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Italian Pages 163 Year 2018
IL GIOCO DEL DESTINO
MITI
GRECI
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Edipo Il gioco del destino a cura di Giulio Guidorizzi
COBHJEBE DELIA SEDA
Grandi miti greci Collana a cura di Giulio Guidorizzi Published by arrangement with The Italian Literary Agency Voi. 1 - Edipo © 2018 Out ofNowhere S.r.l., Milano ©2018 RCS MediaGroup S.p.A., Milano E vietata la riproduzione dell’opera o di parte di essa, con qualsiasi mezzo, compresa stampa, copia fotostatica, microfilm e memorizzazione elettronica, se non espressamente autorizzata dall’editore. Tutti i diritti di copyright sono riservati. Ogni violazione sarà perseguita a termini di legge. Edizione speciale per il “Corriere della Sera” pubblicata su licenza di Out ofNowhere S.r.l. Il presente volume deve essere venduto esclusivamente in abbinamento al quotidiano “Corriere delia Sera” CORRIERE DELLA SERA STORIE n. 1 del 2/1/2018 Direttore responsabile: Luciano Fontana RCS MediaGroup S.p.a. Via Solferino 28, 20121 Milano Sede legale: via Rizzoli 8, 20132 Milano Reg. Trib. N. 28 del 25/01/2010 ISSN 2038-0844 Responsabile area collaterali Corriere della Sera: Luisa Sacchi Editor: Martina Tonfoni Il racconto del mito e Variazioni sul mito di Giulio Guidorizzi Concept e realizzazione: Out ofNowhere S.r.l. Progetto grafico e impaginazione: Marco Pennisi & C. S.r.l. Coordinamento editoriale e redazione: Flavia Fiocchi
Indice
Introduzione
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di Giulio Guidorizzi
Il racconto del mito
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di Giulio Guidorizzi
Genealogia
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Variazioni sul mito
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di Giulio Guidorizzi
Antologia
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Per saperne di più
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Introduzione
Il racconto «Potendo - scrive Cesare Pavese nell’introduzione ai Dia loghi con Leucò - si sarebbe fatto a meno di tutta questa mitologia». Potendo; ma non si può. Da quasi tre millenni, i miti greci fanno parte della nostra civiltà, e si direbbe pro prio che siano compagni dì strada inevitabili, un vivaio ine sauribile di simboli e di storie. Mythos, in lingua greca, designa il concetto nei suoi dif ferenti livelli: la singola parola che esce dalle labbra di qua lunque persona; una serie di parole che si organizzano in un discorso; un discorso che ha lo scopo di raccontare una storia; infine, un particolare tipo di storia che racconta fatti avvenuti in un tempo lontano e che sono diventati esemplari. Questo è ciò che generalmente oggi intendiamo per "mito”.
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Mito è dunque un modo di raccontare; ma è anche un modo di pensare. Il pensiero mitico infatti è un prodotto dell’immaginazione umana che segue logiche diverse ri spetto al pensiero cosciente. E un pensiero che racconta e non analizza. Ogni essere umano utilizza in qualche modo il pensiero simbolico, e tutti comunque lo sperimentiamo, con inesorabile regolarità, nel momento in cui, chiusi gli occhi alla veglia, li riapriamo durante il sonno: il sogno infatti usa lo stesso linguaggio del mito, racconta di noi stessi e il nostro mondo segreto usando la stessa materia del mito. Del resto, risale a Freud l ’idea che il sogno rappresenti il mito dell’individuo, mentre il mito è il sogno collettivo dell’uma nità delle origini. Con la psicanalisi, all’inizio del X X secolo, il mito è sta to trasferito dal lontano passato a un eterno presente, che è quello della mente. Il mito, da questa prospettiva, riguar da davvero ogni essere umano perché il suo mondo è quello dell ’irrazionale, da cui le antiche storie fanno emergere un impasto di energie emotive fatto di passioni, di sangue, di eros; il mito non rimette le cose a posto, non esige un lie to fine ma lascia enigmi. Il mondo simbolico che viene dai miti è uno specchio dell’e sperienza psichica e ne svela i meccanismi: la gelosia di Medea, l odio di Clitemnestra, la passione distruttiva di Fedra, i rimorsi di Oreste. Non esiste
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emozione umana di cui il mito greco non parli attraverso i suoi personaggi. Come scrisse James Hillman, psicanalista e filosofo statunitense, dal punto di vista della realtà psicologi ca «qualsiasi cosa vera ha sempre una componente mitica... vero è solo ciò che è mitico». Se è così, il mito greco può esse re guardato come una specie di stanza del tesoro in cui sono conservati ifondamenti della struttura psichica dell’umanità e le sfide principali che si incontrano durante l esistenza. Per chi li ascoltava, nella Grecia delle origini, invece, i miti non riguardavano le profondità della mente, ma la realtà della vita. Racconti veri, anche se in una dimensione diversa da quella dell ’e sperienza quotidiana: storie che emergevano da tempi lontanissimi e parlavano con una voce collettiva. La caratteristica del mito greco è quella di essere un rac conto fatto di parole, non di segni scritti, trasmesso non da sacerdoti o sapienti, ma da specialisti della parola, vale a dire i poeti, che ne fecero il soggetto fondamentale delle loro ope re. Così, il mito ha viaggiato attraverso il tempo: nei racconti dei cantori, nei versi di Omero, nelle sanguinose vicende del la tragedia, e più tardi nella poesia di Virgilio e di Ovidio. Il mito greco è sopravvissuto anche quando sembrava sepolto, anche quando i cristiani rinnegarono gli dèi e ne distrussero i santuari. Malgrado ciò, i miti greci resistettero, sotto la superficie, pronti a manifestarsi appena qualcuno li
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avesse cercati. È in questo multiforme universo di racconti che si nasconde davvero il genio del paganesimo. Scaturiti all’alba della nostra storia, dalla fantasia di una popolazione del Mediterraneo orientale, ì miti greci hanno colonizzato prima i Romani, che fecero propri quei racconti, si sono insinuati nei racconti popolari e nell’iconografia del Medioevo - decorazioni per capitelli o elementi pittorici delle cattedrali—per poi rinascere durante il Rinascimento. I cantori del mito non inventavano le loro storie, ma le recuperavano dalla memoria collettiva, trasmessa attraverso le generazio ni. La vera essenza della mitologia —in particolare eroica - e, si potrebbe dire, anche la sua inesauribile energia, sta nella volontà dei Greci di conservare e di trasmettere le storie più antiche del proprio popolo, in cui essi individuavano il nucleo dell’identità culturale: una specie di Big Bang narrativo da cui si generò a cascata la mirabolante varietà delle storie moderne. Simili racconti circolavano non solo in letteratura, ma nel le leggende locali come quelle che Pausonia (II secolo d.C.) ebbe modo di ascoltare dalla voce degli abitanti delle terre che andava visitando; grazie a lui emersero quelli che potrebbe ro essere definiti “luoghi della memoria mitica”. A Pausania fu mostrato il luogo in Arcadia dove Oreste pazzo si staccò un dito con un morso, a Colono la tomba dove giacevano le ossa di Edipo, quella in cui riposava la dolce eroina Antiope,
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dal cui tumulo gli abitanti di una regione vicina andavano a rubare ogni anno poche manciate di terra, per rendere fertili i loro campi grazie alla magica energia di quella zolla consa crata, persino gli avanzi della creta con cui Prometeo aveva plasmato iprimi uomini in una desolata valle della Focide. Quella che viene definita mitologia greca è in realtà un labirinto di racconti, storie nate in luoghi e tempi diversi, leggende locali, opere letterarie: un organismo vivente che continua a riprodursi, fili che corrono paralleli tra loro o s ’intrecciano in mille varianti. Il mito contiene inform a narrativa tutta la memoria di un popolo riversata nelle parole di chi lo racconta; e deve affa scinare e incantare, perché il piacere dell'ascoltare, la bel lezza e la magia di questi racconti, la loro capacità di susci tare emozioni formano il cuore della loro esistenza. Nessun uomo è insensibile alfascino di un bel racconto: «Più divento solitario - diceva Aristotele (fi. 668 Rose) - e più amo i miti».
Gli dèi La civiltà greca non possedeva un libro sacro, né una casta di sacerdoti o di dottori della legge a cui fosse affidato il compito di spiegare la parola divina.
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La storia sacra dei Greci è costituita da quei miti che nar rano le imprese degli dèi e le origini del mondo; ma le divinità greche non dettano massime morali, non impongono coman damenti: essi non vogliono rendere più santa l ’umanità, ob bligandola alle regole di una legge sacra. Vogliono, piuttosto, tutelare l ’ordine cosmico, di cui l ’uomo è una parte. Da questo sistema di pensiero, fondato sulla natura libe ra del mito, discesero poi alcune form e fondamentali della civiltà greca, di cui noi siamo gli eredi: la filosofia, in primo luogo, cioè la ricerca di una mente umana libera di guardare ovunque - altrimenti, non sarebbe stata filosofia, ma teolo gia
la scienza; e anche quella form a speciale di comunica
zione che fu il teatro tragico. Storie che arrivano alle origini del mondo. Quello del mito non è infatti semplicemente un passato e neppure un passato molto remoto: il mito divino parla di un tempo in cui il mondo era organizzato in modo differente e spesso descri ve un evento originario da cui deriva il presente. Da quando Prometeo rubò ilfuoco agli dèi, gli uomini possono cuocere le carni; da quando Persefone tornò alla luce dall’A de ebbe inizio il ciclo regolare delle stagioni. Il tempo del mito è un tempo delle origini, in cui gli dèi e gli eroi operavano insieme. Tutto ciò che ora appare or ganizzato e diviso, di modo che gli dèi, invisibili, occupano
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il proprio mondo e lasciano agli uomini il loro, era allora senza confini certi. Il mito divino presuppone che le cose essenziali siano precedenti a noi e si trovino a ll’inizio del tempo. Gli dèi greci non creano il mondo: nascono, e non muoiono mai. La nascita di un nuovo dio, Apollo o Hermes o Atena, è un pezzo dell’universo che si completa. Poi, operano invi sibili accanto agli uomini e portano loro la propria forza e anche la propria ira: proteggono, annientano. Ma sono lì, in mezzo agli uomini: belli e felici però, mentre gli uomini sono condannati alla morte e al dolore.
Gli eroi A mano a mano che, attraverso la catena delle generazioni, si risale verso il passato, ci si avvicina al tempo in cui, molto vicini agli dèi, operavano uomini più nobili e grandi. I personaggi dei miti greci generalmente discendono dall unione tra una divinità e una creatura mortale. In loro, però, la natura divinasi mescola a ll’o pacità del corpo uma no, e così, se da un lato sono fo rti e gloriosi, dall ’altro par tecipano al destino comune attraversando la sofferenza e la morte.
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La parte più ricca e splendente della mitologia greca ri guarda appunto questefigure che, con una parola forse pre greca, erano definiti "eroi” fheroes/ Ingenerale i Greci non dubitarono mai che i loro eroifossero esseri reali e vedevano in essi i loro antenati. I loro sepolcri, in recinti consacrati, erano diffusi ovunque a testimoniare ilfatto che un eroe, pur morto, continuava a vivere in qualche modo nel cuore delle città, in mezzo agli uomini. Ricevevano onori, si portavano offerte sulla loro tomba. Molto meno potenti degli dèi da cui discendono, gli eroi erano figure sacre, al punto che senza di essi sarebbe im possibile concepire la religione dei Greci, i quali li consi deravano i loro invisibili protettori: «Questa vittoria - disse Temistocle dopo la battaglia di Salamina, come racconta Erodoto (8, 109) —non è opera nostra: noi la dobbiamo ai nostri dèi e ai nostri eroi». Come gli dèi, anche gli eroi possono proteggere o colpire. Senz’altro, un elemento che caratterizza l ’eroe greco lungo tutta la sua storia è l ’eccezionaiità, che lo pone ben oltre la normale condizione umana, per la sua intrinseca natura: «Un eroe - scrive Aristotele ^Politica, 1332 b) - ha un corpo e un’anima più grande». Si potrebbe dire che la caratteristicafondamentale dell ’eroe greco è la sua ambivalenza morale, dal momento che
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egli non è buono nel senso etico del termine, ma piuttosto una creatura premorale, e talvolta persino sinistra: Edipo si macchiò di incesto e parricidio; Achille lasciò dietro di sé una scia di sangue; Oreste uccise la madre; Ulisse fu bu giardo e impostore. In moltefigure eroiche, gli estremi della nobiltà e dell’infamia si mescolano inestricabilmente, tutta via questa natura contraddittoria, eccessiva e straordinaria assicura loro un posto glorioso nella memoria trasmessa dai poeti attraverso i racconti. L ’e roe greco non è una creatura del bene: è un essere che per le sue azioni si è reso degno di essere ricordato. Tutto proteso verso la propria autoaffer mazione, l ’eroe greco si scontra con i limiti che la natura umana, il destino, o altri uomini, gli pongono davanti. Non cede, viene travolto. Ogni cosa della sua esistenza è eccessi va, le sue imprese, le sue ire, le sue sofferenze, il suo destino e molto spesso anche la morte, che avviene in form e clamo rose e violente, sì potrebbe dire anch 'esse esemplari. Alcuni di loro, però, ebbero infine un premio negato agli uomini comuni: furono rapiti ancora viventi in un luogo ai confini della terra, e da allora dimorano nelle Isole dei Beati, felici p er sempre. Vissero, però, soprattutto nelle storie dei poeti della loro gente, a cui la loro storia fu per sempre affi data. Sono quindi anche i nostri eroi: le loro storie non sono solo la mitologia greca, ma la nostra.
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Conservata al Metropolitan Museum di New York, questa tela di Gustave Moreau, Edipo e la Sfinge, racconta di un Edipo molto umano fisicamente in dialogo con la Sfinge, sospeso tra la vita e la morte.
Un oracolo spaventoso Il mito di Edipo descrive il più antico omicidio stra dale della storia: a un incrocio si trovarono nello stesso punto due uomini, un giovane e un anziano. Il prim o camminava con il suo bastone da viandan te, e aveva percorso una lunga strada. Il secondo, accompagnato da alcuni servitori, viaggiava sopra un carro, condotto da un auriga. Ciascuno voleva passare per primo. L’anziano volle imporsi, perché era re e lo infastidiva quel giovane un po’ troppo spavaldo che rifiutava di cedergli il passo; così, mentre si incrociavano, gli calò un colpo di frustino sul viso. Allora il giovane, infuriato, lo assalì col suo bastone e gli spezzò il cranio, per scagliarsi poi sui
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suoi accom pagnatori che uccise, uno dopo l’altro, con la stessa arma; solo uno riuscì a fuggire. I prota gonisti di questa folle scena di violenza e di rabbia si chiamavano Edipo e Laio, il primo era il figlio e l’al tro il padre: non lo sapevano, perché il padre aveva abbandonato il figlio molti anni prim a. Avrebbero incontrato il proprio destino all’incrocio di tre stra de. Un luogo noto a tutti nell’antichità, in Focide, proprio là dove si congiungevano le strade che parti vano da Dauli e da Tebe, per fondersi nell’unica via che saliva verso la vallata di Delfi, dove aveva sede il tempio di Apollo. In quel luogo sarebbe apparso ai viandanti il (presunto) sepolcro di Laio, fatto di pie tre ammucchiate sul crocevia. Un’altra versione del mito afferma che fu Laio a spingere il carro contro Edipo schiacciandogli un piede con la ruota; per questo Edipo lo afferrò, lo trascinò a terra e lo ucci se. Una lite, si direbbe, per futili motivi, come tante ne accaddero in ogni epoca: la violenza accompagna da sempre la nostra specie, sin dall’omicidio di A be le per mano di Caino. Quello tra i due viandanti sembrerebbe un incontro del tutto casuale, tuttavia, secondo la prospettiva del m ito greco, quel folle scoppio di rabbia era stato voluto e deciso da tempo,
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e faceva parte di un oscuro piano degli dèi. Il mito di Edipo, infatti, ha, tra le varie domande che porta con sé, questa: l’uomo è veramente libero e padrone dei suoi atti? O dietro a ciò che crede di fare liberamen te si nasconde un progetto crudele e insondabile, che muove le azioni umane come un burattinaio muove i suoi pupazzi? Esiste il caso, esiste la libera scelta, oppure tutto è già stato scritto e determinato da una forza superiore? C hi portò quei due uom ini a quell’incrocio, chi fece esplodere la loro rabbia? M a partiamo dall’inizio, perché questa è una storia pie na di passioni e di episodi terribili: vedremo un ten tato infanticidio, un parricidio, un incesto e tanti al tri fatti tremendi. M a vedremo anche - e questo ren de grande il suo protagonista, Edipo - un uomo che cerca di capire se stesso, che non ha paura di svelare il suo lato oscuro, un uomo illuminato dall’intelli genza. Grandezza e miseria: così sono infatti gli eroi greci. Non già esseri buoni, leali e puri ma un m i scuglio di forze che li rende sin troppo umani, vicini agli istinti più prim itivi che ribollono nel fondo dell’anima, eppure capaci di atti straordinari e dun que terribilm ente sim ili a tutti noi. Il racconto ha inizio a Tebe, con un personaggio torbido, proprio
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l’uomo che a quel fatale incrocio sarebbe morto in modo tanto cruento. Edipo ancora non era stato con cepito quando accaddero cose che avrebbero condi zionato per sempre la sua vita. Laio, re di Tebe, contristato per non aver generato figli con la moglie Giocasta, si recò a Delfi per inter rogare l’oracolo di Apollo. «Non generare un figlio, perché se lo farai, questo figlio ti ucciderà», gli disse la Pizia, la profetessa estatica, che parlava in nome del dio. Il responso era spaventoso. L’oracolo di Apollo si manifestò così per la prim a volta in questa storia in cui i protagonisti avrebbero cercato in ogni modo di evitare quello che era scritto accadesse: il destino li avrebbe avviluppati in una medesima rete, e più ten tavano di evitarlo più la rete si stringeva intorno a lo ro. Spaventato dall’oracolo, Laio, da quel momento, evitò di unirsi alla sposa. Una sera, però, dopo un banchetto durante il quale aveva bevuto in abbondan za, entrò nella sua stanza e si gettò su di lei. Da quell’unico amplesso, la regina concepì un figlio. Mentre il ventre di Giocasta cresceva, crescevano an che le angosce di Laio, che maturò il suo piano crimi nale. Quel figlio non poteva vivere accanto a lui, nella sua stessa casa, per poi diventarne un giorno l’assas
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sino. Così quando il bambino nacque, il re lo conse gnò a un servo perché lo portasse a morire sul monte Citerone ma, prima di affidarglielo, trapassò le cavi glie del neonato con un anello d’oro, in modo da bloc carle. «Nostro figlio - ricorda Giocasta ndì'Edipo re di Sofocle - era nato da meno di tre giorni quando Laio gli legò le caviglie e ordinò di gettarlo sopra un monte inaccessibile». «Desideravo il seno di mia ma dre - dice Edipo nelle Fenicie di Euripide - quando mio padre mi mandò a diventare misero pasto di ani mali». Alcuni raccontavano che Edipo fu gettato a morire sul Citerone, chiuso in un orcio d’argilla, se polto vivo, ma i più sostenevano che il neonato fosse stato esposto con i piedi forati in un luogo impervio, dove poco dopo fu trovato e raccolto da un pastore. Perché Laio compì l’estrema crudeltà di bucare i piedi di suo figlio? Non fu tanto un atto malvagio, quanto superstizioso: sconciando i piedi del neonato, Laio voleva impedire che il suo fantasma tornasse indietro a perseguitarlo. M a Edipo non morì. Da quel m archio indelebile si faceva derivare anche il suo nome: Edipo, “l’uomo dai piedi gonfi” (oidào “esse re gonfio” e poùs “piede”), anche se - ed è più pro babile - il suo nome potrebbe significare “il conosci
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tore dei piedi” (òida “conosco” e poiis “piede”), in rapporto all’enigm a della Sfinge di cui parleremo. Quel bambino abbandonato tra i rovi del monte Citerone è dunque, nel senso proprio del termine, un fi glio del monte: rifiutato dalla famiglia, il neonato venne accolto dalla natura, selvaggia per tutti ma amica per lui, e nacque una seconda volta nel luogo in cui avrebbe dovuto morire divorato dalle fiere. Il Citerone l’aveva salvato dalla morte, invece di ucci derlo. In questo modo, l’ambiente selvaggio della montagna scambiò la sua funzione con quella della civiltà: crudeli gli uomini, benevola la natura. «Ahi Citerone, perché mi hai accolto?», grida infatti Edi po subito dopo essersi accecato. «Perché non mi hai preso e ucciso subito?» Come mai Laio ricevette un responso tanto terri bile? Gli dèi - si sa - non hanno bisogno di dare spiegazioni. Qualche scrittore antico però si sforzò di offrirne una ragione, trasformando così l’arbitrio divino in un atto di giustizia. Secondo una versione riportata da alcuni mitografi, quando Laio si trovava in esilio lontano da Tebe, dopo un colpo di Stato che l’aveva privato del trono, fu ospitato dal re Pelope nella terra che da lui prendeva nome. In quella circo
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stanza, s’innam orò follem ente del figlio del suo ospite, Crisippo, lo rapì e gli fece violenza. Per que sto è indicato come il primo degli uomini a praticare la pederastia. Crisippo si uccise per la vergogna, e quando Pelope venne a sapere dell’accaduto, male disse Laio insieme a tutta la sua discendenza. Per questo gli dèi impedirono che il re di Tebe generasse figli: la sua stirpe doveva finire con lui, come lui aveva distrutto la stirpe di Pelope. Il figlio non volu to di Laio sarebbe stato dunque il vendicatore della m orte di un altro ragazzo - seppure a distanza di molti anni. Come una malattia, la colpa e la conta minazione dovevano trasmettersi di padre in figlio, finché tutta la fam iglia di Laio non ne fosse stata annientata. Quando Laio riconquistò il trono di Tebe e sposò la giovane Giocasta, portò con sé una colpa da espiare, senza rendersene conto. Fermiamoci un istante a osservare che la storia del fanciullo abbandonato al momento della nascita, e m iracolosam ente preservato dal destino, per di ventare un giorno re o capostipite di una dinastia, è uno schema narrativo molto diffuso nella mitologia mondiale. I casi di Romolo e Remo, abbandonati sul Tevere in un cestello e poi nutriti da una lupa, e quel
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lo di Mosè, raccolto da una principessa egiziana dal le acque del Nilo, sono solo i più noti. Ve ne sono tantissimi altri. Semiramide, figlia della dea Derceto e di un sem plice mortale, fu esposta da sua madre su un monte dove venne nutrita da colombe, si salvò e divenne poi regina. Una simile peripezia capitò a Gilgamesh, l’eroe sumero, secondo quanto racconta Ebano: i magi predissero al re di Babilonia, Sevecora, che il figlio di sua figlia gli avrebbe tolto il regno, così quando il bambino nacque lo fece gettare da una fi nestra del palazzo, ma un’aquila lo raccolse al volo e lo depositò nel parco dove un giardiniere lo avrebbe trovato e poi allevato. Gilgamesh sarebbe diventato re e un grande eroe: il più antico degli eroi. Esiste anche - e a prim a vista potrebbe sembrare strano - un Edipo medievale, anzi ne esistono molti: leggende che si tram andavano oralmente e poi tra scritte da autori dell’epoca; Edipo non si chiama più Edipo e chi racconta la storia non ha neppure chiara coscienza di parlare di Edipo, anche quando parla del suo mito. La storia resta, il nome cambia. Un fatto è certo: il m ito di Edipo può esistere anche senza di lui.
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Un caso particolare, che unisce il m ito greco a un ambiente cristiano, è quello che si legge nella Legen da Aurea di Jacopo da Varagine (XIII secolo d.C.) in cui viene raccontata la vita rom anzata di alcuni san ti; in questo libro si parla anche di Giuda, l’apostolo maledetto, e in lui vediamo comparire improvvisa mente Edipo, o almeno la sua storia.
Fermiamoci un istante a osservare che la storia del fanciullo abbandonato al mo
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mento della nascita, e miracolosamente preservato dal destino, per diventare un giorno re o capostipite di una dinastia, è uno schema narrativo molto diffuso nella mitologia mondiale.
Questo Giuda, arrivato all’autore medievale attra verso racconti folklorici e vangeli apocrifi, porta, come l’Edipo di Sofocle, il peso di essere nello stes so tem po maledetto e prescelto. Come nel caso di Edipo, anche il concepimento di Giuda fu accompa gnato da presagi funesti, che indussero i genitori a chiuderlo in un cestello e ad affidarlo al mare: in
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questo caso però, gli am m onim enti non venivano dall’oracolo di Apollo m a da un sogno comparso alla madre. Anche in questa storia il neonato fu salvato da una regina che lo adottò; una volta cresciuto, Giu da, che già manifestava la sua natura malvagia, uc cise il fratello putativo e si rifugiò a Gerusalemme dove si mise al servizio di Pilato. I due s’intendeva no molto bene, tanto che il governatore lo prese a benvolere e ne fece il suo uomo di fiducia. A G eru salemme si compì quello che era scritto nel libro del destino: Pilato dal suo palazzo vedeva ogni giorno un frutteto pieno di alberi bellissimi e fu preso dal desiderio di avere quei frutti; Giuda si precipitò nel giardino e iniziò a saccheggiarlo, ma in quel m o mento arrivò il padrone e lo sorprese mentre stava rubando la frutta. I due si azzuffarono, finché Giuda uccise quell’uomo con un colpo di pietra, senza sa pere che si trattava proprio di suo padre. Anche in questo caso, come fu per Edipo, il parricidio venne ricompensato con un premio avvelenato: Pilato donò a Giuda i beni del morto e tra essi anche la moglie che divenne quindi concubina di suo figlio. Un gior no, poi, la donna gli raccontò, sospirando, la vecchia storia che ancora l’affliggeva, la storia del suo bam
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bino abbandonato alle onde. Fu così che Giuda sep pe di avere ucciso il padre e sposato la madre. Per questa ragione decise di darsi alla penitenza e di unirsi ai discepoli di Cristo. Torniamo ora al bambino gettato a morire tra i rovi del monte Citerone. La mano del destino guidò un pastore fino al luogo dove il neonato stava agonizzan do: sentì i vagiti, vide il bimbo, ne ebbe pietà e lo raccolse. Più tardi, durante la transumanza, lo affidò a un altro pastore, che pascolava le greggi di Pólibo, re di Corinto. Quest’ultimo non aveva avuto figli dal la moglie Mérope, e così, quando il pastore tornò in città e gli mostrò il trovatello, decise di allevarlo come figlio proprio. Nulla di ciò fu mai rivelato al bambino.
Il destino si mette in moto Sembrava che la vita sorridesse a Edipo, dopo un inizio tanto terribile. Ora aveva una famiglia, e non di povera gente: un trovatello era diventato l’erede al trono! Crebbe tra tutti gli agi e divenne un giovane principe, orgoglioso di sé e della sua condizione. A questo punto della storia, i tre protagonisti della pro
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fezia sono molto lontani tra loro: Laio, tranquillizza to dall’infanticidio che aveva commissionato, conti nuava a regnare su Tebe - e, pensando al genere di uomo che era, senza troppi rimorsi - , Giocasta, triste per il figlio perduto ma sempre sottomessa al marito, al quale aveva permesso un’azione così infame, gli stava accanto come regina e, infine, Edipo cresceva felicemente in un’altra città. Avrebbe potuto finire così. Ma, dopo molti anni, la macchina infernale del destino si rim ise in moto. Durante un banchetto, in fatti, un convitato che aveva bevuto troppo, obnubi lato dai fumi del vino, rinfacciò a Edipo di non esse re veram ente figlio dei suoi genitori. Le parole dell’ubriaco avrebbero potuto scivolare via, come vaneggiamenti, ma Edipo ne fu profondamente scos so. Il giorno seguente si presentò ai genitori adottivi e li interrogò; Pólibo e Mérope mantennero il segre to, anzi dichiararono indignati che era davvero figlio loro, e che quell’uomo aveva parlato da ubriaco. Qualcosa però continuava ad agitarsi nella mente di Edipo, come un pungolo nascosto che gli toglieva la quiete. Quelle parole gli avevano turbato l’anima. Così fu infatti sempre Edipo: un uomo tormentato, un uomo che non poteva tollerare zone d’ombra at
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torno a sé. Ed ecco comparire per la seconda volta in questa storia, Apollo e il suo oracolo. Assillato dai propri pensieri, Edipo decise di andare a interrogare il dio, nello stesso luogo in cui tanti anni prim a si era recato suo padre Laio. Si mise in cam m ino senza dire niente a nessuno e giunse al tempio di Delfi. Quando arrivò il suo turno per porre la domanda, chiese alla profetessa: «Sono davvero figlio di Pólibo e Mérope?». Chi, se non Apollo, poteva saperlo? La Pizia però non gli rispose e invece gli disse: «Tu ucciderai tuo padre e sposerai tua madre». La Pizia pronunciava oracoli nel cuore del tempio di Apollo a Delfi, seduta su un grande tripode sacro, in uno stato di trance - o “posseduta da Apollo”, come dicevano gli antichi - : i suoi oracoli dunque provenivano dal dio di cui era solo la mediatrice. La sua risposta era sempre ambigua e insidiosa: come i sogni, infatti, anche gli oracoli richiedono di essere interpretati, ed è facile sbagliare. Del resto, l’Apollo oracolare era detto il “Lossia”, vale a dire il “contor to”. Oggi, nella civiltà occidentale, viviam o in un mondo senza oracoli e profezie, dunque ci è difficile immaginare il valore culturale che possedeva questo bisogno di interpellare un dio e disvelare il futuro,
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piccolo o grande che fosse. A Delfi, si recarono folle di persone, per secoli e secoli, a consultare Apollo e ciò che usciva dalla bocca della Pizia era considerato sacro e vero. M a attenzione: a ben vedere, l’oracolo di Apollo non svelava tanto il futuro, piuttosto ren deva evidente l’enorme distanza che passa tra l’u o mo e gli dèi. Gli oracoli infatti sono enigmi che gli uomini non possono comprendere. Gli esseri m orta li sono prigionieri di questo paradosso: da un lato interrogano l’oracolo, ansiosi di sapere ciò che li aspetta, dall’altro cercano di m odificare il futuro prefissato, senza immaginare che proprio in questo modo finiscono per cadere nella trappola che è stata loro preparata dal destino. «È orribile conoscere, quando non serve a nulla a chi conosce», dice infatti a Edipo uno che di oracoli se ne intende davvero, il profeta Tiresia, definendo con queste parole quella via senza uscita che l’oracolo pone davanti ai con sultanti. Edipo, l’uomo fiero della sua intelligenza, colui che avrebbe saputo risolvere l’enigm a della Sfinge, non seppe capire l’oracolo che lo riguardava direttamente. Il grande affannarsi di un figlio e di un padre - il primo per stornare parricidio e incesto, il secondo per evitare di m orire proprio per mano
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del figlio - li portò a quell’incrocio dove si compiro no le parole di Apollo e fu resa vera la domanda: perché consultare gli oracoli dal momento che nes suno può veramente sapere se e come si realizzeran no? L’oracolo è una forma di linguaggio che rispon de a logiche diverse da quelle della comunicazione abituale. Gli uom ini non possono comprendere le parole del dio perché la loro intelligenza si ferma alla forma esteriore delle parole e non penetra il loro reale significato. L’oracolo per sua natura elude, e a volte scherza. Gli esempi di questa mancata comprensione da parte degli uom ini sono innumerevoli negli scritti degli autori antichi. La leggenda narra che Ilio, figlio di Eracle, interrogò Apollo per sapere quando avrebbe potuto tornare in patria e riprendersi il regno pater no; l’oracolo rispose «attendi il terzo raccolto». Ilio interpretò queste parole in senso letterale e pensò che il terzo raccolto significasse il terzo anno. Dopo ave re atteso il tempo predetto, si mise a capo di un eser cito per riconquistare il Peloponneso, m a fu sconfitto e ucciso. Il dio voleva dire «devono passare tre gene razioni, tre raccolti di uomini». E ancora, il dio di Delfi avvertì il re Creso che se avesse attaccato i Per
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siani avrebbe distrutto un grande impero; incorag giato dal responso, Creso iniziò la guerra e dovette constatare che le parole di Apollo erano state veritie re: un grande impero fu infatti distrutto, il suo. Così dunque accadde anche a Edipo: il dio gli aveva parla to chiaramente, ma gli aveva nascosto chi fossero i suoi veri genitori. Una risposta veritiera, ma a metà. Sconvolto e terrorizzato dal responso della Pizia, Edipo si tenne lontano da Corinto, dove vivevano quelli che pensava essere i suoi genitori, e iniziò a vagare per il mondo, come un vagabondo. Qualsiasi luogo poteva accoglierlo, tranne quello che era con vinto fosse la sua patria, fermamente deciso a non rivedere più Pólibo e Mérope, i due vecchi che gli erano tanto cari. Fu durante i suoi vagabondaggi che gli capitò d’incontrare Laio a quel fatidico incrocio. La prim a parte della profezia si era dunque compiu ta. Così almeno racconta Sofocle. M a del parricidio di Edipo esistono anche altre versioni: un autore re lativamente tardo, Nicola di Damasco - 1 secolo a.C., precettore dei figli di Antonio e Cleopatra - , accen tuò il carattere barbarico, per non dire brigantesco, di questo scontro, trasformandolo nell’agguato di un predone, e questa è l’unica testim onianza in cui la
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colpa del delitto ricade interamente sul figlio e non sul padre. Laio, racconta l’autore, era partito per Deifi insieme alla sposa; la coppia viaggiava sul carro, preceduta da un araldo che faceva strada e invitava i passanti a cedere il passo al re. Edipo a sua volta si era allontanato da Corinto non, come narra Sofocle, per interrogare Apollo o per evitare che si avverasse il responso del dio, ma per razziare bestiame, come un brigante. Così i tre si ritrovarono a quell’incrocio. Lì si ricompose per l’unica volta in pochi, cruenti istanti, la famiglia reale di Tebe, dissoltasi nel mo mento in cui Edipo era stato esposto: questa è l’unica testimonianza dell’antica tradizione mitica secondo la quale Giocasta assistette di persona all’assassinio del marito per mano del figlio. L’araldo - nelle paro le di Nicola di Damasco - ordinò allo straniero di farsi da parte, ma Edipo, giovane brigante, volendo dare prova del proprio coraggio e del suo rango, pie no d’alterigia, afferrò la spada - non il bastone, dun que, in questa variante - , trafisse l’araldo e subito dopo anche Laio che era accorso. Giocasta non fu toccata: l’assassino fuggì sui monti, come fanno i briganti o i guerriglieri, e successivamente tornò a Corinto per vie traverse portando al padre adottivo
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Pólibo le mule che trainavano il carro di Laio, trofeo della sua gagliardia giovanile. Giocasta, dal canto suo, seppellì sul posto i corpi dei due assassinati. Un Edipo violento e brigantesco, dunque; del re sto, un carattere impulsivo gli è attribuito unanim e mente dall’antica tradizione letteraria. Il mitografo latino Igino, per esempio, racconta che a Corinto i coetanei di Edipo lo tenevano a distanza e lo scher nivano dicendo che non poteva essere davvero figlio di Pólibo, uomo mite (clemens), lui senza freni (impudens): per questo, non per le parole dell’ubriaco, Edipo aveva cominciato a dubitare della propria na scita. E ancora neWEdipo re, l’eroe si comporta co me un uomo piuttosto sgradevole, dominato da un’i ra che è incapace di frenare; prim a di diventare l’in felice piegato da un destino troppo crudele, Edipo si muove sulla scena da vero tiranno, arrogante e so spettoso, un uomo che vede complotti ovunque, e si scaglia, con accuse e minacce, contro chi non si con forma alle sue direttive. A farne le spese sono il co gnato Creonte, il profeta Tiresia e, più tardi, il pasto re che porterà alla conclusione della vicenda, il qua le si decide a parlare solo in seguito alla minaccia di torture da parte di Edipo.
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Neppure nell 'Edipo a Colono le disgrazie e la con dizione di mendicante vagabondo in cui Edipo era precipitato, smorzano la sua naturale impulsività: an che qui infatti lo vediam o scagliare imprecazioni contro i nemici di un tempo, maledire i figli, gonfio d’ira e di rancore: Edipo del resto è un tyrannos, il cui potere assoluto - specialmente nella prospettiva del dram m a ateniese, figlio di una cultura democratica si accompagna a caratteri duri; violenza, irrazionali tà, irritabilità sono i tratti tipici del tiranno, e in par ticolare del tiranno sulla scena tragica. Altre versioni del mito danno allo scontro tra padre e figlio un tono elevato, quasi eroico, fino a far assumere alla lotta tra Edipo e Laio i contorni del duello. Si immaginò che al fatale incrocio i due uomini fossero giunti contem poraneamente, ognuno conducendo il proprio carro, come due eroi omerici che si affrontano ad armi pari, faccia a faccia: «Mentre attraversava la Focide in car ro - racconta il mitografo Apollodoro - incontrò Laio che stava conducendo il suo carro in un passaggio stretto. Quando Polifonte, che era l’araldo di Laio, gli comandò di cedere il passo e abbatté uno dei suoi cavalli perché non gli prestava ascolto e indugiava, Edipo sdegnato uccise sia Polifonte sia Laio».
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Di questo episodio fondamentale per il m ito di Edipo esistevano ancora altre versioni. Una, partico larmente originale, viene da un anonimo commenta tore antico di Euripide (scolio alle Fenicie, 26), che racconta la vicenda in modo completamente diverso: Laio che si era innamorato follemente del giovane Crisippo, figlio di Pelope, di cui abbiamo già parlato, gli tese un agguato e lo rapì. Edipo, amico di Crisip po, si mise sulle sue tracce e lo raggiunse prim a che Laio arrivasse a Tebe con la preda; ne seguì una zuf fa in cui Laio ebbe la peggio. Per celebrare i funerali del marito giunse da Tebe la regina Giocasta, e fu lì, davanti al cadavere freddo di Laio, che i due, travol ti da un’improvvisa passione, si unirono. Se Freud avesse conosciuto questa variante del mito, viene da dire che certamente ne avrebbe tratto spunto per raf forzare la sua teoria sul complesso di Edipo. A quelfincrocio, in ogni caso, Edipo cambiò an cora la sua natura, e non lo sapeva: a Corinto da trovatello era diventato principe, lì da principe si trasformò in parricida. M a non sapeva ancora né l’una cosa né l’altra. Il parricidio è un’azione definitiva, un punto di non ritorno oltre il quale l’assassino si trova proiettato in un gorgo da cui non riuscirà più a
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risalire. Il parricida dà un taglio definitivo al passa to: chi compie quest’atto non potrà mai ripercorrere la sua storia e quella della sua famiglia senza prova re smarrimento, vergogna e rimorso. Con l’aggres sione al padre, il flusso regolare delle generazioni s’interrom pe; perciò è naturale che nelle teogonie m itiche il passaggio da una generazione divina all’altra avvenga con una violenza sul padre, per fare posto a un nuovo inizio sotto il patronato di un nuo vo dio: Crono evirò il padre Urano, Zeus avrebbe incatenato il padre Crono. Nei miti di successione divina, l’eliminazione del padre determ ina una risi stemazione del cosmo: nulla può essere come prima, i nuovi dèi prendono il potere imponendo un ordine diverso dal precedente, tutto deve ricominciare da capo. Nella condizione umana, il parricidio obbliga chi lo compie a confrontarsi per sempre con l’ombra della figura paterna e sconvolge un’istituzione che è fatta per durare nel tempo: la famiglia. Nell’antica Roma, il parricidio era considerato il più spaventoso dei delitti, un nefas ultimum, e punito con la temibile e infamante poena cullei, la “pena del sacco”: il parricida era messo in ceppi, incappuc ciato, gettato in carcere e poi chiuso in un sacco e
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sprofondato in un fiume. Nella cultura greca, versa re sangue di congiunti aveva una sola possibile con seguenza: rendere fom icida un maledetto, «quando due consanguinei si uccidono con le loro mani - dice il coro nei Sette contro Tebe - non c’è tem po che possa cancellare questa contaminazione». Edipo però uccide suo padre inconsapevolmente, e questo è un fatto che in parte lo assolve.
«È orribile conoscere, quando non serve a
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nulla a chi conosce», dice infatti a Edipo uno che di oracoli se ne intende dawero, il profeta Tiresia, definendo con queste pa
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role quella via senza uscita che l’oracolo pone davanti ai consultanti.
Fu assassinio o legittima difesa? In ogni caso il fatto di averlo ucciso porta con sé una maledizione incan cellabile, il cui segno tangibile sarà la pestilenza che si abbatterà su Tebe dopo che Edipo ne sarà diventa to re. Secondo l’arcaico principio della colpa collet tiva, infatti, la malattia si propaga dal re ai suoi sud diti. Oltre che della vendetta divina, il parricida o il
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m atricida è vittim a di se stesso, perseguitato da for ze infernali scatenate dalla sua azione: Oreste, dopo avere ucciso la madre Clitemnestra, impazzì ed errò per il mondo perseguitato dalle Erinni, m ostri dalle chiome di vipere, che lo seguivano ovunque. Alcmeone - assassino della m adre Eri fi le - fu preda della follia e dovette fuggire, alla ricerca di un luogo dove poter essere purificato: ovunque passasse, la terra diveniva sterile. Secondo Platone, il parricidio e il matricidio appartengono alla categoria dei crim ini inespiabili: chi uccide un genitore subirà la stessa violenza da parte dei figli, in questa vita o in una futura reincarnazione. «Questa macchia - afferma il filosofo - non potrà essere lavata prim a che l’ani m a di chi ha commesso il fatto non abbia pagato, uguale omicidio con uguale omicidio, e non abbia placato l’ira dei consanguinei». Eschilo nelle Coefo re fornisce un elenco di punizioni che il matricida dovrà sopportare per la sua colpa: «Vendette che salgono dal ventre della terra, malattie terribili che balzano sui corpi, la lebbra dalle mascelle selvagge, mali che divorano ciò che prim a era un corpo, men tre bianchi peli fioriscono sulle piaghe... e l’assalto delle Erinni eccitate dal sangue paterno». Cose ter-
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ribili dunque dovevano aspettare Edipo, dopo quel fatale incontro con Laio.
La Sfinge A questo punto, la storia si sposta nuovamente a Te be. Giunge in città la notizia che il re è morto, ucciso da predoni: è Tunico scampato alla strage a riferirlo. La reggenza passa a Creonte, fratello della regina Giocasta, che non ha eredi, o almeno così si crede. Creonte è un uomo mediocre, secondo la descrizio ne che ne fanno gli antichi: un astuto politicante, pri vo della torva crudeltà di Laio ma anche della gran dezza tragica di Edipo. Il suo potere durerà poco: sui tebani si abbatte presto il flagello della Sfinge, un mostro assassino che assedia la città, divenendo l’in cubo dei suoi abitanti. Anche la Sfinge è destinata ad avere una lunga storia nell’im m aginario collettivo, potrem m o anzi dire che essa è diventata la figura mitica tutelare de gli enigm isti. Il racconto universalm ente diffuso narra infatti che la Sfinge si fosse appostata su un monte alle porte di Tebe. Da qui, il mostro propone-
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va un indovinello, sempre lo stesso, e nessuno riu sciva a rispondere; con una zampata precipitava gli sfidanti giù dalla montagna e poi ne divorava i corpi. Dei tanti che la sfidarono, rim asero solo alcune ossa rosicchiate: pagarono con la vita la presunzione di voler gareggiare con la sapienza della Sfinge. Tra loro, si diceva ci fosse anche il figlio di Creonte, Emone - che secondo altre versioni del mito, sareb be invece divenuto il promesso sposo di Antigone, figlia di Edipo. Nella raffigurazione classica, la Sfinge aveva te sta di donna, corpo di leonessa ed era dotata di ali, che a volte usava per planare su Tebe e rapire le sue vittim e, quando le veniva voglia di agire da mostro e non da enigmista. Assediò Tebe per punire i suoi abitanti di una colpa che gravava su di loro: alcuni sostenevano si trattasse della punizione inviata a Laio da Hera - la sposa divina - indignata per gli atti contro natura che il re di Tebe aveva un tempo com piuto contro il giovane Crisippo; per questo la Sfin ge si accaniva in particolare contro i bambini di Te be, che erano le sue vittim e preferite. La Sfinge pare essere, per così dire, un mostro d’importazione, giunta in Grecia da modelli più an-
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tichi - egiziani, forse attraverso una mediazione si riaca - ma la sua presenza nell’immaginario mitico è di molto precedente, dal momento che un essere simile compare già nelle raffigurazioni di epoca m i cenea, sul finire dell’età del bronzo. U na Sfinge in forma di leonessa alata si vede spesso nelle raffigurazioni vascolari greche: le im magini del mito di Edipo che ci sono pervenute at traverso la pittura antica si riconducono quasi esclu sivamente a questo momento della storia. General mente, i pittori descrivono il momento centrale di un racconto, ossia quello in cui l’eroe e il m ostro si fronteggiano, il momento in cui le due figure appa iono circoscritte nello stesso spazio e, per un istante solo, vicine. Talvolta la Sfinge ha l’aspetto di una belva, in altri casi invece appare stranamente picco la, più o meno grande come un gufo, appollaiata so pra un monte oppure sopra una colonna, mentre Edi po si sporge con un gesto leggero, quasi di danza: il suo volto è dolce e intenso come quello di un uomo che corteggia, più che di chi sfida la morte, la sua fronte non è corrugata nello sforzo di capire m a spianata come quella di chi controlla e dom ina la situazione. E curioso - ma in fondo non troppo sor-
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prendente - trovare questa immagine in un contesto piuttosto speciale, vale a dire nella biblioteca di Sigmund Freud; i suoi libri infatti erano personaliz zati da un ex libris che raffigura un giovane Edipo davanti alla Sfinge, con un’epigrafe in greco che cita alcuni degli ultim i versi dell 'Edipo re di Sofocle: «Lui, che risolse gli enigmi famosi ed era un uomo potentissimo». Nell’ex libris scelto da Freud, Edipo appare pensoso, mentre riflette sull’enigma, e intan to si appoggia al bastone: lo stesso con cui poco pri m a aveva ucciso il padre. La Sfinge lo fissa, con aria maligna di sfida, con le zampe leonine ben in vista, e sembra pronta a balzare, se Edipo non avesse indo vinato. L’enigma era ciò che a Freud pareva più ca ratteristico nel mito di Edipo, più ancora del parrici dio e dell’incesto: l’uomo della ragione che riflette sul dilem m a proposto, un’immagine che simboleg gia la sfida che l’analista affronta con i segreti celati nella parte più oscura della mente dei suoi pazienti. Questa la Sfinge come la si immaginava general mente. Altre tradizioni, più tarde, ne avrebbero eli minato l’aspetto mostruoso. Secondo alcune versio ni, Sfinge era una ragazza tebana, figlia di un certo Ucalegonte; dopo la morte del padre e del marito, si
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ritirò sul monte Fìkion, nei pressi della città, dove Edipo prim a la sedusse e poi la uccise. Questo even to truce, dice il mitografo - un anonimo commenta tore di Euripide, che cercava evidentemente di razio nalizzare il mito - fu l’origine della leggenda che da allora si racconta. Il viaggiatore Pausania (II secolo d. C.) narra una storia ancora più intricata: la Sfinge era una figlia illegittim a di Laio, e suo padre, che l’amava, le aveva rivelato un oracolo segreto, la cui conoscenza apriva le porte al trono. Così Sfingedonna sfidò gli altri figli di Laio a risolvere l’oracolo e, a mano a mano che essi fallivano, li uccideva, in quella che assume le forme di una lotta per il potere. Solo Edipo riuscì a interpretare l’oracolo, perché ave va sognato la soluzione, e in questo modo divenne re. Una donna, un incesto, un sogno: la versione di Pausania crea un fantastico meccanismo narrativo, mescolando i temi del mito tradizionale. Queste an tiche versioni vengono riscritte da Diirrenm att che nella Morte della Pizia trasform a la Sfinge in una sacerdotessa insediata su un monte alle porte della città di Tebe, circondata da leonesse addomesticate. Questa Sfinge è creduta figlia di Laio ma in realtà è figlia del suo araldo Polifonte. E ciò genera una con
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tinua serie di equivoci in cui le relazioni tra i vari personaggi s’intrecciano fino al limite dell’inverosi mile. Non dobbiamo stupirci di trovare un mostro assassino in forma di donna: quasi tutti gli esseri di questo genere, nella mitologia greca, sono al femmi nile. Le più terrorizzanti figure legate alla morte e all’aldilà, o anche alla colpa e alla follia, sono donne, di una fem m inilità deforme, m ostruosa; così sono per esempio la Gorgone che pietrifica, le Erinni che rendono folli, Scilla che divora. Nel personaggio della Sfinge vediamo congiunti due aspetti in apparenza contraddittori: la saggezza e la crudeltà; è un mostro che uccide come una bel va, m a contemporaneamente un essere che conosce gli enigmi e quindi più che umano. Strano mostro dunque, un mostro intelligente. D ’altra parte, questi mostri femminili che porta no la morte con sé, sono talvolta immaginati anche come esseri seduttivi. L’unione di Eros e Thanatos, la voluttà dell’abbracciare la morte, è un evento che compare anche nel caso delle Sirene, e non manca neppure per la Sfinge: la dimensione erotica è quella che ebbe forse più fortuna nella pittura simbolista m oderna, da Gustave M oreau a Franz von Stuck.
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Nella versione più diffusa del mito antico, comun que, la Sfinge ha una funzione narrativa precisa: consentire il trionfale rientro in patria di Edipo e il compiersi dell’ultim a parte della profezia di Apollo. La Sfinge rappresenta l’orco delle fiabe da uccidere, il mostro che l’eroe deve sconfiggere con la propria astuzia - con la forza non potrebbe - per superare la prova iniziatica che gli consente il passaggio da uno status sociale all’altro, da giovinetto a uomo, da celi be a sposato, da outsider a re. Questo è proprio ciò che accade a Edipo: il giova ne vagabondo dopo aver decretato la fine della Sfin ge, diventerà re e marito, ottenendo in sposa la regi na di Tebe. A partire quanto meno da Sofocle, la sfida tra Edipo e la Sfinge si gioca su un duello di parole: il mostro propone un indovinello e uccide chi non riesce a rispondere. Forse nei racconti più anti chi la Sfinge non era così sottilmente omicida: si li mitava a rapire e a divorare ed Edipo la uccideva con la forza, come Teseo uccise il M inotauro. M a non possiamo saperlo. Torniamo ora al nostro racconto. Abbiamo dun que una città assediata da un mostro. Di fronte a questo flagello, i Tebani diffondono un pubblico
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bando in cui si promette la mano della regina Giocasta e il regno di Tebe a chi riesca a risolvere l’enigma e liberarli così dal mostro. Ed ecco che la macchina infernale fa un altro giro: Edipo, parricida inconsa pevole, nei suoi vagabondaggi si avvicina per caso a Tebe e si trova faccia a faccia con la Sfinge. Anche lui dovrà risolvere l’enigma, oppure morire. L’enigma è, senz’altro, il più famoso della storia; si diceva che a suggerirlo fossero state le Muse. A prim a vista non sembra molto difficile da risolvere: chi è l’animale che al mattino camm ina con quattro gambe, a mezzogiorno con due e alla sera con tre? L’uomo, naturalmente. L’indovinello, tuttavia, sem brerebbe alludere anche alla storia di Edipo: Edipotrovatello, il bambino che inizia a camminare a quat tro zampe, Edipo re che camm ina forte e fiero verso il suo destino, Edipo mendicante e vecchio che si appoggia al proprio bastone da cieco. Sempre lui, Edipo, l’uomo che la Sfinge stava aspettando per morire, perché forse - possiamo spingerci a immagi nare - era proprio questo che la Sfinge voleva, per dere la vita insieme al suo segreto. Una Sfinge scon fitta che si allontana um iliata da Tebe non è neppure immaginabile.
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Un matrimonio incestuoso Edipo indovina, come tutti sanno, e la Sfinge, vinta, si uccide gettandosi dalla sua montagna. I Tebani ora lo accolgono in trionfo, senza sapere che quest’uomo non è uno straniero, ma un cittadino, e che il giovane vittorioso e fiero della sua intelligen za è il neonato che un tempo era stato esposto, in segreto, a morire per mano di suo padre. Il talamo di Giocasta ora è pronto per lui: lo stes so letto in cui era stato partorito ora vedrà l’unione tra il figlio e la madre. L’incesto si è compiuto, ora la profezia di Apollo si è realizzata completamente, senza che nessuno ne sia consapevole. E Giocasta? Ciò che sorprende in questa donna è la passività. Il mondo delle eroine greche è ricco di personaggi eroici e passionali, che sanno prendere in mano il proprio destino e ne sono protagonisti: Elena abbandona il marito per seguire il suo grande amore, Medea uccide i figli per vendetta, Antigone sfida il potere a testa alta, e così molte altre. Giocasta, al contrario, accetta di non congiungersi più a Laio per proteggerlo dall’oracolo e poi che la possegga da ubriaco, sopporta ancora che suo marito esponga l’u
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nico figlio, non si preoccupa di cercare il suo assas sino, accetta nuovamente di essere messa in palio per il solutore dell’enigm a e di accogliere come sposo uno sconosciuto. Non c’è stato amore o corteggia mento: Giocasta è solo il premio di una gara, il mez zo di trasmissione del potere, quasi un oggetto, non la donna desiderata e scelta dal futuro sposo. Lo stes so Sofocle, grande creatore di personaggi femminili, sembra un po’ in imbarazzo con lei; nel dram m a in fatti compare come una figura scialba, che cerca di sopire e nascondere, di rassicurare Edipo, una donna pronta a subire tutto per quieto vivere. In un solo mo mento agisce con impeto, ma in modo autodistrutti vo, quando si suicida. Regnava un uomo e Giocasta sedeva al suo fianco, un altro uomo regna ora e Gio casta gli ha trasmesso il potere del marito; a prima vista sembra che la linea di successione legittima si sia interrotta e che il regno sia passato da un uomo di sangue tebano a uno straniero. Sembra: in realtà è passato dal padre al figlio, e tutti e due hanno posse duto Giocasta, ovvero - come si disse - «uno stesso solco ha accolto il seme del padre e del figlio». L’incesto tra Edipo e Giocasta, naturalmente, ha assunto un ruolo chiave dopo essere passato attraver
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so l’interpretazione freudiana del personaggio. Sa rebbe però fuorviante vedere qui, nel rapporto tra Edipo e Giocasta, la realizzazione di una morbosa sessualità - quella che per esempio Pier Paolo Paso lini presta ai due personaggi nella versione cinemato grafica delYEdipo re. Il tipo di rapporto che emerge dal mito, e in particolare da Sofocle, è quanto di più lontano dall’erotismo si possa immaginare: se l’ince sto è il segno di una potenza oscura e deviata della sessualità, questo certo non può essere dedotto dal testo sofocleo, dove anzi i rapporti tra Edipo e Gioca sta seguono la linea di un freddo e quasi distaccato rispetto. Edipo non dice una sola parola amorosa a Giocasta, o questa a Edipo. Essi si congiungono per volontà sociale e il senso del loro matrimonio non è l’eros ma, appunto, la regalità. L’Edipo greco ha dun que molto poco di edipico, dal punto di vista del rap porto emotivo con la figura materna: in effetti, Edipo non ama la madre-sposa se non nel modo in cui un cittadino della polis può amare una donna che si è presa in moglie, una donna sposata allo scopo di “arare figli legittimi” per la città e che completa la sua qualità di uomo adulto, e di cittadino. Chi s’ispira a un modello psicanalitico dovrà in-
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vece dim ostrare che Edipo sapeva, o intuiva, chi fosse Giocasta, nel momento in cui entrò nel letto di sua madre, ma è una ricerca vana. L’Edipo del mito greco non sa nulla di questo, e l’essenza della sua storia è appunto la terribile casualità del suo atto: non un atto consapevole, dunque, ma assolutamente involontario. Così la casa reale di Tebe ha preso for ma, con l’arrivo di Edipo, e sembra destinata a pro sperare nel tempo. N on è più una coppia sterile, com’erano Laio e Giocasta, ma una vera e propria famiglia. Ciò che nessuno ancora sa, tuttavia, è che quella di Edipo è una famiglia entro cui si realizza una specie di corto circuito, dato che ciascuno dei membri è in una relazione plurima con gli altri: madre-sposa-nonna (Giocasta); figlio-sposo-fratello (Edipo); figlio-fratello-nipote (i figli di Edipo). Il vertice di questo triangolo è appunto costituito da Edipo su cui convergono tutte le rette che invece avrebbero dovuto essere parallele. Giunti a questo punto, occorre almeno accennare a un tem a troppo importante nel mito di Edipo per essere trascurato, ma anche troppo ampio per essere sviluppato qui in modo sistematico, vale a dire quel lo dell’incesto, perché l’incesto è un grande proble
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ma antropologico. La specie umana, e le società che essa crea, prevede una barriera matrimoniale: ci so no unioni permesse e unioni vietate. Chi pensa che l’incesto sia contro natura sbaglia: si può dire piutto sto che è contro cultura, perché i divieti m atrim onia li assumono di volta in volta forma diverse. Esiste un’unione universalm ente riprovata, ed è l’incesto diretto (madre-figlio; padre-figlia; fratello-sorella). Ma poi i confini dell’incesto variano da cultura a cultura. Per i Romani, per esempio, erano interdetti, 0 fortem ente riprovati, i m atrim oni entro il sesto grado di parentela (regola che poi passò alla cultura cristiana); non ci si poteva dunque sposare nem m e no tra cugini. La civiltà greca propone un modello molto più endogamico. Ad Atene quando una ragazza rim ane va orfana, il primo pretendente era il fratello del pa dre, dunque lo zio paterno; erano legittimi persino i matrimoni tra fratellastri, purché non nati dallo stes so utero. Dunque, l’incesto e i suoi limiti variano da cultura a cultura. Questo tra gli uomini comuni. Tra 1 re e gli dèi, invece, cambiano le regole: il sangue reale o divino deve essere puro, perciò i faraoni spo savano le loro sorelle e, tra gli dèi, Zeus sposò sua
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sorella Hera. Nell 'Odissea, Eolo il re (o dio) dei ven ti ha dodici figli, sei maschi e sei femmine; ciascuno dei m aschi ha preso in moglie una sorella, e tutti vivono felicemente nello stesso palazzo e banchetta no insieme. Un caso di endogamia divina. Dunque, nel palazzo reale di Tebe si annida una famiglia incestuosa. M algrado tutto, però, si direbbe che ora Edipo si trovi nel punto più alto della sua parabola. Che cosa mai avrebbe potuto desiderare di meglio? Sono gli anni della gloria: è re, amato dai suoi cittadini che ha salvato dalla Sfinge, la sua fa m iglia cresce, le sue ricchezze si moltiplicano. Un benedetto dagli dèi che invece è maledetto. Giocasta, quasi sterile con Laio, diventa straordinaria mente prolifica. Q uattro figli nascono - secondo la tradizione più diffusa - dalle nozze incestuose: le femmine Antigone e Ismene, i maschi Eteocle e Po linice. Gloria, fama, potere. Ma dietro Edipo, o forse sarebbe meglio dire dentro di lui, si cela un’ombra orribile: il parricidio e l’incesto, un passato che pri m a o poi verrà alla luce. Nessuno lo può ancora sa pere, però; solo un uomo conosce questi segreti, ol tre ad Apollo, ed è il vecchio profeta Tiresia che sa tutto m a tace, e tacerebbe per sempre se dopo molti
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anni la m acchina infernale non si mettesse nuova mente in azione. Improvvisamente, a Tebe scoppiano una pestilenza e una carestia: muoiono gli armenti, nei campi si dis seccano le messi, i cittadini sono sterminati dalla ma lattia. Come sempre nell’antichità, questi eventi ven nero attribuiti a una causa soprannaturale, all’ira degli dèi per qualche offesa o contaminazione. Si fanno sa crifici, si supplicano le divinità, m a invano. Allora non resta che un modo: andare a consultare l’oracolo di Delfi, come si faceva abitualmente in questi casi.
Apollo torna a parlare Ed ecco che per la terza volta, ancora decisivo, torna a parlare Apollo: Edipo invia il cognato Creonte a interrogare la Pizia e questi torna con una risposta in apparenza rassicurante: «Il signore Apollo ci disse chiaramente di espellere la maledizione della regio ne, cresciuta in questa terra». Un uomo, un uomo solo: basta scacciarlo come un capro espiatorio e la città sarà salva. Ora sì che il dio di Delfi agisce nella sua funzione di divinità purificatrice: il suo messag
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gio dice che bisogna eliminare dalla città la conta m inazione. M a a ben vedere è stato proprio lui, Apollo, la causa prim a di questa contam inazione, quando tacendo e parlando a suo arbitrio, ha indiriz zato Edipo e Laio verso una serie di atti che hanno portato alla distruzione di chi l’aveva consultato. Laio! Molti anni sono passati: è un fantasma di menticato e ora sembra ritornare dal nulla per allun gare la sua ombra funesta sulla città. Perché non lo si è cercato prim a? Dom anda giustam ente Edipo. Perché Tebe era sotto la minaccia della Sfinge, gli risposero, altre cose più urgenti incalzavano. Forse - nessuno lo dice, m a probabilmente anche questo conta - perché un altro uomo ha occupato il suo let to, perché non ci sono figli che abbiano interesse a vendicare il padre; forse anche perché un uomo tor vo come Laio era poco amato dai Tebani. Ma la ri cerca va compiuta, e dovrà essere proprio Edipo a occuparsene. Prim a però pronuncia, come suo dove re di re, una maledizione solenne contro il colpevole e i suoi complici: invita pubblicamente l’assassino a denunciarsi, promettendo che non avrebbe subito al cun castigo se non l’esilio. M a se non si denuncia, dice Edipo, su lui e i suoi complici, su chi sa e non
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parla, calerà la maledizione più solenne: nessun cit tadino potrà parlargli, nessuno invitarlo a casa sua né offrirgli acqua o fuoco o cibo. Sarà un maledetto, un contam inato per tutta la vita. È una situazione crudele e terribile quella che si sta verificando: sen za saperlo, Edipo maledice solennemente se stesso! Il capro espiatorio che bisogna scacciare è proprio lui, re e vittim a nello stesso tempo. A questo punto, davanti al silenzio di tutta la città, Edipo inizia la sua attività di “detective”. Come scoprire un delitto vecchio di molti anni e avvenuto in un luogo ignoto? La prim a soluzione è trovare l’assassino per vie so prannaturali. A Tebe vive il più venerabile e ascolta to degli indovini, il cieco Tiresia, che per grazia di Apollo possiede un terzo occhio profetico. Edipo fa dunque chiamare Tiresia m a - almeno n eìYEdipo re di Sofocle - l’indovino si m ostra reticente, e irrispet toso, nel non dire e parlare solo per allusioni. Sa che davanti a lui non sta più il re di Tebe nel pieno del suo potere, ma un uomo sul ciglio di un precipizio. Edipo lo incalza, Tiresia tace, m a davanti alla rabbia del re che lo accusa di essere complice dell’assassi nio, sbotta gridando: «Tu, tu sei l’assassino, e non sai neppure chi sei, e se mi deridi perché sono cieco,
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sappi che tra poco il cieco sarai tu, e andrai in giro come un mendicante a tastare la terra col bastone». Tiresia, per quanto sgradevole e persino sadico, ha ragione, lo sappiamo: e non fatica ad avere ragio ne perché è un profeta ispirato da Apollo e può cono scere facilmente cose che gli altri dovranno scoprire con la loro intelligenza. Ha ragione anche nel dire che Edipo non sa chi è davvero, perché in effetti non lo si può definire in un unico modo: un re? Un trova tello? Il salvatore di Tebe? Un assassino? Un figlio incestuoso? Un poveraccio che tra poco sarà rifuggi to da tutti? Egli è tutte queste cose insieme. Di fatto, in quel momento, Edipo conosce di sé solo una parte, quella luminosa di giovane principe e poi di re di Tebe, di uomo che ha saputo sconfigge re un mostro ed ora è felice, ricco, potente, padre di una bella e numerosa prole, si direbbe intoccabile. M a non conosce ancora l’altra parte di sé, quella oscura che ora sta per venire alla luce, e tutto acca drà nell’arco di un solo giorno. Così gli suonano co me insultanti e persino folli, le parole con cui Tiresia si allontana da lui: «Q uest’uomo che ti sei messo a cercare con m inacce e proclami, l’assassino di Laio, è qui», grida rabbiosamente l’indovino. Dicono che
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è uno straniero, poi si scoprirà che è nato a Tebe, ma non avrà da rallegrarsi di questo. Diverrà cieco da vedente, povero da ricco, cam m inerà tastando col bastone la terra d’altri. E si scoprirà che per i suoi figli è insieme fratello e padre, e per la donna da cui nacque, figlio e marito, e per suo padre, compagno di seme e assassino. «Pensa a questo, mentre ritorni in casa» sono le ultime parole di Tiresia; «se dim o strerai che è tutto falso, di’ pure a tutti che io non so profetare». E di nuovo, sarà una semplice parola a muovere il suo animo. Edipo sospetta che Creonte e Tiresia complottino contro di lui e prende il cognato a male parole. Giocasta interviene per sedare la lite, ed ecco che il passato, rimosso da tempo, torna ad affacciarsi contro la volontà di tutti i personaggi. Giocasta chiede a Edipo la ragione della sua rab bia, e lo sposo le spiega che l’indovino Tiresia ha osato accusarlo di essere l’assassino di Laio, cosa, pensa lui, palesemente assurda. Come può avere uc ciso un uomo che neppure conosceva? Giocasta lo consola. Gli indovini, dice, non sanno ciò che dicono, parlano a caso. E vuole provarglielo. A questo punto, come le tessere di un mosaico, comin cia a comporsi davanti a Edipo l’agghiacciante verità.
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Un tempo - dice Giocasta - a Laio fu predetto che sarebbe stato ucciso da suo figlio. Allora fece esporre lo sventurato piccino su un monte, dove morì. Poi Laio fu ucciso da banditi all’incrocio di tre strade. Perciò niente di quello che era stato predetto si avve rò: né il figlio ha ucciso il padre, né il padre ha subito alcun male dal figlio. Noi conosciamo quale intreccio di eventi si sia veri ficato, e forse ne rabbrividiamo; ne rabbrividisce anche Edipo, che ancora non sa. Se Giocasta avesse sempli cemente detto “su una strada” o “lontano da Tebe” pro babilmente nessuna luce si sarebbe accesa nella mente Edipo. Ma specifica “incrocio di tre vie”. Perché? Un trucco del destino per svelare cose che si vogliono te nere segrete? Un caso? O Giocasta voleva dare un indi zio a Edipo? O forse, ancora, era stato proprio Apollo a mettere queste parole nella bocca di Giocasta?
Il dubbio e la ricerca Come un tempo le parole dell’ubriaco di Corinto gli diedero il tormento, così ora le parole di Giocasta, dette come per caso, lo gettano nello sgomento.
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Proprio lì, proprio a un incrocio, Edipo aveva ucci so un uomo, e questo lo ricorda bene. B asta una sola parola, quasi un lapsus, a cambiare un destino. Edipo racconta la sua storia m a non è ancora arri vato a collegare tutto; chiede che aspetto avesse Laio; «Era simile a te» gli risponde Giocasta. Già, un figlio e un padre spesso si assomigliano. M a perché allora G iocasta ha afferm ato che Laio è morto per mano di predoni e non di un solo aggressore? Q ue sto è il filo di speranza a cui si appiglia ancora Edi po: era solo a quell’incrocio e, se gli assassini di Laio furono molti, non può certo essere lui il colpe vole. Un solo uomo può conferm are i suoi sospetti: l’unico sopravvissuto alla strage, che ora fa il pa store sul monte. Edipo ordina che lo si faccia veni re, ma nel frattem po si affaccia un altro indizio al larm ante: quell’uomo chiese di essere m andato a pascolare greggi fuori da Tebe subito dopo che Edi po fu fatto re. M anca comunque un tassello, il più importante, per completare il puzzle. Infatti, anche ammesso che sia Edipo l’assassino del vecchio re, l’unico suo ca stigo potrà essere l’esilio da Tebe, dovrà lasciare la sua amata famiglia e portare con sé l’orribile m ac
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chia di avere condiviso la donna di un uomo del qua le ha versato il sangue. Come si completa questo tassello, come Edipo viene a sapere di essere parricida e incestuoso? Pos siamo ancora partire dalla versione di Sofocle, tragi camente perfetta. M entre Edipo è preso dalle sue angosce, arriva da Corinto un vecchio pastore portando un messaggio triste: Pólibo è morto di vecchiaia. Edipo è afflitto da un lato, ma sollevato dall’altro: allora non è vero quello che l’oracolo gli aveva preannunciato, non è un parricida! E G iocasta lo rassicura nuovamente, con la famosa frase che tanto colpì Freud: molti, di ce, sognarono di fare l’amore con la madre, m a que sto poi non avviene nella realtà. Così, anche, molti oracoli furono resi, ma non tutti si avverarono. Tocca al pastore rivelare, anche non volendolo, la verità, nella speranza di ottenere una ricompensa: Edipo non è figlio di Pólibo, dice, ma un trovatello, salvato un giorno sul monte Citerone, con i piedi fo rati; egli l’aveva ricevuto da un altro pastore, che pa scolava le greggi di Laio, e portato con sé a Corinto. Ormai Giocasta ha capito tutto, piena d’angoscia cerca d’impedire a Edipo di chiudere il cerchio con
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l’ultimo anello: non andare oltre, gli dice, non insi stere a voler sapere chi sei, basta la mia sofferenza. M a Edipo ormai vuole sapere, costi quello che costi. Sta infatti arrivando un secondo pastore, che è l’unico superstite del gruppo di servi che accompa gnava Laio quando fu ucciso e, per caso, lo stesso pastore che un tempo aveva salvato Edipo neonato e l’aveva consegnato al primo. Mettendo a confronto i loro racconti, Edipo capisce infine la verità e fugge inorridito nella reggia, dove Giocasta si è già rifu giata, dopo avere pronunciato le ultim e parole: «Sventurato, che tu non possa mai sapere chi sei». Questa scena emozionante si deve alla fantasia su blim e di Sofocle. Esistevano anche altre versioni, forse meno geniali, dello svelamento dell’identità di Edipo. Una viene da un antico poema, YEdipodia, che ci è giunto in frammenti. Secondo questa versione, dopo avere ucciso Laio all’incrocio fatale, Edipo gli tolse, come trofeo, il cin turone trapunto e la spada. Poi avvenne quello che doveva avvenire, Edipo sconfisse la Sfinge, divenne re di Tebe e sposò Giocasta. Molto tempo dopo, gli capitò di ritornare, insieme alla sposa, nello stesso luogo, mentre stava andando a fare sacrifìci sul mon
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te Citerone - lo stesso sul quale era stato esposto da bambino. Passando di lì, si ricordò di quanto era ac caduto quel giorno fatale e ne parlò alla moglie, per la prim a volta, mostrandole la cintura che aveva pre so a Laio. Giocasta la riconobbe subito, capì che aveva spo sato l’assassino di suo m arito m a lo tenne per sé. Accadde poi che il pastore che l’aveva salvato sul monte si presentasse al re sperando di avere una ri compensa; gli rivelò che cosa era successo tanti anni prim a e gli mostrò le fasce che aveva conservato e il punteruolo che era servito a forargli i piedi. Così av venne il fatale riconoscimento.
Perdere la vista M a torniamo a Edipo e Giocasta, che ora sanno tut to, e -àWEdipo re di Sofocle. Giocasta entra nella reggia, sbarra la stanza nu ziale e si getta sul letto che ha condiviso col marito e con il figlio, e sul quale ha partorito Edipo e i figli di Edipo. Tutti figli suoi, tutti mescolati in una razza nella quale ognuno di essi è figlio e fratello di suo
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figlio. E a lei cosa può restare ora, se non la vergo gna e il disonore? Invoca il nome di Laio, come non le capitava da molti anni, ricorda il momento in cui ha concepito Edipo, l’infelice, il maledetto dagli dèi. Edipo, che l’ha seguita nella reggia, fuori di sé, cer ca di entrare nella stanza sfondando la porta. Che vorrà fare? Ucciderla? Forse neppure lui lo sa. Quel lo che è certo è che Giocasta non potrà più sostenere il suo sguardo. Veloce, scioglie la lunga cintura ricamata, ne ap pende un capo a una trave del tetto, fa un cappio e s’impicca lasciandosi cadere dal letto. Edipo intanto ha sfondato la porta ed è entrato. Vede la m adre-spo sa penzolare m orta da quel laccio, scioglie la cintura e depone il corpo sul letto. Poi, in un assalto di furia rabbiosa, la stessa che un giorno l’aveva portato a uccidere quello sconosciuto all’incrocio, strappa gli spilloni d’oro che ornavano la veste di Giocasta e se li pianta negli occhi, una volta, due volte, molte volte. Con le orbite cieche e insanguinate esce barcol lando dalla reggia e si presenta ai suoi cittadini, al colmo del dolore e della miseria. Possiamo im m agi nare l’effetto che questa apparizione fece sul pubbli co che assisteva per la prim a volta alYEdipo re sui
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gradoni del teatro di Atene, sotto FAcropoli: ciò che Aristotele definiva “pietà e terrore”, il fine supremo per il quale una tragedia greca veniva scritta. O ra è maledetto, cieco, contaminato, l’ombra di se stesso: fino a quella m attina si era potuto conside rare il più felice degli uomini. Ora andrà in esilio, come un capro espiatorio, solo, miserabile, maledet to. Così Sofocle chiude la sua tragedia: «Cittadini della m ia patria, Tebe, guardate Edipo che risolse l’enigm a famoso ed era un uomo potentissimo, a cui non c ’era cittadino che guardasse senza invidia. Guardatelo: in che abisso di m iseria è precipitato. Perciò non chiamate felice nessuno dei mortali che attendono di vedere il loro ultimo giorno prim a di vedere se morirà senza avere sofferto dolori». Edipo, dunque, nella prospettiva tragica, è il m o dello perfetto della caduta, in cui si risolve l’essenza del tragico: la sventura, il destino attendono in ogni momento di compiersi; nessuno è al riparo, per m i steriosi motivi la grandezza può crollare, la fortuna cambiare e non c’è nulla che possa rim anere saldo e sicuro per sempre. Come diceva Erodoto, contempo raneo e amico di Sofocle, i fulm ini cadono sulle querce più alte; gli dèi e il destino sono qualcosa di
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“invidioso e sconvolgente” e solo così gira la ruota della vita e procedono le cose umane. Questa, in fondo, è la grande lezione della tragedia greca. Ma, quella appena descritta, non era l’unica ver sione della fine di Edipo. L’Edipo più antico, quello ricordato da Omero in un passo dell 'Odissea, non finiva così. Dopo che la verità era stata portata alla luce - e Omero non dice come - Edipo non si accecò ma continuò a regnare su Tebe; la sua sposa - che in Omero si chiama Epicasta - s’impiccò ma lui rim ase sul trono, roso dalle sue angosce, tormentandosi per quanto aveva involontariam ente compiuto. Come afferma Omero: per tutta la vita fu perseguitato dal le Erinni della madre che si era uccisa per lui e, pro babilm ente, lo aveva m aledetto prim a di m orire. Morì dunque da re, e quando fu morto, si celebraro no in suo onore grandi giochi funebri, per partecipa re ai quali accorsero i più nobili atleti da tu tta la Grecia, giochi che rim asero famosi. Altri racconta vano che dopo la morte di Giocasta, Edipo ebbe al tre due mogli, Eurigania e, dopo la morte di costei, A stim edusa. D ue figure sbiadite, per noi, di cui null’altro si ricorda. Edipo dunque, in questa versio ne, non si accecò né fuggì da Tebe.
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Altre versioni del mito risparmiano anche Giocasta. Alcuni sostenevano che la misera donna non si fosse uccisa dopo avere saputo di essere la madre di suo marito; e che, dopo la morte di Edipo, avesse cer cato di tenere unita la famiglia e soprattutto tentato di mediare tra i due figli-nipoti, Eteocle e Polinice, per evitare che si mettessero in guerra tra loro. Il poeta li rico Stesicoro racconta questo, in un poema frammen tario ritrovato su un papiro: siccome i due figli di Edi po, dopo la morte del padre, non riuscivano a mettersi d’accordo per l’eredità, Giocasta insieme al vecchio Tiresia - questa volta un Tiresia “buono” - tentò di conciliare la lite. Quello che avvenne è noto: Eteocle e Polinice avevano ereditato la natura violenta di tutti i maschi della famiglia e finirono per uccidersi tra loro. Sembra dunque che in origine il triste caso di Edipo fosse visto, più che come un delitto, come un incredibile gioco del caso. Non sempre l’Edipo re di Tebe fu un miserabile cieco costretto all’esilio. In una tragedia di Euripide, le Fenicie, i quattro superstiti protagonisti della vi cenda sono ancora insieme. Edipo si è accecato e vive recluso tra le mura domestiche, a rodersi per le sue sventure; Eteocle ha preso il potere; Polinice co
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manda un esercito accampato sotto le m ura di Tebe e Giocasta assiste impotente agli avvenimenti. Eteocle e Polinice si affrontano in una “singoiar tenzone” davanti agli occhi di tutti; nel duello finiscono en trambi feriti a morte e Giocasta, disperata, esce dalle mura e si suicida con la spada di un figlio, cadendo riversa sui loro corpi. Solo a questo punto, come un mostro che sbuca dal suo covo, compare Edipo, gon fio di rancore e di odio verso il mondo: verrà caccia to in esilio come un mendicante, e Tebe si libererà per sempre di lui e di questa famiglia maledetta. Di Sofocle e della tragedia che ancora rende im mortale il suo nome abbiamo già lungamente parla to; va ricordato però che la stessa scena di acceca mento fu raccontata dal suo “collega”, Euripide, del la cui opera restano solo frammenti. Anche nell 'Edipo euripideo l’eroe veniva privato della vista, m a a farlo non erano le sue m ani dispe rate: in un passo di questo dram m a si racconta che, quando si scoprì che Edipo era l’assassino di Laio, i fedeli servitori del vecchio re gli tesero un agguato, lo im m obilizzarono e gli strapparono gli occhi; qualcuno di loro infatti raccontava: «Noi afferram mo il figlio di Pólibo, lo gettammo a terra e gli strap
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pammo gli occhi». In un altro frammento della stes sa tragedia, Giocasta si vanta di aver saputo accom pagnare fedelmente lo sposo nella sciagura, dividen do il dolore con lui. Un Edipo cieco, dunque, ma contro la sua volontà; un Edipo non roso dai rimorsi ma vittim a dell’odio altrui e che precipita nella cecità ancora prim a che le sue colpe emergano, visibili a tutti: è chiaro infatti che, nel momento della loro vendetta sommaria, i servitori di Laio pensavano di avere a che fare con il “figlio di Pólibo” e dunque la vera identità di Edipo era ancora ignota. Forse, a istigarli, era stato il tradi zionale nemico di Edipo, Creonte, fratello di Gioca sta, che nella tragedia occupa il ruolo del politico ambizioso per eccellenza, se non persino del tiranno: questa ipotesi trova un sostegno nella scena dipinta sopra un’urna etrusca di Volterra che raffigura il m i to di Edipo e che potrebbe con molta probabilità es sere stata desunta dalla tragedia euripidea. Sul vaso si vedono due soldati tenere fermo un uomo inginoc chiato, certamente Edipo, mentre un terzo gli sta ca vando gli occhi con un pugnale. Sulla sinistra si indi vidua un uomo in piedi in atteggiamento compreso e solenne - forse Creonte dall’altro lato del vaso due
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bambini, i figli di Edipo, piangono strappandosi i ca pelli e una donna, Giocasta, si precipita disperata sulla scena, a stento trattenuta da un servo. Se questa ricostruzione è fondata, l’accecamento di Edipo avveniva in seguito a una congiura fam ilia re in cui Creonte si assunse il compito, come parente più vicino all’assassinato, di vendicarne la morte e, nello stesso tempo, non si lasciò scappare l’occasio ne per impadronirsi del regno. In tutti i casi, neWEdipo di Euripide, la rivelazio ne dell’incesto avveniva in modo diverso: a renderlo noto, provvede la madre adottiva Mérope, venuta a Tebe per annunciare la morte del marito; è lei a rive lare a Edipo i segreti della sua infanzia, e a spiegar gli come era stato trovato e accolto. A ll’Edipo di Euripide m ancava quindi l’oscuro tormento e l’ansia di ricerca che fanno grande l’eroe sofocleo. Una tragedia dovuta al cieco caso, quella euripidea, il cui valore doveva consistere nella capa cità di costruire un intreccio complicato e ricco di colpi di scena, come avviene spesso nei dram m i eu ripidei dell’ultim o periodo. Potrem mo persino so spettare che, in una polemica indiretta con Sofocle - come spesso avviene nelle sue opere teatrali - , Eu
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ripide tendesse a svilire il personaggio che aveva fat to la gloria del suo rivale: del resto, anche nell’altra circostanza in cui si riaffaccia, nel dram m a le Feni cie, l’Edipo cieco e gonfio d’odio che compare nella scena finale appare come un individuo più ripugnan te che infelice, di sicuro lontano dalla grandezza am bigua e tremenda che emana nella tragedia sofoclea.
Morte di Edipo Torniamo ora a seguire la strada più battuta e famo sa del mito, quella percorsa da Sofocle. A più di no v an tan n i egli scrisse il suo ultimo dram m a e lo de dicò, ancora una volta, a Edipo: YEdipo a Colono, ispirandosi a una leggenda ateniese. Ad Atene infat ti si raccontava che il sepolcro di Edipo si trovasse in un boschetto appena fuori dalla città, consacrato al le Eumenidi, le dee della punizione nell’aspetto be nevolo, possiamo dire le dee del placamento. Edipo, cieco e mendicante, arriva alla fase finale della sua vita, accompagnato dalla figlia Antigone; accolto ad Atene dal pio re Teseo, ritrova una patria e muore pacificato nel boschetto sacro, in modo m i
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sterioso: diventerà un eroe protettore della città, e sul suo sepolcro si celebreranno offerte. Da reietto a divinità del sottosuolo: questa è la sua parabola, l’a biezione precede la santificazione. Tuttavia quello di Atene non era l’unico “sepol cro di Edipo” di cui si raccontava. Secondo un anti co commentatore di Sofocle (scolio a Sofocle, Edipo a Colono, 91), quando Edipo morì a Tebe - e non, come vuole Sofocle, in A ttica - i suoi parenti aveva no intenzione di seppellirlo nella terra paterna, ma i Tebani vietarono che i resti di un uomo tanto impu ro contam inassero la loro città. A llora i fam iliari trasportarono il corpo in un sito della Beozia chia mato Keos e ve lo seppellirono; avvenne però che gli abitanti di quel villaggio fossero perseguitati da una serie di disgrazie che naturalmente furono attri buite alla scomoda presenza della tomba di Edipo, e al suo fantasma inquieto, perciò imposero ai fami liari di trasferirlo altrove. I familiari di Edipo finiro no per trasportarlo in un luogo di frontiera tra la Beozia e l’Attica, chiamato Eteono, dove lo seppelli rono clandestinamente, di notte, per evitare che gli abitanti si opponessero, senza sapere che in quel sito sorgeva un recinto consacrato a Demetra. Grande fu
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lo scandalo, quando la cosa si riseppe; gli abitanti di Eteono inviarono a Delfi una delegazione per sapere che cosa avrebbero dovuto fare; in quella circostan za Apollo fu più pietoso col morto di quanto era sta to col vivo, tanto da decretare che «non bisognava disturbare il supplice della dea (Demetra)».
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Così Sofocle chiude la sua tragedia: «Cit tadini della mia patria, Tebe, guardate Edi po che risolse l’enigma famoso ed era un uomo potentissimo, a cui non c’era citta dino che guardasse senza invidia. Guarda telo: in che abisso di miseria è precipitato. Perciò non chiamate felice nessuno dei mortali che attendono di vedere il loro ulti mo giorno prima di vedere se morirà senza avere sofferto dolori».
Edipo potè infine trovare la sua quiete in quel sito e il luogo del sepolcro divenne uno spazio sacro che l’eroe tebano condivideva con la dea delle messi. Anche in quel luogo riceveva offerte, come si usava fare con i morti sacri e gli eroi: una lontana anticipa
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zione del culto dei santi cristiani. Nel frattempo, sul finire della vita, i suoi sensi di colpa si erano placati; «Io - diceva - quello che ho fatto, uccidere mio pa dre e sposare m ia m adre, l’ho fatto involontaria mente. M entre chi mi ha fatto del male, i miei geni tori, l’hanno fatto ben consapevoli di ciò che stava no facendo». Non è più Apollo o il destino ad averlo guidato; ora ha finalmente capito che esiste anche il male subito, oltre a quello inflitto. Questo Edipo tragico è un personaggio davvero commovente e solo, ed è l’esempio di come l’infeli cità possa bussare alla porta di chiunque, senza una ragione che la giustifichi. Comunque fosse morto Edipo, in patria o ad Ate ne, da re o da mendicante, la sua storia non si ferma qui. La maledizione che grava su questa famiglia si proietta anche sui figli, Eteocle e Polinice. Edipo al larga la sua ombra sulla sua discendenza sciagurata. A lla sua morte, o prim a ancora, i due figli hanno cominciato a dividersi e litigare per l’eredità del pa dre. Quello che è certo è che Edipo li maledisse e augurò loro la morte. Le ragioni di questo atto di crudeltà sulla sua stessa stirpe non sono molto chiare. Alcuni sostene
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vano che Edipo avesse maledetto i figli quando, an cora nella reggia, era stato offeso da loro, anche in questo caso per un motivo abbastanza futile, l’aver gli offerto la parte poco nobile di una vittim a, du rante un banchetto, una zampa, in segno di sfregio. Vi dividerete la m ia eredità in modo uguale, aveva detto: a ognuno toccherà la stessa porzione di terra, quella in cui sarà sepolto. Così uscì di scena, iroso e corrucciato: quasi la copia di quel Laio che aveva cercato di ucciderlo appena nato. No, non era un bel destino nascere in quella fam iglia ed essere figli di tali padri. Così infatti avvenne: Eteocle e Polinice iniziarono a liti gare per il regno; decisero di dividersi il potere, re gnando un anno ciascuno. M a quando toccò a Ete ocle cedere il potere al fratello, si rifiutò e lo m an dò in esilio. Così Polinice si rifugiò ad Argo, rac colse un’arm ata e tornò per conquistare Tebe. Sette porte aveva la città, sette condottieri guidavano gli assedianti; alla settim a porta, nel cuore della batta glia, i due fratelli si affrontarono faccia a faccia e si trafissero a vicenda. Così finì la fam iglia di Edi po. N on tutta: restavano le figlie, restava Antigone. E questo è un altro mito!
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Edipo da Aristotele a Freud La nostra epoca è una consumatrice di miti; non tanto perché li crea, quanto perché li riutilizza e continuamente si ispira a essi. Del resto funziona sempre così: un mito è fatto per essere raccontato, e ogni volta che 10 si racconta cambia un po’. L’Edipo di Omero è di verso da quello di Sofocle, e l’Edipo di Seneca è anco ra differente. Il nostro, diverso ancora. Ogni epoca cerca risposte nuove dal medesimo mito, perché - use remo, il lettore ce lo permetta, le parole di Aristotele un mito tende all’universale, la storia al particolare. In questo universale è compreso tutto, ci sono tutte le possibili storie sullo stesso soggetto e una quantità di significati diversi che di volta in volta si manifestano, sempre nuovi. Altrimenti, non sarebbe un mito. Lo possiamo verificare anche per i due personag gi del mito greco su cui l’epoca m oderna ha proietta to un aspetto fondamentale della propria visione del mondo: sono un padre e una figlia, Edipo e A ntigo ne. Per la cultura ottocentesca, infatti, Antigone era 11 simbolo del naturale im pulso dell’essere umano verso l’afferm azione della legge morale: «Io sono nata per am are e non per odiare» dice allo zio
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Creonte, che sta per condannarla a morte. L’unico essere predisposto all’amore in una famiglia gron dante d’odio. «Le tue leggi umane non possono an dare contro quelle antichissime, stabilite dagli dèi», gli dice, leggi che ognuno sente dentro di sé: il cielo stellato sopra, la legge morale dentro, questa era l’in terpretazione idealista di Antigone che si sacrifica per seguire il suo “giusto”. Il padre Edipo, invece, diviene per il Novecento - un secolo segnato da sangue e violenza - il m ani festo di una visione diversa dell’individuo, l’eroe dall’identità frustrata, un uomo in cui si agitano istinti ingovernabili. È proprio così: si deve a Edipo un certo uso moderno del mito greco. L’Edipo del Novecento ha un padre che lo riporta alla luce: Freud, un uomo fondamentale nella storia della cultura con temporanea, ora a distanza di un secolo lo capiamo bene, non meno grande di quanto lo sia stato Sofo cle, il creatore di Edipo nella storia della letteratura. M a dopo Sofocle e prim a di Freud, incontriamo un altro uomo che ebbe un peso determinante nella storia del pensiero occidentale e che si occupò, anch’esso, di Edipo: Aristotele. UEdipo re era per Aristotele - lo scrive nella Poetica - il modello perfetto di tragedia,
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e il mito di Edipo l’esempio inimitabile di una narra zione commovente ed emozionante: «Basta solo sen tirla raccontare - scriveva - e si provano le emozioni più tipiche della tragedia: terrore e pietà». Edipo fu vittima inconsapevole dei propri errori, perché ignorava quale fosse la sua vera nascita. Que sto lo rende degno di pietà: non era un uomo comple tamente buono ma neppure malvagio, uno come tanti quindi, eppure l’intreccio degli eventi lo travolse. Nella triste vicenda di questo eroe si può scorgere il gioco del destino che in modo imperscrutabile muove la vita di un uomo, come se veramente non fosse la sua volontà a dirigerlo. Certamente Edipo fu condi zionato dagli oracoli di Apollo. Fu, tuttavia, condotto a fare ciò che fece anche dalle proprie scelte e dai propri istinti; da un lato ci sono le azioni, dall’altro la volontà. Edipo non vide e non capì: questo fu - dice Aristotele - la sua vera colpa. Meno che mai quest’uo mo comprese se stesso e, possiamo aggiungere, se non quando i giochi erano fatti, il senso di quello che gli stava accadendo. E forse il senso non c’è proprio. È accaduto: inutile cercare una spiegazione o una ra gione, e nemmeno incolpare gli dèi. I quali comun que mai forniscono spiegazioni per il loro agire!
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Ecco uno dei punti su cui la tragedia di Edipo induce a riflettere: l’assurdità del dolore e - se pos siamo prendere a prestito la famosa definizione di H annah Arendt - la banalità del male. Edipo soffre e fa soffrire, eppure non è del tutto colpevole, m o ralmente. La sua è una colpa involontaria. Ha ucciso un uomo, ma era stato aggredito: ogni tribunale an tico l’avrebbe assolto, e forse anche un tribunale m o derno. Perché, dunque, un uomo precipita, con o senza colpa, perché persino gli dèi, persino Apollo, decretano che un innocente, un uomo che ha salvato una città, come fece Edipo, e ha fatto di tutto per evitare gli eventi predetti dall’oracolo, patisca quello che gli è toccato patire? Il mito di Edipo incrocia il problema della colpa con quello della sofferenza, e afferma che l’una è indipendente dall’altra. Non c’è una giustizia, non c’è un compenso e, tutto somma to, nemmeno una spiegazione. Forse tutto avviene per caso. O forse non è così. Non sappiamo, non sa premo mai. Molti secoli dopo A ristotele, la stessa tragedia diventa esemplare nell’opera di Freud e, del resto, se si leggono le pagine che egli ha dedicato al “suo” Edipo, è difficile non avvertire l’emozione che l’austero scienziato viennese provò scrivendole.
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Fondando la psicanalisi, Freud scelse proprio l’Edipo del dram m a greco come simbolo di un altro ge nere di dram m a, che ogni uomo interpreta, senza saperlo, in una parte segreta della propria mente: la storia del re di Tebe si può dunque considerare il mito di fondazione della psicanalisi. «Se il re Edipo - scriveva Freud we\YInterpreta zione dei sogni - riesce a scuotere l’uomo moderno non meno dei Greci suoi contemporanei, la spiega zione può trovarsi soltanto nel fatto che deve esiste re, nel nostro intimo, una voce pronta a riconoscere la forza coattiva del destino di Edipo [...]. Il suo de stino ci commuove soltanto perché sarebbe potuto diventare anche il nostro, perché prim a della nostra nascita l’oracolo ha decretato la medesima maledi zione per noi e per lui». Nell’Edipo di Freud, i grandi temi della tragedia greca sembrano prendere un’altra via, eppure resta no ben riconoscibili: la colpa inconsapevole di Edi po diviene un istinto inevitabile, che lo induce a eli m inare il padre per giacere con la madre; il Fato decretato da A pollo si trasform a nell’Inconscio, compagno di vita di ogni uomo, con le sue voci am bigue che spingono là dove non si sarebbe creduto di
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andare. È appunto questo, ciò che, da un certo m o mento in poi, fu definito “complesso di Edipo”. A n che se il concetto di “complesso di Edipo” si precisa successivamente, nel pensiero di Freud - non prim a del 1910 - , il dialogo tra lui e il “suo” Edipo era ini ziato assai prima. Il “nuovo” Edipo, che Freud inau gura e che accompagna il Novecento, delinea un ti po di uomo inquietante perché in lui si m anifesta un intreccio di forze davanti alle quali la volontà consa pevole è disarmata; di forze in conflitto tra loro, che rendono vana la volontà di essere come si è deciso di essere e anche come si è convinti di essere. Edipo riteneva di essere un re, m a era un trova tello e un p arricida senza saperlo. Pensava che A pollo lo guidasse e invece lo stava ingannando. L’alto e il basso in lui si mescolano. Chi di noi può dire di essere padrone della propria volontà sino in fondo, e non essere invece, poco o tanto, condizio nato dalle forze che stanno sopite dentro una parte della mente, e potrebbero, nella m aniera più im pre vedibile, m anifestarsi e condizionare la volontà, come avvenne in quel fatale incrocio in cui Edipo, preso dalla rabbia, uccise il padre? Chi di noi può pensare di interpretare gli oracoli di Apollo, quelli
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che vengono dalla parte alta dell’anim a, e non esse re deviati nel cam m ino, come Edipo lo fu per non averli compresi? Non sempre, per fortuna, vi sono incroci in cui ci si im batte nel padre e lo si uccide; ma non sempre Apollo orienta il cam m ino verso la conoscenza di sé. C erto Edipo uccide Laio senza saperlo: e dun que non riconosce in quell’uomo il proprio padre. Q ualcosa, tuttavia, li muove l’uno contro l’altro, a quell’incrocio, qualcosa di inevitabile e di incon scio, che era stato decretato da una forza superio re. Edipo non sapeva chi avesse davanti e quindi la te o ria di F reud non si può ap plicare, p erché quell’uomo per lui non era il padre. Era stato, p e rò, portato sin lì non per caso: stava cercando suo padre, altrim en ti non sarebbe andato a D elfi a consultare l’oracolo. La rabbia che afferra i due uom ini a quell’incrocio viene da lontano, non sap piam o da dove. Q uesta im provvisa ondata di vio lenza ha qualcosa di folle: la follia dell’ora m eri diana, la follia della cam pagna deserta, la follia degli spazi solitari dove è facile essere “posseduti dalle ninfe”. Gli incroci erano appunto i luoghi in cui si pensava che, n e ll’ora del m ezzogiorno, le
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ninfe si ritrovassero e ogni uomo, che si trovasse in quei luoghi, correva il rischio di essere assalito da una di loro, con la conseguenza di am m alarsi o perdere la ragione; per questo motivo, la religione popolare prescriveva di posare, nel punto in cui tre strade s’incrociano, pane, miele e latte per pla care le ninfe. Lo scontro tra Laio ed Edipo sembrerebbe una m anifestazione del delirio di uom ini posseduti dal le ninfe, se non fosse stato preparato da tanto tem po nella mente degli dèi. Eppure, la furia che sca tena i due viandanti l’uno contro l’altro stupisce, tanto pare assurda: i due uom ini sono accecati dal la rabbia, ciascuno di loro agisce come in trance, senza rendersi conto delle conseguenze delle pro prie azioni: «Niente pane propiziatorio in quell’in crocio, niente miele, latte, uova, nessun cibo dell’a nim a a quell’incrocio - scrive James H illm an - [...] erano, entram bi quegli uom ini, vulnerabili alla fol lia delle ninfe, a ll’om bra m eridiana, a quell’alta follia solare detta “superbia”, vittim e di una m an canza, un’assenza d ’anim a, o di u n ’A nim a, psico logicam ente inetta?». La storia dell’eroe che uccide il padre per giacere
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nel suo stesso talamo con la madre, si trasform a, nel pensiero di Freud, in un modello applicabile a ogni situazione psichica. Il “nuovo” Edipo che prende forma nel N ovecen to ha però, oltre a Freud, un secondo padre. Nel no no capitolo della Nascita della tragedia, Nietzsche gli dedica alcune parole importanti: ne fa l’esempio dell’uomo che infrange le convenzioni sociali e m o stra come la sapienza e la conoscenza siano in real tà un delitto contro la natura. Edipo ha violato la legge dell’individuazione, secondo la quale un uo mo non può essere altro che se stesso: si scoprirà, invece, che quest’uomo è, nello stesso tempo, il cri minale e il salvatore, un uomo che infine si riscatta passando attraverso il cerchio del dolore e dell’illu m inazione, dopo avere visto il tetro fondo di se stesso. L’eroe del YEdipo a Colono è per Nietzsche una figura completamente diversa: «Il vecchio so verchiato dalla m iseria e che accetta come soggetto passivo tutto ciò che lo domina, spande una divina serenità che ci dice come l’eroe raggiunge una for ma superiore di attività col suo contegno passivo, laddove il suo conscio e deliberato sforzarsi e trava gliarsi nel corso della sua precedente esistenza non
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lo ha condotto altro che alla passività». È difficile, per noi, parlare di Edipo senza vedere dietro di lui apparire l’om bra di N ietzsche e ancora di più di Freud, e parlare dell’Edipo greco senza proiettare su di lui l’ombra dell’Edipo novecentesco. I miti, in fondo, si possono leggere nelle due direzioni: par tendo dall’antico per arrivare al moderno, ma anche viceversa. Che Sofocle, col dram m a di Edipo, abbia aperto la via che ha portato a queste riletture è il segno della sua grandezza, della grandezza della tragedia greca e anche della capacità del m ito di produrre significati sempre nuovi, in ogni epoca.
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La prim a testim onianza pervenutaci della soprav vivenza del mito di Edipo al di fuori della cultura greca è un’opera divenuta a sua volta punto di rife rim ento fondamentale per le successive rielabora zioni teatrali, fungendo da modello tanto quanto lo è stato il testo di Sofocle: YEdipo di Lucio Anneo Seneca databile intorno alla m età del I secolo d.C., a cui si aggiungono - m a con un peso meno rile vante - le Fenicie, opera incom piuta dello stesso autore, che tratta la tem atica dell’omonimo dram m a euripideo, parte della celebre trilogia di cui le due restati opere, Enomao e Crisippo, sono oggi perdute. Il m ito del re di Tebe, godette del resto di una singolare fortuna presso gli esponenti della ca sata imperiale: Giulio Cesare aveva scritto un Edi
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po, che non si conservò perché A ugusto dispose che l’opera fosse bruciata, secondo la testim onian za data da Svetonio nell’opera Vite dei Cesari, Li bro I; Nerone, poeta e attore più che dilettante, ave va nel suo repertorio prediletto arie sul tem a “Edi po accecato” come testim onia sempre Svetonio in Vite dei Cesari, Libro VI. Il tem a dell’incesto era per gli im peratori della casata giulio-claudia qual cosa di più di un semplice interesse poetico. Storici e cronisti dell’epoca alludono con insistenza scan dalistica ai m atrim oni fra consanguinei, assai abi tu ali per questi im peratori: C laudio sposò, con pubblico scandalo, A grippina, figlia di suo fratello Germanico; a Nerone fu data in m atrim onio O ttavia, figlia del padre adottivo Claudio; dei rapporti tra N erone e la m adre A grippina, Tacito traccia, nei suoi Annali, un quadro che possiamo definire morboso, riferendo dei tentativi di seduzione ope rati dalla m adre nei riguardi del giovane figlio, al quale si m ostrava sovente discinta, dopo averlo fat to ubriacare. CEdipo di Seneca non è certam ente l’eroe sofferente ma, a m odo suo, grande della tra gedia di Sofocle, bensì un personaggio torbido e nevrotico, a cui m anca il rovello del dubbio e la
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nobiltà intellettuale del m odello greco. Segue in modo virtuosistico il modello sofocleo, di cui m an tiene gli elementi fondam entali della tram a, com preso l’accecam ento finale, m a introduce alcune scene fosche e sanguinarie, tipiche dello stile tragi co di Seneca e più fam iliari alla cultura rom ana dell’epoca: esem plari sono la grande scena neoro m antica nella quale l’anim a di Laio viene evocata perché denunci il figlio quale suo assassino e la scena divinatoria durante la quale M anto, figlia di Tiresia - personaggio introdotto ex novo, nella tra ma, da Seneca - disseziona una vittim a sacrificale, la più ampia trattazione dram m atica di scena divi natoria presente nel teatro antico. A ncora u n ’opera della letteratura latina del I seco lo d.C., rilevante sul m ito edipico, in cui però l’eroe entra solo m arginalm ente, è il poem a epico Tebaide di Papinio Stazio, incentrato sulla guerra dei Sette contro Tebe: E dipo appare a ll’inizio, d all’oltretom ba, come fantasm a cieco e im placabi le persecutore dei propri figli, Eteocle e Polinice, im pegnati nell’assedio di Tebe e condannati a uc cidersi l’un l’altro, proprio a causa della m aledi zione del padre.
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Edipo nel Medioevo L’Edipo medievale è soprattutto un Edipo folklorico, legato a versioni orali della storia del fanciullo incestuoso, che m uta nome e diviene di volta in volta G regorio M agno, G iuda Iscariota, A ndrea Cretese e molto altro ancora. La scom parsa della conoscenza della lingua greca nel medioevo latino, del resto, fu causa dell’oblio della tragedia di Sofo cle; e poiché anche il Seneca tragico era poco dif fuso in età medievale - sebbene ne restino anche m anoscritti m iniati - la fonte principale per il mito edipico restava la Tebaìde di Stazio - con il com m ento del suo chiosatore L attanzio Placido. Le principali raccolte di mitologia compilate nel corso del Medioevo, come, per esempio, le Mitologiae di Fulgenzio, le Narratìones fabularum Ovidiarum e i cosiddetti Mitografi vaticani - riproposti nel 1831 in una celebre edizione a cura di Angelo Mai - , non fanno praticam ente cenno alle vicende dell’infelice re di Tebe. Talvolta però la storia di Edipo si riaf faccia in opere tardo-latine o volgari, in particolare a partire dal X II secolo, legate soprattutto a rilettu re della Tebaide di Stazio. Risale alla fine del X I
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secolo, la lamentazione Diri patris, scritta in tardolatino: è il pianto di un Edipo, vecchio e in attesa della m orte, che ripercorre le tappe della propria m isera vita ed enum era tutte le colpe che l’hanno reso celebre ai contem poranei, come ai posteri. Di circa un secolo più recente, e scritto in francese volgare, è il Roman de Thèbes: nell’opera, G iocasta vive per vent’anni insieme al figlio-sposo, scopre la sua identità durante un bagno, quando nota le cicatrici sulle caviglie di Edipo e gliene chiede ra gione - questo stesso elemento, responsabile dell’i natteso e im provviso riconoscim ento tra i due per sonaggi, si ritrova, in un passo interpolato, nel se condo Mitografo vaticano: dal suo racconto la regi na lo scopre come proprio figlio, diviene consape vole del parricidio e dell’incesto. A ltri testi che ri portano il m ito edipico in epoca tardo-m edievale sono YHistoire ancienne jusqu’à Cesar - composta agli albori del X III secolo - e YOvide moralisé - , anonim a trasposizione in versi, in lingua francese, delle ovidiane Metamorfosi, apparsa nei prim i anni del X V secolo. Anche il nostro G iovanni Boccac cio conosceva le vicende della casata reale di Tebe, di cui parla, a varie riprese, nel suo grande m anua
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le di mitologia, Genealogia deorum gentilium, ol tre che in altre due sue opere erudite, il De casibus virorum illustrium e il De mulieribus Claris.
Edipo dai Rinascimento all’Ottocento La vera rinascita di Edipo nella cultura occidentale avviene però durante il Rinascimento, quando torna no a essere nuovamente accessibili e studiati i capo lavori del teatro greco e torna a diffondersi anche il Seneca tragico. Edipo diviene nuovamente perso naggio teatrale, un eroe tipico da tragedia - «a mirror o f misery», come di lui scrisse il celebre dram maturgo inglese Christopher Marlowe - lungo una linea ininterrotta che lo collega ai giorni nostri. Nel Cinquecento la storia di Edipo è oggetto di varie ri scritture di stampo classicheggiante, generalmente prone al grande modello antico, dal quale esitano a distaccarsi; tra di esse, si possono citare un Edipo re di Alessandro Pazzi de’ Medici, del 1520, una Giocasta di Lodovico Dolce e infine YEdippo di Giovan ni Andrea dell’Anguillara, risalente al 1563, dram m a costruito contaminando le opere di Sofocle e di Se
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neca, dal quale riprende Manto, figlia di Tiresia, e la lunga scena divinatoria. Il dram m a si chiude con il suicidio di Giocasta, in una scena teatralmente mal destra sino alla goffaggine. Poco più che un esercizio di virtuosismo erudito è YEdipo, scritto nel 1580 in lingua latina, dall’inglese W illiam Gager. Verso la fine del Cinquecento il mito edipico diviene oggetto di cantate e corali, spesso in appoggio a rappresenta zioni del testo sofocleo: ne sono un esempio la com posizione corale apparsa nel 1585 a opera del vene ziano Andrea Gabrieli, e quella di Leone Leoni del 1615, entram be com poste per rappresentazioni de\YEdipo re di Sofocle al teatro Olimpico di Vicen za. Edipo in musica, lungo tutto il Seicento, continua a essere considerato un soggetto adatto a rappresen tazioni di corte; due dei grandi musicisti di quest’e poca, Jean Baptiste Lully e Henry Purcell, compose ro Paccompagnamento musicale di due tragedie che in questo periodo costituiscono il punto più elevato della rinata fortuna teatrale di Edipo: rispettivamen te, YOedipe di Pierre Corneille del 1659, e YOedipus di John Dryden e Nathaniel Lee, del 1679. La trage dia di Corneille rappresenta una svolta nella tratta zione teatrale del mito di Edipo; infatti, anziché ri-
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produrre rispettosamente i modelli antichi, com’era generalmente prassi della tragedia cinquecentesca, Corneille m odernizza fortem ente l’intreccio della tragedia, introducendo un elemento del tutto estra neo a Sofocle e a Seneca, m a essenziale per i gusti del pubblico dell’epoca: il tema amoroso. Corneille inventa un personaggio nuovo, attorno al quale co struisce un intreccio secondario: una figlia legittima di Laio e Giocasta che vive nella reggia di Tebe dal nome, squisitamente tebano, di Dirce. Costei, come una moderna Elettra, cova un sordo rancore contro la madre che si è presa per sposo uno straniero, che le impedirà l’accesso al trono, e contro lo stesso Edipo, che considera un usurpatore. Il nesso tra eros e pote re - tema centrale di questo e di vari drammi succes sivi - è completato dalla vicenda di Emone, al quale Edipo, vorrebbe dare in sposa Dirce. La giovane è però innamorata, ricambiata, del ben più nobile Te seo, re di Atene e si oppone alle nozze impostele. Di qui si dirama un complicato intreccio, dove accanto alla tram a principale, quella che ha come personaggi principali Edipo e Giocasta, si innesta il tema dell’a more tra Dirce e Teseo. Il testo sofocleo resta per Corneille poco più che un pretesto narrativo: di esso
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si conserva poco più che l’antefatto e il riconosci mento grazie all’incontro dei due pastori, il Corinzio e il Tebano, che un tempo avevano salvato il neonato esposto. Seneca è evocato nell’episodio oscuro dell’apparizione del fantasm a di Laio - una scena spesso ricorrente anche in rielaborazioni moderne del mito edipico. Il dram m a si chiude positivamente per il protagonista: Edipo, infatti, si autolegittima al potere quando scopre che nelle sue vene scorre non il sangue di uno straniero, ma quello legittimo della ca sata reale. Si sarebbe del resto mai potuto immagina re, nel Grand Siècle di Luigi XIV, che un dram m a turgo osasse mettere in scena un re privato del pote re, um iliato e costretto all’esilio? Corneille si era proposto, nel suo misurarsi con il massimo modello della tradizione antica, di costruire, seppure sulla ba se della tradizione, un’opera d’arte originale e riuscì nell’intento: il suo Oedipe, a sua volta, costituì un’o pera destinata a diventare classica, un modello per i canoni del nuovo linguaggio tragico. Con YOedipe di Corneille non può rivaleggiare YEdipo apparso nel 1661, per mano del letterato piemontese Emanuele Tesauro, vissuto alla corte dei Savoia, noto e stimato per la grande erudizione e la sua attività di critico
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letterario - fu autore tra l’altro del Cannocchiale ari stotelico pur nell’angustia dell’afflato creativo, YEdipo di Tesauro segna un colpo d’ala nel campo delle riprese tragiche italiane di questo tema. L’autore se gue abbastanza fedelmente il modello sofocleo, su cui innesta, sull’esempio di Corneille, ma cautamen te, una trama secondaria di carattere amoroso: un idil lio sbocciato tra Antigone e Creonte - che la tradizione voleva nemici, se non addirittura l’uno assassino dell’altra - che tuttavia non trova nel dramma quel pie no sviluppo che avrebbe contribuito a una maggiore originalità del tessuto drammatico dell’opera.
Edipo diviene nuovamente personaggio teatrale, un eroe tipico da tragedia - «a m irror o f misery», come di lui scrisse il celebre drammaturgo inglese Christopher
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Marlowe - lungo una linea ininterrotta che lo collega ai giorni nostri. Nel Cinquecento la storia di Edipo è oggetto di varie riscrit ture di stampo classicheggiante, general mente prone al grande modello antico, dal quale esitano a distaccarsi.
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Uno dei capolavori del teatro inglese del periodo della restaurazione è invece YOedipus di John D ryden e N athaniel Lee, del 1679, adattam ento delYEdipo re di Sofocle, dove però il modello sofo cleo si fonde con un modello fondamentale del tea tro moderno, quello shakespeariano. A ll’immortale Shakespeare questo Oedipus deve certamente qual cosa: Riccardo III, Macbeth, Otello, Amleto si pos sono scorgere sullo sfondo della tragedia, in cui sce ne necromantiche, follia, sogni, fantasmi, fanno ri suonare l’eco e il clima dei maggiori dram m i shake speariani. La tragedia si conclude con l’accecamento di Edipo e la follia di Giocasta la quale prim a di uccidersi uccide i figli dell’incesto, mentre Edipo a sua volta muore precipitandosi nel vuoto. Nel Sette cento Edipo continua a essere soggetto di opere in musica; da ricordare, tra le altre, Edippo di Pietro Torri su libretto di Domenico Lalli, del 1729, Oedi pus, King o f Thebes di Thomas A ugustin A rne su libretto di Dryden, del 1740, e infine Oedipus di G e org Gebel II su libretto di Christian von Kleist, del 1751. La pièce teatrale più significativa, nella prim a parte del secolo, quantomeno per la fama dell’auto re, è il giovanile Oedipe di Voltaire scritto nel 1718;
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Voltaire non apprezzava particolarmente il dram m a di Sofocle, al quale rimproverava la povertà dell’in treccio e il fatto che la scoperta della vera identità di Edipo, evidente sin dall’inizio della tragedia, venis se ritardata al finale dell’opera. Da ciò nacque la sua rielaborazione, che tende a complicare l’intreccio, con l’introduzione di Filottete, antico innamorato di Giocasta, che ricompare dopo le nozze tra la regina ed Edipo. Nel dram m a Voltaire accentua la polemi ca antireligiosa, che era solo velatamente accennata in Sofocle: sia Edipo sia Giocasta, una volta scoper ta la verità del loro matrimonio incestuoso, accusa no gli dèi di essere i veri colpevoli di tutte le male azioni che hanno infangato la casata reale di Tebe. Il tem a di Edipo continua, lungo tutto il Settecento, a ispirare una serie di m ediocri autori europei, spe cialmente nell’ambito del teatro francese: Antoine H oudar de la M otte pubblicò nel 1726 la tragedia Oedipe, M. de La Tournelle fu autore, tra il 1730 e il 1731, di ben quattro tragedie di argomento edipico: Oedipe ou les trois fils de Jocaste, Oedipe et Polibe,
Oedipe et l ’ombre de Laius, Oedipe et toute sa famille, un vero e proprio ciclo teatrale sul modello della tetralogia eschilea. Louis-Léon de Lauraguais
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scrisse nel 1781 la tragedia Jocaste. In Italia, si può ricordare un Edipo tiranno pubblicato nel 1720 da Pier Jacopo Martello. Nell’Ottocento il mito edipico non fu particolarmente presente sulla scena teatrale. In Italia, sulla scia della tragedia di stampo alfieriano - A lfieri del resto trascurò Edipo, per valorizza re, come peraltro molti romantici e preromantici, la vicenda della figlia Antigone - , il letterato e patriota pisano Silvestro Centofanti nel 1829 compose un Edipo re, di mediocre successo, d’ispirazione alfieriana, giocato quindi essenzialm ente sul tem a del potere e sulla figura di Creonte, antagonista m a qua si controfigura di Edipo. Si può ricordare ancora Der romantische Oedipus del poeta e drammaturgo tedesco August von Platen, un singolare pastiche te atrale, apparso nel 1829, non privo di toni grotteschi: Edipo che ostenta, sul corpo, una voglia a forma di pipistrello che funge da segno di riconoscimento per Giocasta; l’eroe che, anziché accecarsi, si seppelli sce vivo; la Sfinge che, non propone il suo enigma, bensì esige dai viandanti un distico m etricam ente corretto e afferma che «un cattivo verso può sem brare una piccola pena, eppure genera una gran quantità di colpe».
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Edipo e la modernità M entre lo studio scientifico della mitologia, uno dei frutti della nuova “scienza dell’antichità” - in parti colare di m atrice germ anica - sviluppava, a partire dalla m età dell’Ottocento, una revisione complessi va delle conoscenze e dei significati della mitologia classica e, contem poraneamente, la mitologia com parata e l’antropologia contribuivano a delineare nuove funzioni del patrim onio mitico greco, Edipo visse, a partire dai prim i anni del Novecento, una poderosa rinascita. Egli è, senz’altro, l’eroe della m itologia greca che più ha stim olato negli autori contemporanei la sfida alla rielaborazione del pas sato. E persino superfluo ricordare i contributi del la psicanalisi freudiana - a partire da\VInterpreta zione dei sogni del 1900 - , che alimentano una li nea di interesse ancora viva nel campo della ricerca e della pratica psicanalitica; certo è che la tesi freu diana, anche al di là della psicanalisi, contribuì p o tentemente a focalizzare nuovamente su Edipo l’in teresse di scrittori e dram m aturghi. È quasi im pos sibile pensare alle riscrittu re letterarie del m ito edipico nel Novecento senza scorgervi, in m isura
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m aggiore o m inore, l’om bra di Freud e della sua scuola. Una prim a testim onianza di questo clima di rinato interesse per la vicenda edipica è il dram m a in tre atti Oedipus und die Sphinx, apparso nel 1904 per opera di Hugo von Hofm annsthal, futuro libret tista di Richard Strauss in Ariadne a u f Naxos del 1912 e già autore, nel 1903, di un testo ispirato alla tragedia greca e all’odio che contrappone le genera zioni all’interno della stessa famiglia: Elektra, testo anch’esso successivam ente m usicato da Strauss. Nel dram m a di H ofm annsthal, la sequenza degli eventi è fatta scorrere all’indietro, rispetto all’opera di Sofocle: in questa tragedia non si assiste a un movimento retrogrado, non si incontra un re che ri percorre la sua vita alla ricerca degli indizi che lo conducano alle sue origini - l’idea che costituisce la grandezza del dram m a sofocleo - , bensì, al contra rio - con un’apparente regolarizzazione del tempo n arrativo, che procede sulla re tta passato/presente - il giovane straniero che uccide il padre, sconfigge la Sfinge, lotta con Creonte per il potere e viene acclamato dai Tebani come loro sovrano, quasi contro la sua stessa volontà. Il prim o atto è ambientato presso un trivio della Focide, dove Edi-
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po e Laio stanno per incontrarsi: la lotta, l’uccisio ne del servo e poi di Laio che, morente, maledice Edipo, avvengono in un clima più nordico che m e diterraneo, in mezzo a una tem pesta, nel buio, tra rocce scoscese e sentieri dirupati. L’opera si conclu de con le nozze tra G iocasta ed Edipo, e con un in cesto consapevole, svelato dalle tram e di un eros che si dispiega, in modo sottile e irresistibile, tra la regina, innam orata del ricordo del suo bam bino perduto, e la com parsa di quello stesso bambino che le si m anifesta nel fiore della giovinezza e va a oc cupare il posto del padre nel letto ancora caldo. In Francia, Jean C octeau dedicò a Edipo due opere, sebbene il suo eroe prediletto fosse il ben più soave mente poetico Orfeo: la prim a è il testo per l’operaoratorio di Stravinskij Oedips rex, rappresentata a Parigi nel 1927. Cocteau scrisse il testo, che fu poi tradotto in latino da Jean Daniélou (solo il narratore parla in francese). L’idea di rappresentare un testo in latino era nata, nella mente di Stravinskij, dalla ricerca di una lingua sacra, lontana dal parlato, che conferisse, alla rievocazione musicale del mito, una patina di solenne sacralità. Il risultato fu un’opera che m anifestò la nuova tendenza del compositore
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russo verso il neoclassicismo, innestato però su un tipo di teatro completamente anti-rappresentativo e dunque di avanguardia. L’opera che Cocteau e Stravinskij idearono lavorando insieme sotto il cielo lu m inoso della Costa A zzurra - lo stesso che ispirò Renoir, Matisse, Picasso - è però un dram m a cupo, nel più alto e tenebroso stile tragico; YOedipus rex segue in modo abbastanza fedele la tram a àsfflEdi po re di Sofocle, m a la scrittura di Cocteau, ulte riorm ente dissolta nel difficile latino postclassico della traduzione, sfilaccia il testo tragico in un lin guaggio formulare, quasi liturgico, fatto di anafore, ellissi, frasi spezzate, iterazioni, mentre i personag gi non dialogano mai tra loro, ma piuttosto espon gono, in un ossessivo giro di parole, il loro sogget tivo punto di vista, dim entichi degli altri esseri um ani che come loro sono impigliati nell’assurdità di questa vicenda. Paragonato alla forza di quest’o pera, ben poca cosa è l 'Edipo re musicato da Rug gero Leoncavallo su libretto di Giovacchino Forza no; Leoncavallo morì nel 1919, l’opera, rim asta in compiuta, fu completata da Giovanni Pennacchio e rappresentata postum a a Chicago nel 1920. Gli anni Venti e Trenta del X X secolo furono un periodo
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fortunato riguardo al m ito edipico: oltre alle opere di Cocteau-Stravinskij e di Leoncavallo che abbia mo appena m enzionato, si registra un Sophocles’ King Oedipus, adattam ento del dram m a sofocleo di W illiam Butler Yeats, rappresentato a Dublino nel 1926 e, dello stesso autore, un Sophocles’ Oedipus at Colonus del 1927 e soprattutto La machine infer nale di Cocteau del 1932 e YOedipe di A ndré Gide del 1930. Il secondo incontro di Cocteau con il mito edipico, nel giro di pochi anni, capovolge compietamente la prospettiva del testo rispetto a WOedipus rex. La machine infernale è un testo teatrale, in quattro atti, con voce narrante, dunque compietamente libero da necessità di rapportarsi a una tessi tura musicale. La “m acchina infernale” è il destino da cui i personaggi restano inevitabilmente schiac ciati; la rilettura di Cocteau però non è tragica nel senso sofocleo - o senecano - del term ine, m a ha una componente onirica e surreale, bizzarram ente lieve e impertinente. L’ombra di Laio, per esempio, si m aterializza vicino alle cloache di Tebe - «per via dei vapori che si form ano solo là» - ed è un fantasm a gentile e un po’ frustrato - come il fanta sma di C anterbury nel racconto di Oscar W ilde -
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che non incute spavento, tanto che i soldati, sulle m ura, fanno am icizia con lui e lo considerano anzi un “buon diavolo”. La Sfinge, dal canto suo, com pare nel secondo atto in com pagnia del cane Anubi, il dio egizio dei morti: inflessibile lui, stanca di uc cidere lei. Q uesta Sfinge sazia di orrori, incontra Edipo, un bel giovane vanesio e sciocco, si invaghi sce di lui e gli rivela la soluzione dell’enigma. Eroe quindi, Edipo, tronfio della propria presunta sag gezza, in realtà eroe per imbroglio. Anche il tema dell’incesto è giocato in forme vagamente oniriche: Giocasta ed Edipo, già sposi, hanno sogni incestuo si e imbarazzanti; nella stanza nuziale peraltro, ac canto a loro, è posta una culla: quella del piccolo Edipo, che rinnova ogni giorno alla m adre il ricor do del suo abbandono. Il quarto atto torna sulle tracce dell 'Edipo re, e la vicenda si chiude con la m orte di Giocasta e l’accecamento di Edipo: la pri m a si trasform a in fantasm a che assieme ad A ntigo ne conduce il cieco Edipo, un po’ più, anche se non com piutam ente, consapevole di se stesso, per vie lontane dalla città: «Sarà una giornata dura», è la chiosa del protagonista. UOedipe di A ndré Gide se gue invece, sostanzialmente, la tram a della tragedia
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sofoclea. Edipo qui è un provocatore: con grande scandalo del benpensante Creonte, si m ostra indif ferente alle convenzioni e per niente im barazzato all’idea di essere fratello dei suoi stessi figli - «Co sa vieni a seccarm i con questi problemi di parente la? Se i miei figli sono anche i miei fratelli, li amerò soltanto di più». Un Edipo, dunque, freudianamente consapevole delle proprie pulsioni e ben disposto ad accettarle; tuttavia, malgrado ciò, o anzi provocato riamente appunto per questo, l’intreccio ricade nella dimensione del dram m a greco con l’accecamento di Edipo e la sua autoespulsione dalla comunità.
Questa Sfinge sazia di orrori, incontra Edi
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po, un bel giovane vanesio e sciocco, si invaghisce di lui e gli rivela la soluzione dell’enigma. Eroe quindi, Edipo, tronfio
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della propria presunta saggezza, in realtà eroe per imbroglio.
Il fatto è che questo apparire del “rim osso”, questo passato che attira verso di sé il protagonista, gli im pedisce in definitiva di vivere la propria vita e di
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esprim ersi liberam ente in una piena afferm azione di sé - «Invano m i chiam ava l’avvenire: Giocasta m i tirava indietro». Il dram m a di Gide è anche una riflessione sull’individualismo e sullo scacco all’au tosufficienza di chi crede di bastare a se stesso ed essere libero da condizionamenti dettati dai vincoli psicologici e dalla propria storia, familiare e socia le. A Edipo, anche C esare Pavese dedica uno dei suoi Dialoghi con Leucò, testo pubblicato nel 1947: I ciechi, l’incontro tra Edipo e Tiresia, un testo de gno della grande forza mitopoietica del m iglior Pa vese. Vanno anche ricordate la novella di Gregor von Rezzori, Oedipus siegt bei Stalingrad, del 1954; The Elder Statesman, dram m a in versi di Thomas S. Eliot del 1958, basato sull 'Edipo a Colono', la Ballad o f thè Oedipus complex di Lawrence D urrell del 1960, e una dram m a m usicale Oedipus der Tyrann di Cari Orff, il cui libretto è costituito dalla classica traduzione settecentesca di Sofocle a opera di Hòlderlin. Non a Edipo, ma a un tem a edipico, ossia all’Edipo medievale, trasm esso in particolare grazie al poema, venato di leggenda, Gregorius di H artm ann von Aue, sulla vita di papa Gregorio M a gno, Thom as M ann dedica una delle sue ultim e
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opere, il rom anzo breve L ’eletto, iniziato nel 1948 e pubblicato a N ew York, e contem poraneam ente a Francoforte, nel 1951. U na testim onianza di grande rilievo culturale - m a forse di esito artistico in certo - è l’Edipo arabo di Tawfiq al Hakim, Al malik Udip pubblicato nel 1949. U na rilettura del m ito edipico in chiave di romanzo, anzi di nouveau ro meni, è Les gommes uscito nel 1953 per opera di A lain Robbe-Grillet. Qui Edipo si chiama Dupont, e, al term ine di un intreccio sfilacciato - secondo la nuova tecnica rom anzesca - , viene ucciso, per le gittim a difesa, da un investigatore della polizia che si rivela essere suo figlio: il m odello sofocleo è esplicitamente richiam ato dall’autore - se non altro attraverso l’enigm a che suona «quale anim ale è parricida al m attino, incestuoso a m ezzogiorno, cieco la sera?». Molti gli autori novecenteschi che si sono avvicinati al mito edipico con sempre m aggio re libertà anche di am bientazione: citiam o qui il portoghese Bernardo Santareno che nel 1960 pub blicò Antonio Marinheiro - o Edipo de Alfama - nel quale Lisbona si sostituisce a Tebe come teatro del dram m a, Judith R ossner che nel lavoro del 1980 Emmeline sceglie lo Stato del M aine o infine Haru-
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ki M urakam i e il suo G iappone con Kafka sulla spiaggia, dato alle stampe nel 2002. In Italia, vi si cimentarono A lberto M oravia, che nel 1968 scrisse Il dio Kurt, tragedia in due atti am bientata in un lager nazista in Polonia, e Giovanni Testori che nel 1997 portò in scena un Edipus - terzo capitolo di u na trilo g ia dram m atica, rielaborazione di tre dram m i shakespeariani, accanto adAmbleto e Macbetto. Qui non vi è intreccio, ma un monologo scrit to in un fantastico linguaggio antico-padano; tutte le parti sono alternativamente recitate da un unico attore, lo Scarrozzante, che sviluppa nelle sue furi bonde e allucinatorie vociferazioni - una sorta di flusso di coscienza - il tem a del legame colpevole che unisce i tre personaggi alternativamente recita ti - Laio, Edipo, G iocasta - annodati nel loro intri co incestuoso. E il cinem a non è stato da meno, con i due film sceneggiati da Gabriel Garcia M àrquez, Tiempo de morir del 1965 ed Edipo Alcalde del 1998. E come non citare la possente rievocazione del mito edipico espressa nel film di Pier Paolo Pa solini, YEdipo re, girato nel 1967; nella sua reinter pretazione il linguaggio cinem atografico diventa istantaneam ente un moltiplicatore e un potenziato-
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re di significati. U n’opera, come lo stesso Pasolini ebbe a dire, dichiaratam ente onirica, dichiaratamente freudiana, dichiaratam ente autobiografica: l'autobiografism o è evidente dalla tram a, dove il mito è incorniciato entro due inserti biografici - la nascita di Edipo-Pasolini negli anni Venti all’inizio della pellicola il suo vagabondaggio, nell’ultim a sequenza, dove il regista compare in prim a perso na, sotto i portici di una città, cieco e intento a suo nare un flauto, lo stesso flauto che Tiresia aveva suonato durante la parte m itica della storia. È una Tebe preistorica, comunque atemporale - le scene furono girate in una città medievale del M arocco - , un luogo completamente estraneo a una visione ar cheologica della Grecia antica: non templi o colon ne, m a casupole affastellate su una collina circon data dal deserto. L’opera lascia in ombra il parrici dio per focalizzarsi sul rapporto erotico tra Edipo e Giocasta, fatto di una sensualità morbosa e violen ta, cui fa da contrappunto la visione di una Tebe popolata di cadaveri in putrefazione: questo nesso tra eros e thanatos, la semi-consapevolezza del rap porto incestuoso tra madre e figlio, conferisce alla vicenda un tono completamente originale; è questa
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un’opera nella quale, attraverso Edipo, l’autore par la di se stesso offrendo una confessione che utilizza il linguaggio circolare del sogno e ricorre genial mente alla forza simbolica dell’im m agine cinem a tografica. Incernierata tra i due flash sul presente, l’azione segue fedelmente, a volte sino alla tradu zione letterale, il testo sofocleo, m a ne dà una rilet tu ra intensam ente m oderna. Ricorderem o ancora,
Molti gli autori novecenteschi che si sono avvicinati al mito edipico con sempre mag giore libertà anche di ambientazione.
nello stesso anno del film di Pasolini, un Oedipus tyrann del dram m aturgo tedesco Heiner Miiller, il vero erede - in tutti i sensi, dal momento che assun se anche la direzione del B erliner Ensem ble - di Bertolt Brecht e della sua visione “epica” del teatro; M iiller am a peraltro rivisitare in questa chiave che, attraverso il mito, disvela la crudezza dei rapporti di potere del mondo attuale, il teatro tragico greco, con esiti spesso estrem am ente efficaci - basti pen
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sare al suo Philoktet, anch’esso di ispirazione sofo clea. Anche il dram m aturgo e regista francese Jean A nouilh portò sulla scena, nel 1978, un Oedipe ou le Roi boiteux che, dopo molti anni dalYAntigone, ripropone un’altra rivisitazione del mito tragico, in una forma ormai sentita come limpidamente tradi zionale, una voce ormai isolata in mezzo alle pro vocazioni e al fragore del teatro d’avanguardia - e di quello di pseudo-avanguardia. C oncludiam o questa rassegna con un testo che per la sua origina lità e la sua forza si pone in modo degnissim o al term ine di una nobile tradizione letteraria: La mor te della Pizia, breve racconto dello scritto re e dram m aturgo svizzero Friedrich D urrenm att, pub blicato nel 1976 nella raccolta di racconti Mitmacher. Al centro dell’opera sta la decrepita sacerdo tessa di Delfi, stanca e annoiata di tutto, che pro nuncia dispettosam ente oracoli ingarbugliati, i quali però finiscono per realizzarsi, attraverso un pirotecnico gioco di equivoci e capovolgim enti, m ettendo in crisi il senso d ’identità dei personaggi e la loro visione del reale. La lettura di D urrenm att è lontana da esplicite rem iniscenze freudiane; nell’irrisione del m ito, nel gioco apparentem ente
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assurdo - m a in realtà, geom etricam ente esatto degli intrecci, l’autore offre una visione cultural m ente fondata, si potrebbe dire antica, della forza dell’oracolo: l’uomo brancola in un mondo di false certezze, dove la sua lotta per padroneggiare la re altà finisce in uno scacco; le parole dell’oracolo m i steriosamente rim ettono ogni cosa al proprio posto, in un mondo in cui la realtà è soltanto e comunque un enigma. Si potrebbero elencare varie altre opere di avanguardia, come Le nom d ’Oedipe. Chant du corps interdit di Hélène Cixous per la m usica di A ndré Boucourechliev, del 1978, o The Gospel at Colonus di Lee Breuer del 1983, m a una cosa è cer ta: il X X I secolo porterà nuove letture di questo racconto, la cui storia iniziò nella prim avera di un anno a noi sconosciuto, quando il Partenone era da poco stato edificato.
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Il pittore svizzero Johann Heinrich Fiissli nell’opera Oedipus Cursing Hls Son, Polynices, coglie il momento drammatico in cui Edipo maledice il figlio Polinice protagonista della lotta fratricida con Eteocle. Un passaggio deli’Edipo a Cotono di Sofocle.
Un oracolo funesto La storia di Edipo era nota anche a Omero, che ne par la fuggevolmente; in epoca arcaica circolavano poemi (ora perduti) di cui abbiamo i titoli: Èdipodia e Tebaide, che par lavano della saga dei re di Tebe. Restano davvero pochi frammenti: in uno Edipo che era ancora nella reggia (non sappiamo se cieco o no) maledice i figli perché durante un sacrificio gli hanno offerto per dileggio una zampa della vit tima, parte vile, e per offenderlo del cibo e del vino sul vas soio e nella coppa di Laio. Il mito di Edipo entrò nel teatro tragico attraverso Eschilo che, nel 467 a.C. mise in scena una trilogia suH’argomento in cui narrava le varie fasi del la storia: i drammi si chiamavano Laio, Edipo, Sette contro Tebe accompagnati dal dramma satiresco Sfinge. Di essi
resta solo il terzo, che descrive la morte reciproca dei due fratelli maledetti, Eteocle e Polinice. Questi racconti ci sono noti attraverso i riassunti di antichi eruditi e mitografi; che cosa fosse successo prima della nascita di Edipo appare anche da alcuni versi dei Sette contro Tebe, che parlano del suo concepimento contro la volontà dell’oracolo di Apollo. Laio figlio di Labdaco regnava a Tebe e aveva come sposa Giocasta figlia di Meneceo, ma non osava accostarsi a lei e generare figlioli perché te
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meva le maledizioni di Pelope. Dicono infatti che Laio s’innamorò di Crisippo figlio di Pelope che costui aveva avuto da un’altra donna e non dalla moglie legittima Ippodamia; Laio, innamoratosi di lui, lo rapì e gli fece violenza e fu il primo degli uomini a praticare l’omosessualità, come tra gli dèi fece Zeus avendo rapito Ganimede. Quando Pelope lo venne a sapere, maledisse Laio e gli augurò di essere ucciso da qualcuno della sua discendenza. Poiché dunque Laio stava invec chiando senza figli, si recò all’oracolo di Apollo per chiedere se avrebbe dovuto procreare e il dio emise questo vaticinio: “Non seminare un solco di figli contro il volere degli dèi”. Laio ricevette questo responso e tornato a casa si guardò bene dal condividere il letto con la moglie, ma un gior no in cui era ebbro, si unì alla sposa e concepì Edipo. Per timore dell’oracolo che gli aveva pre annunciato la morte per mano del figlio, come Pe lope gli aveva augurato, quando Edipo nacque, gli bucò i piedi con anelli d’oro e lo fece gettare sul monte Citerone. Ma alcuni pastori lo trovarono, lo raccolsero e lo diedero al re di Corinto, Pólibo. Costui lo allevò e lo crebbe sino all’età adulta.* Racconto l’antica colpa dall’acuta pena, estesa sino alla terza generazione, allorché Laio, dopo che per tre volte Apollo gli disse con forza nell’oracolo pitico,
coro :
’ Argomento III, Eschilo, Sette contro Tebe, trad. G. Guidorizzi
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l’ombelico del mondo, che avrebbe salvato la città se fosse morto senza prole, tuttavia dominato dalla sua stoltezza generò la sua morte, Edipo parricida che seminando il solco puro di sua madre dalla quale era nato portò una radice di sangue: folle stoltezza aveva unito i due sposi.*
L’incrocio fatale Come si arrivò a quel fatale momento? Certo, perché il de stino lo voleva. Ma ne\VEdipo re è Giocasta che involontaria mente mette in moto il processo di riconoscimento; uscita dalla reggia per sedare il litigio tra Creonte ed Edipo, che accusa il cognato di avere ordito una congiura contro di lui insieme al profeta Tiresia, cerca di calmare il marito con pa role rassicuranti: «I profeti - dice - non sanno quello che dicono perché a noi fu profetizzato che nostro figlio avrebbe ucciso il padre. Ma Laio lo fece uccidere, esponendolo sul monte Citerone, mentre lui stesso fu ucciso a un incrocio di tre strade da un gruppo di predoni». *Eschilo, Sette contro Tebe, vv. 742-757, trad. G. Guidorizzi
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È questa frase a mettere in agitazione Edipo, che incomin cia a rievocare la sua storia, anzi quella parte di storia che conosce. Il resto lo scoprirà poco dopo. edipo : Mio padre è Pólibo, di Corinto, e mia madre Mèrope, una donna dorica. Tra tutti i citta dini ero reputato l’uomo più grande, prima che mi capitasse questo caso: un caso strano, certamente, ma certo non tanto grave perché me ne occupassi. Durante un banchetto, un uomo strapieno di vino, nell’ebrezza mi apostrofò dicendo che non ero il vero figlio di mio padre. Io mi infuriai, ma per quel giorno mi trattenni, anche se a stento; il giorno dopo andai da mio padre e da mia madre e li interrogai. Loro presero molto male l’insulto che quell’uomo mi aveva lanciato, e io, vedendo li così arrabbiati provai sollievo, ma ugualmen te quelle parole mi assillavano, mi mordevano dentro. Allora, senza dire niente a mio padre e a mia madre, mi misi in viaggio per Pito, e Febo mi rimandò indietro senza risposta per quello che chiedevo, ma - povero me! - pronunciò un altro responso, terribile e orrendo: sarebbe stato mio destino unirmi a mia madre, e mostrare agli occhi del mondo una razza inguardabile, e avrei ucciso il padre che mi aveva generato. Dopo queste parole, evitai la terra di Corinto e fuggii altrove, misurando il mio cammino sulle stelle, dove non sarebbe mai stato possibile vede re compiersi le infamie predette dall’oracolo.
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Nei miei vagabondaggi, giungo in un luogo si mile a quello in cui tu dici che fu ucciso questo re. Ti dirò il vero, donna: quando, nel cammino, giunsi là dove la strada si biforca, ecco che mi si fecero incontro un uomo, sopra un carro trai nato da cavalle, e davanti a lui un araldo, come tu raccontavi. Il conduttore del carro e anche il vecchio cercarono di cacciarmi via dalla strada, a forza. E io, in preda all’ira, colpisco il con ducente che cercava di scacciarmi; veduto ciò il vecchio, aspettando il momento in cui passavo di fianco al carro, mi percosse in mezzo al capo con la sferza a due punte. Ma la pagò cara. Su bito, colpito dal bastone brandito da questa mia mano rotolò a terra, a capofitto, e poi uccisi an che tutti gli altri. E se tra questo vecchio e Laio c’è qualche relazione, chi sarà più infelice di me? Nessuno degli stranieri o dei cittadini potrà parlarmi o ac cogliermi in casa, ma dovranno cacciarmi via. E sono stato io, proprio io, che ho invocato queste maledizioni su di me. E contamino il letto di un uomo che ho ucciso con le mie mani. Non so no un criminale? Un uomo maledetto? E se vado in esilio da qui, non potrò più rivedere i miei né mettere piede in patria, dato che il destino impo ne che sposi mia madre e uccida mio padre, Pólibo che mi ha generato e mi ha cresciuto? Se qualcuno mi guarda e dice: quest’uomo è vittima di un demone maligno, non ha ragione? Ah no, maestà sacra degli dèi, che io non veda
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mai quel giorno, ma che sparisca dalla vista degli uomini, prima che veda precipitare su di me una macchia così grande.*
Un’ombra corrucciata L'Edipo di Seneca si ispira in linea generale all 'Edipo re di Sofocle ma con alcune notevoli varianti. La principale è che qui manca l’oracolo di Delfi, che è sostituito da un rituale negromantico, più affine ai riti divinatori romani, durante il quale Creonte e Tiresia (insieme alla figlia Manto, anch’essa profetessa e ritenuta fondatrice mitica di Mantova) per ordine di Edipo si recano in un bosco sacro a consultare i morti, fitto di alberi orridi e minacciosi, scavano una fossa vicino a una mefitica palude, compiono sacrifici sgozzan dovi dentro animali e poi Tiresia, con formule terribili, evoca i morti. Subito la terra si squarcia, si spalancano le dimore infernali e tra gli altri morti compare l’ombra di Laio che pro nuncia terribili maledizioni. In Seneca l’ambiguità comunque luminosa e solare deil’oracolo di Apollo è sostituita da una scena horror, a tinte cupissime, che consente all’autore una divagazione sul mondo infernale. Infine è proprio l’ombra di * Sofocle, Edipo re, vv. 774-832, trad. G. Guidorizzi
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Laio a parlare (la scena è narrata da Creonte): è uno spettro implacabile e irato, che grida con voce tremenda una ma ledizione in cui invoca ogni male sul figlio. Come un capro espiatorio, Edipo porterà via con sé ogni male da Tebe, la peste e la rovina graveranno su di lui e la città potrà rifiorire. Laio (inorridisco a parlarne) si sollevò orrendo per il sangue che gli copriva tutti gli arti, con i capelli arruffati e sporchi, e così disse con voce rabbiosa: «Famiglia insanguinata di Cadmo, che sempre godi del sangue di parenti, scagliate i tirsi, fate a pezzi i figli con mano folle - a Tebe il delitto più grande è l’amore materno! Patria mia, tu vai in rovina non per l’ira degli dèi, ma per i tuoi delitti. Non ti danneggia l’Austro con il suo soffio mortifero, non la terra con le sue esalazioni aride, dopo che non è stata saziata dalla pioggia, ma un re sporco di sangue che come compenso dell’or rendo delitto tiene lo scettro e il letto impuro del padre, e ha figli inguardabili, ma lui stesso è padre ancora peggiore che figlio, e ancora pesa sull’u tero nefasto, si è spinto alla sua stessa origine, e ha generato figli maledetti nel corpo della madre: persino le bestie lo evitano, ma lui ha generato fratelli a se stesso! Malanno aggrovigliato, mostro ambiguo più della sua Sfinge! Te, te, che porti in mano uno scettro cruento, te io, padre invendica to, assalirò insieme alla tua città, e con me porterò
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l’Erinni che fu pronuba alle tue nozze, e le Furie che agitano le fruste e sconvolgerò quella casa incestuosa e la cancellerò con una guerra empia. Cacciate via subito quel re empio, e a mano a mano che lascerà quella terra col suo passo fu nesto, rifiorirà la primavera e spunterà il verde, l’aura vitale darà venti purissimi e torneranno a prosperare i boschi. Assieme a lui scompari ranno la Morte, la Peste, la Sciagura, la Pena, il Contagio, il Dolore, la compagnia che si merita, e sarà lui a voler fuggire di corsa dalla nostra ca sa, ma io gli metterò i ceppi ai piedi e lo tratter rò, striscerà non sapendo dove andare, tastando il suo triste cammino con un bastone da vecchio. Strappategli voi la terra: io, suo padre, gli viete rò il cielo».*
Ora tutto è chiaro È il momento decisivo de\V Edipo re: gli indizi si accumula no, Edipo passa dall’angoscia alla speranza e poi ancora all'angoscia. Tutto è affidato alla memoria di un vecchio pastore, che viene portato a forza sulla scena. Così, nel quarto episodio della tragedia, si trovano ancora insieme gli uomini che furono protagonisti di quel giorno fatale: il * L.A. Seneca, Edipo, vv. 626-658, trad. G. Guidorizzi
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pastore che doveva uccidere Edipo ma che l’ha salvato per pietà, quello che anziché crescerlo per sé e allevarlo come aiutante l’ha consegnato al re di Corinto, e lui, il bambinello che non aveva nemmeno un nome, e che ora con il nome di Edipo regna su Tebe. La scena è descritta in un faccia a faccia tra i tre, con la tensione drammatica tipica del grande Sofocle; uno, il Messaggero, parla ingenuamente sperando che questo riconoscimento gli porti una ricompensa da un uomo che è diventato un re; l’altro è reticente, terrorizzato, cerca di divagare, ma è infine costretto a confessare; lui, Edipo, è diretto come una lama verso la terribile verità: sa che cosa l’aspetta, ma vuole conoscere, vuole sapere chi è, è pron to a stare davanti alle cose più terribili. Giocasta, nel frat tempo, è corsa in casa, dove si ucciderà, e non assiste allo svelamento della verità di quella tragedia, di cui lei stessa è complice, avendo consegnato di sua mano suo figlio a quello che doveva diventare il suo carnefice. È un momen to terribile in cui ci si trova davanti all’orrenda verità, senza veli, senza pietà: così infine Edipo scopre chi è, anche se la scoperta lo rovina. edipo : (al Messaggero) Vecchio, se devo con getturare anche se non Tho mai incontrato, credo che sia quello il pastore che cerchiamo da tempo.
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È molto vecchio, e l’età si accorda esattamente, e riconosco i miei servi che lo conducono, ma puoi dirlo tu meglio di me: quel pastore lo hai già visto. {Arriva un vecchio pastore, circondato dalle guardie) coro : Anch’io l’ho riconosciuto, era il pastore più fidato di Laio, tra tutti gli altri. edipo : Per primo chièdo a te, straniero di Corin to: lo conosci? messaggero : È proprio lui. edipo : {alpastore) Dico a te, vecchio: guardami e rispondi a ciò che chiedo: eri un servo di Laio? pastore: Sì , sono nato in casa, non mi ha com prato. edipo: E di che cosa ti occupavi, qual era la tua vita? pastore: Per gran parte della vita ho custodito le greggi. edipo : E dove andavi a pascolare? pastore: Sul Citerone, o nei dintorni. edipo : Quest’uomo lo conosci, l’hai mai incon trato? pastore: A fare cosa? Che uomo dici? edipo : Questo che è vicino a noi. L’hai mai in contrato? pastore: Non so dire, non me lo ricordo. messaggero: Non c’è da meravigliarsi, mio si gnore: non mi riconosce, ma gli farò ricordare. Certo ricorderà che sul Citerone lui portava a pa scolare due greggi, e io solo una, e insieme a lui ho passato tre anni, dalla primavera sino al sorge re di Arturo; d’inverno, io tornavo alle stalle con
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le mie greggi, e lui a quelle di Laio. pastore: È vero. È passato tanto tempo! messaggero: Allora, ti ricordi che una volta mi hai dato un bambino, perché lo allevassi come mio? pastore: Come? E perché me lo chiedi? messaggero: (indicando Edipo) Eccolo qui, ami co, lui era quel bambino. pastore: Vai in malora! Stai zitto! edipo : Non impedirgli di parlare, tu: sono le tue parole che non impediranno di punirti. pastore: In che cosa sbaglio, ottimo padrone? edipo: Tu non parli del bambino di cui lui racconta. pastore: Sono sciocchezze, le sue, parole a vanvera. edipo: Se non parli con le buone, avrai da piangere. pastore: N o, in nome degli dèi, sono vecchio non farmi del male. edipo : Presto, torcetegli le braccia. pastore: Povero me, ma per che cosa? Che cosa vuoi sapere? edipo : Il bambino di cui parla, glieThai dato? pastore: GlieTho dato. Fossi morto allora! edipo : Morirai ora, se non parli. pastore: Morirò molto di più, se parlo. edipo: A quanto pare, quest’uomo tira per le lunghe. pastore: N o, no te l’ho già detto: gliel’ho dato. edipo : E dove l’hai preso? Veniva dalla casa o era di altri? pastore: Mio non era, no; lo ebbi da altri. edipo: Da qualche cittadino? Da che casa veniva? pastore: In nome degli dèi, signore, non chie dere altro.
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Sei morto, se me lo fai ripetere. Era un bambino della casa di Laio. edipo : Da un servo? O era nato dal suo sangue? pastore: Ahi, che cosa terribile da dire! edipo : E per me da ascoltare. Ma bisogna. pastore: Si diceva che fosse suo figlio. Però te lo può dire la tua sposa, che ora è nella reggia. Lei può dirti meglio come andarono le cose. edipo : Fu lei a dartelo? pastore: Sì, mio signore. edipo : E perché? pastore: Perché lo uccidessi. edipo : Sua madre, la sciagurata? pastore: C’era un oracolo funesto. edipo : Quale? pastore: Diceva che avrebbe ucciso i genitori. edipo: E perché l’hai consegnato a questo vecchio? pastore: Ebbi compassione, padrone. Pensavo che l’avrebbe portato in un’altra terra, da dove veniva. Ma lui ti ha salvato destinandoti ai mali più terribili: perché se tu sei quel bambino, come dice, sappi che sei nato per soffrire. edipo : Ah, tutto è chiaro. Luce ti vedo per l’ul tima volta! Ecco chi sono: sono nato da chi non dovevo, vivo con chi non dovrei stare, ho ucciso chi non dovevo uccidere! 0Corre dentro la reggia)* edipo :
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* Sofocle, Edipo re, vv. 1100-1184, trad. G. Guidorizzi
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Uscire dalla luce L’accecamento di Edipo, nella tragedia di Sofocle, è rac contato da un messaggero. Sempre così avviene nella tragedia greca: gli episodi di violenza e le morti non av vengono sulla scena ma, per una convenzione teatrale quasi sempre osservata, devono essere narrati da uno spettatore oculare. Questo si spiega da una parte per motivi rituali (anche se simulato, lo spargimento di sangue contaminerebbe lo spazio del teatro, che è comunque consacrato a Dioniso) ma soprattutto per efficacia poeti ca: il teatro greco è un teatro della parola, più che dell’a zione, e la parola, il racconto anche macabro in questo caso, è certo più forte di un semplice atto. Nei racconti dei messaggeri il poeta tragico mette il meglio della sua arte: sono storie emozionanti, patetiche, in cui la parola conduce il pubblico all’emozione e alla pietà. Nel caso di Edipo, la duplice tragedia, e l’accecamento di Edipo, avviene nella stessa stanza in cui Edipo era nato tanti anni prima - cosa anche questa tremenda
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pastore aveva appena confermato la terribile verità: era proprio Edipo il bambinello che Laio aveva fatto esporre sul monte. Giocasta comprende tutto un attimo prima ed esce disperata dalla scena; Edipo si fa raccontare la cosa
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e la segue. Ed ecco che cosa accade ai due sventurati. Subito dopo Edipo si mostrerà al pubblico con le orbite vuote e sanguinanti. messaggero: Basta un attimo per dire e sapere tutto: la splendida Giocasta è morta. coro : Sventurata! E com’è morta? messaggero : Con le sue mani. La cosa più tre menda non la puoi vedere. Ma per quanto sta nella mia memoria saprai le sciagure di quella sventurata. Appena Giocasta entrò nell’atrio, fuori di sé, si precipitò alle stanze nuziali, strappandosi i capelli con tutt’e due le mani. Come fu oltre la porta si mise a urlare Laio, Laio che ormai da tempo non viveva più e ricordava quell’antico amplesso per cui era morto e l’aveva lasciata a generare insieme al figlio una discendenza contro natura. Riempiva di gemiti il letto dove nella sua sven tura aveva concepito la sua doppia prole, figli dal figlio e sposo dallo sposo. Come sia morta, poi, non lo saprei dire: intanto, gridando Edipo si precipitava in casa. Lasciammo allora il dolore di lei ma fissammo lui che si aggirava e chiedeva di dargli una spada e cercava lei, moglie non moglie, il ventre materno che aveva germogliato due rac colti, lui stesso e i suoi figli. Un dio forse governava la sua pazzia; certo, nessuno di noi lì attorno. Gridando in modo spa ventoso, come se qualcuno gli spiegasse la stra
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da, si avventò sulla porta della camera da letto, la strappò dai cardini, e irruppe dentro. Lì vedemmo la donna: si era impiccata, stretta fra un intrico di lacci. Scorgendola, l’infelice gri da come un animale disperato e allenta il cappio sospeso. Appena la sventurata fu a terra, accad de la cosa più terribile. Le strappò dalla veste le fibbie d’oro di cui si era adomata, le alzò, se le ficcò negli occhi, gridando che mai più avrebbero visto i mali che aveva sofferto e compiuto, ma nelle tenebre per ora sempre avrebbero cercato chi non doveva vedere e non avrebbero ricono sciuto chi non doveva riconoscere. E con queste maledizioni si trafisse più e più volte. Dai bulbi sprizzava sangue sulle guance, non poche gocce rosse, ma una pioggia scura, una grandine conti nua di sangue.*
Morte di Edipo Raccogliendo una leggenda locale, Sofocle fa morire il “suo” Edipo a Colono, un sobborgo di Atene dove egli stesso era nato. Questo avviene ne\\'Edipo a C olono, tra gedia che fu rappresentata postuma, in essa, Edipo è un vecchio cieco, un mendicante assistito dalla figlia Anti * Sofocle, Edipo re, vv. 1234-1280, trad. G. Guìdorizzi
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gone che non l’ha abbandonato; anche Sofocle però era vecchio, quasi novantenne, e morì prima di finire la trage dia. C’è quindi qualcosa di commovente e di autobiogra fico in quello che scrive sulla morte di Edipo, sapendo lui stesso di essere all’estremo tramonto della sua esistenza: e la morte di Edipo è misteriosa, e avviene senza sofferen ze e dolore. A Colono esisteva una “tomba di Edipo” sul la quale gli abitanti portavano offerte. Il che significa che Edipo era diventato un eroe, vale a dire un uomo diviniz zato che continua in qualche modo a esistere anche dopo la morte e a fare sentire la sua misteriosa presenza nel luogo in cui è stato sepolto. Edipo muore abbracciando le figlie Antigone e Ismene e, per un attimo, l’uomo, male detto e segnato dal destino diventa terribilmente umano; poi si riscuote e sparisce nel nulla, condotto da un dio: questo modo di svanire agli occhi degli uomini (a p h a n ism òs = scomparsa) era tipico dei racconti eroici, nei quali
si diceva che un essere scelto dagli dèi passava dalla vita terrestre a un altro tipo di vita, invisibile. Non per la bontà o i meriti: un eroe greco è amorale, nel senso che bene e male coesistono potenti nella sua ani ma. Diventare un eroe, essere ricordato e ricevere onori dai vivi era la forma di sopravvivenza dopo la morte che la religione greca riservava ai suoi eroi.
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messaggero: Zeus sotterraneo tuonò, e le due figlie rabbrividirono ascoltandolo. Caddero alle ginocchia del padre e piangevano e si percotevano il petto tra lunghi lamenti. Lui, udendo le loro tristi grida, le toccò con le mani e disse: «Figlie, oggi vostro padre muore. Per me tutto è finito, non avre te più da penare occupandovi di me. Lo so, figlie, è stato duro, ma una sola parola ripaga le vostre fatiche: al mondo non esiste chi vi ama più di me, ma senza me dovrete passare la vita che vi resta». Così abbracciati piangevano a dirotto tutti e tre. Quando finirono i lamenti e le grida cessaro no, si fece silenzio, ma improvvisa risuonò una voce misteriosa, che fece drizzare a tutti i capel li per il terrore. Molte volte un dio lo chiamò: «Edipo, Edipo, cosa aspettiamo ad andare, per ché indugi?» Appena sentì di essere chiamato da un dio, disse a Teseo, il nostro re, di avvicinarsi, e quando fu vicino disse: «Cara testa, porgi la mano alle mie figlie, segno dell’antica promessa, e voi a lui: prometti che non le abbandonerai, ma anzi, per quanto sta in te, le aiuterai sempre». E quello che è, un uomo nobile, senza mostra re cenno di timore, giurò di fare questo per il suo ospite. Appena ebbe promesso, subito Edipo stese sulle figlie le mani brancolanti e disse: «Figlie, bisogna che mostriate la vostra nobiltà e vi allontaniate da questi luoghi. Non dovete vedere e sentire ciò che non si deve. Andate subito: solo il re Teseo resti a vedere ciò che accade».
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Tutti noi presenti lo sentimmo dire questo, e ce ne andammo piangendo a dirotto insieme alle ra gazze. Poco dopo essercene andati ci voltammo e vedemmo che quell’uomo era sparito, mentre il no stro re si copriva gli occhi con le mani, come se fos se apparso qualcosa di terribile, di cui non si poteva sostenere la vista. Poco dopo lo vediamo adorare, con una duplice preghiera, la Terra e il divino Olim po. Ma di preciso, in che modo Edipo sia morto non lo potrebbe dire nessuno, tranne Edipo in persona. Non lo rapì il lampo fiammeggiante di un fulmine scagliato da un dio, né una bufera marina sorta pro prio in quel momento, ma fu forse un messaggero degli dèi, o si è aperto nella terra, benevolo, l’abisso dei morti, e non ha provato sofferenza. QuelTuomo se ne è andato senza grida di dolo re, soffrendo per una malattia, ma in modo mera viglioso, lui solo tra tutti. E se vi sembro pazzo, non accetterò questa opi nione.*