Il gioco del fantasticare


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Il gioco del fantasticare

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Thomas A. Sebeok

Il gioco del fantasticare

□ SPIRALI EDIZIONI

Titolo dell’opera originale The play of musement (Copyright 1981 by Thomas A. Sebeok) Traduzione dall’inglese di Massimo Pesaresi

Prima edizione italiana: maggio 1984 Copyright by © Spirali Edizioni Milano

Per E — che è uguale alla massa della sua materia moltiplicata per il quadrato della velocità della luce

Ringraziamenti Questo libro — insieme a numerosi altri progetti — fu portato a termine nel corso di un anno di permanenza, durante il 1980-81, al Na­ tional Humanities Center. Contemporaneamente ho goduto i benefici di un prolungamento deiranno sabbatico da parte dell’Indiana University, e ho ricevuto una seconda borsa di studio dal National Endowment for thè Humanities. A queste tre istituzioni vanno quindi i miei più sentiti ringraziamenti. Sono particolarmente grato alla dr. Jean Umiker-Sebeok, per la sua collaborazione ai capp. 2 e 8; alla signorina Harriet Margolis, per la col­ laborazione al cap. 3; e al professore emerito Max H. Fisch per aver in­ quadrato il cap. 2 nel suo contesto e per molte altre ragioni. Il testo rivelerà in che misura mi sono valso delle opinioni critiche recentemente espresse da Eugen Baer, Paul Bouissac, John N. Deely, e Martin Krampen sui miei libri di argomento semiotico. Per ulteriori dettagli, si vedano le note ai titoli dei vari capitoli e delle appendici. Il mio debito nei confronti di Jean Umiker-Sebeok — di gran lun­ ga il mio critico più acuto — è stato e continua ad essere di un valore inestimabile. Thomas A. Sebeok National Humanities Center Aprile 1981

CAPITOLO I

Introduzione: Ludens in orbe terrarum

La chiave del titolo di questo libro si trova nel profondo studio di Peirce, del 1855-56, sul concetto di Spieltrieb in Friedrich Schil­ ler. Nelle sue Briefe iiber die dsthetische Erziehung des Menschen (179-1-95), Schiller fornì un’analisi dei tre fondamentali ‘impulsi* della natura umana: Stofftrieb, la pulsione alla diversità, che sem­ pre lotta per il cambiamento, in contrasto con il Formtrieb, l’esi­ genza di ‘forma’ in astratto, estranea al tempo, e in opposizione quindi al cambiamento (questa coppia corrisponde al ben noto dua­ lismo di Kant), più una terza componente che egli stesso chiamò Spieltrieb, ovvero gioco (ein ernstes Spiel) — la tendenza estetica che media e riconcilia armonicamente senso e ragione a livello delle facoltà sia individuali (microcosmo, il particolare) che sociali (ma­ crocosmo, ciò che è superiore). Schiller (1967: 331) definì i Triebe come “esigenze fisiche che rappresentano un incentivo ad attività mentali”, ma poi passò ad usare il suo composto in un senso più vasto, adattandolo continuamente ai suoi intenti. Di conseguenza Spieltrieb è stato molto frainteso (ibid.: clxxxvi e sg.), sebbene ciò non sia accaduto affatto nel caso di Peirce, intento com’era “a sco­ prire il metodo e il messaggio” di Schiller attraverso un esame cri­ tico del suo linguaggio (ibid.: clxxxviii). Egli si impegnò ad esporne l’opera al suo compagno di studi Horatio Paine, trascorrendo “ogni pomeriggio per lunghi mesi ad analizzare minutamente l’argomen­ to”, e arrivando — dopo non meno di 47 anni — alla conclusione che sebbene “l’estetica e la logica sembrino, a prima vista, apparte­ nere a differenti universi... si tratta di un’apparenza illusoria, e, al contrario, la logica ha bisogno dell’aiuto dell’estetica” (Peirce 2.197). O ancora: “Quando la nostra logica avrà pagato i suoi devoirs al­ l’Estetica e all’Etica, sarà giunto per essa il momento di dedicarsi alla sua attività regolare” (2.200). I due curatori dell’edizione inglese delle lettere di Schiller osservano “che la logica si fondava sull’eti­ ca, e l’etica sull’estetica...” (1967: clxxxix). Inoltre, Wilkinson e 11

Willoughby sottolineano il fatto, interessante da un punto di vista storico, che la “struttura gerarchica” di Peirce era molto vicina a quella di Schiller. Al tempo stesso, la più cruciale e fondamentale equazione — che la logica cioè è solo un altro nome della semiotica (Peirce 2.227) — sfugge loro completamente. Ciò è un vero peccato e per due ragioni differenti: Primo, perché impedisce ai due valenti studiosi di intravedere la possibilità di una emozionante rivaluta­ zione semiotica della filosofìa di Schiller — un’occasione perduta, sebbene essi si muovano ai margini della scoperta quando rilevano che alcune recenti indagini sul gioco, sia umano che animale, hanno rivelato che esso è “uno dei fondamentali sistemi di messaggi, un mezzo di comunicazione” (Schiller 1967: clxxxv e sg., e Sebeok 1981). Secondo, essi non si rendono conto che Peirce ha dato ten­ sione e dinamismo alla fondamentale idea di Schiller proprio incor­ porandola in ciò che egli chiamava il terzo Universo deirÉsperienza, il quale è costituito da “tutto ciò che è fondamentalmente un Se­ gno — non semplicemente il corpo del Segno... ma... l’Anima del Segno” (6.455). Il 23 dicembre 1908, in risposta a Lady Welby Peirce scrisse: “Riguardo alla parola ‘gioco’, il primo libro di filosofia che ho letto... è stato Aestbetische Briefe di Schiller, in cui egli ha tanto da dire in merito allo Spiel-Trieb, e l’impressione da esso esercitata su di me è stata tale che la mia nozione di ‘gioco’ ne è rimasta profonda­ mente influenzata fino ad oggi” (Hardwick 1977: 77). Egli si tra­ stulla con la seducente idea del “Gioco del Fantasticare” in rapporto a un argomento in favore della Realtà di Dio (6.486; cfr. MS 843), e associa in varie guise questa splendida espressione (ripresa da 6.460) con il Puro Gioco (che “soffia dove vuole. Esso non ha altro scopo se non quello di ricreare...”; 6.458), Meditazione (6.458, 483, 487) e Rèverie (6.458) (“Meditazione-Réverie costituisce una sorta di solitaire ” [MS 843]), e la sua spiegazione continua: il Fantasticare “è una certa occupazione piacevole della mente... La particolare oc­ cupazione a cui mi riferisco... può assumere o la forma di contem­ plazione estetica, ovvero quella di costruire castelli in aria (in Spa­ gna o all’interno della propria educazione morale) o quella di pren­ dere in considerazione qualche meraviglia in uno degli Universi, o qualche, rapporto fra due di loro, e speculare sulla sua causa” (6.458). Per ‘Universo’ Peirce intendeva “un ricettacolo o classe di Sogget­ ti” (4.545), e procedeva con l’identificazione di tre Universi che ci sono familiari: “Il primo comprende le pure idee, quegli aerei nulla a cui la mente del poeta, del matematico puro, o di un altro po­ trebbe fornire una dimora e un nome all’interno di quella mente” (6.455). Il secondo Universo è “quello della Realtà Bruta delle_ _ cose e dei fatti (ibid.). Il terzo Universo è, come già si sa, quello se­ miotico, il quale “comprende ogni cosa il cui essere consiste in ca12

pacità attiva di stabilire rapporti fra differenti oggetti, specialmente fra oggetti posti in Universi differenti” (ibid.)- L’anima del Segno, osserva Peirce, ha in sé la capacità di mediare fra il suo Oggetto e una Mente; e, traendo imparzialmente esempi dal mondo sia della Natura sia della Cultura, egli continua osservando che “tale è anche una coscienza vivente, e tale la vita, la capacità di crescita di una pianta. Tale è una composizione vivente — un quotidiano, una grande fortuna, un ‘movimento’ sociale” (ibid.). Peirce dà consigli al Fantasticante sul modo di scoprire fenomeni diffusi in uno degli universi c che colpiranno la sua attenzione: “Egli dunque, dopo aver considerato, in tutta la vastità e profondità, quella che è la varietà inesprimibile di ciascuno degli universi — perfino quello delle menti — volga, per esempio, l’acuto sguardo ai fenomeni relativi all’uni­ formità di connessione in ciascuno degli Universi, e quale spettacolo si dispiegherà ai suoi occhi!” (MS 843; cfr. 6.464). Le speculazioni sui caratteri omogenei di ciascun Universo porteranno naturalmente il Fantasticante a considerare le connessioni esistenti fra due diffe­ renti Universi, o fra tutti e tre. Infine, “nel Puro Gioco del Fanta­ sticare l’idea della Realtà di Dio apparirà presto o tardi come un’at­ traente fantasia, che il Fantasticante svilupperà in vari modi. Quanto più egli vi riflette sopra, tanto più troverà risposta in ogni parte della sua mente, per la sua bellezza, per l’ideale di vita che esso fornisce, e per la spiegazione, soddisfacente in tutto, del triplice ambiente che lo circonda” (6.465). L’unica regola del Puro Gioco è la legge della libertà. Esempi di questo principio sono numerosi tanto nella scienza fisica quanto nei ragionamenti degli investigatori. Peirce osserva (citando qui “The Murders in thè Rue Morgue”) che “problemi che a prima vista ap­ paiono decisamente insolubili” — anomalie, antinomie, e altre dif­ ficoltà, come il paradosso della meccanica quantistica noto come “par­ tecipazione dell’osservatore”, che attribuisce una realtà tangibile al cosmo (e che costituisce l’argomento fondamentale di Sebeok: cap. 5 e cap. 8 di questo libro) — “ricevono, proprio in quel momento, le loro chiavi appropriate. Ciò li rende particolarmente idonei al Gioco del Fantasticare” (6.640). In breve, la facoltà del Fantasti­ care — che in seguito Bronowski scelse di chiamare, con termine meno incisivo, immaginazione — “è la radice comune da cui spun­ tano, crescono e fioriscono insieme la scienza e la letteratura” (1967: 39). Bronowski usò il termine ‘immagine’ come scadente, e non in­ dispensabile, sinonimo del ‘segno’ di Peirce, senza riguardo alla qua­ lità sensoriale e alle molteplici distinzioni che Peirce tracciò fra le differenti specie di segni (ibid.: 34). L’Argomento, in rapporto con il quale Peirce esamina il con­ cetto di Gioco del Fantasticare, può essere genericamente caratte­ rizzato come un “processo di pensiero che tende ragionevolmente 13

a produrre una determinata credenza” (6.456). Pertanto alcuni dei miei lettori possono scegliere di scorrere i seguenti capitoli senza alcuna aspettativa superiore a quella che può essere richiesta dal Gioco — cioè, esercitando le loro capacità in un passatempo come quello di sfogliare un libro. In termini semiotici più rigorosi, un Argomento, per il suo Interpretante, viene definito come “un Sim­ bolo o Segno il cui Oggetto è una Legge generale o Tipo” (2.253). Questi saggi possono quindi essere valutati anche più seriamente, nell’attento esame della successione abbozzata per chiunque sia “de­ terminato a far la prova del Fantasticare come di uno degli svaghi preferiti... La cosa comincia in modo abbastanza passivo con l’assor­ bire le impressioni di qualche angolo in uno dei tre Universi. Ma l’impressione subito passa ad osservazione attenta, l’osservazione a fantasticare, e il fantasticare a un vivace scambio fra io ed io. Se si lascia che le osservazioni e le riflessioni si specializzino troppo, il Gioco si trasformerà in studio scientifico; e ciò non si può ottenere nei ritagli di tempo” (6.459). È il Gioco del Fantasticare, quindi, che anima e articola i tredici saggi di questo libro. La loro generale identità doveva essere avvolta da un tessuto semiotico privo di giunture, seppure non sempre di immediata trasparenza, la cui trama è formata da filamenti presi da quella che ho prima identificato come la maggiore (cioè, attenta alla dimensione biologica) tradizione di ricerca semiotica (Sebeok 1979: 4 e sgg.). Ma dal momento che la fase preparatoria costituisce il naturale e legittimo preludio all’eccitazione semiotica (non meno che somatica), mi sento in dovere di precisare che considero i testi qui amalgamati — sono stati tutti scritti o riscritti nel 1980 — come l’acme di una trilogia costituita, oltre che dai suddetti saggi, dagli undici pezzi compresi in Contributions to thè Doctrine of Signs (1976) e dai diciannove che compongono The Sign & Its Masters (1979). Il leitmotif che attraversa l’Argomento di questa trilogia e che percorre tutti gli articoli è la mia “assoluta convinzione che la semiotica comincia e finisce con la biologia e che la scienza dei se­ gni e la scienza della vita sono inevitabilmente in un rapporto di reciproca implicazione” (Sebeok 1979: xiii; cfr. Baer 1979 e Bouissac 1979, per dei brillanti commenti). John Greenleaf Whittier pose la questione, con la sua consueta familiarità, nei termini più sem­ plici: “For nature speaks in symbols and in signs, / And through her pictures human fate divines...” [Poiché la natura parla in sim­ boli e in segni. / E attraverso le sue immagini presagisce il destino umano...”] (“To Charles Sumner”, 1854). Questa millenaria meta­ fora del libro della natura” risale all’invenzione della scrittura e all influsso che essa ebbe sulla divinazione mesopotamica. A propo­ sito di tale convergenza Ginzburg (1980: 13) osserva giustamente: Essa diede agli dei la capacità di comunicare con i loro sudditi 14

senza messaggi scritti — sulle stelle, sui corpi umani, dovunque — che gli indovini avevano il compito di decifrare” (cfr. Sebeok 1976: 28). Il virtuosistico espediente metodologico, o, se preferite, strata­ gemma semiotico a cui diede luogo lo Spieltrieb di Schiller nelle autorevoli mani di Peirce è ben lungi dal costituire la sola espres­ sione moderna del tema del Gioco del Fantasticare. La sua più com­ plessa realizzazione artistica va ricercata nell’ambigua fantasia uto­ pica di Hermann Flesse, Das Glasperlenspiel (1943), reso approssi­ mativamente come “Gioco delle perle di vetro” (in ambienti di lin­ gua inglese si fa in genere riferimento all’opera con il titolo latino, Magister Ludi, del protagonista Joseph Knecht [Hesse 1949]). Gli studiosi di Hesse sostengono generalmente che il famoso (ma, temo, enormemente sopravvalutato) Homo Ludcns (1938; 1949) di Huizinga contribuì alla concezione che lo scrittore ebbe del ‘gioco’ come suprema manifestazione culturale (Field 1970: 153, 185-186«16). È però una forzatura eccessiva dubitare della profonda familiarità di Hesse con le lettere di Schiller, e di conseguenza esagerare la sua dipendenza da Huizinga, che chiaramente distorse la teoria di Schil­ ler “in un modo che è spiegabile solo supponendo che egli abbia letto dell’intera opera poco più che la singola lettera (XIV) a cui fa effettivamente riferimento” (Schiller 1967: clxxxvi). Un signifi­ cativo passo in una delle lettere di Thomas Mann (citato da Field 1970: 154), in cui l’autore si compiace della “austera giocosità” (ernste Verspieltheit) del romanzo di Hesse, contiene esso stesso una eco di una espressione resa famosa da Schiller. Il Ludi Magister spiega la serenità del cosiddetto Ordine castalio, di cui fa parte la facoltà del Gioco delle Perle: “Da noi [l’erudizione]... è culto della verità strettamente collegata col culto della bellezza e, inoltre con la psicoterapia meditativa, per la qual ragione non può mai perdere interamente la serenità. Il nostro Giuoco delle perle di vetro as­ somma in sé i tre principi: scienza, venerazione del bello e medi­ tazione” (Hesse [1943] 1980 p. 329). Il punto essenziale dell’os­ servazione di Mann era che, al di là di questo principio unificatore che collega tutta la conoscenza a un tema centrale, il romanzo stesso di Hesse era un Gioco delle Perle, un “giocare con tutti i contenuti e i valori della nostra cultura” (Field 1970: 154). Quando il Gioco ebbe inizio, era stato una semplice struttura, un “ordinare, raggruppare, e contrapporre idee concentrate, prese da numerosi campi del pensiero e della bellezza...”. Gradatamente, comunque, “i membri dell’Ordine e delle associazioni del Gioco por­ tavano con sé la tecnica e l’esercizio della contemplazione dalle scuo­ le scelte dove si coltivava con fervore l’arte di contemplare e di meditare. In questo modo i geroglifici del Gioco erano preservati dal degenerare in semplici lettere” (Hesse 1980: 35-36). Più tardi, 15

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Fig. 1.1. Il fondamentale gioco di perle: ammassi di ribosomi, come appaiono al microscopio elettronico. I ribosomi sono riuniti in una catena da una lunga molecola di acido nucleico che passa attraverso ciascun ribosoma. L’ammasso assomiglia a un gigantesco insieme di perle su di un filo. Così le molecole di acido nucleico fungono sia da parte della struttura del ribosoma (la perla) sia da filo che unisce le perle. Illustrazione tratta da O.L. Miller, et al., “Visualization of Bacterial Genes in Actio”, Science 169 (24 luglio 1970): 392-395, copyright 1970 by thè American Association for thè Advancement of Science. (Vedi anche Feinberg and Shapiro 1980: 61 e sg.)

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“Sotto l’alterna egemonia di questa o di quella scienza o arte, il Giuoco dei giuochi era diventato una specie di linguaggio univer­ sale col quale i giocatori erano in grado di esprimere valori me­ diante simboli e di metterli in vicendevole rapporto” (ibid.: 36). Le figure e le formule del Giuoco delle perle sono costruite in una metasemiotica — il “linguaggio universale” dei segni e dei simboli, dell’enigmatico gioco degli oracoli {alla sémainei), che ha la stessa natura della realtà (p.e. ibid.: 121) — “che traeva alimento da tutte le scienze e le arti, avviandosi, giocando e faticando, verso la perfezione, verso l’essere puro, verso la realtà pienamente com­ piuta” (ibid.: 38). I giocatori chiamavano questo risultato ‘realiz­ zazione’, e lo consideravano un passaggio dal possibile al reale. Secondo Peirce, l’uomo è una stringa di segni, un testo (cfr. Sebeok 1979: 61 e sg.); secondo Hesse, l’uomo è un viandante, un saggio (1980: 81). Il Giuoco di Hesse è una semiotica co­ smica ed ecumenica soffusa dell’incandescenza dell’intensità sogget­ tiva, un bagliore che alcuni — viene subito in mente Northrop Frye — chiamerebbero essenza dello spirito romantico. Non stupi­ sce certo che il Maestro metta in guardia il giovane Joseph: “...non tutti sono d’accordo col Giuoco delle perle di vetro. Secondo loro (e chi di noi non ha già udito questa censura semioclastica: que la Science sémiologique n’avait pas trop bien tournée: elle n’était souvent qu’un murmure de travaux indifférents, dont chacun indifférenciait l’objet, le texte, le corps [Barthes 1975: 163]) sarebbe un surrogato delle arti, dicono che i giocatori sono esteti, persone da non considerarsi come veri e propri intellettuali, bensì artisti dilettanti dediti alla libera fantasia (ibid. 80). Il Maestro esorta poi Joseph a prepararsi al conflitto. Le sue parole dovrebbero es­ sere imparate a memoria da ogni semiotico principiante: « Certo è che il Giuoco contiene pericoli... Tu invece non devi mai dimenticare quel che ti ho detto tante volte: noi abbiamo il com­ pito di scoprire le antitesi, in primo luogo come antitesi, poi come poli di unità. Ciò vale anche per il Giuoco delle perle... Bene, tu vedrai queste antitesi e col tempo scoprirai che non sono antitesi degli oggetti, bensì dei soggetti, che per esempio un artista di fan­ tasia non evita la matematica pura o la logica perché ne abbia rico­ nosciuto qualche parte e abbia qualcosa da dire in proposito, ma perché istintivamente ha altre tendenze... Ricordati: uno può es­ sere un logico o grammatico rigoroso e nello stesso tempo essere pieno di fantasia e di musica. Uno può essere musicante o giocatore di perle ed essere tutto compreso della legge e dell’ordine. L’uomo che noi intendiamo e vogliamo, che aspiriamo a diventare, potrebbe ogni giorno scambiare la sua scienza o la sua arte con qualunque altra, farebbe rifulgere nel Giuoco delle perle la logica più cristal17

lina e nella grammatica la fantasia più creativa. Tali dovremmo essere, in qualsiasi momento si dovrebbe poterci mettere in un altro posto senza opposizione o smarrimenti da parte nostra (ibid.: 80-81)». Nel romanzo utopico di Hesse l’azione si svolge in un altro se­ colo — intorno al 2400 d.C. — mentre la raffinatezza del Giuoco si avvicina a un ideale stato di perfezione sotto la sovrintendenza del Magister Ludi. Noi, giocatori contemporanei, che non siamo ancora pronti, ci volgiamo ad ascoltare tradizioni diverse — e per­ fino in concorrenza fra loro — che variano nella vastità della loro portata, duttilità di applicazione, e maturità di convincimento. Per alcuni, gli studi semiotici non sono altro che un gioco da bambini — nulla più del discernere “correttamente gli opposti” (cfr. Claus 1976). Questa è la scoraggiante conclusione a cui giunsi in un gelido sabato pomeriggio a Toronto, appena tornato a casa dopo aver ac­ compagnato una signorina, che aveva da poco superato l’età di quat­ tro anni, a vedere un film assai coinvolgente: The Empire Strikes Back. La precoce fanciulla è una fervida ammiratrice delle tecniche marziali e delle armi sbalorditive di Darth Vader, anche se la sua asmatica malvagità metonimica e una sola occhiata mozzafiato, alla sua fallica testa, pars prò loto, colta nell’atto di inguaiarsi conti­ nuerà ad alimentare la sua (e mia) fantasia durante tutto lo svi­ luppo del racconto epico e forse anche dopo. (The Empire Strikes Back non è, come io avevo supposto nella mia ingenuità, l’Episo­ dio II di Star Wars, bensì l’Episodio V, che seguì immediatamente quello che, in retrospettiva, era diventato l’Episodio IV!). I reconditi significati mitici che gravano sulla seconda messa in scena (cioè, l’Episodio V) della saga fanno di questo film un eccel­ lente candidato per quel tipo di interpretazione globale le cui anti­ tetiche componenti operative — che si trovano nell’armatura (Greimas 1970: 187 e sg.) o nel codice (ibid.: 189-197) o nel messaggio (ibid.: 188 e sg.) della sua struttura narrativa, ovvero sono deter­ minate dalle suddette tre dimensioni — sono di una generalità così stupefacente da ispirare abili invenzioni parodistiche, culminanti in Love and Death di Woody Alien. Nel corso di una serie di seminari serali condotti dalla mia gio­ vane accompagnatrice, giungemmo per caso alla chiave dell’intera trama di The Empire Strikes Back. In fin dei conti, il film è una metacomunicazione sulla comunicazione nelle sue molteplici grada­ zioni galattiche (“le mythe lui-mème... j’appellerai méta-langage, parce-qu il est une seconde langue, dans laquelle on parie de la pre­ mière [Barthes 1957: 222]). Dal momento che i nostri dialoghi e la provvisoria soluzione possono avere qualche rapporto con i di­ versi temi che ricorrono in questo libro e nei due che lo hanno 18

preceduto, ho pensato di tralasciare l’argomento delle nostre rifles­ sioni nella speranza di gettare più luce sulle questioni affrontate (anche a causa della loro portata metodologica). Questa storia, come si sviluppa nel suddetto particolare mon­ taggio, è popolata da cinque gruppi principali (gli actants di Tesnière) di creature (acteurs), che si distinguono le une dalle altre in base alla competenza semiotica e alle funzioni di ciascuna classe. Verso il centro si ha un insieme di uomini e donne più o meno ‘normali’, costituenti il Gruppo II, che parlano tutti correntemente inglese, anche se, in genere, di una varietà noiosamente gergale. I lingui­ sti potrebbero fare riferimento in questo caso al ‘codice ristretto’ (Bernstein 1974: 1551 e sgg.) o al tipo inferiore di diglossia (Fer­ guson 1971: 3). Come rileva Bernstein, ciò non significa che i par­ lanti non si servano mai di altre varianti — la scelta del gergo di­ pende dal contesto. A questo gruppo appartengono Han Solo, la Principessa Leia Organa (la sola donna dotata di parola in tutto il film), Landò Calrissian, i tipi dall’aspetto di ufficiali nazisti che gui­ dano le Navi Stellari di Darth Vader, varie comparse delle forze ribelli, gli umani, ma stranamente amorali, cacciatori di taglie e, a questo stadio del suo sviluppo personale, Luke Skywalker: come Darth Vader, l’antagonista, è un ex Cavaliere Jedi ed il protagoni­ sta, il giovane Luke, è a sua volta un aspirante Cavaliere Jedi. Al­ cuni personaggi del Gruppo II sono Buoni ( + ), alcuni Cattivi (-), o, come il signore della Città delle Nuvole, Dubbi (±). Al di sopra di questo ordinario gruppo intermedio si profila un esiguo numero di maestri Jedi, membri del Gruppo I, ciascuno a suo modo un Magister Ludi, presumibilmente di sesso maschile, anche se all’apparenza sono dei neutri asessuati (uno è un semplice manichino, uno soltanto un’ombra, e un altro viene spesso udito ma quasi mai visto, per così dire, “al naturale”). I Maestri non sono semplicemente vivi; “Esseri luminosi noi siamo, non questa materia bruta” dichiara Yoda. Due di loro sono Buoni; uno è Cattivo (ri­ spettivamente, il lato luminoso e il lato oscuro del principio unifi­ catore — noto come Forza). I Maestri Jedi si riconoscono soprat­ tutto grazie al fatto che parlano spesso in un codice elaborato (Bernstein 1974: 1551 e sgg.), o il tipo elevato di diglossia (Fer­ guson 1971: 3); in altre parole essi hanno le peculiarità espressive di certi personaggi di The Lord of thè Rin%s. L’omuncolo Yoda, il più venerabile dei Maestri (Yoda addestrò Ben, che a sua volta ad­ destrò Vader; sia Ben che Yoda stanno addestrando Luke, e anche Vader vorrebbe), è alto solo due piedi, ma ha più di 800 anni, possiede tratti lievemente orientali, e, come si addice a uno gnomo, ama le frasi gnomiche. (Luke: “Non lo credo”. Yoda: “Questo è il motivo per cui non riesci”. Yoda tende anche a parlare “a ri­ troso”, in stile Time: “Bene non va questo... di sicuro cosa sai 19

tu?... Provato? Sempre con te non si può fare. Quel che dico non senti?... Non provare. Fai, fai. O non fare. Non si tratta di pro­ vare”.) Yoda ha anche uno sguardo espressivo e pieno di senti­ mento, e in particolare lunghe, mobili orecchie, che, come bacchette, danno enfasi con i loro movimenti ai suoi apoftegmi verbali. Lo spettrale Ben (Obi-Wan) Kenobi, impersonato da Guinness, porta inevitabilmente una eco di Sir Alee. Le frasi di Lord Vader sono doppiamente marcate: + respiro profondo, a denotare malvagità controllata; e 4* magniloquenza, per significare la condizione socia­ le, che è, ovviamente, regale. Luke, esortato da Ben a ‘disimparare’ ciò che aveva imparato, sta lentamente avanzando verso la Classe Superiore, e questo movimento verso l’alto è rispecchiato talvolta dal suo comportamento verbale, e più spesso dalle sue eroiche gesta non verbali. L’efferato Darth Vader può anche costituire un modello del padre reale di Luke, ma non abbiamo ancora alcuna certezza del modo in cui, in definitiva, questo mito si articola con Edipo (seb­ bene i rapporti con il dramma sofocleo siano ovvi) o con Parsifal (nonostante non si possa sottovalutare l’eco wagneriana). (Cfr. Sebeok 1979: 177). Chiaramente distinto dalle due Classi Superiori, dotate entrambe di una innata predisposizione al linguaggio, sia elevato che umile, è il Gruppo III, i cui membri sono chiamati Wookiees, rappresentati (impersonati?) da Chewbacca. I Wookiees sono creature prive di parola, ma che bofonchiano, borbottano, grugniscono, abbaiano, e latrano, possono facilmente comunicare con mezzi non verbali, e sem­ brano possedere un modesto grado di intelligenza e una misura im­ pressionante di devozione irrazionale. Ai Wookiees possono essere insegnate delle tecniche straordinarie, come pilotare almeno dei mo­ delli primitivi di nave spaziale. In breve, essi fanno pensare alle Scimmie Sapienti discusse nel capitolo 8 di questo libro (sono rima­ sto particolarmente colpito da tale somiglianza nel momento in cui la Principessa Leia respinge il suo corteggiatore umano, Han, con l’indimenticabile frase “Preferirei piuttosto baciare un Wookiee” — più che un accenno certamente al motivo promiscuo della Bella e la Bestia). I Wookiees sono vivi ma necessariamente privi della parola. I robot e gli androidi del Gruppo IV, d’altro lato, sono calcolatori inerti dal punto di vista biologico i quali, tuttavia, possono essere programmati per comunicare con il mondo degli esseri viventi, come pure fra loro, in parecchi modi diversi. 2-1B, per esempio, parla, con tono autoritario, un idioletto tec­ nico di grande prestigio, con elementi di terminologia medica: “Il comandante Skywalker è stato in dormo-shock ma sta rispondendo bene . Anche l’antropomorfico C-3PO conversa in una lingua na­ turale (inglese), integrando la sua comunicazione vocale con una ri20

gida imitazione dei gesti umani. Le voci di entrambi gli androidi sono ottenute con il sintetizzatore. C-3PO ha però ricevuto un’istru­ zione esagerata: questo automa è talmente loquace che in certi mo­ menti critici deve essere disattivato (Han Solo: “O finisci di par­ lare o finisci di funzionare” [“Either shut up or shut down”]). Inoltre il suo modo di parlare suona troppo affettato — per le orec­ chie americane è insopportabilmente simile a un accento inglese caricaturale. Al confronto, R2-D2 ha rapporti con gli esseri umani per mezzo di una sorta di codice Yerkish, consistente, nel canale acustico, in brevi suoni intermittenti e specialmente fischi, che accompagnati da espressioni visive fungono da sostituti del linguaggio verbale (Sebeok 1976: cap. 11). La conversione dei messaggi di questo automa dalla sagoma tozza viene compiuta con l’aiuto di calcolatori minia­ turizzati; il caccia “X-wing” di Luke, per esempio, porta un acces­ sorio capace di decodificare i suddetti messaggi in frasi inglesi proiet­ tate sullo schermo di un pannello di controllo. C-3PO tenta di avanzare, senza successo sulla scala semiotica ed è punito per tale trasgressione — viene, infatti, gettato tempo­ raneamente sul pianeta Bespin. R2-D2 si accontenta di restare un robot parlante, meccanico ma di grado superiore, ed è continuamente ricompensato, come un cagnolino, con tenerezze. Il Gruppo V è costituito da un’accozzaglia di uomini, mostri, e macchine la cui proprietà comune è che tutti si avvicinano a un grado zero di semiosi. A causa di questo impedimento, essi sono in­ dicibilmente sinistri e malvagi. A questo gruppo appartengono i soldati, di aspetto hitleriano, delle truppe d’assalto di Vader, i quali possono ricevere ordini verbali ma li eseguono in disciplinato silen­ zio. Come un gigantesco organismo di scimmie combattenti, essi mancano di tratti individuali: questi soldati assomigliano a un ag­ gregato di unità cellulari le cui parti costitutive in qualche raro caso tentano perfino di scambiare messaggi averbali. Da tale punto di vi­ sta questi combattenti animati non differiscono in nulla dalle Sonde a forma di insetti, le quali sono dotate, oltre a simili appendici, di un apparato sensoriale uditivo. I Wookiees non vanno confusi con i mostri addomesticati e privi della parola — i Tauntaun o lucertole delle nevi dal caratteristico grugnito, che vengono cavalcate sulle distese di ghiacci di Hoth nella scena iniziale — o con gli sporadici mostri (le terribili Crea­ ture dei Ghiacci, Wampa, i viscidi Mvnocks, i maialeschi Ugnaughts, o la titanica Lumaca dello Spazio) che infestano la galassia. Questi predatori dello spazio sono prevalentemente feroci e sono più di­ sposti a divorarvi che a ragionare con voi. In sintesi: I membri dei Gruppi I-III sono tutti animati. La competenza linguistica del Gruppo I è elaborata, del Gruppo II ri21

stretta, e del Gruppo III inesistente. I membri del Gruppo IV sono tutti inanimati. Possono essere calcolatori per tutti gli usi o per specifiche finalità, programmati quindi per produrre un linguaggio sintetico di livello adeguato. Altri possono essere programmati per un surrogato del linguaggio verbale, e in tal caso c’è bisogno di dispositivi periferici per un’adeguata codificazione e decodificazione. I membri del Gruppo V, organici o inorganici, compiono, al mas­ simo, insignificanti esibizioni semiotiche. Questa analisi non comincia (né era questo il suo intento) a esaurire la struttura profonda di The Empire Strikes Back. In pri­ mo luogo, essa sfiora appena la complessa e pregnante intertestualità del film Sofocle, Wagner, Tolkien, e i Burattini (Frank Oz fu il creatore di Yoda a cui prestò anche la voce) sono già stati menzio­ nati; si potrebbero citare molti altri film, in particolare The Wizard of Oz, un certo numero di pellicole sulla seconda guerra mondiale, con una eco di Charlie Chan *. Ciò che più conta è che noi abbiamo a che fare con un’opera, per definizione, aperta, nel senso di Eco, non semplicemente in quanto “è suscettibile di innumerevoli inter­ pretazioni diverse” (Eco 1979: 49), ma in senso letterale, a causa dell’interdipendenza del testo da Star Wars come pure da circa sette altri episodi che debbono essere ancora realizzati, e dei quali alcuni precedono e altri seguono la vicenda in questione; si tratta, in ve­ rità, di una situazione fluida, una “opera in corso di sviluppo” (ibid.: 65). Così restiamo, provvisoriamente, con una sequenza nar­ rativa aperta, la cui struttura elementare è del tutto trasparente. La sua organizzazione semica binaria può anche essere dispiegata in in­ siemi di opposizioni e contraddizioni omologhe a quattro termini, che danno luogo, ciascuna, a un rettangolo logico, ovvero uno sche­ ma che Greimas chiama quadrato semiotico (carré sémiotique o, talvolta, modèle constitutionnel) (p.e., 1970: 135-155, 157-183), e Segre condanna come “uno strumento ridondante” (1979: 51), ma la cui basilare rappresentazione risale almeno alla retorica romana. Questa struttura paradigmatica di significazione viene sempre dispo­ sta in base a due semi polarizzanti, in cui a un insieme di caratteri viene assegnata una denominazione tematica e all’altro insieme la denominazione opposta. La trama della narrazione comporta la so­ vrapposizione della dimensione temporale al conflitto paradigma­ tico, e questa trasformazione narrativa sintagmatica (“stiramento”) raggiunge l’acme grazie a un capovolgimento della configurazione secondo la quale si disponevano inizialmente i gruppi delle dramatis personae. Il lettore attento dovrebbe essere ora in grado di generare un completo universo di significato, a partire da un punto qualsiasi nella Figura 1.2 o 1.3 (o vari altri quadrati che si potrebbero co­ struire facilmente). Con un poco di ingenuità, e dando via libera 22

s

s -------- s2 (inanimato)

si ----(animato)

H

........

........... (non animato)

(non inanimato)

s Fig. 1.2. S= Zoetico

si -+ (dotato di linguaggio)

s2 (privo di linguaggio)

sr-*—-----

...................►!!

(non privo di linguaggio)

(non dotato di linguaggio)

S

Fig. 1.3. S= Semiotico

al Puro Gioco del Fantasticare, dovrebbe essere un gioco da ragazzi produrre innumerevoli copioni di ulteriori proseguimenti, ovvero an­ tecedenti, di Star Wars. In questa Introduzione sono già emerse una volta le locuzioni parallele di ‘microcosmo’ e ‘macrocosmo’, ma, come già ben sapeva Eraclito, esiste un isomorfismo strutturale fra il mondo interno della psiche e il più vasto ordine naturale dell’universo. Questa fondamentale intuizione venne riassunta nell’aforisma xxviii: “Sono an­ dato in cerca di me stesso”. Un paradosso di questo tipo è analogo alle antinomie di Kant intorno a spazio, tempo, e causalità. Eraclito intendeva dire che, una volta incontrata in se stesso la legge del microcosmo, egli la scoprì di nuovo nel mondo esterno (cfr. Diels 1901: vii). Eraclito fornisce — seppure in maniera frammentaria — il legame essenziale fra la biosfera e la semiosfera, che è perfetta­ mente condensato dalla traduzione del logos eracliteo con ‘forma’; e non si dimentichi che il compianto Barthes affermava che “La sémiologie est une Science des formes...” (Barthes 1957: 218). Sap­ piamo che Eraclito giocava contemporaneamente con almeno quat­ tro sensi del termine logos: (1) il suo stesso discorso, (2) la natura dei sistemi semiotici in genere, (3) la composizione della mente, e (4) il principio universale in accordo col quale tutte le cose acca­ dono. Thom ha perfettamente ragione, quindi, ad interpretare logos come “la struttura formale che assicura ad ogni oggetto la sua unità e stabilità” (Thom 1975: 329«5; cfr. Sebeok 1979: 289«6). Ed Eraclito indica così l’origine dell’unificazione degli opposti di cui parla Hesse in riferimento al Giuoco delle perle: “È cosa saggia ascoltare non me ma il discorso (logos), per convenire (homologein) che tutte le cose sono una sola” (aforisma xxxvi). L’antitesi, ri­ solta, fra i temi dell’isolamento e dell’universale diffusione del logos viene poi applicata ai tre Universi di cui parla Peirce, e che, in Eraclito, appaiono come (a) la produzione semiotica, (b) la perso­ nalità individuale (mente), e (c) il dominio comune. Per l’impianto

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razionale e la funzione pubblica dell’arte e del pensiero di Eraclito, “il linguaggio diviene un simbolo della struttura unificante del mon­ do che è compresa dalla saggezza” (Kuhn 1979: 131). La superformula E = me2, che esprime la struttura unificante del mondo — il rapporto fra massa ed energia — è suggerita nella dedica di que­ sto libro. Nel capitolo 2 mostriamo che gli usi che Peirce fa del Gioco del Fantasticare hanno una somiglianza non puramente casuale con la difesa che Sherlock Holmes fa delPimmaginazione (la facoltà speci­ ficamente umana di “creare immagini e di disporle nella propria testa in nuove configurazioni” [Bronowski 1967: 39]), intuizione e speculazione (cfr. Peirce 5.213«1), o estrema apatia. Ginzburg (1980: 12) giunge indipendentemente alla nostra stessa conclusione, riconoscendo che, verso la fine dell’Ottocento, nasce un paradigma semiotico basato sull’interpretazione di sintomi, tratti caratteristici, indizi, in una parola, indici, e mostra come questo modello, radicato nella semiotica medica, ebbe grande influenza su tutte le scienze umane in genere. La serie di successive trasformazioni può essere fatta risalire a primitive culture di cacciatori e, in particolare, alla dottrina divinatoria mesopotamica, e giunge fino alle scienze mo­ derne, e, inoltre, tale passaggio dalla mantica al pensiero razionale può essere meglio compreso in base a principi semiotici, applicati sistematicamente (Bottéro 1974). Nel capitolo 4 mi occupo dell'artista, scrittore e negromante Morris, che sarebbe ben potuto appartenere all’Ordine Castalio: in questo sereno enciclopedista, che si sforzò di unificare tutte le di­ scipline scientifiche, “[il] culto della verità [era] strettamente col­ legato col culto della bellezza e, inoltre, con la psicoterapia medi­ tativa...”. E nel capitolo 5, mi volgo a Biihler, sulla scia di Meinong, che parlò in modo così eloquente del ruolo del gioco (Spielràume) nel linguaggio colloquiale, in quello del poeta (spesso di tono ele­ vato), ed anche nelle opere scientifiche (Biihler 1965: 171 e sg.). Torno a prendere in esame lo Spieltrieb, in modo un po' più particolareggiato, nel capitolo 9, dove cito Spencer che, nel 1897, diffuse l’unione dell’impulso a giocare con sensazioni e sentimenti estetici — un punto di vista assai avanzato fra i biologi contempo­ ranei per spiegare e definire l’arte. Ho tralasciato di aggiungere che Spencer, con poca finezza, si rifiuta di citare la fonte del suo argo­ mento, che è, senza ombra di dubbio, Schiller. In breve, i contenuti di questo libro hanno l’intento di fornire esempi del Gioco del Fantasticare, quale forma di réverie sulla so­ glia dello studio scientifico. Il suo scopo consiste nel meditare sui rapporti fra l’Universo dei Segni e altri Universi, nel provocare, e nello speculare — con il freno di una discussione critica — sulle 24

cause di tali associazioni. I saggi si concentrano sulle fonti e i fon­ damenti di parecchi importanti tipi di semiosi: 1. Nel campo averbale, sull’architettura, danza, musica, pittura, e comportamento in genere (cap. 9, Appendice I). 2. Nel campo verbale, su di un aspetto (per me di rilevanza autobiografica) dell’arte verbale (cap. 3), e — piuttosto diffusamen­ te — la presunta inclinazione al linguaggio di parecchie specie ani­ mali (capp. 6, 7, 8, Appendice II). Discutiamo anche certi pro­ blemi cruciali di logica, in particolare l’abduzione (cap. 2), in am­ bito letterario e non. 3. Con manovra autoreferenziale, poi, prendo in esame la dia­ lettica dell’indagine semiotica stessa, soprattutto come si presenta in Peirce (cap. 2), Morris (cap. 4), e Biihler (cap. 5). 4. Infine, in un saggio (cap. 10; cfr. Appendice III) tento di tracciare i rapporti fra due Universi apparentemente molto differen­ ti: i mondi, strettamente connessi, della mente e della bruta massa neurochimica racchiusa nel, e irraggiante dal, cranio umano. Fra le altre opposizioni enigmatiche su cui cerco di fare congetture in questo lavoro, nessuna resta più profondamente perturbante e irri­ solta. Schròdinger, Wigner, e Popper ed Eccles hanno tutti espresso l’opinione che “c’è bisogno di una revisione della fisica per spiegare l’interazione della mente e della materia in qualche particolare re­ gione del cervello” (Eccles 1979: 4). Monod, d’altro lato, definì in tono peggiorativo animisti coloro che credono in un “interazionismo dualistico”. Le mie tendenze personali mi spingono ad adottare — in forma ovviamente provvisoria — una variante dell’ipotesi intera­ zionista dualistica, molto vicina a una posizione sostenuta da J. Z. Young. Questa teoria comporta il principio di duplice codificazione e controllo. Molto brevemente, secondo questo modello (e nella mia terminologia), la mente è un sistema di segni — quindi un ordine immateriale che mantiene ordine. La mente è “la manifestazione dell’informazione codificata all’interno del nostro cervello” (Young 1979: 45). I segni, sebbene non siano mai materiali, possono tro­ vare realizzazione e supporto solo in sistemi materiali, sia statici sia dinamici. I segni pervadono tutte le forme viventi (Sebeok 1977 c) “in quanto informazione codificata che dirige quelle attività ordinate allo scopo che la vita continui” (Young 1979: 45). Al momento non sappiamo praticamente nulla del modo in cui l’informazione viene codificata e controllata nelle operazioni del cer­ vello, ma il punto di vista adottato da Young focalizza le questioni giuste, che sono essenzialmente di carattere semiotico. La sua pro­ spettiva comporta che sebbene mente e corpo siano in un certo senso distinti, non possono mai essere separati. Sono perfettamente d’ac­ cordo con la sua conclusione secondo la quale, invece di postulare una distinzione fra corpo e mente, “possiamo utilmente considerare 25

la vita come un’attività che continua in quanto è diretta dall’infor­ mazione simbolica, non materiale, relativa all’ordine, la quale è rac­ chiusa in primo luogo nel DNA e poi nel cervello” (ibid.: 54). Non sarà sfuggito all’attenzione del lettore che il modello di Young è esso stesso derivato dal confronto con le operazioni di codificazione che i semiotici usano quando si occupano di comunicazione umana. In conclusione, vorrei tornare sull’ossessionante ammonimento che il Magister Ludi fa a Joseph: “Certo è che il Giuoco contiene pericoli...”. Un campo di applicazione particolarmente pericoloso è quello delle truffe all’americana, che sono certo molto antiche, ma oggi sono addirittura potenziate — e al tempo stesso velate — dagli strumenti della moderna tecnologia. È affascinante apprendere dal classico libro di Maurer che i veri professionisti si divertono molto a “fare la truffa” (Maurer 1974: 89), presumibilmente per Puro Gioco, oltre alle più tangibili ricompense derivanti dal loro tipo di attività. Alla fine del gioco, dopo la stangata, è indispensabile cal­ mare la vittima — cioè impedire che il malcapitato, dopo essere stato ripulito, vada a lamentarsi presso le autorità. Quando viene spiegata una truffa all’americana, l’informatore corre un doppio rischio: da un lato da parte della folla stessa (ibid.: cap. 5 e p. 273); ma ancora di più da parte di John Bates (come viene in genere chiamata in gergo la vittima). Quando egli alla fine si convince di essere stato truffato, è spesso “incapace di parlare. È infuriato per ciò che gli è capitato” (ibid.: 69). L’odio della vittima è spesso rivolto contro il compare (ibid.: 279 e sg.). Come Northumberland dice a Morton, “...thè first bringer of unwelcome news / Hath but a losing office; and his tongue / Sounds ever after as a sullen bell, / Remember’d knolling a departing friend” [...chi per primo porta sgradite notizie / è in posizione perdente; e la sua lingua / sembra sempre una cupa campana, / che suona a morto per un amico che se ne va”] (Henry IV, 2a parte, Atto I, scena I, vv. 100-103). Certi aspetti della storia del Fenomeno Bravo Hans — l’effetto e la fallacia (che non sono affatto sinonimi) — sono esaminati in parecchi capitoli di questo libro. Hans, lo stallone eponimo, morì agli inizi di questo secolo. Ma morì davvero? Sembra piuttosto che sia diventato uno spettro che assume varie forme, un animale fan­ tasma che ritorna per portare a termine il suo compito, lasciato in sospeso, di épater le bourgeois. Un importante attributo di questo genere di spettri è che, come i poltergeist, essi fanno rumore: “ge­ mono, piangono, strillano, gridano, si lamentano, urlano, e sospi­ rano; imprecano, ridono, sussurrano e tossiscono” (Jones 1950-934) — o semplicemente battono colpi sul terreno, o, scimmiottando i sordi, ‘fanno segni*. Hans, insistendo in questo spiacevole compor­ tamento semiotico, riappare talvolta come cavallo, come maiale o 26

cane, recentemente come focena o primate, o, in forma più modesta, come tartaruga o picchio. Molte persone di cultura non esitano a credere alle ‘imprese’ delle incarnazioni di Hans, specialmente quan­ do la loro fede è rafforzata dai mezzi di comunicazione di massa — in particolare i programmi divulgativi della televisione — che fun­ gono da complici o adescatori per lo spettacolo (Sebeok 1979: 282w4). (Per esempio, la parte iniziale di Those Amazing Animals, su wrtv-abc di Indianapolis, trasmesso il 24 agosto 1980, presentò una minuscola puledra, Kristina, capace di risolvere problemi di ma­ tematica, proprio come faceva Morocco nel Seicento. Kristina, alla pari di Lady e Weeping Roger [Sebeok 1979: 90, 28«3] che l’hanno preceduta, fu definita “un cavallo che legge nel pensiero, dotato di percezioni extrasensoriali”, nonostante che stesse rispondendo ai ge­ sti più palesi che si possano immaginare. Dovrei forse aggiungere che questo spettacolo è derivato da un altro precedente, che era in­ titolato, a ragione. That’s Jncredible). La nostra umile analisi del Fenomeno Bravo Hans e il suo fin troppo riconoscibile sfruttamento nelle attuali ricerche sulle pre­ sunte capacità linguistiche di scimpanzè e gorilla mi hanno insegnato quanto sia rischioso tentare di giocare a carte scoperte: intendevamo che il nostro studio si volgesse a studiosi che avessero il coraggio di guardare in faccia i fatti così come sono, e non come essi vorrebbero che fossero; a giornalisti responsabili, e non passionali; e a profani che preferissero la strada di un sano ragionamento a quella della credulità. Le minacciose agitazioni — per quanto la loro trivialità fosse, fortunatamente, vivacizzata da toni farseschi — che segui­ rono le nostre prime pubblicazioni sull’argomento non possono es­ sere riassunte qui. Lascio questa cronaca per un altro libro, a cui sto lavorando, interamente dedicato alla saga del Bravo Hans, i suoi antenati e seguaci, con tutte le possibili implicazioni per il com­ portamento umano, compresi gli angoli bui della frode accademica e le ben più comuni tortuosità dell’autoinganno scientifico. Vorrei qui richiamare l’attenzione su di una luce che ha rischia­ rato la cupa atmosfera di conflitto intorno a questo fenomeno che, per me, ha inaspettatamente illuminato un gran numero di atteggia­ menti sconcertanti riguardo alla realtà delle cose e ai tipi di argo­ mentazione usati dai nostri avversari. In una recente nota critica sul nostro libro, Speaking of Apes (1980 a), il sociologo Truzzi ha indipendentemente confermato questa intuizione: “Le discussioni che si ritrovano in questo [campo di indagine] rivelano un pro­ fondo parallelismo con quelle fra critici e difensori dei fenomeni paranormali”. Il cosiddetto mondo del paranormale comprende te­ lepatia (‘lettura del pensiero’), chiaroveggenza (‘preveggenza’), pre­ cognizione (‘divinazione’), e psicocinesi (cioè, ‘levitazione’). Ouesti quattro fenomeni sono stati per lungo tempo parte del folklore e 27

della superstizione; nessuno di essi, comunque, in un secolo di inesausta ricerca, è mai stato sottoposto a verifica empirica (Hansel 1980; Marks and Kammann 1980). I difensori del paranormale hanno però sviluppato certe regole fisse che valgono per il paese delle meraviglie della loro dialettica. Ciò significa che se uno vuole impegnarsi in discussione con loro, deve assoggettarsi ai presupposti della logica che essi hanno costruito per il loro proprio mondo. Ciò che stupisce veramente è che gli studiosi del ‘linguaggio’ delle scim­ mie e quelli impegnati in simili indagini con altri animali hanno adottato il suddetto tipo di logica. Questa sbalorditiva tendenza — che, a partire dal maggio 1980 **, è stata ampiamente riconosciuta — presenta delle conseguenze molto interessanti che intendo anche esaminare nel mio prossimo libro. Per adesso, e con profonde scuse a Eliot, sono costretto a chiudere tale questione: I have seen thè primates signing, each to each. I do not think that they will sign to me. [Ho visto i primati farsi segni gli uni gli altri. Non credo che faranno segni a me.] Per uno scrittore del mio temperamento e dei miei gusti una delle maggiori soddisfazioni nel raccogliere i materiali per le diverse parti di un libro di questo genere deriva dal fatto che si ha il pri­ vilegio di entrare in contatto per settimane o mesi ora con questo ora con quel gruppo di persone — esperti e ciarlatani, studiosi e maghi, accademici e gente del circo, osservatori e fanatici. Nascono molte amicizie, si creano molte inimicizie, entrambe per la durata di una vita. Quale altra professione spingerebbe uno, al tempo stes­ so, a tuffarsi, con un compartimento della propria mente, in mezzo alla confraternita dei Baker Street Irregulars di New York, i Napoleons of Crime di Detroit, il Red Circle di Washington, e la Sherlock Holmes Society, e con un altro, a lasciarsi invischiare in quella zona indistinta che è infestata da mostri addomesticati, come i Wookiees, usciti da The lsland of Dr. Moreau *** e coloro che con aria sprezzante guidano il loro destino? Sempre con benevolenza, anche se spesso sospinti da pungoli elettrici, accompagnati da un grande pubblico, ma con scarsi finanziamenti, questi uomini, donne, e coppie, impegnati in una lotta all’ultimo sangue per ottenere la loro fetta di sovvenzioni o di attenzione, costituiscono una formi­ dabile legione di esemplari di un tipo che ho incontrato solo in certe frange dell’universo del sapere, come le celebrazioni di ESP e le orge di UFOlogia, o fra studiosi del Triangolo delle Bermude, dell’Uomo delle Nevi, o del mostro di Loch Ness. Sono tutte belle storie, e il loro esotismo mi piace nella misura in cui questi diverti28

menti infantili non sono scambiati per qualcosa di estremamente improbabile. Il Gioco del Fantasticare mi ha portato finora a stimo­ lanti e nuovi incontri al confine fra biologia e semiotica, in luoghi spesso sorprendenti, talvolta amabilmente contraddittori, ma il più delle volte inconsueti, dell’Universo dell’esperienza contemporanea.

NOTE * Investigatore cinese, protagonista di una fortunata serie di racconti, di cui è stata fatta una versione cinematografica [ndt]. ** Si allude qui al congresso su “Clever Hans Phenomenon: Comunication with Horses, Whales, Apes, and People”, tenuto sotto gli auspici della New York Academy of Sciences, il 6-7 maggio 1980 [ndt]. *** Romanzo, del 1896, dello scrittore inglese Herbert George Wells (1866-1946): questa opera, una sorta di allucinazione scientifica, narra i mo­ struosi esperimenti compiuti dal Dr. Moreau per trasformare alcuni animali in esseri umani. Ne sono state fatte due versioni cinematografiche [ndt].

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CAPITOLO II “Tu conosci il mio metodo”: un accostamento di Charles S. Peirce e Sherlock Holmes

I materiali che costituiscono questo capitolo, scritto in collaborazione con Jean Umiker-Sebeok, sono originariamente apparsi in Semiotica 26: 203-250 (1979). Sono stati successivamente inclusi in una monografia, rimaneggiati, migliorati con ulteriori esempi, e con rilluminante nota introduttiva di Max H. Fisch. Questa edizione rilegata fu realizzata su invito di Jack Tracv, e apparve nella sua collana, Gaslight Publications (Bloomington, Indiana, 1980). Si sono già presi accordi per la pubblicazione di una versione giapponese, c si sta trattando per traduzioni in italiano, tedesco, c portoghese.

Io non faccio mai congetture. Sherlock Holmes, The Sign of Tour Ma noi dobbiamo conquistare la verità facendo congetture, o in nessun altro modo. Charles S. Peirce, Ms. 692

Nota introduttiva Chi è la mente più originale e più versatile che le Americhe hanno finora prodotto? La risposta “Charles S. Peirce” è fuori di­ scussione, poiché chiunque fosse al secondo posto sarebbe tanto indietro che non varrebbe neppure la pena nominarlo. Matematico, astronomo, chimico, geodeta, topografo, cartografo, metrologo, spettroscopista, ingegnere, inventore; psicologo, filologo, lessicografo, sto­ rico della scienza, economista matematico, studioso di medicina per tutta la vita; recensore di libri, drammaturgo, attore, scrittore di racconti; fenomenologo, semiotico, logico, studioso di retorica, di metafisica — e, aggiungono ora i Sebeok, investigatore! Egli fu, per esempio, il primo psicologo sperimentale moderno delle due Americhe, il primo metrologo ad usare la lunghezza d’onda della luce come unità di misura, l’inventore della proiezione quinconciale della sfera, l’ideatore del progetto e della teoria di un calcolatore, e il fondatore della “economia di ricerca”. Egli è il solo filosofo si­ stematico delle Americhe che sia stato competente e produttivo in logica, in matematica, e in un vasto ambito delle scienze. Sotto questo aspetto non più di due persone, nell’intera storia della filo­ sofia, sono state a lui pari. 33 C BÌ2U0TECA V*

TRENTO

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Peirce (pronuncia pa:s) nacque a Cambridge, Massachusetts, nel 1839. Il padre era professore di matematica e astronomia al Harvard College, cosicché Charles crebbe nel circolo scientifico di Cambridge. Egli si laureò a Harvard nel 1859, e si addottorò in chimica summa cum laude alla Lawrence Scientific School nel 1863. I suoi più lunghi impieghi furono (1) quello di scienziato ricercatore al Coast and Geodetic Survey, 1859-60, 1861-91, e, al tempo stesso, osser­ vatore al Harvard College Observatory, 1867-75; (2) quello di re­ censore, soprattutto di libri filosofici, scientifici e matematici per “The Nation”, 1869-1908 (e insieme per l’“Evening Post” di New York, 1890-1908), e (3) lettore in Logica alla Johns Hopkins Uni­ versity, 1879-84. Egli tenne cicli di conferenze alla Harvard Univer­ sity nel 1865, 1869-70, 1903 e 1907, e al Lowell Institute di Boston nel 1866, 1892-93 e 1903; un ciclo di “Cambridge Conferences” nel 1898; e sporadiche conferenze in altri luoghi. Peirce fu uno dei principali collaboratori del The Century Dictionary, in sei volumi, 1889-91, e del Dictionary of Philosophy and Psychology, in due volumi, 1901-02. Fu eletto membro della American Academy of Arts and Sciences nel 1867, della National Academy of Sciences nel 1877, e della London Mathematical School nel 1880. Il suo impiego al Coast and Geodetic Survey comportò cinque periodi di servizio ol­ tre Atlantico (di cui tre negli anni 1870-83). Egli rappresentò gli Stati Uniti agli incontri della International Geodetic Association e divenne quindi il primo delegato americano ad una associazione scientifica internazionale. Sui vari aspetti della sua attività sono stati scritti più di trenta libri, cento tesi di dottorato, e un migliaio di articoli e capitoli. Le più ampie edizioni dei suoi scritti sono (1) gli otto volumi di Collected Papers (Harvard University Press), voli. 1-6 curati da Charles Hartshorne e Paul Weiss, 1931-35, e voli. 7-8 da Arthur W. Burks, 1958 (generalmente citati per volume e numero di pa­ ragrafo); (2) i quattro-volumi-in-cinque tomi di The New Elements of Mathematics (Mouton) curati da Carolyn Eisele, 1976; e (3) i tre volumi di Contributions to “The Nationu (Texas Tech Press, Lubbock) curati da Kenneth L. Ketner e James E. Cook, 1975-79. Il maggiore deposito di manoscritti e corrispondenza di Peirce si trova nella Houghton Library della Harvard University; si vedano rAnnotated Catalogue of thè Papers of Charles S. Peirce (Univer­ sity of Massachusetts Press, 1967) e “The Peirce Papers: A Supplementary Catalogue” (Transactions of thè Charles S. Peirce Society 7: 37-57, 1971). Una edizione in microfilm della maggior parte di questi articoli è disponibile presso il Photoduplication Department della biblioteca della Harvard University. Esiste anche una edizione' quasi completa in microfiche degli scritti che Peirce stesso pub­ blicò, accompagnata da una Bibliografia, stampata sia primaria che

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secondaria, (Institute for studies in Pragmaticism, Texas Tech Uni­ versity, Lubbock), curata da Ketner e altri, 1977. Una nuova scelta degli scritti di Peirce, editi e inediti, in ordine cronologico, in quin­ dici volumi, è cominciata ad apparire presso l’Indiana University Press. Il volume I (1981) copre gli anni 1857-66 e la maggior parte delle opere contenute è apparsa per la prima volta in stampa. L’episodio della vita di Peirce che indusse gli autori di “Tu conosci il mio metodo” a paragonarlo a Sherlock Holmes si verificò circa un secolo fa, nel 1879, mentre lo studioso prestava servizio al Coast and Geodetic Survey. Fu quello uno dei suoi anni più pro­ duttivi. Due soli esempi: 1) la “Note on thè theory of thè economy of research”, che inaugurò una nuova branca dell’economia, apparve nel rapporto annuale del Survey per il 1876 (uscì poi nel 1879). 2) “A quincuncial projection of thè sphere” apparve nell’"American Journal of Mathematics”. (Durante la seconda guerra mondiale il Survey pubblicò una nuova e molto ampliata edizione della mappa, sotto il titolo “Peirce’s world-quincuncial projection”, in quanto era la migliore su cui tracciare le rotte aeree internazionali. E nel 1963 il Survey varò un vascello di ricerca recante il suo nome, ora al servizio della National Oceanie and Atmospheric Administration). Peirce era stato iniziato ai metodi di indagine investigativa do­ dici anni prima, nella primavera del 1867, da suo padre Benjamin Peirce, il più prestigioso matematico del suo tempo, che era recen­ temente diventato sovrintendente del Coast Survey. L’occasione fu il processo per il testamento di Sylvia Ann Howland. Fu questo uno dei più famosi casi giudiziari che si siano mai presentati, e fra le molte cose di rilievo la più famosa fu la testimonianza dei Peirce. Le questioni dibattute erano due: 1) se le firme della signorina Howland sulle due copie del codicillo di “seconda pagina” di un precedente testamento fossero autentiche, oppure falsificate ricalcan­ do la firma del testamento stesso; 2) se, ammesso che fossero auten­ tiche, il codicillo potesse invalidare un testamento successivo, molto meno favorevole alla nipote Hetty H. Robinson. I Peirce si occupa­ rono della prima delle due questioni. Sotto la guida del padre, Charles esaminò gli ingrandimenti fotografici di quarantadue firme autentiche per verificare le coincidenze nelle posizioni dei trenta tratti discendenti. In 25.830 differenti confronti di tali tratti egli ritrovò 5.325 coincidenze, sicché la loro frequenza relativa risultò inferiore a un quinto. Applicando il calcolo delle probabilità, il padre rilevò che una coincidenza tra firme autentiche così completa come quella esistente fra le firme del codicillo, o fra una di queste e quella apposta al testamento in questione, si potrebbe verificare solo una volta su cinque alla trentesima potenza. Sebbene il giudice non fosse preparato a basarsi per il suo verdetto sulla teorìa delle probabilità, la sua decisione fu sfavorevole alla signorina Robinson 35

per la seconda questione. (Ciononostante, ella sposò poi Edward H. Green nel 1867 e, come Hetty Green, sarebbe divenuta “la stre­ ga di Wall Street”). In un lungo articolo su “The Howland will case” [“Il processo per il testamento della signorina Howland”] nelT“American Law Review” (luglio 1870), si disse: “D’ora in avanti, le strane storie di Poe sembreranno le più misere imitazioni”. Fra i manoscritti superstiti di Peirce, il primo resoconto dell’epi­ sodio del 1879 che egli destinò alla pubblicazione fu in una minuta del 1904 dell’articolo “On thè simplest possible branch of mathematics” [“Sulla branca più semplice possibile della matematica”]. Altre parti di quell’articolo apparvero per la prima volta nel 1976, in The New Elements of Mathematics, voi. I, pp. 158-69. Il resoconto di gran lunga più completo, e l’unico finora pub­ blicato, fu in un saggio intitolato “Guessing” [“Fare congetture”], scritto nella primavera del 1907, ventotto anni dopo l’episodio. Esso venne pubblicato per la prima volta nella rivista di breve vita “Hound and Horn” nel 1929, quindici anni dopo la morte di Peirce e cinquanta dopo l’accaduto. (Altre pagine di quel saggio furono ristampate nei Collected Papers 7.36-48 nel 1958, ma la parte cen­ trale fu omessa, eccetto un breve cenno in una nota editoriale a pie’ di pagina). Pochissimi studiosi di Peirce sono tornati alla rivista “Hound and Horn”. Così agli autori di You Know My Method, un secolo dopo la vicenda, non è rimasto altro da fare che riprendere l’arti­ colo “Guessing”, e con esso presentare agli appassionati di Holmes un grande filosofo e al tempo stesso mettere i sostenitori di Peirce in condizioni di poter leggere gli altri suoi scritti con occhi nuovi. L’estrema varietà dell’opera di Peirce aveva un centro e un intento. Il centro era nella logica, concepita dapprima come branca di una branca della semiotica, ma alla fine quasi coincidente con essa, anche se con una distribuzione d’accenti diversa da quella dei semiotici che non sono logici. L’intento era di distinguere i possi­ bili tipi di semiosi o funzioni segniche, e, all’interno di esse, com­ piere il più completo studio degli argomenti, e soprattutto delle loro funzioni in matematica e nelle scienze. La sua singola scoperta di maggior rilievo fu ciò che egli dapprima chiamò ipotesi e in seguito abduzione \abduction] o retroduzione [retroduction], un distinto tipo di argomentazione che differisce sia dalla deduzione sia dall’induzione, ed è indispensabile nella matematica come nelle altre scienze. Questa scoperta ebbe luogo almeno già nel 1866, e uno dei maggiori interessi del Volume I della nuova edizione con­ siste nel ripercorrere i passi che hanno portato Peirce a essa. Qualunque sia la definizione e il nome tecnico di questo terzo tipo di argomentazione, e la precisa natura dei suoi rapporti con le altre due, un elemento essenziale è costituito da ciò che nel lin36

guaggio comune è detto fare congetture. Paragonare il Peirce reale con rimmaginario Sherlock Holmes quali investigatori ed elabora­ tori della teoria dell’investigazione non è una divertente occasione per le battute di Holmes, ma il miglior modo possibile per intro­ durre alla filosofia di Peirce un lettore profano. Per la maggior parte, anche coloro che sono a conoscenza del­ l’opera di Peirce ne conoscono soltanto dei frammenti staccati. Un filosofo, per esempio, è molto probabile che lo conosca come il fon­ datore del pragmatismo, e un semiotico come il fondatore (o uno dei due o tre fondatori) della semiotica contemporanea. Ma né i filosofi né i semiotici sembrano consapevoli del fatto che il suo pragmatismo era un teorema di semiotica, e che gran parte del suo lavoro sulla semiotica era ispirato dalla volontà di perfezionare la dimostrazione di quel teorema. Forse la più lucida esposizione del­ l’argomento fu una lunga lettera senza titolo, composta nella pri­ mavera del 1907 e inviata al direttore del giornale “The Nation”. Da quella lettera nacque “Guessing” che non potè essere ridotto alle dimensioni di essa. Quando la lettera fu finita Peirce seppe che Bliss Perry, il direttore dell’**Atlantic Monthly”, ne era interessato, e gli inviò sia la lettera che l’articolo (“Guessing”). Nessuno dei due fu accettato. Per quanto Peirce li ebbe indietro e inviò la lettera a “The Nation”. Paul Elmer More era succeduto a Wendell Phillips Garrison come direttore. La lettera non fu mai pubblicata e, per quanto ne sappiamo, non fu mai restituita all’autore. Ma una minuta di trecentocinquanta pagine si trova ancora nel manoscritto 318, e i curatori dei Collected Papers montarono due minute prima dell’ultima frase di CP 5.481 per costituire quello che essi chiama­ rono “A survey of Pragmaticism” [“Una rassegna del Pragmati­ smo”] (CP 5.464-96). Le parti migliori del manoscritto 318 restano inedite, e anche se forse la maggioranza dei lettori si fa un’idea del rapporto esistente fra la semiotica e il pragmatismo, resta invece oscura la relazione fra entrambe le discipline e il ruolo del “fare congetture” [guessing] nell’investigazione. Così la frattura persiste. Con che cosa dovrebbe cominciare, quindi, un profano? Con “You know my method”, io suggerisco, seguito da CP 7.36-48 per la maggior parte del resto di “Guessing”; poiché, secondo quanto afferma la frase di Peirce posta dai Sebeok come epigrafe: “Noi dobbiamo conquistare la verità facendo congetture, o in nessun altro modo”. — Max H. Fisch

Ch. S. Peirce — Consulente Investigativo Venerdì 20 giugno 1879, Charles S. Peirce si imbarcò, a Boston, sul vapore Bristol della compagnia Fall River, diretto a New York, 37

dove avrebbe dovuto partecipare a un convegno il giorno seguente. Al suo arrivo a New York, il mattino seguente, egli provò una “strana, confusa sensazione” alla testa, che attribuì all’aria viziata della sua cabina. Si vestì in gran fretta e lasciò la nave. Nella sma­ nia di prendere un po’ d’aria fresca, egli dimenticò il soprabito e un costoso orologio Tiffany ad ancora, che gli era stato comprato dal governo statunitense per il suo lavoro con il Coast Survey. Su­ bito accortosi della distrazione, Peirce si precipitò di nuovo sulla nave, ma solo per trovare che i suoi oggetti erano scomparsi; a questo punto, posto di fronte a quella che egli avrebbe conside­ rato “una vergogna professionale per tutta la vita” qualora non fosse stato in grado di restituire l’orologio in perfette condizioni, egli ci racconta che “dopo aver fatto allineare tutti i camerieri di colore, indipendentemente dal ponte a cui appartenevano...”. « Andai da un capo all’altro della fila, e parlai per un poco a ognuno, nella maniera più degagé possibile: qualunque argomento potesse suscitare l’interesse del mio interlocutore andava bene, purché que­ sti non si insospettisse ed io potessi sembrare tanto sciocco da riu­ scire a scoprire qualche sintomo del furto commesso. Quando ebbi percorsa tutta la fila mi voltai e mi allontanai da loro, senza però andarmene via, e dissi a me stesso “Neppure il minimo barlume di luce!”. Ma allora il mio altro io (dato che i nostri scambi interiori sono sempre in forma di dialogo) mi disse “Ma tu devi semplicemente puntare il dito sulla persona. Anche se non ne hai alcuna ra­ gione, devi dire che tu pensi sia il ladro”. Così camminando feci un piccolo giro (non era passato neppure un minuto) e quando mi voltai verso di loro ogni ombra di dubbio era svanita. Non c’era alcuna autocritica (tutto questo sarebbe stato fuori luogo) (Peirce 1929: 271)». Preso da parte l’individuo sospetto, Peirce non fu in grado di convincerlo né con la ragione, né con le minacce, e neppure con la promessa di cinquanta dollari, a restituire gli oggetti rubati. Allora egli corse “giù alla banchina e si recò, quanto velocemente il vet­ turino potè, da Pinkerton”. Egli fu condotto da un certo Sig. Bangs, capo della sezione di New York di quella famosa agenzia investiga­ tiva, e così riferisce l’incontro: « “Sig. Bangs, sulla nave della Fall River, un negro il cui nome è così e così (gli diedi le sue generalità) ha rubato il mio orologio, la catena e un soprabito leggero. L’orologio è un Charles Frodsham e questo è il numero. Il ladro scenderà dalla nave all’ima, e andrà subito a impegnare l’orologio, per il quale otterrà cinquanta dollari. Vorrei che lei lo facesse pedinare, e non appena egli avrà la ricevuta del pegno, lei lo facesse arrestare”. Disse il Sig. Bangs, “Che cosa le 38

fa pensare che egli abbia rubato il suo orologio?” “Perché?” risposi “non ho alcuna ragione per pensarlo; ma ho piena fiducia che le cose stiano così. Ora se egli non andasse a un banco di pegni per sbarazzarsi dell’orologio, come sono sicuro che egli farà, allora tutto sarà finito e lei non avrà bisogno di prendere alcuna iniziativa. Ma io so che egli lo farà, le ho dato il numero dell’orologio e questo è il mio biglietto da visita. Non avrà difficoltà ad arrestarlo” (1929: 273)». Il caso fu affidato a un uomo dell’agenzia Pinkerton, il quale ricevette anche istruzioni di “agire secondo le proprie inferenze” invece di seguire le supposizioni di Peirce riguardo all’identità del colpevole. L’investigatore, esaminati attentamente i precedenti di ciascuno dei camerieri della Fall River, cominciò a pedinare un individuo diverso da quello sospettato da Peirce, ma questa risultò una falsa pista. un vicolo Quando l’investigatore nelle sue ricerche giunse cieco, Peirce tornò da Bangs, e questi gli consigliò di mandare car­ toline a tutti gli agenti dei banchi dei pegni di Fall River, Boston e New York, offrendo una ricompensa per il ritrovamento dell’oro­ logio. Le cartoline furono spedite il 23 giugno. Il giorno successivo Peirce e l’agente di Pinkerton recuperarono l’orologio da un avvo­ cato di New York, che li mandò da un prestatore su pegno che aveva risposto alla sua offerta di ricompensa. Questi “descrisse la persona che aveva impegnato l’orologio con tale precisione che non potè esserci alcun dubbio che si trattasse del ‘mio [di Peirce] uomo’” (1929: 275). Peirce e l’investigatore si recarono quindi alla casa dell’individuo sospettato, con l’intenzione di recuperare anche la catena e il so­ prabito. L’investigatore era riluttante ad entrare nell’abitazione senza un mandato, sicché Peirce, disgustato dall’inettitudine dell’agente, entrò da solo assicurandogli che entro dodici minuti sarebbe stato di ritorno con la refurtiva. Questa è la sua descrizione di quanto accadde dopo: « Salii i tre piani e bussai alla porta dell’appartamento. Venne una donna di pelle gialla; ma un’altra, circa dello stesso colore, se ne stava subito dietro di lei, senza cappello. Io entrai e dissi: “Suo marito è sulla strada per Sing Sing per aver rubato il mio orologio. Ho saputo che la mia catena e il soprabito, pure rubati da lui, si trovano qui e sono venuto a riprendermeli”. Allora le due donne fecero un tremendo baccano e minacciarono di mandare immediata­ mente a chiamare la polizia. Non ricordo con precisione cosa dissi, so solo che rimasi freddo e dissi loro che si sbagliavano di grosso a mandare a chiamare la polizia, poiché ciò avrebbe peggiorato le 39

cose per l’uomo. E dal momento che sapevo dove erano l’orologio e il soprabito, dovevo prenderli prima dell’arrivo della polizia... Non vidi nella stanza alcun posto in cui potesse essere la catena, e passai quindi in un’altra. C’erano pochi mobili oltre a un letto a due piazze e a un baule di legno dall’altra parte del letto. Dissi “La mia catena si trova in fondo a quel baule sotto i vestiti; e vado a prenderla...”. Mi inginocchiai e fortunatamente trovai il baule aperto. Buttai fuori tutti i vestiti e... arrivai alla... mia catena. La attaccai subito al­ l’orologio, e così facendo notai che la seconda donna (quella senza cappello) era scomparsa, nonostante il grande- interesse che aveva mostrato per le mie prime mosse. “Ora” dissi “resta solo da trovare il soprabito” ...La donna spalancò le braccia e disse “Prego, guardi pure dappertutto”. “Le sono molto obbligato, signora” feci io “poi­ ché questo insolito cambiamento di tono quando cominciai a cer­ care nel baule mi fa pensare che il soprabito non è qui...”. Così lasciai l’appartamento e notai allora che c’era un altro appartamento sullo stesso pianerottolo. Anche se non ricordo con sicurezza, probabilmente ero convinto che la scomparsa dell’altra donna fosse in rapporto con il marcato interesse che io cercassi il soprabito nell’appartamento da cui ero appena uscito. Mi feci certamente l’idea che l’altra donna non do­ vesse vivere lontano. Così per cominciare bussai alla porta dell’ap­ partamento di fronte. Vennero due ragazze dalla pelle gialla o gial­ lastra. Guardai dietro di loro e vidi un salotto del tutto rispettabile con un bel piano. Ma sopra il piano c’era un involto per dimensione e forma adatto a contenere il mio soprabito. “Ho bussato” dissi “perché c’è qui un involto che mi appartiene; oh sì, eccolo, vado giusto a prenderlo”. Così mi feci gentilmente strada fra di loro, presi il fagotto, lo aprii e trovai il mio soprabito, che indossai. Scesi in strada, e raggiunsi il mio investigatore circa quindici se­ condi prima dello scadere dei dodici minuti. (1929: 275-277)». La straordinaria padronanza di sé mostrata da Peirce è felice­ mente espressa in una lettera da lui inviata al sovrintendente C.^P. Patterson, del Coast Survey, più tardi quello stesso giorno: « La informo che sono arrivato qui sabato scorso e il mio orologio, di proprietà del Survey, mi fu rubato... al momento dell’arrivo. Mi misi subito a cercarlo e sono felice di esserci riuscito oggi pome­ riggio. Spero vivamente di catturare il ladro domattina prima delle sette... ». Il giorno seguente, 25 giugno, Peirce scrisse al sovrintendente Patterson che “I due negri che rubarono l’orologio furono oggi rin­ viati a giudizio. Tutto era stato recuperato. Il ladro è proprio la 40

persona che io sospettai fin dall’inizio contro l’opinione dell’inve­ stigatore Come appare in una lettera molto più tarda all’amico e disce­ polo William James (1842-1910), il filosofo e psicologo di Harvard, la storia di questa scoperta fu considerata come un esempio della “teoria [di Peirce] del perché accade che la gente fa così spesso delle congetture giuste”. “Questo singolare istinto del congetturare” (1929: 281), o inclinazione a formulare una ipotesi, più spesso de­ nominata da Peirce Abduzione 1 o Retroduzione, è descritto come una “particolare insalata... i cui ingredienti principali sono la man­ canza di fondamenti, l’ubiquità e la veridicità” (Ms. 692). Riguardo all’ubiquità Peirce scrive: « Guardando fuori dalla finestra in questa splendida mattina di pri­ mavera vedo un’azalea in piena fioritura. No, no! Non vedo questo; anche se è l’unico modo in cui posso descrivere ciò che vedo. Questo è una proposizione, una frase, un fatto; ma quanto io percepisco non è proposizione, frase, fatto, ma solo un’immagine, che rendo in parte intellegibile per mezzo di una dichiarazione di fatto. Questa dichiarazione è astratta; ma ciò che vedo è concreto. Io compio un’abduzione ogni volta che esprimo in una frase una cosa che vedo. La verità è che tutto il tessuto della nostra conoscenza non è altro che un feltro fatto di pure ipotesi confermate e raffinate dall’induzione. Nel campo della conoscenza non si può fare il più piccolo passo al di là del semplice guardare, senza compiere un’abdu­ zione ogni momento (Ms. 692) ». Se ogni nuova conoscenza dipende dalla formazione di una ipo­ tesi, tuttavia “sembra a prima vista che non ci si possa neppure domandare su che cosa essa si fonda, poiché da un fatto reale può solo inferire un può-essere (può-essere e può-non-essere). Ma c’è una marcata inclinazione verso il lato affermativo e la frequenza con cui ciò risulta essere un fatto reale è... di gran lunga la più sorpren­ dente di tutte le meraviglie dell’universo” (8.238). Si confronti la nostra capacità di compiere abduzioni con “le capacità musicali e aerodinamiche degli uccelli: essa è per noi, come quelle per loro, la più nobile delle facoltà meramente istintive” (1929: 282), Peirce nota che “la retroduzione supera la speranza che ci sia sufficiente affinità fra la mente di chi pensa e la natura, così da rendere non del tutto disperato il congetturare, purché ogni congettura sia verifi­ cata dal confronto con l’osservazione” (1.121). Peirce sostenne altrove che la capacità di un pulcino appena nato di beccare il cibo “scegliendo come prenderlo, e prendendo ciò che vuole”, ma “senza ragionare, poiché non agisce con delibe­ razione”, è nondimeno “sotto ogni punto di vista... simile all’infe­ renza abduttiva”; e va avanti poi nel ricondurre le scienze fisiche e 41

sociali agli istinti, rispettivamente, della nutrizione e della riprodu­ zione (Ms. 692). La retroduzione è un tipo di comportamento istin­ tivo di cui due classici esempi sono la migrazione dei pettirossi e la costruzione dei favi da parte delle api. Peirce chiamò il compor­ tamento apparentemente intelligente degli animali inferiori il lume naturale [in italiano nel testo N.d.T.] che egli considerò indispen­ sabile alla riproduzione.2 Peirce parlò di istinto razionale, animale e vegetale; come osserva Maryann Ayim (1974: 36), tutti i livelli di attività istintuale “hanno questo tratto in comune — l’attività provvede alla sopravvivenza e al benessere della specie nel suo in­ sieme mettendo i singoli membri in grado di reagire adeguatamente alle condizioni ambientali”; questo vale anche per l’uomo-scienziato. NeH’immagine che oggi comunemente si ha del mondo vittoria­ no, uomo-scienziato significa, soprattutto, Sherlock Holmes, l’inizia­ tore dell’indagine scientifica del crimine e inventore della celebre “Scienza della deduzione e analisi”. In riferimento a Holmes, Norwood Russell Hanson ha fatto l’interessante osservazione che: “Spes­ so la forza del commento di Holmes ‘Semplice deduzione mio caro Watson’ [j/c]3 dipende dal fatto che il ragionamento in questione muove da quanto accettato precedentemente a ciò che ci si dovrebbe spettare. Ma altrettanto spesso i ragionamenti del matematico e lello scienziato procedono dal fondo della pagina ‘insù’” (Bernstein i965: 59). Questa è una delle cose che Peirce identifica come ‘retrodurre’. Esso va da una anomalia inattesa a un complesso di premesse, la maggior parte delle quali è già accettata. « Un dato oggetto presenta una straordinaria combinazione di ca­ ratteri di cui ci piacerebbe avere una spiegazione. Che una spie­ gazione esista è pura assunzione; e qualora esista, è un qualche fatto nascosto che spiega quei caratteri; mentre c’è forse un milione di altre spiegazioni possibili, nel caso che non siano tutte, sfortuna­ tamente, false. Un uomo viene trovato nelle strade di New York pugnalato alla schiena. Il capo della polizia potrebbe aprire un elenco, mettere il dito su un nome qualsiasi e supporre che quello sia il nome dell’assassino. Che valore avrebbe una tale congettura? Ma il numero di nomi nell’elenco non si avvicina alla gran quan­ tità di possibili leggi di attrazione che avrebbero potuto spiegare le leggi del movimento planetario di Keppler [jfc] e, prima della verifica fornita da predizioni di perturbamenti ecc., li avrebbero spiegati alla perfezione. Newton, direte, suppose che la legge fosse semplice. Ma che cosa era se non un accumulare congettura su congettura? In natura i fenomeni complessi sono certo molto più numerosi di quelli semplici... Se si vuol fare qualcosa di più che mettere [un’abduzione] come domanda, non esiste alcuna garanzia (Ms. 692) ». 42

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Abduzione, cioè, retroduzione — “un nome modesto” ammet­ teva lo stesso Peirce — è, secondo una delle sue ultime formula­ zioni, che parrebbe debitrice in grande misura verso il filosofo in­ glese George Berkeley (1685-1753), un mezzo di comunicazione fra l’uomo e il suo creatore, un “privilegio divino” che deve essere coltivato (Eisele 1976, voi. Ili: 206). Secondo Peirce, “in base alla dottrina delle probabilità sarebbe praticamente impossibile a un essere qualsiasi congetturare per puro caso la causa di un feno­ meno”, ed egli pertanto suppone che non ci sia “alcun ragionevole dubbio che la mente umana, sviluppatasi sotto l’influsso delle leggi di natura, per tale ragione spontaneamente pensi secondo lo schema della natura” (Peirce 1929: 269). “È evidente” egli scrive “che se l’uomo non avesse avuto una luce interna tendente a rendere vere le sue congetture... molto più spesso di quanto lo sarebbero per puro caso, la razza umana sarebbe stata da lungo tempo eliminata per la sua assoluta incapacità nelle lotte per la sopravvivenza...” (Ms. 692). In aggiunta al principio che la mente umana è, quale risultato di naturali processi evolutivi, predisposta a fare congetture corrette riguardo al mondo, Peirce propone un secondo principio per spie­ gare parzialmente il fenomeno del congetturare, ossia, che “noi de­ riviamo spesso dall’osservazione forti presagi di verità, senza essere in grado di specificare quali furono le circostanze osservate a tra­ smettere tali presagi” (1929: 282). Peirce, per tornare alla storia dell’orologio rubato, non fu in grado di determinare a livello co­ sciente quale degli inservienti della nave fosse il colpevole. Mante­ nendosi “nello stato più passivo e ricettivo” (1929: 281) che potè durante il breve colloquio con ciascuno di essi, egli dovette però imporsi di fare quella che sembrava una congettura alla cieca per rendersi conto che in effetti il ladro aveva lasciato trapelare qualche indizio involontario e che egli stesso aveva percepito questo segno rivelatore in maniera “non autocosciente”, avendo fatto “una di­ scriminazione al di sotto del livello di coscienza, e che, sebbene non accettata come reale giudizio, restava pur sempre una discrimina­ zione pienamente autentica” (1929: 280). I processi attraverso i quali ci facciamo delle idee sul mondo dipendono, nella concezione di Peirce, da giudizi percettivi, che contengono elementi generali da cui possono essere dedotte delle proposizioni universali. Sulla base del suo lavoro sperimentale sulla psicologia della percezione, condotto alla Johns Hopkins University con il ben noto psicologo Joseph Jastrow (1863-1944), allora suo studente (1929: 7.21-48), Peirce sosteneva che questi giudizi percettivi sono “il risultato di un processo, non sufficientemente conscio da essere controllato, o, per essere più precisi, non controllabile e quindi non pienamente conscio” (5.181). Già prima che noi ci rendiamo conto di avere

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in mente una ipotesi, i diversi elementi che la compongono sono già presenti, “ma è l’idea di mettere insieme quello che prima non ci eravamo neppure sognati di mettere insieme che fa balenare il nuovo pensiero davanti alla nostra contemplazione” (5.181). Peirce descrive la formazione di una ipotesi come “un atto di intuito” dato che la “associazione abduttiva” ci si presenta “come un lampo” (5.181). La sola differenza fra un giudizio percettivo e un’inferenza abduttiva è che il primo, diversamente dalla seconda, non è soggetto ad analisi logica. « L’inferenza abduttiva sfuma nel giudizio percettivo senza alcuna netta linea di demarcazione; o, in altre parole, le nostre prime pre­ messe, i giudizi percettivi, vanno considerati come un caso estremo di inferenza abduttiva, da cui differiscono per essere assolutamente al di là di ogni critica (5.181; cfr. 6.522, Ms. 316)». Per ciò che riguarda il metodo scientifico, l’abduzione è, secondo Peirce, “semplicemente preparatoria”, ovvero “il primo passo del ragionamento scientifico” (7.218). Gli altri “tipi di ragionamento fondamentalmente differenti” nella scienza sono la deduzione e l’in­ duzione (vedi 1.65-68; 2.96-97; 5.145; 7.97; 7.202-207). In breve, l’adozione di una ipotesi o di una proposizione che porterebbe a predire quelli che sembrano fatti sorprendenti è chiamata abduzione. Il delineare le necessarie e probabili conseguenze empiriche della nostra ipotesi è detto deduzione. Induzione è il nome che Peirce dà alla verifica sperimentale dell’ipotesi. Peirce chiama l’abduzione anche “argomentazione originaria”, poiché, delle tre forme di ragionamento, essa è “l’unico tipo di argomentazione che dà inizio a una nuova idea” (2.97), e infatti: “La sua sola giustificazione è che se a noi è dato comprendere in qualche maniera la realtà, le cose possono stare solo in questo modo” (5.145). Parimenti, “né la deduzione, né l’induzione pos­ sono mai aggiungere nulla ai dati della percezione; e... questi, da soli, non costituiscono alcuna conoscenza applicabile a un uso pra­ tico o teoretico. Tutto ciò che rende la conoscenza applicabile ci viene attraverso l’abduzione” (Ms. 692). L’abduzione è un istinto che si fonda sulla percezione inconscia di rapporti esistenti fra diversi aspetti della realtà o, in altri ter­ mini, una comunicazione subliminale di messaggi. Essa è anche as­ sociata a, o piuttosto produce, secondo Peirce, un certo tipo di emozione che la discosta dagli altri due procedimenti argomentativi (induzione e deduzione). L’ipotesi sostituisce un singolo concetto un intrico di predicati connessi a un solo soggetto. Ora, esiste una particolare sensazione collegata al pensiero che ciascuno di questi predicati è inerente al

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soggetto. Nell’inferenza ipotetica questo complesso sentimento così prodotto viene sostituito da un singolo sentimento di maggiore in­ tensità, quello relativo al pensare la conclusione ipotetica. Quando il nostro sistema nervoso viene stimolato in forma complessa, ed esiste un rapporto fra gli elementi della stimolazione, il risultato è un unico armonioso disturbo che io chiamo emozione. Così, i vari suoni prodotti da un’orchestra colpiscono l’orecchio, e il risultato è una particolare emozione musicale, del tutto distinta dai singoli suoni. Questa emozione è essenzialmente la stessa cosa che si ve­ rifica nel caso della inferenza ipotetica, e ogni inferenza ipotetica implica il formarsi di una tale emozione. Si può dire, pertanto, che l’ipotesi produce l’elemento sensibile del pensiero, e l’induzione l’ele­ mento abituale (2.643) ». Di qui la dichiarazione di una certa fiducia e convinzione di cor­ rettezza che Peirce fa in relazione alla sua attività investigativa.

Sherlok Holmes — Consulente Semiotico Il resoconto fatto da Peirce del metodo usato per recuperare l’orologio rubato presenta una notevole somiglianza con le descri­ zioni del Dr. Watson di Sherlock Holmes in azione, anche se per quanto ne sappiamo, non esiste alcuna prova diretta che Peirce abbia letto qualcuno dei racconti di Holmes o che abbia mai in­ contrato Sir Arthur Conan Doyle. È probabile, comunque, che Peirce abbia saputo almeno dei primi racconti. A Study in Scarlet fu pubblicato a New York da Ward, Lock nel 1888, e nel 1890 The Sign of Four apparve nel “Lippincott’s Magazine”, il maggior concorrente dell’"Atlantic Monthly”, che Peirce era solito leggere. Inoltre Doyle era ormai di moda negli Stati Uniti, almeno dal 1894, anno in cui il celebre scrittore trascorse là due mesi tenendo un ciclo di conferenze e incontrandosi con i colleghi americani. Peirce era cresciuto in compagnia di scrittori e artisti oltreché di scienziati. In una lettera del 31 gennaio 1908 egli scrisse: « Ma mio padre era un uomo di vasti interessi e noi eravamo in stretti rapporti anche con gente del mondo letterario. Lo scultore William Story, Longfellow, James Lowell, Charles Norton, Wendell Holmes e sporadicamente Emerson sono tra le figure che popolano i miei primi ricordi (Hardwick 1977: 113)». Da adulto Peirce sembra essersi tenuto al corrente dei contem­ poranei sviluppi in campo letterario, poiché egli nomina frequente­ mente autori europei e americani del suo tempo nelle recensioni su “The Nation” (Ketner and Cook 1975). Edgard Allan Poe (180945

1849), inoltre, sembra essere stato uno dei suoi scrittori favoriti (1.251, 6.460; Ms. 689, Ms. 1539). A giudicare dai suoi riferimenti a “The murders in thè Rue Morgue” di Poe, Peirce si rivela appassionato di racconti polizie­ schi. Certo, è ben noto che il personaggio di Sherlock Holmes è in parte modellato sul Chevalier Dupin di Poe (vedi Messac 1929: 596-602; Nordon 1966: 212 e sgg.; e Trevor Hall 1978: 76), ma J. L. Hitchings, nel suo articolo su Holmes quale logico, osserva giustamente che “al confronto con Dupin, che è il parto della mente di un matematico e un poeta, Sherlock Holmes, anche nei suoi mo­ menti più teorici, nasce dal cervello di un dottore, ed ha semore i piedi ben piantati per terra” (1946: 117). Oltre alla specifica preparazione medica, Arthur Conan Doyle fu preso dal generale entusiasmo per la scienza che si era diffuso nelPInghilterra del suo tempo. Verso la metà del XIX secolo la scienza era diventata un elemento considerevole del pensiero inglese a tutti i livelli, e si era diffusa una “generale tendenza alla razionalità positivista” (Messac 1929: 612; cfr. Nordon 1966: 244). Lo stesso Conan Dovle rac­ conta: “Bisogna ricordare che quelli erano gli anni in cui Huxley, Tyndall, Darwin, Herbert Spencer e John Stuart Mill erano i no­ stri principali filosofi, e che perfino l’uomo della strada avvertiva la 'orrente impetuosa del loro pensiero...” (1924: 26). Hitchings fa un splicito confronto fra la logica di Holmes e quella di Mill: “il letodo abituale (di Holmes) di risolvere questi difficili problemi Jeriva dalla sua personale versione ampliata del metodo dei residui di Mill” (1946: 115). Hitchings, comunque, non è sulla strada giu­ sta quando dichiara che “Il modo di ragionare di Holmes è pre­ valentemente causale”, citando l’osservazione stessa dell’investiga­ tore che “ragionare partendo dall’effetto per risalire alla causa è meno frequente e quindi più difficile che ragionare dalla causa all’effetto” (1946: 115-116). Nella saga di Sherlock Holmes ci sono frequenti allusioni a Holmes come segugio — in particolare in A Study in Scarlet, The Dancing Men, The Bruce-Partington Plans e The Devil's Foot. Per esempio in The Boscombe Valley Mystery, Watson scrive: « Quando giunse su una pista come questa Sherlock Holmes si trasformò. Le persone che avevano conosciuto solo il calmo pen­ satore e il logico di Baker Street non lo avrebbero riconosciuto. Il suo volto si accese e divenne scuro. Le sopracciglia, tese, erano due dure linee nere, mentre gli occhi vi brillavano sotto con un luccichio metallico. Il viso era piegato in avanti, le spalle arcuate, le labbra strette, e le vene sporgevano come corde di frusta sul lungo nervoso collo. Le narici sembravano dilatarsi per un gusto puramente animale della caccia, e la mente era così assolutamente 46

concentrata su ciò che gli stava davanti che una domanda o una osservazione non era neppure udita, o, al massimo, provocava un breve, impaziente brontolio di risposta ». In riferimento a questo passo Pierre Nordon commenta: “Qui vediamo un uomo trasformato in un attimo in un segugio davanti ai nostri occhi, fino al punto che sembra quasi aver perso la capa­ cità di parlare ed essere ridotto a esprimersi per mezzo di suoni inarticolati” (1966: 217), tutto concentrato sulle proprie non ver­ bali e istintive capacità di percezione e abduzione. Da questa raccolta intuitiva di indizi Holmes è in grado di for­ mulare le sue ipotesi, sebbene tenda a sussumere sia i processi per­ cettivi che quelli ipotetici nella classe ‘Osservazione’, come nel se­ guente passo tratto dal capitolo intitolato “The Science of deduction” in The Sign of Tour, in cui Holmes e Watson stanno discu­ tendo di un investigatore francese chiamato Francois le Villard: « Holmes: Egli possiede due delle tre qualità necessarie all’investi­ gatore ideale. Ha capacità di osservazione e di deduzione. Difetta solo di conoscenza... 'Watson-. ...Ma lei parlava proprio adesso di osservazione e de­ duzione. Certo in una qualche misura l’una implica l’altra. Holmes: Perché? non direi... Per esempio, l’osservazione m, mostra che sei stato all’ufficio postale di Wigmore Street questa mattina, ma la deduzione mi fa sapere che hai spedito di lì un telegramma. Watson: Giusto! ...Ma confesso che non vedo come ci è arrivato. Holmes: È semplicissimo... così assurdamente semplice, che una spiegazione è superflua; eppure può essere utile a definire i limiti delPosservazione e della deduzione. L’osservazione mi dice che hai un po’ di terriccio rosso attaccato alle scarpe. Proprio di fronte al­ l’ufficio di Wigmore Street hanno rimosso il selciato e gettato sopra della terra, per cui è difficile evitare di passarci sopra entrando. La terra è di questa particolare tinta rossastra che, a quanto ne so, non si trova da altre parti nel vicinato. Fin qui l’osservazione. Il resto è deduzione. Watson: Come ha dedotto quindi il telegramma? Holmes: Certo sapevo che non avevi scritto alcuna lettera, dal momento che sono stato seduto di fronte a te per tutta la matti­ nata. Inoltre vedo lì sulla tua scrivania aperta un foglio di franco­ bolli e un bel mazzo di cartoline. Cosa potevi andare a fare all’uffi­ cio postale, se non a mandare un telegramma? Elimina tutti gli altri fattori e ciò che resta deve essere la verità ».

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Watson presenta allora a Holmes un compito ancora più dif­ ficile, e quando Pinvestigatore eccelle di nuovo, gli chiede di spie­ gare il metodo di ragionamento. “Ah,” risponde Holmes “si tratta di fortuna. Ero in grado di dire soltanto le diverse probabilità. Non mi aspettavo di essere così preciso”. Quando Watson poi chiede se “non fu semplice congettura” egli replica “No, no: io non faccio mai congetture. È una pessima abitudine — distruttiva per la facoltà logica”. E attribuisce la sorpresa del suo compagno al fatto che “Tu non osservi la mia linea di pensiero e non osservi i piccoli fatti da cui dipendono grandi inferenze”. Nonostante simili dichiarazioni in contrario, le capacità di os­ servazione di Holmes — il suo “straordinario talento per le mi­ nuzie”, come afferma Watson — e di deduzione sono nella maggior parte dei casi costruiti su di una complicata successione di quelle che Peirce avrebbe chiamato congetture. Nel caso precedente, per esempio, Holmes può solo supporre che Watson sia effettivamente entrato nell’ufficio postale, invece che esserci semplicemente pas­ sato davanti. Di più, Watson sarebbe potuto entrare nell’ufficio postale per incontrare un amico, e così via. Che Holmes fosse convinto dell’importanza di studiare i det­ tagli per il buon esito di una indagine appare chiaramente nel seguente passo tratto da A Case of Identity: : “Sembra che sia stato in grado di leggere sulla donna molte cose ;he erano risultate del tutto invisibili a me”, osservai. “Non invisibili, ma inosservate, Watson. Tu non sapevi dove guardare e così ti è sfuggito tutto ciò che era importante. Non riesco mai a farti capire l’importanza delle maniche, il carattere indicativo dell’unghia del pollice, e le importanti conclusioni legate al laccio di uno stivale. Vediamo, che cosa hai colto nell’aspetto della donna? Descrivi”. “Aveva un cappello di paglia a tesa larga, color ardesia, con una piuma di un rosso mattone. La giacca era nera con perline nere cucite sopra e una frangia di piccole guarnizioni di colore nero lucido. Il vestito era marrone, più scuro del color caffè con del peluche porporino al collo e alle maniche. I guanti erano grigi e consumati sull’indice destro. Non osservai gli stivaletti. Aveva degli orecchini d’oro, a pendaglio, piccoli e rotondi, e l’aspetto di una persona piuttosto benestante, ma dall’aria disinvolta e cordiale”. Sherlock Holmes batté piano le mani e ridacchiò. “Parola mia, Watson, stai andando a meraviglia. Hai fatto davvero molto bene. È pur vero che ti è sfuggito tutto quello che era importante, ma hai azzeccato il metodo e hai un buon occhio per i colori. Non fidarti mai delle impressioni generali, ragazzo mio, ma concentrati sui dettagli. La mia prima occhiata è sempre alla manica di una 48

donna. In un uomo è forse meglio guardare prima il ginocchio dei pantaloni. Come tu osservi, la donna aveva del peluche sulle iri aniche, che è una stoffa eccellente per mostrare tracce. La doppia linea, un po’ sopra il polso, dove la dattilografa preme sul tavolo, era marcata molto chiaramente. La macchina per cucire, del tipo a mano, lascia un segno simile, ma solo sul braccio sinistro, e dalla parte opposta al pollice, non di traverso sul lato più largo, come in questo caso. La guardai poi in viso, e, osservando Pimpronta del pince-nez sul naso, azzardai una osservazione sulla miopia e lo scrivere a macchina che sembrò sorprenderla”. “Ha sorpreso me”. “Ma certo, è naturale. Io fui poi molto colpito, e interessato, guardando giù, di notare che sebbene gli stivaletti che calzava non fossero diversi fra loro, avevano in realtà qualcosa di strano; uno aveva una mascherina leggermente decorata, l’altro era semplice. Dei cinque bottoni, uno aveva allacciati solo i due inferiori, l’altro solo il primo, il terzo e il quinto. Ora, quando una signorina, per il resto vestita con cura, è uscita di casa con gli stivaletti abbottonati per metà, non ci vuole una gran deduzione per dire che è uscita in gran fretta”. “E cos’altro?” domandai... “Ho notato, di passaggio, che aveva scritto un biglietto prima di uscire di casa, ma già completamente vestita. Tu hai osservato che il guanto sinistro era consumato sull’indice, ma non hai evi­ dentemente notato che sia il guanto che il dito erano macchiati di inchiostro viola. Lei aveva scritto in fretta e aveva intinto la penpa un po’ troppo. Deve essere successo questa mattina, altrimenti il segno sul dito non resterebbe così chiaro. Tutto questo è divertente, anche se piuttosto elementare...” ». La causa dei successi investigativi di Sherlock Holmes non di­ pende dal non fare congetture, bensì dal saper farle tanto bene. Infatti, egli inconsapevolmente segue il consiglio di Peirce di sce­ gliere l’ipotesi migliore (vedi 7.220-320). “È una mia vecchia mas­ sima” dichiara Holmes “che quando si è escluso ciò che è impos­ sibile, quello che resta, per quanto improbabile, deve essere la ve­ rità” (The Beryl Corone/; cfr. The Sign of Tour, The Blanched Soldier, The Bruce-Partington Plans). Una massima di Peirce suona: “I fatti non possono essere spiegati da una ipotesi più straordinaria di questi stessi fatti; e delle varie ipotesi bisogna adottare la meno straordinaria” (Ms. 696).4 Parafrasando Peirce, possiamo dire che la migliore ipotesi è quella più semplice e più naturale, la più facile e più economica da verificare, e che tuttavia contribuirà alla com­ prensione del più gran numero di fatti possibile. Nell’episodio del­ 49

l’ufficio postale le congetture di Holmes riguardo alle azioni di Watson sono le più ragionevoli per quelle circostanze. Inoltre esse lo mettono in condizione, con il minimo bagaglio logico, di raggiungere un punto da cui poter, con ulteriori osserva­ zioni, verificare alcune delle predizioni fatte sulla base della sua ipotesi e così ridurre notevolmente il numero di conclusioni pos­ sibili. In altre parole, Holmes non solo sceglie l’ipotesi più sem­ plice e più naturale, ma anche “frammenta una ipotesi nelle sue minime componenti logiche, e le tenta poi una alla volta”: quest’ul­ timo procedimento è quello che Peirce descrive come il segreto del gioco delle “venti domande” (7.220; cfr. 6.529). Avanzata l’ipotesi che Watson sia entrato nell’ufficio postale per una qualche opera­ zione, Holmes deduce (nel senso di Peirce) che dovrebbe trattarsi di spedire una lettera, comprare francobolli e/o cartoline, o inviare un telegramma. Egli controlla poi sistematicamente ciascuna di que­ ste possibilità, subito arrivando a quella che risultò essere corretta. Quando parecchie spiegazioni sono possibili, “si procede prova su prova finché una non presenta una quantità convincente di con­ ferme” (The Blanched Soldier). Uno di noi (Sebeok 1979: cap. 5) ha discusso le riflessioni di Peirce in merito al fare congetture nel contesto di alcuni giochi di bambini, da una parte, e certi spettacoli illusionistici dall’altra. Il gioco delle “venti domande” è l’equivalente verbale del gioco “acqua e fuoco”, in cui il suggerimento verbale è minimo. Una sorta di suggerimento averbale, dato involontariamente, guida il mago, in certi numeri in cui il suggerimento verbale è del tutto escluso, all’oggetto cercato. Questa comunicazione (o feed-back) muta spiega anche dei fenomeni apparentemente ‘occulti’ come il movi­ mento della tavola Oui-ja, il “battere i colpi” e la scrittura automa­ tica ed è alla base di vari numeri di mentalisti, noti nel mondo della magia come “lettura muscolare” o “lettura del pensiero”. In questi casi “Lo spettatore crede di essere guidato dal mago, ma in realtà è questi che permette allo spettatore di guidarlo per mezzo di inconsapevoli tensioni muscolari” (Gardner 1957: 109). I mi­ gliori mentalisti però possono fare completamente a meno del con­ tatto corporeo, e riescono a trovare quello che cercano semplicemente osservando le reazioni degli spettatori nella stanza.5 Come abbiamo già osservato, Peirce sosteneva che una ipotesi deve sempre essere considerata come una domanda, e, mentre ogni nuova conoscenza proviene da supposizioni, queste sono inutili sen­ za la verifica della ricerca. Anche Holmes fa notare a Watson in The Speckled Band “quanto sia sempre pericoloso ragionare par­ tendo da dati insufficienti”. L’investigatore è inoltre d’accordo con Peirce (2.635; 6.524; 7.202) che i pregiudizi o ipotesi che non si lasciano sottomettere alla prova dell’induzione costituiscono un no50

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tevole ostacolo al buon esito del ragionamento. Holmes dichiara, per esempio: “io mi faccio un dovere di non avere mai pregiudizi” {The Reigate Puzzle; cfr. The Abbey Grange, The Naval Treaty). L’ammirazione di Peirce per le grandi figure della storia della scien­ za, come Kepler, nasce precisamente dalla loro straordinaria capa­ cità di mantenere la catena congettura-prova-congettura. È proprio su questo punto, riguardante l’obiettività verso i fatti, che Holmes, come Peirce nella storia che apre questo libro, si trova in disaccordo con i rappresentanti ufficiali della polizia, o, nel caso di Peirce, gli esperti di Pinkerton.6 In The Boscombe Valley Mystery, per esempio, cerca di mostrare alcuni importanti indizi al­ l’ispettore Lestrade, investigatore di Scotland Yard, il quale, come al solito, non riesce a vedere il rapporto fra i dettagli scoperti da Holmes e il delitto. Quando egli replica “Temo di essere ancora scettico”, Holmes risponde calmo “Lei segue il suo metodo e io seguirò il mio”. Holmes descrive poi questa conversazione a Watson nei seguenti termini: « “Da un esame del terreno ho ottenuto gli insignificanti dettagli che ho presentato a quell’imbecille di Lestrade, come relativi alla personalità del criminale”. “Ma come ha fatto a trovarli?”. “Tu conosci il mio metodo. Si fonda sull’osservazione di mi­ nuzie” ». Ciò che così spesso porta la polizia fuori strada nei racconti di Sherlock Holmes è che, all’inizio dell’indagine su un delitto, tende ad adottare l’ipotesi che meglio spiega alcuni fatti di rilievo, igno­ rando le ‘minuzie’ e rifiutandosi in seguito di considerare i dati che non appoggiano la posizione assunta. “Non c’è nulla di più ingan­ nevole di un fatto ovvio” dice Holmes in The Boscombe Valley Mystery. La polizia commette anche 1’“ errore capitale” di teorizzare prima di possedere tutte le prove {A Study in Scarlet). Il risultato è che, “insensibilmente” si comincia “a distoreere i fatti per adat­ tarli alle teorie, invece che modificare le teorie per adattarle ai fatti” {A Scandal in Bohemia). La reciproca sfiducia che nasce da questa profonda differenza di metodo pervade i racconti di Sherlock Holmes. In The Keigate Puzzle, Watson fa notare a un funziona­ rio, l’ispettore Forrester: “In genere ho trovato che c’era metodo nella sua [di Holmes] follia”, a cui l’ispettore replica “Certa gente potrebbe dire che c’era follia nel suo metodo”.7 Non siamo certo noi i primi a rilevare l’importanza della con­ gettura nel metodo di indagine di Sherlock Holmes. Régis Messac, per esempio, parlando di Holmes che legge nel pensiero di Watson in The Card board Box (cfr. la scena quasi identica in alcune edi51

zioni di The Resident Patient), nota che ci sono migliaia di cose che Watson avrebbe potuto pensare guardando il ritratto del ge­ nerale Gordon o quello di Henry Ward Beecher, e che Holmes sta in effetti congetturando (1929: 599). Messac è nel giusto quando rileva che, sebbene Holmes talvolta ammetta che una sorta di istinto alla congettura fa parte del suo lavoro (p.e., egli riconosce, in A Study in Scarlet, che le sue “curiose doti di istinto e osserva­ zione” sono dovute a una “sorta di intuizione” — un sentimento echeggiato in The Sign of Four e The Problem of Thor Bridge), egli nondimeno “sostiene la realtà della ‘deduzione’ ” (1929: 602). E Nordon conclude che “bisogna dire che in pratica egli [Holmes] ottiene risultati molto migliori dall’osservazione che dai procedi­ menti logici” (1966: 245). Marcello Truzzi, in un profondo articolo sul metodo di Sherlock Holmes (1973: 93-126), anticipò questo nostro lavoro indicando le somiglianze fra le cosiddette deduzioni, o induzioni dell’investigatore, e le abduzioni, o congetture di Peirce. Secondo il sistema di logica di Peirce, inoltre, le osservazioni di Holmes sono esse stesse una forma di abduzione, e l’abduzione è un tipo di inferenza logica, legittima quanto l’induzione o la deduzione (Peirce 8.228). Infatti Peirce sostiene che: « Niente ha tanto contribuito alle idee caotiche o errate attualmente esistenti sulla logica della scienza quanto la mancata distinzione fra i diversi elementi del ragionamento scientifico; e una delle peggiori fra queste confusioni, e al tempo stesso una delle più comuni, con­ siste nel considerare l’abduzione e l’induzione prese insieme (spesso confuse anche con la deduzione) come un’argomentazione semplice (8.228) ». Peirce ammette che, “in quasi tutto ciò che [egli] pubblicò prima dell’inizio del secolo... l’ipotesi e l’induzione erano più o meno confuse” (8.227), e fa risalire la confusione di questi due tipi di ragionamento alla troppo “ristretta e formalistica concezione che i logici hanno dell’inferenza (come se i giudizi fossero stati di ne­ cessità formulati dalle premesse)” (2.228; cfr. 5.590-604; Ms. 475; Ms. 1146). L’abduzione e l’induzione, naturalmente, “conducono entrambe all’accettazione di una ipotesi poiché i fatti osservati sono tali che necessariamente o probabilmente risulterebbero quali conseguenze di quella ipotesi”. Ma: « L’abduzione parte dai fatti, senza avere, all’inizio, alcuna partico­ lare teoria in vista, sebbene sia motivata dalla sensazione che c’è bisogno di una teoria per spiegare quei fatti 'che suscitano sorpresa. 52

L’induzione parte da una ipotesi che sembra raccomandarsi da sola, senza avere all’inizio alcun fatto particolare in vista, nonostante senta la necessità di fatti per sostenere la teoria. L’abduzione cerca una teoria. L’ipduzione è alla ricerca di fatti. Nell’abduzione la consi­ derazione dei fatti suggerisce l’ipotesi. Nell’induzione lo studio del­ l’ipotesi suggerisce gli esperimenti che portano alla luce i fatti a cui aveva mirato l’ipotesi (7.218) ». Prendendo un esempio che sarebbe potuto appartenere a uno dei casi di Sherlock Holmes, Peirce fornisce la seguente dimostra­ zione della differenza esistente fra questi due tipi di ragionamento: « Su un pezzo di carta strappata c’è uno scritto anonimo. Si so­ spetta che l’autore sia una certa persona. Si cerca nella sua scri­ vania, alla quale egli soltanto aveva accesso, e vi si trova un pezzo di carta il cui bordo strappato combacia perfettamente, in tutte le sfrangiature, con quello della carta in questione. È una bella infe­ renza ipotetica affermare che l’uomo sospettato fu realmente l’auto­ re. Il fondamento di questa inferenza è evidentemente il fatto che è estremamente improbabile che due pezzi di carta strappati com­ bacino per caso. Quindi, fra molte inferenze di questo tipo, solo una piccolissima parte risulterebbe ingannevole. L’analogia esistente fra ipotesi e induzione è così forte che alcuni logici le hanno confuse. L’ipotesi è stata chiamata una induzione di caratteri. Un certo numero di caratteri appartenenti a una data classe si ritrova in un dato oggetto; si inferisce pertanto che tutti i caratteri di quella classe appartengono all’oggetto in questione. Questo certamente com­ porta lo stesso principio dell’induzione; ma in forma modificata. In primo luogo i caratteri non sono suscettibili di semplice enumera­ zione come gli oggetti; in secondo luogo i caratteri vanno per ca­ tegorie. Quando facciamo un’ipotesi come quella riguardo al pezzo di carta, esaminiamo soltanto una singola linea di caratteri, o al massimo due o tre, e non prendiamo nessun campione degli altri. Se l’ipotesi non fosse altro che una induzione, tutto ciò che saremmo autorizzati a concludere, nell’esempio precedente, sarebbe che i pezzi di carta, coincidenti nelle irregolarità esaminate, dovrebbero coinci­ dere anche in altre, vale a dire più piccole, irregolarità. L’inferenza dalla forma della carta al suo proprietario è precisamente ciò che distingue l’ipotesi dall’induzione, e ne fa un passo più audace e più pericoloso (2.632) ». Holmes riconosce indirettamente la natura più pericolosa del­ l’ipotesi quando sostiene l’uso dell’ ‘immaginazione’ (The Retired Colourman, Silver Blaze), ‘intuizione’ (The Sigtt of Four), e ‘specu­ lazione’ (The Hound of thè Baskervilles). Bisogna essere disposti ad 53

immaginare che cosa accadde, e agire in base a tale supposizione, e questo porta “nella regione in cui soppesiamo le probabilità e sce­ gliamo la più verosimile” (The Hound of thè Baskervilles). Holmes, come si sa, oscillava fra la più frenetica eccitazione del segugio lanciato sulle tracce della sua preda e una sorta di réverie letargica, una combinazione che John G. Cawelti chiama “vitalizzazione dello stereotipo” (1976: 11,58), una sintesi immaginativa di tipi figurali che 1.1. Revzin denomina ‘fusione’, anche con spe­ cifico riferimento alla letteratura poliziesca (1978: 385-388). Il mec­ canismo, in questo contesto, deriva naturalmente dall’ambiguo Dupin di Poe. Nel seguente passo, tratto da The Red-Headed Lea^ue, Watson osserva che anche il secondo tipo di attività è importante per le investigazioni di Holmes: « Il mio amico era un musicista entusiasta, non solo ottimo esecu­ tore, ma anche compositore non mediocre. Tutto il pomeriggio se ne stava seduto nelle poltrone della sala, immerso nella più perfetta felicità, movendo gentilmente le lunghe, sottili dita a tempo con la musica, mentre il suo volto sorridente e i languidi occhi sognanti erano quanto di più diverso ci si potesse immaginare da quelli di Holmes il cane poliziotto, Holmes l’infaticabile, pronto di mano, accanito agente criminale. Nel suo singolare carattere si avvicen­ davano le due nature, e l’estremo rigore e astuzia rappresentavano, come ho spesso pensato, la reazione allo stato d’animo poetico e contemplativo che di tanto in tanto predominava in lui. L’oscilla­ zione della sua natura lo portava da un estremo languore a una energia divorante; e, come ben sapevo, egli non era mai così vera­ mente formidabile come quando, per giorni e giorni, se ne era stato disteso nella sua poltrona fra improvvisazioni ed edizioni in carat­ teri gotici. Allora, all’improvviso, lo prendeva il gusto della caccia, e la sua brillante capacità di ragionamento saliva al livello dell’in­ tuizione, fino al punto che coloro che non conoscevano i suoi me­ todi lo guardavano con sospetto come una persona dotata di un sapere diverso da quello dei comuni mortali. Quando lo vidi, quel pomeriggio, così immerso nella musica a St. James Hall sentii che si avvicinavano tempi duri per coloro che egli si disponeva a cacciare ». Peirce ha anche commentato i rapporti esistenti fra tali attività mentali e pratiche più terrene. “Esiste” egli scrive “una certa gra­ devole occupazione della mente che... non comporta alcun proposito eccetto quello di mettere da parte ogni proposito serio” e che “sono stato talvolta indotto a chiamare... réverie con qualche precisazione; ma per una disposizione d’animo così opposta a uno stato di rilas­ satezza e di sogno tale designazione sarebbe una veste troppo scon54

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veniente. Infatti si tratta di puro gioco” (6.458). Un tipo di puro gioco, “un vivace esercizio delle proprie capacità” senza “alcuna re­ gola, eccetto questa stessa legge della libertà”, è da lui chiamata ‘fantasticare’ [Musement], ed è definita come un processo con cui la mente cerca “alcune connessioni” fra due dei tre universi del­ l’esperienza (cioè, quello delle idee, quello della bruta realtà, e quello dei segni (6.455)), “e la speculazione ne sta alla base” (6.458). Il fantasticare: « comincia abbastanza passivamente con l’assorbire l’impressione di qualche angolo di uno dei tre universi. Ma l’impressione subito passa a osservazione attenta, l’osservazione al fantasticare, il fantasticare a un vivace compromesso di comunione fra diverse fasi dell’io. Se poi si lascia che le osservazioni e le riflessioni si specializzino troppo, il gioco si converte in studio scientifico... (6.459) ». Il crimine, osserva Peirce, si adatta particolarmente all’applica­ zione del fantasticare. Citando le osservazioni di Dupin in “The Murders in thè Rue Morgue” di Poe (cioè: “Sembra che questo mistero sia considerato insolubile proprio per la ragione che do­ vrebbe farlo considerare di facile soluzione. Mi riferisco al carat­ tere outré dei suoi elementi”), Peirce nota che “quei problemi che appaiono a prima vista assolutamente insolubili ricevono proprio in quel momento... le loro pronte soluzioni. Questo li rende parti­ colarmente adatti al gioco del fantasticare” (6.460). Si confrontino le osservazioni di Holmes: “Ti ho già spiegato che ciò che è fuori del comune è generalmente una guida piuttosto che un ostacolo” (A Study in Scarlet); “L’originalità è quasi invariabilmente un in­ dizio” (The Boscombe Valley Mystery); “Più un avvenimento è outré e grottesco più merita di essere esaminato con attenzione, e il punto che sembra rendere un caso più complicato, una volta considerato a dovere e trattato scientificamente, è quello che con maggiore probabilità può chiarirlo” (The Hound of thè Baskervilles); e, “Soltanto il caso incolore, privo di avvenimenti è senza speranza” (Shoscombe Old Place). Concordiamo, quindi, ma per ragioni differenti, con l’opinione di Nordon che “In quanto creazione di un medico imbevuto dello spirito razionalista del tempo, il ciclo di Sherlock Holmes ci offre per la prima volta lo spettacolo di un eroe che trionfa continuamente per mezzo della logica e del metodo scientifico. E il valore dell’eroe è meraviglioso come la potenza della scienza, che molti speravano conducesse a un progresso materiale e spirituale della condizione umana, e Conan Doyle per primo” (1966: 247).

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Malattia, delitto e semiotica Le radici della semiotica affondano in antichi trattati di medi­ cina (Sebeok 1976: 4,125 e sg., 181 e sg.; 1979: cap. 1), così delucidando l’affermazione di Peirce che “Parlando in termini ge­ nerali si può dire che le scienze si sono sviluppate dalle arti utili, o da quelle arti che erano credute utili”. Come l’astronomia è nata dall’astrologia, e la chimica dall’alchimia, così è stato anche per la “fisiologia, essendo la medicina a mezza strada fra la magia e la scienza” (1.226). Peirce si mostra ben versato nella storia e teoria della medicina. La sua famiglia lo considerava avviato a una car­ riera in chimica e gli rese disponibile la biblioteca medica del de­ funto Zio Charles, che era stato medico (Fisch: comunicazione per­ sonale). In almeno un passo (2.11wl) Peirce elenca alcuni dei libri di storia della medicina da lui consultati. Nel 1933, in una inter­ vista con Henry S. Léonard (uno studente in filosofia di Harvard, che era stato mandato nella casa di Peirce, a Milford, Pennsylvania, dopo la morte della sua vedova, Tuliette Peirce, a raccogliere alcuni restanti manoscritti), G. Alto Pobe, l’ultimo medico ad aver avuto in cura Peirce, dichiarò che: « di medicina Peirce ne sapeva più di me. Quando andavo a visi­ tarlo restavo con lui da mezz’ora a un’ora ogni volta. Faceva bene parlare con lui. Quando arrivavo spesso egli mi diceva tutti i suoi sintomi e faceva la diagnosi della malattia. Poi mi raccontava tutta la storia dei trattamenti medici per questa malattia. Poi mi diceva che cosa gli si sarebbe dovuto prescrivere. Non sbagliava mai. Di­ ceva che doveva chiedermi di scrivere la ricetta perché egli non aveva una laurea in medicina (dalle note di Max H. Fisch) ». Peirce riconosce che, per ciò che riguarda problemi statistici relativi alla campionatura e all’induzione, “I medici... meritano una menzione speciale per il fatto che hanno avuto fin dai tempi di Ga­ leno una propria tradizione di logica”, e “lavorando contro il modo di ragionare lpost hoc, ergo propter hoc’ ”, riconoscono “sebbene indistintamente”, la regola d’induzione dichiarante che “anzitutto bisógna decidere per quale carattere ci si propone di esaminare il campione, ed esaminarlo solo dopo aver preso la decisione” (1.9597). Peirce riconosce, d’altro lato, che la medicina, quella “materia­ listica professione” (8.58), fa difficoltà ad aderire a un’altra mas­ sima dell’induzione, che vuole che il campionario sia vasto: « È violando questa massima che si fanno mentire le cifre. Le sta­ tistiche mediche in particolare sono di solito miserevolmente scarse, come pure sospettabili di essere scelte ad hoc. Sto parlando ora delle

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statistiche di medici stimabili. È estremamente difficile raccogliere numerosi fatti relativi a un qualsiasi punto oscuro della medicina, ed è ancora più difficile dimostrare che quei fatti costituiscono una fedele rappresentazione dell’andamento generale delle cose. Questo spiega i lenti progressi della scienza medica, nonostante l’enorme quantità di studio accumulata, e spiega anche i grandi errori che sono spesso accettati per secoli dai medici. Forse non c’è alcuna branca della scienza così difficile sotto ogni punto di vista. Ci vuole una mente davvero grande per fare un’induzione in medicina. Tutto questo è troppo ovvio perché ci sia bisogno di una prova. Ci sono tante influenze fuorviami — idiosincrasie personali, mescolanza di trattamenti, influenze accidentali e sconosciute, peculiarità del cli­ ma. razza e stagione — che è assolutamente essenziale che i fatti siano numerosi e vengano analizzati con occhio di lince per sco­ prire gli inganni. E tuttavia è particolarmente difficile raccogliere fatti in medicina. Ben di rado l’esperienza di una sola persona ha un peso decisivo e in medicina nessuno può giudicare di cose che trascendono le proprie conoscenze personali, per cui bisogna fidarsi del giudizio altrui. E così mentre in questa scienza c’è bisogno di una campionatura più vasta e precisa che in qualunque altra, pro­ prio qui più che altrove tali requisiti sono difficili da soddisfare. Nulla quindi manifesta meglio l’imprecisione con cui la gente d solito ragiona della facilità con cui nove persone su dieci si pr< nunciano sui meriti di una medicina sulla base della più limitai inesatta e preconcetta esperienza (ammesso che la si possa in qua che modo chiamare esperienza). Ogni vecchietta che ha visto un qualche miglioramento di sintomi in seguito alla somministrazione di una medicina in una dozzina di casi che appena si assomigliano fra loro, non esiterà a dichiararla una cura infallibile per ogni caso che in qualche modo assomigli a uno dei dodici. Questo è scon­ volgente. Ma quel che è ancora peggio, il trattamento verrà rac­ comandato anche sulla base di uno o due casi conosciuti per sen­ tito dire. Si osservi la combinazione di errori che un simile procedi­ mento comporta. In primo luogo, non si può a rigore trarre un’in­ duzione a meno che non sia stato -preso un campionario di una classe definita. Ma questi poveri pazzi — che credono di essere di­ ventati dei Galeno semplicemente per aver trascorso del tempo nelle camere degli ammalati — sono assolutamente incapaci di de­ finire la malattia in questione. Supponiamo, per esempio, che si tratti di difterite. Come riconoscono la difterite dal mal di gdla?| I loro campionari sono in realtà campionari di classi non definite. In secondo luogo, il numero dei loro esempi non è sufficiente alla più semplice induzione. In terzo luogo è molto probabile che gli esempi siano raccolti per sentito dire. Oltre all’inaccuratezza 57

di questo tipo di prova, c’è il fatto che è più facile sentir parlare di cose straordinarie relativamente alla loro frequenza che di cose ordinarie. Così prendere in considerazione tali esempi significa pren­ dere dei campioni ad hoc. In quarto luogo il predicato comune a tutti gli esempi è in genere decisamente vago. In quinto luogo, una deduzione viene di solito fatta in riferimento al caso che si ha per le mani senza considerare attentamente se appartiene davvero alla classe da cui è stato preso il campione. In sesto luogo molte più cose si possono predicare del caso in esame di quanto non sia stato trovato in esempi precedenti. Tutti questi errori sono com­ binati in una sorta di argomentazione di cui è difficile non sentire un esempio nel giro di una settimana (Ms. 696)8 ». Passando in rassegna un gran numero di casi di diagnosi medica nei racconti di Sherlock Holmes (malattie del cuore e malattie tro­ picali specialmente), Maurice Campbell, egli stesso uno specialista del cuore, conclude che, sul piano medico, “Watson sembra ottima­ mente informato” (1935: 13). È interessante notare che Watson mentre segue con successo il metodo logico di diagnosi riguardo alla patologia fisica, è singolarmente incapace di trasferire questo me­ todo all’investigazione di un delitto e offre un esempio di persona solo parzialmente versata in quella che Peirce chiamava logica docerts (vedi p. 66 nel presente libro). Nella misura in cui Sherlock Holmes fa ricorso agli stessi me­ todi della medicina, un elemento di arte e magia viene a mesco­ larsi alla logica della scoperta scientifica da lui seguita. Questo è, secondo noi, ciò che differenzia Holmes dal metodo più puramente logico delPinvestigatore Dupin, in Edgard Allan Poe.9 Si sa ora con certezza che Conan Doyle, il quale esercitò egli stesso la professione di medico finché i racconti di Sherlock Holmes non lo resero abbastanza ricco da abbandonare tale attività, creò il suo personaggio sul modello del Dr. Joseph Bell, suo professore al Royal Infirmary di Edimburgo. Ciò costituisce comunque, da parte di Conan Doyle, un tentativo consapevole di introdurre in campo investigativo un metodo più rigorosamente scientifico di quanto fos­ se stato fatto in precedenza. Messac osserva giustamente che Doyle seguiva Bell per ciò che riguarda la diagnosi estesa all’intera per­ sonalità e vita del paziente, ed anche per la convinzione che la diagnosi “non è mai assolutamente corretta, e comporta incertezze ed errori”. L’investigazione di un delitto, come la medicina, è una sorta di “pseudoscienza” (1929: 617). In riferimento alla nascita di A Study in Scariet, Doyle scrive: « Gaboriau mi aveva attratto per il nitido gioco d’incastro delle sue trame, e l’eccellente investigatore di Poe, il Chevalier Dupin, 58

era stato uno dei miei eroi fin dalla fanciullezza. Ma potevo portare una mia aggiunta personale? Pensai al mio vecchio maestro Joe Bell, al suo aspetto aquilino, ai suoi modi curiosi, alla sua straor­ dinaria bravura nell’individuare i dettagli. Se egli fosse stato un investigatore avrebbe certamente trasformato questo lavoro affasci­ nante ma disorganizzato in qualcosa di molto vicino a una scienza esatta (1924: 69)». Doyle fu impressionato dalla straordinaria abilità di Bell nel diagnosticare “non solo le malattie, ma anche il carattere e l’occu­ pazione dei pazienti”. Egli era incaricato dei malati esterni di Bell, il che significava che egli doveva “raccogliere i malati esterni, pren­ dere brevi annotazioni dei singoli casi, e poi farli accomodare, uno per volta, nella grande stanza in cui Bell sedeva in gran pompa circondato dai suoi assistenti e studenti” (1924: 20). Il giovane studente di medicina aveva allora “ampia possibilità di studiare i suoi [di Belli metodi e di notare che egli veniva a sapere più cose con poche occhiate” (ibid.) che non attraverso tutte le domande fatte da Doyle al paziente prima della visita medica. « Anche se di tanto in tanto egli prendeva una cantonata, i risultati erano a volte straordinari. In uno dei casi migliori egli disse a un paziente vestito in abiti borghesi: “Ebbene, lei ha prestato servizio nell’esercito”. “Sì, signore”. “Congedato da poco?”. “Sì, signore”. “Un reggimento degli Highlands?”. “Sì, signore”. “Sottufficiale?”. “Sì, signore”. “Di guarnigione alle Barbados?”. “Sì, signore”. “Vedete, signori”, egli spiegò “quest’uomo ha l’aria rispettosa, ma non si è tolto il cappello. Non usa nell’esercito, ma se fosse stato congedato da molto tempo avrebbe imparato queste consue­ tudini borghesi. Egli ha un aspetto autoritario ed è ovviamente scozzese. Per ciò che riguarda le Barbados, egli lamenta una elefan­ tiasi, che è una malattia delle Indie Occidentali e non britannica”. A questo pubblico di Watson tutto sembrò miracoloso finché non venne spiegato, e allora divenne semplice abbastanza. Non c’è da stupirsi se dopo lo studio di un simile personaggio io feci uso, esagerandoli, dei suoi metodi quando, alcuni anni dopo, cercai di creare un investigatore scientifico che risolvesse i casi per merito 59

personale, e non grazie alla stupidaggine del colpevole (1924: 20-21)». Mentre il succitato dialogo costituisce l'unico esempio riferito dallo stesso Doyle delle capacità di osservazione e deduzione di Bell, molti altri resoconti delle sue spettacolari imprese, annotati da medici che erano compagni di studio di Doyle a Edinburgo o amici della famiglia Bell, sono stati pubblicati e sono presi in esame da Trevor Hall (1978: 80-83). William S. Baring-Gould ha ripor­ tato uno degli aneddoti meno noti (da “Lancet”, del 1° agosto, 1956): « Fu fatta entrare una donna con un bambino piccolo. Joe Bell le disse buongiorno e lei rispose al saluto. “Come è stata la passeggiata da Burntisland?". “Buona”. “Ed è passata per Inverleith Row?”. “Sì”. “E che ne ha fatto dell’altro marmocchio?”. “L’ho lasciato da mia sorella a Leith”. “E lavora ancora alla fabbrica di Linoleum?”. “Sì”. “Vedete, signori, quando mi ha detto buongiorno ho notato il suo accento del Fife, e, come sapete, la più vicina città del Fife è Burntisland. Vedete l’argilla rossa che ha sul bordo della suola delle scarpe: in un raggio di venti miglia da Edinburgo tale argilla si trova solo ai Giardini Botanici. Inverleith Row costeggia i giar­ dini e costituisce il più breve tragitto da Leith a qui. Avete os­ servato che il cappotto che portava in mano è troppo grande peri il bambino che l’accompagna, e quindi lei uscì di casa con due bambini. Infine, ha una dermatite alle dita della mano destra, e questo è caratteristico di chi lavora alla fabbrica di linoleum di Burntisland” (1967: voi. I, 7)». Oppure si consideri il seguente resoconto di un’intervista a Conan Doyle, nel giugno 1892, originariamente pubblicata in un articolo di Harry How intitolato “A day with Mr. Conan Doyle” apparso nello “Strand Magazine” nell’agosto dello stesso anno, e ristampato da Hall (1978: 82-83): « [A Edinburgo] incontrai l’uomo che mi suggerì Sherlock Hol­ mes... le sue capacità intuitive erano semplicemente meravigliose. Il caso n. 1 venne avanti. “Capisco” disse Bell “lei soffre di alcoolismo. Lei si porta perfino una fiaschetta nella tasca interna del cappotto”. Seguì un altro caso. “Ciabattino, se non sbaglio”. Poi si volse agli studenti e fece notare che i pantaloni di quell’uomo erano 60

consumati all’altezza del ginocchio, dalla parte interna. Quello era il punto in cui teneva il sasso da battere — una particolarità che si ritrova solo fra i ciabattini ». Hall (1978: 78) osserva anche che Doyle riconobbe i suoi de­ biti verso Bell sul retro del frontespizio di The Adventures of Sberlock Holmes (1892), in cui dedica il libro al suo antico mae­ stro. Hall riferisce inoltre che, in una lettera del 4 maggio 1892, indirizzata a Bell, Doyle spiegava: « È certamente a lei che debbo Sherlock Holmes, e sebbene nei racconti io abbia il vantaggio di poter collocare [l’investigatore] in ogni sorta di situazioni drammatiche, non credo che il suo lavoro analitico sia minimamente un’esagerazione di alcune cose che vi ho visto fare nell’ambulatorio dei malati esterni. Attorno al nucleo di deduzione, inferenza e osservazione che vi ho sentito inculcare, ho cercato di creare un personaggio che spingesse la cosa al massimo — e anche oltre, talvolta — e sono veramente contento che i ri­ sultati soddisfino lei, che ha il diritto di essere il critico più severo (1978: 78)». Certo il seguente passo, tratto da The Greek Interpreter, echeg­ gia in misura impressionante alcuni degli aneddoti riguardanti Joseph Bell. Sherlock Holmes e suo fratello Mycroft stanno seduti alla fi­ nestra ad arco 10 del Diogenes Club, quando Mycroft dice: « “Per chiunque vuole studiare il genere umano, questo è il posto... Guarda che tipi straordinari! Guarda questi due che vengono verso di noi, per esempio”. “Il marcatore di biliardo e Paltro?”. “Precisamente. Che ne dici dell’altro?”. I due uomini si erano fermati di fronte alla finestra. Alcune tracce di gesso sulla tasca del panciotto erano gli unici segni del biliardo che io [Watson] potevo vedere in uno di loro. L’altro era molto piccolo e scuro, con il cappello calato all’indietro, e parecchi pacchi sotto il braccio. “Un vecchio soldato, vedo” disse Sherlock. “E congedato molto di recente” osservò il fratello. “Ha prestato servizio in India, se non sbaglio”. “E sottufficiale”. “Artiglieria Reale, immagino”, fece Sherlock. “E anche vedovo”. “Sì, ma con un figlio”. “Dei figli, ragazzo, dei figli”. “Su” dissi io [Watson] ridendo “questo è un po’ troppo”. “Ma sicuro” rispose Holmes “non è difficile vedere che un uomo 61

con quel portamento, quella espressione autoritaria, e quella pelle cotta dal sole è un soldato, non semplicemente un borghese, e non lontano dall’India”. “Che egli abbia lasciato il servizio da poco lo si vede dal fatto che porta ancora gli stivali d’ordinanza” osservò Mycroft. “Non aveva l’andatura del soldato di cavalleria, eppure portava il cappello da un lato come dimostra la pelle più chiara da quella parte del sopracciglio. Dato il suo peso non può trattarsi di un geniere. Presta servizio nell’artiglieria”. “Poi, la sua profonda afflizione mostra che ha perduto una per­ sona molto cara. Sembra trattarsi della moglie, visto che è lui a fare le spese. Vedi, ha comprato qualcosa per i bambini. C’è un sonaglio, e ciò dimostra che uno di loro è molto piccolo. Il fatto che egli abbia un libro illustrato sotto il braccio lascia pensare che c’è anche un altro bambino” ». Bell stesso mette in evidenza la simiglianza esistente fra crimine e malattia nel passo seguente, scritto nel 1893 e citato da Starrett (1971: 25-26): « Cercate, signori, di imparare le caratteristiche di una malattia o di una lesione con la stessa precisione con cui conoscete i tratti, l’andatura, i modi di fare del vostro più caro amico. Lui, anche in mezzo alla folla, siete in grado di riconoscerlo subito. Può trattarsi di una folla di persone vestite tutte allo stesso modo, e ciascuna con il proprio corredo di occhi, naso, capelli e membra. Negli ele­ menti essenziali si assomigliano fra loro; soltanto in alcune minuzie differiscono — eppure, se si conoscono bene queste minuzie, il ri­ conoscimento o la diagnosi sono facili. Lo stesso vale per le ma­ lattie della mente o del corpo o della condotta morale. Particolarità razziali, modi di fare ereditari, l’accento, l’occupazione o la sua man­ canza, l’educazione, l’ambiente di qualunque tipo esso sia, lasciano delle impronte leggere o dei profondi solchi che l’esperto può in­ dividuare. Le grosse caratteristiche che si possono riconoscere a prima vista come segni di malattia del cuore o tisi, alcoolismo cro­ nico o continua perdita del sangue sono patrimonio comune anche dei principianti in medicina, mentre per i maestri di questa arte ci sono miriadi di segni eloquenti e istruttivi, ma che richiedono un occhio addestrato per essere scoperti... L’importanza dell’infinita­ mente piccolo è incalcolabile. Infettate un pozzo della Mecca con il bacillo del colera, e l’acqua santa che i pellegrini si portano via in bottiglie contagerà un continente. I panni di una vittima della peste semineranno il terrore in ogni porto del mondo cristiano. (Sot­ tolineatura nostra) ».

Questo modo di vedere i sintomi come tratti distintivi della identità di una malattia, trattata quindi come un’entità concreta, richiama alla mente un passo dei manoscritti inediti di Peirce (Ms. 316), in cui spiegando che “la nostra conoscenza della maggior parte delle nozioni generali si presenta in maniera del tutto analoga alla nostra conoscenza di un individuo”, l’autore critica la massima del fisiologo francese Claude Bernard (1813-1878) che “La malattia non è un’entità: non è altro che una raccolta di sintomi”. Peirce so­ stiene che si tratta, piuttosto che di una dottrina fisiologica, di una .falsa logica. “Ma alla luce delle positive scoperte di Pasteur e di Koch, considerate in rapporto alle teorie di Weissmann [ró], ve­ diamo che per ciò che riguarda le malattie zimotiche [cioè infettive], esse sono una cosa allo stesso modo in cui l’oceano è una cosa... [Una] raccolta di sintomi [è] non solo un’entità ma necessaria­ mente una cosa concreta...”. “Se Bernard avesse capito questo”, continua Peirce, “si sarebbe forse messo a lavorare proficuamente per conoscere un po’ più a fondo quella cosa”. Sherlock Holmes mette davvero in pratica quanto è predicato da Bell. Egli arriva a costruire una “diagnosi”, cioè l’identificazione di una patologia criminale, attraverso una serie di minuziose per­ cezioni, collegate da un’ipotesi, e per di più finisce di solito per trattare un caso precedente come un caro vecchio amico. Si consi­ deri, ad esempio, il seguente resoconto, spesso citato, del modo in cui Holmes legge nel pensiero di Watson, in The Cardhoard Box: « Trovando che Holmes era troppo assorto per conversare, avevo buttato da una parte quel foglio inutile, e distendendomi nella pol­ trona, mi isolai nei miei pensieri. “Hai ragione, Watson” disse lui. “Sembra un modo davvero assurdo di risolvere una disputa”. “Davvero assurdo!” esclamai, e poi, subito resomi conto di come aveva fatto eco ai più intimi pensieri della mia anima, mi tirai su nella poltrona e lo guardai fisso col più grande stupore. “Cos’è questo, Holmes?” gridai. “È al di là di tutto ciò che potessi immaginare... Me ne stavo tranquillamente seduto in pol­ trona, mi isolai nei miei pensieri. “Tu ti fai un’ingiustizia. I tratti del volto sono dati all’uomo quali mezzi per esprimere le emozioni, e i tuoi sono dei servitori fedeli”. “Intendi dire che leggi il filo dei miei pensieri dai miei li­ neamenti?”. “I tuoi lineamenti, e specialmente gli occhi. Forse non ricordi come è cominciata la tua réverie?”. “No”.

“Allora te lo dirò io. Dopo aver messo giù quel foglio, cosa 63

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che attirò la mia attenzione, te ne sei stato per circa mezzo minuto con lo sguardo fisso nel vuoto. Poi i tuoi occhi si sono fissati sul quadro del generale Gordon, incorniciato da poco, e ho visto dalla mutata espressione del tuo volto che una successione di pensieri aveva avuto inizio. Ma non portò molto lontano. I tuoi occhi si volsero al ritratto senza cornice di Henry Ward Beecher, che sta in cima ai tuoi libri. Hai guardato poi in alto verso la parete, e il si­ gnificato era ovvio. Stavi pensando che se il ritratto fosse incorni­ ciato coprirebbe lo spazio vuoto e farebbe la coppia con il quadro di Gordon laggiù”. “Mi hai seguito a meraviglia!”. “Fin qui difficilmente mi sarei potuto smarrire. Ma ora i tuoi pensieri tornarono a Beecher, e hai guardato intensamente come se stessi studiando il carattere di lui nei suoi lineamenti. Poi hai con­ tinuato a guardare, ma senza aggrottare le ciglia, e il tuo volto era pensieroso. Stavi ricordando gli incidenti della carriera di Beecher. Sapevo bene che non potevi fare a meno di pensare alla missione che egli intraprese a favore del Nord al tempo della guerra civile, poiché ricordo che esprimesti il tuo sdegno appassionato per il modo in cui era stato accolto dagli elementi più turbolenti della nostra gente. La tua sensazione fu così forte che mi resi conto che non potevi pensare a Beecher senza pensare anche a quello. Quando un momento dopo vidi i tuoi occhi vagare lontano dal quadro, sospettai che la tua mente fosse tornata alla Guerra Civile, e ti vidi con le labbra serrate, gli occhi che brillavano e i pugni chiusi, non ebbi dubbi che tu stessi pensando al coraggio mostrato dalle due parti in quella lotta disperata. Ma poi di nuovo il tuo volto divenne triste e scuotesti la testa. Ti eri soffermato sulla tristezza, l’orrore e l’inu­ tile spreco di vite umane. La tua mano si avvicinò alla vecchia ferita, e le labbra accennarono un sorriso, il che mi mostrò che ti si era presentato alla mente l’aspetto ridicolo di questo metodo di definire le questioni internazionali. A questo punto fui d’accordo con te che era bizzarro, e mi rallegrai che le mie deduzioni erano state corrette”. “Assolutamente!” dissi. “E ora che me lo ha spiegato confesso che sono stupito come prima” ». Verificare un’ipotesi relativa all’identità di una persona attra­ verso la raccolta di indizi tratti dall’aspetto fisico, modo di parlare, e via dicendo, comporta sempre, in una certa misura, il fare con­ getture, ragione per cui Peirce parla di induzione abduttiva: « Ma supponi che, mentre sto viaggiando in treno, qualcuno attiri la mia attenzione su di un uomo che si trova accanto a noi, e mi chieda se quegli non ha qualcosa del prete cattolico. Io comincio 64

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quindi a ricapitolare nella mente le caratteristiche esteriori degli ordinari preti cattolici, per vedere in quale misura quest’uomo le possiede. Le caratteristiche non possono essere contate o pesate; la loro relativa importanza in riferimento alla domanda posta può essere stimata solo in modo vago. In realtà, la domanda stessa non consente una risposta precisa. Tuttavia, se il modo di vestire di quell’uomo — scarpe, pantaloni, soprabito e cappello — è simile a quello che si può osservare nella maggior parte dei preti cattolici americani, se i suoi movimenti sono analoghi ai loro, traendo un simile stato psichico, e se l’espressione del volto, risultante da lunga disciplina, è egualmente caratteristica di un prete, mentre c’è un singolo elemento assai improbabile in un prete cattolico, come per esempio la presenza di un emblema massonico, posso dire che non si tratta di un prete, ma di un uomo che è stato prete (o lì lì per diventarlo). Questa sorta di induzione vaga la chiamo induzione abduttiva (Ms. 692; cfr. 6.526) ». Nell’esempio precedente la domanda posta a Peirce è essa stessa un’ipotesi, simile sotto certi aspetti all’inferenza annotata in un passo autobiografico, tratto da un altro scritto di Peirce: « Una volta sbarcai in un porto di una provincia della Turchia; e, mentre camminavo verso la casa che dovevo visitare, incontrai un uomo a cavallo, circondato da quattro cavalieri che reggevano un baldacchino sopra la sua testa. Poiché il governatore della provincia era l’unico personaggio che pensavo potesse essere onorato in tal modo, ho inferito che si trattasse proprio di lui. Questa fu un’ipo­ tesi (2.625) ». I suddetti episodi esemplificano quello che Sherlock Holmes chiamava “ragionamento all'indietro” (cfr. la retro-duzione di Peir­ ce), un’abilità che, se sotto certi aspetti è simile al modo di pen­ sare dell’uomo comune nella vita quotidiana, richiede una certa dose di speciale esercizio: « “Nel risolvere un problema di questo genere l’importante è essere in grado di ragionare all’indietro. Questo è un utilissimo risultato, e anche molto facile a ottenersi, ma la gente ricorre di rado a tale metodo. Nei casi della vita di tutti i giorni è più utile ragionare in avanti, e così l’altro metodo viene ad essere trascurato. Per una persona in grado di ragionare analiticamente ce ne sono cinquanta che ragionano in modo sintetico”. “Confesso” dissi [Watson], “che non la seguo”. “Non mi sarei aspettato tanto. Vediamo se posso essere più chiaro. Se descrivi una successione di eventi, la maggior parte della gente ti dirà quale può essere il risultato. Essi possono mettere 65

insieme gli eventi e arguirne che qualcosa accadrà. Ci sono poche persone, comunque, che, detto loro un risultato, sarebbero in grado di derivare con il loro ragionamento gli stadi precedenti che hanno portato a quel risultato. Questo è ciò che intendo quando parlo di ragionamento alTindietro, o analitico” (A Study in Searlet) ». Holmes, infatti, fa spesso notare a Watson che egli vede ciò che vede chiunque altro, soltanto che si è esercitato ad applicare il suo metodo in modo da determinare esattamente il pieno significato delle sue percezioni. In The Blue Carbuncle, per esempio, Holmes chiede a Watson di esaminare un cappello per trovarvi un indizio dell’identità del signore che lo aveva portato. “Non riesco a vedere nulla” risponde Watson* a cui Holmes replica “Al contrario, Watson, tu vedi ogni cosa. Non ragioni, però, partendo da ciò che vedi. Sei troppo timido per fare le tue inferenze”. O, ancora, in The Speckled Band, alle parole di Watson “Lei ha evidentemente visto in questa stanza più di quanto fosse visibile a me”, Holmes replica “No, ma penso di aver fatto qualche deduzione in più. Immagino che tu hai visto tutto quel che ho visto io”. Holmes, poi, come Peirce, è più interessato al suo metodo che al particolare argomento a cui esso è applicato. In The Copper Beeches, per esempio, Holmes e Watson discutono il modo in cui il secondo ha riferito i casi del primo, e Holmes critica Watson dicendo, “Tu hai sbagliato forse tentando di mettere colore e vi­ vacità nelle tue dichiarazioni invece di limitarti al compito di re­ gistrare quel severo ragionamento dalla causa all’effetto che in realtà costituisce l’unico tratto importante della cosa”. Quando Watson insinua che la critica di Holmes nasce daH’egocentrismo, questi ri­ sponde “No, non si tratta di egoismo o presunzione... Se reclamo giustizia per la mia arte è perché essa è una cosa impersonale — al di là di me stesso. Il delitto è comune. La logica è rara. Perciò bi­ sogna insistere sulla logica più che sul delitto. Tu hai degradato quello che sarebbe dovuto essere un ciclo di conferenze in una serie di racconti”. Peirce stesso distingueva fra ciò che egli chiamava logica utens, ovvero un senso rudimentale della logica-in-uso, cioè, un certo me­ todo generale con cui ciascuno acquisisce la verità, senza, comun­ que, esserne consapevole e senza essere in grado di specificare in che cosa consiste quel metodo, e un senso più raffinato della logica, o logica docens, usata da logici e scienziati (ma anche da certi inve­ stigatori e medici), ossia una logica che può essere consapevolmente insegnata ed è quindi un metodo sviluppato teoricamente, di sco­ prire la verità (Ms. 692; cfr. Ransdell 1977: 165). Lo scienziato o il logico non inventa, comunque, la sua logica docens, ma piuttosto studia e sviluppa la logica naturale di cui egli, come chiunque al66

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tro, si serve nella vita quotidiana. Si direbbe che Sherlock Holmes condivide questa opinione, a giudicare da quanto dice a Watson, alPinizio di A Case of Identity: “Non ci azzarderemmo a farci un’opinione delle cose che sono in realtà dei puri luoghi comuni dell’esistenza... Dipendi da esso, non c’è nulla di così innaturale come il luogo comune”. Holmes asserisce inoltre che i suoi metodi non sono altro che “una sistematizzazione del senso comune” {The Blancbed Soldier). « Il ragionatore ideale..., una volta che gli sia stato mostrato un fatto in tutti i suoi aspetti, sarebbe in grado di dedurre non solo la catena degli eventi che hanno portato ad esso, ma anche i ri­ sultati che ne seguirebbero. Come Cuvier poteva descrivere un ani­ male nella sua interezza osservandone un solo osso, così chi abbia pienamente compreso una sola connessione in una serie di avveni­ menti dovrebbe essere in grado di definire accuratamente tutti gli altri, sia precedenti che seguenti (The Vive Orange Pips) ». Sembra che non ci siano dubbi che la logica docens di Sherlock Holmes deriva in gran parte dall’apprendistato scientifico del suo creatore, Conan Doyle. Il maestro di questo, infatti, Bell, aveva scritto che “Gli studi di medicina insegnarono a Conan Doyle a osservare, e il suo esercizio della professione, sia come medico ge­ nerico che come specialista, sono stati uno splendido tirocinio per un uomo come lui, dotato di occhi, memoria e immaginazione” (Bell 1893, citato in Nordon 1966: 213). In particolare, la lucida consapevolezza mostrata da Holmes sembrerebbe essere molto de­ bitrice alla sua passione per la chimica.11 Mentre “la facciata della ricerca chimica, mai molto forte, si deteriorò sempre di più con l’andar del tempo, fino a crollare del tutto”, l’interesse di Holmes per la chimica servì a “tenerlo in contatto pratico con una scienza esatta in cui causa ed effetto, azione e reazione, si susseguivano con una predicibilità che superava di gran lunga quella della ‘scienza dell’investigazione’, per quanto egli si sforzasse nella professione scelta di raggiungere una precisione maggiore” (Trevor Hall 1978: 36-37). Come dichiarava Holmes in A Study in Searlet: “Alla pari di tutte le altre arti, la Scienza della Deduzione ed Analisi può es­ sere acquisita solo con lungo e paziente studio, e la vita non è lunga abbastanza da permettere a un mortale di raggiungere la mas­ sima perfezione possibile in essa”. Peirce stesso fu per tutta la vita un appassionato di chimica. Nel 1909 egli scrisse: « Cominciai presto a interessarmi in modo infantile alla dinamica e alla fisica e dato che il fratello di mio padre era chimico, devo aver avuto circa dodici anni quando misi su un laboratorio di chimica 67

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per mio conto e cominciai a lavorare con cento bottiglie Liebig di analisi quantitativa e a preparare cose come il vermiglione sia per via umida che per via secca e a ripetere numerosi processi chi­ mici ben noti (Ms. 619) ». La chimica era la professione per la quale Peirce ricevette una preparazione speciale ed era “la scienza in cui aveva lavorato di più” e “il cui procedimento egli ammirava maggiormente” (Ms. 453; cfr. Hardwick 1977: 114). Per la persona priva di specifica preparazione in logica teorica, una dimostrazione delle capacità argomentative di un esperto, se questi chiarisce i vari passi del procedimento logico, appariranno come qualcosa di magico. Nordon osserva che “Holmes è portato dal suo stesso procedimento deduttivo a fare rivelazioni che ap­ paiono quasi magiche” (1966: 222). Il Dr. Watson, come ognuno sa, è costantemente sopraffatto dalle deduzioni di Holmes. Tale ri­ sultato è accresciuto dal “notevole gusto [che questi ha] per una certa teatralità ed effetti drammatici” (Starrett 1971: 29), un’incli­ nazione che egli ha in comune con Peirce, a giudicare dal modo in cui quest’ultimo riferì la storia dell’orologio scomparso, come pure dal fatto che fin dalla fanciullezza fu riconosciuto in lui un notevole interesse e talento per l’arte drammatica. La famiglia Peirce aveva per generazioni dimostrato interesse per il teatro e l’opera, perfino ospitando attori nella propria casa. Ancora ragazzo, Peirce si era distinto come oratore sia leggendo opere quali “The Raven” di Poe, sia come membro dell’associazione che orga­ nizzava dibattiti nella sua scuola (Fisch: comunicazione personale). Come studente universitario a Harvard, Peirce continuò a coltivare interesse per l’elocuzione, la retorica e le rappresentazioni teatrali. Al terzo anno di corso divenne membro del W.T.K. (Wen Tchang Koun, “sala di esercitazione letteraria” in cinese), che era specializ­ zata in dibattiti, orazioni, finti processi, e lettura di saggi, poesie e drammi. L’anno successivo, nel 1858, fu membro fondatore della O.K. Society of Harvard College, che si occupava di elocuzione e oratoria in rapporto alle opere letterarie (Kloesel: comunicazione personale; cfr. Kloesel 1979). Da adulto, Peirce faceva letture per amici del King Lear, di Shakespeare, alla casa “Jem’s” del fratello maggiore a Cambridge, e a membri del Century Club, a New York. Quando si trovava a Parigi Peirce frequentava il teatro e l’opera, e la sua seconda moglie, Juliette, era un’attrice. Egli e Juliette ri­ masero in contatto con amici appartenenti al mondo del teatro, quali Steele e Mary MacKaye, e talvolta perfino parteciparono a rappresentazioni teatrali fatte da dilettanti, come la Medea di Legouvé, che Peirce aveva tradotto in inglese (Fisch: comunicazione personale). 68

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“Il palcoscenico perse un buon attore”, scrive Watson in A Scandal in Bohemia, “come pure la scienza perse un ragionatore acuto, quando egli divenne specialista in criminologia”. In una certa misura, il modo teatrale in cui Holmes fa sfoggio delle sue opera­ zioni logiche è vicino al modo in cui certi medici cercano di im­ pressionare i loro pazienti riguardo alle loro apparentemente ma­ giche capacità di diagnosi, sviluppando in tal modo un senso di fi­ ducia da parte del paziente che contribuirà al processo di guarigione. Nella pratica clinica la pompa rituale costituisce l’ingrediente es­ senziale dell’effetto placebo (vedi Sebeok 1979: capp. 5 e 10). Si pensa che l’efficacia del placebo dipenda dal fatto che il paziente ci crede: una fiducia sostenuta da appropriati suggerimenti da parte del medico e del personale assistente, nonché dal contesto in cui il placebo è somministrato.12 Alcuni' psicologi, quali Karl Scheibe, usa­ no il termine acume per un tipo di predizione mostrato da Holmes, e che costituisce “una capacità teatrale combinata con precisione analitica”. Scheibe osserva: « Se uno crede di trovarsi in svantaggio di fronte alle terribili ma ben controllate capacità di osservazione e inferenza... dell’investiga­ tore... allora uno ha di fatto garantito l’autorità a un superiore e non ha alcuna speranza di dominare le situazioni... Nella misura in cui... l’investigatore è ritenuto dal pubblico in generale dotato di speciali poteri di penetrazione, l’acume di questi professionisti sarà accresciuto. Inoltre, nella misura in cui ogni giocatore è in grado di sfruttare l’ingenuità o credulità dell’altro per ciò che riguarda l’innocenza dei propri intenti, il secondo giocatore è effettivamente sotto il controllo del primo. Questo è il principio basilare della truffa all’americana [1978: 872-875] ». Un racconto poliziesco e il suo pubblico. Conan Doyle rico­ nobbe questo fatto sia indirettamente, attraverso il personaggio di Sherlock Holmes, sia direttamente, nella sua autobiografia. In The Crooked Man, per esempio, Holmes dice a Watson: « È uno di quei casi in cui chi ragiona produce un effetto che sem­ bra considerevole a chi gli sta vicino, poiché al secondo è sfuggito quel piccolo particolare che sta alla base della deduzione. Lo stesso può dirsi, mio caro, dell’effetto di alcuni di questi tuoi piccoli ab­ bozzi, la cui vistosità è tutta costruita ad arte, in quanto dipende dal fatto che ci sono alcuni elementi del problema che tu non lasci mai trapelare al lettore ». Nell’autobiografia, Conan Doyle, discutendo il modo di com­ porre un racconto poliziesco, scrive: “La prima cosa è avere l’idea. 69

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Ottenuta quella il passo successivo consiste nel nasconderla e dare importanza a ogni altra cosa che possa portare a una differente spiegazione” (1924: 101). Holmes stesso si divertiva a prendersi gioco degli investigatori ufficiali indicando deliberatamente degli in­ dizi senza rivelarne il significato (The Boscombe Valley Mystery, The Cardboard Box, The Sign of Tour, Silver Blaze). Joseph Bell fa riferimento a questo tipo di manipolazione psico­ logica nei seguenti termini: « Il riconoscimento [della malattia] dipende in larga misura dalla valutazione rapida e accurata di piccoli punti in cui la malattia dif­ ferisce dallo stato di salute. Infatti bisogna insegnare allo studente a osservare. Per interessarlo a questo tipo di lavoro noi insegnanti troviamo utile mostrare allo studente quante cose può scoprire un uso esperto dell’osservazione in faccende ordinarie quali la storia precedente, la nazionalità e l’occupazione del paziente. È probabile che anche il paziente sia colpito dalla vostra capacità di curarlo in futuro se vede che voi, a prima vista, sapete molto del suo passato. E tutto il trucco è molto più facile di quel che sembra all’inizio (Trevor Hall 1978: 83; sottolineatura nostra) ». Holmes apre spesso il suo primo incontro con un futuro cliente con una sbalorditiva serie di “deduzioni”, proprio come quelle de­ scritte da Bell, e queste “piccole abili deduzioni... spesso non hanno nulla a che fare con l’argomento in questione, ma colpiscono il let­ tore con un senso generale di superiore capacità. Il medesimo effetto è ottenuto con sbrigative allusioni ad altri casi” (1924: 101-102). E chi di noi non è stato intimidito da una simile tecnica usata dal nostro medico, quando questi ci pone una serie di domande ap­ parentemente senza alcun legame fra loro (p.e., Ha fumato molto ultimamente? Le fa male solo di notte? Sua madre ha mai sofferto di mal di testa?), al termine delle quali può improvvisamente fare la sua diagnosi, una dichiarazione che a noi, incapaci di giudicare l’importanza di ogni singolo indizio, e quindi la logicità della se­ quenza di domande, appare qualcosa di soprannaturale. Se il me­ dico ha già in mente una diagnosi, ma non l’ha detta al paziente, le domande fatte per provare la propria ipotesi appariranno al ma­ lato quasi come un esercizio di percezione extrasensoriale (p.e., Lei ha questa sensazione solo un’ora e mezzo dopo aver mangiato, ac­ compagnata da un dolore pulsante al braccio destro, vero? Sì per­ ché, come ha fatto a saperlo?). Mentre il congetturare, come ci ha insegnato Peirce, costituisce una parte rilevante di ogni operazione logica, il paziente potrebbe forse perdere fiducia nel suo medico, se venisse a sapere la quan­ tità di congetture che rientrano in una diagnosi e in una cura, per 70

1 cui i medici sono più o meno costretti a coprire questo aspetto della loro attività, come Sherlock Holmes per costruirsi la reputa­ zione di grande investigatore. Come risulta dalPesempio appena di­ scusso, i medici operano una sorta di mistificazione occultando in­ tenzionalmente i processi del ragionamento, facendo apparire le do­ mande come deduzioni, comportandosi come se si fosse giunti alla diagnosi per deduzione e induzione, senza una precedente abduzio­ ne, o facendo mostra di capire i più riposti pensieri e sentimenti senza la mediazione dei segni forniti dal paziente. L’importanza di tali trucchi per la reputazione di Holmes è messa in evidenza nel seguente passo tratto da The Red-Headed League in cui l’investigatore è a colloquio con un certo Jabez Wilson. Quando Holmes annuncia la sua conclusione straordinaria­ mente accurata riguardo al passato e alle abitudini del Sig. Wilson, questi “sobbalzò sulla poltrona” e chiese “In nome del cielo, come avete saputo tutto questo Sig. Holmes?”. « “Come avete saputo per esempio che io ho fatto lavoro ma­ nuale? È verissimo perché cominciai come carpentiere navale”. “Le sue mani, signore. La mano destra è abbastanza più grande della sinistra. Lei ha lavorato con quella e i muscoli sono più sviluDoati”. “Bene, il tabacco, allora, e la massoneria?”. “Penso di non offenderla dicendole come mi sono accorto di questo, tanto più che, contro le rigide regole del suo ordine, lei usa un fermacravatte ad arco e compasso”. “Ah, certo, me ne dimenticavo. Ma lo scrivere?”. “Cos’altro può significare il fatto che la manica destra è così lucida per lo spazio di cinque pollici e la sinistra è liscia in un punto vicino al gomito dove lei si appoggia sulla scrivania?”. “Va bene, ma la Cina allora?”. “Il pesce che ha tatuato immediatamente al di sopra del polso destro poteva essere fatto soltanto in Cina. Ho studiato un poco i tatuaggi e ho anche contribuito alla letteratura sull’argomento. Quel­ l’uso di colorare di un rosa pallido le scaglie dei pesci è tipico della Cina. Quando, per di più, vedo una moneta cinese appesa alla ca­ tena dell’orologio, la cosa diventa ancora più semplice”. Jabez Wilson rise forte. “Bene”, disse “pensavo prima che lei avesse fatto qualcosa di notevole, ma ora mi accorgo che, dopo tutto, non era nulla”. “Comincio a pensare, Watson”, fece Holmes “di aver commes­ so un errore a dare spiegazioni. Omne ignotum prò magnifico, tu lo sai bene, e la mia povera piccola reputazione colerà a picco se io sono così ingenuo” ». 71

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O ancora, in The Stock-brocker's Clerk, Holmes osserva: “Ho paura di tradirmi quando do spiegazioni... I risultati senza le cause fanno molto più effetto”. Holmes è più che candido quando dice a un cliente, in The Keigate Puzzle, “Temo che la mia spiegazione possa disilluderla, ma è sempre stata mia abitudine non nascondere nessuno dei miei metodi, né all’amico Watson né ad alcuno che possa avere un intelligente interesse ad essi”. Taumaturgia nella realtà e nella letteratura L’accostamento del metodo di Charles Peirce, investigatore, al metodo di Sherlock Holmes, semiotico, che cominciò come jeu d’esprit, finisce col gettare una luce insospettata sia sulla figura sto­ rica che sul personaggio letterario. Dal punto di vista del grande logico ed enciclopedico la Scienza della Deduzione ed Analisi di Holmes, esposta in forma estesa in “Il libro della vita” (A Study in Scarlet), in cui lo “scrittore dichiarava di sondare i più intimi pensieri di un uomo attraverso un’espressione momentanea una contrazione muscolare o un’occhiata”, sono considerate in maniera ben diversa da Watson che le riteneva dapprima “ineffabili ciarle” e “sciocchezze”. Le teorie espresse da Holmes nell’articolo, che ap­ parivano al suo Boswell “così chimeriche, sono in realtà estremamente pratiche” e il manuale da lui progettato su “tutta l’arte del­ l’investigazione” {The Abbey Grange) a cui intendeva “dedicare gli anni della sua vecchiaia”, acquista una ragione effettiva nel contesto della storia delle idee, basato com’è in parte (e in parte come avreb­ be potuto essere) su di una “mescolanza di immaginazione e realtà” {The Problem of Thor Bridge) e sul prudente uso della specula­ zione concepita come “l’uso scientifico dell’immaginazione” {The Hound of thè Baskervilles). Holmes era un brillante medico della società, la cui malattia è il crimine. Egli parla dei suoi casi “con l’aria del patologo che presenta un campione raro” (come nell’avventura di The Creeping Man). Holmes era molto contento che Watson avesse scelto di annotare quegli incidenti che davano spazio alla deduzione e alla sintesi lo­ gica. Mentre egli sosteneva, in A Study in Scarlet, che “tutta la vita è una grande catena, di cui possiamo conoscere la natura quando ce ne sia mostrato un solo anello”, riteneva anche che le sue con­ clusioni “erano infallibili come molte proposizioni di Euclide. I suoi risultati apparirebbero così sorprendenti al profano che que­ sti, finché non avesse saputo i procedimenti per i quali egli ci ar­ riva, lo considererebbe un negromante”. Peirce, a modo suo, era negromante quanto Holmes, ed è per questo che i suoi scritti e i dettagli della sua biografia ci tengono 72

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tutti ammaliati. Egli era, secondo l’autorevole e precisa definizione di Morris (1971: 337), “erede dell’intera storia dell’analisi filosofica dei segni...”. Peirce rappresenta finora la vetta più alta della catena montuosa che comincia nella Grecia antica con la semiotica clinica di Ippocrate, poi sviluppata in maniera più ampia ed esplicita da Galeno (Sebeok 1979: cap. 1), e continua con il medico Locke, la cui semeiotiké “fu chiaramente soppesata e debitamente valutata” da Peirce, e fornì indubbiamente “un altro tipo di logica e di cri­ tica, diverse da quelle che avevamo conosciuto finora” (Locke 1975: 721). Una cosa è affermare — come noi facciamo — la continuità e la progressione di questo panorama, che si estende dalle arcaiche diagnosi e prognosi mediche alle moderne formulazioni di una dot­ trina dei segni da parte di Peirce e, dopo di lui, di campioni quali il biologo baltico Jakob von Uexkull (1864-1944) e il matematico francese René Thom (nato nel 1923). Documentarla è cosa ben diversa. Ciò richiederà almeno un’altra generazione di duro lavoro da parte di studiosi specialisti nella labirintica storia della scienza dei segni (cfr. Pelc 1977), di cui solo i più semplici contorni sono stati finora delineati da quei pochi esploratori in grado di seguire le tracce lasciate da Peirce, finora il pioniere più audace nello sgom­ brare il terreno nel corso di questa grande avventura.13

NOTE I « ...L’abduzione è, dopo tutto, niente altro che fare congetture”, scris­ se egli altrove (Collected Papers 7.219; cfr. Ms. 692). Si confrontino le osser­ vazioni esplicative di Noam Chomsky, in riferimento ali'abduzione, riguar­ danti “il filosofo a cui [egli si sente] più vicino”: “Peirce dimostrò che pei spiegare la crescita della conoscenza, bisogna assumere che ‘la mente deH'uomo ha una naturale disposizione ad immaginare teorie corrette di qualche tipo’, un principo di ‘abduzione’, che ‘pone un limite alle ipotesi ammissibili’, una sorta di ‘istinto’ sviluppato nel corso dell’evoluzione. Le idee di Peirce sull’abduzione erano piuttosto vaghe e il suo suggerimento che una struttura biologicamente data svolge un ruolo fondamentale nella selezione di ipotesi scientifiche sembra aver avuto scarsissima influenza. Quasi nessuno, per quan­ to ne sappia, ha tentato di sviluppare ulteriormente queste idee, anche se concezioni simili erano state formulate indipendentemente in varie occasio­ ni” (Chomsky 1979: 71). 2 Sulla nozione di “lumière naturelle” vedi Ayim 1974: 43n4. J Holmes, ahimè, non lo hai mai detto. E neppure ha mai detto “Elemen­ tare, mio caro Watson”. 4 Martin Gardner descrive questo processo nel modo seguente: “Come lo scienziato che cerca di risolvere un mistero della natura, Holmes raccoglie­ va dapprima tutte le prove attinenti al suo problema. A vote, compiva degli esperimenti per ottenere nuovi dati. Egli poi esaminava tutto il materiale raccolto alla luce delle sue vaste conoscenze di criminologia e/o delle scienze ad essa pertinenti, per arrivare alle ipotesi più probabili. Le deduzioni erano

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fatte a partire dalle ipotesi; poi la teoria era ulteriormente verificata col con­ fronto di nuovi dati, riveduta se necessario, finché alla fine non emergeva la verità con un grado di probabilità assai vicino alla certezza” (Gardner 1976: 125). 5 Esempi di ciò, presi da Persi Diaconis e un mago che va sotto il nome di Kreskin (George Kresge Jr.), sono citati in Sebcok (1979: 93). Questi casi hanno una strana somiglianza con la storia dell’orologio di Peirce. Diaconis, oltre ad essere uno dei più dotati maghi contemporanei, è uno dei maggiori esperti nella raffinata analisi statistica delle strategie proprie della congettura e del gioco d’azzardo, e nell’applicazione di nuove tecniche alla ricerca parapsicologica — finora con risultati del tutto negativi (vedi Diaconis 1978: 136). A tale proposito va anche citata l’osservazione di Yuri K. Scheglov (1975: 63) riguardo al crescere della tensione e deireccitamento quando il ragionamento logico di Holmes pian piano “arriva furti variente al colpevole e solleva un lembo della tenda (abbiamo qui un po’ lo stesso effetto del gio­ co infantile ‘acqua e fuoco’ in cui la zona di caccia si restringe sempre più a mano a mano che si avvicina al ‘fuoco’)”. 4 Detto per inciso, in due racconti di Holmes appaiono investigatori del­ la Pinkerton National Detective Agency: Young Leverton, che ha un ruolo secondario in The Red Circle e Birdy Edwards, alias John (“Jack”) Me Murdo, alias John (“Jack”) Douglas che fu probabilmente gettato a mare, dal St. Helena dalla banda'di Moriarty alla fine di The Volley of Fear. 7 Un interessante parallelo si ritrova in Zadig (cap. 3) di Voltaire, in cui l’abile lettura che Zadig fa di alcuni indizi gli causa l’arresto, il processo, e una multa. Esiste un’ampia letteratura secondaria su Holmes e Zadig. I Come ha recentemente confermato Stephen Jay Gould, in riferimento al mondo accademico in generale, “inconsapevoli o confusamente avvertite, falsificazioni alterazioni e aggiustamenti [di dati] sono frequenti endemici e inevitabili in una professione che conferisce prestigio e potere a scoperte chia­ re e inquivocabili” (1978: 504). In breve, tale manipolazione di dati può es­ sere una norma scientifica. * Su questo punto vedi anche Messac e Hitchings. 10 Sull’importanza e il significato delle finestre nei racconti di Sherlock Holmes e nelle opere di Jules Verne vedi il capitolo 3 di questo volume. II Descrivendo la conoscenza che Holmes ha di vari campi, Watson ne cita soltanto uno — la chimica — come “approfondito” (A Study in Scarlet). Su Holmes come “chimico frustrato", vedi Cooper (1976: 67-73). u Per un resoconto onesto e accessibile, fatto da un chirurgo, sull’uso dell’effetto placebo da parte dei “guaritori”, e sulla forza della suggestione, ivi compresa talvolta l’ipnosi, vedi Nolen 1974. u Dei progressi, comunque, si stanno facendo. Si veda YEncyclopedic Dictionary of Semiotics, preparato sotto la guida di un comitato direttivo in­ ternazionale (in preparazione presso l’Indiana University Press, Bloomington).

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CAPITOLO III

L’oblò del Capitano Nemo1 I

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Questo articolo è stato scritto in collaborazione con Harriet Margolis.

Chiunque voglia descrivere una finestra potrà farlo bene soltanto se descrive anche ciò che si vede al di là, e di cui la finestra è, per così dire, una cornice. Kotarbinski, 1966: 514

Nordon (1966: 22-23), nella sua classica biografia di Conan Doyle, riferisce che nell’estate del 1873 il ragazzo quattordicenne, che sarebbe divenuto il creatore di Sherlock Holmes e del Professor George Edward Challenger, “fu preso da un’improvvisa passione per la lingua francese, che studiò leggendo Jules Verne”. Egli lesse Vingt mille lieues sous les mers (1870), Cinq semaines en ballon (1863), De la terre à la lune (1865), e Aventures de trois Russes et de trois Anglais (1872), e, secondo il suo biografo, “cominciò subito a non avere difficoltà nel passare da una lingua all’altra”. Nel giugno di quell’anno Doyle scrisse alla madre “Sto comin­ ciando a gustare [i romanzi di Verne] proprio come i libri in in­ glese” (Nordon 1966: 21 e sg.). Era anche quello il momento in cui egli iniziò rendersi conto di avere certe doti letterarie. Nordon (ibid.: 82) conferma che, eccetto le opere di Jean Froissart, il cronachista del XIV secolo, quelli di Verne “furono tra i primi libri [in francese] letti da Conan Doyle”, anche se poi ne lesse moltissimi altri nel corso della sua vita. In Through thè Magic Door (1923: 118, 255), lo scrittore fa Verne. Egli osserva che “tutti i racconti due volte riferimento pseudo-scientifici, alla Verne-e-Wells, hanno come prototipo Dalla terra alla luna...1' e che Verne, come Poe, “produce un seducente effetto di verisimiglianza, anche trattando le cose più incredibili, attraverso l’abile uso di una grande quantità di effettive cono-

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scenze naturali”. Non prima del 1912, dice Nordon (1966: 328), “Conan Doyle emerge come uno dei più dotati discepoli di Jules Verne”: e qui il riferimento è, naturalmente, alla pubblicazione di The Lost World, un racconto poliziesco, che Higham (1978: 109, 210) chiamò “un capolavoro della letteratura fantastica, che ricorda Jules Verne ma non sfigura al confronto”. Echi di Verne, uno degli “idoli” (ibid.: 55) di Doyle, si ri­ trovano, comunque, anche prima nei racconti di Sherlock Holmes. Per esempio, in norw,2 il benefattore del Dr. Watson, c lontano parente dello stesso Holmes, si chiama Dr. Verner. Inoltre, in GREE, veniamo a sapere che la nonna di Holmes “era la sorella di Vernet, l’artista francese”. Il Professor Maracot è chiaramente una sintesi di vari personaggi, fra i quali emergono la figura del Ca­ pitano Nemo e quella del Professor Challenger. Nei racconti di Sherlock Holmes si avvertono anche remini­ scenze meno specifiche di Verne. Scheglov ha osservato che Verne precedette Doyle nel “creare un genere di ‘viaggi scientifici’ ”, e

Fig. 3.1. L’oblò del Capitano Nomo.

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1 ; che il ciclo di Holmes non è in effetti pura narrativa poliziesca, “ma una combinazione del genere poliziesco e di quello delle ‘spe­ dizioni scientifiche’ ” à la Verne (1975: 60). Egli inoltre sottolinea che la preminenza del tema della ‘comodità’, sia essa personale e altruistica o influenzata dall’esterno (cioè, il possesso della comodità rispetto alla ricerca della comodità), in ogni scena “è tipica di Verne” (ibid.: 63) come quando i protagonisti costruiscono una casa sugli alberi durante l’inondazione in Les enfants du Capitarne Grani (1867-68), per non parlare degli arredi del Nautilus, con la libreria di dodicimila volumi e la sala contenente “tutte le meravi­ glie accumulate in questo museo” (Verne 1870, Parte I, capp. 1011 ). Nell’opera di Doyle possiamo notare un’applicazione di questo motivo della “preminenza della comodità”, per esempio, quando Holmes porta un mazzo di carte (che peraltro non viene usato) alla sezione sotterranea di redh, o un fascio di giornali nel suo vagone ferroviario (come in silv e copp). Nell’acuto, ma singolarmente laconico, saggio su “Nautilus e Bateau ivre”, Roland Barthes (1957: 90-92) pensa che l’opera di Verne si presti particolarmente a uno studio strutturale a causa della sua organizzazione altamente tematica: “Verne a construit une sorte de cosmogonie fermée sur elle-mème, qui a ses catégories propres, son temps, son espace, sa plénitude, et mème son principe existentiel” (ibid.: 90).3 Si può dire che tratti molto affini caratte­ rizzano e definiscono i singoli racconti del ciclo di Holmes nel suo complesso, in cui Scheglov dichiarò di scoprire una generale oppo­ sizione fra tratti appartenenti al “senso di sicurezza” e tratti ap­ partenenti alla “avventura”. L’osservazione di Barthes (1957) riguardo al luogo archetipico “où l’homme-enfant ré-invente le monde, l’emplit, l’enclót, s’y enferme, et couronne cet effort encyclopédique par la posture bourgeoise de l’appropriation”, si applica, mutatis mutandis, con inte­ ressanti variazioni, a Sherlock Holmes non meno che al Capitano Nemo. Questo principio di auto-isolamento, che comporta l’appro­ priazione del mondo e l’accumulazione dei suoi pezzi in uno spazio limitato (un espediente letterario che, secondo Barthes, fu inventato da Verne, oltre al suo uso delle innumerevoli risorse della scienza), si applica al numero 22 lb di Baker Street come pure a quello che Barthes chiama “il romanzo quasi perfetto” di Verne, Vile mystèrieuse (1874). Effettivamente, in alcuni casi investigativi può per­ fino presentarsi una sorta di microcosmo, sostituto del mondo reale, e costruito a volte in maniera quasi claustrofobica, come quando Holmes si sistema temporaneamente fra gli antichi rifugi in pietra, nella brughiera, in houn, o, in misura minore, nel suddetto sotterraneo in redh, Doyle, comunque, sviluppa in altre direzioni, con incisività e immaginazione, questo complesso di immagini, trasfe79

rendolo da un ambito di generale ricerca scientifica al contesto del­ l’investigazione scientifica. Se l’emblema della chiusura, dell’amato isolamento (un fascio che Scheglov scinde in tratti elementari quali sicurezza, comodità, atmosfera domestica, tranquillità, soddisfazione, intimità, calore, compagnia congeniale, e così via), de “la ca­ verne adorable” — come Barthes (1957: 92) definisce il Nautilus — deve essere usato come feconda strategia narrativa, essa può espli­ care appieno la sua funzione solo attraverso il suo opposto: l’avven­ tura (un altro fascio composto di tratti distintivi quali il caso, pericoli, rovesci della sorte, dramma, vicissitudini, disagi, lotta e simili). II movimento dialettico, che spinge l’abitazione incapsulata del­ l’uomo a dar continuamente vita a nuove partenze verso l’infinito,4 richiede dei canali, entrate o feritoie che consentano tale passaggio (di suono, di sguardo, di oggetti) daH’interno all’esterno e dall’ester­ no all’interno, fra ordine e caos — in breve, secondo la classica antitesi di Natura e Cultura accentuata ed estesa in molteplici guise da Lévi-Strauss (p.e., 1958: 389), per assicurare “une poétique véritable de l’exploration” (Barthes 1957: 92). Il Nautilus contiene una cabina di pilotaggio, costruita in modo da permettere a chi sta al timone — spesso lo stesso Capitano Nemo — di vedere in tutte le direzioni attraverso quattro oblò dotati di vetri lenticolari (Verne 1870, Parte 2, cap. 5).s II nostro articolo si concentra su uno sol­ tanto di questi canali, che è un tropo assai importante e frequente e che sostituisce forse la figura chiave usata da Conan Doyle: la finestra. In pittura, le finestre rivelano spesso un’attenzione ad aspetti formali relativi alla luce del quadro. Esiste infatti tutto un genere di dipinti aventi per tema la finestra, e che in tempi moderni è rappresentato forse nella maniera più stupefacente dal surrealista belga, maestro nel creare un’atmosfera inquietante, René Magritte. Egli, per esempio, ci ha dato delle strade, di notte, con case dalle fi­ nestre illuminate e un cielo diurno sullo sfondo. Il quadro II dominio di Arnheim (1949) nel molteplice equivoco mostra una montagna vi­ sta attraverso una finestra chiusa, e frammenti della montagna sparsi sul pavimento. Eitner, discutendo il rapporto fra immagini del primo Ottocento sia in pittura che in letteratura, commenta che “ l’immagi­ ne della finestra... illustra alla perfezione i temi di desiderio frustra­ to, brama di viaggi o di evasione che attraversa la letteratura roman­ tica” (1955: 286). In termini di significazione, le finestre in pittura possono essere al servizio dei medesimi scopi che in letteratura. Precedenti studi sul ruolo delle finestre in letteratura appaiono soprattutto nella tradizione della critica letteraria francese, specialmente in rapporto a certi lavori di Mallarmé, Zola, e Proust. Les fenétres di Mallarmé ha dato lo spunto a uno scarso numero di 80

lavori critici. Mallarmé fu l’ispiratore della scuola simbolista, che, come osserva Hamon (1968) all’inizio del suo articolo su Zola, esortò ad accostarsi al testo letterario come a un crittogramma da decifrare. Le opere simboliste tendono a incorporare simboli privati o anche sistemi di simboli, che, a loro volta, promuovono un’analisi dell’autore oltreché dell’opera. Cohn rileva che in Les fenètres, “C’è una chiara progressione nella serie porta-finestra-specchio, un graduale arresto. La finestra si trova a mezza via tra la porta e lo specchio. Con lo specchio ci si blocca, si ha un riflesso, un ritorno sull’io” (1977: 29). Mentre porte e finestre figurano ampiamente nei racconti di Holmes e nelle relative illustrazioni, di specchi ce ne sono pochissimi, e in un caso soltanto, suss, una finestra riflette come uno specchio. In quella occasione, Holmes si serve dello spec­ chio per guardare non se stesso ma il “cattivo” della situazione. Watson si interessa a Holmes, e Holmes non è inconsapevole della sua stessa natura, ma non è un personaggio che “ritorna sull’io”. E Doyle non era certo un simbolista, e non ha inserito le finestre nei suoi racconti per fornire una chiave dei suoi enigmi letterari o di se stesso. Commentando in genere sulle finestre, Cohn (ibid.) osserva che « Possiamo notare che la finestra è un piccolo teatro — il luogo di incontro di tutti gli esterni e della più intima vita interiore, del­ l’alto e del basso e così via — e che le tende sono facilmente assi­ milate a questa immagine. Un attore drammaticamente emerge dal sipario come se fosse generato da questo: egli appare, un fenomeno ». Ci sono occasioni nei racconti di Holmes (copp, sign, e vall, per citarne tre), in cui un personaggio (o personaggi) guarda l’azione aH’interno di una finestra, proprio come il pubblico guarda gli at­ tori sul palcoscenico. I personaggi guardano anche fuori per osser­ vare la scena, come quando Mycroft e Holmes se ne stanno alla finestra del Diogenes Club (gree) o Watson vede arrivare il cliente in bery. Nel secondo esempio, un caso relativamente raro, il cliente è ovviamente integrato nella trama del racconto mentre il passante osservato da Mycroft e Holmes figura (come è più comune in tali circostanze) solo per motivare sul piano dinamico la presentazione di certe informazioni riguardanti i due fratelli. Dal momento che Holmes usa l’avvolgibile di una finestra di Baker Street come schermo di proiezione in empt, dovremmo forse considerare la fi­ nestra anche come piccolo cinema, anche se Watson vede un ef­ fetto paragonabile a “quello delle silhouettes nere che i nostri nonni amavano incorniciare”. Ci sono naturalmente delle differenze per il pubblico fra guar­ dare un film e uno spettacolo dal vero, anzitutto a causa della 81

maggiore passività e sospensione dell’incredulità che si ha nel primo caso. Alla luce di questo, che dire allora del commento di Hamon (1968: 388) che “La fenètre, à la limite, remplace, justifie et symbolise l’oeil du romancier”? Se la finestra non sostituisce un palcoscenico attraverso cui il lettore guarda l’azione, non può allora es­ sere una sorta di occhio attraverso cui lo scrittore guarda il mate­ riale del suo lavoro? Schor, in un articolo che esamina il poliedrico ruolo delle finestre nelle opere del prolifico romanziere francese contemporaneo di Verne, cita l’uso, da parte di Zola e di Henry James, della metafora della finestra nel tentativo di definire l’arte, e in particolare la narrativa. Come ricorda Schor (1968: 39), James parla de “la molteplicità delle finestre, ciascuna corrispondente alla visione e alla coscienza di un singolo artista”. Secondo Zola « tutte le opere d’arte sono come una finestra aperta sul mondo. Una sorta di schermo trasparente è montato sul telaio della finestra. Attraverso questo schermo gli oggetti appaiono più o meno distorti, secondo la maggiore o minore alterazione subita nelle linee e nei colori. Queste alterazioni dipendono dalla natura dello schermo. Così il mondo non si presenta più in modo esatto e realistico, bensì trasformato dal mezzo attraverso cui passa l’immagine (ibid. 38)». Doyle non è certo un teorico della statura di James o Zola, e né egli né Watson menzionano mai le finestre in rapporto a una qualche teoria della letteratura. Holmes infatti rimprovera Watson per le qualità letterarie di un resoconto che sarebbe dovuto essere scritto “con la stessa freddezza e assenza di emozioni” (sign) della scienza che intendeva rappresentare. A parte il fatto che questi rac­ conti non sono abbastanza ‘scientifici’ per i gusti di Holmes, non accade mai che in essi le finestre funzionino come un “mezzo attra­ verso cui l’immagine” viene “trasformata”, per usare le parole di Zola, e neppure, secondo i canoni del simbolismo, come qualcosa che deve essere interpretato. Walker (1969), riferendosi al ‘realismo’ di Zola, osserva che le finestre, come altri tramiti della visione, permettono il passaggio dal modo soggettivo a quello oggettivo. Inoltre, finestre, specchi e occhi, concepiti come una sorta di prisma, permettono di guardare in molteplici prospettive ai personaggi e alle vicende dei romanzi di Zola. Il legame esistente fra finestre e modi soggettivi costituisce il principale argomento dello studio di Lapp (1975) su due importanti e simili scene in Zola e Proust, in cui le finestre sono associate a frustrazione sessuale e gelosia. In un altro articolo Lapp scrive: 82

« Recenti studi semiologici sul romanzo realista — sto pensando in particolare a quelli di Philippe Hamon — hanno posto l’accento sullo sguardo volto verso l’esterno, trattando le finestre in primo luogo come trasparenti, una sorta di supplemento alla descrizione, e al tempo stesso una di quelle limitazioni che i postulati del secolo scorso di oggettività e impersonalità imponevano a un autore. Se­ condo questo punto di vista, un romanziere si serve di finestre, porte aperte, sopraffinestre e simili veicoli dello sguardo dei personaggi, come di una cerniera fra il racconto e l’inserimento di materiale descrittivo raccolto dai quaderni di appunti. Così le finestre di Zola, che costituiscono la maggior parte degli esempi di Hamon, sono presentate come necessariamente e immediatamente trasparenti, tali da permettere una “libre circulation infime des regards” e con l’intento principale di giustificare le descrizioni. Da questo punto di vista pertanto la finestra e l’osservatore costituirebbero uno stru­ mento abbastanza ovvio, un tbématique vide, secondo l’espressione di Hamon, e un difficile compito per il romanziere è far sì che essa svolga un ruolo effettivo nella narrazione. Hamon trascura com­ pletamente la finestra vista dal di fuori (1976: 39)». Se anche Lapp non è interamente d’accordo con le conclusioni di Hamon, il concetto di finestra “come cerniera” si applica molto bene ai racconti di Sherlock Holmes. La presenza di una finestra può essere meglio motivata e integrata in un dato racconto in certi casi piuttosto che in altri. Comunque, prendendo i racconti nel loro complesso, è difficile liquidare l’uso delle finestre in Conan Doyle come tbématique vide. Dei 56 racconti e quattro novelle costituenti il ciclo di Sherlock Holmes 6 ce ne sono soltanto due, shos e lion, in cui le finestre non giocano alcun ruolo. Nella rassegna di Schor troviamo un auten­ tico catalogo dei modi in cui Zola si serve delle finestre, molti dei quali compaiono anche in Doyle. Schor osserva che le finestre di Zola nella maggior parte dei casi fungono da barriere, anche se talvolta possono servire a unire delle persone; una luce in una fi­ nestra segnala la presenza di un personaggio a un altro (proprio come Doyle usa le luci alle finestre, per esempio in yell); in certi casi le finestre guardano verso, o dentro, altre; e infine le finestre possono separare uno spazio interno conchiuso da un vasto spazio esterno. Schor nota inoltre che le finestre di Zola non for­ niscono uscite di alcun genere.7 Nei racconti di Holmes esse hanno spesso molteplici intenti, poiché Doyle si serve spesso di esse per elaborare attivamente i suoi intrecci. Le storie di Holmes hanno sovente la forma di racconto nel racconto, secondo l’interpretazione avanzata da Scheglov nel suo abbozzo strutturale. La storia del cliente o della vittima si inse-

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risce di norma in un più vasto schema narrativo che presenta due gentiluomini inglesi che lasciano la sicurezza delle loro case vitto­ riane per andare in cerca di avventura. Il racconto nel suo com­ plesso si scompone in una struttura tipica caratterizzata da un pro­ logo, spesso ambientato in Baker Street e narrato da Watson, che porta a introdurre il cliente. Dopo un primo sondaggio Holmes e Watson intraprendono un’accurata indagine che può condurre alla risoluzione del problema del loro cliente. In caso contrario, essi possono tornare a qualche fase precedente, come per esempio un altro incontro con il cliente, o un ragionamento iniziale 8 per affron­ tare il caso, generalmente in Baker Street. Anche questo semplice abbozzo tematico aiuta a classificare gli usi delle finestre in Doyle, poiché all’interno di ogni sezione del racconto esse si presentano in modo relativamente prevedibile. Per esempio, se una finestra appare nel prologo può essere tipicamente associata ai commenti di Watson sul tempo (five), o alla notevole bravura di Holmes nel dedurre informazioni in merito alle persone attraverso un’osservazione attenta (iden). Durante i viaggi in treno Holmes spesso guarda fissamente fuori del finestrino, segnalando così a Watson che intende por fine alla conversazione (stoc). Nella storia del cliente e nella sequenza investigativa, le finestre non sono strettamente associate ad alcuna funzione particolare, ma sono al servizio di molti altri intenti, che vanno dalla grottesca immagine di Duncan Ross che fa segno di andar via a una marea di uomini dai capelli rossi in redh, all’indizio fuorviante fornito dal ‘cattivo’ di devi, fino al volto visto dal cliente in yell. Le finestre appaiono raramente nell’epilogo, eccetto come parte della spiegazione fornita al momento di ricapitolare il problema e la sua soluzione, come in nava. Le due eccezioni a questa regola comportano una rivelazione di identità, come quando Holmes e Watson vengono a sapere il nome della donna che inaspettatamente uccide il colpevole davanti ai loro stessi occhi in chas. In illu, Watson riesce a vedere di sfuggita da una finestra il blasone sulla carrozza del loro nobile cliente, così apprendendo ciò che Holmes già sapeva — cioè, l’identità del cliente. Naturalmente l’uso che Doyle fa della finestra è molto vario cosicché è raro che ce ne sia una in ogni sezione di un dato rac­ conto, né la sua funzione è sempre in tutto e per tutto quella che potrebbe essere. Comunque sarebbe di poca utilità studiare un par­ ticolare elemento di un’opera letteraria se non si potessero determi­ nare certe caratteristiche ricorrenti di quell’elemento: esaminiamo pertanto il ciclo di Holmes nel suo complesso nel tentativo di iso­ lare certi tratti ricorrenti nell’uso delle finestre. Si può costruire uno schema per il nostro studio attraverso al­ cune semplici domande. Dove si trovano le finestre? A Baker Street? 84

Fig. 3.2. Un finestrino crt ruote in ABBE. Da Strand Magazine 28: 249 (1904).

o dal cliente? si tratta di una abitazione o di un posto di lavoro? Chi è associato ad esse? uno dei personaggi principali del racconto come Holmes (il protagonista) o il “cattivo” (l’antagonista), o forse il cliente — o un sostituto di uno di questi personaggi? In ge­ nere più che di effettivi sostituti si tratta di controfigure temporanee (come quando la vittima di wist viene liberata e il malvagio è avvistato da un domestico che segue gli ordini di Holmes), anche c’è un caso (in copp) in cui un personaggio (il cliente) ne sostituisce letteralmente un altro (la vittima). Le finestre sono in rapporto con la sequenza temporale degli eventi? Si può dire che la presenza delle finestre in un racconto dipende da certi aspetti strutturali del racconto stesso: per esempio, appaiono nel prologo solo dopo i commenti di Watson sull’abitudine di Holmes di prendere la co­ caina, o forse la presenza di una finestra segnala la chiusura di una particolare sequenza di eventi e così via? La finestra è importante di per sé, come quando Holmes la esa­ mina (in sign e spec); per i suoi accessori (come in stud e devi) 85

Fig. 3.3. Holmes pone fine a una conversazione, in BOSC. Da Strand Magazine 2: 401 1891). quali tende e davanzali; perché serve di passaggio per qualche cosa (come in blan e devi); o, al contrario, perché costituisce una bar­ riera (come in cree e gold), bloccando il passaggio di qualche cosa (di solito le intemperie)? Le finestre sono importanti di per sé in due casi: quando la loro forma devia dal tradizionale rettangolo di medie dimensioni (che è la regola piuttosto che l’eccezione), e quan­ do sono sottoposte a uno specifico esame. Quando servono da tra­ mite per il passaggio di qualcosa, la situazione si fa più complicata. Una finestra può essere aperta o chiusa, fungendo da barriera o da passaggio, così permettendo a qualcosa o a qualcuno di entrare o uscire attraverso di essa. Alla prima domanda, riguardo alla collocazione, si può rispon­ dere con facilità. Troviamo finestre dove vivono Holmes e Watson, dove vivono e lavorano la vittima/cliente e/o il colpevole, e nel passaggio dall’uno all’altro di questi posti. Assai spesso la vittima e il colpevole vivono o lavorano entrambi nel medesimo luogo, una coincidenza che Holmes in genere ritiene importante. 86

Fig. 3.4. Una rara apparizione nell’epilogo, in CHAS. Da Slratid Magazine 27: 383 (1904). Le finestre di Baker Street figurano nei racconti con minore fre­ quenza di quanto ci si potrebbe aspettare. Come abbiamo visto queste finestre hanno particolare importanza all’inizio del racconto, quando Watson definisce l’atmosfera con le sue osservazioni sul tempo, fra altri dettagli, oppure Holmes, mostrando il suo talento, presenta da lontano il cliente a Watson e al lettore. Dopo il prologo le finestre di Baker Street tendono a scomparire dalla narrazione, con la marginale eccezione di quei pochi racconti in cui Holmes e Watson tornano dal viaggio per iniziare i rapporti con il cliente e indagare di nuovo il caso, e la più coerente eccezione di quei rac­ conti (in primo luogo empt, e dyin, anche se qui Holmes è ‘vit­ tima’ piuttosto che una vittima vera e propria) in cui Holmes, at­ traverso l’espediente della fusione,9 o combinazione, per usare i ter­ mini di Scheglov e Zholkovskii (1971), fa anche la parte della vittima designata. Non c’è da stupirsi che l’abitazione o il luogo di lavoro della vittima siano quelli visitati più di frequente non solo dal colpevole

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Fig. 3.5. Un cliente che fa la parte della vittima, in COPP. Da Strand Magazine 3: 621 (1892). ma anche dalla squadra investigativa. Raramente Watson trascura di menzionare o descrivere le finestre di ogni nuovo locale, proprio come Holmes di rado ne tralascia l’attento esame. È interessante notare che quando la vittima e il cliente non sono il medesimo personaggio, il cliente spesso si reca da Holmes a causa di qualche infausto evento relativo a una vittima che vive nella sua stessa casa. L’abitazione del colpevole figura in genere nei racconti perché è la stessa del cliente o della vittima. Comunque quando il colpe­ vole possiede qualche documento di cui Holmes ha bisogno o quan­ do può verificarsi un sequestro di persona, l’investigatore non esita a fare irruzione, spesso effettuando la sua intrusione illecita attra­ verso una finestra. In un caso eccezionale (in reti) il cliente risulta essere il colpevole. Nella categoria in cui le finestre appaiono mentre uno dei per­ sonaggi si sta spostando da un luogo all’altro sono inclusi non solo i finestrini di veri e propri veicoli usati nei viaggi, bensì anche quelle che si trovano in luoghi che possono essere investigati da Holmes, 88

seppure questi non siano specificamente collegati alla vittima, al cliente o al colpevole. Questo risulta pertanto un raggruppamento molto eterogeneo, e costituisce quindi, per estensione, la seconda categoria. Naturalmente Watson è la persona più spesso associata alle fi­ nestre, poiché egli è il personaggio che rappresenta il normale punto di vista di Doyle, e attraverso i suoi organi di senso vengono ca­ nalizzate le percezioni del lettore. Holmes e Watson sono quelli che più di frequente attraverso le finestre guardano altre persone, man­ dano o ricevono messaggi sonori e/o visivi, e in genere risultano essere i personaggi con il ruolo più attivo. Talvolta, comunque, uno dei due o entrambi si ritrovano sotto sorveglianza, ed è im­ portante ricordare che con tutti i personaggi associati alle finestre il rapporto può essere attivo o passivo. Nella categoria che com­ prende Holmes e Watson troviamo anche la polizia, gli irregolari di Baker Street e altri assistenti che possono fungere da parziali so­ stituti di Holmes c Watson. Allo stesso modo la categoria della

Fig. 3.6. In HOUN. Da Strand Magnine 23: 250 (1902). 89

vittima/cliente e quella del colpevole includono membri della fa­ miglia, domestici e altri che potrebbero sostituire tali figure. Mentre la finestra ha una notevole importanza in pittura come fonte di illuminazione, una luce a una finestra, o filtrante attraverso di essa, è un indice nei racconti di Holmes della presenza o assenza di qualcuno dall’altra parte (come accadeva talvolta per i personaggi dei romanzi di Proust e Zola). Nonostante i molti riferimenti alla luce del sole o della luna, fatti in rapporto a una finestra, il let­ tore può raramente trarne indicazione per ciò che riguarda l’ora del giorno. È senza dubbio più frequente che la luce di finestra derivi da una candela, una lampada a gas o un’illuminazione arti­ ficiale di qualche altro genere. In quattro racconti le finestre sono serrate, così provocando una oscurità non naturale che impedisce a un personaggio di guardare fuori o alla luce di penetrare nella stanza. In gree e engr i fine­ strini della carrozza del colpevole sono scuri per prevenire un pedi­ namento da parte del cliente/vittima, mentre in chas e spec le tendine e gli scuretti rendono buie stanze altrimenti luminose.

Fig. 3.7. I! colpevole “chiuse il finestrino", in GREE. Da Stram1 Magazine 6: 299 1893). 90

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In danc un tavolo si trova di fronte a “una finestra ordinaria”, ma questa, sebbene “ordinaria”, sembra del tutto eccezionale, se confrontata con le numerose altre: alte, basse, profonde, strette, larghe, a timpano, ad arco, con grate e con montanti.10 Porte-finestre ed altre che arrivano fino al pavimento figurano in pochissimi rac­ conti (come in croo e scan), mentre finestre strette, troppo anguste per passarvi attraverso, costituiscono una complicazione che si ri­ trova solo in uno scarso numero di racconti, (come in musg e spec). Questa grande eterogeneità minimizza il valore simbolico della forma della finestra: perfino la descrizione di quelle di Baker Street cambia un poco con il tempo, poiché Watson descrivendo l’appartamento preso in affitto insieme a Holmes (in stud) parla di due finestre larghe, anche se altrove (in bery) si fa cenno alle finestre ad arco di Baker Street. Holmes esamina spesso delle finestre rilevanti per l’indagine, e ciò è fatto talvolta anche dalla polizia e perfino dal cliente/vittima. Questo porta di frequente alla scoperta di una macchia o un’im­ pronta sul davanzale. In alcuni casi le tende rivelano indizi nascosti



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Fig. 3.8. Segnalazione attraverso una finestra, in HOUN. Da Strand Magazine 22: 306 (1901). Illustrazione di Sidney Paget. 91

Fig. 3.9. Holmes in un sistema di comunicazioni, in REDC. Da Strand Magatine 41: 429 (1911). Illustrazione di H.M. Brock. (vall, croo), oppure Holmes e Watson si nascondono dietro una tenda (in chas). Descrivendo una stanza Watson o il cliente tende­ ranno con grande probabilità a presentare gli arredi in rapporto alla finestra (come, per esempio, l’armadio fra due finestre in illu). La finestra serve spesso da ingresso o uscita per un grande nu­ mero di persone e oggetti. In molti racconti (come devi) le finestre possono essere aperte per fare entrare aria fresca e/o per disperdere fumi nocivi. Qualcosa comunque può filtrare attraverso di esse anche quando sono chiuse: entra sovente la luce del sole o della luna, e Doyle ama creare un’atmosfera descrivendo la qualità di tale luce, come in stud, dove da una finestra sporca penetra una luce solare grigia. I personaggi guardano continuamente dentro e fuori delle finestre notando la presenza di altri personaggi. Un esempio in cui si assommano varie attività appare in houn, in cui Holmes e Watson scoprono la presenza di un criminale nella brughiera quando Barrymore, il domestico, servendosi di una candela alla finestra, fa se­ gnalazioni al cognato, un evaso di prigione. 92

Talvolta può esserci un segno a una finestra, come nel caso del cartello “affittasi” in stud. Due finestre possono costituire gli estre­ mi di un canale comunicativo, come in redc, in cui la vittima e sua moglie comunicano attraverso una candela accesa a una finestra e visibile dall’altra situata nel palazzo di fronte. In un caso Holmes e Watson guardano dalla stessa finestra ma vedono cose differenti. Ciò accade in suss, quando Watson sta ad osservare dalla finestra del cliente un “malinconico, gocciolante” giardino, mentre Holmes, interessato a un diverso genere di natura, si serve della finestra come specchio per guardare il figlio maggiore del cliente che mostra il suo odio per un fratello più giovane. Tale finestra riflette in realtà le personalità contrastanti di Holmes e Watson. Watson inizia molti racconti con un commento sul rumore del vento o della pioggia che battono contro le finestre di Baker Street. Mentre questo caso particolare di una finestra costituente una barriera che protegge una persona che sta aH’interno da qualcosa proveniente da fuori c tipico di Watson e Baker Street, ci sono episodi in cui la persona all’interno può essere protetta da qualcosa visto, piuttosto che udito, all’esterno. In cree, per esempio, una figlia è spaventata dal padre quando il viso di questo appare ina­ spettatamente alla finestra di lei, al secondo piano. Spesso pistole e proiettili attraversano la leggera superficie di una finestra. In empt e maza, Holmes si espone col busto alle finestre di Baker Street come bersaglio per le pallottole del ‘cat­ tivo’. Inoltre c’è una drammatica scena in vall in cui i poliziotti puntano le pistole attraverso la finestra dell’agente della compagnia Pinkerton quando catturano i capi della Molly Maguires.* Secondo Plischke (1914: 76), chiudere porte e finestre a mez­ zanotte (e non guardare fuori) per proteggersi dagli spiriti maligni è una pratica comune in molti racconti popolari. Sebbene in tali casi ciò costituisca un elemento positivo, finestre e/o scuretti chiusi sono spesso un cattivo presagio nelle storie di Sherlock Holmes. Mentre il criminale può aprire una finestra per fare del male a chi si trova all’interno, il più delle volte le finestre vengono aperte per cambiare l’aria. Anche se Holìnes apre le finestre nel corso dell’in­ dagine, nei due esempi principali, bruc e devi, la sua azione è importante soprattutto per quello che rivela dei davanzali e del terreno sottostante. Comunque, nella maggior parte delle situazioni in cui si ha a che fare con delle finestre chiuse, responsabile o di­ rettamente interessato è Holmes o il colpevole. In houn, Holmes e Watson non sono d’accordo sulla qualità dell’aria delle loro stanze in Baker Street poiché a Holmes piace l’atmosfera soffocante creata dal fumo della sua pipa quando egli sta lavorando alla soluzione di un problema, mentre Watson pensa che in questo caso particolar­ mente difficile Holmes abbia esagerato. Il colpevole, comunque, è 93

di solito quello che chiude una finestra o tira una tenda nel ten­ tativo di nascondere i suoi segreti o di compiere le sue attività criminali. Il fatto di essere associato a delle finestre chiuse collega il malvagio a Holmes, e il complesso carattere e lo straordinario talento di quest’ultimo confermano tale legame, come in CHàs

Fig. 3.10. Watson guarda uno "schermo di proiezione”, in EMPT. Da Strand Magazine 26: 369 (1903). Illustrazione di Sidney Paget. quando Holmes apre la cassaforte con la perizia di “un chirurgo” o di “un esperto meccanico”. In parecchi casi non è del tutto chiaro se le finestre sono aperte o chiuse. Le tendine possono essere tirate a metà o le imposte non essere completamente serrate. Tornando a Vingt mille lieues sous les mers, troviamo che gli oblò del Nautilus sono menzionati soprattutto in relazione al fatto che M. Aronnax si diletta a studiare e osservare la vita marina che gli passa davanti. Una volta il Capitano Nemo comunica attraverso l’oblò con un palombaro greco riguardo al suo dono in denaro e in quell’occasione Conseil individua la minacciosa “piovra gigante” 94

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proprio come è descritta da Aronnax. La più notevole eccezione al godimento generalmente passivo di Aronnax davanti all’oblò è quan­ do si scotta la mano sul vetro mentre il sommergibile sta passando in mezzo all’acqua bollente prodotta da un vulcano sottomarino che si trova nelle vicinanze. In genere, comunque la situazione costante

Fig. 3.11. In BRUC. Da Smith (1952 [1908]: opp. 1274). Illustrazione di Frederic Dorr Steele. è quella in cui Aronnax e compagni se ne stanno seduti dentro il lussuoso Nautilus guardare quello che passa loro davanti fuori dell’oblò. L’oblò stesso diventa in realtà uno schermo di proiezione, ma anche uno schermo che protegge i passeggeri del Nautilus dai pericoli del mare. Quando Holmes proietta l’ombra del busto sulla tendina della finestra a tutto vantaggio di chi guarda dall’esterno, anch’egli si serve della finestra come di una sorta di schermo di proiezione. Il suo ruolo in rapporto alle finestre, comunque, è ovviamente più attivo di quello dei passeggeri del Nautilus. Come si è visto nel caso della penetrazione di proiettili e pistole, nei racconti di Holmes 95

Fig. 3.12. La piovra gigante. Vedi nota 1. le finestre costituiscono uno schermo che protegge dai pericoli ester­ ni molto meno di quanto non faccia l’oblò del Capitano Nemo. Per la verità, in five, la finestra non fa entrare la pioggia di un tem­ porale che infuria all’esterno, ma il cliente, con bella sineddoche, per così dire, ne porta un po’ dentro per turbare la sicurezza di Holmes e Watson nel loro asciutto rifugio. Se, dopo questo attento esame, torniamo ai commenti teorici avanzati all’inizio di questo articolo, è immediatamente evidente che le finestre sono associate al tema della comodità e della sicu­ rezza sia in Verne che in Doyle, come è suggerito da Scheglov. Mentre le finestre servono a proteggere la comodità e sicurezza di Holmes e Watson, forniscono una via d’uscita in quel “cosmo conchiuso ”, permettendo ai nostri due investigatori di godere al tempo stesso dell’agio interno e dei pericoli esterni. Mentre ci siamo espressi contro l’idea che Doyle si servisse delle finestre come di un occhio simbolico con l’intento di presentare la sua propria immagine della realtà o quella del lettore, siamo d’ac­ cordo invece con la scuola di pensiero, rappresentata per esempio 96

da Lapp, che vede la finestra come ‘trasparente’ o come ‘una cer­ niera’. In altre parole, Doyle si servì delle finestre quale espediente per presentare una informazione descrittiva la cui inclusione negli annali ‘scientifici’ delle gesta di Holmes sarebbe stata altrimenti difficile. Doyle, comunque, oltre a motivare la funzione descrittiva delle finestre, continua a inserirle nel ciclo di Holmes in vari modi. Giunto alla conclusione dell’articolo, il lettore ricorderà forse che nell’epigrafe si richiede che venga descritto ciò che appare al di là della finestra, se si vuole che la descrizione della finestra stessa sia valida. Ciò può essere vero ma tale compito resta al di fuori della prospettiva di questo studio in cui ci siamo proposti, più sem­ plicemente, di analizzare le molteplici funzioni delle finestre nei racconti di Doyle.

NOTE * Movimento di carattere parasindacale, nato in Irlanda verso la metà del secolo scorso e diffusosi poi, con azioni anche violente, fra i minatori del­ la Pennsylvania (dove c’era una notevole percentuale di immigrati irlandesi) negli anni 1862-1867 [ndt]. 1 11 titolo del nostro articolo — il quale, sebbene dedicato alle storie di Sherlock Holmes, nomina soltanto il Capitano Nemo, l’indimenticabile genius tnarium di Jules Verne — richiede una spiegazione che va fatta risalire a certe lontane circostanze autobiografiche del più anziano dei due autori. Queste possono essere meglio ricordate da lui stesso in prima persona: « La biblioteca privata di mio padre, nella Budapest della mia fanciullezza, era particolarmente ben fornita di romanzi francesi dell’Otto e Novecento e conteneva, come mi vedo ancora chiaramente davanti, volume su volume i libri di Jules Verne, molti dei quali nella prima edizione francese di Hetzel & Co. La maggior parte di essi era decorata con splendide incisioni ad opera d’una schiera di straordinari artisti che lavoravano presso Hetzel, in partico­ lare Leon Bennett (Benett), George S. Roux (da non confondere, come spesso avviene, con Edoard Riou), e Alphonse Marie de Neuville. De Neuville aveva preparato (con Riou) le superbe illustrazioni per la pubblicazione originale di Vingt mille lieues sous les mers, da parte di Hetzel compresa la prima illu­ strazione di questo articolo. L’incisione è opera di ‘Hildibrand’, il cui presti­ gioso pseudonimo appare nell’angolo sinistro in basso, ma il cui vero nome era Henri Theophile Hildebrand. (Sulle illustrazioni dei 65 volumi de Les voyages extraordinaires di Verne, vedi Haining 1978, in cui ne sono riprodotte più di 180. Alcune sono tratte dalle edizioni francesi originali, altre da tradu­ zioni inglesi e americane, e molte di più da pubblicazioni periodiche, film e fumetti). De Neuville e gli artisti suoi colleghi, infatti, realizzarono per Les voyages extraordinaires quello che il pittore Sidney Paget — scelto da W.HJ. Boot — compì in maniera mirabile per i racconti di Doyle nei vari numeri di “The Strand”. Per quanto la cosa possa apparre ironica, si dice che Doyle non tenesse in grande considerazione i disegni di Paget (Higham 1976: 73); eppu­ re, le immagini di Holmes e compagnia che si sono impresse nella memoria dei lettori sono quelle ideate da Paget piuttosto che quelle inizialmente de-

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scritte da Doyle. Quando William Gillette venne a rappresentare Holmes sul palcoscenico, il grande attore americano si basò sul personaggio che il pubbli­ co già conosceva dalle creazioni di Paget, e che egli contribuì a colorire: per esempio, fu Gillette a inventare materiali scenici come il berretto da caccia­ tore e la mantellina. Illustratori successivi come Frederic Dorr Steel, e gene­ razioni di attori del cinema, in particolare Basii Rathbone, ebbero, a loro volta, la tendenza a basare le loro rappresentazioni sul viso e l’aspetto di Gillette. Il mio incontro con l’opera di Vernc precedette di molti anni la mia co­ noscenza del francese; si può dire, quindi, che il seme di questo articolo è stato gettato prima dell’adolescenza, eppure posso ricordare con chiarezza il momento esatto: esso risale alla mia prima occhiata all’incisione di “Hildibrand” (qui, la Fig. 3. 12), che continuò da allora a perseguitarmi durante la fanciullezza con un frisson incomprcnsibilc per un adulto. Il contrasto fra la mia inespugnabile e (così avevo fiduciosamente sperato) inviolabile casa c i mostruosi pericoli del mondo — “Era una immensa seppia” — che continua­ vano a fluttuare all’esterno fu impresso, in modo indelebile a quanto pare, nella mia sensibilità da questa singola immagine. Nel 1934, tornato in Ungheria dopo un lungo soggiorno a Losanna, ave­ vo imparato a leggere il francese, e passai così a divorare Lcr voyages extraordinaires di Verne, cominciando questo esercizio a quattordici anni, alla stes­ sa età, cioè, di Conad Doyle (vedi infra), perfino cominciando con la medesima epopea di imprese sottomarine Ventimila leghe sotto i mari. La lettura con­ tribuì certo a rafforzare notevolmente la traccia che quella immagine aveva da tempo lasciato nella mia immaginazione. Mentre mi abbandono ai ricordi, vorrei anche osservare che posso datare con assoluta, anche se forse incredibile, precisione (per ragioni che non stanno né in cielo né in terra) il mio primo incontro con Shcrlock Holmes. Questo importante evento si verificò durante il pomeriggio c la sera del 30 aprile 1927. Il racconto era una edizione ungherese, con illustrazioni spettrali, di The tìound of thè Baskervilles, che impressionò la mia acerba fantasia con l’immagine del Dr. Watson che dalla finestra della camera da letto guarda con cupo presentimento Baskerville Hall: « Tirai le tende prima di andare a letto e guardai fuori della finestra. Si apri­ va sullo spazio erboso di fronte all’ingresso principale. Al di là, alcuni alberi gemevano e oscillavano al vento che si stava alzando. Una mezzaluna apparve attraverso squarci di nubi che passavano veloci. Alla sua fredda luce vidi die­ tro gli alberi il contorno spezzato di alcune rocce e la lunga e bassa curva del­ la brughiera malinconica. Richiusi la tenda, e avvertii che la mia ultima im­ pressione era in armonia con il resto ». A rischio di essere creduto afflitto da una memoria prodigiosa, vorrei ag­ giungere che mentre leggevo questo libro, all’età di sette anni, me ne stavo rannicchiato comodamente, anche se in preda a un’eccitazione febbrile, nel letto di mia madre. L’intento di queste osservazioni è di chiarire che il drammatico contra­ sto fra interno ed esterno, e la finestra che media i due spazi, di cui sono stati catalogati e discussi aspetti nel nostro testo, è un leitmotif che si spinge molto, molto indietro nell’occhio della mente, per di più con un preciso riferimento ai sacri testi di Verne e Doyle. In conclusione: l’idea di questo articolo e la definizione delle sue prin­ cipali ramificazoni letterarie sono prevalentemente mie. Harriet Margolis, can­ didata a un dottorato in Letteratura Comparata alla Indiana University, ha fatto un attento lavoro sulle fonti primarie e secondarie. 98

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2 Le abbreviazioni per i titoli dei racconti di Sherlok Holmes seguono Tracy 1977: xix: The Abbey Grange ABBE BERY The Bervi Coronet The Blanched Soldier BLAN The Boscombe Valley Mystery BOSC The Bruce-Partington Plans BRUC Charles Augustus Milverton CHAS The Copper Bceches C0PP The Creeping Man CREE The Crooked Man CR00 The Dancing Man DANC DEVI The Devil’s Root The Dying Detective DYIN EMPT The Empty House The Engineer’s Thumb EN’GR The Fivc Orange Pips FIVE The Golden Pince-Nez GOLD The Greek Intcrpretcr GREE The Hound of thè Baskervilles HOUN A Case of Identity IDEN The Illustrious Client ILLU LAST His Last Bow LION The Lion’s Mane The Mazarin Stone MAZA The Musgrave Ritual MUSO The Naval Treaty NAVA NORW The Norwood Builder REDC The Red Ci relè REDH The Red-Headed League RETI The Retired Colourman SCAN A Scandal in Bohemia SHOS Shoscombe Old Place SIGN The Sign of Four SILV Silver Blaze SPEC The Speckled Band STOC The Stockbrocher’s Clerk STUD A Study in Scarlet SUSS The Sussex Vampire 3gab The Three Gables 3stu The Three Students VALL The Valley of Fear Wisteria Lodge WIST YELL The Yellow Face 3 È interessante notare che Verne scrisse la maggior parte di Vingt mil­ le lieues sous les mers a bordo del suo yacht attraversando e riattraversando la Manica. 4 Si ricordi il motto inciso su ogni utensile del Capitano Nemo: Mobilis in mobili, o “Mobile nel mobile elemento”. 5 Verne paragona la vista dal Nautilus a un diorama, su cui Miller (Ver­ ne 1976: 277) fa il seguente commento in una lunga nota: « Per un lettore dell’Ottocento questo confronto era particolarmente sugge­ stivo. Prima dell’età dei cinema, il diorama (come il panorama e il ciclorama) forniva all’artista e al pubblico eccellenti occasioni di apprezzare illusioni ot­ tiche e il mobile gioco delle immagini.

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Fig. 3.13. La bow-wimlow, in 3sru. Da Strami Magazi ne 27: 604 (1904). Illustrazione di Sidney Paga

Fig. 3.14 La finestra a grata in yell. Da Strami Magazine 5: 167 (1893). Illustrazione di Sidney Paget

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Un diorama semplice poteva essere una scena tridimensionale con modelli dipinti in primo piano su di uno sfondo opaco. Un diorama elaborato poteva essere dipinto su arazzi trasparenti su cui veniva proiettato un gioco di luci per ottenere effetti mutevoli. Il pubblico guardava il diorama o all’aperto o attraverso uno spiraglio. I primi proiettori di diapositive comprendevano certamente dei diorama, ma il merito del loro sviluppo appartiene a Louis Jocques Mandò Daguerre (1789-1851), pittore e fisico francese meglio noto per l’invenzione del dagher­ rotipo. Nel diorama che egli aprì a Parigi nel 1822 e più tardi a Londra, si serviva di tende e quinte traslucide e ricorreva a un gioco di prospettiva oltre che di luci. La similitudine di Aronnax — alterò l’intero paesaggio come un diorama — è quindi perfettamente appropriata. Egli sta parlando di labirintiche masse di ghiaccio, alcune traslucide altre rispecchianti, che rifrangono e riflettono la luce del giorno con grande varietà al passaggio del Nautilus ». * Per ciò che costituisce esattamente il ‘canone’ ovvero i Sacri Testi di Holmes, vedi Truzzi (1973: 118 ni). 7 Un’occhiata al Motif-Index of Folk Lilerature di Thompson (1955-58) ci mostra un elenco completamente diverso di casi in cui figurano le finestre, in un altro tipo ancora di letteratura, sebbene non si tratti di un elenco fa­ cilmente collegabile a Doyle. * La sua logica è discussa nel capitolo 2 di questo volume; vedi anche Truzzi (1973: 97-110). 9 Sull’uso della fusione nei romanzi polizieschi, in particolare di Agatha Christie, vedi inoltre Rcvzin 1978. 14 Secondo VOxford Englisb Dictionary, un bovindo (bay window) con­ siste di “una finestra formante una nicchia in una stanza e aggettante all’esterno, in forma rettangolare, poligonale, o semicircolare; spesso chiamata fi­ nestra ad arco (bow-window)". La finestra ad arco viene definita come “un bovindo con una curvatura segmentale sul piano orizzontale”. In 3gab incon­ triamo Langdale Pike, che “passò le sue ore di veglia nella finestra ad arco di un club di St. James Street”; e in gree Mycroft e Holmes siedono nella fi­ nestra ad arco del Club Diogenes in un amichevole duello per mettere alla pro­ va le loro capacità di identificare gli estranei. Le finestre a grata, che si ri­ trovano in last, iioun, e 3stu, posseggono una “struttura fatta di assicelle, di legno e metallo, incrociate e tenute insieme, lasciando aperti fra loro degli spazi [di forma rombica]”. La denominazione “a grata" si applica anche a paraventi, cancelli e a qualsiasi altra cosa in cui si ritrovi tale struttura. Fine­ stre a più luci, che appaiono in houn e musg, hanno semplicemente un “mon­ tante verticale che divide il vano”. L'oblò, parte integrante del Nautilus, è “un’apertura nella fiancata di una nave”, ora usata per il passaggio di luce e aria, anche se in passato serviva da apertura per il cannone. Per ulteriori informazioni su specifici tipi di finestra nei racconti di Hol­ mes, vedi Tracy 1977.

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CAPITOLO IV

L'immagine di Charles Morris

Questo articolo non è apparso in precedeva in inglese. Fu scritto in ri­ sposta a un invito di Achim Eschbach, che tradusse in tedesco il manoscritto destinato alla pubblicazione in un libro, edito da lui stesso, intitolato Zeichen iiber Zeicken iiber Zeicben: Studien zu Charles W. Morris (Tiibingen: Naxr, 1981).

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Nel 1970, Charles Morris pubblicò, per i tipi di George Braziller, quello che sarebbe stato il suo ultimo contributo in prosa, in forma di libro, alla storia delle idee e dei loro rapporti, The Pragmatic Movement in American Philosophy. Quattro anni prima, Braziller aveva presentato al pubblico l’esile raccolta di poesie di Morris, Festival, che era stata respinta da Norton (19 gennaio 1965) e su­ bito dopo da Pantheon (10 febbraio). Sebbene Morris informasse Braziller, dieci giorni dopo, che “non si aspettava che Festival avesse un gran numero di lettori (almeno in un primo tempo)...”, l’accorto editore gli propose (2 aprile) un quid prò quo, vale a dire: che la sua casa sarebbe stata disposta a mettere Festival in catalogo “se potessimo avere la certezza di pubblicare il libro a cui stava lavorando, The Pragmatic Movement”. Il 10 aprile, Morris fu ben lieto di accettare l’offerta, e, a tempo debito, mantenne il patto inviando il suo lavoro sulla — e, ciò che è più importante, ancora all’interno della — filosofia pragmatica americana. Del libro, comun­ que, si era avuto un presagio, sebbene in forma completamente di­ versa, già nel 1954 (11 settembre), in due banausiche stanze di versi elencativi, alla Whitman, conservate soltanto in forma mano­

scritta: Pragmatists We have worked with Mead, Moore, Tufts, and Ames And long known Dewey, Lewis, Kallen; and are well versed in Nietzsche, Peirce and James. These are to us mammoth names, diverse to be sure, but all freed and utterly pure, all universal 105

for human destiny, all concerned that man be as fertile see’d [Pragmatisti Abbiamo lavorato con Mead, Moore, Tufts ed Ames; e conosciuto da tempo Dewey, Lewis, Kallen; e siamo ben versati in Nietzsche, Peirce e James. Questi son per noi mastodontici nomi l9 diversi certamente, ma tutti liberi e assolutamente puri, tutti universali per il destino dell’umanità, tutti interessati che l’uomo sia come un fertile campo seminato.] Dal limitato punto di vista del ‘semiotico’ di professione — un termine che si pensò coniato dallo stesso Morris (1971: 81), e in seguito racchiuso e nobilitato nel titolo di otto dei suoi versi più finemente lavorati, l’epitafio “Death of a Semiotician” (1976: 86) — Morris troneggia fra i contemporanei nel campo della teoria dei se­ gni e deve “indubbiamente essere considerato come uno dei fonda­ tori e dei classici di questa disciplina nel Novecento” [“zweifellos als einer der Begrunder und Klassiker dieses Forschungsprogramms im 20. Jahrhundert angesehen werden”] (Apel 1973: 9). Questo giudizio è ampiamente condiviso, fra gli altri, da Rossi-Landi (1975: 155), il quale sostiene che “il posto di Morris quale massimo rap­ presentante della semiotica novecentesca è stato generalmente rico­ nosciuto...”. Per Wendy Steiner (1978: 105 e sg.) il contributo di Morris “prefigura l’esplosione che si ebbe negli anni Sessanta e Set­ tanta di discipline riguardanti i sistemi segnici non verbali”, e “i germi della cinesica, della paralinguistica, della prossemica e di tanta parte della contemporanea teoria dei segni” sono nati dalle sue ope­ re. Per Posner (1979: 70), “keine all-umfassende Perspektive gibt” (“non si ha alcuna prospettiva onnicomprensiva”) nella semiotica dopo Morris, e può pertanto essere il caso di ricordare qui ancora una volta il suo tipicamente modesto hic jacet (Morris 1976: 86): Death of a Semiotician He revered signs, reared them loved them; yet stili sought to be above them... But they thought otherwise. He was so besieged, drenched, smothered, wrenched, 106

mothered, mogrified by thè violence of thè signs, that he, ungrieved, in silence simply died — re-signed. [Morte di un semiotico Ebbe reverenza per i segni, li coltivava, li amava; eppure cercava ancora di esserne al di sopra... Ma essi la pensavano diversamente. Egli fu così assediato, inzuppato, soffocato, inaridito, protetto, trasformato d’incanto dalla violenza dei segni, che, senza pena, in silenzio, semplicemente, se ne morì — ras-segnato.] L’implacabile fallibilismo (cfr. Zeman 1980) suggerito in que­ sto penetrante, seppure malinconico, ottonario è certo in armonia con la mancanza di presunzione di Morris che concepiva il progres­ sivo avanzamento di “una vasta e feconda scienza dei segni” come il compito per molti ricercatori che lavorino in molti campi per molte generazioni”, e vedeva la sua semiotica “come qualcosa da modificare, ampliare, rettificare, sostituire” (Morris, 1971: 434 e sg.). È più interessante osservare che la concezione centrale di Mor­ ris, echeggiata in modo sorprendente a partire dal quarto verso di questa poesia, equivale a una spesso citata dichiarazione di LéviStrauss (1964: 20): “Nous ne pretendons donc pas montrer comme les hommes pensent dans les mythes, mais comme les mythes se pensent dans les hommes, et à leur insù”. Il rovesciamento che Morris intuitivamente fa dell’opinione comune — compresa, a quel che pare, la sua stessa concezione, quale emerge dalla sobria espo­ sizione in prosa — secondo la quale “I segni sono inventati, veri­ ficati e controllati dagli individui” (1971: 323), fu, di fatto, la po­ sizione più veridica e profonda, come ho brevemente dimostrato altrove (Sebeok 1979: xiii), ed è inoltre conforme alla grande tra­ dizione semiotica moderna che va da Peirce Thom (ibid.: 12)} La maggior parte di coloro che si occupano di semiotica “ten­ dono a pensare a Morris come all’autore dei classici lavori, dal 1938 al 1964, che furono raccolti nei suoi Writings on thè General Theory of Signs” (1971), come osservava Fisch nel suo breve necrologio (1979: 159). Ma Fisch ci ricorda in termini più generali il ruolo di Morris nella filosofia, e insieme ci parla del “giovane mago, lo psi­ cologo ed esperto psichiatra, il perenne esteta, lo studioso di reli­ gione e filosofia orientale, l’amante dei cani e, soprattutto, il poe­ ta...”. Oltre a Festival, Morris pubblicò una seconda raccolta di poesie, giusto dieci anni dopo, con il titolo di Image (1976). Vorrei 107

Fig. 4.1. Ritratto di Charles Morris. qui mettere in primo piano soprattutto questa raccolta, e al tempo stesso accennare ad alcuni aspetti del suo autore, che fu mio mae­ stro (Sebeok 1976: xii-xiii, 155), non in quanto puro semiotico (cosa che ho già fatto ampiamente in un libro dedicato a lui, ibid. passim, [vedi l’Indice a p. 264]), bensì quale figura da imitare nel modo più fedele possibile. Quel che voglio anzitutto sottolineare è che non intendo che questo saggio sia letto superficialmente per puro divertimento intel­ lettuale. NelPexlibris di Morris leggiamo “Solo con la totalità del­ l’uomo noi siamo totalmente liberi”. Dopo aver ascoltato Morris molte volte ed avere attentamente studiato i suoi scritti per 35 anni o più, sono lieto che non ci sia modo di cogliere i grandi interro­ gativi che egli continuò a porre eccetto che attraverso la sua poesia. Lasciate che riformuli e chiarifichi questa osservazione con le pa108

role stesse di Morris. Come egli ripeteva a Robert Y. Zachary della University of California Press il 4 settembre 1974: « Può essere utile osservare che è fuorviarne considerare Icon3 nel suo complesso come “poesia”. Ha un tono poetico e contiene molte parti che ognuno chiamerebbe “poesia”. Ma il libro nell’insieme è una forma di letteratura sapienziale — come La via di Laotze, i Frammenti di Eraclito, Zarathustra di Nietzsche, o perfino Leaves of Grass di Whitman... Icon è una immagine della mia opera nella sua totalità, e dei decenni di storia sociale che essa abbraccia. Ma è scritto in uno specifico idioma di letteratura sapienziale. Lo con­ sidero quale compimento della mia vita e della mia opera ». In una precedente lettera a Zachary (30 luglio 1973), egli definì più concisamente Icon nei seguenti termini: “In parte esso è chia­ ramente poesia, in parte prosa poetica, e in parte una sorta di ‘let­ teratura sapienziale’ ”. Egli scrisse a Zachary (in una lettera del 26 aprile 1971) che preferiva definire i suoi contributi alla ‘lette­ ratura sapienziale’, il cui intento era di ritrarre o illustrare quell’orientamento di vita che egli chiamava Maitreyano (vedi infra), “importante come il mio lavoro tecnico nella scienza e nella filosofia”. Egli non vedeva alcuna contraddizione, e aggiungeva che “Neppure Carnap la notava” (Carnap, che egli aveva incontrato la prima volta durante un suo soggiorno a Praga nel 1934, gli inviò alcune lettere con interessanti e favorevoli commenti su Festival)4. La “letteratura sapienziale” di Morris costituì il migliore tenta­ tivo di distillare le sue più profonde intuizioni e la sua saggezza — tutto quello che egli stesso si sentiva incapace di articolare “nel più freddo resoconto che si addice a una scienza dei segni”, come egli stesso si esprime nel suo dimenticato “The Primer of Semantics” (Morris 1948: Cap. Ili, 51 e sg.). Morris mise in risalto la molte­ plicità di modi in cui possono essere usati i segni. Quando nell’evo­ luzione dell’umanità emersero i “Modi di parlare”, essi includevano il parlare degli artisti e quello degli uomini religiosi, e « la grande missione dell’artista consiste nell’esplorare nuovi modi di essere prò o contro, e nel permetterci di condividere tali indagini attraverso il linguaggio speciale da lui creato. In tal modo noi vi­ viamo in forma vicaria, vedendo le cose come altri le hanno viste, e ponendoci di fronte ad esse come altri si sono posti. In questa forma di esistenza vicaria, noi apprezziamo le nostre caratteristiche valutazioni, le verifichiamo, otteniamo materiale per la loro modi­ ficazione, forse le rifiutiamo. Ecco perché onoriamo l’artista per la sua opera come onoriamo lo scienziato per la sua. Non operiamo una scelta fra di loro poiché abbiamo bisogno di entrambi (ibid.: 61) ». 109

Questo era il credo di Morris. Per la sua rapsodia sull’arte come ‘celebrazione’, vedi 1976: 27. In un contesto differente, più tecnico, che noi tutti conosciamo, Morris venne a discutere un segno che definì ‘apprezzatore’ [appraisor] e la cui significazione consiste in ‘valutazione’ [valuation]. Egli riformulò infine i suoi pensieri (in una comunicazione non da­ tata, ma completata probabilmente verso la fine del 1975, e diretta al comitato di redazione del suo futuro editore) nei seguenti termini: « Charles Morris crede che la più alta forma di simboli umani sia la poesia, che utilizza in se stessa tutte le risorse delle forme spe­ cializzate di simbolizzazione umana quali si presentano nella scienza, nella filosofia, nelle arti specialistiche e nella vita umana. Essa fa riferimento a delle cose e tuttavia esprime dei fini e delle aspira­ zioni riguardo alle forme ideali dei rapporti umani. Image, in par­ ticolare, costituisce una testimonianza delle idee e dei fini della ininterrotta opera del suo autore, Charles Morris ». In sintesi, lo scienziato dà informazione (1976: 26); l’artista dà [formazione e apprezzamento (ibid.: 27); l’uomo religioso infine ià sia apprezzamento sia prescrizione (ibid.: 28). Morris era posse­ duto da un fiero e talvolta disperato impulso ad adempiere la sua triplice missione: “È per me molto importante psicologicamente”, confessava a Zachary, quando a 73 anni la sua salute era ormai in declino, “avere Icon (o parte di esso) pubblicato nel 1976, poiché in un certo senso questo è il mio più importante volume conclu­ sivo”. La University of California Press respinse il libro il 20 ago­ sto, proprio il giorno in cui Morris spediva questa scoraggiata let­ tera di preghiera. A questo punto Morris, per uscire da tale triste cul-de-sac non aveva altra alternativa che rivolgersi a un “vanity publisher”5. Scelse una delle case più famose, la Vantage Press, per una ovvia ragione: l’anno precedente, cioè nel 1974, questa aveva pubblicato The White Dog di Ruth Ellen Alien Morris, sua ex moglie, e Charles considerava quella una “buona pubblicazione”. Il 25 settembre 1975, egli scrisse a Martin Littlefield, vicepresidente della Vantage, pre­ sentandogli “uno dei miei libri, chiamato Image”; si informò inol­ tre dei costi editoriali specificando che desiderava “che il libro fosse pubblicato nel 1976 (il 23 maggio del 1976 compirò 75 anni)”. Il manoscritto fu accettato il 10 ottobre, sulla base di un sussidio iniziale di 4.450 dollari, saliti poi a 4.800 (ossia, circa, 44 dollari a poesia). Dieci giorni dopo informò la sua famiglia: « Grande avvenimento: ho firmato il contratto per la pubblicazione di un volume di poesie, che chiamo ora Image invece che Icon. Ho pagato un buon sussidio — così ora il libro è interamente fi110

nanziato... Tutto ciò mi dà grande sollievo, specialmente l’aver portato a termine gli accordi per il libro di poesie. Siete ora in possesso di tutto il materiale che vi ho incluso — Cycles e The Turn of thè Wheel. Aggiungerne dell’altro avrebbe fatto salire trop­ po le spese. Così ci sono tre altri libri di poesie che posso tentare o meno di pubblicare ». Il cambiamento del titolo si presagiva già nel 1973 quando Morris spiegò a Zachary (30 luglio) che « il nome “Maitreya” non è la cosa fondamentale in Icori. Icori è una ‘immagine’ del modo in cui gli ultimi 40 anni circa hanno tro­ vato espressione in me. Esso ‘riflette’ me e il mondo che ho incon­ trato. Lo considero come uno dei miei principali risultati e sono molto ansioso di vederlo pubblicato. Così ansioso, infatti, che in­ tendo fornire un contributo di 4.000 dollari per questo scopo ». Questa palese offerta non fu incoraggiata dalla University of California Press. Image non incontrò reazioni critiche di alcuna sorta; dubito perfino che la raccolta sia mai stata recensita6. Come era specificato nel contratto con Vantage, Morris ricevette cento copie da distri­ buire a suo piacimento, ed egli ne inviò un limitato numero a coloro che considerava suoi amici intimi. Aveva infatti dichiarato in una lettera a Littlefield che egli era ansioso che Image fosse pubblicato “essenzialmente per avere copie da spedire ai miei amici qui e al­ l’estero ”. Egli considerava questo come “una continuazione nello spirito di Festival e... in effetti l’ultimo libro di rilievo”. Egli sapeva bene che “non ci si poteva aspettare che il libro fosse venduto molto”. La limitata corrispondenza prodotta dal suo dono è con­ servata nella più vasta raccolta di scritti di Morris al Peirce Edition Project della Indiana University-Purdue University di Indianapolis7. Forse un tipico commento fu quello entusiastico di Charles Hartshorn: “Lei ha interiorizzato in misura straordinaria l’ideale bud­ distico. E ha il dono della poesia” (23 dicembre 1976). Le espressioni gnomiche di Morris sollevano molte interessanti questioni riguardo alla personalità dell’autore e al carattere globale della sua opera — una sorprendente mistione di empirismo com­ portamentistico di fondo e vaporosa sovrastruttura teleoestetica. Ho già fatto allusione alla sua modestia per ciò che riguarda i risultati raggiunti in campo semiotico; e, fra tutti coloro che lo conobbero personalmente, la sua semplicità era davvero leggendaria. La cosmica valutazione di sé può pertanto sconcertare quei po­ chi che leggono le note autobiografiche stese per il libero uso del111

l’editore — ma stampate soltanto in forma notevolmente abbreviata sul retro della copertina di Image — in cui egli descrisse se stesso non solo “come uno degli importanti pensatori dei nostri tempi”, ma anche nei seguenti termini: “Il suo pensiero ed esperienza è... sia asiatico che occidentale. Ampiezza di vedute e profondo interesse per le attività intellettuali ed umane su tutto il pianeta è stato [jic] il suo principio direttivo. È una personalità autenticamente planetaria, un cittadino del mondo”. C’è poi la questione del rapporto fra la sua prosaica teoria dei segni e la letteratura sapienziale visceralmente semiotica. Come ho già mostrato esisteva una certa contraddizione fra i due aspetti, e le dichiarazioni poetiche erano in genere le più profonde (o, per lo meno, quelle che mi sono più congeniali). Questo apparente di­ vario merita di essere ulteriormente indagato. In questa occasione, vorrei soltanto presentare ai lettori una fra le più belle poesie di Morris che siano state pubblicate, e poi presentare qui per la prima volta il più vasto pezzo in versi sciolti dedicato all’argomento in generale (la loro analisi in una attenta prospettiva critica richiede­ rebbe un articolo a parte)8. Anzitutto da Morris 1976: 39: Animai Symbolicum What a remarkable animai: physiological and symbolical. Kin of every other animai, but symbol-haunted and dramatical.9 It took incessant killing and insistent genitality to carry man through thè long historical ordeal. Plus a fantastic and fabulous brain to support visions to plot his way. Becoming man was a tortuous trial. The enemies were cold and storm, bigger and smaller animals, and alien other men. Man is a plucky, chancy, lucky symbolizing thing. His symbols are his essential glory and his burden. His dreams carne from them, his proximate goals, his sustaining incentives to action, and his delusions. Symbols are in truth man’s heaviest burden, thè perpetuating devices of his perpetuai anxiousness, thè armor of his arrogance, thè shield which hides him from himself and from what is other than himself. Yet symbols are thè source of man’s fantasies, thè bells of his triumphs in his glance outward, thè cries of his consummations and his defeats, thè torch of his joys, and thè light unto his death. 112

[Animai symbolicum Che straordinario animale: fisiologo e simbolico. Affine a ogni altro animale, ma perseguitato dai simboli e drammatico. Ci vollero continue uccisioni e una tenace genialità per portare l’uomo attraverso la lunga ordalia della storia. E inoltre un fantastico e favoloso cervello per sostenere le visioni con cui tracciarsi il cammino. Diventare uomo fu una prova tortuosa. I nemici erano il freddo e la tempesta, animali più grandi e più piccoli, e altri uomini ostili. L’uomo è una coraggiosa, incerta, fortunata cosa che simbolizza. I suoi simboli sono la sua fondamentale gloria e il. suo fardello. I suoi sogni vennero di lì, i suoi scopi immediati, i suoi principali stimoli all’azione, e le sue illusioni. I simboli sono in verità il più grave fardello dell’uomo, i perenni dispositivi della sua eterna ansietà, la corazza della sua arroganza, lo scudo che lo nasconde a lui stesso e a ciò che è altro da lui stesso. Eppure i simboli sono la fonte delle fantasie dell’uomo, le campane dei trionfi nel suo sguardo all’esterno, il grido delle sue conquiste e delle sue sconfitte, la torcia delle gioie, e la luce fino alla morte.] E poi l’inedito: Semiotic Those old worshippers of silence, are they indeed so difficult to understand? Is it really violent to demand that initiates forbear speech? We who are pressed by thè multitudinous signs of things that would reach us, do we not of necessity comprehend that ancient stand that for a long time talking cease? For thè body says and says its weakness and its strength. The small hand talks to us daily, and weaker legs confront thè stronger arms; there is a peripheral limit with which our centrai strength cannot be rhymed. You are weak or strong thè body says, and we acquiesce or revolt by speaking other signs. Our life is verily a long talk with ourselves, a confirmation and rebuttai of thè body’s voices, a confirmation and rebuttai 113

of what other bodies teli us of our vices and our virtues, of what we are and what we ought to be. Yes, our affirmations are schooled in our distress. We are indeed deep enough in signified sin to warrant doubt and seek for silence. Yet our evil we accept our evil we transmute. Look! Beyond our teli-tale superficial signs lies a mightier self that from its well of good and evil yet will write a praiseful book! [Semiotica Quegli antichi veneratori del silenzio, sono davvero così difficili da comprendere? È davvero una violenza esigere che gli iniziati si trattengano dal parlare? Noi che siamo incalzati dagli innumerevoli segni delle cose che vorrebbero raggiungerci, non comprendiamo di necessità quell’amica disposizione che per lungo tempo il parlare cessi? Perché il corpo dice e dice la sua debolezza e la sua forza. La piccola mano ci parla ogni giorno, e deboli gambe si confrontano con più forti braccia; c’è un limite periferico con il quale la forza del nostro centro non può rimare. Tu sei debole o forte dice il corpo, e noi consentiamo o ci ribelliamo parlando altri segni. La nostra vita è veramente un lungo parlare con noi stessi, una conferma e un rifiuto delle voci del corpo, una conferma e un rifiuto di quello che altri corpi ci dicono dei nostri vizi e virtù, di ciò che siamo e di ciò che dovremmo essere. Sì, le nostre affermazioni vengono ammaestrate nell’angoscia. Nel significare il peccato siamo scesi abbastanza in profondità da garantire il dubbio e cercare il silenzio. Eppure il nostro male lo accettiamo il nostro male lo trasformiamo. Guarda! Al di là dei superficiali segni rivelatori c’è un più potente io che dal suo pozzo di bene e di male scriverà un lodevole libro!] In questo saggio ritmato, la nozione di “Io semiotico” (Sebeok 1979: 263-267) — e molto di più, per la verità — viene articolata con più intuito ed eleganza che in qualsiasi analogo tentativo di cui sono a conoscenza. Il 30 luglio 1973 Morris aveva scritto a Zachary: 114

« Lei noterà che faccio grande uso del simbolo Maitreya in [Icori] — che nella tradizione buddistica è il nome del prossimo Illumi­ nato che deve venire... Il termine “Maitreya” sta di nuovo entrando in uso. In California c’è una rivista di questo nome (ho scritto il primo articolo ma non sono più in contatto con essa), PInternational Council of Cooperation... ha fatto largo uso delle mie idee e vi sono nel paese parecchi gruppi che si sono denominati Centri Maitreya ». L’intera seconda sezione di Image — quattordici componimen­ ti — venne ad essere intitolata Maitreya o “l’ideale buddhistico” di cui parlava Hartshorne nella sua lettera di ringraziamento. Questa ‘traboccante’ (Morris 1976: 62) sapienza del Maitreya può essere riconciliata con il contemporaneo sviluppo della semiotica di Mor­ ris? Egli condensò l’argomento in un delizioso guscio di due di­ stici (ibid. 103): Graph Reading Everywhere there is lawfulness, and everywhere there is chance. Everywhere there is awesomeness, and everywhere there is dance. [Lettura di grafi Dovunque c’è una necessità, e dovunque una casualità. Dovunque c’è qualcosa che atterrisce, e dovunque qualcosa che danza.] Anticipando di circa quindici anni la sovraccarica metafora della temperatura di McLuhan (1965: cap. II, “Media Hot and Cold” [“Media caldi e freddi”]) Morris (1948: 51) osservò che “lo studio dei segni... a qualcuno piace caldo e a qualcuno piace freddo”. Mor­ ris, comunque, invece di utilizzare la scelta che tale opposizione comporta, si concesse ampia libertà di utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione, indipendentemente dalla loro temperatura, con l’affascinante conseguenza così bene descritta da Kenneth Boulding (nel suo libro egualmente intitolato The Image [1961: 7]) nei seguenti termini: “Il significato di un messaggio è il cambiamento che esso produce nell’immagine”. Le tre fasce di temperatura fra cui oscillava Morris — anche se, per la verità, non con eguale de­ strezza — erano i freddi resoconti rappresentati dai suoi trattati specialistici di semiotica, la sua bruciante poesia, e fra i due estremi il gradevole tepore delle cronache raccolte nelle opere in prosa The 115

CHARLES W. MORRIS ■*D>r»

WHHT8 or WIZÀIST

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6-7-19. Roger» Pck Women’e Club, ChioAgo, ZÌI. Deur IL&Ati:

The nusle play» - thè ourtaln rlees - thè onlookere are deelring eomethlng new, novel, and entertaining. Why not giva lt to them? Certalnly you bave often deelred eome reai novelty - a novelty combtning artletlc preeentatlon, olean showmanshlp, and unlqueneas - an act that featuro* any oeeaeion. Well, I can offer you Just euoh an act In my WHIFFS OF WIZARDRY, thè moet eubtle, baffllng, -oaglcal entertainment procurable - oomblnlng alelght-of-hand, mlnd-readlng, and epectacular magic. I am not offering an in-the-rut show, but a dletlnctlve attraotlon, appeallng to thè eye and to thè ear. You «111 have need of a well-dreeeed, flnlehed performance thie summer. I can givo it to you. With coverai years’ experlence In eoclety at club», cafes, reeorta and hotela, I have handled all typee of entertalnmente - from thè eoalleet to thè moot extraragant. WHIFFS OF WIZARDRY wlll myatlfy Chicago between July let and October lot thla summer, and on eeek ende next fall and winter. Let me hear from you or talk with you. I take prlde In glvlnc you thè beet. Why not let me handle an entertainment unlque for you? The prlce le reasonable - depending on thè affair iteelf. Make that dlnner dance of youra an enjoyable success. Live» up that evenlng with mystery art. Knhance any ooca sion In a way you belleved lmposalble. Ring up thè curtaln on WHIFFS OF WIZARDRY. Yours for an artletlc entertainment,

Fig. 4.2. Lettera al Rogers Park Woman’s Club.

Open Self e Paths of Life. Come un consumato giocoliere che butta in aria una quantità di oggetti e li riprende uno o più alla volta, Morris proiettava una immagine che, quasi per incantesimo, subiva una rapida metamorfosi come in un caleidoscopio. Ma il significato sottostante mutava solo nella misura in cui era costretto a ciò dal mezzo impiegato. Il giocoliere ottiene effetti illusionistici per mezzo di “soffi di magia”, e Morris pensava di essere un archimago. È un paragone troppo forzato? Riproduciamo qui una lettera, raramente presa in considerazione, dattiloscritta da un Morris giovanissimo 10. Pochissimi sanno che, nel 1911, Morris decise di intraprendere la carriera del prestigiatore e cominciò nell’ottobre 1915 a compi­ lare un album (di ritagli di giornale) sulla magia, che tenne fino al gennaio 1918. Il suo idolo era Howard Franklin Thurston, nato a 116

Columbus Ohio nel 1869, e il cui “Spettacolo delle meraviglie del­ l’universo ” godette di fama internazionale. Egli “mantenne la po­ sizione di più grande illusionista d’America per 28 anni” (Christo­ pher 1973: 240; Thurston morì nel 1936) ed ebbe la reputazione di essere “immancabilmente gentile con i bambini interessati a di­ ventare maghi” (ibid.: 232). Perfino dopo il crollo della borsa del 1929, i migliori spettacoli di Thurston “stabilivano nuovi record di vendita al botteghino del... Chicago Theatre a Chicago” (ibid.: 236), dove, come si può facilmente supporre, Morris andò a vederlo. La sua foto era sulla copertina dell’album di Morris, pieno di ritagli sui più straordinari trucchi di Thurston, molti dei quali di tono ti­ picamente orientale. In Morris 1966: 43 abbiamo l’ultima dichia­ razione a noi nota: Magic Rabbits from a hat, doves caught by a net in free space, thè fair girl that floats in free air and vanishes there without leaving a trace of herself anywhere — there are thè pantomimes, thè gestures, thè replicas of thè greater magic, mimes of thè Great Magician that makes a seed of grass a biade, that pulls thè stars apart without trepidation, and makes them cojtract again; that can send a thought through a millennium of greed to mate it with a verse; that in thè tragic, joy can stili contact; and that from thè adverse and thè perverse can mix sweet lemonade. [Magia Conigli da un cappello, colombe prese in una rete sospesa, la bella ragazza che fluttua nell’aria e svanisce senza lasciare traccia di sé da nessuna parte — ci sono le pantomime i gesti, le repliche della più grande magia, mimi del Grande Mago che fa di un seme un filo d’erba, che divide le stelle senza trepidazione, e le fa unire di nuovo; che può lanciare un pensiero attraverso millenni di desiderio fino a congiungerlo con un verso; che nella tragedia può ancora toccare la gioia; e che di ciò che è avverso e perverso può fare una dolce limonata.] 117

È importante non perdere di vista le maggiori questioni qui implicate, anche se non è forse questa la sede per fornire tutte le risposte. Anzitutto dobbiamo chiederci qual è il rapporto fra se­ miotica da un lato e taumaturgia dall’altro: cos’è che fanno gli illusionisti? Molto semplicemente, essi operano sui segni sviandoli, “e tutta l’illusione consiste proprio in questo”, come ha rilevato Leech — un altro contemporaneo di Chicago — nel suo eccellente e conciso libretto (1948: 6). In tutti gli spettacoli di magia esistono essenzialmente tre pro­ cedimenti semiotici di base (anche se le innovazioni possono essere innumerevoli), sia che comportino facili trucchi o complessi effetti di prestidigitazione, sia che dipendano da un apparato di notevoli dimensioni, da esseri umani o animali di qualsiasi taglia. Questi segni segreti sono chiamati in gergo ‘gimmicks’ [‘trucchi’] ed è proprio attraverso tali segni che il prestigiatore, novello Apollo, e apparentemente sfidando le leggi della fisica o più in generale altre regole presumibilmente vincolanti in natura, indica (semainei). La magia è così, in ultima analisi, una trovata metafisica. 1. Un segno, come per esempio una moneta, improvvisamente scompare, o

Questa operazione è di solito chiamata “Dileguamento": qualcosa svanisce nel nulla. 2. Un segno, come per esempio una gabbia piena di canarini, appare all’improvviso in modo inspiegabile, o

Questa operazione è in genere chiamata “Produzione” ed è, na­ turalmente, l’inverso della prima: qualcosa viene creato dal nulla. 3. Un segno, come per esempio una statua, si muta in una per­ sona viva (questo, fra parentesi, era uno dei cavalli di battaglia di Thurston), o, come in “La donna e il leone”, due enormi cabine vuote sono collocate a parecchi metri di distanza dal palcoscenico. Nella versione di Thurston, “una ragazza entrava in uno; venivano tirate le tende intorno a entrambi. La ragazza svaniva; al suo posto c’era un leone in una gabbia. Ella riappariva in una seconda cabina, 118

appollaiata come un canarino in una gigantesca gabbia per uccelli sospesa” (Christopher 1973: 238). Questa operazione è general­ mente chiamata “Trasposizione” e si può rappresentare nel modo seguente:

L’illusione può comportare mutamento di forma, o trasporto a di­ stanza della medesima forma, o — come nei fantastici numeri di trasformismo del proteiforme Leopoldo Fregoli — entrambi i tipi di trasformazione. Il processo è spesso reversibile o potrebbe costi­ tuire un anello in una catena di ulteriori mutamenti. Come scrisse Morris, ormai ricco di esperienza (1971: 221): “Ciò che è spesso chiamata ‘magia’ è la persistenza di tecniche quando esiste la prova che queste pratiche non influenzano di fatto il raggiungimento dello scopo, specialmente quando queste pratiche sono di natura simbolica”. Egli però si rese conto al tempo stesso che anche qui ci vuole cautela, poiché, in un più ampio contesto, “può darsi che l’azione simbolica abbia una pertinenza tecnica e il discorso tecnologico che la prescrive sia adeguato. Tali complica­ zioni”, ammonisce Morris “non vanno dimenticate quando si deve definire l’adeguatezza del discorso tecnologico a fini morali e reli­ giosi” (ibid.: 222) n. Quando Morris crebbe, la sua persistente fan­ tasia giovanile di onnipotenza magica diede luogo alla Magia, nelle due forme intimamente connesse della poesia e della religione — en­ trambe profondamente imbevute di Maitreyismo — mentre, al tem­ po stesso, la sua iniziale preoccupazione per i più elementari processi segnici che sottostanno alla ‘pratica’ (Leech 1948: 16-18) della ma­ gia sbocciò in una Teoria dei Segni assai raffinata dal punto di vista scientifico. “Quale religione che dà grande valore all’intelligenza scientifica, il Maitreyismo” credeva Morris “sarà favorevole ad una filosofia di orientamento scientifico interessata all’integrazione della conoscenza, ivi compreso il rapporto di tale conoscenza con altre attività umane” (1956: 177). Circa un quarto di secolo più tardi (1976: 61), egli riformulò in termini poetici una identica dichia­ razione di fede: Union Science wedded to Maitreya’s vision — this is man’s out to greatness, this is thè next embedded human way. 119

This is Westness linked to Eastness in a new day; this is thè next elateness, renewal’s shout, heal of irresoluteness. Selflessness nedds support of cosmic grandeur. Little and large can we only dare to be if what we envisage can satiate our wonder. [Unione Scienza sposata ora alla visione del Maitreya — questa è l’uscita dell’uomo verso la grandezza, questa è la futura strada tracciata per lui. Questo è occidente unito con oriente in un nuovo giorno; questa è la futura esultanza, grido di rinnovamento, guarigione dell’irresolutezza. Quando l’io vien meno c’è bisogno di grandiosità cosmica. Piccoli e grandi possiamo solo osare di essere se ciò che scorgiamo può appagare il nostro stupore.] Quello che Morris chiamò il Sentiero Maitreyano è uno dei sette modi in cui l’uomo contemporaneo può collocarsi di fronte a se stes­ so e in rapporto con il mondo che lo circonda. In Paths of Life egli esamina ciascuno di questi tipi (in opere successive l’elenco ne com­ prenderà 13). Anche se sulla traccia di Nietzsche Morris rifiuta espli­ citamente la nozione di “la Via”, l’orientamento da lui scelto è chia­ ramente quello Maitreyano (1948: 84 e sgg.; 1956: cap. VII), come si vede dalla sua collocazione centrale nel diagramma seguente (ibid.: 167).

Prometeico

Apollineo

dL

Jh

Maomettano

Maitreyano

Buddhistico

cri]

Di Dionisiaco

Hd

Cristiano

ori

Fig. 4.3. Prospetto della personalità maitreyana. 120

La personalità maitreyana viene dipinta come integrativa, “ad un tempo fortemente prometeica, dionisiaca e buddistica” (ibid.: 153), eppure essa “sembrerà spesso a se stessa, come agli altri, semplicemente il Proteo camaleontico — ora un tipo di persona e ora un altro) (ibid.: 155). Si pensi al leggendario trasformista Fregoli, pri­ ma menzionato, il cui fantastico numero viene così descritto da Christopher (1973: 282): « Il proteiforme italiano apparve dapprima come un vecchio che cantava in abiti di corte, poi come una donna e infine come una giovane soprano, si inchinò e scomparve dietro le quinte. Prima che gli applausi avessero termine era di ritorno vestito da anziano in­ segnante di musica. Sedette ai piano e cominciò a suonare. Il riflet­ tore si spostò verso le quinte e una donna formosa in abito da sera uscì sul palcoscenico. Improvvisamente il pubblico si accorse che si trattava di Fregoli: al suo posto, al pianoforte, c’era allora un ma­ nichino. La donna fece alcuni gorgheggi e uscì. E Fregoli si preci­ pitò fuori dall’altra parte, vestito da prestigiatore, con barba e baf­ fi... e da una vuota cornucopia di carta tirò fuori dei fiori, uscì da sinistra e rientrò da destra danzando con parrucca e tutù da ballerina ». Mi sembra che le parole di Morris descrivano nel modo mi­ gliore la via del Maitreya: “l’integrazione dinamica di gioia azione, e contemplazione” (1948: 177). Era destino, scelto da lui stesso, che la ‘flessibilità’ divenisse il suo tratto distintivo e fornisse “una prospettiva in cui si potessero colmare gli abissi che separano i vari tipi di personalità”. Egli lottò per fare di se stesso, come è emblematicamente espresso dalla scelta delFexlibris, “il custode del­ la complessità dell’io umano nella sua pienezza” (1956: 155). Come posizione filosofica, la concezione di Morris della via mai­ trevana presenta numerosi punti deboli ed è piuttosto confusa (come egli stesso peraltro si rendeva conto; cfr. 1948: 119; 1956: 154 e sgg.), ma come descrizione della sua personale guida verso uno stato di illuminazione spirituale essa irraggia una vivida immagine di lui (1966: 73): Satori How blind, how complexly dumb we are! And how simple, inevitable, it is! Here at thè void’s unspeaking center worlds are forever made from nothing’s bliss. From here is forever tossed thè outermost star. Relinquish fear! Go on! Dare enter! 121

[Satori Come siamo ciechi, come siamo complicatamente sordi! E come è semplice, inevitabile tutto questo! Qui al muto centro del vuoto i mondi sono eternamente tratti dalla beatitudine del nulla. Di qui è eternamente lanciata la più remota stella. Deponi il timore! Avanti! Abbi il coraggio di entrare!] L’immagine di Charles Morris è per sempre incarnata nell’Im­ magine del Buddha pietoso, che, secondo una leggenda orientale, “torna sempre a scendere di nuovo su questa terra”. Morris suppone (1976: 57): “Potresti averlo visto perfino in un bar”. Perché non a Chicago? Perché non a Gainesville?

NOTE 1 George Herbert Mead, Addison Webster Moore, James H. Tufts, Edward Scribner Ames, John Dewey, Clarence I. Lewis, Horace M. Kallen. L’evidente significato poetico di questo caotico stile elencativo usato da Whitman e dai suoi epigoni novecenteschi era di suggerire la consapevolezza che lo scrittore ha della fondamentale unità dell’universo o almeno di dimostrare il suo rapporto con l’aspetto di questo che lo riguarda nel microcosmo circoscritto dalle lunghe liste (cfr. Spitzer 1945). L’influsso essenziale di Whitman sul verso di Morris è evidente: per esempio, nella sezione “Invocadon" del suo libro del 1956 che consiste di una ventina circa di poesie l’epigrafe è trat­ ta da Leaves of Grass; similmente, The Open Self (1948) si apre con una citazione da Democratic vistas. Egli pensava anche che “le parole [di Whit­ man] dall’Est all’Ovest servono almeno a dimostrare che l’atteggiamento maitreyano si colloca nella lunga storia del tentativo dell’uomo di unire la freddezza dell’ampia e distaccata visione con il calore e l’insistenza delle sue attività e bisogni contingenti” (1948: 164). Altri scrittori che, come egli stes­ so dichiara, ispirarono Morris sono Chuangtze, Tagore, Rilke, Nietzsche, Mel­ ville (lettera a Pantheon, del 6 febbraio 1965, come pure il Gibran di The Prophet (lettera a Braziller, del 26 maggio 1962). Per la poesia di Morris su Mead, “linking in oneness othered diversity: / this his direction, bliss, and bestowing”, vedi 1976: 78. Come osserva Zeman (1980), “I rapporti fra -il pensiero di Morris e quello di Mead potrebbero costituire l’argomento di un lungo saggio”. 2 Ciascuna di queste affermazioni rovescia il dogma, espresso, per esem­ pio, nella forma “l’uomo crea la religione, la religione non crea l’uomo", e quanto è implicito in questa massima marxista. 3 Icon, come tale, non fu mai pubblicato. Il 26 aprile 1971, Morris scrisse ancora a Zachary: « Uno dei miei principali obiettivi ora è la pubblicazione di un volume di ‘poe­ sia’, che sarà intitolato Icon, e che comprenderà Festival (e forse Cycles) come parte centrale, preceduta da White Pire e conclusa da Turn of thè Wheel. Il materiale di queste parti è già scritto e riflette tutta la mia vita dalla giovinez122

za fino ad oggi. Adesso il problema è solo di operare una scelta da una gran quantità di materiale e tale scelta è già fatta in buona parte. Potrei comple­ tarlo nel 1971 (il mio settantesimo anno). White Pire consisterà di circa 60 poesie, Turn of thè Wheel di 97 circa». In seguito Image, nella sua edizione defintiva, comprese 34 poesie in Cycles, 14 in Maitreya, 32 in Encounters e 30 in Friendship — o 110 testi in tut­ to, tratti da un manoscritto molto più vasto. 4 II 13 marzo 1966, Carnap ringraziò Morris per avergli inviato una copia del libro e noltre osservò: “Avevo sempre pensato che ci fosse bisogno di una espressione non concettuale, per arrivare al cuore delle persone. Ora lei lo ha fat­ to con la poesia, forse lei o qualcun altro ci proverà con la musica”. Anche se Morris “prestò attenzione alla pittura contemporanea”, come ha recente­ mente confermato Hartshorne (1979: 194), non ho mai saputo che egli fosse particolarmente interessato alla musica (ma cfr. Morris 1971: 274-276). In “Imaginary Meeting” (Morris 1976: 79), egli chiede: “Remember when we heard Scriabin’s / Poem of Ecstasy in Chicago long / long ago, and celebrated creation?" (“Ricordi quando sentimmo il Poema dell'estasi / di Scriabin a Chicago tanto / tanto tempo fa, e celebrammo la creazione?”). Se ciò accade realmente Morris doveva avere cinque o sei anni, poiché la tournée americana di Aleksandr Nikolayevich Scriabin risale al 1906-07; dall’altro lato è ovvio che si sarebbe potuto trattare di altri esecutori, e non dell’artista in persona. * È detta “vanity publisher” una casa editrice che pubblica un libro a spese, e quindi esclusivamente a rischio, dell’autore. Colgo qui l’occasione per ringraziare William Finnegan, della Vantage Press, che ha messo a mia dispo­ sizione del materiale orginario di Morris (appartenente agli archivi della ca­ sa editrice), ivi compreso un questionario dell’autore, contenente un abbozzo dell’argomento del libro, con una nota autobiografica. * Il libro contiene pochissimi errori di stampa. Due che posso confer­ mare sono: a p. 85, ultima riga, si legga ‘on’ invece di ‘or’; e a p. 100, ultima riga, ‘Mafnificence’ invece di ‘Magnificence’. Contrariamente a quanto temeva, Morris fu in grado di correggere le proprie bozze. Il 20 gennaio 1976 egli ave­ va fatto la stesura di una lettera cautelativa al Sig. Zimmerman, di Vantage, che ho trovato conservata solo in una scrittura indecifrabile, e in cui fra l’al­ tro si legge: « Lei forse ricorda che quando le inviai Image, scrissi che non mi sentivo bene. La malattia è andata avanti e può presentare dei seri problemi. Così per semplice prudenza le ho scritto questa lettera. Nel caso che io non fossi in grado di correggere le bozze di questo libro, la prego di spedirle a mia figlia... È per me molto importante che il libro sia pubblicato, e per questo ho preso precauzioni con tale lettera. Al momento mi sento sicuro che potrò correggere le bozze e ricevere le copie definitive ». 7 Sono molto grato al personale del Peirce Edition Project per l’aiuto prestatomi nell’orientarmi fra le carte di Morris, che sono ancora catalogate in forma provvisoria. * Il punto di partenza per questo tipo di analisi resta ancora Hrushovski (1960), che definii i versi sciolti [free rhythms] come poesie “che (1) non sono dotate di uno schema metrico coerente...; ma (2) posseggono un linguaggio poetico organizzato in modo da creare impressioni e adempiere funzioni di ritmo poetico” (p. 183). 9 Ho letto per la prima volta questo componimento in forma manoscrit­ ta durante una delle mie periodiche visite (credo nel 1974) alla casa di Morris, a Gainesville, ed osservai che mi sembrava qui più adatto il termine gramma­ tical. Morris sorrise, mostrandosi apparentemente d’accordo, ma ovviamente preferì conservare dramatical. Non conosco la data di Semiotic né il motivo

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per cui Morris decise di non diffonderla, e neppure d’altro lato, di distrugger­ la. Abitualmente egli annotava su alcune poesie “Questa mi piace molto”, ma una delle sue cartelle reca la scritta: “...separate da un più vasto gruppo (le altre sono state distrutte)". Semiotic apparteneva chiaramente a un gruppo in­ termedio. 10 L’ortografia non era il forte del tipografo e a quel che sembra neppure Morris vi prestò attenzione nel sottotitolo. 11 Intendo riprendere in esame la magia quale branca delle semiotica in un capitolo del mio futuro libro, Clever Hans, in preparazione per la Indiana University Press. Bisogna ricordare, prima di concludere l’argomento, che Martin Gardner, che partecipò ai seminari di semiotica tenuti da Morris a Chicago, è, fra le altre cose, uno dei maggiori conoscitori e dei più autorevoli studiosi di magia (cfr. Braun 1978). Su Gardner e Morris, vedi inoltre Sebeok 1978b, dove nel­ l’epigrafe di Gardner si legge: “Pochi sanno che Charles W. Morris era una volta un prestigiatore professionista. Quando era ancora giovane, comunque, venne il momento in cui si trovò costretto a decidere fra magia e filosofia. Scel­ se la seconda come il minore dei due mali...". 11 Sono molto grato a Thubten Jigme Norbu per aver messo a mia disposi­ zione una foto di questa splendida scultura. Per l’abile trasposizione della “scul­ tura del Maitreya" in forma verbale, vedi 1976: 55.

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CAPITOLO V Karl Biihler: una figura dimenticata nella storia della ricerca semiotica

Alcuni passi chiave di questo articolo, scritto in inglese, sono stati letti al II Congresso della International Association for Semiotic Studies, a Vienna, il 5 luglio 1979. L’articolo fu scritto come contributo alla serie speciale, durata l’intera settimana, “Wiener Erbe” [Eredità viennese], organizzata dal comitato di programmazione del congresso. Una versione del testo inglese è apparsa nel Canadian Journal of Research in Semiotics / Le Journal Canadien de Recherche Sèmiotique 7:3: 5-22 (1980) e un’altra dovrebbe infine apparire come parte dei Proceedings di questo Congresso, che saranno pubblicati da Mouton (L’Aia). Una traduzione tedesca venne pubblicata come capitolo di un libro, curato da Martin Krampen, Klaus Oehler, Roland Posner, e Thure von Uexkull, dal titolo, Die Welt als Zeichen. Klassiker der Modernen Semiotik (Berlin: Severin und Siedler, 1981: 205-32).

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: 1 ! ! ! ; : i : Chi si propone di valutare la precisa fisionomia e le qualità di studioso di una grande figura del passato si ritrova spesso coinvolto in una mischia generale per cui finisce con il descrivere semplicemente i tratti distintivi del proprio contributo. Questo processo di autodefinizione si verifica soprattutto quando tentiamo di reinter­ pretare personalità che fiorirono nei decenni successivi al crollo politico e culturale della Hausmacht di Absburgo — un’epoca di decadenza imperiale che è stata giustamente descritta come “sem­ pre disperata, ma mai seria” — poiché alcuni di noi hanno pro­ fondamente assorbito quel medesimo ambiente durante gli anni del­ la loro formazione. Il periodo che seguì presentò infinite possibilità di costruire nuove istituzioni e pratiche sociali, in breve, la nuova repubblica austriaca. In questa Austria moderna esistevano per gli intellettuali innumerevoli possibilità di mettere a punto un effet­ tivo sistema di democrazia sociale, cosa che non si era mai verifi­ cata ai tempi dell’ultrareazionario regime absburgico. Fu in questa nuova atmosfera di crisi sociale che le idee di Biihler, germinate circa un decennio prima, intorno al “pensiero senza immagini” e la “consapevolezza delle regole”, cominciarono a svolgere un premi­ nente ruolo teorico nel movimento che è alla base della riforma dei programmi di studio in Austria (Bartley 1973: 144). Karl Popper e Ludwig Wittgenstein furono tra i giganti in erba che si iscrissero ai corsi per la formazione degli insegnanti (Janik and Toulmin 1973: 288). Gran parte di questo sviluppo costruttivo fu naturalmente spazzato via dalla Seconda Guerra Mondiale. Eppure, volgersi a considerare quei decenni è un salutare esercizio, poiché ciò serve almeno a ridurre la nostra soddisfazione e a dissipare le illusioni in merito alla totale innovatività dei superstiti eroi contemporanei. Così quando per caso torniamo nella Vienna del periodo fra le due guerre, dobbiamo comunque ricordare due fatti fondamentali: pri­ mo, che non possiamo sfuggire alla tendenza di tutti i viaggiatori, 127

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Fig. 5.1. Ritratto di Karl Biihler

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sia nello spazio che nel tempo, di prendere un momento cruciale, qua e là, e partendo da esso, di generalizzare attraverso l’imposi­ zione dei nostri pregiudizi a ogni altro sprazzo di luce; e, secondo, per parafrasare quello che diceva lo straordinario scrittore satirico Karl Kraus della Vienna borghese a lui contemporanea, che questa città, nel periodo in cui ci visse Biihler, era già un terreno di prova per la distruzione del mondo. George Steiner (1979: 101) ha rias­ sunto bene tutto questo: “Come dice quel motivo di valzer, Wien, Wien, nur du alleiti [Vienna, Vienna, solamente tu~\. Vienna fu la capitale dell’età dell’angoscia, il cuore della genialità ebraica, e la città da cui sarebbe venuto l’Olocausto”. Tutto questo fu anti­ cipato in campo scientifico, con raro acume, in Die Krise der Psycbologie di Biihler, pubblicato per la prima volta in forma di libro due anni prima della catastrofe economica del 1929 (vedi anche Wellek 1959). 128

L’obiettivo del ciclo di conferenze sulla “Eredità viennese” era di commemorare e celebrare il molteplice, e tuttavia caratteristico, ruolo dell’Austria nello sviluppo della moderna ricerca semiotica. Il mio compito particolare consisteva nelFesaminare il contributo di Biihler, che né nacque né fu allevato in Austria, e che — sebbene fosse di famiglia rurale e avesse ricevuto una educazione religiosa molto aperta (il padre, Ludwig, era protestante e la madre, Berta, alla cui fede si accostò il giovane Karl, cattolica) — fu costretto ad abbandonare l’Austria e a sistemarsi con difficoltà in America dopo il 1938. Egli comunque ottenne fama internazionale a Vienna dove prevalentemente operò durante sedici degli anni più produttivi della sua vita, a partire dal 1922 (Lebzeltern 1969: 25). Bùhler nacque il 27 maggio 1879 a Meckesheim, in prossimità di Heidelberg, e si iscrisse all’università di Friburgo in Brisgovia (Freiburg im Brcisgau). Nel 1903 si laureò in medicina con il fa­ moso fisiologo Johannes von Kries con una tesi sperimentale sulle teorie della percezione dei colori, cioè sulla questione dei limiti della capacità di adattamento dell’occhio alla luce e al buio. Sempre a Friburgo egli cominciò a nutrire per la psicologia l’interesse, che lo accompagnerà per tutta la vita, ma i suoi studi per il dottorato si conclusero all’università di Strasburgo. Qui nel 1904 egli pre­ sentò una seconda tesi a Clemens Blàumker sui presupposti fisio­ logici che Lord Kames (Henry Home), il pensatore settecentesco, riteneva indispensabili all’estetica. Si potrebbero fare alcune brevi considerazioni in merito all’influsso di Kames su Bùhler, con par­ ticolare riguardo agli argomenti del filosofo morale scozzese sulle leggi di associazione e le qualità relazionali da lui studiate, come la contiguità nello spazio e nel tempo (l’ambito che alcuni di noi chiamano oggi indicalità), e simiglianze e differenze (o iconicità), come pure le nozioni classiche di significazione basate su causa ed effetto (Eugen Miller 1979) e di variazione di superficie su di uno sfondo di uniformità globale. Sembra poi che per un breve periodo Bùhler abbia esercitato la professione di medico a Strasburgo, specializzandosi in oftalmo­ logia (Lebzeltern 1969: 13). In seguito Bùhler divenne assistente di Kries a Friburgo e si recò poi a Berlino a studiare con Benno Erdmann e a lavorare con Cari Stumpf. Erdmann era un logico e psicologo ricordato soprat­ tutto per i suoi lavori su Kant e la sua concezione (1907) del giu­ dizio il cui nucleo è costituito da una relazione predicativa — il prototipo di un atto illocutorio, per così dire, compiuto «^/'enun­ ciare una frase — concezione che è stata radicalmente influenzata da considerazioni di ordine semiotico. Cari Stumpf, che portò la fenomenologia sperimentale in campo psicologico, è spesso conside­ rato uno dei più importanti precursori della psicologia della Gestalt. 129

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Egli fu anche uno dei fondatori, nel 1900, del Verein fiir Kinderpsychologie di Berlino, un campo in cui Karl operò otto anni dopo, anche se non in misura considerevole come Charlotte Biihler. Nel 1906 Biihler passò ad una stretta collaborazione, a Wùrzburg, con Oswald Kùlpe (che aveva lavorato come secondo assi­ stente di Wilhelm Wundt) ed ottenne l’abilitazione come dozent in filosofia. Questa monografia, pubblicata sotto forma di tre successivi articoli nell’“Archiv fiir die gesamte Psychologie”, nel 19071908, era basata su studi sperimentali condotti da Biihler sulla psi­ cologia dei processi del pensiero e portava il titolo “Tatsachen und Probleme zu einer Psychologie der Denkvorgànge” [“Fatti e pro­ blemi per una psicologia dei processi del pensiero”]. L’analisi di Biihler di “cos’è il pensiero” fu fortemente influenzata dalle origi­ nali concezioni di Kiilpe riguardo alla conoscenza (o, nella termino­ logia di Biihler, “pensiero”) senza immagini, tendenza determinante (espressione coniata nel 1905 da Narziss Ach per descrivere il pro­ cesso inconscio, celato all’introspezione, che guida il pensiero nel suo proprio corso; cfr. Rapaport 1951, passim), consapevolezza, or­ ganizzazione del compito (Aufgabe), messa a punto (Einstellung,), e la tecnica di sistematica introspezione sperimentale. Una fondanentale sezione della parte II (di cui sono stati anche pubblicati lei brani in inglese [Rapaport 1951: 39-57] — anche se solo 43 inni dopo) era dedicata alla apprensione (Auffassen) del pensiero e all’intendimento (Verstehen) di frasi, una funzione che i semiotici potrebbero ben tradurre come ‘comprensione’ o come ‘interpreta­ zione’. Una delle importanti conclusioni a cui giunse Biihler fu che il Verstehen ha luogo fra complessi integrali. Egli si rese immedia­ tamente conto che questa esperienza è l’inverso di un problema che si incontra in psicologia del linguaggio, vale a dire: In che modo il pensiero unitario si differenzia nei significati della concatenazione di parole attraverso cui è espresso, o, per rovesciare ancora la do­ manda, in che modo i significati delle parole vengono a costituire il pensiero nella sua globalità? Per metterla ancora in altri termini, la domanda — a cui i dati di Biihler non riuscivano a fornire una risposta — solleva la più ampia questione della genesi della Gestalt, un lungo e complesso capitolo della storia delle idee che può essere qui appena sfiorato (cfr. l’estesa trattazione da parte di colui che egli considerò il suo “Hauptschùler”, Egon Brunswik 1929). Que­ sto e altri argomenti affini, riguardanti “un’ampia gamma di tensioni che hanno luogo fra gli interi e le parti” e contribuiscono a costi­ tuire il linguaggio e altri tipi di stringhe semiotiche, furono identi­ ficati con precisione da Takobson (1963), il quale allude (1971b: 715), a tale proposito, alle idee di Biihler, pur facendo più esplicito riferimento a quelle di Peirce, Frege, Husserl e, ovviamente, Sapir. Biihler tornò in seguito — fine degli anni Venti e inizio degli anni 130

Trenta — sulla caratteristica esperienza della comprensione di fra­ si, quale operazione cruciale culminante nell’emergere di rapporti coscienti. Alla fine Kiilpe fu spinto dai suoi stessi esperimenti ad abban­ donare gli elementi di Wundt e ad accostarsi agli atti di Brentano, ma fu lo studio di Biihler che diede il via ad una grande controversia con Wundt, vertente sulla legittimità metodologica degli esperimenti non esatti e della introspezione retrospettiva: in merito al valore empirico di tali procedimenti — e, più in generale, riguardo alla introspezione e alla mente — le discussioni sono ancora molto vi­ vaci (p.e., Lieberman 1979). Secondo Lebzeltern (1969: 15), fu il lungo dissidio con Wundt che rese il giovane studioso “in der Fachwelt gleichsam ùber Nacht berùhmt” [“famoso nel mondo de­ gli esperti, per così dire, da un giorno all’altro”]. I punti più salienti della loro discussione sono stati chiaramente sintetizzati da Blumenthal (1974: 1114-1116), e non c’è bisogno di riprenderli in esame qui. Le opinioni di Bùhler, che i pensieri sembrano essere indipendenti dalla loro manifestazione verbale e che il significate della frase precede sul piano gerarchico il significato delle parole (ui principio su cui, per inciso, egli e Wundt erano perfettamente d’ac cordo), diedero luogo infine, dopo il 1919, alla sua particolare teoria del linguaggio di sapore semiotico. Quando Kiilpe passò a Bonn nel 1909, e poi a Monaco nel 1913, Bùhler lo seguì; qui egli ottenne un posto non di ruolo come pro­ fessore associato. Nel 1916 il trentasettenne Karl sposò Charlotte Malachowski, allora ventiduenne, sua compagna di studi e già al­ lieva di Husserl, la quale divenne poi ella stessa una famosa psico­ ioga. Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, Bùhler accettò un posto di professore ordinario all’Istituto di Tecnologia di Dresda e, quattro anni dopo, la coppia — invitata calorosamente da Otto Glòckel e dai suoi colleghi — si trasferì a Vienna dove Karl di­ venne professore e Charlotte sua assistente. L’Istituto di Psicologia che fondò in questa città — fra parentesi, con una sovvenzione supplementare di dieci anni da parte della Rockefeller Foundation — e diresse, con l’aiuto della moglie, fino al 1938, subito ottenne fama internazionale. Egli tenne contemporaneamente un posto di profes­ sore aggiunto all’Istituto Pedagogico di Vienna. Il salotto dei Bùhler, in Weimarer Strasse 100, subito divenne una mecca della vita so­ ciale e intellettuale per gente che visitava Vienna provenendo da tutte le parti del mondo; così, per il 1937, Bùhler aveva richiamato dottorandi di diciotto paesi. Il 23 marzo 1938, egli fu arrestato dai Nazisti, ma venne rila­ sciato il 7 maggio per l’intervento di amici influenti, con il cui aiuto l’anno successivo emigrò, via Oslo, negli Stati Uniti. Egli vi aveva precedentemente insegnato nel 1927-28 (a Stanford, Johns 131

Hopkins, e Harvard) e nel 1929 (a Chicago); nel 1930 aveva oc­ cupato la cattedra ‘MacDougall’ a Harvard e contemporaneamente aveva avuto un’incarico a Radcliffe. Comunque, come riferì esplici­ tamente Charlotte Bùhler alcuni anni dopo (1965: 187), “Da wir beide Wien sehr liebten, zpgen wir es vor, in Wien zu bleiben” [“Dato che entrambi amavamo molto Vienna, preferimmo restar­ vi”]. Tale decisione, vista retrospettivamente, risultò un grave er­ rore, poiché, oltre a un quarto di secolo di esilio, che, come il de­ stino volle, divenne irreversibile dopo i sessantanni, Bùhler non riuscì ad ottenere un posto adeguato e fu costretto ad insegnare psicologia in una serie di piccole università cattoliche, a Duluth e St. Paul, nel Minnesota. Quando la Seconda Guerra Mondiale finì, nel 1945, i Bùhler si stabilirono definitivamente a Los Angeles, dove Karl lavorò, fino al 1955, come assistente nella clinica psichia­ trica della facoltà di medicina della University of Southern Califor­ nia, e, alla fine, come consulente psicologo all’ospedale Cedars of Lebanon. Il tormentato profugo morì in California nel 1963. Alla comparsa di Karl Charlotte osservò tristemente “Wir waren poliisch so naiv, dass wir ósterreich fùr sicher hielten” [“Fummo )sì ingenui sul piano politico da considerare sicura l’Austria”], urtroppo perfino il breve incarceramento (sei settimane) nelle mani Jella Gestapo aveva irrimediabilmente minato la personalità di Bùh­ ler: subire tali maltrattamenti da parte dei suoi stessi connazionali fu una cosa che lo ferì per tutta la vita. Egli cominciò ad appartarsi e soffrì di una tale persistente depressione che le ricche sorgenti della sua creatività si inaridirono completamente. Credo che l’unica ragione della persecuzione da parte dei Nazisti fu che Charlotte — anche se di educazione protestante — era di discendenza preva­ lentemente ebraica, e se egli avesse acconsentito al divorzio avrebbe potuto conservare i suoi incarichi accademici e la sua posizione sociale. Ripercorrendo la diaspora postbellica della ‘scuola’ di Bùhler, Charlotte (1965: 193) fa l’interessante, sorprendente, e, temo, esa­ gerata osservazione che “er keinen bedeutenden Wiener Schùler auf dem Gebiete der Sprachpsychologie hatte... Es ist wahrhaft tragisch, dass er den allmàhlichen Triumph seiner Sprachtheorie nicht mehr erlebte” [“egli non ebbe alcun allievo viennese di rilievo nel campo della psicologia del linguaggio... È veramente tragico che egli non sia stato testimone del graduale trionfo della sua teoria del linguag­ gio”]. La vedova continua poi con la dichiarazione estremamente indelicata, presuntuosa, e sicuramente contraria alla realtà dei fatti, che Roman Jakobson {sic) “der in seinen Werken sich weitgehend auf Karl stùtzte, erwies ihm nicht die gebùhrende Anerkennung fur das, was er Karl dankte” [“il quale nelle sue opere si fondò spesso su Karl, non gli rese mai il dovuto riconoscimento neppu132

re ringhiandolo”]. Di fatto, nei Selected Writings I-II (1971a, 197 lb) soltanto, Bùhler è citato da Jakobson non meno di venti volte — quasi sempre con approvazione e, cosa che è per noi anche più interessante, pressoché invariabilmente in un contesto semiotico. La frase con cui si apre il celebre Kindersprache (197la: 328) di Jakobson è una diretta citazione da un articolo di Bùhler del 1935,. e, ancora nel 1967 ( 197lb: 671), Jakobson definiva la Sprachtheorie di Bùhler come un’opera che costituisce “per i linguisti forse il contributo più illuminante alla psicologia del linguaggio”. Non è certo un segreto che l’iniziale indagine di Jakobson sulle fun­ zioni del linguaggio, consistente in sostanza nella distinzione fra il parlare quotidiano (sia pratico che emotivo, ma sempre orien­ tato verso il significato) e il linguaggio poetico (che si volge al segno in quanto tale) — una distinzione risalente al 1921 — ven­ ne molto più tardi fusa con il triadico modello organico, spesso citato, di Bùhler del 1934 (come è esplicitamente dichiarato in Sebeok 1960: 355), ma che Jakobson, a sua volta, estese creativa­ mente per mezzo di tre altri fattori dell’evento linguistico, ciascuno dei quali corrisponde a una specifica funzione comunicativa. È curioso osservare che Charlotte attribuisce a uno studente di Jakobson, Paul L. Garvin, da lei erroneamente definito come “ein junger Semantiker” [“un giovane semanticista”], la responsabilità della pubblicazione postuma, in inglese, della Sprachtheorie di Bùh­ ler, di fatto, attraverso il Research Center for Language and Semiotic Studies dell’Indiana University. Comunque, io non ho mai ricevuto tale manoscritto, né, per quanto ne so, esso è mai apparso altrove. Garvin scrisse un breve necrologio in cui rilevava che “la teoria dei campi [di Bùhler] è un adattamento delle idee gestaltiche di sfondo e figura alla psicologia del linguaggio” (1964: 633). Egli rese in modo suggestivo organon — termine grave di connotazioni aristoteliche e, ovviamente, baconiane — con ‘strumento’ — uno strumento composto di segni, che operano in maniera deittica (in un Zeigfeld), o simbolica (in un Symbolfeld), mentre Umfeld è il termine che accomuna i due ambiti. Questa parola richiama subito alla mente la terminologia di Jakob von Uexkùll (Sebeok 1979: cap. 10), e la cosa più interessante è che Bùhler riconobbe esplici­ tamente il suo valore semiotico. Nel 1934 (Bùhler 1965: 27), per esempio, egli osservò che la tesi di Uexkùll “vornherein in seinen Grundbegriffen ‘Merkzeichen’ und ‘Wirkzeichen’ sematologisch orientiert ist” [“fin dall’inizio nei suoi concetti di base ‘segni di­ stintivi* e ‘segni operativi’ ha un orientamento sematologico”]. Va ora notato, come digressione terminologica, che Bùhler si servì prevalentemente del neologismo di Benjamin H. Smart, intro­ dotto in una sua opera anonima intitolata Outline of Sematology (1831: 1), per quella che noi chiamiamo semiotica. Smart, seguendo 133

la triplice divisione di Locke della totalità della conosceva, sug­ geriva che “il complesso delle istruzioni per l’uso di tà semata (rie), ovvero i segni della nostra conoscenza, potrebbe essere chia­ mato Sematologia” e più estesamente (ibid.: 2n): “Per ciò che ri­ guarda la terza divisione, la Sematologia, si tratta della dottrina dei segni, la quale mostra il modo in cui la mente opera per mezzo loro al fine di raggiungere la conoscenza compresa nelle altre sezioni". Smart continuò ad usare questa terminologia in libri successivi, so­ pratutto in Sequel to Sematology (1837); essa fu ripresa da Archibald H. Sayce e poi diffusa dal più autorevole lessicografo inglese, James A. H. Murray, attraverso I’oed [Oxford English Dictionary] e un articolo pubblicato poco dopo il 1880. Smart fu molto letto ai suoi tempi, fra gli altri da Charles Dar­ win, le cui concezioni filosofiche sul linguaggio erano compatibili con quelle di Smart (come pure di altri autori quali Dugald Stewart). Sematology è comunque scomparsa in questo secolo, a parte la sin­ golare teutonizzazione di Biihler. Trovo assai strano che egli non abbia scelto il termine del suo collega viennese Heinrich Gomperz, Semasiologie (1908) — che originariamente si credeva fosse stato coniato da Christian Karl Reisig, a Halle, per rimare con Etymólgie — poiché molte delle nozioni semiotiche di Bùhler assomi­ gliano a quelle di Gomperz, come è stato dettagliatamente rilevato in una tesi inedita di Gùnther (1968); ma Bùhler continuò abitualmente, anche se non esclusivamente, a dare la preferenza a Se­ matologie, mentre solo sporadicamente usò Semiotik (p.e., 1968: 16, 18, 19, 162), di solito in un contesto classico. È vero, come osservava Charlotte (1965: 195) del suo defunto marito, che “Karl ist ein Enzyklopàde, den man nicht rubrizieren kann” [“Karl è una personalità enciclopedica, a cui non si può dare alcuna etichetta”]. Egli toccò tante aree della psicologia da ergersi davvero come “einer der umfassendsten Forscher seiner Zeit" [“uno dei più completi studiosi del suo tempo”]. Si potrebbe, per esem­ pio, dedicare un intero trattato alla valutazione dell’opera di Bùh­ ler nel campo della psicologia infantile — che influenzò fin dall’ini­ zio il movimento per la riforma della scuola (Bartley 1973: 146), in particolare le sue pionieristiche osservazioni sulla ontogenesi dei segni verbali, condotte soprattutto sulla figlia Inge (1918: 224). Secondo l’indagine, difficilmente imparziale, della moglie sulla psi­ cologia infantile (Charlotte Bùhler and Hetzer 1929: 221), lo svi­ luppo di questo campo raggiunse “ihre prinzipiellste und umfassendste Ausgestaltung bei Karl Bùhler” [“la sua più importante e com­ pleta formazione con Karl Bùhler”], ma l’approccio radicalmente differente — che combinava la struttura con la genesi, ovvero un modello di razionalità con il ruolo dell’esperienza — di Piaget, dei 134

primi anni Venti, aveva già avuto il suo impatto sui ricercatori te­ deschi di quel decennio. Bisogna anche ricordare che la Vienna di Biihler era al tempo stesso la città di Freud e di Adler, lussureggiante di teorie psicoana­ litiche e profondamente impegnata in feroci dispute dottrinali. Bùhler stesso, data la sua preparazione medica, aveva stretti legami con l’Istituto di Psichiatria delPUniversità, dove molti analisti frequen­ tavano le sue conferenze e seminari. Come ricorda Charlotte *1965: 196) “Im Unterschied zu Freud hielt ich es fùr grundlegend wichtig, die Interpretation menschlicher Strebungen von seelisch gesunden statt von seelisch kranken Entwicklungen abzuleiten” [“A differen­ za di Freud consideravo di fondamentale importanza che l’interpre­ tazione delle tendenze umane si basasse su sviluppi psichici sani in­ vece che patologici”], e in questo ella condivideva il punto di par­ tenza del marito. Si è inoltre rivelata in cenere corretta l’opinione di Lebzeltern (1969: 39), secondo cui Biihler “stand in der gesellschaftlichen Achtung und wissenschaftlichen Anerkennung turmhoch ùber Freud” [“nella stima sociale e nel riconoscimento scien­ tifico stava molto al di sopra di Freud”]. Nonostante le loro ri­ spettive posizioni e la segregazione apparentemente ineliminabile — data la collocazione periferica di Freud nei confronti della psico­ logia accademica, di contro a quella centrale di Biihler — questi definì generosamente Freud come un “ grosse[r] Zauberer, der alle seine ‘legitimen’ Schùler in einen Bannkreis gefangenhàlt” (1927: 178) [“grande mago, che tiene tutti i suoi allievi ‘legittimi’ prigio­ nieri di un incantesimo”]. La mia opinione personale è che gli in­ tricatissimi rapporti esistenti fra queste due straordinarie persona­ lità che abitavano mondi diversi, pur nella stessa Vienna, hanno finora conosciuto solo superficiali tentativi di chiarificazione. Non intendo ora esplorare di nuovo un terreno che è certo am­ piamente familiare a tutti coloro che hanno letto la Sprachtheorie (1934) di Biihler, considerata da molti il suo più durevole contri­ buto. Dopo essere stata ben analizzata da Krug (1929) nella sua collocazione storica, questa teoria dei campi del linguaggio è stata ulteriormente sviscerata nella recente e utilissima monografia di Kamp (1977). Quello che è ritenuto il capolavoro di Biihler fu concepito come accompagnamento o estensione del suo brillante sag­ gio anticipatorio, in cui veniva proposta un’assiomatizzazione della ricerca linguistica (1933) sulla base di quattro Grundsàtze, ovvero principi fondamentali. (Questa monografia venne ripubblicata 36 anni dopo, in forma parzialmente abbreviata ma con un’ampia introdu­ zione e commento di Elizabeth Stròker, tutto tradotto poi in in­ glese da Robert E. Innis). Entrambe le opere ruotano attorno al­ l’asse del modello ‘organico’ del linguaggio, fondato semioticamente, di Biihler, ma io preferirei concentrare le mie osservazioni su 135

alcuni aspetti trascurati delle sue idee sul Zeichenverkehr, o scam­ bio di messaggi, che personalmente trovo sorprendenti e anche di perenne interesse per il campo semiotico. Ci si renderà facilmente conto che neppure questo argomento può essere presentato in ma­ niera esauriente in questa sede; la semiotica di Buhler, in tutte le sue implicazioni e in particolare nel contesto della sua opera com­ plessiva, è in attesa di un’ampia trattazione molto più dettagliata di quella fornita da Gunther (1968) nella suddetta tesi, che è pre­ gevole ma scarsamente analitica e orientata al confronto specifico dello Zeichenbegriff di Buhler con quello di George H. Mead. Secondo Biihler, come è ben noto, era la funzione rappresenta­ tiva a distinguere il linguaggio dai processi semiotici delle creature che ne sono sprovviste. Partendo dall’atto linguistico, egli definì il carattere distintivo del linguaggio come combinazione di Kundgabe, l’annunciare, o funzione espressiva, che mette il segno in rapporto con la sorgente del messaggio, Appell, l’attirare, o funzione di ri­ chiamo, che pone il segno in rapporto con la destinazione del mes­ saggio, e Darstellung, o funzione rappresentativa, che collega il se­ gno al suo contesto (o, come si è detto, Zeigfeld e Symbolfeld in­ sieme). Le relazioni oggettuali sono rappresentate, in altre parole, come risultato della dichiarazione del parlante in merito a ciò che sta accadendo in lui, il che evoca un processo psicologico in chi ascolta. A proposito di questi tre aspetti di ogni enunciazione lin­ guistica Trubetzkoy (1939: 17-18) — stretto collaboratore di Buhler all’università di Vienna, il quale morì pochi mesi prima che il suo amico psicologo andasse esule in occidente — osservò: “Es ist das grosse Verdienst Karl Bùhlers, diese scheinbar einfache und trotzdem so lange ubersehene Tatsache ins richtige Licht gestellt zu haben” [“Il grande merito di Karl Buhler è di aver messo nella giusta luce questo fatto apparentemente semplice e pur tuttavia così a lungo ignorato”]. È ben chiaro adesso alla maggior parte dei lin­ guisti che per trovare il senso di un enunciato bisogna prendere in considerazione le strutture cognitive in base alle quali sono organiz­ zati i mondi dell’emittente e del destinatario e il modo in cui il linguaggio si colloca in quelle strutture. (La teoria delle funzioni del linguaggio di Buhler quale tentativo di soluzione psicologica dei problemi linguistici è oggetto di una interessante discussione da parte di Pazuchin 1963). Questo schema tripartito, o uno molto simile, era già presente nelle opere di Husserl e Porzig, ma Buhler lo mise in rapporto con il principio di “rilevanza astrattiva”, il quale comporta che solo certi elementi della situazione totale (Gegenstànde und Sacbverbal­ te) partecipano alla semiosi (questa distinzione è vicina, mutatis mutandis, a quella tracciata da Peirce fra ‘oggetto’ e ‘sfondo’). Buhler attribuisce funzione rappresentativa al segno verbale come 136

diretta conseguenza di tale rilevanza, una conclusione indubbiamen­ te tratta dalla reinterpretazione di Gomperz della formula scolastica aliquid stat prò aliquo. L’astrattività della rilevanza deriva dal fatto che il segno verbale può contemporaneamente adempiere le sud­ dette tre funzioni, anche se si ammette che in ogni dato messaggio uno dei fattori sarà preminente mentre gli altri due restano ge­ rarchicamente subordinati, in base al globale involucro dell’atto lin­ guistico (la parole) diretto a uno scopo. Anche la parole consta di tre parti, agente, campo d’azione, e bisogni e occasioni dell’agente. È in questo forte rilievo dato al momento sociale dell’atto lingui­ stico che Bùhler si distacca dalle tesi dell’atto soggettivistico di Husserl, anche se l’influenza delle Logische Untersuchungen — per non parlare degli scritti filosofici di Alexius Meinong (specialmente 1977) — è tangibile in tutte le sue opere. Seguendo direttamente Husserl, Bùhler distingueva fra significato e riferimento. Una stessa espressione, pur con il suo significato immutato, può riferirsi a vari oggetti, e viceversa: espressioni con significati divergenti (p.e., Geor­ ge Washington e II primo presidente degli Stati Uniti) possono ri­ ferirsi a un identico oggetto. In altri termini — e qui seguo una esposizione e critica di Laziczius (1942: 22-23) — dietro l’argo­ mento di Bùhler si nasconde un’altra divergenza, quella fra ‘signi­ ficato’ e ‘intenzione di significare’, la quale implica la seguente qua­ druplice matrice: I.

II.

1.

Sprechhandlung (parole)

Sprachwerk (ergon)

2.

Sprechakt (energeon)

Sprachgebilde {langue)

Le voci sotto I — cioè, i concreti messaggi verbali e l’“atto linguistico” — sono entrambe subiektsbezogen (in rapporto con il soggetto); quelle sotto II — il prodotto, cioè, dell’emittente e della struttura linguistica — sono ambedue subiektsentbunden (svinco­ late dal soggetto). Le voci sotto 2 comprendono delle manifestazioni gerarchicamente superiori rispetto a quelle sotto 1. Laziczius (1939) fu il primo a dimostrare in una attenta analisi del cosiddetto Terzo Assioma di Bùhler, che viene aui presentata, sotto forma di circolo vizioso, una tesi “deren Unhaltbarkeit ganz offenbar ist” [“la cui precarietà è del tutto evidente”]: si tratta di una efficace critica 137

che si è costretti ad accettare (anche se alcuni lettori possono non essere d’accordo con tale interpretazione). La distinzione, implicita in Bùhler, fra ‘significato’ e “intenzione di significare” va al cuore della questione della omonimia. Quando pronuncio, isolatamente, la parola /porta/*, il fatto che la usi come “aoertura munita di battenti” o voce del verbo ‘portare’ dipende dalla mia ‘intenzione*, che l’ascoltatore può soltanto supporre con una certa probabilità, secondo la maggiore o minor misura in cui è fornito un contesto verbale e/o non verbale. Per me, in quanto parlante, l’omonimia non esiste, poiché io so già quello che intendo; ma per il mio interlocutore entra in gioco l’intenzione, o, per usare la più precisa espressione di Jakobson ( 197lb: 575), “le probabi­ lità condizionali del contesto”. È egualmente ben noto che in base alla coerente classificazione delle funzioni segniche fatta da Bùhler si hanno il sintomo, che dipende dalla sorgente, di cui esprime all’esterno l’introspezione; il segnale, che costituisce una guida per il comportamento interno ed esterno del destinatario; e il simbolo, che è legato alle circostanze contestuali. Va indubbiamente sottolineato, prima di passare ad un altro argomento, che l’elenco di funzioni postulato da Bùhler, e quindi la sua classificazione dei segni, è attualmente considerata da­ gli studiosi come tutt’altro che esauriente: se ne rese conto, già nel 1937. Petr N. Bogatvrev (1971: cap. 19), discutendo “la fun­ zione della struttura di funzioni”, espressione un po’ contorta con cui voleva richiamare l’attenzione su di una funzione semiotica di grado più elevato, vale a dire, l’azione globale di tutto un complesso nodo di funzioni — in breve, una metafunzione. Questo fecondo concetto venne poi in vario modo esteso ad altri campi, dal linguista Karel Horàlek (1948), e successivamente da altri. Nella concezione di Bùhler il linguaggio è un epifenomeno risoetto ai fenomeni di attività, e, più specificamente, di espressione. Pertanto, da parecchi punti di vista, il suo libro sul comportamento espressivo — pubblicato originariamente nel 1934 e ristampato sen­ za modificazioni nel 1968 — può essere letto come il suo fondamentale contributo alla semiotica. Esso è tuttavia raramente citato sia nella sterminata letteratura anglo-americana sull’argomento, sia, cosa più sorprendente, nelle opere di comunicazione non verbale scritte in Europa — non esclusa la Germania — che, da questo punto di vista, sembra ignorare la propria eredità autoctona. Lo studio del comportamento esoressivo ha un’origine comoosita. essenzialmente dunlice. nella psicodia^nostica e nella retorica — in particolare, quella di Quintiliano (Bùhler 1968: 227-235). L’intento (“tragende Behauptung” [“congettura portante”]) del li­ bro di Bùhler consiste nel dimostrare che la storia di quegli aspetti del comportamento che presentano degli stati motivati — atteggia138

menti emotivi e stati d’animo; stati cognitivi, come attenzione e concentrazione; stati di attivazione, come eccitazione e fatica; e at­ tributi quasi personali; in altre parole, cose assai differenti dal punto di vista funzionale — costituiscono nondimeno, in generale, un “ sachgerechtes System” [“legittimo sistema”]. Tutti questi aspetti vengono comunemente classificati con il termine fuorviante di “com­ portamento espressivo”; così, per esempio, il comportamento ver­ bale e il movimento espressivo, che, comunque, implicano numerose categorie di enorme complessità, come hanno mostrato Ekman e i suoi collaboratori, seguendo il brillante e, sotto parecchi aspetti, pionieristico lavoro di David Efron (1972). Il legame fra i due ambiti si colloca ad un livello molto astratto, e propriamente se­ miotico. Così, per esempio, Biihler, discutendo l’arte della fisiono­ mia — l’arte di giudicare il carattere umano partendo dai tratti del volto (presi come un mezzo divinatorio) — tenta di districare il groviglio dei tratti distintivi di questa arte e trova, in mezzo a cin­ que o sei altri elementi, la semiotica aristotelica, come è stata ef­ fettivamente denominata dal Settecento in poi (1968: 16n2). Come “eine durchsichtige Anwendung antiker Semiotik” [“applicazione evidente dell’antica semiotica”], Biihler cita (1968: 18) un sorpren­ dente giudizio di San Gregorio contro l’imperatore Giuliano. In Adversus Julianum, Gregorio partendo dalla fisionomia di Giuliano, quale è qui descritta con accenti teatrali, previde l’animosità di questo nei confronti dei cristiani: « Er hatte einen raden, steifen Kopf, der fest auf den Schultern sass, sein Blick war unstàt, wild und inherirrend; sein Gang unsicher, seine Fusse immer in Bewegung; auf seiner Nase sass Verachtung, Frechheit und Hohn; sein Lachen war làrmend; er war unruhig, ausgelassen; sprach immer Ja und Nein; tat immer iiberlàstige Fragen, und antwortete selten bestimmt oder zu rechter Zeit. [La sua testa si ergeva, ritta e salda, sulle spalle, lo sguardo era instabile, selvaggio e sempre vagante; il passo insicuro e i piedi in continuo movimento; il naso esprimeva disprezzo, sfrontatezza e scherno; il suo riso era chiassoso; egli era inquieto, turbolento; diceva sempre sì e no; faceva sempre domande spropositate e ra­ ramente rispondeva con precisione o a tempo debito] ». Gregorio costruisce il carattere di Giuliano a partire da dei blocchi — o significanti, se preferite — apparentemente presi a caso ma distintivi, per formare una sorta di mosaico personale, con l’implicita inferenza che questo procedimento per successive aggiunte corrisponderà ad un “Bezeichnetes” [“caratterizzazione”] unitario, cioè che i tratti verranno a significare l’intima coerenza 139

dell’imperatore. Bùhler sostiene giustamente che l’accusa rivolta alla semiotica classica di essere “atomisierend” [“atomistica”], in oppo­ sizione a strutturale, è il più delle volte inesatta, e spiega chiara­ mente in che cosa consiste la sua storia. Egli fa, per esempio, delle interessantissime osservazioni su delle intuizioni, specialmente di Johann Jakob Engel, riguardanti il teatro (1968: cap. 3), e in par­ ticolare va avanti a sviluppare, con molta comprensione e simpatia, il particolare quadro di riferimento di Charles Darwin che fonde insieme le “Gesamtausdrùcke an Tieren und Mensch” [“Generali espressioni degli animali e dell’uomo”] (ibid. cap. 6), l’etologia ge­ nerale con l’etologia umana, o, in altre parole, l’integrazione della semiotica in una più vasta scienza dei segni. Fu Engel a fondare la radicale distinzione fra rappresentazione ed espressione su concetti semiotici, e Bùhler (1968: 40) elogia questo procedimento come l’“axiomatische Angelpunkt” [“cardine assiomatico”] nell’appren­ sione della mimica. Egli fa insistentemente appello ad un “umfassend neur Pian in diesen Dingen beherrscht und getragen sein mùssen von einer vertieften sematologischen Axiomatik” (ibid.: 88) [“piano completamente nuovo in queste cose [che] deve essere regolato e sostenuto da un’approfondita assiomatica sematologica”]. Prendendo in esame la “Ausdrucklehre” [“dottrina dell’espres­ sione”] di Ludwig Klages (ibid.: cap. 9) introduce la questione teleologica, raramente discussa, dei rapporti fra comportamento espressivo e libera volontà. L’argomento — anticipato in una certa misura da Martinak (1901: 27, 80-83) — è tanto intricato quanto erudito, ma quello che mi ha attirato è il riconoscimento da parte di Bùhler di “ein altes Deutungsproblem der Semiotik” [“un vec­ chio problema interpretativo della semiotica”]. Tale questione, inol­ tre, non solo coinvolse la cosiddetta phy siognomonica aristotelica, ma fu nuovamente ed energicamente ripresa nelle analisi sperimen­ tali di Wundt sulle curve rivelanti ritmi di pulsazione e respirazione, in breve, elementi dei test poligrafici delle “macchine della verità” (la cui legalità è ancora discussa; cfr. Lvkken 1974). Il capitolo conclusivo di Bùhler (1968: cap. 10) sulle condizioni ‘attuali’ e in particolare la sua visione delle future ricerche nel campo della Ausdrucksforschung [“studio dell’espressione”] anti­ cipano chiaramente un progetto semiotico unitario: « Was der Ausdruckstheorie heute am dringendsten nòtig wàre, um dabei ein klares Wort mitsprechen zu kònnen, wàre der Ausbau einer wohlfundierten Synsemantik. Die im Ausdruckslexikon isoliert, wie die Wissenschaft es tun muss, kodifizierten fruchtbaren Momente des mimischen Geschehens stehen, wo immer sie das Leben erzeugt, in einem semantischen Umfeld; ihre pathognomische und physiognomische Valenz ist kontextgetragen. Es ist sematolo140

gisch gesehen mit den Ausdruckssymptomen wie mit den Wòrtern der Lautsprache oder wie mit den Bildwerten der Farbflecken auf einem Gemàlde (1968: 213-214). [Ciò di cui la teoria dell’espressione avrebbe oggi più urgente biso­ gno, per poter dire una parola chiara al riguardo, sarebbe l’elabora­ zione di una Sinsemantica ben fondata. I fecondi momenti del­ l’evento mimico, codificati isolatamente, come si conviene in un pro­ cedimento scientifico, nel lessico dell’espressione, si trovano, do­ vunque la vita li produca, in un campo semantico; la loro valenza patognomica e fisiognomica dipende dal contesto. In una prospettiva sematologica i sintomi dell’espressione vanno considerati unitamen­ te alle parole del linguaggio verbale o al valore figurativo delle macchie di colore su di un quadro] ». È quindi un vero peccato che, da una parte, i pochi studi che esistono su Biihler hanno teso o a tenere in poco conto o, più spesso, a trascurare completamente la sua ammirevole cronaca, che si colloca all’interno di una teoria che è al tempo stesso conseguente e feconda; e, d’altra parte, un gran numero di studiosi, sia in campo americano che europeo, sono appena consapevoli di poggiare sulle possenti spalle di Biihler. Non è una esagerazione se affermo di non avere mai incontrato un solo studente di comunicazione non verbale che abbia ammesso una seppur superficiale conoscenza della Ausdruckstheorie, una pietra miliare i cui precedenti risalgono almeno fino a Quintiliano. Mentre il libro è elencato, cosa del tutto ecce­ zionale, nella Bibliografia di Desmond Morris e collaboratori (1979: 278) prò forma, non c’è alcuna prova nel testo che qualcuno degl autori lo abbia effettivamente consultato. Tale dimenticanza è fonti di particolare imbarazzo per studiosi di lingua tedesca, e bisogne rebbe porvi subito rimedio. Un altro aspetto degli interessi di Bùhler per la teoria dei segni consiste nei fondamenti del cambiamento correttivo, omeostasi, o cibernetica avant la lettre. Problemi di controllo, ricorsività, e in­ formazione pervadono i suoi scritti, con conseguenze che furono esaminate da Ungeheurr (1967) per ciò che riguarda la Sprachtheorie, ma sarebbe conveniente estendere l’indagine anche alla Zeichentheorie nel suo complesso. A Bùhler erano certo ben note le idee di Eduard Pflùger e Claude Bernard, sviluppate contemporaneamen­ te alla fine degli anni 1870, con la fondamentale osservazione, fatta dal secondo dei due studiosi, che il milieu interne di ogni animale era bilanciato, o autoregolantesi: ma il concetto omeostatico, elabo­ rato in seguito da Cannon, sembrò a Bùhler, in ultima analisi, in­ sufficiente a descrivere in modo completo la vita psichica umana. Voglio tuttavia ricordare una osservazione di Bùhler che venne alla luce solo dieci anni dopo la sua morte: 141

« Nach einer Belehrung aus der Geschichte wird das eigene konstruktive Denken den Milieubegriff eròrten und iiber ihn hinweg zu der entscheidenden Idee fortschreiten, die ich den Sachverstàndigen vorlege. Es ist die Annahme, dass ein echtes Signalwesen im Bereich der innerkòrperlichen Regulationen enthalten ist. Die Frage, was das heisst, wird aber erst im erweiterten Rahmen des letzten biologischen Modellgedankens, den wir formulieren und durchsprechen, wieder aufgenommen und, soweit wir es vermògen, zu Ende gedacht (1969: 188). [Secondo un insegnamento derivato dalla storia, il pensiero propria­ mente costruttivo esaminerà il concetto di milieu e procederà fino all’idea determinante che io sottopongo agli esperti. Si tratta della supposizione che un autentico segnale è racchiuso all’interno delle regolazioni intracorporee. La questione qui sollevata viene anzitutto ricollocata nell’ampia cornice del più recente uso di modelli biolo­ gici, che abbiamo formulato e discusso, e, nella misura in cui è possibile, esaminata fino in fondo] ». Come era ben consapevole lo stesso Bùhler (1968), gli elementi “terminanti della distinzione semiotica da lui tracciata fra rappreintazione ed espressione furono messi in rilievo da alcuni classici della logica inglese e sviluppati in modo sostanziale da Frege e, sulle sue orme, da Marty, Martinak, Husserl, Gomperz, e specialmente Meinong (si veda, in particolare, la sua teoria delle suppo­ sizioni (1977), scritta in opposizione ad una coppia di tesi di Bren­ tano). Bùhler riteneva che questi predecessori fossero talmente d’ac­ cordo con lui “che non ho neppure bisogno di aggiungere qualcosa a quello che ho scritto sull’argomento dal 1918 in poi”. (Fra pa­ rentesi, Yt)ber Annahmen di Meinong era di per sé una importante dichiarazione per ciò che riguarda la comunicazione ed altri argo­ menti semiotici quali la natura del gioco [play] e dei giochi [games] e le modalità dell’inferenza; per cogliere il pensiero di Bùhler bisogna comprendere quello di Meinong!). All’elenco di queste fonti principali si possono ben aggiungere il Cratilo di Platone, Aristotele, Quintiliano, e, soprattutto, Kant, le cui idee semiotiche sono ancora notevolmente fraintese e certamente sottovalutate, come pure Hum­ boldt, Cassirer, e Saussure (Haller 1959: 154). D’altro canto, è ben nota l’influenza di Bùhler su Trubetzkoy, risalente al 1931, come pure le continue “feconde discussioni” (Jakobson 197lb:715) fra i due, di cui si ebbero alcuni risultati presso i membri della scuola di Praga. Il secondo assioma di Bùhler, il quale affermava che i fenomeni verbali debbono essere sussunti sotto il più vasto dominio dei fenomeni semiotici, fu ampiamente accettato dai linguisti del tempo. La funzione segnica fu sussunta da Bùhler sotto il concetto 142

di rappresentazione, dando cosi luogo a un’altra triade: significato oggettivo, marchio {Mal) fonemico, che non costituisce altro che una componente ‘rilevante’ del segno, e i “segni del campo” che emergono nel e dal contesto (una nozione elaborata, per esempio, da Jost Trier). La rappresentazione viene naturalmente contrapposta da Biihler all’espressione, che, sotto forma di “funzione indicale” riappare insistentemente nella Funktionslust [gusto per la funzio­ ne] (come la chiamava Bùhler) dei linguisti della scuola di Praga e con particolare forza dopo la “scoperta” di Peirce da parte di Jakobson. Va anche notato, en passant, che Bartley (1973: 148) era del­ l’opinione che sebbene Wittgenstein non compaia in nessun elenco di studenti di Bùhler, egli sembra essere “il più eminente di quelli che impararono da lui” (anche se, di tanto in tanto, Wittgenstein lo dichiarò un ciarlatano). Nonostante ciò, ci sono “sorprendenti simiglianze fra alcune delle fondamentali idee di Bùhler e quelle del­ l’ultimo Wittgenstein” (ibid.: 149). Gli scritti di Bùhler sono caratterizzati da una densità un po’ pedantesca che richiede da parte del lettore moderno una certa fa­ miliarità non solo con la storia recente della psicologia ma anche con tutti i suoi antecedenti filosofici. Il movimento dialettico che è alla base dell’intera sua opera può, comunque, essere ridotto a ter­ mini piuttosto semplici. La sua tesi fondamentale, abbastanza facile ma tuttavia argomentata con sottigliezza, afferma che esiste una cor rispondenza fra certi stati ben definiti — Regelbewusstsein o “co­ scienza delle regole” — e date strutture logiche. Bùhler non dimo­ strò certo, neppure in forma parziale, l’esistenza di un tale isomor­ fismo fra la logica del soggetto (di competenza dello psicologo) e quella del logico (di ben più ampia portata). Questa idea, peraltro, poggiava su due termini radicalmente antitetici: l’inanimato, cioè privo di mente, pleroma (Pienezza) — come lo chiamò Jung se­ guendo gli gnostici — di contro all’animato, o creatura, con la sua intima tensione fra due polarità: la natura creativa del pensiero umano, la scintilla (pneuma) che emerge da — e opera alla som­ mità di — un fondamento regolato biologicamente. In ultima ana­ lisi, questi due principi hanno una comune essenza, poiché la natura creativa della vita deriva dalla natura creativa della mente, e vice­ versa, ed entrambi sono infatti separati dall’ordinario universo ma­ teriale. Per usare le parole di Wellek, “La sua conclusione era che quanto vi è di essenzialmente umano — pensiero e ragione, espe­ rienza gestaltica e olistica — è indipendente dalla macchina, o prin­ cipio meccanico, ed anche indipendente in una certa misura da ciò che nel regno animale è puramente biologico” (1968: 201). Alla luce di questo giudizio, può forse stupire che verso la fine della sua carriera Bùhler scrisse uno studio, pubblicato postumo 143

(1969), sull’orientamento spaziale negli animali e nell’uomo, dal ti­ tolo Die Uhren der Lebewesen [Gli orologi degli esseri viventi]. Questa breve monografia tratta dei problemi degli orologi biologici e delle “mappe cognitive”, di cui Bùhler aveva sempre sostenuto la fondamentale analogia sia negli animali che negli uomini — si tratti della navigazione spaziale di Lindbergh o del volo a largo raggio di un’ape. Come è esplicitamente dichiarato dal suo studente Konrad Lorenz (1971: 324) questa assunzione non è basata su di un “ragionamento analogico”. Egli considerò infatti una delle più grandi conquiste di Bùhler l’aver compreso che questo ragionamento è “un’autentica necessità a priori del pensiero e dell’esperienza ", in breve, ha la forza dimostrativa di un assioma di Bùhler. Questi coniò il termine Du-Evidenzt prova addotta a partire dal ricevente. Lorenz (ibid.: 268) è portato dagli argomenti del suo maestro ad optare, fra i numerosi approcci alla soluzione della dicotomia corpoanima, in favore del postulato della identità indubitabile. Mentre per gli intenti pratici delle ricerche psicofisiologiche può essere dav­ vero irrilevante quale posizione si assume riguardo a questa disun­ ione evidente, il nostro modo di vedere i rapporti fra l’osservatore la cosa osservata comporta, come ho tentato di mostrare altrove Sebeok 1979: cap. 5), importanti conseguenze per il tipo di ricerca emiotica intrapresa. Per parafrasare uno degli ultimissimi paragrafi di Bùhler (1969: 157) tali ricerche sono “reizvoll und brennend” [“affascinanti e scottanti”], e certo ancora una volta straordinaria­ mente opportune. Voglio infine tornare a Egon Brunswik, che. come ho già notato, Bùhler considerò una volta come suo Hauptschiiler. Egli scrisse un importante saggio su “The Conceptual Framework of Psychology" per la International Encyclopedia of Unified Science. Il suo discorso era in gran parte dedicato ad un approccio obbiettivo e funzionale alla psicologia, cibernetica, e teoria della comunicazione. Brunswik aveva inoltre una grandissima familiarità con l’opera di Charles Morris sulla semiotica. Gli unici due riferimenti a Bùhler che sono riuscito a trovare nel suddetto saggio sono uno in rapporto al qua­ dro presentato da Brunswik della “psicologia ottocentesca quale punto d’incontro di tendenze introspezionistiche, elementaristiche, sensistiche, e associazionistiche” e un altro in merito ai primi studi di Bùhler sulla percezione dei colori (Brunswik 1955: 711, 728). Resta ancora da decidere se Bùhler — certo una figura di transizione nella storia degli studi semiotici, anche se indubbiamente uno stu­ dioso largamente dotato di virtuosismo tecnico — verrà promosso, quando si stenderanno gli annali di questa disciplina, ad un livello superiore a quello di una, per quanto importante, nota a piè di pagina. 144

Appendice Trascrizione leggermente emendata della nota autobiografica di Bùhler. Karl Biihler ist am 27. Mai 1879 in Merkesheim bei Heidelberg geboren. Vater: der Eisenbahnarbeiter (spater Eisenbahnbeamter) Ludwig B. Mutter: Berta geb.Emmerich. Die Bùhlers durften letzten Endese aus der Schweiz stammen, wo die Baseler und Zùricher Tràger diesen Numens einen kontinuierlichen Stammbaum derer aus “Biihel” bis auf einen See Seevogt B., weòcher eine Rolle in der Schlacht bei Sempach (389) spielte. nachgewiesen haben.-Die Emmerich waren in der Nàhe von Karlsruhe ansàssige Bauern und durften vom Niedersheim dorthin gekommen sein. Ich hatte einen jungeren Bruder, der im Krieg gefallen ist, und habe noch zwei Schwestem, die in Baden leben. Mir war nach sonoger Kindheit eineberbe Lebrzeit beschieden: nach humanistiches Qymnasium (Tauberbischofsheim) studierte ich grosstenteils mit selbstverdieten Groschen Medizin und Philosophie, promovierte in Medizin 1903 (Freiburg i.Br.) und in Philosophie 1904 (Strassburg). Zwei Tahre spater wurde ich Assistent am psychologischen Institut in Wiirzburg, 1907 Privatdozent dort. Es folgte 1909-13 meine Dozentenzeit in Bonn, 1913-1918 in Miinchen (seit 16 a.o.Prof. dort).-August 14 Kriegsfreiwilliger, dann Truppenarzt (Ingolstadter Pioniere); ich blieb es auch, als ich nach dem Tode Kiilpes 1916 nach Miinchen zuriivkberufen wurde. Kraftfahrer Miinchen) und hatte neben meinem Lehramt die psychologische Priifungsstelle der Kraftfahrer zu leiten; spater war ich auch beautragt die psychologische Priifstelle fiir Flieger in Schliessheim vorzubereiten.-1918 Ordinarius in Dresden seit 1922 in Wien. Gastprofessor in Amerika 1927/28. Als ich nach Wien kam, war die Psychologie seit langen verwaist; ich hatte anfangs 20 Hòrer in der Hauptvorlesung; zehn Jahre spater waren es iiber 1.000, und ich musste im kleinen Festsaal, spater im Auditorium maximum lesen. Das Institut bliihte auf und zog eine grosse Zahl auslàndischer Studenten besonders aus England und Amerika neben den òsterreichischen und Reichsdeutschen an.Die gedruckten Arbeiten aus dem Institut sind in einem Katalog, der vorliegt verzeichnet, es sind (bis zur Gegenwart gefiihrt) 319 Nummern. Wir hatten 1929 den deutschen Kongress fiir Psycholo­ gie in Wien und sind fiir 19140 beauftragt, den Weltkongress fiir Psychologie hier vorzubereite^; zum Pràsident dieses Weltkongresses bin ich gewàhlt. Diesem Aufriss mòchte ich noch folgendes hinzufiigen:

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1.) Ich war unpolitisch und habe mich politisch nicht betàtigt. Unter meinen Mitarbeitern waren eine Reihe von aktiven Nationalsozialistaen, die ich nicht gehindert, sondern, wo es not tat, geschiitzt habe; ich nenne z.B.K.Mohrmann aus Dresden, der nach meinem Wissen als Parteimitglied einen politischen Auftrag in Wien hatte und durch mehrere Semester Bibliothekar in meinem Institut war. Ebenso arbeitete Herr Jos. Grohmann, der Nachfolger Mohrmann’s als Bibliothekar bei mir. Weiter wurde Dr. Bruno Sonneck mein Mitarbeiter in der Sprachtheorie und 1934 in meinen Buch “Sprachtheorie” als solcher lobens erwàhnt, als man ihm politische Schwierigkeiten bereitete, von mir geschutzt (1934). Ein wertvoller Mitarbeiter des Institutes auf seinem Gebiet ist seit Jahren Herr Kollege Dr. Hugo Bernatzik, Pd.in Graz. Ich darf sowohl auch in diesem Zusammenhang Konrad Lorenz, dessen Habilitation in Tierpsychologie ich fòrderte, und Herrn Norbert Thumb, der seit Jahren die Statistik in meinem Institut verantwortlich und mit grossem Erfolg geleitet hat, erwàhnen. Ebenso den Prinzen Auersperg, der die von Pòtzl und mir veranstalteten Seminarabende seit Weihnachten leitet. 2). Ich habe ein Programm fùr die Zukunft meiner Wissenschaft entworfen und hoffe es durchzufuhren. Im Mittelpunkt dieses Programmes steht ein Charakterologie, wie sie z.B. in der Militàrpsychologie erforderlich geworden ist. Dies Zukunftsprogramm vor Augen habe ich meinen Beamteneid abgelegt und hoffte sofort an seine Ausfiihrung schreiten zu kònnen, als ich am 23.Màrz uberaschend in Schutzhaft genommen wurde. Sie muss auch irrtumlicher Anzeige beruhen, denn ich bin ohne Protokoll aus ihr entlassen worden. Das Programm fùr die Zukunft ist wesentlich gefòrdert und ausgebaut worden in den Wochen, die ich in Schutzhaft verbrachte. Wien, am 21. Mai 1938. Heil Hitler! Karl Biihler eh.

[Karl Biihler nacque il 27 maggio 1879 a Merkesheim presso Heidelberg. Il padre: Ludwig B., operaio delle ferrovie (in seguito impiegato delle ferrovie). La madre: Berta Emmerich. I Biihler dovevano provenire in ultima analisi dalla Svizzera, in cui, a Ba­ silea e Zurigo, i portatori di questo nome hanno tracciato un inin­ terrotto albero genealogico da “Biihel” fino ad un B. balivo del lago che ebbe un ruolo nella battaglia presso Sempach (1389). — Gli Emmerich erano coloni stabili nei pressi di Karlsruhe e 146

dovevano essere colà giunti da Niedersheim. Avevo un fratello più giovane, che è caduto in guerra, e ho anche due sorelle, che vivono nel Baden. Dopo una serena fanciullezza mi fu riservato un aspro periodo di tirocinio; dopo il liceo classico (Tauberbischofsheim) ho studiato medicina e filosofìa prevalentemente autofinanziandomi, ho ottenuto la laurea in medicina nel 1903 (Freiburg im Breisgau) e in filosofia (Strassburg). Due anni più tardi divenni assistente all’istituto di psi­ cologia di Wiirzburg, poi libero docente nel 1907. Seguirono poi i miei anni di insegnamento a Bonn, 1909-1913, e a Monaco, 19131918 (professore straordinario dal ’16). — Volontario in guerra nel­ l’agosto del ’14, poi medico militare (geniere a Ingolstadt); con­ servai questo incarico anche quando dopo la morte di Kùlpe fui richiamato a Monaco (sezione autisti) e oltre al mio lavoro di in­ segnamento dovevo coordinare gli esami psicologici per gli autisti; in seguito fui anche incaricato di preparare gli esami psicologici per gli aviatori a Schliessheim. — 1918 professore ordinario a Dresden e dal 1922 a Vienna. Professore ospite in America 1927-1928. Quando giunsi a Vienna, la psicologia era da lungo tempo in uno stato di abbandono; all'inizio avevo venti studenti alla lezione principale; dieci anni dopo erano più di mille e fui costretto a te­ nere le mie lezioni nella piccola sala dei ricevimenti e poi nell’Auditorium maximum. L’istituto prosperava e attirava un gran numero di studenti stranieri soprattutto dalla Gran Bretagna e dal­ l’America oltre agli austriaci e ai cittadini del Reich. — I lavori pubblicati dall’istituto sono raccolti in un catalogo, che è registrato: sono, fino ad oggi, in numero di 319. Nel 1929 tenemmo a Vienna il Congresso tedesco di Psicologia ed abbiamo l’incarico di organiz­ zare per il 1940 il Congresso mondiale di Psicologia; come presi­ dente di questo congresso mondiale sono stato eletto io. A questa breve nota potrei aggiungere quanto segue: 1. Ero apolitico e non ho svolto alcuna attività politica. Fra i miei collaboratori c’era una schiera di attivi nazionalsocialisti, che io non ho ostacolato, anzi, quando ve ne era bisogno, ho aiutato; posso citare, per esempio, K. Mohrmann di Dresden, che per quanto ne so aveva un incarico politico a Vienna come membro del partito e che per parecchi semestri fu bibliotecario nel mio istituto. Altret­ tanto si può dire di Jos. Grohmann, che succedette a Mohrmann nell’incarico di bibliotecario. Inoltre il Dr. Bruno Sonneck fu mio collaboratore nell’elaborazione della teoria del linguaggio e nel 1934 nel mio libro ‘‘Sorachtheorie’’ ha come tale una menzione di lode, e quando ebbe delle difficoltà politiche, venne da me difeso (1934). Un prezioso collaboratore dell’istituto è, nel suo campo, il Dr. Hugo Bernatzik. Debbo anche menzionare a questo proposito Konrad Lorenz di cui ho appoggiato l’abilitazione in psicologia animale, 147

e Norbert Thumb che è da anni responsabile della statistica nel mio istituto e ha svolto tale attività con grande successo. Lo stesso si dica del principe Auersperg che da Natale dirige le serate di se­ minari organizzate da Pòtzl e da me. 2. Ho abbozzato un programma per il futuro della mia attività scientifica e spero di condurlo a termine. Al centro di questo pro­ gramma si trova una caratterologia, come quella per esempio che si richiede nella psicologia militare. Ho sottoposto questo program­ ma all’esame dei funzionari e spero pertanto di poter procedere alla sua realizzazione, allorché il 23 marzo fui improvvisamente preso in fermo precauzionale. Doveva trattarsi di un’accusa erronea dal momento che sono stato rilasciato senza verbale. Il programma per l’avvenire è stato essenzialmente elaborato nelle settimane trascorse durante l’arresto. Vienna 21 maggio 1938 Viva Hitler! Karl Bùbler h.c.] NOTA * L’esempio del testo inglese è bear, che vale “portare, generare" [to bear], “nudo” [bare], oppure “orso” [bear] [ndt].

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CAPITOLO VI

“Parlare” con gli animali: la zoosemiotica spiegata

Questo articolo, preparato per iniziativa di Susan Burns, allora direttrice responsabile della rivista, apparve dapprima in Animals 111:6: 20-23, 36 (di­ cembre 1978), con illustrazioni originali di Plunkett Dodge.

La semiotica è, molto semplicemente, scambio di messaggi. Un messaggio è costituito da un segno o una stringa di segni. Il termine ‘zoosemiotica’ fu coniato nel 1963 per definire quel settore che si occupa dei messaggi prodotti e ricevuti dagli animali, ivi comprese alcune importanti componenti della comunicazione non verbale uma­ na, esclusi però il linguaggio umano ed i sistemi semiotici secon­ dari derivati dal linguaggio, come il linguaggio gestuale o l’alfabeto Morse. I biologi definiscono la vita come un sistema capace di evolvere per selezione naturale. Questa definizione genetica, che pone l’ac cento sull’importanza della replica, è interamente compatibile co; il moderno punto di vista della semiotica, la quale afferma che ogni forma di comunicazione è una manifestazione della vita e che la capacità di comunicare è ciò che distingue gli esseri viventi dalle sostanze inanimate. La riproduzione stessa ha a che fare con il pro­ cesso comunicativo, in quanto il codice molecolare è uno dei due fondamentali sistemi segnici che esistono sulla terra. L’altro è il codice verbale — il nostro linguaggio. Il codice molecolare è mani­ festamente lo stesso in tutti gli organismi terrestri; il codice ver­ bale è fondamentalmente il medesimo — con differenze superficia­ li — presso tutti i popoli. Gli studiosi distinguono due varietà di comunicazione animale: in traspecifica e interspecifica. La comunicazione intra specifica si ri­ ferisce all’insieme dei mezzi di cui dispone un animale per entrare in rapporto con qualsiasi altro animale della sua stessa specie. Fra questi dispositivi di comunicazione ricordiamo la demarcazione del territorio e l’individuazione di consanguinei, siano essi rivali o arumali con cui accoppiarsi. Esempi di messaggi intraspecifici sono i lampi luminosi usati nel dialogo fra lucciole, uno scambio di infor­ mazione codificata intorno all’appartenenza alla specie, al sesso e alla posizione. Questo codice costituito da lampi luminosi varia da spe151

eie a specie all’interno della famiglia dei Lampiridi a cui apparten­ gono le lucciole. Certi pesci comunicano per mezzo di differenti tipi di impulsi elettrici con i quali minacciano, indicano sottomissione, compiono il corteggiamento, e perfino, ricorrendo a una particolare sequenza di segni, assicurano il riconoscimento da parte dell’altro membro della coppia, un compagno o un rivale, e contribuiscono così a favorire la coesione all’interno del gruppo sociale. Sebbene il ‘flehmen’*, ovvero arricciamento delle labbra, che comporta l’occlusione delle aperture nasali nell’atto di spingere la testa indietro, sia un tratto comportamentale assai diffuso fra i mam­ miferi, questa espressione facciale ha dato luogo nei cavalli a un particolare segno che suscita determinate risposte da parte dei con­ specifici. Una scimmia rhesus spaventata porta la coda tesa all’indietro, mentre un babbuino trasmette la stessa emozione ai suoi com­ pagni tenendola verticale. In breve, ogni specie animale ha a sua disposizione un repertorio di segni che costituisce un sistema unico, ovvero è, in termini bio­ logici, specie-specifico. Il linguaggio è un tratto specie-specifico del­ l’uomo; è pertanto controproducente e fuorviarne attribuire il lin­ guaggio ad altri animali, eccetto, forse, in senso metaforico. Alcune caratteristiche della segnalazione fatta per mezzo della coda, come di ogni altro dispositivo di comunicazione, possono variare geogra­ ficamente; la diversità linguistica nello spazio può produrre dialetti, un termine che viene anche usato in zoosemiotica per definire dif­ ferenze comportamentali in popolazioni della stessa specie che oc­ cupano aree differenti. I semnopitechi (o entelli) dell’India setten­ trionale tengono la coda sollevata ad arco sopra la schiena, mentre scimmie della stessa specie, viventi nel sud, la portano sollevata e ripiegata all’indietro per manifestare un certo grado di ‘sicurezza’. Nessuna specie, comunque, può sopravvivere in isolamento da altri animali; bensì ognuna ha bisogno di un vasto ecosistema in cui i suoi membri coesistono con un certo numero di vicini a de­ terminate condizioni. Per sfuggire ai predatori, catturare la preda, o * favorire in altri modi la sopravvivenza di due o più specie, gli animali debbono disporre di una ulteriore capacità di passare da un codice all’altro, cioè, di un sistema di comunicazione interspecifica. In certe parti dell’India, per esempio nel Parco Kanha, cinque o sei specie di Ungulati occupano una zona che sono costretti a con­ dividere con la tigre e altri carnivori di più piccole dimensioni, come il leopardo, la lince della giungla, il melorso, la iena striata, lo sciacallo e talvolta il pitone — per non parlare dell’uomo. Ogni specie di predatore e di preda deve comunicare con tutte le altre all’interno del territorio per favorire la propria sopravvivenza. Un certo numero di pesci di mare sono specializzati nell'elimi­ nare parassiti che infestano altre specie di pesci. Il “pulitore” sti152

il

i. mola i pesci ospitanti per mezzo di un segno — “danza di pulizia”, ovvero il nuotare scotendo la testa — che essi mostrano di ricono­ scere lasciandosi pulire. I pesci ospitanti sanno a loro volta come sollecitare tali operazioni lustrali. L’Aspidontus taeniatus, invece, è un ‘falso’ e un truffatore: esso mima il comportamento comunicativo dell’innocuo “pulitore” per ingannare i pesci ospitanti, riuscendo così a staccare a morsi dei pezzi di pinna o di branchia e a scappare via. Questa forma di inganno mimetico è una perversione comune dei processi comuni­ cativi interspecifici in tutto il regno animale. Un famoso esempio di comunicazione interspecifica a vantaggio delle due specie si ritrova nelle savane a sud del Sahara, dove un uccello, chiamato Indicatore dalla gola nera, segnala all’uomo la collocazione di alveari che l’uccello non può aprire ma dei cui favi ama cibarsi. Questo emette numerosi gridi di richiamo, seguiti da certi segni visivi, finché un essere umano non trova l’alveare, dà la cera da mangiare all’uccello e consuma egli stesso il miele. Il modo in cui comunichino fra loro l’uomo e gli animali pone molti interessanti problemi che richiedono lunghi studi. L’uomo può incontrare gli animali in un gran numero di circostanze diverse per cui è necessario che ciascuna delle due parti apprenda — anche sen­ za padroneggiare completamente — gli elementi essenziali del co­ dice dell’altra. Presentiamo qui alcune possibili forme di contatto: 1. L’uomo è distruttore di animali (p.e., potenziale stermina­ tore, come nel caso dello storno); o 2. L’uomo è vittima di animali (p.e., del nostro più temibf nemico, la zanzara). 3. L’uomo è partner (anche se non a un livello di eguaglianza, o in simbiosi (per esempio, un uomo che ospita un animale dome­ stico come il pesce rosso o il canarino). 4. L’uomo è parassita di un animale (p.e., la renna) o viceversa (p.e., la pulce e il pidocchio), o fra i due si stabilisce una sorta di commensalità (come i gabbiani che seguono la scia di una nave o i pettirossi appollaiati su di una vanga). 5. L’animale accetta un essere umano come conspecifico fino al punto di fare dei tentativi di accoppiamento (come fece un panda con il suo custode a Londra, o un delfino maschio con la sua addestratrice a St. Thomas). 6. L’animale considera gli esseri umani come oggetti inanimati (p.e., quando gli uomini guidano un veicolo in un parco naturale). 7. L’uomo sottopone un animale a prove ed esperimenti scien­ tifici (apprentissage) in laboratorio, oppure lo addestra per uno spettacolo (dressage) come al circo. 153

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8. L’uomo doma gli animali e continua ad allevarli e selezio­ narli (addomesticamento). Ciascuna di queste — ed altre — situazioni comporta una fon­ damentale comprensione da parte nostra della capacità comunica­ tiva, biologicamente data, degli animali. Il successo di processi come quello del domare o addestrare dipende dalla nostra padronanza dei relativi elementi dei codici animali. Per stare in nostra compagnia, ogni animale deve discernere il comportamento verbale e/o non verbale dell’uomo. Tutti i sistemi comunicativi, specialmente quelli degli animali, sono studiati sotto sei principali classificazioni. Ho già osservato che i messaggi, o stringhe di segni, sono oggetto di particolare atten­ zione, ma tutti i messaggi debbono essere prodotti da un organismo emittente (fonte) e interpretati da uno o più organismi riceventi (destinazione). Il tipo di messaggi emessi è dettato dal corredo bio­ logico della fonte, in particolare il suo apparato sensoriale, e le con­ dizioni ambientali o contesto a cui l’animale è adattato. Un mes­ saggio può solo di rado essere trasmesso direttamente nella forma in cui è stato prodotto (molto probabilmente, a livello elettrochi­ mico). I messaggi debbono essere codificati in modo adeguato al canale che mette in rapporto le due parti comunicanti. Perché il messaggio abbia un impatto, l’animale ricevente deve possedere la :hiave per decodificarlo in una forma (anche elettrochimica) che il suo corredo biologico gli permetta di interpretare. Questa è la ra­ gione per cui i messaggi appaiono in forma codificata e sia la fonte che la destinazione debbono (almeno parzialmente) condividere un codice ereditato o appreso, o, in genere, una mescolanza dei due. Immaginate, quindi, un organismo che formula un messaggio — per esempio, “Io ti voglio” — diretto a un altro individuo, del tutto particolare, del sesso opposto e della sua stessa specie, come una sula che chiama il suo compagno dopo una prolungata separa­ zione in mare durante l’inverno, cosicché ogni membro della coppia può riconoscere l’altro quando entrambi tornano alle scogliere dove hanno il nido. Questo messaggio è codificato in forma acustica, e le onde sonore viaggiano, attraverso l’aria, dagli organi fonatori di una sula fino all’apparato uditivo dell’altra. Si confronti questo con l’indifferenziato segnale olfattivo trasmesso da un baco da seta fem­ mina, incapace di volare, ad ogni maschio che si trova a volare in un raggio di alcune miglia. Le sue ghiandole emettono un feromone (o sostanza chimica liberata all’esterno e portatrice di un messag­ gio) che produce attrazione sessuale, chiamato esadecadiene, il quale si diffonde nell’aria circostante, fino ad essere infine raccolto da certi organi recettori collocati sulle antenne del maschio. Le mole­ cole di esadecadiene sono assorbite dalla superficie pelosa e si dif­ fondono attraverso pori e tubuli in un fluido, in cui vengono a 154

contatto con la membrana, stimolando una risposta cellulare, per cui il maschio si pone in cerca della femmina, che se ne resta invece immobile, e finisce forse per accoppiarvisi. Una sola molecola di feromone (o, comunque, pochissime) è evidentemente in grado di innescare una serie esplosiva di eventi. Fra l’altro, questa catena illustra un importante principio di comunicazione animale: il com­ portamento segnico spesso libera molta più energia di quanta non ne venga usata per lanciare il messaggio. Tutti i messaggi sono codificati in modo da intonarsi al mezzo usato e possono, pertanto, essere convenientemente classificati in base al canale o combinazione di canali usati dall’animale in que­ stione. È comprensibile che gli esseri umani, nella cui vita di tutti i giorni il linguaggio parlato svolge un ruolo così preminente, ten­ dano ad attribuire un valore assoluto al canale vocale-uditivo. In effetti, l’uso del suono nel più vasto ambito dell’esistenza biologica è piuttosto insolito: la stragrande maggioranza degli animali è sia sorda che muta. Dei cinque o sei tipi esistenti soltanto due com­ prendono esseri capaci di udire e produrre suoni funzionali: gli artropodi e i cordati. Di questi ultimi soltanto le prime tre classi di vertebrati e metà della quarta hanno tutti i loro membri capaci di produrre suoni come pure — ad eccezione dei soli serpenti — di udirli. I metodi di produzione del suono variano, certo, enorme­ mente da gruppo a gruppo. Il nostro metodo non solo sembra in­ solito, ma, a quel che pare, si è sviluppato una sola volta nel corso dell’evoluzione. Il meccanismo di produzione della voce, che opera per mezzo di una corrente d’aria che passa sulle corde vocali met­ tendole in vibrazione, è limitato soltanto a noi e, con alcune diffe­ renze, ai nostri più vicini parenti — gli altri mammiferi — agli uccelli, i rettili e gli anfibi. (Sebbene alcuni pesci si servano di stru­ menti a fiato, essi non hanno nulla di paragonabile all’ancia costi­ tuita dalle nostre corde vocali). Per quel che ne sappiamo, nessuna vera produzione di voce è reperibile al di fuori dei vertebrati che vivono sulla terraferma o dei loro discendenti marini, le balene. La comunicazione acustica può aver luogo in aria o in acqua e la sua gamma è variabile. L’orecchio umano riesce a percepire soltanto una piccola parte dell’intera gamma. Da quel punto di vista noi siamo superati di gran lunga dal più piccolo pipistrello, da ogni cane, come pure da molti roditori, e senza dubbio da innumerevoli altri animali che non sono stati ancora studiati. La comunicazione ottica è molto più estesa di quanto i limiti dell’occhio umano lascino supporre. I nostri occhi possono perce­ pire soltanto luce visibile, mentre le api e alcuni altri insetti rie­ scono a comunicare nella fascia dell’ultravioletto. I mammiferi not­ turni, dotati di un “tapetum lucidum” (un manto coroideo dal pig­ mento iridescente che fa sì che gli occhi brillino di notte) sono in 155

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grado di “vedere al buio”, una impresa che l’uomo può compiere soltanto con l’aiuto di una speciale apparecchiatura capace di co­ gliere le radiazioni infrarosse. La sensibilità dei nostri organi sen­ soriali tende a differire molto da quella di altre specie: il tempo di reazione uditiva dell’orecchio degli uccelli è stato stimato, per esempio, dieci volte inferiore a quello dell’orecchio umano. È stato dimostrato che gli avvoltoi africani riescono a distinguere da un’al­ tezza di più di 4.000 metri se una gazzella distesa al suolo è morta o sta semplicemente dormendo: noi, anche usando binocoli da mon­ tagna, siamo incapaci perfino di identificare l’uccello che si libra a tali altezze. Oltre ai canali acustico e ottico gli animali possono disporre di segni chimici attraverso il loro senso dell’olfatto, come, per esem­ pio, molti carnivori e ungulati. Il superiore olfatto del cane è leg­ gendario. Ho prima ricordato i feromoni; ne viene isolato e ana­ lizzato un numero sempre più grande. Il ‘flehmen’ dei cavalli, come pure dei pipistrelli e molti altri animali, predatori e non, è anche uno speciale dispositivo per chiudere le narici al fine di convogliare sostanze odorose, come Purina della femmina verso il cosiddetto or­ gano vomeronasale, posto sulla volta palatina del maschio, dove il messaggio chimico viene decodificato, per essere poi definitivamente interpretato nell’ipotalamo. Nei serpenti e nelle lucertole l’organo vomeronasale può semplicemente registrare la presenza di sostanze odorose, ma in animali come l’antilope permette al maschio di co­ noscere lo stato della femmina — per esempio, se è in calore. Si stanno facendo rapidi progressi nello studio della comunica­ zione per mezzo di messaggi codificati elettricamente in ambienti sia marini che di acqua dolce. In certi animali, soprattutto rettili come i serpenti a sonagli e le vipere dei pozzi, lievi mutamenti di temperatura possono essere significativi. La comunicazione tattile — per contatto diretto o attraverso conduttori fisici diversi come la rete e le tracce seriche del ragno o la scia viscosa delle lumache — è amoiamente diffusa nel mondo animale. L’integrazione di una specie può essere raggiunta attraverso una combinazione gerarchica di canali: la dinamica sociale di un branco di luoi dipende, per esempio, da (a) segni visivi, specialmente il complesso repertorio di esibizioni compiute con la coda e con il corpo e di espressioni facciali; (b) segni vocali, ivi compresa una forma di ‘canto’ collettivo; segni tattili, quali il pulirsi, mordic­ chiarsi, leccarsi a vicenda, o soltanto giacere insieme per riposare o dormire; e (d) segni olfattivi, che comprendono il lasciare e il seguire una traccia odorosa. Questi quattro canali sono usati o al­ ternativamente, secondo certe regole (per esempio, quando un mem­ bro ha perso contatto visivo con il branco, può continuare a se­ guirlo, a grande velocità, grazie al proprio fiuto) o a rinforzo reci156

proco. Tale integrazione, chiamata ridondanza, diviene necessaria in certe condizioni ambientali sfavorevoli che introducono il rumore — cioè segni non desiderati — nel flusso della comunicazione. Chi vuole comprendere il modo in cui comunicano gli animali deve abbandonare la tradizionale nozione dei “cinque sensi”. Molti più di cinque sono già noti alla scienza, e indubbiamente ne restano parecchi altri da scoprire. È anche importante osservare che gli uomini tendono a sottovalutare le capacità sensoriali di molti ani­ mali. Tali erronei giudizi, basati sull’ignoranza, conducono talvolta a ridicole dichiarazioni in merito alla “percezione extrasensoriale” di certi animali, per esempio, i cavalli. Si sa, comunque, fin dal 1926, che i cavalli sono in grado di scoprire sul volto umano mo­ vimenti inferiori a un quinto di millimetro. Un segno consistente in un movimento così piccolo sfugge alla percezione di un osservatore umano. Esistono indubbiamente molti fenomeni di tal genere che dovrebbero essere ripetutamente verificati in ogni specie animale. Gli studiosi di zoosemiotica si concentrano su uno dei seguenti argomenti, o combinazione di essi:

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1. In che modo l’animale emittente formula e codifica i suoi messaggi? Seppie e polpi, che sono molluschi dotati di un con­ trollo davvero straordinario del colore e della forma, hanno, per esempio, organizzato il loro comportamento in modo da rispettare le esigenze della gravità; a tale scopo essi hanno sviluppato delle parti che per la loro struttura fisica simbolizzano la gravità e il movimento. L’anatomista inglese J. Z. Young (1977) ha mostrato dettagliatamente come queste strutture interne costituiscono, per così dire, dei modelli in miniatura dell’universo, e come questi tratti, fra gli altri, guidano tali cefalopodi — la cui esistenza so ciale è in gran parte limitata al combattimento e all’accoppiamen­ to — nel loro comportamento comunicativo, o, in altre parole, in che modo i segni usati significano qualche cambiamento nel loro mondo interno o esterno, oppure comprendono alcune direttive per l’azione. 2. Una volta codificato, come viene trasmesso il messaggio, attraverso che canale (o canali), e in quali condizioni? Se si ha a che fare con un sistema a molti canali, come nel caso dei lupi, quali re­ gole determinano come combinare i canali, o quando un animale deve passare dall’uno all’altro? 3. In che modo l’animale ricevente decodifica e interpreta il messaggio? In che cosa consiste la sua capacità sensoriale; quali sono i suoi limiti? Le cicale sono interessanti da questo punto di vista. Mentre emette il richiamo per la femmina, il maschio diventa improvvisamente sordo al suo stesso canto; la femmina, comunque, riceve impulsi (che a noi ricordano il rumore di un semplice sona­

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glio) dal cui schema ritmico è in grado di individuare la specie e di volare quindi dal giusto tipo di maschio. 4. Qual è il totale repertorio di messaggi in una data specie? (Alcuni ricercatori sostengono che ogni specie di uccelli o mammi­ feri dispone di un esiguo numero di esibizioni, da quindici fino a un massimo di quarantacinque circa, classificabili in una dozzina di categorie). Che forma assume ciascun segno? In che modo i segni vengono organizzati in stringhe, e qual è il significato di ogni con­ catenazione — che informazione è racchiusa in ogni segno comples­ so, e come può questo scomporsi in più piccole unità dotate di significato? 5. Quali sono le proprietà del codice usato da ciascuna specie? (Un codice consiste in una trasformazione, ovvero insieme di re­ gole, per mezzo delle quali i messaggi sono convertiti da una rap­ presentazione a un’altra; un animale eredita o apprende il suo co­ dice, ovvero il processo è duplice). Così, gli insetti, che non hanno una temperatura costante, debbono affrontare il problema creato dalle fluttuazioni della temperatura ambientale: è noto che la ca­ valletta maschio raddoppia la velocità del canto per ogni innalza­ mento di 10 gradi C nella temperatura esterna. Se la femmina ri­ conosce la specie soltanto in base al numero di impulsi per unità di tempo, il codice, insito nel suo sistema nervoso, deve tener conto delle differenze di temperatura per consentire l’individuazione del maschio. Una conferma di tale ipotesi è data dal fatto che delle femmine a 25 gradi C, per esempio, non rispondono ai richiami di maschi a 15 gradi C. 6. Un animale interpreta sempre i messaggi che riceve alla luce di due differenti variabili: il segnale stesso; e le specifiche qualità del contesto in cui il messaggio viene trasmesso — se, per esempio, l’acqua era calma o agitata; se l’esibizione fu compiuta nel terri­ torio dell’emittente o del ricevente, all’aperto o vicino a un riparo; se, durante l’atto comunicativo, gli animali si stavano avvicinando l’uno all’altro, si allontanavano, o stavano fermi. Ogni messaggio precedente, inoltre, fornisce informazione contestuale per l’interpretazione di ogni messaggio successivo. Molto poco si sa riguardo al modo in cui gli animali o le persone utilizzano l’informazione contestuale, ma non ci sono dubbi sull’importanza cruciale che essa riveste in ogni scambio comunicativo. Esistono due complessi campi di ricerca a cui si può soltanto far cenno in questa breve rassegna. Uno verte intorno alla doman­ da: come si sono evoluti i sistemi segnici — vale a dire, in che modo dei comportamenti che adempivano in precedenza una diffe­ rente funzione hanno dato luogo a dispositivi comunicativi — nelle varie specie (lo studio di ciò che gli etologi chiamano ‘ritualizzazione’)? Per esempio, l’evoluzione del riso nell’uomo, che si ritrova 158

anche nelle piccole scimmie e nello scimpanzé come “esibizione ri­ lassata con bocca aperta” [relaxed open-mouth display] e interpre­ tato come un amichevole segno di gioco, è stata fatta risalire a un movimento originariamente associato, al livello degli insettivori pri­ mitivi, alla pulizia e alla respirazione. L’altro campo cerca di occuparsi dello sviluppo (od ontogenesi) dei sistemi segnici nella vita di un dato individuo, dalla nascita fino alla maturità. Una grande quantità di informazioni affascinanti e utili è venuta alla luce, per esempio, da studi longitudinali dello sviluppo vocale di un certo numero di uccelli canori (passeracei), e della cristallizzazione — raggiungimento dello stadio finale adulto — di questo modo di affermare la propria presenza nel territorio. Vi sono molte ragioni per cui si debba incoraggiare lo studio serio della zoosemiotica. Vorrei concludere ricordandone almeno due. Siamo ancora ben lungi dal comprendere le vie attraverso le quali le nostre capacità comunicative non verbali e verbali si sono evo­ lute. La zoosemiotica spiega minuziosamente gli elementi che acco­ munano e quelli che differenziano la comunicazione umana e animale. In secondo luogo, noi viviamo su questo pianeta insieme a un gran numero di altre creature ma ignoriamo completamente la maggior parte di esse — o, peggio ancora, nutriamo delle idee infantili al riguardo. Nozioni sentimentali o del tutto errate deb­ bono essere sostituite da una conoscenza precisa. Qui risiede la no­ stra sola speranza di stabilire una comunicazione realistica e realiz­ zabile con la grande massa di creature prive di linguaggio, che co­ stituiscono una parte integrante del nostro ambiente.

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NOTA * Parola tedesca di diffusione dialettale, sinonimo di fletschen “digri­ gnare i denti” [ndt].

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n biologico. Si tratta, per così dire, di ‘attività per l’attività . Nell’arte umana questo tipo di motivazione si è presentato in molte guise. Jenkins (1958: 126-127) chiama all’appello celebri dottrine estetiche come quelle relative al « distacco, catarsi o purificazione, isolamento, oggettivazione, emo­ zione ricordata in un momento di tranquillità, distanza psicologica, arrendevolezza, passività, percezione pura, conoscenza involontaria, atarassia, equilibrio, sintesi, impersonalità, contemplatività, empa­ tia, piacere oggettivato, piacere disinteressato, ricettività ». molti altri che echeggiano il medesimo significato. ’er Morris la categoria delle attività autogratificanti è essenzialJnene biologica: « Esse sono la maggior parte degli scoppi improvvisi, di carat­ tere fisico, e fondamentalmente simili ad attività umane come la ginnastica e lo sport, a parte il fatto che mancano di ogni ulteriore motivazione come il raggiungimento della salute, del denaro, e di una posizione sociale. Queste attività possono indirettamente conservare l’animale fisicamente e psichicamente sano e quindi for­ nire ad esso un aiuto nella lotta per la sopravvivenza, ma l’effet­ tiva forza trainante che si cela dietro questi comportamenti auto­ gratificanti sembra essere semplicemente la liberazione di energia nervosa in eccesso (Morris 1962: 145) ». Ciò suggerisce immediatamente un interrogativo di importanza fondamentale: Se le scimmie posseggono una così grande capacità pittorica, perché non l’hanno mai sviluppata e neppure utilizzata allo stato selvaggio? Tale questione è molto vicina a un’altra mol­ to più ampiamente dibattuta in questi giorni: Se, come si presu­ me, le scimmie dispongono dei prerequisiti cognitivi per l’acquisizione della competenza linguistica, perché non l’hanno elaborata in natu310

ra? Alla seconda domanda non è stata finora fornita alcuna rispo­ si soddisfacente; neppure il più risoluto attivista ha mai proposto che essi lo abbiano fatto, al di fuori del mondo fantascientifico degli emuli di Jules Verne, e del pianeta delle scimmie. La ri­ sposta di Morris alla prima domanda si fonda sulla sua dichiarazio­ ne che, non appena l’uomo “dispose di un vero linguaggio che de­ scrivesse oggetti ed anche sentimenti, la porta era aperta per la rappresentazione pittorica di questi oggetti” (1962: 146), o, in altre parole, che l’emergere di questa arte averbale richiedeva la preesistenza di segni verbali. Questo suggerimento può apparire plau­ sibile ad alcuni, per quanto personalmente io ne dubiti, e, in ogni caso, è interamente speculativo11. Più precisamente, esso non get­ ta alcuna luce sul precedente enigma. L’interpretazione distica del­ le immagini è una funzione dell’emisfero destro, svolta, di norma, unitamente all’emisfero sinistro; ma l’emisfero non dominante, che sembra specializzato nel trattare le cose in modo globale, possiede una capacità verbale estremamente limitata, sebbene Eccles (Pop­ per and Eccles 1977: 328) sostenga che le sue prestazioni sono “superiori a quelle dei cervelli degli antropoidi più vicini all’uomo”, mentre l’emisfero dominante, che tende a trattare le cose in modo sequenziale, è “quasi del tutto estraneo a ciò che riguarda il senso pittorico della forma” (ibid.: 351). Morris fornisce altri cinque principi biologici del fare pittura, oltre a quello fondamentale dell’ottenere una gratificazione di per sé. Il secondo principio è quello del controllo della composizione, la cui potenza è dimostrata dal modo in cui Alpha e Congo ade­ riscono alle semplici regole di riempire uno spazio e tenersi all’in­ terno di quello, dal loro senso di equilibrio, e ripetizione cadenza­ ta. Ciò era stato precedentemente messo in evidenza nelle ricerche di Rensch con un cebo cappuccino e un cercopiteco, ed era stato ritrovato anche nelle taccole e nei corvi. Come osserva Morris (1962: 161), le parole fondamentali qui sono: “regolarità — sim­ metria — ripetizione — ritmo”. Il terzo principio, ‘differenziazio­ ne calligrafica’, è relativo a processi di sviluppo, in quanto fa rife­ rimento a una lenta crescita delle capacità pittoriche, che comun­ que nelle scimmie appare in misura inferiore che nei bambini. Que­ sto principio è in stretto rapporto con il quarto, variazione tema­ tica, ovvero, come potremmo dire in termini semiotici, il concetto di invarianza con riformulazioni accettabili. Whiten considera giustamente dubbio lo statuto degli ultimi due principi — che Morris stesso aveva proposto semplicemente come ipotesi di lavoro: in ogni dipinto una ‘eterogeneità ottimale’, sug­ gerisce Morris, governa la composizione e il punto di completa­ mento (cioè il momento in cui il quadro si considera finito). Con­ go, a quel che sembra, aveva ima chiara idea di quando un suo 311

disegno o dipinto fosse terminato. Alpha, al contrario, continuava a coprire il foglio di scarabocchi se la carta non veniva tolta. L’ “Im­ maginismo universale” è ciò che dà carattere riconoscibile ai quadri delle scimmie nel loro insieme, come sostiene in definitiva Morris, ma la sola immagine che sembra ricorrere con qualche re­ golarità (anche nelle produzioni artistiche del cebo cappuccino) è il ‘ventaglio’. Whiten (Brothwell 1976: 32-40) oltrepassa i problemi della creazione artistica che avevano preoccupato Morris e si avvicina a quelli dell’apprezzamento estetico, basandosi prevalentemente su alcuni articoli di Humphrey (1971, 1972). La serie iniziale di pro­ ve compiute da Humphrey era di stabilire se le scimmie avessero dei colori favoriti e delle preferenze per una certa luminosità. Le quattro scimmie sottoposte ad esperimento diedero i medesimi ri­ sultati: in ciascun caso l’ordine di preferenza fu blu, verde, giallo, arancione e rosso. La preferenza di luminosità, verificata presen­ tando accanto a una diapositiva standard altre di differente bril­ lantezza, risultò costantemente collegata a una luminosità supe­ riore a quella usuale. Humphrey verificò poi le preferenze per le immagini, serven­ dosi di trenta foto a colori classificate come “esseri umani” (p.e., un ritratto del custode), ‘scimmie’ (due piccoli che giocano), ‘altri animali’ (una mucca), ‘cibi’ (una banana), ‘fiori’ (una margherita), e pittura ‘astratta’ (un Mondrian). L’ordine di preferenza risultò essere: altri animali / scimmie / esseri umani / pittura astratta / cibi. Ci si può ben domandare, con Whiten (Brothwell 1976: 37), “se tali preferenze hanno nulla a che fare con l’estetica”. Humph­ rey pone due schemi differenti che riflettono una dicotomia riguar­ do ai modi in cui sia noi che le scimmie ci serviamo dei sensi: si può guardare uno stimolo visivo, egli afferma, “per puro pia­ cere” o “per puro interesse”. La dimensione del piacere, corri­ spondente a una pura estetica, può essere positiva o negativa ma è poco influenzata dalla novità, mentre la dimensione della curio­ sità è positiva e passa all’indifferenza solo quando la novità dello stimolo viene meno. Secondo Humphrey, i due tipi di risposta ope­ rano in modo del tutto indipendente, sebbene coincidano spesso per la loro distribuzione temporale, nel qual caso i loro effetti com­ binati producono un’espressione globale di preferenza. Humphrey riprende le sue scoperte formulandole in cinque semplici principi: « 1. Due indipendenti tipi di rapporto hanno luogo fra la scim­ mia e lo stimolo: ‘interesse’ e ‘piacere/dispiacere’. 2. Quando c’è una scelta fra due stimoli, la scimmia li classi­ fica in base al loro relativo grado di interesse e piacere. 312

3. Se uno stimolo è “notevolmente più interessante” dell’al­ tro, la probabilità che la scimmia dia ad esso la preferenza è 1. 4. Se uno stimolo è “notevolmente più piacevole” dell’altro, la probabilità che l’animale lo preferisca è 1, meno che l’altro stimolo non sia sensibilmente più interessante. 5. Se nessuno dei due stimoli è considerevolmente più interes­ sante o piacevole, la probabilità che la scimmia dia la preferenza a uno dei due è 1/2 ». Purtroppo questi principi non furono derivati da scimmie su­ periori; ma Humphrey, partendo dal suo modello quantitativo, fu in grado di predire con grande precisione le preferenze per uno stimolo che combinasse i due tratti distintivi dell’interesse e del piacere. Possiamo tranquillamente supporre che il feed-back visi­ vo costituisca un importante elemento nella pittura delle scim­ mie, ma non possiamo esserne sicuri — e resta ancora insoluta la questione del perché il loro desiderio di produrre arte visiva riman­ ga latente, e, semmai, venga alla superficie solo in cattività, sia spontaneamente che dietro sollecitazione. Un altro enigma che continua a lasciare perplessi è stato ben formulato da Whiten (ibid.: 39), che si domanda “perché la na­ tura ha dotato l’uomo e lo scimpanzè di tale capacità? Nell’arte la dimensione dell’interesse o della curiosità può essere concepita come un ramo secondario, privo di funzionalità in base al valore di sopravvivenza... Ma se un puro senso estetico costituisce una propaggine funzionale di qualche altro attributo parimenti dotato di funzionalità, qual è questo attributo?”. Humphrey (1973) ha lot­ tato con questa difficoltà egli stesso, e trovo che i suggerimenti di questo studioso del comportamento animale sono particolarmen­ te interessanti poiché egli crede, come me, che “un approccio strut­ turalista costituisce la chiave della scienza dell’estetica” (ibid.: 430), e ha inoltre impiegato in modo assai fecondo alcuni concetti semio­ tici. Come per Lévi-Strauss, che egli cita, il suo punto di partenza con­ siste nel concettualizzare un prodotto artistico quale sistema di se­ gni, ma partendo da questa nozione ovvia egli va avanti per chie­ dersi in che modo tali opere raggiungano la loro carica artistica. La risposta che egli propone (ibid.: 432) è che « considerate quella fenomeno biologico, le preferenze estetiche par­ tono da una predisposizione presente fra animali e uomini a ricer­ care le esperienze attraverso le quali essi possono imparare a clas­ sificare gli oggetti del mondo che li circonda. Belle ‘strutture’, in natura o in arte, sono quelle che facilitano il compito di classi­ ficazione fornendo prove dei rapporti ‘tassonomici’ esistenti fra le cose in un modo che è informativo e facile da ottenere ». 313

Questo ragionamento, ovviamente, presuppone che la capacità di operare una classificazione effettiva sia importante per la so­ pravvivenza, forse allo stesso modo del mangiare e del comporta­ mento sessuale. In tal caso, le tecniche di classificazione si sareb­ bero dovute evolvere in modo da costituire una fonte di piacere per Panimale e da dirigere quindi la riproduzione differenziale, non casuale, dei suoi geni (selezione naturale). Dopo tutto, come os­ serva Humphrey, si può confidare che sia gli animali che gli es­ seri umani fanno meglio ciò che piace loro maggiormente fare. Que­ sto punto di vista, insieme all’idea che nessuna opera d’arte è arbi­ traria, suggerisce la possibile provenienza della sensazione di bel­ lezza negli animali. Per usare la terminologia di René Thom (1975: 316), “l’opera d’arte opera come il principio di una effettiva cata­ strofe nella mente dell’osservatore”. In altre parole, sebbene l’arte sia sempre imprevedibile, “ci sembra di esser stati guidati da qual­ che centro di organizzazione pluridimensionale, lungi dalle normali strutture del pensiero ordinario, ma ancora in armonia con le prin­ cipali strutture genetiche o emotive che sono alla base del nostro pensiero cosciente”. Humphrey spinge molto avanti la sua metafora tassonomica, ar­ ricchendola della nozione di ‘rima’, o, come preferirei chiamare in termini più generali il fenomeno, parallelismo. Egli adduce prove sperimentali da una gran quantità di studi sul comportamento esplo­ rativo e dalle sue ricerche personali sulla ‘novità dello stimolo’ nel­ le scimmie. Il parallelismo comporta la nozione psicologica di ‘di­ screpanza dello stimolo’, ossia quella che agli inizi degli anni Cin­ quanta fu chiamata ‘teoria della discrepanza’, brutte denominazioni di un concetto fondamentale di vasta applicazione nel mondo ani­ male e in riferimento ai bambini. Sembra che la tendenza a classificare abbia ottenuto, con l’evo­ luzione, un valore di sopravvivenza sempre inferiore, ma lo stesso accadde per il comportamento sessuale: gli uomini possono trarre piacere da entrambe le attività, ma la maggior parte dei campioni, per quanto gradevoli in sé, non è pertinente da un punto di vista biologico. Soltanto il tipo di attività possiede una chiara funzione biologica. Si noti, infine, che il principio di piacere di Humphrey sembra equivalente al principio di composizione di Morris. È più proba­ bile che il piacere, piuttosto che la curiosità, tenda a stimolare il controllo della composizione, ma per la differenziazione calligra­ fica e la variazione tematica vale il contrario. In una certa misura è possibile che questi principi coinvolgano entrambi i tipi di pre­ ferenza: queste componenti, operando insieme, possono manifestar­ si in un principio di eterogeneità ottimale. I precedenti dell’arte visiva nella nostra specie possono quindi essere compresi un po’ 314

meglio sullo sfondo del mondo delle scimmie. Ciò non dovrebbe stupire nessuno che abbia una seppure superficiale conoscenza del classico libro di D’Arcy Thompson, On Growth and Form (1945), in cui questo grande zoologo, così in anticipo sui suoi tempi, trat­ tò del fondamento della bellezza in innumerevoli squisite strut­ ture prodotte dal mondo delle piante e da quello degli animali, e mostrò che è possibile costruire una teoria astratta puramente geo­ metrica, della morfogenesi, indipendentemente dal substrato di for­ me e dalla natura delle forze da cui trae origine (Thorpe 1974: 302; Thom 1975: 8).

Segni architettonici “Un edificio non è soltanto un oggetto ma anche un segno”, osservava Bogatyrev (in Matejka and Titunik 1976: 18) nel 1936, e più tardi Jakobson elaborò questa affermazione osservando che “ogni edificio è al tempo stesso una sorta di rifugio e un certo tipo di messaggio” (1971: 703). L’utilità — cioè, l’interesse tec­ nologico — di differenti configurazioni architettoniche viene così in genere dato per scontato. Ciò che resta in questione è il loro rapporto con il corrispondente universo di significati, in particolare per ciò che riguarda la dimensione estetica, e la direzione del mo­ vimento artistico: va dalla forma esterna, considerata come si­ gnificante, verso l’organizzazione interna, che diviene il significato, oppure è l’inverso? Pare che tutti siano d’accordo nel ritenere che l’opera d’arte architettonica sia volta alla realizzazione di pa­ recchi fini. Essa si trova alla confluenza di molteplici interessi. Il suo carattere è sincretico per eccellenza. Guardando le dimore, infinitamente varie, costruite dagli ani­ mali — che servono forse a catturare la preda, a dare protezione e comodità a chi le costruisce e alla sua famiglia, soprattutto i pic­ coli, o ad attrarre l’attenzione di un potenziale compagno/a — dobbiamo cercare il valore artistico che può esservi racchiuso, seb­ bene in posizione subordinata rispetto all’interesse principale della ‘macchina per la sopravvivenza’, come Dawkins (1978: 21, 25) chiama i temporanei ricettacoli che ospitano la colonia di geni della pianta o dell’animale. Se esiste tale intento secondario, che ricade passivamente sotto il ‘mero’ vantaggio biologico, o fornisce soste­ gno ad esso, bisogna fare uno sforzo per scoprire questa compo­ nente estetica. Tale indagine non ha nulla di banale, poiché, in de­ finitiva, equivale a chiedersi: Cos’è l’arte? L’origine dei materiali utilizzati dagli animali per costruire la loro dimora è duplice: o le sostanze sono prodotte all’interno del corpo, oppure vengono raccolte dall’ambiente circostante. Nel se315

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condo caso i membri di una specie possono presentare particolari preferenze, che possiamo giustamente definire estetiche, nella scel­ ta deH’habitat. Klopfer (1970: 400) arriva a supporre che “la pro­ va più convincente dell’esistenza di preferenze estetiche proviene dalla letteratura sulla scelta dell’habitat...”. Questo acuto etologo (1969: 57-58) ha coerentemente preso in considerazione le limi­ tazioni dovute a fattori psicologici, di cui i casi più interessanti sono costituiti da quelle situazioni in cui le preferenze non possono essere messe in rapporto con capacità fisiche, “come quando il par­ ticolare colore di un fiore o la forma di una foglia o un complesso di fattori viene preferito a qualsiasi altro” — come nel racconto di Ripley (vedi cap. 9«1). È abbastanza difficile isolare il tratto pertinente di una complessa Gestalt: fornire una spiegazione delle basi sensoriali o neurali delle cosiddette preferenze estetiche re­ sta in generale un difficile problema di ricerca per il futuro. Nel processo di costruzione gli animali impiegano essenzial­ mente le nostre stesse tecniche: lavori di muratura, opere di scavo, intreccio, tessitura e così via. Per Vitruvio — l’architetto e inge­ gnere fallito dell’età augustea che divenne poi autorevole scrittore — Yhomo faber universale fu l’architetto, che i Romani destinava­ no all’arte di costruire edifici e anche di fabbricare macchine (cioè, strumenti secondari; vedi Sebeok 1972: 85). Vitruvio (1826: 3), spiegando a chiare lettere che cos’è l’architettura, sosteneva che nell’esercizio di quest’arte “non bisogna mai perdere di vista due considerazioni... ossia, l’intenzione e la materia usata per esprimere questa intenzione...”. Qualunque opinione si possa avere sull’intrusione del controllo volitivo, o, più in generale, di considerazioni teleologiche, nel dominio della semiotica12, non dovrebbero esserci dubbi che l’uomo condivide pienamente il secondo attributo citato da Vitruvio con le creature prive della parola. Rispetto al concetto di animai laborans, l’animale “che fatica e ‘si batte’ ”, o “che con il suo corpo... alimenta la vita”, ma che “resta ancora il servo della natura e della terra” (Arendt 1958: 136, 139), è davvero difficile percepire delle differenze radicali fra le specie. Queste possibili differenze debbono essere ricercate nel­ la raffinata rielaborazione che la Arendt propone del concetto clas­ sico di Homo faber, un’immagine di utilitarista antropocentrico che ella nondimeno pose con tanta insistenza, ma in tono persuasivo, all’animai laborans — homo faber, “che fa e letteralmente ’agisce su’ ”, e la cui produzione equivale a ciò che ella chiama reificazio­ ne, ossia, la creazione di un mondo esclusivamente umano di fron­ te alla natura. Soltanto Yhomo faber, afferma la Arendt, “si com­ porta da signore e padrone dell’intera terra” (ibid.: 139). L'homo faber, “nell’espressione delle sue più alte capacità”, svolge natu­ ralmente le funzioni “dell’artista, dei poeti e storiografi, dei co316

struttori di monumenti o scrittori, poiché senza di essi il solo pro­ dotto della loro attività, cioè la storia che essi rappresentano e raccontano, non sopravviverebbe affatto” (ibid.: 173). Questa squal­ lida e in fin dei conti ancora assai ristretta visione comporta che nessuna delle opere della natura, che palesemente non sono do­ vute airintervento umano, e neppure alla sua maieutica, possa ave­ re un valore estetico o anche economico. Simile è la posizione espres­ sa da Karl Marx in Das Kapital (1933: 3: 698): “Der Wasserfall, wie die Erde uberhaupt, wie alle Naturkraft hat keinen Wert, weil er keine in ihm vergegenstàndlichte Arbeit darstellt” [“La casca­ ta, come la terra in generale, come tutte le forze della natura, non possiede alcun valore poiché non rappresenta alcun lavoro in essa oggettivato”]. Questo atteggiamento nei confronti della natura e delle produzioni naturali degrada gli oggetti a mezzi, e al tempo stesso si presume sempre che gli animali costruiscano qualcosa non fine a se stesso, bensì in funzione strumentale, ossia quale espe­ diente per la realizzazione di un presunto fine biologico. L’assur­ dità di questa svalutazione sofistica della natura fu disprezzata da molti Greci, come osserva la Arendt (1958: 157) e il suo impli­ cito antropocentrismo fu espresso forse nel modo più persuasivo nella celebre confutazione che Platone fece di Protagora, il cui idealismo soggettivo non va d’accordo — come ho tentato di mo­ strare altrove (Sebeok 1978a) — con la più elementare lezione della moderna scienza della vita. Il campo della ‘architettura naturale’ ha l’eccezionale fortuna di avere uno splendido libro dedicato all’argomento, e che com­ prende tutte le manifestazioni, dagli invertebrati, particolarmente gli artropodi, agli uccelli, e su fino ai mammiferi superiori, com­ prese le grandi scimmie. Questo compendio, la cui piacevole lettura non richiede alcuna conoscenza specialistica, fu scritto da Karl von Frisch (1974) in collaborazione con il figlio Otto. Il titolo origi­ nale, Tiere als Baumeister — che potremmo tradurre “Animali co­ me capomastri” — è più efficace e suggestivo, e al tempo stesso meno grave o presuntuoso, del titolo sotto cui apparve nella tra­ duzione inglese13. L’attività architettonica degli animali può essere interpretata nel migliore dei modi come una manifestazione del comportamen­ to implicante l’uso di utensili — un modo complesso di manipo­ lare oggetti ed esplorare il loro uso per ottenere un vantaggio adattativo. Secondo Frisch (1974: 22), è raro fra gli animali l’uso di utensili che non facciano parte del loro corpo: “Essi si servono prevalentemente di organi del proprio corpo, soprattutto parti del­ la bocca e le zampe”14. Per quanto raro possa essere, a livello sta­ tistico, l’uso di artefatti esterni, si continuano a pubblicare nuovi casi recentemente scoperti. Possiamo ricordare la sequenza com317

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Fig. 9.8. Tipiche componenti dell’uso di utensili. Da Thony B. Jones ed Alan C. Kamil, “Tool-Making and Tool-Using in thè Northern Blue Jays”, Science 180 (8 giugno 1973): 1076-78. Copyright 1973 by thè American Association for thè Advancement of Science, e riprodotto con il loro permesso.

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portamentale acquisita che è stata osservata nelle ghiandaie az­ zurre americane (Cyanocitta cristata) e che comporta l’uso di uten­ sili: l’animale strappa pezzi di pagine di giornale e se ne serve poi, dopo opportune modificazioni, per far scivolare dentro la gab­ bia frammenti di cibo che altrimenti resterebbero al di fuori della portata (Jones and Kamil 1973). Perfino la larva della crisopa verde (Chrysopa slossonae) si ser­ ve di uno strumento nel momento culminante di una complicata se­ quenza comportamentale che è stata un po’ goffamente definita “trasporto di immondizie” (Eisner et al. 1978). Questa specie di insetto si traveste da, cioè, mima, la propria preda staccando un po’ di ‘peluria’ cerosa dal corpo degli afidi dell’ontano in mezzo alle cui colonie vive e trae il nutrimento, e poi si applica questo materiale sul dorso. Lo scudo esterno così costruito protegge la larva dagli assalti delle formiche che in genere ‘custodiscono’ gli afidi.

Fig. 9.9. Afide lanigero dell’ontano. Da Eisner et. al. 1978: 791, Fig. 1. Con il permesso di Thomas Eisner, Cornell University. 319

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Fig. 9.10. Apbaenogaster rudis che porta uno strumento. Da Fellers e Fellers 1976, Fig. 1. Con il permesso di Joan H. Fellers.

Fig. 9.11. Apbaenosler treatae che collocano degli strumenti (pezzi di materiale vegetale) su del miele. Con il permesso di Joan H. Fellers.

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Alcuni insetti sociali, in particolare parecchie specie di Aphaenogaster — nessuna delle quali è menzionata da Frisch, nonostante lo spazio relativamente ampio (1974: 72-150) che egli peraltro dedica alle costruzioni compiute da insetti sociali — si servono di pezzi di foglie, fango e granelli di sabbia come utensili per traspor­ tare cibi molli da luoghi lontani fino alla colonia, un modo estre­ mamente efficiente di sfruttare le risorse disponibili (Fellers and Fellers 1976). Elenco questi vari casi, scoperti recentemente, di uso di uten­ sili per accennare alla mia impressione che tali tipi di comporta­ mento anticipano le forme più avanzate di attività di costruzione che si ritrovano fra gli animali. In termini etologici, la questione può essere posta nei seguenti termini: in che modo viene ritualiz­ zato il comportamento ‘strumentale’? (Sebeok 1979: cap. 2). O, in linguaggio semiotico: in che modo un utensile, dotato in primo luogo di una funzione amplificatrice, acquisisce secondariamente una funzione segnica? (Sebeok 1976: 30). A questo stadio di svi-

rimboccotura cappio semplice a cappio

intrecciati

±

giro a spirale

ir

tessitura semplice

avvolgimento alternativamente rovesciato

nodo a sopraggitto nodo scorsoio Fig. 9.12.

Schemi illustrativi di alcune elaborate tessiture. Da Hancocks 1973: 52-53.

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luppo delPetologia e della semiotica diacronica la risposta a tale domanda è la stessa che all’altra, apparentemente innocente, “Cosa passa per la testa di un uccello giardiniere quando costruisce e de­ cora il suo pergolato?”. La replica di Frisch (1974: 244-245) è: “Naturalmente non sono in grado di rispondere alla domanda. Nessuno è in grado”. Nonostante la risposta negativa, Frisch va avanti dichiarando la sua convinzione che in questi uccelli, non meno che negli scimpanzè, “si possono trovare non solo un’intui­ zione delle conseguenze delle proprie azioni, bensì anche prove di sensazioni estetiche”. Sarebbe inutile presentare qui anche solo un campione dei mol­ ti, straordinari esempi di progettazione di ambienti esterni e inter­ ni, presentati così egregiamente da Frisch. I versatili uccelli giar­ dinieri figurano ai primi posti, come pure un gran numero di uc­ celli di altro tipo, ivi compresi quegli abilissimi costruttori di nidi che sono i tessitori, e specialmente il Mali?»bus cassini, noto per la cura e precisione mostrata dal maschio nel lavoro, che per la sua tecnica ricorda l’attività umana di intrecciare cestini di vimini o lavorare al telaio. Fra i molti mammiferi presi in esame, merita una speciale menzione il castoro (Castor fiber, o la varietà america­ na, C. canadensis) per le impressionanti realizzazioni di cui è capa­ ce. I fantastici edifici di questo ‘muto architetto’ — l’evocativo epi­ teto fu coniato, nel 1868, da Lewis H. Morgan (1970: 101) — consistono in dighe, tane, cunicoli e canali. L’opinione che “nessun altro animale è in grado con il suo lavoro di modificare il paesag­ gio alla pari del castoro e dell’uomo” (Wilsson 1969: 1) è condi­ visa da tutti gli osservatori ben informati. Questo eccellente capo­ mastro, particolarmente indaffarato nelle montagne, arresta tor- t renti impetuosi e, con le sue dighe, protegge i campi e i pascoli sottostanti impedendo che siano invasi da sabbia e da ghiaia. Le riserve artificiali così create si riempiono di trote e altri pesci e divengono un rifugio per uccelli da preda. La grandezza di alcuni di questi territori bonificati dal castoro è davvero stupefacente — la diga più grande è quella sul fiume Jefferson, vicino a Three Forks, nel Montana: la si può seguire per circa settecento metri. Sebbene le fondamentali capacità ingegneristiche del castoro siano innate — “i principi della loro arte sono ereditari” (Frisch 1974: 278) — il loro cervello è eccezionalmente sviluppato al confronto con quel­ lo di altri roditori e la superiore capacità di adattamento a situa­ zioni ecologiche mutevoli è sottolineata da autorevoli etologi. Mor­ gan (1970: 99) si sentì perfino “autorizzato a supporre un’inten­ zione da parte del castoro”, e altri ritengono che questi animali si valgano dell’esempio o dell’esperienza. Al confronto, non c’è nulla di eccezionale nelle attività architettoniche delle grandi scimmie. Si sa che in alcune regioni gli

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Fig 9.13

Diga di castori, argine solido. Da Morgan 1868, Tavola IX

Fig. 9.14. Diga di castori, argine solido. Da Morgan 1868, Tavola X.

Central frond

Fig. 9.15. Femmina adolescente che tenta di costruire un nido su di un albero di palma. Da Lawick-Goodal 1968: 198, Fig 13; Con il permesso degli autori.

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Flg. 9.16. Scimpanzè che inserisce una canna nell’altra. Da Kohler 1925, Foto III. Con il permesso della Routledge & Kegan Paul Ltd. scimpanzè adulti costruiscono ogni notte un nuovo giaciglio sugli alberi, e così fanno anche orangutan e gorilla, anche se fra questi ultimi i tnaschi più pesanti tendono a dormire per terra. Sono ben noti (per quanto la loro interpretazione sia ancora dibattuta), gli esperimenti di Kohler (1925: specialmente il cap. V, sulla “Costru­ zione”) con gli scimpanzè che risolvono il problema di raggiungere la frutta situata oltre la portata delle loro braccia costruendo uno strumento adeguato a superare la distanza fra sé e il cibo — in­ serendo due canne di bambù l’una nell’altra, per esempio, o acca­ tastando l’una sull’altra delle casse da imballaggio. Mentre le azio­ ni degli scimpanzè di Kohler sembravano trasmettere un’impressio­ ne di intenzione deliberata, gli animali, a quanto pare, hanno un senso assai modesto della statica (ibid.: 161, 163-164) o dell’equi­ librio. Alcuni non sono mai riusciti a risolvere il problema. Il frutto di un profondo impegno di ricerca durato una vita si condensa in due straordinarie frasi alla fine del libro di Frisch (1974: 286): “A livello evolutivo, le radici del comportamento umano si spingono molto indietro negli schemi di comportamento degli animali. Quanti sono affascinati da questi rapporti dovrebbero solo concentrarsi su uno di questi enigmi, l’architettura degli ani­ mali forse...”. Le anticipazioni dell’architettura sono solo un detta­ glio nel mosaico del molto più vasto e più profondo mistero del­ l’origine preculturale delle arti averbali. 325

Osservazioni conclusive All’inizio di questo saggio ho tracciato una distinzione netta fra l’arte verbale e le arti averbali, dichiarando la mia convinzione che mentre sembra inutile cercare i prototipi di sistemi segnici ba­ sati sul linguaggio, un esame delle altre quattro sfere semiotiche qui prese in considerazione potrebbe risultare illuminante. Le dif­ ferenze di elaborazione, a livello neurologico, fra gli schemi verbali e quelli averbali di input e output si fondano su aree separate del cervello umano. Stanno anche prendendo forma gli antecedenti evo­ lutivi, sebbene restino sfocati ai margini.

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Figg. 9.17. c 9.18. Scimpanzè su di una costruzione instabile, e scimpanzè che ha realizzato una struttura a quattro piani. Da Kòhler 1925, Foto IV e V. Con il permesso della Routledge & Kegan Paul Ltd. Il compianto Bronowski (1977: 112; cfr. Sebeok 1976: 119) si domandava se “qualche linguaggio animale [possiede] figure retoriche”, e sembrava in tal modo interrogarsi sulla possibilità che un animale si serva del medesimo veicolo segnico corrispondente a due o più significati diversi. La risposta alla seconda domanda deve essere indubbiamente affermativa, poiché il contesto in cui viene 326

trasmesso un qualsiasi gesto ha un decisivo influsso sulla sua ‘cor­ retta’ interpretazione. Ma l’espressione ‘figure retoriche’ usata da Bronowski nell’articolo esplorativo su “Human and Animai Language” è essa stessa nient’altro che una figura retorica — un espediente trovato dall’autore. Ha ben poco a che vedere con l’ar­ te verbale. Per la verità è stato spesso riferito che in diversi scim­ panzè allevati in casa si è osservata la creazione di metafore e me­ tonimie con segni gestuali. Nel 1976 (Sebeok 1979: cap. 6) ho detto che presumibilmente si erano verificati entrambi i tropi: “mentre Washoe creò ‘uccello d’acqua’ per anitra, un’espressione metonimica o indicale, in quanto si tratta di un segno in reazione all’oggetto indicato..., Lucy prcdusse ‘frutto caramella’ per coco­ mero, un termine metaforico o iconico, che possiede le qualità si­ gnificate...”. In seguito io — ed altri (p.e., Martin Gardner, comu­ nicazione personale) — sono giunto alla conclusione che interpre­ tazioni del genere vanno rivedute se non con sospetto almeno con cautela. Entrambi gli scimpanzè stavano ricevendo un costante flus­ so di inconsapevole feed-back dai loro istruttori. Così solo il cu­ stode era presente nella canoa quando Washoe per la prima volta scorse un’anitra e fece il segno per ‘acqua’ seguito da quello per ‘uccello’. Non ci sirese conto della possibilità che lo scimpanzè strisciasse la mano sull’acqua senza fare il gesto per ‘acqua’, e quando in seguito vide l’uccello, solo allora fece il gesto corri­ spondente. Il comportamento dell’istruttore che (per quanto ne sappiamo) ripetè i due segni, potrebbe facilmente aver insegnato a Washoe un nuovo segno, ossia, ‘uccello-acqua’, che ella avrebbe da allora imparato ad associare alle anitre. Le circostanze erano, mutatis mutandis, parimenti indeterminate anche nel caso di frutto caramella, ‘frutto pianto’ (per cipolla) di Lucy, e in tutti gli altri casi a me noti. Tutti questi sono soggetti ad altre, meno portento­ se, interpretazioni, di cui la più semplice è la continua emissione di indizi involontari, subliminali, diretti dalla fonte alla destinazio­ ne, ossia il fenomeno ‘Bravo Hans’ (Sebeok 1979: capp. 4 e 5). In conclusione non esiste alcuna valida prova dell’esistenza di fi­ gure retoriche, in senso letterale, fra le creature prive di parola — una tipica contradictio in adiecto...! Un altro motivo ricorrente del mio articolo è consistito nell’eludere il profondo problema del significato dell’estetica — par­ ticolarmente in opposizione al nostro accostamento all’utilità — l’intenzionalità ovvero la direzione a uno scopo, che in certi conte­ sti equivale all’arte aristotelica della chrematistike, cioè accumula­ zione di ricchezza senza riguardo al suo fine, ma che qui si riferi­ sce semplicemente alla conservazione e al miglioramento del pool genico, o ai fattori ambientali a lungo termine del gene. La que­ stione, certo male formulata, se gli animali sono dotati di 'coscien-

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za’ è rimasta aperta (Griffin 1976), ma molti autorevoli studiosi di scienze della vita sono d’accordo che in particolari occasioni alcuni animali si comportano verso certi oggetti come se avessero una motivazione di natura estetica. Questo è chiaro, per esempio, per ciò che riguarda gli uccelli giardinieri. L’essenza dell’impulso estetico si colloca certamente nelle strut­ ture che gli organismi traggono e ricompongono da tratti salienti del loro ambiente. Albrecht Diirer (Conway 1889: 182), insieme a molti altri, era di questa opinione; secondo lui “Denn wahrhaftig steckt die Kunst in der Natur, wer sie heraus kann reissen, der hat sie” [“Dato che l’arte è veramente confitta nella natura, co­ lui che riesce a svellerla la possiede”]. Altri fanno una separazione fra bellezza naturale od organica, e bellezza artificiale o estetica, contrapponendo il regno delle cose viventi a quello delle forme ‘viventi’. Ma i due sono ovviamente collegati, poiché coloro stessi che percepiscono sono parte della natura. Gli occhiali attraverso cui vediamo il mondo sono in parte un dispositivo per mettere a fuo­ co certi aspetti della nostra esistenza (Umwelt), ma essi sono al tempo stesso un mezzo per porre armonicamente in rapporto fra loro diverse facce dell’universo. Per parafrasare un detto di Henri Poincaré, la sensibilità estetica svolge il ruolo di un delicato setac­ cio. La difficile impresa, ovviamente, consiste nel definire che co­ sa sono quelle relazioni — di equilibrio e ordine che procurano piacere — nello specifico idioma di ogni arte, come pure nella on­ nicomprensiva struttura architettonica del cosmo vivente. Il con­ cetto di piacere subisce così una radicale trasformazione: viene cioè elevato a una funzione che i biologi possono riconoscere, oggetti­ vare, trattare con familiarità. L’ ‘animale artistico’ non è definito in base ad un’accresciuta sensibilità al movimento, suono, colore, forma, bensì dalla sua capacità innata e/o appresa di suscitare una struttura stabile e dinamica dalla fluidità dell’ambiente, sia esso inorganico, organico, o una fusione dei due. I sistemi segnici così creati, che assolvono una sottostante funzione semantica, assumono con il tempo una dimensione estetica. Come ciò accada è magistral­ mente espresso in un dialogo platonico del 1865 sull’origine della bellezza che Gerard Manley Hopkins aveva composto per il suo insegnante a Oxford (House and Storey 1959: 86-114). Il dialogo, fra il Professore della cattedra di Estetica recente­ mente istituita (senza dubbio Walter Pater) e uno studente, ha luogo nel tranquillo scenario di un giardino dell’università, e lo scambio di battute del gioco dialettico viene a concentrarsi subito su “uno degli alberi dal fogliame più bello”, il castagno. Il Pro­ fessore indica le foglie dell’albero per illustrare il principio di simmetria e, più in generale, delle relazioni strutturali insite nella natura. Il Professore chiede: 328

«“...cos’è quindi la simmetria? non è regolarità?”. “Direi, la più grande regolarità...”. “Giusto. Ma non è il tipo di regolarità che si misura in lun­ ghezza, larghezza e spessore? La musica per esempio potrebbe es­ sere regolare, ma mai simmetrica; non è così?”. “Certamente...”. “Diciamo dunque regolarità”. Il Professore attira poi l’attenzione sulla quercia, “un albero asimmetrico”. “La bellezza, dunque, puoi forse dire, è un misto di rego­ larità e irregolarità”. “La bellezza complessa sì. Ma spingiamo un po’ più avanti l’in­ dagine. Cos’è la regolarità? Non è forse obbedienza alla legge? E che cos’è la legge? Non significa che varie cose, o tutte le parti di una cosa, si assomigliano fra loro?”. (Il Professore continua): “...regolarità è simiglianza o accordo o coerenza, e irregolarità è l’opposto, cioè differenza o disaccordo o cambiamento o varie­ tà” ». Ma queste distinzioni si applicano tutto? La bellezza è cer­ tamente una relazione, ma in che cosa consiste questa relazione? Il senso della bellezza è infatti un confronto. La conversazione si sposta ora sull’argomento della poesia: ritmo, metro, e rima. « “Ora ricordi che io pensavo che si dovesse considerare 1 bellezza come regolarità o simiglianza temperata da irregolarit. o differenza: il ventaglio del castagno era uno dei miei esempi. Nei ritmo abbiamo la regolarità, la somiglianza; così, una volta d’accor­ do che il ritmo è bello, il mio intento consiste nel trovare il disac­ cordo, la differenza in esso... Il Ritmo quindi è simiglianza tempera­ ta da differenza...”. « Cos’è la rima?... Non è forse accordo di suoni?”. “Con un lieve disaccordo, sì... Infatti mi sembra che la rima sia l’epitome del (nostro) principio. Con una metafora si può chia­ mare tutta la bellezza rima...” ». Se la rima è presa come paradigma poetico della bellezza, con­ sistente nel confronto per simiglianza (metafora, similitudine) co­ me pure per dissimiglianza (antitesi, contrasto), qual è la parola adatta che ci dà il principio comune di tutti questi tipi di equazio­ ne? Hopkins propone parallelismo, e passa ad analizzare il paral­ lelismo “sia strutturale che non strutturale , parallelismo di espres­ sione e parallelismo di senso, e sospensione e tensione bilanciante, del suscitare l’aspettativa e del negarla: si tratta in breve di un 329

fondamentale schema onnicomprensivo per chiarire l’affermazione che “La struttura della poesia consiste in un parallelismo conti­ nuo” (ibid.: 84).1S È ora chiaro — per ricapitolare brevemente i casi discussi in que­ sto saggio — l’ampio uso della ripetizione, dell’enunciazione di un te­ ma con variazioni, della creazione di tratti comuni a tutte le mani­ festazioni artistiche degli animali: l’elemento fondamentale della loro arte cinestetica consiste nel movimento ritmico del corpo; alla base della loro musica ci sono “les rythmes organiques” e la tra­ sposizione di intervalli fissi; i termini chiave che caratterizzano la loro attività pittorica sono “regolarità — simmetria — ripetizione — ritmo”; e il segno distintivo del loro virtuosismo architettonico è certamente la simmetria geometrica — frantumata in molteplici modi — che converte la recondita regolarità della realtà fisica in progetti macroscopici di utilità e di bellezza. L’intuizione di Hopkins sull’origine della bellezza fu estesa da Humphrey poco più di un secolo dopo (1973: 432). Egli si doman­ dò: “Qual è il vantaggio biologico di cercare nell’ambiente ele­ menti che rimano fra loro?”. La risposta che egli propone è la se­ guente: « Considerate come fenomeno biologico, le preferenze estetiche na­ scono da una predisposizione degli animali e degli uomini a cercare esperienze attraverso *le quali possano imparare a classificare gli oggetti del mondo circostante. Le belle ‘strutture’ nel mondo della latura o dell’arte sono quelle che facilitano il compito di classifi­ cazione fornendo prove delle relazioni tassonomiche fra le cose in un modo che è informativo e facile da afferrare ». Questa affermazione richiede una triplice giustificazione. Tanto per cominciare, bisogna spiegare perché mai la tendenza alla classificazione dovrebbe essere importante per la sopravviven­ za biologica. Se la funzione del categorizzare consiste nell’operare una cernita dell’esperienza sensoriale — identificare, con fondamentale economia, le forme buone, cattive, e indifferenti, ovvero, in termini semiotici, vagliare la presenza di forme “dotate di signi­ ficato” che innescano appropriati evocatori a lungo termine — al­ lora l’evoluzione di efficienti tecniche classificatorie deve necessa­ riamente possedere un valore di sopravvivenza. Humphrey (ibid.: 433) dimostra che “proprio come nel caso del mangiare e del com­ portamento sessuale, un’attività vitale come la classificazione doveva di necessità evolversi in una fonte di piacere per l’animale. Si può tranquillamente supporre, dopo tutto, che sia gli animali che gli uo­ mini fanno meglio ciò che fanno con piacere”.16 In secondo luogo è necessario dimostrare perché un dispositivo 330

come quello che Hopkins chiama parallelismo debba essere di particolare vantaggio per l’animale classificatorio. Sembra chiaro che il fondamentale ruolo del sistema nervoso centrale consiste precisamente nel fornire una mappa locale che simula la posizione del­ l’essere vivente neH’ambiente esterno, e nel permettere ad esso di operare una distinzione, nell’ambito di altre informazioni di impor­ tanza vitale, fra organismi dotati di rilevanza biologica e/o sociale, per esempio, distinguere fra preda e predatore. I migliori risultati si raggiungono certamente disponendo tali immagini dell’ambiente esterno in una matrice di tratti distintivi, o in base a “simiglianza temperata con differenza”. Il parallelismo consiste nel principio organizzativo impiegato in molti dei procedimenti tassonomici più riusciti, compreso quello di Linneo (più in generale, esso pervade la teoria degli insiemi). « Se per il tassonomista è di aiuto cercare delle ‘rime’ nei suoi ma­ teriali, ciò vale anche per l’animale. È per questa ragione che ci sia­ mo evoluti in modo da rispondere alla relazione di bellezza che è sintetizzata dalla rima. Ad un livello traiamo piacere dalla struttura astratta della rima come modello di prova ben presentata, e ad un altro livello ci dilettiamo di particolari esempi di rima quali fonti di nuove intuizioni sul modo in cui le cose sono messe in rapporto e suddivise (Humphrey 1973)». Il terzo momento consiste nel cercare conferme dell’ipotesi che gli animali sono particolarmente attratti dal parallelismo, al di là della generale tendenza degli esseri umani e degli animali a classi­ ficare il loro ambiente. Raccogliere un certo numero di testimonian­ ze di tal genere costituiva infatti il principale obiettivo di questo studio: presentare esempi di parallelismo nel mondo animale, che non abbiano nessun dimostrabile valore biologico ma che nondime­ no elargiscano qualcosa di simile al piacere estetico, anche se il pro­ cesso o il prodotto sono staccati dall’adeguato contesto naturale. L’universale tendenza a classificare impone che gli animali pro­ ducano unità di significazione, o ‘significata*, stabilendo delle ri­ dondanze. Sono possibili parecchie disposizioni, come classificazio­ ne non dimensionale (tassonomica) o dimensionale (paradigmatica), nelle quali le classi vengono formate tramite intersezione (Dunnell 1971: 44-45). Quando si creano classi e sottoclassi, queste possono essere definite da tratti che o sono insiti nella natura come l’unica soluzione possibile, oppure, come nell’uomo e negli animali da lui addomesticati, sono disposizioni in una certa misura arbitrarie (ca­ tegorie culturali, idiosincrasie individuali). Eppure anche certe po­ polazioni umane possono essere “costrette a misurarsi con la natura alle sue condizioni e a categorizzare quegli aspetti dell’ambiente na331

turale che sono importanti dal punto di vista biologico”. (Bulmer 1970: 1082). Il concetto di classe, basato su quantità imposte dal­ la natura o scelte arbitrariamente, acquista talvolta una certa ele­ ganza e potenza che lo elevano al di sopra del mero strumento di organizzazione, per cui si può dire che la classe così prodotta possie­ de una carica estetica. Lévi-Strauss e Piaget si sono occupati entrambi di questioni pri­ mordiali di classificazione umana. La ricerca di Lévi-Strauss, stimo­ lata da un modello linguistico, postula una tendenza in tutti noi a pensare per opposti e contrasti, a trarre informazione percettiva dall’ambiente secondo certe strutture predeterminate, e a combinare insieme questi percetti in sistemi relativi alla classificazione, alla no­ minazione, e al mito. Attraverso una serie di trasformazioni ordinate questi sistemi mettono in rapporto i temi e le relative variazioni che possono, per esempio, essere espressi in prodotti artistici i quali so­ no a loro volta incarnazioni della mente. Gli animali creano una tassonomia adeguata alla propria specie e alla propria nicchia ecologica. Così, per esempio, i predatori di­ stinguono diverse categorie di preda — in base alla dimensione, aspetto, odore, e altri significanti — prevenendo in tal modo attac­ chi rovinosamente indiscriminati. E viceversa molte potenziali prede distinguono fra diversi segni d’allarme, variazioni nella distanza di fuga e reazioni di fuga, per esempio, secondo che il nemico si tro­ vi in aria o sulla terra. È meno noto comunque che gli animali si danno e portano nomi propri (Sebeok 1976: 138-140; 1981) che individuano ciascuno fra tutti gli altri. Come ha rilevato Hedigger (1976: 1357), in uno studio profondo, e attento alla dimensio­ ne semiotica, sull’uso dei nomi propri nel regno animale: “Il nome proprio fa parte della sua [dell’animale] personalità. Opera quindi una distinzione fra il proprio io e il non io”.17 Hedigger sottolinea an­ che l’urgenza di ricerche sull’emergere dei nomi propri durante l’e­ voluzione, poiché ciò può “dischiudere una nuova porta al delicato problema dell’autocoscienza degli animali. L’interesse per la nomi­ nazione, inoltre concentra l’attenzione sul parallelismo come caso speciale. Questo tipo di parallelismo ricorda una sorta di piacere che è familiare a tutti gli osservatori del comportamento infantile. Humphrey (1973: 435-436) commenta questa pronunciata tenden­ za dei bambini, che è favorita, fra l’altro, da libri illustrati fatti ap­ posta per loro. Il gusto di fare collezioni, egli ritiene, è ancora un’altra manifestazione del piacere che i ragazzi e gli adulti traggo­ no dal classificare. Fra gli animali non è un caso che gli uccelli giar­ dinieri siano i più assidui collezionisti, ciascuna specie secondo le sue predilezioni. Così il terreno riservato alle esibizioni dello Scenopocetes dentirostris “può contenere una quantità quasi inconce­ pibile di cianfrusaglie opache e luccicanti — ma talvolta anche 332

frammenti d’oro o pezzi d’opale preziosa — eppure ogni singolo frammento del loro tesoro “è scelto con grande attenzione” (Mar­ shall 1954: 92). Piaget ha dimostrato che i bambini hanno difficoltà ad eseguire compiti di classificazione dotati di coerenza interna. Se a un bambi­ no, davanti a un complesso di diversi oggetti, viene chiesto di riu­ nire quelli che vanno insieme, egli se ne uscirà con mutevoli raggrup­ pamenti che non mostrano alcuna consapevolezza della simultanei­ tà del tutto e delle sue parti, né a livello fisico né a livello concet­ tuale. Un senso della gerarchia viene più tardi, a uno stadio più ma­ turo deirintelligenza operativa; di conseguenza durante l’ontogenesi complesse forme d’arte emergono in genere soltanto in funzione accessoria alle capacità cognitive dell’adulto. Già nel 1935 sono stati fatti confronti fra produzioni artistiche animali e quelle dei bambini, quando Madie Kohts raffrontò i disegni del suo scimpan­ zè Joni con quelli di suo figlio Roody. Ne risultò che i primi scara­ bocchi di Joni assomigliavano molto a quelli di Roody. In seguito, però, mentre i disegni dello scimpanzè cominciarono a presentare maggiore complessità ma nessuna raffigurazione, quelli del bambino mostrarono anche qualità mimetiche, per esempio, l’immagine riconoscibile di un volto (cfr. Fig. 3 in Brothwell 1976: 21). Quando nel 1934 Mukarovsky tenne la conferenza, feconda di ulteriori sviluppi, su “L’art comme fait sémiologique”, egli inten­ deva sottolineare ed esemplificare certi aspetti della dicotomia — che non pose mai in discussione — fra scienze naturali e studi uma­ nistici e al tempo stesso mettere in rilievo l’importanza della rifles­ sione semiotica per l’estetica e la storia dell’arte (Matejka and Titunik 1976: 8). Riferendomi, in conclusione, a questo articolo pro­ grammatico, vorrei rilevare l’aspetto paradossale dell’impresa pro­ posta: una coerente caratterizzazione di un’opera d’arte come se­ gno autonomo composto di un artefatto (il significante), un ogget­ to estetico (il suo significato), e un rapporto astratto, influenzato dal contesto, con la cosa significata, tende precisamente ad annullare la scissione fittizia che si suppone esso sostenga.18

NOTE 1 Anche queste affermazioni debbono forse essere modificate, alla luce di osservazioni causali da parte di esperti studiosi, come Riplev (in Eisenberg and Diilon 1971: 8-9), riguardo a una specie di uccello giardiniere (Amblyornis) della Nuova Guinea. Ripley riferisce il suo profondo stupore di fronte alla, proporzionatamente enorme (sei piedi), struttura a forma di tenda coni­ ca di uno di questi uccelli: egli aggiunge poi che nei giorni seguenti tornò 333

spesso ai vari pergolati che si trovavano vicino al suo campo, per osservare la collocazione di particolari frutti, bacche, o fiori in aiuole ben ordinate di un piede quadrato di superficie. La sua descrizione continua: « Trovai che questi pergolati costituivano praticamente l’occupazione degli uccelli maschi per l’intero anno e non per il periodo di una sola stagione, e che le femmine vengono a visitare il pergolato anche al di fuori della stagione degli accoppiamenti. Inoltre i maschi giovani osservano gli adulti e così, du­ rante i vari anni del loro periodo di maturazione, hanno modo di approfittare dell’esempio dei più anziani. Anche attraverso questo processo di apprendi­ mento vengono potenziati gli istinti innati. Dico questo perché ho avuto modo di osservare delle scelte di oggetti in base al colore e alla sfumatura. In un caso un fiore da me raccolto e che non era usato per la preparazione di un’aiuo­ la, fu gettato via dal maschio forse per ragioni di colore. In un altro caso un fiore, che peraltro non era stato raccolto da un maschio, fu accettato c, e do­ po un breve riassettamento, fu inserito nell’aiuola, sebbene il fiore fosse di una specie differente. Il colore di questa orchidea, un rosso tendente al rosa, si adattava benissimo al rosso rosato degli altri fiori dell’aiuola presi da una vite ». Ripley continua il racconto dicendo che riuscì a creare una nuova moda in due uccelli giardinieri. Queste osservazioni, seppure non definitive, sono di notevole valore indicativo ed euristico. 2 Non intendo riferirmi qui a spettacoli, come i numeri di circo, in cui gli animali sono stati presumibilmente addestrati a forza di operazioni trans­ specifiche a ‘danzare’ in pubblico. Hanna (1977: 212) osserva: « È vero che un essere umano può danzare meccanicamente o eseguire una fi­ gura di danza ideata da qualcun altro, allo stesso modo in cui una creatura non umana può essere addestrata dall’uomo a danzare. Noi tutti abbiamo vi­ sto ‘ballare’ scimpanzè, cavalli, cani, orsi, pappagalli, o elefanti ». Nel secondo caso si ha comunque soltanto un’illusione semiotica abilmen­ te creata. I movimenti biologicamente appropriati degli animali sono accompagnati da una musica appositamente studiata, e non viceversa: « Une bonne musique est surtout importante dans le travail régulier et tout à fait indispensable dans les airs de danse. En dehors des figures régulières, il importe seulement qu’elle soit précipitée ou lente suivant la vivacité ou la lenteur des mouvements. Les ours, les chevaux, les éléphants, les chiens danseurs par exemple, nécessitent une musique particulièrement bien adaptée, tandis que les singes, les perroquets, etc., etc., ne réclament que des flonflons à peu près quelconques (Hachet-Souplet 1897: 32-33)». I principi di umanizzazione degli animali nel circo sono spiegati da Bouissac (1976: 116 e sgg.), in riferimento ad esempio alla danza in coppia (val­ zer) o da soli (balletto): “Il più efficiente addestramento di questo tipo evoca da parte dell’animale un comportamento che all’interno di una situazione ar­ tificiale crea l’impressione che l’animale senta e ragioni come un essere umano La dimensione iconica dei movimenti viene ottenuta attraverso l’accompagna­ mento musicale, “che li porta a un dato ritmo, o per ottenere una completa armonia, come nel caso dei numeri con cavalli liberi, o per raggiungere una regolarità individuale, come nei numeri di ‘alta scuola’ (cavalli che danzano)8 (ibid.: 131). Lo stesso valeva, a maggior ragione, per i circhi delle pulci (An­ drews 1977: 100-106), comuni nella mia fanciullezza, e alcuni dei quali an­ cora operano all’estero (famoso quello del Huber’s Museum, nella zona di

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Times Square, a New York, che chiuse circa una generazione fa). Una nota di programma, conservata alla Mansell Collection del British Museum, di una mo­ stra tenuta, negli anni Trenta del secolo scorso, a Londra (Regent Street) par­ la di “Due Pulci vestite da Signore, e due da Signori che ballano valzer, dodici Pulci nell’orchestra suonano diversi strumenti di dimensioni proporzionate...”. Si trattò, sono tutti i punti di vista, di una cosa sfarzosa: “Cavalieri in redin­ gote danzavano con le loro dame in abiti di seta, mentre un’orchestra di do­ dici membri suonava una ben udibile musica da pulci; il Gran Mogol delle Pulci con tanto di harem, e una nave di 120 cannoni tirata da una sola pulce” (ibid.: 103 e sg.). Sul bizzarro caso del bruco (Cerura borealis) che danza al suono di note musicali fra i 300 e 360 hertz (all’incirca da Mi a Fa diesis sopra il Do centrale) vedi Maugh (1980). 3 Thorpe respinge l’assurda opinione della Langer secondo cui il canto degli uccelli, essendo ‘inconscio’, non è arte. Per una valutazione critica dei suoi scritti sulla musica, vedi inoltre Henle (1958: 202-220). 4 I linguisti troveranno che questa osservazione costituisce una generaliz­ zazione della cosiddetta teoria glottogenetica bow-wowt secondo la quale il linguaggio avrebbe avuto origine dall’onomatopea. 3 Nonostante ciò esistono profonde differenze, poiché gli uccelli canori posseggono due organi per la produzione del suono — uno in ciascun bron­ co — mentre nell’uomo, come in tutti i mammiferi, esiste una sola sorgente della voce. La nostra comprensione dei processi acustici e fisiologici messi in opera dal canto degli uccelli è ancora ben lungi dall’essere soddisfacente. Per ulteriori dettagli si veda l’eccellente ma trascurata opera di Greenewalt (1968). 6 Cfr. l’osservazione di Nottebohm (1972: 133) che “La distanza che separa le produzioni vocali umane da quelle degli altri primati è enorme”. Al medesimo studioso dobbiamo principalmente la straordinaria scoperta della lateralizzazione del controllo vocale in parecchi uccelli canori, soprattutto il canarino, nel cui cervello è stata trovata la localizzazione del controllo vocale con una notevole dominanza dell’emisfero sinistro (Nottebohm, Stokes, and Léonard 1976). L'apprendimento vocale è così un tratto comune agli ucceU e agli esseri umani, con l’aggiunta, forse, di poche altre specie. Vedi, comunque Falk 1980: 76nl. 7 Cfr. anche il commento di due antropologi, citati da Wescott (1974: 288), “che rilevano che il canto degli uccelli è analogo al canto umano e co­ stituì un modello per esso...”. * Così anche in Romanes (1892: 410): “Tutti i casi in cui si può ritro­ vare la bellezza nella natura organica sono apparentemente dovuti... ad utilità”. 9 Vedi Davis (1974: 216-219) sulla complessità dei meccanismi neurofi­ siologici di codificazione della forma e del colore nelle scimmie. 10 Le pitture raffiguranti animali, a Lascaux, Altamira, e altre famose ca­ verne decorate del Paleolitico Superiore (ca. 35.000-10.000 anni a.C.) non mi sembrano direttamente attinenti ai problemi qui discussi. Le forme d’arte prei­ storica dell’ultima Era Glaciale — che, come ora si sa, comprendono “ritratti”, incisi in modo assai realistico, di uomini e donne, come pure elaborati stru­ menti musicali, quali i sei pezzi a percussione di una sorta di orchestra, e i due flauti, a sei buchi, ritrovati uno in uno scavo in Ucraina e un altro, dello stes­ so periodo, in Francia — sono troppo complesse perché sia di qualche utilità un confronto con l’arte dei primati non umani. 11 Ferguson (1977: 835) ha recentemente documentato in modo convin­ cente che gran parte del pensiero creativo dei progettatori della nostra tecno­ logia è non verbale, né è facilmente riducibile a parole. L’importanza del suo articolo sta nel fatto che le origini di questa componente della tecnologia non si trovano nel campo della scienza bensì in quello dell’arte. McNeill (1973:91) ha fatto la pertinente osservazione che anche se gli scimpanzè allo stato sel­ vaggio avessero sviluppato la capacità di comunicare attraverso un sistema se-

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gnico di tipo linguistico, “non dovremmo aspettarci che esso assomigliasse al linguaggio umano...”. Questa opinione è assai vicina a quella di Washburn (1978: 410) sulle grandi scimmie in genere, secondo la quale “la struttura del­ la loro comunicazione naturale sarà simile a quella delle scimmie inferiori”. u Ho già fatto riferimento a questi problemi e ad alcune loro implicazio­ ni (Sebeok 1976: 35»65, e 127), distinguendo rigorosamente fra teologia soggettiva e teleologia oggettiva. Sono rimasto quindi sorpreso che parecchi recensori del mio libro, soprattutto Martynov (1978: 178), hanno obiettato alle mie limitazioni, introducendo, fra l’altro, nel ragionamento parecchi li­ velli di confusione. Martynov si duole anche che io non abbia citato il ben noto libro di Ackoff ed Emery (1972), che dedicano i capitoli 10 e 11 alla se­ miotica, ma non fanno altro che ripetere nozioni/già trattate molto meglio in vari scritti di Charles Morris. Problemi relativi all’interno dell’arte sono ov­ viamente pertinenti in questo ambito, ma ragioni di spazio impediscono una trattazione dettagliata. Detto in poche parole, il mio punto di vista è che con­ verrebbe considerare l’intenzione come una convenzione, e il fine di un segno semplicemente il suo uso. u Forse questa ovvia traduzione è stata evitata perché avrebbe riecheg­ giato il titolo di un altro libro, Master Builders of thè Animai World, pubbli­ cato circa nello stesso periodo (Hancocks 1973). L’auore di questo libro è un architetto. 14 Per il primo approccio a una tipologia semiotica che distingua i siste­ mi segnici umani e animali in organismici e artefattuali, vedi Sebeok 1976: 30-32. Per ulteriori riferimenti all’uso di utensili da parte degli uccelli, vedi Jones and Kamil 1972: 1078«2. Guilmet (1977) è interessato alla ricostruzione del contesto comportamentale che si è evoluto parallelamente all’uso e alla fabbricazione di strumenti nella stirpe degli ominidi. Egli dimostra che il me­ todo di socializzazione usato da un gruppo che produce strumenti influenza il grado di standardizzazione formale degli strumenti stessi. u Per un’elaborazione e applicazione degli studi pionieristici di Hopkins al parallelismo grammaticale da parte di un maestro dei nostri tempi, vedi Jakobson (1966). 14 Humphrey (1979: 47) osserva che quando il comportamento esplora­ tivo diventa una passione che abbraccia tutto, ha superato la sua funzione evolutiva e si riduce a una sorta di perversione. 17 Sulla nozione di “Io semiotico”, vedi Sebeok 1979: Appendice I. w Purtroppo, lo studio di Hediger, del 1979, sulla creatività degli animali mi è arrivato solo dopo che il mio saggio era stato mandato in composizione.

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CAPITOLO X

II fondamentale enigma del "Bravo Hans”: l’unione di natura e cultura

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! Questo articolo fu presentato al Congresso sul Fenomeno Bravo Hans: Communication with Horses, Whales, Apes and People, tenuto sotto gli auspi­ ci della New York Academy of Sciences, 6-7 maggio, 1980. Una versione è apparsa in Sebeok e Rosenhal (1981: 199-205).

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Dimmi, dove ha origine la fantasia, nel cuore o nella testa? Come nasce, come è nutrita? Rispondi, rispondi. Il mercante di "Venezia Il campo di applicazione dell’epiteto “Bravo Hans” risultò dav­ vero molto elastico. Quasi fin da quando si cominciò ad usare que­ sta denominazione, specialmente dopo che fu rafforzata dalla com­ parsa dello studio di Pfungst del 1907, in tedesco, degli scettici im­ penitenti semplicemente si rifiutarono di accettare le scoperte della commissione di inchiesta di Stumpf, che fu incaricata di esaminare l’eponimo cavallo di von Osten. Fra gli altri possiamo ricordare l’ossessivo gioielliere Krall (1912), e un belga vincitore del Premio Nobel nel 1911, il drammaturgo simbolista Maeterlinck (1914)1. Quasi vent’anni dopo, il compianto Joseph Banks Rhine, un sedi­ cente medium, invece di usare il rasoio di Ockham per radere via entità pseudo-esplicative, definì la giumenta Lady Wonder “la cosa più straordinaria dopo la comparsa della radio”, attribuendo a tele­ patia le presunte capacità della puledra (Rhine and Rhine 192829, and 1929-30) (in seguito è stato dimostrato che si trattava di un ben noto trucco mentalista, chiamato nel gergo del mestiere ‘let­ tura con la matita’ [Gardner 1957]). Verso la fine degli anni Set­ tanta si era ancora costretti a leggere affermazioni, da parte di chi si dichiarava un ‘centauro’, che i cavalli comunicano in forme “più complesse e impercettibili di quanto faccia l’uomo stesso: percezio­ ne extra-sensoriale e telepatia” (Blake 1977: 26). Nella psicologia contemporanea e in alcune discipline affini pre­ vale la concezione ristretta, letterale e semplicistica dell’episodio del Bravo Hans, ossia, che tutto quel trambusto costituì un’aberra339

zione forse divertente nella storia della scienza, e ne fu protagoni­ sta uno scaltro stallone che esercitò un condizionamento operante sui dotti di Berlino e oltre, e riuscì a prendersi gioco del pubblico ingenuo, come era già accaduto e continuò ad accadere nel caso di innumerevoli cavalli, e inoltre maiali, cani, una o due capre, parec­ chie oche e altri uccelli. Coloro che restano attaccati a questa inge­ nua definizione dell’episodio non riescono a cogliere la diffusione interspecifica, e davvero universale di tale effetto. Le generali im­ plicazioni di questo fenomeno furono, comunque, perfettamente chiare al recensore della prima edizione americana di quel classico resoconto quando dichiarò che “Pfungst ha portato un durevole contributo alla psicologia, sia umana che animale, che non può es­ sere trascurato da nessun serio studioso di una qualsiasi delle due discipline” (Johnson 1911: 666). Secondo un’interpretazione particolarmente allarmante, di cui un esempio è stato recentemente fornito da alcuni autorevoli stu­ diosi impegnati in ricerche sul presunto comportamento linguistico degli scimpanzè (Savage-Rumbaugh et al. 1980a: 54) l’Effetto Bra­ vo Hans può applicarsi ai cavalli, ma ‘semplifica troppo’ il proble­ ma, poiché “i comportamenti degli scimpanzè... seppure siano privi di significato... sono di gran lunga troppo complessi per essere con­ trollati da un semplice indizio come ‘via’ o ‘stop’”. Sebbene sia sta­ to mostrato, con dovizia di dettagli (vedi cap. 8 di questo volume), che molti risultati sperimentali raggiunti finora in questo campo possono essere più economicamente spiegati in base all’effetto Bra­ vo Hans, sembra che persista un dubbio riguardo alla pertinenza di tale fenomeno nel caso dei primati, ivi compresi in particolare gli esseri umani. Polanyi (1958: 169-170) ha giustamente rilevato che perfino i filosofi sono soggetti all’effetto Bravo Hans, specificando che “questo è esattamente il modo in cui fanno quadrare le loro descrizioni scientifiche o i loro procedimenti formalizzati di infe­ renza”. Vorrei aggiungere all’osservazione di Polanyi — e per tale affermazione ho addotto prove in altra sede (Sebeok 1979: cap. 5) — che questo principio è una parte naturalmente costitutiva di ogni interazione verbale e non verbale fra esseri umani, come pure una componente ineliminabile di ogni esempio di scambio comunicati­ vo fra uomo e animale, soprattutto negli esperimenti scientifici. Co­ me ha acutamente osservato Hediger: « Ogni metodo sperimentale è necessariamente un metodo umano e deve di per sé stabilire un’influenza sull’animale... Il concetto di esperimento con gli animali — sia esso psicologico, fisiologico, o farmacologico — senza un contatto diretto o indiretto fra esseri umani e animali è fondamentalmente insostenibile (1974: 29) ». 340

Si comprende meglio la ragione fondamentale dell’ubiquità del Fenomeno Bravo Hans nel campo della biologia se lo si concepisce come un caso speciale della legge fisica che impone una definitiva limitazione alla conoscibilità del ‘reale’ stato di cose: il quanto di azione collega l’osservatore (soggetto) al sistema osservato (ogget­ to), cosicché, come nel caso della meccanica ondulatoria, un’osser­ vazione muta necessariamente il sistema osservato (Davies 1979: 156-158). (Nel contesto uomo-animale un ulteriore turbamento può essere introdotto frequentemente dalla Fallacia Patetica ([Sebeok 1972, cap. 2]). L’onnipresenza del Fenomeno Bravo Hans in ogni interazione — sia che uno solo dei partner sia che entrambi siano esseri umani — mi sembra che non sia più discutibile, sebbene debba ancora es­ sere spiegato in dettaglio il suo modo di operare nell’ontogenesi del comportamento infantile e il differente ruolo presso le varie culture. In questo capitolo vorrei riaprire un’antica e forse perenne questione riformulandola nel contesto del Fenomeno Bravo Hans. Ciò costituisce davvero un profondo enigma, che può essere pre­ sentato in parecchi modi isomorfici, secondo i preconcetti filosofici e le preferenze terminologiche di ciascuno. Come avrebbe potuto dire Jakob von Uexkull (1980): In che modo le stringhe semiotiche — verbali e non verbali — provenienti dalYUmwelt di un organi­ smo si trasformano in effetti benefici o dannosi nell'/nnenwelt del corpo? O, per adattare l’opposizione di Lévi-Strauss: In che modo gli stati soggettivi — chiamiamoli ‘Cultura’ — si trasformano in stati oggettivi, cioè, ‘Natura’? Il modello qui presupposto è di tipo dualista-interazionista (talvolta noto come “l’ipotesi di correlazio­ ne”), che comporta la presenza di un flusso di informazione attra­ verso l’interfacie fra cervello e io cosciente, nella tradizione della posizione filosofica di Sherrington, quale è esposta in una certa mi­ sura da Popper ed Eccles nella loro famosa discussione sul Mondo 1 e Mondo 2 (vedi, per esempio, Eccles 1979). L’immagine che personalmente ho del cervello è quella di una rete, o struttura, fi­ sica, di neuroni. Definisco la ‘mente’ come un sistema di segni, o rappresentazioni, di ciò che è comunemente chiamato ‘il mondo’, o più esattamente, ‘Umwelt’ (von Uexkull) o ‘fondamento’ (Peirce 1935-1966: 1.292). Questo modello comporta la fiducia che esi­ stano schemi di rapporto uno-a-uno all’interno della costituzione fisica del cervello su cui sono codificati i segni della mente. Dal mo­ mento che ignoriamo i principi di collegamento, l’enigma consiste naturalmente nel modo in cui si compie tale codificazione. Ovvero, in che modo i segni esercitano la funzione rappresentativa? Il classico studio di Cannon (1942) riporta molti casi in ogni parte parte del globo di morte misteriosa, improvvisa, e apparente­ mente di origine psichica, e che si può far risalire al vodù: La vit341

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tima è maledetta o da uno stregone, o forse per la violazione di un potente tabù. Comunque, se il mago rimuove l’incantesimo, la gua­ rigione è immediata. La fede è ovviamente un fattore fondamentale, proprio come nel caso dell’effetto placebo (anche se la suggestiona­ bilità non può essere chiaramente separata dal mutamento sponta­ neo, come ha sottolineato di recente Lasagna [1980]), o della Chri­ stian Science, la cui dottrina basilare fu definita nei seguenti termini da Mary Baker Eddy: “Una fede smisurata è tutto ciò che permette a una medicina di curare disturbi fisici (poiché) le cosiddette leggi della salute sono semplicemente leggi di fede smisurata” (1934: 174). Lo stesso può valere per l’ipnosi, che, come ci dice Sacerdote, “è sotto molti punti di vista il placebo più efficace” (Holden 1977: 808). La sindrome di morte improvvisa è stata descritta non solo ne­ gli esseri umani ma anche nei ratti (Richter 1957) e molti altri ani­ mali, ed è stata in vario modo attribuita a shock o disperazione. Ad ogni modo sembra che si abbia a che fare anzitutto con iperattività del sistema parasimpatico. In un interessante libro intitolato Scared to Death [Spaventato a morte] Barker (1968) ha mostrato che se agli animali terrorizzati viene somministrata della clorpromazina prima di esere sottoposti a un grave shock, la mortalità si riduce di molto; simili risultati si ottengono quando viene data loro dell’atropina, che neutralizza gli effetti parasimpatici. Se, comunque, viene somministrata della metacolina o analoghi stimolanti del pa­ rasimpatico, l’effetto ‘vodù’ viene intensificato. Per quanto le affascinanti idee di Cannon abbiano dato origine a una controversia durata circa quarant’anni, e abbiano abbozzato i contorni di un nuovo campo di entusiasmanti ricerche, l’enigma di fondo resta in contrasto con l’adagio: “Pietre e bastoni mi faran­ no del male, ma non potrò mai ricevere danno da una parola”. Sap­ piamo infatti che esse possono causare — almeno a partire dal 1224 — delle stigmate spontanee. Si ha ora notizia di circa cinquanta ca­ si, più o meno ragionevolmente attendibili, a cominciare da quello di S. Francesco d’Assisi, per i quali non è stata offerta alcuna spie­ gazione medica soddisfacente (Thurston 1952). Ciò che manca in tutti questi casi è la conversione dalla mente al corpo, sebbene sembri sempre più probabile che possa trattarsi di attivazione psicogena della secrezione di certe sostanze chimiche del cervello; per esempio: le endorfine che diminuiscono il dolore (sostanze endogene di tipo oppiaceo, quali la dinorfina), l’interfero­ ne (che combatte le infezioni virali), e gli steroidi (che riducono le infiammazioni). Si pensa che questi e simili meccanismi possano agire in tutte le cosiddette cure miracolose come pure nel loro con­ trario. Possiamo quindi supporre che gli indizi, sia verbali che non verbali, siano trasformati dagli appropriati recettori in segnali per le cellule nervose, liberando specifiche sostanze chimiche che agisco-

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no sul cervello collegandosi a siti attivi su altre classi ancora di cel­ lule nervose. Tali sostanze chimiche aderiscono ai loro recettori come chiavi nelle appropriate serrature, e in tal modo arrestano le attività della cellula. Talvolta, alla pari degli ormoni, il loro in­ flusso può avere un’estensione molto maggiore. Gli effetti dei peptidi nel sistema nervoso rappresentano un sistema semiotico chimico usato dal cervello per comunicare con se stesso. Le ricerche che Her­ bert Benson sta conducendo sulle forme di sopravvivenza dei lama tibetani in condizioni invernali ad altitudini di più di 4.000 metri, presumibilmente grazie alla pratica del Turno yoga, e inoltre all’uso di alcune erbe, possono gettare luce su simili sistemi, soprattutto in considerazione del fatto che la concezione del mondo tibetana sottolinea la fondamentale importanza di tre componenti in ogni interazione diadica: la fede del paziente, la fiducia del guaritore e, cosa interessante, il Karma (letteralmente ‘fatto’ o ‘azione’ che lega gli uomini al mondo) che stabilisce un collegamento fra i due (Sobel 1980). Incidentalmente vorrei anche citare la interessante e inattesa scoperta di Robert Nerem che gli animali di laboratorio che ricevono speciali attenzioni — accarezzati e coccolati parecchie volte al gior­ no — riducono considerevolmente il loro deposito di grasso (cioè, colesterolo) al confronto con il gruppo di controllo (Anonimo 1980). Poiché, come ho osservato all’inizio, l’Effetto Bravo Hans viene comunemente confinato dagli psicologi ai soli animali, vale forse la pena di ricordare che la pratica psicosomatica costituisce una com­ ponente riconosciuta della medicina veterinaria. Brouwers, un ben noto veterinario belga, sostiene che “I fattori mentali... hanno la lo­ ro parte nella cura degli animali come in quella degli uomini” e conferma questa dichiarazione con molti adeguati esempi tratti da parecchie specie (1956). Chertok e Fontaine, in un affascinante ar­ ticolo (1963) hanno raccolto numerosi altri esempi di disturbi psi­ cosomatici, dall’eczema dei cani alla pseudogravidanza di gatte, ca­ valle, giovenche, e cagne. Negli animali in cattività si riscontra tutta una serie di disturbi organici e funzionali, come risultato di stress derivante da alterazioni nei rapporti interindividuali, esprimentisi in proiezioni verbali e non verbali dall’uomo all’animale. Come nel contesto umano, questi autori osservano che mentre di tali relazio­ ni si hanno buone conoscenze al livello psicologico (transfert), non si sa quasi nulla della loro base somatica. Kalogerakis (1963) ha mostrato che l’olfatto costituisce certamente uno dei mediatori di superficie, ma sarebbe importante sapere perché alcuni animali rea­ giscono agli indizi ambientali con mutamenti del comportamento, e altri con alterazioni somatiche o funzionali. Mi sia consentito concludere con un altro esempio, che ha giu­ stamente suscitato lo stupore di Lewis Thomas (1979: cap. 13),

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vale a dire, la comune verruca. La sua estirpazione “mediante sfregolamento... con qualcosa che viene poi gettato via “suscitò la cu­ riosità di Francis Bacon; “Lo capisco tanto meglio grazie alla mia stessa esperienza”, egli ci dice (1900: V: 160). Thomas riflette su di un esperimento condotto da Surman et al. (1973), i quali escogi­ tarono una prova per verificare l’ipotesi che le verruche possono essere trattate con ipnoterapia. Le loro scoperte provvisorie confor­ tarono la suddetta ipotesi e suggeriscono l’idea che l’ipnosi possegga un generale effetto sulla risposta dell’organismo ospite al virus pa­ togeno. Un precedente esperimento di Sinclair-Gieben e Chalmers (1959) andò molto più oltre. Esso dimostrò che l’ipnosi può eser­ citare un influsso sulle lesioni in modo selettivo: si prospettò, cioè, al paziente la possibilità che le verruche su di un lato del corpo (quello più colpito) sarebbero scomparse (l’altra parte sarebbe servita da campione di controllo perfettamente analogo). Su nove dei dieci pazienti, le verruche scomparvero sul lato sottoposto a trattamento, mentre quelle sull’altro lato rimasero immutate. Il mi­ stero di tutto ciò non consiste tanto nel modo in cui la capacità di fornire indizi si convertì in capacità di curare, quanto piuttosto nel modo in cui il sistema immunologico del corpo umano — che supponiamo essere sia sordo che cieco — può essere indotto a svol­ gere la sua funzione curativa schierando a comando i suoi linfociti, disattivando le arteriole bilaterali in modo gerarchico, limitatamen­ te, cioè, a un solo lato del corpo. Se un determinato lavoro viene svolto da un mediatore chimico, sarebbe bello sapere come ciò av­ viene, di che mediatore si tratta, e in risposta a che cosa esso agisce. Così l’onnipresenza del Fenomeno Bravo Hans nella vita di tut­ ti i giorni, comprese numerose situazioni di contatto fra uomo e animale, fornisce una buona occasione di discutere su quello che Freud definì in modo così pittoresco “il misterioso salto” (cfr. Deutsch 1959) dalla mente (psicologia) al corpo (neurofisiologia). Esso può anche costituire un adeguato strumento di indagine con l’aiuto del quale lo iato cartesiano può essere in una certa misura ridotto. Per una soluzione definitiva dell’ipotesi dell’identità (nel­ la sua versione di correlazione), e dei relativi problemi di codifica, dobbiamo guardare a ulteriori assidue ricerche nel campo dell’elet­ trochimica del cervello, poiché, detto molto semplicemente, l’Effet­ to Bravo Hans è troppo importante per essere lasciato agli psico­ logi.

NOTE 1 Per ulteriori dettagli vedi T. A. Sebeok, “Dialogue about Signs with a Nobel Laureate”, “American Journal of Semiotics” 1 (1982). 344

APPENDICI

I. L’occhio è più svelto della mano Desmond Morris Manwatching: A Field Guide to Human Behavior

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George Gaylord Simpson, scrivendo nel 1966 intorno alla na­ tura biologica dell’uomo, dichiarò che il linguaggio costituisce il nostro “singolo tratto più caratterizzante”. Questa definizione è vera nel senso che nessun’altra specie finora incontrata è (in senso tec­ nico) dotata di linguaggio, mentre al tempo stesso si tratta di un’af­ fermazione banale in quanto il sistema di comunicazione di ogni altra specie dà ad essa un marchio unico, proprio come fa il lin­ guaggio con gli esseri umani. Api, bavose, castori, orsi, o babbuini, ogni gruppo comunica per mezzo del proprio codice, distinto da tutti gli altri codici che si trovano nel mondo organico, sebbene accada spesso in natura che due o più specie possano sviluppare dei legami — meccanismi per passare da un codice all’altro — che per­ mettono loro di comunicare al di là delle barriere tassonomiche, nella misura richiesta per il benessere generale. La vera unicità dell’uomo consiste nel fatto che esso soltanto ha una coppia di codici a sua disposizione: un codice verbale, e quello che, in mancanza di un termine migliore, viene spesso desi­ gnato per contrasto, e quindi negativamente, come codice non ver­ bale. Questi due dispositivi sono orchestrati abilmente, ma servono a scopi sostanzialmente diversi l’uno dall’altro; in verità, il reper­ torio di segni non verbali di cui l’uomo dispone funziona secondo modalità che non si adattano a stringhe lessicali o grammaticali, e viceversa. Le due componenti di questa duplice struttura hanno ra­ dici filogenetiche fondamentalmente diverse, e rispondono a condi­ zionamenti culturali differenti. Inoltre, come ha giustamente osser­ vato Gregory Bateson (1968) è totalmente errato supporre che, du­ rante l’evoluzione degli ominidi, il linguaggio abbia in qualche modo 345

sostituito i “più rozzi sistemi degli altri animali”. Al contrario, i due sono sbocciati fianco a fianco, ed entrambi i processi “sono stati elaborati in complesse forme d’arte, musica, danza, poesia e simili, e perfino nella vita di tutti i giorni le complicazioni della comunicazione non verbale umana superano di gran lunga tutto ciò che, a nostra conoscenza, ogni altro animale produce”. La distinzione fra i due tipi complementari di semiosi umana non sfuggì al genio di C. S. Peirce quando, agli inizi di questo secolo, elaborò la sua dettagliata classificazione delle scienze. Egli parlò della “vasta e meravigliosamente sviluppata scienza della lin­ guistica”, appartenente a un campo “che abbraccia studi su com­ portamenti e prodotti mentali”. Egli considerò poi il dominio af­ fine “delle incarnazioni, o spiritualizzazioni della mente”, e attribuì a questa seconda categoria “tutti gli studi sulla mente di insetti e... di polpi, sulle caratteristiche sessuali, e le sette età della vita umana, sui tipi di professioni e di razze, di temperamenti e caratteri”. In termini generali, è questo secondò ordine di fenomeni, con esclu­ sivo riferimento all’uomo, soprattutto appartenente all’Emisfero Oc­ cidentale, che costituisce l’argomento del bel libro di Desmond Morris, una miscela straordinariamente abile di segni verbali e non verbali. Morris si tiene saggiamente alla larga dalle confusioni termino­ logiche che hanno travagliato gli studi di comunicazione non ver­ bale da quando Kleinpaul, nel 1888, ha circoscritto il suo campo di indagine definendolo, con un ossimoro, Sprache ohne Worte [Lin­ guaggio senza parole]. La portata di questa disciplina ha conosciuto, e conosce, grandi oscillazioni. Ad un estremo — come è implicito, per esempio, nell’ampio saggio di Malinowski, del 1935, sul lin­ guaggio della magia e del giardinaggio nelle isole Trobriand — l’area investigata è difficilmente distinguibile dallo studio della cultura nella sua globalità. All’altro estremo, l’applicazione può es­ sere limitata a movimenti, o assenza di movimenti, di parti del volto o delle membra, con l’aggiunta, in alcuni casi, di informazioni re­ lative a movimenti inarticolati dell’apparato vocale. Il metodo di Morris che, con felice e opportuna innovazione, si mette nei panni di un naturalista che osservi il comportamento degli esseri umani (ovvero, “osservatore di uomini”), è eclettico, ma egli tende, com­ prensibilmente, a sottolineare quegli aspetti che meglio si prestano a un’esibizione visiva. Per la verità, buona parte dell’onere di que­ sto libro ricade sul gran numero di fotografie, sia in bianco e nero che a colori. Queste sono così intimamente ed elegantemente unite al testo da giustificare una volta per tutte la posizione di Marshall McLuhan: il mezzo usato da Morris diviene effettivamente il suo messaggio. 346

Il lettore, cioè, l’osservatore, viene introdotto alla tematica del libro fin dalla prima occhiata alla copertina. È abbastanza sorpren­ dente che questa non sia la stessa negli Stati Uniti e in Gran Bre­ tagna. Negli Stati Uniti abbiamo un primo piano di una pupilla sinistra enormemente dilatata, appartenente forse a una donna {bel­ la donna}): la dilatazione può essere dovuta ad una incontrollabile eccitazione sessuale, ovvero alla somministrazione di atropina, in attesa che vengano poi applicate lenti ottiche. La versione britan­ nica, invece, mostra una pupilla destra enorme, dilatata in maniera quasi surrealistica, appartenente con tutta probabilità a un uomo, che guarda una figura nuda di adolescente che può ben essere in stata pupillari *. Gli ipotetici commenti di Morris sulle implicazioni di questa importante differenza nella confezione del libro costitui­ rebbero di per sé un affascinante contributo all’etologia comparata. Il testo consiste di più di settanta parti, quasi bocconcini invi­ tanti, che coprono gli argomenti enumerati succintamente da Peirce. Per esempio, ciò che Peirce intendeva con “caratteristiche sessuali” è quello che Morris tratta, in parte, sotto il titolo “Gender Signals” ovvero indizi che esprimono e sottolineano la mascolinità o femmi­ nilità degli individui. Quello che Peirce indicò poeticamente con “le sette età della vita umana”, è discusso da Morris, in parte, nella sezione dedicata ai Segnali Infantili, ma egli avrebbe ben potuto bilanciare questo capitolo sulla prima infanzia con uno corrispon­ dente sulla seconda infanzia: i segni della vecchiaia costituiscono un argomento, ai confini della gerontologia sociale, che nei prossimi anni acquisterà un’importanza centrale per un settore sempre più vasto della popolazione mondiale. Un’altra omissione che stupisce è una presentazione, per lo meno fugace, dei segni della malattia, in breve della sintomatologia medica. John Hughlings Jackson diffuse il termine asemasia (introdotto nel 1878 dal medico americano Hamilton) per designare la condizione in cui la nostra capacità di comunicare in modo non verbale subisce dissoluzione, e sarebbe stato molto istruttivo disporre di una trattazione illustrata di questa tragica ma comune afflizione. Qual è, possiamo domandarci, lo scopo dell’osservare gli uccelli, la presunta attività analoga all’“osservare gli uomini” **? O è un passatempo innocente e con tutta probabilità perfino edificante, op­ pure è una tecnica indispensabile di studi ornitologici sul campo per costruire l’etogramma di un uccello, che consiste in un preciso in­ ventario dell’intero sistema di azioni di un animale (espressione con cui Jennings, nel 1906, designava quelli che siamo ora abituati a chiamare schemi comportamentali), la rappresentazione, sottoposta a verifica, di ciò che costituisce la condizione imprescindibile di ogni ricerca scientifica in questo campo.

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Quel che Morris ci offre in Manwatching è molto più che un collage di acute ed episodiche vignette. Esso comunque non ci fornisce un etogramma completo della nostra specie. Ci viene pre­ sentato un mosaico di rapide occhiate, frammenti che potranno un giorno aiutare a costruire una nuova scienza dell’etologia umana; nel frattempo molti di questi lacerti divertiranno un crescente pub­ blico internazionale il cui appetito è stato predisposto, negli ultimi vent’anni, a ricevere proprio questo tipo di comprensione, facilmen­ te digeribile, di aspetti del proprio io semiotico. Morris scrive nel suo stile abituale, scevro di tecnicismi, e tale trasparenza si adatta benissimo all’iconografia che è ampia, scelta con cura e dotata di ottime didascalie. Ciò costituisce di per sé un buon risultato al­ l’interno del campo di studi sulla comunicazione non verbale in cui una scarsa padronanza dell’argomento è spesso mascherata da un gergo piuttosto impenetrabile. Le sue intuizioni, generalmente acu­ te, hanno un’aria di tranquilla disinvoltura. La sua trattazione della letteratura sull’argomento è vasta, esauriente e aggiornata, sebbene fra i testi citati, purtroppo, figurino soltanto due titoli in lingue diverse da quella inglese. (La parte rilevante di una delle due opere, come Morris ben sa, è disponibile anche in inglese, e l’altra, il clas­ sico studio di De Jorio [1832] sul gesto nell’arte e nella letteratura dell’antichità confrontato con i gesti in uso nella Napoli contem­ poranea, è già stato tradotto dall’italiano e l’edizione inglese appa­ rirà fra breve). Dal momento che l’occhio costituisce il fondamentale organo di senso che ha guidato l’elaborazione di questo libro e può ben es­ sere considerato emblematico dell’intera impresa, è imperativo citare un libro, che Morris avrebbe almeno dovuto menzionare, seppure di sfuggita, del suo collega l’etologo Otto Koenig: Urmotiv Auge (1975), il cui significativo sottotitolo suona “Neuentdeckte Grundziige menschlichen Verhaltens” [“Fondamenti, scoperti di recente, del comportamento umano”], un grosso tomo contenente 766 fo­ tografie, di cui alcune a colori, e 162 disegni. Se fosse stata dispo­ nibile una tempestiva versione inglese, questo libro e la sua pre­ sentazione avrebbero fatto una buona concorrenza all’opera di Mor­ ris. Allo stato attuale delle cose, Mantoatching saturerà il mercato e conserverà la sua ben meritata posizione.

NOTE * Si ha qui un gioco di parole sul duplice significato del termine pupil: “pupilla” e “fanciullo, scolaro” [ndt], ** In inglese Man-watcbing, termine coniato da Desmond Morris sul modello di bird-watching “osservazione degli uccelli a scopo di studio” [ndt]. 348

II. Ma chi sta ascoltando? Emily Hahn Look Who’s Talking! La presuntuosa affermazione di Glendower, “Posso evocare spi­ riti dal profondo degli abissi”, insieme alla sardonica risposta di Hotspur, “Ebbene, ne sono capace anch’io, ovvero ognuno ne è capace. Ma essi verranno quando tu ne avrai bisogno?” (Henry IV, la parte, Atto III, Scena I: w. 54-56), costituisce un prototipo delle battute che si continuano a scambiare in due campi della ricerca scientifica contemporanea — uno extraterrestre, l’altro pa­ storale — apparentemente distanti l’uno dall’altro, eppure straor­ dinariamente affini per ciò che riguarda la loro fonte e intento psicologici, e, in una certa misura le tecniche usate per realizzare il contatto. Non è certo un caso che queste analoghe province del sapere, legate, non rigidamente, a dottrine che richiamano da vicino la fondamentale domanda di Harlow Shapley: “In questo universo di stelle, spazio e tempo, siamo soli?” evocano delle risposte che erano state da tempo anticipate nei miti. Esse vennero ad essere canalizzate, con sempre crescente raffinatezza, in diverse opere di fantascienza — di cui abbiamo un buon esempio, da un lato, nelle avventure marziane e venusiane di Edgar Rice Burroughs, dall’altro nei 23 romanzi su Tarzan del medesimo fecondo autore — e co minciarono ad assumere la loro attuale veste filosofica e divulgativi all’inizio degli anni Sessanta. (Per la cronaca, la categorica decisione di Shapley era che “noi non siamo soli” in questo universo, ma, finora, il maggiore successo di questo slogan è stato il suo deludente sfruttamento nella pubblicità di Close Encounters, da parte della Columbia Pictures!). In uno dei due campi (noto dal 1971 con l’acronimo CETI) fi­ gurano dei portali che dalla terra si aprono sul “profondo degli abissi” spaziali. Queste porte sono tenute socchiuse — a spese dello stato — nella fiducia che dei messaggi prodotti ‘qui’ le varchino per raggiungere dei riceventi che si pensa siano nascosti fra pro­ gredite civiltà extraterrestri, ovvero, degli interpreti terrestri, ade­ guatamente programmati, possano ricevere ad ogni momento mes­ saggi inviati da altre regioni dello spazio. Così, in un traffico sempre più intenso, l’umanità manda messaggi per comunicare con ipotetici interlocutori che si trovano ‘là fuori’, come, per esempio, attraverso l’elaborato codice di segni incisi su di una targa placcata in oro e caratterizzati da un insieme piuttosto complesso di marcatori sin­ tattici e semantici (la suddetta targa fu portata a bordo del Pio­ neer 10, lanciato una mattina del marzo 1972). Circa dieci anni

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prima venne elaborato il progetto Ozma — invano, a quanto risul­ tò — per esplorare un’eventuale attività semiosica in Tau Ceti, nella costellazione della Balena (Cetus). Sotto la marea crescente dell’interesse per il problema della co­ municazione interstellare a doppio senso — si stanno conducendo ricerche con la collaborazione internazionale di numerosi radioastro­ nomi, biochimici ed esobiologi, matematici, ed altri entusiasti che hanno prodotto una enorme e sempre crescente massa di letteratura scientifica, ma, ahimè, senza un briciolo di conoscenze oggettive, almeno finora — sta sorgendo una forte corrente di irrazionalismo e pseudoscienza. Questa confusa situazione potrebbe ben essere de­ finita eUFOria di massa. Non possiamo qui seguire tutti i partico­ lari di questo isterico dibattito sulle forze estranee che agiscono fra di noi, ma vale la pena di sottolineare le reciproche accuse di ‘pre­ giudizio emotivo’, poiché esse richiamano subito alla mente le ana­ loghe accuse che agitano l’altro campo che si propone di esorcizzare quell’anomia dell’uomo moderno che può essere riassunta nel suo isolamento comunicativo. Questa indagine sulle innumerevoli crea­ ture prive della parola con le quali condividiamo il pianeta, costi­ tuisce il tema principale della ben informata rassegna di Emily Hahn, la quale deplora il fatto che ci siano ancora dei testardi ir­ riducibili (ella punta il dito su Noam Chomsky in particolare) “che si rifiutano di prendere sul serio il lavoro fatto con” gli animali — rappresentati qui dallo scimpanzè Washoe — al fine di “deter­ minare la loro capacità di comunicare in forma umana” (p. 137). Sulle credenziali della Hahn non si possono avere dubbi. Dei suoi 47 libri precedenti, Animai Gardens (1967) e On thè Side of Apes (1971) testimoniano abbondantemente la sua profonda sim­ patia per gli esseri animati di ogni tipo. La facilità con cui ella viaggia da un capo all’altro del globo e in aree remote del sapere alla ricerca dei più fuggevoli indizi che possano confermare la ca­ pacità ragionativa degli animali, fa supporre che disponga di infor­ mazioni di prima mano. La sua ricerca, da reporter, dell’animale razionale è in perfetta armonia con una delle due principali tradi­ zioni che permeano i due lati di questa ardua indagine nella storia delle idee, come appare dal movimento dialettico iniziato nel Sei­ cento. Questa è la posizione preannunciata in un profetico libro del medico francese Julien Offray de la Mettrie, L'Homme machine (1747), un’opera che si esprime costantemente a favore dell’assimi­ lazione della natura umana e animale, nel suo fermo rifiuto del dualismo cartesiano e sulla base di dati tratti dall’anatomia com­ parata e dalla psicologia sperimentale. Questa vivace esposizione di un materialismo coerente offrì un’ipotesi euristica per lo studio del comportamento e divenne così un importante precursore di nume­ rosi trattati di questo secolo, in parte speculativi, in parte empirici. 350

Il più recente contributo di tal genere è lo straordinario saggio di Donald R. Grifiin The Question of Animai Awareness: Evolutionary Continuity and Mental Experience (1976), che la Hahn cita ovviamente con grande approvazione (pp. 134-136). Le sorgenti delle preferenze della Hahn sono del tutto chiare, ma il punto di vista contrario non è rappresentato quasi affatto. Basteranno due esempi di questo tipo di distorsione. Hahn fa ri­ ferimento a un gioielliere di nome Karl Krall e alla sua “collezione di meravigliosi cavalli a Elberfeld” (p. 23) e con abili sottintesi getta seri dubbi, per il lettore sprovveduto, sul principio indubita­ bile della Fallacia del Bravo Hans — l’eponimo fenomeno semio­ tico per il quale la destinazione di un messaggio influenza decisa­ mente ma inavvertitamente il comportamento della fonte, per esem­ pio, per mezzo di minuscoli tremori muscolari o cambiamenti nel diametro della pupilla — e i relativi corollari che, ella sostiene a buon diritto, “metterebbero fine a... speranze di comunicazione fra il nostro mondo e quello degli animali non umani” (p. 16). (Eli­ zabeth Mann Borgese, nel suo affascinante e ingenuo libro del 1968, The Language Barrier: Beasts and Men, si servì dell’opera di Krall con la medesima indulgenza). I puerili procedimenti e conclusioni del dilettante Krall, che pubblicò un voluminoso resoconto dei suo’ ‘esperimenti’ in Denkende Tiere [Animali pensanti] (1912) furon completamente liquidati in un’autorevole analisi del suo contemp raneo Stefan von Màday in una confutazione punto per punto. Gii | es denkende Tiere? [Esistono animali pensanti?] (1914). Eppuri questo scrupoloso, decisivo studio è completamente ignorato dalla Hahn (come dalla effervescente Borgese prima di lei). Oppure si prenda un secondo esempio cavallino: la Hahn elenca i sedicenti exploit di un addestratore di nome Henry N. Blake, il quale crede, o dichiara di credere, che i cavalli possono comunicare fra di loro e con gli esseri umani per mezzo di PES o, come scrive nel suo ultimo libro (1977), che essi “possono avere, e di fatto hanno, la capacità di comunicare per via telepatica”. Ora è per­ fettamente chiaro da entrambi i suoi libri che Blake è vittima della Fallacia del Bravo Hans — in verità, ho raramente incontrato un caso più trasparente di indizi sensoriali inconsci. È segno di irre­ sponsabilità fare insinuazioni diverse, pur senza appoggiare esplici­ tamente banali credenze popolari sulle capacità telepatiche degli ani­ mali. La Hahn non è certamente ingenua, e non si riesce a capire perché citi Blake e non faccia parola dei numerosi e straordinaria­ mente realistici manuali che trattano dell’addestramento dei cavalli per gli spettacoli nei circhi — in particolare gli autorevoli testi di Pierre Hachet-Souplet (1897, et seq.) — o, con specifico riferimen­ to a questo problema, lo studio, quasi definitivo, del suddetto

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Màday, Psychologie des Pferdes und der Dressur [Psicologia del cavallo e dellammaestramento] (1912). Sebbene ne sia consapevole, la Hahn sottovaluta grandemente gli inevitabili effetti dannosi della Fallacia del Bravo Hans. Questa costante fonte di errore infesta palesemente non solo ogni contatto fra uomini e animali — soprattutto in situazioni di apprentissage e dressage — bensì tutte le relazioni diadiche fra uomini, donne, e bambini, e può perfino, come è stato recentemente dimostrato da Joseph Weizenbaum, distoreere considerevolmente i nostri rapporti con i calcolatori (come pure, a maggior ragione, quelli dello scim­ panzè Lana, che si suppone siano controllati meccanicamente). Quando la Fallacia del Bravo Hans, o effetto Pigmalione, con rag­ giunta della Fallacia Patetica — l’attribuzione di sentimenti umani ad oggetti naturali, compresi altri animali e piante — colpisce tali stabilimenti dove soprattutto mammiferi marini o pongidi umanoidi ricevono una intensiva catechizzazione per appurare la loro suppo­ sta inclinazione al linguaggio, non c’è da stupirsi se le profezie si avverano da sé, a seguito di manovre verbali e averbali, complicate, evanescenti, e prevalentemente automatiche e inconsapevoli. Su questo punto non debbono esserci fraintendimenti: nessuno che abbia delle elementari nozioni di biologia può dubitare che tutti gli animali sono in grado di comunicare a loro modo con i loro conspecifici, come pure con membri di altre specie che condividono l loro ecosistema. Il codice di comunicazione intraspecifica di ogni pecie animale è unico, sebbene con l’esperienza si possa almeno >arzialmente acquisire una tendenza a passare da un codice all’altro, nella misura in cui ciò è necessario alla sopravvivenza. Nelle circo­ stanze in cui l’ecosistema dell’animale comprende gli esseri umani in genere nasce una grossa confusione, soprattutto quando si viene inseriti in un ambiente che sotto altri punti di vista è naturale. Hahn, parafrasando la psicoioga Duane M. Rumbaugh, che dirige il progetto di ricerca Lana, ritiene prudente concludere “che il lin­ guaggio come forma di comunicazione non è del tutto irraggiungi­ bile da parte della comunicazione animale” (p. 147). Ebbene, la verità di questa pretesa — che io considero la fondamentale e de­ finitiva raison d’ètre del suo libro — dipende da quel che si in­ tende per ‘linguaggio’ e che cosa vuol dire l’espressione ridondante “totalmente unico”. Per ragioni, perfettamente valide, di logica, il termine ‘linguaggio’ è effettivamente vago, proprio come altri segni verbali quali ‘alba’ o ‘crepuscolo’, sono intrinsecamente indeter­ minati e indefiniti. Come era solito insegnare Charles S. Peirce, se un termine è sufficientemente specifico, non pone alcuna questione di rilievo; ma quanto più vogliamo essere precisi, egli ripete in­ stancabilmente, tanto più ci esponiamo alla possibilità di errare. La Hahn sceglie di sottolineare questa implicita vacuità quando dice 352

che “senza una definizione del linguaggio generalmente accettata non si può dare una definitiva risposta alla domanda”; ella comun­ que, nonostante tale indeterminatezza, giunge alla conclusione che “molte persone sono certamente soddisfatte che la comunicazione delle scimmie è certamente imparentata al comportamento lingui­ stico dell’uomo” (pp. 146-147). Ma che tipo di persone ha in men­ te? I semplicioni dell’anno scorso che credevano che un deus sa­ rebbe emerso ex machina dalla mente di uno dei delfini di Lilly? Ovvero scienziati della statura di John C. Eccles — certamente uno studioso che non tira acqua al suo mulino — che espresse vigoro­ samente i suoi dubbi che “queste abili risposte apprese [delle scim­ mie che si servono di un ‘linguaggio’ gestuale] possano essere con­ siderate come un linguaggio che assomigli anche alla lontana al linguaggio umano”? Se non si deve permettere a linguisti come Chomsky di pren­ dere in esame quello che altri considerano come poco più che nu­ meri di circo, abilmente presentati, di un gruppo di scimmie africane in cattività, ben al di là della barriera del linguaggio nel senso tec­ nico della parola, allora, in base alla medesima mancanza di una chiara definizione, gli addestratori non possono attribuire agli ani­ mali che essi hanno in custodia una inclinazione quasi umana al linguaggio. A proposito, non c’è da stupirsi se hanno postulato e affermato l’esistenza di simili capacità nei ‘loro’ scimpanzè — sia che si tratti di soggetti viventi in ambienti naturali ricostruiti ovvero di animali chiusi in gabbia e sottoposti a prove di scelta obbligata — sono giunti a feroci rivalità. Si moltiplicano reciproche accuse di fraintendimento e peggio — imbroglio —, cosicché è del tutto fuorviarne l’impressione di concordia idilliaca trasmessa dalla Hahn. Al giorno d’oggi i linguisti tendono ad essere d’accordo sul fatto che esiste un solo sistema semiotico universale o, per usare la ter­ minologia di S. K. Shaumyan, un singolo linguaggio genotipico sul quale si modellano i processi semantici realizzati dalle grammatiche fenotipiche, cioè, le lingue naturali, che forniscono regole di cor­ rispondenza che collegano il linguaggio genotipico con le migliaia di fenotipi esistenti, ciascuno dei quali è unico. Parimenti, il si­ stema di comunicazione di ogni altra specie animale è unico — spe­ cie-specifico, come vogliono i biologi; in effetti, proprio questa uni­ cità è indispensabile a una specifica collocazione tassonomica, come, per esempio, nel separare quattro tipi di gabbiani artici, molto si­ mili fra loro, per mezzo di un piccolo, ma fondamentale, segno di riconoscimento costituito soltanto dalla colorazione del piumaggio intorno all’occhio. Al tempo stesso tutti i sistemi di comunicazione hanno per definizione un certo numero di tratti in comune, l’esi­ stenza dei quali, fra altre cose, permette agli etologi di compiere studi sulla ritualizzazione, ossia, sull’evoluzione della funzione se353

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gnica. La prossimità tassonomica di due specie non comporta, co­ munque, una quasi identità dei loro rispettivi sistemi di comunica­ zione. Nonostante il polipeptide umano sia in media per più del 99 % identico a quello dello scimpanzè, esistono ovviamente delle notevoli differenze di forma e comportamento (in particolare com­ portamento semiosico), forse a causa di differenze nei geni regola­ tori. È molto probabile che il linguaggio sia emerso come conse­ guenza di uno sviluppo ritardato che diede origine airelemento adattivo che maggiormente ci distingue dai primati non umani. Il carattere differenziale dei nostri sistemi regolatori deve essere in­ dagato più a fondo, ma sembra che vi siano pochi dubbi riguardo alla sua importanza nel cambiamento evolutivo. Il riconoscimento che una sottostante (genetica) continuità del processo contiene il germe di una evoluzione a salti equivale, secondo la brillante os­ servazione di Stephen Jay Gould, a una “conciliazione della nostra tendenza gradualistica con Papparenza di discontinuità”, o, in altri termini, dell’evoluzione con la rivoluzione. I sistemi semiotici delle grandi scimmie hanno dato luogo attraverso un’evoluzione quanti­ tativa, ai sistemi di comunicazione averbale dell’uomo, ma il lin­ guaggio e il tipo di organizzazione intellettuale di cui esso costi­ tuisce una manifestazione tangibile sono innovazioni qualitative che, nonostante tutto, possono essere spiegate benissimo secondo tradi­ zionali criteri biologici. Sia che si esplorino i cieli alla ricerca di compagni incredibil­ mente loquaci o che ci si guardi intorno nel proprio cortile per scoprire degli esseri capaci di un qualche ‘linguaggio’ (anche se certamente non di parlare) che allevino la nostra solitudine cosmica, l’interrogativo di Hotspur può avere per il momento solo una ri­ sposta negativa. Finora nessuno spirito, proveniente dall’alto o dal basso, si è mai materializzato.

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III. Il dominio del sacro John Blacking The Anthropology of thè Body If anything is sacred thè human body is sacred Walt Whitman I Sing thè Body Electric (1855) Questa importante raccolta — che riunisce la maggior parte delle relazioni presentate al congresso patrocinato dalla Association of Social Anthropologists, sulla Antropologia del Corpo, e che si proponeva di “concentrarsi sul corpo umano quale legame fra natura e cultura presente in tutte le attività umane” — rimpolpa, per co­ sì dire, un’osservazione di Taine, riferita dall’autorevole storico H.A.L. Fisher, in un articolo pubblicato nel 1941, “Paris at High Noo”. Taine, secondo Fisher, “osservò che la storia fu fatta da uo­ mini, che questi uomini avevano dei corpi, che i corpi erano ora sani ora malati, e che la condizione del corpo aveva inevitabilmente un influsso sull’attività della mente. Lo studio del corpo umano face­ va parte del dovere dello storico” (1941: 418b). Ciò fa evidente­ mente parte anche dell’impegno professionale dell’antropologo, ma lo studio del corpo è stato tradizionalmente relegato a quella parte del campo che viene di volta in volta — almeno negli Stati Uniti — definita come antropologia fisica, biantropologia, e simili. Se­ condo Blacking, il divorzio fra antropologia fisica e cui turale/sociale non è più utile per le opposte ragioni che il corpo umano è model­ lato, o per lo meno influenzato, dalla cultura, mentre certi fenomeni apparentemente culturali — il principale esempio da lui addotto è il linguaggio — hanno una base biologica. Quasi tutti i diciannove articoli qui raccolti — compresa l’affasci­ nante silloge esplorativa di Blacking, che conduce il lettore “Towards an Anthropology of thè Body” [“Verso un’antropologia del corpo”] — danno per scontato che esista un tacito consenso sui confini che delimitano il corpo, sebbene Francis Huxley, in “The Body and thè Play within thè Play”, alluda al carattere problematico del rapporto comunemente postulato fra io e natura, come, per esempio, che la personificazione dell’io sineddochicamente “ sta per” la natura (com­ prendente ovviamente cultura e società). Comunque, ciò lascia ancora aperta la definizione dell’io’, un problema continuamente di­ battuto dalla drammatica (cioè, dialettica) esposizione che ne fece Platone nel Timeo, fino alla traduzione strutturalista del modello platonico nell’Operatore Totemico, egualmente sineddochico, di Lé­ vi-Strauss — che, per dichiarazione dello stesso autore, costituisce 355 i

solo un programma che resta “riservato all’etnologia di un secolo a venire...” (1962: 200). In via del tutto provvisoria, possiamo postulare che ogni essere umano acculturato possiede due ‘corpi’ (ovvero ‘io’), uno racchiuso dentro l’altro. L’infrastruttura contenuta può essere ben rappresenta­ ta in termini immunologici, ossia, biochimici: l’invasione di questo corpo fisico viene inizialmente espressa dalla difesa immunologica — cioè, una reazione specifica da parte del singolo animale volta a neu­ tralizzare o annullare i corpi estranei, o antigeni, come una popola­ zione di batteri. La risposta del sistema mette anche in evidenza l’adattabilità, cioè, la crescita di una memoria, e una caratteristica cruciale che permette di reagire a stimoli inaspettati, o, in altre pa­ role, a manifestare una crescente risonanza semiotica. La sovrastrut­ tura avvolgente, ovvero l’io semiotico in quanto tale, è necessaria­ mente ancorato sia al versante biologico che a quello sociale; l’inva­ sione di questa bolla esterna, o membrana sociale di misura e forma irregolare ed elastica, innesca quella che Freud chiamò “angoscia da segnale” — essa serve come primo sistema di allarme per l’altra. Il campo per la reazione immunitaria è circoscritto dal più ampio orga­ no del corpo, la pelle, che filtra i flussi di materia-energia. L’io se­ miotico è normalmente contenuto fra la pelle e un perimetro esterno, ovvero una soglia che funge da filtro di informazione, scoperta da Heini Hediger nel 1935. Hediger distinse due forme estreme di com­ portamento dei vertebrati: tipi ‘a contatto’ e tipi ‘a distanza’. L’uo­ mo rappresenta chiaramente il secondo gruppo, circondato com’è da una ben definita distanza individuale, e intollerante della vicinanza fisica (eccetto in speciali circostanze come quando è impegnato in at­ tività di riproduzione). Le implicazioni transculturali del modello di Hediger furono esplorate in seguito, in indagini preliminari, da Ed­ ward T. Hall (1959, 1966), sotto la rubrica ‘prossemica’, mentre le implicazioni psicologiche furono sondate da Robert Sommer, nel li­ bro purtroppo trascurato, Personal Space (1969). Blacking assegna la prossemica agli aspetti microscopici del movimento umano e so­ stiene che un’antropologia del corpo costituisce un incrocio in cui “il micro e il macro si incontrano”. Un altro autore, J.B. Loudon, torna su questo punto trattando della base biologica dei rapporti sociali che si realizzano attraverso il mezzo dei “prodotti corporei”, espressione che egli limita (in modo troppo restrittivo, credo) all’escrezione. Una nozione fondamentale, appena accennata in questo libro, venne articolata e illustrata da Jonathan Miller in The Body in Question (1978: cap. 7): il fatto di possedere un corpo “può costitui­ re la condizione necessaria dell’esistenza di una persona, ma non una condizione sufficiente”. Ogni neonato deve imparare a distinguere fra ego e alter. Ancora una volta abbiamo qui a che fare con un du­ plice agente: il corpo viene ad essere percepito come un oggetto in 356

un mondo costituito da altri oggetti, ma il corpo è anche sentito come tramite di esperienza e luogo di azione. È questo che ci per­ mette di distinguere la nostra percezione del mondo ‘esterno' dall’universo delle sensazioni interne. Le implicazioni di questa du­ plice configurazione sono state brillantemente abbozzate da Jakob von Uexkull, a partire dal primo decennio di questo secolo, nella sua definizione del concetto di Funktionskreis [ciclo di funzione], che si riferisce a un vasto programma di ricerca, ancora appena agli inizi, basato su di un ciclo cibernetico fra quello che egli chiamò Innenwelt (ovvero, modello del mondo costruito internamente da un organismo) e il suo Umivelt (ovvero, approssimativamente, map­ pa cognitiva di un organismo). Prima dell’avvento della semiotica moderna, cioè, post-Peirceana, e soprattutto la sua formalizzazione contemporanea da parte di René Thom, i contributi teorici di von Uexkiill non solo continuarono, per così dire, a fluttuare in una sorta di limbo, ma furono anche largamente fraintesi e sottovaluta­ ti dagli etologi, in particolare da Konrad Lorenz (cfr. Sebeok 1979: cap. 10; vedi ora, inoltre, Uexkull 1980). Limiti di spazio non mi permettono di commentare i molti altri eccellenti articoli di questo libro, ma non posso trattenermi dall’indicare “Fear of Sorcery and thè Problem of Death by Suggestion” di Gilbert Lewis, poiché questo saggio viene ad affrontare il fonda­ mentale enigma che Marcel Mauss (1926: 311-330) definì come casi “où la nature sociale rejoint très directement la nature biolc gique de l’homme” (ibid. : 329). Il problema può essere riformulatc nei seguenti termini: in che modo il corpo converte stringhe se­ miotiche (verbali e non verbali) in azioni fisiologiche stupefacenti, come eliminare verruche (Thomas 1979: cap. 13) o produrre un mi­ glioramento soggettivo e dei cambiamenti oggettivi nell’angina pectoris (Benson and McCallie 1979) o causare la morte improvvisa, negli animali e nell’uomo da un capo all’altro del globo, Cannon 1942, e i suoi molti seguaci, soprattutto Richter (1957)? Al mo­ mento possiamo soltanto supporre che tali stringhe possano attiva­ re, in condizioni opportune, la secrezione di potenti sostanze come endorfine, dinorfine, interferoni, o steroidi, che si collegano con siti attivi, o recettori, o cellule nervose, in modo simile all’inserimento di una chiave in una serratura, e che, sotto forma di ormoni, posso­ no estendere la loro influenza a tutto il corpo. Vale la pena di ri­ cordare a questo proposito l’opposta affermazione di Darwin (1872: cap. 3) che la trasmissione di messaggi per via vocale può ben avere origine dallo spasmo del dolore.

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INDICE

capitolo

i, Introduzione: Ludens in orbe terrarum

il, "Tu conosci il mio metodoun accostamento di Charles S. Pierce e Sherlock Holmes

9

capitolo

capitolo

III, L'oblò del Capitano Nemo

capitolo

iv, L'immagine di Charles Morris

31 75 103

v, Karl Biihler: una figura dimenticata nella storia della ricerca semiotica

125

vi, “Parlare" con gli animali: la zoosemiotica spiegata

149

capitolo

capitolo

capitolo vii,

Incontri ravvicinati del terzo tipo con la comunicazione dei Canidi

161

vili, Scimmie sapienti: la profezia che si realizza da sé e simili trabocchetti metodologici

183

capitolo

capitolo

ix, Prefigurazioni dell'arte

x, Il fondamentale enigma del "Bravo Hans”: l'unione di natura e cultura

277

capitolo

bibliografia

337 359

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Stampa Sipiel-Milano, maggio 1984