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Italian Pages [251] Year 1987
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Erasmo in Italia 1520-1580
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Prima edizione novembre 1987
Indice
uele 86 s.p.a., Torino, corso Vittorio Eman © 1987 Bollati Boringhieri Editore j i j ti i diritti riservati iasco (To)
Grafica di Grugl g?atrrìplatorin Italia dalla Tecno
CL 61-8968-7
ISBN 88-339- 0415 -6
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Progetto grafico di Pierluigi Cerri
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Ringraziamenti Introduzione
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Erasmus noster: un preludio
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Erasmo luterano: una costruzione della teologia italiana fra il 1520 e il 1535
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Appendice
Confronto fra il caso Vergerio e il caso Nacchianti
La generazione del 1510 Appendice
Echi italiani della polemica fra Erasmo e Lutero sul libero arbitrio
Una dottrina di libertà
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Scuola di grammatica, scuola di eresia
122
Il cielo aperto, ovvero l’infinita misericordia di Dio
143
Appendice
Teoria e pratica della confessione
168
Amore coniugale e amor divino
176
Appendice
192
Il caso di Ludovico Corte
Il dubbio
197
1559 e dintorni
223
a Spionaggio e teologia: il caso di Aurelio Cicut Erasmo cattolico
.
L’intelletto captivo: libri e lettori tra il
1559 e il 1580
Erasmo e l’inquisitore Notai e cancellieri
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Indice degli studiosi
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Indice dei luoghi
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Note
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Abbreviazioni bibliografiche Indice dei personaggi storici
Ringraziamenti
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Il bando di Erasmo: un epilogo Abbreviazioni dei fondi archivistici e delle biblioteche italia Perc}
240
469
503 521
527
Due fondazioni scientifiche, una tedesca — la Gerda Henkel Stiftung di Diissel-
dorf — e una svizzera — il Fondo Nazionale Svizzero per la Ricerca Scientifica di
Berna — hanno finanziato le indagini che confluiscono in questo libro. Il Fondo Nazionale Svizzero per la Ricerca Scientifica ha fornito il suo appoggio a un programma triennale d’indagine (1975-78) che prevedeva l’esplorazione delle fonti letterarie e dei trattati teologico-controversistici, nonché la preparazione di un catalogo delle edizioni italiane di opere di Erasmo. In questo primo periodo di ricerca rientra anche l’esplorazione del fondo del Santo Ufficio nell’Archivio di Stato di Venezia, del fondo dell’Inquisizione nell’Archivio di Stato di Modena, del fondo del Santo Ufficio nell’Archivio Storico Diocesano di Napoli, del piccolo fondo inquisitoriale della Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, nonché del fondo del tribunale del Santo Ufficio di Roma nella biblioteca del Trinity College di Dublino. La Gerda Henkel Stiftung di Diisseldorf ha fornito il suo appoggio a un programma triennale di ricerca (1981-84), che ha consentito di prolungare l’esplorazione del fondo del Santo Ufficio veneziano fino al 1580 circa, e ha permesso inoltre l’esplorazione dei fondi del Santo Ufficio
di Udine, di Siena, di Rovigo, di Pisa, di Imola e del fondo dell’Archivio Patriarcale
di Venezia. Grazie alla mediazione dell’Accademia Olandese delle Scienze, l’Organizzazione Olandese per lo Sviluppo della Ricerca Scientifica (ZWO) mi ha reso possibile un periodo di lavoro nella Gemeente Bibliotheek di Rotterdam, inteso a verificare e completare la lista delle edizioni italiane di opere di Erasmo (1980). l clima di liberalità e di fiducia, l’attenzione per i problemi e le vicende individuali degli studiosi, la flessibilità e la civilissima apertura al dialogo, che ho trovato in queste istituzioni, sono state per me altrettanto essenziali quanto l’appoggio finanziario che esse mi hanno accordato. È in questo duplice senso che mi è caro esprimere la mia gratitudine ai professori Olivier Reverdin di Ginevra e Walter Riiegg di Berna, al dottor Michael Stettler di Berna, nonché al professor Andreas Buirckhardt di Berna, che sono stati tramiti del mio contatto con il Fondo Nazionale Svizzero per la Ricerca Scientifica. A Lisa Maskell di Diisseldorf e al professor Josef Fleckenstein di Gottinga sono debitrice del fecondo triennio di lavoro patrocinato dalla Gerda Henkel Stiftung. Al professor Samuel Dresden di Leida, ai dottori Cor-
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que
sa Johanna van de nelis Reedijk e Johannes Trapman dell’Aia nonché alla dottores nte amichevole caldame Roer Meyers di Rotterdam va la mia gratitudine per il clima questo attestato care state sono mi che che ho trovato a Rotterdam. Per due persone di Basilea e Kaegi Werner maestro mio il per tardi: troppo di riconoscenza arriva per Clemens Bruehl di Amsterdam. e personale, 1 debiti di riconoscenza che ho contratto con l’Italia sono di caratter reso possiha che osto presupp il stata essendo italiani la collaborazione degli storici utilizzati. Di uno dei qui tari documen fondi dei alcuni ad o l’access o facilitat o bile ignorato l’esistenza fondi dell’Inquisizione che ho studiato, quello di Imola, avrei Patriarcale di hivio dell’Arc fondo Il g. Ginzbur Carlo o segnalat se non me l’avesse ovile di Arcivesc chivio Venezia mi è stato segnalato da Adriano Prosperi. Nell’Ar a mia messo ha che Col, Del Andrea da Udine il mio lavoro è stato reso possibile attualUfficio Santo del processi dei edizione sua della disposizione il dattiloscritto documenti e ha conmente in preparazione, mi ha costantemente inviato copie di Vescovile di Rovigo Curia della hivio Nell’Arc . trollato le mie trascrizioni sugli originali
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Ringraziamenti
hivio Storico Dioceil mio lavoro è stato facilitato da Stefania Malavasi, nell’Arc
ioni e inforsano di Napoli da Giovanni Romeo. Costantemente generoso di segnalaz mazioni è stato Silvano Cavazza. e della gentiCome tutti gli studiosi di Erasmo, anch’io ho profittato del sapere questo libro di ntali fondame lezza del professor Jean-Claude Margolin. Una delle idee Johannes dottor il con e Moeller Bernd r si è cristallizzata nel dialogo con il professo to di documen un di e ficazion l’identi inoltre devo n Trapma s Trapman; a Johanne dato sarà ricerca la rilievo primario. Di molti altri obblighi che ho contratto durante atto nel corso del libro. biblioteche e Sui miei debiti di riconoscenza nei confronti del personale delle ente in attualm lavoro un in degli archivi statali italiani avrò occasione di ritornare ecclearchivi degli direttori ai ine gratitud mia preparazione. Qui vorrei esprimere la
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e con la loro elasticità riesiastici, che con la loro premura, con la loro solidarietà
finanziarie, con le scono a neutralizzare gli effetti delle gravi difficoltà logistiche e riconoscenza che a profond con È ati. quali questi archivi si trovano spesso confront di Udine, monovile Arcivesc hivio dell’Arc Biasio De Luigi r menziono qui il professo Rovigo, monsignor signor Alberino Gabrielli dell’Archivio della Curia Vescovile di or Enzo Virgili Salvatore Loffredo dell’Archivio Storico Diocesano di Napoli, monsign dell’ArchiRojo o Fernand padre il e Pisa di ovile Arcivesc Curia dell’Archivio della vio Generalizio degli Agostiniani di Roma. solet, acu tanMarino Berengo ha letto un capitolo del dattiloscritto, «rem, ut Jacobson Anne Col, Del Andrea lette hanno ne za lunghez gens». Parti di diversa conlibro questo che errori Schutte e Heinz Scheible. Grazie a loro, il numero degli
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Heidelberg, luglio 1987
Introduzione
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L’assenza dell’Italia dal panorama internazionale degli studi su Erasmo da Rotterdam è il riflesso storiografico dell’assenza di Erasmo dall’orizzonte culturale degli italiani. Mentre in Francia e in Inghilterra, in Germania e
in Canadg, 'in Svizzera e negli Stati Uniti — per tacere dei P,aesi Bassi — l’in-
dagine gli riserva lo spazio che spetta a un protagonista primario della cultura europea, in Italia il nome di Erasmo è rimasto legato a un’opera,
forse
a due, che vengono trattate come prodotti letterari di un mondo a’ffasci-
nante ma periferico e privo d’interferenze con il nostro. Basterebbe una
mappa comparata delle traduzioni degli ultimi vent’anni nelle principali lingue europee per rivelare a colpo d’occhio quanto sia difficile per Erasmo
parlare italiano.!
Questa difficoltà è un prodotto dello sviluppo storico degli ultimi quattro secoli, nel corso dei quali il vocabolario italiano della vita interiore è stato ipotecato dalla tradizione controriformistica. Un magistero come quello
(,îl Eras..rr}o, che Èenlgté minute, che scandivano giorno per giorno la vita dei semplici fedefi Strettamente connessa con la dimensione quotidiana della pietà era la què:stione del rapporto chierici/laici, perché le osservanze religiose particolari che for mavano l’oggetto della discussione dipendevano dalla natura di quel ra porto. Il problema della potestà pontificia, dell’autorità sacerdotale e delî dignità del monachesimo veniva perciò ad assumere anch’esso un’im a primaria in questo tipo di trattatistica. poranza | Una tale organizzazione della materia in discussione determinava un rovesciamento dell.e priorità teologiche. Quello che era il centro della teologia evangellca veniva spostato alla periferia, elementi periferici venivano a ocîupare il centro. Il rovesciamento teologico era la condizione che rendeva possibile stabilire una convergenza oggettiva, se non una complicità consî V91e,-frg Er‘asmo e Lutero. Il confronto fra i due non veniva fatto alla hîcî
ldol ci1ues.tlonl agtropologiche o soteriologiche di gran respiro, come fa la teoinîiàesrllszìer;rîltiicîa'del nostro tempo, ma in base a problemi di immediata
Capitolo secondo
48
sulla natura umana era Quale effetto il peccato originale avesse avuto intellettuali italiani degli onte una questione che spesso esorbitava dall’orizz fosse competente tiano Sebas san se ma che compaiono in questò capitolo; santa Lucia per le malattie per la peste, sant’Apollonia per il mal di denti, aggiato a rivolgersi a un santo degli occhi, e se il fedele dovesse essere incor sì che era un problema meritespecifico per ogni bisogno specifico, questo salvasse per la fede o per le si o vole di esauriente trattazione.*° Se l’uom i nostri antierasmiani prestassero opere non era una questione alla quale se con lunghe
se pregare Iddio, grande attenzione;”* ma come l’uomo doves nte coetrcitive, oppure con un iorme ester ed tive litanie, con formule ripeti di durata magari momentanea, guizzo della mente, con un palpito del cuore fondamentale.” questa sì che era considerata un’alternativa tà teologiche, la documentapriori le $e percorriamo, tenendo d’occhio teremo che Girolamo Aleancosta rso, disco o zione che sta alla base del nostr passo la sua missione antilutedro, nelle nunziature che documentano pàsso una parola alla dottrina della rana del 1520-21, non dedicò neanche del conflitto consisteva nella giustificazione per la sola fede: Per lui il perno ssione, nelle indulgenze, confe nella poi questione dell’autorità pontificia, e olari, sulle quali era possibile, nella scomunica, nel divorzio: questioni partic parallelismo fra Erasmo e in base a testi particolari, stabilire un certo
Lutero.*°
| o Erasmo questo rovesciaNei due trattati che Alberto Pio scrisse contr nciato. I pilastri dell’argopronu più a mento delle priorità teologiche è ancor e tradizioni seguenti temi: 1) cerimonie mentazione di Pio sono costituiti dai
delle interdizioni alimentari e ecclesiastiche, con particolare accentuazione dedicati, nell’opera maggiore dell’ornamento delle chiese (a questi temi sono e); 2) culto dei santi, venedel Pio, 5 capitoli su 21, per un totale di 67 pagin totale di 68 pagine); 3) prirazione delle immagini e voti (3 capitoli per un doti, celibato sacerdotale, mato pontificio, potestà dei vescovi e dei sacer per un totale di 59 pagine). Il monachesimo e castità monastica (4 capitoli to concisamente in 14 pagine tema della fede e delle opere viene invece tratta mentre la dottrina del servo e relegato nel quartultimo capitolo dell’opera; in esame. Anche il tono arbitrio non figura affatto fra gli argomenti presi discusse l’alternativa Pio equanime e distaccato con il quale Alberto vi attribuiva. Una egli che fede/opere è una riprova della scarsa importanza la sua definizione , genze indul di scettica osservazione di Erasmo in materia Cristo», una batdi nome col ta del potere pontificio come « tirannide pallia accendevano che ioni bccas le erano tuta irriverente sulla Vergine: queste alquanto prosa alla vita di zione vibra una lo sdegno di Alberto e imprimevano di progrado in era non fede sola della piatta del suo trattato.’’ Il principio vocare
tanta
veemenza.
Erasmo luterano
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" A questa opera del Pio, ‘che l’editore italiano raccomandava ai lettori come
una conf.utazione «quasi integrale» del dogma luterano,*® il teologo sistematico di oggi sarebbe difficilmente disposto a riconoscere una connessione diretta con la teologia di Lutero, a eccezione forse delle parti che riguar: i dano l’ecclesiologia. Anche nel trattato di Agostino Steuco gli accenti cadono sul potere pontificio (a.l quale è dedicato un intero libro dei tre che compongono l’opera) sulle cer1rponie ecclesiastiche, sulla confessione auricolare, sulle prescrizionì alimentari, sulla castità monastica, sul celibato sacerdotale, sul culto delle immagini. Della dottrina della giustificazione non si fa menzione; la dottrina del servo arbitrio è ricordata solo di passaggio, in connessione “;.l rifiuto della confessione auricolare.*” Agli occhi di Agostino Steuco la nuova eresia, della quale «capi erano stati Erasmo e Martino», consisteva essenzial-
mente nell’abolizione del culto esteriore e nella riduzione della religione al solo culto interiore. Il teologo agostiniano Ambrogio Flandino, il cui trattato diretto contro Lutero ed Erasmo dipende letteralmente in molti passi dall’opera maggiore di Al.berto Pio, tentò una riorganizzazione teologica della controversia.
I
primi quattro capitoli della sua opera sono infatti dedicati ai temi della feàe e delle opere (cap. 1), delle opere buone e della loro necessità (cap. 2), del peccato originale (cap. 3), del libero arbitrio (cap. 4). Ma anche in qu,esto caso i rapporti quantitativi fra le diverse sezioni rivelano l’importanza che l’autore attribuiva ai temi in esse affrontati. I capitoli 5-7, che trattano rispettivamente della penitenza e della confessione auricolare (cap. 5), dell’invocazione e culto dei santi (cap. 6), dei voti monastici e del celibaìo (cap. 7)
occupano c9n}plessiv&mente 334 pagine su 470, cioè i due terzi dell’opera’ mentre i primi quattro capitoli sono concentrati in 136 pagine, un terzo delî l’opera. Il sglo .capitolo 7, dedicato al tema dei voti monastici e del celibato occupa assai più spazio (184 pagine) che l’intero gruppo dei capitoli dediî cati ai temi fondamentali della giustificazione per la fede, del peccato originale e del servo arbitrio. La ristrutturazione teologica della controversia tentata dal Flandino non si può dunque dire completamente riuscita. Essa p)rodusse tuttavia l’effetto di far apparire la corresponsabilità di Erasmo nellgffare luterano assai meno grave di quanto essa apparisse nelle testimonianze p'arallele. A differenza di Lutero, eretico indurato che aveva rotto
d1et.ro di s;é tutti i ponti, Erasmo era per,il Flandino un personaggio recuperabile al dialogo. La medesima convinzione traspare innegabilmente anche ne]l’ogera di Alberto Pio; ma nella concezione del Pio-questo recupero poteva avvenire solo a condizione di un unilaterale ravvedimento e allineamento di Erasmo. Invece nel discorso del Flandino l’avvicinamento risultava bila-
50
Capitolo secondo
Erasmo luterano
terale: Erasmo doveva sì rettificare molte delle sue posizioni, ma Flandino da parte sua — e da parte della Chiesa della quale si sentiva rappresentante — era disposto ad adottare alcune delle proposte riformatrici di Erasmo.‘! La testimonianza di questo.vescovo italiano mette in chiaro che l’equazione Erasmo = Lutero non tornava più, appena si cominciavano a riorganizzare sistematicamente i termini del discorso teologico. Ma l’opera del Flandino, rimasta incompiuta e inedita, non esercitò alcuna influenza sulla cultura italiana del sedicesimo secolo. Quella che agì fu invece l’opera di Alberto Pio, con la sua teologia a rovescio.“ ‘ Il capovolgimento dottrinale, che rese possibile l’accostamento di Era-
gio delle anime dei propri defunti (nelle testimonianze che abbiamo esaminato la negazione del purgatorio si trova molto spesso associata alla dichiarazione che gli uffici per i defunti, in particolare le messe di san Gregorio, non giovano affatto ai morti). Al terzo posto in ordine di popolarità troviamo la questione della precettistica alimentare (40 testimoni si pronunciarono contro l’interdizione di certi cibi in determinati periodi dell’anno o giorni della settimana, con frequenti riferimenti al versetto «Non quod intrat in os coinguinat hominem», Mt 15, 11). Al quarto posto viene il problema del potere pontificio (31 persone mettevano in questione l’autorità del papa in assoluto oppure in certe sue manifestazioni particolari come indulgenze, giubilei ecc.). Una certa rilevanza assumeva anche la questione della confessione auricolare: 23 testimoni la contestavano, alcuni in assoluto (si
smo a Lutero, non è un fenomeno circoscritto ai controversisti e agli antie-
rasmiani italiani di questa generazione. Esso rientra in una tendenza generale alla frammentazione e al concretamento del dibattito teologico, che caratterizza l’interpretazione italiana della Riforma in tutta la molteplicità dei suoi aspetti. Tale tendenza, che si delinea con altrettanta chiarezza nei seguaci delle nuove idee e negli avversari di esse, può dare l’impressione che il dibattito, trasferendosi a sud delle Alpi, scadesse di livello. Raramente
la documentazione italiana di questo periodo e dei decenni successivi rispecchia la teologia riformatrice nella profondità delle sue intuizioni e nella genialità delle sue costruzioni. Nella grande maggioranza dei casi, il discorso si cala al livello della vita quotidiana, si concentra su piccoli gesti, abitudini, riti e atteggiamenti tramandati di padre in figlio da generazioni. Da questo punto di vista la controversia antierasmiana del quindieennio 1520-35 preannuncia una tendenza generale del movimento riformatore in Italia. Un piccolo sondaggio quantitativo, compiuto su un campione di 67 «luterani» italiani, che furono coinvolti in procedimenti inquisitoriali fra il 1540 e il 1550, varrà a illustrare il carattere concreto e quotidiano del discorso riformatore nelle sue ramificazioni italiane. A 67 simpatizzanti della Riforma, scelti in base a un criterio di attendibilità, abbiamo chiesto quali fossero le dottrine che riscotevano un maggior numero di consensi nei loro circoli. La piccola inchiesta retrospettiva ha dato i seguenti risultati. Massima popolarità godeva, fra i dissidenti italiani, la dottrina evangelica riguardo al fiorentissimo culto dei santi (51 testimoni non credevano all’intercessione dei santi o mettevano in questione il loro culto, 21 testimoni si pronunciavano
inoltre contro il culto delle immagini, spesso in forma molto energica). Al secondo posto in ordine di popolarità veniva la contestazione del purgatorio (alla cui esistenza 50 testimoni dichiararono di non credere, talora esprimendosi però in forma dubitativa). La popolarità di questo corollario della teologia evangelica si spiega in connessione con il problema pratico delle messe e altre cerimonie, che ogni famiglia era tenuta a finanziare in suffra-
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deve confessarsi a Dio e non al prete), altri condizionatamente (si deve con-
fessarsi in generale e non in particolare, si deve chiedere al confessore consiglio e non assoluzione). Sensibilmente minore è l’eco che suscitarono nei medesimi circoli le dottrine fondamentali della teologia evangelica. La dottrina della giustificazione per la fede registra 23 adesioni, quella del servo arbitrio ne registra 24, quella della predestinazione 7. Perfino pratiche molto marginali, o che a noi sembrano marginali, come quella dei lumi, suscitavano maggior interesse di questi grandi principi, teologicamente geniali, ma privi di incidenza pratica immediata (29 testimoni si pronunciarono fermamente contro l’uso di accendere
lampade o candele davanti alle immagini sacre).‘
La tendenza a recepire il dibattito teologico soprattutto nella sua dimensione quotidiana si manifesterà ulteriormente nel corso della nostra ricerca, prevalendo in alcune parti di essa.“ In effetti l’integrazione di Erasmo nel patrimonio ideologico del protestantesimo fu, in Italia, un fenomeno duraturo anche perché l’approccio degli italiani alla Riforma avvenne perlopiù a livello concreto e particolare. Su forme concrete e particolari della vita religiosa, come devozioni a santi specifici, interdizioni alimentari, modi e tempi della preghiera, lampade e candele, voti e pellegrinaggi, e anche sulla pratica della confessione,le opere di Erasmo si prestavano a una lettura in senso protestante. Era la stessa lettura selettiva della quale Diego Lépez de Zuhiga e Alberto Pio avevano fornito il modello.‘ Il giudizio negativo, che fu emesso sul movimento riformatore italiano dal suo più eminente studioso, Delio Cantimori, si riferiva certamente alla tendenza che abbiamo messo in luce in questo paragrafo. Cantimori inter-
pretava come debolezza dottrinale, come mancanza di coerenza teorica, il
fatto che il discorso teologico perdesse in Italia la sua linearità, frantumandosi e rifrangendosi in una molteplicità di schermaglie di corto respiro.“
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Erasmo luterano
Capitolo secondo
tendenza A patrziale correzione di quel giudizio occorre tener presente che la oriali, inquisit processi I fonti. nostre alle rata connatu alla frammentazione è del studio lo per nanti determi te tivamen qualita e nte fonti quantitativame basso. dal nostro tema, riflettono il movimento riformatore in una prospettiva one. professi di teologo del quella su qui prevale fedele e semplic L’ottica del
stoL’effetto di frammentazione che ne tisulta non impedisce peraltro allo olate che rico di cogliere, nella miriade delle proposizioni minute e disartic movidel ivi emergono da queste fonti specifiche, alcuni principi unificat rmiserico inita dell’inf metito, come quello della libertà evangelica e quello avanti.’ dia di Dié: Su tali principi ritorneremo più
dei 4. I riferimenti all’«eloquenza degli eretici» individuano il secondo quindel smiana antiera rsia controve nella motivi che ricorrono con insistenza Questo dicennio 1520-35, legandone l’uno all’altro i momenti principali. Lutero e Erasmo fra o rapport il rava conside a particolare aspetto della polemic della quello da ma li dottrina ti contenu loro dei non già dal punto di vista noltramo teologi due i italiano rio servato Dall’os loro tecnica comunicativa. delle dosi avvalen che, gio linguag un di dall’uso ati tani apparivano accomun e esperienze della retorica classica, privilegiava il godimento e consapevolment i termini mirava a suscitarlo. «Lusinghe», «incanto», «seduzione» erano
o. adoperati per descrivere l’effetto che questo linguaggio aveva sul pubblic Lutero di e In grazia di questa forza d’attrazione, il linguaggio di Erasmo i raggiungeva strati sociali, che la cultura religiosa aveva fin allora confinat quedi azione mobilit alla in un ruolo marginale. Grazie al coinvolgimento e e divensti ceti, la nuova eresia acquistava carattere di sovversione culturale a, polemic della dore Nell’ar tava pericolosa anche dal punto di vista sociale. alle ativa, comunic a efficaci per il latino veniva implicitamente equiparato, i i lingue volgatri. o del Aleandr o Girolam di dispacci nei Questa analisi si delinea già come nunzio al a appariv Riforma di nto 1520-21. Fin da allora il movime io translat « La rio, -lettera retorico e tement un fenomeno di carattere eminen conche segreta forza la stata sarebbe ia German alla litterarum» dall’Italia arte feriva ai barbari l’ardire di ribellarsi a Roma. «Solum con la poesia et Fiandra della e ia German della ribelli i — nunzio il oratoria» — scriveva la vera «appresso il vulgo hanno preso tal credito, come havessero posto consetheologia sotto i piedi». Inutile, anzi controproducente, gli pareva di quelli rsisti: guenza la mobilitazione, da parte cattolica, di teologi e controve stilo ’] che vede che occorrevano erano maestri di stile, oratori e poeti. «Si al ndo suggere per adesso è molto necessario» scriveva Aleandro a Roma,
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cardinale vicecancelliere di organizzare una controffensiva letteraria al movi-
mento di Riforma.*
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Una crisi di ansia e di insicurezza scosse il nunzio quando gli venne fra le mani, probabilmente non per caso, una pagina autografa di Hutten, il frammento di un’opera anticlericale. Da letterato di livello, formatosi rnella migliore tradizione dell’Umanesimo italiano, Aleandro colse in quella pagina: le tracce della passione creativa, vi riconobbe il rovello di una ricerca for-
male esigente e tenace: la «cartecina» di Hutten era «cancellata in più di cento lochi, tutte quasi le parole dieci volte mutate». Ecco da quale faticosa ricetca veniva fuori il linguaggio pieno di seduzione, con cui la «fastidiosissima razza dei maestri elementari e dei poeti» era riuscita a fare della Riforma un movimento d’opinione a larghissima base popolare. «Alla barba de nostri oratori et poeti che sono costì a Roma» commentava con amarezza il nunzio' «che stanno solo in far quattro verseti al mese et calumniar l’un l’altro sopra una paroletta. » Îl successo del movimento di Riforma appariva ad Aleandro come il frutto della superiore efficacia comunicativa che l’Umanesimo mitteleuropeo, capeggiato da Erasmo, aveva raggiunt5 rispetto all’Umanesimo italiano. Anche ad Alberto Pio, che certo concepì i suoi scritti antierasmiani in stretto contatto con Girolamo Aleandro, il movimento riformatore appariva come un’eresia di letteratucoli e grammaticuzzi.”° Ammaestrati da Erasmo, gli eretici tedeschi si erano appropriati della cultura retorico-letteraria trasformandola in un efficacissimo strumento di comunicazione popolare e, di sedizione sociale. Ciò che contraddistingueva l’Umanesimo tedesco e lo avvantaggiava rispetto alla cultura tradizionale era la scoperta del linguaggio come strumento di piacere e, di conseguenza, di potere. Mentre la filosofia aristotelica (e la cultura teologica tradizionale che si basava su di essa)
si esprimeva in un linguaggio volutamente astruso e spinoso, che teneva lontano il volgo, la cultura teologica lanciata da Erasmo si imponeva con la soaYità della parola. Gli illetterati, fin allora confinati nella passività di chi non intende, erano stati sedotti da quel canto di Sirene, catturati da quella dolcezza di miele. Così il contadino e il cuoco, la vecchietta ottusa e il calzo-
la19, avevano acquistato di colpo l’illusione di capire e la pretesa di interloquire in materia di teologia. Rimasta fin allora riservata a pochi ingegni d’elezione, la teologia veniva ora profanata dal volgo.”! | Questo sviluppo delle cose segnava, secondo Alberto Pio, non solo il tramonto della cultura elitaria e gelosa, che ai suoi occhi rappresentava la vera cultura, ma anche la fine della riverenza per la Sacra Scrittura. Egli prevedeva che gli imperiti, nella loro sconfinata arroganza, si sarebbero sentiti
. autorizzati a interpretare la Scrittura ognuno a proprio modo. Ben presto
Capitolo secondo
Erasmo luterano
dei chicchessia avrebbe preteso di fare il teologo. L’eresia dei grammatici e
Le metafore della dolcezza del miele e del canto delle Sirene, applicate alla lingua di Erasmo, sono espressioni del fascino che quella lingua esercitava i perfino sugli avversari di Erasmo.”’ In tre documenti sopra citati — cioè nel Racha di Egidio da Viterbo e nei due trattati di Alberto Pio — il tema dell’eloquenza degli eretici è associato alla denuncia della grammatica come strumento di sovversione religiosa. Questa diffidenza verso la grammatica si esprime in forma particolarmente esplicita nel Racha, dove Egidio attribuisce a Erasmo la colpa di «degradare il sublime e il divino, abbassandoli all’abietto livello della gram-
j
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e dei retori diventava così, nell’analisi di Alberto Pio, l’eresia dei calzolai
cuochi.”
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socioIn modo meno consapevole echeggiava queste accuse di sovversione
culturale anche Giulio Cesare Scaligero, quando accusava Erasmo di aver imbellettato la sapienza cristiana, prostituendola a macellai, cuoiai, pescii vendoli, fabbri e donnette.” to movimen del e retazion l’interp Steuco Agostino Nella testimonianza di di Riforma come sovversione socioculturale si precisa. Il canonico agostiniano di Gubbio non era, come Alberto Pio, un partigiano della cultura ca. scolastico-aristotelica, ma un risoluto fautore della nuova cultura umanisti
Che Erasmo avesse applicato i metodi e i valori di questa cultura alla teolo-
gia, era un’operazione che incontrava il.suo pieno consenso.*! Il consenso
a si trasformava in dissenso nel momento in cui la nuova teologia diventav più l’errore comunicativa e si creava un uditorio. Secondo Agostino Steuco grave dei «luterani» non consisteva nei contenuti, ma nella comunicazione di quei contenuti a un determinato uditorio. Di per sé la proposta religiosa «luterana» non sarebbe stata da rigettare — lasciava capire il canonico agostiniano fra riga e riga — sempre che la discussione fosse rimasta circoscritta ai sapienti. Il principio del culto interiore, del quale gli eretici si erano-fatti di propugnatori, non era una novità: già prima della comparsa di Erasmo e prala semplici ai o lasciand , interiore Lutero, i sapienti praticavano il culto tica di quella forma di pietà più umile, che era il culto esteriore. I luterani
— invece — e in questo concetto lo Steuco includeva regolarmente Erasmo
avevano abolito questa distinzione, proclamando l’eliminazione del culto esteriore ed equiparando i semplici ai sapienti. L’eliminazione del culto esteriore comportava peraltro la fine del culto interiore, se non per i sapienti, almeno per la moltitudine, incapace di sollevarsi alla superiore religione dello spirito. Anche ad Agostino Steuco la nuova eresia appariva dunque una eresia di fornai, contadini e marinai, fattisi di colpo così arditi da permettersi
cread’interloquire beffardamente nelle cose sacre, diventando da spettatori,
tori e da passivi, attivi: «Doctique et indocti scribunt poémata passim» notava sarcasticamente il canonico agostiniano, commentando la situazione culturale della Germania.” Il tema dell’«eloquenza degli eretici», che nella controversistica italiana antiprotestante divenne un topos”° è dunque la formula nella quale si esprime la diagnosi della Riforma come sovversione socioculturale prodotta dall’uso di nuove forme di comunicazione. Al fascino di queste nuove forme comunicative gli antierasmiani italiani erano tutt’altro che insensibili. Il loro allarme nasceva proprio dal fatto che essi ne sperimentavano su di sé la presa.
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matica rudimentale che imparavano i bambini», e di ridurre i Vangeli a una
discussione sugli articoli, «alla stregua di un grammatico comune». Anche in altre testimonianze di questo periodo, in particolare nella condanna della Sorbona, Erasmo viene esorcizzato nella sua qualità di grammatico.® Che cosa avesse in sé di così sovversivo la grammatica non è cosa immediatamente evidente per noi, perché la cultura umanistica, nostra comune matrice, ci ha abituati a porre ogni testo, compresi i testi sacri, sotto la giu-
risdizione della cosiddetta grammatica, cioè della filologia. Un uomo come Egidio da Viterbo, cultore — fra l’altro — della cabala, attribuiva invece alla
Sacra Scrittura uno status speciale, le riconosceva una sorta di extraterritorialità filologica, non solo nella lingua originale, ma anche in una versione sancita dalla tradizione, come era la Vulgata.”” L’idea che i testi direttamente ispirati dallo Spirito Santo potessero essere sottoposti allo stesso processo di corrompimento, al quale sono sottoposte le opere scritte dagli uomini, e che il grammatico o filologo, con gli elementari strumenti del suo mestiere, potesse scoprirvi errori, denunciare interpolazioni, proporre emendamenti, appariva a uomini dello stampo di Egidio da Viterbo un atto di profanazione. Di qui le recriminazioni contro Erasmo grammatico, colpevole di voler ridurre lo Spirito Santo sotto la verga di Donato.° Esse erano parallele alle recriminazioni contro Erasmo stilista, colpevole di voler dare allo Spirito Santo lezioni di retorica.‘! | Nel topos dell’eloquenza degli eretici si esprime un giudizio sul rapporto fra Umanesimo e Riforma che meriterebbe di esser preso in considerazione dagli storici. Per i controversisti e polemisti italiani del Cinquecento l’Umanesimo non era solo un movimento preparatorio alla Riforma, non era solo una componente della Riforma nell’ambito circoscritto della filologia e dell’esegesi biblica. Ai loro occhi l’Umanesimo era la dimensione comunicativa della Riforma, l’esperienza culturale che le fornì il suo travolgente linguaggio, che creò intorno ad essa un uditorio.°
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Erasmo luterano
Capitolo secondo
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«da un altro» (da Erasmo), ma riteneva che un germano non fosse un con-
5. Il rapporto di continuità che lega l’uno all’altro i documenti della controversia antierasmiana prodotti in questo periodo in Italia, o da italiani, risulta particolarmente evidente se si segue il filo tematico della «difesa d’Italia». L’invito alla difesa d’Italia introduceva nella controversia una componente etnica. Gli eventi del giorno venivano interpretati alla luce del conflitto secolare fra la Germania e l’Italia, che già si era manifestato nelle guerre fra romani e germani durante l’antichità e si era poi prolungato durante il Medioevo nelle lotte fra imperatori e pontefici. Di tali lotte il movimento luterano ràppresentava una reviviscenza in forma aggravata. Esso era un’ennesima espressione dell’invidia tedesca per il primato di Roma. L’elemento aggravante dell’attuale conflitto consisteva nell’alto livello culturale nel frat-
corrente inquietante per un italiano. Invitava perciò il suo lettore a confrontare le due traduzioni. Il lettore avrebbe costatato che la traduzione itaJliana distava da quella tedesca, per proprietà terminologica e bellezza letteraria, «tanto quanto l’Italia dista dalla Germania per lingua, costumi e stile di vita». Lusinghiera baldanza, destinata a tramontare per sempre qualche anno più tardi. Nel 1525 il «sole degli studi » splendeva definitivamente sulla Germania. Îl sarcasmo con il quale gli italiani commentavano l’epiteto di «sole della Germania» o «sole della Batavia», che gli ammiratori attribuivano a Erasmo, non era privo d’invidia. Con sostanziale unanimità gli antierasmiani della penisola finivano per riconoscere all’umanista olandese quell’egemonia letteraria, che programmaticamente volevano con-
Che i tedeschi si fossero appropriati della cultura umanistica, superando in essa gli stessi italiani, era un dato di fatto che nessuno dei nostri polemisti riteneva di poter davvero confutare, anche se alcuni di essi si sentivano in dovere di tentare. «Et sono questi cani rabidi [tedeschi e fiamminghi] armati di lettere et di arte, et ben si sanno gloriar che non sono più bestie senza ingegno come li loro maggiori, che l’Italia ha perso le lettere, et quod Tibris defluxit in Rhenum, donde son fatti più del solito (...) superbi et insolenti.» Così scriveva Aleandro fin dal r521. Nel 1530 gli faceva eco Agostino Steuco: «Dicono [i luterani] che il Tevere ha lasciato Roma e che Minerva ha lasciato Atene per volarsene da loro; dicono che l’Italia ha perso genio, sapienza ed eloquenza. » E Alberto Pio nel 1526: «Proclamano [i luterani] che la cultura umanistica è emigrata dall’Italia in Germania. » Proprio come Aleandro prima di lui e Steuco dopo di lui, Alberto Pio si dimostrava convinto che la cultura umanistica fosse lo strumento del quale i ribelli si erano avvalsi per mettere in rivolta l’intera Germania.‘* L’emigrazione della cultura umanistica dall’Italia alla Germania si incarnava in Erasmo. Era Erasmo che si vantava «che la cultura romana e l’eloquenza fossero emigrate con lui in Germania.» Era lui che presumeva di aver spogliato la Grecia e l’Italia del loro patrimonio più bello, la cultura letteraria, portandone i relitti con sé al di là delle Alpi, come strepitava Battista Casali.° In effetti la svolta culturale segnata da Erasmo era chiaramente percepibile per i contemporanei. Ancora nel 1519 l’oscuro umanista d’Urbino Livio
Questo tipo di formule e di argomentazioni dovevano circolare a Roma già nel 1522, perché l’umanista bavarese Jakob Ziegler, che in quell’anno si trovava nella città e ne frequentava i circoli letterari, si sentì stimolato . a scrivere un opuscolo dal programmatico sottotitolo Pro Germania, dove
latina dei Dialoghi di Luciano, poteva cullarsi nella consapevolezza della naturale superiorità italiana nel campo degli studi umanistici. Livio Guidolotto sapeva che i Dialoghi di Luciano erano stati tradotti e stampati in Germania
di una superiorità militare incontrastata.°5 L’interpretazione in chiave nazionale del movimento evangelico, che con tanta ingenuità si espresse in questa operetta, esercitò sugli italiani del sedi-
tempo raggiunto .dai tedeschi.‘
Guidolotto, che dedicava al cardinale Giulio de’ Medici una sua traduzione
testare.®’
la difesa di Erasmo si risolveva in un’apologia della cultura tedesca. Il Pro
Germania ebbe una larga diffusione grazie all’espediente dello stampatore
basileese, Froben, che l’associò nella stampa all’attesa bibliografia di Era-
smo composta dall’umanista stesso (1523). Il proposito dichiarato di Ziegler era di difendere Erasmo dalle accuse che lo spagnolo Diego Lépez de Zuhiga aveva diretto contro di lui e contro la sua edizione del Nuovo Testamento in un’opera pubblicata a Roma nel 1522. Ma quella che si preannunciava come difesa si svolgeva poi come attacco. Nel valutare la posizione di Erasmo in rapporto all’Umanesimo europeo, Ziegler stabiliva un confronto fra lui e gli umanisti italiani, che culminava in un’apoteosi. «Nel restaurare le lettere umane e gli altri buoni studi» scriveva Ziegler «gli italiani hanno faticato per quasi due generazioni, con grande perseveranza d’impegno, circondati dal consenso generale, incoraggiati dai principi e motivati da insigf1i ricompense; Erasmo (...) da solo, privo di ogni aiuto esterno, nel giro di dieci anni ha rigenerato la teologia, ha occupato un gran posto negli animi degli uomini, ha reso loro l’autentico gusto della divina sapienza, ha operato dappertutto una svolta nel sentire. » Questa celebrazione della rinascita evangelica promossa da Erasmo si connetteva con la celebrazione della Gern.1ar}ia, lodata per la purezza della sua stirpe, la fertilità del suo suolo, la f19r1tura delle sue ottocento città, e soprattutto la sua storia di libertà, frutto
Capitolo secondo
Erasmo luterano
cesimo secolo un influsso maggiore di quello che la storiografia contemporanea è disposta a riconoscere. La mobilitazione della cultura italiana contro il «germano» Erasmo, alleato di quell’altro germano che era Lutero, si configurava come riscossa nazionale.Ogni letterato italiano aveva il dovere di venir in soccorso alla patria, minacciata nel suo primato culturale e nel suo maggiore vanto istituzionale, la Chiesa cattolica. L’origine fiamminga di Erasmo non bastò ad apportare correzioni a questo schema polemico, probabilmente perché i letterati che ne facevano uso consideravano il termine «Germania» come equivalente di «Sacro Romano Impero», seguendo una prassi attestata anche da Jakob Ziegler.° In alcuni dei documenti che abbiamo utilizzato l’umanista viene effettivamente designato ora come germano, ora come batavo.”° Egli stesso favoriva questa ambiguità, parlando della «nostra Germania» e designando i germani come «i nostri».’! Anche il sentimento dello stato d’assedio contribuiva a confondere le frontiere fra i paesi mitteleuropei, per chi guardava l’Europa dall’osservatorio italiano. In questi decenni la penisola si sentiva stretta nella morsa dei suoi nemici, barbari di fuori, dei quali — secondo una testimonianza siciliana del 1562 — «una lingua latina stentava a pronunciare il nome».
farsa, sia per il contrasto fra l’esiguità dell’occasione e la solennità paludata della replica, sia per la querula pedanteria con la quale in certi passi il Corsi svolse la sua tesi, presentando la virtù militare italica come perseguitata dalla sorte, tradita dalla'malafede degli oltramontani, o compromessa dalla frammentazione politica della penisola.” La dimensione farsesca dell’episodio non sfuggì ai contemporanei, meno di tutti a Erasmo, che definì l’operetta
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Poco importava che questi barbari fossero «teutonici, germani o etiopi»,
che si chiamassero «Roterodamo, Melantone o Zwingli»: tutti erano una minaccia per l’Italia, per la sua Chiesa, per la sua cultura. L’Italia doveva chiudersi alle loro deleterie influenze.° Nell’ondata di xenofobia che accompagnò questo stato d’animo, le distanze fra i paesi transalpini si riducevano e le loro differenze etnico-culturali si attenuavano. Verso il 1580 perfino la cattolicissima Lovanio poteva apparire religiosamente sospetta.” La mobilitazione della cultura italiana contro Erasmo e Lutero faceva parte della strategia antiriformatrice propostada Aleandro fin dal 1521. «Sarebbe pur buono» avvertiva Aleandro «che li nostri academici et altri dotti d’Italia et presertim de Roma cominciassero alquanto resentirse, et alcuni chi più sanno severamente respondere contra questa heresia, altri scriver qualche cosa ad honor della patria, della qual questi germani ne fanno tanto poco stima. »’* In almeno due dei testi antierasmiani che sono stati elencati all’inizio di questo capitolo l’esigenza della riscossa nazionale costituisce il motivo dominante: nell’Invectiva in Erasmum Roterodamum di Battista Casali e nella Defensio pro Italia di Pietro Corsi. Nella Defensio pro Italia il canonico Pietro Corsi si proponeva di riscattare l’onore militare degli italiani, che proclamava offeso da Erasmo nell’adagio Myconius calvus. L’accusa era un puntiglio: in realtà Erasmo si era limitato a osservare che un italiano bellicoso è fenomeno altrettanto raro di uno scita letterato. Nata da un puntiglio, la Defensio pro Italia riuscì una
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di Pietro Corsi come una lotta contro un avversario inesistente."° Ma non
sfuggì neanche agli italiani. Uno di loro s’inserì nel dibattito fra Erasmo e il Corsi con una saporosa trovata, una lettera pseudoerasmiana, che fu fatta circolare a Roma nel 1534 e che avrebbe dovuto distogliere Pietro Corsi dal suo intento polemico.”” Secondo la testimonianza del.Corsi stesso, il geniale falsario sarebbe stato Francesco Minicio Calvo,"® il libraio-tipografo che 'nel 1518 era stato fra i primi a importare in Italia testi di Erasmo congiuntamente a testi di Lutero. Poiché non risulta che il Calvo smentisse mai
questa paternità attribuitagli per via di stampa, si può presumere che egli fosse effettivamente l’autore della lettera pseudoerasmiana. Questa sarebbe
dunque da considerare da un lato come una iniziativa intesa a gettare il discre-
dito sull’impresa del Corsi, dall’altro lato come un’affettuosa caricatura di
Erasmo, i cui piccoli sotterfugi e astuti ripieghi non sfuggivano all’atten-
zione dei suoi amici italiani.
Nonostante la sua dimensione farsesca, la Defensio pro Italia rientra perfettamente in quel programma di riscossa letteraria dell’Italia che Aleandro aveva vagheggiato
nel 1521.
A riprova di questa interpretazione si può
addutre il fatto che a Erasmo viene attribuita la presunzione di aver spo-
gliato l’Italia della gloria delle lettere, ancor prima di aver tentato di pri-
varla dell’onore delle armi (a beneficio dei suoi germani), rivendicando quella
gloria interamente a sé e ritenendo di aver eclissato culturalmente tutti gli italiani. L’ultima parte della Defensio è infatti dedicata specialmente alla
rivendicazione delle glorie letterarie d’Italia.”
Da questo punto di vista peraltro la testimonianza di Pietro Corsi non uguaglia né in perspicuità né in virulenza quella lasciataci dal suo contemporaneo e amico Battista Casali. Nell’Invectiva in Erasmum Roterodamum (1524 circa) il canonico vaticano Battista Casali si proponeva di rivendicare
l’onore letterario d’Italia e specialmente di Roma, offeso da Erasmo non tanto con atti e discorsi particolari quanto con la sua pura e semplice esistenza. I] fatto è che l’Italia del 1524 non aveva alcuna personalità letteraria, la cui statura si potesse commisurare a quella del batavo: questa era l’of-
. fesa che Erasmo aveva fatto all’Italia. I tentativi che occasionalmente si facevano, soprattutto a Roma, di ridimensionare la sua fama di grecista e
di filologo,®° non scalfivano la sua egemonia di stilista. Che un batavo fosse
Capitolo secondo
Erasmo luterano
il miglior scrittore che mai avesse maneggiato la lingua latina, era un’idea che il romano Casali non poteva accettare. La lingua latina era una sfera, nella quale il primato spettava ai romani, eventualmente agli italiani, a titolo di risarcimento per il potere politico perduto: e ora un batavo pretendeva di usurpare anche questa forma residua d’impero?®! L’unico nome atto a
l’iniziatore e il principale teorico dello scisma luterano. Lutero non avrebbe fatto altro che appropriarsi delle sue idee, rilanciandole con una violenza
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dissipare questa paura, e a dimostrare che i romani continuavano a dete-
nere il primato nell’eloquenza latina, era il nome di Cicerone. L’Invectiva del Casali è perciò un confronto ringhioso fra Cicerone ed Erasmo. I brontolii di minaccia, l’accenno a una possibile morte di Erasmo sul rogo, l’accusa di bestemmia contro l’Encomium moriae, ristabiliscono, sia pure a un
livello più emotivo che argomentativo, una connessione fra questa difesa letteraria di Cicerone, di Roma, dell’Italia e la pretesa empietà o eresia del batavo Erasmo.®? ‘ L’alternativa fra Erasmo e Cicerone, maldestramente preannunciata da Battista Casali, sapientemente echeggiata da personaggi della levatura di un Baldassarre Castiglione, Andrea NÈvagero, Lazzaro Buonamico,® rilanciata audacemente da Erasmo nel Ciceronianus, aggressivamente ripresa da Giulio Cesare Scaligero nelle sue due Orationes pro Marco Tullio Cicerone ‘ attirò più volte l’attenzione degli italiani negli anni successivi. Testimoniano di questa attenzione testi come il Bellum inter ciceronianos et erasmicos del novarese Gaudenzio Merula (del quale finora non sono riuscita a localiz-
zare nessun esemplare),® il Cicero relegatus e Cicero revocatus di Ortensio
Lando,® il De imitatione di Bartolomeo Ricci,®” due lettere del Flaminio5® e più marginalmente il Terentianus dello stesso Merula,® il trattato Dell’imitazione di Giulio Camillo,°° nonché in certe parti le Lectiones sucisivae di Francesco Florido Sabino.°! In tutte queste testimonianze peraltro la tensione polemica è venuta meno, la connessione fra il problema dell’eloquenza e il problema religioso è scomparsa o attenuata. L’alternativa Erasmo/Cicerone si riduce a disputa accademica, a paradosso letterario, a scherzo o ammic-
camento erudito (fino a che punto in questi paradossi letterari e scherzi eruditi fossero sparse allusioni cifrate al conflitto religioso in corso, è questione che qui non può essere affrontata).”? controversia antierasmiana degli 6.. Prima di chiuderei il discorso sulla a . motivo che la percotre, anche . altro un a accennare converrà anni 1520-35, se questo motivo risulta meno sviluppato di quelli che abbiamo presentato nei tre paragrafi precedenti. | i In due documenti della controversia — cioè nei dispacci di Aleandro e nel Racha — venne proposta la tesi che Erasmo fosse da considerare come
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parbarica e ignara di cautela. All’irruenza di Lutero le nuove idee dovevano
1a loro popolarità; ma il loro vero padre era ‘Erasmo, personaggio intellettualmente ben più dotato di Lutero. Nella sua mente astuta e serpentina l’umanista fiammingo covava presumibilmente eresie ancora più eversive di quelle proclamate da Lutero. Questa tesi fu lanciata da Aleandro nel 1520-21. Essa si espresse con chiarezza nel dispaccio del 29 aprile 1521, nel quale il nunzio prospettava una reviviscenza della eresia di Ario in connessione con il movimento lute-
rano, addossando a Erasmo la responsabilità di questo pericolo.”’ Anche
successivamente il filoarianesimo e l’antitrinitarismo di Erasmo rimasero una
idea fissa di Aleandro, come risulta dai suoi appunti personali rimasti inec].iî:i.94
.
Da Aleandro, e forse anche da Diego Lépez de Zidiga, fu probabilmente influenzato Egidio da Viterbo.” Nel Racha, che si può fondatamente attribuire a Egidio, l’umanista di Rotterdam appare non solo come il maestro che ha fornito ai tedeschi le armi dottrinali per combattere la Chiesa romana,
ma come una specie di
«demone maligno, che si propone di scuotere la fede
in ogni suo aspetto». Con la sua difesa di Ario Erasmo si era messo su una
""via, sulla quale neanche Lutero e i suoi seguaci, per quanto empi e bestiali, si erano sentiti in animo di seguirlo. La reviviscenza ariana si esprimeva,
secondo Egidio da Viterbo, nell’emendamento da Erasmo introdotto all’inizio del Vangelo di Giovanni, nella sostituzione del tradizionale « verbum » con il termine «sermo». Con questa traduzione Erasmo mirava a scuotere
la fede in Cristo come Verbo di Dio e a riabilitare Ario e la sua setta.° E come se il rilancio dell’eresia ariana non fosse stato un crimine abbastanza grave, Erasmo aveva rilanciato anche l’eresia di Elvidio. Con Atio egli privava Cristo della sua divinità, con Elvidio egli privava la Vergine della sua verginità. Clemente VII, al quale il Racha doveva essere dedicato, e il colle-
gio cardinalizio venivano sollecitati a riflettere sulle misure da prendere contro questo nemico della Chiesa, questo semenzaio di tutte le eresie.”7 Nel Racha l’accusa di radicalismo teologico contro Erasmo raggiunse il suo diapason. Per quanto Alberto Pio non trascurasse di raccogliere anche questo genere di accuse, il capitolo del suo trattato antierasmiano dedicato
al «mistero della Trinità e dogma di Ario» suona debole e poco convinto.°®
Nelle opere dello Steuco e del Flandino, del presunto arianesimo di Erasmo non si fa parola. La concezione nella quale l’accusa di arianesimo si iscriveva, cioè la tesi della paternità erasmiana dello scisma, divenne insostenibile verso la fine
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i
del decennio 1520-30. Probabilmente la dieta di Augusta del 1530 chiarì definitivamente anche a chi, come gli italiani, era lontano dal campo delle operazioni, che il movimento riformatore si stava canalizzando in senso evangelico, non in senso radicale, e che Lutero esercitava su esso ra non indiscussa ma duratura egemonia. Erasmo nel frattempo si era allineato e aveva offerto una serie di garanzie della sua fedeltà a Roma. Questo sviluppo segnò il tramonto della tesi di una egemonia teorica di Erasmo sul movimento di Riforma, per quanto ancora nell’opera del Flandino si trovi qua e là la tesi che Erasmo era stato il maestro, Martino il discepolo.”” Che l’idea non morisse del tutto risulta dalla testimonianza di Aonio Paleario, il quale nel 1534 attribuiva ancora a Erasmo tanta autorevolezza nell’area della Riforma, da ritenere che egli potesse mettere a tacere i conflitti interni ad essa e indurre i protestanti delle diverse confessioni a presentarsi uniti al futuro concilio.!°
7. Quale effetto ebbe l’operazione « Erasmo luterano» sugli italiani contemporanei? Quale fu la misura del suo successo? Nel rispondere a queste domande conviene tener distinti i diversi destinatari ai quali quel messaggio era diretto. Il più importante destinatario era la Curia romana. Al cardinale vicecancelliere Giulio de’ Medici, dunque in pratica a Leone X, erano indirizzati i dispacci di Aleandro del 1520-21; allo stesso Giulio de’ Medici, nel frattempo diventato papa Clemente VII, doveva presumibilmente essere dedicato il Racha; il trattato di Agostino Steuco era diretto al cardinale Alessandro Farnese; allo stesso Farnese, nel frattempo diventato papa Paolo II, era dedicata la Defensio pro Italia di Pietro Corsi; l’Antapologia del Sepqdilveda era dedicata al vescovo di Faenza, Rodolfo Pio, più tardi cardinale. Quasi sempre gli autori cercavano di guadagnare questi alti e altissimi rappresentanti della Curia all’idea che certe sanzioni ecclesiastiche contro Erasmo erano inevitabili. Aleandro, il quale considerava il giudizio della Sorbona contro Erasmo come il preludio di una condanna ufficiale della Chiesa, era d’avviso che si sarebbero dovute prendere delle disposizioni contro la persona dell’umanista; !! l’autore del Racha considerava la scomunica di Erasmo come un provvedimento appena adeguato; !° Alberto Pio nella sua opera maggiore si proponeva di mettere insieme un elenco di passi che Erasmo avrebbe dovuto censurare e spontaneamente ritrattare, salvo incorrere nella censura ufficiale; anche Agostino Steuco sembra incline a misure di ordine repressivo, per quanto non risulti se queste dovessero colpire l’uomo o l’opera; perfino Ambrogio Flandino invitava insistentemente Erasmo al ravvedimento.!
Erasmo luterano
Capitolo secondo
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La Curia romana si dimostrò refrattaria a questo genere di sollecitazioni
Allorché il disorientamento e l’allarme di fronte all’affare luterano toccal rono l’acme, nel 1521, Aleandro riuscì a influenzare la Curia in senso antie-
rasmiano; ma solo temporaneamente. Questa influenza si rispecchia in un breve di Leone X del 6 agosto 1521
il cui testo era stato redatto da Pietro Bembo. Destinatario del breve era
Jacopo Sannazzaro. Aderendo forse alla proposta di Aleandro, secondo il quale la Curia avrebbe dovuto stimolare e motivare i letterati italiani a scri-
vere in difesa della fede, il pontefice tributava elogi iperbolici al Sannazgaro, ad.ditando nel suo De partu Virginis un modello di poesia cristiana. Il valore di questa testimonianza poetica, sottolineava il pontefice, era accresciuto dalla tristezza del momento storico, nel quale la Chiesa si vedeva attaccata da tanti empi oppugnatori e laceratori, che rivolgevano la penna contro di essa per l’ambizione di acquistarsi fama di dottrina. Di questi oppugnatori e laceratori, che vomitavano veleno contro la pietà, due venivano indi-
cat% come particolarmente nefasti, un Golia armato e un Saul in preda alle
fur1.e.. Il bnî:ve È:sprimeva l’auspicio che Jacopo Sannazzaro, come un David
redivivo, riuscisse
a domare con la fionda il Golia armato e a placare con
la dolcezza della lira il Saul infuriato.!°* Che l’evocazione di Golia sia da interpretare come un riferimento a Lutero sembra conclusione inevitabile;
che l’immagine di Saul fosse un’allusione a Erasmo è meno evidente maì piuttosto probabile, se si tiene presente il tenore dei dispacci conteméoranei di Aleandro e delle risposte del cardinale de’ Medici, il quale in questo periodo si diceva convinto della corresponsabilità di Erasmo nell’affare luterano.' L?. linea della prudenza e della duttilità finì peraltro col prevalere, se non peér r1gua'rdo verso Erasmo, almeno per riguardo verso i suoi seguaci, il cui numero si giudicava ragguardevole. Come capo di un largo movimento d’opinione Erasmo doveva essere risparmiato, per evitare il rischio di spingerlo ne! campo opposto.! Questa linea, che già si era delineata con chiarezza nei dispacci del vicecancelliere Giulio de’ Medici nel 1520-21, si rafforzò flurante il pontificato di Giulio stesso e si consolidò definitivamente durante il pontificato di Paolo III. Se un violento attacco antierasmiano come il Racha non fu mai portato a termine; se il trattato di Agostino Steuco contro Erasmo sopravvisse in così pochi esemplari da dare adito alla congettura che 1 autore stesso sopprimesse l’edizione;°? se Sepulveda nella sua Antapologia si profuse in superlativi celebrativi all’indirizzo del suo antagonista; se Pietro Corsi adottò verso Erasmo un tono altamente civile, spesso addi,rittura deferente; fu probabilmente perché questi uomini di Chiesa non volevano mettersi apertamente contro la linea della Chiesa. Con grande ama-
Capitolo secondo
Erasmo luterano
rezza Aleandro dovette prendere atto del fatto che l’uomo da lui giudicato tanto pericoloso non solo non veniva perseguitato, ma godevadi un trattamento di riguardo. In caso di conflitto la Curia era più propensa a interve-
smiana ebbe fra i rappresentanti della cultura italiana ci è offerta dal vescovo
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nire in favore d’Erasmo che in favore dei suoi avversari, come con altret-
tanta amarezza cestatò nel 1525 l’olandese Theodoricus Hezius, protonotario apostolico e più tardi inquisitore.!® Sotto Paolo III questa linea culminò nel progettato conferimento della porpora cardinalizia a Erasmo. 1l successo che l’operazione «Erasmo luterano» mancò nella Curia, essa l’ottenne nella sfera extracuriale. Il messaggio antierasmiano fu recepito da diversi letterati e uomini di cultura, che per i polemisti del periodo 1520-35
rappresentavano interlocutori d’importanza secondaria. In conseguenza il
dialogo che verso il 1520 la cultura italiana aveva aperto con Erasmo, perse ritmo intorno al 1529 e registrò defezioni. Nel giugno 1529 per esempio Francesco Vettori scriveva da Firenze a Filippo Strozzi di aver rinunciato non senza rimpianto a leggere Erasmo per non «incorrere nome di luterano».!° Il poeta Teofilo Folengo, che nel 1526 aveva salutato in Erasmo il creatore del nuovo linguaggio teologico, felicemente subentrato allo «stile barbaresco» della scolastica, nel 1533 scagliava contro l’umanista un epi-. gramma, criptico ma non troppo, che lo dipingeva come il genio della maldicenza lacerante.!° Poco prima il nunzio pontificio a Venezia, il vescovo di Pola Altobello Averoldi, che nell’aprile del 1531 aveva ricevuto la dedica della traduzione dell’Enchiridion erasmiano nella traduzione del bresciano Emilio dei Migli, appariva non solo come dedicatario ma come promotore e patrono dell’opera antierasmiana di Alberto Pio nell’edizione veneziana di Luca Antonio Giunti.!!! Il controversista domenicano Ambrogio Catarino (Lancellotto dei Politi), il quale nel 1521 considerava la posizione di Erasmo come distinta da quella di Lutero, a partire dal 1525 associava i due oltramontani in una condanna quasi altrettanto recisa e qualche anno più tardi esprimeva il rimpianto che la Chiesa non avesse tempestivamente scomunicato il batavo, il quale per primo aveva sparso i semi più deleteri nell’orto del Signore, e poi aveva detto «Io scherzavo, facevo esercizi retorici, non parlavo sul serio», il che equivaleva ad ammettere «Ho bestemmiato per gioco».!!2 In questo periodo il nome di Erasmo si trova associato a quello di Lutero, o gravato da un’accusa di empietà, in testi di controversistica popolare come l’Incendio de zizanie lutberane del francescano Giovanni da Fano (Bologna
1532)!!° non meno che in opere controversistiche latine, come le AnnotaHones in excerpta quaedam de commentariis cardinalis Caietani (Parigi 1535) di Ambrogio Catarino;!! in carmi di poeti piuttosto famosi, come quelli di Marco Antonio Casanova dell’Accademia romana,!' o di poeti di provincia come il cremonese Daniele Caetani.'"°
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La testimonianza più significativa del successo che la polemica antiera-
suffraganeo di Mantova Ambrogio Flandino. A partire dal 1523 questo teoJogo agostiniano si dimostrò nella sua produzione omiletica, teologica e filosofica, rimasta in gran parte inedita, come uno dei lettori italiani di Erasmo più informati e ricettivi. In una raccolta di prediche del 1523 egli si collocava espressamente nella stessa corrente di rinnovamento teologico della quale facevano parte Erasmo e Lefèvre d’Etaples. In una raccolta omiletica più tarda, ma anteriore al 1530, nonché in due trattati composti in questo stesso decennio contro Pietro Pomponazzi e contro Martin Lutero, il vescovo uti-
Jizzò largamente gli scritti di Erasmo. Una lista incompleta di questi intarsi rivela che il Flandino aveva familiarità con buona parte della produzione erasmiana, dagli Adagia ai Colloquia, dalla Paraclesis all’Enchiridion, dal De libero arbitrio all’ Antibarbarorum liber. l contenuto delle citazioni poi dimo-
stra che Erasmo piaceva al Flandino proprio nei suoi aspetti più arditi: il vescovo utilizzò largamente l’adagio Sileni Alcibiadis con la sua risoluta critica della mondanizzazione della Chiesa, e la prefazione dell’Enchiridion nell’edizione del 1518. Alla luce di questi precedenti la svolta che Ambrogio Flandino compì nel 1531-32 appare nettissima. La lettura del trattato di Alberto Pio ebbe l’effetto di trasformarlo in un antagonista dell’umanista olandese, ispirandogli l’opera teologica che sopra abbiamo inserito nel filone della controversia antierasmiana. Anche se la conversione del Flandino non fu integrale,
purtuttavia la tesi di fondo del suo voluminoso manoscritto, la cui stesura
fu interrotta dalla morte, era la convergenza di Erasmo con Lutero nella maggior parte degli «articoli» che il vescovo prendeva in esame.!!’ 8. Accanto ai teologi, agli ecclesiastici e ai letterati, che in questo periodo
concepirono verso Erasmo una avversione religiosamente motivata, vi furono
ecclesiastici che mantennero nei confronti dell’umanista un atteggiamento aperto. Pur senza risparmiare critiche a Erasmo, costoro evitarono di allinearsi sulle posizioni di chi lo proclamava corresponsabile dello scisma luterano. La più profilata figura di questo gruppo è Giovanni Bernardo (Bernardino) Gualandi.!!$ Letterato fiorentino, ammiratore e seguace del Ficino e di Pico della Mirandola, il Gualandi compose nel 1525 nell’abbazia cistercense di Morimondo, dove allora risiedeva, un trattatello In Lutherum baereticum, nel quale egli si confrontava anche con Erasmo. Della produzione dell’«eretico» il cistercense fiorentino aveva una conoscenza assai limitata;
ma come teologo si dimostrò dotato di notevole acume. Egli capì la posi-
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Capitolo secondo
zione centrale che nel pensiero di Lutero occupava la questione del merito, e il problema se all’uomo si potesse o no attribuire una sia pur relativa autonomia nella scelta fra il bene e il male. Concentrò dunque la sua attenzione soprattutto su questo aspetto della nuova teologia, mettendo insieme un elenco di testimonianze del Vecchio e del Nuovo Testamento, che implicitamente attribuiscono all’uomo una certa misura di responsabilità etica. In tal modo si trovò ad affrontare il discorso con Lutero dalla stessa angolazione dalla quale l’aveva affrontato Erasmo, anche se fra il trattato De libero arbitrio e lo scritto In Lutherum non vi sono a mio avviso rappotrti di dipendenza.‘!?. Un altro tratto che accomuna il Gualandi a Erasmo è il tono piuttosto misurato in cui egli condusse la sua polemica, evitando di cedere a _ quella tendenza a demonizzare l’avversario, che caratterizzava la letteratura controvetrsistica italiana di questi anni.
Di Erasmo il cistercense fiorentino aveva letto abbastanza — in particolare aveva letto l’Enchiridion, oltre agli Adagia e al De duplici copia verborum ac rerum — per intravedere il pericolo che la pietà interiorizzata, che Erasmo propagava, potesse distogliere i fedeli dalle cerimonie ecclesiastiche, mettendo in crisi la religione stessa, la quale non può prescindere da segni e simboli esteriori.!°° La polemica contro la pietà cerimoniale, in particolare contro la preghiera ripetitiva e prolungata, costituiva agli occhi del cistercense un potenziale punto d’incontro fra Erasmo e Lutero. Tale incontro
però non poteva essere duraturo perché i due rappresentavano orientamenti
diversi. Lutero era un eretico, uno di coloro cioè che si erano scelti il tipo di osservanza religiosa più confacente alla loro sensibilità, preferendo affidarsi al proprio discernimento personale che alla tradizione ecclesiastica sancita da un consenso secolare.'?! Erasmo non era un eretico, ma uno di coloro che anelavano a una «non meglio precisata riforma della Chiesa». Che questa puerile aspettativa di riforma, sempre rinascente e sempre delusa, trovasse aderenti in un pubblico di rustici e di donnette ignoranti, come quello che il cistercense aveva visto raccogliersi qualche tempo prima in Sant’Ambrogio di Milano, intorno a un esorcista e predicatore non autorizzato, non era un fatto sorprendente; sorprendente era invece che un uomo come Erasmo, dotato di somma prudenza, potesse lasciarsi coinvolgere in " tal genere di allucinazioni. La proclamata urgenza di una riforma che, come una «medicina violenta», avrebbe dovuto porre rimedio ai costumi degenerati della Chiesa, poteva avere conseguenze deleterie.'?? Il Gualandi coglieva gli effetti deleteri del discorso erasmiano soprattutto al livello della cultura religiosa. La libertà di giudizio e la temerità critica, che l’umanista si arrogava nei confronti della tradizione letteraria della Chiesa, in particolare nei confronti di sant’Agostino, ispiravano al cister-
Erasmo luterano
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cense severe parole di biasimo (l’avversione di Erasmo per la scolastica invece
| trovava il Gualandi consenziente).!2 L’atteggiamento critico di Erasmo nei confronti dei Padri della Chiesa
e dei teologi in generale aveva quasi paralizzato il Gualandi nel suo proposito di scrivere contro Lutero, ispirandogli una grande insicurezza. A opera
finita tuttavia il cistercense non nascondeva una certa fierezza per il contri-
puto che, in misura proporzionata al suo ingegno, egli aveva dato alla difesa
’ _della religione cristiana. Erasmo invece come avrebbe potuto discolparsi di
" fronte al tribunale celeste del peccato di omissione in cui era incorso, ricu-
sando di scrivere contro Lutero?! I] cistercense si riferiva a due lettere
' del 1521, che egli aveva letto in una edizione strasburghese del 1522: in quelle lettere Erasmo si schermiva dalle sollecitazioni di amici inglesi, che Jo invitavano a prender la penna contro Lutero, adducendo la difficoltà delP’impresa e la geniale profondità teologica dell’avversario, che i suoi interlocutori sottovalutavano.!” Contro questi tortuosi pretesti Giovanni Bernardo Gualandi faceva valere l’argomento che Erasmo, gran lavoratore e uomo di costumi integerrimi, avrebbe dovuto opporsi a Lutero se non altro per ragioni etiche, dal momento che la teologia del sassone apriva la porta
all’ozio inerte, alla libidine e all’ignavia.'°°
Nonostante le critiche e le riserve, che il Gualandi non risparmiò a smo neanche in altre due opere di questo periodo (il dialogo De optimo cipe, dedicato a Francesco Sforza duca di Milano nell’agosto del 1523 valle del Ticino, cioè probabilmente da Morimondo,!”’ e il dialogo De
Eraprindalla libe-
rali institutione, dedicato al giovane Cosimo de’ Medici e datato Firenze,
ottobre 1531),!® risulta evidente che il cistercense fiorentino, dal suo eremo circondato dal clamore della guerra franco-spagnola, guardava all’umanista di Basilea come all’erede legittimo del Ficino, al campione di una pietà nutrita di lettere, al faro intellettuale dal quale la cristianità attendeva luce e orientamento.!” i Nelle opere più mature del Gualandi mancano invece testimonianze su Erasmo. Per un letterato che teneva a mantenere buoni rapporti con la Curia e che nel 1537 dedicava il suo De vero iudicio et providentia Dei'° al pontefice Paolo III, era forse prudente sottacere il nome dell’oltramontano. Il nome fu sottaciuto del tutto anche allorché, nel 1567, il Gualandi pubblicò a Venezia una traduzione un po’ rielaborata degli Apophthegmata di Erasmo. Il libro apparve come traduzione di Plutarco. !
Il caso Vergerio e il caso Nacchianti APPENDICE CONFRONTO
FRA
IL CASO
VERGERIO
E IL CASO
NACCHIANTI
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1l vescovo di Chioggia si espresse invece in un ambito molto ristretto. 1] testimoni a suo carico sottolinearono che vi era una scissione fra quello che egli diceva in privato e quello che faceva in pubblico. Fra i canonici della sua cattedrale vi era chi lo aveva visto ridersi delle indulgenze con-
cesse a questa o quella chiesa e gli aveva sentito dire che la pratica delle in-
Il confronto fra due casi di eresia che svolgeremo qui di seguito ha lo scopo di mettere alla prova la tesi che abbiamo illustrato nei paragrafi terzo (la teologia del quotidiano) e quarto (l’eloquenza degli eretici) di questo capitolo, applicandola a due vicende concrete, che possono essere considerate paradigmatiche. Nel 1549 due vescovi si trovavano contemporaneamente sotto processo per sospetto di eresia «luterana»: Pier Paolo Vergerio vescovo di Capodistria e Jacopo Nacchianti vescovo di Chioggia. La posizione dei due dignitari ecclesiastici presentava in quell’anno alcune analogie: ambedue erano accusati di dottrine che si trovavano in una certa misura alla periferia dell’edificio dogmatico — le imputazioni riguardavano la venerazione dei santi, il culto delle immagini, certe cerimonie e tradizioni ecclesiastiche —, ambedue vennero convocati a Roma, perfino il commissario apostolico incaricato dell’inchiesta fu in parte lo stesso. Però lo sbocco dei due casi fu opposto. 1l Vergerio fuggì dall’Italia, fu condannato come eretico e, privato del suo vescovato, finì la sua vita come teologo protestante; il Nacchianti andò a Roma, fu assolto e conservò la sua dignità fino alla morte. La tesi prevalente fra gli studiosi è che le posizioni dei due vescovi rientravano, fino all’apertura del processo, nell’ambito del cosiddetto «evangelismo italiano», che di per sé non era una posizione di rottura. La condanna del Vergerio sarebbe stata effetto non della sua dottrina ma della sua fuga: se egli fosse andato a Roma e, come il Nacchianti, avesse fatto atto di sottomissione, anch’egli
sarebbe stato assolto. Su questa interpretazione vi è una certa tendenza al consenso fra gli storici.!? Un confronto più accurato fra i due casi, reso possibile dal ritrovamento di una parte dell’inchiesta Nacchianti finora sfuggita agli studiosi,'* suggerisce la tesi che l’esito diverso fosse il risultato di due posizioni già divergenti all’epoca del processo. Il vescovo di Capodistria agì tendenzialmente a livello pubblico. Egli intendeva varare una riforma diocesana, che prendeva di mira manifestazioni alquanto crasse del culto dei santi e delle loro immagini, nonché altri aspetti della pietà oggettuale e quantificata. In questa riforma investì l’autorità che la sua carica gli conferiva. Poiché egli mirava al successo, la pubblicità faceva il suo gioco.
dulgenze era un inganno a danno del popolo: ma senza mai ostacolare — sottolineava il testimone — la pubblicazione di quelle indulgenze. Anche delle confraternite dei flagellanti, che «venevan in chiesia battendosi, maxime ]a settimana santa», il vescovo si faceva gioco: ma la sua disapprovazione si limitò a qualche sorriso e a qualche battuta in privato. La tradizione chioggiotta connessa alla festa della purificatio Mariae — il 2 febbraio due canonici . della cattedrale, accompagnati da due bambini con candelotti accesi in mano, seguiti dal resto del capitolo e dai fedeli, portavano in processione una culla con un lattante dentro — pareva al vescovo una «baya»: ma allorché i canonici si dichiararono contrari ad abolire l’usanza «per esser di longa consuetudine et a loro di utilitade», il vescovo si tirò prudentemente indietro.!'’* E così via.
Dal punto di vista della teologia sistematica il Nacchianti ci appare su posizioni più avanzate di quelle del Vergerio, perché egli sosteneva pubblicamente la dottrina della giustificazione per la sola fede. Ma il suo discorso
arrivava a pochi: il vescovo «predicava dottrina alta», valendosi di un linguaggio che perfino i canonici faticavano a seguire e che il popolo dei semplici fedeli non seguiva affatto. Testimoniò un pescatore: «El vescovo non me dispiaceva perché parlasse cose male, ma perché non lo intendeva. » ! In effetti Jacopo Nacchianti si guardava dallo scandalizzare i fedeli: le «persone simplici » — rifletteva — conveniva lasciarle alle loro credenze e alle loro devozioni.’*‘ Il vescovo di Capodistria per contro parlava un linguaggio di elementare chiarezza, che faceva presa sugli ascoltatori in modo indifferenziato. Le sue formule volavano di bocca in bocca, gli ascoltatori se ne facevano eco, tra-
sformandosi a loro volta in canali di trasmissione. L’efficacia comunicativa del suo messaggio è un motivo ricorrente nelle accuse che furono mosse contro di lui. «Queste cose» dicevano gli avversari «non si hanno da dire fra il popolo: bisogna lasciarlo stare nelle sue devozioni.» La colpa del vescovo consisteva nel non far distinzione fra il «popolo» e i «dotti».'7 È nostra opinione che la diversa profondità di penetrazione sociale differenziasse l’eresia del Vergerio da quella del Nacchianti. Questa penetrazione era l’effetto della temuta «eloquenza degli eretici», che coinvolgeva
differenti strati, livellandoli verso l’alto. L’ex francescano Valerio Trono
sapeva quello che faceva quando,
davanti al tribunale inquisitoriale di
Capitolo secondo
Il caso Vergerio e il caso Nacchianti
Genova, si riconosceva colpevole #on di aver propagato il culto interiore a svantaggio di quello esteriore (ché questo sarebbe stato lecito «parlando fra dotti») ma di «haver parlato fra li simplici di queste sutilità».°5 Perché quando arrivavano ai semplici, le «sutilità» non restavano tali: esse diventavano la Riforma in atto. Il principio secondo il quale «difficilia fidei catholicae non esse tradenda rudi populo» era sottolineato anche dal tollerante maestro del Sacro Palazzo Tommaso Badia.!” | Dal punto di vista della penetrazione sociale la dottrina della giustificazione per la sola fede (il centro dell’edificio dogmatico) era meno sovversiva che la negazione del purgatorio o la critica della venerazione dei santi (la periferia dell’edificio dogmatico). Come notava il protonotario Pietro Carnesecchi (1567), la dottrina della giustificazione, se professata in forma positiva, senza le sue «illazioni et conclusioni», non aveva effetti di rottura: essa cambiava i rapporti fra l’uomo e Dio, ma non cambiava i rapporti terrestri. Il vero nodo del conflitto con i protestanti era — diceva il Carnesecchi — la questione dell’autorità del papa.!“ In questo egli anticipava la posizione di due storici della Chiesa nostri contemporanei.!‘! Effettivamente il principio della giustificazione per la sola fede fu condiviso nel primo Cinquecento da molti alti dignitari della Chiesa cattolica — ivi compresi alcuni cardinali e qualche serio candidato al soglio pontificio — che evidentemente riuscivano a conciliare quel principio con il cattolicesimo: essi non ne traevano tutte le «illazioni et conclusioni». Invece la negazione del purgatorio o la critica della venerazione dei santi avevano effetti immediati sulla vita religiosa di una parrocchia o di una diocesi: l’autorità del prete si riduceva insieme con le sue entrate (le messe di san Gregorio rappresentando un cespite di reddito primario per i mal pagati vicari), il ritmo quotidiano della vita religiosa rallentava, la posizione della chiesa nella vita della comunità cambiava insieme con l’aspetto della chiesa stessa. Non è dunque sorprendente che nel 1550 l’arciprete della chiesa veronese di San Sebastiano, Alberto Lino, potesse «chiaramente » predicare che «per la sola fede eremo giustificati», ma non osasse parlare «così scopertamente» dell’autorità del pontefice e del purgatorio, «delle quale cose parlava copertamente».!“° Non è sorprendente che a Chioggia il vescovo potesse enunciare, verso il 1549, la dottrina «che le opere erano come il panno di una donna mestruata e che le opere che noi stimiamo buone non sono di nessuna importanza ai fini della giustificazione » senza suscitare reazioni degne di nota; ma ecco che, se il sabato santo egli faceva trovar vuote le pile dell’acqua benedetta — per combattere la credenza che chi si bagnava quel giorno con quell’acqua si metteva al riparo per l’anno. in corso dalla morte per annegamento — allora «el populo» cominciava «a mormorar contra el vescovo et dir che era
Questo rovesciamento delle priorità teologiche si raddrizzò allorché i decreti del Concilio tridentino entrarono in pieno nella predicazione e nella prassi inquisitoriale. Allora la dottrina della giustificazione cominciò progressivamente a fornire ai predicatori e agli inquisitori — e di conseguenza anche agli ascoltatori e agli inquisiti — il punto di riferimento primario per
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lutherano ».!
7I
distinguere l’eresia dall’ortodossia. Ma il caso Vergerio e il caso Nacchianti rientrano nella fase anteriore, quella in cui la differenza fra il centro e la
periferia dogmatica era meno importante della differenza fra dissenso privato e dissenso pubblico, fra circuiti chiusi e circuiti aperti del discorso ereticale. Quasi tutti i rappresentanti del cosiddetto evangelismo italiano si muo-
vevano in circuiti chiusi. Al Vergerio fu forse fatale l’aver creato un circuito aperto?
‘Non riteniamo casuale il fatto che una riforma comunicativa come quella avviata dal vescovo di Capodistria fosse in parte ispirata da Erasmo, mentre un dissenso personale come quello del vescovo di Chioggia non aveva bisogno di ricorrere a formule erasmiane.'‘ Uno degli aspetti principali per
i quali l’umanista di Rotterdam fu utilizzato dal movimento riformatore italiano era appunto la sua «eloquenza», cioè l’efficacia comunicativa di un
linguaggio critico che sapeva scegliere i giusti punti d’attacco ed era capace di coinvolgere un largo uditorio. Effettivamente certe «superstizioni», che ad avviso del Vergerio si erano sovrapposte alla «libera» religione di Cristo e che minacciavano di soffocarla, erano in buona parte già state denunciate da Erasmo. Alla pratica di rivestire i moribondi, a volte persino i morti, con il saio francescano, il vescovo di Capodistria riteneva di potersi legittimamente opporre, perché era convinto che vestire un corpo con un abito piuttosto che con un altro non influenzasse la sorte dell’anima che in quel corpo aveva albergato. (Erasmo, prima ancora di criticare questa pratica in un colloquio, le Exequiae
seraphicae, aveva scritto nell’Enchiridion: « Entrar nel sepolcro coperto dalla tonaca di san Francesco ti pare gran cosa; ma questo tipo di veste non ti gioverà niente da morto, se da vivo non ti sarai ispirato a san Francesco
nel tuo comportamento. ») ! Un’altra tradizione o abuso che il Vergerio osteggiava era la concezione dipartimentale del culto dei santi. All’origine della popolarità di alcuni santi C’era la credenza che essi fossero competenti per alcune malattie specifiche o fossero atti a protegger i loro fedeli da determinati infortuni, che per esempio san Rocco o san Sebastiano fossero competenti per la prevenzione o la guarigione della peste, sant’Apollonia per il mal di denti, santa Lucia per le malattie degli occhi ecc. L’affannosa ansia del devoto di raccomandarsi ora a questo ora a quel santo, per mettersi al riparo da questo o quel rischio,
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Capitolo secondo
doveva essere un costume assai diffuso. Il vescovo cercò di combatterlo spiegando ai fedeli che Dio non aveva distribuito le malattie fra i santi e le sante come si distribuiscono gli uffici. Ma nessun aspetto della sua riforma offese così seriamente la sensibilità religiosa del suo uditorio come l’affermazione «che non si dovrebbe andar a pregar santa Lucia che ne sani del male de gli occhi, santa Apollonia de denti, santa Agatha delle mamelle». (Erasmo nell’Enchiridion: «Uno va ogni giorno a far la riverenza a san Cristoforo... perché si è persuaso che così si mette al sicuro per quel giorno da una morte _ violenta. Un altro adora un certo Rocco... perché crede che quello valga a tenergli lontana la peste d’addosso. Un terzo borbotta certe litanie a Barbara o a Giorgio per non cadere in mano ai nemici. Un altro digiuna in onore di Apollonia, per prevenire il mal di denti. Un altro ancora va a salutare le statue di Giobbe, per non esser affetto dalla scabbia. ») '
Capitolo 3 La generazione del 1510
1. Un maestro di scuola bolognese di nome Ilario ricevette verso il 1542 una insolita offerta di lavoro. Il suo concittadino Girolamo Ranialdi voleva essere avviato alla lettura di un libro che si era comprato, il Novum Testamentum di Erasmo. Di professione Girolamo Ranialdi faceva lo speziale. Il suo interesse per la Sacra Scrittura era rimasto fin allora circoscritto al Vecchio e al Nuovo Testamento in volgare, perché non sapeva il latino. L’acquisto del volume erasmiano — un’opera costosa e di difficile accesso — segnava - nella sua vita intellettuale un salto di qualità: lo speziale si accostava alla cultura alta, affrontava la lingua dei dotti, per intendere Erasmo.! Girolamo Ranialdi apparteneva a una conventicola eterodossa composta di artigiani, commercianti e maestri di scuola che si era formata a Bologna in quegli anni. L’esperienza degli incontri e delle discussioni in comune «sulla predestinazione, sul libero arbitrio, sulla venerazione della Vergine e dei santi e sulle preghiere da rivolgere loro, sui concili, sulla fede e le opere» ecc. segnò i membri del gruppo in modo durevole, come risulta dal fatto che alcuni di loro, vistisi scoperti, preferirono la fuga alla ritrattazione. Nello speziale Ranialdi quell’esperienza generò l’impulso a dare alla Riforma un contributo fattivo. Così il 14 gennaio 1543, una domenica mattina prestissimo, allorché si trovò a dirigere le preghiere collettive di un gruppo di laici — una confraternita? — che si riuniva regolarmente nell’oratorio di Santa Maria della Vita per recitare l’uffizio della Madonna, egli riformò la formula dell’assoluzione in senso cristocentrico. « Precibus et meritis beatae Mariae semper virginis et omnium sanctorum perducat nos Dominus ad regna coelorum» suonava la formula tradizionale; « Precibus et meritis Domini nostri
Jesu Christi» disse invece, a quanto sembra, lo speziale. E lo dovette dire a voce ben chiara, perché fra gli ascoltatori fu subito subbuglio.? A questa iniziativa riformatrice, che portò lo speziale faccia a faccia con
Capitolo terzo
La generazione del 1510
l’inquisitore di Bologna, corrispondeva il bisogno di un più solido fondamento dottrinale. E questo fondamento Girolamo Ranialdi lo chiedeva a Erasmo. Di qui l’acquisto del Novum Testamentum. Di qui le lezioni di latino. Pur nella sua incompletezza questo episodio minimo mette a fuoco una costante della storia religiosa italiana del Cinquecento: l’integrazione di Erasmo nel patrimonio ideale della Riforma.
divergono. Secondo un testimone il Poliziano avrebbe detto «che l’orazione vocale, quantunque pronunciata con attenzione e fatta con il cuore, non ha alcun valore, se colui che prega non intende e penetra il senso delle parole; e che colui che prega così, senza intendere e penetrare il senso delle parole, pecca e fa ingiuria a Dio». Un altro testimone ricavò dalla lezione del 20 marzo l’idea «che la preghiera fatta da uno che non capisce le parole che dice, è vana o inane». Secondo un altro testimone il senso del discorso sarebbe
2. Îl 21 marzo 1541 la città di Modena si svegliò percorsa da una «grande mormoratione». Il giorno dopo, 22 marzo, la mormorazione, che partiva da ambienti ecclesiastici, si avviava a diventare «clamore». Arrivò alle orecchie del solerte cronista della città, il notaio Tommasino Lancillotti, e a quelle di fra Domenico da Bergamo, priore del convento domenicano e vicario dell’inquisitore di Modena. L’uno e l’altro si misero in moto per verificarne la consistenza. Si trattava di appurare che cosa fosse successo la domenica precedente nella casa patrizia di Francesco Maria Molza. In quella casa un giovane prete modenese, Giovanni Bertari, soprannominato il Poliziano, «homo dotto in humanità e in la Sacra Scriptura», leggeva e commentava da circa tre mesi le lettere di san Paolo. Le lezioni, pubbliche e gratuite, avevano luogo ogni domenica sera dopo il vespro. Casa Molza era stata scelta come sede di questi incontri, perché Giovanni Bertari vi esercitava l’ufficio di pedagogo e vi teneva una scuola aperta anche ad allievi esterni. L’attenzione con la quale l’uditorio ecclesiastico e laico seguiva settimana dopo settimana le lezioni paoline del Poliziano era acuita dalle voci che l’oratore fosse «invischiato nelle opinioni dei luterani». Fino a metà marzo, peraltro, neanche gli ascoltatori più maldisposti avevano potuto cogliere nelle riunioni di casa Molza alcuna proposizione che l’oratore non fosse in grado
vano, non erano acepte a Dio e che ogni persona se doveva sforzare de inten-
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di corroborare con autorità indiscutibili, come la Summa di san Tommaso.
Ma il 20 marzo, terza domenica di quaresima, Giovanni Bertari si avventurò allo scoperto. E quella sera, quando l’uditorio lasciò casa Molza, il termine di «luterano» risuonava con insistenza nei commenti.
Le deposizioni dei testimoni oculari, che il vicario dell’inquisitore cominciò a raccogliere fin dal 22 marzo, ci dicono che il tema di quella lezione era stato la preghiera. Movendo da un versetto paolino — «nella chiesa amo meglio dir cinque parole per la mia mente, acciocché ammaestri ancora gli altri, che diecimila in lingua», 1 Cor 14, 19 — il Bertari aveva criticato la prassi corrente dell’orazione vocale, prolungata e meccanica. A suo avviso la preghiera doveva essere trasferita dalla sfera collettiva della ritualità spettacolare alla sfera soggettiva della coscienza come conoscenza. Di quali parole egli avesse fatto uso non risulta chiaro. Le testimonianze
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stato che «le oratione, che se dicevano dalle persone che non le intende-
derle». Ma c’era anche chi riteneva di aver sentito dire al Poliziano che «colui
che pregava a voce alta, senza intendere il senso delle parole, peccava e arre-
cava una grave offesa a Dio, e bestemmiava e irrideva Iddio; e che non
bastava l’intenzione della preghiera o la concentrazione in essa, ma occorreva percepire interamente il senso e la portata delle parole». Nella versione del più diretto interessato, infine, il discorso del 20 marzo voleva solo dimostrare che la preghiera era più accetta a Dio, quando chi la pronunciava si sforzava d’intenderla: e che perciò chi non sapeva il latino doveva comprarsi dei libri volgari «per poterse ben chiarire ».? Qualunque ne fosse il tenore letterale, quella lezione sulla preghiera mise
il vicario dell’inquisitore in uno stato di nervosismo esagitato, diede l’avvio
a un penoso processo, provocò tensioni a livello politico, fu occasione di
una pubblica manifestazione di solidarietà in vescovato a favore del Ber-
tari, spinse il protagonista dell’episodio alla fuga e mise i suoi influenti patroni sulla via di Roma al fine di rabberciare l’affare: tutto questo nel periodo precedente alla riorganizzazione dell’Inquisizione, quando la prassi del tribunale era estremamente mite e accomodante.* Il Bertari non era nuovo a queste sortite a effetto. Durante la carestia del 1539-40 egli si era presentato davanti al consiglio della città per dimostrare, Bibbia alla mano, che i consiglieri avevano il diritto di confiscare il patrimonio ecclesiastico — soprattutto i beni mobili e immobili dei ben dotati canonici del duomo — per comprare cereali da distribuire tra i poveri.’ Nessuno dei suoi interventi pubblici ebbe però una risonanza così larga come la sua lezione sulla preghiera: tanto diffusa e radicata era la prassi che vi veniva messa in discussione. Nonostante la mitezza inquisitoriale,
nonostante l’intervento dei patroni, il Bertari fu costretto ad abiurare pubblicamente. Nell’abiura dovette dichiarare che quella sua lezione del 20 marzo sulla preghiera era «contra la fede chatolica, e chi tenesse quello che lui disse allora saria heretico». La sentenza romana che lo costrinse a questa pubblica umiliazione portava significativamente la firma di Girolamo
Aleandro.6
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La generazione del 1510
Capitolo terzo
Era la voce di Erasmo quella che, per il tramite di Giovanni Bertari, com-
mosse e sommosse la cittadinanza modenese nell’incipiente primavera del
1541? Probabilmente sì. Quel versetto paolino, dal quale il prete modenese
prese l’avvio (x Cor 14, 19), si trova citato con rilievo nell’Enchiridion e inter-
pretato nel senso che cinque parole dette e intese hanno nella preghiera mag. gior valore che diecimila profferite con le labbra e non intese. La colloca. zione della pietà nel borbottamento di un gran numero di salmi latini a malapena intesi nel loro significato letterale, era considerato da Erasmo un errore, malauguratamente diffuso non solo nel popolo, ma anche fra i sedicenti professionisti della religione perfetta, fra i monaci e i frati. Ora se Cristo in persona ci ammonisce a non essere lunghi nella preghiera — argomentava Erasmo — non dovremo ritenere che il breve verso di un salmo, meditato
e assorbito fino alla midolla, ci abbia a fornire più sostanzioso alimento di tutto il salterio intonato meccanicamente?” In un’opera più tarda, nel Novum Testamentum, il versetto paolino delle cinque e diecimila parole era apparso corredato di un lungo commento, del quale la pubblicistica riformatrice di lingua tedesca si sarebbe appropriata, un commento che duramente biasimava la preghiera inintelligente e la riduzione della pietà a un’armonica intonazione di formule non capite. «In coscienza mi chiedo: quale mai concetto possono avere di Cristo coloro che s’immaginano ch’egli abbia a compiacersi di tale vociferante frastuono?»® E infine nella celebre parafrasi del Vangelo di Matteo l’umanista aveva definito «sconcio e ridicolo» il costume che incoraggiava illetterati e donnicciole a sgranare i loro salmi e paternostri latini uno dietro l’altro, senza intenderne il senso, a mo’ di pappagalli.’ Fu forse quest’ultima formulazione, la più retoricamente efficace di tutte, e anche quella più in vista — la si leggeva nella prefazione -, che influenzò Giovanni Bertari. L’integrazione di Erasmo nel patrimonio ideale della Riforma, che nell’episodio bolognese di Girolamo Ranialdi resta a livello d’intenzione, si fa azione concreta nell’episodio modenese che ha a protagonista Giovanni Bertari.
3. Che il 21 marzo 1541 gli ascoltatori modenesi di Giovanni Bertari si trovassero confrontati con la concezione erasmiana della preghiera è pro-
babile ma non è documentariamente sicuro.!° È invece sicuro che gli ospiti
del carcere vescovile di Padova si trovarono confrontati nel 1568 con la concezione erasmiana della predicazione del Vangelo. In quel carcere era detenuto — per sospetta partecipazione ai circoli calvinisti di Padova, per contatti epistolari con calvinisti di Lione e col prin-
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l ripe di Salerno, nonché per possesso di scritture ereticali e di libri proibiti — il " inquantenne Marziale Clementi. Veniva a trovarlo e conversava con lui «alle feriade della pregion», attraverso le quali i prigionieri potevano comuni’ care con il mondo esterno, lo speziale Baldassarre dal Cappello. Durante : una di queste visite lo speziale offrì di portare all’amico, ad alleviamento della prigionia, un «bel Testamento Novo et altri belli libri che glie piaceria | quando li vedesse». Il Nuovo Testamento in sedicesimo che in tal modo penetrò nella prigione vescovile di Padova, era preceduto da una «epistola - di Erasmo Roterodamo, per la quale esorta ciascuno ad imitar Christo ’ et a la osservantia de la dottrina evangelica». Marziale Clementi prese tanto gusto a questo testo da leggerlo ad alta voce ai suoi compagni di carcere. Due preti padovani e un fiammingo che condividevano la prigionia ’ di questo
Erasmo.'
eterodosso
padovano
furono
così
iniziati
all’evangelismo
di
L’ «epistola (...) de la dottrina evangelica» era la prefazione che l’umanista di Rotterdam aveva premesso a un’edizione separata del Novum Testamentum nella sua versione latina, che il tipografo basileese Andreas Cratander aveva pubblicato nel 1520. Verso il 1545, pulitamente volta in italiano da un ignoto traduttore, lievemente censurata, essa fu associata a una versione, anch’essa anonima, del testo evangelico. La combinazione che ne risultò ebbe a Venezia fra il 1545 e il 1551 una notevole fortuna editoriale, testimoniata da diverse edizioni, tutte in piccolo formato (me ne sono direttamente note quattro).'° Il Nuovo Testamento che lo speziale Baldassarre
dal Cappello fece scivolare fra le sbarre del carcere vescovile di Padova doveva essere appunto uno di questi maneggevoli volumetti veneziani.'? Fra gli scritti programmatici sulla filosofia evangelica che Erasmo aveva composto in tempi diversi per associarli alla sua traduzione neotestamentaria, la prefazione del 1520, che gli studiosi designano come Nova praefatio, non era la più ardita. La prefazione alla prima edizione — la famosa Paraclesis — esprimeva in termini ben più radicali l’alternativa fra il «semplice » testo del Vangelo, «accessibile a tutti», e la «spinosa» cultura teologica ufficiale. La polemica contro i filosofi e i teologi tardoscolastici divenne, nella prefazione del 1520, più sommessa; l’accento si spostò dalla teologia alla morale, in sintonia con la tematica tradizionale della riforma cattolica. «Il mondo è pieno di predicatori — ammoniva Erasmo nella versione italiana che fu usata da Marziale Clementi — et nondimeno grandissima parte di loro in luogo de le cose divine predicano le humane. Imperoché il fine di costoro non è
la gloria di Christo, ma il guadagno, overo il piacer de la vita, in qualche
grasso vescovado o qualche bona abbacia (...) Aderiscono ai magnati et gli lusingano et temeno di contradirgli, per esserne premiati; et sprezzano et
Capitolo terzo
La generazione del 1510
calpestano quelli che sono bassi et humili. Non è molto più sicuro al tempo d’hoggi proporre le pure vene di Christo al populo assetato (...) che già fu al tempo di Nerone. »'* Nel 1568, nella prigione vescovile di Padova, questo temperato accenino critico alla mondanizzazione del clero faceva trasalire di sdegno gli ascoltatori. Pre Giovanni de Zaghis, uno dei due preti che avevano condiviso con Marziale Clementi il carcere padovano, denunciò l’ex compagno di prigionia all’inquisitore per la detenzione di quel volume è per la lettura di questa prefazione. Egli dichiarò che l’epistola di Erasmo, che Marziale Clementi aveva avuto la sfrontatezza di leggere in carcere, «diceva male delle predichatione et delli predichatori, talché faceva stupir le rechie de’ audienti». La reazione dei compagni di prigionia — fra i quali vi era un sospetto di omicidio — fu tale, da indurre lo speziale Baldassarre dal Cappello a lacerare ostentatamente alcune pagine del volume. Fra le pagine sacrificate vi erano presumibilmente quelle di Erasmo.” Il fatto di Padova è atto a illustrare da un lato la continuità nei decenni della tendenza a leggere Erasmo in chiave riformata, dall’altro la compatibilità di tale lettura con un alto grado di consapevolezza confessionale, quale era probabilmente quello del calvinista Marziale Clementi.
fisionomia di alcuni protestanti o filoprotestanti italiani, i quali assunsero Erasmo come insegna del loro dissenso o s’ispirarono alle sue opere " ner formulare le loro proposte alternative. Fra loro spiccano, gli uni per la serietà del loro impegno, l’altro per la versatilità della sua azione, Giovanni Angelo Odoni con il suo compagno Fileno Lunardi (ambedue nati verso il
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4. Le tre vicende che abbiamo rievocato in apertura di questo capitolo valgono, oltre che ad anticiparne la tesi principale, anche a esemplificare il tipo di documentazione sul quale quella tesi si basa. Tutto l’arco del periodo, nel corso del quale in Italia si manifestarono impulsi di Riforma, è disseminato di documenti analoghi a quelli che abbiamo utilizzato qui sopra. Le testimonianze della cooptazione di Erasmo nel movimento protestante, più fitte nella fase ascendente (1530-42 circa) e nella fase declinante (1555-80 circa), non vengono meno neanche nella fase culminante del movimento (1543-55 circa), anche se qui si diradano un poco. Questa parabola vale, oltre che per il movimento nel suo complesso, anche per alcune delle conventicole singolarmente considerate: l’opus erasmiano, spesso utilizzato nella fase della propaganda espansiva, retrocedeva in seconda linea nella fase della stabilizzazione — quando le piccole comunità italiane tentavano di darsi una organizzazione ecclesiale, si avventuravano nell’amministrazione alternativa dei sacramenti, elaboravano forme di mutua assistenza ed espedienti di autodifesa — per poi tornare d’attualità come posizione di ripiegamento al momento dell’inasprirsi della repressione controriformistica. Le testimonianze più organiche della cooptazione di Erasmo nel movimento di Riforma provengono dai rappresentanti della generazione del 1510 e degli anni adiacenti. Già gli studi degli ultimi decenni hanno delineato
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1 510) e Ortensio Lando (nato fra il 1510 € il 1512). Alla stessa generazione appartenevano anc.he Alessandro Milani (nato nel 1512) e Achille Benvo-
glienti (nato verso il 15 10). N.o.n erano molti gli anni che separavano questo
gruppo di ammiratori e lettori italiani di Erasmo da un Aonio Paleario (nato
nel 1503).! Altri rappresentanti della generazione del 1510 e degli anni adiacenti sono comparsi o compariranno in questo libro: Giovanni Bertari detto il Poliziano era nato nel 1511, Francesco Porto era nato nel I511, Pietro Lauro doveva essere loro coetaneo, Aurelio Cicuta era nato nel 1513, Sebastiano Castello era nato nel 1515, Pietro Gelusio era nato verso il 1516, Marziale Clementi era nato nel 1517, Bartolomeo Fontana era nato nel 1518, Girolamo Allegretti era nato nel 152x. Non erano anagraficamente lontani dalla generazione del 1510 Matteo Cizzo, nato nel 1502, e Marco Valva-
sone, nato verso il 1508.!7
La notevole presenza di rappresentanti della generazione del 1510 fra
" i testimoni di una Riforma erasmofila non è probabilmente da considerare
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come una coincidenza anagrafica. In Italia la fortuna editoriale di Erasmo toccò l’apice nel decennio compreso fra il 1520 e il 1530, quando i suoi libri — specialmente i manuali di grammatica latina e di educazione retorica che egli aveva scritto per uso scolastico — ebbero un numero di ristampe così alto da non essere mai più raggiunto a sud delle Alpi.!8 1 principali fruitori di questa ondata di edizioni furono i ragazzi nati verso il 1510 e negli anni attigui. A loro i maestri misero in mano i Colloguia familiaria, il De conscribendis epistolis, il De duplici copia verborum ac rerum, gli Adagia e in certi casi anche l’Enchiridion,° prima che i teologi cattolici avessero portato a _compimento quell’equazione Erasmo = Lutero, della quale si è parlato nel capitolo precedente. Nel quinquennio 1530-35, allorché l’equazione era stata perfezionata e per effetto di essa intorno al nome dell’umanista si era addensata un’aura di sospetto, quei ragazzi erano dei ventenni o si avviavano alla
ventina. In un’età in cui «arde il sangue e l’ingegno »”° la generazione del 1510 cominciò a sentir bollare il proprio maestro come eresiarca e come compare di quel Lutero, del quale la propaganda ecclesiastica diffondeva una immagine diabolica. L’effetto deterrente della propaganda luterana venne vanificato presso alcuni di quei giovani dalla familiarità con i libri di Erasmo. L’associazione dell’umanista con il riformatore, invece di alienare da
Erasmo chi aveva imparato a detestare Lutero, poteva rendere interessante
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ale Salato, un maestro di scuola di Amalfi, condannato nel 1567 dal tribu-
Lutero agli occhi di chi si era familiarizzato con le opere di Erasmo. Così l’umanista si trovò probabilmente a fungere da tramite di contatto con quei riformatori, che egli in questi anni pubblicamente sconfessava e combatteva. Di converso, la conoscenza di questi riformatori, e la familiarità con le loro idee, proiettandosi sull’opera dell’umanista, ne favorirono un’inter.pretazione selettiva che al vecchio Erasmo sarebbe probabilmente apparsa distorta e partigiana.°! '
’ nale dell’Inquisizione di Roma a dieci anni di galera.”’” 1 due libri più amati che un prete eterodosso della campagna veneta, pre Natgle da nghano Erasmq in Yol‘Yeneto, riuscì a conservare fino al 1570 erano i Collogui di
are e un Libro de la institution de la vita christiana, che era forse il Libro
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5. Come i tre episodi sopra rievocati di Bologna (1542-43), Modena (1541)
e Padova (1568) microstoricamente attestano, i protagonisti del dissenso reli. gioso italiano trattarono perlopiù Erasmo come alleato e lo integrarono senza
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percepibili riserve nel patrimonio d’idee al quale attingevano. Teorizzando tale integrazione, Aonio Paleario equiparava Erasmo a «Ecolampadio, Melan- | tone, Lutero e Pomerano» (1543) e si proponeva di ricavare dalle sue opere una specie di programma minimo, il quale avrebbe permesso alle varie correnti riformatrici d’oltralpe di presentarsi unite al Concilio (1534).? Analogamente Pier Paolo Vergerio, generalizzando la propria esperienza personale, proclamava che Erasmo era il
«maestro»
e il
«fonte assai grande», dal
quale molti teorici della Riforma, suoi «discepoli» o suoi «rivi», avevano attinto le loro dottrine (1550).” La composizione delle biblioteche degli eretici, il tenore della predicazione «luterana», nonché l’analisi della lette-
ratura religiosa del dissenso, confermano la cooptazione di Erasmo nell’area del movimento riformatore. Passiamo in rassegna alcune testimonianze relative alle biblioteche dei dissidenti. Nella biblioteca personale dell’agostiniano Giulio da Milano, processato a Venezia nel 1541 per la sua predicazione riformatrice, Erasmo era presente con quattro titoli su un totale di otto opere di teologia contemporanea.° Îl Testamentum Novum per Erasmum Roterodamum affiancava opere di esegesi neotestamentaria di Bullinger e di Brenz nella biblioteca di Omobono Asperti, piovano di Tomba veronese, il quale nel 1550 si professava seguace di «Zuinglio, Bucerio, Bellingerio, Eccolampadio » e, sorretto dalla speranza di «esser martir de Jesù Christo», chiedeva a Dio la grazia di pro-
fessare la verità espressa in quei suoi libri, confermandola con la morte (la
grazia non gli fu concessa).” Nel 1555 il sacerdote Agostino Casate, una figura legata ai Pellizzari — grandi mercanti di seta di Vicenza, religiosamente orientati verso Ginevra — comunicava ai suoi patroni di essere stato trava-
gliato da un inquisitore per il possesso di tre libri sospetti: i Colloqui di Erasmo, il Sommario della Santa Scrittura e il Beneficio di Cristo.”° Le opere di Erasmo erano associate agli scritti di Ecolampadio nella biblioteca di Anni-
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| della correzione ed emendazione del stato cristiano di Lutero.® servisuo un a aprire fece Rubetrtis de Antonio Marco Quando il fattore che aveva trovato in una casa d’affitto a San Salvatore di tor e il forziere Collalto, ci trovò dentro, chiusi in un sacco mangiato dai sorci, una quarantina di volumi, «tutti prohibiti et heretici». Si era verso il 1564. Fra quei Jibri saltarono subito agli occhi del fattore alcune opere di Erasmo; al prete di Refrontolo prontamente convocato saltarono invece agli oc'chi «tutte le' opere di Martin Luthero con il suo retratto», nonché testi di Zwingli, .d1
’_ Brenz, di Bernardino Ochino e di Bullinger: libri di gran valore, «in belissima stampa di Basilea et ben ligati». Era la biblioteca, amata e ostinatamente difesa, di pre Francesco Bertoldi, un eterodosso legato al gruppo di Lucio Paolo Rosello.” 1l maestro di scuola Marco Antonio Pichissino aveva espiato nel 1558 con un pubblico atto di abiura la sua partecipazione a un gruppo eterodosso di Gemona, la cui attività consisteva soprattutto nella lettura e discussione di libri di Lutero. Nel 1575 un secondo processo rivelò che il maestro, scaltrito ma non corretto dalla prima esperienza, aveva ripiegato su letture un po’ meno univoche: oltre a Guglielmo Postel e alla Dialectica di Melantone,
leggeva ora la parafrasi erasmiana del Vangelo di Matteo.’
La stessa associazione di Erasmo ai riformatori si rivela al livello dell’attività omiletica e della propaganda orale. Le «magnifiche» prediche che il francescano conventuale Antonio della Castellina tenne a Modena nel 1539 — allegando «el Testamento Vecchio e Novo con santo Paulo, santo Augustino et altri dottori excellenti molto elegantemente » — procurarono al predicatore una citazione davanti al tribunale inquisitoriale, perché i domenicani modenesi giudicavano «essere [quel predicatore] della setta luterana et che ’1 predica la setta de Erasmo».’* Precisi motivi erasmiani sono identificabili nella predicazione che l’agostiniano Ambrogio da Milano tenne a Cipro nel 1544 e che gli valse un processo per eresia a Venezia (il processo successivo, che si svolse a Roma nel 1556, gli sarebbe stato fatale).’? Echi erasmiani si possono cogliere anche nei discorsi che il domenicano Pietro Gelusio da Spoleto, reduce da un soggiorno a Basilea e da letture di Zwigli, teneva alle monache del convento spoletino di Santa Caterina della Rosa
in data anteriore al 1553.” Il predicatore Girolamo Allegretti da Spalato,
già frate domenicano, poi esule a Basilea, assunto nel 1550 come ministro
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della piccola comunità evangelica di Gardone, vi tenne letture bibliche alimentate dalle annotazioni neotestamentarie di Erasmo, nonché dalle opere di Giovanni Crisostomo e di Muscolo.* Nel percorrere la documentazione inquisitoriale s’incontrano anche predicatori i quali avevano così lungamente rielaborato una componente era- smiana, che essa risulta difficile da documentare testualmente. È il caso, se non erro, del perugino Sebastiano Castello. Durante la quaresima del 1551 questo francescano conventuale predicò nella chiesa veneziana dei Santi Apostoli sul principio dell’apostolato universale e sul tema del vangelo perseguitato, proclamò la riduzione del giubileo al sangue di Cristo ed esaltò la fede contro le-’opere.” Il tono in cui questa tematica palesemente protestante fu svolta ha però vibrazioni che suonano familiari alle orecchie del conoscitore di Erasmo, anche se la familiarità elude precisi confronti testuali. Nella cultura del frate perugino Erasmo era una.presenza diffusa, non un repertorio di citazioni: una presenza che si manifestava negli avveduti silenzi, nel parlar mozzo e sfuggente, nelle reticenze, nei riferimenti al doppio livello della verità (ché «non sempre si devono gettare le perle ai porci»), nel balenare di spunti antimonastici, nella subordinazione della pietà esteriore a quella interiore. E nel rigetto della teologia tomistica. «Il predicator de San Apostolo» riferì uno zelante testimone «exponendo in pulpito quel detto de l’Evangelio “Diligite inimicos vestros, benefacite his qui oderunt vos’’, disse simili parole ‘“Questo è precetto et non consiglio, come fu opinion de san Thomaso, il qual alla 33? questione disse questo esser consiglio et non
precetto.’’»* Qui la diffusa presenza erasmiana diventa più intensa. Il
declassamento dell’imperativo cristiano dell’amore da precetto a consiglio — e la conseguente legittimazione della ritorsione, della resistenza e della guerra — era uno degli argomenti dei quali si era servito l’umanista per dimostrare che la teologia tomistica aveva distorto e tradito il vangelo.”” 6. Il dissenso religioso italiano non asseghò a Erasmo solo la funzione di teorico della Riforma. Altrettanto spesso gli assegnò quella, più circoscritta, di iniziatore alla Riforma e/o quella, più tattica, di surrogato dei riformatori effettivi. T'ali funzioni si trovano delineate in una lettera che Girolamo Aleandro scrisse nel 1531. L’allora nunzio pontificio in Spagna spiegava il successo che Erasmo stava riscotendo in quel paese come effetto del latente luteranesimo iberico. I fautori della nuova setta, non potendo apertamente schierarsi dalla parte dell’eretico Lutero, già condannato, esaltavano Erasmo, facendone l’oggetto di un vero e proprio culto. Fra le manifestazioni di questo culto, il nunzio annoverava il moltiplicarsi delle traduzioni spagnole dei suoi libri, «dico di quelli pericolosi».’®
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L'’utilizzazione del discorso di Erasmo, se non proprio come un surro-
gat0 — secondo l’insinuazione di Aleandro — certo come propedeutica allg .Riforma, è fenomeno di portata europea. In' I{1ghilterra t.alf: ff\enomeno si i espresse in William Tyndale., .la. cui carriera ‘fh .r1fc.>rmato.re\ iniziò con la.traduzione in volgare dell’Enchiridion militis christiani, culminò nella traduz1cîn'e del Nuovo Testamento erasmiano e si chiuse nel 1536 sul rogo deflîInqu1s;-
‘ zione di Bruxelles.” In Francia quella stessa tendenza s’incarnò in Louis
° de Berquin, traduttore d’Erasmo e di Lutero, arso a Parigi nel x 529 a con" clusione del suo terzo processo per eresia.! Nei Paesi Bassi la funz1on? di Erasmo come propedeutica alla Riforma è simboleggiata dai nomi di Nico-
' ]aas van Broeckhoven (Nicolaus Buscoducensis) e di Cornelius Grapheus
(Cornelis Schrijver), l’uno direttore della scuola umanistica, l’altro segretario comunale di Anversa.“! In Spagna la tendenza all’uso tattico di Erasmo nel disegno riformatore si coglie nel Didlogo de doctrina christiana di Juan
de Valdés, che inalbera in modo ostentato il nome di Erasmo ma in effetti.
diffonde idee di Lutero.‘? Quanto all’Europa centrale, è noto che le figure guida non solo del movimento riformatore svizzero e altotedesco, ma anche del luteranesimo, provenivano dai circoli dell’Umanesimo biblico, dei quali Erasmo era stato il centro.® In Italia l’inquadramento di Erasmo nel disegno riformatore presenta aspetti di un tatticismo estremo. Un uso puramente tattico del suo nome fu fatto dalla tipografia veneziana fra il 1526 e il 1543. In quel periodo alcuni
brevi scritti di Lutero e di Amsdorf, che costituiscono un limpido direttorio della vita di coscienza, furono stampati e messi in circolazione in ita-
liano sotto il nome di Erasmo.“ L’iniziativa, attestata da almeno quattro
edizioni — 1526, 1532, 1540, 1543 — è da considerare come un tentativo di coprire Lutero sotto la maschera di Erasmo, analogo a quello messo in atto da Louis de Berquin in Francia e da Juan de Valdés in Spagna, ma con-
cepito con maggiore spregiudicatezza.
Più complesso ci appare il ruolo assegnato al grande umanista nel disegno riformatore che Giovanni Angelo Odoni elaborò a Strasburgo, insieme al suo compagno Fileno Lunardi, nel triennio 1534-36. Di origine abruzzese, Giovanni Angelo Odoni era uno studente di medicina di Bologna che, poco più che ventenne, si era convertito alla teologia e si era messo alla scuola di Butzer e di Capitone a Strasburgo. Nel 1536 egli formulò, ponendolo sotto il patrocinio di Erasmo, una specie di manifesto di protesta religiosa attagliato all’Italia. Il manifesto doveva servire come base per la raccolta di consensi e come piattaforma di lancio per una Riforma di ispirazione sacramentaria. Porre un tale disegno sotto l’insegna di Erasmo, allora trattato con molto riguardo dalla Curia romana, significava evitare lo scontro fron-
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tale, fino alla maturazione di un consenso abbastanza largo da poter eserci.
tare una convincente pressione sugli organi decisionali della Chiesa. Presu. mibilmente il disegno riformatore che Odoni aveva concepito avrebbe dovuto essere realizzato senza gravi atti di sovversione. Per la lucidità del disegno strategico che la documentazione sopravvissuta ci permette di intravedere, il caso Odoni-Lunardi rimane unico. Numerosi sono invece all’interno del movimento riformatore i casi in cui l’opera di Erasmo viene usata come propedeutica alla Riforma ovvero come base di lancio verso orizzonti dottrinali più avanzati (Butzer, Calvino). Nel para-
grafo successivo illustreremo tre di questi casi.
7. Verso il 1545 risiedeva a Padova una gentildonna di nobile e ricca famiglia genovese, Caterina Sauli. Era maritata a Giovanni Gioacchino da Passano, signore di Vaux, un personaggio di primo piano nella politica italiana del primo Cinquecento, in quanto coordinatore delle azioni diplomaticomilitari svolte dai francesi in Italia e capofila del partito filofrancese. In un documento più tardo — datato 1567 — Caterina Sauli ci appare come un gan-
glio del vasto reticolato protestante, che si estendeva da Venezia a Mantova, da Padova a Rovigo,*° e che comprendeva le personalità più rilevanti del calvinismo veneto, come Nicolò Buccella, Alessandro Trissino, Francesco Scudieri, Giovanni Domenico Roncalli.’ L’elevatissima posizione sociale predisponeva la gentildonna ad assumere nella rete del dissenso un ruolo di patronato. Ella finanziava eterodossi di vario orientamento prendendoli al proprio servizio, spesso in qualità di precettori, e forse riusciva anche a metterli temporaneamente al coperto da persecuzioni locali con lo splendore del proprio nome. Nel 1547 quel nome apparve associato a un’opera destinata a essere inclusa qualche anno più tardi — nel 1549 — nell’Indice veneziano dei libri proibiti, l’Esposizione letterale del testo di Mattheo evangelista. Nella dedica il filosofo e letterato padovano Bernardino Tomitano, che figurava come autore, intitolava l’opera a Caterina Sauli, presentandola, lei donna sposata, madre orgogliosa di una «prole bellissima e riguardevole molto», come protagonista di un’esperienza di imitazione di Cristo, della quale il libro che le veniva offerto voleva essere un alimento.“ Nel 1555, comparendo spontaneamente davanti al tribunale inquisitoriale veneziano per giustificarsi della paternità di quest’opera, il Tomitano spiegava che in realtà l’opera non era sua, bensì di Erasmo e che neanche l’iniziativa della traduzione era sua, bensì del marito di Caterina. Egli non aveva fatto altro che tradurre su commissione il testo latino della parafrasi erasmiana del Vangelo di Matteo, che Giovanni Gioacchino da Passano
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eva a portata di mano «Îì su una tavola» e desiderava far volgere in buona
rma italiana, non solo per proprio uso, ma anche per metterlo in circolavione. Il libro ricevette una veste editoriale molto elegante, della quale il ‘signore di Passgno p.agò i costi. La dedica alla moglie era verosimilmente, ‘gltre a una testimonianza di amore coniugale, anche il segno della comune ì artecipazione agli ideali religiosi di Erasmo. | Fino a che punto il Tomitano fosse personalmente coinvolto in questo
’ episodio della f.or?una di Erasmo non risulta chiaro. Risulta invece chiaro ' che l’unica iniziativa letteraria promossa e finanziata dalla ricca e influente
’ coppia ligure fu la traduzione italiana delle parafrasi erasmiane: l’Esposizione ’ di Mattheo evangelista rientrava infatti in un programma più vasto, che comprendeva tutte e quattro le rielaborazioni dei testi evangelici.° Non sappiamo se nel 1547 Caterina da Passano fosse già religiosamente orientata
‘ verso il protestantesimo. In caso negativo, l’evangelismo erasmiano segnò
una fase transitoria del suo itinerario religioso; in caso positivo, il linguag-
" gio teologico di Erasmo dovette apparirle nel 1547 come un accettabile com-
promesso tra le proprie convinzioni interiori e la pietà cerimoniale che per
" effetto dell’incipiente Controriforma ella vedeva imporsi intorno a lei. Contro
’ questa pietà Erasmo nelle parafrasi non diceva molto; ma a favore di essa
î non diceva niente. E in questi anni il silenzio era sospetto. Le questioni controverse più scottanti erano allora, come attestava Bernardino Tomitano, la venerazione dei santi, l’autorità delle tradizioni ecclesiastiche, le buone
| opere. Su tali argomenti Erasmo, con la «brevità delle sue parole», con i suoi «modi accorti et riservati», con il suo «procedere dubbioso et indistinto », stendeva un velo di ambiguo riserbo, che lasciava spazio alle inter-
. pretazioni più diverse.”?
Da un processo inquisitoriale imolese emerge la fisionomia di un piccolo gruppo protestante attivo nel triennio 1549-51. Î principali membri del gruppo erano un libraio-orologiaio di Imola, Alessandro Ressa, un magnano originario di Tossignano, maestro Nocente, che esercitava anche il commercio del ferro, l’orefice Pietro Gentile di Faenza, alcuni altri artigiani imolesi come Giovanni Zacone e Giovanni Battista Guidotti,
e un Bandino Ban-
dini di professione indeterminata; un po’ al margine si intravedono le figure di un frate agostiniano, Raffaele di Bergamasco, e di un ecclesiastico, don Filippo, che esercitava l’ufficio di maestro di scuola. Il gruppetto rafforzava la sua coesione interna frequentando e discutendo in comune le prediche, stringendosi in blocco intorno ai predicatori «christiani» che capitavano in città o nei dintorni e criticando i predicatori «phatisei», passandosi libri proibiti o sospetti, mantenendo in vita una corrispon-
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denza intesa al reciproco conforto, scambiandosi visite da bottega a bottega per soddisfare improvvise curiosità esegetiche sorte durante il lavoro: «Come
’ Fregoso e del Beneficio di Cristo), recalcitrò e si dibattè a lungo prima di
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intendi tu (...) quella parabola?»°! Contribuivano ad alimentare la consa-
pevolezza del dissenso visite di ministri evangelici itineranti e contatti sporadici con l’ambiente che circondava la duchessa Renata di Ferrara a Consandolo.”? Ma l’attività del gruppo non si limitava al consolidamento interno. I suoi membri dispiegavano anche un’azione di propaganda verso l’esterno, dimostrando una notevole intuizione per la scelta dei momenti propizi. Una turba di ragazzi che si affollava scomposta e chiassosa per accompagnare in processione la venerata Madonna di Valverde; una veglia notturna per confortare un condannato a morte in attesa dell’esecuzione; la comparsa sulla piazza principale di Imola di un predicatore improvvisato, forse un impostore: per Alessandro Ressa e compagni erano queste altrettante occasioni per proporre concretamente la propria pietà alternativa, suscitando nei presenti reazioni di disorientamento o di costernazione, dispute e perfino zuffe.”? | Fra i libri con i quali il gruppo imolese alimentava il proprio dissenso vi era — oltre alle Prediche di Giulio da Milano e al Trattato dell’orazione del cardinal Fregoso — anche l’«Enchiridion di Erasmo volgare». Nel libraioorologiaio Alessandro Ressa il volumetto erasmiano aveva trovato un lettore particolarmente attento: tant’è vero che vediamo questo artigiano valersi nelle dispute religiose di schemi retorici tipicamente erasmiani. Quando il suo concittadino ser Giovanni Battista Bissolo gli consigliò di non rompersi la testa con i Vangeli, «et che per lui non si curava di leggerli et non volea sapere più di quello che sapeva», Alessandro Ressa replicò che «s’el christiano è diligente nelle cose di questo mondo», tanto più avrebbe dovuto «sapere in che modo dovere governare l’anima sua»: l’argomento a fortiori; al quale in quella discussione il libraio imolese fece ricorso, è uno degli schemi retorici prediletti di Erasmo, che lo usò con particolare insistenza nell’En-
chiridion ”°
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Peraltro la lettura dell’Enchiridion corrispondeva nel gruppo di Imola a una fase iniziale dell’indottrinamento. Ce lo rivela l’atteggiamento che il’ libraio-orologiaio assunse davanti al tribunale inquisitoriale. Tradito da una lettera imprudente, imprigionato nel torrione di Imola, messo alle strette da un interrogatorio sagace, il libraio-orologiaio adottò una strategia di difesa articolata in tre gradi: riconoscersi senz’altro colpevole delle imputazioni meno rilevanti, negare pertinacemente le imputazioni più gravi, recalcitrare a lungo prima di ammettere la fondatezza degli addebiti di gravità intermedia. Alla luce di questa strategia, possiamo intravedere il valore che l’orologiaio attribuiva ai libri da lui letti: egli ammise senza difficoltà di aver avuto
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" frale mani l’Euchiridion (nonché diverse copie del Trattato dell’orazione del
’ ammettere di aver posseduto le Prediche di Giulio da Milano, negò fino all’ul-
" timo di aver avuto le Prediche di Bernardino Ochino. In confronto alle Pre-
diche di Ochino, l’Enchiridion di Erasmo rappresentava per Alessandro Ressa un livello di dissenso poco compromettente, una trasgressione che si poteva dare in pasto agli inquisitori.
Nel 1562, alla morte del cavaliere Giovanni Domenico Roncalli, la guida del gruppo di eterodossi che si era formato a Rovigo fra il 1550 e il 1560
fu assunta dal notaio Domenico Mazzarelli. Il dissenso del Mazzarelli era
tutt’altro che cauto. Come «predicatore d’heresie», come dottore ex professo «dela dotrina luterana», egli si dava a conoscere ai suoi concittadini. La svolta religiosa era avvenuta per lui a Padova, verso il 1547, negli anni di studio. E la sua scelta era stata integrale. Nessun momento decisivo della sua vita si sarebbe successivamente sottratto all’influenza di essa. Dalle sue idee religiose il notaio fece dipendere la scelta della moglie, una certa Laura Pellegrini da Venezia, «la quale Dominico asseriva haver tolta per esser della medesima opinione prava che egli era». Le comuni convinzioni indussero poi la coppia a escogitare un espediente tortuoso per far battezzare il figlio Timoteo da un ministro della propria fede: all’approssimarsi del parto, il notaio si mise in viaggio per Venezia, con la moglie gravida, distribuendo le tappe in modo che il bambino nascesse per strada, nella camera di una locanda, dove il ministro calvinista Giovanni Antonio Manara, tempestivamente avvetrtito, lo battezzò.”” Anche nel suo andamento quotidiano la convivenza di Domenico Mazzarelli con la moglie era sorretta dalla comune tensione religiosa: sia che Laura in presenza del marito invitasse un ospite a tornare a trovarli, «che la mi voleva-legger la Bibia»; sia che essa ammaestrasse la massara Luchina «che il paternostro che dicemo noi non è buono», promettendole che «ge ne voleva insegnar uno altro»; sia che omettesse d’inginocchiarsi al suono dell’angelus, di conserva col marito, che non si sco-
priva la testa.”
Anche al di fuori del cerchio della famiglia nucleare, la vita del notaio rodigino fu segnata dalla sua scelta religiosa. Essa compromise la sua carriera, danneggiata dalla pubblica «imputatione de lutterano» che gli si dava; essa determinò il bando di un suo fratello e confratello, Antonio Maria, tradito da una lettera rivelatrice caduta in mani sbagliate; essa coinvolse Domenico stesso in un primo processo seguito da abiura (1564) e in un secondo processo seguito da un bruciamento in effigie (1570); essa alla fine lo portò — in conformità con la convinzione, diffusa nel suo gruppo, che «fosse la
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Chiesa de Ginevra la migliore» — nella città di Calvino, dove pare che egli divenisse pastore della comunità italiana.”’ i Quanto più preciso è l’orientamento ‘dottrinale del personaggio, tanto più significativa appare la presenza di Erasmo fra gli autori dei quali egli si serviva nella sua opera di propaganda. Ad Antonio Riccoboni, umanista e retore, il Mazzarelli diede da leggere, nel periodo in cui cercava di guadagnarlo alle sue idee, gli Adagia.® La lettura di questo monumento della cultura umanistica avrebbe probabilmente dovuto predisporre Antonio Riccoboni — allora precettore a Rovigo, più tardi professore a Padova — a un atteggiamento critico verso la Chiesa cattolica. Non si poteva leggere un adagio come i Sileni Alcibiadis — tale doveva essere il calcolo sottaciuto del Mazzarelli — senza porsi seriamente il problema della mondanizzazione della Chiesa; successivamente altre letture — Pier Paolo Vergerio, Calvino —° avrebbero orientato questa consapevolezza critica in senso confessionalmente più preciso. In questa funzione di addestramento alla critica, Erasmo veniva equiparato a Lorenzo Valla: se Antonio Riccoboni ebbe da leggere gli Adagia di Erasmo, Domenico Stella, allievo della scuola pubblica di Rovigo, ricevette dal Mazzarelli, che allora fungeva da maestro, il trattato De falso credita et ementita Constantini donatione.
Ortensio Lando svolge nel Funus è involuto e contorto, di difficile interpre-
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8. Gli episodi che abbiamo presentato nel paragrafo precedente, se da un lato documentano l’integrazione di Erasmo nel patrimonio ideologico del movimento riformatore, dall’altro rivelano che quell’integrazione non era priva di riserve. Le idee erasmiane vi appaiono sempre come una fase tran-
sitoria dell’itinerario religioso, un ponte verso l’altra sponda. In un atteggiamento del genere era implicito un certo distacco critico nei confronti di Erasmo. Talvolta questo distacco si espresse in forma esplicita. Gli storici della cultura italiana del Cinquecento hanno segnalato alcuni testi, nei quali Erasmo viene aspramente schernito per la sua posizione oscillante e indecisa fra gli opposti schieramenti religiosi, oppure viene dileggiato per la sua tendenza a rifugiarsi nella torre d’avorio della filologia, o viene premiato con un irrisorio trionfo nel cielo papistico per la sua fedeltà a Roma. Tali critiche provenivano da personaggi profondamente coinvolti nel movimento riformatore italiano: da Celio Secondo Curione (Pasquino in estasi, 1543-44),°! da Antonio Brucioli (secondo libro dei Dialogi, 1528?),° da Ortensio Lando (Funus, 1540).° Fra questi documenti antierasmiani — che cronologicamente appartengono tutti e tre alla fase espansiva del movimento riformatore — l’unico che contenga una critica articolata è il Pasquino in estasi del Curione.‘ Gli altri due testi sono piuttosto allusivi. Il discorso che
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tazione; la critica del Brucioli è piuttosto un ammiccamento per iniziati che un’argomentazione
spiegata.
Che l’unico attacco frontale contro Erasmo partito dalle file del movimento riformatore italiano fosse dovuto all’iniziativa di un esule religioso come il Curione, non è un caso. In Italia il movimento riformatore non rag-
giunse mai una tale forza interna, né incontrò all’esterno un tale consenso, da potersi permettere di porre Erasmo ad acta, relegandolo fra i precursori ormai superati dallo sviluppo degli eventi che essi avevano contribuito a mettere in moto. A sud delle Alpi la fase erasmiana della Riforma o, se vogliamo, ]a Preriforma rimase sempre attuale, perché non fu mai realizzata. Tant’è vero che due dei critici di Erasmo che abbiamo appena menzionato, il Brucioli e il Lando, continuarono a utilizzare gli scritti dell’umanista nella loro ubblicistica filoprotestante. Quel gruppo di manifesti evangelici che, sotto forma di dediche a diverse personalità laiche ed ecclesiastiche, aprono l’opera di maggiore successo di
‘Antonio Brucioli — la sua traduzione del Nuovo Testamento in italiano — dimostrano che l’umanista fiorentino ebbe costantemente sotto mano il cor-
rispondente lavoro di Erasmo. Tre di questi manifesti — la dedica del 1530
al cardinale Ercole Gonzaga,°° quella del 1538 allo stesso cardinale,°° quella del 1539 ad Anna d’Este —° rivelano molteplici e sostanziali intarsi erasmiani. Perfino la visionaria delineazione di una cultura popolare italiana nutrita della Bibbia — sarebbe «cosa laudabilissima et santa se anchora esso aratore, governando l’aratro, alcuna cosa nella sua materna lingua cantasse de’ salmi; se il tessitore, stando alla tela, con lo Evangelio consolasse la sua fatica;
et se il nocchiero intento al timone ne cantasse qualcosa (...) et se la reverenda matrona, a’ servizi della casa intenta o alla roccha tirando la chioma, recitasse alcuna cosa dello Evangelio alle piccole nipote et figliuole» —°® persino questa visione non è altro che una libera citazione erasmiana. Che il recupero di Erasmo da parte del Brucioli avvenisse sul terreno della divulgazione biblica è comprensibile. Era lecito mettere la Sacra Scrittura nelle mani dei «semplici», degli «idioti»? Ecco la questione preliminare, con la quale il fiorentino, nella sua qualità di traduttore del Nuovo Testamento, non poteva non trovarsi costantemente confrontato. La questione era al cen-
tro di due brevi composizioni che accompagnavano il Novum Testamentum érasmiano, la prefazione alla prima edizione o Paraclesis (1516) e la prefazione all’edizione separata del Novum Testamentum latino stampata da Cratander, la cosiddetta Nova praefatio, diffusa in Italia come Epistola de la dottrina evangelica (1520), ed era stata eloquentemente trattata anche nella
postfazione che, sotto forma di lettera al lettore, fu associata alla parafrasi
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Capitolo terzo
del Vangelo di Matteo (1522). La risposta che Erasmo aveva dato a quella | domanda dovette apparire al Brucioli così centrata ed esauriente, che egli
in gran parte se l’appropriò.°°
Una svolta analoga compì Ortensio Lando. Nel 1540 la morte di Erasmo e il suo trionfo nel cielo papistico ispirarono al Lando, che allora si trovava nella riformata Basilea, un dialogo dissacrante fino alla scurrilità;”° ma nel periodo compreso fra il 1548 e il 1552, allorché lo scrittore, tornato in Italia, attraversò il suo periodo di più intensa attività pubblicistica, l’Encbhiridion di Erasmo fu (insieme alle Pandectae di Otto Brunfels e ai Collectanea troporum-Bibliorum di Bartholomaus Westheimer) uno dei libri che egli tenne costantemente a portata di mano. Pagine e pagine dell’Enchiridion sì tro-
vano riprodotte pari pari in opere come Una breve prattica di medicina per sanare le passioni dell’anima o Lettere della signora Lucrezia Gonzaga, con le
quali Ortensio Lando manteneva vivo il suo messaggio in quei circoli patrizi,
che furono il teatro della sua propaganda eterodossa.’!
Confrontati con il compito di promuovere in Italia una cultura evangelica o di divulgarvi la nuova sensibilità religiosa, neanche i critici di Erasmo riuscivano a fare a meno delle opere di Erasmo.' 9. Nel duplice ruolo che l’Italia gli aveva assegnato — di teorico della Riforma da un lato, di preludio e occasionale copertura tattica della Riforma dall’altro — Erasmo dette così buona prova di sé, che la sua integrazione nella strategia del movimento riformatore fu quasi incontrastata. La fluidità di questo processo d’assimilazione e l’esiguità delle riserve che esso suscitò convengono del resto alla fisionomia del movimento italiano e concordano con i suoi tratti fondamentali. Due di questi tratti vogliamo mettere in risalto a conclusione del capitolo, per inquadrare la spontanea assimilazione del pensiero di Erasmo. l -Il primo tratto da segnalare è la tendenza del movimento riformatore italiano a inglobare in sé aspetti della tradizione umanistica.”’ Sull’orizzonte culturale di qualche rappresentante della generazione del 1511 Umanesimo e Riforma apparivano come movimenti connaturati e connessi: l’evangelismo riformatore veniva salutato come realizzazione di un rinnovamento religioso, del quale Dante, Petrarca, Boccaccio e Machiavelli avevano oscu-
ramente avvertito il bisogno.’! In linea con questa concezione, la documentazione inquisitoriale italiana ci mostra i protagonisti del dissenso religioso variamente impegnati in attività di tipo umanistico. Il gruppo di artigiani, bottegai e maestri di scuola udinesi che si riunivano per «scontrare» il testo latino del Nuovo Testamento con quello italiano e discutevano sull’attendi-
La generazione del 1510
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pilità della versione di san Girolamo (1543); il fabbro ferraio di Siena che ’ Jeggeva il Libro della predestinazione dei santi di Agostino «per istruire la sua famiglia» (1559); il carpentiere di Verona che citava il De vocatione gentium di Ambrogio e ancora il De praedestinatione sanctorum di Agostino (1550); i tessitori di Modena che si recitavano l’un l’altro i sonetti anticuriali del Petrarca (1555); il vecchio analfabeta di Legnaro che andava in giro Portandosi dietro un suo prezioso libriccino, probabilmente un catechismo di Lutero (1544); gli abitanti di Pirano che si raccoglievano a grappoli, al tramonto, sulla porta di una scuola, per sentir leggere il Dialogo di Mercurio e Caronte (1549); il mercante di cereali di Gemona che teneva aperta sul tavolo la Postilla latina di Lutero per leggerla e discuterla con gli amici in visita (1557); il soldato spagnolo che affermava di tenere «il libro chiamato Giovanni Calvino [l’Institutio?] propter pulcherrimam eius latinitatem» (1556); il prete del contado modenese, il quale acremente qualificava di «cice- _ roniano» un inviso confratello, che egli sospettava di opinioni «lutherane». (1564); il calzolaio di Badia Polesine, che si rivolgeva a un ebreo per farsi insegnare la lingua in cui è scritto il Vecchio Testamento (1566): tutti costoro
e molti altri ancora sono i testimoni della diffusione di moduli e valori della cultura umanistica nelle conventicole del dissenso.”” Dai protagonisti della cultura umanistica per eccellenza questi loro epigoni cinquecenteschi si distinguevano per la posizione sociale. Sotto lo stimolo religioso, ceti culturalmente nuovi premevano per appropriarsi degli strumenti del sapere linguistico e filologico. Anche in Italia la diffusione delle nuove idee religiose fu connessa con un allargamento dell’area culturale: il movimento di Riforma si manifestò come pressione di nuovi ceti, ceti quasi esclusivamente urbani, per accedere alla cultura alta.’°
Curiosità: questo termine, che ricorre con insistenza nei documenti inquisitoriali, esprime se non erro la coincidenza originaria di inquietudine di
coscienza e domanda di conoscenza. Nella «curiosità et presonzione umana » il controversista Ambrogio Catarino individuava la radice comune di tutte le eresie e le sette dell’infelice secolo nel quale si trovava a vivere (1544). Come «huomo curioso di sapere» l’umanista Giovanni Battista Goineo si presentava al tribunale inquisitoriale di Venezia (1550). «Curiosità in el cercare di sapere le cose di san Paolo e dell’Evangelio» veniva imputata al magnano Nocente da Tossignano (1551). «Cupidus et curiosus videndi [scilicet] legendi quid sentirent germani» ammetteva di esser stato pre Valerio Trono chiamato a render ragione dei suoi atti davanti all’inquisitore di Genova (1552). E Bernardino Tomitano, comparso per scagionarsi davanti al tribunale di Venezia, rinnegava «quella moderna curiositade la quale, come pericolosa ne l’altre cose, così in quelle de la religione suol essere pericolo-
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i
Capitolo terzo
La generazione del 1510
sissima» (1555). A ignoranza, curiosità e tentazione diabolica a un tempo
il maestro di scuola Matteo Cizzo faceva risalire le sue deviazioni dalle credenze comuni degli altri cattolici e dei suoi vecchi (1558). «Curiosità di vedere le opinioni eretiche e riprovate per conoscere da quali (...) si dovesse guardare» adduceva a propria discolpa il soldato spagnolo Giuliano Carleval (1556). Alla «curiosità» che in quanto «homo de lettere» egli aveva di «veder ogni cosa» l’umanista Francesco Porto riconduceva quel genere di letture, i cui effetti lo avrebbero condotto in esilio a Ginevra (1556). «Curioso di lezere» si professava Marziale Clementi davanti al tribunale inquisitoriale di Padova (1567). Per «curiosità» il gentiluomo modenese Guido Rangoni confessava di aver letto libri proibiti, in particolare i Collogui di Erasmo e il Pasquino in estasi del Curione (1575). «Curiosità di vedere l’opinioni degli heretici» adduceva come motivazione delle sue deviazioni religiose il lussemburghese Frangois Gottfried processato dal tribunale centrale di Roma (1567)." Altri colpevoli confessi di curiosità hanno fatto o faranno la loro
comparsa nelle pagine di questo libro: il notaio Domenico Mazzarelli (1564), il canonico regolare don Leonardo da Venezia (1575), lo scrittore, Alvise Groto (1567), il giurista - Marco Antonio Valgolio (1574)." L’elenco potrebbe continuare. Fin verso il 1550 la gerarchia ecclesiastica sembrò propensa a considerare la curiosità come una forma attenuata del delitto di eresia (nel
1548 Paolo III concesse ai vescovi la facoltà di assolvere con un
atto di riconciliazione privata chi avesse letto libri «luterani» per curiosità);"° più tardi questa condiscendenza scomparve. Un altro tratto che contraddistingue il movimento riformatore in Italia è la creatività dei suoi adepti. Il discorso dei dissidenti d’oltralpe mise in moto nella penisola una reazione a catena, nella quale ogni fruitore diventava a sua volta creatore. Il dinamismo intellettuale che si nota nelle conventicole eterodosse — dove si componevano lettere e trattati, si leggeva e si discuteva
intensamente
la Sacra
Scrittura,
si scrivevario
poesie,
si
andavano a trovare in privato i predicatori per commentare con loro la predica — è espressione di quell’effetto di stimolo intellettuale che produsse la diffusione delle idee protestanti. Emblematico è il caso di un calzolaio di Vicenza che avrebbe dato «doi dedi de una man» pur di poter predicare nel duomo non fosse che per due ore (1550).®° La pietà rappresentò allora la sfera privilegiata nella quale si dispiegavano l’inventiva e l’immaginazione individuale. Il paradosso erasmiano secondo il quale «nulli non licet esse theologum», *! la teologia è professione universale, fu preso alla lettera: gli italiani toccati dalla rigenerazione si appropriarono delle formule della dottrina evangelica come se le avessero inventate loro e si sentirono chiamati a sviluppare una propria teologia, che era quasi sempre un po’ diversa dalla
i teo.
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logia degli altri. Specialmente la presenza di Cristo nell’eucarestia offriva .
|} ;] destro a una gamma di variazioni interpretative quasi inesauribile. La ten-
’ denza all’anarchia dottrinale, che questa situazione produceva, era ulteriormente aggravata dalla mancanza di una direzione teologica riconosciuta. La ’ pen nota riottosità degli italiani a piegarsi alla disciplina confessionale delle comunità evangeliche e riformate che li accoglievano oltralpe, era una con-
| seguenza del clima di libera esplorazione nel quale era maturato il loro dissenso. In patria la labilità dottrinale contribuì certo a indebolire ulteriormente un movimento che aveva così difficili condizioni di vita.
Anche la creatività che caratterizza i circoli italiani del dissenso ha lasciato
una traccia semantica nei documenti inquisitoriali. La frequenza con la quale
in essi ricorre il termine «fantasia», o i suoi sinonimi, può essere considerata come un indizio dello slancio, con cui gli italiani si abbandonarono all’e-
sercizio dell’immaginazione nell’ambito della vita religiosa. Don Pietro Beneventano da Serravalle: «Mi non so che dir altro [a proposito dei miei errori] se non che me ne sonno andate per la fantasia dele opinion luterane» (1556). 1l giurista napoletano Giulio Basalù: «La maggior parte delli mei ragionamenti era senza Scrittura, ma de fantasia» (1555). A dire della vedova veneziana Valeria Palmaroli, il prete Antonio Giustiniani era bandito da Genova
per certe «perverse sue fantasie», riducibili al principio della libertà evangelica (1555). Il modenese Claudio di Rudilia negava che certe opinioni che egli aveva messo in circolazione su Cristo fossero «di sua fantasia» (1555). Il veneziano Francesco miniatore: le aberranti opinioni da lui confessate non gli erano state insegnate da nessuno, «le mi venivano così in fantasia lavorando (...) et non vi saperia esprimer perché» (1568). Il gioielliere veneziano Bartolomeo Carpan definiva come «uno certo zavariamento di mente» lo stato d’animo con il quale egli si era accostato alle dottrine protestanti (1568). Secondo Nicolò Sabbatino, che si presentò davanti al priore dei domenicani di Udine in compagnia del suo parente Bernardino della Zorza, quest’ultimo «havea alcune frenesie in testa, che non sapeva se erano patie o heresie», dalle quali il priore avrebbe dovuto aiutarlo a liberarsi (1563). Come «fantasia» veniva etichettata un’idea messa in giro da Alfonso della Torre a Portogruaro circa la religiosità naturale degli antichi (1559). Al patrizio modenese Guido Rangoni non poteva essere imputata, secondo un testimone a lui favorevole, «fantasia alcuna contro la fede» (1575). L’inquisitore di Adria designava le convinzioni calviniste di Domenico Mazzarelli con la forinula «questi vostri humori» (1564). Per il prete del contado modenese Francesco Magnani la fantasia era l’alleata dei «luterani»: dopo aver ascoltato «quei fantastichi» che erano i nuovi predicatori, i fedeli non volevano più credere «alla mera et semplice verità dechiarata per nuoi altri preti (...), anci
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Capitolo terzo
da loro siamo predicati ignoranti» (1564).®° La «nuova Chiesa» degli ere-
: APPENDICE
tici era, secondo il letterato Bernardino Tomitano, una Chiesa «fabricata
ECHI ITALIANI DELLA POLEMICA FRA ERASMO E LUTERO SUL LIBERO ARBITRIO
zione: «I sogni un tempo erano santi» sostenne «e per mezzo di essi i nostri
" A conclusione di questo capitolo, l’autore non può sottrarsi all’obbligo
nell’aere», «sognata per imaginatione» (1555).° E allorché il vescovo di Arbe definì sprezzantemente «sogni» le idee delle quali il maestro di grammatica Matteo Cizzo era stato chiamato a render conto davanti al tribunale inquisitoriale, l’inquisito stesso fece orgogliosamente propria questa definipadri e i profeti videro cose grandi ed eccelse e ce le anticiparono per profezia» (1558).5‘
Nel 1576 il cancelliere veneto Nicolò Guidozzo dichiarava — rievocando i tempi in cui, diciottenne, leggeva il Vecchio Testamento — che a quell’epoca il cervello gli «busniava»; e un «bisbiglio in la testa» gli avevano messo poche parole, dette occasionalmente da certi studenti di Padova durante un viaggio in barca a proposito del culto dei santi.° Quando poi aveva letto nel Vecchio Testamento la frase «Quacunque hora ingemuerit peccator, omnium iniquitatum illius non recordabor » (rielaborazione personale di Is 42, 25), al cancelliere era venuta la «fantasia» di omettere la confessione sacramentale; per un’altra «fantasia» che gli era entrata in testa aveva cominciato a dubitare dell’esistenza del purgatorio; nel 1572 gli era saltata la «fantasia» di pregare Iddio senza pregare i santi; e così via. Ben ventitré volte il termine «fantasia» ricorre in questo fascicolo inquisitoriale, perlopiù per iniziativa dell’inquisito.® Il processo contro questo burocrate di Castelfranco Veneto si potrebbe definire, senza forzare i documenti, un processo contro la fantasia religiosa. La presenza di Erasmo fra i costanti interlocutori dei dissidenti italiani alimentò probabilmente tanto l’una quanto l’altra di queste tendenze del movimento riformatore, tanto la «curiosità» quanto la «fantasia». L’integrazione di opere come i Collogquia o gli Adagia nella koinè ideologica del movimento non poté non rafforzare all’interno di esso una componente umanistica, che era già presente nella tradizione culturale italiana. E il dispiegamento dell’inventiva personale fu certo incoraggiato dalla cooptazione, fra coloro che in Italia passavano per i teorici della Riforma, di un autore che aveva più del letterato, del retore, del creatore di fantasie poetiche, che del teologo sistematico: un autore che al lettore italiano del Cinquecento si presentava come «Erasmus fantasmatibus undique plenus ».7
di rispondere a una domanda: come si concilia la tesi qui sviluppata con l’esi-
stenza del trattato erasmiano De libero arbitrio e con la polemica da esso apetta? Secondo la concezione storiografica oggi prevalente, nell’antinomia Jibero arbitrio/servo arbitrio si esprime l’irriducibile antinomia Erasmo/ Lutero, e nell’antinomia Erasmo/Lutero si esprime l’irriducibile antinomia Umanesimo/Riforma. Grazie a questa serie di implicazioni succes‘sive, e sempre più larghe, l’antinomia libero arbitrio/servo arbitrio tende a trasformarsi in una chiave d’interpretazione della storia universale.® II Jettore consentirà all’autore della presente ricerca, che non aspira a innalzarsi all’orizzonte della storia universale, di restringere la domanda d’aper-
tura, riformulandola come segue: quale fu la reazione dell’uditorio italiano " al trattato De libero arbitrio, che segnò il distacco di Erasmo da Lutero e ne rese evidente il carattere radicale?
L’uditorio italiano di Erasmo — e in questo uditorio includiamo amici | e nemici — prese raramente atto del trattato sul libero arbitrio in quanto documento antiluterano. Questa conclusione emerge dalle testimonianze che
abbiamo potuto raccogliere sulla effettiva circolazione di quell’opera era‘ smiana e della sua appendice, la diatriba Hyperaspistes. Ì momenti più signi‘ ficativi di tale circolazione saranno illustrati qui di seguito. Il trattato De libero arbitrio ebbe un’edizione italiana a Venezia per opera di Gregorio de Gregoriis nel dicembre del 1524. L’edizione è rimasta com| pletamente ignota ai bibliofili, perché è andata praticamente perduta. I due unici esemplari sopravvissuti si presentano come campioni di quella stampa povera, alla quale appartengono perlopiù le edizioni italiane di Erasmo di questo decennio: libretti a buon mercato, senza dedica, senza indice. La scomparsa quasi totale dell’edizione è certamente il risultato delle distruzioni provocate, a partire dal 1559, dalla pubblicazione dell’Indice di Paolo IV e degli Indici successivi. Come i redattori dell’Indice condannarono indiscriminatamente tutte le opere religiose di Erasmo, così gli esecutori non ebbero ‘ alcun riguardo per la programmatica ortodossia di questo volume.®” Abbiamo già visto che la programmatica ortodossia del trattato sul libero arbitrio non impressionò molto il vescovo Ambrogio Flandino e non lo
® distolse dall’associare strettamente Erasmo e Lutero.” Alla volontà di Era-
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Erasmo e Lutero sul libero arbitrio: echi italiani
Capitolo terzo
smo di prendere definitivamente le distanze da Lutero credette poco, a mio avviso, anche Celio Calcagnini. Il famoso professore di greco dello Studio di Ferrara fu fra i primi italiani a leggere il trattato De libero arbitrio. Îl suo | amico Bonaventura Pistofilo gliene regalò una copia che doveva essere ancora fresca di stampa, perché a quattro mesi di distanza dalla prima edizione basileese del trattato, il professore di Ferrara concludeva a sua volta un Libellus elegans de libero arbitrio ex philosophiae penetralibus, il quale per interces. sione di Erasmo fu pubblicato da Froben
nel 1525.!
rese, il trattato erasmiano De libero arbitrio.
P
Nella documentazione inquisitoriale, considerata nel suo complesso, il l’irattato De libero arbitrio (e la sua appendice polemica, la diatriba Hypera| pistes) appare come un prodotto marginale della pubblicistica erasmiana, ‘ jncapace — al contrario di opere come i Colloquia, l’Enchiridion, le prefa’ zioni al Novum Testamentum — di far presa sui lettori e di lasciare una trac-
k ria durevole sulla loro coscienza, Le testimonianze che ho potuto raccogliere * in proposito sono scarse e scarsamente significative.
Il Libellus voleva
essere una specie di appendice al libro di Erasmo. Come questi aveva passato in rassegna il Vecchio e il Nuovo Testamento, raccogliendo testimonianze pro e contro la libertà dell’arbitrio, così il suo ammiratore ferrarese passava in rassegna, secondo lo stesso criterio, la storia della filosofia antica. L’opuscolo che ne risultò soffre di una palese inconseguenza concettuale e di una sorprendente sciatteria formale. Se la debolezza di un prodotto letterario è un indizio dello scarso interesse che l’autore nutre per il suo tema, allora si deve concludere che il Calcagnini per la questione del libero arbitrio si interessava ben poco. Forse egli si assunse il compito di scrivere il Libellus per mettersi preventivamente al coperto da un’accusa di luteranesimo? Alcuni indizi suggeriscono che di una tale preventiva copertura il protonotario apostolico di Ferrara potesse avere bisogno. Egli è la persona alla quale, allo stato attuale delle nostre conoscenze, si può più agevolmente attribuire — in via congetturale — l’iniziativa di mettere in circolazione sotto il nome di Erasmo quelle tre operette luterane che, come abbiamo visto, furono più volte pubblicate a Venezia fra il 1526 e il 1543. In effetti Calcagnini fungeva da consulente editoriale del tipografo — di origine ferrarese — Nicolò di Aristotile detto Zoppino, il quale pubblicò le prime tre edizioni di quegli opuscoli pseudoerasmiani.”” Proprio nel periodo sospetto, soggiornò in casa del Calcagnini l’umanista Jakob Ziegler, un potenziale traduttore dal tedesco, tanto devoto alla causa di Lutero quanto fervido nell’ammirazione per Erasmo (e noi sappiamo che la traduzione italiana degli opuscoli luterani fu verosimilmente condotta sul testo tedesco).” Il volumetto pseudoerasmiano tradisce inoltre, in una delle sue ristampe, un retroscena ferrarese (l’edizione del 1540 associa ai tre opuscoli luterani due componimenti devozionali dell’umanista ferrarese Pellegrino Morato, padre di Olimpia e amico del Calcagnini).’* Se ulteriori ricerche dovessero confermare la congettura che Celio Calcagnini fu ispiratore o complice di questa iniziativa editoriale pseudoerasmiana, allora il suo Libellus de libero arbitrio sarebbe da valutare come un espediente tattico di difesa preventiva, ispirato da quell’altro espediente tattico di difesa preventiva che — secondo questa ricostruzione dei fatti — non poteva non essere, agli occhi del ferra-
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F_ Nel 1561 un certo Cinzio Polo di Roncadelle fu arrestato su richiesta | del Santo Ufficio perché l’anno prima, durante un viaggio da Motta di Livenza a Roncadelle, essendo stato sorpreso per via da un temporale, si ‘ era riparato nella chiesa della Madonna dei Miracoli; e qui con il bastone
| da viaggio aveva cominciato a percuotere le immagini di san Sebastiano e di san Rocco gridando «Ah, idoli poltroni!». Durante la perquisizione domi’ ciliare che seguì all’arresto gli furono sequestrati due libri di Erasmo, la dia’ triba Hyperaspistes e un trattato sul matrimonio, forse l’Institutio matrimonii
} christiani, o eventualmente l’Encomium matrimonii. Îl prigioniero, che ammet-
|
E teva di aver letto ambedue i libri, attribuiva loro un diverso peso: egli pro| testava per la requisizione del libro sul matrimonio, «il quale non so che ’ contenga in sé cosa alcuna prohibita», mentre non sollevava obiezioni con} tro la requisizione della diatriba Hyperaspistes. Perché non ricorresse all’ar| gomento che questo secondo volume rappresentava un attacco violento contro ' È Lutero resta una questione aperta.” Il trattato De Libero arbitrio sì trova menzionato in connessione con il | caso di Giovanni Antonio Maffei, un maestro di scuola attivo in un centro
|
]
|
non precisato della diocesi di Padova. Denunciato a Venezia nel 1563 come î «heretico» (ma la denuncia non ebbe seguito perché non risultò confermata dai testimoni), il Maffei fu arrestato a Padova nel 1566. Uscì relativamente indenne da questo procedimento, grazie alla confessione di alcuni errori e È . alla pubblica abiura. Arrestato di nuovo in data non precisata, ma anteriore Aal 1569, fu protagonista a Padova di un «longo processo» {i cui atti non
| ci sono rimasti), che si concluse con una condanna a tre anni di prigione; dalla prigione fuggì nel 1569, lasciando negli inquisitori di Padova una tale brama di mettergli le mani addosso, da esporli a truffe di mestatori. Probabilmente fu giudicato relapso e bruciato in effigie: l’ultima notizia che lo riguarda è una lettera del dicembre 1569, nella quale l’inquisitore di Padova chiedeva al tribunale di Venezia l’autorizzazione a procedere in tal senso. Il libro di Erasmo contro Lutero compare in questa vicenda come un libro proibito e compromettente fra altri libri proibiti e compromettenti, alla stregua de La tragedia del libero arbitrio di Francesco Negri, del Pasquino in estasi del Curione, di un libro chiamato «Zan Calvin» (l’Institutio?), di una con-
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Capitolo terzo
fessione di fede calvinista e della Vita della papessa Giovanna del Vergerio (di tutte queste opere, nonché della Divina Commedia di Dante e degli scritti del Petrarca, il Maffei dichiarava al tempo del secondo processo di essersi liberato — le aveva «tute butade in aqua» — conservando, evidentemente perché li giudicava meno compromettenti, una Bibbia e un libro imprecisato del Savonarola).° Per concludere, il trattato De libero arbitrio viene qualificato come «libro lutherano» — cioè come scritto appartenente all’area del dissenso religioso pilotato dai riformatori — in una testimonianza resa da un canonico regolare agostiniano contro un suo confratello. Nel 1572 don Apollinare da Ravenna denunciava don Raffaele da Cento, già suo maestro, ora visitatore della con-
gregazione di San Salvatore. Stando alla denuncia, gli elementi a carico di don Raffaele sarebbero stati molti, anche se vaghi: già allievo del Buzio di Montalcino (bruciato a Roma come eretico nel 1553), sospetto di iconocla-
stia (in un convento di Candiana, dove don Raffaele soggiornava, tutte le
immagini che decoravano le pareti erano state trovate lacerate o spezzate), il frate sarebbe stato aperto fautore di Melantone. Durante il Concilio di Trento egli avrebbe messo in circolazione fra i novizi, suoi allievi, notizie come questa: «Hogi si sono havute lettere qualmente è comparso Melantone al Concilio, il quale con tante belisime raggioni ha provato la verità della sua dottrina, che non vi è stato huomo nel Concilio qual gli habbia saputo rispondere. » Alla «scuola di heresia» di un certo don Cornelio da Carpi, l’allora giovane don Raffaele avrebbe imparato — secondo la testimonianza di un altro canonico — la differenza tra la vecchia e la nuova teologia: in lezioni alterne don Cornelio leggeva le epistole di san Paolo ai vecchi e ai giovani confratelli, esponendo ai vecchi l’interpretazione cattolica, e successivamente esponendo ai giovani lo stesso testo «hereticamente»; e par-
lando dei vecchi commentava: «A questi bovi bisogna darli del fieno.» Divenuto a sua volta maestro dei novizi, don Raffaele avrebbe provveduto a mantener viva questa tradizione del dissenso interno fra i canonici regolari. Ai suoi allievi egli avrebbe detto «publicamente male della corte di Roma», raccontando loro — a proposito della distribuzione delle dignità ecclesiastiche nella Curia — un apologo che non avrebbe sfigurato in bocca al più acceso protestante. Il possesso di «libri lutherani» come il trattato erasmiano De libero arbitrio — oltre ad esso don Raffaele avrebbe avuto le Prediche di Giulio da Milano, il De incertitudine et vanitate scientiarum di Agrippa di Nettesheim e in generale «molti scrittori alemani» — rientrava, agli occhi del frate che sporse questa denuncia, nella fenomenologia del dissenso religioso, al quale il tribunale dell’Inquisizione aveva il compito di provvedere.?”
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Erasmo e Lutero sul libero arbitrio: echi italiani
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Chiuderemo questa rassegna di testimonianze col riferimento a un elenco ‘di libri proibiti che furono requisiti al libraio veneziano Gioacchino Brugnoli nel 1587. L’Erasmus de peccato originali che vi compare non può essere altro che la diatriba Hyperaspistes, la cui seconda parte trattava diffusamente
uel tema.°® Probabilmente l’intensa circolazione del canone tridentino «de
peccato originali», che prendeva di mira anche la corrispondente dottrina
erasmiana,” contribuì a tener viva nel clero italiano la memoria depreca-
" tiva di un libro che l’umanista aveva scritto a sostegno della teologia cattolica. La conclusione che si delinea in questa panoramica è che l’intervento
di Erasmo contro Lutero ebbe, al di fuori dell’area evangelico-luterana o
riformata, troppo fievole eco e troppo scarsa incidenza sulla vita concreta
dei credenti per modificare l’immagine corrente di un Erasmo coinvolto nel
lancio della Riforma. In Italia il trattato sul libero arbitrio, quando non fu ignorato, fu addirittura sussunto nella categoria dei libri eretici. Una macro-
scopica eccezione a questa regola è rappresentata dal benedettino Isidoro Chiari. La sua Adbortatio ad concordiam (1540) è la più significativa eco itaJiana del trattato sul libero arbitrio che mi sia nota.!° Per quanto l’inda-
gine, fuorviata dal miraggio di una teologia benedettina autonoma e originale, non se ne sia resa conto,'°! {l Chiari non fece che rilanciare qui la proposta di compromesso che Erasmo aveva formulato nel 1524. Il suo fu l’unico serio tentativo di utilizzazione dell’intervento erasmiano in senso
apparentemente conciliatorio, sostanzialmente antiprotestante, che venisse fatto in Italia, a prescindere da una congetturabile traduzione/rielaborazione dello scritto per mano di Marsilio Andreasi.!°2
Una dottrina di libertà
Capitolo 4 Una dottrina di libertà
Cum enim a religando religio dicatur, qui pluribus vinculis alligatus est, magis religiosus esse dignoscitur.
Alberto Pio a Erasmo (1530)
1. L’aspetto più clamoroso della predicazione di Lutero deve essere stato per i contemporanei quello che possiamo ricondurre al principio della libertà evangelica.! Questo giudizio, formulato da Regnerus Post in riferimento ai Paesi Bassi, può essere applicato anche all’Italia. Le fonti lo suggeriscono con insistenza. Da autorevoli osservatori contemporanei sentiamo esprimere
l’idea che la libertà evangelica o libertà cristiana sia da considerare come il principio ispiratore di quel variegato movimento d’opinione, che per brevità si suole designare come Riforma in Italia. Il giudizio che emerge dalle loro testimonianze trova puntuale conferma all’interno del movimento. Così nel 1541 Giovanni Domenico Sigibaldi, vicario del cardinal Morone nel vescovato di Modena, scrivendo al suo patrono, designava la «libertà cristiana» come l’insegna della quale si fregiavano i dissidenti modenesi nella loro opera di eversione religiosa? In una predica tenuta a Chiavenna nel 1551 un frate di Perugia, Sebastiano Castello, additava nella «libertà evangelica» la parola d’ordine della Riforma: a suo giudizio i «lutherani» della Valtellina erano contrassegnati proprio dal loro «gloriarsi così in voce de esser liberi nel evangelio».’ Il principio della libertà evangelica appariva anche al domenicano Francesco Silvestri da Ferrara come l’idea più seducente messa in circolazione dagli eretici: ad essa egli intitolava perciò un suo libretto che doveva contrastare la diffusione del «morbo luterano» in Italia e combattere in Lutero «l’assertore di una libertà diabolica» (152 5)
Un altro domenicano, Ambrogio Catarino, riduceva il messaggio contenuto nel Beneficio di Cristo alla proclamazione della «libertà cristiana» (1544) ? Secondo il teatino Antonio Caracciolo «libertà christiana» era il motto inalberato a Roma verso il 1540 da prelati e cardinali favorevoli a um’intesa con i protestanti e avversi alla linea intransigente rappresentata dall’allora cardinal teatino Gian Pietro Carafa.$ Andrea di Lucio d’Argenta, un per-
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sonaggio che simpatie protestanti avevano verso il 1550 attratto in Germania, ritornò in Italia e in seno alla Chiesa — disse — per insofferenza della «libera religione» che in quella «regione longingua» si professava.’ Nel 1530, dedicando al cardinal Gonzaga il Nuovo Testamento in traduzione italiana, Antonio Brucioli glielo presentava come «evangelio della pace, della Jibertà et della letitia». Analogamente il Sommario della Santa Scrittura proclamava che «tutti gli veri christiani» sono «in loro medesimi et per loro (...) in vera libertà».’ Il principio della «libertà cristiana» fu al centro delle prediche che un domenicano non nominato tenne nell’avvento 1540 nella chiesa bolognese di San Pietro.!° Al miraggio della liberazione dei cristiani dal giogo del cerimonialismo giudaico si riferiva probabilmente anche Camillo Orsini, quando parlava del «giogo della legge».!! E il già menzionato francescano Sebastiano Castello non si considerava più personalmente soggetto «alla servitù e all’aggravio della legge», ma si sentiva «ormai libero per Cristo».!° La sortita di un domenicano veneziano, Angelo Andronico, che nel
1566 rivendicava a sé stesso la libertà di predicazione con la formula « Verbum Dei non est alligatum» (2 Tm 2,9), si potrebbe addirittura interpretare come una reminiscenza del trattato di Lutero sulla libertà del cristiano,
che in Italia circolò in latino e in volgare.'? Più esplicitamente il gruppo di monaci benedettini che, richiamandosi all’insegnamento di Giorgio Siculo, faceva capo all’abate Luciano degli Ottoni, si dilettava di vivere «in spiritu libertatis».!* Il cancelliere Nicolò Guidozzo riteneva che fosse «in libertà de tutti» scegliersi il proprio stile di pietà e di vita interiore. Per lui questa libertà si traduceva tra l’altro nel rifiuto della venerazione dei santi: «Frustra fit per plura, quod potest fieri per pauciora — se posso andar a pregar Iddio, che voglio andar a pregar i santi?»” La convinzione che la libertà fosse una delle idee ispiratrici dei nuovi eretici trovò credito anche nei tribunali inquisitoriali. Îl vicario patriarcale e l’inquisitore di Udine designavano — certo attenendosi a un formulario — come «nefanda libertà» la linea di comportamento adottata da un gruppo di dissidenti di Buia e Gemona, che comparvero dinanzi a loro nel 1558.!6 Qualche anno prima, nel 1552, il vicario dell’inquisitore di Modena proclamava intollerabile che l’eretico Pietro Giovanni Biancolini continuasse a procedere «secundum spiritum libertatis suae».!” In una lettera del gennaio 1575, diretta all’inquisitore di Modena, un certo fra Desiderio denunciava indirettamente il conte Pindaro Rangoni e suo figlio Guido, che egli sospettava di eresia, qualificandoli come «nocenti e maligni spiriti, quali vogliono vivere in spiritu libertatis».'® Nella formalizzazione dell’accusa contro il fabbro Ambrogio Castenario, redatta dal commissario dell’Inquisizione di Udine Sante Citinio nel 1568, si faceva carico al fabbro di esser
vissuto, al solito, «secondo la (...) nefanda libertà degli eretici».'°
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Una dottrina di libertà
Capitolo quarto
Quale significato assumeva la parola «libertà» in tali eterogenee testi. monianze? Il napoletano Antonio d’Alessio ci fornisce una risposta a questa domanda. Persona indubbiamente intelligente di teologia, Antonio d’Alessio confessava, elencando all’inquisitore le sue deviazioni dottrinali, di aver fra l’altro creduto «ch’el christiano sia libero dalli precetti positivi», dai precetti cioè de iure positivo. Il principio della libertà significava che solo i comandamenti espressamente formulati nella Scrittura — in particolare il duplice precetto evangelico dell’amor di Dio e della carità verso il prossimo — erano vincolanti per il cristiano: i «precetti della Chiesa» invece, per quanto non fossero rigettati come empi o superstiziosi, non avevano alcuna forza vincolante (1 552).”
È chiaro che la teoria luterana della libertà cristiana si presentava qui in forma sostanzialmente decurtata e parzialmente distorta; ma essa guadagnava in forza espansiva ciò che perdeva in profondità teologica. Ecco che i vincoli delle «tradizioni umane» si scioglievano. Il «giogo» cerimoniale sgravava il cristiano. Il credente si faceva «homo da sua posta»,"! si sentiva investito della facoltà di configurare a suo modo la propria vita religiosa in aspetti fondamentali come la confessione, la preghiera, l’alimentazione. Per esprimere la sensazione di sgravio e di sollievo che il messaggio della libertà evangelica portava con sé, un italiano del Cinquecento ricorse a una metafora degna di nota, la metafora della colomba piumata. La colomba stava a significare il nuovo cristiano, il «christiano libero da digiuni, da penitenze et altre opere necessarie alla salute, perché a sufficienza le sudette opere Giesù Christo havessi fatte per lui». Portata dallo slancio di questa fede, la colomba piumata «volava agevolmente dove più gli piaceva» (1551).=
Questa immagine di lievità e di grazia è in sintonia con alcune delle testimonianze che abbiamo addotto di sopra, nelle quali il termine «libertà» appare associato a termini come «dolcezza», «pace», «gioia».” E in forza di una tale rete di associazioni, Lutero poteva fregiarsi in Italia dell’epiteto di «dolce dottore»! Il mito di un protestantesimo cupo e angoscioso, ostile alla vita e avaro di conforto, non era ancora nato.” 2. Colto dai contemporanei più per intuizione che per riflessione, il principio della libertà evangelica aveva una portata molto vasta. Più che questo o quell’aspetto della disciplina ecclesiastica, più che singoli elementi dottrinali, esso sovvertiva il linguaggio tradizionale della pietx. Minuziosamente quantificato, scandito e differenziato, legato a precisi tempi, luoghi, ritmi,
era il linguaggio della pietà tardomedioevale. Il principio della libertà proclamava invece che il cristiano, nel suo dialogo con Dio, non è legato a luo-
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‘shi né a tempi né a oggetti, non a cibi o abiti, non a specifici gesti, parole o ritmi, perché Cristo ha abrogato una volta per sempre la legge mosaica e le sue «gravezze».° Qui la polemica di Erasmo contro le cerimonie tro‘ yava il suo punto d’intersezione con la battaglia di Lutero contro la giusti-
zia delle opere.”’ Le due dottrine s’integravano e si potenziavano recipro-
camente, formando una base d’intesa per dissidenti di diverso orientamento, non esclusi coloro che si dicevano anabattisti. L’incontro di Erasmo e Lutero su questo punto era favorito dal fatto che la dottrina luterana della libertà cristiana non aveva tratti di pessimismo antropologico; anzi proponeva una
trasfigurazione della natura umana che aveva qualcosa di visionario, non
rifuggendo neanche dalla formula della «dignità» dell’uomo”® (non è un caso che proprio di questo motivo gioioso si appropriassero gli autori del
Beneficio di Cristo).”
Anche se recepito prevalentemente nei suoi effetti negativi, il principio della libertà cristiana non era negativo. Non restringeva il sacro, lo dilatava. Aboliva il confine fra sacro e profano a spese del profano. Cancellava ogni differenza fra luogo e luogo, fra tempo di penitenza e tempo di carnevale, fra oggetto cultuale e oggetto d’uso comune: perché il cristiano è uomo «di ogni ora, di ogni luogo, di ogni oggetto», libero e indifferente.’ Il muro della chiesa perdeva la sua funzione di circoscrivere l’area sacrale. Acqua santa, olio santo, camposanto, cibo penitenziale perdevano la loro posizione privilegiata nella vita di devozione. La candela accesa davanti al santo famiJiare, il lume a olio mantenuto vivo davanti al tabernacolo della contrada, diventavano «pazzie» o «baie». L’abito color berrettino, l’abito della contrizione, appariva miopia di uomini che s’immaginavano di trarre in inganno Iddio con un travestimento.*! Anche i paramenti sacri della liturgia apparivano una mascherata.’° La devozione della corona e la quantificazione della preghiera che questa devozione incoraggiava’’ facevano sorridere chi concepiva la vita come preghiera perenne. Il culto dei santi e delle loro immagini si svuotava d’ogni senso per chi considerava sé stesso e il proprio prossimo come «imagine vive de Christo»:** «noi siamo le imagine» è appunto l’obiezione che sentiamo contrapporre alle tradizionali forme di culto delle figure sacre.” Percorsa come era da venature mistiche, questa intuizione del sacro aveva
qualcosa di contagiosamente travolgente. Testimoni della sua larghissima diffusione, i processi inquisitoriali ce ne rimandano l’eco dall’una all’altra delle regioni d’Italia. Sono testimonianze disparate, nelle quali però l’uniformità dell’intuizione prevale sulla molteplicità delle variazioni individuali. Registreremo qui di seguito alcune di queste testimonianze, raggruppandole intorno a tre temi: il tempio come limite del sacro, la sacralità oggettuale,
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Una dottrina di libertà
Capitolo quarto
la scansione liturgica della settimana e dell’anno. In due paragrafi succes-
sivi illustreremo altri due corollari della dottrina della libertà, il rifiuto dei
pellegrinaggi e la libertà di alimentazione. Il tempio (e per analogia il cimitero) come limite del sacro è una delle concezioni che più ripugnano alla nuova sensibilità. Pre Patrizio da Udine protesta che le «case nostre sono da tanto che una chiesa et che si merita tanto
a dir una oration in laude de Dio in casa quanto a dirla in una chiesa»; e
il suo compagno Francesco milanese insegna a un fedele avviato verso la chiesa che di tal visita può fare a meno, «perché noi siamo le chiese» (1543). Giovanni, Taidino di Pirano ritiene «che la chiesa è per tutto et che tanto è far oration in casa quanto in chiesia» (1549). Lattanzio Cotoni da Siena (1564) è accusato di «dire, persuadere e insegnare a molte persone che non c’è bisogno di andare in chiesa per pregare: ché si può pregare altrettanto bene nei boschi, magari pascolando le pecore, quanto in chiesa». Giovanni della Guartanuta di Piano d’Arta (1564) sostiene «che tanto. val a far oratione in un boscho quanto in una chiesa» e «che tanto val esser sepelito in una giara che in una chiesa, perché Iddio ha benedetto tutta la terra», Allo stesso viene attribuito il detto che «tanto santi sono li muri delle chiese quanto quelli della sua casa». Caterina Bertolosi di Cressa nel Novarese (1580) è convinta che, se la sua casa fosse imbiancata di fresco, «valerebbe tantoa dir quivi la corona come (...) in chiesa». Camillo Evoli da Rivalta nel Mantovano afferma (1580) «che la casa dove s’habita è più degno luogo da far oratione che non è la chiesa». Il tornitore Pietro di ‘Treviso nega chei muri del tempio siano la chiesa: la chiesa, dice, dunque
«semo noi altri christiani »,
«non accade [andar] a orar in chiesa, ma (...) si va a orar in casa»
(1547). Îl cancelliere veneziano giovi «tanto il far orationi in et che l’andare ad essi tempi et pane, et altre cose che si fan in
Giovanni Battista Michiel (1573) crede che casa et in altro loco, come andar in chiesa: chiese et ivi basar altari, ornarli, sonar camesse chiese materiali » non siano «necessarie
alla salute». Un altro cancelliere, Nicolò Guidozzo da Castelfranco Veneto
(1575-76), è d’opinione «che sia meglio dir l’oratione in casa quietamente che in chiesa, per il tumulto delle persone». Simone Sacardo di Piano d’Arta (1580) dichiara recisamente che «non bisogna più giesie, perché Idio si pol adorar per tutto» e provoca gli interlocutori con la sua sbrigativa impazienza: «Che giesie, che giesie, si pol far oration per tutto.» A lui viene attribuita anche la tesi «essere cosa butata via far delle giesie, perché per tutto si dovea adorar Idio». Bernardino della Zorza di Udine (1563) ammaestra un conoscente che si avvia verso la chiesa: «Vi fareste meglio a andar a adorar il sole, che andar ad ascoltar preti.» Îl sacerdote Giovanni Tremanini da Modena viene accusato (1564) d’aver distolto alcuni fedeli dall’andare a
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messa, dicendo loro che «Cristo è così nelle selve come nelle chiese». Angelo
’ Mondadori da Modena, maestro falegname, critica (1545) la pratica degli inchini reiterati davanti ai tabernacoli, oratori ecc. e la riduce all’assurdo, dichiarando: «Bisogna inchinarsi dappertutto, perché Dio è dappertutto. » A un pittore di Conegliano Veneto, Riccardo Perucoli (1549), viene chiesto perché durante la messa non assista all’elevazione e non partecipi all’adorazione dell’ostia: «Mi credo» risponde il pittore «di adorar (...) [il Signore] »” sempre di continuo, ché credo ch’el sia dapartuto. Antonio dal Borgo d’Asolo (1547) è d’avviso che «si pò sepelir così in uno monte come in uno sacrato, perché Iddio ha benedetto tutta la terra». Sempre ad Asolo, Francesco sartor (1551), alla morte del fratello Ambrogio, vuole seppellirne il cadavere nell’orto, convinto com’è «che tutta la terra è benedetta et che non importava più sepelirlo in sagrato che in l’horto». Anche il francescano Stefano Boscaia del convento di Sant’Angelo di Asolo (1547) diffonde l’idea che tanto vale «a farsi sepelir in uno campo quanto in sacrado».’7 Un coro di voci si leva dai processi inquisitoriali a proclamare il tramonto _ della sacralità oggettuale, il rifiuto di acqua santa, olio santo, olivo benedetto, Jumi e immagini devozionali. Antonio dal Borgo d’Asolo (1547) dichiara che «tanto è l’acqua de’ fossati et di tanta authorità, quanto è quella delli fonti [battesimali] della giesia (...) perché Iddio l’ha benedetta tutta». Il maestro Costantino milanese insegna ai suoi allievi di Serravalle, nel corso di una " lezione, «che tanto valea et operava l’aqua del mesco come l’aqua santa» (1554). Giovanni della Guartanuta di Piano d’Arta (1564) sostiene che «non si deve benedire né candele né olyvo, perché Christo ha benedetto tutto, et (...) nessuno pol far le cose meglior di quelle che ha fatto messer Domenedio». Lo stesso dichiara «che tanto vale a batizarsi con l’acqua corrente che con l’acqua santa del batesimo». A questa stessa idea è riconducibile l’opinione espressa da fra Tommaso Fabiano da Mileto (Napoli, 1564) «che il sacramento del battesimo si deve fare con l’acqua semplice, senza cerimonie». Il notaio Alvise Flacco di Udine, durante un pranzo di festa dato da un collega verso il 1565, prorompe in frasi del genere: «Che aqua santa? Così è santa quella della roia [roggia] come quella delle giese»; e all’obiezione dei commensali ribatte: «Che papa? che authorità ha lui de benedirla [l’acqua], se Dio prima l’ha benedette tutte, quando le fece?» Un mercante lucchese di stoffe, Pellegrino Santini, insegna (1576) che «non men si poteva battezzare in qualsivoglia acqua che in quella sacramentale del battesimo » e sorride con sufficienza all’idea che i sacerdoti impediscano ai laici di attingere dalle pile l’acqua benedetta, che egli reputa «simile all’altre». Martino della Sabbionara, un dissidente protetto dal conte Giulio da Thiene, defini-
Capitolo quarto
Una dottrina di libertà
sce una «baglia» la pratica di «portar li torci alli morti, volendoli far più luce di quello che li faceva el sole» {1555). Daniele Portunieri di San Daniele del Friuli (1566), in visita da un vicino, strappa via la candela che costui tiene accesa davanti a un’immagine di Cristo: « Tu voi luminar Dominidio: non vedilo senza la tua candela?» Il già menzionato Giovanni della Guartanuta si dice convinto «che non giovi niente l’andar in volta atorno li campi in processione, con quelle cose, con quelle croci, et che fosse meglio buttar nei campi del letame che andarli attorno a quel modo».°® Si discute vivacemente anche la scansione liturgica della settimana e dell’anno. Pre Vittore Raimondi di Asolo (1547) nega la distinzione fra tempo di penitenza e tempo di gaudio: «Ho ditto che non siamo obligati a far quaresema, ma che l’homo continuo die operar bene et zunar (...) non guardando più ad uno tempo che a l’altro, ma operando a gloria de Dio. » L’artigiano Francesco Garzotto di Udine (1543) diffonde l’idea «che non si deve guardare più un zorno che l’altro, perché tutti li zorni sonno equali fatti da Dio». Gli fanno eco, sempre a Udine, Francesco maestro di scuola e Girolamo calegaro: « Tutti li giorni son santi né si deve guardar più uno che l’altro», «tutti li giorni» sono «uguali, et uno non [è] da più che l’altro» (1543). Il calzolaio vicentino Giulio di Santa Corona attesta di sé e del suo gruppo radicale: «Non fevemo differentia da un tempo al’altro, ma ben da ogni tempo servavemo la sobrietà» (1552). Nel corso di un dialogo avvenuto in Brianza fra il barcaiolo veneziano Stefano de Ongari e un anonimo carrettiere che trasporta carbone si conviene «che non è differentia fra li giorni, che sono tutti a un modo (...), et che l’è ben fatto far bene ogni giorno, ma non importa farne più un giorno che l’altro (...), et che quello che dice Dio di santificar il sabbato se intende per ogni giorno» (1555 citca). Di fronte ai dispendiosi banchetti imbanditi durante il carnevale, Carlo Mosconi, affit-
prospettiva sconvolgente. Formule come quelle che abbiamo citato avevaàno un suono blasfemo. L’indignazione è percepibile nella voce di quella testimone di Pirano, la quale (1549) così riassumeva una lite scoppiata fra lei e una vicina: « Lucia ha contrastato con me, perché io diceva che è meglio far oration in chiesia che altrove, et [lei] diceva che si pò far così oration in un fango come in chiesia. »“° Inaudite erano le formule nelle quali questo stile di vita religiosa si espri-
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tuario di terre in Polesine, osserva: «Costoro attendeno a far carnevale et
mangiano assai et diversi cibi, perché stano poi quaranta giorni che non ne mangiano: ma mi non faccio differenza dal carnevale alla quaresima» (1563). Giovanni Rangoni da Modena, considerando le frenesie e gli sperperi che avvengono nella sua città durante il carnevale, medita: « Tutta la christianità è sottosopra et in Francia si ammazzano et un concilio è aperto: et qui si fanno tante pazzie!»; e conclude: «Chi levasse la quaresima, non sarebbe
il carnevale» (1563). A Parenzo il cancelliere Nicolò Guidozzo (1575) ammaestra la sua massara Benvegniuda, che rifiuta di mangiare carne il venerdì
e il sabato: «Mata, che differentia fastu da mercoledì zobia al venerdì et
al sabbato?»” Per la grande maggioranza dei contemporanei, l’emanciparsi del sacro dagli oggetti ad esso connessi, dai luoghi e dai tempi ad esso adibiti era una
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meva allorché si trattava del culto dei santi. La dilatazione del sacro, che
il principio della libertà evangelica portava con sé, vanificava l’idea tradizionale della santità come evento straordinario. Il catalogo dei santi esplodeva per inflazione, essendo gli evangelici italiani tutt’altro che alieni dal considerare sé stessi e il loro prossimo come santi. «Noi (...) siamo i santi
vivi»:*! tale è l’intuizione che lo storico intravede dietro a formulazioni che i contemporanei riferivano con orrore, come quella ascritta a un analfabeta di Legnaro che «san Gregorio et san Agustin (...) quando i erano vivi i erano
homini como nui», quelle imputate a un calzolaio di Udine — «che san Piero?
il sono homeni come noi altri» e «la Verzene Maria è una dona come le altre» —, la frase attribuita a un medico romano «che la Madonna era come
sua moglie», la proposizione riferita da una certa Dorotea di Udine «che - santa Maria non era da più cha una de noi donne» (1543-44). «Deum optimum maximum fecisse et creasse omnes nos sanctos» era quanto predicava
l’agostiniano Ambrogio da Milano nel 1544; e pre Patrizio da Udine inse-
gnava ai suoi concittadini «che ciascuno de nui era da tanto quanto era cadaun
santo» (1543). Nell’ambiente del Vergerio era diffusa la convinzione «che le figure de’ santi non si deerio reverire, et che più si de’ honorar l’homo vivo fatto all’imagine de Dio che una (...) cosa inanimata» e che «è meglio
far riverentia ad un huomo vivo» che alle immagini dei santi, le quali sono «colori» (1548). E il modenese Giovanni Rangoni non si peritava a designare i suoi compagni di fede Graziano e Maranello come san Paolo e sant’Agostino (1563).‘° Quello che gli attoniti ascoltatori interpretavano come degradazione e profanazione del sacro era in effetti sublimazione e santificazione del profano. 3. Il rifiuto della pietà localizzata e oggettualizzata si espresse anche nella discussione sui pellegrinaggi, della quale ci occuperemo in questo paragrafo. Il pellegrinaggio veniva intrapreso di solito per sciogliere un voto, che il pellegrino aveva stretto nell’incombere di un pericolo (nel corso di una malattia, alla vigilia di un viaggio rischioso, durante un naufragio) o come contro-
partita di un desiderio realizzato (la nascita di un figlio, la felice conclusione
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Una dottrina di libertà
Capitolo quarto
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di un affare). Perlopiù il voto era personale, ma non sempre. Se la persona
" tuario di Santa Maria della Mirandola che si era impegnato per voto a visigare. «Perché vai mendicando per un motivo del genere?» gli chiese il sel‘ Jaio. «Non hai figli? » «Ho figli e figlie» rispose il mendicante. «Allora tor| patene a casa tua e lascia perdere il pellegrinaggio. Dal tuo voto ti assolverò io.» Una donna che aveva assistito alla scena aggredì il sellaio: che autorità
di Venezia — da investire in una statuetta d’argento della Madonna, che il
’ chiunque altro e ti posso assolvere come chiunque altro » assicurò, sempre
che contraeva il voto non era in grado di intraprendere il promesso pellegri. naggio, poteva obbligare uno stretto congiunto a sciogliere il voto in vece sua. Abbiamo memoria di un padre il quale obbligò per voto il figlio, allora bambino, a elemosinare la non irrisoria somma di dieci ducati — che poteva equivalere a quattro mesi di salario di un maestro carpentiere nell’arsenale
figlio avrebbe poi dovuto portare di persona a Loreto.’ La pratica del voto per interposta persona non doveva essere rara, dal momento che Erasmo la critica nei Colloguia;** e fra le proposizioni scandalose che un agostiniano di Tournai fu costretto a ritrattare nel 1532 ve ne era una che suonava: «Se anche mio padre avesse fatto cento voti di pellegrinaggio, neanche uno ne osserverei. »
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aveva lui di assolvere il mendicante dal suo voto? «Ho la stessa autorità di
rivolto al mendicante, il sellaio, che forse aveva avuto sentore della dottrina
del sacerdozio universale. Sempre a Modena, verso il 1555, il tessitore Giovanni Terrazzani raccontava al notaio Nicolò Morani un episodio che, a suo avviso, evidenziava ]a stortura insita nella pratica dei pellegrinaggi. Un pellegrino, che elemosinava «per l’amor di Dio» senza ottenere nulla, aveva cominciato a ricevere
Poiché spesso chi contraeva il voto non disponeva dei mezzi necessari a intraprendere il promesso pellegrinaggio, o perché la promessa di finanziare il viaggio con elemosine faceva parte del voto, il mendico che elemosinava per andare a Loreto, a Santiago de Compostela o ad Assisi era una figura comune nelle città italiane del Cinquecento e lungo le strade extraurbane. La scena di vita quotidiana che era l’incontro con un pellegrino questuante si arricchì verso la metà del secolo di una variante inedita: di tanto in tanto uno dei passanti interpellati, invece di metter mano alla borsa o di tirar dritto per la sua strada, si fermava a discutere col mendicante. Queste discussioni improvvisate hanno lasciato diversi echi documentari.
elemosine quando aveva cambiato il suo ritornello, sostituendo all’amor di " Dio il proposito di andar a Santa Maria di Loreto. Il tessitore si meravigliava che gente insensibile al nome di Dio, si sensibilizzasse al nome di
cavallo una strada dell’Emilia, quando si imbatté in una comitiva di pellegrini diretti a Loreto. Nella comitiva spiccava un individuo oppresso dal peso di un gran crocifisso. Arrivato all’altezza dei pellegrini, il magnano si
vedono dalla Madonna di Loretto, et tu non speri in quella?» chiedeva Prospero; e Giovanni Francesco: « Non è più che una pittura e cosa di rilievo, si deve ricorrere a quella che è in cielo. » E alla Madonna del cielo Giovanni Francesco Tavani voleva che si rivolgesse la sua figliola malata, alla quale Prospero consigliava invece di far voto all’Annunziata di Firenze. « Raccomandati a quella che è in cielo, non a quella di Fiorenza» ribatteva il padre.
Nel 1550 un magnano
di Tossignano,
maestro Nocente, percorreva a
fermò e, rivolgendosi all’uomo del crocifisso, gli chiese se aveva l’intenzione
di portare il suo peso fino a Loreto. L’uomo rispose di sì. Allora il magnano, apostrofando l’intero gruppo, chiese in tono di sfida: forse che loro romei non avevano Cristo a casa propria, ché sentivano il bisogno di andare a cercarlo altrove? Avrebbero fatto meglio a restare a casa, che «fare queste pacie d’andare a Loreto». Più povera di dettagli, la scena si ripeté a Venezia anni dopo. «Uno mi dimandò limosina per andar a Loreto» rievocava nel 1570 il tessitore Silvio vicentino «et io dissi: “O povereto ti, tu faresti meglio a spender questi
danari a casa per dar viver alli tuoi figlioli, che andar a Loreto.”» Con qualche variazione nei particolari, lo stesso contrasto ebbe luogo a Modena nella primavera del 1545. Protagonisti ne furono un maestro sellaio, Jacopo Piva, e un povero che chiedeva l’elemosina per andare al san-
Loreto.
A Modena il tema rimase attuale anche quando la repressione si aggravò, con la differenza che questo tipo di discussioni, invece di avvenire in piazza o per strada, come negli anni fra il 1540 e il 1550, avvenivano nel chiuso delle mura. Una delle testimonianze che abbiamo raccolto si riferisce a una
bottega artigiana. Qui il tessitore di velluto Giovanni Francesco Tavani e
il suo collega Prospero da Reggio ebbero, in data anteriore al 1579, una
disputa sulla venerazione della Madonna di Loreto. «Tanti miracoli che si
Anche a Badia Polesine troviamo un affittuario di terre, Carlo Mosconi
(1563), il quale, «parlando de quelli che andavano a Santa Maria de Loreto», diceva «che fariano meglio a stare a casa che andarsi a pigliar questa straca».*6
Nel dibattito sul pellegrinaggio non mancano interventi femminili. A Modena, una certa Francesca Melloni aveva imparato da Pietro Antonio da Cervia — arso come eretico nel 1567 — che il pellegrinaggio alla Madonna di Loreto era inutile, «perché tanto è la Madonna qui come a Loreto». Più animosa nella sua propaganda antilauretana era una suora di Pirano, Francesca Petronio. A similitudine del fratello, il maestro di scuola Marco Petro-
1IO
Una dottrina di libertà
Capitolo quarto
nio, il quale verso il 1547 capeggiava il gruppo degli eretici di Pirano, suor Francesca si era creata negli stessi.anni un uditorio femminile, avendo rillcì)i’orrlll: rîîlelìîal.x'î> 1:11 sltlltî.ulta confessioni che l’huomo non si dovessi confessare et della medesirî‘m :Uif_î nione (...) era san Giovanni Chrisostimo», concludendo che la praticapin
sé-era Ì'auor.m cosa, pur non ritenendola egli necessaria (1550).!2! Un ruolo
primario viene ad assumere la confessione nelle prediche che tiene a Cre-
mona nella quaresima del 1539 un altro agostiniano, fra Clemente di Nono F'ra le dottrine che il frate diffonde e che il 29 marzo deve solennementé ritrattare per imposizione del vicario dell’inquisitore, primeggiano le seguenti
proposizioni: 1) la confessione auricolare non è de iure divino né necegsl:aria
alla salvezza, per quanto sia buona e utile; 2) al confitente contrito non si deve dare una penitenza esteriore, ma si deve semplicemente dire «Vai in pace e non peccare più»; 3) qualsiasi sacerdote può assolvere da qualsivoglia peccato, non avendo il papa il diritto di riservarsi dei casi, dal momento Éhe il potere dato a Pietro da Cristo con le parole «Tibi dal;o claves etc.» è dato a tutti i sacerdoti, o a Pietro in persona di tutti i sacerdoti; 4) il co;1-
fessore non assolve dai peccati ma si limita a dichiarare che il p,enitente è stato assolto da\- Dio.!° Anche l’agostiniano di Modena, con il quale Èbblamo aperto il nostro discorso, rientra in questo gruppo di riformatori ella confessione auricolare. 3. L’insofferenza della confessione «secundum formam sanctae romanae lÈcclesiae » ch