diverse accezioni della parola tierra (o cieno — ‘terra’ o ‘fango’): un significato normale di terra come umiltà, origine e materia e limite morale; il fango come segno di miseria e di peccato; il fango come segno di «pusillanimità e codardia», cioè, limite morale, come meschinità e corta vista. È naturale che l’anima abbia le sue paure e incertezze, apprensione di audacia eccessiva o temerarietà e conoscenza errata e valutazione, pericolose tutte in quanto capaci di far deviare se stessa e gli altri. Ed è il significato di terra come condizione naturale, terrestrità dell’uomo. l’anima ha un profondo timore di sproporzione e «dismisura» e cerca di non superare i vincoli giusti con quella terra e con la verità di sé. Il rischio, tuttavia, è quello di autolimitarsi troppo, isolandosi totalmente in uno spazio neutro e terribile, senza altri parametri e prove: ed è, allora, la terra come falsa umiltà, come autolimitazione fino alla viltà. Si coglie, invece, nella scrittura teresiana la necessità di restar aderenti alla terra come condizione propria e segno d’umiltà (ergo, nobilitazione); d’altra parte, essa sottolinea, invece, la necessità d’elevarsi, di salire a Dio 20 si cfr. l’Arte para servir a Dios (1521), di Fray Alonso de Madrid, maestro della mistica francescana, nel cap. Vi De la humildad — seguiamo l’edizione dei Místicos franciscanos españoles, edic. preparada por los redactores de “Verdad y Vida”, Introd. del P. Fray J.B. Gomís, O.F.M., B.A.C., Madrid 1948, p. 44, par. 2: “digo que debemos fabricar nuestra humildad a semejanza de la humildad de nuestro Redentor”; cap. VIII, p. 149: “era menester para alcanzar la humildad poner delante nuestros ojos la humildad del Hijo de dios y formar otra a su semejanza”. 2 cfr. el Arte, cit., p. 42: “la humildad sube tan alto y desciende tan bajo, que están hechas en el mundo de los santos doctores grandes escaleras con muchos grados o escalones para venir a ellas[...]”.

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per confermare quei limiti, quella distanza. si tratta, evidentemente, di una zona difficile e d’ardua conciliazione: da essa potrebbe derivare un atteggiamento meschino, una valutazione sbagliata del proprio possibile (e dovuto). In questo momento potrebbe affacciarsi la tentazione sincera e umile di uscire o di non entrare nel «castello», di non iniziare il «cammino». tutto questo problema di misure è un denso lavoro dell’anima in una situazione delicata, quasi la quadratura del cerchio: essere umili senza esserlo troppo, abbassarsi per elevarsi ed elevarsi con il pericolo di elevarsi troppo, anzi, fuori dalle misure stesse... e in questa situazione non facile santa teresa esce con un grido improvviso di dubbio e di terrore: è il possibile del «demonio»: Oh, Dio m’assista, figlie, quante anime deve aver fatto perdere assai il demonio per queste vie! (I, 2, 11, 370) 22.

Ed è istintivo il ricorso a Dio e al suo aiuto nell’angosciosa ipotesi di gravissimo sviamento e distrazione, quasi per ristabilire il giusto senso e la verità delle proporzioni. ancora una volta, il «demonio» appare nella scrittura come evocato da qualcuno, non direttamente né per sua volontà, ma nell’improvviso pensiero della scrittrice, che apre in modo repentino uno spazio di pericolo certo, dove il «demonio» stava in agguato, dentro l’anelante volgere dell’anima nel suo cammino dai dintorni al centro di se stessa, rispettando i tempi e gli spazi del «cammino», ma tenendo conto del perno e della meta, per una necessità urgente ed immediata d’accelerazione interna che incoraggia a proseguire e fortifica il coraggio e la volontà di giungere alla conclusione dell’itinerario. e qui sta, allora, il «demonio», che s’insinua nell’intima fase generosa dell’umiltà dell’anima e ne scompiglia le dimensioni, allontanando o disordinando i parametri e riducendo arbitrariamente, abusivamente, le misure dell’anima stessa. lo sconvolgimento è enorme e di gran violenza: sotto il falso sembiante, evidentemente, e contrapponendo la sua finta umiltà (o ipocrisia reale) alla vera umiltà di Dio, agisce il «demonio» implicitamente abbandonando dio nel suo infinito di grandezze ed abbassando, al contrario, il senso

22 “¡Oh, válame Dios, hijas, qué de almas debe el demonio de haber hecho perder mucho por aquí!”. 23 “Ya he dicho que en esta oración no se ve nada, que se pueda decir ver, ni

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proprio dei limiti e della qualità reale dell’anima. Il finto sembiante è ripiegamento dell’anima abbagliata e sola nelle sue elevazioni e nei suoi confronti: e questo le fa perder di vista il rispetto della verità. dalla coscienza sicura si passa all’errore della misura: Dio è troppo grande ed io troppo piccolo; se perdo quest’umiltà passo alla hybris e mi condanno da solo... si produce, dunque, la perdita del senso e della nozione e dell’identità («fatta a immagine»). L’«umiltà» appare come falsa e maschera di superbia di fatto. La reticenza di Santa Teresa («e molte altre cose che potrei dire») fa sospettare come molto più grave la caduta dell’anima in una scelta tutta solitaria e verso l’opinabile, in una visione relativa e di solipsismo, valutazione deviata per mancata intesa, non coincidenza di conoscenza e giudizio della verità, incontro non realizzato fra l’anima e se stessa («distorce la propria conoscenza»), perturbamento o distorcimento delle direzioni e linea del «cammino». in questo labirinto sta, dunque, il «demonio», che, tuttavia, sembra manifestarsi solamente per mezzo delle tragiche conclusioni, effetti e fallimenti che avvengono nell’anima: «sembra», «mancata intesa», «distorce»: apparente cambio di convinzioni e, in realtà, segno di qualcosa di terribile che si è prodotto nell’anima. e che ha originato il ribaltamento dei valori. Qui, il «demonio» provoca la riduzione e la diminuzione violenta dell’anima, il suo rimpicciolimento immotivato, con il pericolo possibile che venga a mancare la figura reale di sé, fino a causare l’uscita dal «castello» ed altri estremi ancora più orribili. Santa Teresa non dice tutto quello che può accadere e l’occulta in un ampio ventaglio di timori: «e se non usciamo mai da noi stessi non mi meraviglio, perché questo e ancor peggio si può temere» (Ibid.). il «demonio» schiaccia i buoni impulsi di conoscenza dell’anima e, in definitiva, attribuisce (o sostituisce) incertezza e rende opinabile l’umiltà, sconcerta il lemma sconvolgendo l’ordine di qualità e quantità, motivazioni e caratteri, mettendo in crisi il concetto e l’azione conseguente. da qui derivano, fra le altre conseguenze, anche le misure sbagliate dell’anima fra sé, le cose e Dio; di qui l’accontentarsi di poco, ma nel segno della taccagneria e codardia. «Ratero» e «cobarde» (‘strisciante’, ‘che vola basso’ e «codardo») sono proprî, etimologicamente, di bestie che si trascinano per terra o che volano basse nei loro

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meschini progetti di nessun valore e degni di disprezzo. se, come dice santa teresa, uno guarda verso il basso, diventa basso e resta in basso; se uno guarda verso l’alto, ed elevazione è collocazione della vista e concentrazione fissa sui termini alti («mettiamo gli occhi»), come per depositare la sua attenzione in cristo, ottiene la salvezza, nel ricordo di Mosè nel deserto (Numeri, 21, 4 e segg.), quando, per guarire gli ebrei dalle morsicature dei serpenti, alzò il serpente di bronzo, figura Christi. La verità (e la fede) è l’unico fondamento delle motivazioni del segno e dell’azione («la vera umiltà») nel luogo dove si apprende («lì apprenderemo»). Santa Teresa diffonde attorno a sé una coscienza certa di profondo e persistente terrore con la sua esclamazione iniziale e l’invocazione a Dio fino all’ostensione finale senza ambagi della pericolosa attività del «demonio» («sono terribili»), senza che manchi, per questo, una certa reticenza — già vista precedentemente — perché restano occultati tutti i complessi movimenti della reale fenomenologia demoniaca. santa teresa parla di «astuzie e abilità» del «demonio» e in questo solo indica l’atteggiamento mascherato o travestito, e l’insistenza ossessiva di malizia, la grande abilità anche manuale e la caparbietà puntigliosa, anche nel segno della protervia e artificio, fra accorte e furbe articolazioni e invenzioni del «demonio»: una minuta ebollizione fastidiosa (più avanti, in I, 2, 15, 371, Santa Teresa parlerà di «lima sorda»), in chi è dotato di grandi capacità di adattamento ed organizzazione. e basta. e, d’altra parte, a teresa interessa solo insegnare e rivelare chi elabora e costruisce le sue sfacciate trappole, il rimedio in Cristo e nei santi come criterî di verità; e poi indicare, nella falsificazione di una nozione determinante come l’umiltà — la coscienza della terra e di esser terra — l’arbitrario e funesto sconvolgimento dei parametri di base del comportamento, i principî del discernimento e del giudizio. abbiamo analizzato solamente un aspetto del procedere diabolico; sul lato opposto, il «demonio» farà il suo intervento per rovesciare le linee e le prospettive, quando esporrà (I, 2, 15-16, 371) le tentazioni di grave mancanza di carità e d’amore del prossimo, a loro volta capaci di condurre alla valutazione sbagliata delle misure dell’ani-

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ma verso la superbia. al contrario della riduzione della falsa umiltà, il malinteso concetto della propria perfezione e indefettibilità porta all’eccesso di presunta grandezza. Il «demonio» s’insinua sempre nei criterî di valutazione con perdita dei limiti: infatti, esso mira sempre alla svalutazione dell’uomo in fantoccio che può esser gonfiato a piacere dal «demonio», quando l’anima non sta «sull’avviso», cioè, in uno stato di vigilanza ed autocontrollo per debolezza e vana solitudine o scelta solitaria. l’unico termine d’equilibrio e di sicurezza è Cristo, e in Lui l’anima trova la sua certezza di parametri e coerenza di relazione. senza di Lui il «demonio» vince, perché tende sempre, prima ancora di perderlo o distruggerlo, a negare l’uomo (accrescendolo o diminuendolo oltre i limiti): in modo che non sia mai nella misura giusta, cioè, all’altezza reale del suo Creatore («fatto ad immagine»)... 4. Il nemico come incomprensione dell’anima tutta in Dio Già avanzato il «cammino», in VI, 1-5, 404-405, Teresa descrive e analizza la relazione fra «più grandi travagli» e «grazie maggiori», al centro di un drammatico logaritmo esistenziale e mistico. L’anima si trova in una condizione di passività («resta ferita»), una durata di amoroso corteggiamento intimo e, simultaneamente, di piena conformità con se stessa e con lo Sposo. Questa piena disposizione in asse con ciò che accade («conforme al suo stato») si realizza nella solitudine raccolta e protetta intorno alla mistica «ferita», come punto in cui s’innesta una contemporanea dinamica d’impulsi d’autodifesa («cerca più spazio per star sola») e d’allontanamento rispetto all’esterno, ansiosamente ricercato fino all’estremo, in relazione con chi può disturbare o ostacolare o sconcertare questa «solitudine» («toglier tutto quello che può disturbare»), la concentrazione verso l’interno. Si realizza un processo di densificazione interna dell’esperienza divina, che si è manifestata in una visione, che, a sua volta, ha portato all’anima tutta la forza decisiva e la consistenza. il divino s’incide profondamente nell’umano («scolpita»), e l’anima viene a riprodurre i tratti caratteristici di lui in modo permanente ed esclusivo, come per

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una forma sostanziale che l’anima acquisisce e che in essa provoca un «desiderio» di seguitare senza fine nella detta esperienza. È come una specie di coazione a ripetere, per ripetere il godimento («tornare a goderla»). L’anima si viene, dunque, a costituire in un sistema esatto e di radicale coerenza interiore, fondato sull’avvenimento mistico che scuote profondamente l’anima fino ad unirla tutta nella perennità sperimentale di un piacere, che si vorrebbe interminabile. e l’anima resta inebriata e rivolta completamente in se stessa, nel segno di quell’ardente passione, per la quale tutto quello che non le è proprio è «disturbo», ostacolo e fastidio, distrazione inopportuna di soluzione di continuità. A proposito di quest’aspetto di totale compattezza e uniformità, dobbiamo insistere, per poter intendere meglio i successivi passaggi, che accompagnano o tentano di risolvere il carattere di una solitudine speciale, intensa ed attiva, impegnata nella sua propria individualità e inclinazione verso l’interno. inoltre, l’anima si trova in una specie di vuoto pneumatico senza risalto di forme né profili, come senza direzioni né implicazioni d’oggetti, in uno spazio d’assoluta non visibilità, rarefatto ed impalpabile, senza altri orizzonti che se stessa; e senza movimenti di rappresentazione di nulla, né rapimenti o percorsi d’invenzione, immaginazione o fantasia. le potenze restano sospese. Diciamo, in uno spazio acrono e senza figure: Ho già detto che in questa orazione non si vede niente, che si possa dire di vedere, neppure con l’immaginazione; dico vista, per la similitudine che ho indicato (VI, 1, 1, 404) 23.

Qui, Santa Teresa ci rinvia a V, 1, 10, 394, dove ha posto una forte ipotesi di ambiguità analogica; e qui usa la parola «similitudine» («comparación») con ampio limite di distanza e relatività di linguaggio-situazione («Non dico quello che allora vide, ma che dopo lo vede chiaro, e non perché è visione, ma una certezza che resta nell’anima, che solo Dio la può infondere»). Quando, pertanto, in VI, 1, 1, 404 24, santa teresa pone un’altra volta nel vedere un’estrema instabilità, una crisi reale di definizione e motivazione del segno e del fatto, indica, tuttavia, in quella «certezza» con la imaginación; digo vista, por la comparación que puse”. 24 “Pues vengamos, con el favor del espíritu santo, a hablar en las sestas

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una decisività di persistenza e rilievo sostanziale («scolpita», «resta ferita», «resta determinata») di diretta impressione modellata e incisa con grande forza plastica. la relazione fra la vaghezza sui generis della situazione dal punto di vista della percezione e franchezza concreta per l’anima dell’esperienza subita nella sua profonda purezza e realtà è inversamente proporzionale; ma il valore propriamente metafisico della convinzione («certezza») non deve nulla all’invisibile sperimentale, anzi deriva la sua propria serietà e lo stimolo incessante del «desiderio», appunto, perché l’esperienza è qualcosa di profondo, non visibile, ma segreto e incomunicabile (così come intangibile). Tutto il discorso di Santa Teresa è ratifica dell’assoluto della situazione; l’anima ha avuto e vorrebbe continuare ad avere un incontro con il divino senza confini di oggetti, senza visione diretta; e precisamente, per questo carattere immediato, non percepibile dai sensi, ed esclusivamente proprio della «solitudine» dell’anima. Per questa ragione, avevamo parlato di una metafisica senza figure, in una totale solitudine con il divino («Già l’anima resta ben determinata a non prendere un altro sposo»), nella quale tutte le potenze sono rivolte alla conferma dell’esperienza stessa e la volontà è la stessa cosa che il «desiderio». La determinazione è ricerca e prassi di solitudine. Il divino interviene nel «desiderio» e lo risolve di se stesso — cioè, non si concede — anzi, contrappone alla «determinazione» la sua propria volontà come fermento di quel «desidemoradas, adonde el alma ya queda herida del amor del Esposo y procura más lugar para estar sola y quitar todo lo que puede, conforme a su estado, que la puede estorbar de esta soledad. Está tan esculpida en el alma aquella vista, que todo su deseo es tornarla a gozar. // Ya he dicho que en esta oración no se ve nada, que se pueda decir ver, ni con la imaginación; digo vista, por la comparación que puse. Ya el alma bien determinada queda a no tomar otro esposo; mas el Esposo no mira a los grandes deseos que tiene de que se haga ya el desposorio, que an quiere que lo desee más y que le cueste algo, bien que es el mayor de los bienes. Y anque todo es poco para tan grandísima ganancia, yo os, digo, hijas, que no deja de ser menester la muestra y señal que ya se tiene de ella para poderse llevar” (‘Veniamo, dunque, col favore dello Spirito Santo, a parlare nelle seste dimore, dove già l’anima resta ferita dall’amore dello Sposo e cerca più spazio per star sola e levar via tutto quello che può, conforme al suo stato, che la può disturbare rispetto a questa solitudine. Quella vista è così scolpita nell’anima che tutto il suo desiderio è di tornarla a godere. // Ho già detto che in quell’orazione non si vede niente, che si possa dire vedere, neppure con l’immaginazione; dico vista, per la similitudine che ho indicato. Già l’anima resta ben determinata a non prendere un altro sposo; ma lo Sposo non guarda al grandissimo desiderio che essa ha che si faccia già lo sposalizio, che anzi vuole che lo desideri di più e che le costi qualcosa, visto che è il maggiore dei beni. E sebbene tutto sia poco per un così grande profitto, io vi dico, figlie, che non cessa di essere necessaria la prova e pegno che già si ha di tal profitto per potersi mantenere in attesa’).

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rio», in proporzione crescente fra il «desiderio di più» e il «maggiore dei beni». si manifesta una dialettica interna di accrescimento ed accumulazione e slancio d’adeguamento progressivo e illimitato fra la tensione del «desiderio» e la meta del «sommo» Bene. Pertanto, quella solitudine si presenta come molto animata e sospinta dai pressanti incitamenti dell’amore, con sempre possibile discrepanza di relazioni e misure, fra inclinazione verso e raggiungimento di, come ardente anelito di pienezza disingannata e coscienza dei dislivelli fra i valori. santa teresa conosce bene tutta questa incertezza e insicurezza dell’anima in bilico, in un bilanciamento senza remissione; e resta aperta (si veda qui il significato speciale del «queda» -’resta’ ripetuto due volte, come di qualcosa di incompiuto e mai raggiunto) una vicenda di necessità senza tempo e d’attesa, di determinazione perenne, di ricerca inesauribile, di corsa indotta dal desiderio. Questa necessità, mossa dall’anelito sempre insoddisfatto, pone tutta la sua energia di continuità e resistenza nel minimo del segno o indizio metafisico sulla traccia segnata dalla «certezza». Dove si vede che «muestra» (‘prova’) e «señal» (‘pegno’) rinviano appunto a ciò che sta al posto di un’altra cosa e di essa è partecipazione e con essa è contiguità, metonimia e sineddoche innestate sulla fatica esistenziale e malessere dell’anima. Abbiamo definito per approssimazione l’inquieta ipertensione della «solitudine» dell’anima tutta compresa nel suo proprio élan interiore di ritorno a ripetere e coincidenza. Ed è molto importante tener presente questo modello di necessaria integrazione e drammatiche istanze da saziare, perché vedremo più avanti il ruolo che — con la dovuta relatività — viene ad assumere il sempre possibile del «demonio», che qui sembrerebbe specialmente arduo per brevità (o inesistenza) di spazio operativo o di interferenze. notiamo che, d’altra parte, il linguaggio stesso di santa Teresa, così limitato per la sua stessa natura analogica e così obbligato entro precisi vocaboli astratti e concreti d’ordine psicologico e morale, spirituale e sempre interiore, di tanto in tanto s’interrompe, s’incrina intimamente e lascia passare la parola demonio: pochissime volte, certamente, nell’ampio sistema della lingua delle Dimore; ma abbastanza spesso — come abbiamo già detto, soprattutto

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nelle prime dimore — pour cause — compare questa parola-situazione-figura, che, dopo lunghi e particolareggiati processi interiori, s’affaccia improvvisamente e sparge intorno le sue tenebre, il suo male, la sua inquietudine pericolosa nel fondo oscuro dell’anima-cammino... tornando alla situazione dell’anima, santa teresa ha tentato di descrivere una desiderata compattezza, perseguita con passione e costanza, e malgrado tutto questo difficile da mantenere («llevarse»). È un lavoro complesso e arduo di azioni e reazioni, spinte e controcorrente, soprattutto messo a repentaglio dallo sposo stesso, che incrementa la spirale del «desiderio». in quest’ambito di valori e forze diverse, d’affanno e di resistenze, di sforzo e tensione s’impongono ulteriori «travaglî» interiori ed esteriori, che spingono, cioè, dall’esterno e dall’interno, in direzioni contrarie, certamente, e, definitivamente, sempre esterne. santa teresa rappresenta l’anima come sommersa in quella sua solitudine metafisica, sebbene in squilibrio interno per la tensione fra libertà cercata e intimità mai raggiunta. La conciliazione, naturalmente, è in Dio («Ed è la causa per cui sta quasi sempre così vicino a Sua Maestà, che da lì le viene la fortezza», Ibid., 2, 404). Il «quasi» sembra insinuare quello spazio o minimo interstizio dove, come vedremo, potrà collocarsi il «nemico»; ma, al tempo stesso, esso è traccia di una piccola autonomia dell’anima, che, forse, è la sua possibilità d’errore o d’incertezza. Santa Teresa stessa dispone un quadro rapido e abbastanza perturbato delle perplessità dell’anima, in prima persona, diremmo, e con forte sentimento e passione. lo prova la frase esclamativa («Oh, m’aiuti il Signore e quanto sono[...]!», Ibid., 2, 404), che reca la traccia e gioco di specchi e rinvii, come spesso accade a santa teresa, alla sua propria partecipazione interiore e «composizione» — in senso ignaziano — integrale del «cammino», trascrizione reale delle tappe dell’anima ed ombre del percorso. come se la scrittrice uscisse da se stessa per valutare oggettivamente e con spietato e umile realismo difficoltà e debolezze. Di qui viene un forte chiaroscuro nella scrittura (e nell’esperienza), che accompagna l’anima e le anime nelle loro proprie debolezze e meschinità; ma senza approfittarne — come abbiamo visto che fa il «demonio» — e anzi, per suggerire i rimedî e le fonti di riscatto («fortaleza») oltre la «debo-

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lezza naturale» (che spesso Santa Teresa identifica come nemico non inferiore — o senza differenza — rispetto al «demonio»...). Incapacità effettive e pochezza di misure, timori, impossibilità, dubbî e parzialità di visione possono penetrare nel processo rigoroso del «cammino»: sono i tratti umani, le condizioni reali e oggettive dell’anima, ancora una volta nella direzione dell’umiltà, della fiducia in Dio. La pausa di Teresa («certamente alcune volte li considero [i travaglî esterni e interni da subire prima di entrare nella settima dimora] e temo che, se si capissero prima, sarebbe difficoltosissimo che la debolezza naturale si determinasse a poterli subire o che decidesse di sopportarli, per quanti beni le si rappresentassero», Ibid., Vi, , 2, 404) è di estrema importanza strategica, anche per quel fondo di semplicità disarmante e di rigorosa autocoscienza che non si nasconde l’autenticità dei pericoli, così come le limitazioni ad ogni istante dell’umano. C’è come una specie d’incoscienza e di non informazione nell’anima, una conoscenza non realizzata e inesperienza, ma anche un relativo «intendere» che del resto sembra procedere per inerzia sui generis — naturalmente! — visto che in qualche modo l’anima stessa sembra conoscere la necessità della «determinazione» («che la debolezza naturale si determinasse», «decidesse di sopportarli»), la cui quantità è possibile evidentemente mettere a rischio in alto grado di necessità. Nell’autocritica che qui Teresa si propone di fare, c’è di passaggio una riflessione sulla presenza e apporto delle potenze dell’anima: volontà, capacità di resistenza e anche accumulazione di passività da dimostrare o pesi da sostenere. costrizioni e violenze o anche semplici oppressioni aggrediscono l’anima (sono i «travaglî» già precedentemente descritti): «soffre», «soffrire», «sopportarli». l’anima, per teresa, deve bilanciarsi fra la possibilità effettuale («potere») e la volontà («decidersi»), ancor più forte quest’ultima per compensare i limiti della «condizione naturale»: è uno sforzo incredibile e al di là dell’umano («per quanti beni le si rappresentassero»), e che, inoltre, si presenta in quello snodo del «cammino» («se si capissero prima»). L’anima deve dimostrare la sua nobiltà in una zona nella quale tutto le si rivolta contro, e tutto le impone sofferenza e sopportazione passiva. La nobiltà di farsi vittima di oppressione, violenze, tormenti e sofferenze da sopportare e per le quali anche soccombere...

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La zona è precisa («fino a che non entra nella settima dimora», «se non fosse giunta alla settima dimora») e contrassegna un cammino sempre incerto e pericoloso di timori, certamente sul fondo, ma decisivi e funesti. Qui si colgono forse le tracce del nemico, non necessariamente satanico, riconosciuto e patente, ma non meno capace di contaminare e terribile di conseguenze e conclusioni. «dio» appare nominalmente e realmente ad ogni istante nella scrittura, come porto certo e «fortezza» — se l’anima non lascia spazî intermedi, luoghi dove possa penetrare il male con le sue forze contrarie («quasi sempre sta vicino a Sua Maestà»); ma possono mettersi nel mezzo moltissime possibilità, occasioni e situazioni con tutto il loro carico di scontri e rischî: la dimensione spaziale di quel «quasi» che già abbiamo visto si accompagna ad una non impossibile durevole interruzione, nella quale si sospende qualunque capacità di scelta e di agire di conseguenza nella maniera più totale: «de raíz» (‘radicalmente’, ‘con grande risolutezza’); solo nelle settime dimore tutto può placarsi, perché lì l’anima, ormai liberata di ogni timore, può risolutamente gettarsi tutta a soffrire per Dio («de arte que no se arroje muy de raíz el alma a pasarlo por dios», ‘che di conseguenza l’anima non si precipiti a soffrire con ogni risolutezza per dio’, Ibid.). Questa possibile interruzione s’oppone all’abituale urgenza teresiana, al suo azionismo «senza riposo» (cfr. I, 2, 9, 369). Lo stesso «se arroje» (‘si lanci’, ‘si getti’, ‘si precipiti’) ha una forte carica di propulsione e di tensione vitalistica, un’esplosione d’energia e slancio interiore di generosa e vigilante volontà di offrirsi e donarsi. L’impulso di proposta dell’anima è anche quanto a realizzare il nesso forza-distanza-obiettivo: e questo richiede tutto un insieme di valutazioni che spiega bene la vacillazione di santa teresa e i suoi timori in questo momento delicato e di profonda verifica di se stessa. Vogliam dire che la posta in giuoco è grossa e necessita di adeguamenti sicuri e di vigore indefettibile; quasi un pegno totale di sé in relazione al «guadagno» («E sebbene tutto sia poco in relazione a così grande profitto», Ibid., 1, 404). Di qui le difficoltà di Teresa («temo», «che lì ormai non si perde niente») e il giudizio realistico: «perché davvero sembra allora che tutto sia perduto». si tratta di un momento arduo nel quale l’anima non sa né misura bene i pericoli e nemmeno i vantaggi

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e non riesce a considerare la sua capacità di resistenza in proporzione a «simili grazie». ci troviamo ad un crocevia complicato, anche, perché l’anima è sola con se stessa: ha compiuto un’esperienza decisiva di Dio («certezza»), sente un «desiderio» sempre maggiore e, nello stesso tempo, dio si allontana da lei per accrescere tutte le sue potenze in modo che possa un’altra volta ripetere quella stessa esperienza. E resta sempre il vincolo della «terra» («ho molti dubbî che [le anime condotte per questo cammino] vivano libere dai travaglî della terra») che insegue le «anime che in certi momenti godono così davvero le cose del cielo»: fra cielo e terra, in solitudine e con la paura di distrarsi. Terra, cielo, Dio, travaglî, desiderio, umiltà, solitudine, ecc. rappresentano sempre un lessico naturale e, naturalmente, i termini giusti di un processo continuo che si svolge nelle vòlte dell’anima, capace d’accontentarsi di poco («prove», «segni»), ma internamente sollecitata verso i valori più elevati («grandi desiderî», «desideri di più», «il maggiore dei beni», «tutto è poco»; «così grande guadagno»). Su questi minimi supporti s’istituisce il «potersi mantenere» e anche la necessaria continuità del «cammino», garantita dalla «fortezza» divina; ma sempre son minimi di alta qualità interiore, in quanto sono contigui al divino. il discorso cambia radicalmente nel tentativo tutto esterno di un possibile minaccioso, che già s’affaccia in un ossimoro angoscioso: «perché davvero sembra allora che tutto sia perduto» (Ibid., 3, 404); come se, sul filo cangiante del rischio, si presentasse il più sordido dei «travaglî», che segnano l’anima sulle soglie delle Vi dimore e che s’aggiungono alla già penosa ricerca di sostegno e di difesa della «solitudine». Nel complesso dei «travaglî più piccoli» (Ibid., 4, 404), Santa Teresa offre una serie di figure di variati livelli che, dall’esterno, insistono in relazione a quella «solitudine» perturbata e dinamica. Prima di tutto, «le persone con cui tratta» e poi anche quelle «con le quali non tratta, ma che nella sua vita le sembrò che si potessero ricordare di lei»; tutta questa gente è attraversata da delle «grida» o «schiamazzi», o vocìo o rumore indifferenziato e triviale, un coro rumoroso di confusione e caos, suono mescolato e che stringe da presso l’anima con sovrapposizione d’inesorabilità («che [ ...] che [...] che [...] ») dove non si distingue il rimprovero assordante dell’accusa diretta, la

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sentenza dell’avvertimento, dell’ammonimento, dell’ammaestramento... Ed è impressionante il linguaggio che vuol definire colpe e gridarle e proclamarle; un linguaggio pure in antitesi e contraddizione, sempre aggressivo e senz’appello di ragioni e di scelte: «che si fa santa, che fa cose stravaganti ed esagerate per ingannare il mondo e per render gli altri malvagi, che sono migliori cristiani senza quelle cerimonie» (Ibid.). Si mescolano parole precise (santa, cristiani) e di pertinenza dell’anima e se ne contrappongono loro altre sinistre e piene d’ambivalenza (ingannare, cose stravaganti ed esagerate, cerimonie), nel segno dell’errore e dell’apparenza; come compaiono giudizî che implicano («migliori») una attribuita intenzionalità d’attivismo spurio e forse cattivo («per fare», «che fa», «che si fa») con evidente perversione riconosciuta e ipocrisia manifesta. d’altra parte, nelle frasi delle «grida» o degli ‘schiamazzi’ («grita») si coglie un altro azionismo verbale prevaricante e prevenuto, rabbioso e forse pieno di gelosia verso qualcosa che probabilmente non s’intende chiaramente o che si vuol intendere a rovescio. a questo punto, l’intenzione di santità o il comportamento cristiano sembrano non aver più pienezza di definizione e verità. E tutto viene perturbato da una gridata malafede o per ignoranza. si perdono concetti e fatti, modi di vivere e impostazioni dell’anima, ragioni intime e personali, libertà e scelta coerente: davvero, «sembra che tutto sia perduto», in un babelico rimescolio di suoni senza senso, quasi un inganno collettivo o lettura viziata o non saputa e non intesa di una situazione diversa. equivoci e cattive informazioni, dunque, in queste accuse d’isolamento ed astrazione, artificio ed eccesso, falsificazione ed allontanamento superbo per elevare a dignità o presunta santità qualcosa che sembra formalismo o rituale ricercato; mentre, da parte di teresa, si parlava di «solitudine» e discrezione e riserbo, esclusività interiore e «desiderio», ansia di «godimento» sperimentale e metafisica «certezza», di cui abbiamo già ampiamente parlato. si tratta, forse, di persone che intuiscono ma, al tempo stesso, rifiutano la particolarità di un sacrificio autentico e inimitabile (o molto difficilmente): si sente nelle parole citate da Teresa l’ignoranza e la grossolanità di chi, dal di fuori, sembra odiare la stessa spiritualità e il rigore altrui e li indica come alterezza o affettazione, come di chi

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cerchi una diversità come pretesto, ma una diversità da poco, solo per distinguersi dagli altri... e si sottolinea, da parte dei critici, l’elemento apparente del comportamento censurato; senza rendersi conto che a loro accade la stessa cosa, quello che viene giudicato presuntuoso è forse ciò che sembra impossibile per la media comune e, allora, si vede in esso ciò che c’è di pericoloso in senso sociale e collettivo (come succede al Cristo che passa davanti al «Grande Inquisitore» di Dostoevskij...). Santa Teresa ci sembra sempre più lontana, anche nella sua attuale autodifesa, quando tenta di spiegare con parole semplici la sua propria discrezione, soprattutto, come protezione della sua tranquillità personale (o ansia) interiore: «E si deve notare che non c’è nessuna [cerimonia], se non il cercare di tutelare bene la propria condizione». E Teresa non fa, in fin dei conti, altro che ribadire i punti che qualificano la sua vicenda in modo imprescindibile: «cercare», che è il segno dell’impegno; «tutelare», che è la difesa e la conservazione; «condizione», che è la sua specialissima situazione e che non si può facilmente giustificare da parte di chi «non ne fa esperienza». successivamente, santa teresa passa dalle perifrasi ad una categoria di persone più prossime, ad un cerchio più vicino: non gli «amici» ma coloro «che considerava amici». C’è qualcosa di più immediato e meno vago nelle sue relazioni con loro: c’è una conoscenza e un giudizio, un pensiero e una speranza o certezza, o, ad ogni modo, una considerazione, una valutazione, ecc. Più drammatico, allora, il discorso nel caso di chi compie gesti, pronuncia frasi, adotta atteggiamenti diversi e tutti quanti che solcano l’anima: «s’allontanano da lei» con decisione che costa sofferenza a chi la riceve («sono quelli che le dànno il morso migliore»), mentre Teresa sottolinea tristemente quel grado di valore completamente rovesciato nei suoi effetti («migliore»). Son persone che mangiano l’anima e che s’allontanano per non partecipare, per non mescolarsi o confondersi, per non esser obbligate a entrare in qualche cosa che non si conosce ma che potrebbe compromettere profondamente per tutta la vita: e, nello stesso tempo, con il giudizio, con l’accusa, quella gente sembra voler penetrare più direttamente dentro quell’anima: ‘morso’ («bocado») è il segno di un avvenimento viscerale e senza rispetto per l’annullamento della vittima designata. Un

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atteggiamento che dimostra rancore, come di chi si sente tradito e si vendica con una violenza senza scampo, con maggior sofferenza per l’anima già fortemente provata dentro di sé («ed è ciò di cui soffrono assai»). Il ‘vocìo’ o ‘schiamazzo’ delle ‘grida’ («grita») si manifesta con una serie di ulteriori particolari, assume toni di sarcasmo e beffa («mofas» — ‘burle’), rumori di labbra e suoni di scherno, parole sdegnose di scherzo greve («mofas» e «dichos» — ‘burle’ e ‘insulti’) con cadenza ossessiva e anaforica («che [...] che [...] che [...] che [...]») nel clima della perdizione, nel segno dell’inganno, perdita della virtù e con rappresentazioni esemplari — una specie di drammatizzazione didattica a rovescio. si compromettono anche i confessori, con casi di delazione e moralismo di pregiudizî, dentro un’agitata e congestionata esaltazione di tragiche profezie fino a perdere le caratteristiche verbali che si consumano con accelerata confusione (‘mille modi’). ‘«Perduta», «ingannata», « si è perduta», «cada», «ingannati», «si sono perduti»: un universo frastico sinistro e inquietante di mostri e fantasmi («quella e l’altra persona che si è perduta», «alcuni che si sono perduti per questa via») in drammatica processione e denuncia di «occasioni» pericolose e già sperimentate di caduta e di condanna. Lo stesso che dire che, attorno all’anima assorta nella «ferita» mistica, si delinea un vero inferno verbale annunciato in opposizione alla ricerca interiore di unità perfetta e chiara nello «sposalizio» mistico. E qui, finalmente, sempre con molto ritardo rispetto alle manifestazioni già lungamente predisposte dai «travaglî», dal «vocìo» o «schiamazzo» delle «grida», le «burle» e «insulti»; ma, specialmente, per mezzo della descrizione di timori, allusioni a difficoltà, segni di dubbio, rinvii a possibili patimenti, ecc., tutto questo, a questo punto, riceve il suo vero nome «cose del demonio». la frase appare nel «vocìo» e negli «insulti», non appartiene propriamente a santa teresa e al suo modo di parlare in questa situazione. lo spettro demoniaco viene evocato dagli «amici», dalle «persone con cui tratta e anche con quelle con cui non tratta», cioè, dal prossimo circostante e che copre con un velo demoniaco le sottili e ardenti operazioni dell’anima legata al «desiderio» dello sposo. teresa sembra uscire francamente all’aperto del drammatico tunnel del «cammino» nelle sue più intime evoluzioni e dentro la più radicale e

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profonda esperienza del divino: rivela le sue paure e i suoi sconcerti, le perplessità, le compunzioni e le resistenze, il correre per il raggiungimento dei minimi indizî del divino: e al di fuori trova chi l’avvolge nelle spire del «demonio» e ad esso la rimanda come al perno di ratifica e di giustificazione, come all’interprete accreditato e contemporaneamente origine di un modo di comportarsi visibilmente anomalo e scandaloso. il «demonio», naturalmente, non ha nessuna ragione per essere evocato e fatto comparire come un oscuro spaventapasseri beffardo, ispiratore di atteggiamenti e di modi alieni considerati improprî e diversi, e, piuttosto, incomprensibili e per questo giudicati repellenti. È evidente che il satanico lascia qui un’orma inconfondibile e di notevole importanza per produrre drammatici equivoci. Il «demonio non è presente, ma dedotto, temuto e voluto e imposto come chiave di volta di un sistema rifiutato; forse come protezione di una falsa virtù, certamente di una falsa prospettiva, non di una valutazione oggettiva delle cose. Qui, il mistico nascondimento, il preoccupato e distanziante «godere», la sollecitudine unica del divino, il «desiderio» di dio sono, per il «demonio», termini terribili di confronto e molto più allarmante allontanamento delle anime dalle sue segrete operazioni: ed ecco una falsa immagine, una sentenza d’esclusione per coloro che son posseduti da dio, e, invece, son considerati prede diaboliche coloro che anelano alla totalità mistica. Forse questo potrà essere — nei pochi esempî analizzati — un buon campionario delle possibilità demoniache (o del nemico nelle sue diverse forme e trasformazioni e maschere) messe in atto e realizzate contro chi ama Dio e da Dio è accresciuto nell’amore.

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il triangolo dEllE volontÀ nEl «prologo» dElla «vita» di santa tErEsa d’Ávila

la scrittura di santa teresa, per qualunque delle sue opere — dalle Moradas del castillo interior al Libro de las Fundaciones, dal Camino de perfección alle Meditaciones sobre los Cantares, Cuentas de conciencia, Libro de la vida, ecc. — si colloca in tutta la sua amplissima e coerente attività di monaca, di riformatrice dell’Ordine carmelitano, di fondatrice di conventi (15), di scrittrice dell’esperienza e della didattica mistica — sia pure, sempre, come risposta fedele d’ubbidienza ad altrui richieste (confessori, consorelle, ecc.) — con la stessa valenza d’impegno integrale di servizio a dio e alle anime. e, davvero, ognuna delle diverse espressioni va considerata dentro quella speciale dimensione e misura. il libro della Vita (terminato nella redazione attuale nel 1562), per parte sua, costituisce, comunque, l’asse diretto e privilegiato dell’esperienza centrale teresiana, perché — sebbene qualsiasi scrittura teresiana sia sempre precisamente autobiografica di coscienza sperimentale — qui, appunto, la Santa non può sottrarsi ad esser lei stessa, nella sua propria vicenda, la protagonista immediata; almeno nell’ipotesi iniziale, perché, come vedremo, anche in questo caso ella tenta in tutti i modi di porsi nella direzione più obliqua possibile. Del resto, l’opera va nettamente divisa in una sua parte iniziale (capp. 1-10), intenzionalmente fermata e separata dalle successive con una forte motivazione in prima persona e aperta di volontà netta e responsabile, quasi a mettere un limite — oggettivo o soggettivo non importa — di percorso esistenziale-spirituale e mistico di schietta autodenuncia e rivelazione della verità del «camino» di fronte a se stessa, prima ancora che davanti ai proprî lettori — «hijas» e «hermanas» (‘figlie’ e ‘sorelle’), in un primo tempo come affettuosissimo pubblico speciale di mirata necessità («le necessità che hanno

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che qualcuno che chiarisca loro alcune cose di quello che accade tra l’anima e nostro signore», Meditaciones sobre los Cantares, 1, 1) . nello stesso tempo, santa teresa intende rivolgere una segnalazione inequivocabile (e, per sé, obbligo morale rigorosissimo) agli stessi mandanti (i confessori) della scrittura, perché, trattandosi di parlare del bene ricevuto, da parte di Dio, da persona immeritevole (lei stessa), non c’è bisogno di rivelare l’identità di questa stessa; mentre, nella prima parte, dovendosi dire del male compiuto dalla stessa persona, era necessario parlare apertamente (cfr. Vita, 10, 7-8): supplico per amor del Signore, che quello che ho detto fin qui della mia sciagurata vita e peccati lo pubblichino (fin da ora do licenza, e a tutti i miei confessori, che così sia a chi questo è diretto)[...] Quanto a quello che da qui in poi dirò, non la do [la stessa licenza], né voglio, se a qualcuno mostreranno questi scritti, che dicano di chi sono, per chi sono accadute queste cose, né chi le ha scritte, e per questo non metto il mio nome, e a nessuno siano consegnati, ma scriverò meglio che posso in modo da non esser riconosciuta, e così lo chiedo per amor di Dio. Bastano persone tanto colte e gravi ad autorizzare qualche cosa buona, se il Signore mi darà la grazia per dirla, che se lo sarà, sarà Sua e non mia[...] ad ogni modo, il dire il mio nome non porta nessun vantaggio; in vita è chiaro che non si deve dire il bene, in morte non c’è alcuna ragione, se non affinché perda autorità il bene e perché non gli sia dia nessun credito essendo detto da persona così vile e così sciagurata.

notiamo, di passaggio, che, subito dopo questa dichiarazione particolareggiata e netta di limitazioni, prospettive e orientamenti di lettura e spirituali valutazioni, santa teresa pone subito una sorta di vincolo invalicabile che ristabilisce naturaliter l’arduo orizzonte di verifica personale per ogni lettore — oltreché per ogni anima che venga o voglia avvicinarsi — se non a frequentare — a quello stesso percorso («Per quanto chiaramente io voglia dire  Per quanto riguarda i testi citati attingiamo a santa teresa de Jesús, Obras completas / edición manual / Transcrip., introd. y notas de eFrén de la Madre de dios, o.c.d. y otGer steGGink, o.carM., B.A.C, Madrid 19796; per la Vita ricorriamo ad una nostra trascrizione dal ms. autogr. presso il Monastero del Escorial — le traduzioni sono nostre. (qui, MC, p. 334). Per il testo del Prologo daremo in nota la versione originale in lingua castigliana per ragioni di correttezza scientifica; avvisiamo, comunque, che la traduzione è intenzionalmente in funzione di una mera intelligibilità erga omnes del contenuto e non della forma autentica del testo stesso.

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queste cose d’orazione, esse saranno ben oscure per chi non ne avrà esperienza», Ibid., 9). Ed «espiriencia» è la parola chiave di tutta l’opera teresiana, nonché rassicurante guida e garanzia, specialmente per il lettore odierno, che sa già tutto, a cui l’evoluzione epistemica sembra non più consentire tale sostegno indispensabile... ebbene, per rimanere qui, anche noi — per ragioni cronotopiche — nei nostri autorizzati confini, vogliamo attingere solo al breve Prologo della Vita, in cui ravvisiamo, d’altra parte, per così dire, i tratti essenzialissimi e già ben sufficienti della scrittura teresiana globale quanto agli atteggiamenti e punti di vista, reazioni e movimenti spirituali che ad essa scrittura sovrintendono, ne costituiscono le mozioni decisive e i paradigmi fondamentali; nonché le forze operanti prima e durante l’esercizio di attuazione della scrittura stessa: . io vorrei che, siccome mi hanno dato mandato e dato ampia licenza affinché scriva il modo d’orazione e le grazie che il Signore m’ha fatto, me l’avessero data affinché, molto particolareggiatamente e con chiarezza, dicessi dei miei grandi peccati e della mia vita sciagurata. Mi avrebbe dato una grande consolazione; ma non hanno voluto, anzi mi hanno vincolato molto in questa circostanza. 2. e per questo chiedo, per amor del signore, che chi si troverà a leggere questo discorso della mia vita, tenga davanti agli occhi che essa è stata così sciagurata che non ho trovato nessun santo, di quelli che si volsero a dio, con cui consolarmi; perché osservo che, dopo che il Signore li aveva chiamati, non tornavano ad offenderlo. io non solo tornavo ad esser peggiore, ma sembra proprio che io mi applicassi specialmente a resistere alle grazie che sua Maestà mi faceva, come chi si vedeva obbligare a servir di più, e capiva perfettamente che non poteva pagar meno di quanto dovesse. 3. Sia benedetto per sempre, poiché tanto mi aspettò, e che supplico mi dia la grazia affinché con ogni chiarezza e verità io faccia questa relazione che i miei confessori mi ordinano; e anche il Signore io so che la vuole da molti giorni, ma io non ne ho avuto il coraggio; e che sia per la sua gloria e lode, e affinché, d’ora in avanti, conoscendomi meglio, aiutino la mia debolezza affinché possa servire in qualcosa rispetto a quello che debbo al signore, che sempre sia lodato da tutte le cose. Così sia 2. 2 “Quisiera yo que, como me han mandado y dado larga licencia para que escriba el modo de oración y las mercedes que el Señor me ha hecho, me la dieran para que, muy por menudo y con claridad dijera mis grandes pecados y ruin

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Osserviamo che, subito all’inizio del testo, è esibito l’impulso primario («Quisiera yo») che, seppure invertendoli, innesca ambedue i paradigmi del soggetto e, appunto — in passato, almeno, per indicare la trascorrenza dei tempi — il segno della voluntas (‘Avrei voluto io’), che, per esser precisamente in passato, indica immediatamente come tale principio, fortemente connotante dell’umano esserci, abbia già avuto un esito drasticamente negativo. Ma la voluntas, prima di esprimere o ammettere la propria frustrazione, non può far a meno di esporre chiaramente tutto il proprio percorso attuato o meno; d’altra parte, il soggetto non rivelato di «me han mandado», oltre al «mandado», ha consentito, oggettivamente («dado» non ha limiti in sé di ciò che vien dato), limiti indefiniti («larga», ‘amplia’) di ‘facoltà’, ‘liceità’, ‘permesso’ («licencia») di scrittura finalizzata, comunque, ai due aspetti determinati: il «modo de oración» e le «mercedes»; la maniera, riservata all’uomo, la misura e, se vogliamo, la tecnica, i tempi, lo stile, ecc. dell’«oración»; e le «mercedes», riservate a dio, i due estremi parametri del dialogo e del rapporto fra la persona, l’anima e la Divinità. Si aggiunge, inoltre, da parte di santa teresa, un elemento certo, storicamente avvenuto — forse anche concluso una volta per sempre... ad ogni modo, assolutamente immune da qualsiasi dubbio possibile: «el señor me ha hecho» —. e qui i tre paradigmi: «el señor» — di cui solo teresa conosce i termini del contenuto, spazî, tempi, articolazioni e manifestazioni, sostanza d’espressione, ecc. ... E noi, per oggettività, ne prendiamo atto e ci asteniamo da prender posizione. «Me» è il semplice e netto rinvio pronominale (dativo) della II persona — e qui il riferimento è ovvio; e «ha hecho» è il certo dell’azione concreta («hecho», ‘fatto’) sia pure vida. Diérame gran consuelo; mas no han querido, antes atádome mucho en este caso. // 2. Y por esto pido, por amor del señor, tenga delante de los ojos quien este discurso de mi vida leyere, que ha sido tan ruin que no he hallado santo, de los que se tornaron a Dios, con quien me consolar; porque considero que, después que el Señor los llamaba, no le tornaban a ofender. Yo no sólo tornaba a ser peor, sino que parece traía estudio a resistir las mercedes que su Majestad me hacía, como quien se vía obligar a servir más, y entendía de sí no podía pagar lo menos de lo que debía. // 3. Sea bendito por siempre, que tanto me esperó, a quien con todo mi corazón suplico me dé gracia, para que con toda claridad y verdad yo haga esta relación que mis confesores me mandan; y an el Señor sé yo lo quiere muchos días ha, sino que yo no me he atrevido; y que sea para gloria y alabanza suya, y para que de aquí adelante, conociéndome ellos mijor, ayuden a mi flaqueza para que pueda servir algo de lo que debo a el Señor, a quien siempre alaben todas las cosas, amén.”

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indeterminata di luogo e tempo, quantità e qualità, ecc. Ma sono queste, d’altra parte, le vere e proprie indicazioni che dovranno promuovere, istituire e svolgere l’opera sul versante dell’azione di dio. santa teresa, dunque, mentre narra storicamente finalità («para que», ‘affinché’) e contenuto generico della sua mozione di scrittura, premette loro la traccia di una volizione che avrebbe avuta l’intenzione chiara di orientare, in qualche modo, l’ordine e il mandato, l’autorizzazione e la facoltà («me la dieran», ‘me l’avessero data’): e non è, il suo, un intervento di poco conto! Prima di tutto è, di fatto, una questione di grande analiticità e di esattezza e di onestà di linguaggio della scrittura («muy por menudo y con claridad dijera»), il che la dice tutta sulla sottostante claridad, anche espressa, dell’apertura — e rivelazione sull’anima e dell’anima — al reale contenuto, qualità e autodefinizione dell’anima stessa, vita e stato di coscienza in negativo e senza attenuanti o limitazioni («mis grandes pecados y ruin vida»). E si tratta qui — come documentano opere, lettere e testimonianze — di un’autodefinizione di coscienza e d’umiltà — pacatamente ripetuta fino all’ossessione — ma anche di realistica certezza (per S.Teresa, naturalmente e per lei sola!...) delle proprie autentiche situazioni e temperie morale... del risultato per sé la Santa è certissima: «Diérame gran consuelo» (‘mi avrebbe dato una grande consolazione’). (Notiamo, fra l’altro, come Santa teresa ami insistere spesso sulla connotazione quantitativa delle sue valutazioni, come traccia morfologica del pathos di partecipazione, anche emotiva, al proprio linguaggio e contenuto («muy por menudo», «mis grandes pecados», «gran consuelo»). Tanto più vale questo rilievo se lo confrontiamo con le due frasi che concludono il primo lungo periodo del Prologo: «mas no han querido», «antes atádome mucho en este caso». nella prima, sotto la spinta della congiunzione avversativa-conclusiva, si sigilla seccamente, senza commento, la fine storica, senza residui né ripensamenti, del proprio disatteso impulso volitivo: «Quisiera yo [...] mas no han querido», senza soggetto espresso e nessuna aggiunta alla semplice notizia, nessun commento; e la vicenda è chiusa nell’enunciato oppositivo e negativo. E basta, per concludere la prima parte della premessa e per dichiarare — sul primo lato del triangolo delle voluntates

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— senza particolari né discussioni, motivazioni od altro, la fine della propria espressione di volontà, appunto, in quanto la sentenza la esclude, non ne tiene affatto conto. anzi, quel delicato alzarsi volitivo e condizionato («Quisiera», ‘avrei voluto’) viene totalmente rigettato e annullato dalla forza e autorità del mandante / -i («han mandado») che, non solo si oppone al «quisiera yo» — il piccolo «yo» non viene tenuto in nessun conto — ma, anzi, lo vincola fortemente, sia pure «en este caso»: «antes atádome mucho». Tout court. certamente, santa teresa non desiste, allora, dal ribadire le sue convinte nefandezze e, scavalcando i limiti, si affretta a rivolgersi direttamente al Lettore, sia pure eventuale («leyere», ‘si trovasse a leggere’), e con grande affanno di raccomandazione e di preghiera di vigile attenzione: «Y por esto pido, por amor del señor, tenga delante de los ojos quien este discurso de mi vida leyere, que ha sido tan ruin». e le ragioni, secondo lei, sono decisive: . la non conformità coi santi, i supremi modelli tantissimo osservati e invocati, sia pure nelle loro stesse inflessioni anche di possibile debolezza («que no he hallado santo, de los que se tornaron a Dios, con quien me consolar; porque considero que, después que el Señor los llamaba, no le tornaban a ofender»); di passaggio, vediamo il ribadito bisogno di «consuelo»: «Diérame gran consuelo», «con quien me consolar». «Ofender», «yo no sólo tornaba a ser peor»: sono solo due dei mali che Santa Teresa si attribuisce; più grave, per lei, evidentemente, il sotteso rigurgito di altra e negativa voluntas non aperta, ma, anzi, sapientemente occultata in una intenzionale e studiata resistenza e opposizione in negativo: «sino que parece traía estudio a resistir las mercedes que su Majestad me hacía». È qui il punto delicato per santa teresa: come poteva lei, con la sua resistenza (traccia remota per voluntas) alle «mercedes», voluta, anzi, intensamente e deliberatamente e studiosamente contemplata e realizzata e, addirittura, con consapevole ripulsa di una obbligazione di misura insopportabile («como quien se vía obligar a servir más») fortemente confermata, avere un rapporto equilibrato con dio e parlarne ad altri nel modo giusto? Anche se, forse, solo per umiltà di inadeguatezza e sproporzione («y entendía de sí no podía pagar lo menos de lo que debía»). E noi vogliamo mettere in

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evidenza come il lungo secondo periodo del Prologo non intenda tanto fare una questione di misure («servir más», «pagar lo menos») tra offerta e risoluzione del debito..., quanto ampiamente documentare la motivazione della voluntas iniziale di santa teresa circa la scrittura e la valenza negativa di se stessa (il lungo raffronto e la ricerca dei modelli santi, l’analisi e la valutazione delle risposte di rigetto circa le «mercedes»). In definitiva, il suo cattivo («ruin») rapporto con dio generoso, che senza ambagi operava concretamente e sempre direttamente a suo favore: «las mercedes que su Majestad me hacía». e si tratta di quel dio che risulta il naturale protagonista della terza parte del Prologo stesso, al Quale vanno le invocate benedizioni di Santa Teresa («sea bendito por siempre»): prima di tutto, per il tempo che, analogicamente, dall’eterno, elargisce alla Santa («que tanto me esperó») e proprio a lei, per la soddisfazione dell’obbedienza ai mandanti, che ora sono apertamente qualificati come «mis confesores», coloro, dunque, che «no han querido», facendo saltare il tentativo della voluntas teresiana circa la propria scrittura. ogni cautela di santa teresa e ogni sua deliberata mozione di verità rimangono, comunque, intatte e, appunto, nella fissazione del suo rapporto con il Divino si fa ancora più preciso e vincolante nei due sensi — nella preghiera forte ed appassionata della Santa («con todo mi corazón suplico me dé gracia») e nella invocata risposta di Dio in totale sintonia — il fine proposto e ancora valido e forse più obbligante ancora della scrittura: «para que con toda claridad y verdad»: sparisce il «por menudo» e compare senza alcuna remora la «verdad» in ottemperanza al mandato («yo haga esta relación que mis confesores me mandan»: il verbo «mandar», ‘comandare’, non subisce nessuna modifica né attenuazione). Ma qui si amplifica ancor meglio il sistema, divenuto, a questo punto, triangolare, delle Voluntates: alla volontà dei mandanti e a quella di santa teresa si aggiunge la ben certa — anche sostenuta sull’asse della piena consapevolezza dell’io («sé yo») — e definitiva volontà di Dio in un presente verbale fortissimo e acrono («y an el Señor sé yo lo quiere»), che entra decisamente nel tempo e nella scrittura sia pure in significativo contrasto di indefinita temporalità: «muchos días ha» (‘da molti giorni’). Semmai, affiora il fatto nuovo che la terza

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volontà — quella di Dio — è naturalmente destinata a vincere le ultime resistenze di santa teresa, questa volta per umiltà («sino que yo no me he atrevido», ‘se non che io non ho osato’) e ciò avviene — crediamo noi — perché la Scrittrice coglie la più vera e assolutamente urgente delle finalità e delle motivazioni: delle due finalità svelate la seconda riprende un poco quella già per due volte sostenuta, il fondamento negativo della carenza teresiana («conociéndome ellos [i confessori] mijor, ayuden a mi flaqueza»); per quanto, a sua volta finalizzata, non già alla semplice denuncia della «flaqueza», ma anche a ricevere i mezzi della propria volontà di servizio. La prima finalità proposta è quella generale e globale ma, soprattutto, essenziale: «y que sea para gloria y alabanza suya», magari nel concerto francescano della lode universale di tutte le cose («a quien alaben todas las cosas»). Ultimo aspetto centrale di questo Prologo, tutto svelato e propositivo di tutta una serie di situazioni psicologiche e mistiche che opereranno sempre in tutte le scritture — e nella vita di Santa Teresa —, è, finalmente, l’aver superato la Santa ogni sua remora e difficoltà, come ogni intenzione aperta e riflessa di resistenza, per accedere sia al servizio di Dio, sia al rapporto quantitativo esatto e indefinito insieme secondo le forze (o la «flaqueza»?) a disposizione, ben consapevoli della distanza senza termini di definizione e del quantum di tale servizio, sulla base della misura inequivocabile dell’humildad. aveva detto santa teresa: «entendía de sí no podía pagar lo menos de lo que debía», ‘capiva che non avrebbe potuto pagare meno di quanto dovesse’; e ora, con esatto senso del limite — una volta chiarite le mosse opportune quanto all’esercizio reciproco delle tre Voluntates — con corretta valutazione: «para que pueda servir algo de lo que debo a el Señor» — ‘affinché possa servire qualcosa rispetto a quello che debbo al signore’.

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l’ “inno” a santa tErEsa di richard crashaw

avvicinarsi direttamente al testo di un poeta come Richard Crashaw (1612-1649)* avendo, come supporto dialettico di verifica, vita, figura e scrittura di Santa Teresa d’Ávila, può costituire un interessante modulo di sondaggio comparatistico . oltretutto, l’autore, inglese, anglicano convertito, scrive nei suoi ultimi anni di vita (prima del 1646, data della prima pubblicazione dell’Hymn), cioè, oltre 60 anni dalla morte della Santa (e a 24 dalla canonizzazione) e secondo svariate e assai complesse coordinate, che ci possono fornire i sufficienti caratteri di oggettiva distanza rispetto al tema e alle sue rappresentazioni reali e simboliche. Tutto il poema, vedremo, si articolerà secondo l’immagine critica — nonché figura retorica — della “bilancia barocca” 2, e precisamente, su un rapporto di doppia valutazione tra elementi (o situazioni) diversi, anche eterogenei, con equilibrio possibile o sproporzione di qualità o quantità, dimensioni e peso specifico, dove, però, i valori sono rovesciati, e ai dati minimi si corrispondono valori * Alla carissima collega ed amica, Grazia Caliumi, in felice ricordo dei bellissimi e condivisi anni parmensi (1980-1984).  e parliamo qui, secondo la teoria comparatistica di oreste Macrí, di comparatismo “esterno”; cfr. Varia fortuna del Manzoni in terre iberiche (con una premessa sul metodo comparatistico), Longo, Ravenna 1976; Il Foscolo negli scrittori italiani del Novecento / Con una conclusione sul metodo comparatistico e una appendice di aggiunte al “Manzoni iberico”, Longo, Ravenna 1980; e, inoltre, il nostro Il Manzoni in Spagna e il metodo comparatistico di O.M., in “Istruzione Tecnica e Professionale”, n.s., a. XIV, n. 55, 1978, pp. 141-147; e La metodologia comparatistica di O.Macrí, in “sallentum”, n. 3, settembredicembre 1981, pp. 33-62; ora, in Per Oreste Macrí, atti della giornata di studio, Firenze 1994, Bulzoni, Roma 1996, pp. 339-361; per il testo di Crashaw usiamo Poeti metafisici inglesi, a c. di R.Sanesi, Guanda, Parma 1961. 2 Cfr. V. Bodini, Studi sul barocco di Góngora, edizioni dell’ateneo, roma 1964: Bodini parla propriamente di “bilancia gongorina” (Modello di bilancia gongorina, pp. 79-111), ma noi prendiamo l’immagine in accezione più ampia. 3 abbiamo dato un esempio della “sproporzione”- con necessario rilievo

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massimi, reali e simbolici, e anche viceversa 3. Già nell’intestazione, a confronto con l’ampia dedica, p.es., si può cominciare il rilievo della contrastività delle misure e dei criterî valutativi e prospettici di Crashaw; per i quali, addirittura, quasi ogni figura che compare nei versi viene ad eccedere rispetto ai proprî confini statutari, integrando con tali superamenti le caratteristiche e i fattori principali su cui posano le rispettive definizioni date dal Poeta. a Hymn / to the name and honor of the / admirable saint teresa:

qui, in limine, troviamo, da un lato, il genere specifico del canto composto dal poeta — l’“inno” — che è canto di speciale elevazione e solennità, fervido di lode ed esaltazione fino alla tonalità religiosa e rivolto alla più alta ed entusiastica celebrazione di santa teresa. e, non a caso, dall’altro lato, il poeta segnala subito il carattere della santa “admirable”, chiarendone l’alone di meraviglia e di prodigioso stupore con cui ne intende circondare il “name” e l’“honor”; il primo essendo, semplicemente, l’immediato ed elementare e necessario termine di riferimento generale e sintesi di lode ammirata che avvolge l’intera persona (vicende e immagine) della Santa stessa. E “honor” è l’atto di riconoscimento della valenza totale di cui viene rivestita e a cui viene rivolto l’inno di omaggio con tutta la sua carica di tributo di supremo rispetto e venerazione. Ma, diciamo pure, sta operando il poeta nel puro ambito nominalistico generico ed esterno di devotissimo culto celebrativo di una santa. Sarà la “dedica”, invece, a ristabilire, coi dovuti particolari autentici ed oggettivi — o di giudizio dell’autore — l’equilibrio tra i termini che abbiamo chiamato esterni o esteriori e le reali attribuzioni concrete della persona santa che motivano l’Inno. e tali particolari servono, piuttosto, a indicare i valori attivi e di supporto effettivo oggettivamente utili per costruire la figura voluta della santa abulense. Cosí, “Foundress” è proprio di chi viene a costituire le — in un nostro studio su Francisco de Quevedo e i suoi “auctores”: miti, simboli e idee, Alinea, Firenze 1997, p. 99, 99n.

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fondamenta di un edificio e, per di più, qui si è trattato di porre la base per una costruzione pre-esistente — quindi, già solidamente fondata, ma che viene riconosciuta come necessaria di una nuova forma, che, fra l’altro, va mirata al rinnovamento di un grande ordine monastico, “of the reformation of the discalced carmelites”, nella sua condizione integrale e completa (“both men and women”). Ed è questa un’informazione accettata e proclamata dal poeta con un enunciato netto ed essenziale, volutamente espresso in tutta la sua esatta definizione. E, se già è ipotizzabile osservare che per crashaw, probabilmente, il “Foundress” è un carattere attribuibile solamente ad un uomo (costruttore, e fondatore e riformatore per costituzione...), sarà proprio il fatto che la riforma ha contemplato “ambedue uomini che donne” a richiedere che l’aderente apposizione della frase “a Woman” vada al di là di un semplice appellativo per aprirsi ad una più ampia e forte definizione del termine. ed ecco, allora, che crashaw si trova a dover/voler caratterizzare in senso speciale il riferimento a teresa, ora qualificata nella particolare sua natura e qualità sfuggenti ai consueti confini lemmatici della donna: “a Woman / for angelical height of speculation, / for Masculine courage of performance”. le due frasi sono esattamente parallele dal punto di vista della disposizione sintattica come dei categoremi (o parti del discorso), ma si espandono su due piani diversi — non a contrasto, ma con valore accumulativo — uno verticale “angelical” che trascende i limiti sia maschili che femminili per elevazione di pensiero e logica di sviluppo ed elaborazione del giudizio come di ogni processo della mente — . E l’altro orizzontale o terreno — ma fino ad un certo punto... — che rileva nel “courage”, evidentemente, una qualità propriamente maschile, per di più rafforzata dalla concretezza esecutiva e di azione portata a termine nella sua pienezza (“Foundress”, “both”). E tutto questo, già eccelso di per sé, perché messo in evidenza, innalza ancora di più la figura di S. Teresa “admirable” e “santa”, ma, soprattutto, posta sulla più alta vetta di se stessa e della propria condizione di donna “more then a woman”. Tutto questo sovrapporsi di qualità assolutamente esaltanti intorno al “name” e all’“honor” spiega benissimo l’“Hymn” col suo alone tesissimo di meraviglia (“admirable”) che fa superare da parte di Teresa ogni altra donna:

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più che donna, angelo e uomo... E abbiamo qui, dunque, il primo carattere di teresa, il more then della sua figura rispetto ai comuni parametri umani assegnati ad un essere di natura femminile... Più da vicino, ancora, Crashaw individua in tutta quanta la vicenda umana di santa teresa, forse, il nucleo portante che la orienta lungo tutto il cammino della sua vita: “Who yet a child / outran maturity, and durst / plot a Martyrdom”. si tratta di un punto preciso della vita di santa teresa da essa stessa raccontata nel “discurso de su vida”, proprio agli inizî del cammino auto-biografico: cap. I, 44 Pues mis hermanos ninguna cosa me desayudaban a servir a Dios. Tenía uno casi de mi edad (juntábamonos entramos a leer vidas de santos), que era el que yo más quería, anque a todos tenía gran amor y ellos a mí. como vía los martirios que por dios las santas pasaban, parecíame compraban muy barato el ir a gozar de dios, y deseaba yo mucho morir ansí, no por amor que yo entendiese tenerle, sino por gozar tan en breve de los grandes bienes que leía haber en el cielo. Y juntábame con este mi hermano a tratar qué medio había para esto. Concertábamos irnos a tierra de moros, pidiendo por amor de dios, para que allá nos descabezasen; y paréceme que nos daba el Señor ánimo en tan tierna edad, si viéramos algún medio, sino que el tener padres nos parecía el mayor embarazo. Espantábanos mucho el decir que pena y gloria era para siempre, en lo que leíamos. acaecíanos estar muchos ratos tratando de esto y gustábamos de decir muchas veces: “¡para siempre, siempre, siempre!” en pronunciar esto mucho rato era el señor servido me quedase en esta niñez imprimido el camino de la verdad. / 5. de que vi que era imposible ir adonde me matasen por Dios, ordenábamos ser hermitaños 5.

crashaw non fa caso, naturalmente, al particolare dei 4 Per il testo teresiano della Vida, citiamo da una nostra trascrizione dal ms. originale autografo conservato presso la biblioteca del monastero agostiniano dell’Escorial; per le altre opere, cfr. Santa Teresa de Jesús, Obras completas, Transcr., introd. / Y notas de Efrén de la Madre de Dios, O.C.D. y Otger Steggink, O.Carm., Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1979; diamo sempre le nostre traduzioni. 5 ‘Dunque, i miei fratelli in nulla mancavano di aiutarmi a servire Dio. Ne avevo uno quasi della mia età (ci mettevamo insieme a leggere vite di santi) che era quello che più amavo, sebbene per tutti avessi grande amore ed essi per me. siccome vedevo i martirî che per dio sopportavano le sante, mi sembrava che comprassero molto a buon prezzo l’andare a godere di dio, ed io desideravo molto di morire così, non per amore che io intendessi avere per Lui, ma per godere così in breve tempo dei grandi beni che leggevo esserci in cielo. E ci mettevamo insieme con questo mio fratello per cercare che mezzo ci fosse per

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fratelli — e, specialmente, di rodrigo, compagno nell’episodio narrato come già delle fervide letture delle “vidas de santos” — pur così importanti e fedeli testimoni dei profondi legami familiari di teresa: egli va dritto al centro del fatto che doveva segnare così profondamente tutta la vita e l’opera della santa in ogni momento e atto della sua luminosa e difficile storia. E, proprio nel lungo brano da noi citato si possono trovare i nuclei storico-esistenziali della vicenda teresiana: il precocissimo riconoscimento del “camino de la verdad”; il desiderio intenso di godere presto di Dio; il significato drammatico del “para siempre” della beatitudine e della salvezza come della dannazione e la volontà assoluta della testimonianza della fede a qualunque costo. Ivi si significava, subito, per Santa Teresa il valore proprio della Vita e della Morte; così come immediatamente ella riconosceva il determinante aiuto di dio (“nos daba el Señor ánimo”), il coraggio e l’esortazione divina per intraprendere tale “camino”. e crashaw, con grande esattezza d’intuizione, dunque, e ben al di là del sacro mito teresiano già considerato, coglie, da un lato, lo spostamento prospettico di teresa dall’infanzia (“ en tan tierna edad”) ad una sua propria maturità; e, dall’altro, il fortissimo spirito e temperamento della Santa a cui stava stretto il suo piccolo mondo (anche l’“embarazo” della famiglia ha il suo peso rilevante nelle motivazioni del sacrificio e della dedizione totale teresiana a Dio e al Suo servizio); ma, anche, che ella aveva ben chiara la sua esperienza precoce di fede e l’impulso di fedeltà a Dio nella testimonianza (martirio) presso gli infedeli. e, ancora una volta, crashaw attiva per teresa il superamento-eccesso (“outran”) della definizione dell’età (“maturity”) e anche della consapevolezza e volontà di sacrificio, come sfasatura necessaria a comprovare la condizione particolare e propria di una persona eccezionale. Cosí, lapidaria ed essenziale (senza aggettivi se non realizzare questo. concertavamo di andarcene nella terra dei Mori, chiedendo per amor di Dio che là ci tagliassero la testa; e mi sembra che il Signore ci desse coraggio in così tenera età, se avessimo visto qualche mezzo, ma l’avere dei genitori ci sembrava l’ostacolo maggiore. ci stupiva molto il dire che pena e beatitudine erano per sempre, in quello che leggevamo. ci occorreva di stare molto tempo a occuparci di questo e ci piaceva di dire molte volte: Per sempre, sempre, sempre!” nel pronunciare questo molte volte il signore faceva in modo che mi rimanesse impresso a quest’età il cammino della verità. / 5 da quando vidi che era impossibile andare dove mi uccidessero per dio, progettavamo di essere eremiti”.

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“Masculine” e con precisi e definitivi verbi secchi d’azione) si sigilla la dedica che abbina — tutto su un piano di realtà di notizia — il giudizio e il concetto barocco della sproporzione (o scarto) tra l’essere naturale di teresa e, ripetiamo, l’eccezionalità del suo temperamento e scelte esistenziali e ascetiche di santificazione: in Teresa coincidono felicemente, dunque, vocazione e condizione morale... Su questa impostazione sarà, poi, sviluppato tutto l’inno, che ne esprimerà esemplarmente manifestazioni e conseguenze; ma, intanto, oltre ad aver proposto l’immagine-guida, il poeta predispone di seguito — accanto alle sue valutazioni fondate sul comportamento e santa misura di teresa — la ragione essenziale di tutto questo straordinario rapporto di prospettive rivoluzionate o stravolte. in che consiste, d’altra parte, la spiegazione di fondo dello stesso inno — e della fede ammirata di crashaw — oltreché la motivazione di ogni espressione o gesto della Santa. E sarà come una sorta di ritornello obbligato che chiarisce tutto..., il filo rosso che s’innerva nel testo e ne costituisce l’organico essenziale: l’amore come unica salvezza e garanzia tra la Vita e la Morte . Ad esso si rivolge fin dall’inizio crashaw come all’unico reale fondamento: “love, thou art absolute sole lord / of Life and Death”. Inizia così un I segmento del poema (vv. 1-42), dove Crashaw traccia, per così dire, l’ambiente simbolico, umano e del pathos ascetico-vitale in cui collocare la misura della vocazione teresiana e della scelta operata su di lei dall’Amore — perché, ripetiamo, sarà esattamente nella verità dell’Amore e nel suo rapporto con la Vita e la Morte che si compie tutta la vicenda di santa teresa. e crashaw dispone, dunque, una sorta di rilievo scultoreo in cui si allineano le movenze di una traccia epicosacrale: vi compaiono gli “old soldiers, Great and tall, / Ripe Men of Martyrdom” e se ne rileva la corporeità possente esaltata in un’impresa drammatica e regale di sfida alla Morte, nel nome glorioso e nella pienezza vitale dell’amore assoluto: “that could reach down / With strong arms, their triumphant crown; / Such as could with lusty breath / speak loud into the face of death / their Great Lord’s glorious name, to none / of those whose spacious Bosoms spread a throne / For Love at large to fill”. Con l’insistenza sull’estensione morale e fisica magnanima e

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trionfante, se sembra voler sottolineare la sua pertinenza naturale della gloria e della regalità sia della virilità umana nella sua sublimata potenza, in realtà, Crashaw mira, da un lato, a cogliere l’atto della misteriosa opzione dell’amore (che sembra rinnovare quella dolcissima e definitiva del “fiat” della Vergine Maria) e, poi, a ratificare, ancora una volta, il privilegio della sproporzione tra l’esigua apparenza della “soft child” e tutto il colossale apparato di quella Regalità e Gloria: “Great and tall”, “could reach down”, “strong arms”, “triumphant crown”, “lusty breath”, “speak loud into the face”, “glorious name”, “Great Lord’s”, “spacious Bosoms”, “throne” sono i termini della altissima tensione verbale — affatto allegorica o simbolica, si badi, o nemmeno deliberatamente costruita opposizione dimensionale, ma oggettiva e realissima del “Masculine courage”... — con la quale crashaw ribadisce lo slancio supremo di teresa verso l’assoluto del suo ideale d’amore. d’altra parte, il ritratto morale di teresa — e il suo nome compare solo una volta dopo il titolo, nel momento dell’addio al suo vecchio passato... — è durissimo ed essenziale nel suo risvolto negativo o in assenza, persino quanto all’impossibile: “scarce has she learnt to lisp the name / of Martyr”, “she never undertook to know / What death with love should have to do”, “nor has she ere yet understood / Why to show love, she should shed blood / Yet though she cannot tell you why”. Ma il versante positivo del “possibile” (“she can [...] and she can [..]”) di Teresa è certamente maggiore di esatta valutazione morale (“yet she thinks it shame / Life should so long play with that breath / Which spent can buy so brave a death”: qui, oltre alla delicatezza morale, crashaw mette in risalto l’inequivocabile scelta della Morte [Vita] per l’amore, e di deliberata realizzazione dei proprî atti vitali nel senso giusto ed esclusivo: “she can Love, and she can Die”. È assai interessante il ritorno di crashaw sui punti estremi della corporeità di Teresa (“to lisp”: voce, “breath”: respiro=forza, “blood”: sangue del martirio), perché sembra che egli voglia porre i termini della bilancia tra la forza della struttura fisica (nella sua realtà dimensionale) e le effettive possibilità fisiche (anche “sword” è realissimo oggetto, non sineddoche o metonimia, come il ‘respiro’ e il ‘sangue’) per il martirio e il sacrificio (“Scarce has she Blood enough to make / A guilty sword blush for her

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sake”). E vogliamo ora osservare tutta la verticale della corporeità e della materialità di energia e oggetti nell’intero testo restante: Hearth, poor six years, hearth, lo it beats / High, and burns with such brave heats, thirst to die, drink, cup, breathes, weak breast, kisses, home, Breath, trade, Bargain, leave...[...] sown, Blood, pleasures, sports and joys, arms, knee, home, house, home, embrace, tender life, knife, hand, Breast, arms, Dart, stroke, breath, instrument, archery, dies, heart, Dart, Wounds, Balsam, lump of incense, tongues, snowy, hand, lips, kisses, eyes, shall dart, heart, home, door, constellation, crowns, brows, woes, tears, diadem, feed, wounds, scars, hearts, hall clothe, brows, Face, hearts, crown, shalt look round about, virgin-births, made fruitful, zone, to kiss, stars, withe steps, ways:

si tratta di una intensa proliferazione nomenclatoria di sostanze, cose, membra, gesti ed azioni di varia entità e natura (l’ambito cordiale sembra prevalere), dunque, a provare come ogni scelta ed ogni percorso esistenziale di teresa fa davvero aggio su una realtà circostante e circostanziale della persona e suo ambiente. Con sacrificio — o martirio — effettuale garantito sulla compromissione totale, ancora una volta, non su materiali astratti o allegorie. e, d’altra parte, il riscontro della Vida teresiana ci assiste con identità di valenze direttamente sperimentali autentiche circa il valore attribuito all’esteriorità della sua persona. Citiamo solo alcuni momenti raccontati dalla stessa santa: l’episodio della morte della madre (Vida, I, 7): Acuérdome que cuando murió mi madre, quedé yo de edad de doce años, poco menos [teresa aveva, invece, circa quattordici anni]. Como yo comencé a entender lo que yo había perdido, afligida fuime a una imagen de nuestra Señora y supliquéla fuese mi madre, con muchas lágrimas: 6

la notizia è data da Teresa con la solita asciutta semplicità, ma non vi manca il profondo lato affettivo (“afligida”, “supliquéla”, “muchas lágrimas”) svelato senza il non necessario pudore, perché nel sentimento oggettivo la Santa non si sottraeva alla rigorosa verità di se stessa, specialmente, 6 “Mi ricordo che quando morí mia madre, avevo l’età di dodici anni, poco meno. Appena cominciai a capire quello che avevo perduto, afflitta mi recai presso un’immagine di nostra signora e la supplicai che fosse mia madre, con molte lacrime”.



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quanto alla “flaqueza” (‘debolezza’) della sua reale natura; quanto alla concessione alla vanità (II, 2):

Comencé a traer galas y a desear contentar en parecer bien, con mucho cuidado de manos y cabello, y olores, y todas las vanidades que en esto podía tener, que eran hartas, por ser muy curiosa: 

anche qui, teresa, mentre dice la sua scelta di quel momento — contemporaneamente alla intensa lettura di libri di cavalleria, di nascosto dal padre, mentre trascurava le sue stesse incombenze domestiche — non nega la rilevante partecipazione ai “vanos ejercicios” (‘pratiche vane’), l’impegno appassionato e appoggiato, comunque, ad una sua particolare condizione personale: “por ser muy curiosa” significa espressamente la valenza di una natura ardente, profondamente interessata a tutto quello che l’attraeva e da compiere con assoluta pienezza... a proposito di un legame affettivo con una “parienta” di “tan livianos tratos” (‘di così grande leggerezza’) (II, 3): A esta que digo, me aficioné a tratar; con ella era mi conversación y plática. Porque me ayudaba a todas las cosas de pasatiempo que yo quería, y aun me ponía en ellas y daba parte de sus conversaciones y vanidades: 8

lo slancio affettivo rappresenta certamente un impulso determinante verso una reciproca attrazione amicale che, se da un lato asseconda (“yo quería”, ‘io volevo’) una compiacenza di propria scelta, tuttavia, non nasconde l’influenza subita e il coinvolgimento. Quando, poi, Teresa avrà intrapreso la strada del monastero, essa passerà immediatamente alla pratica opposta della sua vita così come dettata dalla vocazione (IV, 2): Dábanme deleite todas las cosas de la relisión; y es verdad que andaba algunas veces barriendo en horas que yo solía ocupar en mi regalo y gala, y acordándoseme que yo estaba libre de aquello, me daba un nuevo gozo que yo me espantaba y no podía entender por dónde venía: 9

 “cominciai ad adornarmi e a desiderare di compiacermi nel fare bella figura, con molte cure per le mani e per i capelli, e profumi, e tutte le vanità che in questo potevo trovare, che erano molte, poiché ero molto appassionata”. 8 “Con costei di cui parlo mi affezionai a starle insieme; con essa avevo conversazioni e dialoghi, perché mi aiutava in tutte le cose di passatempo che volessi, e mi aiutava in esse e mi faceva partecipare alle sue conversazioni e vanità”.

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e qui c’interessa meno l’aspetto dello stupore e della domanda sulla provenienza della mutata condizione, mentre appare importante, nella linea indicata da crashaw, la forte densità del nuovo mirabile godimento provato dalla Santa (“deleite”, ‘piacere’) nell’umiltà della nuova vita (“barriendo”, ‘spazzando’), delle faccende domestiche in netta opposizione (“en mi regalo y gala”, ‘nella cura compiaciuta di me stessa e nell’adornarmi’) e, anzi, come segno di raggiunta perfetta libertà (“libre”). D’altra parte, nella sua opera più tarda — le Fundaciones, dove racconta tutte le sue peripezie drammatiche nella fondazione dei suoi monasteri — Santa Teresa non ha dubbî sulla possibilità e qualità degli incontri determinanti con Dio e ammonisce precisamente le sue “hijas” all’obbedienza (Cap. V, 8, p. 532): “Pues, ¡ea!, hijas mías, no haya desconsuelo; cuando la obediencia os trajere empleadas en cosas esteriores, entended que, si es en la cocina, entre los pucheros anda el Señor, ayudándoos en lo interior y esterior”: 0 si tratta, qui, di un brano molto noto; ma occorre leggerlo con molta attenzione, perché serve a tracciare tutta quanta la valutazione che teresa fa della presenza necessaria sempre e determinante di Dio nella vita della comunità come della singola persona consacrata alla vita religiosa, a qualunque livello, essenzialmente di ayuda totale ad ogni istante e in qualunque operazione della vita mistica e ascetica come della vita esteriore, delle povere e semplici ‘faccende domestiche’ nell’umiltà della “cocina”, tra le umili ‘pentole, casseruole’. Ma deve esser ben chiaro per tutti che, al centro del sistema di salvezza (dell’assistenza integrale di Dio) sta, per prima cosa, la “obediencia”, la dedizione totale ai superiori e l’assenza di qualunque intervento personale, sempre — fa capire Teresa — inutile e insufficiente (si veda, nell’inno, quando crashaw dice che sarebbe vano ogni desiderio che volesse trovare l’attuazione dei più radicali sentimenti dell’anima ardente d’amore nelle non 9 “Mi facevano piacere tutte le cose della religione; ed è vero che a volte mi mettevo a spazzare in ore in cui ero solita occuparmi dei miei ornamenti e cure, e ricordandomi che di quelle cose ero libera, provavo un nuovo godimento, di cui mi meravigliavo e non potevo comprendere da dove provenisse”. 0 “Dunque, su, figlie mie, non provate sconforto; quando l’obbedienza vi imponesse di dedicarvi a cose esteriori, capite bene che, se fosse in cucina, il signore cammina fra le pentole, aiutandovi nelle cose interiori e in quelle esteriori”.

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bastevoli manifestazioni del più puro, ma sempre limitato, degli affetti, quello materno: “of what she may with fruitless wishes / seek for amongst her Mother’s kisses”). abbiamo visto prima come crashaw non si periti, nella sembianza teresiana, ad addossarle le manchevolezze quanto al suo saber; ma, nello stesso tempo, egli mette bene in risalto — per due forti ragioni di compensazione (ancora la figura della “bilancia”) — i lati concretamente positivi che, addirittura, fanno travalicare la misura a favore di teresa: la congiunzione “yet”, che riaggiusta la pur continua necessità di esibizione dimostrativa che attraversa questo testo, fra la prova scientifica e oggettiva e la testimonianza ugualmente concreta del martirio: “Who yet a child outran maturity”, “yet she thinks it shame / life should so long play”, “nor has she ere yet understood / Why”, “yet though she cannot tell you why”, “Yet has she’ a Heart; “Martyrdom”, “to prove the word”, “Martyrdom”, “to show love, she should shed blood”, “dares hope to prove / How much”. teresa agisce tra speranza ed effettivo ardimento, quasi un sfida: “courage”, “durst plot a Martyrdom”, “so brave a death”, “she can [...] she can”, “dares hope”, “dares drink up”; e ciò per andare nettamente ad una azione decisa, seria e totale, ove non è ammesso giocare (“so long play”), anche se qualunque scelta definitiva costi sangue e faccia fremere fin nel profondo tutta la persona compromessa; e si veda il bellissimo e sconvolgente brano della Vida (IV, 1): “Acuérdaseme a todo mi parecer, y con verdad, que cuando salí de casa de mi padre, no creo será más el sentimiento cuando me muera; porque me parece cada hueso se me apartaba por sí, que como no había amor de dios que quitase el amor del padre y parientes, era todo haciéndome una fuerza tan grande que, si el señor no me ayudara, no bastaran mis consideraciones para ir adelante. Aquí me dio ánimo contra mí, de manera que lo puse por obra”:  è certamente assai inquietante il nesso lasciar la propria casa-morte, ed è davvero un nesso fisico, come è fisico il rapporto familiare, a sciogliere o ad allentare il quale non basta — fa capire teresa — la volontà umana, l’umana “consideración”, cioè, la riflessione,  “Mi ricordo e ne sono ben sicura, e in verità, che quando uscii dalla casa di mio padre, non credo sarà maggiore il dispiacere quando morirò; perché mi sembra che ogni osso si staccasse da me, che, siccome non c’era amor di dio

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la speculazione interiore, la delineazione prospettica dei programmi e delle intenzioni, la motivazione personale e anche, s’è visto, la volontà o la speranza... Serve solo l’aiuto di Dio persino contro se stessi (“ánimo contra mí”) se si vuole la realizzazione sicura del “strong desire” senza violare, comunque, la pienezza dei sentimenti umani nella loro specialissima dimensione naturale familiare... Il nucleo figurale reale su cui Teresa fonda il sacrificio e lo slancio vitale è solo l’amore “Be love but there”; e il cuore ne è la rappresentazione simbolica, segno di forza e quasi discrimine nella costituzione del santo e del martire in opposizione all’uomo comune: “how much less strong is Death then Love [...] / [...] / ‘Tis Love not Year or Limbs that can / Make the Martyr, or the man”. Perché l’amore è pienezza (“For Love at large to fill”) che dà senso e qualifica ogni atto dell’uomo; ma è pienezza di una figura umana a sua volta essenziale e totale (cuore e mente: “Yet has she’a Heart”; “Mind”, “Good reason”). la prima parte, dunque, dell’inno, crashaw la dedica all’autentica definizione della figura di Teresa, proponendone una raffigurazione esatta al di là della sua maturità anagrafica e oltre la stessa dimensione corporea, confermando la sua immagine della bilancia tra i “poor six years” e la vera dimensione dello spirito fondata sull’amore unica forza: “Be love but there; let poor six years / Be pos’d with the maturest Fears / Man trembles at, you straight shall find / Love knows no nonage, nor the Mind. / ‘Tis Love not Year or Limbs that can / Make the Martyr, or the man”. e amore è stretta sintonia di fuoco interiore: nei vv. 35-40 è la vera icona teresiana trasfigurata tra realtà e simbolo nella nuova qualificazione di ignea cordialità intensificata nella forza unica del desiderio unico — ancora a bilancia tra minima corporeità e ardore di testimonianza e di martirio che trascende la Santa tra umanità e sentimento personale: “Love toucht her Heart, and lo it beats / High, and burns with such brave heats; / Such thirst to die, as dares drink up. / a thousand cold deaths in one cup. / Good reason. For she breathes All fire. / Her weak breast heaves with strong desire[...]”. a questo punto, la fortissima tensione accumulata nel che potesse distogliermi dall’amore per il padre e per i parenti, era tutto un farmi forza così grande che, se il Signore non mi aiutasse, non basterebbero le mie considerazioni per andare avanti. Qui mi diede il coraggio contro me stessa, in modo che lo realizzai”.

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testo — diciamo, nell’operare di crashaw — si rivela in due momenti: prima, nella zona tra umanità (e forza necessaria) e martirio, che fonda una drammatica alternativa tra il peso dei minimi vitali: “poor six years”, “Fears”, “Man trembles at”, “nonage”, “Limbs” nella loro esiguità e concessione al tempo e, esattamente, nella rilevantissima definizione del “Love”, che supera l’uomo, la sua corporeità e il Tempo nella sua fattiva produttività di creazione (“Make”). Qui è chiaro il ridimensionamento antropologico se superato nella nuova ed esaltante prospettiva (“the Martyr, or the man”). Il secondo punto — che diciamo di acuta sensibilità mistica, ma anche di profonda conoscenza della mentalità ispanica — è l’ulteriore carica figurativa e di energia polarizzata nel nesso concorde tra fuoco e ghiaccio (i ben noti “opósitos” del petrarchismo), come tra Amore-VitaMorte in reciproca dinamica di contraddizione dialettica e paradosso: “and lo it beats / High”, “burns”, “brave heats”, “thirst to die”, “a thousand cold deaths”, “in one cup”, “For she breathes All fire”, per di più con esibizione del contrasto nell’immagine accumulatoria e di sproporzione “thousand / one cup”. avviene qui tutto un gioco densissimo e iperteso di visibilità esasperata e d’immaginazione, dove la congestione (congestione e accumulazione sono tipiche sforzature barocche) della figura della Morte moltiplicata all’infinito viene bene a chiarire l’empito vitale dell’eroismo invocato della passione e del desiderio sul confine parossistico della propria agghiacciata negazione, che, di sicuro, in queste esplosioni retoriche, si colloca già, naturalmente, oltre i parametri del sentimento d’intima umanità: i baci di una madre... E qui si vede bene che Crashaw parla per suo conto, visto che Santa Teresa era fin da piccola orfana di madre... Quello che certamente Crashaw ha compreso è che per Teresa l’opzione della sua vita è stata unica: il Martirio, come centro motore del “desire” e del “travel” fuori della sua casa: “Since ‘tis not to be had at home / She’ll travel to a Martyrdom. / No home for hers confesses she / But where she may a Martyr be”. Il II segmento (vv. 43-68) parte precisamente da qui, dalla forte volontà di Santa Teresa verso il martirio “to the

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Moors”. crashaw accetta e potenzia la generica indicazione della Vida già citata; ma in lui è interessante il cambiamento prospettico della figura teresiana: ben diverso il bagaglio della Santa dalla sua condizione iniziale, ed è l’atteggiamento attivo e consapevole che essa dimostra. e ci riferiamo a tutte quelle considerazioni del poeta circa il no saber, peraltro, superato dalla effettualità dell’agire persuaso e concretissimo (“she can, she can”). Ed essa si recherà fra i Mori; ma lí la Santa porrà in essere tutta una serie di azioni ancora una volta estremamente concrete e schiette, senza tregua né esitazioni, sul fondamento certo di una chiara volontà, in che consiste il suo vero saber. intanto, essa “trade with them” e “she’ll Bargain with them”: sono due verbi della più stretta relazione con l’acquisto dell’“unvalued diadem” della morte e del martirio, quasi come iniziativa commerciale — per dire del complesso e laborioso scambio che essa propone. Ma teresa mette al centro di tutto le sue cose migliori: “she’ll offer them her dearest Breath, / With Christ’s Name in’t”; “and will give / Them God”; anzi, cosa più sorprendente, Teresa si presenta, questa volta, soprattutto, come maestra di vita e di morte in Dio — e, una volta di più, si chiarisce che Dio è davvero il perno di garanzia del sistema (vorremmo aggiungere, teresianamente, dell’“esperienza”): “teach them how to live / in him: or, if they this deny, / For him she’ll teach them how to die”. e per sistema — la nostra espressione può apparire troppo convenzionale e disinvolta, ma ci premeva mettere in risalto il carattere strutturale e radicalmente risolutivo delle due grandi questioni dell’uomo nel tempo e sul confine dell’eterno — intendiamo la relazione tra la Vita e la Morte”, che, sono, evidentemente, per crashaw — nell’amore — i due nuclei portanti dell’opera definitoria e sperimentale della Santa. Osserviamo, intanto, di quanti verbi si fa soggetto Teresa (in questo senso noi amiamo parlare di azionismo mistico): “She’ll travel”, “confesses she”, “she’ll to”, “trade”, “she’ll offer”, “She’ll Bargain”, “will give”, “teach”, “teach”, “So shall she leave amongst them sown”; e di questi dieci atti il più importante e più decisivo sarà l’ultimo: la semina del sangue del Signore o il proprio (“Her Lord’s Blood; or at least her own”). Ed ecco la conclusione: “She’s for the Moors, and Martyrdom”. È chiaro che crashaw sintetizza la Vida e le motiva-



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zioni dell’entrata in monastero di santa teresa secondo le sue necessità ascetiche e apologetiche e, senza alcun dubbio, il martirio, cioè la dedizione totale di Teresa alla testimonianza della fede — giustissima intuizione — è la ragione più feconda, anche dal punto di vista figurativo! specialmente per le pur realissime evoluzioni del tema. Ma è certo che Teresa compie la sua principale opzione in modo netto ed esclusivo, e lasciandosi dietro senza alcun ripensamento (se non fosse per l’anafora “Farewell” dello strazio d’abbandono; ma potrebbe essere anche il ribadito e ammirato sottolineare da parte del poeta la durezza della scelta) tutto il se stesso di prima: “Farewell then, all the world! adieu. / teresa is no more for you. / Farewell, all pleasures, sports, and joys, / (Never till now esteemed toys) / Farewell wathever dear may be, / Mother’s arms or Father’s knee / Farewell house, and farewell home! / She’s for the Moors, and Martyrdom”. e qui, davvero, si tratta di abbandonare un mondo affatto considerato negativo, anzi, è decisamente tutto un positivo lasciato — giustamente — per qualcosa di più alto, di assoluto. E, come s’è già visto, il distacco era autenticamente drammatico e, diversamente da quanto sembra credere crashaw, affatto accelerato nella realtà: quante volte Teresa ribadisce la propria non volontà e, anzi, vera idiosincrasia per la vita monastica...si vedano almeno i momenti consegnati nel cap. ii e iii della Vida: “Y puesto que yo estaba entonces ya enemiguísima de ser monja, holgábame de ver tan buenas monjas” (II, 8); “la gran enemistad que tenía con ser monja, que se me había puesto grandísima” (III, 1); “Estos buenos pensamientos de ser monja me venían algunas veces, y luego se quitaban, y no podía persuadirme a serlo” (par. III, 2); “Y anque no acababa mi voluntad de enclinarse a ser monja, vi era mijor y más seguro estado” (III, 5) 2. Ma a crashaw premeva di consentirsi, in qualche modo, l’intervento diretto di cristo, del resto, già chiamato “fair Spouse” prima di un lungo tempo...: “Sweet, not so fast! lo thy fair spouse / Whom thou seek’st with swift vows, / calls thee back, and bids thee come / t’embrace a milder Martyrdom”. 2 “e dato che allora io ero fortemente nemica di esser monaca, mi compiacevo di vedere delle monache così buone”; “la grande ostilità che provavo per esser suora e che era diventata grandissima”; “Questi buoni pensieri di esser monaca a volte mi venivano, e subito venivano meno, e non riuscivo a persuadermi ad esserlo”; “E sebbene la mia volontà non avesse inclinazione ad esser monaca, vidi che era la condizione migliore e la più sicura”.

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Il III segmento (vv. 89-96) vede il reale momento del martirio mistico, la transverberazione, che noi citiamo direttamente dai testi teresiani: Vida, XXiX, 3: Quiso el Señor que viese aquí algunas veces esta visión: vía un ángel cabe mí hacia el lado izquierdo en forma corporal, lo que no suelo ver sino por maravilla; anque muchas veces se me representan ángeles, es sin verlos, sino como la visión pasada que dije primero. Esta visión quiso el señor le viese ansí: no era grande, sino pequeño, hermoso mucho, el rostro tan encendido que parecía de los ángeles muy subidos que parecen todos se abrasan (deben ser los que llaman querubines, que los nombres no me los dicen, mas bien veo que en el cielo hay tanta diferencia de unos ángeles a otros, y de otros a otros, que no lo sabría decir); víale en las manos un dardo de oro largo, y al fin de el hierro me parecía tener un poco de fuego; éste me parecía meter por el corazón algunas veces y que me llegaba a las entrañas; al sacarle, me parecía las llevaba consigo y me dejaba toda abrasada en amor grande de dios. era tan grande el dolor que me hacía dar aquellos quejidos y tan excesiva la suavidad que me pone este gravísimo dolor, que no hay desear que se quite, ni se contenta el alma con menos que dios. no es dolor corporal, sino espiritual, anque no deja de participar el cuerpo algo, y an harto. es un requiebro tan suave que pasa entre el alma y Dios, que suplico yo a su bondad lo dé a gustar a quien pensare que miento: 3

il brano è necessariamente lungo, perché, mentre descrive, appunto, il misterioso episodio mistico, abbiamo voluto accompagnarlo con la lunga divagazione sugli angeli e loro differenze — sembra che Teresa sia più curiosamente attratta dalla speciale qualità dell’angelo, 3 “il signore volle che alcune volte vedessi qui questa visione: vedevo un angelo presso di me sul lato sinistro con aspetto corporeo, la qual cosa non sono solita vederla se non con stupore; sebbene molte volte mi si rappresentino degli angeli, ciò avviene senza che li veda; se non come nella visione passata detta prima. Questa visione il Signore volle che la vedessi così: non era grande, ma piccolo, molto bello, il volto così acceso che sembrava degli angeli molto elevati che sembra che tutti siano infuocati (devono essere quelli che chiamano cherubini, chè i nomi non me li dicono, ma vedo bene che in cielo c’è tanta differenza fra certi angeli e altri, e tra gli altri e gli altri, che non la saprei dire); gli vedevo fra le mani un lungo dardo d’oro, e alla fine del ferro mi pareva avesse un po’ di fuoco; e mi sembrava che me lo mettesse nel cuore alcune volte e che mi arrivasse alle viscere; nell’estrarlo, mi sembrava che se le portasse dietro con sé e mi lasciava tutta infiammata d’amor grande di Dio. Era così grande il dolore che mi faceva emettere quei lamenti e così grande la dolcezza che mi induce questo grandissimo dolore, che non viene da desiderare che si tolga, né l’anima si accontenta con meno che Dio. Non è un dolore corporale, ma spirituale, sebbene il corpo non cessi di parteciparvi alquanto, e anche molto. È un corteggiamento amoroso soavissimo che avviene fra l’anima e Dio, che io supplico la sua bontà di darlo a gustare a chi pensasse che mento”.

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suo nome, valenza ignea, ecc. che dall’evento mirabile; come, poi, essa si dilunga ancora di più sulla particolarità del dolore, sulla partecipazione del corpo e sua misura e quantità; come anche c’incuriosisce il commento finale dell’invito a dio a far fare la stessa esperienza ai detrattori... C’è come un’ansia abbastanza evidente di sorvolare sul fatto, limitandosi a disegnarne la dinamica dopo la sommaria descrizione del “dardo de oro”: così la straordinaria visione dell”arrebato” e dell’estasi, con tutta l’eccezionalità della loro fenomenologia, viene a rientrare, per la santa, quasi, in una specie di routine (“Después que los tengo, no siento esta pena tanto”), pur mirabile, per chi è stato da Dio assuefatto agli sconvolgenti “arrobamientos”... Ma, non dimentichiamo che la Santa è impegnata piuttosto a condurre le anime all’incontro con dio e, prima ancora, ad avviarle lungo il “camino de la verdad”, piuttosto che a trattenersi sulle squisite “mercedes” concesse a lei stessa da “Su Majestad”; sulle quali, anzi — cioè sull’eccezionalità della sua vicenda — essa vorrebbe insistere il meno possibile...4 in altre occasioni teresa ritorna sul tipo di visione, ad es. in Vi Moradas, , 2, p. 435: Pues vienen veces que estas ansias y lágrimas y suspiros y los grandes ímpetus que quedan dichos (que todo esto parece procedido de nuestro amor con gran sentimiento, mas todo no es nada en comparación de estotro, porque esto parece un fuego que está humeando y puédese sufrir, anque con pena), andándose así esta alma abrasándose en sí mesma, acaece muchas veces por un pensamiento muy ligero u por una palabra que oye de que se tarda el morir, venir de otra parte — no se entiende de dónde ni cómo — un golpe, u como si viniese una saeta de fuego; no digo que es saeta, mas cualquier cosa que sea, se ve claro que no podía proceder de nuestro natural; tampoco es golpe, anque digo golpe; más agudamente hiere, y no es adonde se sienten acá las penas — a mi parecer —, sino en lo muy hondo y íntimo del alma, adonde este rayo, que de presto pasa todo cuanto halla de esta tierra de nuestro natural y lo deja echo polvo, que por el tiempo que dura es imposible tener memoria de cosa de nuestro ser; porque en un punto ata las potencias, de manera que no quedan con ninguna libertad para cosa, sino para las que la han de hacer acrecentar este dolor 5.

Questo lungo brano meritava di essere citato interamente, perché vi si illustra ancora una volta uno degli

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avvenimenti centrali dell’esperienza mistica teresiana, cioè, riferito a qualcosa che le accade di assolutamente inesprimibile — la stessa santa commenta alcune righe più sotto: “No querría pareciese encarecimiento, porque verdaderamente voy viendo que quedo corta, porque no se puede decir” (VI Moradas 11, 3). L’esperienza avviene in un crescendo del sentimento interiore (“ansias y lágrimas y suspiros y los grandes ímpetus”), slancio parossistico d’amore che trascende la persona e le impone — nel profondo dell’anima -una dissoluzione totale della coscienza, dove memoria, intelletto e volontà sono a tal punto legate che l’anima stessa, sconvolta interamente, nemmeno riesce a rendersi conto di ciò che le accade: questa estrema difficoltà si coglie, fra l’altro, nel balbettamento nomenclatorio: “golpe”, “u como si viniese una saeta de fuego”, “no digo que es saeta”, “mas cualquier cosa que sea”, “tampoco es golpe, anque digo golpe”, “este rayo”... anche qui, la Santa sembra rallentare la sua narrazione quasi più per attenzione alla forma o alla realtà oggettuale di ciò che le accade, che non per concentrarsi sulla più ampia riflessione sugli effetti: d’altra parte, qui vale la pena di ricordare due aspetti importanti della didattica teresiana: la sua continua difficoltà oggettiva a dire la realtà delle vicende 16, il suo insistente far un passo indietro sulla qualità della sua personale e diretta testimonianza e sull’effettiva resa, nella scrittura, di ciò che, d’altra parte, essa suole rinviare al4 nel cap. X della Vida santa teresa si raccomanda al suo confessore per amor di dio dicendogli che, mentre quanto ha detto della sua “malvagia vita” e dei suoi peccati, autorizza deliberatamente che se ne parli pubblicamente; da ora in poi, visto che parlerà delle grazie ricevute -intende senza suo merito — si tratta di cose che devono esser lette solo da loro stessi, i confessori. 5 “dunque, vengono delle volte che queste ansie e lacrime e sospiri e i grandi impeti di cui ho parlato (chè tutto questo sembra proveniente dal nostro amore con grande sentimento, ma tutto questo non è nulla, perché questo sembra un fuoco che sta fumigando e si può sopportare, sebbene con pena), mentre quest’anima va infiammandosi in se stessa, accade molte volte per un pensiero molto leggero o per una parola che ode che ritarda la morte, che venga da un’altra parte — non si capisce da dove né come — un colpo, o come se venisse una saetta di fuoco; non dico che è una saetta, ma qualunque cosa sia, si vede chiaramente che non poteva provenire dal nostro essere; nemmeno è un colpo, sebbene io dica colpo; ferisce più acutamente, e non è dove si si sentono qui le pene — a mio parere —, se non nel molto profondo e intimo dell’anima, dove questo fulmine, che presto passa tutto quanto trova di questa terra del nostro essere e lo lascia distrutto, che per il tempo che dura è impossibile aver memoria di qualcosa del nostro essere; perché in un istante vincola le potenze, in modo che restano senza nessuna libertà per fare nessuna cosa, se non per quelle che devono accrescere questo dolore. 3. Non vorrei che sembrasse un’esaltazione, perché veramente sto vedendo che non ce la faccio, perché non si può dire”.

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l’oggettiva e personale esperienza delle anime. in fondo, si potrebbe dire, è certamente molto più importante avviarsi e percorrere il “camino” che contare sugli effetti e manifestazioni... almeno che ne sia lasciata libertà a Dio... tornando a crashaw e al suo inno, appare subito che il martirio è cosa troppo profonda perché possa consumarsi come una barbarica violazione di una dolce e casta intimità: come a dire che qui viene ribaltata ogni precedente istituita sproporzione. Da un lato, la delicata umanità di Teresa, la sua “tender life”, il “Breast’s chaste cabinet”, “uncase / a soul kept there so sweet” non potranno essere forzate da un “barbarous knife” o da “some base hand”; e sarà la celeste onnipotenza (“Blest pow’rs”, “Wise heav’n”) a impedire che la “love’s victim” venga immolata al di fuori di quella Totalità d’Amore che, nella “death more mystical and high”, “Into love’s arms”, non può non risolvere il sacrificio supremo di una vita mistica assolutamente votata all’amore se non nell’amore stesso ove si congiungono Morte ed Eternità (“Into love’s arms thou shalt let fall / A still-surving funeral”). E, appunto, sarà, come abbiamo appena documentato con i testi teresiani, il mistero sublime della transverberazione: “His is the Dart must make the Death / Whose stroke shall taste thy hallow’d breath; / A Dart thrice dipt in that rich flame / Wich writes thy spouse’s radiant name / Upon the roof of Heav’n”. il pneuma teresiano è il fuoco dello spirito d’Amore e in tale sfera luminosa di pienezza si realizzerà la mistica unione del “desposorio” con cristo: luce-fuoco sono i segni del 16 Teresa usa continuamente il verbo “parecer” (‘sembrare’, ‘mi sembra’, ecc.) per non poter mai sentirsi sicura di quello che dice e, inoltre, usa frequentemente il verbo “atinar”, cioe, “cogliere il bersaglio”, come se la parola fosse una freccia non sempre sicura di giungere al suo centro.  Santa Teresa si serve dell’immagine della “saeta” (‘freccia’) anche per far intendere un modo di orazione (cfr. Cuentas de conciencia, 54, 1576; p. 483): “Otra manera harto ordinaria de oración es una manera de herida, que parece al alma como si una saeta la metiesen por el corazón, u por ella mesma” (‘Un’altra maniera molto comune di orazione è simile a una ferita, che all’anima sembra come se le piantassero nel cuore, o dentro se stessa’), aggiungendo subito che non si tratta di “llaga material” (‘piaga materiale’); ancora, in Meditación sobre los cantares, IV, 5, p. 355, paragona l’amore a una freccia (“Paréceme el amor una saeta que envía la voluntad, que, si va con toda la fuerza que ella tiene, libre de todas las cosas de la tierra, empleada en solo dios, muy de verdad debe de herir a Su Majestad; de suerte que, metida en el mesmo Dios, que es amor, torna de allí con grandísimas ganancias” — ‘Mi sembra che l’amore sia una freccia inviata dalla volontà, che, se va con tutta la forza che ha, libera da tutte le cose della terra, diretta verso il solo Dio, davvero deve ferire Sua Maestà; in modo che, messa nello stesso Dio, che è amore, torna di lí con grandissimo profitto’): qui la metafora acquista una particolare importanza nel suo processo di andata e ritorno dal centro dell’amore, per arricchirsi e tornare all’anima.

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più alto momento della radiosa esperienza teresiana (“rich flame”, “radiant Name”, “were ay / It shines, and with a sovereign ray / Beats bright upon the burning faces / of souls”). Un’esperienza che, poi, non avviene solo in lei e per lei, ma misticamente si riverbera su tutte le anime infiammate d’amore e unite nella grazia purissima e nella sorridente gioia corale dell’evento (“in that name’s sweet graces / Find everlasting smiles”). Qui, si può dire che crashaw giunge al suo punto dantescamente estremo, anche se egli ha bisogno visibile di costituire una scenografia di grande spettacolarità attorno al momento del rapimento mistico: “so spiritual, pure, and fair / Must be th’immortal instrument / Upon whose choice point shall be sent / a life so lov’d; And that there be / Fit executioners for Thee, / The fair’s and first-born sons of fire / Blest Seraphim, shall leave their quire / and turn love’s soldiers, upon Thee / To exercise their archery”: ma eccezionalità, purissima spiritualità e bellezza suprema di eternità esalteranno una “life so lov’d”. Teresa viene, in realtà, occultata da questo simbolico alone di vita e d’amore nel trionfale coro dove il fuoco d’amore e la bellezza eletta saranno espressi in una sorta di mistica arte d’arcieri, con una dinamica figurale di grande splendore. il dardo, posto al centro del quadro, come nell’invenzione del Bernini, è evidenziato nei suoi movimenti (“A Dart thrice dipt in that rich flame”) e nelle sue scrizioni celestiali come anche nella sua propria rappresentazione (“immortal instrument”, “choice point”) e nella beata coralità dei “fit executioners”. Un quadro mosso dove sfolgorano i “love’s soldiers” nella loro esatta elezione (“The fair’st and first-born sons of fire”) di giustizia eterna che risplende sempre luminosa di grazia senza limiti. Con il IV segmento (vv. 97-128) Crashaw istituisce una seconda parte del cammino mistico di santa teresa, come se fosse il seguito di una vicenda iniziata nel tempo con l’esperienza del “dardo”. Ed è un cammino dolcissimo e travagliato, dove per la santa si ribaltano i valori della Vita, della Gioia e del Dolore come della Morte: ed è certamente questo l’aspetto singolare ed affascinante di questo percorso poetico-spirituale tentato da Crashaw; come se il segno della santità fosse esattamente la lettura e la pratica diversa delle ragioni essenziali dell’esistenza, nel tempo,

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sicuramente, ma già orientata misteriosamente secondo l’ordine eterno. Il dolore (“Pain”) sarà, allora, “sweet and subtle”; le gioie (“Joys”) diventeranno “intolerable”, la morte diventerà amabile e desiderata e la vita sarà bella per nuovamente godere la bellezza e la gioia della morte: “o how oft shalt thou complain / of a sweet and subtle Pain. /of intolerable Joys; / of a Death, in which who dies / loves his death, and dies again. /and would forever so be slain. /and lives, and dies”. e, ancora una volta, per se stessa Teresa è ignara di ciò che le accade, ma ne coglie l’intima necessità nella paradossale verità della concordia discors e discordia concors, la ragione concettuale così radicalmente ispanica del rovesciamento e così propria di quel concettismo di frontiera o iperbole di se stessa ragione, che si affida continuamente all’assurdo apparente della propria contraddizione in atto (“que tan alta vida espero /que muero porque no muero”) 8. C’è anche una certa qual voluptas moriendi (“How kindly”, “the sweetly-killing Dart”), che è tutt’altra cosa di qualunque interiore masochismo, immune com’è da ogni algolagnia decadente: anzi, al fondo sta il durissimo rovesciamento teologico dei valori apparenti con i valori reali garantiti dalla più infiammata delle esperienze mistiche: la ferita e la morte sono solo la facies esterna di una realtà molto più profonda, perché per Teresa — nella sua verità e anche secondo crashaw — esse sono i drammatici segni del divino nella sua più pura autenticità di contraddizione. le ferite sono il loro stesso balsamo terapeutico e la morte non vale né tutte le morti ogni volta sperimentate prima della vera e definitiva. Né vale la stessa vita, perché la ferita e la morte sono la vera Vita (“And close in his embraces keep / Those delicious Wounds, that weep / Balsam to heal themselves with. thus / When these thy Deaths, so numerous, / Shall all at last die into one”), perché della vita esse sono il vero senso e scioglimento a liberazione dell’anima nel suo gaudioso ritorno allo sposo: “and melt thy soul’s sweet mansion; / Like a soft lump of incense, hasted / By too hot a fire, and wasted / Into perfuming clouds, so fast / shalt thou exhale to Heav’n at last / in a resolving Sigh, and then / O what?” 8 riportiamo il ritornello di una celebre canzone della santa: “Vivo sin vivir en mí / Y tan alta vida espero / que muero porque no muero”.

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“Soft lump of incense”, “too hot fire”, “perfuming clouds” sono le figure — i correlativi oggettivi — esemplari del trionfo santo dell’anima nella sua esalata e dolcissima consumazione metafisica, simbolica e rituale, realissima e sacrificale, perché sempre sperimentale per Santa Teresa. essa lo spiega in tutta la sua didattica mistica. certamente, crashaw ha bisogno anche qui di una sua ipertensione retorico-figurale per esprimere il passaggio di Teresa al cielo; e non ha di meglio per rivelarlo che ricorrere a immagini sublimi di evaporata liberazione, fino a immaginare che un sospiro che si scioglie sia l’estremo flettersi ed esalarsi delle pene e delle ferite, dei patimenti e delle morti. l’unica vera morte si manifesta, dunque, come un supremo alito di distacco, di superato vincolo dalla terra — e con “terra”, in definitiva, per intendersi, noi stessi chiamiamo i legami umanissimi (“And close in his embraces keep / those delicious Wounds, that weep”, tra passione e sofferenza), che trattengono la Santa al di qua del confine celeste (l’“acá” di cui Teresa parla spesso nelle sue scritture). E tutto questo è profondamente ineffabile, che sta in una zona intermedia fra gli uomini e gli angeli, una volta tanto incomprensibile per tutti (“O what? Ask not the Tongues of men. /Angels cannot tell”); forse, anche per Teresa, se essa, protagonista integrale, non avesse bisogno se non di sentire e basta. Ove il sentire si basta a se stesso, perché totale della pienezza — ora sí vincolante — dello spirito: “suffice, / Thiself shall feel thine own full joys / And hold them fast forever “. e la santa, allora, per la lucida teologia mistica di crashaw rappresenta davvero in se stessa e nel suo sospiro di libertà dalla terra la totalità della propria anima ed esperienza, consumata ormai ogni storia nel tempo della vita della terra, ed essendo raggiunta la vera Vita celeste. Per lei si apre, quindi, lo spazio trionfale in “the Moon of maiden stars”. e qui, ancora, crashaw elabora un quadro scenografico luministico e insieme trionfalmente plastico di dinamica cerimoniale e spettacolare: “so soon as thou shalt first appear, / The Moon of maiden stars, thy white / Mistress, attended by such bright / souls as thy shining self, shall come / And her first ranks make thee room; / Where’mongst her snowy family / immortal welcomes wait for thee”. Al massimo di elevazione del godimento (“delight”,

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“on which thou now mayst to thy whishes / Heap up thy consecrated kisses”, “What joys shall seizes thy soul”) si accompagna, nella scenografia esaltante barocca — che sempre più ricorda la splendida enfasi cromatica berniniana — il massimo di esibizione corporea o, comunque, ripetiamo, concretamente e visibilmente plastica di esaltazione visionaria (“O what delight, when reveal’d Life shall stand /And teach thy lips heav’n with his hand; / On which thou now mayst to thy wishes / Heap up thy consecrated kisses. / What joys shall seize thy soul, when she / Bending her blessed eyes on thee / (Those second Smiles of Heav’n) shall dart / Her mild rays through thy melting heart!”). Pure, la luminosa astrazione-corporeità reale-allegorica (la “reveal’d Life” e “lips”, “hand”, “kisses”, “blessed eyes”, “Smiles”, “Heart”) è segno di una intimità familiare-amicale di gioiosa confidenza e condivisione: “snowy family”, “angels, thy old friends, there shall greet thee / Glad at their own home now to meet thee”. Intanto, con i versi 129-138 appena citati, è iniziato il V segmento (vv. 129-154), dove assistiamo a una vera beneficiata di allegorico retablo su un fondale domesticocelestiale, sul quale si collocano e s’affollano i nomi puri e sinteticamente espressi nelle proprie parole-simbolo di ogni sentimento, ogni prova o esperienza morale, situazione o congiuntura delle vicissitudini morali, che in vita erano ferite e morte, e che in morte si convertono in giochi luministici e regali, astrali di preziosi materiali come transformatio sublime e redentiva di ogni pena o travaglio umano restituiti alla loro condizione privilegiata nella dimora divina: “all thy good Works which went before / and waited for thee, at the door, / Shall own thee there; and all in one / Weave a constellation / of Crowns, with which the King thy spouse / shall build up thy trumphant brows. /all thy woes shall now smile on thee / and thy pains sit bright upon thee / all thy sorrows here shall shine, / all thy Suff’rings be divine. / Tears shall take comfort, and turn gems / and Wrongs repent to diadems. / ev’n thy Death shall live; and new / Dress the soul that erst they slew. / Thy wounds shall blush to such bright scars / as keep account of the Lamb’s wars”. le corone, il brillare divino, le gemme, i diademi, gli splendori di porpora sono il giusto della trionfale sublimazione ma non annullano la drammatica realtà

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del travaglio né liberano la figura di Santa Teresa della sua sostanziale umanità sofferta e maturata nella morte terrena — accettiamo il concetto centrale Vita=Morte=Vita — uno stato di guerra, in cui essa ha operato nella realissima e drammatica tragedia pasquale — aggiungiamo noi — del sacrificio dell’Agnello . Vogliamo dire che il “martirio” di Santa Teresa è ugualmente realissimo, ma redento nel sangue di Cristo vittima immolata... Ciò, perché, al di sotto dell’iperbole plastica, visiva e preziosamente spettacolare, non si perde il buon operare di teresa, l’agire concreto del bene, premiato nella gloria, ma fattosi, ben prima, sostanza di carne e sangue nella testimonianza e nella vocazione. la “Love’s noble history” è stata scritta, davvero e “with wit / taught thee by none but him”, dalla reale presenza dello Sposo; ma la sua verità non è puro lusso metaforico-luministico quadro predisposto per una sorta di scena vivente, bensí carne e fiamma di ognuno sulla terra: “Those rare Works where thou shalt leave writ, / love’s noble history, with wit / taught thee by none but him, while here /they feed our souls, shall clothe Thine there. / each heav’nly word by whose hid flame / Our hard Hearts shall strike fire, the same / Shall flourish on thy brows, and be / Both fire to us and flame to thee; / Whose light shall live bright in thy Face / By glory, in our hearts by grace”: “feed”, “clothe”, “hard Hearts”, “brows”, “Face”, “hearts” sono altrettanta realtà come il fiore della grazia e “flame”, “fire”, “light shall live bright” sono solo la veste (“shall clothe Thine there”), a causa della gloria. insomma, crashaw non solo ha sapientemente descritto un’abbagliante “love’s noble history”, un mistico trionfo di altissimo fulgore simbolico-allegorico, ma tiene profondamente, e gli preme, pure a sottolineare, in assoluta visibilità, il riverbero universale e salvifico sulla terra a parità di regalità: “Thou shalt look round about, and see / thousand of crown’d souls throng to be / themselves thy crown. sons of thy vows / the virgin-births with which thy sovereign spouse / Made fruitful thy fair soul, go now / And with them all about thee bow / To Him, put on (he’ll say) put on / (My rosy love) That thy rich zone / Sparkling with the sacred flames / Of thousand souls, whose happy names / Heav’n keeps upon thy score. (Thy bright / Life brought them first to kiss the light / That kindled them to stars)”: e qui, nella scintillante regalità astrale del mistico

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“desposorio”, si attua una gioiosa fecondità che sfavilla d’amore sull’intera umanità felicemente accompagnata da teresa e di essa fedele compagna nel trionfo celeste attorno all’agnello mistico sposo. Ed era questo, in fondo, il messaggio sacrificale ed alato di Santa Teresa, perfettamente còlto dal pur esuberante o iperteso luminismo e splendore numeristico-figurativo (“Thousand of crown’d Souls”, “with the sacred flames / of thousand souls”) di Richard Crashaw — le buone opere della santa sullo sfondo della gloria celeste e della salvezza delle anime a lei affidate. Si delinea, quindi, il mistico “camino” dell’esperienza mistica di teresa nell’esemplare traccia della sua glorificazione: “And so / Thou with the Lamb, thy lord, shalt go; / And wheresoe’er he sets his white / steps, walk with Him those ways of light / Wich who in death would live to see, / Must learn in life to die like thee”. Se anche Crashaw, nei due versi finali, non rinuncia per l’ultima volta al suo concettismo e alla dimensione visionaria di vita-morte-vita, essi fanno piuttosto perno su due nuclei vitali e salvifici dell’esperienza totalizzante di Teresa (“in life to die like thee”) e, prima, sulla conciliazione necessaria tra “desire” umano di elezione e la realtà oggettiva del suo esemplare e compiuto magistero nella propria persona, vicenda e, soprattutto, nell’autentica realtà della sua propria opera, della buona opera.

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la tEologia dEll’amorE in santa tErEsa d’Ávila

la scrittura e la didattica teresiana, come rispondono sempre al mandato di qualcuno (confessori, guide spirituali, maestri, amici, monache, ecc.), sono, quindi, sempre, un atto di obbedienza, anche al Signore («e anche il Signore io so che lo vuole proprio», Prologo alla vita)  — al quale, prima di cominciare, teresa chiede il primo dei suoi continui e necessarî interventi 2, cioè, la «grazia» della «chiarezza e verità» della sua «relazione» —; così, nel loro affanno dimostrativo, esse nascono dall’«esperienza» profonda. e tale esperienza e scrittura sono l’immediata espressione esistenziale e totalizzante, vita vissuta e sofferta in umiltà, dello strettissimo rapporto con Dio fino all’unione mistica. diciamo subito che l’esperienza incessante e amorosa di dio — anche in moduli penitenziali e di autodenuncia — costituisce il fondo attivo e drammatico della vicenda teresiana: della donna, della monaca, della riformatrice dell’ordine carmelitano e della fondatrice di monasteri, della mistica e della scrittrice senza compartimenti stagni, ma sull’unico fondamento dell’integrale compromissione personale nell’opera tutta, che corrisponde pienamente alla esplicitazione della visione teresiana e sua condizione spirituale e teologica totale. Così, il Libro della Vita, il Cammino di perfezione, le Dimore del castello interiore, il Libro delle fondazioni (ma anche le non poche poesie e le infinite lettere del suo fittissimo epistolario) non sono altro che la trascrizione integra citiamo i testi da santa teresa de Jesús, Obras completas. transcrip., introduc. y notas de Efrén de la Madre de Dios, O.c.d. y Otger Steggink, 0. Carm., B.A.C., Madrid 19796; la traduzione dallo spagnolo e nostra. Cfr. Vita, 28. 2 cfr G. cHiaPPini, Figure e simboli nel linguaggio mistico di Teresa d’Ávila. Le «Moradas del Castillo interior», Quadrivium, Genova 1987: sulla presenza di dio nella scrittura: pp. 335-353. 3 cfr. ibid., pp. 2-32 e indice analitico.

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le, pur tra grandissime fatiche, preoccupazioni e contrasti e malattie, disagi e difficoltà di scrittura (rapporto tra «intendere» e «far intendere», la formula cautelativa dell’«a me sembra» — «me parece», la scrittura prismatica, le comparazioni, o similitudini 3, ecc.), per le «sorelle» o «figlie», primariamente, ma anche per più vasti ambienti e lettori, di quella stessa esperienza. Di fatto, l’opera scritta è la continuazione autentica di ogni altro genere di attività realizzata da teresa come missione quotidiana e ragione del vivere secondo lo «spirito di Dio» (Dimore. VI, 3, 17, p. 411), che costituisce il centro unico reale e punto esclusivo di riferimento. Dio è la luce di ogni cammino (Fondazioni, 0, 14, p. 548) e il segno decisivo di una volontà che va oltre ogni necessità e preoccupazione o disegno umano (Fondazioni, 10, 13-15, p. 548) per identificarsi con una ben più alta necessità e desiderio radicale, che s’impone al di là di ogni progetto o modo di essere nel mondo. È emblematica, p. es., la vicenda che ha come protagonista una bambina di 0- anni 4, fatta sposare con uno zio per questioni di eredità e che, dopo poco, come già i fratelli avevano scelto la via del chiostro, seguì la stessa strada, da un lato, per la volontà di Dio («Siccome il Signore la voleva per sé»), di cui santa teresa indica bene e in modo netto il carattere naturalmente esclusivo («quando il Signore vuole un’anima per sé, le creature hanno poca forza per impedirglielo», Fondazioni, 10, 8, pp. 547-548). D’altra parte, però, per attuare tale scelta, nella persona umana operano pochi ma decisivi elementi di forza, a loro volta, ugualmente precisi ed inequivocabili — come deve essere e com’è anche per Santa Teresa: dapprima, il «desiderio di lasciare tutto» (Ibidem, 10, 16, p. 548), che è inclinazione e spinta di totalità già subito — ed era ancora dio, comunque ad intervenire sul primo manifestarsi del «desiderio» («lo andò aumentando»). Ma poi il discorso si fa ancora più intransigente e decisivo: «A quel tempo era mossa solo (corsivo nostro) dal desiderio di salvarsi e di cercare i mezzi migliori; giacché le pareva che, immersa di più nelle cose del mondo, si sarebbe dimenticata di cercare ciò che è eterno, perché Dio le infuse a così pochi 4 si veda tutto il c. 0 per inquadrare l’episodio nella fondazione del monastero di Valladolid in Fondazioni, pp. 545-559. 5 Cfr. Efrén de la Madre de Dios y Otger Steggink, Tiempo y vida de Santa

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anni quella sapienza di cercare come guadagnare ciò che non finisce. Felice anima! che così presto uscì dalla cecità in cui finiscono tanti vecchi. Appena vide che la sua libertà era libera, decise assolutamente di usarla in dio». continua, dunque, il semplice impulso del «desiderio», ma questo diventa apertamente attivo orientamento che mira a liberare la vita e a collocarla nella prospettiva oltremondana («salvarsi») e del giusto cammino dell’anima («cercare i mezzi migliori»), sia pure nell’incerta luce dell’opinione («le pareva»), fra l’altro, ansiosa e già preoccupata di situazioni non ancora avvenute e solo paventate («immersa di più»), in misura non sperimentata ma prevista fino a ipotizzare con sicurezza una conclusione certamente negativa («si sarebbe dimenticata»). Ed è il senso dell’«eterno» che s’impone precocemente in un contesto esistenziale non ancora fissato ma già considerato in anticipo e subito respinto in una visione incredibile e inaccettabile di futuro sconosciuto... ancora, santa teresa, come sempre, e in ogni istante della sua vita e opera, viene a riconoscere chiaramente e inequivocabilmente la chiamata di Dio («a così pochi anni quella sapienza [...] di cercare come guadagnare ciò che non finisce»), una chiamata ben individuata nella sua provenienza esterna e profonda nell’interno dell’anima («Dio le infuse»). E da un lato la sorprendente equazione in proporzione geometrica («a così pochi anni« — «ciò che non finisce»), l’esiguo di un’età infantile proiettata nell’infinito e nell’eterno, il suo ricevere la pienezza delle qualità proprie dell’età matura («sapienza»); e, inoltre, l’incompiutezza tutta da completare da parte dell’anima, tuttora bambina, ma nondimeno avviata ad una ricerca affidata alla sua volontà e tutta da svolgere. Dio non porta, di per sé, a destinazione, dà la base opportuna di valutazione e di partenza, indica il modo («come»), ma non elimina il «cercare», anche se, proprio nella segnalazione delle misure opportune ed esatte del punto d’arrivo («ciò che è eterno»), dà la certezza del «guadagnare». Abbiamo scelto appositamente la singolarità dell’esempio, perché presenta una traiettoria speciale e, per di più, in una bambina di pochi anni, sposata prematuramente (anche per i tempi) per ragioni di interesse — ma non per forza, bensí, se si può dire, con una certa indiscutibile

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adesione, pur nell’inquietudine dei «pericoli del mondo» e nella tristezza e fatica del vivere per combattimento interiore: la bambina era sconvolta da «grandissima pena» per l’«amore che aveva per il suo sposo» e che «non la lasciava decidere» e dal desiderio di farsi monaca come i fratelli... santa teresa non ha dubbi e si compiace in modo esplicito: «Felice anima!»... È questione di tempi («così presto») e di uscire da una «cecità» che coglie tutti, anche i più vecchi — forse, quelli che dovrebbero avere piu vigile il senso della «sapienza» dell’«eterno»... ed ecco, allora, che il momento unico e definitivo della «libertà» coincide con l’esercizio limpido e concreto della «volontà» e della decisione totale («decidere assolutamente») di identificare quella stessa «volontà» con Dio. A questo punto, è già tutto chiaro il nucleo portante dell’anima teresiana — e la figura determinata di ogni anima per santa teresa — almeno, come punto di partenza di un «cammino di perfezione», arduo e mirabile, che fa coincidere — comunque, e prima ancora della scelta dell’«umiltà» vera che si manifesta nel desiderio invalicabile di farsi santi, appunto — la «libertà» di ognuno con l’atto di volontà in Dio e per Lui, assoluto e totale, in funzione di «ciò che non finisce». In questo consiste la «sapienza», nonché il supremo atto d’amore. E se questo è il modello unico teresiano — sia pure graduato nelle «grazie» di dio, nelle «esperienze» e nella prospettiva divina, tempi e modi ecc. — ogni altro discorso di Teresa non può che vertere sulle «differenze» e sui «modi» e sui «mezzi» ecc. non più sull’unicità di una determinazione e scelta di salvezza. Ciò non toglie utilità e significato alla didattica del mistico — un magistero richiesto per obbedienza, ma, soprattutto, narrazione delle esperienze complesse e privilegiate e invito a ripeterle ognuno per sé —; anzi, tale didattica trae proprio le sue maggiori ragioni di fondatezza e utilità dalle condizioni iniziali che teresa si attribuisce: la resistenza alla scelta, specialmente quanto alla vocazione, le difficoltà del temperamento, certi disagî dell’ambiente familiare, le malattie; le incomprensioni dei confessori impreparati, e anche di tanti amici pur buoni e santi, gli infiniti e tormentosi dubbî e tentazioni, anche demoniache, che rendono difficile il «cammino». Si aggiungano, poi, le profonde esigenze di Santa Teresa per la sua personale incapacità... — circa le ragioni necessarie e non rinviabili di quella

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che sarà la riforma dell’Ordine carmelitano, specialmente la clausura, il piccolo numero delle religiose, la povertà, l’orazione mentale. e tutto questo rappresenta certo un coacervo di condizionamenti anche umilianti: della vita e dei suoi problemi, dei limiti della salute corporale — le esigenze stesse del corpo possono rendere fortemente arduo il cammino di ogni giorno, come anche lo faranno tutte le controversie all’interno dell’ordine, i rapporti con le autorità ecclesiastiche, i superiori, gli ispettori, i vescovi, le incomprensioni della città e dei suoi abitanti, i problemi connessi alle «fondazioni» ecc. 5. Eppure, probabilmente, per Santa Teresa ogni difficoltà sul suo percorso è ancora inferiore a ciò che ella ritiene la sua maggior colpa, il suo essere, sentirsi e chiamarsi continuamente «ruin» (‘malvagia, ingrata, colpevole, miserabile, sciagurata’, ecc.): e questo per non aver compreso o trascurato o osteggiato il richiamo di Dio; o, anche, il non aver respinto o addirittura accolto «le occasioni che ebbi di offendere dio», come fa fede la Vita, ma anche ogni sua opera. Forse, proprio in questo continuo senso del peccato — affatto turbato, peraltro, da scrupoli o da morboso senso di colpa — così come della gioiosa libertà nel mistero di Dio e nella drammatica e tesa volontà di salvezza sta il modello essenziale e straordinario dell’«esperienza» mistica teresiana e il suo fondamentale esempio di avventura spirituale e di santità: la profonda coscienza dell’appello di Dio e la necessaria e immediata risposta dcll’anima, ad ogni istante, e la pace, pur tra mille spasimi e infinite e dolorose fatiche, nel riconoscere l’aiuto della misericordia e dell’amore di Dio. Lo stanno a dimostrare, ripetiamo — e fino alle minime pieghe della coscienza — proprio le opere scritte da teresa, sperimentali tutte, comprese le numerosissime lettere, dove la scrittura è continuamente intrecciata alla vita, alle persone destinatarie, e alle operazioni sottilissime dell’anima nel giuoco dialettico delle potencias (memoria, volontà e intelletto) fino ai punti estremi dell’itinerario mistico (dalla preghiera di quiete allo sposalizio mistico all’unione alla transverberazione, ecc.). a noi pare giunto, ora, il momento di analizzare alcuni momenti intermedî nell’interno delle scritture, specialTeresa, B.A.C., Madrid 19772. 6 Per capire le ragioni e le valutazioni essenziali del «mondo» per santa

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mente della Vita, che, giustamente, è principalmente narrazione delle occorrenze anche quotidiane, esistenziali, non solo dell’itinerario interiore; ma anche delle Dimore, dove tale itinerario è analizzato minutamente, come del libro delle Fondazioni o storia dei monasteri: tali momenti intermedî possono essere considerati delle pause, preghiere o semplici notazioni e riflessioni su certe zone e condizioni attuali dell’anima di Santa Teresa. Al di là delle attentissime descrizioni o analisi delle fasi e delle esperienze, che costituiscono i percorsi profondi della vicenda mistica teresiana illustrati alle «sorelle» e «figlie», codesti momenti di passaggio possono utilmente ragguagliarci, crediamo, sui modelli generali di santa teresa, in certe particolari situazioni della sua storia, in relazione alla visione globale e anche minuta della complessità dei suoi problemi e dell’ampiezza articolata delle sue visioni. Uno di questi momenti di transito fra i tanti nella Vita, in c. 6, 9 (pp. 42-43), riassuntivo di svariati sentimenti e vero e proprio crocevia di emozioni, propositi, considerazioni, preghiere, ecc.; in una parola, un amplissimo esame di coscienza, ma quanto sofferto e pure lucido bilancio di una situazione morale, psicologica e anche fisiologica; e, tuttavia, essenzialmente, nodo di teologia spirituale a confronto con problemi e ragioni esistenziali complessi e dell’itinerario vitale intrecciato alle ragioni di Dio (tra «occhi dell’anima» e «occhi del corpo»): Chi avrebbe detto che sarei dovuta cadere così presto! Dopo tanti doni e aiuti di dio, dopo che Sua Maestà aveva cominciato a darmi delle virtù — le quali stesse mi risvegliavano a servirlo -, dopo essermi trovata quasi morta e in così grave pericolo di essere dannata, dopo avermi risuscitato anima e corpo, al punto che tutti quelli che mi vedevano si spaventavano di vedermi viva. che cos’è questo, mio Signore? In una vita così pericolosa dobbiamo vivere? (corsivi nostri)

Punto di partenza, il racconto provato della predilezione teresiana per il culto di San Giuseppe (a cui, fra l’altro, dedicò il suo primo monastero), con la confessione della propria inadempienza e non conformità e risposta negativa alla «grazia» del santo, quasi per vocazione perversa e necessaria secondo la propria condizione naturale (l’essere «ruin»): «Piaccia al Signore che io non mi sia sbagliata nell’osare di scrivere di lui [s. Giuseppe]; perché, anche

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se dichiaro di essergli devota, nei servizi e nell’imitarlo ho sempre sbagliato; perché lui ha fatto in modo, per quello che lui è, che io potessi sollevarmi e camminare e non essere paralizzata; e io, per quella che sono, ho fatto in modo di usare malamente di questa grazia» (ibidem, 6, 8, p. 42). Nel linguaggio teresiano l’esclamazione, come segno del pathos immesso nella scrittura — per essere, nella situazione vissuta, narrata e insieme attuale, simultanea all’evocazione — è il momento scatenante di tutto il cospicuo materiale dell’anima messo tutto a repentaglio alla fine del capitolo 6. Santa Teresa elenca una serie di «después» («dopo»), riferendo, all’indietro, una anteriorità infinita di situazioni avvenute, oggettive, dove è attore e promotore principale dio, anche lei stessa come soggetto consapevole, le «virtù» indotte da «Sua Maestà», e persino coloro che la circondano nella sua quotidianità. Il che dà bene un’idea della coralità attorno a Santa Teresa, al centro di infinite relazioni e operazioni: e Dio, le forze morali-divine, gli altri sono tutto l’universo teresiano riconosciuto, tutto compartecipe. Dio, naturalmente, è il reale protagonista unico operante in varî modi e direzioni, dentro il tempo e dentro la vita («dopo»): «dopo tanti doni e aiuti di Dio», «dopo che Sua Maestà aveva cominciato a darmi delle virtù», «le quali stesse mi risvegliavano a servirlo» [obnubilata o non in grado di agire santa teresa riceve, tuttavia, le «virtudes» da dio e, riconosciutele, si prepara e si dispone ad essere in asse con lui, senza ambagi, nell’unico modo opportuno e nemmeno discusso — il «servirlo» — che è il modello dell’immediatezza ignaziana nella e verso la «chiarezza»]. «Dopo essermi trovata quasi morta e in così grande pericolo di essere dannata»: la drammatica ed esclusiva realtà esistenziale si associa subito, senza commento, e in tutta la sua necessaria durezza di informazione al lettore e presa di coscienza, alla visione consequenziale e sicura della condanna, della dannazione, «dopo avermi risuscitato anima e corpo»: non meno asciutto il comunicato della resurrezione a tutti gli effetti e che santa teresa elenca senza aggettivi, ben consapevole della rilevanza in sé della vicenda... specialmente con il commento della rappresentazione corale dei circostanti nello stupore del miracolo di lazzaro: «che tutti quelli che mi vedevano si spaventavano di vedermi viva».

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dunque, interventi varî e cospicui di dio, un miracolo, la visione della morte, dell’inferno e la resurrezione, il risveglio per le «virtù» al servizio: Santa Teresa ci introduce nella sua vita, tra quotidianità e i novissimi, ci rende partecipi dei misteri divini e mette a confronto se stessa con la propria ingratitudine e caduta (senza dirci la reale vicenda e sua gravità reale, se non nella sua enunciazione sgomenta): è già qui che la sua vicenda si pone come esempio vissuto e urgente di un aggrovigliato e preoccupante momento dei suoi rapporti con dio: «chi avrebbe detto che sarei dovuta cadere così presto...». Ci entrano in mezzo la vita, la morte, il giudizio, la Grazia, il riscatto morale e la salvezza visti da vicino, toccati con mano con e per il lettore (e, prima, drammaticamente, in sé e per sé, con Dio...). E davanti agli occhi del lettore compare il segno — il modello — della vita umana, dei rischi per l’anima e della presenza urgente e immensa di dio, sconvolgente momento di gravissime contraddizioni e paure, quasi incomprensibile: «Che cosa è questo, Signore mio?». non interessa qui, d’altra parte, mettere l’accento sulla scrittura in sé, per quanto ansiosa, nell’affannata e incalzante sintassi teresiana; ciò che conta, nell’incontro preciso con il testo reale, effettuale, è l’urgenza stupita della testimonianza diretta, vissuta, dove Teresa, s’è detto, realizza pienamente — in sé — il modello delle proprie relazioni, dando, nel contempo, i nuclei portanti della sua visione esemplare e del suo discorso-prassi spirituale, secondo il mandato che richiede la scrittura, in quanto scrittura dell’obbedienza, ai confessori e a dio: sto scrivendo questo, e mi sembra che con il vostro favore e per vostra misericordia potrei dire quello che san Paolo — sebbene non con quella perfezione — che io non vivo più, ma che Voi, mio Creatore, vivete in me [ ai Galati, 2, 20], come avviene da alcuni anni in cui, per come posso capire, mi tenete per la vostra mano e mi trovo con desiderî e decisioni, e in qualche modo ho provato per esperienza in questi anni in molte cose, di non fare nulla contro la vostra volontà, per piccola che sia, sebbene io debba compiere moltissime offese a Vostra Maestà senza rendermene conto (ibid., p. 43).

il brano prosegue con tutta la sua ampiezza emozionale e di articolazione spirituale sperimentale, Dio vi è presente con due mozioni concrete e aderenti: «con il vostro favo-

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re» — «per vostra misericordia» (compagnia, assistenza, ausilio, protezione; e strumento della compassione, pietas e condivisione cordiale e profonda dell’altrui sofferenza e povertà ecc.). Su tali supporti Santa Teresa, nel momento in cui li riconosce («Sto scrivendo questo» «mi sembra»), istituisce la propria figura, sull’esempio paolino — mutatis mutandis, beninteso, circa la misura totale e distanza dalla «perfezione» — dell’avvenuta sostituzione con Dio (« Voi[...] vivete in me»), appunto, operante con quei modi o mozioni: «mi sembra», «per quello che posso intendere» sono le misure della distanza tra dio realmente operante e l’intelletto della comprensione dell’anima che si avvicina a lui, lo riconosce e ne accetta la sostituzione sul piano vitale; ma in tale distanza, se Dio rappresenta il punto sicuro di riferimento insuperabile, l’intelletto non si preoccupa più di tanto: non è la speculazione la cosa più importante quanto, appunto, guardare Dio davanti a sé («senza rendermene conto»). Dio è nella storia della mia vita («come avviene da alcuni anni») e mi è vicino («in questi anni») come un padre o una madre o un amico strettissimo («mi tenete per la vostra mano»); io, d’altra parte, anche per questa intimità familiare — anche fisica, non solo simbolica («tenete», «mano») — colgo me stessa in piena tensione di inclinazioni e scelte («mi trovo con desiderî e decisioni») ma pienamente in asse con Dio, davvero, per infinite prove oggettive, dirette, che passano per le vie della mia totale partecipazione («in qualche modo ho provato per esperienza in questi anni in molte cose, di non far nulla contro la vostra volontà, per piccola che sia»): la mia azione non si oppone in nulla alla «volontà» di Dio, e l’agire è certamente un pullulio di quotidianità («molte cose») rispetto al possente e diretto, essenziale, rapporto col divino in modo del tutto oggettivo e concreto nella mia viva vicenda provato («probado», «espiriencia»). altro punto importante, che teresa coraggiosamente accerta, è il possibile piano di un agire dell’anima quasi contro se stessa o malgrado se stessa: agire senza rendersi conto, senza intenderlo, ma, ugualmente rendersene conto come di un possibile-certo, doloroso di più, perché come sfuggito alla propria piena intelligibilità e consapevolezza... E, più avanti, Teresa proclama anche per noi il proprio

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certo proposito di situarsi solo in dio: E anche mi sembra che nessuna cosa mi si presenterà da parte del vostro amore che io tralasci di occuparmene con grande determinazione, e in certe cose Voi mi avete aiutato a uscirne, e non voglio il mondo né alcuna sua cosa, e nessuna cosa mi dà gioia che non sia di Voi e il resto mi sembra una croce pesante. Ben posso ingannarmi, e così sarà, che non abbia ciò che ho detto; ma ben vedete Voi, mio Signore, che per ciò che posso capire io non mento, e sto temendo — e con molta ragione — se mi dovete tornare ad abbandonare, perché so già dove può arrivare la mia fortezza e poca virtù se Voi non me la andate dando sempre e se non mi state aiutando affinché io non vi lasci; e piaccia a Vostra Maestà che nemmeno ora io sia abbandonata da Voi, sembrandomi tutto questo di me (ibid.).

certamente, ora, teresa usa una certa quale prudenza («mi sembra», «per ciò che posso») per i limiti dell’intendere (visti sperimentalmente come possibili...), tentando di far coincidere offerta-proposta divina con risposta coerente, vista la sicura garanzia dell’amore. E l’amore è espresso, concretamente, nell’aiuto riconosciuto. il fondamento — vogliamo dire il discrimine- tra le «cose di Dio» e il resto è poi il certo della «gioia» (lo stesso avviene per sant’Ignazio di Loyola), che solo da Dio viene, non dal «mondo», dal quale vengono solo pesi e condanna, segni di fatica e di morte («croce pesante»). Sappiamo bene che per Santa Teresa il «mondo», pur condizionamento, è, tuttavia, spazio-tempo-vita necessarî e, soprattutto, non eliminabili 6; ma la scelta è chiara ed esatta, luce di quella vita sempre di dio, che solo in lui e per lui si fa accettabile. e in questo è una traccia ulteriore dell’articolata discussione interna che santa teresa fa per convincersi delle sue scelte: solo se Dio è con noi tutto ha un senso. Il dubbio-timore è tutto qua. Si Deus pro nobis, certo... ma è sempre possibile il dubbio (sarà il dramma di molta parte della storia di Teresa!): «inganno», «non mento», «sto temendo» non sono la paura della verità, ma il dubbio su quale sia, davvero, quella verità; e, poi, il desiderio di coincidere solo con quella verità! E a questo punto, Santa Teresa denuncia il suo unico scopo e fondamento: la «virtù» — forza morale — e «aiuto» per i suoi limiti di fronte alla sua «fortezza» teresa, cfr. Dimore, 4, , 3: «siccome siamo soggette al mangiare e al dormire, senza poterlo evitare — ed è gran tormento — conosciamo la nostra miseria e desideriamo di andare dove nessuno ci disprezza [con tali miserie]».

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assai relativa, con tutta la sua indeterminata certezza del «saber» e della «poca virtù», con i relativi abbandoni: Non so come vogliamo vivere, dato che tutto è cosi incerto. Mi sembrava, Signor mio, già impossibile abbandonarvi completamente; e siccome tante volte vi ho lasciato, non posso non temere, perché allontanandovi un po’ da me precipitavo completamente a terra. siate benedetto per sempre che, sebbene io abbandonassi Voi, Voi non abbandonaste me così fino al punto che non tornassi a sollevarmi, poiché Voi mi davate sempre la mano: e molte volte, Signore, non la volevo, né volevo capire come molte volte Voi mi chiamavate di nuovo... (ibidem.).

È la relatività del fondamento del proprio essere («sembrandomi questo di me», che è opinione, certo, ma, trattandosi di sé, non può ingannarsi...) e data la precarietà di tale fondamento ove sia in assenza di Dio... Quanti »sembra», «mi sembrava» e «temere» in questi testi... sono aspetti, questi, profondamente umani, pudichi e timorosi quanto certi ad essere proclamati... santa teresa sembra balbettare il suo timore. incertezza, sfaldamenti di sé, contraddizione tra credenza e realtà («tante volte»), tra l’«impossibile» di qualunque alternativa a dio e la poca coerenza o l’abbandono effettuale. e il distacco, pur folle, ma non impossibile, ha per conseguenza la caduta e la sconfitta, il precipizio. Ricordiamo sempre il «Niente senza di me potete fare» (Gv. 15, 5)... E il peggio, ben evidentemente, è l’abbandono, anche minimo («un po’») di dio stesso [...], un allontanarlo, un tenerlo volontariamente distante. («Un po’, un pochino» dice spesso Santa Teresa, ed è il tutto del nulla, poi... soltanto, ma, appunto, come è possibile che proprio lei lo dica... se non in termini altamente analogici?) Assai suggestivo, questo timido e timoroso bilanciamento dell’anima tra impossibilità dell’abbandono e incoerenza... specialmente, quando teresa offre a dio la propria confusione e a noi la propria solidale consapevolezza... ahinoi! con le relative differenze. sul fondo, poi, si tocca con mano la pienezza indefettibile di una certa presenza e di una costante fedeltà di tenerezza: «Benedetto siate Voi... non mi lasciaste... dandomi la mano»... ancora la «mano», una concretezza non simbolica ma persino fisica dell’«assistenza» divina. In definitiva, Teresa sembra affacciare ancora una volta il tema così nobile e pericoloso della libertà umana, quella del «se tu lo volessi» (del voler o non voler liberamente seguire l’offerta che dio fa della

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via della salvezza) di Fray Luis de León nel commento mirabile al Libro di Giobbe. Tale libertà si esercita in una duplice azione negativa: come rifiuto pratico della mano (o mancanza dell’esercizio della volontà individuale); e rifiuto intellettuale (o mancanza dell’esercizio della volontà quanto all’intendere: «e molte volte, Signore, non la volevo, né volevo intendere come molte volte mi chiamaste di nuovo»), specialmente, di fronte all’incomprensibilità della chiamata sempre ripetuta, senza soste... tutto questo ampio riconoscimento di teresa, franto e insistito sul drammatico giuoco degli abbandoni e fallimenti umani, è poi, invece — da parte sua — il ritorno implicito all’amore di dio, alla sua preoccupazione per l’uomo, che sono i supporti — naturali e necessarî per la risposta teresiana continua — ben lo sappiamo. Anzi, prima, il riconoscimento e la volontà di avere Dio in sé, non di lasciarlo. la pienezza di questo modello, diciamo ancora una volta, va oltre la singola esperienza teresiana; o, almeno, attraverso quell’esperienza — forse, proprio perché è esperienza reale, vissuta, da una persona eccezionale come Teresa e pure così umanamente e umilmente vicina all’uomo — vediamo tutti, dal vero di una testimonianza certa, la rigorosa vitalità di una scelta integrale, sempre a portata di mano, purché attuata con tutta la dedizione e l’impegno spirituale di santa teresa. Per questa ragione, deliberatamente abbiamo cercato un esempio in una pausa del racconto della Vida; e così, ancora, isoliamo un breve passo delle Dimore — tra i tanti, in un certo senso, al di fuori della narrazione-trattato, quasi una sosta di transito, una riflessione fuori dello schema, del «concierto» che santa teresa tenta sempre di realizzare — appunto, per vedere in atto un modello più vasto, una proposta più generale che non sia la squisita e drammatica vicenda dell’itinerario mistico. anche se, naturalmente, come ripete sempre Santa Teresa, per tutti è l’invito e per tutti è aperto il «cammino»... Il nucleo del brano è il rapporto giusto con Dio, la conoscenza delle «grandezze di dio» e, per converso, il senso della propria condizione di «vermi così pieni di cattivo odore» nel mondo — pur inteso come massimo di «piaceri e ricchezze» — che è «tutto schifoso e spazzatura, confrontato con questi tesori che dovranno godere senza fine»

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(Dimore, VI, 4, 10, p. 415). Santa Teresa è ben consapevole di essersi distratta — e le sue distrazioni, poi, sono spesso il segno della sua incredulità per chi non vuoi capire... e qui stava parlando della «orazione con rapimento o estasi o impulso», con grandissima e dettagliata aderenza... ebbene, proprio nel momento in cui la didattica sperimentale del mistico sembra arrivare ai punti piu alti e ardui di quella stessa esperienza, teresa ferma la sua trattazione (e per questo la sua scrittura è felicemente integrale) e fa una confessione umanissima, candida ma durissima, nella delineazione di un modello comportamentale minimo: «Mi sono molto distratta senza rendermene conto; perdonatemi, sorelle, e credete che, arrivata a queste grandezze di Dio — dico a parlarne -, non può non farmi molto soffrire il vedere ciò che perdiamo per nostra colpa. Perché, sebbene sia vero che sono cose che il Signore dà a chi vuole, se volessimo bene a Sua Maestà come Egli ci ama, le darebbe a tutte; non sta desiderando altro, se non avere a chi darne, ché non per questo diminuiscono le sue ricchezze» (Dimore, VI, 4, 12, p. 416). Per Santa Teresa il tema è «parlare» delle «grandezze di Dio», così, semplicemente... a quel punto, nella coscienza della scrittrice, che si sente responsabile della propria coerenza interna e fedeltà al mandato di parlare della propria esperienza, subentra una considerazione che investe tutti gli altri, non lei stessa, che sta dentro quella stessa mirabile esperienza... da un lato, le «grandezze di dio» e dall’altro, «quello che perdiamo» (si noti il plurale, così come in «nostra colpa...»): ciò significa che fuori o al di qua delle «grandezze di Dio» c’è la perdita, il rimanere al di fuori in un altro ordine che con quelle non ha a che vedere. nel par. 0 aveva dimostrato teresa di non sottovalutare il «mondo», per il suo carattere limitato e finito nello spazio e nel tempo e incapacità di aiutare l’anima a superare quelle limitatezze e imperfezioni, tutt’al più comprensibili nei confini umanissimi dell’umana immaginazione («Oh, che cosa ingannevole, che truffa è il mondo con tutte le sue cose, se non ci porta e aiuta in questo, sebbene i suoi piaceri durino per sempre e così le sue ricchezze e i godimenti che si possono immaginare»). È, quindi, solo questione di misura? di errata valutazione? di un saper accontentarsi? Per Santa Teresa la sproporzione è certa ed evidente: «che tutto è schifoso e spazzatura, paragonato a questi tesori

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che si dovranno godere senza fine, e nemmeno questi sono nulla a paragone di avere per noi il signore di tutti i tesori sia del cielo che della terra»: ed è ostinata cecità il voler misconoscere la propria miseria, il non accorgersi dei propri limiti... Ma nel par. 12 Teresa affaccia qualcosa di più inquietante, anzi, essa non esita a definire la perdita come dovuta ad una «colpa», comune e universale, «nostra»... e si delinea, così, una visione più dura, più intransigente, anche minacciosa, in un certo senso, pur senza arrivare, santa Teresa, a dare ulteriori spiegazioni; ma già il senso di colpa è abbastanza inquinante [...] «Chi è senza peccato...». e, d’altra parte, teresa stabilisce immediatamente la «verità», che, se non risolve il problema, lo pone nei termini oggettivi: è Dio che è fonte e ragione d’amore, perché è Dio il tutto e l’uomo è «miserie», la «nada», come dirà San Juan de la Cruz... Ma il punto essenziale è il ribaltamento di ogni atteggiamento umano verso quella posizione che per Santa Teresa è tutta la gioia e il cruccio di tutta la sua vicenda: la certezza di dio, di dio come amore, di dio come desiderio d’amare: qui sta la prospettiva nuova. dio ha bisogno di amare, pur senza venir meno a se stesso, come un di più di sé, una sovrabbondanza rispetto alla sua stessa totalità, allo stesso assoluto divino. E qui si appunta la teologia dell’amore. Il punto contrario è l’assenza dell’uomo, la sua latitanza o resistenza, la sua vera miseria l’incapacità ad essere amore, persino ad essere pari a Dio, almeno nell’amore. E per Santa Teresa è pena («avere gran pena»): sarà una delle grandi pene della sua vita il vedere l’uomo in perdita, il suo non rispondere a dio che lo chiama ad amare, e nell’amore lo chiama a sé — e chiama tutti! «todas» («tutte») — per dargli le sue ricchezze, le ricchezze dell’amore, appunto...

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il «sEnso dEll’amor di dio» in santa tErEsa dE Ávila

. Ragioni, fonti e metodo della «theologia cordis» la scrittura didattico-sperimentale di s. teresa s’innerva finissimamente nella stretta complessità dei proprî parametri e delle proprie linee d’azione e funzioni, al vivo della presenza totale di ognuno di essi ad ogni istante e in ogni tratto. l’«intendere» e il «far intendere» sono i nuclei attivi che animano e organizzano tale scrittura puntata sulle «cose di dio» , su «quello che accade fra l’anima e nostro signore», sui «misteri della nostra santa fede» 2, per fissarsi sul minimo possibile e di variata distanza («qualcosa», «alcune cose») 3 di quell’«intendere» e seguente «far intendere», che misurano la misericordia di dio e le «mercedes» (‘grazie’) — sia pure in senso analogico, sempre — l’assistenza diretta di dio in tutta l’opera teresiana, della scrittrice e della mistica, della riformatrice dell’ordine carmelitano e della instancabile fondatrice di case e monasteri. senza contare, naturalmente, da un lato, le destinatarie prime di ogni opera e fondazione («le anime che portava a questi monasteri che Sua Maestà ha voluto che siano fondati sulla prima regola di nostra signora del Monte Carmelo») 4, le «hermanas» (‘sorelle’); e «alcune in particolare», verso le quali «sono tante le grazie che no Usiamo per il testo teresiano l’edizione santa teresa de Jesús, Obras completas, Transcr., Introd. y notas de Efrén de la Madre de Dios, O.C.D. y Otger Steggink, O. Carm., Madrid 1979; cfr. qui Meditación de los Cantares, Prólogo, , 334: «lo que pasa entre el alma y nuestro Señor»; sigle: Obras, MC. le traduzioni dei testi spagnoli sono nostre. 2 cfr. MC, i, , 334: «misterios de nuestra sagrada fe». 3 «algo, alguna cosa». 4 MC, Prólogo, , 333: «las almas que traía a estos monesterios que su Majestad ha sido servido que se funden de la primera regla de nuestra señora del Monte carmelo».

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stro signore fa loro» 5, come per una speciale predilezione divina, che, per noi e per il nostro tema, si traduce in un deciso appello alla scrittura (e, prima all’esegesi «quien les declare») e a quella teresiana concretamente. da un lato, dunque, per impulso diretto del signore, sorge un’esigenza forte e netta, invalicabile: le necessità che hanno di chi chiarisca e spieghi loro alcune cose di quello che avviene fra l’anima e nostro signore 6:

e inizia qui, in questo primo messaggio di grazia rivolto alle «hermanas», il rapporto di sottile circolarità esegetica ed ermeneutica che unisce teresa alle sue monache sul discorso, avvenimento ed esperienza mistica — che si traduce anche in scrittura — circa il primario suggerimento ed «entender» del proprio bisogno interiore. essendone dio la fonte e, come vedremo, la garanzia, il punto di partenza e di arrivo in itinere, già conosciuto e nuovissimo, desiderato e compreso e in fieri, sull’abbrivo di una sollecitante theologia cordis, che è approccio e metodo, forza attiva del «camino de oración» e suo compimento glorioso fondato sull’amore tra Dio e l’anima. Ed è necessario, prima di iniziare tale cammino, che subito compaia detto punto di partenza e necessario approdo, per amore, appunto, all’Amore infinito che ti attendeva e ti incoraggiava fin dall’inizio. Per Teresa, che ha già conosciuto la fonte divina dell’Amore che ti invita ad amare e a farti tu stesso amore in lui, tutto questo condizionamento iniziale è riconoscimento d’urgenza e di drammatica inquietudine — non è un caso che l’esempio-guida in tutta questa breve e forse incompiuta operetta senza titolo (o meramente editoriale Meditaciones sobre los Cantares — Meditazioni sui Cantici) , che vogliamo fissare per gli aspetti che ci riguardano, sia la figura della Samaritana (di Gv, 4), che al «pozzo di 5 «algunas en particular»; «son tantas las mercedes que nuestro Señor les hace». 6 MC, Prólogo, , 334: «las necesidades que tienen de quien les declare algunas cosas de lo que pasa entre el alma y nuestro señor».  Per la storia dell’operetta, cfr. Obras, p. 333; S. Teresa la scrisse più volte tra il 1566 e il 1574; avrebbe poi, dopo il 1580, ricevuto dal P. Diego de Yanguas l’ordine di bruciarla (nessuna traccia di documentazione in proposito); forse il testo non è compiuto o è giunto incompleto e senza titolo: Meditación sobre los Cantares è editoriale secondo l’edizione di Obras; la divisione in capitoli è del P. Gracián, che lo pubblicò per la prima volta a Bruxelles nel 1611, con il titolo Conceptos del Amor de Dios.

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Giacobbe» seppe dell’«acqua viva» e della «fonte di vita eterna» e della sete ardente di cristo, da lei placata con l’azione e la carità e l’ammirata contemplazione — i fiori -, che, dice teresa, «provengono da questo albero d’amore di dio e per lui solo, senza nessun interesse proprio» 8. e la samaritana, aggiunge teresa, «doveva forse essere stata ferita da quest’erba» [fisicamente provata dall’Amore] e «come aveva compreso bene nel suo cuore le parole del signore!»: 9 «gran caridad» e theologia cordis, dunque, si compendiano come «fruto gustosísimo» dell’amore di dio e per dio. si tratta di un punto essenziale e drammatico, fondamentale e decisivo, dei rapporti tra le anime e Dio; e su di esso la chiarezza è necessità primaria, s’è detto, per ovviare ad ogni sofferenza pratica ed ermeneutica: «i travaglî che si soffrono quando non si ha la chiarezza» 0. Un ulteriore parametro funzionale della scrittura teresiana, che s’innesta direttamente nel nesso scrittrice-Dio, è quello del confessore che consiglia e impone, e a cui l’obbedienza è certa e invalicabile «col parere di persone a cui io sono obbligata a obbedire» ; poi, l’esperienza propria, ardua e complessa, pur se apparentemente ed esteriormente semplice questione esegetica nella lettura e meditazione delle Sacre Scritture — qui, in definitiva, alcuni pochi versetti del Cantico dei Cantici: 1, 1; 2, 3-4; 4, 7; 6,9; 7,5; 8, 5 -; intervento del signore, sempre espresso da santa teresa con la cautela assoluta e con ribadimento dei proprî limiti (e si aggiungono le solite difficoltà ed esclusioni o inclusioni un po’ ironiche nei limiti propriamente riservati od attribuiti alle «mujeres») —; il «parecer», appunto, del «confessore»; e, infine, la presenza, invocata e unica garante della scrittura e del suo «acertar» (‘colpire nel segno’, ‘riuscire nel proprio fine di comunicazione’, ‘centrare il bersaglio’, ecc.), dello Spirito Santo. Ecco il modello di base dell’opera teresiana, che, partendo, qui, da una questione spicciola e, ripetiamo, formalmente di natura squisitamente esege8 MC, 7, 3, 359; 7, 5, 360: «proceden de este árbol de amor de Dios y por solo Él, sin ningún interese propio»; «herida debía estar de esta hierba». 9 «cuán bien había comprendido en su corazón las palabras del Señor» (Ibidem). 0 MC, Prólogo, , 334: «el trabajo que se padece en no tener claridad».  MC, Prólogo, 3, 334: «con parecer de personas a quien estoy obligada a obedecer».

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tica, si fa metodo di approccio e nucleo ermeneutico per il «camino de oración», nonché modello generale della theologia cordis teresiana 2. Il problema iniziale è, dunque, semplicemente esegetico e si riferisce al brusco salto dalla iii alla ii persona in ct, i, 1 («Mi baci il Signore con il bacio della sua bocca, perché valgono di più i tuoi seni del vino») 3. Santa Teresa deve aver riflettuto a lungo sulla singolarità della situazione ed espone i suoi dubbî con estrema prudenza: Ho osservato molto che l’anima sta — per quello che qui fa capire — parlando con una persona, e chiede la pace ad un altro. Perché dice: ‘Mi baci con il bacio della sua bocca’. e poi sembra che stia dicendo a colui con cui sta: ‘Sono migliori i tuoi seni’ (1, 1, 334) 4.

Per noi vale la nota della Bible de Jérusalem 5. Ma 2 È assai importante tutto il complesso di motivazioni che s. teresa adduce nei primi tre paragrafi del Prólogo, circa le sue scelte e occasioni: questo, oltre a farci entrare profondamente nella quotidianità della santa-scrittrice, ci immette altresì nel suo ragionamento fino a permetterci di conoscere il passaggio dall’esperienza personale alla scrittura (e, prima, alla meditazione e sue problematiche fittamente esistenziali, dubbî e aporie). Qui, S. Teresa racconta minutamente la vicenda del suo approccio con il testo biblico: «avendomi il signore da alcuni anni a questa parte fatto un regalo sempre maggiore ogni volta che ascolto o leggo alcune parole dei cantici di salomone. a tal punto che, senza capire la chiarezza del latino, nel castigliano mi produceva raccoglimento e commuoveva la mia anima di più dei libri assai pieni di devozione che capisco — e questa è quasi una cosa normale — sebbene mi spiegassero il castigliano, nemmeno lo intendevo di più; [... seguono alcune righe incomplete e alcune mancanti]»(l); «Sono circa due anni — poco più o meno — che mi sembra che il Signore mi faccia capire per i miei propositi qualcosa del senso di alcune parole; e mi sembra che esse saranno di consolazione per le sorelle che nostro signore conduce per questa strada. e anche per la mia, che alcune volte il signore fa capire tanto, che io desideravo non dimenticare, ma non osavo mettere la cosa per iscritto»(2); «Ora, con il parere di persone a cui sono obbligata ad obbedire, scriverò qualche cosa di quello che il signore mi fa capire, racchiuso in parole che la mia anima gusta per questo cammino d’orazione, per dove — come ho detto — il signore conduce queste sorelle di questi monasteri e le mie. Se fosse perché lo vediate, prenderete questo povero regaluccio da chi desidera per voi tutti quelli dello spirito santo come per se stessa, nel cui nome io inizio. se in qualcosa riuscissi, non sarà da parte mia. Piaccia alla divina Maestà che riesca ...»(3). Quotidianità, «camino de oración», Dio-Trinità, la preoccupazione per le «hermanas», I’intendere e il profondo riflesso di commozione delle Scritture ... ecco gli elementi puri dell’esperienza teresiana al centro della sua opera tutta. 3 Ct I, I «Béseme el Señor con el beso de su boca, porque más valen tus pechos que el vino». 4 MC, I,1, 334: «He notado mucho que parece que el alma está — a lo que aquí da a entender — hablando con una persona, y pide la paz de otro. Porque dice: ‘Béseme con e1 beso de su boca’. Y luego parece que está diciendo a con quien está: ‘Mejores son tus pechos’». 5 cfr. La Bible de Jérusalem, Paris 1986: «Les passages brusques de la troisième à la deuxième personne sont caractéristiques aussi des chants d’amour égyptiens. Le bienaimé est absent, mais il reste présent au coeur de son aimée,

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Santa Teresa passa immediatamente ad una questione più generale, che è quella che a noi interessa, cioè, dei rapporti fra l’anima e dio, quanto all’intendere i «misterios de nuestra sagrada fe» 16; ma anche atteggiamento abituale, come scelta elementare, diretta e motivata: Questa cosa non capisco bene com’è, e il non capirlo mi dà un grande piacere; perché, davvero, figlie, non deve guardare tanto l’anima, né la fanno guardare tanto, né le fanno avere rispetto per il suo Dio le cose che qua sembra che possiamo cogliere con i nostri intelletti così bassi, come quelle che in nessun modo si possono intendere. E così vi raccomando molto che, quando leggerete qualche libro o ascolterete qualche sermone o penserete ai misteri della nostra santa fede, quanto a quello che non potrete intendere bene, non vi stanchiate né consumiate il pensiero nel renderlo più chiaro; non sono per donne, e nemmeno per uomini molte cose .

la dichiarazione della propria défaillance è schietta e senza residui, con la perfetta ripresa della parola e frase cruciale («Non intendo», «e il non intenderlo»): e sappiamo bene come l’«intendere” e il suo negativo, con il «far intendere» della trasmissione, scrittura ed interpretazione con la variata gamma delle distanze dal centro della verità intesa e riferita («atinar», «acertar» — ‘cogliere nel segno’, ‘centrare il bersaglio’), sia poi, naturalmente, il nodo assoluto di tutta l’opera, oltre che dell’esistenza stessa di s Teresa. Diciamo che il paradosso dell’impossibilità coincide con la propria nullificazione gioiosa, il doversi arrestare nell’acá del limite umano, proprio per la proclamazione di quella stessa verità: e Santa Teresa va subito alla logica razionale, alla motivazione filosoficamente, teologicamente necessaria («porque», ‘perché’) della condizione umana, del valore delle cose di «acá» e della distanza naturale da Dio; nonché della relazione tra tutti codesti valori. E ciò è decisamente vero: à laquelle s’associent ses compagnes [v. 4/b], qui sont les filles de Jérusalem» (nota a 2b, p. 947). 16 cfr. MC, i, , 334: «misterios de nuestra sagrada fe».  Ibidem, «Esto no entiendo cómo es, y no entenderlo me hace gran regalo; porque verdaderamente, hijas, no ha de mirar el alma tanto, ni la hacen mirar tanto, ni la hacen tener respeto a su Dios las cosas que acá parece podemos alcanzar con nuestros entendimientos tan bajos, como las que en ninguna manera se pueden entender. Y así os encomiendo mucho que, cuando leyerdes algún libro y oyerdes sermón, u pensáredes en los misterios de nuestra sagrada fe, que lo que buonamente no pudiéredes entender, no os canséis ni gastéis el pensamiento en adelgazarlo; no es para mujeres, ni an para hombres muchas cosas».

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perché davvero, figlie, non deve guardare tanto l’anima, né la fanno guardare tanto, né le fanno avere rispetto per il suo dio le cose che qua sembra che possiamo cogliere con i nostri intelletti così bassi, come quelle che in nessun modo si possono intendere» (ibidem):

i doveri proprî dell’anima e il suo rimanere al di qua di una certa e pur indefinita misura («tanto»); il «rispetto» necessario nei confronti di Dio, che è lo sguardo esatto, lo spazio di visuale che non può essere diretto, alla pari, come tensione prospettica di fatto diminuita e vacillante («sembra che possiamo») vengono a render relativi e incerti per l’uomo l’accesso e l’acquisizione della divina misura. L’intelletto umano ha una sua propria, e indefinita in negativo, soglia di approssimazione: «alcanzar» spagnolo è, etimologicamente, ‘avvicinarsi’, ‘raggiungere’, tentare, compiere un conato, verso il «calx», il ‘tallone’; e la discrasia, quindi, con il punto di contatto, già di per sé più basso, è incolmabile per chi, a sua volta, si trova certamente ancora più giù («tan bajos»). Senza parlare, poi, dell’invalicabile certo «quelle che in nessun modo si possono intendere» 8. si associa, quindi, allo sforzo umano, pur naturalmente limitato e condizionato, la negatività di una tensione che mette a rischio lo stesso porsi dell’anima rispetto a dio. di qui, per teresa, in nome della verità, insistiamo, e in modo materno e accorato («hijas» — ‘figlie’) il rivolgere una precisa raccomandazione che ha una traiettoria circostanziale e metodologica di varia estensione, che va da alcune situazioni possibili, e anzi normali, persino, all’esercizio del pensiero e della meditazione più elevata ai supremi «misterios de nuestra sagrada fe»: «e così vi raccomando molto che quando leggerete qualche libro o ascolterete qualche sermone, o penserete ai misteri della nostra santa fede, quanto a quello che non potrete intendere bene, non vi stanchiate né sciupiate il pensiero nel renderlo più facile; non sono per donne, e nemmeno per uomini molte cose (1, 1, 334) 19. L’eventualità del congiuntivo futuro spagnolo («leyerdes» = «leyéreis», «oyerdes» = «oyéreis», «pensáredes» = «pensáreis», « pudiéredes» = «pudiéreis») non è poi così precaria e, nella fattispecie, 8 19

«las que en ninguna manera se pueden entender». cfr. MC, i, , 334: «Y así os encomiendo [...] muchas cosas», v. n. .

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motivata in rebus e pour cause: per Teresa la possibilità è così normale, che va intesa pacificamente, serenamente, quasi a richiedere una risposta metodologica che sdrammatizzi e riconduca il tutto alla natura umana in sé e per sé e alla sua distanza da Dio. Il consiglio iterato di Santa Teresa pesa sull’inutilità fisica, fisiologica e, persino, analogicamente, economica («no canséis» — ‘non stancate’, «ni gastéis» — ‘né sciupate’) dell’uso del pensiero. teresa usa in spagnolo il verbo «adelgazar» 20. Quanto, poi, al limite, abitualmente accentuato per le «mujeres», può valere, e anzi vale per tutti; e difatti, l’alternativa non è con i «varones», i ‘maschi’, ma con gli “hombres” tutti, senz’altro. Per santa teresa, al centro della distanza e della misura c’è, come per tutti i mistici (e non solo per loro!), il «solus deus», unico e assoluto garante e provvidenza dei limiti dell’«entender». santa teresa sa di parlare alle «hermanas », alle «hijas», a delle donne, ma anche agli «hombres» comuni. Sempre esclusi (almeno parzialmente) i «letrados», i confessori, i maestri, i teologi («coloro che il Signore ha per spiegarcele a noi») 2; ma, appunto, costoro hanno un compito forte affidato, massicciamente, ancora una volta, fisicamente affidato alla loro cultura e linguaggio («sostenere con la loro cultura e parole la verità»), in vista, di quella «verdad» che richiede laborioso travaglio (solo Dio è arbitro della facilità o impossibilità) e, soprattutto, chiarezza (‘spiegarcele’, ‘chiarircele’). il metodo del risparmio delle energie, la serena e placata («alegrarnos», ‘rallegrarci’, «llaneza», ‘serenità dolce e piana’) considerazione dello spessore infinito della «Palabra» (‘Parola’) che «terná en sí mil misterios» (‘avrà in sé mille misteri’), proporzionata alla misura di Dio («abbiamo un così grande Dio e Signore») 22 vanno ai minimi della semplice esegesi scritturale, e sono insistiti, premurosi, ribaditi, irremovibili e consequenziali 20 «Adelgazar» deriva da «delgazar»,, dal lvg. *delicatiare, ‘afinar’, ‘rendere fine, assottigliare, dimagrire’ da delicatus, cfr. J. corominas, Breve diccionario etimológico de la lengua castellana, Madrid 19733: sigla: Corominas. 2 cfr. MC, 1, 2, 334: «los que el Señor tiene para declarárnoslas a nosotras». 22 «tan gran dios y señor tenemos». 23 «así su principio no entendemos nosotras», Ibidem. 24 cfr. MC, , 2, 334: «ansí, si estuviere en latín u en hebraico u en griego, no era maravilla; mas en nuestro romance, ¡qué de cosas hay en los salmos del

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sui principî di base («e così noi non intendiamo il suo principio») 23. È evidente che santa teresa si rivolge principalmente, quasi in modo ossessivo, alle sue monache; lei stessa inquieta e timorosa di non scoraggiare o di non imporre limiti strani e paradossali: sulla conoscenza della stessa lingua spagnola, la propria, o sull’uso libero dell’intelletto da parte di chicchessia: così, se fosse in latino o in ebraico o in greco, non ci sarebbe stato da meravigliarsi; ma nella nostra stessa lingua, quante cose ci sono nei salmi del glorioso re david che, quando ci spiegano solo la lingua, ci restano oscure come il latino! Cosicché, guardatevi sempre dallo sciupare il pensiero in queste cose, e dallo stancarvi, ché le donne non hanno bisogno d’altro se non di quello che possa bastare per il loro intelletto [anche qui, non è inutile notare ancora l’uso del congiuntivo spagnolo della possibilità, eventualità, per il verbo ‘bastare’ ] in questo Dio darà loro la sua grazia 24.

l’ovvio rinvio al contenuto, esaltato nel sommo esempio dei Salmi del «glorioso re david», fa appello a sicure esperienze; così, il rinvio all’intelletto (pur nei limiti e nel libero margine della discrezione e della legittima occasionale e circostanziale esperienza individuale e specifica) fa fondamento sui proprî limiti naturali, di esatta corrispondenza con ciò che fosse necessario a ciascuno. Dio, ripetiamo ancora una volta, è unico garante della nostra possibilità e disponibilità nei confronti della «sapienza», e santa teresa lo proclama senza troppe parole: Quando Sua Maestà volesse darcelo senza preoccupazione né travaglio nostro, lo troveremo saputo 25.

e il «quando» senza tempo assegna a dio la relazione con l’anima, i suoi bisogni e il tempo proprio di ciascuno (che è il nucleo provvidenziale sotteso alla definizione di «quello che avviene fra l’anima e nostro glorioso rey David que, cuando nos declaran el romance sólo, tan escuro nos queda como el latín! ansí que siempre os guardad de gastar el pensamiento con estas cosas, ni cansaros, que mujeres no han menester más que para su entendimiento bastare; con esto las hará Dios merced». 25 cfr. ivi, p. 35: «Cuando Su Majestad quisiere dárnoslo sin cuidado ni trabajo nuestro, lo hallaremos sabido». 26 cfr. Ibidem: «En lo demás, humillarnos y — como he dicho — alegrarnos de que tengamos tal señor, que an palabras suyas dichas en romance nuestro no se pueden entender».



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Signore»). Al di là di queste definizioni, l’avvertito e consapevole senso del limite, l’umiltà, il sapore della terra e la gioia del divino: Per il resto, umiliarci e — come ho detto — rallegrarci che abbiamo un tale signore, che anche le sue parole dette nella nostra lingua non si possono intendere 26.

il modello del rapporto, tenerissimo ed esatto, per festosa immaginazione ed esemplificazione comprensiva ed afiettuosa, è in I, 1, 9, anche come rilievo caratteristico della confianza ispanica, democratica e lineare del rapporto tra il re e il «pastorcillo» (‘pastorello’). Qui, Santa Teresa tratteggia in modo affabile i limiti veri dell’«entender» nell’animo ingenuo e rasserenato «e non andando per curiosità», cioè, con caparbietà e affanno scientifico o anche solo per banale curiosità; ma perfettamente in linea con Dio («prendendo quello che Sua Maestà ci facesse intendere») 2. d’altra parte, gli effetti della «Palabra» divina sono conforto e diletto (e sostanziali, come insiste a ripetere S. Teresa: non solo parole ma «obras concrete», fatti) 28. e gioia, serenità, concretezza — andare sul sicuro 29 — sono il senso del messaggio di «llaneza» (‘dolcezza serena, pacata, persuasa’, «mi fa un grande piacere» «rallegrarci», «rallegrarci») che Santa Teresa vuole legare al rapporto saldo e luminoso dell’anima con dio, un rapporto di 2 cfr. MC, 1, 2, 334: «tomar lo que el Señor nos diere»; e poi, MC, 1, 9, 336: «como se holgaría y gustaría el rey, si a un pastorcillo amase y le cayese en gracia, y le viese embobado mirando el brocado y pensando qué es aquello y cómo se hizo»; ‘come si compiacerebbe e si rallegrerebbe il re, se amasse un pastorello e lo avesse nelle proprie grazie, e lo vedesse imbambolato a guardare i broccati e a pensare che cosa siano e come siano stati fatti’. 28 cfr. MC, 1, 6: «conoció que es posible pasar el alma enamorada por su Esposo todos esos regalos y desmayos y muertes y afliciones y deleites y gozos con Él después que ha dejado todos los del mundo por su amor está del todo puesta y dejada en sus manos; esto no de palabra — como acaece en algunos —, sino con toda verdad, confirmada por obras» (sottolineato nostro); «Su Majestad las pagará; no mirará sino el amor con que las hicierdes» (Ibidem); «entiendo que no hay encarecimiento de palabras con que nos lo muestre, que no le haya mostrado más que con obras», ecc. 29 cfr. MC, 1, 5, 335: «ven aquí pintada su siguridad»; 1, S, 335: «Y sé de alguna que estuvo hartos años con muchos temores, y no hubo cosa que la haya asegurado sino que fue el señor servido oyese algunas cosas [...]». 30 Cfr. Fray Luis de León, Exposición del Libro de Job, cap. i: «Porque decía ansí: Si por ventura / mis hijos allá dentro de su pecho / usaron contra dios de desmesura», in F.l.d.l., Obras completas castellanas, Pról. y notas del P.F.García, Madrid 1951, p. 833.

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semplicità e di chiarezza, nella certezza invalicabile e, per ciò stesso, rassicurante, della dismisura (il contrario esatto della «confianza», ‘fiducia’, ‘confidenza’), valicata dalla hybris lamentata da Giobbe 30, che, se sembra lasciare spazio alla coscienza del limite, lo tutela nello stesso tempo e ne fa il punto di scatto per il moto d’amore che supera distanze e colma i vuoti degli «entendimientos tan bajos». L’esempio del «pastorcillo» è assai importante e lo riprendiamo immediatamente, anche per il commento notevole di santa teresa, che chiarisce una volta per sempre la reale posizione delle sue monache (e delle donne; ma anche degli uomini) nei confronti delle verità di fede. È certo che tra il re e il «pastorello» c’è essenzialmente gioiosità, amore, grazia e compiacimento, anche quando il desiderio di sapere e di comprendere si riducesse ingenuamente ad oggetti esteriori ed esornativi. Ed è tanto più significativo il giuoco sulla presa di distanza dalla «curiosidad» e, soprattutto, dall’«embobamiento» (‘sbalordimento per ebbrezza, per stupidità’, ecc.) del pastorello, il cui occhio sembra fermarsi, di fatto, sul semplice rivestimento delle pareti della dimora regale, il «broccato» ... Ma, a rincalzo e a conciliazione delle reali esigenze del «saber» (ancora, a salvaguardia delle donne — non solo suore — e del necessario uso dell’intelligenza), Santa Teresa, con la netta semplicità di sempre, ma senza tornare indietro rispetto alla dignità che per lei è giustamente connessa alla «humildad auténtica», dichiara i confini veri rispetto alla comprensione delle «riquezas del señor»: Ché nemmeno dobbiamo noi donne restare così lontane dal godere le ricchezze del Signore; dal discuterle e insegnarle, quando ci sembrasse di cogliere nel segno, senza che le mostriamo a confessori, questo sì 3.

È una precisa qualificazione di campo, ampiamente articolato, e sufficientemente modulata nelle sue accezioni metodologiche effettuali: è assai importante che per Santa Teresa il «gozar», cioè, la piena e piacevole e opportuna

3 cfr. MC, 1, 9, 336: «Que tampoco no hemos de quedar las mujeres tan fuera de gozar las riquezas del Señor; de disputarlas y enseñarlas, pareciéndole aciertan, sin que lo muestren a letrados, esto sí». 32 cfr. MC, , , 334: «Las cosas que acá parece podemos alcanzar con nuestros entendimientos tan bajos». 33 cfr. MC, 1, 3, 335: «Pareceros ha que hay algunas en estos Cánticos que se pudieran decir por otro estilo».

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fruizione delle regalità divine, comprenda il «disputarlas», cioè, l’esame oculato, la chiarificazione, la discussione, e l’«enseñarlas», che è l’insegnamento ma anche l’enunciazione e rivelazione. e in piena autonomia, certamente, anche rispetto ai confessori ed agli esperti, ovviamente, su un minimo necessario di convinzione, sia pure opinabile (“pareciéndoles aciertan»). Fino a questo punto, dunque, Santa Teresa si è mossa per delineare limiti e possibilità, tra lieta umiltà e fiducia in Dio, onestà e consapevole analisi e studio per libera espressione intellettuale ma anche gioioso e compiaciuto senso della distanza e del mistero. d’altra parte, santa teresa si preoccupa sempre dell’opportuna valutazione delle facoltà umane, lascia luogo all’esercizio dell’opinabile umano e lo discute e ne dimostra la fallacia o persino la vana protervia, l’insufficienza e, sempre, la sproporzione (o il rischio, come si è visto) tra le «cose che sembra che qui possiamo cogliere con i nostri intelletti così bassi» 32. ed ecco che, tornando indietro al par. 3 dello stesso cap. , santa teresa propone altri modi di reagire di fronte agli ostacoli esegetici-ermeneutici, prima di tutto, per questioni di linguaggio e di stile («Vi sembrerà che ce ne sono alcune [parole] in questi cantici che si sarebbero potute dire in altro modo»): 33 e la questione non è di poco conto, se sembra insinuare una pretesa di adattare i testi alla «torpeza» (‘ottusità goffa e maldestra’) dei lettori («Según es nuestra torpeza, no me espantaría»); per di più, se, proprio a causa del mancato riscontro, molte anime fossero indotte ad una sorta di fuga dalla Parola di dio ... e dalle grazie e rivelazioni ad esse collegate. la repulsione di santa teresa è drastica, anche se non inattesa, proprio per quella certa «torpeza» («non mi spaventerei»). La conoscenza della oscura e lenta pochezza umana non induce, d’altra parte, santa teresa ad una comprensione per la vistosa e maledetta contraddizione che travolge certe anime, fino, appunto, alla fuga e al rigetto («Ho sentito dire da alcune persone che sarebbero fuggite piuttosto che udirle») 34, 34 MC, i, 3, 335: «He oído a algunas personas decir que antes huian de oírlas». 35 cfr. s. Juan de la cruz, Obras completas, revis. textual, introduc. y notas al texto: J.V. Rodríguez; Introduc. y notas doctrinales: F. Ruiz Salvador, Editorial de Espiritualidad, Madrid 1988: Dichos de luz y amor, n. 59, p. 94: «A la tarde te examinarán en el amor; aprende a amar como Dios quiere ser amado y deja

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tutti segni gravissimi della scarsità umana, che da se stessa stravolge il nucleo stesso del proprio rapporto con dio, cioè, la grazia, sul fondamento dell’amore come dialogo con il signore e gioia di benessere. anzi, proprio da questa terribile vicenda di aberrazione nei confronti di dio, deduce santa teresa la misura e il senso dell’amor di dio, il cui negativo assoluto è rovesciamento totale della verità e del bene di ciascuno. e, infatti, ricorda s. Giovanni della croce, saremo esaminati sull’amore 35. Questo punto è essenziale per comprendere i nuclei istitutivi e attivi della theologia cordis teresiana; ed è questo proprio il momento centrale della discriminazione sulla via della verità della scelta umana nel suo rapporto con Dio e risposta all’amore di Lui, alla generosità della Grazia, sia nell’intellezione sia nel dialogo dell’anima: oh, dio m’aiuti, che grande miseria, la nostra! che come per le cose velenose, che quello che mangiano lo trasformano in veleno, così accade a noi, che dalle grazie così grandi come ci fa qui il signore nel far intendere quello che ha l’anima che lo ama e nell’incoraggiarla affinché possa parlare e compiacersi con Sua Maestà, dobbiamo ricavare paura ed esprimerne il significato, in base al poco senso dell’amor di dio che abbiamo 36.

Con estrema semplicità quanto al meccanismo logico (e durezza, come quando deve esporre la più limpida ed unica verità) Santa Teresa — con indubbia abilità tecnica e didattica — accosta un’immagine esemplificativa — una delle sue «comparaciones» di efficace immediatezza — alla sua secca deduzione. Già la perifrasi alienata («cosas emponzoñosas» dà un certo tono di distacco repulsivo — anticipato dall’esclamazione sulla «gran miseria») —; poi, il crudo rigore meccanico di «tutto quanto mangiano si trasforma in veleno», che è contraddizione sul piano tu condición». 36 cfr. MC, 1, 3, 335: «¡Oh, válame Dios, qué gran miseria es la nuestra!, que como las cosas emponzoñosas, que cuanto comen se vuelve en ponzoña, ansí nos acaece, que de mercedes tan grandes como aquí nos hace el señor en dar a entender lo que tiene el alma que le ama y animarla para que pueda hablar y regalarse con su Majestad, hemos de sacar miedos y dar sentidos, conforme al poco sentido del amor de dios que se tiene». 3 Cfr. n. 36. 38 «todos los bienes que nos hicistes». 39 «nos aprovechamos mal».

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fisiologico-vitale e del fruttuoso incremento connesso al metabolismo; infine, tutto il complesso e perverso processo negativo di stravolgimento che toglie il senso e il valore alle «mercedes»; «tan grandes» è il pathos terribilmente emotivo della contraddizione del comportamento umano, che svaluta non solo il valore per sé delle grazie come dono di dio («mercedes»), ma anche il loro supervalore («così grandi»): il modello si istituisce facilmente. Da una parte, il «Señor» che è creativo sempre e «hace» (‘fa’) le «mercedes» all’anima; tali «mercedes» vertono sul punto algido della questione: la creatività è il Suo «dar a entender», procurare la comprensione, attivare l’intelligenza umana e l’intellezione — suprema grazia di collaborazione generosa con le facoltà elette dell’uomo —. E non basta. dio continua la sua «merced» con un intervento diretto sull’anima, mirando ad «animarla», a potenziare l’animo in se stesso e con se stesso e per se stesso, lo spirito nel suo essere attivo e coraggioso, ad esaltare la constancia, l’esserci dell’uomo in tutta la sua pienezza, per farlo arrivare all’atto sublime della Parola nel dialogo con il divino. e qui, la geminazione è equiparazione dei due verbi «hablar y regalarse», che sono lo scambio tonale e sentimentale profondo dell’uomo nel momento estremo e possibilità concreta («por obras»), nei fatti dello stare con Dio; «hablar» è «regalarse», ‘benessere ed effettualità di conforto e di piacere’; «regalarse» — in pieno scambio — è uno stato favorevole all’«hablar», in cui si sigilla il totale transito della Parola e del Piacere in dio. e qui il modello della Grazia sarebbe perfetto e mirabile... se fosse attivata la condizione unica, essenziale, incambiabile: occorre avere l’«alma que ama», cioè, il cui essere attivo tenda all’amore, agisca amore e nell’amore e per amore. il cui essere attivo sia amare, praticare, esercitare l’amore. Alla fine del lungo periodo, Santa Teresa prosegue nell’enunciato folle e totalizzante e onnicomprensivo del modo negativo umano, che sembra assumere anche lei (e quante volte si è rimproverata per mancanze, ritardi, ottusità e incomprensioni del suo essere «ruin», ‘malvagia’, ‘vile’, ‘spregevole’, ‘meschina’, ecc. ecc.): dice, infatti, «hemos» ... In realtà, il verbo acquista ancora maggiore gravità nell’espressione fraseologica «hemos de sacar» ‘dobbiamo ricavare’, dello sconcertante e rigettato determinismo di chi compie — sembra dover, per forza... com-

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piere — un’operazione assurda e nefasta e quasi impossibile, tanto è violenta e autolesionistica: di tutti i possibili effetti delle «mercedes», far uscir fuori — e quindi, con sforzo — «miedos», ‘paure’ e promuoverne il senso meno favorevole, proprio, positivo. Ma qui teresa svela il tragico consequenziale movimento ermeneutico negativo e paradossale, che porta alla risposta e motivazione di cecità, di ottusità morale prima che intellettiva. L’operazione in vista dei sensi da attribuire alle «mercedes» è perfettamente modellata sulla mancanza, cioè, su una misura misera e insufficiente: «in conformità al poco senso dell’amor di dio che si ha» 3. il possesso del poco, l’accontentarsi del poco, che stavolta non è segno di saggezza, di sapienza e di etica stoica, perché riferita al valore unico dell’unica ricchezza di cui mai ci si deve accontentare perché infinita; e all’amore, che è segno di grazia, promozione divina dell’intelletto. nella seconda parte del nostro lavoro vediamo subito che per santa teresa il rapporto primario — garantito, appunto, dalla Grazia di Dio — dell’«entender» è con l’Amore: che è poi il nucleo portante della theologia cordis.

2. Il fondamento dell’amore ancora qui in , 4, 335 santa teresa insiste su un aspetto fondamentale dei rapporti fra dio e l’uomo, rapporti mancati, di fatto, proprio nel loro dato essenziale, il nesso istituito da Dio in modo attivo, diretto e sostanziale («tutti i beni che ci hai dato») 38, che l’uomo praticamente ignora o rigetta («ne approfittiamo male») 39 in un’economia morale e spirituale insufficiente o scorretta. E a questo punto noi ci chiediamo se la questione dell’«entender» sia poi, davvero, così urgente per l’uomo, visto che la sua ignoranza e il disinteresse investono persino i modi e gli aiuti che dio stesso propone prioritariamente. Ciò che manca, per la pienezza del rapporto positivo, quindi, non è tanto l’ostacolo del mistero quanto la volontà e la sensibilità dell’uomo a 40 cfr. MC, , 4, 335: «Vuestra Majestad buscando modos y maneras para mostrar el amor que nos tenéis; nosotros, como mal esperimentados en amaros a Vos, tenémoslo en tan poco que de mal ejercitados en esto, vanse los pensamientos adonde están siempre, y dejan de pensar los grandes misterios que este lenguaje encierra en sí, dicho por el Espíritu Santo. ¿Qué más era menester para



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porsi il problema. Che è sempre solo un problema d’amore. santa teresa delinea, d’altra parte, l’azionismo divino: Vostra Maestà a cercare modi e maniere e invenzioni per mostrare l’amore che avete per noi; noi, perché maldestri nell’amare Voi, lo teniamo in così poco conto che, essendoci noi malamente provati in questo, se ne vanno i pensieri dove stanno sempre, e cessano di pensare i grandi misteri che questo linguaggio racchiude in sé, detto dallo Spirito Santo. Che cosa occorreva ancora di più per infiammarci nel suo amore e pensare che usò questo stile non senza grandi ragioni?: 40

è quello di Dio uno stato di tensione permanente, di ricerca (modello preciso contro l’inerzia umana...) finalizzata sull’amore («per mostrare»), all’amore per l’uomo («avete per noi»); dall’altro lato, l’uomo, tutti («noi») gli uomini identificati al di qua di quegli atteggiamenti relativamente omologhi («maldestri nell’amare Voi», «malamente provati in questo») ambedue gravemente carenti sul piano attivo, di pratica effettualità, cioè, il restare lontani dall’«experiencia» e dall’«ejercicio» (e sappiamo bene la validità estrema di questi due istituti pratici morali e ascetici per tutti i mistici; anche per la densità delle parole nell’ambito ispanico). Manca, quindi, la compromissione diretta, in prima persona, nell’amore; e poi, ancora più gravemente per santa teresa che, con sant’ignazio di loyola, conosce assai bene il senso degli «ejercicios» 4, proprio per la prassi immediata di chi ispira ogni propria azione con l’amore e, anzi, fa coincidere quell’ispirazione con l’azione stessa. l’amore come centro unico e totale della vita in dio. scarsa valutazione delle «riquezas de dios», dunque, e il «poco senso dell’amor di Dio» («lo teniamo in così poco conto»): di qui, il distacco tra il pensiero e il mistero («se ne vanno i pensieri dove stanno sempre [— cioè, l’inerzia e la distrazione, il meccanismo di routine, la tauencendernos en amor suyo y pensar que tomó este estilo no sin gran causa?». 4 Basti ricordare la pregnanza istituzionale degli «ejercicios espirituales» ignaziani in tutta la mistica; ma anche in infinite testimonianze letterarie della parola «ejercicio» (come «oficio»), p.e. in tutto il Quijote, ecc. 42 cfr.MC, 1, 5, 335: «que dejó remedio tan saludable para las almas que con hirviente amor le amen, que entiendan y vean que es posible humillarse dios a tanto». 43 «¡Oh, qué dicha tan grande será alcanzar esta merced!, pues es juntarse con la voluntad de Dio, de manera que no haya división entre él y ella, sino que sea una mesma voluntad; no por palabras, no por solos deseos, sino puesto por

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tologia —] e cessano di pensare i grandi misteri che questo linguaggio racchiude in sé, detto dallo Spirito Santo»). la deviazione umana mette in evidenza, anche se in negativo per maggiore esaltazione del modello positivo, i centri nevralgici del sistema fondato sull’amore: dio che ama sempre e cerca tutti i modi per dimostrarlo — anche nei «misterios» della Sua Parola (dove interviene lo Spirito Santo) e fornendo all’uomo, ancora una volta per amore, i mezzi, le grazie per «entender»; l’uomo, che si spaventa dei misteri, ma, di fatto, non ama o non ama abbastanza, né per superare i problemi del mistero né per ricorrere ai mezzi divini per suo aiuto. evidente, in controluce, il modello, appunto, positivo, tutto a carico di dio-amore. ecco il commento di s. teresa: Che cosa occorreva ancora di più per infiammarci nell’amore suo e pensare che usò quel modo se non per grandi ragioni?

Ed è, di fatto, quella umana una rinuncia folle e immotivata all’«amor de Dios», al «gran regalo» (‘gran piacere’, ‘gran conforto’), alla «sicurezza» dell’anima di fronte a un dio che lasciò un rimedio così salutare per le anime che con fervente amore lo amano, affinché intendano e vedano che è possibile che Dio si umilî fino a tal punto 42.

in 3, , 344 santa teresa approfondisce la discrasia fra l’intelletto e l’amore, essendo l’intelletto limitato e insicuro, incapace di uscire dai propri limiti: Oh, che grandissima felicità sarà cogliere questa grazia!, perché fondersi con la volontà di Dio, in modo che non ci sia divisione fra lui ed essa,ma che sia una stessa volontà; non a parole, non per solo desiderio, ma messo in opera, in modo che, intendendo che serve di più al suo sposo in una cosa, ci sia tanto amore e desiderio di accontentarlo, che non ascolti le ragioni che le darà l’intelletto né i timori che le provocherà, ma lasci operare la fede in modo che non badi all’interesse né al riposo, ma finisca con il comprendere ormai che in questo sta tutto il suo frutto 43. obra, de manera que, entendiendo que sirve más a su Esposo en una cosa, haya tanto amor y deseo de contentarle, que no escuche las razones que le dará el entendimiento ni los temores que le porná, sino que deje obrar la fe de manera que no mire provecho ni descanso, sino acabe ya de entender que en esto está

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Un ulteriore elemento definitorio dell’impulso alla comprensione cordiale della verità come scelta di grazia è l’unione delle volontà (dell’uomo e di Dio) come intellezione di fondo che faccia scattare l’amore — la carità con la fede — al di là dell’intelletto stesso, dei suoi limiti e paure; almeno, quando l’intelletto non sappia andare oltre il proprio stesso interesse, che è lasciare il posto all’amore, precisamente. Ciò che l’uomo non intende, perché non ama (o non abbastanza), trova facilmente il giudizio banalmente esclusivo di «disbarate» (‘sproposito’, ‘stranezza’, ecc.) 44; ma Santa Teresa, in 3, 6, 346 esce in una ben drammatica e struggente esclamazione e invocazione nei confronti dell’intelletto e suo eccesso ai danni dell’amore: a noi che non arriviamo ad amare tanto il signore sembra che sia così; e quanto maggiore sproposito è il venirci meno di questo sogno di questa vita con tanta intelligenza!, piaccia a dio che noi meritiamo di entrare nel cielo, e quanto più di essere di quelli che tanto si avvantaggiarono nell’amare dio.

Sull’altro versante, il modo positivo, cioè, la «borrachera» (‘sbornia’, ‘ubriachezza’, ‘ebbrezza’) mistica, che è l’estremo dell’amore senza filtri né limiti, dove si realizza quello che santa teresa chiama il «concierto» con dio («che io guardi il mio amato e il mio amato me, e che Egli guardi alle mie cose e io alle Sue») 45. e non resistiamo, mentre si vorrebbe citare tutto questo commento fremente ai pochi versetti del Cantico dei Cantici per la sua appassionata fede e tenerezza ed entusiasmo, a riportare la clausola di questo paragrafo 6 del cap. 4, per vedere come la franchezza di linguaggio di santa teresa possa immettere, davvero, nella sua scrittura — e più nella problematica sperimentale da lei esposta e vissuta — l’immediata freschezza del sentimento in tutte le sfumature della passiotodo su provecho». 44 cfr. Corominas, s.v.: «disparate» è alterazione di «desbarate» su influsso di «disparar» (‘commettere atti disordinati, sciagurati’; ‘sparare un’arma’). 45 Cfr. 4, 6, 350: «que mire yo a mi amado y mi amado a mí, y que mire Él por mis cosas y yo por las suyas!». 46 Ivi, p. 35: «no nos queramos tanto que nos saquemos los ojos, como dicen». 4 «Y ¡cuán venturosa es el alma que merece de estar debajo de esta sombra an para cosas que se pueden acá ver!». 48 «Parece que, estando el alma en el deleite que queda dicho, que se siente

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ne più autentica: «Non ci amiamo tanto fino al punto di strapparci gli occhi, come si dice» 46. Per santa teresa il vertice dell’esperienza mistica — analizzato ed esaltato in tutta questa operetta, sostanzialmente sulla base del v.  del Cantico dei Cantici («Mi baci il Signore con il bacio della sua bocca, perché valgono di più i suoi seni del vino»), cioè, sull’audacissima «petición», temibile e inquietante, che squassa le anime che non conoscono l’infinito amore di Dio e non sanno che essa non solo è possibile ma voluta da Lui stesso (nella parola della Sacra Scrittura), come infinitamente illustrato in tutta l’opera teresiana — trova in 5, 4, 352 un’ampia rappresentazione delicatissima, che insiste sulla posizione di totale sicurezza e protezione dell’anima fortunata e felice: E quanto è fortunata l’anima che merita di stare sotto quest’ombra anche per le cose che si possono vedere di qua! 4.

È il massimo della quiete e del piacere che toglie l’anima da qualunque coinvolgimento con le cose, con la terrestrità: sembra che, stando l’anima nel piacere che abbiamo detto, essa si senta tutta immersa e protetta da un’ombra e come da una nube della Divinità, da dove vengono all’anima influenze e rugiada così gradevole, che ben a ragione tolgono la stanchezza che le hanno procurato le cose del mondo 48 .

Ciò che per noi vale più direttamente è che la «quiete» coincide con il distacco delle «potencias» e, soprattutto, del «pensiero», dell’esercizio dell’intelletto: Una modalità di riposo prova lì l’anima che persino la stanca il dover respirare, e le potenze così pacificate e quiete, che anche il pensiero — sebbene sia buono — la volontà allora non vorrebbe ammetterlo né lo ammette nel senso di ricercarlo o di indagarlo 49. estar toda engolfada y amparada con una sombra y manera de nube de la divinidad, de donde vienen influencias al alma y rocío tan deleitoso, que bien con razón quitan el cansancio que le han dado las cosas del mundo». 49 «Una manera de descanso siente allí el alma, que an la cansa haver de resollar, y las potencias tan sosegadas y quietas, que an pensamiento — anque sea bueno — no querría entonces admitir la voluntad, ni le admite por vía de inquirirle ni procurarle». 50 cfr. 5, 8, 353: «el señor entiende que un alma es toda suya, sin otro inte-

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Ed è questo lo stato mistico più inebriante e sublime, quello della totalità dell’amore: il Signore intende che un’anima è tutta sua, senz’altro interesse né altre cose che la muovano per sola se stessa, ma per chi è il suo Dio e per l’’amore che ha per lui, come mai cessa di comunicarsi con lei in tanti modi e maniere, come chi è la Sapienza stessa 50.

tale posizione dell’anima, libera e disinteressata a tutto quello che non è Dio, comporta una contemporanea cessazione di qualunque moto e inclinazione — così come vien meno il potere delle «cosas» di indurre o provocare iniziative o azioni di nessun genere, essendovi in sostituzione — e con azionismo totale e animatissimo da parte di dio che, oltre a farla partecipare di tutti i modi e maniere della sua «invención», offre se stesso — Dio stesso, che è la stessa «Sabiduría». Questa è la più chiara definizione del percorso e del processo mistico nel suo progressivo trasferimento — nel pieno della teologia mistica del cuore e dell’amore — e passaggio naturale dai limiti e dagli affanni dell’«entender» dell’«acá» alla Sapienza stessa, senza più altra necessità e fatica, superate nello slancio assoluto, inequivoco, dell’amore. Ancora più decisa e limpida in 6, 4, 355 la visione di Grazia, immediata in sé e sempre attivata da dio che si offre come canale e veicolo dell’amore: è la funzione sostitutiva di Dio, una supplenza rispetto alle impossibilità dell’anima, con l’ordine della carità che tutela il «sonno», l’«ebbrezza» delle potenze divenute inattive o — per noi è il punto essenziale — ancora più attive e in modo meraviglioso (all’azionismo umano si sostituisce quello divino) pur essendo le anime in stato di trance e come incapaci di intendere. Ma si tratta di una condizione di sublime distacco, come in vuoto pneumatico di assoluta immobilità e assenza: sensi e «potencias» non operano più: rese ni otras cosas que la muevan por sola ella, sino por quien es su dios y por el amor que tiene con ella de tantas maneras y modos, como quien es la mesma sabiduría». 5 Cfr.6,4,355: «¡Oh soberana merced, y qué sin poderse merecer, si el Señor no diese caudal para ello! Bien que an para amar no se halla despierta; mas bienaventurado sueño, dichosa embriaguez, que hace suplir al esposo lo que el alma no puede, que es dar orden tan maravillosa, que estando todas las potencias muertas u dormidas, quede el amor vivo, y que, sin entender cómo obra, ordene

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oh grazia sovrana, e quanto senza poterla meritare, se il Signore non ci desse forza per farlo! Benché nemmeno per amare sia sveglia; ma felice sonno, felice ebbrezza, che fa supplire allo Sposo quello che l’anima non può, che è dare un ordine così meraviglioso, che, essendo morte o addormentate tutte le potenze, resti vivo l’amore, e che, senza intendere come agisce, il Signore ordini che agisca così meravigliosamente che diventi una cosa sola con lo stesso Signore dell’amore, che è Dio, con una grande limpidezza; perché non c’è chi molesti, né sensi né potenze — dico intelletto e memoria -: nemmeno la volontà s’intende 5 .

È, dunque, il trionfo dell’amore totale che tutto placa con l’essere in Dio, essendo tutte le facoltà unificate ed esaltate in dio. Ma santa teresa non rinuncia ad un’ultima osservazione e precisazione assai rilevanti, perché intendono fino all’ultimo istante possibile non privare l’anima, l’uomo, di un tentativo di spiegazione o di razionalizzazione didattica — sempre da convalidarsi e verificarsi con l’«experiencia»: Pensavo io ora se sono una cosa in cui ci sia qualche differenza tra la volontà e l’amore. E mi sembra di sì. Non so se è una stupidaggine. L’amore mi sembra una freccia scagliata dalla volontà che, se va con tutta la forza che ha, libera da tutte le cose della terra, usata solo in dio, davvero deve ferire assai Sua Maestà; in modo che, situata in Dio stesso che è amore, torna da lì con grandissimo profitto, come dirò. Ed è così che, nell’informazione di alcune persone che Dio ha condotto a così grandi grazie nell’orazione, le porta a quest’ebbrezza santa con una sospensione che anche all’esterno si vede che non sono in sé: richieste di dire quello che provano, in nessun modo lo sanno dire, né seppero né poterono capire nulla di come agisce lì l’amore: 52

è il cammino meraviglioso e solitario della «voluntad» nella sua assoluta concentrazione e nell’assenza totale el Señor que obre tan maravillosamente que esté hecho una cosa con el mesmo Señor del amor; que es Dios, con una limpieza grande; porque no hay quien le estorbe, ni sentidos ni potencias — digo entendimiento y memoria -; tampoco la voluntad se entiende». 52 cfr. 5, 5, 355: «Pensaba yo ahora si es cosa en que hay alguna diferencia la voluntad y el amor. Y paréceme que sí. No sé si es bobería. / Paréceme el amor una saeta que envía la voluntad, que, si va con toda la fuerza que ella tiene, libre de todas las cosas de la tierra, empleada en solo dios, muy de verdad debe de herir a Su Majestad; de suerte que, metida en el mesmo Dios, que es amor, torna de allí con grandísimas ganancias, como diré. Y es ansí que, informado de algunas personas a quien ha llegado nuestro Señor a tan gran merced en la oración, que

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delle operazioni e delle condizioni umane, se non per l’unica e definitiva rivolta solo a Dio solo («forza», «libera», «usata», «ferire», «situata»). Il linguaggio analogico conserva tutto il carattere fisico del vettore «voluntad», totalmente modellato e come piegato nell’unica direzione propria e sostanziale dell’amore a dio. sulla base di questa condizione dell’«anima amata da dio» 53, che è misura immisurabile di bellezza e di dialogo divino soave e piacevolissimo («ti parla così piacevolmente»), procede il divino ausilio che è segno gioioso d’assistenza e di partecipazione al di là del «saber» umano («la aiuterà in quello che ella non sapesse per essere ancora più contento di essa») 54; ma, soprattutto, la situazione su cui s’innesta tutto l’intrecciato scambio della theologia cordis teresiana è quella del totale affidamento dell’anima all’amore nello sguardo di Dio: la vede perduta di sé, alienata per amarlo, e che la stessa forza dell’amore le ha tolto l’intelletto per poterlo amare di più; sì che non deve permettere, né suole, né può Sua Maestà non darsi a chi gli si dà tutta 55.

È lo stato d’animo d’estrema rinuncia, smarrimento ed assenza a se stessa dell’anima, un uscir fuori totale di sé, la cui energia causale è l’amore («per il fatto che lo ama») assoluto e indefinito nella sua infinitezza. È un meccanismo preciso e totalizzante che s’inserisce nell’anima con tutta la sua potenza fino al punto di muoverne le scelte e le facoltà — specialmente l’«entendimiento» — con forte intervento dell’amore che viene ad essere il nucleo motore di ogni vettorialità («la stessa forza dell’amore») e, difatti, esso penetra nell’anima e opera una sostituzione drastica («le ha tolto l’intelletto»), proprio togliendo di mezzo e las llega a este embebecimiento santo con una suspensión que an en lo esterior se ve que no están en sí; preguntadas lo que sienten, en ninguna manera lo saben decir, ni supieron ni pudieron entender cosa de cómo obra allí el amor». 53 Cfr. 6, 9, 356. 54 Ibidem: «la ayudará a lo que ella no supiere para contentarse de ella más». 55 cfr. ibidem: «Vela perdida de sí, enajenada por amarle, y que la mesma fuerza del amor le ha quitado el entendimiento para poderle más amar; sí que no ha de sufrir, ni suele, ni puede su Majestad dejar de darse a quien se la da toda».

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placando ogni mossa di esso intelletto, e mettendosi al suo posto come «poder», energia attiva superiore nell’infinita tensione d’amore. Fino al punto che dio stesso viene, in un certo senso, a sua volta condizionato da una necessità profonda e autonoma di se stesso Dio e dell’anima («non deve permettere»); e prima aveva detto in negativo e poi ribadisce in senso di doverosità invalicabile. Dio stesso non può venir meno alle proprie leggi e prassi («né suole né può Sua Maestà») — pena la propria assurda impossibile contraddizione: la «theologia cordis» è suprema rinuncia ed alienazione dell’anima a se stessa ma per un «saber» senza fine e senza limiti, che è nel segno reciproco dell’amore, della reciproca donazione: «Né suole né può Sua Maestà non darsi a chi gli si dà tutta».

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la tEologia dElla nuditÀ dEll’amorE in san giovanni dElla crocE

l’opera di san Giovanni della croce, dalla Salita del Monte Carmelo alla Noche oscura, alle canzoni e rispettivi trattati, presenta caratteri assai distinti rispetto a quella teresiana: lo diciamo propriamente per collocare ambedue nello loro giusto spazio e nella varietà della scrittura dei mistici spagnoli. Quella teresiana è tutta intrecciata ai tempi e alle vicende personali e ufficiali della scrittrice: umori e malattie, coscienza e responsabilità della scrittrice, obbedienza al mandato della scrittura, rispetto della condizione delle destinatarie nella loro speciale qualità di «hijas» o «hermanas» (‘figlie’ o ‘sorelle’) fino ad esserne condizionata nella sintassi mobilissima e nell’organizzazione del testo — partizione e articolazione interna ed esterna, ecc. — e del tono. Quella sangiovannea assume, invece, la concertazione calibrata e lo sviluppo sostanziale e organico — ma anche essenziale di impostazione teologica e spirituale — di una trattazione più strettamente dottrinale (se non lirica nelle grandi canzoni) e più orientata sulle Scritture, nonché sulla cultura filosofica e teologica dell’autore. Diciamo questo, perché, sebbene San Giovanni raramente si trovi a indugiare in pause o intervalli, aggiustamenti di ritmo o poche giustificazioni di struttura o di quantità; appunto, le sue opere vivissime di dottrina e fortemente sostenute su grandi affermazioni scritturistiche (specialmente evangeliche e paoline) non presentano, se non sporadicamente, zone di transito, fasi pur brevi di commento o dialettiche dello scrittore con la sua materia o con altro (possibili interlocutori o detrattori a confronto, ecc.).

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D’altra parte, le vicissitudini testuali (ed editoriali)  di tali opere — anche difficoltà di ricezione e diffusione, possibili rischî inquisitoriali, ecc. — sono una conferma della necessità interna di una scrittura tutta rigorosamente tesa, a volte con una certa fatica (è noto che San Giovanni non scriveva volontariamente i suoi testi ma preferiva i rapporti diretti, verbali...), verso la dimostrazione lessicale-terminologica della vicenda mistica, oltreché di stretta coerenza teologica, psicologica, biblica, spirituale, ecc. Basta ricorrere un momento al Prologo alla Salita del Monte Carmelo, p. 165, dove viene istituito il rapporto tra «scienza» ed «esperienza» (diretta di chi scrive, ma, soprattutto, rinviata a chi legge) — per intendere, rispettivamente, e per esporre detta esperienza (quella diretta di chi vi è passato): e ciò non significa, poi — proprio in ordine al piano pedagogico-didattico del mistico — capacità o volontà d’espressione e di relazione. L’incidenza del quantum ineffabile, unito a certo disinteresse del santo per la scrittura totale e particolareggiata, è, davvero, fortissima in san Giovanni della croce — e, certamente, lo condiziona — più che in qualunque altro scrittore mistico. Per di più, in lui è tutto da conciliare e da studiare il rapporto tra poesia e trattato in prosa. Va, ad ogni modo, aggiunto che, accanto al «favore di Dio» (che non è, come per Teresa, intervento preciso e concreto in re oltre che nel linguaggio, ma una generale assistenza e presenza a tutta l’esperienza mistica oltre che all’opera in senso globale) opera la «divina scrittura» come guida certa e vera e propria parola dello spirito santo: «dovendo esporre e far intendere questa notte oscura attraverso la quale passa l’anima per giungere alla divina luce dell’unione perfetta dell’amor di dio, per quanto si può in questa vita, occorreva altra maggior luce di scienza ed esperienza della mia»; «e non basta la scienza umana per saperlo dire; perché ciò solo chi vi passa lo saprà sentire, ma non dire»; «E, pertanto, per dire qualche cosa della notte oscura non mi fiderò né dell’esperienza né della scienza perché l’una e l’altra cosa possono venir meno o mancare o ingannare; ma, non mancando di aiutarmi per quanto sia possibile con queste due cose, approfitterò per tutto quello che, con l’aiuto divino, dovessi dire — almeno, per ciò che è più importante e oscuro da  Per il testo, cfr. n. 1, p. 157; le traduzioni sono nostre, quando non altrimenti indicato; per le vicende testuali cfr. le rispettive introduzioni e vedi n. 43.

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intendere — della divina scrittura, con la cui guida non potremo sbagliare, perché chi vi parla è lo Spirito Santo», Salita, Prol., 1-2, p. 165) 2. Per tutte queste ragioni, assolutamente determinanti e decisive, tanto più in uno scrittore minuzioso dal punto di vista terminologico e amante di distinzioni e messe a punto di linguaggio, le poche interruzioni assumono un carattere assai rilevante. Anzi, sarebbe tutto da verificare il modello di tale scrittura quanto alla definizione di schemi sintetizzanti delle linee maestre della dottrina e degli impulsi sistematici proprî e di confronto con le fonti scritturistiche, al di là delle trattazioni strettamente dottrinali nel loro ordine e concertazione strutturale. dobbiamo anche considerare che la scrittura sangiovannea ha un suo punto di vista molto preciso e posteriore all’esperienza; nel senso che il canto si svela «stando già nella perfezione«: «Prima che entriamo nell’esposizione e spiegazione di queste canzoni, occorre sapere qui che l’anima le dice stando già nella perfezione, che è l’unione d’amore con Dio» (Notte oscura, Lib. I, pp. 438-39) 3. Soprattutto, tale scrittura è fortemente finalizzata ad assicurare ai lettori un rigoroso apparato — scrupoloso nel linguaggio e nella proposta dimostrativa — per la didattica spirituale nella più alta accezione mistica, ma spostandosi ben oltre il livello iniziale — dei cosiddetti «principianti», che hanno già compiuto la scelta («determinatamente»), la conversione a «servir dio». Per questa ragione, le opere di san Giovanni non contemplano, generalmente, l’esperienza minimale dettagliata nelle differenze di santa teresa, totalmente impegnata — nella Vita, naturalmente, anche 2 “. Para haber de declarar y dar a entender esta noche oscura por la cual pasa el alma para llegar a la divina luz de la unión perfecta del amor de Dios, cual se puede en esta vida, era menester una mayor luz de ciencia y experiencia que la mía; porque son tantas y tan profundas las tinieblas y trabajos, así espirituales como temporales, porque dichosamente suelen pasar las dichosas almas para poder a este alto estado de perfección, que ni basta ciencia humana para lo saber entender, ni experiencia para lo saber decir; porque sólo el que por ello pasa lo sabrá sentir, mas no decir. // 2. Y, por tanto, para decir algo de esta noche oscura, no fiaré ni de experiencia ni de ciencia porque lo uno y lo otro puede faltar y engañar; mas, no dejándome de ayudar en lo que pudiere de estas dos cosas, aprovecharme he para todo lo que, con el favor divino, hubiere de decir — a lo menos para lo más importante y oscuro de entender — de la divina Escritura, por la cual guiándonos no podremos errar, pues el que en ella habla es el espíritu santo”. 3 “Antes que entremos en la declaración de estas canciones, conviene saber aquí que el alma las dice estando ya en la perfección, que es la unión de amor con dios”.

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prima della scelta monacale — per ogni istante della sua giornata, debolezze e malanni compresi, a consegnarsi a grado zero nei suoi stessi non facili approccî al «cammino». diciamo che san Giovanni procede dall’interno «dopo» — come abbiamo già ricordato — «essersi convertita» (in tale istante acrono avendo già sigillato nell’anima, per l’esperienza e la scrittura, come non più pertinente, ogni possibile «prima»...): «ln una notte oscura / con ansia e immenso amore già infiammata / o felice ventura! / uscii non osservata / essendo la mia casa già acquietata», Notte oscura (str. 1) 4. Vorremmo aggiungere, ancora, che forse, proprio nella trama fine di una scrittura tutta didatticamente tesa e costante di tono, le poche pause o momenti di transito in cui lo scrittore si ferma a commentare altre scelte o valutazioni — e, probabilmente, anche altre esperienze — sono ancor più utili ed illuminanti. Esse consentono d’istituire i modelli spirituali riflessi, situazioni e idee, segnati da atti e dichiarazioni nonché valutazioni critiche e di consapevolezza personale; soprattutto, modelli di confronto, con dichiarazioni sui parametri altrui e richiamo alla più alta realtà spirituale sperimentale e vissuta. In più, con la particolare giustificazione della scrittura (e dell’esposizione della dottrina), quasi, piuttosto, per la tensione continua verso gradi più elevati dell’esperienza, scrittura del desiderio... in cui compaiono le chiavi di lettura proposte e, nettamente svelate, le ansie anche terminologiche, della nomenclatura spirituale (cadendo, naturalmente, l’accento sulla res più che sul verbum...). In più, con certe costanti tematiche e di moti spirituali. in Salita, , 5, pp. 224-225 5 compare, precisamente, un lungo brano, che analizziamo interamente e che, senza porsi come capace di esaurire tutti i gravissimi contenuti, sembra, tuttavia, offrire un’ampia serie di supporti sostanziali della posizione sangiovannea. san Giovanni ha appena accennato alla «mirabile dottrina« denunciata da Gesù Cristo in Mc, 8, 34-35: «Et 4 “En una noche oscura / con ansias en amores inflamada / ¡oh dichosa ventura!, / salí sin ser notada / estando ya mi casa sosegada”. 5 “¡Oh quién pudiera aquí ahora dar a entender y a ejercitar y gustar qué cosa sea este consejo que nos da aquí nuestro salvador de negarnos a nosotros mismos, para que vieran los espirituales cuán diferente es el modo que en este camino deben llevar del que muchos de ellos piensan!”

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convocata turba cum discipulis suis, dixit eis: si quis vult me sequi, deneget semetipsum, et tollat crucem suam, et sequatur me. Qui enim voluerit animam suam salvam facere, perdet eam; qui autem perdiderit animam suam propter me et evangelium, salvam faciet eam». si tratta, certamente, del reale punto di partenza per San Giovanni che, per parte sua, ha già optato — e consiglia fortemente di farlo — per l’attuazione al di là del limite «si QUis VULT Me seQUi» dell’atto volontaristico iniziale e fondamentale, che deve basarsi sulla «nada» («nulla»), sulla negazione di sé («deneget semetipsum»). Ed è spontaneo il grido di san Giovanni: «oh! poter qui far intendere ed esercitare e gustare che cosa significa questo consiglio che ci dà qui il nostro Salvatore di negare noi stessi». Va subito notata, qui, l’equivalenza triplice, che presiede al desiderio didattico (“oh poter”) dell’opera sangiovannea, tra il «far intendere» — che è l’impulso didattico, messo accanto ed equiparato immediatamente alla realizzazione pratica totale e diretta («esercitare»: non casualmente, parola ignaziana...), che è l’azionismo ascetico e mistico. sullo stesso piano, ma come segno di partecipazione e condivisione del messaggio, dall’interno di esso, per assimilazione profonda, minimale, vicinissima e quasi sensoriale, il («gustare»); che è, poi, l’impostazione precipua di sant’ignazio di loyola, del suo rapporto suggerito ad ogni anima con la parola-vita di Gesù Cristo: che agisce sull’intelletto verso l’azione ed esperienza probante e concreta, vorremmo dire, integrale della proposta — la parola «consiglio» — che cristo, appunto, fa a tutti quanti («ci dà, nostro»). Infatti, Cristo è chiamato qui «Salvatore», cioè, che mira decisamente alla salvezza di tutti, visto che si rivolge al fatto principale ed unico della condizione umana e sua essenza e ragione eterna: quale è quella «di negare noi stessi», che risulta nettamente esclusiva. La salvezza, che è l’esaltazione finale ed assoluta di sé, è, nella decisiva nullificazione di se stessi, il più drammatico paradosso cristiano proclamato con forza in tutta l’opera e testimonianza sangiovannea. lasciamo stare ’accenno agli «spirituali», se non per rilevare che la via proposta da San Giovanni coincide naturalmente con quella di Gesù Cristo: per altre soluzioni o considerazioni può valere la distanza, maggiore o minore, dall’insegnamento del Figlio di dio:

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affinché vedano gli spirituali quanto diverso è il modo con cui devono procedere in questo cammino da quello che molti di loro pensano! Perché essi intendono che basta qualunque maniera di distacco e limitazione rispetto alle cose, e altri si accontentano, in qualche modo, con l’esercitarsi nelle virtù e continuare l’orazione e seguire la mortificazione, ma non arrivano alla nudità e povertà, o alienazione o purezza spirituale, che sono tutte una cosa sola, che qui ci consiglia il Signore (Ibid.) 6.

ed ecco che san Giovanni riprende rapidamente il cammino, offrendo l’interpretazione del «consiglio» come inteso da quegli stessi «espirituales»: ed è questa una riduzione («reformación»), una limitazione, un abbassamento di chi si accontenta e non guarda alla misura estrema indicata da Cristo («basta», «si accontentano»). Per San Giovanni è solo Cristo, nel suo «consiglio» chiaro ed esclusivo, l’unico e supremo punto di riferimento... «Qualunque maniera», poi corrisponderà a «in qualche modo» (misure basse o corte, approssimative, vaghe, non valutate sui massimi rapporti) di «altri», che «si accontentano»... E san Giovanni, oltre alla modesta valutazione di costoro, parla anche apertamente di che cosa essa consiste, cioè, il «retiramiento» («ritiro, distacco») e «reformación», come di una riduzione o distanza dell’uomo rispetto alle cose, un distacco quanto alla loro considerazione e fruizione; altro grado, «esercitarsi nelle virtù», «continuare la orazione», «seguire la mortificazione»: certamente un grado alto e progressivo di ulteriore allontanamento e riduzione delle cose per farsi azionismo ascetico nella pratica della virtù, costanza e persistenza dell’orazione e scelta di morire a se stesso. Un’attività concreta, dunque, volta al ben fare e alla preghiera e alla volontaria umiliazione di sé e, forse, anche flagellazione e penitenza: sembra un concreto e importante e gravoso e rigido programma di ascesi — e lo è, sicuramente, nella sua onesta e dura elezione di reali mezzi di alta tensione spirituale. Ma, ancora una volta, per San Giovanni tutto ciò non sembra oltrepassare il pur ottimo livello di chi pensa alla 6 “para que vieran los espirituales cuán diferente es el modo que en este camino deben llevar del que muchos de ellos piensan! Que entienden que basta cualquier manera de retiramiento y reformación en las cosas; y otros se contentan con, en alguna manera, ejercitarse en las virtudes y continuar la oración y seguir la mortificación, mas no llegan a la desnudez y pobreza, o enajenación o pureza espiritual, que todo es uno, que aquí nos aconseja el señor”.  “porque todavía antes van a cebar y vestir su naturaleza de consolaciones

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propria salvezza, di chi si preoccupa di salvare la propria anima e cerca tutti i modi più opportuni e corretti — attivi, soprattutto, e generosi — per denunciare la propria volontà di essere unito a Dio; ed è qui che il programma — o, piuttosto, la scelta — si fa eroico e drasticamente definitivo: ben più della «mortificazione», che è, in fondo un far ancora conto di se stesso (del proprio corpo, persino), sia pure per imporsi maltrattamenti e privazioni. all’uomo sangiovanneo s’impone il grado assoluto della negazione totale di sé. E qui si verifica l’approdo del cammino nella sua fase di partenza e base sostanziale invalicabile («giunge») e San Giovanni sembra non accontentarsi nemmeno della parola, sia pure per limitarsi ad una definizione globale che raccoglie tutte quelle che gli vengono in mente — «desnudez, pobreza, enajenación, pureza espiritual» («nudità, povertà, alienazione e spossessamento di sé, purezza spirituale»). Noi vorremmo dire che «nudità» è il termine forse più in grado di raccomandare la concezione fondamentale che San Giovanni ha e postula; certamente, comprendendo insieme anche le altre parole, portatrici di elementi integranti, «que todo es uno», cioè, dato che tutte queste definizioni sottolineano un aspetto e tutte insieme formano una sola situazione radicale dell’anima. ad ogni modo, appare ben chiaro e netto il punto di partenza per l’anima; e nondimeno, proprio tutte le parole suggerite, oltre a spiegare se stesse e l’insieme, costituiscono un ampio spettro di connotazioni e di riferimenti. secondo il preciso «consiglio» di Gesù, ribadisce ancora una volta San Giovanni, si deve scegliere la via giusta; ed è «consiglio» di Gesù, non solitaria indicazione sangiovannea, sottraendosi egli ad una sua esclusiva indicazione della più ardua e definitiva operazione che l’anima, che vuole inoltrarsi nel «cammino», deve compiere su di sé e nella misura più completa, la «nada», appunto. dio e il nulla dell’anima, e basta! Anima nuda e privazione, nullificazione e negazione assoluta: Perché ancor prima vanno a colmare e a vestire la loro condizione naturale di consolazioni e sentimenti spirituali che a spogliarla e a negarla in questa cosa o quest’altra per Dio. Giacché pensano che basta negarla rispetto alle cose del mondo e non annichilirla e purificarla nella proprietà spirituale. E da questo deriva loro che quando viene loro presentato qualcosa di questo in modo con-

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creto e pieno, cioè, l’annichilazione di ogni dolcezza in Dio, in aridità, in insipidità, in travaglio, la qual cosa è la croce pura spirituale e nudità di spirito povero di Cristo, fuggono via da queste cose come dalla morte e vanno solamente a cercare dolcezze e comunicazioni piene di soddisfazioni in dio .

L’atteggiamento che San Giovanni allontana da sé e dalla propria concezione riguarda il gesto, evidentemente troppo umano, del «colmare e vestire la loro condizione naturale», perché la considerazione e il rilievo dati alle necessità modeste della «condizione naturale» in termini di bisogni, di esigenze elementari, quali il cibo e la veste, fanno di essa ancora la protagonista o, almeno, sembrano ancora prestarle ascolto, intervenire per essa, sia pure in termini spirituali e affettivi o sentimentali, non strettamente materiali («consolazioni e sentimenti spirituali»). E si vede bene come per San Giovanni l’aggettivo (e il sostantivo) «espirituales» copra una assai povera valutazione del rapporto effettivo con dio — o, forse, esso indica un livello certamente ancora basso nell’elevazione a dio dell’anima, basso, almeno per la soluzione totale voluta dal santo. soprattutto, per la certezza che l’anima rappresenta qualcosa ancora davanti a se stessa ... laddove san Giovanni, in sintonia con Gesù Cristo, predica che si deve «spogliarla e negarla» in tutto («in questa o quella cosa», in modo neutro e indefinito per indicare, appunto, la totalità! che è misura infinita per l’infinito di Dio...). E il tutto «en Dios» (‘in Dio’). Abbiamo così i termini necessari e sufficienti per iniziare un vero cammino di liberazione dell’anima da se stessa e dalle cose. Vorremmo dire che san Giovanni non dubita affatto di sgombrare il campo da ogni possibile equivoco e approfitta volentieri di questa zona di passaggio nell’itinerario dottrinale per istituire in modo chiaro i termini della questione — sempre riferendosi a interlocutori altri e a modi altri e ben conosciuti. tutti i verbi alludono a y sentimientos espirituales que a desnudarla y negarla en eso y esotro por dios. Que piensan que basta negarla en lo del mundo, y no aniquilarla y purificarla en la propiedad espiritual. De donde les nace que ofreciéndoseles algo de esto sólido y perfecto, que es la aniquilación de toda suavidad en Dios, en sequedad, en sinsabores, en trabajo, lo cual es la cruz pura espiritual y desnudez de espíritu pobre de Cristo, huyen de ello como de la muerte, y sólo andan a buscar dulzuras y comunicaciones sabrosas en dios”. 8 “Y esto no es la negación de sí mismo y desnudez de espíritu, sino go-

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«espirituales» come soggetti o punti di riferimento: qui, ancora una volta, prendendo a bersaglio chi si accontenta di poco («pensano che basta»); in questo poco entra anche quel «mondo» dal quale pure essi sembrano prendere le distanze. Per San Giovanni il «mondo» è troppo poco, non esiste nemmeno; e negare la propria natura quanto ai rapporti con il «mondo» è come negare qualcosa che non conta nulla, vuol dire azzerare qualcosa che non è nemmeno da prendere in considerazione, distaccare l’anima da qualcosa che per essa proprio non doveva né poteva contare... Il proposito ispirato da san Giovanni s’impone di «annichilirla», di «purificarla» nella «proprietà spirituale» (nella condizione propria, nella sua natura spirituale), in ciò che è più spirituale, nello specifico tono spirituale della propria anima di per se stessa. Il programma è durissimo, intransigente, e va al centro del problema e, anzi, mira a isolare «qualcosa di solido e perfetto, di concreto nella sua pienezza», sul quale l’anima si deve provare nella sua nuda verità essenziale. Si delinea, così, interamente, il nucleo severissimo e rigoroso del modello sangiovanneo, che si presenta assai liberamente all’anima, quasi in modo casuale, all’improvviso («quando le si presenta, quando le si offre») con una ben strana improvvisazione e singolare incontro, per poi subito rivelarsi come qualcosa di drammaticamente totalizzante: l’«annichilazione di qualsiasi dolcezza in dio», nientificazione di qualunque supporto facile o via facile a dio. ancora, l’isolamento assoluto dei due protagonisti di una solenne e mirabile vicenda, il «nulla dell’anima» e «dio», che si manifesta con una serie di sinonimi di fatto, celati dietro i negativi o i vuoti più tragici e tormentosi della solitudine apparente dell’anima: «aridità», «insipididità», «travaglî», sterilità, assenza, tormenti: questi di certo ben attivi, ma non meno attivi e desolanti sono gli altri due modi di inesistenza, veri e proprî zeri della vitalità e del gusto. Eppure, se l’anima vuole trovarsi di fronte a una scelta di campo che la renda nuda e sola con dio, perduta per ritrovarsi con lui, deve scegliere il «solus Christus», la pura assoluta nudità della «cruz pura espiritual», che è nudità dello spirito e povertà di e con Cristo: «desnudez de espíritu pobre de cristo». la croce e cristo sono gli unici e necessari punti di riferimento in tutta la loro solitudine, purezza, povertà. E l’anima deve trovarsi

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in quella stessa condizione di nudità totale. E per chi aveva pensato a togliersi dalle cose e dal mondo, e in ciò identificava la propria povertà — il distacco — si coglie un’autentica disperazione — ed era una rinuncia alle cose, al mondo, non a se stessi, dunque! — si verifica una fuga senza rimedio. san Giovanni usa qui un verbo — e una delle sue tipiche contraddizioni verbali — che crea una situazione di paradosso, di ossimoro: «les nace que huyen de ello como de la muerte» («ne deriva loro — originale «nasce in loro» — che «fuggono come dalla morte»). Il trovarsi nudi e poveri con Cristo è come la morte, dunque...: senza nascondere nulla della propria denuncia, san Giovanni non esita a criticare il cammino altro rovesciato — quello della fuga — quello che non porta a dio, ma trattiene su una misura accomodata e facile (« vanno a cercare»), la «dolcezza in dio», le «dolcezze e comunicazioni piene di soddisfazione e piacevoli in Dio» (non l’«insipidità»!). È come un filtro di melassa che stempera la rigida nudità, povertà e purezza desolata della Croce. Non sarà certo ironia, forse, ma le parole negative di san Giovanni della Croce («e questo non è la negazione di se stesso e nudità di spirito») che indicano il «cammino» positivo, terminano in un’espressione di durissima e implicita condanna, perché è quel “modo” che fa di Dio qualcosa a portata del «gusto», cioè, alla misura modesta e, in fondo, superficiale, esteriore, di chi lo trasforma in una «golosina de espíritu» («ghiottoneria dello spirito»): E questo non è la negazione di se stesso e nudità di spirito, ma ghiottoneria dello spirito. nella quale cosa, spiritualmente, diventano nemici della croce di Cristo (Fil 3, 18), perché il vero spirito prima cerca in Dio ciò che è insipido piuttosto che ciò che è saporito. e più si rivolge al soffrire che alla consolazione, e soprattutto a privarsi di ogni bene per dio piuttosto che a possederlo 8.

Qui si vede bene la violenta protesta di san Giovanni contro qualunque spiritualismo spurio e di maniera, certamente sentimentale e patetico, un dolciastro surrogato per chi sente e addita severamente l’asciutta purezza e povertà della teologia della croce come una teologia spirituale. losina de espíritu. en lo cual, espiritualmente, se hacen enemigos de la cruz de Cristo (Fil 3, 18), porque el verdadero espíritu antes busca lo desabrido en Dios que lo sabroso, y más se inclina al padecer que al consuelo, y más a carecer de todo bien por dios que a poseerle”. 9 ¡Oh, quién pudiese dar a entender hasta dónde quiere nuestro Señor que

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e il santo continua nella sua luminosa rivelazione del rovesciamento operato dallo spiritualismo negativo, che è ribaltamento del sacrificio stesso di Cristo. La ricerca di san Giovanni mira alla veritas ed è ricerca limpida ed esatta («vero spirito») della vera dimensione di Dio («saporito-insipido») nella comunicazione con l’anima (e l’anima vi si dispone), attraverso la condizione del dolore, della povertà, dell’assenza e del soffrire. La vera «sapienza», diciamo di più, la soluzione all’inquietante e urgente problema del «saber» (sapere), che nasconde l’ansia umana di sempre, il superamento del mistero dell’esistere: il «saber» consiste nel «seguire cristo e negare se stesso» — i termini assoluti dell’unica verità. Nel nostro nulla sta cristo! In definitiva, il modello sangiovanneo viene a proporre come scelta determinante l’unica teologia dell’amore, nella sequela di Cristo e non nella ricerca di sé («è altra cosa, per ventura, cercare se stesso in Dio, la qual cosa è assai contraria all’amore»). Si apre, dunque, in negativo per l’anima una scelta disperata d’inimicizia con cristo e di rovesciamento dell’amore. Questo è il senso del «cercare sé in Dio» perché è un «cercare i doni e i divertimenti di Dio», cioè, qualcosa di blando e di deviante dal vero volto di Dio, che è quello purissimo e nudo della rinuncia a se stessi; in sostanza, è un cercare il bene di sé, per sé, ciò che ci conviene di dio per la conservazione di noi stessi. Questo è un pensare sempre e solo a se stessi, anteporsi a dio, negarlo per sostituirsi a lui... Per san Giovanni della Croce bisogna «cercare Dio in sé»: il rovesciamento qui dà il primato a Dio e alla ricerca, così come lascia intatto il sé, ma per l’incontro con Dio, come rivelazione dell’immagine di Dio impressa nel sé secondo il monito biblico («Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram», Gen 1, 26). Tale prospettiva corretta, poi, non è privazione di qualcosa («è non solo voler privarsi di quello e di quell’altro per Dio»): l’atto volontaristico («volere») è solo apparentemente positivo se si limita — per san Giovanni — a delle semplici privazioni — e si vede bene come san Giovanni valuti certi tipi di penitenza o certe impostazioni anche pietistiche della teologia spirituale, sicuramente proficue e sane, ma affatto sane se distanti dalla «nada» dell’anima sola con dio. Per san Giovanni l’anima deve compiere

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di fatto due movimenti: «inclinarsi, disporsi a scegliere» — in un solo gesto definitivo, che va «per Cristo e in Cristo» a «ciò che è più insipido» nei due rispettivi sensi «sia di Dio», «sia del mondo». Né il mondo viene abbandonato o ripudiato, ma colto, precisamente, nel suo aspetto sgradevole e negativo contro la facilità o la dolcezza apparente: «E questo è amore di Dio ...». A quest’ultima frase, incisiva di asciutta semplicità, a sigillare un profondo processo di progressiva delimitazione del rapporto essenziale — dio-nada — sul quale s’innesterà qualunque ulteriore movimento dell’itinerario mistico — approda, e su di essa si basa, il modello generale della teologia spirituale di san Giovanni della croce. a corollario, un’ulteriore prosecuzione — non meno intensa d’emotività e di partecipazione, pur nel sostanziale mistero del quantum ineffabile della povertà e inadeguatezza del linguaggio analogico, della variabile dell’esperienza singola e squisitamente individuale nei toni e nei modi — avviene in alcune poche righe successive, che assai sinteticamente propongono, nuovamente e con più ricca articolazione dei termini, tutti i supporti fondamentali della questione: Oh! poter far intendere fino a dove vuole nostro Signore che giunga questa negazione! essa, certo, dev’essere come una morte e annichilazione temporale e naturale e spirituale in tutto, nella stima della volontà, nella quale si trova ogni negazione (Ibid., 6, p. 225) 9.

Fra l’altro, compare qui un elemento sostanzialmente nuovo, cioè, un’ipotesi di misura, quasi un possibile punto di verifica, che non annulla la richiesta di totalità — anzi, la conferma! — e semmai fornisce la prova dell’illimitatezza proprio nell’affidarla a Dio infinito, a cui solo sono rimesse la certificazione e l’accettazione di ogni sforzo dell’uomo di abbandono assoluto e senza riserve. Questo termine di largo (e, proprio, infinito) spettro di possibilità è nel «fino a dove vuole nostro Signore», che, fra l’altro, ribadisce con una parola fermissima e certa — ovviamente, senza determinazione e senza margini di dubbio e di discrezione — «quiere» («vuole»), il modulo centrale llegue esta negación! Ella, cierto, ha de ser como una muerte y aniquilación temporal y natural y espiritual en todo, en la estimación de la voluntad, en la cual se halla toda negación.”

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di tutto il processo sangiovanneo. È la volontà del Signore il fondamento e il motore unico di tutta l’esperienza spirituale dell’anima («per questo, come diremo poi, Dio pone nella notte oscura coloro che vuol purificare da tutte queste imperfezioni per condurli avanti», Notte oscura, cap. 2, 8, p. 445) 0. comunque, nell’implicito «cammino» senza durata e senza tempo («fino a dove vuole nostro Signore che giunga»), ma che, sicuramente, anche solo per la presenza del verbo «llegue» («giunga»), appunto, non ha carattere di simultaneità e di coincidenza assiale Anima-Dio se non dopo necessario e non-quantificabile percorso, «questa negazione» (e solo questa che è quella inequivocabilmente richiesta) deve necessariamente esserci con sue esatte e insuperabili caratteristiche: «essa, certo, deve essere». Prima di tutto, la quantità totale («in tutto», «tutta»), poi, «come una morte», e morte vera e nullificazione del tempo e della «natura» e nella dimensione profonda dello spirito senza mezzi termini. Ciò che più conta, poi, nell’apporto, qualità, quantità, funzionalità e valutazione della volontà dell’anima stessa: «nella stima della volontà» è il «concreto e giusto aborrire la propria anima» (5 Gv 12, 25), è il «rinunciare per Cristo», è lo scegliere «ciò che assomiglia di più alla croce», in che consiste il «guadagnare» («chi perderà la sua anima per me, costui la salverà» (Mt 10, 39): e san Giovanni della croce ripete, ripete instancabilmente i versetti evangelici — tutta la sua opera, si era visto, è intrecciata alle Scritture -, cioè, il fondamento unico della Parola di dio a garanzia dell’uomo e della sua salvezza. E anche in questo, una volta di più, si coglie il modello generale, purissimo, ma in tutta la sua nuda esclusività, della sua esperienza e teologia spirituale. l’intera opera di San Giovanni della Croce è lí a offrirsi alla meditazione e all’esperienza, e ogni sua riga — oltre ad essere un canto d’amore, delicato di forme e segreto nella traccia profonda della parola semplice e scarna che vibra attraverso i simboli — propone un aspetto approfondito della propria dura proposta: ad essa è da rinviare ogni ulteriore lettura e riflessione. Qui si è solo inteso mettere a fuoco il suo nucleo essenziale; vogliamo, tuttavia, leggere più da vicino un 0

cfr. lo studio Dio e la volontà, qui pp. 43-55.

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brano della sua trattazione della Fiamma d’amor viva (nel testo B):  sembra un sincero sfogo, un soffio di partecipata e consapevole considerazione, giusto a proposito della durezza del modello e della pur plausibile debolezza umana, o pur naturale bisogno di umana compassione e dolcezza. Ma è proprio su questo punto troppo umano che il Santo ritiene di offrire le sue osservazioni e indicazioni per una corretta lettura di sé e delle proprie reali esigenze: oh! anime che volete procedere sicure e consolate nelle cose dello spirito; se sapeste quanto vi conviene patire soffrendo per giungere a codesta sicurezza e consolazione, e come senza questo non si può venire a ciò che l’anima desidera se non tornare indietro, in nessun modo cerchereste consolazione, né da Dio né dalle creature. Ma anzi portereste la croce e, posti su di essa, vorreste bere il fiele e 1’aceto puro (Gv 19, 29; Mt 27, 34), e lo considerereste come una grande fortuna, vedendo come, morendo così al mondo e a voi stessi, vivreste in Dio nei piaceri spirituali; e se, soffrendo con pazienza e fedeltà il poco esteriore, meritaste che dio mettesse gli occhi in voi per purgarvi e pulirvi più di dentro con alcuni travaglî spirituali più di dentro per darvi dei beni più di dentro (p. 805) 2.

da un lato, le «anime che voglion procedere sicure e consolate nelle cose dello spirito»: la volontà è messa in evidenza come necessità che si fa appello volontaristico che ogni anima prova e, appunto, vuole assicurarsi della propria esigenza di fondo. e san Giovanni conosce bene il rischio implicito di fraintendimento o di arbitrî nell’interpretazione dei fatti spirituali. Ma il santo indica anche, immediatamente, la giusta valutazione del «saber» e le sue legittimità da  cfr. l’introduzione critica a Juan de la cruz, Poesie, ediz. critica cura di P. Elia, Japadre, L’Aquila-Roma 1989. 2 cfr. Llama de amor viva B, canc. 2, 28 “¡Oh almas que os queréis andar seguras y consoladas en las cosas del espíritu; si supiésedes cuánto os conviene padecer sufriendo para venir a esa seguridad y consuelo, y cómo sin esto no se puede venir a lo que el alma desea sino antes volver atrás, en ninguna manera buscaríades consuelo, ni de Dios ni de las criaturas; mas antes llevaríades la cruz y, puestos en ella, querríades beber allí la hiel y vinagre puro (Gv 19, 29; Mt 27, 34), y lo habríades a gran dicha, viendo cómo, muriendo así al mundo y a vosotros mismos, viviríades a Dios en deleites de espíritu; y, si sufriendo con paciencia y fidelidad lo poco exterior, mereceríades que pusiese Dios los ojos en vosotros para purgaros y limpiaros más adentro por algunos trabajos espirituales más de adentro para daros bienes más adentro”.

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situarsi in una condizione altra che non siano le proprie, individuali, che ognuno sente dentro di sé...: «se sapeste». Ed è la sapienza e la consapevolezza del dolore («padecer sufriendo», ‘patir soffrendo’ sembra portare al massimo la sua intensità non rinviabile più ancora dell’illimitato «cuanto os conviene», ‘quanto vi conviene’); come se il «consuelo» (‘consolazione’) e la «seguridad» (‘sicurezza’) dovessero nascere proprio dal loro accettato e patito contrario; e come se la volontà dovesse andare nella direzione esattamente opposta a se stessa... la scelta volontaria di tale «cammino» contromano è la condizione obbligatoria per chi voglia andare avanti nella vita spirituale, pena un «volver atrás» (‘tornare indietro’) che porta al solo se stesso, ancora una volta, non a Dio... Perché, sembra dire con la forza di sempre san Giovanni, se l’uomo vuol salvar l’uomo deve andare verso dio, contro, in opposizione a se stesso. come dire che l’umanesimo, l’antropologia sangiovannea solo in Dio trovano la propria unica legittimità e garanzia... e, molto chiaramente, san Giovanni indica nella volontà di non consolazione la scelta tremenda del dolore e dell’incertezza, non quella del conforto né da parte dell’uomo né da quella di Dio! Ciò sarebbe un voler condizionare dio stesso, un volerlo ridurre alla povera misura umana. È il «portar la croce» volontariamente, con tutta la voluntas allo stato puro al servizio del dolore di cristo. si tratta della scelta della morte per la vita, di dio e dello spirito, di contro a se stessi e al «mondo». Il merito certo è, per San Giovanni, attirare l’attenzione diretta di Dio («mettesse gli occhi») per provocarne l’opera di purificazione senza limiti e purificazione totale (il «poco exterior» contro i «più di dentro» ripetuti tre volte) in vista del «godimento». «Travaglî», «pazienza e costanza», «pazienza e fedeltà» son le risposte richieste all’uomo di fronte alle tentazioni, sull’esempio di tobia e di Giobbe, paradigmatici del modello cristiano — che sono i supporti dinamici della misura di cristo — la croce! — non solo «doni» e «meriti» («meritaste»), «beni», «piaceri spirituali», «così speciale grazia», «avvantaggiarli» «ingrandirli [...] molto di più», «moltiplicando i beni». Dio, dunque, dà all’uomo, di fronte al sacrificio, appunto, la misura suprema della Croce, come sempre, mille per dieci. Questo è l’unico modello reale che San Giovanni traccia all’uomo; forse, avendo

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come unico punto dolente la resistenza e la corta pigrizia della povera misura umana, probabilmente condizionata dal «poco esteriore» da soffrire con fedeltà e pazienza, forse l’incapacità di rinviare al «dopo» il «guadagno», il «profitto»... Eppure, la proposta esemplare di Giobbe (1-2 e 42, 12) non rinvia affatto a tempi senza tempo: «Come fece moltiplicando loro i beni nella condizione spirituale e temporale»... in fondo, san Giovanni tratteggia una via non poi così aspra — se non fosse implicito e minuziosissimo il «cammino» disegnato nelle sue opere in prosa — certamente suggestiva di un approdo sicuro e totalizzante: «rimasi nell’oblio, / il volto reclinai sopra l’amato, / tutto finí, mi arresi, / lasciando le mie pene / e fra i gigli rimasi nell’oblio» (Notte oscura, str. 8) 3. Si compie così il doloroso transito dell’«orrenda notte» della desolazione e dell’assenza, delle «aridità» e dell’angoscia e amarezza, dell’abbandono e del tormento che turba l’anima sulla soglia di un «cammino» complesso e difficile. San Giovanni, allora, pone, proprio all’inizio della sua opera — ricordiamo, ancora una volta, la prima strofa della Notte oscura — la chiara rivelazione dell’«uscita», i mezzi e i modi di essa: «e questa uscita dice [1’anima] che potè compierla con la forza e il calore che per quello scopo le diede l’amore del suo sposo in quella contemplazione oscura. Perciò esalta la buona fortuna avuta nel camminare verso dio durante questa notte con un così prospero risultato che nessuno dei tre nemici, che sono: il mondo, il demonio e la carne, che son quelli che sempre s’oppongono a questo cammino glielo potessero impedire» (Notte oscura, I, 2, pp. 439-440) 4. tutto qui il mistero e la soluzione del più grave problema dell’umanesimo e della salvezza «seguendo le tue orme», al seguito dell’amato, solus Deus, e nell’oblio di sé: «Ne la secreta cella / de l’amato bevei all’hor ch’io uscia / a la pianura bella; / Già scordata men gia / E la gregge perdei, che pria seguia. // Quivi suo petto diemmi, / Quivi dottrina appresi assai gustosa, / et io tutta sua femmi / non riservando cosa, / Quivi gli promettei d’esser sua sposa. // tutta a lui mi son 3 “Quedéme y olvidéme, / el rostro recliné sobre el Amado, / cesó todo y dejéme, / dejando mi cuidado / entre las azucenas olvidado”. 4 Per il testo, cfr. n. 5, p. 3.

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data / Tutt’il mio capital’è ‘n suo servitio, / Già del gregge scordata / Non più tengo altro offitio, / Che solo nell’amar è ‘l mio essercitio» (Cantico spirituale, str. 18-20) 5. l’anima, seguendo nell’ascolto del «silbo de los aires amoroso» (‘sibilo dell’aria pien d’amore’) — le «virtù e le grazie dell’amato» — seguendo la chiamata instancabile e paziente, che invita a sé, giunge all’approdo dell’unione mistica, nella «dolcezza e la conoscenza che Dio dà di sé all’anima che la cerca», e che è, precisamente, «traccia e orma per le quali si va conoscendo e cercando dio» (Cantico spirituale, commento alla strofa 16, 2, p. 915) 16. Tutto questo è puro e unico e totale «esercitio d’amore», adempimento e unificazione dell’anima e del corpo nella integralità dell’amore «in modo che, sia che il suo agire avvenga sul piano temporale, sia che il suo esercizio sia riguardo alle cose spirituali, l’anima sempre può dire: che solo nell’amare è il mio esercizio» (Cantico spirituale, commento alla strofa 19, 8, p. 927) . Là, dove la «notte riposata / Vicino a lo spuntar che fa l’aurora / l’armonia delicata, / solitudin sonora, / la cena che ricrea e innamora» (Cantico spirituale, str. 15) 8, la «fiamma viva d’amore», di «luce assoluta», si compie nella totale e libera donazione di sé nei «molti servizi a Dio» e l’anima «assorta nella vita divina» esplode nel suo giubilo d’amore: «in questo stato di vita così perfetta l’anima procede sempre sia interiormente che esteriormente come per una festa e porta continuamente nel palato del suo spirito un giubilo di dio grandissimo un canto nuovo, sempre nuovo, avvolto nell’allegria e nell’amore, nella totale conoscenza della sua felice condizione» (Fiamma d’amor viva, commento alla strofa 2, 36, p. 809) 19. 5 La traduzione seicentesca è del P. Alessandro di S. Francesco, pubblicata in Roma, appresso Cortelletti nel 1627; cfr. P. Elia, pp. 204-210, n. 43; “En la interior bodega / de mi Amado bebí; y cuando salía / por toda aquesta vega / ya cosa no sabía / y el ganado perdí que antes seguía. // allí me dio su pecho / allí me enseñó ciencia muy sabrosa / y yo le di de hecho / a mí, sin dejar cosa; / allí le prometí de ser su esposa. / Mi alma se ha empleado / y todo mi caudal en su servicio; / ya no guardo ganado / ni ya tengo otro oficio / que ya sólo en amar es mi ejercicio”. 16 “es rastro y huella, por donde se va conociendo y buscando a dios”.  “de manera que, ahora su trato sea acerca de lo temporal, ahora sea su ejercicio acerca de lo espiritual, siempre puede decir esta tal alma: que ya sólo en amar es mi ejercicio”. 8 Ibidem; “la noche sosegada / en par de los levantes de la aurora / la música callada / la soledad sonora / la cena que recrea y enamora”.

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19 “en este estado de vida tan perfecta siempre el alma anda interior y exteriormente como de fiesta y trae con gran frecuencia en el paladar de su espíritu un júbilo de dios grande, como un cantar nuevo, siempre nuevo, envuelto en alegría y amor, en conocimiento de su feliz estado”.

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dio E la volontÀ (pEr un’analisi sEmantica dElla “nottE oscura” di san giovanni dElla crocE)

. Premessa dal principio della Notte oscura  Dio non è solo il punto della prospettiva terminale del “cammino” (“camminare a Dio”, I, 1, 440) 2, che è, poi, il luogo della “illuminazione spirituale”, e, specialmente, dell’incontro con il divino, che salda l’anima nell’“unione d’amore con Dio” (Prol. al lettore, 437). Se la “perfezione” è l’“unione d’amore con Dio”, l’istante altissimo e felice (“alta e felice”) che coincide con la separazione e morte dell’anima a se stessa, trova in essa piena conferma ed espressione il “vivere”. È, infatti, la “vita d’amore dolce e piacevole con dio” l’oggetto interno e più proprio del verbo, la sua intima e necessaria qualificazione nella densità superlativa del linguaggio, concentrato di tutte le possibili energie dei suoi nuclei paradigmatici: “viver vita”, “d’amore”, “con Dio”. Dio è, dunque, nel testo sangiovanneo, in continuità  citiamo qui tutto il testo della premessa: “antes que entremos en la declaración de estas canciones, conviene saber aquí que el alma las dice estando ya en la perfección, que es la unión de amor con Dios, habiendo ya pasado por los estrechos trabajos y aprietos, mediante el ejercicio espiritual del camino estrecho de la vida eterna que dice nuestro Salvador en el Evangelio (Mt 7, 14), por el cual camino ordinariamente pasa para llegar a esta alta y dichosa unión con Dios. El cual por ser tan estrecho por ser tan pocos los que entran por él, como también dice el mismo Señor (Mt 7, 14), tiene el alma por gran dicha y ventura haber pasado por él a la dicha perfección de amor, como ella lo canta en esta primera canción, llamando noche oscura con harta propiedad a este camino estrecho [...] / dice, pues, el alma, gozosa de haber pasado por este angosto camino de donde tanto bien se le siguió” (‘Prima di entrare nella dichiarazione di queste canzoni, conviene sapere qui che l’anima le dice stando già nella perfezione, che è l’unione d’amore con Dio, essendo già passata per gli stretti travagli e angustie, mediante l’esercizio spirituale del cammino stretto della vita eterna di cui parla il nostro Salvatore nel Vangelo (Mt 7, 14), per il quale cammino ordinariamente passa per giungere a questa alta e beata unione con dio. il quale essendo tanto stretto ed essendo tanto pochi quelli che entrano per esso come anche dice lo stesso Signore (Mt 7, 14), l’anima gaudiosa d’esser passata per questo angusto cammino, da dove tanto bene le è venuto [...]”. 2 Per il testo vedi nota , p. 5.

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amore e donazione (“le diede l’amore”, I, 1, 439); ma, insieme, anche attuazione concreta d’un processo difficile e delicatissimo (“uscir [...] da sé e da tutte le cose”, ib.), che è, antifrasticamente, un passaggio “così stretto” attraverso la morte (“morendo”), che sul piano semantico si dilata nella lunga durata e transito del gerundio, ed è prodotta e realizzata senza finzioni né vie di fuga. La morte di sé e a sé deve essere vera e totale (“Per vera mortificazione”), sicuramente voluta e compiuta senza residui né compromessi. Diciamo che la volontà dell’uomo, implicita e nascosta nell’azione della morte, non è meno diretta e palmare nei fatti; quella morte è apertura verso la vita, la vera vita dell’“unione”, che è fine dell’itinerario e del movimento (“per venire”); ma che ha dovuto passivamente postulare l’energia vitale divina (“con la forza e il calore”). E questa è amore, come definizione perfetta e determinante e chiave conclusiva della geminazione (“forza e calore”), analitica e formale degli impulsi di capacità e di potenza, oltre alle manifestazioni di quell’energia sostanziale che ha promesso l’“uscita” (“poté fare”) nel suo concreto effettuale. Dio agisce in continuità, si diceva, e opera nell’anima e sulle anime, dal principio della Notte oscura. si stabilisce, già nei primi paragrafi, della prima parte, una fitta intersezione di piani e movimenti; basta controllare i soggetti e i predicati, una volta che si ricordi che i protagonisti della complessa rete d’azione sono, sostanzialmente, due: l’anima e Dio. insieme con i nemici (“mondo, demonio e carne”, I, 2, 440) compaiono, inoltre, nuovi soggetti, come la stessa “notte oscura” o “contemplazione purgativa” o “purificativa”; i “maestri spirituali” (“confessori e prelati”) e tutta una serie di termini astratti o di movimenti spirituali: amore, la grazia di Dio, penitenze, digiuni, consolazioni, cose sante, voglia, opere e virtù, invidie e inquietudini, umiltà, imperfezione, pena d’amore, spirito sapiente di Dio, avarizia, superbia, lussuria, ira, gola spirituale, accidia, coraggio, gagliardia, affezione, golosità, appetito, ecc. nel saggio 3 Per un’analisi semantica della “volontà” nella “Notte oscura” di San Giovanni della Croce ho studiato la fenomenologia della voluntas dell’anima, 3

Vedi qui pp. 171-190.

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precisamente, in un testo come la Notte oscura, cioè, della passività, o degli impulsi attivi-passivi dell’anima; qui, mi propongo di esaminare alcuni esempî della voluntas divina nello stesso ordine in cui appaiono nel testo, per vedere la loro incidenza testuale dentro quel contesto e in quel punto. Lo farò, come sempre, dal punto di vista del significato, cioè, nel senso d’irradiazione e trasmissione d’energia semantica del lessema nella zona circostante morfologico-frastica. E, certamente, mi atterrò al punto di vista meramente linguistico, non psicologico né teologico, per ovvie ragioni di competenza 4. 2. Dialogo d’azione divina e umana È dio che “va togliendo” le anime dallo “stato di principiante” e le “comincia a porre in quello di coloro che traggono vantaggi”, con la precisa intenzione (“affinché”) 5 “passando di qui giungano allo stato dei perfetti”. san Giovanni dispone la sua analisi della “notte” per “intendere e spiegare” “per quale ragione” pone le anime in essa. e l’anima, “dopo che determinatamente si converte a servire dio”, trova immediata e tranquillizzante risposta nell’assistenza materna di dio, che “ordinariamente la va [...] allevando”, e qui comincia un intenso processo metaforico-reale d’amorosa attenzione, che alimenta, cresce, svezza, insegna a camminare, rigenera l’anima, dà il “suo petto di tenero amore”, procura il “latte spirituale” (I, 1, 2, 440-441). L’anima, da parte sua, elabora una fitta rete di occupazioni e attività: prova sentimenti, “piaceri”, emozioni, “gioie”, “consolazioni”, “passa grandi momenti in preghiera”, utilizza i sacramenti e comunica con le “cose divine”; è indotta a “esercizî spirituali”, fa penitenze e digiuni, opera con le sue imperfezioni e “vizî capitali” (I, 1, 3, 441). e, nello stesso tempo, nell’ambito proprio di ciascuno di questi movimenti, prova fervore e diligenza, subisce il sorgere di “una certa voglia assai vana” — accresciuta dal demonio — di superbia. Ciò la fa parlare di cose 4

Vedi anche qui p.  per il metodo. “en esta noche oscura comienzan a entrar las almas cuando dios las va sacando del estado de principiantes”. 5

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spirituali davanti agli altri, la provoca a voler insegnare più che ad apprendere, fino a giungere a condannare chi non pratica le sue stesse devozioni, come il fariseo. nei momenti più radicali del male, l’anima vuol sembrare migliore delle altre, s’inquieta quando non la stimano e lodano, e giudica molto severamente i “maestri spirituali” che non le dànno la loro approvazione, ne cerca altri che acconsentano a darle ragione, si perde fra mille velleità e guarda di malocchio chi le si oppone; poi, fa gesti di devozione esteriore, sospiri e cerimonie, pubblici rapimenti e non segreti e “altre cerimonie”. in tutto questo daffare entra il demonio: “compiacenza” e “molte volte brama” (I, 2, 1-3, 442-443). È, davvero, impressionante seguire la minacciosa e pullulante descrizione da parte di san Giovanni delle avventure e deviazioni dell’anima: le “invidie”, le “inquietudini”, la voglia di dominare i “confessori”, la colorazione sfumata dei peccati per attenuarli, il cambio dei confessori per accusarsi, mentre con altri dice solo bene, anche in termini brillanti, contro l’“umiltà”, Ancora, diminuisce i suoi stessi errori o si rattrista per le cadute, pensa d’esser santa, prova impazienza e “ansie” con dio che deve toglierle le “imperfezioni”, più per esser libera che in pace con Dio stesso... Non loda nessuno e vuol esser lodata, è vana come le “vergini stolte” e cerca “olio al di fuori” (I, 2, 4-5, 443). risulta interminabile questa casistica piena d’intersezioni: “da queste imperfezioni alcuni giungono ad averne molte assai intensamente, e con molto male in esse; ma alcuni ne hanno meno, alcuni di più, e alcuni solo primi movimenti o poco di più; e appena ce ne sono alcuni di questi principianti che al momento di questi fervori non cadano in qualcosa di questo genere” (I, 2, 6, 443). Accanto a quelle anime eccitate e superficiali, di varia superbia, ci sono anche quelle “che in questo momento vanno alla perfezione”, che procedono nel modo contrario ed hanno vantaggi costruttivi d’umiltà, stimano poco le loro “proprie cose”, voglion servire dio come le persone che esse considerano migliori di se stesse e le invidiano con “santa invidia”, con fervore. Anch’esse operano, ma con umiltà, perché sanno i meriti di Dio e lo amano con carità ed amore, che le sollecita e inebria, senza che debbano preoccuparsi, poi, di quello che fanno gli altri... ancora, vogliono essere stimate poco

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o disistimate, non credono a chi le loda e qualunque stima sembra loro strana e inutile. son anime, in fondo, umili e tranquille, desiderano giungere ad un porto sicuro per costruire, seguono con grande impegno qualunque buon cammino venga loro indicato e non sembra loro mai di obbedire abbastanza, perché il loro unico stimolo e desiderio è sempre e solo quello di servire Dio. Mai parlan di sé, hanno vergogna della loro miseria e vorrebbero dire i loro peccati, più che le loro virtù. Ancora, esse vorrebbero stare soltanto con chi le disprezza o le tiene in poco conto: è “lo spirito sapiente di Dio”, che dà agli umili quella grazia e la nega ai superbi. La posizione di Dio è qui chiara e netta: si colloca al centro del doppio movimento e atteggiamento che separa le anime: “Perché Dio dà agli umili, insieme con le altre virtù, questa grazia, così come la nega ai superbi” (I, 2, 7, 444). Il senso e la qualità di questa grazia comporta, nell’umiltà, un impegno deciso a servire Dio, con aiuto e solidarietà, nella speranza comune e “timore amoroso di dio”, attesa e sofferenza, nelle “imperfezioni” e cadute. ci sono anime, poche, “le meno”, che camminano così dal principio; altre, che sarebbe già bello se non cadessero “nelle cose contrarie”, secondo la dura frase così precisa del Vangelo (Mt 22, 14): “Multi enim sunt vocati, pauci vero electi”. 3. I segni della volontà su queste forze spirituali e morali diverse e smisurate, con i loro infiniti movimenti e pensieri, tensioni, gesti e sentimenti, ambizioni e speranze, nell’inquieta fenomenologia spirituale fra “umiltà / umili” e “superbia / superbi” si proietta un testo sangiovanneo, per prender atto di un profondo, doppio versante di comportamento e di volontà. si erge, allora, chiara e distinta la voluntas di Dio (I, 2, 8, 444-445), che, senza ambiguità né indugî o circonvoluzioni, abbrevia il discorso circa le più vane incertezze: “Ma anime che al principio camminino con questo modo di perfezione, capisco che sono [...] le meno e pochissime; che già ci accontenteremmo che non cadessero nelle cose contrarie. che, per questo, come poi diremo, dio mette nella notte oscura coloro che vuole purificare da tutte queste imperfezioni per condurle avanti”.

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nei capp. ° e 2° della prima parte la parola dio non appare spesso, perché San Giovanni sta delineando il formicolare attivo dei gesti umani; ma Egli è necessario punto di riferimento, invocato e presente, sebbene più per l’interesse umano che per se stesso. Abbiamo già visto (I, 2, 5, 443): “Hanno molte volte grandi ansie con Dio perché tolga loro le loro imperfezioni, più per vedersi in pace senza il loro fastidio che per dio”. Percepisce qui san Giovanni e mette in risalto l’inquietudine e l’impazienza, l’intollerabilità dell’anima, chiusa in una cupa idiosincrasia, insopportabile per qualcosa di molesto, appena fastidioso (“molestias”), che fa delle “mancanze” e delle “imperfezioni”, precisamente, dei semplici ostacoli per la sua tranquillità. E Dio, sebbene nominato e presente, resta, tuttavia, sempre lontano, sicuramente ridotto all servizio del malessere altrui, non al centro del sistema, come segno della liberazione e della ritrovata purezza. Questo è proprio delle anime rapite nelle stesse imperfezioni contro le quali combattono. le anime che “vanno in perfezione” staranno sul versante opposto (“in molto altro modo”, “assai diversa tempra di spirito” — versante non solo quantitativo, ma soprattutto di qualità, consistenza, condizione profonda ed essenziale); e per esse Dio è “voglia di servirlo”, conoscere “il suo molto merito”, pena per non servirlo abbastanza, per “spirito semplice, puro e vero, e molto piacevole per Dio”. Ed è Dio, allora, il centro motore nel più intimo dell’anima (“le muove e inclina a conservare dentro i loro tesori e gettar fuori i loro mali”, I, 2, 5-7, 443-444), e punto di convergenza e di protezione, oltre che di separazione dell’azione verso i due sensi del bene e del male. Ma si tratta di anime infiammate d’amore e orientate verso il divino, in sintonia d’umiltà e di speranza con Lui. tra tutto questo panorama di gesti, azioni e controazioni, movimenti psicologici e dello spirito, ansie ed egoismi, fluttuazioni perturbate dalla superbia e distratte, nei fatti, rispetto alla centralità del divino — o anche come conformazione e conferma, a rovescio, delle anime che ad esso si rivolgono — s’inserisce la clausola dura e secca dell’ultima frase del cap. 2° (8, 445), che analizzo nella sua funzionalità paradigmatica. C’è, ad ogni modo, una chiusa sequenza della soluzione divina e della voluntas (“Che, per questo”) che la manifesta. Dio sembra prender nota della scarsa volontà umana,

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qui non espressa 6, ma che può esser dedotta dalla constatazione effettiva (“Ma anime [...] molto poche”, Ibidem). È, dunque, nell’uomo il distacco e la non effettuata adesione; così che la voluntas di dio sembra avere un precedente rigetto che la provoca e ne causa direttamente la necessità. dio opera, dunque, nella solitudine assoluta e il suo agire è effettivo e schietto: San Giovanni, una scrittura chiara e molto economica di mezzi, una scrittura che è secca e totale, senza residui o pietismi, che si limita all’enunciazione essenziale ed è asciutta di avvenimenti, non fa, nella sua trascrizione lineare di ció che accade nelle anime, nessun commento: “dio mette nella notte oscura”. È evidente la gratuità assoluta effettiva dell’azione divina e della passività delle anime rispetto alla “Notte” (“mette”). Accade qui l’incontrollabile libertà della VOLUNTAS (“quiere”), che pone nel contesto qualcosa di molto preciso e di duro: il presente è certamente acrono; o, piuttosto, che deve tornare a semantizzarsi in ogni storia e flessione di ogni anima, sola, a sua volta, nella propria riconosciuta collocazione nello speciale status notturno. la Voluntad, da parte sua, è un termine inequivoco e d’indipendenza assoluta, come per metter fine a tutto codesto pullulare di infiniti mutamenti e movenze di ciascuna come d’infinite anime; un atto voluto e che vuole, che rappresenta l’unico punto fisso e indiscutibile in un agire giusto o sbagliato, di risposta che si chiude sopra di sé o nella corretta prospettiva del “servir Dio”. Una volta di più, questa frase appare non come una formula, ma come l’espressione che racchiude il tutto dell’uomo e di dio. in controluce, si proietta l’errare come un pulviscolo confuso delle anime che hanno spostato l’asse della loro attività fuori delle tappe e fasi d’un processo di purificazione. La volontà di Dio non ammette nessuna distrazione; anzi, essa stessa sta al servizio del fine che vuole e non può non volere. Ancora, sulla linea sintagmatica del testo il tragitto frastico è molto preciso: l’anima deve purificarsi, Dio VUOLE purificarla; e, dopo l’ostacolo minuziosamente esposto nella sua forte consi6 Per contrasto, si veda la dichiarazione di i, 2, 440: “si deve, dunque, sapere, che l’anima, dopo che determinatamente si converte a servir dio, ordinariamente Dio la va educando nello spirito e coccolando [...]”: si tratta della più chiara ed esatta posizione dell’anima, unica e decisiva, per cominciare qualunque altro processo di “purgazione” e della “notte oscura”.

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stenza lessematica (“da tutte queste imperfezioni”, il deittico “queste” fa comprender molto bene che son proprio queste, molto vicine e irrinunciabili per la VolUntas fermissima, senza deviazioni), appare il segno, ugualmente netto e semplice, della divina finalità (“para”, ‘per’). “Condurle” (“llevarlas”) è l’autonomia dell’azione divina nella sua forte e pienamente e interamente responsabile intenzione di guida e conduzione; “avanti” (“adelante”) è il vettore spazio-temporale senza connotazione né ulteriore indicazione. L’itinerario esiste; è assicurata la mano che indica e fa proseguire; ma null’altro s’affaccia nel mistero della libertà e volontà divina. Neppure l’anima sa niente: lo scrittore mistico non aggiunge nulla né commenta, nella sua rigorosa vigilanza della scrittura. Qui si situa il punto focale della direzione necessaria, “nel cammino dell’unione dell’amore con dio”. “cammino stretto”, certamente, “cammino angusto da cui tanto bene gliene seguí” (439). 4. Avarizia, lussuria, ira... appaiono, successivamente, il cap. 3° e 4°, il primo dell’avarizia e il secondo della “lussuria”. si tratta, ovviamente, di capitoli simultanei o sincronici, anche alternativi. san Giovanni sta trattando dei “vizî capitali” o “spirituali”, che posson presentarsi insieme o in parte nelle stesse anime; tutti costituiscon la fase della “notte oscura” della purificazione, fase passiva, soprattutto, per quanto in piccola parte possa anche essere attiva. cosí, l’anima, secondo la fenomenologia del suo proprio “vizio”, può comportarsi in un modo diretto o indiretto; cioè, essere più o meno in relazione di prospettiva con Dio (“mettersi in buon rapporto con Dio ed essergli gradita o ringraziarlo”; “far piacere a dio e assolutamente per niente se stesso”, i, 3, 3, 447). L’enunciato sangiovanneo diventa qui, simultaneamente, esclusivo e tenerissimo, umanissimo e comprensivo dalla parte di Dio: “non può essa attivamente purificarsi in modo da esser disposta nella minor parte per la divina unione di perfezione d’amore, se dio non prende la mano e la purga in quel fuoco oscuro per lei”. Questo forte e duro “non può” (“no puede”) sta sulla stessa linea della chiarezza senza incertezza del potenziale della realtà (“se Dio”). Si veda, tuttavia, l’affettuosa affabilità domestica

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di umanissima (o divina misericordia, piuttosto!) fiducia e confidenza e condiscendenza di quel “prende la mano” (“toma la mano”) (sempre nel segno di “abbà”, ‘padre’, invocato senza riposo); così come il termine “purga” indica terapia rigorosa e necessaria, assoluta e insuperabile alla quale dio sottopone l’anima che gli importa... il cammino è sempre lo stesso: “lo spirito si muove in compiacimento e diletto di Dio”; “l’anima sta molto in preghiera con Dio”; “riceve lo spirito di Dio”, I, 4, 2, 447-448. Cioè, la linea retta di movimento verso dio, lo stato d’orazione senza distrazione, la passività verso lo spirito. Ricordarsi di Dio, aver voglia di lui, amarlo costituisce la prova ontologica (“il chi è secondo Dio”, “el que es según Dios”, I, 4, 8, 450) e il sintomo dell’immediata sequela di dio senza soluzione di continuità (“según”, ‘secondo’). È nel cap. 5º, dedicato all’ira, dove san Giovanni mette nel contesto un’altra manifestazione della voluntas divina e, in verità, molto curiosa; forse, per ciò stesso, esempio della verità estrema delle forme che viene assumendo. San Giovanni sta definendo le condizioni dell’anima impaziente e non umile, ma adirata, persino, fino al punto di essere inquieta con le sue velleità. Il Santo descrive lo stato con minuta attenzione in un discorso frammentato, per seguire le sfaccettature dell’inquietudine, della tensione che nasce dalla sproporzione fra le forze proprie, il tempo e la massima meta della santità. San Giovanni giunge, persino, a condensarlo in un’espressione popolare o del linguaggio più esplicito e sbrigativo: “che vorrebbero esser santi in un giorno”. il nucleo buono rivela una certa “impazienza”, una specie di onesta frenesia di andare oltre una fase ancora impropria e non matura di sé. Ma è, con facile ossimoro, “impaciencia no humilde”, la qual cosa significa, tuttavia, una notevole contraddizione, se l’umiltà è l’unica misura propria del nulla umano. di qui, lo slancio oltre le misure, i termini, le relazioni e le proporzioni: “molti che propongono molto e fanno grandi propositi [...] quanti più propositi fanno, tanto più si sdegnano” (corsivi nostri) (I, 5, 3, 451): “molto”, “grandi”, “quanti più [...] tanto più [...] e tanto più”. Se le congiunzioni coordinate hanno la loro propria logica e necessità morfosintattica, gli avverbi di quantità dànno il tono dell’impulso e del getto sbagliato della parabola (“propongono”, “propositi”, dalla flessione

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dell’iniziativa al risultato dell’intenzione), insistita e ripetuta nella sua ostinazione. E la parabola è tesa, dilatata fino alla protrazione, oltre la misura sul vuoto di chi non si sostiene e s’appoggia alla terra: “non sono umili”. È il senso del limite e dell’attesa e fiducia in Dio. Senza dubbio, quelle anime “non hanno sfiducia in sé”, precisamente, perché fanno perno sulle proprie forze senza ricorrere a dio “quando si degni”. “Mansuetudine” è la parola positiva di San Giovanni, che riassume tutte le necessarie disposizioni dell’anima tranquilla e soave ed obbediente fino al “purgazione della notte oscura”, che è solo di Dio. San Giovanni s’è trattenuto per lungo tempo a descrivere impazienza e “sdegno”, mancanza d’umiltà e presunzione di fatto: vizî tutti quanti fino all’“ira” spirituale. Perché questi vizî son veramente i segni dell’“imperfezione”, che restringe l’uomo nei confini angusti della sua stessa miseria, nei momenti in cui tende a porsi come forza unica della sua propria liberazione. l’impazienza è l’incapacità di soffrire e sopportare, nel tempo e nelle cose. e il santo non si trattiene dall’osservare, con parole che sembrano marginali, ma che, invece, son piuttosto sfogo e lamento, e che non mancano di sottile e amara acutezza: “sebbene alcuni abbiano tanta pazienza in questo del voler [trar frutto], che dio non vorrebbe vederne in loro tanta” (I, 5, 3, 451). Come se dicesse che, sul versante opposto, c’è un altro tipo di non diversa e forse peggiore alterezza: quella di chi, invece, ha forse troppa pazienza perché aspetta, senza volersi mai decidere a “trar frutto”, a cogliere i frutti; cioè, quella di chi ritarda la “purgazione”. E qui s’innesta una speciale espressione della voluntas: “dio non vorrebbe vedere”. Qui dio frena la sua propria volontà; sembra trattenerla, tenerla ferma, impedirsi di voler quella pazienza, che, tuttavia, non è meno grave o rischiosa del proprio negativo “impazienza”. il condizionale “non vorrebbe” è volontà non voluta o limitata o ridotta, non lasciata prevalere; anche se Dio stesso non può consentire né volere che le anime ritardino la loro salvezza. Potrebbe voler non piuttosto! Qui sembra, di fatto, che dio si autolimiti... Ed è ciò, invece, un altro meraviglioso esempio della tenerezza umanissima e, davvero, paziente! di quella misericordia di dio, che san Giovanni non dubita d’interpretare dalla prospettiva dell’uomo, anche senza mancare

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d’esprimere la sua affermazione. È una sottolineatura del linguaggio sangiovanneo, che, ancora una volta, rivela la sua finezza e duttilità. 5. Volontà divina e gola spirituale Un altro momento molto importante, esplicito e concreto, della voluntas divina appare nel cap. Vi, dove si parla della “gola spirituale”. sempre distratte son le anime che proiettano il proprio piacere personale sulle cose dello spirito più che sulla “purezza e discrezione”. E Dio “guarda e accetta” soltanto codeste qualità, naturalmente, dato che coincidono con la “soggezione e l’obbedienza, che è penitenza” — precisamente — “di ragione e discrezione” contro la “penitenza corporale”, che, per il Santo, “non è che penitenza di bestie”, cioè, provocata dall’“appetito e dal piacere” (I, 6, 1-2, 451-452). È sempre il discorso di chi si ferma a se stesso, senza “obbedienza”, senza ammettere nessuna volontà altrui, appunto, come criterio di giudizio e punto attivo di reale convergenza. Per la prima volta, in questo cap. Vi, 3, 452  san Giovanni viene a contrapporre le due volontà. E la parola è, ovviamente, la stessa, che San Giovanni chiarisce sui due opposti versanti — quello dell’uomo e quello di dio — che coprono, semanticamente, due precise scelte e orientamenti dell’anima nel difficile e incommensurabile istante di optare in una maniera definitiva e senza fraintendimenti. il par. 3 trabocca di segni della volontà da parte dell’uomo: da un lato, i “maestri spirituali”, che non agiscono né intervengono; curiosamente, essi dovrebbero solamente concedere (“perché concedano loro”). Dall’altro lato, “molti” senza nome — s’intende,  “Veréis a muchos de estos muy porfiados con sus maestros espirituales porque les concedan lo que quieren, y allá medio por fuerza lo sacan, o si no, se entristecen como niños y andan de mala gana, y les parece que no sirven a dios cuando no los dejan hacer lo que querrían. Porque, come andan arrimados al gusto y voluntad propia, y esto tienen por su dios, luego que se lo quitan y les quieren poner en voluntad de Dios, se entristecen y aflojan y faltan. Piensan éstos que el gustar ellos y estar satisfechos, es servir a Dios y satisfacerle” (‘Vedrete molti di costoro molto ostinati con i loro maestri spirituali affinché concedano loro quello che vogliono, e il mezzo per forza l’ottengono; e se no, si rattristano come bambini e vanno di malavoglia, e sembra loro di non servire dio quando non lascian loro fare quello che vorrebbero. Perché siccome vanno aggrappati al piacere e volontà propria, questo tengono per loro Dio, appena glielo tolgono e vogliono porli nella volontà di Dio, si rattristano e s’afflosciano e vengon meno. Pensan costoro che il fatto di provar loro piacere ed essere soddisfatti è servir

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di coloro che pretendon di star soli in tutto quello che li riguarda e sono “molto ostinati”, unico giudizio che di essi da qui san Giovanni. Codesti “ostinati” sollevano un fitto polverone d’attività: “lo tiran fuori”, “si rattristano”, “van di malavoglia”, “sembra loro”, “non servono”, “vorrebbero”, “vanno animati”, “hanno”, ancora, “si rattristano”, “s’indeboliscono e mancano”, “pensano”, “gustano”, “son soddisfatti”. in questo animatissimo agire, sentire, pensare e volere, che ha il suo centro in essi, c’è un incontro di volontà: “vogliono”, “vorrebbero”, “gli ostinati”; “voglion porre loro”, senza dubbio, nella controversia, i “maestri spirituali”, poi, la “volontà propria” e la “volontà di Dio”. È una gara ostinata, esattamente, e non solo codesto. tutto l’affanno d’azione e di volontarismo della flessione — vogliono, in principio, che sembra ridursi e attenuarsi nel condizionale “vorrebbero”; ma la sfida è con l’omologo e opposto “vogliono” dei “maestri spirituali” — si condensa nello scontro finale: “si rattristano” (due volte), “van di malavoglia”, “s’indeboliscono e mancano”. È un atteggiamento duro e quasi disperato, irremissibile, di chi “pone pies en pared” (“mette i piedi contro la parete”); ed ecco qui la terribile sentenza di San Giovanni: “come bambini”. non nel senso bellissimo e dolce usato nel cap. i, 2, dove il “bambino” tenero era immagine dell’anima determinata a convertirsi e ad esser rigenerata dall’“amorosa madre della grazia di Dio” (p. 441). Bambino, inoltre, afferrato a se stesso e alla più effimera delle proprie facoltà, sebbene utilissima e umana, il “piacere”. È quasi dipendenza assoluta (“aggrappati”), prossimità d’identificazione rispetto all’appetito nel senso esteriore, cioè, il “gustar essi ed esser soddisfatti”, che, negl’infiniti dei verbi consegnano la misura di sazietà totale a se stessi, senza limiti né tempi. E gli “ostinati” son tali, in questo, completamente: “pensan costoro”. e il “piacere” coincide con la “volontà propria”, cosicché questa, nella sua qualità totale e pura, astratta e precisa, s’identifica per realizzare, per porsi al servizio di quel “piacere”. dall’altro lato, dio e la sua “volontà”: e gli “ostinati” non li conoscono né considerano. La solitudine di essi è il loro pensiero-giudizio: “pensano”, “hanno”. nel luogo oggettivo di dio e della sua “volontà”, essi stessi e la loro propria esclusiva “volontà-piacere”, con la stessa forza, perlomeno, nella stessa

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parola volontà. Perché il fatto è che la loro propria volontà la “tengono come il loro dio”. l’antica promessa satanica di “eritis (sicut) Dii” oscura ancora una volta l’orizzonte dell’uomo su se stesso nel narcisismo supremo ed effimero del “piacere”.

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il modEllo gEnEralE dElla sEmantica dEl «dEsidErio» nElla prima DECLARACIÓN dElla «Fiamma d’amor viva» (TESTO B)

citiamo, prima di tutto, il testo in questione: Sintiéndose ya el alma toda inflamada en la divina unión y ya su paladar todo bañado en gloria y amor, y que hasta lo íntimo de su sustancia está revertiendo no menos que ríos de gloria, abundando en deleites (Cant 8, 5), sintiendo correr de su vientre los ríos de agua viva, que dijo el Hijo de dios que saldrían en semejantes almas (Jn 7, 38), parece que, pues con tanta fuerza está transformada en Dios y tan altamente de él poseída y con tan rica riqueza de dones y virtudes arreada, que está tan cerca de la bienaventuranza, que no la divide sino una breve tela. Y, como ve que aquella llama delicada de amor que en ella arde, cada vez que la está embistiendo, la está como glorificando con suave y fuerte gloria, tanto, que cada vez que la absorbe y embiste le parece que le va a dar la vida eterna, y que va a romper la tela de la vida mortal, y que falta muy poco, y que por esto poco no acaba de ser glorificada esencialmente, dice con gran deseo a la llama, que es el espíritu santo, que rompa ya la vida mortal por aquel dulce encuentro en que de veras la acabe de comunicar lo que cada vez parece que la va a dar cuando la encuentra, que es glorificarla entera y perfectamente. Y así dice: ¡Oh llama de amor viva! (1, 1, 774).

Il «già» («ya»,‘ormai’), immediatamente al principio della prima Declaración , così fortemente proclamato da san Giovanni, insinua, intanto, nel nostro tentativo analitico un’apparente contraddizione. Quale desiderio è ormai  Per il testo sangiovanneo utilizziamo le Obras completas, Revisión textual, introducciones y notas al texto de J.V. rodríguez / introducciones y notas doctrinales de F. Ruiz Salvador, Editorial de Espiritualidad, Madrid 19883; sigla O.C.; cfr. un importante articolo di Bernard Sesé, Teoría y práctica del deseo, in “Ínsula”, 537, septiembre de 1991, pp. 31-33 (num. dedicato interamente al Santo); diamo la nostra traduzione dell’intero testo: «Sentendosi già l’anima tutta infiammata nella divina unione e già il suo palato bagnato di beatitudine e amore, e che fin nell’intimo della sua sostanza sta riversando non meno che fiumi di beatitudine, abbondando di piaceri (Cant 8, 5), sentendo scorrere dal suo ventre i fiumi di acqua viva, di cui parlò il Figlio di Dio che sgorgherebbero

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necessario? quale movimento è richiesto ormai all’anima o è più possibile in uno stato di certezza saziata, di attuata pienezza ed esaustiva conoscenza diretta e sperimentale della «forza» divina, perfetta e traboccante in tutte le sue manifestazioni e conseguenze? Le espressioni di San Giovanni non sembrano lasciar spazio a dubbî: «tutta infiammata nella divina unione, il suo palato tutto bagnato di gloria e amore, fino nell’intimo della sua sostanza, che riversa non meno che fiumi, abbondante di piaceri, con tanta forza, e così intensamente [...] posseduta, e con così ricche ricchezze». La totalità e profondità degli accadimenti (tutta, tutto, fino nell’intimo), la valenza integrale delle energie primarie e degli estremi o principî sensibili polarizzati nei due elementi opposti (infiammata, bagnato), implicandosi anche la fisiologia e la sensibilità (sentendo, palato); l’unità personale del sinolo (sostanza, palato, ventre, spirito); la costellazione dei principali termini di riferimento fino alla concentrazione tautologica (ricche ricchezze): tutto ciò farebbe pensare ad un avvenimento concluso e definitivo, per la massiccia e completa assunzione e rivoluzione dell’anima, «ormai» precisamente compenetrata in dio, fatta centro del suo intervento perturbante e di una fenomenologia globale ed esaltante della potenza divina. ed un intervento davvero singolare, per il quale san Giovanni usa parole di grande valore probatorio; e, comunque, senza spazio di ulteriori possibilità per la «sostanza — trasformata — posseduta», completamente assimilata nella grandezza di dio. diciamo che l’anima ha ottenuto tutto, fino a giungere al grado massimo di doni e godimenti e stato d’eccellenza («fiumi di gloria», «gloria», «piaceri», «beatitudine»), per amore e grazia («amore», «ricche ricchezze di doni e virtù»). Sebbene ciò accada dentro una situazione in simili anime (Gv 7, 38), sembra che, poiché con tanta forza è trasformata in Dio e così altamente da lui posseduta e con tanto ricca ricchezza di doni e virtù adornata, che è vicinissima alla beatitudine, che non la divide se non una leggera tela. // E, siccome vede che quella fiamma delicata d’amore che in essa arde, ogni volta che le si sta avventando o investendo, la sta come glorificando con soave e forte beatitudine, tanto che ogni volta che l’assorbe e le si avventa o l’investe le sembra che le vada a dare la vita eterna, e che va a rompere la tela della vita mortale, e che manca pochissimo, e che per questo non finisce di essere beatificata essenzialmente, dice con gran desiderio alla fiamma, che è lo Spirito Santo, che rompa ormai la vita mortale per quel dolce incontro in cui davvero finisca di comunicarle ciò che ogni volta sembra che stia per darle quando l’incontra, che è beatificarla interamente e perfettamente. E così dice ¡Oh llama de amor viva!”».

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non comune, attribuita ad una qualità particolare di anime («tali anime»): l’espressione è sufficientemente generica e d’elezione, inquietante e chiara, nello stesso tempo: a chi si riferisce San Giovanni? D’altra parte, il sintagma trova una certa garanzia esegetica nel testo citato di Gv , 38, che, tuttavia, non impone nulla di specifico alle anime, oppure, una sola, secca determinante, la fede in cristo 2, credere in lui: Qui credit in me, sicut dicit Scriptura, flumina de ventre ejus fluent aquæ vivæ.

Per San Giovanni è la parola stessa di Cristo, dunque, la garanzia assoluta ottenuta e dimostrata in quel «già» («come disse il Figlio di Dio»); ancora, con la citazione di Cant 8,5 San Giovanni affaccia un’altra giustificazione e testimonianza certa di notevole consistenza: «Quæ est ista, quæ ascendit de deserto, deliciis affluens, innixa super dilectum suum». È la fermezza d’una convinzione che si basa sul fondamento forte e sicuro dell’amore («dilectum»), è percezione dell’acqua (simbolo travolgente ed evangelico della calda fede teresiana) 3, come flusso di vita e beatitudine («deliciis»), che eleva la Sposa ad una condizione rilevata ed esemplare, oltre il «deserto» del vuoto e della siccità e secchezza, o solitudine e desolazione terribile dell’anima e del corpo. Dio è, dunque, la parola immensa e totalizzante, unica artefice di qualunque operazione ed attività dell’anima («nihil sine me potestis facere») 4, è la parola su cui si sostiene tutto il periodo, ed è il momento di coordinamento ed unificazione di tutto il flusso sintattico-verbale esteso e stringente. «In Dio» è espressione di luogo nominale assoluto dello spazio dell’essenza e dell’energia divina («forza», «posseduta»). E la fede è la rivelazione più profonda 2 Sul rapporto simbolico-figurale tra l’acqua della fertilità e l’umana benedizione di fecondità, p. es., cfr. Is 44, 2-3: “Effundam enim aquas super sitientem, et fluenta super aridam: effundam spiritum meum super semen tuum, et benedictionem meam super stirpem tuam”: la certezza biblica s’appoggia sulla sacra fecondità come segno benedetto della stretta e amorosa unione fra il Signore e l’uomo nel momento vitale della sua più profonda necessità e ricchezza, per sé e la sua propria discendenza. 3 cfr. Moradas del castillo interior, 1,2,1,367 (Obras completas, B.A.C., Madrid 19796): “Este árbol de vida que está plantado en las mesmas aguas vivas de la vida, que es dios”. 4 cfr. Gv, 5, 5.

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e decisiva delle ragioni vere che significano la passione e l’entusiasmo di san Giovanni nelle prime frasi della Declaración, confermati dall’attivazione di tutti i paradigmi verbali possibili, che si qualificano attorno alla «divina unione». Ma è il Santo stesso, nella seconda parte del primo periodo — dove viene a darci, senza il minimo dubbio, il modello generale e compiuto della sua intera vicenda mistica — che ci indica i limiti di detta «unione». e son limiti segreti e oggettivi, minimi impercettibili della sua propria insoddisfazione e sintomi ardenti di una profonda tensione progressiva dell’anima e del cuore e della mente, animatamente percorsa nel tessuto febbrile della scrittura e attraversata dall’umido brivido della realtà palpitante dell’amor divino e d’impaziente fervore. nel periodo seguente, San Giovanni procede, poi, ad una più ampia e riconosciuta giustificazione. noi ci tratteniamo qui sui due soli assai lunghi periodi del primo paragrafo. e ripetiamo, ancora una volta, che il nostro proposito è di rimanere nei confini di un’analisi sintattico-semantica, dal punto di vista del significato. che non è il semplice contenuto del testo, ma la relazione fra la mente critica e la parola disposta e sistemata nelle coordinate della scrittura, secondo ch. Peirce 5. non vogliamo (né possiamo) sviluppare l’aspetto teologico-mistico — e nemmeno quello psicologico — della questione, ma sempre e solo quello verbale — paradigmatico — sintagmatico, come anche negli studî qui raccolti. in quest’occasione trattiamo lo spessore e la qualità e funzionalità dell’istituto verbale del «desiderio». i. Il modello generale orbene, se approfondiamo il nostro controllo, osserviamo subito che quel fatidico «già» («ya», ‘ormai’) non ha una propria rigida delimitazione spazio-temporale e non è né infinito né eterno. Si tratta, piuttosto, di esprimere un avvenimento che, senza dubbio, si è realizzato e non necessita obbligatoriamente di successive integrazioni (ma che pure può averle): «per ora», «per il momento», «oggi 5

04.

cfr. G. Proni, Introduzione a Peirce, Bompiani, Milano 1990, pp. 103-

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come oggi», «al punto in cui siamo», sono avverbî o locuzioni sfumate, che fissano, naturalmente, i risultati di un processo e la maturazione di un’azione, ma indicano anche fatti che possono implicare, tuttavia, ulteriori fasi, tappe nuove, diverse o ripetute. Non si può, dunque, escludere la prosecuzione non meno eccitante di un «cammino» e di un procedimento destinati a conoscere altre manifestazioni, una volta terminata tutta l’operazione provvisoriamente conclusa. successivamente, possiamo porre l’accento su una linea interna di gerundî, che valgono come causali (o temporali) implicite: «sentendomi», «abbondando», «sentendo», che possono rendersi esplicite e compiersi e ricevere un’attualizzazione razionalizzata di evidenza da parte del «pues» (‘posto che, poiché, dato che’ — «pues está transformada»- ‘dato che è trasformata’), che è la traccia morfematica della logica e della certezza reale — causaletemporale — di una situazione. E, inoltre, è la motivazione interiore di uno stato, lentamente e minutamente assaporato, di sensazioni, emozioni più pensiero, in un foltissimo e anche nervoso reticolo, che fa rabbrividire la persona mistica, e che si denuncia nelle più profonde pieghe della scrittura. Si deve, poi, prestare attenzione alla particolarità dei verbi usati: cioè, il verbo «sentir» (‘sentire, provare’), confermato da «paladar» (‘palato’) (— e, poi, «vientre» —), sostantivo pieno e totale, e non metonimia o sineddoche, che vale per se stesso, dunque, e che vuol dire quello che dice, di «superficie della parte superiore dell’interno della bocca» 6. E, subito, passa ad esser simbolo proprio, fisico, della sensibilità e del gusto. Vogliam dire che la sensazione è nettamente rivelata, ed è propriamente una percezione di sottile delicatezza fisiologica, che comprende l’anima e il corpo. Ed è una sensazione che s’applica al valore realesimbolico dell’acqua che scorre (‘fiumi di gloria’, ‘fiumi d’acqua viva’), che, nello stesso tempo, precisamente per l’incontro fra metafora e simbolo nell’avvicinamento fra parola narrata del Santo e parola citata delle Scritture, promuove un’importante congiunzione e disgiunzione fra due differenti livelli verbali. 6

s.v.

cfr. M. Moliner, Diccionario de uso del español, Gredos, Madrid 1966,

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Abbiamo qui una singolare sinestesia, fra verità e retorica (sentire fisicamente un simbolo), che fa ancor più tesa, se ce ne fosse bisogno, la scrittura sangiovannea e mette in evidenza il suo difficile valore analogico e l’alto patrimonio di significazione, che esalta e fa vibrare il linguaggio sperimentale del mistico. Questo accade pure per la presenza simultanea — e già capace di darci un sintomo di una situazione cangiante e incerta, da una situazione all’altra, di natura completamente diversa — cioè, dell’opposizione «infiammata / bagnato». Ancora, si tratta concretamente di un’opposizione e accordo di astratti-simbolici e concreti, tutti ugualmente reali: «bagnato di gloria e d’amore». Più avanti, nel periodo seguente, apparirà la ragione integrale e il sostegno di «infiammata», nella «delicata fiamma d’amore»; l’acqua appare in «fiumi di gloria» e «fiumi d’acqua viva»: cioè, in frasi ed espressioni consacrate nella scrittura, con tutto il loro carico simbolico, perduto il peso e l’estatica fissità della formula, precisamente, nell’urgenza dell’esperienza diretta, nella dimostrazione viva, immediata, che l’anima dà della sua attualizzazione. Quell’anima, che noi ben conosciamo. nonostante la sua distanza... Quell’anima che fa proprie le parole bibliche e le vive, nell’hic et nunc della sua piccola storia e identità personale. stiamo, dunque, entrando dentro un contesto linguistico molto inquieto, e di frontiera fra spirito e materia, fra esperienze sconvolgenti, anche secondo una misura iperbolica, il piano fisico e la sua accezione simbolica e mistica. In che, poi, sta la particolarità e la complessità della stessa esperienza mistica, che percorre e attraversa le più diverse e prismatiche vie dell’avventura umana, fra natura ed esistenza. e l’eterno. Per confermar meglio una situazione netta di fatti e, tuttavia, indefinita di modi e misure, nella catena di dati oggettivi e processi razionali e sensoriali — come verifica e coscienza di ciò che realmente sta accadendo o di cui si prende atto che è accaduto —; in una vicenda così profondamente fluttuante fra sensazione e certezza, uno stato crepuscolare e tremendo — agisce il verbo «parece» (‘sembra’- o «parécele» — ‘le sembra’ nella variante  cfr. O.C., p.775 (nota 1): la distinzione si riferisce ad una “lectura más personalizada en un contexto experiencial” e a un’altra più generica, sebbene sempre dentro un’anima perfettamente cosciente che si analizza e racconta.

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testuale) . Malgrado l’indicativo oggettivo, segno della sua stessa pregnanza e consistenza effettiva, «sembra» innesta nel testo una condizione di possibilità e variazione opinabile, fra convinzione e supposizione. E tutto ciò, certamente, senza toglier nulla alla certezza compiuta dei paradigmi estremi già esaminati. Si verifica nella scrittura come una specie d’intima precarietà di giudizio e di stato interiore, se non di dubbio, che sembra contrastare con l’oggettività delle parole disseminate nel contesto. Il folto periodo è tutto condotto verso la principale («Parece QUe»), dopo le causali-temporali implicite («sentendo già l’anima tutta infiammata» — «e già il suo palato tutto bagnato» — «abbondando di piaceri» — «sentendo scorrere») più un’oggettiva, e dopo le tre esplicite coordinate che la seguono («dato che [...] è trasformata» — «e posseduta» — «e [...] adornata») più una o due oggettive (se l’ultima proposizione non si legge come consecutiva) in elegante simmetria. le frasi, poi, che concludono il periodo, animano sufficientemente tutto il blocco sintattico, fortemente turbato e articolato di ipotassi. La parte finale del periodo, dunque, proclama concretamente uno stato tutto ugualmente oggettivo — con due proposizioni oggettive coordinate («che la beatitudine è tanto vicina, vicinissima, e [che] non la divide se non una sottile tela»); ma l’ultima frase (o son due, appunto) come abbiamo già detto, è d’incerta interpretazione: «che la beatitudine è così vicina al punto che non la divide se non una sottile tela» la seconda proposizione è un’altra oggettiva o è tutta una consecutiva? la virgola l’avranno sicuramente messa gli editori, ma essa favorisce ambedue i significati! San Giovanni dimostra e indica la riduzione fino a tal grado che è minimo ancora l’intervallo o ostacolo fra l’anima e la beatitudine celeste? oppure, si limita a dichiarare una realtà effettuale, pur sempre minima, ma che, malgrado ciò, è anche oggettiva? Forse, si tratta di una semplice nostra forzatura esegetica; ma ognuno, a parer nostro, non può non vedere la delicatezza della verità testuale; e, d’altra parte, la stessa parola mistica richiede più di qualunque altra una forte precisione ecdotica. le conseguenze ermeneutiche non sono di poco conto. ad ogni modo, ripetiamo, stiamo lavorando in una zona del testo assai perturbata: «está tan cerca» (‘è così vicina’) non ha confini spazio-temporali certi; «no la di-

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vide» (‘non la divide’), malgrado la litote, fa entrare nel testo la separazione, la divisione, la distanza. cosí che ci vediamo costretti a tornare ad esaminare «divina unione» nella sua area semantica reale, che non mette a repentaglio, per nulla affatto, «divina», ma che segna d’imperfezione o di provvisorietà o, comunque, di limite, «unione». E questa è l’origine e la ragione della progressiva tensione che percorre il testo. «Unione» sarà, dunque, nel senso di direzione obbligata, di esperienza che tende alla sua propria continuazione, in una parola, che si compia il «cammino» dell’anima a dio. E, allora, si spiegano benissimo «infiammata» e «bagnato» come espressioni di contatto, di prossimità e di tangente, stretta partecipazione, ma non risoluzione totale. Né pienezza o identificazione o assimilazione definitiva con il «fuoco» e l’«acqua» come elementi essenziali, puri e riconosciuti nella loro condizione integrale e primaria. «trasformata» vuol dire, naturalmente, con cambiamento di forma, ma rispetto a se stessa; «in Dio», ma senza coincidenza finale. «Posseduta» sarà sempre pertinenza di sfera divina, ma non accordo di piena composizione. ancora, «adornata» avrà, propriamente, il senso di un immenso arricchimento, come di un superlativo di condensazione («ricche ricchezze»), che abbellisce e adorna di qualcosa, che fa approfittare di qualcosa, ma senza godimento autentico di possessione piena e perfetta. «Unione», pertanto, dato che la parola è stata detta; ma come si spiega la persistenza della traccia dell’anelito, propria di chi ha avuto una prova importante, ha avuto come un campione, un saggio di qualcosa che non esaurisce le attese? In qualunque contesto una parola espressa è assoluta e non si può ritirarla; solo spiegare, localizzare meglio, motivare, giustificare, attenuare persino e modificarne la polivalenza. E la parola mistica, come si sa, malgrado la sua infinita distanza dal referente, risulta di una assai diversa plurivalenza rispetto alla parola comune, scontato il tasso analogico; soprattutto, in un testo sottoposto ad un processo dottrinale, didattico, sperimentale nel più pieno significato della parola... e, come no? letterario. Qui, inoltre, la parola conserva tutta la sua ineffabilità e mistero, per le operazioni infinitesimali che accadono nell’area incerta e sublime fra l’uomo e dio, molto al di là della parola stessa. E, allora, infatti, essa si fa Parola! E, per la verità, tutta l’opera sangiovannea può

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esser situata in una propria, sfuggente e, ciò nonostante, precisa verità semantica, per la complessità di una parola che freme e ribolle in uno stato nascente d’energia non solamente linguistica, di vitalità altissima e continua, mobilissima d’espressione e sovrapposta di commutazioni perenni, cambiamenti di infiniti sinonimi e sostituti, che non si spiegano né spiegano, che si accumulano, senza giunger mai ad una nozione unica e stabile verbum-res. e, tuttavia, forse solo qui il segno viene ad avere la sua vera motivazione, sulla garanzia dell’Unico che può davvero sostanziarne verità di significato e pienezza assoluta. Si aggiunga, inoltre, la poverissima e relativa identità e probabilità di definizione della pars hominis, ridotta al minimo (ogni azione mistica è di fatto fondata sulla passività — attiva sui generis — dell’anima); essendo illimitata la pars Domini. nella qual cosa consiste l’impossibile linguistico della parola mistica. «Unione», dunque, ma in che senso e misura?... Un’altra espressione compromessa è «sottile tela». Più avanti, San Giovanni parla di «sottile tela» della «vita mortale». «Sottile» («breve»), sebbene di minimo peso, rivela il significato di «tan cerca»; «tela» rende più chiaro e comprensibile il grado di consistenza, il poco valore sostanziale proprio, analogico ed emblematico dell’umano rispetto all’incommensurabile divino. Ma se è vero che la «vita mortale» non sembra consentire una così grave diminuzione del peso umano nel tempo — nonostante, e, anzi, proprio per la sua relazione con il divino — (perlomeno, per i poveri lettori comuni) non è meno certo che «sottile tela» indica esattamente il punto di vista da cui parla san Giovanni della Croce. Come vedremo più avanti. Ancor più difficile, allora, misurare l’intervallo, che indubbiamente esiste ed è denunciato fra il «già» iniziale e il «tanto vicino» («tan cerca»). Come di qualcosa che è accaduto e non accaduto; oppure, che è accaduto nella sua entità totale e, al tempo stesso, parziale. Ma il testo prosegue il suo cammino: la causalità della sensazione («siccome vede») e la conseguente induzione dell’anima («le sembra»), che, ancora una volta, si trova in un contesto molto folto di dati, certamente propizio al suo venir meno nel vedersi così ansiosamente tormentata in un vero e proprio vortice di operazioni di potenza eccezionale, che la trascinano dalla realtà ai simboli, dalle metafore

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a certe esperienze di vita assai sconvolgenti: «infiamma», «bagnato», «trasformata», «posseduta», «abbellita», «beatitudine», «Dio», «doni e virtù», «unione», «gloria e amore», «gloria». Un universo lessicale di grande elevatezza e animato da molteplici presenze assolute. Cosí come è certa l’attuazione della «fiamma delicata d’amore». E, nonostante tutto, in questo lessico compatto compaiono incrinature e crepe, sintomi difficili da interpretare, ma indubitabili: p.es., «sottile tela» è di livello molto diverso e sfugge agli altri paradigmi; ugualmente, su altro versante, per una ragione, i «fiumi di gloria», i «fiumi d’acqua viva» e, per altre, «vientre». si tratta di un contesto linguisticamente variato e teso, dunque, e paradossale e disseminato per campi perturbati e incompatibili. Ma sarà da qui, precisamente, che coglieremo in atto il punto di vista dal quale agisce San Giovanni, da dove potremo verificare da quale momento mistico-temporale del suo «cammino» scaturisce la sua parola. E il «già» dell’inizio, che era apparso come del tutto maturato e assoluto — per questo, i paradigmi si costellavano attorno ad un quasi o come se — rivela dentro di sé uno iato incredibile, la cui quantità è difficile da valutare, uno iato di tempo e di misura: sarà lo iato del canto e della parola e della spirale del «desiderio». Un altro modulo possibile d’imperfezione sembra diminuire e attenuare la gravità del «già». Dice San Giovanni che nell’anima «arde» (e non vien meno, non si smarrisce, non cambia, è senza tempo) la «fiamma delicata d’amore», e che la «sta come glorificando (corsivo nostro) »: un avvenimento in transito, dunque, per la lenta durata del gerundio, ma sicuro, pur se insidiato da provvisorietà ed approssimazione («come», ‘in un certo senso’, ‘per così dire’), legato, inoltre, ad una periodicità di iterazioni. Il «tanto[...]che» indica, certamente, che c’è nel testo un getto di azione parabolica, nella consecutiva degli effetti reali dell’incontro divino; ma sempre dentro un indefinito hasta el punto que (‘fino al punto che’) e quale punto? Precisamente, la ripetizione dell’episodio mistico — sebbene in un tempo senza tempo («ogni volta», «ogni volta») — conferma che qualcosa sta accadendo, di molto profondo e di grande intensità d’azione, che non cessa nel tempo: si notino i verbi energici e persino violenti: «está embistiendo» (‘sta avventandosi’), «absorbe» (‘assorbe’), «embiste» (‘si avventa’), «romper» (‘rompere’). Si veda

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l’urgente disposizione scalare, ansiosa e senza interruzione, delle proposizioni subordinate e coordinate. «le parece» (‘le sembra’), principale; poi, «que le va a dar» (‘che sta per darle’, ‘che le darà’), «y que va a romper» (‘che sta per rompere’, ‘che romperà’), «que falta muy poco» (‘che manca molto poco’, «y[...] no acaba» (‘e non finisce’, ‘e non ha termine’). Il polisindeto è un’altra prova ancora che son molte le cose che sembrano; e che son molte le azioni oggettive che l’anima riceve. Una vera spirale, che l’anima registra e non commenta, alla cui suspence partecipa, con emozione e affanno senza riposo, per le ondate successive dell’eros mistico. «Quella delicata fiamma d’amore» è il soggetto unico e fortemente attivo e, insieme, di sottile qualità impalpabile e massiccia quantità d’energia e impulsi; come, poi, «soave e forte gloria (‘beatitudine’)», di valenze intimamente opposte e simultanee. il contesto di forze in gioco è altissimo ed eccitante. Si noti la linea assiale del testo nelle parole-chiave: «glorificando con [...] gloria» (‘beatificando con [...] beatitudine»), «vita eterna», cioè, l’OLTRE della «beatitudine». Ma la distanza per l’anima è immensa (in senso etimologico); e l’anima lo sa («como glorificando», con forte tensione analogica: ‘per così dire’, ‘in un certo senso’, ‘come se’; «le parece» — ‘le sembra’), malgrado la sua sensazione d’imminenza perifrastica, che accresce ed esalta l’ardore dell’attesa: «le va a dar» (‘le darà’, ‘le sta per dare’); «va a romper» (‘romperà’, ‘sta per rompere’); e di chiara e indubitabile imperfezione («falta»- ‘manca’; «no acaba» — ‘non ha termine’, ‘non finisce’), in un presente senza tempo. «Muy poco» (‘molto poco’) e «esto poco» (‘questo poco’) soffrono d’una vaghezza inquieta e senza limiti; «por» (‘per’, «por esto poco» — ‘per questo poco’) è un’altra traccia morfematica della razionalità e causalità e della coscienza certa dell’ostacolo. Resta sempre intatta la linea assiale già notata e che andiamo a completare nella sua insistita urgenza: «glorificando [...] gloria» — «glorificada» e, poi, «glorificarla»: tutto un processo dichiarato, riconosciuto nella sua prodigiosa, inebriante, dinamica, che, comunque, è rimasta incompiuta, e dolente. Ogni volta più piena di aneliti... Sarà, «essenzialmente», la meta, ancora delusa, della verità totale; sarà questa meta che si pone come molla piena d’ardore che stringe da presso l’anima sul fondo del «desiderio». Fino

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ad ora non rivelato, ma che si coglie in tutta la sua accumulazione ed animazione. «Essenzialmente» è il segno della sicurezza ontologica dell’«unione» e della trasformazione piena in Dio. Ed è una conclusione annunciata («la está embistiendo» -’le si sta avventando ’, «la embiste» — ‘le s’avventa’, «la absorbe» — ‘l’assorbe’, «le va a dar» — ‘le sta per dare’, «va a romper», ‘sta per rompere’, «está glorificada» — ‘è glorificata’) in tutto l’attivismo della fiamma, libera ed assoluta. Da una parte, dunque, il fervore di prove ed operazioni; dall’altro, il sentir (‘sentire, provare’), «ver» (‘vedere’), «parece» (‘sembra’), che turbano il «desiderio» e lo rendono urgente e necessario, dentro una specie di logica («sintiendo, etc. [...] »; «como ve [...] parece» — ‘sentendo, ecc. [...] sembra’; ‘come vede[...] sembra’) affatto tranquilla e sofferta e di una estrema delicatezza, ma che, al tempo stesso, sente e ragiona, dimostra e deduce... restando ansiosa l’attesa e sempre più calda la speranza («cada vez» -’ogni volta’, ‘ogni volta’). Un’altra contraddizione: l’«unione» accade ogni volta e nel tempo; e questo rimanere dell’anima nel tempo è umile e onesto, infiammato, ma limitato sentire, che provoca la calda ed emozionata spirale del «desiderio». Allora, è lo stesso Santo che ci prepara a cogliere — e ci offre tutte le prove — il suo spasimo lirico-mistico, nel suo portare a maturazione i movimenti occulti ed arcani della parola poetica nel suo stesso farsi. e la prosa della Declaración organizza e dispone questo incredibile contesto, che non può diventare razionale, ma è vissuto e sofferto e partecipato sempre di più, dentro il calore, sempre più alto, della passione del verso-grido. Qui, si percepisce il condensarsi, il modularsi, il trovar forma dell’emozione, il pathos dell’accumulazione di tensione che, non solo giustifica a posteriori l’impeto della scrittura poetica; non solo ne è il commento e la spiegazione, ma riproduce il movimento interiore che la provoca, essendo rivissuta l’esperienza mistica nella sua storia-istante. È un incontro irrevocabile e relazione più misteriosa che mai fra esperienza e scrittura. da qui deriva il fondamento del particolare impulso didattico dei mistici. orbene, il «dice» (e, poi, «e così dice») è il momento del canto intrecciato e compartecipato della prosa didattica. E, infine, esce per la prima volta la nostra parola -chiave: il «grande desiderio».

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Comprendiamo subito che «grande» ha l’intensità stringente dell’attesa anelante di chi sente e intende, sente e induce, ma «manca», per l’insoddisfatta misura del «come» di «glorificando». Il «grande desiderio» dà origine anche al canto, come punto d’intersezione fra il «già» iniziale e il «manca pochissimo», da dove prende il suo impulso iniziale la spirale dell’esaltazione e l’impeto bruciante dell’«incontro» («ogni volta», «ogni volta»): cioè, dell’incremento interiore, che si autopromuove e condiziona senza tregua. E appare qui un altro «già», come anticipo, avanzamento del tempo dell’esperienza, consumata nella sua traiettoria completa, come vetta del «grande desiderio» e suo compimento. Il «grande desiderio» è appello ardente, instanza d’intervento sollecitato e segno del protendersi anelante d’imperfezione, del travaglio inquieto d’instabilità, un complesso movimento interiore che vuole la propria meta. Per l’anima, ora, tutto è chiaro: «Spirito Santo» è ciò che prima era occulto nella metafora-simbolo della «fiamma delicata d’amore». e qui dobbiamo trattenerci un istante, per ricordare che nel testo — queste primissime righe — appare già tutta la Santissima Trinità: Dio, il Figlio di Dio (con la Sua Parola) e, adesso, lo Spirito Santo. Questo significa che qualunque esperienza ed operazione che si svolge nell’anima accade sotto il segno e l’usbergo attivo, precisamente, del supremo mistero della Trinità (un’altra prova della gravità dell’esperienza stessa...). La preghiera del «grande desiderio» è incitazione d’impeto aperto e decisivo: «rompa». ancora, la «sottile tela» riceve i caratteri distintivi espliciti della «vita mortale»; «davvero» è l’ultima manifestazione di una risoluzione certa e senza ambagi verso la liberazione delle attese. Infine, «dolce incontro» è un ossimoro del vento igneo, forte e soave nel suo ritorno finale senza ambiguità e senza rinvio («davvero» si oppone e chiarisce il «sembra»). Si deve superare il senza-tempo del «quando» («quando lo incontra», del tutto generico). E, per sostenere tutto questo complesso di manifestazioni e identificazioni assolute, dobbiamo considerare, al centro del sistema-periodo, la parola «desiderio», di rottura («rompa») e di piena comunicazione («finisca di comunicarle»). I «che è» son le identificazioni che centrano l’esplicita invocazione del «desiderio» della verità e realizzazione («non finisce [...]», «finisca»): «che

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è lo Spirito Santo», «che è glorificarla». E questo «glorificarla» è, dunque, l’infinito sostantivato senza tempo come conferma della pienezza desiderata. il «grande desiderio» è il felice superamento inesausto della «sottile tela». E quest’ultimo sintagma, già prima, dal principio, ci aveva fatto capire che san Giovanni parlava secondo l’impulso del «desiderio», in cui si trovava; e dove, per lui, la «vita mortale» costituiva «già» qualcosa di povero e di ridotto, diminuito, una «sottile tela», appunto, di scarso valore e peso. Il «grande desiderio» era il prodotto stesso del «già» conseguito e sperimentato dall’interno, dentro un programma ispirato e profondamente anelato da un’anima, allora sí, davvero, «posseduta» e «trasformata» in dio. «Grande desiderio» è assunzione e conformità dell’anima con la «forza» di «gloria e amore» e segno evidente di come l’anima sangiovannea fosse assolutamente penetrata di eros divino: fino al punto di superare nel canto l’ostacolo iniziale e residuale; fino al punto di annullare il peso umano riducendolo a «tela sottile». ed ecco, allora, come il primo verso della canzone contiene in sintesi reale ed abbagliante tutto il complicato processo, lentamente decifrato nella prosa: ¡Oh llama de amor viva! è un’esplosione non più trattenuta del «grande desiderio», liberazione dell’anima inebriata, unificata («già») al di là delle frante e giustificate, enumerate ragioni verbali-sintattiche che la prosa portava sminuzzate dentro di sé. e qui si conclude la nostra spirale di lettura. Fra la parola e il referente resta aperto il nostro tentativo di penetrare la reale condizione semantica del mistero mistico: ci sia di sollievo e di speranza l’aver potuto vedere agire, con la mente e il cuore, tutti i termini appassionati e radicali della tensione sangiovannea nella sua vibrante e ardente certezza. in questa certezza si esplica il potere meraviglioso di quel primo contatto con dio, fonte e conclusione naturale di quell’incredibile spirale, una spirale naturale — a cui la parola umana (e la sua struttura sintattica) presta, solo, tutto il suo povero e possibile slancio analogico — la spirale



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pEr un’analisi sEmantica dElla «voluntad» nElla NOCHE OSCURA di san giovanni dElla crocE

. Intenti del nostro lavoro il «camino estrecho», l’«ejercicio espiritual» della «noche oscura», raccontato dall’«alma» («cuenta», ‘racconta’, p. 439), avviene nel senso della «contemplación purgativa», o modo di «causar pasivamente» la «negación», la «verdadera mortificación» di se stessa e delle cose. il processo, che spiega sinteticamente queste formule, è, teoricamente, ben noto, anche se, per la sua necessaria complessità e ineffabilità, non è, naturalmente, svelato e quantificabile se non in senso analogico o direttamente sperimentale. La bibliografia è in proposito sterminata; né a noi interessa, qui, per ragioni di pertinenza, approfondire alcun aspetto psicologico o teologico. Piuttosto, il nostro punto di vista — come ripetuto in ogni occasione — è soprattutto di carattere semantico in funzione del significato e mira, precisamente, a scrutare più da vicino lo spessore e associazione di certi significanti e l’incidenza di energia in senso lessicale come morfologico-sintattico, isolato il campo semantico della «voluntas». Voglio riferirmi ad alcuni paradigmi lessematici — successivamente, da confrontare in ambito più vasto e di integrazione dei «movimientos» dell’anima, sia in senso attivo dell’«alma» come soggetto, che in senso passivo: amor, afición, deseo, ansia, movimiento, movidos, gana, desgana, repugnancia, inclinación, asimiento, arrimo, desarrimo, apetito, afecto, disgusto, concupiscencia, codicia, sed, huir, buscar, procurar, atraídos, engolosinados, dispuestos, disposición, tentación, solicitud, influencia,  ‘Amore, affezione, desiderio, ansia, movimento, mossi, voglia, malavoglia. ripugnanza, inclinazione, attaccamento, adesione, distacco, appetito, affetto, disgusto, concupiscenza, brama, sete, fuggire, cercare, procurare, attratti, ingolositi, disposti, disposizione, tentazione, sollecitudine, influenza, distrarre’,

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distraer, ecc. tutte le occorrenze, ovviamente, vanno viste caso per caso, da sole o in dittologie e geminazioni (con calor, fervor, pasión, devoción, ecc.), per reciproca chiarificazione e integrazione, variata gradazione nel transito interno di significato. Qui, in modo sperimentale il nostro sondaggio è limitato ai primi capitoli della Noche oscura (I Parte), e con esso tentiamo di iniziare un discorso sulle varie manifestazioni della «voluntad», flessione del verbo ‘’querer (‘volere’), paradigma proprio della voluntas esibita in tutti i suoi aspetti e ancora considerata insieme con le altre potencias (in senso aristotelico); e anche di altri modi. s’intende che sono da considerare i termini di tutto il campo semantico, visto dalla parte dell’uomo come dalla parte di dio, rispettivamente. Ancora, va aggiunto che fine di questo studio e quello di esaminare e definire lo spettro completo delle varie occorrenze del campo semantico in oggetto, rispettando, prima di tutto, lo schema progressivo e l’ordine dei testi sangiovannei, essendo narrato il «cammino», in un certo senso, e già maturato, cioè «che l’anima le dice [le Canzoni] stando già nella perfezione, che è l’unione d’amore con dio», o cammino ripercorso a posteriori, secondo il modello esposto nella «declaración» iniziale (pp. 439-440) 2. ivi, l’«anima» parla «piena di gaudio per esser passata per questo angusto cammino da cui tanto bene le derivò» 3. non si tratta, infatti, di una trascrizione o diario in itinere, di un percorso rivelato nel suo farsi sperimentale, ma di una storicizzazione sui generis e presentazione nello spirito didattico proprio dei mistici, da parte di chi ha superato tutte le fasi e le ripercorre, ma in modo sommario, anche sintetizzando o, comunque, valutando e riferendo solo ciò che ritiene più utile ed essenziale. C’è anche una sorta di pudore del Santo, che spiega bene la misura e la discrezione, il non andare oltre certo limite, come quando dice: «e, sebbene ci tratteniamo un poco, non sarà più di quello che basta per trattar poi di questa notte oscura» (I, p. 440) 4. inoltre, non solo ci preme di ecc. 2

Per il testo cfr. nota , p. 5. «gozosa de haber pasado por este angosto camino de donde tanto bien se le siguió». 4 «Y, aunque nos detengamos un poco, no será más de lo que basta para 3

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vedere esattamente i punti necessari del «cammino»- testo in cui opera il paradigma della voluntas, occasioni, limiti, accezioni, oggetto e gradazioni, ecc. nei propri rispettivi contesti; ma proprio il diagramma delle successive presenze verbali che qualifica tali presenze stesse, nell’ambito delle tappe del processo, e ne definisce, quod est in votis, la funzione e la qualità, e quantità. Proprio il modello-base già realizzato — capace di delineare subito il valore generale della passività particolare dell’anima nell’economia attiva della voluntas divina — ci offrirà i reali rapporti strutturali che organizzeranno il testo- «cammino» globale: lo esponiamo brevemente, esaminando la rispettiva «declaración» (pp. 439-440), che accompagna la «primera canción» (cioè, i vv. 1-5 della Noche oscura) 5. 2. Il nucleo del «cammino» Il «cammino» comporta la definizione di un piano generale dell’anima che racconta il «modo e la maniera che usò nell’uscire [...] da sé e da tutte le cose» 6. È l’inizio del percorso, secondo il vettore unico e compatto della «afición» (‘affezione’, ‘amore’), che è prima slancio e passività, moto centrifugo e di immediata sequela e collegamento stretto senza soluzione di continuità («según», cioè, ‘secondo, seguente, subito dopo’), colmato qualunque intervallo o iato, con l’Amore. Il distacco, da sé e dalle cose, è vera e propria uscita («salir», ‘uscire’) dalla «casa de su sensualidad», spunto attivo quindi, e direzione verso tratar luego de esta noche oscura». 5 cfr. Obra, p. 437: «En una noche oscura, / con ansias, en amores inflamada, / ¡oh dichosa ventura!, / salí sin ser notada / estando ya mi casa sosegada» (‘In una notte oscura, / con ansia, e immenso amore già infiammata, / o felice ventura!, / uscii non osservata / essendo la mia casa già acquietata’»; citiamo anche l’intera prima Declaración: «1. Cuenta el alma en esta primera canción el modo y manera que tuvo en salir, según la afición, de sí y de todas las cosas, muriendo por verdadera mortificación a todas ellas y a sí misma, para venir a vivir vida de amor dulce y sabrosa con dios. Y dice que este salir de sí y de todas las cosas fue una noche oscura, que aquí entiende por la contemplación purgativa, como después se dirá, la cual pasivamente causa en el alma la dicha negación de sí misma y de todas las cosas. // 2. Y esta salida dice ella aquí que pudo hacer con la fuerza y calor que para ello le dio el amor de su esposo en la dicha contemplación oscura. En lo cual encarece la buena dicha que tuvo en caminar a Dios por esta noche con tan próspero suceso que ninguno de los tres enemigos, que son: mundo, demonio y carne, que son los que siempre contrarían este camino, se lo pudiese impedir; por cuanto la dicha noche de contemplación purificativa hizo adormecer y amortiguar en la casa de su sensualidad todas las pasiones y apetitos según sus apetitos y movimientos contrarios». 6 «modo y manera que tuvo en salir [...] de sí y de todas las cosas».

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—, che si accompagna simultaneamente alla perdita di ogni energia, al dissolvimento di qualunque altra tensione o tendenza («muriendo», ‘morendo’). Ed è, insieme, identità totale di sé e della propria presenza; la morte di sé a se stesso e alle cose, allora, è, da un lato, lo scatto al seguito di qualcosa, che implicherà riconoscimento e risposta amorosa, atto comprensivo di volontà e desiderio in vista di una precisa finalità. Da un lato, moto assolutamente responsabile e pieno, vitale globale e certo; e, dall’altro, venir meno a questo se stesso per andar dietro, al seguito di un complesso sentimento come la «afición», esclusiva e totale ragione che allontana da sé, appunto, e dalle cose. Comunque, due moti di uguale intensità, uno attivo e responsabile e l’altro ugualmente responsabile (e, quindi, attivo), ma che comporta passività o, almeno, rinuncia. In realtà, già subito questo nodo di azioni e controazioni richiede all’istante due forti condizioni: l’adesione a un criterio di verità («verdadera», ‘vera’), la commisurazione a valori altri e radicali che, per ora, non sappiamo da chi e da che cosa provengano, ma che non possono non pretendere assoluta certezza e oggettività controllabile. Poi, un’azione positiva di negazione, atto che, nel momento della propria assoluta annichilazione, e morte — quindi, distruttivo di se stesso e di ogni altra potenzialità o residuo — è energia che dà fine a se stessa e che da se stessa si ritira: si muore, perché è necessario l’assenso e ritiro di ogni propria direzionalità ulteriore. È la decisione di sottrarsi ad ulteriori decisioni... e che sia, l’atto, attivo e passivo, lo prova la direzionalità altra e, comunque, proclamata in tutta la sua densità accumulativa e ribadita dallo scopo («para», ‘per’, ‘al fine di’) e dal moto che lo manifesta («venire»). Per finire su un accusativo dell’oggetto interno: «vivir vida», apparentemente improgressivo, ma, invece, rafforzamento superlativo di un fine totalizzante e definitivo, che racchiude tutta una catena di valori decisivi e protratti che si comprendono a vicenda: «vivir vida de amor dulce y sabrosa de Dios» (‘viver vita d’amor dolce e piacevole di Dio’). Di fatto, si spiega qui che la «afición» iniziale e generica arriva a se stessa senza ritorno e senza esitazione; essendo la «vita» «amore», cioè, «vida dulce y sabrosa» per Dio, in dio, e soprattutto, «con dio», l’unione d’amore. codesto «salir» (‘uscire’) sarà «noche oscura», cioè, «contemplazione purgativa» e «negazione», a carico dell’«anima», ma

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da intendersi aiutata da dio, come da lui promossa e verso di Lui diretta, dirà più avanti. La «salida» (‘uscita’) è effettiva ed è avvenuta per azione potuta dell’«anima» («pudo hacer», ‘poté fare’): e, anche qui, la lingua rivela direttamente la sua povertà e ripetitività pratica insieme improgressiva e sinonimica, seppure sintomatica della centralità unica e monoassiale del divino, in cui e con cui l’anima opera e si muove da un punto di partenza e contemporaneamente di arrivo (l’alfa e l’omega si identificano). Infatti, il poder hacer (‘poter fare’), l’effettuazione della propria negazione e spoliazione verso dio l’anima la puede hacer. l’attua, poi, per ‘energia’ («fuerza») e sua qualità e manifestazione («calor») finalizzate a se stesse («para ello», ‘per quello’) e fondate sulla donazione o attribuzione («dio», ‘diede’) dell’«amor de su Esposo». Anche questo sintagma è ripetitivo: tale energia e calore sono amore; e amore è ciò che dà amore; e Dio è amore che dà amore, ecc. fino alla conclusione del circolo. spiegabile, a questo punto, l’esaltazione — anche misurata nella semplicità ed esiguità della canzone di strettissima consistenza verbale — dell’anima, pienamente inserita in un moto d’amore («camino a Dios», ‘cammino a Dio’), che parte e termina nell’amore, sostenuta e sollecitata dall’amore, senza uscita o distrazione: è la «buena dicha» (‘buona ventura’), che l’anima «encarece» (‘esalta’, ‘caldeggia’) e che San Giovanni non spiega se non come «próspero suceso» (‘felice, prospero accadimento’). Né l’accadimento propizio e vantaggioso né la sorte rivelano il perché, il come, il «modo y manera» reali e di partenza. «Dicha» è la «dichosa ventura» del v. 3, che anche la canzone accresce di enaltecimiento (‘esaltazione’) con il punto esclamativo; per cui, l’anima esprime il proprio entusiasmo per qualche cosa, indubbiamente, ma, nell’esprimere una particolare situazione, non ne motiva le ragioni, le dà solo come avvenute. Basta, a nostro avviso, l’aver detto sì, fin dall’inizio, l’aver seguito il vettore unico dell’«afición», essersi affidata l’anima all’Amore, essersi legata a Dio. Niente altro. Ma, allora, se è solo felicità, «ventura» è compiacimento per qualcosa che accade, e pure accade per la natura stessa della forza che dà se stessa, perché è forza che dà forza, Amore che non può che dare Amore. Non si esce dal mistero con la povertà e inadeguatezza del linguaggio, laddove il referente parla con piena aderenza anche concettuale.

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in ogni modo, l’accentuazione sulla «buena dicha» come sulla «dichosa ventura» trova senso nel sintagma immediatamente seguente («próspero suceso»), che insiste sull’«avvenimento», come segno della gioia per qualcosa che indubbiamente è accaduto. D’altra parte, c’è un contrasto di «poderes» (‘poteri’): il «pudo hacer» dell’«alma», con l’assistenza della «fuerza y calor», e il «ninguno [...] se lo pudiese» (‘nessuno glielo potesse’) degli «enemigos» (il congiuntivo imperfetto implica, naturalmente, il tentativo effettuato, l’essersi provati a — non solo il fatto preventivo dell’impossibilità di «impedir»). Inoltre, San Giovanni rivela che l’operazione di assopimento («adormecer») e di mitigazione o spegnimento («amortiguar») delle «pasiones y apetitos» è a carico del soggetto ancora più misterioso e, per ora, non spiegato, della «noche oscura» («hizo», ‘fece’). Altrettanto generica e simbolica (e reale) l’affermazione — apparentemente semplice nella sua chiarezza enunciativa — circa il modo dell’«adormecer» (‘addormentare’), cioè, nella semplice contrapposizione e immediato seguito («según») o criterio di guida e ispirazione degli «apetitos y movimientos contrarios». Ma si tratta, qui, di un modello generale di tutta l’opera sangiovannea; per noi certamente utile, perché ci propone, già nel fondo, dei soggetti altri, tutti riassumibili nell’«amor de su esposo», essendo Dios il soggetto unico reale e definitivo in senso positivo: los va sacando, los comienza a poner, la pone dios, los pone dios, la va dios criando, da dios, pone dios, dios les da, hasta que dios la ponga, merezca que dios ponga [qui appare un indizio che chiarisce anche la pars hominis], si Dios no le toma la mano, según Dios, se lo dé dios, no querría dios, lo que dios mira y acepta, deben a la grandeza de dios, quita dios muchas veces, les niega Dios, Dios los ponga, bienes que Dios está asentando e imprimiendo en ella, va Dios dando, infusión de Dios, pone dios las mercedes [que dios] hace al alma, dios la ejercita, anda dios con ella, dios de suyo anda apacentando y reficionando al alma ;  ‘li va tirando fuori, li comincia a mettere, Dio la mette, Dio li mette, Dio la va allevando, Dio dà, Dio mette, Dio dà loro, finché Dio la metta, merita che dio metta [qui appare un indizio che chiarisce anche la pars hominis ], se dio non le prende la mano, secondo dio. dio glielo dia, dio non vorrebbe, quello che dio guarda e accetta, devono alla grandezza di dio, dio toglie molte volte, dio nega loro, dio li metta, beni che dio sta collocando e imprimendo in essa, dio va dando, infusione di dio, dio mette, le grazie [che] dio fa all’anima, dio l’esercita, Dio va con essa, Dio per suo conto va pacificando e riassestando l’anima’.



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dall’altra parte, il soggetto nemico: acrecienta el demonio [...] porque sabe muy bien, a algunos se les da el ángel de Satanás, y tanto empuja el demonio, la segunda causa [...] es el demonio, les ayuda el demonio...8:

ma è Dio, ancora e soprattutto, a farsi centro unico del sistema: hasta que dios lo hace pasivamente, sea dios servido darme, oscuréceles Dios, sintiéndolos ya Dios, como pone dios, comienza dios a llevar, pone dios al alma, ya Dios es el que obra en el ánima, hace Dios, habla dios en el alma para hacerla, comienza dios a comunicarse, les mete Dios, lleva Dios a contemplación, que los ha dejado dios, porque los lleva ya dios por otro camino, dios que no deja, dios los ponga, si merecieron que dios los ponga 9...

le intensissime frequenze dell’azione e manifestazione divina, diretta — e sarebbero pure da mettere in evidenza quelle indirette (las cosas de Dios, los bienes de Dios, conocimiento de Dios...), cioè, che implicano la direzione divina o la Sua centralità — indicano che tutto il discorso sangiovanneo è in grado di motivare su quella centralità, appunto, tutto il «cammino»; ma sono pure infinite e assolutamente complesse e sfumate le scelte e le operazioni umane. delle quali, per ora, ci interessa il tema della voluntad, sia pure orientata in quella tale direzione («según Dios», ‘secondo Dio’) e sequela senza intervallo. 3. La fenomenologia della «voluntas» in , 2, 440 0 compare la prima testimonianza sulla voluntas. si sta parlando dei «principiantes», cioè, di 8 ‘il demonio accresce [...] perché sa molto bene, ad alcuni glieli dà l’angelo di Satana, e tanto preme il demonio, la seconda causa [...] è il demonio, li aiuta il demonio’. 9 ‘fino a che Dio lo fa passivamente, si degni Dio di darmi, si oscura loro Dio, sentendoli già Dio, come Dio mette, Dio comincia a condurre, Dio mette l’anima, già Dio è colui che opera nell’anima, Dio fa, Dio parla nell’anima per renderla, dio comincia a comunicarsi, dio li mette, dio conduce alla contemplazione, che Dio ha lasciato, perché Dio li conduce per altro cammino, Dio che non lascia, dio li metta, se hanno meritato che dio li metta’. 0 «en esta noche oscura comienzan a entrar las almas cuando dio las va sacando del estado de princiantes, que es de los que meditan en el camino espiritual, y los comienza a poner en el de los aprovechantes, que es ya el de los contemplativos, para que pasando por aquí lleguen al estado de los perfectos, que es el de la divina unión del alma con Dios».

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quelli che «meditan en el camino espiritual» (‘meditano nel cammino spirituale’). Ed è uno stato di «flaqueza» (‘debolezza’), da cui la scrittura sangiovannea li vuole far uscire, con un atto di riflessione e di coraggio, dal quale scaturisce il «deseo» (‘desiderio’) che Dio li collochi nella «noche». È uno stato d’incertezza e d’imperfezione, di carenza nell’operare, di limite, pur negli esercizî «de fuerte lucha en las virtudes» (‘di forte lotta nelle virtù’, 441); limite legato alla sproporzione tra 1’ «hábito de perfección» che ha l’anima e le sue necessità o i traguardi. Entusiasmi e «deleites» (‘diletti’), «gustos» (‘piaceri’) e «consuelos» (‘consolazioni’) ricevono la stessa misura ridotta rispetto al possibile dell’esperienza divina, ben lungi dall’inizio del «cammino» vero, ecc. eppure, questa condizione assai esigua e insieme grande («grandes ratos», ‘grandi momenti’; «noches enteras», «grande eficacia») rispetto a chi è ignaro del «camino espiritual» o lo respinge, ecc. comporta già un atto di volizione enorme. E così si misurano, fin dall’inizio, le modulazioni opportune e i valori che sono richiesti o che devono servire da punti di riferimento, anche per intendere secondo quali parametri spirituali opera san Giovanni e sui quali invita a condursi. E l’affermazione è efficacemente illustrata da uno speciale processo che prende immediatamente avvio nell’anima, la quale ha compiuto il primo passo di incommensurabile portata storico-spirituale, per così dire: Bisogna, dunque, sapere che l’anima, dopo che determinatamente si converte a servir dio, ordinariamente dio la va allevando in spirito e coccolando come l’amorosa madre[...] (1, 2, 440) .

Diciamo che questo è l’inizio formale di tutto il «camino»; ma un inizio senza tempo («después que», ‘dopo che’), così come acquistano quantità indefinita e durata i due gerundi dell’espressione perifrastica («la va[...] criando [...] y regalando»). Tanto maggior rilievo assume la formula che enuncia il primo monito («es, pues, de saber») sul quale l’anima deve fare mente locale, come un «nota bene» da non trascurare: anche se san Giovanni la pone come possibile conclusione o pausa riassuntiva di possibili  «Es, pues, de saber que el alma, después que determinadamente se convierte a servir a dios, ordinariamente, la va dios criando en espíritu y regalando, al modo que la amorosa madre [...] (I, 2.440)».

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indugi, tergiversazioni, magari, equivoci, oppure anche leggerezze di insufficiente riflessione o attenzione. La frase è breve e piana, ma decisiva premessa ineliminabile e di necessaria considerazione, tanto più che avvisa su qualcosa di obbligatorio da non fraintendere: «es, pues, de saber». il contrasto, tra la formula introduttoria e di accesso quasi in sordina e l’importanza di tale momento nella storia dell’anima, non esclude che essa tracci un modello tanto semplice quanto tremendo e incommensurabile sul piano pratico, d’altronde, senza soluzioni alternative affiancate. E San Giovanni la espone come punto di partenza chissà quando e chissà per chi, ma, insieme, come passaggio obbligato, anzi, percorso semplice e difficile. Il percorso è, anzi, istantaneo e senza residui o scappatoie; da una parte, ’ «anima» e dall’altra Dio; in mezzo, oltre al marcatempo del terminus a quo («después», ‘dopo’), prima ancora dell’azione o di qualunque impulso o moto, l’avverbio di protratta fisicità fonica — «determinadamente», esclusivo e serrato segno di determinazione, decisione, fissazione e atto di volontà inflessibile e senza pentimenti. E non c’è la presenza dell’astratto («determinación») con tutto il suo spessore di assolutezza sostantiva; che, anzi, nell’avverbio è flessa e impiegata in tutte le sue valenze da attuare senza ripensamenti. sí che la voluntas non compare, ma è già portata a compimento, già trasformata in assenso come entelechia ed eseguita solo dopo il verbo che l’avverbio qualifica, e che pure è un verbo direzionale preciso di convergenza e trasformazione, di cambio di prospettiva, che la volontà ha già capito, voluto, intrapreso. E che porta l’anima, prima ancora che a Dio, al servizio («si converte, si volge a servire»). È da notare che San Giovanni non dice una parola dell’«antes» di quel «después» e, più ancora, di ciò che non è conversione, di ciò che non è «servire». Nessuna parola in più, ma una linea misurata e forte senza ulteriori spiegazioni. Solo «determinadamente» significa l’impegno totale, la scelta tremenda e l’impiego della volontà in modo definitivo in quell’unica direzione. la frase prosegue con un altro avverbio, «ordinariamente», immediato e certamente rassicurante di una prassi collaudata e abituale, come continuità di un ordine o costume di comportamento. come a dire che lo sforzo integrale della voluntas si placa nel proseguimento affidato a dio e alla sua immediata risposta, con l’inserimento del-

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l’«anima» tutta protesa e tutta, radicalmente, per sempre, trasformata, convertita, rivolta — pur solo nell’impulso iniziale, però, come vedremo — e rivolta a un fine esatto senza vacillamenti, in una attesa e prevedibile normalità rasserenante. e tuttavia, si tratta dell’inizio di un processo, del passaggio a un tempo nuovo, certo, e, appunto, confermato dall’avverbio (che sembra non escludere, ad ogni modo, anche deviazioni, altri modi, altri comportamenti...), tempo in fieri («la va»). Fra l’altro, mentre tale nuovo modo rassicura, precisamente, nello stesso istante propone un’immagine dolce fin che si vuole e trepida, ma anche, forse, sconcertante della pazienza e delle attese. Vogliam dire che l’atto di volontà — sicuramente atto responsabile e totalizzante dell’uomo e della sua concentrazione — porta ad una condizione, in fondo, minimale, quella del bambino da allevare... Vedremo poi che lo stesso san Giovanni insisterà, per quasi tutta la prima parte della Noche Oscura, sulla condizione particolare dell’anima che, nonostante sia già inserita in un nuovo ordine spirituale, è assimilata al «bambino tenero», circondato dalle cure affettuose della madre, ma ancora esposto a «infiniti travaglî», a rischi oggettivi, che sono le «imperfezioni spirituali» dei «principianti». si misuri, allora, l’area d’estensione della voluntas richiesta per giungere anche e solo a questo punto di partenza minimale e pur stupendo. di fronte, ci sono tutti i «vizî spirituali», che posson mettere a repentaglio, con i loro «goffi movimenti», la quiete e la continuità del processo stesso. e sono: superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, accidia, in senso spirituale, cioè, già al primo livello che immetterà nella «noche oscura». la scelta spirituale ha, quindi, preteso l’impegno assunto «determinadamente» e in modo totale. nel cap. 2, dove san Giovanni parla delle «imperfecciones espirituales» — e, precisamente, della superbia — compaiono ben cinque impulsi volontaristici dell«’anima», per terminare con l’affermazione della «volontà» divina. Naturalmente, san Giovanni non sta procedendo secondo fasi successive ma simultanee e, in definitiva, egli sta trattando tutto quanto accade all’anima in quella zona spirituale che viene in seguito al «después» della volontà di servizio. Il capitolo 2 è dedicato all’«hábito de la soberbia» e alle

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situazioni che possono presentarsi nelle «cosas espirituales y ejercicios devotos», ‘cose spirituali ed esercizî devoti’, ove s’intreccia ai fervori e diligenze («se sienten tan fervorosas y diligentes», ‘si senton così piene di fervore e diligenti’ 1, p. 441; «cierto ramo de soberbia oculta», ‘un certo ramo di superbia occulta’). Ne viene «cierta gana algo vana, y a veces muy vana» (‘una certa voglia alquanto vana, e a volte molto vana’), cioè, una possibile gradazione di desiderio progressiva e accresciuta. Qui appare direttamente il demonio: «molte volte li accresce il demonio il fervore e la voglia di compier meglio queste e altre opere perché vada loro crescendo la superbia e la presunzione. Perché sa molto bene il demonio» («muchas veces los acrecienta el demonio el fervor y gana de hacer más estas estas y otras obras porque les vaya creciendo la soberbia y presunción. Porque sabe muy bien el demonio» — 2, p. 442). C’è come una sorta di concatenazione segreta e impercettibile tra quelle anime e il demonio, con dislivello, tuttavia, del «saber muy bien» di questi e la «presunción» (e «soberbia») di quelle, certamente in contrasto, esse, tra ’ «obrar» degli «ejercicios devotos» e le «cosas espirituales» e l’esibizione di sé — e attorno a sé — del «parlare di cose spirituali davanti ad altre e anche, a volte, di insegnarle più che di apprenderle», cioè, di costituirsi protagoniste e centro di attrazione e di insegnamento. come dire che la «gana» non è proiezione verso Dio ma rimane vicina a se stessi, anzi, viene ad essere «gana» di se stessi e, oltreché per sé, anche per gli altri, con fatale spostamento di obiettivo e di percorso. Di più, sorge un atteggiamento di certezza orientata su se stessi come centro di verità e criterio di giustezza: «e condannano nella loro preghiera gli altri quando non li vedono con la maniera di devozione che essi vorrebbero» (2, p. 442) 2. Qui, c’è tutta una serie di condizioni negative: lo spostamento dell’osservazione da se stessi agli altri — sempre allo stesso livello, quindi, non a Dio — per di più, per giudizio e condanna; il luogo-tempo spirituale in cui ciò avviene: 1’ «oración» che, appunto, dovrebbe naturaliter dirigersi a dio non farsi momento di non richiesta verità o fondamento di scelta universale di «devozione» (fra l’altro, la lezione «oración» è scelta 2 «y condenan en su oración a otros cuando no los ven con la manera de devoción que ellos querrían».

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dall’editore J. Vicente rodríguez in opposizione ad altra lettura «corazón», motivandola con ragioni di coerenza con la citazione evangelica del publicano e del fariseo - lc 8, -2: «Phariseus stans haec apud se orabat»; mentre «corazón» è giustificato per l’opposizione interna del testo sangiovanneo tra «condenan en su corazón [...] y aun a veces lo dicen de palabra» (‘condannano nel loro cuore[...] e a volte lo dicono con parole’). Noi non abbiamo prove, perché ci manca qualunque probabilità di analisi generale dell’edizione critica e dei suoi criterî). Ad ogni modo, qui il problema ha un suo rilievo: è certamente più grave l’abuso dell’«oración», deviata nella sua direzionalità al divino e proiettata sulla condanna del fratello, che non si adegua alla nostra volontà. La questione si fa molto complessa: in che punto s’inserisce il giudizio abusivo (di condanna, fra l’altro, «condenan») e a che cosa si rivolge la postulazione o presunzione e superbia della voluntas? la frase sangiovannea è precisa: «li vedono» (‘gli altri’). È sempre la questione dell’«occhio» che non vede il giusto, spesso censurato dal Vangelo 3. Qui, oltre tutto, l’occhio è già distratto sul fuscello altrui — anche la «maniera» è espressione di opinabilità, di varietà, di differenza, sempre possibile e ovvia. Poi, si parla di «devoción», che è promessa di voto, offerta, consacrazione, dedizione, sacrificio di sé, settore esclusivo e privatissimo d’elezione libera e delicatissima d’ogni anima e coscienza, dove ognuno ha il diritto geloso di disporre di sé e dei propri modi. E in questo ambito assoluto s’inserisce o s’insinua o s’impone un soggetto altro («essi») con un proprio impulso soggettivo inammissibile. e si noti, inoltre, la forma particolare della voluntas: attraverso il verbo querer, che se, etimologicamente, può anche comprendere varî significati collaterali o di premessa all’idea ed esercizio della volontà (‘cercare, chiedere, informarsi, indagare, investigare, ricercare, ricercare minutamente, scrutare’), ancor peggio viene a significare intrusione nelle cose o decisioni o «maniere» 3 Cfr. Mt 5, 29; 6, 22; 7, 3-5: «Quod si oculus tuus dexter scandalizat te, erue eum, et proice abst te» (5, 29); «lucerna corporis tui est oculus tuus. Si oculus tuus fuerit simplex: totum corpus tuum lucidum erit. si autem oculus tuus fuerit nequam: totum corpus tuum tenebrosum erit. si ergo lumen, quod in te est, tenebræ sunt; ipsæ tenebræ quantæ erunt?» (6,22); «Quid autem vides festucam in oculo fratris tui: et trabem in oculo tuo non vides? Aut quomodo dicis fratri tuo: Sine eiiciam festucam de oculo tuo, et ecce trabs est in oculo tuo? Hypocrita, eiice primum trabem de oculo tuo, et nunc videbis eiicere festucam de oculo fratris tui» (7, 3-5).

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altrui, per sapere, pretendere, prima di volere. il «querrían» è, nell’uso del condizionale, da inserire nell’ambito ottativo-conativo della postulazione avanzata e insieme sospesa, del desiderio-volontà atteso anche se, forse, non (o non ancora) affacciato. Ma si tratta sempre di un impulso di imposizione, di slancio interno (che rimane, anche se trattenuto, frenato), che proietta qualcosa di improprio e non-pertinente nella sfera altrui invalicabile e sacra. diciamo che c’è un elemento estraneo di potenzialità impressa o sovrapposta, di relativismo o semplice tendenza a volere (e a desiderare, sempre, visto che i due significati sono equipossibili), che può anche non esprimersi o rivelarsi in atto esplicito di volizione; pero, senza alcun dubbio, s’insinuano qui due aspetti devianti: l’innestarsi nell’altrui libertà e uscita dalla propria necessità o priorità o doveri, ecc. È evidente che quell’esercizio o propensione della voluntas — anche se, probabilmente, attenuata — è non necessario, arbitrario, soprattutto, pericoloso, se segno di superbia e presunzione, «fervor y gana» del demonio. in questo caso, «obras», «que no valen nada, mas antes se les vuelven en vicio» (2, p.442). Il «tanto mal [a cui] suelen llegar», dunque, e senza limiti alla quantità, è pericoloso fraintendimento e uso improprio della «voluntas» stessa. nel par. 2 4, di seguito, compare ancor meglio, nelle parole incisive di San Giovanni, il significato di «querrían», ripetuto in una seconda frase: «e a tanto male sogliono arrivare alcuni di costoro, che non vorrebbero che sembrasse buono un altro se non loro». si tratta di un punto determinante, che si riferisce ad una grave conclusione a cui quel «querrían» — presente in questo capitolo, come s’è detto, per ben cinque volte (11 in totale in tutta la prima parte della Noche) — espone una precisa categoria di anime; e il «suelen llegar» (‘sogliono arrivare’), se non è approdo tassativo, perché il verbo servile in certo modo avanza un’ipotesi da verificare, nello stesso tempo sembra istituire una eventualità non poi così strana né eccezionale. È, anzi, un costume, una consuetudine più che certa e tutta da attendersi, quasi da prevedersi come normalità che va tenuta in conto; sia pure da calcolare il numero con relatività statistica («alcuni di questi») non quantificabile. 4 «Y a tanto mal suelen llegar algunos de éstos, que no querrían que pareciese bueno otro sino ellos».

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Ad ogni modo, è assai più rilevante osservare ciò che produce la possibile rovina (il «tanto mal» degli «algunos», perché, pur sempre fondato sull’impulso avanzato del volere-desiderio — in parte attenuato dalla sua natura potenziale — «querrían» — tuttavia, non può essere in nessun modo accettato perché, oltre ad andare contro i moniti evangelici, porta il moto volontaristico in una direzione contraddittoria rispetto al principio fondamentale dell’«umiltà»5. e qui, addirittura, sulla valutazione degli altri nei propri confronti, il «querrían» pretende annullare ogni altro nel giudizio comune a tutto vantaggio di se stessi, «que no querrían que pareciese bueno otro sino ellos»; non solo la presunzione di essere di più, ma anche che ciò appaia agli occhi di tutti, a detrimento di altri. La volontà, dunque, di abbassare, negare, distruggere, annullare gli altri per comparire bene solo loro stessi, per richiesta di lode, stima, approvazione, condiscendenza, sfrenamento di desiderî, fino alla «complacencia» di essere compresi per tutto ciò che vogliono e, persino, «muchas veces codicia» (‘molte volte brama’). Ne nascono infinite invidie, «desquietudes» (‘disagî’, ‘inquietudini’), prevaricazioni, impazienze, ecc. tutte contrarie alla «humildad». in conclusione, una scelta di volontà che vede solo se stessi, finisce in se stessi e, allora, vuole solo se stessa, con assoluta e vana sterilità e totalmente lontana dall’unico Bene. Sé, volontà umana, al posto di Dio. In 4, p. 443, l’atto di volontà si rinchiude, fra l’altro, e senza nessuna attenuazione, anzi in misura piena ed esplicita («quieren», ‘vogliono’) del modo indicativo, in una sopraffazione sul piano interpersonale, nel rapporto con i «confesores», con i quali s’istituisce una sorta di gara o sfida: «Molti voglion precedere ed evitare i confessori, e di qui derivan loro mille invidie e inquietudini» («Muchos quieren preceder y privar con los confesores y de aquí les nacen mil envidias y desquietudes»). È, di fatto, una voluntas che prevale, ribalta i ruoli, sconvolge le competenze, intende sostituire se stessa al possibile controllo, magistero, valutazione, obbedienza a chi è preposto ad esser guida, maestro, consigliere, orientamento, ecc. cioè, i «maestros espirituales», «confesores y prelados». ancora, superbia e 5 cfr. OBRA, 2, 4, p. 443 «como quiera que fuera más humildad [...] deshacerlo y tener gana que ni él ni nadie lo tuviesen en algo».

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presunzione; ma, per noi, uso della volontà esercitata verso la conferma, non il superamento, delle «imperfecciones», della propria storia e negazione spirituale. al contrario di chi costruisce il profitto («aprovechan y edifican mucho con la humildad»- ‘traggono vantaggio ed edificano molto con l’umiltà’, 6, p. 443) sull’umiltà. Che è rinuncia, «tener sus propias cosas en nada» (‘ritenere niente le proprie cose’) «con muy poca satisfacción de sí» (‘con assai poca soddisfazione di sé’), «santa envidia con gana de servir a Dios» (‘santa invidia con voglia di servir Dio’), laddove la prevaricazione della volontà di sé era invidia, «desquietudes» (‘inquietudini’, ‘disagî) senza alcun senso. Assai interessante è vedere come funziona il motivo della volontà sul versante opposto (due occorrenze «querrían», 6-7, p. 444), intendendosi di coloro che «en este tiempo van en perfección» (‘in questo tempo vanno nella perfezione’). Il fondamento è l’«humildad» del profitto e dell’edificazione, e il vettore è la «gana de servir a Dios» (‘voglia di servir Dio’); è un muoversi «muy de otra manera» (‘in modo assai diverso’) e «muy diferente temple de espíritu» (‘e molto differente tempra di spirito’): «más fervor» (‘più fervore’), «más obras hacen y gusto tienen» (‘più opere fanno e più ne provano piacere’), «tanto más conocen lo mucho que Dios merece» (‘tanto più conoscono i molti meriti di Dio’), «lo poco que es todo cuanto hacen» (‘il poco che è tutto quello che fanno’), «cuanto más hacen» (‘quanto più fanno’), «tanto menos se satisfacen» (‘tanto meno si soddisfano’). È il «más» (‘più’) dell’esasperazione azionistica e dell’«hacer» (‘fare’) come cammino che porta fuori l’anima da se stessa e tanto più s’allontana da sé, tanto più si stacca dall’autocompiacimento, dal placarsi in se stessa, e tanto più sente Dio, ne valuta («merece», ‘merita’) la grandezza e si studia di avvicinarGlisi secondo la misura di lui incolmabile. anche questa animazione e arrampicata al «más» come vetta delle vette è sigillata in una frase di grande discrezione di linguaggio, ma sostenuta e contrappuntata da un pullulio inesausto di morfemi indefiniti e portatori insistiti della tensione oltre il limite: tanto, todo, nada, tanto, dove il todo e la nada emblematicamente indicano i gradi estremi e incomponibili di dio e dell’uomo, e insieme il todo è il segno dello sforzo massimo umano e la nada è la valutazione che ne dà rigidamente l’«humildad». In questo contesto, la frase centrale che postula la lettura esegetica di

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tutto il brano evidenzia sinteticamente i fuochi dell’impulso azionistico: «Che tanto è quello che per amore e carità vorrebbero fare per lui [dio, ovviamente] [...] e tanto li sollecita, occupa e impregna di sé questa pena d’amore» («Que tanto es lo que de caridad y de amor querrían hacer por él y tanto les solicita, ocupa, y embebe este cuidado de amor»). dentro i due termini della proposizione di estrema indeterminazione (tanto, tanto) — ma forti dello spasimo dell’eros e inquietudine azionistica — compaiono termini intimamente definitivi, quasi sinonimi o di mutua integrazione: caridad-amor-cuidado de amor. ecco allora, che, proprio basandosi su lessemi assoluti e non spiegabili, perché dicono tutto quello che sono — seppure, sempre, in modo analogico e approssimativo (i gradi dal más al tanto sono indici conativi di valutazione) — e il «cuidado» è l’aggiunta dell’aspetto più ansioso e sofferto — San Giovanni inserisce il «querrían» (‘vorrebbero’), che non risulta più conativo o attenuato come altrove, bensí la concentrazione e lo scatto, il ripiegamento per dare più energia alla parabola della voluntad. Qui, dunque, la voluntad e il querer sono l’accumulo della tensione, il cercare un punto di forza e di appoggio — sull’amore e sulla caridad che sono già il massimo dell’eros azionistico — per dare una spinta ancora maggiore; anzi, per aggiungere a quei valori fervidi e assoluti uno slancio in più, il tendersi parossistico della voluntas, che è ciò che l’amore conferisce all’amore, la molla che si espande verso un más, un tanto, che poi saranno ancora nada, per humildad. in questa stessa zona troviamo un’altra occorrenza nel campo del «querer», molto utile per le nostre indagini, perché si sposta su un altro piano ancora, quello della voluntas di altri, non specificati: «da dove, stimandosi poco, hanno pure voglia che gli altri li considerino poco e li distruggano e disistìmino le loro cose. E ancor più: che, sebbene qualcuno li voglia lodare e stimare, in nessun modo lo posson credere» (6, p. 444) 16. osserviamo qui la densa connotazione delle anime umili, prima di tutto fondate su un dato di fatto di natura personale e non implicita, certo, comunque, e immodificabile: «teniéndose en poco». Che è la condizione sottintesa e si stimino e si ritengano poco 16 «de donde, teniéndose en poco, tienen gana también que los demás los tengan en poco, y que los deshagan y desestimen sus cosas. Y tienen más: que, aunque se los quieran alabar y estimar, en ninguna manera lo pueden creer».

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la ragione del resto del discorso, ed è questione indiscutibile e primaria, anzi, la causa, addotta dall’umiltà, della «gana», il desiderio vivissimo, e perfettamente aggiustato e coerente, di sovrapporre al proprio il giudizio degli altri. Ma che questo si adegui a quello proprio e si finalizzi, si conformi totalmente, come moto di risposta coincidente e opportuno rispetto alla «gana» (‘voglia’), la quale sembra dettare un ampio e dovuto comportamento degli altri («los demás» sono tutti gli altri), oltre il «tener en poco» anzi, a infierire e distruggere («deshagan»), ad annullare la persona e la sua circostanza («desestimen sus cosas»). Il morfema des- — tipico di tante formazioni negative e di ribaltamenti semantici ispanici — semplicemente capovolge il senso di estimar, confermandolo, quel senso di stima, al contrario. il periodo successivo sottintende la «gana» ma, per indurre a ritenere a memoria, con rapido e nemmeno necessario ricorso, o a ripercorrere la frase precedente per ritrovarla e così riprenderla e ribadirla. La «gana» è, quindi, il nucleo di un desiderio forte, intenso ed esclusivo, che circola nel testo — e nell’anima — a contrapporsi subito e senza ripensamenti, quasi una barriera, alla concessiva «aunque los quieran» (‘sebbene li vogliano’). La «gana» può anche essere affiancata o premuta da una volontà altrui — «gana» sostantivo in opposizione all’articolazione del verbo che si esplica con un hysteron-proteron assai aggressivo (‘vogliano lodare e stimare’), che loda prima (o simultaneamente) di stimare, per affollarsi contro quella «gana» e stordirla prima con la lode, che è già tentazione, poi con la stima, che ne è la fonte e la ragione. Se non che, nella linea orizzontale della frase — dove i verbi sostenuti dal servile sono di modo infinito, quindi, totalizzanti — subito viene «en ninguna manera», che nega recisamente prima ancora dell’esibizione del «pueden» e del «creer», rispettivamente in grado di annullare qualunque ricezione, anzi, di esprimere il divieto, l’impossibilità, il non averne facoltà; e il contenuto della limitazione, il credito non ammesso per la lode e la stima. Quella volontà, quindi, pur possibile e anche affermata, è respinta dal no poder definitivo. nel par. , p. 444 ritorna un altro «querrían» nella contrapposizione franca tra due posizioni precise: «éstos» / «ellos» (‘questi’, ‘quelli’). Questi, con molta tranquillità e umiltà, hanno un gran

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desiderio che si insegni loro qualcosa che possa loro essere utile; una cosa completamente contraria a quella che hanno coloro che abbiamo detto prima, che vorrebbero essi insegnare tutto: 

l’opposizione è tra «si insegni loro qualcosa» e lo «vorrebbero insegnare loro» e, prima di tutto, per il primo, è affacciato l’auspicio («pueda», ‘possa’), che può anche non avvenire, circa l’effettivo «aprovechar» (‘essere utile’); e vi è qui l’attesa, la speranza, la ricerca comunque del profitto, dell’utile spirituale. Si aggiunga che l’auspicio è netto e rilevante («grande desiderio»), inequivoco segno di quell’attesa e ricerca, dettata, motivata, basata sulla pace interiore e senso della misura, oltre che sulla condizione d’«umiltà» come disposizione comunque ad imparare, a riconoscersi nei propri limiti. la seconda posizione è semplicemente immotivata: San Giovanni si limita a giudicarla, nella sua persino eccessiva ostinazione («cosa assai contraria») e caparbietà («querrían», ‘vorrebbero’). Di fatto, qui, la voluntas è attaccamento a sé, irremovibile e disperata presunzione e superbia. Ma queste parole sono assenti nel testo, quindi, anche più concrete, perché poste in controluce, richiamate; e la volontà si oppone anche al «desiderio», sia pure, «grande», che è positivo, perché implicita volontà, questo, di colmare le proprie lacune spirituali; quella, radicata insistenza, pretesa illimitata di prevaricazione totale. la frase seguente dimostra la violenza e l’eccesso fisico di questi ultimi presuntuosi («siccome lo sanno già»), che a priori ritengono totale la loro scienza («toman la palabra de boca», ‘prendon la parola di bocca’). Di nuovo, poi, gli «éstos» dell’humildad qualificano la loro disposizione: «Ma dato che questi son molto lontani dal voler essere maestri di nessuno, sono molto pronti a camminare e ad andare per altra via da quella per dove vanno, se glielo ordinassero, perché mai pensano di coglier nel segno in nulla» (Ibid.) 8. Il vertice di questa frase è nel lessema «mandaren» (‘comandassero’), cioè, nell’ammissione del comando altrui, o della possibilità effettiva che qualcuno comandi o nell’eventualità che venga espresso un comando — il con Éstos, con mucha tranquilidad y humildad, tienen gran deseo que les enseñe cualquiera que los pueda aprovechar; harto contraria cosa de la que tienen los que habemos dicho arriba, que lo querrían ellos enseñar todo».

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giuntivo è futuro — proveniente da altro soggetto («se lo», ‘glielo’ riferito a «éstos», ‘questi’). Questo riconoscimento del magistero altrui si fonda, come sempre, sull’humilitas, ossia, la valutazione negativa di sé. Qui, essa è oggettivata deliberatamente, anzi è risultato concreto e preciso di una riflessione o valutazione del proprio peso («piensan»). Si potrebbe dire di più: gli «éstos» non solo pensano di non cogliere nel segno, meglio, non pensano mai di giungere al bersaglio, non hanno bisogno di pensarlo; forse lo hanno già pensato un’altra volta: in tutti i modi, lo sanno già, ne sono ben certi. addirittura, il giudizio della propria negatività («nadie, nunca, en nada») è immanente, quasi a priori, sicuramente, scontato senza dubbio. in questa direzione, il «camino que llevan» (‘il cammino che percorrorono’) queste anime viene ad essere molto particolare, perché è un cammino percorso («llevan») secondo una guida, secondo un maestro, umilmente affidandosi. Aggiungiamo che «éstos» proseguono la loro via con tutta la loro forza e prontezza, impegnandosi interamente, anche con slancio; san Giovanni usa verbi al presente della persistenza e della disponibilità sempre pronta: «están, llevan, piensan, aciertan» (‘sono’, ‘percorrono’, ‘pensano’, ‘colgono nel segno’). «Prontos» (‘pronti’, ‘disposti’) e «echar» (‘procedere per altra strada’) rivelano la presenza e lo scatto possibile degli umili; «porque» la consapevolezza forte delle ragioni di tutta l’impostazione. È il linguaggio chiaro e inequivoco, decisivo, di san Giovanni — nelle sue frasi pesate e tutte sostanza vitale, senza nulla di superfluo, bensí, essendo tutto proprio necessario e definitivo. A questo punto, l’impulso volontaristico è già sottinteso, ragionato, motivato, sottolineato in una serie di espressioni d’impegno convinto e cosciente, di distacco da sé come soggetto portatore di autodisciplina, se non nell’esecuzione, nella risposta pronta e voluta e certa al mandato eventuale. Volontà tacita, dunque, ma tanto più concreta perché nemmeno svelata o esibita, fatta obbedienza come scatto iniziale e attivo. E, invece, essa volontà compare nella frase («querer»), ma è volontà negativa, o meglio, volontà positiva che rifiuta una cosa negativa e protesta, 8 »Pero éstos estando muy lejos de querer ser maestros de nadie, están muy prontos de caminar y echar por otro camino del que llevan, si se lo mandaren, porque nunca piensan que aciertan en nada».

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in modo netto, di non partecipare, di rifiutare un esercizio volontaristico, che è respinto subito, prima di essere dimostrato come negativo, per quali ragioni, ecc. la sequenza è semplice e già scontata è la sua proclamazione: «estando muy lejos» (‘stando molto lontano’) riprende la figura del «camino» nel senso spaziale e di distanza topica applicata ad una voluntas espressa come distacco incommensurabile tra il problema e il soggetto che non lo considera tale. «Estando lejos» è forma implicita di un’altra causale, poi giustificata dall’espresso «porque»; in «querer» è respinta qualunque volontà, presa di distanze da un «ser maestros» che ha forza ontologica allontanata dal soggetto pur attivo e pronto, sollecito e affatto inerte o venuto meno. sullo sfondo, certamente, Mt 23, 8 «unus est enim Magister vester, omnes autem vos fratres estis»... dio solo, del resto, in piena solitudine e autonomia, decide e attua la sua propria volontà: che, per questo, como diremo poi, dio mette nella notte oscura coloro che vuole purificare da tutte queste imperfezioni per condurli avanti (8, p. 445) 19.

«Mette», «condurli» sono i termini che svelano il «quiere» senza tempo nella progressione dell’itinerario nella realizzazione concreta della volontà di Dio; «adelante» è la relatività dello spazio-tempo del «cammino». La «notte oscura» è tanto più oscura per l’anima che non riponga il «cammino» nella luce di dio.

19 » Que, por eso, como después diremos, pone Dios en la noche oscura a los que quiere purificar de todas estas imperfecciones para llevarlas adelante» (8, p. 445).

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il «volo d’amorE» in s. giovanni dElla crocE

. La parola parlata e i fondamenti della «theologia cordis» a differenza di santa teresa, che, sempre, assimila nella propria scrittura tutta se stessa (entusiasmi ed aporie, situazioni personali e infiniti segni del proprio partecipato itinerario fisico oltreché mistico-sperimentale), San Giovanni della Croce non nasconde un suo difficile rapporto, quasi a sommare quieto distacco e delicato pudore, come fosse per un impegno ottemperato malgré-lui, ma con gravi difficoltà, appunto, ed esitazioni onestamente affacciate ad ogni istante; e, soprattutto, per le oggettive impossibilità connesse alla qualità ineffabile delle esperienze oltreché ai limiti del soggetto stesso che esperimenta e scrive. Questo carattere di scrittura di frontiera, come sforzo massimo insufficiente e approssimativo — che, poi, nei testi si diffonde con finissime e anche assai dettagliate dissertazioni e specificazioni trattatistiche, con un complesso reticolato dottrinale, teologico e filosofico, messo a confronto e organizzato su un aderente apparato minutissimo e frequente di citazioni dottissime dell’auctoritas biblica, ecc. — ebbene, proprio questo carattere architettonico e dialettico della scrittura sangiovannea si fonda precisamente sull’aspetto primario del nostro tema, il raccordo con i limiti del senso e del discorso. Vi è necessità, anzi, di liberare l’intelligenza mistica nel suo arduo cammino di purificazione attraverso la notte oscura, come appello supremo al divino dal nulla de profundis di sé, promosso, nell’assoluto dell’amore, dall’intelligenza scolastica ed umana.

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non dimentichiamo che san Giovanni della croce scrive «essendo [l’anima] già nella perfezione» , e che per lui è solo già la contemplazione il nucleo attivo della sua esperienza. in essa solus Deus è la «luce di conoscenza» 2 e il cammino dell’anima nel fondo di se stessa deve procedere «dall’abisso della fede, in cui l’intelletto deve restare oscuro, e oscuro deve andare per amore nella fede, e non per molta ragione» 3, essendo, di fatto, a quell’estremo, la theologia cordis, la teologia dell’amore, l’unica vera e possibile teologia. Basta osservare un momento il Prologo ai Detti di luce e amore per comprendere in quali termini d’impulso teologico e di anima sia l’orientamento di s. Giovanni della Croce, sì che la sua minutissima trattatistica non viene ad essere altro che lo sviluppo sottilissimo e diretto di quest’impostazione illuminata: anche, oh dio e mio diletto!, in questi detti di luce e amore di te la mia anima ha voluto impiegarsi per amore di te, perché, dato che io, pur avendone il linguaggio, non ne ho l’opera e virtù, che è ciò di cui più ti compiaci, mio signore, che non del loro linguaggio e sapienza, altre persone [...]: 4

l’inizio ex abrupto con la congiunzione continuativa non conferma solo il proseguimento e la continuità di un’opera tutta collegata sotto lo stesso segno e attivata nella fermezza della stessa intenzione e condizione; ma è proprio utilizzazione formale e sostanziale di unicità di mente e di anima sulla base dell’amore, diretto e gridato, invocato secondo l’endiadi della propria essenza e fondamento di ogni rapporto con dio: «anche, oh dio e mio diletto!». di seguito, San Giovanni sistema il titolo dell’operetta (che è  Usiamo per i testi l’edizione san Juan de la cruz, Obras completas, revis. text., introd. y notas al texto J.V. Rodríguez; Introd. y notas doctrinales F. Ruiz Salvador, Editorial de Espiritualidad, Madrid 1988; le traduzioni sono nostre. cfr. Noche oscura, p. 438:«estando ya en perfección». 2 cfr, Subida al Monte Carmelo, p. 167: «luz de conocimiento». 3 cfr. Subida del Monte Carmelo, p. 35: «del abismo de la fe, en que el entendimiento ha de estar oscuro, y oscuro ha de ir por amor en fe, y no por mucha razón». 4 cfr. Dichos de luz y amor, p. 88: «también, ¡oh Dios y deleite mío!, en estos dichos de luz y amor de ti se quiso mi alma emplear por amor de ti, porque ya que yo, teniendo la lengua de ellos, no tengo la obra y virtud de ellos, que es lo con que, Señor mío, te agradas más que con el lenguaje y sabidurías de ellos, otras personas».

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altra endiadi «in questi detti di luce e amore di te») istituita sulla identità fondante tutto il percorso dell’aspirazione e del travaglio sangiovanneo: la luce è l’amore e l’amore è la luce, come a dire che se si vuole e si ha luce questa è l’amore e se si ama si ha luce per le tenebre della «noche oscura» dell’anima e della mente. Poi, viene la disposizione storica — della storia dell’anima nella sua determinazione prima e atto primario della volontà («la mia anima ha voluto») -; ed è impulso e impegno profondo e totalizzante di responsabilità etica quello che porta alla scrittura (etica nel senso profondo dell’amore, sempre — e sarebbe anche un impulso di poetica se, in questo momento, c’interessasse fermare anche questo fondamento tutto spirituale e interiore della scrittura stessa) —; per sintonizzarsi immediatamente sulle ragioni della causalità, finalità, mezzo e intenzione operativa dirette ed esclusive («per amore di te», anche a ripetizione scandita e cadenzata del titolo appena enunciato, con fenomeno di eco). È chiaro che il santo scrittore sta qui elaborando una premessa — prologo che è professione d’umiltà e slancio di fede; ma, nello stesso tempo, egli afferma la sua precisa impostazione e scelta di campo, come sempre in san Giovanni schietta ed esaustiva di tutte le proprie ragioni e motivazioni, diciamo, l’«ordine della carità», in senso tomasiano (e prima ancora biblico) come centro di guida e di supplenza per i minimi dell’anima, prontissima a conoscere e a dichiarare i propri limiti — sia in negativo, ma anche, e prima, in positivo, rimuovendo falsa umiltà nel rispetto limpido del vero. Così, con forte insistenza causativa («perché, dato che») si delinea l’impianto della costituzione e qualità del soggetto attivo, presente con i proprî valori e insufficienze o carenze. San Giovanni non insiste come S. Teresa sul proprio colpevole (presunto) senso «ruin» (‘malvagio’, ‘meschino’, ‘spregevole, ecc.), ma si limita a dichiarare ciò che non gli è proprio, come deficienza rispetto al positivo necessario: «pur avendone il linguaggio» — «non ne ho l’opera e la virtù»; le frasi rivelano un certo parallelismo minimo sulla base della struttura generale, ma ben sostanziale è la differenza: la concessiva implicita riduce di molto la dichiarazione (anche se, pur se, quand’anche), specialmente davanti all’inesorabilità oggettiva, realissima e indiscutibile di negatività, del presente indi-

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cativo dell’hic et nunc, che può anche esser permanente e costituzionale «pur avendone» — «non ne ho». La discriminazione, poi, è ben greve e tagliente, perché, situando da una parte il minimo — massimo del «linguaggio» (che è possesso del mero codice linguistico e anche, perché no?, dello specifico della «parole» in senso oggi ancora saussuriano) lo separa decisamente da una terza endiadi di equivalenza «l’opera e virtù», che esprime, rispetto ai Dichos, il loro contenuto pratico, l’attuazione ed il valore che lo promuove e lo qualifica, lo istituisce e ne è il significato. Come a dire che quello che manca è la vera sostanza e la ragione che la sostiene e motiva. il dialogo onesto di San Giovanni è ovviamente scoperto e senza ritorno quanto alla definizione dei propri limiti e della richiesta implicita dell’interlocutore supremo — il dialogo reale è sull’agire consapevole e finalizzato -, perciò la posizione della propria vicenda — in ordine alla scrittura e ai suoi fini — va, subito, nell’ambito della rispondenza fra scrittore — opera e ragioni superiori del supremo ispiratore — maestro — lettore — critico — al grado, senza limiti, più alto della validità e funzione ed esito: «che è ciò di cui più ti compiaci, mio signore». assai importante, a questo punto, la ripresa più ampia e articolata dei limiti — qualità dello scrittore con un’altra geminazione — endiadi «del loro linguaggio e sapienza»: se solo il linguaggio è sapienza essa è ben limitata, come già detto; se sapere il linguaggio è sapienza e la sapienza, oltre ad essere linguaggio, è il valore che lo sostiene — come si vedrà dopo — essa è qualcosa (altra implicita concessione relativa — «dato e concesso che ...», «dato e non concesso che ...»); che, tuttavia, si perde in quell’infinitamente imprendibile «más» (‘più’, ‘di più’) che costituisce il giudizio divino. Di qui, il trasferimento sostitutivo di risarcimento alle «otras personas» per tutto quello che a lui stesso «falta» (‘manca’) 5. in positivo, san Giovanni delinea il quadro del valore nucleare, in senso divino, che solo giustifica l’opera, cioè, il suo autore, e rivela tale valore come unico capace di far coincidere dio, l’anima e il senso — anche attraverso la scrittura — di tutto quanto il modello: tu ami, signore, la discrezione, ami la luce, ami l’amore 5 Ibid., p. 88: «en tu servicio y amor en que yo falto», «de que haya sido ocasión que lo que falta en ella halles en otra [persona]».

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al di sopra di tutte le altre operazioni dell’anima; perciò, questi detti saranno di discrezione per il camminare, di luce per il cammino, e d’amore nel camminare 6;

dove «discrezione» è senso e misura dell’operare e del valutare, amoroso e luminoso criterio dell’amore, che è luce dell’anima e vera sabiduría, sia pure nell’attuale tensione («cammino», «camminare») ... e anche a indirizzare verso il «cammino» dell’amore e nell’amore. Drammatica e appassionata la professione finale di questo prologo tutto luminoso e senza riserve: Rimanga, dunque, lontana la retorica del mondo; rimangano le chiacchiere e l’eloquenza secca dell’umana sapienza, debole e ingegnosa, che tu non ami, e parliamo parole al cuore bagnate di dolcezza e d’amore, che tu ben ami .

Qui, la scelta di campo è ulteriormente precisata, ed anzi, qualificata esattamente nelle sue effettive condizioni con ricorso persino a termini tecnici espliciti e agli ambiti che vengono ad essi collegati: da un lato, la «lingua», il «linguaggio» (e anche la relativa «sapienza») viene ad assumere — sulla base della «discrezione» e, soprattutto, dell’«amore» come luce unica delle «operazioni dell’anima» — i’appellativo unico ed inquietante di «retorica», a cui viene attribuito come spazio di pertinenza il «mondo»; e pone già una questione: è la «retorica del mondo» in opposizione ad una «retorica» altra? o la retorica è la speciale dimensione, quantità e qualità dell’umana arte di persuasione, dell’umana e mondana arte della parola? In realtà, giustamente, non è la lingua e i suoi codici o ipercodici ad essere in questione, ma proprio quella tale coincidenza con la «discrezione», «luce» e «amore». Questa è la vera ragione discriminante. D’altra parte, S. Giovanni non annulla o nega la «retórica del mundo»: solo «resti lontana» (lo dice due volte!), si tenga a rispettosa distanza da questa scrittura fatta « per il camminare» (insistito « per il cammino, per il camminare») e «nel camminare», affinché il viaggio ci sia e sia 6 Ibid.: «Amas tú, Señor, la discreción, amas la luz, amas el amor sobre las demás operaciones del alma; por eso, estos dichos serán de discreción para el caminar, de luz para el camino y de amor en el caminar».  Ibid.: «Quédese, pues, lejos la retórica del mundo; quédense las parlerías y elocuencia seca de la humana sabiduría, flaca e ingeniosa, de que nunca tú gustas, y hablemos palabras al corazón bañadas en dulzor y amor, de que tú bien gustas».

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meno arduo e piu scorrevole. Piuttosto, san Giovanni vuol distogliere un certo tipo di retorica (di fatto, negata come ars quanto al discorso di dio, essendo essa «rethorica mundi», non «theologia»), che egli definisce «parlería y elocuencia seca», cioè, flusso verbale inopportuno e dissipato, insostanziale e pettegolo d’aria fritta e, insieme, contraddizione, nel suo esser tale fluido del tutto arido e insufficiente; ben lontano, ricordiamo — dall’«acertar» (‘coglier nel segno’, ‘centrare il bersaglio’) dell’esattezza teresiana, asciutta, questo sí, per conato di precisione e d’adeguatezza. in definitiva, la parola mondana conserva la sua inutile prolissità, tanto grande restando la sua distanza dal proprio e dall’essenziale del divino: e che siano pur rispettate le regole non aggiunge nulla di più; forse, anzi, proprio, l’eccesso fastoso può ben nascondere ed esaltare il vuoto delle proprie evoluzioni fini a se stesse. Il punto, però, è altrove: è tale eloquenza propria della «umana sapienza», che si conferma come di scarsa entità e consistenza, vaga, di fatto, ed esteriore, «flaca e ingeniosa», ‘debole e magra’, dunque, e pur costretta ad essere acuta e scintillante, brillante di vana intelligenza, pura ingegnosità di perfetta espressione — ricordiamo l’«esprit de géometrie»? — ma di corta gittata, anche perché esile e prosciugata degli umori del pathos dell’umano essenziale. al centro, il giudizio divino, espresso senza termini di dubbio ‘che tu mai ami, di cui mai ti compiaci’. dall’altra parte, la certezza dell’ampia approvazione divina: ‘che tu ben ami, che assai ti piace’, la vera misura del linguaggio, appropriata e affabile, concreta e non astratta, attualizzata nelle forme e nella sostanza, e, più, rafforzata come parola parlata, sottratta alle lusinghe e alle normative, certamente immediata e senza inutili giochi dell’ingegno: «parliamo parole». Un invito a un parlar parole e non tropi ricercati, un parlar dell’uso e, soprattutto, in sintonia reale con il cuore. dunque, parlare la parola del cuore, umida di finezza umana e impregnata d’amore. Un’altra endiadi sulla geminazione «en dulzor y amor» (‘di dolcezza e amore’) chiarisce il tono di quelle parole, ma anche la soave intimità del sentimento, che pienamente risponde al nesso inscindibile che è Dio stesso, il quale, soprattutto, «ama lí amore» ... Implicitamente, è il rinvio

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ad altra «sapienza», fondata sull’amore, anzi, amore totale e unico. E qui, potrebbe finire il discorso, una volta identificata la vera parola e la vera sapienza — in realtà, vorremmo tornarvi sopra più avanti con qualche ulteriore conferma; ma ci sembra, intanto, giusto, verificare subito le ragioni e le prove di quella tale Parola e sapienza, le loro funzioni e la responsabilità gravissime, decisive, sul piano del giusto «saber» dello spirito in conformità con il Padre e con il Figlio. come dire, tutto il piano mistico-trinitario della theologia cordis. innanzi tutto, san Giovanni della croce enuncia il compito primo e immediato della parola parlata — e scritta — un compito apparentemente modesto e ausiliario, e pur necessario e affatto trascurabile, anche nei suoi limiti e difficoltà: «togliendo forse gli ostacoli e gli inciampi a molte anime che vi urtano» 8; si tratta di rimuovere, intanto, le ragioni di inciampo: «tropiezos» deriva da interpediare, cioè, ‘impedire il moto bloccando i piedi’ — di fatto, ostacolare la condizione minima, ma essenziale e basilare per avviarsi a un percorso, invece, ben lungo e arduo. Per di più, nel cammino iniziale, nell’avvio del moto e al moto, e il «saber » (‘sapere’) o il «no saber» (‘non sapere’) conseguente, l’«errar», cioè, il rischio di un cammino casuale e vago, senza meta, perché impedito in un labirinto caotico d’infinite strade che deviano e fanno girare a vuoto, con l’aggravante della falsa conoscenza e dell’ingannevole ragione persuasa di verità («pensando che colgono nel segno») sulla guida e sulla meta 9. ed ecco subito le ragioni teologiche di tutto il modello che fonda tutta la theologia cordis: che è seguire il tuo dolcissimo Figlio, nostro Signore Gesù Cristo, e farsi simili a lui nella vita, condizioni e virtù e nella forma di nudità e purezza del suo spirito: 0

qui, «dolcissimo» è il segno della precedente endiadi «dolcezza e amore». la sequela di cristo richiede del resto 8 Ibid.: «quitando por ventura ofendícolos y tropiezos a muchas almas que tropiezan». 9 Ibid.: «pensando que aciertan». 0 Ibid., p. 89: «seguir tu dulcísimo Hijo, nuestro Señor Jesucristo, y hacerse semejantes a él en vida, condiciones y virtudes y en la forma de la desnudez y pureza de su espíritu».

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concreta conformità strettissima e sul piano etico-pratico («vita», «condizioni e virtù»); e una conformità essenziale e definitiva di «nudità e purezza», che, in tutta l’opera di San Giovanni della Croce, è la riduzione alla «nada» (‘niente’) di sé, alla liberazione totale dell’anima da se stessa, uscita per amore dalla propria dimensione per farsi tutta di Cristo e in Lui. Questo è il sublime e chiarissimo cammino verso la «notte oscura» dell’anima. e per san Giovanni — come per santa teresa — tale «parola parlata» del cuore — in accordo con Gv 5, 5 «quia sine me nihil potestis facere» — «perché senza di te non si farà niente, Signore» — è solo di Dio e della sua misericordia, nel suo amore cordiale di Padre («ma dàlla tu, Padre di misericordia»). in una seconda parte vedremo il senso del «volo d’amore» — che è il senso dello «spirito fecondo dell’amore» nel suo libero e generoso itinerario mistico, anzi, di tutta l’«intelligenza mistica», rapporto indissolubile d’amore nel «cammino» allo «sposalizio mistico». in cui consiste l’approdo glorioso dell’anima in dio che, solo a quel punto, in un volo autentico «fuori della carne» (Cfr. Cántico B, Can 13, 6, 631) alla sua propria dimora, «fa intendere» — compie la totale ansia d’intelligenza e di conoscenza — alle «anime amorose» (Cántico B, Prólogo, 1, 571). Ivi si attua l’approdo misterioso della theologia cordis; e c’è lì solo la «semplicità dello spirito d’amore e intelligenza» — non la «retorica del mondo», non la presunzione della «ragione», che ciò che non comprende chiama «dislates» , ‘spropositi’ (che richiama il «disparate» — ‘sproposito’ — di S. Teresa nello stesso senso), cioè, un discorso o un’azione assurda, irrazionale e irragionevole, errata e fuori del bersaglio della verità. La «sapienza mistica» è «per amore» e va oltre l’intelletto umano «perché è a misura della fede nella quale amiamo dio senza intenderlo» 2. e, d’altra parte, san Giovanni, ancora nel Prologo del Cántico B alla Madre ana de Jesús, priora delle Carmelitane Scalze in San José di Granada 3, rassicura apertamente e serenamente la Madre «sebbene a  cfr. Corominas, s. v.: da «deslate» (‘sbandata, azione di precipitarsi confusamente’), probabilmente dall’antico «deslatar» —‘sparare un’arma’ — donde ‘far qualcosa di violento e di ‘); cfr. anche p. 119, n. 44. 2 cfr. Cántico B, Prólogo, p. 52: «porque es a modo de la fe, en la cual amamos a dios sin entenderle». 3 cfr. Ibid., p. 5.

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Vostra reverenza manchi l’esercizio di teologia scolastica con cui s’intendono le verità divine, non le manca quello della mistica, che si sa per amore, in cui non solamente si sanno, ma insieme si gustano» 4. e qui la «sapienza» vera va ben oltre il puro «sapere», va al «gusto» (‘piacere’), alla partecipazione e assimilazione cordiale, alla cordiale esperienza, diretta e totale della verità, nel senso dell’amore. 2. La dinamica, la luce e la sapienza del «volo d’amore» L’amore è, poi, e continuamente, il divino fuoco che anima il «deseo» (‘desiderio’) nelle «gravissime tenebre», nelle «insopportabili tenebre» (Cántico B, Can 13, 1, 629), di cui 1’anima ha sempre maggiore insofferenza, perché coincidono con il «vuoto di dio» che l’anima anela sempre più di colmare. A questo punto, si fanno più frequenti le visite dell’amato «con grande forza d’amore» e l’anima opera sempre più verso l’amore e nell’amore verso la «somma contemplazione», in cui consiste per san Giovanni l’«intelligenza mistica» e la divina «comunicazione», il rapporto intimo e la comunione. e qui, ormai, proprio in questa «alta contemplazione» della «notizia di dio», l’anima sta proseguendo con sempre maggiore intensità il suo «volo fuori della carne» (Cántico B, Can 13, 2, 630), cioè, oltre la «miseria del naturale»; e, precisamente, e finalmente, sulla «via del soprannaturale» con tutte le gradualità stupende e tormentose verso lo «stato di perfezione»: «raptos», «éxtasis», «arrobamientos» (‘rapimenti’), «sutiles vuelos de espíritu» (‘sottili voli di spirito’) con le loro minute e infinite «differenze». Siamo in una zona in cui, con sempre più elevato ardore, proprio il «volo alto e leggero [...] di contemplazione» coincide con l’«amore» e la «semplicità» — le tre proprietà dell’«anima-colomba» nel momento di più sublime concentrazione mistica (lo stesso sentimento, l’unico sentimento uguaglia lo sposo e la sposa) che comprende la stessa Trinità nel tempo e nella sapienza di dio uno e trino. Giustamente, a proposito del «volo» e delle sue implicazioni quanto al tema che ci 4 cfr. Ibid., 3, p. 53: «aunque a V.r. le falte el ejercicio de la teología escolástica con que se entienden las verdades divinas, no le falta el de la mística, que se sabe por amor, en que no solamente se saben, mas juntamente se gustan».

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riguarda, basta leggere la «declaración» che San Giovanni ce ne dà ancora in Cántico B, Can 13, 11, 633: Per il volo intende la contemplazione di quell’estasi che abbiamo detto, e per l’aria intende quello spirito d’amore che produce nell’anima questo volo di contemplazione. e chiama qui questo amore, prodotto dal volo, aria assai propriamente; perché lo Spirito Santo, che è amore, pure si confronta nella divina scrittura all’aria, perché è ispirato dal Padre e dal Figlio. E così come lì è aria del volo, cioè, che dalla contemplazione e sapienza del Padre e del Figlio è ispirato, così qui questo amore dell’anima lo sposo lo chiama aria, perché gli proviene dalla contemplazione e notizia che in quel momento ha di dio: 5

il riferimento va qui alla canzone citata alla strofa 3: «Volgiti, colomba, / che il cervo vulnerato / si affaccia sopra il colle / all’aria del tuo volo, e prende il fresco!»: è l’elemento pneumatico che agisce qui, lo Spirito Santo che è amore del Padre e del Figlio nel volo della «contemplación y sabiduría» del Padre e del Figlio — un’altra geminazione-endiadi in cui l’atteggiamento, il «camino», il percorso, l’oggetto e il soggetto sono l’amore totale, moto e motore coincidono e in sé si attivano e si placano: ancora, «aria del volo» e «aria d’amore» — cioè, il mezzo, la forza che promuove sono amore che trae origine dall’amore e va per amore verso l’amore. Ancora più da vicino spiega san Giovanni i termini strettamente motivati della questione in reciproca attivazione e dinamica intima: «e si deve notare che non dice qui lo sposo che viene al volo, ma all’aria del volo, perché Dio non si comunica propriamente all’anima con il volo dell’anima, che è, come abbiamo detto, la conoscenza che ha di Dio, ma per l’amore della conoscenza» 16.

dunque, possiamo capire, nella prosa aderentissima e fortemente motivata e specificata di San Giovanni della croce, che l’analogia metaforica carica ulteriormente 5 cfr. Cántico B,Can 13, 11, 633: «Por el vuelo entiende la contemplación de aquel éxtasi que hemos dicho, y por el aire entiende aquel espíritu de amor que causa en el alma este vuelo de contemplación. Y llama aquí a este amor, causado por el vuelo, aire harto apropiadamente porque el espíritu santo, que es amor, también se compara en la divina Escritura al aire, porque es aspirado del Padre y del Hijo. Y así como allí es aire del vuelo, esto es que de la contemplación y sabiduría del Padre y del Hijo procede y es aspirado, así aquí a este amor del alma llama el esposo aire, porque de la contemplación y noticia que a este tiempo tiene de Dios le procede» (corsivi nostri). 16 cfr. Ibid., 11, p. 634: «Y es de notar que no dice aquí el Esposo que viene al vuelo, sino al aire del vuelo, porque dios no se comunica propiamente al alma por el vuelo del alma, que es, como habemos dicho, el conocimiento que tiene de dios, sino por el amor del conocimiento».

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i suoi supporti di intensità teologica tutta particolare: il volo d’amore, che è il moto di contemplazione, nell’interno della via soprannaturale dell’anima, è anche indotto, provocato e mosso dall’amore («aria del volo» — il Pneuma) ed è «volo dell’anima», cioè, «la conoscenza che ha di dio», la «semplice notizia di dio», cioè, il minimo dell’appello divino compiuto all’inizio del «camino» sul primissimo abbrivo della «volontà» ; ma, contemporaneamente e soprattutto, come necessaria energia amorosa e attiva, esso volo, in quanto «aria del volo» e «amore della conoscenza». Ma ormai siamo all’approdo della «unione» sul modello del Padre e del Figlio: Perché, così come l’amore è unione del Padre e del Figlio, così è dell’anima con Dio. e da qui deriva che, sebbene un’anima abbia altissime notizie di dio e contemplazione e conoscesse tutti i misteri, se non ha amore, non ne ricava niente 8.

Il linguaggio è fortemente preciso, netto e consequenziale: «Non dice ... ma ... perché ... propriamente ... che è ... ma. Perché così come è ... così è. E di qui deriva che ... sebbene... se non... non... niente...»: esclusivo e schietto è l’oggettivo rilievo sangiovanneo nella sua implacabile impalcatura logica necessaria e invalicabile, dove il rigore del dettato (e della realtà mistica) non viene minimamente intaccato dalla pur rilevante concessione, che, come vedremo subito, viene ad aggiungere altra chiarezza alla natura e ai limiti della conoscenza dell’anima, quando operi in assoluta solitudine, senza il vincolo e il fondamento (ma anche l’energia che la muove e la conduce) dell’amore, la theologia cordis. le «altissime notizie di dio e contemplazione» sono ancora una geminazione e endiadi che, d’altra parte, ci porta già un altissimo grado d’adesione al piano di dio. addirittura, sembra possibile l’approccio totalizzante a «tutti i misteri»; ma crediamo che, appunto, San Giovanni della croce voglia alludere allo sforzo massimo dell’anima, quasi nella disperata tensione di contrapporsi  Cfr. i nostri saggi su San Giovanni qui riuniti; sull’immagine del «volo», cfr. M.J. Mancho, Aproximación a una imagen sanjuanista: El vuelo, in «teresianum». 41 (1990), fasc. II, pp. 381-400. 8 cfr.Cántico B, Can 13, 11, p. 634: «Porque, así como el amor es unión del Padre y del Hijo, así lo es del alma con Dios. Y de aquí es que, aunque un alma tenga altísimas noticias de Dios y contemplación y conociere todos los misterios, si no tiene amor, no le hace nada al caso».

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a se stessa e alle proprie più concentrate energie di conoscenza: ma si parla d’un patrimonio gnoseologico, allora, di un’acquisizione reale e data come possibile, che resta, però, fine a se stessa, almeno nel senso paolino del rinvio a  cor 3, 2: et si habuero prophetiam et noverim mysteria omnia et omnem scientiam, et si habuero omnem fidem, ita ut montem transferam, caritatem autem non habuero, nihil sum 19,

perché il punto estremo non è l’approssimazione, ma l’unione («Per unirsi con Dio»). A questo aspetto è dedicata la «declaración» della canzone 4, che parte dal pur altissimo livello — faticosamente raggiunto («fatiche e ansie sue d’amore»), dalla «colombina dell’anima» salvata dalla «misericordia» del «pio padre Noè», che, con «carità e amore», la mette nell’arca (Gn 8, 8-9). Certamente, il «volo spirituale» indica un «alto stato e unione d’amore», che è approdo laborioso di «molto esercizio spirituale» («sposalizio spirituale»). Ma tutto è mistica operazione condotta da dio e comunicazione eccelsa che placano le «ansie veementi e lamentazioni d’amore» (Can 14, 2, 636), sia pure nei gradi e misure e differenze riservate ad ogni anima. Qui, comunque, nella «divina unione» l’anima l’intende e gusta «abbondanza, ricchezze inestimabili e trova tutto il riposo e ricreazione che desidera, e intende segreti e strane intelligenze di dio» 20; e «gusta meravigliosa soavità e piacere di spirito, trova vera pace e luce divina, e gusta altamente della sapienza di dio, che nell’armonia delle creature e fatti di dio risplendono e si sente piena di beni e aliena e vuota di mali, e soprattutto intende e gode questa inestimabile refezione d’amore, che la conferma nell’amore» 2 (corsivi nostri).

Gusto, ritrovamento, sentimento di sé e intellezione, cioè, la pienezza del rapporto e fruizione tra il soggetto dell’anima e l’oggetto-soggetto (perché è motore e fine),

19 cfr. Ibidem: «caritas numquam excidit, sive prophetiae evacuabuntur, sive linguae cessabunt, sive scientia destruetur. ex parte enim cognoscimus et ex parte prophetamus; cum autem venerit quod perfectum est, evacuabitur quod ex parte est»; «Videmus nunc per speculum in ænigmate, nunc autem facie ad faciem; nunc cognosco ex parte, tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum» 20 cfr. Cántico B, Can 14, 4, 637: «Ve el alma y gusta en esta unión abundancia, riquezas inestimables, y halla todo el descanso y recreación que ella desea, y entiende secretos e inteligencias de dios extrañas».

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cioè, Dio. Tale nesso confermato e compiuto nell’esercizio dell’amore — di cui parlava Santa Teresa (lamentandone la mancanza o l’insufficienza!) — che è «soddisfazione» e «piacere» («satisface grandemente y regala», Can 14, 641) nella «sostanza dell’anima», è il soave compimento di ogni desiderio, l’apprensione del «fischio dell’aria amorosa», cioè, la comprensione «nell’intelletto [del] fischio dell’intelligenza»: 22 Questo divino fischio che entra dall’orecchio dell’anima non solamente è sostanza, come ho detto, ma anche scoperta di verità della Divinità e rivelazione dei segreti suoi occulti 23.

e in questo si compie, lungo il complesso e arcano itinerario mistico sangiovanneo fondato sulla theologia cordis, l’esperienza totale della verità di Dio e in Dio.

2 cfr. ibidem: «gusta allí admirable suavidad y deleite de espíritu, halla verdadero sosiego y luz divina, y gusta altamente de la sabiduría de dios que en la armonía de las criaturas y hechos de dios relucen y siéntese llena de bienes y ajena y vacía de males, y sobre todo entiende y goza de inestimable refección de amor, que la confirma en amor». 22 Cfr. ivi, 14, 641-642: «Y llámale silbo, porque así como el silbo del aire causado se entra agudamente en el vasillo del oído, así esta sutilísima y delicada inteligencia se entra con admirable sabor y deleite en lo íntimo de la sustancia del alma, que es muy mayor deleite que todos los demás». 23 cfr. Ibid.: «este divino silbo que entra por el oído del alma no solamente es sustancia, como he dicho entendida, sino también descubrimiento de verdades de la Divinidad y revelación de secretos suyos ocultos».

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l’itinErario dElla CLARIDAD in sant’ignazio di loyola

. Premessa e ipotesi di lavoro La «via dello spirito» s’identifica rigorosamente, per sant’ignazio di loyola, con il «divino servizio», inteso come vicenda unica e totalizzante per ognuno dei «soldati» della Compagnia di Gesù come per ogni uomo in particolare — e tale cammino deve essere riconosciuto e attuato nel sacrificio fino alla consumazione, con l’aiuto di dio, ma con la chiarezza generosa e assoluta della donazione e dell’amore. Forse è qui tutto il nucleo portante della figura drammatica dell’uomo ignaziano, intimamente molto articolata e complessa, ma sempre protesa verso il nitido, determinato e lucido collocarsi in rapporto profondo — pensiero e azione sullo stesso asse — con se stesso e con dio. Per il singolo che «voglia militare per dio sotto lo stendardo della croce nella nostra compagnia» il servizio va «solamente al signore e alla sua sposa la chiesa sotto il Romano Pontefice»  con i voti espressi e con il comportamento codificato nelle Constituciones, come sempre, in sant’ignazio, minutamente studiato, osservato, ponderato e prescritto. Basterebbe leggere con attenzione la «formula dell’istituto» 2, dove il «peso di questa vocazione» («el peso de esta vocación»), che si manifesta nell’incontro solenne tra la «divina ispirazione» («divina inspiración») e la volontà netta del singolo, si tempera nel «consiglio  citiamo i testi da: ignacio de loyola, Obras completas, Transcripción, introducción y notas de I. iParraGUirre, s. i., y c. de dalMases, S.I., B. A. C., Madrid 19824 (sigla: obras); le traduzioni dallo spagnolo sono nostre. Cfr. Constituciones, Fórmula del Instituto, in obras, p. 435: «quiera militar para dios bajo el estandarte de la cruz en nuestra compañía, que deseamos se distinga con el nombre de Jesús, y servir solamente al señor y a su esposa la iglesia bajo el Romano Pontífice». 2 cfr. Constituciones, Fórmula del Instituto, in obras, p. 435.

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del Signore» («consejo del Señor»), nella consapevolezza esatta del proprio «patrimonio di beni spirituali» («caudal de bienes espirituales»), nella grazia promessa dallo spirito santo e nel suo «aiuto» («auxilio»), nel continuo pagare il «debito grandissimo» («deuda tan grande») della propria appartenenza alla «milizia di Cristo» («milicia de Cristo»). certamente, questa particolare dimensione militante della «via dello spirito» riguarda l’esercizio umile e povero del servizio divino nella sua scelta di aiuto e di «edificazione del prossimo» («edificación del prójimo») e «beneficio delle anime» («provecho de las almas»), appunto, nell’istituto 3; ma, al fondo di tutto ciò vi è la certezza sperimentale della validità e della pienezza di tale tipo di scelta: «è perché abbiamo sperimentato che quella vita è più felice, più pura e più opportuna» 4, ed è esperienza di felicità e di assoluta idoneità e offerta «a maggior gloria divina» («para mayor gloria divina»), «per amore della divina Maestà» («por amor de la su divina majestad»). E in ciò consiste, in definitiva, il fine proprio e unico di ogni uomo che viene in questo mondo. se, naturalmente, si tratta, diciamo ancora una volta, dell’esperienza, di un «nostro modo di vita» («nuestro modo de vida»), che sembra essere riservato solo agli stretti seguaci («se Dio vuole che abbiamo degli imitatori che ci seguano in questo cammino») 5, ciò non toglie nulla alla diretta conoscenza e prova immediata di un «cammino» compiuto in prima persona dal Fondatore, che ne ha percorso tutte le tappe, anche le più ardue e sconcertanti («E siccome abbiamo sperimentato che questa [via] ha molte e grandi difficoltà») 6, per giungere al punto estremo della «chiarezza» nei rapporti interni alla propria anima e all’incontro e impegno decisivo con Cristo («legarsi a Cristo nostro Signore» — «ligarse con Cristo nuestro Señor»). Che è morte al mondo e a se stesso e vita vera e unica in Lui («come chi è morto 3

cfr. obras, Examen Primero y General, c. , [3], pp. 43 e 445. cfr. obras, Ibidem, p. 438: «Y porque hemos experimentado que aquella vida es más feliz, más pura y más apta». 5 cfr. obras, Ibidem, p. 439: «si Dios quiere que tengamos imitadores que nos sigan en este camino». 6 cfr. Ibidem, p. 439: «Y como hemos experimentado que éste [camino] tiene muchas y grandes dificultades». 4

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al mondo e all’amor proprio, e vive a cristo nostro signore soltanto») . Ed è questo, poi, il percorso rigoroso e severo «per la perfezione della sua anima» («para la perfección de su ánima»), un percorso unico di una «vita spirituale» che si oppone al mondo ed è coincidenza totale con le scelte di cristo: «aborrire, in tutto e non in parte, tutto quanto ama il mondo e quanto abbraccia; e ammettere e desiderare con tutte le forze possibili tutto quanto cristo nostro signore ha abbracciato e amato. come i mondani, che vanno dietro al mondo, amano e cercano con tanto impegno e diligenza onori, fama e stima di grande rinomanza sulla terra, come il mondo insegna; così, coloro, che vanno nello spirito e seguono cristo nostro signore, amano e desiderano intensamente tutto il contrario [...]» 8. E se questo è il modello esatto della imitatio Christi proposto da ignazio ai suoi e a tutti coloro che vogliono la perfezione della propria anima, d’altra parte, insistiamo, tale modello è rigorosamente sperimentale, nella stessa verità e durezza, nella vicenda propria del Santo fondatore, che lo ha conosciuto e praticato nella sua fecondità e completezza, passando per primo tra tutte le sofferenze e «santos deseos» (‘santi desiderî’), aporie e umiliazioni, angosce e mortificazioni, nella grazia del Signore ma anche nell’indefettibile ricerca della «mayor abnegación» (‘la più grande abnegazione’), «en todas cosas posibles» (‘in tutte le cose possibili’), «para mayor alabanza y gloria suya» (‘per la sua maggior lode e gloria’). Dunque, un ideale (e un moto di prassi) di rigida oblazione di sé a Dio e di austera e fedele e unica scelta di «dovuto amore e reverenza» («debido amor y reverencia») a Dio e solo a Lui. la vita e l’opera tutta di sant’ignazio di loyola sono lì a dimostrare e a confermare ad ogni istante e ad ogni livello la paziente e sofferta verità della coerenza della sua testimonianza e insegnamento esemplare in un itinerario delicato e faticoso quanto esaltante nel suo approdo e confermato dalle proprie premesse.  cfr. Examen Primero y General, cap. 4°, obras, p. 456: « como quien es muerto al mundo y al amor proprio y vive a cristo nuestro señor solamente». 8 Examen Primero y General, c. IV, 44, pp. 464-65. «aborrecer, en todo y no en parte, quanto el mundo ama y abraza, admitir y desear con todas las fuerzas posibles quanto cristo nuestro señor ha amado y abrazado. como los mundanos que siguen al mundo y buscan con tanta diligencia honores, fama y estimación de mucho nombre en la tierra, como el mundo les enseña; así los que van en spíritu y siguen de veras a cristo nuestro señor, aman y desean intensamente todo lo contrario».

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I punti essenziali della figura e della esperienza di sant’ignazio si colgono tutti nell’importantissima Autobiografia, dettata o detta fra il 553 e il 555 al P. luis Gonçalves da Cámara 9, anche e soprattutto per le pressioni di uno dei primi seguaci del Santo, il P. Jerónimo nadal 0, che si rendevano conto ambedue — come dice il P. dalmases  — di come la «vita di sant’ignazio fosse il fondamento della compagnia e raccontarla era veramente fondare la compagnia. il nuovo ordine non doveva fare altro che seguire le orme del Fondatore». Gli undici brevi capitoli scritti in lingua spagnola (meno gli ultimi 4 scritti in italiano) 2, pur sommarî ed essenziali dell’itinerario biografico-spirituale di Sant’Ignazio — saranno da porre a confronto, naturalmente, il Diario espiritual (1544-45), il testo degli Ejercicios (1555, ma composti e sperimentati a partire dal 1522 fino al 1541) 3 e le stesse Constituciones del 1539-40 — contengono, immersi e attivi nel testo e tessuto verbale colto dalla viva voce del Santo e già mediato dall’ascolto, ricezione e trascrizione nel linguaggio dello scriba interessato, appunto, il P. Cámara, i parametri funzionali e i centri dinamici della figura ignaziana in tutte le sue linee d’azione e moti espressivi dell’atteggiamento generale della vita (pensiero e azione, ma anche sentimento e rapporto con gli altri e con Dio). ebbene, operando strettamente sul linguaggio e in base ad esso — sempre tenendo conto, naturalmente, di un margine di possibile scarto (mancanza di altri documenti linguistici di detto scriba, ma, anche, plausibilità d’influsso linguistico del Santo sullo stesso P. Gonçalves...) — ci sembra possibile istituire una serie di riscontri coerenti e non casuali, sinceramente suscettibili di comporre un ritratto interessante di Ignazio di Loyola, così come il modello generale della sua spiritualità (per sé e per gli altri). La garanzia indiscutibile della validità dell’ipotesi si colloca, d’altra parte, nella perfetta coincidenza del modello repe cfr. obras, Introducción del Dalmases, pp. 67-81. cfr. Ibidem, p. 68.  cfr. Ibidem, p. 69 e n. 17: «mi ordinò [il P. Nadal] che importunassi il Padre, dicendomi molte volte che in nulla il Padre poteva far più del bene alla compagnia che facendo questo [raccontar la sua vita], e che questo era fondare veramente la compagnia». 2 cfr. Ibidem, p. 2. 3 cfr. obras, pp. 8 e segg. 9

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rito nell’Autobiografia con le fasi omologhe offerte, come si diceva, dal Diario — autografo —, dai nuclei portanti degli Ejercicios, nonché dalle stesse Constituciones. come a dire che, in tutta la produzione conosciuta — e sono da aggiungere anche le lettere — è lo stesso Sant’Ignazio, sempre e comunque, ad offrire nella sua pienezza integrale, modi, percorsi ed esiti e significato spirituale. il fatto che ’Autobiografia — forse, non casualmente — lacunosa, ma nemmeno limitata nelle sue narrazioni — sia, in definitiva, l’ultima testimonianza — scarna — della vita e del modo operativo (e mentale e dell’anima) ignaziani, anche in prospettiva rispetto all’opera totale e a breve scadenza dalla morte di sant’ignazio, ha un suo indubbio significato riassuntivo e definitorio delle ragioni profonde del suo valore umano e spirituale. ci proviamo, pertanto, a postulare i centri fondanti del sistema ignaziano, ben consapevoli, sicuramente, della pressoché impossibile pretesa di uniformare una storia singolare di un uomo (e di un santo) come Ignazio di Loyola attorno a dei semplici supporti verbali che, tuttavia, conservano tutto il loro spessore e lo rimandano alle possibili energie semantiche (vitali e spirituali) tutte incarnate in quel grandissimo esemplare umano e di santità. Siamo, però, ben convinti della ricchezza del linguaggio come unica prova effettiva e storica della qualità del suo portatore, qualunque ne fosse, poi, la realtà esistenziale, nonché le intenzioni e le implicazioni psicologiche ed interiori generali, che eseguivano e manifestavano nei fatti quella loro simbolica trascrizione. orbene, crediamo, a questo punto, di individuare e di indicare in alcuni punti generali il modello ipotizzato: il rapporto tra desiderio e passione; la specularità e il controllo; il metodo dell’«examen» e gli «esercizî»; il nucleo sperimentale della fondazione dell’uomo ignaziano: le «differenze» e «varietà»; la «determinazione»; la «chiarezza». Beninteso che questi aspetti, per comodità di analisi separati, vanno invece considerati integrati e mutuamente compatti nell’unità e pienezza del valore della persona, tanto più se eccezionale come quella di Sant’lgnazio di loyola.

2. Il rapporto tra desiderio e passione

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il tono dell’Autobiografia, molto più stringente nei primi capitoli e più densificato sulla figura del protagonista che sui fatti — ridotti, soprattutto, alla ferita di Pamplona, alla malattia e suo corso drammatico fino alla conversione — è già dato dalla prima frase di apertura: Fino a ventisei anni d’età fu uomo dedito alle vanità del mondo, e, principalmente, si compiaceva dell’esercizio delle armi, con un grande e vano desiderio di guadagnarsi degli onori 4.

il periodo si sostiene, deliberatamente, sul vuoto e sul nulla («vanità, si compiaceva» — nel senso di ‘godimento, diletto, piacere’, ecc. come moto superficiale; «principalmente» sottolinea una scelta primaria, decisiva di effondersi in quelle «vanità», «vano»); ma compaiono già, sia pure in contrasto non intenzionale, degli elementi fondanti di un temperamento e di un destino. o, piuttosto, di una misura precisa di natura umana: «uomo dedito», «esercizio», «grande desiderio di guadagnare»: cioè, la totalità dell’impegno, la devozione concreta e dedizione ai fatti, il desiderio come spinta forte e proposito attivo da riportare vincente, con esiti positivi di bilancio di forze impegnate senza risparmio. che poi si abbini il piacere e la compiacenza non fa altro che aggiungere partecipazione soddisfatta alla dedizione — come di chi va alle cose che vuole e che gli piacciono fino in fondo —; «honra» (‘onore’) nella Spagna del XVI secolo era valore impegnativo, anche se mescolato all’orgoglio virile e di casta per incidenza sul piano personale e sociale. i mezzi impiegati a tutelare e a realizzare i propositi sono, inoltre, l‘«esercizio» personale, cioè, la prassi attiva — ed «esercizio» assumerà, poi, un valore ben speciale —; la persuasione («espose tante ragioni [...] che tuttavia (lo) persuase») 5, che si traduce, appassionata e capace, sul piano visibile ed effettivo di convinzione carismatica per gli altri («contro il parere di tutti» «essendo tutti del parere» — «contra parecer de todos», «siendo todos de parecer») ad oltranza, anche contro l’evidenza e la logica 4 cfr. Autobiografía, cap. i, , in obras, p. 90: «Hasta los veintiséis años de su edad fue hombre dado a las vanidades del mundo, y principalmente se deleitaba en ejercicio de armas, con un grande y vano deseo de ganar honra». 5 Ibidem, p. 90: «él dio tantas razones [...]que todavía lo persuadió».

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fino all’impossibile («vedendo chiaramente che non si potevano» — «por ver claramente que no se podían»): «traevano coraggio e conforto dal suo animo» («se conhortaban con su ánimo y esfuerzo») conferma bene come la forza d’Ignazio fosse concreta e manifesta fino alla visibile plasticità dei suoi valori proprî e purissimi. l’animo ardente d’ignazio si rivela nei minimi esponenti delle sue abitudini ed interessi, sempre raccontati ed evidenziati al lettore (e ascoltatore) con intento penitenziale (ed esemplare per il giudizio di autodenuncia e confessione aperta senza nessun commento): p. es., «E siccome era molto dedito a leggere libri mondani e falsi» (p. 92) 16, dove 1’accento per noi va più incisivamente sulla forte inclinazione a un certo tipo di lettura, sia pure temperato, come vedremo, dalla prevalente spinta verso l’azione e l’introspezione. «leggendo i quali [libri] molte volte, provava una certa passione per ciò che vi trovava scritto. Ma, smettendo di leggere, alcune volte indugiava a pensare» (p. 92): qui, appare già il rapporto stretto e dialettico tra passione e pensiero. C’è sempre in Ignazio, in questa fase, il contrasto tra vanità del contenuto — per mancanza di prospettiva (non per mancanza d’impulso fino al limite delle forze) — e la totale e persistente occupazione del desiderio: «le cose del mondo», «di molte cose vane che gli si presentavano, una si era particolarmente impadronita del suo cuore tanto che poi restava confuso» (p. 92): 16 «Y porque era muy dado a leer libros mundanos y falsos»; «Por los cuales leyendo muchas veces, algún tanto se aficionaba a lo que allí hallaba escrito. Mas, dejándolos de leer, algunas veces se paraba a pensar»; «de muchas cosas vanas que se le ofrecían, una tenía tanto poseído su corazón, que se estaba luego embebido»; «Y estaba con esto tan envanecido, que no miraba cuán imposible era poderlo alcanzar»; «aquellas hazañas mundanas que deseaba hacer»; «Duraban [...] estos pensamientos»; «en ellos [...] se paraba grande espacio»; «deteniéndose siempre»; «se le ofrecían los deseos de imitar los santos»; «Mas todo lo que deseaba hacer [...] con tantas disciplinas y tantas abstinencias, cuantas un ánimo generoso, encendido de Dios, suele desear hacer»; «estos santos deseos que tenía»; «deseando ya ser sano del todo para se poner en camino»; «las penitencias que andando por el mundo deseaba hacer»; «resfriábasele el deseo de la Cartuja»; «todo estaba embebido en la ida»; «del buen deseo que tenía»; «deseos de ir a buscar el moro y darle de puñaladas [...] y perseverando mucho en el combate destos deseos»; «deseado vestido»; «la historia de un santo, el cual, para alcanzar de dios una cosa que mucho deseaba, estuvo sin comer muchos días hasta que la alcanzó»; «se le representó delante carne para comer, como que la viese con ojos corporales, sin haber precedido ningún deseo della»; «deseaba tener tres virtudes: caridad y fe y esperanza»; «le vino grande deseo de tornar a visitar el monte Olivete»; «con éste deseaba estar para aprender, y para poderse dar más cómodamente al espíritu, y aun aprovechar a las ánimas»; «En esto mostráis que no deseáis de estar presa por amor de Dios»; «viniéronle deseos de irle a visitar y ayudar».

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proprio il divario di pienezza tra cuore e mente conferma l’impegno anche fisico fino allo spasimo con cui Ignazio si dedicava alle cose che l’attraevano di più; «si compiaceva tanto in questo che non si accorgeva di quanto impossibile fosse il poterlo raggiungere e conseguire» (p. 92): «si compiaceva», «non s’accorgeva» — tra gusto e distrazione in totale dipendenza s’intensificava in Ignazio la vastità profonda dell’immersione senza avviso di concretezza e realizzazione, pur importanti, se ribadite da ben due verbi d’attuazione e d’approdo; «nelle imprese mondane che desiderava compiere» (p. 93): ancora l’elemento diversivo («mondane») ma non solo legate al desiderio, bensì all’adempimento del desiderio... Vedremo che l’atteggiamento d’ignazio, la sua personale disposizione saranno sempre gli stessi di tutta una vita: l’intensità d’applicazione, la durata senza tempo e limiti supremi di disponibilità e propositi anche fisici di riversarsi su tutto quello che le cose o la mente o l’anima gli venivano offrendo: «duravano [...] questi pensieri», «in essi [...] si tratteneva molto tempo», «trattenendosi sempre», p. 93. Inoltre, Ignazio mirava al riconoscimento pieno in sé dei fondamenti essenziali istituzionali della vita e dell’anima, sempre quanto all’azione, ai modelli di questa, con umiltà e perseveranza al di là dei fini personali e già opportunamente orientati verso gli altri (perdono, aiuto ed assistenza, accettazione delle sofferenze, rinunce al desiderio stesso, se non era necessario). Pure in lui era forte il desiderio e deciso, nei casi giusti, ’abbandono ad esso senza riserve, per amore e per condizione naturale; «gli si presentavano i desiderî d’imitare i santi» (p. 96); «ma tutto quello che desiderava fare [...] con tante discipline e tante astinenze, quante un animo generoso, infiammato di Dio, è solito desiderare di fare» (p. 96); «questi santi desiderî che aveva» (p. 96); «desiderando ormai essere completamente sano per mettersi in cammino» (p. 97); «le penitenze che desiderava fare in giro per il mondo» (p. 97); «gli si raffreddava il desiderio della Certosa»; «era tutto preso dalla partenza»; «il buon desiderio che aveva» (p. 97); «desiderio di andare a cercare il moro per dargli le pugnalate [...] e perseverando molto nella lotta contro questi desiderî» (p. 99); «vestito desiderato» (p. 101); «la storia di un santo, il quale, per ottenere da dio una cosa molto desiderata, stette senza mangiare per molti giorni fino a che l’ottenne»

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(p. 105); «gli si rappresentò davanti per mangiare, quasi la vedesse con gli occhi del corpo, senza che nessun desiderio di essa l’avesse preceduto» (p. 106); «desiderava avere tre virtù: carità, fede e speranza» (p. 110); «gli venne un forte desiderio di tornare a visitare il monte Oliveto» (p. 117); «con lui desiderava stare per imparare, e per potersi più proficuamente affidare allo spirito e anche per essere utile alle anime» (p. 122); «in questo dimostrate di non desiderare di voler stare in prigione per amor di Dio» (pp. 131-132); «gli venne il desiderio di andare a fargli visita e ad aiutarlo» (p. 136). E non è, qui, tanto importante, certamente, il contenuto del desiderio né il desiderio stesso, quanto la sua urgenza, o scatto, che è moto operativo e che si proietta nella vita del «pellegrino» con i caratteri della passione oltre i limiti del possibile e della «necessità»: ed è quasi la fissità di un cammino solitario ed esclusivo che non sembra distrarsi e non tener conto se non del proprio proseguire, dell’instancabile procedere per la strada intrapresa, senza badare ad altro, senza differenza di sacrificio, valutazioni e considerazioni alternative per una garantita e invalicabile continuità interiore, sempre mirata con l’entusiasmo fervido di volontà, servizio unico a dio, distacco dalle ragioni esterne del vivere e rigorosa conservazione della mente e dell’anima unificate nella via solitaria della tenacia e della tutela del progetto ascetico: «non guardava quanto impossibile fosse il poterlo ottenere» (p. 92); «restava pieno di gioia e di allegria. Ma non vi badava, né si fermava a ponderare questa differenza» (p. 93); «non badando ad altre circostanze [...]» (p. 96); «mai più manifestò il ben che minimo consenso in cose che riguardassero la carne» (p. 96); «Egli, non curandosi di niente, perseverava nella sua lezione e nei suoi buoni propositi; e tutto il tempo che conversava con quelli di casa, lo spendeva tutto in cose di dio, e con ciò procurava un buon frutto per le loro anime» (p. 96); «non badava affatto a ciò» (p. 97); non badando a nessuna cosa interiore» (p. 99); «senza badare a nessun’altra più particolare circostanza» (p. 99); «E siccome aveva tutto l’intelletto pieno di quelle cose» (p. 100); «pensando ai suoi propositi» (p. 100); «fino a quel momento aveva perseverato, sempre, quasi nello stesso stato interiore» (p. 103); «anche nel parlare dimostrava molto fervore e molta volontà di proseguire al servizio di Dio» (p. 104); «perse-

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verava nelle sue sette ore di preghiera in ginocchio» (p. 105); «e tutta la settimana perseverò senza mettere nulla in bocca» (p. 105); «oltre alle sue sette ore di orazione si occupava di aiutare alcune anime che lo andavano a cercare, in cose spirituali, e la maggior parte del giorno che aveva libero la trascorreva pensando a cose di Dio, ciò che aveva letto e meditato in quel giorno» (p. 106); «E perseverando nell’astinenza di non mangiar carne, e restando ben saldo in ciò, che per nessuna maniera pensava di cambiare» (p. 107) . l’immagine ignaziana, dunque, lungo tutto il percorso dell’Autobiografia, risulta chiaramente concentrata e focalizzata nella rigorosa e compatta manifestazione della sua coerenza e forza d’animo, perseveranza e fermezza, sullo stesso piano dell’intensità dei desiderî, sull’immediata risposta di tutta la persona, mente e corpo, alla rigida e severa impostazione di strettissima fedeltà e coerenza rispetto all’intenzione e principî spirituali. 3. La specularità e il controllo Forse, l’aspetto principale dell’Autobiografia, almeno nella prima parte, è il rilievo dato alla vita speculativa interiore, e il continuo riferimento al pensiero nelle sue più varie sfaccettature e iniziative (mentre la II parte va più direttamente all’azione) della mente protesa ad accogliere i riflessi del rapporto con le cose e con se stesso del protagonista ignazio. attente descrizioni delle conseguenze esistenziali e dell’anima orientano il comportamento e le prese di coscienza della propria identità presente e ri «no miraba cuán imposible era poderlo alcanzar»; «quedaba contento y alegre. Mas no miraba en ello, ni se paraba a ponderar esta diferencia»; «no mirando más circunstancias»; «nunca más tuvo ni un mínimo consenso en cosas de carne»; «Él, no se curando de nada, perseveraba en su lección y en sus buenos propósitos; y el tiempo que con los de casa conversaba, todo lo gastaba en cosas de Dios, con lo cual hacía provecho a sus ánimas»; «no miraba tanto en ello»; «no mirando a cosa ninguna interior»; «sin mirar otra ninguna más particular circunstancia»; «Y como tenía todo el entendimiento lleno de aquellas cosas»; «pensando en sus propósitos»; «Hasta este tiempo había perseverado cuasi en un mesmo estado interior»; «todavía en su hablar mostraba mucho hervor y mucha voluntad de ir adelante en el servicio de Dios»; «perseveraba en sus siete horas de oración de rodillas»; «y toda la semana perseveró sin meter en la boca ninguna cosa»; «Ultra de sus siete horas de oración, se ocupaba en ayudar algunas almas que allí le venían a buscar, en cosas espirituales, y todo lo más del día que le vacaba daba a pensar en cosas de dios, de lo que había aquel día meditado o leído»; «Y perseverando en la abstinencia de no comer carne y estando firme en ella, que por ningún modo pensaba mudarse».

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costituzione della propria figura e vicenda dopo la ferita di Pamplona. non si tratta, evidentemente, di un ritratto limitato alla delineazione dei tratti o dei moti psicologici; vogliam dire che il rilievo dato all’interiorità mentale, oltre a porsi come un’abitudine — «e facendolo così come pensò»; «pensando, come era sempre solito fare»; «andò pensando ai suoi propositi, com’era suo costume» (p. 100) 8 — significa, soprattutto, l’accento posto su una prassi e un abito metodologico, una ragione profonda, che troveremo, poi, più ampiamente motivata come acquisizione naturale e condizione di una struttura particolare della persona di Sant’Ignazio (sarà, più avanti, un vero corollario ed estrinsecazione anche verbale della mentalità ignaziana). Non è affatto casuale, dunque, il grande rilievo dato all’examinar, examinarse (per sé e per gli altri), che, nel metodo e nei direttôrî degli Esercizî, saranno il centro del sistema formativo e riconoscimento di sé in Dio, che è alla base della spiritualità ignaziana. Ma vediamo come lo stesso sant’ignazio ricostruisce i propri processi: Molte volte leggeva quei libri, e si appassionava alquanto a ciò che in essi trovava scritto. Ma, smettendo di leggerli, a volte si tratteneva a pensare alle cose che aveva letto; altre volte alle cose del mondo che prima era solito pensare. e fra le molte cose vane che gli si presentavano, ce n’era una che si era impossessata talmente del suo cuore, che poi rimaneva totalmente assorto a pensarvi per due, tre e quattro ore senza accorgersene, immaginando che cosa avrebbe dovuto fare al servizio di una signora, i mezzi di cui si sarebbe servito per potersi recare nel paese dove essa si trovava, le espressioni, le parole che le avrebbe detto, i fatti d’arme che avrebbe compiuto al suo servizio. e si distraeva a tal punto con queste fantasie vane, che non badava quanto fosse impossibile poterle realizzare (p. 92) 19.

Siamo ancora nell’ambito dell’«envanecimiento» (‘infatuazione’) delle «cose del mondo» e del «servizio di una

8 «y haciéndolo así como pensó»; «pensando, como siempre solía»; «según su costumbre, pensando en sus propósitos». 19 «Por los cuales leyendo muchas veces, algún tanto se aficionaba a lo que allí hallaba escrito. Mas, dejándolos de leer, algunas veces se paraba a pensar en las cosas que había leído; otras veces en las cosas del mundo que antes solía pensar. Y de muchas cosas vanas que se le ofrecían, una tenía tanto poseído su corazón, que se estaba luego embebido en pensar en ella dos y tres y cuatro horas sin sentirlo, imaginando lo que había de hacer en servicio de una señora, los medios que tomaría para poder ir a la tierra donde ella estaba, los motes, las palabras que le diría, los hechos de armas que haría en su servicio. Y estaba con esto tan envanecido, que no miraba cuán imposible era poderlo alcanzar».

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signora»... ma il meccanismo è lo stesso, essendo ancora esterno il fine... Dalla lettura alla riflessione, dal rilievo mentale alla passione profonda e totalizzante e, infine, all’abbandono all’immaginazione senza limiti e affollata di prospettive verso l’azione; ancora più determinante il seguito variato dell’evento mentale — lì, subentra anche la percezione della «variedad», altro punto importante, se non decisivo, della scelta definitiva ignaziana del proprio stato e vocazione: e ancora lo soccorreva nostro signore, facendo in modo che a questi pensieri ne succedessero degli altri, che nascevano dalle cose che leggeva. Perché, leggendo la vita di nostro signore e dei santi, si tratteneva a pensare, ragionando con se stesso [...]. E così discorreva tra sé di molte cose che gli sembravano buone [...]. Ma tutto il suo discorso era dire fra sé e sé [...]. Duravano anche questi pensieri per un bel po’ di tempo [...] e questa successione di pensieri così diversi gli durò per moltissimo tempo, mentre si tratteneva sempre nel pensiero che ritornava [...] che gli si offrivano alla fantasia (p. 93) 20 (corsivi nostri).

Va altresì rilevato che la «riflessione» coincide con l’«esperienza» dei pensieri stessi e delle conseguenze spirituali, appunto, la «diversità» (fra l’altro, anch’essa al centro degli Esercizî, così come dell’itinerario nel Diario espiritual). Il «pensiero» può essere in rapporto dialettico con i «desiderî»: «E già andava dimenticando i pensieri passati con questi santi desiderî che aveva», (p. 96): 2 «pensava [...] desiderando → azione» tornava a pensare → desiderava [...] si raffreddava il desiderio [...] era tutto assorto → fare; l’azione stessa pensata e proposta è pacificante senza approfondimenti oltre l’«intenzione» da mettere in pratica: Pensava molte volte al suo proposito, desiderando ormai di essere completamente sano per mettersi in viaggio (p. 97); tornava a pensare alle penitenze che desiderava fare

20 Cfr. par. 5; «Todavía nuestro Señor le socorría, haciendo que sucediesen a estos pensamientos otros, que nacían de las cosas que leía. Porque, leyendo la vida de nuestro señor y de los santos, se paraba a pensar, razonando consigo [...] Y así discurría por muchas cosas que hallaba buenas [...] Mas todo su discurso era decir consigo [...] Duraban también estos pensamientos un buen vado [...]y esta sucesión de pensamientos tan diversos le duró harto tiempo, deteniéndose siempre en el pensamiento que tornaba [...] que se le ofrecían a la fantasía». 2 «Y ya se le iban olvidando los pensamientos pasados con estos santos deseos que tenía». 22 «Pensaba muchas veces en su propósito, deseando ya ser sano del todo

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andando per il mondo, il desiderio gli si spegneva [...] perché era tutto assorto nella partenza che pensava di realizzare presto (p. 97, corsivi nostri) 22.

Nel cap. II, p. 99, ricompare il pensiero sull’evento appena vissuto con «desiderio» d’azione, «lotta contro questi desiderî» e totale riflessione fino alla stanchezza («dopo essersi stancato di esaminare quello che sarebbe stato bello fare», pp. 99-100) 23 con rapida determinazione ed esecuzione («E facendo così come aveva pensato»). Spesso, il pensiero si fa parola interna: «era dire fra sé e sé» (p. 93); «a dire fra sé e sé» (p. 104); «dicendo fra sé e sé» (p. 105); «Venne pensando fra sé e sé» (p. 106); «molte volte ha pensato fra sé e sé» (p. 108), ecc.24; ancora, il pensiero diventa desiderio («Pensava a volte che gli sarebbe stato di rimedio se il confessore gli ordinasse», p. 104) 25, pur senza diventare azione in quanto dipendente da altri. Un esempio più notevole del rapporto tra pensiero e desiderio si coglie nell’esempio di un santo che, per ottenere da dio una cosa che molto desiderava, stette senza mangiare fino a che non l’ottenne: e tutto ciò è cosa che matura a lungo nel pensiero («gli venne di pensare»; «e stava pensando a ciò per un bel pezzo») 26. anzitutto, un complesso di situazioni (scrupoli, tormenti, intensa preghiera, esercizî, veglie notturne, gridi, invocazioni, suppliche a Dio, ecc.): rientra tutto nell’ambito del Pensiero — «estando en estos pensapara se poner en camino»; «tornaba a pensar en las penitencias que andando por el mundo deseaba hacer, resfriábasele el deseo [...] porque todo estaba embebido en la ida que pensaba presto hacer». 23 «después de cansado de examinar lo que sería bueno hacer»; «y haciéndolo así como pensó»; «era decir consigo»; «y a decir consigo»; «diciendo consigo mismo»; «vino a pensar consigo». 24 «muchas veces ha pensado consigo»; Cfr. obras, Autobiografía (sigla: Aut.), V, 50, 119: « siempre vino consigo pensando qué haría» — «sempre veniva pensando tra sé che cosa farebbe»; Aut., Vi, 55, 22: «Y ansí, pensando muchas veces sobre esto, decía consigo [...] y así poco a poco vino a conoscer que aquello era tentación»- «E così, pensando molto a queste cose, diceva tra sé e sé [...] e così a poco a poco venne a conoscere che quella era una tentazione»: si vede bene qui la dinamica del pensiero che si fa monologo interno fino alla conoscenza dei fatti che accadono; Aut., VIII, 75, 134: «Y hacía esta consideración consigo y propósito, en el cual hallaba consolación, imaginando» — «E faceva questa considerazione tra sé e sé e un proposito, nel quale trovava consolazione, immaginando [...]»: qui, ancora, si passa dal pensiero all’impulso all’azione o meglio all’immaginazione di una circostanza. 25 «Pensaba algunas veces que le sería remedio mandarle su confesor». 26 «le vino al pensamiento»; «Y estando pensando en esto un buen rato». 2 «aun de ir a los oficios divinos, y de hacer su oración de rodillas».

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mientos» (‘stando in questi pensieri’) — fino a coincidere con gli esercizî. Vogliam dire che le pratiche e i travaglî, ma anche i ripiegamenti interiori, le confessioni, i modi di preghiera vengono a coincidere con «los sólitos ejercicios» (p. 105); («l’andare agli uffici divini, il fare le sue orazioni in ginocchio», ecc.) 2, essendo l’esercizio del pensiero il complesso articolarsi dell’esame con infiniti moduli anche comportamentali di perfetta integrazione. ci troviamo, qui, nel pieno del capitolo iii dell’Autobiografia, in cui si svolge il dramma interiore ignaziano tra scrupoli, astinenze e confessioni, ricordo dei peccati e loro meditazione in necessaria continuità: «e così come cosa che si andava avviando, andava pensando, di peccato in peccato, al tempo passato, sembrandogli di dover essere obbligato un’altra volta a confessarli. Ma alla fine di questi pensieri gli venne un gran disgusto della vita che faceva, con forte impulso di smetterla; e con ciò il Signore volle che si risvegliasse come da un sogno» (p. 106) 28; è richiesto, come si vede, l’intervento divino, con svolgimento interno dalla riflessione alla costrizione al proposito verso l’azione, che è proprio il normale gettito dinamico a cui gli esercizî e l’esame del pensiero possono condurre l’anima 29. L’episodio è protratto lungamente — comprende, fra l’altro, il «pensare a cose di dio» e una lunga catena di riflessioni proprie degli esercizî: «venne pensando fra sé e sé [...] e qui cominciò a dubitare [...] venne a concludere tra sé e sé [...] e lo fece» (p. 106) 30. non sembra casuale che 28 «y así, como una cosa que se iba enhilando, iba pensando de pecado en pecado del tiempo pasado, pareciéndole que era obligado otra vez a confesallos. Mas en fin de estos pensamientos le vinieron unos desgustos de la vida que hacía, con algunos ímpetus de dejalla; y con esto quiso el Señor que despertó como de sueño». 29 Circa gli esiti della dinamica e fine degli Esercizî, cfr. ancora la ª Anotación, p. 207: «La primera anotación es que, por este nombre, exercicios espirituales, se entiende todo modo de examinar la consciencia, de meditar, de contemplar, de orar vocal y mental, y de otras espirituales operaciones [...] todo modo de preparar y disponer el ánima para quitar de sí todas las affecciones desordenadas, y después de quitadas para buscar y hallar la voluntad divina en la disposición de su vida para la salud del ánima» (‘La prima annotazione è che, con questo nome, esercizî spirituali, s’intende qualsiasi modo di esaminare l’anima, di meditare, di contemplare, di pregare vocalmente e oralmente, e di altre operazioni spirituali [...] ogni modo di preparare e disporre l’anima per togliere da sé tutte le affezioni disordinate e, dopo averle tolte, per cercare e trovare la volontà divina nella disposizione della propria vita per la salvezza dell’anima’): non si tratta solo di complesse operazioni spirituali o della vita interiore, ma anche dell’orientamento della vita pratica, naturalmente. 30 «vino a pensar consigo [...] y por aquí empezó a dudar [...] y vino a concluir consigo [...] y lo hizo así».

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l’episodio degli scrupoli (basilare nell’itinerario verso la pienezza della «claridad») sia così ampiamente raccontato se non per dimostrare una volta di più il valore determinante per sant’ignazio della coscienza e travaglio delle «variedades», il tormento e la riflessione, l’esame, l’azione e, soprattutto, la «determinazione», la quale, come vedremo, sarà l’elemento essenziale delle svolte più decisive nella spiritualità ignaziana. Come, poi, per Santa Teresa e san Giovanni della croce. in altre circostanze il pensiero è un evento a sé stante («gli veniva un pensiero, che faceva 4 orazioni alla Trinità», p. 107) 3, attorno al quale si muove o meno una reazione interiore («Ma questo pensiero gli dava poco o nessun travaglio, come di cosa di poca importanza», ibid.) 32; più elaborato e assillante e incisivo il primo e più inquieta la seconda: «e in questo gli veniva un pensiero che gli diceva che era giusto, e con ciò provava tanto travaglio che non provava altro che ripugnanze a mettersi di fronte ai proprî peccati; e con questo pensiero aveva più travaglio che con la febbre stessa; ma non poteva vincere quel pensiero per quanto si tormentasse per vincerlo» (p. 109) 33. Ma anche questo testo rappresenta bene il potere di un grumo di pensiero nel fondo dell’anima ignaziana a determinare una crisi intensa quanto e più di una reale malattia fisica e con una lotta e una nausea morali capaci di provocare una vera e propria rivoluzione dell’anima, quanto più essa si sente vicina al giudizio finale. E, tuttavia, essa finisce per predisporsi a tale situazione con la ricerca dello stesso pensiero sul versante della morte... a questo proposito, il dettatore dell’autobiografia cita altri episodî con reazioni diverse, dalla perdita di timore alla profonda contrizione, al pensiero volontario sulla propria fine con evidente maturazione e affinamento del rapporto con l’anima in una circostanza grave di pericolo o di infermità seria 34. nel secondo episodio (cfr. p. 110) al pensiero s’accompagna un vero e pro«le venía un pensamiento, que cómo hacía 4 oraciones a la Trinidad». «Mas este pensamiento le daba poco o ningún trabajo, como cosa de poca importancia». 33 «Y en esto le venía un pensamiento que le decía que era justo, con el cual tomaba tanto trabajo que con la misma fiebre; mas no podía vencer el tal pensamiento por mucho que trabajaba por vencerle». 34 cfr. obras, Aut., 3, 33, 109: « Otra vez, veniendo de Valencia para Italia por mar con mucha tempestad, se le quebró el timón a la nave, y la cosa vino a 3 32

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prio esercizio, certamente sommario nella sua dinamica, ma decisivo di consapevolezza e di limpida considerazione di se stesso da parte del santo. Qui, il particolare tema fa sì che il pensiero rappresenti la reale assialità che Ignazio dimostra sempre con le ragioni essenziali della sua vita interiore; e non può essere per caso, diciamo ancora una volta, che il narratore si preoccupi tanto della sua autobiografia interiore e del pensiero, accanto e, nei primi tempi, con prevalenza sui puri fatti della cronologia attiva. 4. Il metodo dell’«examen» e gli «esercizî» Si è già parlato prima, come di un corollario, dell’impostazione e funzionalità pratica e metodologica dell’«esame» all’interno di una natura speculativa e fortemente portata alla riflessione interiore; anche se, nel fondo, il modello di Sant’lgnazio è indubbiamente e principalmente attivo, per sé e verso gli altri. E, ancora una volta, all’interno del prezioso testo dell’Autobiografia — sempre da sovrapporre alle altre opere (dagli Esercizî alle Constituciones al Diario espiritual alle lettere) da considerare, per altro, come sui generis senza carattere precipuo primario, ma funzionale, di letterarietà — troviamo le linee portanti di un comportamento esistenziale suscettibili, non solo di fornire una chiave di lettura dell’opera globale dagli scritti alla Compagnia di Gesù, ma, soprattutto, di costituirsi come esperienza autentica e profonda, totalizzante, sulla términos que, a su juicio y de muchos que venían en la nave, naturalmente no se podía huir de la muerte. En este tiempo, examinándose bien y preparándose para morir, no podía tener temor de sus pecados, ni de ser condenado; mas tenía grande confusión y dolor, por juzgar que no había empleado bien los dones y gracias que Dios Nuestro Señor le había comunicado» (‘Un’altra volta, mentre veniva da Valencia verso l’ltalia per mare con una gran tempesta, si spezzò il timone della sua nave e le cose si misero assai male a tal punto che, a suo giudizio e di molti che venivano sulla nave, naturalmente non sarebbero potuti scampare alla morte. in quei momenti, esaminadosi bene e preparandosi a morire, non poteva aver timore dei suoi peccati, né di essere condannato; ma si trovava in gran confusione e dolore, in quanto pensava di non aver usato bene i doni e le grazie che Dio Nostro Signore gli aveva comunicato’); p. 110:«En este tiempo, pensando en la muerte, tenía tanta alegría y tanta consolación espiritual en haber de morir, que se derritía todo en lágrimas; y esto vino a ser tan continuo, que muchas veces dejaba de pensar en la muerte, por no tener tanto de aquella consolación» (‘In quel tempo, pensando alla morte, provava una grande gioia e una grande consolazione spirituale nel dover morire, che si scioglieva tutto in lacrime; e questo venne ad esser così frequente, che molte volte smetteva di pensare alla morte, per non aver tutta quella consolazione’). 35 sul valore centrale degli Esercizî, cfr. p. es.. obras, Examen c. 4, [65],

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quale, appunto, si modella tutto ciò che è stato Sant’Ignazio di loyola, uomo, santo e persona rappresentativa, al suo tempo e nei secoli, di teologia spirituale. nei fatti, l’Autobiografia è valutabile come un’esperienza prospettica e retrovisione di una storia e di una condizione umana e spirituale; vi troviamo, attraverso i momenti principali della vita e della maturazione interiore del santo, l’istituto fondamentale della formazione e supporto della conoscenza e processo istitutivo degli «esercizî», che sull’«esame», appunto, si basano e qualificano. nella parte iV delle Constituciones (ma anche altrove) 35, cap. 8, n. 408, viene messo decisamente in evidenza il significato centrale che essi assumono nella duplice intenzione e direzione, per sé e per l’«aiuto delle anime». In ciò si concretizza il programma proprio ignaziano e della Compagnia di Gesù: «Nel dare gli Esercizî Spirituali ad altri, dopo averli provati su se stessi, se ne faccia pratica, e ciascuno sappia render conto di essi e aiutarsi con quest’arma, dato che si vede che dio nostro signore la rende tanto efficace per il suo servizio» (p. 532) 36. È già tutta qui la strategia e la milizia dell’uomo ignaziano (e del sacerdote Sant’Ignazio): l’esperienza propria e diretta, diciamo, la parte propria del soggetto umano che si preoccupa di sé e si prepara ad essere per gli altri con la pratica applicazione; l’appropriazione totale e consapevolezza dell’uso e dell’efficacia degli Esercizî come «arma» (ed è sottintesa la lotta, la resistenza propria e altrui), la convinzione sperimentale e la certezza dell’intervento divino, effettuale e partecipe («la rende») e la coincidenza delle finalità del «servizio», in questo consiste per sant’ignazio la vita e il suo significato unico che l’attua in piena conformità: ad MaioreM dei GloriaM. si veda, del resto, nello stesso senso, l’Annotazione degli Esercizî spirituali (p. 207), dove 0, p. 45:«examinando su consciencia, revolviendo toda su vida pasada, y haciendo una Confessión general, meditando sus pecados, y contemplando los passos y misterios de la vida, muerte, resurrección y ascensión de Cristo nuestro Señor, exercitándose en el orar vocal y mentalmente, según la capacidad de las personas, como en el Señor nuestro le será enseñado etc.»; nella fase d’ingresso nella compagnia: ibid., c. 4, 90, p. 461 e segg.; per verificare la vocazione, Constituciones., cap. 4, pp.484 e segg.; come mezzo essenziale per la formazione, Ibid., P. iii, c. , p. 504. 36 «En dar los Exercicios Espirituales a otros, después de haberlos en sí probados, se tome uso, y cada uno sepa dar razón dellos y ayudarse desta arma, pues se ve que Dios nuestro Señor la hace tan eficaz para su servicio».

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se ne dà la prima definizione, circa la totalità dell’impegno verso se stessi e nel proprio intimo, sul nucleo decisivo della «coscienza», attraverso una serie di atti-processi, d’azioni e reazioni, disposizioni interiori tutte finalizzate, in ampia articolazione dinamica, verso il «fare», l’agire nell’ambito dello spirito e verso lo spirito: «con questo nome, esercizî spirituali, s’intende ogni modo di esaminare la coscienza, di meditare, di contemplare, di far preghiera vocale e mentale, e di altre operazioni spirituali» 3; e i fini: «preparare e disporre l’anima, per togliere da sé tutte le affezioni disordinate, e dopo averle tolte per cercare e trovare la volontà divina nella disposizione della propria vita per la salute dell’anima» 38. la «salute / salvezza» dell’anima è il necessario unico fondamento di una serie di movimenti verso l’esterno e verso l’interno, dall’anima a dio e da dio all’anima con forte spiegamento attivo a indirizzo e guida e controllo della propria vita. e in questa intensa tonalità di significato tanto maggior rilievo e valore assume la prassi dell’«esame» (esterno e interno) dell’Autobiografia, che non solo è la realizzazione concreta, per di più vista a posteriori e quasi bilancio, di una natura e vicenda, ma riconoscimento costante e, appunto, abito naturale, esercizio quotidiano, necessità fisica d’attenzione corporea, questa volta orientata, con la stessa semplice ovvietà come se fosse un qualunque moto indifferente e tacito, legato ai minimi necessari e quasi automatici della normalità vitale, come aggiunge e spiega la stessa Annotazione prima, «come il passeggiare, camminare e correre sono esercizî corporali» 39. Ed ecco, allora, come verifica splendida e certa, due punti importanti dell’Autobiografia — dove la genesi e l’«efficacia» degli Esercizî Spirituali compare spessissimo — da un lato, l’approdo di sant’lgnazio — per suo conto e in sé e anche attraverso il controllo di altri, singoli o istituzioni — in certi momenti della sua vicenda, all’«examen», come scelta o circostanza decisiva (sull’essere e sul fare): 3 «por este nombre, exercicios espirituales, se entiende todo modo de examinar la consciencia, de meditar, de contemplar, de orar vocal y mental, y de otras spirituales operaciones». 38 «preparar y disponer el ánima, para quitar de sí todas las affecciones desordenadas, y después de haberlas quitadas para buscar y hallar la voluntad divina en la disposición de su vida para la salud del ánima». 39 «así como el pasear, caminar y correr son exercicios corporales».

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pochi gli esempi, oggettivamente, ma di notevole rilievo, tanto da farci pensare che sant’ignazio non poteva non dare ad essi tutta la sua disponibilità: a p. 99, prima dell’episodio del moro che non credeva alla verginità della Madonna post-partum 40, e che scatena reazioni estreme e violente in Sant’Ignazio («puñaladas»,‘pugnalate’) d’indignazione e di risentimento, di dubbî sull’inseguire o meno e di punire l’eretico, sant’ignazio si trattiene un istante a descrivere la situazione psicologica di quella fase della sua vita: cecità e «grandi desiderî» («grandes deseos») di servir Dio in ogni sua circostanza di consapevolezza; odio per i peccati e proposito di cose grandi e in tutto ciò placarsi, ma ignaro e, in fondo, non illuminato, quasi solo motivato da un istinto vitale fortemente focalizzato e indirizzato sul fondamento totale e ragion d’essere di tutta un’esistenza davvero consacrata, «non badando a nessuna cosa interiore» («no mirando a cosa ninguna interior»), e dal solo impulso di «tutta la sua intenzione» («toda su intención») e inclinazione esteriore, senza regole né misura («para reglar ni medir»,’per regolare e misurare’). «Opere grandi esteriori» («obras grandes exteriores»), dunque, nella pretta imitazione dei santi — a loro volta, modello esteriore, pur generoso — e senza far fondamento saputo, oltre che voluto, sui valori certi e riconosciuti: «non sapendo che fosse l’umiltà, né la carità, né la pazienza, né la discrezione» («ni sabiendo qué cosa era humildad, ni caridad, ni paciencia, ni discreción»); e il fine è pur buono («para gloria de Dios», ‘gloria di Dio’, «agradar y placer a Dios», ‘esser graditi e piacere a Dio’) e totalmente integrato nel fare («hacer») senza risparmio né riflessione («sin mirar otra ninguna más particular circunstancia», ‘senza badare a nessun’altra più particolare circostanza’), quasi con oblio profondo di sé e delle condizioni reali della propria anima e mente. in quest’azionismo puro ma bilanciato, o forse, proiettato sui «grandi desiderî», piuttosto, o sui «pensieri», tra volontà cieca e astrazione, s’innesta l’episodio sgradevole, appunto, del moro. E lì Sant’Ignazio, combattuto sul tema di fondo della «honra» (‘onore» e «amor proprio») lotta fortemente dentro di sé quasi alla ricerca di un impegno, codice, 40 cfr. obras, Aut., 2, 15, 99 per l’episodio del moro incontrato da Ignazio e della discussione sulla verginità della Madonna post partum.

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«obbligo» non scritto: «senza sapere che cosa fosse obbligato a fare» («sin saber lo que era obligado hacer»); ma il dubbio e, persino, la stanchezza fisica e morale inquinano la sua inquieta riflessione («cansado de examinar lo que sería bueno hacer», ‘stanco di esaminare che cosa sarebbe stato bene fare’) e Ignazio decide di non decidere — come Don Chisciotte nella sua prima uscita seguirà a briglia abbandonata la casuale scelta della sua mula... Sarà, poi, Dio a imporre la propria volontà in un istante storico «Volle nostro Signore» («quiso nuestro Señor», p. 100); ma 1’esame, anche senza certezze e fondamento, c’è stato fino all’esaurimento... Ed è qui questione di dubbio pratico e operativo. A p. 106 (ancora il tormentato capitolo III), dopo le ardue vicende degli scrupoli, comincia il periodo delle tentazioni; e, ancora una volta, sul piano profondo del dubbio morale (e anche pratico o di igiene spirituale, sul tempo da dedicare a dio e poi sul tempo del vivere, del mangiare e del dormire), la soluzione è rinviata all’introspezione: «esaminandolo bene, mai poté dubitare di quello» («examinándolo bien, nunca pudo dudar dello»). In altro momento, esteriormente drammatico del pericolo di morte, per una tempesta che minacciava la nave sulla quale si trovava, vi è esame completo, questa volta, decisivo e totale oltre lo stesso confine dell’esistere: «esaminandosi bene e preparandosi a morire» («examinándose bien y preparándose para morir», p. 109), con grande progresso spirituale che, se esenta dal timore del peccato e della dannazione, non dà meno «confusione e dolore» sull’omissione nell’uso della grazia e dei doni di dio, del bene non compiuto, con una forte e dura sentenza forense dell’anima («juzgar», «giudicare» — che sembra anticipare senza pietà il giudizio finale, nella certa coscienza di colpe oggettive — si veda la forma indicativa del verbo senza alcun dubbio colpevole «había empleado») ...: «no podía tener temor de sus pecados, ni de ser condenado; mas tenía grande confusión y dolor, por juzgar que no había empleado bien los dones y gracias que dios nuestro señor le había comunicado» se questi sono esami del foro interno, non meno significativi altri due episodî della vita pubblica: p. 123 4, dopo aver ricevuto il consiglio dal maestro di Barcellona di proseguire gli studi ad Alcalá de Henares, aggiunge un

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ulteriore esame vero e proprio, da parte di un esperto, probabilmente, di maggior prestigio e autorità: «Ma ancora si fece esaminare da un dottore in teologia, il quale gli consigliò la stessa cosa; e così partí...». Era esame scolastico, ma segno necessario del rigore e dell’autentica volontà ignaziana di controllare i suoi scrupoli per subito obbedire, d’altra parte... a p. 28 42 esercita il rigore della verità, ristabilendo la giusta proporzione tra sé e due donne sue devote, che a sproposito volevano occuparsi di anime; in carcere, dopo la sentenza che lo invita a non parlare di cose di fede entro 4 anni, per non aver ancora ben compiuto gli studî: «Perché, in verità, era il pellegrino quello che ne sapeva di più; e questa era la prima cosa che egli era solito dire quando lo esaminavano». Questo esempio è ancor più significativo, perché, visto che l’informazione e la risposta erano a carico del pellegrino, solo lui poteva dire la verità e regolare il giudizio degli altri: ecco, perché la sua risposta è sollecita e immediata al momento di essere esaminato, da altri, però... Si tratta di episodî certamente sporadici; ma a noi preme piuttosto annotare un richiamo a un metodo, a una disposizione indubbiamente essenziale e diventata abitudine, alla quale sant’ignazio faceva ricorso e che ben si pone a costituirsi come una prassi consolidata dentro un preciso sistema mentale limpido e di autentica e corretta e responsabile esigenza di verità e schiettezza d’igiene spirituale. Non meno significativo un altro versante, quello degli esercizî spirituali come metodo costante e operativo del Santo nei rapporti con se stesso e con gli altri, fino, poi, a confluire nel proprio metodo spirituale fondamentale nell’economia ignaziana. soprattutto, c’importa di sottolineare il carattere sperimentale e quotidiano degli Esercizî, intesi come riflessione, preghiera, meditazione — naturalmente, valutati nel loro valore organico e globale che svolgono, dentro un sistema attentissimo e minuzioso, una disposizione che ignazio usava ed evidentemente riteneva essenziale per la salvezza delle anime — ma, prima, per la loro formazione; come era stato per lui e per la propria 4 «Mas todavía él se hizo examinar de un doctor en teología, el cual le aconsejó lo mismo; y ansí se partió». 42 «Porque a la verdad, el peregrino era el que sabía más, y ellas eran con poco fundamento; y ésta era la primera cosa que él solía decir cuando le examinaban».

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formazione. Perché in ogni operazione spirituale di Sant’Ignazio va sempre tenuto davanti il nucleo figurativo essenziale e dinamico dello «specchio». A p. 162, il P. Cámara chiede al pellegrino circa l’origine degli Esercizî e delle Constituciones; ed è, dunque, Sant’Ignazio stesso che narra ed espone il valore personale, di pratica quotidiana, forse, degli Esercizî: lo, dipoi queste cose narrate, alli 20 di ottobre domandai al pellegrino degli exercitii et delle constitutioni, volendo intendere come l’havea fatte. lui mi disse che gli Exercitii non gli havea fatti tutti in una volta, senonché alcune cose che lui osservava nell’anima sua et le trovava utili ad altri, et così le metteva in scritto, verbi gratia, dello examinar la conscientia con quel modo delle linee, etc. le electioni spetialmente mi disse che le havea cavate da quella varietà di spirito et pensieri, che aveva quando era in loyola, quando stava anchora malo della gamba.

A parte il risalire così indietro, fino alla «ferita di Pamplona» — che è poi all’inizio della rifondazione personale di sant’ignazio — a noi serve notare il duplice verbo d’intima dialettica d’autoesame e autovalutazione funzionale sul parametro dell’economia spirituale: «osservava nell’anima sua e le trovava utili», dove si abbina — appunto, nella considerazione rigida dell’«esperienza» — il rapporto tra l’anima individua — che è il primo fondamento della spiritualità iguaziana, il rigoroso cammino della riconosciuta necessità della riforma e costituzione della «coscienza» — e le anime altrui come coincidenza, nella varietà, di qualcosa che, mentre provvedeva a fondare la propria anima — dell’uomo nuovo ignaziano — si proponeva altresì l’estensione all’altrui salvezza del proprio percorso e sacrificio integrale. Di qui, certamente, il valore esemplare ed esaustivo del proprio quotidiano itinerario sperimentale, consegnato al Diario espiritual («ogni dì scriveva quello che passava per l’anima sua», p. 164), come testimonianza propria e diretta, ma anche come segno concreto della certezza maturata nei travaglî, negli impegni e nelle esaltazioni di ogni giorno. a p. 05, certi modi pratici di azione e di perseverare, che poi si troveranno codificati negli Esercizî Spirituali (comunione, digiuno, gli ufficî divini, la preghiera in ginocchio, a mezzanotte ecc.) sono chiamati i «soliti esercizî» («sólitos exercicios»), ancora una volta a indicare l’insistenza

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abituale, la frequentazione metodologica fattasi costume normale, d’ogni istante e d’ogni giorno. Un secondo punto lo abbiamo già trattato contemporaneamente al primo: il passaggio continuo dalla prassi sperimentale all’applicazione normativa per la salvezza dell’anima altrui. si tratta dello stesso principio fondamentale, della stessa funzione didattica che sant’lgnazio s’attribuisce ad ogni istante della vita sua e che diverrà, poi, il fondamento della Compagnia di Gesù tutta. Il coinvolgimento di Sant’Ignazio è perciò totale, qualcosa da provare su di sé, prima di proporlo; e la stessa sperimentazione didattica sugli altri, con rigore di dottrina, alla pari con i fondamenti teologici, è essa stessa esercizio e modo abituale del rapporto con gli altri: «faceva le stesse cose [sant’lgnazio era in carcere] che quando era libero, faceva dottrina e dava esercizî» («hacía lo mismo que libre, de hacer doctrina y dar ejercicios», p.126); «venivano sempre molti a visitarlo, e il pellegrino continuava i suoi esercizî di parlare di Dio ecc.» («siempre venían muchos a visitalles, y el peregrino continuaba sus ejercicios de hablar de Dios», p. 130); «Il baccelliere Frías venne a far loro visita a ciascuno per sé, e il pellegrino gli diede tutte le sue carte, che erano gli Esercizî, affinché li esaminassero» («El bachiller Frías les vino a examinar a cada uno por sí, y el peregrino le dio todos sus papeles, que eran los ejercicios, para que los examinasen», pp. 130-131): «Venuto dalle Fiandre per la prima volta, cominciò più intensamente del solito a dedicarsi a conversazioni spirituali, e quasi in uno stesso tempo dava esercizî a tre [...]» (p. 135) 43. Questi riferimenti non hanno altra intenzione, beninteso, se non quella di documentare, più che il favore di molti nei confronti degli Esercizî, il senso e la continuità, il primato del ruolo attribuito da sant’ignazio alla conversazione-esame, al dialogo sul divino attraverso una precisa tecnica più volte esperimentata in tutta la vita e missione. 5. Il nucleo sperimentale della fondazione dell’uomo ignaziano: le «differenze» (e «varietà») 43

«Venido de Flandes la primera vez, empezó más intensamente que solía a darse a conversaciones espirituales, y daba cuasi en un mismo tiempo ejercicio a tres»; Cfr. obras, p. 146 per l’incontro con l’inquisitore e gli elogî di costui degli Esercizî; ibid., pp. 53-54, sull’episodio del «bacigliere Hozes» che, pur avendo interesse per gli esercizî, non si decideva a praticarli e poi, convintosi, si mise al seguito del «pellegrino»fino alla morte.

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Giusto a sottolineare il rapporto tra la vita e il metodo spirituale — per sé e in sé di Sant’Ignazio verso gli altri — basta rileggere ancora il brano n. 99 del Cap. 11, p. 162 dell’Autobiografia: «le electioni spetialmente mi disse che le aveva cavate da quella varietà di spirito et pensieri, che haveva quando era in loyola quando stava anchora malo della gamba». Il rinvio, una volta di più, alla fase prima dell’esperienza spirituale di sant’ignazio, ancora legata alla condizione fisica della ferita di Pamplona, la fa segno promotore della svolta radicale, anche e precisamente, per la situazione spirituale che in tale occasione si viene delineando. La scissione interna — perché di questo si parla — verte su una duplice situazione reale: sant’ignazio immobile nella sua malattia e conteso tra le «cose del mondo» e «le cose che leggeva» delle «vite di santi e di nostro Signore», cioè, tra le attrazioni della «honra» («onore e amor proprio»), della gagliardia delle «imprese mondane» e dell’amore e la riflessione interiore, che proponeva il fare come i santi a servizio di dio, ma in turbinio capace di esaurire la mente e il cuore: «pensieri cosi diversi» («pensamientos tan diversos», p. 93). E questo primo aspetto del conflitto interiore è solo l’origine di una più seria constatazione, che è, poi, sulla «differenza» degli effetti psicologici e spirituali in seguito alla «variedad» («varietà»): «che quando pensava alle cose del mondo, si compiaceva molto e provava molto piacere; ma quando poi smetteva di pensare per la stanchezza, si trovava arido e scontento; e quando pensava di andare a Gerusalemme a piedi nudi, e senza mangiare se non delle erbe, e di provare tutti i rigori che aveva visto che provavano i santi, non tanto si consolava quando si trovava in mezzo a quei pensieri, ma anche dopo aver smesso di pensarvi, restava contento e allegro» (p. 93) 44. Questi «contento e allegro» ripetuti sono la vera chiave di volta del sistema nuovo ignaziano dopo la presa di coscienza della sua piena corrispondenza — una volta unificato il conflitto esterno-intero — tra realtà spirituale e anima nel rapporto esatto di totalità e di fusione animacorpo sulla linea unica dello spirito nel segno di dio. 44 «que cuando pensaba en aquello del mundo, se deleitaba mucho; mas cuando después de cansado lo dejaba, hallábase seco y descontento; y cuando en ir a Jerusalén descalzo, y en no comer sino hierbas, y en hacer todos los demás rigores que veía haber hecho los santos, no solamente se consolaba cuando estaba en los tales pensamientos, mas aun después de dejado, quedaba contento y alegre».

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non appare nessuna immediata consapevolezza, nessuna lucidità riflessa e di distacco interno dai fatti e dalle richieste del reale circostante, come dice lo stesso narratore («Ma non badava a ciò», «Mas no miraba en ello»), circa la continuità e l’equilibrio dell’anima apparentemente non coinvolta, probabilmente, perché distratta dall’immediata visione del fare, che alletta la fantasia e la sazia nel suo affanno programmatico 45. Abbiamo già visto come dalla successiva acquisita consapevolezza dal rapporto magistrale con gli avvenimenti («ricevuta non poca luce da questa lezione», «cobrada no poca lumbre de aquesta lección») si operi già all’inizio in Sant’Ignazio un’autentica rivoluzione mentale di applicazione e convergenza interiore; ed è una concentrazione del «pensiero», dello specchio e del controllo interno, come abbiamo già notato, fino a trasformarlo-trasformarsi in metodo proprio per sé e per gli altri, per una maturata esigenza di responsabilità e di verità («cominciò a pensare davvero con maggiore impegno alla sua vita passata», «comenzó a pensar más de veras en su vida pasada», ibid.) — come una sorta di complesso travaglio fisico e spirituale — tra scrupoli e tentazioni, solitudine e accordo spirituale, consolazione e sconforto 46. Ma vale la pena trattenersi ancora un poco su questo brano importantissimo per le drammatiche conseguenze nella conversione sui generis di sant’ignazio e fondamento del suo approdo alla «chiarezza» con l’aiuto di dio. distacco, dunque, e latitanza della mente e dell’anima — insistiamo: per sant’ignazio contava, nella forzata inazione, soprattutto, il «fare» al servizio di qualunque nobile fine, le «imprese mondane» come l’imitazione dei santi a servizio di dio, secondo i rispettivi codici operativi. d’altra parte, 45 La stessa cosa accade più avanti nell’episodio già visto dell’incontro con il moro. 46 Tale scissione e dialettica negativa è al centro di tutta la vicenda ignaziana consegnata al Diario espiritual, ed è il discrimine fondamentale e segno delle tappe del processo spirituale che le anime si trovano a subire e ad affrontare lungo le prove degli esercizî, tra «consolazione» e «desolazione»; cfr. a p. 279 le rispettive definizioni: «Llamo desolación [...] escuridad del alma, turbación en ella, moción a las cosas baxas y terrenas, inquietud de varias agitaciones y tentaciones, moviendo a infidencia, sin esperanza, sin amor, hallándose toda perezosa, tibia, triste y como separada de su Criador y Señor»- ‘Chiamo desolazione [...] oscurità dell’anima, turbamento di essa, mozione alle cose basse e terrene, inquietudine di varie agitazioni e tentazioni, muovendo alla mancanza di confidenza e fiducia, senza speranza, senza amore, trovandosi completamente pigra [l’anima], tiepida, triste e come separata dal suo creatore e signore’. V. altresì le note 31 e 32.

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anche in questa scissione del tutto esteriore, gli effetti erano emozionali («si compiaceva», «arido e scontento», «si consolava», «contento e allegro»). L’assenza del «ponderare» o uso profondo del «pensare» (e suo sinonimo) non mette nemmeno in luce la «differenza»; ma l’aprirsi degli occhi «un poco» (la metafora degli occhi che s’aprono, curiosamente, sembra rivolgersi a qualcosa di esteriore, più esattamente, verte sull’enormità della differenza fino a farla diventare visibile...) e «cominciare» a «meravigliarsi di questa diversità». (Sarà questo sconvolgimento e senso turbinante dell’esperienza interiore che porterà, più avanti, sant’ignazio a scrivere le Reglas de discreción de espíritus della ª settimana degli Esercizî, p. 93, nota 9) 4. La meraviglia porta alla riflessione sull’«esperienza» («che di alcuni pensieri restava triste e di altri contento») e tale esperienza si fa aperta conoscenza di una contrapposizione netta e radicale del bilancio interiore. sant’ignazio va subito alla soluzione ardua e tuttavia unica e discriminante, all’unità dell’anima e sua felicità, che è pienezza fondata sulla misura equa ed equilibrata tra recipiente dell’anima e sua capacità di contenuto («contento»), come dice nella ventesima delle Anotaciones, che precedono gli Esercizî (p. 213) 48: «non avendo l’intelletto diviso in molte cose, ma ponendo tutta la cura soltanto in una cosa, cioè, a servire il suo Creatore e avere frutto per la propria anima, usa le sue potenze naturali più liberamente, per cercare con diligenza ciò che desidera tanto; il terzo, quanto più si trova sola e appartata, diventa più pronta ad avvicinarsi e per giungere al suo Creatore e Signore, e quanto più si avvicina così, più si dispone a ricevere grazie e doni dalla sua divina e somma bontà (corsivo nostro)». Unica soluzione è un’unica scelta di unificazione tra ricerca del bene e suo desiderio nella solitudine come spazio eletto di riflessione (a specchio, cioè uomo-Dio e disponibilità conseguente per esperienza d’elezione nella «varietà» unificata sul fine unico del Bonum unicum) — la nostra insistenza nominale 4

cfr.obras, 2ª settimana, pp. 282-283. «no teniendo el entendimiento partido en muchas cosas, mas poniendo todo el cuidado en sola una, es a saber, en servir a su criador y aprovechar a su propia ánima, usa de sus potencias naturales más libremente, para buscar con diligencia lo que tanto desea; el tercero [provecho principal], quanto más nuestra ánima se halla sola y apartada, se hace más apta para se acercar y llegar a su Criador y Señor, y quanto más así se allega, más se dispone para rescibir gracias y dones de la su divina y summa bondad». 48

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è proprio per radicare la totalità esclusiva del discernimento (si veda ancora la dura e necessaria «formula» delle Constituciones), come è ribadito, p. es., nel «2° tempo» «para hacer sana y buena elección», ‘per fare una sana e buona scelta’: «quando si riceve molta chiarezza e conoscimento per esperienza di consolazioni e desolazioni, e per esperienza di discrezione di vari spiriti» (Esercizî, p. 246) 49. e per sant’ignazio le due vie sono ben opposte e coincidono rispettivamente con la gioia e il dolore nel loro più autentico significato umano come elementi determinanti della condizione umana per la salvezza delle anime: «E a poco a poco venendo a conoscere la diversità degli spiriti che si agitavano, uno del demonio [subito riconosce la fonte del male!] e l’altro di dio». Dall’altra parte, di contro alla «vocazione divina», c’è la «scelta disordinata e obliqua» (p. 245) 50. certamente, il punto di partenza di tutta la profonda e totalizzante «mutazione» di sant’ignazio nasce esattamente da due situazioni per lui assolutamente nuove, se, prima, la sua coerenza e, in fondo, ingenua (o semplice) «allegria» doveva essere stata determinata dall’essere egli tutto proteso verso la «honra» («onore e amor proprio») delle «imprese mondane», verso il «servizio» a se stesso e al «mondo»; essendo egli stesso e il mondo coincidenti nell’investimento compiuto quanto al proprio occupare bene e gloriosamente il proprio spazio — anche nella venustà e pienezza della persona fisica. Da un lato, quindi, la «ferita», dall’altro, il richiamo spirituale («le cose che leggeva» e le riflessioni contraddittorie e i sentimenti). ancora, il contrasto anche nei propositi e nell’azione — ma lo «scontento» e l’indignazione dell’episodio del 49 «quando se toma asaz claridad y cognoscimento por experiencia de consolaciones y dessolaciones, y por experiencia de discreción de varios espíritus». 50 «y poco a poco viniendo a conocer la diversidad de los espíritus que se agitaban, el uno del demonio y el otro de Dios» (Autobiografía, p. 93); cfr.obras, 2ª settimana, 3° punto: «Sólo es de mirar que si no ha hecho elección debida y ordenadamente, sin afecciones dessordenadas, arrepentiéndose procure hacer buena vida en su elección; la cual elección no parece que sea vocación divina, por ser elección desordenada y oblica, como muchos en esto yerran, haciendo de oblica o de mala elección vocación divina, porque toda vocación divina es siempre pura y limpia, sin mixtión de carne ni de otra afección alguna dessordenada» (p. 245); ‘Si deve soltanto guardare che se non ha fatto una scelta nel modo dovuto e ordinato, senza affezioni disordinate, pentendosi cerchi di fare una buona vita nella sua scelta; e questa scelta non sembra che sia chiamata divina, perché ogni chiamata divina è sempre pura e limpida, senza commistione di carne né di altra affezione disordinata’.

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moro è probante sul dovere mancato e sulla revisione della vita — cioè, la percezione della «differenza» e della «varietà» è esattamente quel punto di partenza così definitivo, il rendersi conto, cioè, fin dall’inizio — siamo ancora nel cap. 3° dell’Autobiografia — che non aveva mai badato ad altro che a quell’immagine compatta di sé e sostanzialmente distaccata e ignara di qualunque distinzione o dubbio sulla sua vita e figura. Spesso, s’è già visto, Sant’Ignazio sottolinea la propria visione e status come orientati verso un solo versante, cioè, la propria presenza e azione nel mondo. La conferma di questo è una frase molto esplicita: «Fino a quel momento aveva perseverato quasi in uno stesso stato interiore, con una grande costanza di allegria, senza aver nessuna conoscenza di cose interiori spirituali» (p. 103) 5. L’affermazione è legata alla visione di una «cosa in aria vicino a sé» 52. sta tutto qui il dramma ignaziano, fedelmente rivelato nell’inquietudine sospesa di chi è costretto ad uscire dalla sua quiete interiore — o stasi di fatto, visuale immobilizzata sulla proiezione esterna senza distrazione verso ragioni più profonde dell’anima. Qui, il «pensiero forte e duro» è apparentemente domanda e dubbio, in realtà, è l’ombra sinistra del «nemico» e tentazione («prima tentazione»), che, comunque, sembra disturbare («lo disturbò») la «igualdad» (‘costanza, coerenza interio5 cfr. obras, Aut., c. 3, 103: «Aquestos días que duraba aquella visión, o algún poco antes que comenzase (porque ella duró muchos días), le vino un pensamiento recio que le molestó, representándosele la dificultad de su vida, como que si le dijeran dentro del ánima: — ¿Y cómo podrás tú sufrir esta vida setenta años que has de vivir? — Mas a esto le respondió también interiormente con grande fuerza (sintiendo que era del enemigo): ¡Oh miserable! ¿Puédesme tú prometer una hora de vida? — Y ansí venció la tentación y quedó quieto. Y esta fue la primera tentación que le vino después de lo arriba dicho»- ‘In quei giorni in cui durava quella visione, o un po’ prima che cominciasse (perché essa durò molti giorni), gli venne un pensiero duro che lo disturbò, perché gli rappresentava la difficoltà della sua vita, come se gli dicessero dentro l’anima: E come potrai tu sopportare questa vita per i settant’anni che dovrai vivere? — Ma a questo pensiero rispose anche interiormente con gran forza (sentendo che era del nemico): Oh miserabile! Puoi tu promettermi un’ora di vita? — E così vinse la tentazione e rimase tranquillo. e questa fu la prima tentazione che gli venne dopo ciò che abbiamo detto prima’. 52 cfr. obras, ibid., 103:«Estando en este hospital le acaeció muchas veces en día claro ver una cosa en el aire junto de sí, la cual le daba mucha consolación, porque era muy hermosa en grande manera. No devisaba bien la especie de qué cosa era, mas en alguna manera le parecía que tenía forma de serpiente, y tenía muchas cosas que resplandecían como ojos, aunque no lo eran» — ‘: «Mentre si trovava in quella dimora gli accadde molte volte a giorno chiaro di vedere una cosa in aria vicino a sé, che gli procurava una grande consolazione, perché era molto bello. non scorgeva bene di che specie fosse quella cosa, ma in qualche modo gli sembrava che avesse forma di serpente, e aveva molte cose che risplendevano come occhi, sebbene non lo fossero’.

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re, compattezza interiore’) a cui, però, Ignazio risponde con risposta immediata («con gran forza») pur riconfermandola nell’unica direzione della quiete e del riposo interiore dopo la lotta («vinse la tentazione e rimase nella sua pace»). tra visione ambigua o falsa e il «pensiero» si mette, tuttavia, a repentaglio l’unità interiore; e, soprattutto, comincia da qui una fase assai tormentata («grandi varietà») d’assalti, scrupoli, sentimenti contrastati e improvvisi sbalzi d’umore. Ed è proprio da qui che Sant’Ignazio inizia il suo cammino profondo in cristo come progressiva rinuncia a se stesso e simultanea messa a fuoco verso la «scelta» decisiva; — sarà la «determinación» («determinazione») di cui parleremo più avanti, che lo porterà all’unica unità possibile del «solus Deus». E ciò, da una parte, si fonda sulla «claridad» («chiarezza»), che è approdo netto, fermo e definitivo di tutto il processo interiore e sconvolgimento totale della vita ed esperienza di Sant’Ignazio; dall’altra, è il suo pervenire all’«indifferenza», come atto di suprema dedizione a cristo, centro unico dell’anima umana. Esattamente, all’inizio della «Prima settimana» (p. 215) Sant’Ignazio enuncia il rapporto tra l’uomo e le cose e il mondo, facendo l’unificazione del proprio essere per agire sulla base dell’assialità del «fine per il quale siamo stati creati» («fin para que somos criados»): «per la qual cosa [usare le cose della terra o distaccarsene] dobbiamo diventare indifferenti a tutte le cose create, in tutto quello che è concesso alla libertà del nostro libero arbitrio e non le è proibito; in tal modo che da parte nostra non vogliamo più salute che malattia, ricchezza che povertà, onore che disonore, vita lunga che corta, e per conseguenza in tutto il resto; solo desiderando e scegliendo quello che più ci conduce verso il fine per il quale siamo stati creati» 53. l’esser stati creati, cioè, la traccia segreta e determinante della presenza effettuale di Dio e della sua volontà e potenza, è anche, oltre alla finalità del progetto, tutto il complesso unificato della ragion d’essere dell’uomo ignaziano. E non solo ignaziano, naturalmente. 53 cfr. obras, 2ª settimana, p. 243: «La 2ª es más perfecta humildad que la primera, es a saber, si yo me hallo en tal puncto que no quiero ni me afecto más a tener riqueza que pobreza, a querer honor que deshonor, a desear vida larga que corta, siendo igual servicio de dios nuestro señor y salud de mi alma» — ‘2ª. umiltà. La 2ª è un’umiltà più perfetta della prima, cioè, se io mi trovo in

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6. La «determinazione » nella costituzione del complesso e travagliato sistema pensiero conoscenza-azione in Dio dell’esperienza e spiritualità ignaziana — ancora una volta, come punto nodale della sua propria storia e opera, scritta e testimoniata nella fondazione della Compagnia di Gesù — ha il suo posto principale e momento di verifica attiva il principio della «determinazione». non si tratta tanto, o soltanto, di un impulso programmatico di decisione o di semplice «determinazione», o moto di passaggio all’azione; ma di un autentico processo interno di riflessione e anche di constatazione, un profondo risguardo e considerazione da parte del soggetto di tutta la propria vita nella sua necessità di impostarsi in piena conformità e accordo delle proprie potenze e dell’esistere non solo hic et nunc. Ci può essere anche, e immediatamente, solo l’appello dell’occasione, il rapido adeguarsi, appunto, esistenziale ad un’occasione o ad una situazione improvvisa: non è in giuoco, veramente, in Sant’Ignazio, la singolarità e precarietà dell’evento, ma la fondatezza e verità del proposito, nonché quella, globale, della persona integrale, che intende essere (e agire) in un certo modo, e, davvero, questo modo non è niente affatto casuale. E questo va detto, circa la presenza del termine «determinación» (nelle sue forme sostantivali e verbali) nelle circostanze biografiche come nei momenti fondamentali della via dello spirito, del una certa condizione che non voglio né mi preoccupo più di aver ricchezza che povertà, di volere onore che disonore, di desiderare più una vita lunga che corta, essendo uguale servizio di Dio nostro Signore e salvezza della mia anima’; p. 247: «Segundo: es menester tener por obiecto el fin para que soy criado, que es para alabar a Dios nuestro Señor y salvar mi ánima, y con esto hallarme indiferente sin affección alguna dessordenada, de manera que no esté más inclinado ni affectado a tomar la cosa propuesta que a dexarla, ni más a dexarla que a tomarla; mas que me halle como en medio de un peso para seguir aquello que sintiese ser más gloria y alabanza de Dios nuestro Señor y salvación de mi ánima»- ‘Secondo: è necessario aver come oggetto il fine per il quale sono creato, che è di lodare dio nostro signore e salvar la mia anima, e con questo essere indifferente senza nessuna affezione disordinata, in modo da non essere più incline o preoccupato di prender la cosa proposta più che di lasciarla, né più di lasciarla che di prenderla; ma di trovarmi come in mezzo a un peso per seguire ciò che sentissi che è maggiormente a gloria e lode di Dio nostro Signore e salvezza della mia anima’; p. 215: «Por lo cual es menester hacernos indiferentes a todas las cosas criadas, en todo lo que es concedido a la libertad de nuestro libre albedrío y no le está prohibido; en tal manera que no queramos de nuestra parte más salud que enfermedad, riqueza que pobreza, honor que deshonor, vida larga que corta, y por consiguiente en todo lo demás; solamente deseando y eligiendo lo que más nos conduce para el fin que somos criados».

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«camino» ignaziano riflesso in ognuna delle opere scritte dirette o indirette. Come abbiamo già riscontrato per gli altri termini reali-simbolici della vicenda ignaziana, anche per la «determinación» osserviamo la pregnanza e la frequenza particolari nei primi capitoli e negli ultimi (seppure più di rado) dell’Autobiografia, in necessaria concomitanza con i passaggî decisivi di una vita e di un’anima che compie la sua «scelta tremenda». Già nella parte centrale del cap. I (pp. 91 e 96) compaiono due prove ben chiare e inequivocabili: «la qual cosa egli non poteva sopportare, perché era deciso a seguire il mondo, e giudicava che quella cosa lo avrebbe reso brutto» (p. 91 54). È una questione decisiva, certo, visto che si tratta di un «osso soprammesso» («hueso encabalgado») di una «gamba», coincidendo, naturalmente, l’integrità — se non bellezza... — della persona e la funzionalità corporea; la frase «che era una cosa brutta» non è solo traccia di una nostalgia estetica, quanto di totalità, naturalmente, e di praticità effettuale senza limiti della presenza fisica di un giovane uomo d’arme. Comunque, ignazio ha ben chiaro il suo proposito e il suo cammino: «era deciso a seguire il mondo», che è tutt’altra cosa del banale andar dietro alle apparenze o dello sceglier la vita mondana o profana. Piuttosto, è da vedere la consapevolezza ignaziana di una visione integrale del proprio essere nella vita, della necessità della compattezza (fisica come interiore, nella dura visione ignaziana) degli aspetti pratici, della disponibilità piena del proprio essere fisico in tutti i suoi modi di rappresentazione e di impiego. Ciò che conta — anche e soprattutto per gli effetti più ridotti o riduttivi del fatto — è porre l’accento su «determinaba» («era deciso») come atto unitario e di volontà nei confronti di un piano d’azione che investiva tutta la presenza e vita futura di un uomo giovane e prestante, ripetiamo, vincolato alla vita militare e cavalleresca. Così, nella stessa p. 91, dopo che i medici hanno detto le loro condizioni affatto tecniche («essi dissero»- «ellos dijeron»), ma tutte a carico della pazienza e della sopportazione del dolore fisico... — ma, evidentemente, essi non 54 «lo cual él no pudiendo sufrir, porque determinaba seguir el mundo, y juzgaba que aquello le afearía».

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tenevano conto della volontà e della tempra di Sant’Ignazio («sopportò con la solita pazienza» — «sufrió con la sólita paciencia») —: la capacità totale d’Ignazio di esser consapevole e padrone di se stesso, di tutto se stesso, si esibisce in una frase precisa, che va interpretata correttamente. «e ciò nonostante [i terribili dolori] egli decise di lasciarsi martirizzare per suo proprio piacere»: 55 la parola «gusto», naturalmente, va interpretata «per sua propria volontà», esclusa qualunque alterazione di una coerenza profonda per strascichi masochistici. La continuità tra il precedente «era deciso» («determinaba») — una situazione di ampio spettro di avvenimenti e moti interiori — e il «determinó» (‘decise’) è solo costante e lucida determinazione, segno di una volontà libera, di una scelta unitaria e forte che s’opera nella mente e nell’anima senza alcun condizionamento o obbligo da parte di null’altro che le proprie ragioni e motivazioni. Vorrei dire che si tratta di un atto responsabile e solitario di una persona presente a se stessa e che fonda il proprio assenso e atto sulla necessità di totalità e chiarezza interiore sempre e comunque (vedi il prossimo paragrafo). Un’altra testimonianza precisa a p. 96 56, dove sant’ignazio, dopo una visione chiara della Vergine con il Bambino, riceve il contraccolpo d’una impressione del tutto ripugnante della sua vita passata (specialmente, delle «cose della carne»). È un momento preciso della vita — sant’ignazio lo considera come il punto di partenza di una sua storia interiore («Così, da quell’ora fino all’agosto del ’53, in cui si scrive, mai più ebbe nemmeno un minimo consenso in cose della carne»), databile nella cronologia formale — e su di esso si svolge un esatto cammino che lo scriba, per conto suo, non si perita — dall’esterno, e nell’economia gloriosa dei segni che circondano la figura del Fondatore — a riconoscere se non come avvenuto nello spirito di Dio, anche per deduzione («e per quest’effetto si può pensare che la cosa è accaduta da parte di Dio») 5. e qui lo scriba racconta l’atteggiamento e il sentimento d’ignazio, ove la presenza del verbo determinare è messa a repentaglio da «non osava» — che è limite grande di «Y todavía él se determinó martirizarse por su propio gusto». «así, desde aquella hora hasta el agosto de 53, que esto se escribe, nunca más tuvo ni un mínimo consenso en cosas de carne». 55 56

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prudenza e pudore per non sentirsi direttamente al centro di un avvenimento così grande e ricco di conseguenze, come la visione della Vergine; ebbene, qui, «determinarlo» («deciderlo») sfugge all’abituale significato di decisione profonda, per farsi riconoscimento decisivo, presa di coscienza determinante e pure coperta di un velo onesto che non vuole e non osa esser sollevato in maniera chiara da parte di chi non vuol far conoscere il decisivo intervento del divino nelle più gelose delle sue condizioni. E, dunque, «determinarlo» è qui usato per indicare un avvenimento in tutto il suo splendore e grandezza. Più semplice, per essere un mero atto programmatico, di impostazione spirituale ed etica, l’uso a p. 99 («era deciso a compiere grandi penitenze») 58, che sottolinea una volontaria proposizione di un piano azionistico; a conferma, come s’è già visto, l’assenza in Sant’Ignazio, in quella fase, di riflessione o considerazione interiore, così come di qualsiasi consapevolezza di valori e principî per un semplice orientamento pratico, quasi istintivo e certamente tutto sul versante esecutivo, come proprio del santo in quel primo generoso proposito di agire subito e senza alcuna necessità di approfondimento «al servizio di Dio» (quasi senza pensare a se stesso). assai interessante, nella pagina seguente 00, ’affollarsi in poche righe di ben quattro occorrenze dello stesso verbo in accezioni più elementari e pure non prive di importanza, sempre per l’uso di quella parola: dopo l’incontro con il moro e l’imbarazzo d’ignazio su come liberarsi dall’angoscia per la mancata risposta sulla questione della verginità della Madonna dopo il parto. Anche qui, la determinazione deve incidere sul comportamento immediato, sull’«hacer» («fare»): Ignazio fa capir bene il suo modo mentale e la qualità del suo temperamento nella difficoltà cosciente di decidere in maniera concreta, data la precarietà della situazione («non trovando una cosa certa a cui decidersi, decise così, cioè, di lasciare andare la mula a briglia sciolta fino al punto dove le strade si biforcavano») 59; e la decisione avviene, nonostante l’inconsistenza delle soluzioni (o la loro impossibilità), per risolversi come atto responsabile e certo fino al punto di non tener conto 5

«y por este efeto se puede juzgar haber sido la cosa de dios». «determinaba de hacer grandes penitencias».

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della propria stessa improbabilità (o probabilità anch’essa sommamente a rischio...). Più avanti, lo stesso verbo porta la propria rilevanza in situazioni di scarsa incidenza — in realtà, solo apparentemente — perché ognuna delle azioni che Ignazio compie obbedisce fin da ora a un più vasto disegno, è espressione di una volontà unitaria e ben certa di sé: «volle comprare il vestito che decideva di portare» 60 per andare a Gerusalemme (e sappiamo che in questa frase ignazio imposta volontariamente il proprio abito e trascuratezza voluta della sua persona); così, ancora più avanti, quando si parla ancora delle «imprese, per amor di dio» («hazañas que había de hacer por amor de Dios») nello spirito della cavalleria, si tratta di una decisione rituale, ma che, peraltro, fa parte di una più ampia «determinazione» (p. 101), cioè, abbandonare le sue armi di cavaliere per «vestire le armi di Cristo» («vestirse las armas de Cristo»), che, appunto, investirà la vita d’Ignazio secondo moduli ancora lontani dalle profonde trasformazioni spirituali della milizia di Cristo, ma già portatori di una scelta radicale: «decise di vegliare le sue armi [...] davanti all’altare di nostra signora di Monserrate, dove aveva deciso di lasciare i suoi abiti» 61. lo stesso avviene nella stessa p. 0, quando si dice che a Manresa «decideva di stare in ospedale per qualche giorno»; o quando a p. 102 «decise di lasciarli andare così» («se determinó dejarlo andar así») dei capelli: ma non è affatto casuale, ripetiamo, che sant’iguazio inizî la sua «determinazione» dalla propria modifica delle cure quanto al corpo (anche secondo la moda, «perché era stato molto attento nella cura dei capelli, come a quei tempi usava, e li teneva bene» — «Y porque había sido muy curioso de curar el cabello, que en aquel tiempo se acostumbraba»), visto che, in fondo, in senso esattamente contrario era andato il suo interesse per la sua stessa figura. nello stesso modo, il proposito di digiunare sull’esempio di un santo, per ottenere da dio un intervento circa «una cosa che desiderava ardentemente» («una cosa que 59 «no hallando cosa cierta a que se determinase, se determinó en esto, scilicet, de dejar ir a la mula con la rienda suelta hasta el lugar donde se dividían los caminos». 60 «quiso allí comprar el vestido que determinaba de traer, con que había de ir a Jerusalén». 61 «así se determinó de velar sus armas [...] delante el altar de Nuestra Señora de Monserrata, adonde tenía determinado dejar sus vestidos».

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mucho deseaba»), trova esecuzione decisiva: «alla fine decise di farlo» («al fin se determinó hacello») e «allora decise di chiedere del pane» («entonces determinaba de pedir pan»): ma anche qui la decisione è atto drastico, al fine di ottenere aiuto da Dio per uscire dagli scrupoli che lo affliggevano. Vogliam dire che Ignazio è consapevole che i singoli atti non hanno di per sé particolare valore se non sono ambientati in un’azione profonda, che è il modo di porsi di fronte a dio, d’impostare nella pienezza della propria persona una forte presa di posizione, una misura totale di sé senza calcoli e tergiversazioni. E Sant’Ignazio sarà poi sempre così per tutto il resto della sua storia, una volta fissato il proprio orientamento radicale sul fine ultimo del «servir Dio», senza ulteriori considerazioni né prudenze. Ed è questo un altro aspetto fondamentale della spiritualità ignaziana, dal quale si coglie che nel «solus Deus» egli decide l’appello integrale della propria esistenza, con estrema chiarezza e lucidità della mente e dell’anima, del pensiero e del cuore, senza limiti. Una prova ulteriore a p. 106 62, dove s’apprende che sant’ignazio «decise con grande chiarezza di non confessare più nessuna delle cose passate» — e non è questo solo un avvenimento circostanziale, ma metodo generale assunto e iniziato a sperimentare una volta per sempre e non solo per sé...; «venne a pensare che aveva tanto tempo determinato per trattare con Dio» (p. 106) 63 significa, appunto, che ogni azione d’Ignazio è fissata e ordinata minuziosamente nell’esperienza pratica, nella ricognizione vigile di ogni fatto e momento... Così, nelle astinenze dure della carne, accade che Ignazio abbia una sorta d’allucinazione («gli apparve della carne da mangiare, e quasi la vede con gli occhi corporali, senza che nessun desiderio di essa lo avesse preceduto; e gli venne insieme anche un grande consenso della volontà in modo che da quel momento dovesse mangiarla e, sebbene si ricordasse del suo proponimento di prima, non poteva dubitare di ciò, se non di decidere che doveva mangiare carne. e raccontandolo dopo al suo confessore, il confessore gli dicova che guardasse per caso se quella 62 «y ansí se determinó con grande claridad de no confesar más ninguna cosa de las pasadas». 63 «vino a pensar consigo que tenía tanto tiempo determinado para tratar con dios».

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fosse una tentazione. Ma egli, dopo aver ben esaminato, non poteva dubitarne»): 64 per il confessore c’è il dubbio d’una tentazione, ma il punto che a noi importa notare è sul come il protendersi dell’impulso a mangiar la carne sia ancora un atto forte e intransigente «se non di decidere che doveva mangiar carne». Di fatto, Sant’lgnazio identifica spesso il suo pronto e totale impegno di fondo sulla spinta all’azione — ma anche assumere posizioni o anche solo gesti, sempre di rilevante incidenza sulla sua vita — con il completo e definitivo e massiccio collocarsi di tutto quanto se stesso nella «determinazione»; p. 108: dove parla delle ripetute visioni a Manresa, Gerusalemme, «presso Padova», e del loro potere di «conferma sempre della fede» («confirmación siempre de la fe»); ma, per sottolineare la sua convinzione attiva e profonda, osserva «se non ci fosse la scrittura che c’insegnasse queste cose della fede, egli deciderebbe a morire per esse, solo per ciò che ha visto» 65; dove non è importante, appunto, il supporto della Scrittura, perché basta, alla dedizione totale di sé fino alla morte, il vedere «con gli occhi interiori». e qui va rilevato il primato della vita interiore come rapporto essenziale tra fede e decisione assoluta (e morte) di sé, in cui si consegna il modello fondamentale di tutto il rigore spirituale ignaziano del solus Deus. lo stesso avviene alla p. l l l, dove si parla espressamente di «confianza» (’confidenza, fiducia’) «affezione e speranza la voleva [egli] avere in un solo Dio» («y que esta confianza y afición y esperanza la quería tener en un solo Dios») — sul nucleo essenziale del modulo delle «tre virtù: carità e fede e speranza», che, poco più avanti, è messo in crisi da scrupoli di grande travaglio e di lotta spirituale. Ma, ancora una volta, in sant’ignazio si fa strada subito il momento risolutivo, qui il rimettersi a un confessore; ma che è, come sempre, un atto decisionale e liberatorio — «E alla fine, non sapendo che fare, perché da ambo le parti 64 «se le representó delante carne para comer, como que la viese con ojos corporales, sin haber precedido ningún deseo della; y le vino también juntamente un grande asenso de la voluntad para que de allí adelante la comiese; y aunque se acordaba de su propósito de antes, no podía dudar en ello, sino determinarse que debía comer carne. Y contándolo depués a su confesor, el confesor le decía que mirase por ventura si era aquello tentación; mas él, examinándolo bien, nunca pudo dudar dello». 65 «Si no huviese Escriptura que nos enseñase estas cosas de la fe, él se determinaría a morir por ellas, solamente por lo que ha visto».

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vedeva ragioni probabili, decise di mettersi nelle mani del suo confessore» 66 — che già subito lo fa uscire — anche sul piano del «che fare» oltre che del «facevano dubitare» — dal conflitto delle «razones probables» («ragioni probabili») di «ambedue le parti». Il che è già una mezza soluzione. anche a p. 3, ignazio, in attesa di partire per Gerusalemme, si trova a combattere in sé con altri 67 tra la «grande certezza nella sua anima» senza dubbî sui modi della partenza e i timori indotti di non poter compiere il suo proposito «senza denari» (è il tema della povertà così assillante in Sant’lgnazio) 68 o con i suoi pochi denari. di qui gli scrupoli sulla propria «mancanza di fede» («È questa la speranza e la fede che tu avevi in dio, che non ti verrebbe meno? ») 69 con pensieri inquieti e contrastanti: ed ecco la «determinazione» come gesto profondamente capace di confermare quella «certezza», che è assillo e bellezza di tutta una vita, appunto, sulla «povertà»: «Ma, alla fine, decise di spenderli [i ducati avuti per il viaggio da Venezia a Gerusalemme] ampiamente per coloro che gli si presentavano, che ordinariamente erano dei poveri» 0. . La «chiarezza» La «claridad» è condizione e mozione complessa nella vicenda e itinerario di Sant’Iguazio, né punto di approdo né punto di partenza, ma ambedue le cose insieme, coefficienti e supporto di gradualità nel processo

66 «Y al fin, no sabiendo qué hacerse, porque de entrambas partes veía razones probables, se determinó ponerse en manos de su confesor». 67 cfr. obras, Aut., c. 4, 113: «Mas, dos días después de ser salido de Roma, empezó a conocer que aquello había sido la desconfianza que había tenido, y le pesó mucho de haber tomado los ducados, y pensaba si sería bueno dejarlos. Mas al fin se determinó de gastarlos largamente en los que se le ofrescían, que ordenariamente eran pobres»- ‘Ma due giorni dopo essere uscito da Roma, cominciò a riconoscere che ciò [l’aver accettato del denaro per il viaggio a Gerusalemme] era dovuto alla sfiducia che aveva provato, e gli pesò molto il fatto di aver accettato i ducati, e pensava se sarebbe stato bene lasciarli. Ma alla fine decise di spenderli ampiamente per coloro che gli si presentavano, che di solito erano dei poveri’, 68 cfr. obras, Constituciones, p. Vi, c. 2 Di ciò che concerne la povertà e sue conseguenze (pp. 563 e segg.); p. 624: «Porque la pobreza es como baluarte de las Religiones, que las conserva en su ser y disciplina y las defiende de muchos enemigos»- ‘Perché la povertà è come un baluardo degli Ordini, che li conserva nella loro essenza e disciplina e li difende da molti nemici’. 69 Cfr. p. 111: «¿Esta es la esperanza y la fe que tú tenías en Dios, que no te faltaría?». 0 Varî esempî di povertà in obras, Aut., pp. 133, 134, 148, 150, 158, 164, ecc.

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tormentato, doloroso e gioioso di profonda «consolazione», certamente, e non di «desolazione», anche se termine continuo di confronto e vertice finale. Come si vede nell’articolazione spirituale ed esistenziale che sta nel fondo di tutto il Diario espiritual  . Così come al centro dell’esperienza degli Esercizi Spirituali 2. Per questa ragione, iniziamo qui una serie di riflessioni sul fondamento testuale del suddetto Diario, di cui si conserva una parte dal 2-2-544 al 2-2-545. esso verte soprattutto sul drammatico svolgersi e tormentarsi nell’anima ignaziana del tema della povertà della Compagnia; e tale tremenda stagione si svolge sullo stesso schema realissimo narrato nell’Autobiografia. come dire che la vita di sant’ignazio, raccontata nell’Autobiografia, attraversa tutte le tappe commentate nel Diario, le stesse che vengono compiute e superate lungo l’itinerario degli Esercizî. Giusto all’inizio dell’Autobiografia (p. 90) 3, quando inizia 1’assedio dei francesi a Pamplona, Sant’Ignazio è davvero l’unico, tra gli eroici difensori, a non vedere chiaro («vedendo chiaramente che non potevano difendersi» — gli altri, invece!) e con realismo il cimento impossibile a cui vorrebbe costringere i suoi compagni («sebbene contro il parere di tutti i cavalieri»). E da una parte si contrappone la retorica dell’eroismo («egli usò tanti argomenti, che tuttavia [lo] persuase a difendersi»), l’eloquenza orgogliosa  naturalmente, trattandosi del testo base per qualunque diretta lettura della vicenda globale ignaziana, tutto il nostro lavoro si giustifica su di esso e ogni nostro rilievo deve essere considerato come innervato in tutto il resto delle scritture come nella stessa storia e opera della Compagnia di Gesù, in ogni suo aspetto e movimento. Per quanto noi diamo tutte le citazioni è indispensabile la lettura completa del testo, per le necessarie organiche integrazioni con le ricchissime imprescindibili note; quanto al testo, rispettiamo i segni diacritici dell’editore, specialmente quanto alle parentesi angolari (< >) per i passi cancellati o espunti, i corsivi per le aggiunte; mentre noi sottolineiamo le parole che vogliamo mettere in rilievo. 2 anche negli Esercizî è riscontrabile lo stesso processo appena messo in luce: qui, ci limitiamo a evidenziare soprattutto due aspetti, quello delle «varietà» (o differenze interiori): cfr. pp. 208-211, 225, 235, 264, 279, 280, 282-283; e della «quiete»: cfr. pp. 370, 373, 386, 395, per comporre lo stesso modello principale dell’autobiografia: dal turbamento della confusione e bipolarità dell’anima alla tranquillità e chiarezza dell’approdo a Dio; l’intero tessuto verbale e dinamica interna degli Esercizî è, di fatto, tutto quanto fondato sullo stesso percorso precisamente rilevato nel Diario espiritual, a conferma del nostro assunto, cioè, della perfetta e totale sovrapponibilità, in Sant’Ignazio, di vita e opera (dalla fondazione della Compagnia agli scritti e governo), pensiero e intenzione, di ogni moto interiore ed esteriore, come rivelato dalle presenze e intensificazioni verbali.; si cfr. anche I. Echarte, S.I., Concordancia ignaciana / An Ignatian Concordance [...], Ediciones Mensajero, Sal Terrae, Bilbao-Mahaño 1996 nei luoghi omologhi opportuni.

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mossa da un «grande e vano desiderio di guadagnarsi degli onori»; dall’altra, tuttavia, la percezione da parte di tutti di una probabile (o certa) cecità di Ignazio e non conformità con tutti gli altri, ma anche la sensazione netta dell’affidamento e della fondatezza e costanza di ignazio: «i quali si confortavano col suo animo e coraggio». E questo non è solo vanagloria o impulso all’azione senza discernimento, ma, soprattutto, consapevolezza e fiducia — non solo in se stesso! («si confessò»- «se confesó») — e forse, lucidità superiore (anche spavalda ...) o bisogno deciso di essa, di credervi e di battersi per essa... Per Ignazio è essenziale, come per molti che cercano sempre il fondamento chiaro delle proprie decisioni e azioni («non trovando cosa certa alla quale decidersi decise...», p. 100) 4. d’altra parte, egli è ben capace e pronto ad ammettere la propria indeterminatezza e distrazione o inerzia o cortezza di visione — così come l’improvviso approdo o risveglio della coscienza («Ma non badava a ciò né si tratteneva a ponderare questa differenza, fino a che una volta gli si aprirono un poco gli occhi», p. 93) 5, con il pronto approfittare anche del minimo progresso spirituale... pur nella necessaria ammissione dei propri limiti («quest’anima che ancora era cieca», p. 99) 76. E così, riceve l’avvertimento del confessore — circa i propri scrupoli — («il confessore venne a ordinargli che non confessasse nessuna cosa delle passate, se non fosse qualche cosa di molto chiaro», pp. 104-105) ; ma non ha dubbî, quando la certezza è cosciente, a seguire fino in fondo la propria integrità: «Ma siccome egli considerava quelle cose come chiarissime, non ricavava nulla da quell’ordine» 8. Se, dunque, la «chiarezza» è, precisamente, il suo lucido sapersi della propria verità e anima, Sant’Ignazio su di essa si fonda, anche a costo di tormenti e sofferenze tremendi («e così sempre restava nel travaglio», p. 105) 79. Procediamo, quindi, al reperimento, sovrapposizione e commutazione di ogni riferimento, tenendo conto del 3 «por ver claramente que no se podían defender»; «aunque contra el parecer de todos los caballeros»; «él dio tantas razones al alcaide, que todavía lo persuadió a defenderse»; «con un grande y vano deseo de ganar honra»; «los cuales se conhortaban con su ánimo y esfuerzo». 4 «no hallando cosa cierta a que se determinase, se determinó». 5 «Mas no miraba en ello, ni se paraba a ponderar esta diferencia, hasta en tanto que una vez se le abrieron un poco los ojos». 76 «esta ánima que aún estaba ciega».

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fatto che i paradigmi verbali messi in evidenza tracciano l’itinerario ignaziano — anche secondo i ritmi proprî del tempo reale che scorre — dallo stato di chiarezzaconfusione interiore iniziale alla progressiva chiarezzacertezza, passando attraverso il travaglio, la determinazione della volontà impegnata, fino alla quiete profonda, quando avviene l’abbandono fiducioso a Dio e al suo aiuto. È evidente che i detti paradigmi non solo vanno sovrapposti e commutati in sé, ma, soprattutto, vanno assimilati alle situazioni in cui vengono espressi. Un altro aspetto della questione, assai importante e da tenere in debita considerazione, è che noi ci limitiamo a seguire la nostra figura-guida essenziale, quella della «claridad», come traguardo necessario e pienamente raggiunto nell’angoscioso percorso vitale e spirituale del Santo; e tralasciamo, quindi, tutti gli altri elementi del quadro (es. le lacrime, la devozione, la preghiera, i ragionamenti, i moti interiori della volontà, le scelte, le contraddizioni, oltre a tutte le azioni, reazioni e controreazioni, ecc. anche delle implicazioni corporali). I paradigmi in esame si riferiscono, pertanto ed esclusivamente a: «chiarezza», «confusione»; «determinato»(e flessione), «determinazione»; «amore», «aiuto[di Dio]»; «confermare» (e flessione), «dubbio», «sicuro», «tranquillità», «quiete», «timore», «fiducia»; conformità, «conformarsi», «lasciarsi governare» (e rispettive flessioni). a. chiarezza - confusione - distinto - indistinto: iniziamo, dunque, dal campo semantico della «chiarezza-distinzione-confusione» pp. 341-342, 5: Mercoledì [6 Febbr.] — Prima della messa e in essa, con devozione e non senza lacrime, e soprattutto circa la nessuna [rendita fissa], dopo sembrarmi, con molta chiarezza o cambiamento del solito, esser confusione il possedere in parte, il possedere tutto uno scandalo, e un aiutare per deprimere la povertà che Dio nostro signore tanto loda: 80

 «el confesor vino a mandarle que no confesase ninguna cosa de las pasadas, si no fuese alguna cosa tan clara». 8 «Mas, como él tenía todas aquellas cosas muy claras, no aprovechaba nada este mandamiento». 79 «y así siempre quedaba con trabajo». 80 «Antes de la misa y en ella, con devoción y no sin lágrimas, y más a no

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nella circostanza della messa, vicino al sacrificio eucaristico, il Santo è conteso tra la propria totale applicazione e dedizione ad esso e l’angoscia che il suo problema gli induce, in una condizione di svalutazione del problema stesso nell’accettazione completa di essa povertà nel segno di dio. emerge la chiarezza e confusione dello «scandalo» e pena della distruzione certa della compagnia. p. 343, 8: Sabato [9 febbr.] — [...] Terminata la messa pur sempre con volontà di non possedere niente, tutto il giorno quieto; e dove quasi agli inizî pensavo di trattenermi di più [circa la scelta] levarmisi tutta la voglia, sembrandomi chiara la cosa, cioè non possedere nulla: 8

sembra qui che ogni problema venga rimosso o superato, con una quiete interiore di scelta allontanata dentro un ambito esclusivo dell’anima ignaziana, sia pure, sempre nell’area della messa. p. 344, 9: Domenica [10 febbr.] — Avviandomi alla scelta, e facendo l’oblazione di non possere nulla con molta devozione e non senza lacrime, e così prima nella solita preghiera, prima della messa, durante essa, e dopo di essa, con molta devozione e lacrime, e sempre per non possedere nulla, acquietandomi nell’oblazione fatta, avendo provato molta chiarezza trascorrendo e riflettendo 82 [...]:

qui, il complesso processo interiore va in molte direzioni e operazioni delle mente e dell’anima e anche scelte di ragioni e sembra produrre una sorta di chiarezza della pura situazione mentale, forse, con moto di autoconvincimento per la frase ripetuta e per lunga discussione e riflessione, accompagnata nella preghiera da devozione e lacrime intense e copiose, nella quiete di un gesto oggettivo. p. 344, 10: Lunedì [11 febbr.] - In mezzo alle solite preghiere, senza scelte, nell’offrire o nel pregare dio nostro signore che l’oblazione passata fosse accettata dallaparecerme, sua divina maestà, con molta devozione e lacrime, nada; después en asaz claridad o mutación de lo sólito, ser confusión

el tener en parte, el tener todo uno escándalo, y un ayudar para deprimir la pobreza que dios nuestro señor tanto alaba». 8 « [...] acabada la misa asimismo y siempre con voluntad de no tener nada, todo el día quieto; y donde casi a los principios pensaba estar más, quitárseme toda la gana, parecièndome ser clara la cosa, es a saber no tener nada». 82 “Andando por elecciones, y haciendo la oblación de no tener nada con mucha devoción y no sin lágrimas, y así antes en la oración sólita, antes de la misa, en ella, y después de ella, con asaz devoción y lágrimas, y siempre con no tener nada, quietándome con la oblación hecha, habiendo sentido mucha claridad discurriendo”; lunga nota sul processo del discurrir p. 344 n. 2 83 su espesa p. 344 n. 23.

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e poi un momento prima colloquiando con lo spirito santo per dire la sua messa, con la stessa devozione e lacrime mi sembrava di vederlo e sentirlo con forte 83 chiarezza o di colore della fiamma ignea in modo insolito, con tutto questo mi si confermava la scelta fatta: 84

qui, la chiarezza si isola nella figura stessa dello Spirito, pur in una visione insolita, come dialogo splendente e fuoco di vivida illuminazione interiore, a confermare la scelta, di per se stessa chiara, dunque, nel segno di un’offerta forte ed accettata. p. 344-345, [5]: dopo per discorrere ed entrare nelle scelte, e determinato, e tirate fuori le ragioni che avevo scritte, per riflettere su di esse, rivolgendo una preghiera alla Madonna, poi al Figlio e al Padre affinché mi desse il suo Spirito per riflettere e discernere, sebbene ne parlassi già come di cosa fatta, provando molta devozione e certe intelligenze con qualche chiarezza di vista, mi sedetti a considerare [...]: 85

il discorso, o continuo trascorrimento e considerazione del santo su tutte le sue problematiche, procede con grande difficoltà e «qualche chiarezza» di comprensione, mentre aumenta la preghiera per avere illuminazione e la lunga insistita riflessione e moti d’intuizione. p. 346 [21]: Martedì [12 febbr.] — Dopo essermi risvegliato, pregando, non finivo di ringraziare Dio nostro signore molto intensamente, con intelligenze e lacrime, per tanto beneficio e per tanta chiarezza ricevuta, che era inspiegabile: 86

qui sembra che ogni questione sia risolta, in modo totalmente inspiegabile, quasi per un impulso interiore ispirato, dunque. Ma nel paragrafo seguente, in un contesto di de84 «En medio de la oración acostumbrada, sin elecciones, en ofrecer o en rogar a Dios nuestro Señor, la oblación pasada fuese por la su divina majestad aceptada, con asaz devoción y lágrimas, y después un rato adelante coloqüendo con el Espíritu Santo para decir su misa, con la misma devoción o lágrimas me parecía verle o sentirle en claridad espesa o en color de flama ígnea modo insólito, con todo esto se me asentaba la elección hecha ΩΩ [questo segno indica visione]»; “espesa” indica grande quantità di chiarezza (cfr. nota 23 dell’editore). 85 “Después para discurrir y entrar por las elecciones, y determinado, y sacadas las razones que tenía escritas, para discurrir por ellas, haciendo oración a nuestra Señora, después al Hijo y al Padre para que me diese su Espíritu para discurrir y para discernir, aunque hablaba ya como cosa hecha, sentiendo asaz devoción y ciertas inteligencias con alguna claridad de vista, me senté mirando”. 86 “Martes [2 Febr.].—Después de despertado, orando, no acababa de dar gracias a Dios nuestro Señor mucho intensamente, con inteligencias y con lágri-

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vozione in aumento e lacrime, subito dopo c’è una specie d’intoppo, proprio quando la discussione stava maturando almeno un primo punto definito: p. 346, [22] Dopo, svolgendo un punto o tentazione venutami all’alba, cioè, solamente per la Chiesa, con molta chiarezza e notizie e con molta devozione, volendo assolutamente chiudere circa quel punto, con molta pace e conoscenza e ringraziamento alle Persone divine, pure con grande devozione 8.

L’itinerario della “claridad” è sempre e sempre più segnato dalla preghiera a condizioni e fasi alterne di variata intensità e partecipazione, nella visione speciale: p. 359, [20]: «Giovedì [21 febbr.] — Nella preghiera prolungata assai continua e con grande devozione, chiarezza calda e piacere spirituale, e volgendomi in parte a una certa elevazione»; p. 360, 22: «Sabato [23 febbr.] — nella solita preghiera, al principio senza trovare, dalla metà in poi con molta devozione e soddisfazione d’anima, con qualche segno di chiarezza lucida»: il cammino non è, evidentemente, molto semplice e il Santo indica lucidamente il suo cammino; p. 367, [90]: «Venerdì [29 febbr.] — «dopo terminata [la messa], un vedere pure la patria o il signore di essa in un modo indistinto, ma chiaramente, come è solito altre volte, quando più, quando meno, e tutto il giorno con speciale devozione»: si tratta, evidentemente, di una visione netta e incerta contemporaneamente; p. 369, [99]: «Lunedì [3 marzo] — E così entrando in cappella, e coperto da una grande devozione alla santissima Trinità, con amore molto aumentato e intense lacrime, non vedendo così come i giorni passati le persone distinte, ma sentendo come in una chiarezza lucida un’essenza, m’attirava tutto al suo amore»: 88 anche qui, uno stato generale, un amore crescente e una grande e quintessenziata chiarezza di fondo, al di là della completezza della visione.

Nella continuità della preghiera l’anima si conduce con lucidità e chiarezza sostanziale di presenza orante e mas, de tanto beneficio y de tanta claridad recibida, no se podiendo explicar”. 8 “Después, soltando un punto o tentación que en amaneciendo me vino, es a saber, solamente para la iglesia, con mucha claridad y noticias y con asaz devoción, queriendo en todo cerrar contra aquel punto, en mucha paz y conocimiento y dar gracias a las Personas divinas, asimismo con asaz devoción”. 88 «Jueves [21 Febr.].—En la oración a la larga en mucho continua y en muy grande devoción, claridad calorosa, y gusto espiritual, y tirando en parte a un cierto elevar»; «Sábado [23 Febr.] — En la oración sólita, al principio no hallan-

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attiva nel sacrificio della messa confortata dalla grazia e dalla visione: p. 370, 32: «Martedì [4 marzo] — Nella preghiera solita con molta assistenza di grazia e devozione; e se chiara, più lucida, con segno di qualche calore, e da parte mia provenendo facilmente a pensieri acuti e profondi, e alzandomi con quell’assistenza. dopo di essermi vestito mentre osservavo l’introito della messa, tutto pronto a devozione, una volta terminata, e amore, verso la santissima Trinità». // [105]: «Poi, accingendomi all’orazione preparatoria per la messa, non sapendo come cominciare, e prima avvertendo Gesù, e sembrandomi che non si lasciava vedere o sentire chiaramente, più in qualche modo oscuro da vedere, e avvertendo e sembrandomi che la santissima Trinità si lasciava sentire o vedere più chiaramente o lucidamente[...]»: 89

il santo prosegue lungo il cammino della meditazione che si attualizza tra visione limpida o indistinta e preghiera assistita dalla grazia sempre a intreccio con l’area preparatoria o di svolgimento della messa. la chiarezza e la distinzione s’accompagnano, in tutto quel periodo, alle visioni e alle esperienze della Trinità: p. 3, [0]: «dopo diverse volte, al fuoco, con intenso amore per essa [la Trinità], e mozioni a lacrimare, e poi in casa di Burgos [l’arcivescovo Álvarez de Toledo che esaminava gli esercizî], e per le strade fino all’ora 21esima [le tre e mezzo del pomeriggio circa], ricordandomi della santissima Trinità, un amore intenso, e ogni tanto mozioni a lacrimare, e terminando tutte queste visitazioni nel do, de la mitad adelante con asaz devoción y satisfacción de ánima, con alguna muestra de claridad lúcida»; «Después de acabada, un ver asimismo la patria o el Señor della in modo indistinto, mas claramente, según que otras muchas veces suele. cuándo más. cuándo menos y todo el día con especial devoción»; «Y así, entrando en capilla, y cubriéndome una grande devoción en la santísima Trinidad, con un amor mucho crecido y lágrimas intensas, no viendo así como los días pasados las personas distintas, mas sentiendo como en una claridad lúcida una esencia, me atraía todo a su amor». 89 «Martes [4 Marzo].—En la oración sólita con mucha asistencia de gracia y devoción; y si clara, más lúcida, con muestra de algún calor, y de mi parte saliendo fácilmente a pensamientos ocurrentes, y levantando con aquella asistencia. Después de ser vestido «veniendo» mirando el introito de la misa, todo movido a devoción «terminada» y amor, terminándose a la santísima Trinidad»; // «Después, yendo a la oración preparatoria para la misa, no sabiendo por quién comenzar, y advirtiendo primero a Jesú, y pareciéndome que no se dejaba ver o sentir claro, más en alguna manera como escuro para ver, y advertiendo, pareciéndome que la santísima Trinidad se dejaba sentir o ver más claro o lúcido[...]». 90 «Después diversas veces, al fuego, con interno amor en ella, y mociones a lacrimar, y después en casa de Burgos y por las calles hasta veintiuna hora, en acordárseme de la santísima Trinidad, un amor intenso, y cuando mociones

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nome ed essenza della santissima Trinità, e non sentendo chiaramente o vedendo persone diverse»; p. 372, 33: «Mercoledì [5 marzo] — Nella solita preghiera, da principio alla fine molta grazia assistendomi senza travaglio di cercarla, e con molta devozione lucida, chiara molto, e con calore che mi assiste». / [2]: «e dopo essermi vestito sembrandomi durare con la grazia e assistenza e devozione alla santissima Trinità, del giorno passato, accingendomi poi all’orazione preparatoria per la messa, e volendo per aiutarmi ed abbassarmi, cominciare con Gesù, e rappresentandomisi un po’ più chiaramente la santissima Trinità e rivolgendomi alla sua divina maestà per raccomandarmi, ecc. un coprirmi di lacrime, singhiozzi e amore intenso ad essa, tanto che mi pareva di non volere o non poter guardare a me[...] 90».

Quello che conta, naturalmente — nella minuziosa dinamica interna — è tener d’occhio i due nuclei della possibile o probabile, distinta o indistinta chiarezza: i centri della visione trinitaria con la presenza decisiva della Vergine Maria e l’intensità persuasa della propria devozione, nella complessa dialettica orante e sofferta dell’esperienza mistica: p. 373, 34: «Giovedì [6 marzo] — All’orazione solita senza travaglio di cercare devozione, ma molto con essa, e proseguendo con grande aumento, con molta soavità e chiarezza mescolata con lo splendore»: 91 [...]

qui va segnalato l’accrescersi della devozione in un complesso d’emozioni luminose legate alle visioni; p. 34, [2]: «al te igitur sentendo e vedendo, non all’oscuro, ma nello splendente e molto splendente, lo stesso essere o essenza divina in figura sferica un po’ maggiore di quello che sembra il sole e da quest’essenza sembrava venire o derivare il Padre, di modo che nel dire: a lacrimar, y todas estas visitaciones terminándose al nombre y esencia de la santísima trinidad, y no sentiendo o viendo personas distintas[...]»; «Miércoles [5 Marzo].—En la oración sólita, de principio al fin mucha gracia asistente sin trabajo de buscarla, y con mucha devoción lúcida, clara mucho, y con calor asistente»; [112]: «Y después al vestir pareciéndome durar de la gracia y asistencia y devoción a la santísima Trinidad, del dia pasado, yendo después a la oración preparatoria para la misa, y queriendo por ayudarme y por bajarme, comenzar por Jesús, y representándoseme un poco más en claro la santisima Trinidad y voltándome a la su divina majestad para encomendarme, etc., un cubrirme de lágrimas, sollozos y amor intenso en ella, a tanto que me parecía que no quería o que no podía mirar en mí». 91 « Jueves [6 Marzo].—A la oración sólita sin trabajo de buscar devoción, mas asaz con ella, y adelante en mucho aumento, con harta suavidad y claridad

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te, id est, Pater, prima mi si rappresentava l’essenza divina che il Padre, e in questo rappresentare e vedere l’essere della santissima Trinità senza distinzione o senza visione delle altre persone [...]»: 92

qui, nella descrizione della complessa visione si coglie il nucleo oggettivo della “claridad”, appunto, nella globalità del rapporto diretto con la Trinità; p. 35 [22]: «terminando la messa, con tanta soddisfazione e devozione, lacrime e visitazioni spirituali, non potendo vedere cosa alcuna ripugnante alla riconciliazione, sebbene io avvertissi, e con gran sicurezza, senza poter dubitare della cosa rappresentata e vista, anzi tornare e considerarla, nuove mozioni interiori, tutto trasportandomi l’amore della cosa rappresentata, tanto mi sembrava di vedere più chiaramente, più oltre i cieli di quanto qui volessi considerare [...]»: 93

ostacoli o trasparenze di rappresentazioni, sicurezze e trasporto amoroso sono gli elementi istitutivi della chiarezza, come esperienza intensa dell’oltre. p. 35, [24]: «Poi, giungendo a san Pietro, e cominciando a far preghiera al corpus domini, un rappresentarmisi sempre nello stesso colore splendente lo stesso essere divino, cosicché non era in me il non vederlo»; p. 375, [25]: «dopo, di notte, alcuni momenti per scrivere questo, si rappresentava la stessa cosa, e vedendo qualche cosa l’intelletto, sebbene per moltissima parte non tanto chiaramente, né in modo tanto distinto, né di tanta grandezza, ma come una scintilla grossetta»; p. 376, 25 [bis]: «Venerdì [7 marzo] — Nella solita orazione entrando da principio con molta devozione, e volendo non mi adattavo a crescere devozione, guardando in su. Dalla metà in poi moltissima mezclada en color. Después de vestido, con alguna nueva devoción y llamamiento, terminándose a la santísima Trinidad». 92 « a te igitur sentiendo y viendo, no en escuro, mas en lúcido y mucho lúcido, el mismo ser o esencia divina en figura esférica un poco mayor de lo que el sol parece, y desta esencia parecía ir o derivar el Padre, de modo que al decir: te, id est, Pater, primero se me representaba la esencia divina que el Padre, y en este representar y ver el ser de la santísima Trinidad sin distinción o sin visión de las otras personas [...]». 93 «Acabando la misa, con tantas , lágrimas y visitaciones espirituales, no podiendo ver cosa alguna repugnante a la reconciliación, aunque yo advertiese, y con una grande seguridad, sin poder dubitar de la cosa representada y vista, antes en tornar a mirar y considerar en ella, nuevas mociones interiores, todo llevándome al amor de la cosa representada, a tanto que me parecía ver más claro, más allá de los cielos que lo que acá quería considerar con el entendimiento, ilustrándose allá, como dije». 94 «Después, llegando a Sant Pedro, y comenzando a hacer oración al Corpus Domini, un representárseme en la misma color lúcida el mismo ser divino,

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devozione continuata con molta chiarezza lucida, calda e dolcissima, che mi durava lo stesso dopo l’orazione»: 94

dunque, una chiarezza intermittente e legata alle tappe d’intensità di preghiera, con resistenza apparente o difficoltà d’accesso o di cammino (p. es., poco più sotto si dice «no alzando el entendimiento a las personas divinas, en cuanto distintas o por distinguir», ‘non elevando l’intelletto alle persone divine, in quanto distinte o da distinguere’); si tratta, d’altra parte, di un’analisi attentissima e rallentata, anche se sommaria da parte d’ignazio dei proprî percorsi spirituali. p. 378, 26 [bis]: «Sabato [8 marzo] — Nell’orazione solita, dal principio alla fine, anche crescendo molta assistenza di grazia con una devozione molto chiara, lucida e calda, con molta soddisfazione d’anima, e molta contentezza nell’orazione preparatoria e in cappella»: 95 qui l’intensità è modulata anche sull’assistenza della grazia nella pienezza dell’anima.

Prosegue il cammino con sempre maggiore densità, contrasti, intervalli e difficoltà, ostacoli e abbandono di notte oscura, confusione spirituale e incertezza di cammino: p. 380, 29 [bis]: «Martedì [11 marzo] — Nell’orazione solita per tutta quanta con molta devozione chiara, lucida e come calda» 96; p. 380, 30 [bis]: «Mercoledì [12 marzo] — nell’orazione solita con molta devozione, e dalla metà in poi, con molta, chiara, lucida e come calda»; p. 380, 45: «terminata la messa, e poi in camera, trovandomi del tutto privo di soccorso alcuno, senza poter avere alcun piacere dai mediatori, né dalle persone divine, ma tanto remoto e tanto separato come se mai avessi sentito una loro cosa, o mai dovessi sentirne in seguito, anzi venendomi dei pensieri contro Gesù, o contro qualcun altro, de modo que en mí no era no verle[...]»; «Después a la noche, algunos ratos de escribir ésta, se representaba lo mismo, y con ver alguna cosa el entendimiento, aunque con muy mucha parte no tan claro, ni tan distinto, ni en tanto grandor, mas como una centella grandecilla»; «Viernes [7 Marzo].—En la oración sólita entrando al principio con asaz devoción, y queriendo no me adaptaba en crecer devoción, mirando arriba. De la media adelante muy mucha devoción continuada con mucha claridad lúcida, calorosa y muy suave, durándome después de la oración lo mismo». 95 «Sábado [8 marzo] — Em la oración sólita, de principio a la fin, aunque creciendo mucha asistencia de gracia con una devoción mucho clara, lúcida y calorosa, a mucha satisfacción de ánima, y asaz contentamiento en la oración preparatoria y en capilla». 96 «Martes [11 Marzo].—En la oración sólita por toda ella con mucha devoción clara, lúcida y como calorosa».

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trovandomi così confuso con varî pensieri[...]»; p. 381, [146]: «Tandem guardando se dovevo andare avanti, perché da una parte mi pareva di voler cercare troppi segni, e in momento o dopo terminate le messe per mia soddisfazione, essendo la cosa in sé chiara e non cercando la certezza di essa[...]»: 97

sant’ignazio ci fornisce, dunque, anche l’auspicio e il desiderio e l’inquieto travaglio d’inclinazione della mente e dell’anima per certe emozioni pur già nette...:: p. 382, [48]: «e con questo cominciarono ad andarsene da me gradatim le tenebre, e a venirmi lacrime, ed essendo queste in aumento, mi venne meno ogni volontà di dir più messe per questo scopo»: 98

la citazione è assai importante, proprio per questo cammino modulato tra tenebre e luce, tra chiarezza e indistinzione, con sempre maggiore carica emozionale... e sarà un sempre maggiore aumento di grazie, visioni e visitazioni, esperienze mistiche sempre più intense. Siamo anche nella zona delle scelte definitive ignaziane... In questa zona: p. 383, [152]: «Di lì ad un quarto d’ora, un risvegliarmi con conoscenza e chiarezza di come il tentatore mi portasse pensieri contro le persone divine e i mediatori e mi ponesse o volesse porre dubbî circa la cosa»: 99

il nemico è venuto alla luce, dunque, dal fondo di tutta la travagliata esperienza ignaziana; là dove i mediatori e le visioni delle persone divine offrivano «fermezza e conferma nella e alla cosa». l’approdo sembra faticosamente raggiunto. Un’ultima testimonianza difficile e confusa, ma comunque netta e, a suo modo, pacificata: 97 «Miércoles [ 12 Marzo].—En la oración sólita con asaz devoción, y de la mitad adelante, con mucha, clara, lúcida y como calorosa»; «Acabada la misa, y después.en.cámara, hallándome todo desierto de socorro alguno, sin poder tener gusto alguno de los mediadores ni de las personas divinas, remoto y tanto separado como si nunca hubiese sentido cosa suya, o nunca hubiese de sentir adelante, antes veniéndome pensamientos cuándo contra Jesú cuándo contra otro, hallándome así confuso con varios pensamientos»; «Tandem mirando si debría proceder adelante, porque por una parte me parecía que quería buscar demasiadas señales, y en tiempo o en misas terminadas por mi satisfacción, siendo la cosa en sí clara, y no buscando la certinidad de ella». 98 «Y con esto comenzaron a ir de mí gradatim las tinieblas, y venirme lágrimas, y éstas siendo en aumento, se me quitó toda voluntad de más misas para este efecto». 99 «de ahí a cuarto de hora, un despertarme con conocimiento o claridad, cómo el tiempo que el tentador me traía pensamientos contra las personas divinas y mediadores me ponía o quería poner dubitación en la cosa».

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p. 385, 4. a.l..: «Domenica [16 marzo] — Prima della messa e in tutta quanta con molte lacrime, terminando la devozione e le lacrime, ora l’una, ora l’altra, senza visioni chiare e distinte»: 00

ma, ormai, il problema è risolto con il pieno affidamento, sottomissione e dedizione alle «persone divine». b) «determinato» e «determinazione» comincia subito, all’inizio del Diario (p. 344) un tentativo di decisione — sempre sull’arduo problema della povertà — nelle prime battute del processo già seguito per la claridad-confusión; la decisione sembra già presa, comunque, orientata nella preghiera fiduciosa alla Madonna e nella limpida concentrazione e intuizione dell’esempio lineare e sicuro di Cristo così come della Trinità, senza alcun dubbio sulla povertà. Ma tutto avviene nella schietta verità della preghiera, essendo il fondamento trinitario la ragione essenziale della claridad; il travaglio, in realtà, procede — siamo, di nuovo, solo all’inizio — e ne è prova la ripetizione del verbo “discurrir”, che è il segno dell’attenta e continua riflessione e speculazione interiore del Santo; ma il problema sembra già superato nella determinazione delle scelte spirituali esemplari: p. 344, [15]: «[Lunedì — 11 febbr.] Dopo, per riflettere e considerare ed entrare nell’ambito delle scelte, e dopo aver deciso, e tirate fuori le ragioni che avevo scritte, per riflettere su di esse, facendo orazione alla Madonna, poi al Padre e al Figlio affinché mi desse il suo Spirito per riflettere e discernere, sebbene ne parlassi già come di una cosa fatta, sentendo molta devozione e certe intelligenze con qualche chiarezza di vista, mi sedetti guardando quasi in genere l’aver tutto, in parte e niente, e mi veniva la voglia di non vedere nessuna ragione, in questo venendomi altre intelligenze, cioè, di come il Figlio da prima inviò gli apostoli e predicare in povertà, e poi lo Spirito Santo, dando il suo spirito e lingue li confermò, e così il Padre e il Figlio, inviando lo spirito santo, tutte e tre le 00 «Domingo [16 Marzo]- Antes de la misa toda ella con muchas lágrimas, terminándose la devoción y lágrimas cuándo a uno, cuándo a otra, sin visiones claras o distintas». 0 «Después para discurrir y entrar por las elecciones, y determinado, y sacadas las razones que tenía escritas, para discurrir por ellas, haciendo oración a nuestra Señora, después al Hijo y al Padre para que me diese su Espíritu para

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persone confermarono tale missione» 0;

in realtà, i timori ricominciano in un intreccio psicologico d’incertezza, abbastanza sanato dall’examen, di cui ribadiamo, naturalmente, l’importanza; devozione difficoltosa, dubbio, tentazione, offerta di sé sembrano tranquillizzare alquanto, e sullo sfondo opera sempre la Trinità, anche, apparentemente, in negativo, fino alla rivolta interiore, seppure misurata la difficoltà sulla grandezza e sapienza divina...: p. 351, [35]: «[Sabato 16 febbr.] Di notte tirando fuori le carte per vedere e fare le ragioni delle scelte, e avendo avuto qualche manchevolezza nella giornata ed entrando in me timori di proseguire, senza dilazionare la scelta come prima; finalmente decisi di andare secondo il solito, ma dubitando da dove avrei cominciato a raccomandarmi, sentendo in me una certa vergogna o non so cosa della Madre, finalmente, prima esaminando la mia coscienza di tutto il giorno e chiedendo perdono, ecc. sentivo il Padre molto propizio, non adattandomi ai mediatori, e con alcune lacrime»; p. 352, [37]: «[stesso giorno] Di lì a poco viene diminuendo un pensiero, che gli altri due giorni posso vedere le scelte, e che il contrario di questo non sembrando aver deciso, mi toccava e mi distoglieva dall’intensissima devozione, volendo io respingere tale pensiero, finalmente levandomi e seduto, messa la cosa ad una scelta, e viste alcune ragioni spirituali, e cominciando un po’ a lacrimare, giudicando che era una tentazione, mi metto in ginocchio, offrendo di non serbare più scelte in questa materia, ma prendendo i due giorni, cioè, fino a lunedì dir la messa per ringraziare e reiterare le oblazioni»; p. 353, [42]: «[Domenica 17 febbr.] Poi considerando se andar fuori o no, e decidendo con molta serenità affermativamente, e provando specialmente mozioni interiori e lacrime, sebbene mi sembrasse di potermi espandermi in esse, sollevandomi in esse, e con molta soddisfazione d’anima, me ne andai con il proposito di terminare domani almeno prima di mangiare, facendo un ringraziamento, chiedendo forze, e reiterando l’oblazione passata per devozione della santissima discurrir y para discernir, aunque hablaba ya como cosa hecha, sentiendo asaz devoción y ciertas inteligencias con alguna claridad de vista, me senté mirando casi en génere el tener todo, en parte y no nada, y se me iba la gana de ver ningunas razones, en esto veniéndome otras inteligencias a saber, cómo el Hijo primero invió en pobreza a predicar a los apóstoles, y después el Espíritu Santo, dando su espíritu y lenguas los confirmó, y así el Padre y el Hijo, inviando el Espíritu Santo, todas tres personas confirmaron la tal misión». 02 «a la noche sacando las cartas para ver y hacer razones de las elecciones, y faltando en el día y entrando en mí temores de proceder adelante, sin dilatar

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Trinità, dicendo la loro messa»; p. 356, [50]: «[Lunedì 8 febbr.] dopo la messa acquietandomi e misurando la mia misura con la sapienza e grandezza divina, andando avanti per alcune ore fino a venire un pensiero di non curare di dir più messe, indignandomi con la santissima Trinità, io non volendo decidere più avanti, considerando fatto il passato, sebbene mi si rappresentasse qualche poco di dubbio, non togliendomisi la devozione per tutto il giorno, sebbene essa per una poca cosa fosse combattuta e timorata di errare in qualcosa»: 02

assai interessante il progresso interiore della quiete che si attua nel superamento delle remore e dei dubbî, pur non mancando timori ed emozioni; ma la decisione è sul fondo. c) amore, aiuto [di Dio] Ciò che più conta, certamente, è osservare, lungo tutto il delicatissimo e arduo processo interiore di sant’ignazio — in sé teso fino allo spasimo dell’emozione e della reazione anche fisiologica — il movimento interno dell’aiuto di Dio — ancor più nella realtà trinitaria — che s’accompagna ed accompagna l’aumento sempre maggiore dell’amore: la elección como antes; tandem determiné de ir por lo sólito, mas yendo dubio por dónde comenzaría a encomendarme, sentiendo en mí cierta vergüenza o no sé qué de la Madre, tandem, primero examinando mi conciencia de todo el día y pidiendo perdón, etc., sentía al Padre mucho propicio, no me adaptando a los mediadores, y con algunas lágrimas»; «De ahí a un poco viene un pensamiento que los otros dos días puedo ver las elecciones, y que el contrario desto no pareciendo haber determinado, me tocaba y me sacaba de la tanto intensa devoción, queriendo yo repugnar al tal pensamiento, tandem levantándome y asentado, puesta la cosa en alguna elección, y miradas algunas razones espirituales, y comenzando un poco a lacrimar, juzgando ser tentación, me pongo de rodillas, ofreciendo de no mirar más elecciones en esta materia, mas tomando los dos días, es a saber, hasta el lunes decir misa para dar gracias y reiterar las oblaciones»; «Después consultando si iría fuera o no, y determinando con mucha paz afirmative, y sentiendo especialmente mociones interiores y lágrimas, aunque parecía poderme dilatar en ellas, levantándome con ellas, y con mucha satisfacción de ánima, me partí con propósito de acabar mañana a lo menos antes de comer, dando gracias, pidiendo fuerzas, y reiterando la oblación pasada por devoción de la santísima Trinidad, deciendo su misa»; «Después de la misa quietándome y mediando mi mesura con la sapiencia y grandeza divina, andando adelante por algunas horas hasta venir pensamiento de no curar de decir más misas, indignándome con la santìsima Trinidad, yo no queriendo determinar más adelante, teniendo por hecho lo pasado, aunque algún poco de dubio se me representase, no se me quitando la devoción por todo el día, aunque ella en alguna poca cosa fuese combatida de errar en cosa alguna». 03 « Entrando en la misa, con muchas lágrimas, y continuándome por toda ella mucha devoción y lágrimas. Asimismo en un paso notablemente vi la misma visión de la santísima Trinidad que primero, siempre aumentándose en mí mayor

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p. 366, [85]: « [Mercoledì 27 febbr.] Entrando nella messa, con molte lacrime, e continuando per tutta essa molta devozione e lacrime. Così pure in un passaggio notabilmente vidi la stessa visione della santissima Trinità di prima, sempre aumentandosi in me maggior amore circa la sua divina Maestà e alcune volte volendomi mancare la parola»; «[Giovedì 28 febbr.] In tutta la solita orazione con molta devozione e assistendomi molta grazia calda, lucida e amorosa»; p. 368, [94]: «[Domenica 2 marzo] e questa [devozione] proseguendo, con certa e molta assistenza di grazia che in me sentivo, e diverse volte e con quasi continue lacrime che dal mezzo della messa in avanti sentivo in me, terminai senza alcune intelligenze, se non alla fine all’orazione della santissima Trinità con una certa mozione, devozione e lacrime, un sentire un certo amore, que m’attraeva ad essa, non rimanendo amarezza alcuna delle passate, ma molta quiete e riposo»; p. 368, [95]: «Dopo, all’orazione, terminata la messa, nuove mozioni interiori, singhiozzi e lacrime, tutto in amore di Gesù, parlando e desiderando piuttosto morire con lui che vivere con un altro, non sentendo timori, e prendendo una certa confidenza e amore alla santissima Trinità; e volendomi raccomandare ad essa come a persone diverse, non trovando [quello che cercavo], sentivo qualcosa nel Padre come essendo le altre in lui»; p. 369, [99]: «[Lunedì 3 marzo] E così entrando nella cappella, e ricoprendomi una grande devozione alla santissima Trinità, con un amore molto accresciuto e intense lacrime, non vedendo così come i giorni passati le persone distinte, ma sentendo come in una chiarezza lucida un’essenza, mi attraeva tutto il suo amore»; p. 369, [101]: «All’entrata della messa, per tanta devozione, da non poter cominciare, o trovando tanti impedimenti a dire: in nomine Patris, ecc. in tutta la messa con molto amore e devozione e con molta abbondanza di lacrime, e quella devozione e amore tutto terminava nella santissima Trinità»; p. 370, [103]: «Terminata la messa, e spogliato [dei paramenti], nella preghiera dell’altare con tanto intenso amore, singhiozzi e lacrime, terminando in Gesù, e consequenter fermandomi nella santissima Trinità, con un certo trasporto reverenziale, mi sembrava che, se non fosse per la devozione delle messe da dire, che mi trovava soddisfatto, e con questo con intera fiducia di trovare in aumento grazia, amore e maggiore sazietà nella sua divina maestà»; [105]: «[Martedì 4 marzo] Poi, andando alla preghiera preparatoria per la messa, non sapendo da chi cominciare, e avvertendo prima Gesù, e sembrandomi che non si lasciasse vedere o sentire chiaramente, ma in qualche modo come oscuro da vedere, e avvertendo, sembrandomi che la santissima Trinità si lasciava sentire o vedere più chiara e splendente, e cominciando e poi ragionando avanti con

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la sua divina maestà un coprirmi di lacrime, singhiozzi e d’un amore così intenso, che mi sembrava di unirmi eccessivamente con il suo amore così splendente e dolce, che mi sembrava quell’intensa visitazione e amore fosse particolare o eccellente fra le altre visitazioni»; p. 371, [106]: «Poi, entrando in cappella con nuova devozione e lacrime, sempre terminando nella santissima Trinità, e così sull’altare, e dopo essermi rivestito coprendomi di molto maggiore abbondanza di lacrime, singhiozzi e amore intensissimo tutto l’amore della santissima trinità»; p. 371, [108]: «Dopo, quasi di nuovo tornando a Gesù e ricuperando qualcosa del perduto, nel dire». Placeat tibi sancta trinitas, ecc. terminando nella sua divina maestà un molto grande amore e coprirmi di lacrime intense; di modo che tutte le volte che in me erano nella messa e prima speciali visitazioni spirituali, tutte terminavano nella santissima Trinità, conducendomi e attirandomi al suo amore»; p. 374-375, [121]: « Giovedì [6 marzo] Al Te igitur sentendo e non vedendo, non al buio, ma nello splendore e molto splendente, lo stesso essere o essenza divina in figura sferica un po’ maggiore di quello che sembra il sole, e da questa essenza sembrava venire o derivare il Padre, di modo che nel dire: te, id est, Pater, prima mi si rappresentava l’essenza divina che il Padre, e in questo rappresentare e vedere l’essere della santissima Trinità senza distinzione o senza visione delle altre persone, tanta intensa devozione alla cosa rappresentata, con molte mozioni ed effusione di lacrime, e così avanti passando per la messa, a considerare, a ricordarmi, e altre volte a vedere la stessa cosa, con molta effusione di lacrime e amore molto accresciuto e molto intenso all’essere della santissima Trinità, senza vedere né distinguere persone, ma dell’uscire o derivare del Padre, come dissi»; p. 375, [122]: «Terminando la messa, con tanta soddisfazione e devozione, lacrime e visitazioni spirituali, non potendo vedere nessuna cosa che ripugnasse alla riconciliazione, sebbene io avvertissi, e con gran sicurezza, senza poter dubitare della cosa rappresentata e vista, anzi nel tornare a guardare e a considerare in essa, nuove mozioni interiori, tutto trascinandomi l’amore della cosa rappresentata e vista, a tanto che mi sembrava vedere più chiaro, oltre i cieli di quello che qua volevo considerare o con l’intelletto, illustrandosi là, come dissi»; p. 377, [130] «Venerdì [7 marzo] — Siccome volevo terminare, finita la messa, e venendo al fuoco, non sapendo in che cosa risolvermi per un buon spazio di tempo, se avrei finito le messe, o quando; dopo venendomi in mente che l’indomani dicessi messa della santissima Trinità, e che in essa o dopo di essa per terminare quello che dovevo fare o finire del tutto; mi vengono molte mozioni, singhiozzi e grandi effusioni di lacrime, attiran-

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domi tutto l’amore alla santissima Trinità»; p. 382, [148]: «Mercoledì [12 marzo] — E con questo cominciarono ad andar via da me gradatim le tenebre, e venirmi lacrime, e queste andando aumentando, mi si tolse ogni volontà di più messe per questo effetto, e venendo nel pensiero tre messe della Trinità per ringraziare mi sembrava essere di cattivo umore; e decidendo che nessuna, crescevo molto in amor divino»: 03

le visioni trinitarie portano quiete e sussulti d’amore, devozione a Cristo fino alla morte ed entusiasmo e sazietà di fiducia fino all’unione, essendo tale estrema esperienza mistica fittamente intrecciata con le vicende della giornata ignaziana solcata dalla preghiera, dalla celebrazione del sacrificio e dalle intense emozioni che la segnano: p. 388-89, 13: «Sabato [29 marzo] — Prima della messa e in essa non con lacrime né senza segni di esse, trovando nell’orazione solita speciale o specialissima grazia, e nella messa, nella maggior parte molta soave devozione, sembrandomi che era maggior perfezione senza lacrime, amor cerca la su divina majestad y algunas veces queriéndome faltar la [178]: palabra come gli angeli, trovare devozione e amore»; p. 389 »; «Y ésta tirando adelante, con cierta y mucha asistencia de gracia que en mí sentía, y diversas veces y con casi continuas lágrimas que de la mitad de la misa adelante en mí sentía, acabé sin inteligencias algunas, sino al fin a la oración de la santísima trinidad con una cierta moción, devoción y lágrimas, un sentir cierto amor, que me tiraba a ella, no quedando amaritud alguna de las pasadas, mas mucha quietud y reposo»; « Después, a la oración, acabada la misa, unas nuevas mociones interiores, sollózos y lágrimas, todo en amor de Jesú, hablando y deseando más morir con él que vivir con otro, no sentiendo temores, y tomando cierta confianza y amor en la santisima Trinidad»; «Y así entrando en capilla, y cubriéndome una grande devoción en la santísima Trinidad, con un amor mucho crecido y lágrimas intensas, no viendo así como los días pasados las personas distintas, mas sentiendo como en una claridad lúcida una esencia, me atraía todo a su amor»; «A la entrada de la misa, de tanta devoción, a no poder comenzar, o hallando tanto impidimiento para decir: in nomine Patris, etc. en toda la misa con mucho y devoción y con mucha abundancia de lágrimas, y la tal devoción y amor todo se terminaba en la santísima Trinidad»; «Acabada la misa, y desnudo, en la oración del altar con tanto intenso amor, sollozos y lágrimas, terminándose a Jesú, y consequenter parando en la santísima trinidad, con un cierto acatamiento reverencial, me parecía que, si no fuese por la devoción de las misas, por decir, que me hallaba satisfecho, y con esto con entera confianza de hallar en aumento gracia, amor y mayor saciamiento en la su divina majestad»; «Después, yendo a la oración preparatoria para la misa, no sabiendo por quién comenzar, y advirtiendo primero a Jesú, y pareciéndome que no se dejaba ver o sentir claro, mas en alguna manera como escuro para ver, y advertiendo, pareciéndome que la santísima Trinidad se dejaba sentir o ver más claro o lúcido, y comenzando y después razonando adelante con la su divina majestad, un cubrirme de lágrimas, sollozos y de un amor tanto intenso, que me parecía excesivamente juntarme a su amor tanto lúcido y dulce, que me parecía aquella intensa visitación y amor fuese señalada o excelente entre otras visitaciones»; «Después, entrando en capilla con nueva devoción y lágrimas, siempre terminándose en la santísima Trinidad, y así en el altar, y después de ser revestido cubriéndome en mucha mayor abundancia de lágrimas, sollozos y amor intensísimo todo al amor de la santísima Trinidad»; «Después, casi al cabo tornando a Jesú y cobrando alguna cosa de lo perdido, al decir: Placeat tibi sancta trinitas, etc. terminando a la su divina majestad un mucho excesivo amor y cubrirme de lágrimas intensas; de modo que todas veces

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«Giorno [domenica di passione] — in questo intervallo di tempo mi sembrava che l’umiltà, reverenza e rispetto non doveva esser timoroso, ma amoroso, e così questo mi placava nell’animo fidentemente dicevo: «Datemi umiltà amorosa, e così di reverenza e rispetto» e, ricevendo in queste parole nuove visitazioni. Pure rifiutando lacrime nell’avvertire questa umiltà amorosa, ecc.»; pp. 389-90, 15: «l.d. Lunedì [31 marzo] Nella messa con lacrime e dopo di essa, terminandosi a reverenza amorosa, ecc. e a momenti giudicando che non era nella mia facoltà, né amore né reverenza, ecc.»; p. 390, 16: «Giorno [martedì di passione] — nella messa con molte lacrime, terminandosi in umiltà amorosa, ecc.»; p. 391, 19: «Venerdì [4 aprile] — Prima della messa con lacrime, e in essa molta abbondanza di essa. non trovando reverenza o rispetto amoroso, si deve cercare rispetto timoroso, guardando i propri errori, per ottenere quello amoroso»: 04

la celebrazione e il pensiero della messa, le visioni, la devozione accresciuta d’amore e calore spirituale si agitano fervidamente nella limpidezza travagliata di un’operazione dell’anima resa sempre più essenziale, totalmente catturata con maggior forza nella sfera mistica. il cammique en mí eran en la misa» y antes especiales visitaciones espirituales, todas terminaban en la santísima Trinidad, llevándome y tirándome a su amor»; «Al Te igitur sentiendo y viendo, no en escuro, mas en lúcido y mucho lúcido, el mismo ser o esencia divina en figura esférica parecía ir o derivar el Padre, de modo que al decir: te, id est, Pater, primero se me representaba la esencia divina que el Padre, y en este representar y ver el ser de la santísima Trinidad sin distinción o sin visión de las otras personas, tanta intensa devoción a la cosa representada, con muchas mociones y efusión de lágrimas, y así adelante pasando por la misa, en considerar, en acordarme, y otras veces en ver lo mismo, con mucha efusión de lágrimas y amor muy crecido y muy intenso al ser de la santísima Trinidad, sin ver ni distinguir personas, mas del salir o derivar del Padre, como dije»; «Acabando la misa, con tantas , lágrimas y visitaciones espirituales, no podiendo ver cosa alguna repugnante a la reconciliación, aunque yo advertiese, y con una grande seguridad, sin poder dubitar de la cosa representada y vista, antes en tornar a mirar y considerar en ella, nuevas mociones interiores, todo llevándome al amor de la cosa representada, a tanto que me parecía ver más claro, más allá de los cielos que lo que acá quería considerar con el entendimiento, ilustrándose allá, como dije»; [130] «Como quería dar fin, acabada la misa y veniendo al fuego, no sabiendo en qué me resolver por buen espacio de tiempo, si daría fin a las misas, o cuándo; después veniéndome in mente que mañana dijese misa de la Trinidad, para determinar lo que había de hacer o finir del todo; me vienen muchas mociones y lágrimas, y de rato en rato, por mucho espacio de tiempo, grandes mociones, sollozos y grandes efusiones de lágrimas, tirándome todo e l’amor de la santísima Trinidad»; «Y con esto comenzaron a ir de mí gradatim las tinieblas, y venirme lágrimas, y éstas yendo en aumento, se me quitó toda voluntad de más misas para este efecto, y veniendo en pensamiento tres misas de la Trinidad para dar gracias, me parecía ser de mal espíritu; y determinando que ninguna, crecía mucho en amor divino». 04 «Antes de la misa y en ella no con lágrimas ni sin muestra dellas, hallando en la oración sólita especial o especialísima gracia, y en la misa, en la

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no ignaziano non facile è vittoria dell’amore proclamato con prodigioso aumento di tensione: il vincolo amoroso è ancor più lo sguardo trinitario; e l’amore, poi, si slancia nella sua carica di progressiva umiltà, reverenza, senso penitenziale, armonia interiore, muto dialogo interiore e adesione profonda della e con la preghiera nell’animo placato finalmente dei timori. È il ritrovamento penitenziale del timore che induce e libera l’amore. Ed è questa di sant’ignazio una ricerca totalizzante e coerente, senza distorsioni e, invece, con elette e lineari, fiduciose mozioni dell’anima, che, allora, si sa e può elevare su se stessa e le proprie inquietudini e contingenze per innestarsi nel discorso salvifico del riposo trinitario. d) confermare, dubbio, sicuro, tranquillità, quiete, timore, fiducia, certezza, serenità, fermezza Si può, a questo punto, aprire un fittissimo e quasi saturo campo semantico della ritrovata saldezza spirituale, quasi del tutto positivo l’orientamento e lo status interiore, pur con le inevitabili incertezze ben senza ritorni; si tratta, naturalmente, di un lungo percorso come solcato da un filo rosso che accompagna giorni e movimenti, esterni ed interni, e prosegue inevitabilmente il suo vincolante cammino nel profondo dell’anima, ancorché, nell’apparenza delle cose e anche dei pensieri e sentimenti, a volte tutto possa sembrare fermo o, addirittura, compromesso, quantomeno sospeso... troppo delicata, del resto, la traiettoria di una vicenda squisitamente spirituale — e qui, più!, mistica — per trovare una soluzione unica e stabile, essendo fluttuante, per molte ragioni non tutte dicibili né riconoscibili, ogni approfondimento ed ogni minima tappa dell’itineramayor parte mucha suave devoción, con parecerme que era mayor perfección sin lágrimas, como los ángeles, hallar interna devoción y amor»; «En este intervalo de tiempo me parecía que la humildad, reverencia y acatamiento no debía ser temeroso, mas amoroso, y así esto me asentaba en el ánimo, que fientadamente decía: «dadme humildad amorosa, y así de reverencia y acatamiento», recibiendo en estas palabras nuevas visitaciones. Asimismo refutando lágrimas por advertir a esta humildad amorosa»; «En la misa con lágrimas y después della, terminándose a reverencia amorosa, etc. y a ratos juzgando que no era en mi facultad, ni amor ni reverencia, etc.»; «Antes de la misa con lágrimas, y en ella mucha abundancia dellas, con muchas inteligencias y sentimientos interiores, y antes della. no hallando reverencia o acatamiento amoroso, se debe buscar acatamiento temeroso, mirando las propias faltas, para alcanzar el que es amoroso». 05 ci limitiamo, pertanto — anche per si tratta di brani estesi di mero riporto di dati interiori circa la tranquillità maturata faticosamente dal Santo — a

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rio mirato alla claridad: il numero delle citazioni è veramente altissimo, perché si compie qui, nella zona salvata della quiete interiore, il nucleo attivo di tutta l’esperienza mistica ignaziana 05. e) conformarsi, lasciarsi governare con questo quinto paragrafo entriamo nella zona della quieta disponibilità effettuale, non più intimamente contraddetta o contrastata o, comunque, risentita l’anima ignaziana nella sua totale donazione a dio e alla sua speciale economia spirituale. sant’ignazio sembra trovarsi al centro di una comunicazione ben particolare, che si fa guida attenta e mirata, ordine e certezza di approdo: il “dove” non è, certamente, più di tanto importante, perché il cammino è segnato nella sua realtà e senso — la Trinità e la Madonna di piena intelligenza e misura provvidenziale. in modo chiaro, perché chiara è la restituzione di sé alla valenza divina, senza tergiversazioni né dubbî o timori, con le relative angosce e sofferenze dilanianti d’insicurezza. L’approdo è consequenter raggiunto...: p. 364, [80]: «Martedì [26 Febbr.] — Già vestito, in camera, e nel prepararmi ad essa, senza nuova devozione

darne un elenco completo, con le date rispettive: p. 341.1 [2 febbr.]; p. 341, 3 [4 febbr.]; p. 343, 8 [9 febbr.]; p. 344, 9 [10 Febbr.]; p. 344, [13] [10 Febbr.]; PP. 344-345 [15] [11 Febbr.]; p. 346 [19] [11 Febbr.]; p. 346 [21] [12 Febbr.]; p. 348 [24] [13 Febbr.]; p. 348, 13 [14 Febbr.]; p. 348 [27] [14 Febbr.]; p. 349 [31] [14 Febbr.]; p. 350, 15 [16 Febbr.]; pp 350-351 [34] [16 Febbr.]; p. 352 [38] [16 Febbr.]; p. 353 [41] [17 Febbr.]; p. 355 [46] [18 Febbr.]; p. 356 [48] [18 Febbr.]; p. 356 [49] [18 febbr.]; p. 356 [50] [18 Febbr.]; p. 357 [51], 18 [19 Febbr.]; pp. 357358 [53] [19 Febbr.]; p. 358 [54] [19 Febbr.]; p. 358, 19 [20 Febbr.]; p. 358 [57] [20 Febbr.]; pp. 358-359 [58] [20 febbr.]; p. 359 [59] [20 Febbr.]; p. 359 [61] [20 Febbr.]; p. 361 [66] ]23 Febbr.]; p. 361 [67] [23 Febbr.]; p. 361 [68] [23 Febbr.]; p. 361 [69] [23 Febbr.]; p. 361 [70] [23 Febbr.]; p. 362 [73] [24 Febbr.]; pp. 362363 [74] [24 Febbr.]; p. 373 [75] [24 Febbr.]; p. 363, 24 [25 Febbr.]; p. 364 [78] [25 Febbr.]; p. 364 [80] [26 Febbr.]; p. 365, 26 [27 Febbr.]; p. 367, 29 [1 Marzo]; p. 368 [95] [1 Marzo]; p. 369 [98] [3 Marzo]; p. 370 [103] [3 Marzo]; pp. 371372 [110] [4 Marzo]; p. 372 [33] [5 Marzo]; p. 373 [115] [5 Marzo]; pp.373-374 [118] [6 Marzo]; p. 374 [119] [6 Marzo]; p. 375 [122] [6 Marzo]; p. 376 [127] [7 Marzo]; p. 376 [128] [7 Marzo]; p. 380, 29 [bis] [11 Marzo]; pp. 380-381 [145] [12 Marzo]; pp. 381-382 [147] [12 Marzo]; p. 383 [151] [12 Marzo]; p. 383 [152] [12 Marzo]; p. 384 [155], 1 [13 Marzo]; pp. 385-386 [160] [13 Marzo]; p. 386 [162], 1 [17 Marzo]; p. 389 [178] [30 Marzo]; p. 390 [183], 17 [2 Aprile]; pp. 394-395 [222] [11 Maggio]; p. 395 [227], 50 [15 Maggio]; p. 396 [234], 57 [22 Maggio]; 404 [367], 5 [15 Ottobre]; p. 405 [383] [21 Ottobre]. 106 «Ya vestido, en cámara, y al prepararme en ella, con nueva devoción y mociones interiores a lacrimar en acordarme de Jesú, sentiendo mucha confianza

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e mozioni interne a lacrimare nel ricordarmi di Gesù, provando molta fiducia in lui e sembrandomi essermi propizio ad intercedere per me, e non volendo né cercando più né maggiore conferma delle cose passate, restando quieto e riposato in questa parte, venivo a domandare e a supplicare Gesù per conformarmi con la volontà della santissima Trinità per la via che gli sembrasse meglio»; p. 364, [81]: «Martedì [26 Febbr.] — Dopo nel rivestirmi, crescendo questo rappresentar soccorso e amor di Gesù, cominciando la messa non senza molta, quieta e riposata devozione; e in qualche modo leggero a lacrimare, sembrandomi che con meno ero più soddisfatto e contento a lasciarmi governare dalla divina maestà, da cui è proprio il dare e il ritirare le sue grazie, secondo e quando più conviene; e con questo dopo, al fuoco, crescendo questa contentezza, con una nuova mozione interiore e amore a Gesù, mi trovavo senza trovare quella contraddizione passata in me circa la santissima Trinità, e così nella messa continuandomi molta devozione in essa»; pp. 372-373, [3]: « [5 Marzo] — dopo in cappella, in preghiera molto soave e quieta mi sembrava cominciando la devozione a terminare nella santissima Trinità, mi conducevo a terminare anche da altra parte, come al Padre, di modo che sentivo in me volermisi comunicare in diverse parti; tanto che, preparando l’altare, e con un sentire e parlare dicevo: dove mi volete, signore, portare, e questo moltiplicando molte volte, mi sembrava di esser guidato, e mi cresceva molta devozione, mettendomi a piangere. dopo alla preghiera per vestirmi con molte mozioni e lacrime offrendo mi guidasse e mi portasse, ecc. in questi passi, stando su di me, dove mi porterebbe. dopo vestito, non sapendo per dove cominciare, e dopo prendendo Gesù per guida, e appropriando le preghiere secondo ciascuno, passai fino alla terza parte della messa con molta assistenza di grazia e calda devozione, e molta soddisfazione dell’anima, senza lacrime, né, credo così, desiderio disordinato di averle, accontentandomi con la volontà del Signore, tamen dicevo, volgendomi a Gesù: Signore, dove sono o dove, ecc.; seguendovi, mio Signore, io non potrò perdermi»; p. 376, [127]: «Venerdì [7 Marzo] — Dopo nell’orazione preparatoria con quieta e interna mente, e così nella cappella. dopo nel vestirmi, con nuove mozioni a lacrimare e a conformarmi con la volontà divina, e mi guidasse, mi conducesse, ecc. Ego sum puer, ecc.»; p. 379. [140]: « Domenica [9 Marzo] — Il giorno tutto camminando con grande contentezza d’anima; di notte mi sembrava d’adattarmi a devozione, terminando alla santissima trinità e a Gesù, e di modo che l’intelletto si rappresentava, lasciandomi vedere in certo modo; io volendo adattarmi al Padre, allo spirito santo e alla Madonna, in questo non trovavo né devozione né visione alcuna, durando per qualche tempo l’intelligenza o visione della santissima

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Trinità e di Gesù»; pp. 379-380. [142]: «Lunedì [10 Marzo] — dopo in cappella e nella messa con devozione ugualmente e conformandomi con quello che il signore ordinava, e pensando che la sua divina maestà avrebbe provveduto, prendendo ad bonum, ecc.»; pp. 381-382 [147]: « Mercoledì [12 Marzo] — Tandem considerando, dato che nella cosa non c’era difficoltà, come sarebbe maggior piacere per dio nostro signore concludere senza più aspettare né cercar prove, o per esse dir più messe, e per questo procedendo a scelta, sentivo che maggior piacere sarebbe per dio nostro signore il concludere, e sentivo nella mia volizione che avrei voluto che il Signore accondiscendesse al mio desiderio, cioè, finire a tempo di trovarmi molto visitato, poi nel sentire la mia inclinazione, e d’altra parte il piacere di dio nostro signore, cominciai subito ad avvertire e voler giungere al piacere di dio nostro signore»; p. 384, [156]: «Giovedì [13 Marzo] — nella messa con un conformarmi con la volontà divina nel non aver lacrime»; p. 391, 21 a.l.d.: «Domenica [6 Apr.] — Prima della messa con lacrime e in essa dopo la passione con molte e continuate, terminandosi di conformare la mia volontà con la divina, e dopo la messa pure con esse»; p. 392, 22: «Lunedì [7 Apr.] — Nella messa a lungo molte lacrime, tirando alla conformità con la volontà divina» 106.

Ma, al di là dello specifico percorso vincolato alla precisa e storica esperienza riportata nel Diario espiritual — e che consente di leggere, in filigrana, il processo verificato negli Esercizî, in ogni altro istante della sua vicenda sant’Ignazio è ampiamente sostenuto, nei momenti rilevanti della sua esperienza globale 0, da molteplici visioni limpide e oggettive che lo aiutano a confrontarsi con decisione e verità nelle sue operazioni spirituali: «Una notte che era sveglio, vide chiaramente un’immagine della Madonna con il santo Bambino Gesù, alla cui vista, per molto tempo ricevette consolazione grandissima, e restò talmente schifato di tutta la vita passata, e specialmente di cose della en él y pareciéndome propicio para interpelar por mí, ysi novede queriendo ni carne» (p. 96) 08.serme E qui, forse più che altrove, bene buscando más ni mayor confirmación de lo pasado, quedando quieto y reposado

en esta parte, venía a demandar y suplicar a Jesú para conformarme con la voluntad de la santísima Trinidad por la vía que mejor le pareciese»; «Después al revestir, creciendo este representar socorro y amor de Jesú, comenzando la misa no sin mucha, quieta y reposada devoción; y con algún modo tenue a lacrimar, pareciéndome que con menos me hallaba más satisfecho y contento en dejarme gobernar por la divina majestad, de quien es el dar y retirar sus gracias, según y cuando más conviene; y con esto después al fuego, creciendo este contentamiento, con una nueva moción interior y amor a Jesú, me hallaba sin hallar aquella contradicción pasada en mí cerca la santísima Trinidad y así en la misa continuándome asaz devoción en ella.» «Después en capilla, en oración

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la rapida autocoscienza e autocorrezione fino al punto di datare l’avvenimento della «mudanza» (‘cambiamento’) nella solennità della sua storia interiore ed esteriore... In altra occasione, p. 106, Sant’lgnazio riflette sui proprî peccati del passato: «gli vennero dei moti di disgusto della vita che conduceva, con un certo impulso di smetterla» 109. Anche qui, l’intervento del Signore è altrettanto netto e senza equivoci («e con questo il Signore volle che si svegliasse come da un sogno», p. 106) 0, perché espresso dalla Sua volontà («volle», «quiso»); e anche nel ricordo delle «lezioni che Dio gli aveva dato» («lecciones que Dios le había dado»); però, a questa nuova limpida visione dentro di sé ed esperienza — e si veda, ancora una volta la complessità delle mozioni spirituali di Sant’Ignazio suave y quieta me parecía comenzando la devoción a terminar en la santísima trinidad, me llevaba a terminar aun a otra parte, como al Padre, de modo que sentía en mí querérseme comunicar en diversas partes; a tanto que, adrezando el altar, y con un sentir y hablar decía: Dónde me queréis, Señor, llevar, y esto multiplicando muchas veces, , y me crecía mucha devoción, tirando a lacrimar. Despues a la oración para vestirme con muchas mociones y lagrimas ofreciendo me guiase y me llevase, etc., en estos pasos, estando sobre mí, dónde me llevaría. Después de vestido, no sabiendo por dónde comenzar, y después tomando a Jesú por guía, y apropiando las oraciones a cada uno, pasé hasta tercia de la misa con asaz asistencia de gracia y devoción calorosa, y asaz satisfacción del ánima, sin lágrimas, ni, creo así, deseo desordenado de haberlas, contentándome con la voluntad del Señor, tamen decía, voltándome a Jesú: Señor, dónde voy o dónde, etc. siguiéndoos, mi Señor, yo no podré perder»; «Después en la oración preparatoria con quieta y interna mente, y así en la capilla. Después al vestir, con nuevas mociones a lacrimar y a conformarme con la voluntad divina, que me guiase, que me llevase, etc. Ego sum puer, etc.»; «El día todo andando con asaz contentamiento de ánima; a la noche me parecía que me adaptaba a devoción, terminando a la santísima Trinidad y a Jesú, y de modo que al entendimiento se representaba, dexándose ver en cierto modo; yo queriendo adaptarme al Padre, al espíritu santo y a nuestra señora, en esto no hallaba ni devoción ni visión alguna, estante por algún rato la inteligencia o visión de la santísima Trinidad y de Jesú»; «Después en capilla y en la misa con devoción a lo mismo y conformándome con lo que el Señor ordenaba, y con pensar que su divina majestad proveería, tomando ad bonum, etc.»; «Tandem considerando, pues en la cosa dificultad, cómo sería mayor placer a Dios nuestro Señor concluir sin más esperar ni buscar pruebas, o para ellas decir más misas, y para esto poniendo en elección, sentía que más placer sería a Dios nuestro señor el concluir, y sentía en mi volición que quisiera que el señor condescendiera a mi deseo, es a saber, finir en tiempo de hallarme mucho visitado, luego en sentir mi inclinación, y por otra parte el placer de Dios nuestro Señor, comenzé luego a advertir y quererme llegar al placer de Dios nuestro Señor»; « en la misa con un conformarme con la voluntad divina en no haber lágrimas»; «Antes de la misa con lágrimas y en ella después de la pasión con muchas y continuadas, terminándose de conformar con la divina y después de la misa asimismo con ellas»; «En la misa a la larga muchas lágrimas, tirando a conformidad con la voluntad divina». 0 cfr. obras, Aut., pp. 108-109 le visioni di Manresa. 08 «estando una noche despierto, vido claramente una imagen de nuestra Señora con el santo Niño Jesús, con cuya vista por espacio notable recibió consolación muy excesiva, y quedó con tanto asco de toda la vida pasada, y especialmente de cosas de carne».

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(esperienza, aiuto di Dio, sguardo di piena osservazione su di sé «cominciò a guardare», «siccome aveva già qualche esperienza» — «empezó a mirar», «como ya tenía alguna experiencia») — subentra la «determinazione», che abbiam visto essere impulso volontaristico e di pensiero fondamentale in Sant’Ignazio e che è immediata: Sant’Ignazio coglie in atto l’insegnamento diretto di Dio («A quel tempo dio lo trattava nello stesso modo che un maestro di scuola tratta un bambino, insegnandogli», p. 106-107) , ed è la sua una percezione precisa e incontrovertibile, certa, perché avvertita e perché fondata su motivi esatti: perché ne aveva bisogno a causa dei suoi pesanti limiti («e, sia che questo fosse per la sua rozzezza e corto ingegno») 2; perché Sant’lgnazio avverte la presenza di uno speciale Maestro in totale assenza di altri...; perché l’assiale relazione tra dio e lui era fortissima senza iato e dio aveva dato a Sant’Ignazio la «salda volontà» «per servirlo», cioè, strettamente collegata dal nesso-strumento solido («voluntad») e dal fine («servirle» e solo lui!). E il cogliere in atto l’insegnamento è espresso dal netto riconoscimento senza esitazioni e senza dubbî della presenza certa di Dio («chiaramente egli giudicava e sempre ha giudicato che dio lo trattava in quel modo; anzi, se avesse dubitato di questo, avrebbe pensato di offendere la Sua Divina Maestà») 3. Sant’Ignazio aggiunge, poi, «cinco puntos», cioè, cinque episodî concreti a confermare la perfetta sintonia tra sé e dio nella consuetudine o nella circostanza di avvenimenti particolari in cui dio gli mostra la sua speciale assistenza: p. 58, p. es. «et essendo un giorno, alcune miglia prima che arrivasse a roma, in una chiesa et facendo oratione, ha sentita tal mutatione nell’anima sua, et ha visto tanto chiaramente che iddio Padre lo metteva con cristo, suo Figliuolo che non gli basterebbe l’animo di dubitare di questo, senonché Iddio Padre lo metteva col suo Figliuolo». orazione, mutazione, visione: l’itinerario della chiarezza è l’appello alla certezza del solus Deus, in che consiste il supremo messaggio ignaziano. 109 «le vinieron unos desgustos de la vida que hacía, con algunos ímpetus de dejalla». 0 «y con esto quiso el Señor que despertó como de un sueño».  «en este tiempo le trataba dios de la misma manera que trata un maestro de escuela a un niño». 2 «y, ora esto fuese por su rudeza y grueso ingenio».

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3 cfr. obras, Aut., pp. 107-108: devozione alla Santissima Trinità; la visione del1’intelletto della creazione del mondo; la visione di Gesù nel Santissimo Sacramento; la visione dell’unità di Cristo; l’illuminazione dell’intelletto a Manresa; «claramente él juzgaba y siempre ha juzgado que Dios le trataba desta manera; antes di dudase en esto, pensaría ofender a su Divina Majestad».

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Esperienze di mistica spagnola

indicE analitico a cura di stefano rosi le parole rilevate intendono indicare termini istituzionali della condizione e dei processi dell’esperienza mistica; così, della scrittura e suoi caratteri, modi e movimenti, anche come sintesi e percorsi di concetti più ampî e per campi semantici; in corsivo, le parole in lingua latina o spagnola o in riferimento alla metodologia critica. acertar 105, 107, 112n, 196 atinar , 8n, 0 attivismo 146, 168 azionismo, a. divino , 2122; a. positivo 11, 15, 35, 46, 48, 50, 57, 76, 117, 122, 129-130, 148, 185-186, 222, 237, 244; a. negativo 11 chiarezza 59, 89, 95, 105, 109, 2-3, 5, 20, 205(242)-266 claridad vedi chiarezza comparaciones vedi similitudini composizione (in senso ignaziano) 46 confianza vedi confidenza confidenza, fiducia 47, 111-113, 23, 5-52, 240, 243-244, 260-261 deseo vedi desiderio desiderio 13, 15, 43-46, 49-50, 53, 74-75, 87, 90-92, 98, 102, 104, 112, 128-129, 157-170, 174, 178, 183-184, 187, 199, 203, 209-214, 217, 231, 252 determinación vedi determinazione determinazione, decisione 45, 47, 51, 92, 98, 179, 193, 209, 217, 219, 233-242, 244, 253255, 264-265 didattica 16, 17, 41, 52, 55, 81, 84, 89, 92, 101, 103, 114, 122, 126-129, 168, 172, 207, 22 diferencias vedi differenze differenze, varietà, 17-18, 47, 79, 92, 99, 127, 182, 202, 209,

213, 216, 219, 226, 228-234 ejercicio vedi esercizio esercizio 117, 129, 178, 190, 203, 206, 210, 218, 220-234 esperienza, sperimentale 5-8, 23, 27, 29, 43-45, 47, 49, 51, 55, 57, 67, 70, 76, 79-87, 89-92, 94, 96-98, 100-101, 103-106, 110, 117, 120, 122, 126-129, 136-137, 156, 166, 168, 172, 191-192, 199, 203, 206-208, 221, 225-234, 239, 248-249, 252-253, 259, 261, 264-265 experiencia vedi esperienza humildad vedi umiltà immagine vedi similitudini indifferenza 19, 22, 24, 30, 32, 233 inimicizia 4-5, 35 libertà, autonomia 23, 29-30, 3335, 46, 50, 72, 84, 92-93, 100, 113, 121, 149, 183 linguaggio, parola del mistico 16, 28-29, 43, 45-46, 49-50, 59, 95, 109, 113, 120, 123, 125127, 136, 143, 153, 162-164, 170, 175, 185, 189, 195-196, 20, 208 metafisica senza figure 44 metodologia critica 15-16, 63, 68, 145, 160, 171, 208-209, 244 misura, dismisura, gradazione, gradualità, grandezza, eccesso 18-19, 21-23, 33, 42, 45, 47, 49, 55, 58, 60-62, 64, 67-68, 79, 91, 97, 100-103, 108-109, 112, 112n, 114-117,

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Gaetano Chiappini

119, 123, 130-132, 134, 136, 139-140, 147, 165, 172, 174175, 178-179, 184-185, 188, 195-197, 199, 202, 210, 230, 239, 242, 262 modello, figura, fondamento, sistema generale, uomo ignaziano 205, 207-209, 215, 220, 225-226, 228-234, 239-240, 252 modello, sistema generale sangiovanneo 2-28, 3, 33, 135-140, 148, 160-173, 176179, 194, 197 modello, sistema generale teresiano, nuclei , 3, 45, 5, 61, 72, 76, 92-94, 96, 100101, 105-106, 111, 114-115, 8, 2 nemico -53, 44, , 233 opera ignaziana integrale 209, 220 opera teresiana integrale , 03, 106-107 oración vedi orazione orazione, preghiera , 24-25, 58, 81n, 93, 101, 104, 130, 181-182, 225, 246-248, 253, 259-260, 266 santi 41, 60-61, 223, 230 scrittura, scrittore, scrittrice 518, 27, 29, 39, 47, 55-62, 8990, 95-96, 101, 103-107, 120, 125-128, 149-150, 160-161; s. analogica 16, 18, 27-29, 35, 43, 46, 61, 99, 103, 109, 123, 125, 136, 162-165, 167-168, 170-171, 191, 193; il divino nella s. 16-18, 61, 103, 105, 126; mandanti della s. 16, 56, 58-61, 89, 96, 125 simbolo, simbolico 16, 18, 23, 27-29, 68-69, 74, 84-86, 99100, 159, 165, 169, 176, 209

similitudini, comparazioni , 17n-18n, 43, 90, 114 sproporzione, proporzione 20, 22, 33, 38-39, 44-45, 49, 60, 6364n, 68-69, 75, 81, 91, 102, 109, 113, 151, 178, 225 totalità, totale, integrale, integralità, intero, totalizzante, pienezza 16-17, 20, 33, 3536, 43, 46, 55, 64, 67, 70-74, 77, 81, 84, 87, 89-90, 92, 97, 00-03, 0, 5, , 20124, 126-133, 136-141, 144, 158-159, 164-165, 170, 174, 193-195, 203, 205-207, 209, 212, 214, 216, 221-224, 226227, 229, 231, 233, 235-236, 239-240, 245, 249, 260 umiltà 13, 21-22, 33, 35-42, 47, 59-60, 62, 72, 92, 111-113, 130, 146-148, 151-152, 168, 184-189, 193-194, 260 variedad vedi varietà verdad, veritas vedi verità verità 11, 16, 18, 21-22, 24, 3841, 50, 55, 61, 67-68, 71, 79, 83, 86, 89, 98, 102, 107-109, 112, 114, 119, 133, 162, 167, 169, 174, 181, 198-199, 203, 207, 225, 229, 244, 253, 264 virtù 30, 38, 52, 95-96, 99, 130, 147, 194 volontà 13, 18, 22, 25, 27, 30-32, 34, 36, 39, 45, 47-48, 55-62, 67, 74, 76-77, 80, 90-93, 100, 117, 119, 123, 126, 129-131, 135, 137-139, 143-154, 171190, 194, 201, 205, 223-225, 236, 238, 244, 265 voluntad, voluntas vedi volontà

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Gaetano Chiappini

sEcoli d’oro diretta da Gaetano Chiappini e Maria Grazia Profeti

. M.G. Profeti, n. Von Prellwitz, d. Pini, G. chiappini, M. roca, F. ceccarelli, a. Jurado, s. Mazzardo raccontarE nElla spagna dEi sEcoli d’oro 2. coMMedia aUrea sPaGnola e PUbblico italiano Vol. i Maria Grazia Profeti matEriali, variazioni, invEnzioni 3. coMMedia aUrea sPaGnola e PUbblico italiano Vol. ii M.G. Profeti, c. Marchante Moralejo, F. antonucci, s. castelli, d. símini, d. Gambini, A. Gallo, A.F. Ivaldi, B. Tejerina tradurrE, riscrivErE, mEttErE in scEna 4. vErsi d’amorE E concEtti sparsi il sonetto nella spagna dei secoli d’oro antologia tradotta e commentata da Maria Grazia Profeti 5. coMMedia aUrea sPaGnola e PUbblico italiano Vol. iii a. leyva, s. castelli, M.G. Profeti, s. Mazzardo, c. García, M. lombardi pErcorsi EuropEi 6. Gaetano Chiappini FrancEsco dE QuEvEdo E i suoi “auctorEs”: miti, simboli E idEE

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Esperienze di mistica spagnola

. María a. roca Mussons contrapuntos cErvantinos 8. M.G. Profeti, Encarnación García de Dini, n. Guasti, M. lombardi i sEcoli d’oro E i lumi: procEssi di risEmantizzazionE 9. caldErón: tEsto lEttErario E tEsto spEttacolo atti del seminario 0. M.G. Profeti nEll’oFFicina di lopE . M. lombardi, c. García il gran cid dEllE spagnE (materiali per lo studio del tema del cid in italia) 2. G. chiappini EspEriEnzE di mistica spagnola: s. ignazio di loyola, s. giovanni della croce e s. teresa d’avila

[0986] lire 40.000

ISBN 88-8125-264-3