E il denaro va. Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari 8833910857, 9788833910857

Il libro si propone di capire come mai la rivoluzione economica e sociale degli ultimi decenni si sia verificata in un c

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Italian Pages 226 Year 1998

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E il denaro va. Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari
 8833910857, 9788833910857

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Christian Marazzi

E il denaro va Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari

Bollati Boringhieri Edizioni Casagrande

Indice

Premessa 1. La rivoluzione dei prezzi 2. 1979 3. La rivoluzione derivata 4. L’incertezza keynesiana 5. Il capitalismo dei Fondi pensione 6. Critica della critica: appunti 7. La razionalità della moltitudine Appendice Note

Premessa

Uno degli ostacoli maggiori che impediscono all’innovazione pratica e politica di porsi all’altezza delle questioni che più inquietano è l’autorità del passato, la sopravvivenza della storia. Come Robin Hood, che vuole contrastare la violenza delle nuove macchine elogiando i boschi abitati dall’«acuto arciere» e così dimentica che l’arco fu la prima tecnologia inventata dall’uomo, oggi ancora è diffusa la tentazione di tornare a quella che fu la «casa della schiavitù» industriale. E come se l’epoca della grande industria fosse talmente dentro di noi da impedirci di esplorare nuovi percorsi nel tempo dell’esodo. Ma se questo è un viaggio senza ritorno, è perché noi abbiamo voluto partire. Il pensiero critico, che sempre si muove lungo la frontiera oltre la quale «diventa intollerabile essere governati», in un periodo di crisi finanziarie, di ristrutturazioni aziendali, di fusioni gigantesche che eliminano posti di lavoro e aggravano il senso di insicurezza, deve sforzarsi di andare al di là di ogni evidenza. Foucault diceva che «non voler essere governati implica il non accettare come vero quel che l’autorità sostiene essere vero». Questo vale anche per l’«autorità» del nostro modo di pensare e denunciare. E inseguendo ciò che si nasconde dietro l’arroganza di chi esercita il Potere che si scopre la forza di cui si ha bisogno. Più che mai questo Potere si chiama capitale finanziario. Dei suoi «effetti di verità» si parla in questo libro.

Desidero ringraziare Luciano Ferrari Bravo, che con i suoi suggerimenti e la sua amicizia ha seguito questo lavoro in tutte le sue fasi. Ringrazio inoltre Alberto Di Stefano e Daniele Fontana per i loro preziosi rilievi critici di cui, per quanto possibile, ho cercato di tenere conto.

E il denaro va

I rapporti economici, le priorità e le fluttuazioni delle cose concrete appaiono come derivati dei propri derivati, vale a dire come rappresentazioni e adombramenti del significato che il loro equivalente monetario possiede GEORG SIMMEL, Filosofia del denaro Ah! race d’Abel, ta charogne Engraissera le sol fumant! Race de Cam, ta besogne N’est pas faite suffisamment; Race d’Abel, voici ta honte: Le fer est vaincu par l’épieu! Race de Caïn, au ciel monte, Et sur la terre jette Dieu! [La tua carogna ingrasserà il fumante suolo, razza d’Abele. Non compiuta è, o razza di Caino, la tua opera. Razza d’Abele, ecco la tua ignominia: la spada è vinta dallo spiedo! O razza di Caino, sù, arrampicati al cielo e rovescia Dio, giù, sopra la terra!] CHARLES BAUDELAIRE, Les Fleurs du mal [trad. it. di Luigi de Nardis]

I. La rivoluzione dei prezzi

Lo studio dei fatti monetari ha un senso se ad essi si attribuisce il ruolo di informatori, di indicatori di fenomeni più complessi e «segreti», come i mutamenti dei modi di produrre, le trasformazioni demografiche, le dinamiche del consumo, i rapporti tra sviluppo e sottosviluppo. Marc Bloch diceva che «tra tutti gli apparecchi registratori capaci di rivelare allo storico i movimenti profondi dell’economia, i fenomeni monetari sono senza dubbio i più sensibili». 1 Sono i cambiamenti della fisiologia sociale e economica che, influenzando il gioco della domanda e dell’offerta di beni e servizi, si riverberano sulla dinamica dei valori di mercato, per poi ripercuotersi sull’organizzazione istituzionale della società e sulle sue strutture. La critica di un’esegesi puramente monetaria dei fenomeni monetari, anche di quelli più appariscenti, è ancora del tutto fondata. Questo modo di studiare i fatti monetari, di interpretarli come sintomi di cambiamenti strutturali, ha inizio con gli studi sulla rivoluzione dei prezzi nel ’500 in rapporto all’afflusso in Europa di quantitativi consistenti di oro dal Nuovo Mondo. Di fronte a spiegazioni puramente monetarie, o «metallistiche», di fenomeni come l’inflazione, gli storici hanno da tempo

dimostrato i limiti della teoria secondo cui i prezzi variano in conseguenza degli aumenti della quantità di moneta. Dallo scavo storico è emersa l’importanza decisiva dei mutamenti sociali, economici e istituzionali, di cui i movimenti dei prezzi sono un’espressione, oltretutto non sempre interpretabile in modo univoco. Il contributo degli storici ha insomma permesso di smontare la «tesi» secondo cui la storia del capitalismo sarebbe nata sulle caravelle di Colombo.2 Eppure, i fatti monetari hanno una loro «relativa autonomia», che non va sottovalutata. Se è vero che Colombo parte con alle spalle un’Europa in profonda crisitrasformazione economica, se è vero che cerca un passaggio verso la Cina del Gran Khan, è altrettanto vero che egli cerca l’oro, come attestato dai numerosi passi concernenti il metallo nobile contenuti nel suo diario. L’oro, che ben presto si rivelerà uno «specchio rovesciato della felicità» (Foucault), ossessiona Colombo.3 E cercando l’oro che egli finisce nel Nuovo Mondo. E perseguendo l’idea universalmente acquisita, secondo cui l’oro rappresenta la forma più universale di ricchezza, che Colombo contribuirà a produrre eventi inimmaginabili sulla base di tutte le esperienze fino allora vissute. In termini più generali, si può sostenere che è proprio l’idea più convenzionale di ricchezza, cioè più radicata nella tradizione, che determina comportamenti e azioni non solo materiali, ma anche profondamente trasformativi e innovativi. E la sopravvivenza della storia nei linguaggi e nelle grammatiche, con le quali forgiamo le nostre rappresentazioni della ricchezza, che ci porta a cambiare la tradizione stessa, il nostro modo di parlare e di agire, di produrre e di consumare. La «storia ricordata», per esprimersi con le parole di Zygmunt Bauman, è la materia di cui sono fatte le speranze, gli obiettivi, i sensi e le categorie teoriche con le quali tentiamo di dare un ordine al caos, di fornire soluzioni a problemi sconosciuti e inediti.4 Questo è particolarmente vero per il «linguaggio monetario»,

di cui ci si serve per decidere cosa fare, come comportarsi, cosa progettare nella successione quotidiana degli eventi in cui siamo immersi. La storia della «rivoluzione dei prezzi» degli ultimi due decenni dimostra quanto sia efficace il lavoro della memoria collettiva nel mutare irreversibilmente la società. A partire dagli anni Ottanta stiamo assistendo ad una versione rovesciata della «rivoluzione dei prezzi» del ’500, nel senso che la rivoluzione odierna ha la forma della disinflazione, della graduale caduta del livello generale dei prezzi. La sostanza del discorso, comunque, resta la medesima. Da una parte, bisogna dimostrare, come si conviene nella migliore tradizione del pensiero critico, che la disinflazione è l’espressione monetaria di un cambiamento strutturale del modo di produrre e di lavorare, di una modificazione della scheda dei consumi e della composizione del risparmio, dei processi di riorganizzazione planetaria dei flussi di beni e servizi. Dall’altra parte, però, bisogna tentare di capire come mai questa rivoluzione economica e sociale si sia data in questi ultimi decenni, in un contesto caratterizzato da un modo di pensare ancora fortemente radicato nel passato, contrassegnato dalla resistenza del linguaggio tradizionale alle trasformazioni in corso. Alla base della crisi e del superamento di quello che chiamiamo il fordismo, si trova proprio la crescente inadeguatezza dello schema di aspettative e di comportamento rispetto alle circostanze in cui ci siamo trovati a vivere. Abbiamo contribuito a trasformare modi di vivere e di lavorare continuando a ragionare in termini inflazionistici, resistendo ai cambiamenti del modo di lavorare facendo uso di schemi interpretativi conservatori, a volte addirittura reazionari. L’utopia della «fine del lavoro», che molti hanno visto come realistica grazie alle nuove tecnologie a risparmio di lavoro, è un esempio di questa inadeguatezza delle categorie politiche. Il lavoro, la cui riduzione è interpretata dai teorici della «fine del lavoro» come tecnicamente possibile, è infatti identico al lavoro che il capitale ha ridotto a suo modo con la

ristrutturazione-riorganizzazione dei processi produttivi. Nella categoria «lavoro» utilizzata dai teorici della «fine del lavoro» sono assenti quelle caratteristiche linguistico-comunicative e relazionali che hanno modificato modi e forme dei processi di valorizzazione. In buona sostanza, si tratta sempre di una rappresentazione del «lavoro» così come esso si è dato storicamente con il fordismo e il taylorismo. La sopravvivenza della storia di questo secolo, l’immanenza, nel linguaggio monetario, del lavoro nella sua accezione classica di «lavoro socialmente necessario», ci hanno portato altrove rispetto alle utopie della fine del lavoro». Questo altrove non è necessariamente peggiore di quello prospettato dai teorici della fine del lavoro. E «semplicemente» diverso. Soprattutto, è un altrove qui e ora, con il quale dobbiamo realisticamente fare i conti. Da un decennio i prezzi dei beni al consumo e di quelli di investimento sono aumentati meno rispetto all’anno precedente.5 Si tratta di un primo risultato dei processi di ristrutturazione, della flessibilizzazione del mercato del lavoro e dei fenomeni dell’out-sourcing (esternalizzazione, subappalto) come attacco alla componente salariale dei costi di produzione. Si può affermare che, se si tiene conto dei prezzi di alcuni beni relativamente nuovi, come ad esempio i computer o i telefoni cellulari, se si considera la qualità migliore dei prodotti che la gente acquistalo l’abbandono da parte dei consumatori di certi beni e servizi a favore di altri meno costosi, dalla disinflazione si è ormai giunti alla deflazione. Secondo stime della Federal Reserve (Fed), i tassi di inflazione sarebbero infatti sovrastimati di circa l’1,5 per cento.6 Questo significa che se i prezzi al consumo sono aumentati ufficialmente dello 0,5 per cento tra il 1996 e il 1997, come ad esempio in Svizzera, in realtà nello stesso periodo si è avuta una variazione negativa del livello generale dei prezzi di -1 per cento. Simili «discrepanze statistiche» sarebbero relativamente

importanti se non riguardassero anche altri indicatori fondamentali, come quelli che misurano il prodotto interno lordo (il PIL, che definisce la somma di salari, stipendi e altri redditi generati dalla produzione interna annuale) e la produttività del lavoro. Si dice, ad esempio, che negli Stati Uniti i dati relativi al PIL non tengono conto correttamente degli utili di capitale (i capital gains, che negli USA sono registrati fiscalmente 3 anni dopo il loro conseguimento) realizzati dagli investitori sui mercati borsistici, causando in tal modo una sottovalutazione della crescita economica reale.7 La sottostima del PIL, a sua volta, non permette di misurare appieno gli aumenti di produttività del lavoro. Se si avesse un’idea più precisa dell’aumento della ricchezza prodotta, ci si accorgerebbe che a parità di tempo di lavoro si produce più di quanto dicono le statistiche ufficiali. Quindi, se i salari reali dovessero riprendere ad aumentare dopo anni di stagnazione o di riduzione, e se questo aumento dovesse coincidere con una ripresa occupazionale, come in parte è accaduto negli Stati Uniti nella prima metà degli anni ’90, il loro aumento rimarrebbe comunque ancora al di sotto degli aumenti della produttività. Questo secondo aspetto, che spiega in buona parte perché vi è aumento dei profitti senza un aumento inflazionistico dei prezzi, riflette la potenza produttiva del «nuovo lavoro» e della sua combinazione con le nuove tecnologie. Dato che la parola deflazione rimanda, quasi per riflesso condizionato, agli anni ’30, alcuni si sono affrettati a sostenere che la disoccupazione dilagante in Europa ha in qualche modo origine nelle politiche monetarie restrittive anti-inflazionistiche praticate dalle banche centrali in questi anni. Una politica monetaria di alti tassi di interesse, soprattutto quando l’inflazione è già calante, comporta un aumento eccessivo del costo del denaro in termini Creali. Tassi di interesse reali elevati contribuiscono a ridurre gli investimenti e i consumi, a licenziare o a ridurre i salari in rapporto i al numero di ore

lavorate, per tenere bassi i prezzi in un contesto economico mondiale sempre più competitivo. Si tratterebbe in tal caso di una riedizione del meccanismo depressivo già sperimentato negli anni ’30. Prima di analizzare le cause della disinflazione-deflazione, è comunque opportuno fare qualche premessa. La prima è che quando si parla di «livello generale dei prezzi» si utilizza una nozione imprecisa, come tutte le costruzioni statistiche che esprimono delle medie, trascurando in tal modo le differenze interne a indici compositi di questo tipo. Negli anni ’70, ad esempio, l’inflazione fu il risultato di un processo differenziato di aumento dei prezzi, nel senso che in quel decennio gli aumenti dei prezzi dei servizi furono superiori a quelli dei prodotti industriali, per cui vi fu uno spostamento di ricchezza dal settore manifatturiero a quello dei servizi. Nel corso degli anni ’90, la disinflazione sta spostando quote importanti di ricchezza dal secondario e dal terziario al settore finanziario. Alla proliferazione di nuovi prodotti finanziari, i cosiddetti «prodotti derivati» ideati per ridurre i rischi causati dalla volatilità del sistema finanziario, si è aggiunto il dirottamento massiccio dei risparmi su titoli di investimento sempre più remunerativi, ciò che ha permesso di realizzare in breve tempo grossi guadagni. Anche se non pochi esperti continuano a considerare fittizi i guadagni realizzati sui mercati finanziari, non c’è dubbio che i prezzi dei titoli quotati in Borsa sono aumentati mentre sono diminuiti i prezzi di beni e servizi. E anche questa dinamica differenziata dei prezzi che spiega l’aggravarsi delle disuguaglianze come effetto dello spostamento di ricchezza dall’insieme del settore manufatturiero e dei servizi verso quello finanziario. È vero che di fronte all’euforia dei mercati borsistici, come quella precedente il crack d’ottobre 1997, è consigliabile una certa prudenza prima d’affermare che l’aumento della ricchezza dei detentori di titoli è reale. L’aumento del valore di questi titoli potrebbe rivelarsi una «bolla speculativa» destinata

a scoppiare da un momento all’altro. Nei giorni di Ferragosto del ’97, ad esempio, dopo un tonfo del dollaro rispetto alle principali valute europee, le Borse di tutto il mondo hanno trascorso il week-end col fiato sospeso, temendo che il lunedì successivo la Borsa di New York aprisse in caduta libera. Gli effetti dell’instabilità del dollaro si sono poi fatti sentire sui mercati asiatici, costringendo tigri e dragoni a ripensare il loro modello di sviluppo. La paura del crack borsistico, se giustificata agli occhi di chi ancora ricordava il crollo del 1987, si era parzialmente ridimensionata nel corso del 1997 in seguito ad un cambiamento di strategia nella politica monetaria della Fed, la banca centrale degli Stati Uniti di cui Alan Greenspan è presidente dall’agosto del 1987. Di fronte a una economia in crescita, a tassi sempre più elevati e a una disoccupazione ufficiale inferiore al 4,7 per cento, di fronte cioè a due dati che fino a poco tempo prima avrebbero fatto temere un ritorno in forza dell’inflazione, nel corso del ’97 Greenspan era riuscito a convincere per ben tre volte di seguito (il 20 maggio, il 2 giugno e il 20 agosto) i rappresentanti delle 12 banche della Fed a non temere un’impennata dei prezzi. La decisione del 20 agosto di non aumentare i tassi di interesse, presa due giorni dopo la conclusione vittoriosa dello sciopero dei 190 mila dipendenti della United Parcel Service affiliati al leggendario sindacato dei Teamsters, dimostrava quanto poco le autorità monetarie temessero un ritorno dell’inflazione in conseguenza di un rilancio del movimento di lotta sul salario. Ma all’inizio di ottobre Greenspan, temendo un rilancio dell’inflazione causato da un andamento della Borsa sempre meno controllabile da parte della Fed, era ritornato sui suoi passi minacciando di aumentare i tassi, contribuendo con ciò a scuotere le Borse mondiali. Paradossalmente, sarà la crisi dei mercati asiatici ad evitare a Greenspan il difficile compito di aumentare i tassi d’interesse. Il pericolo di deflazione conseguente la crisi delle monete asiatiche renderà infatti

inutile una manovra sui tassi mirante a riequilibrare i valori dei titoli borsistici. In un sistema economico sviluppato il grosso degli investimenti si effettua con sottoscrizione e acquisto di titoli emessi in Borsa dalle società anonime. I titoli si dividono in obbligazioni e azioni. Giuridicamente, il reddito delle prime ha la forma dell’interesse, quello delle seconde del profitto. Di fatto, il reddito delle azioni, malgrado la sua variabilità, ha anch’esso la forma dell’interesse. Il capitale investito in azioni è infatti divisibile e negoziabile (è cioè liquido) tanto quanto il capitale investito in obbligazioni. La differenza qualitativa tra obbligazioni e azioni che giustifica una differenza quantitativa tra i rispettivi rendimenti sta nel fatto che i dividendi delle azioni sono variabili, mentre la cedola di una obbligazione è fissa. Gli obbligazionisti devono essere remunerati (ovviamente se si esclude il fallimento dell’impresa interessata) indipendentemente dai risultati d’esercizio; gli azionisti sono invece pagati alla fine e in funzione dei risultati. E ciò che differenzia il rischio del profitto dalla certezza dell’interesse. Questa differenza quantitativa tra i due tipi di titoli, però, tende a scomparire per effetto della diversificazione del portafoglio. Grazie alla divisibilità e alla mobilita del capitale, la Borsa permette anche ai più piccoli capitali di ridurre questo rischio con la ripartizione dell’investimento in titoli di diverse imprese. Il rischio di realizzare un profitto inferiore alla media è cioè compensato dalla possibilità di realizzare profitti superiori alla stessa media. Dopo un certo periodo di tempo, un portafoglio di azioni sufficientemente diversificato dovrebbe assicurare il medesimo rendimento medio di un portafoglio di obbligazioni. Infatti, l’arbitraggio degli investitori tra azioni e obbligazioni riduce continuamente il divario tra i due portafogli e le fluttuazioni dei prezzi dei titoli provocate dall’arbitraggio assicurano l’uguaglianza dei rendimenti (la

loro perequazione). Dunque, se il rendimento globale di tutti i titoli, siano essi a reddito variabile o a reddito fisso, è soggetto a perequazione sulla base del tasso di interesse di mercato e se questa perequazione risulta dalla fluttuazione concorrenziale dei prezzi dei titoli quotati in Borsa, ne consegue che un aumento dei tassi di interesse farà diminuire i prezzi non solo delle obbligazioni, ma anche i prezzi dei titoli azionari. Una riduzione dei tassi avrà invece l’effetto opposto. Facciamo l’esempio di un’obbligazione al prezzo di emissione di 1000 franchi, sottoscritta al momento in cui il tasso di interesse era del 4 per cento, ciò che assicura un reddito annuale di 40 franchi. Se il tasso di interesse aumenta al 5 per cento, il prezzo d’equilibrio dell’obbligazione sarà di 800 franchi, perché solo questo prezzo assicura al suo acquirente un tasso di rendimento del 5 per cento (800 franchi x 5 per cento = 40 franchi). Se questo aumento del tasso di interesse è autonomo (determinato, ad esempio, dalla volontà di combattere l’inflazione) e non proviene esso stesso da un aumento parallelo dei tassi di profitto, i titoli azionari a reddito variabile, in conseguenza della perequazione tra le due categorie di investimenti, subiranno la medesima riduzione di valore dei titoli obbligazionari. Nell’esempio, un aumento dal 4 al 5 per cento del tasso di interesse su 1000 franchi rappresenta una differenza di 10 franchi, e l’interesse del 4 per cento non rappresenta che 40 franchi sull’arco di un anno. Ma la riduzione susseguente del titolo può rappresentare per l’investitore una perdita di 200 franchi in pochi giorni. E quindi evidente che il minimo sospetto di un aumento futuro del tasso d’interesse indurrà ogni investitore a differire l’acquisto di titoli azionari, perché la perdita di interessi (10 franchi) che subirà lasciando inattivo il proprio capitale per un po’ di tempo è trascurabile in rapporto alla perdita (di 200 franchi) che potrebbe provenire da un

deprezzamento del suo stesso capitale. Se, prevedendo un aumento del tasso di interesse, gli investitori sospendono i loro acquisti in Borsa e se le offerte di vendita si moltiplicano in conseguenza della medesima previsione, i prezzi dei titoli cominceranno a calare prima ancora che il tasso di interesse bancario sia effettivamente aumentato, e ciò anche se le previsioni circa un suo aumento erano del tutto infondate. Giuste o sbagliate che siano, se le previsioni sono condivise da un numero elevato di operatori, queste previsioni si verificheranno. Una riduzione dei prezzi dei titoli equivale a un aumento del tasso di interesse reale versato ai loro detentori, e dato che l’interesse bancario non può restare a lungo al di sotto di questo tasso, alla fine dovrà aumentare anche il tasso bancario. Si dice in questo caso che le aspettative si «autovalidano». Quindi, se la Fed fa capire che non intende alzare i tassi di interesse perché non teme un aumento dell’inflazione e perché è convinta che i valori borsistici rispecchiano l’andamento reale della produttività economica, l’attività borsistica si rafforzerà e il valore dei titoli tenderà a crescere. Oltretutto, oggi ci si trova in un contesto di globalizzazione dei mercati in cui la massa di risparmio mondiale gestita da investitori istituzionali come i Fondi pensionistici e i Fondi d’investimento cresce a ritmi superiori rispetto al volume del titoli quotati in Borsa. Di conseguenza il prezzo di questi titoli è destinato a salire quasi per inerzia, perché la loro domanda cresce costantemente. E stato stimato che solo il 40 per cento del totale degli stock di capitali nazionali è titolarizzato, ossia quotato alle borse mondiali, mentre la massa di risparmi generata dalla produzione (internazionale di questi stock di capitale cresce a un ritmo del 15 per cento all’anno, pari alla quota di risparmio privato accumulata sotto forma di reddito differito. I «rischi sistemici» tipici della globalizzazione dei mercati finanziari, ossia i rischi di crack delle borse, dovuti, come si è visto nell’ottobre del ’97, agli stretti rapporti tra il

dollaro e le monete di paesi asiatici confrontati con squilibri locali specifici, non sono rischi tali da far crollare l’insieme dell’economia mondiale. Per quanto pericolosi, si tratta di rischi circoscritti, che punteggiano una crescita complessiva in cui le caratteristiche della nuova economia sono rafforzate dalla tendenza alla globalizzazione. In alcune dichiarazioni, rilasciate da Greenspan nei primi mesi del 1997,8 il presidente della Fed aveva sostenuto che i dati ufficiali relativi alla crescita annuale della produttività del lavoro, che secondo il Bureau of Labor Statistics dal 1973 non aveva superato l’1 per cento (il tasso sarà «aggiornato» al 2,5 per cento nel novembre dello stesso anno), in realtà sono fuorvianti perché non riflettono la reale portata della rivoluzione tecnologica. Costruiti per misurare i rendimenti di una economia industriale ormai alle nostre spalle, questi dati non riflettono più l’aumento della ricchezza nella «economia dell’informazione». Per il presidente della Fed bisognerebbe calcolare la produttività del lavoro senza più includere i settori in cui la produttività diminuisce perché non ancora ristrutturati secondo i nuovi paradigmi tecnologico :organizzativi. Così facendo, ci si accorgerebbe che i tassi di produttività sono molto superiori ai tassi che normalmente vengono utilizzati per valutare la portata effettiva degli aumenti dei titoli azionari. Ci si accorgerebbe, in altre parole, che i profitti delle imprese che hanno titoli quotati in borsa sono realistici perché frutto dell’aumento della capacità produttiva delle imprese. In queste sue esternazioni Greenspan non considerava le borse in balìa di una qualche «irrational exuberance», la qual cosa gli fu rimproverata più di una volta dai critici della sua politica monetaria, soprattutto quando in ottobre il presidente della Fed cercò di frenare gli entusiasmi rinnegando alcune delle sue precedenti affermazioni.9 E comunque la prima volta che la massima autorità monetaria, oltretutto nella persona di Greenspan che non ha mai nascosto il suo credo monetarista ortodosso, ha

riconosciuto pubblicamente che qualcosa di veramente decisivo è accaduto nell’economia. Questo qualcosa sarebbe la disinflazione come effetto dell’aumento spettacolare della produttività del lavoro. Il che non risolve la questione del pericolo di un ritorno dell’inflazione in conseguenza dell’aumento dell’occupazione oltre un determinato livello. L’aumento della produttività ha però permesso di abbassare, a livelli inimmaginabili soltanto una decina di anni fa, il cosiddetto «tasso naturale di disoccupazione», il tasso al di sotto del quale scatta il pericolo inflazionistico. La cosa interessante è che le autorità monetarie americane incominciano a convincersi realmente dell’importanza degli aumenti della produttività dopo un periodo in cui avevano continuato a ragionare «come se» il pericolo d’inflazione fosse dietro l’angolo. Greenspan ha addirittura ammesso che, molto probabilmente, il crack borsistico dell’ottobre del 1987 sia stato causato da un suo errore di valutazione circa i reali rischi di inflazione. La paura dell’inflazione, l’ostilità all’idea che l’economia dell’informazione possa eliminare alla radice quello spettro che nel corso degli anni ’70 aveva destabilizzato l’economia, è quindi la cornice entro cui il sistema economico si è ristrutturato in modo da permettere alla crescita economica di non essere più inflazionistica. La sopravvivenza del linguaggio monetaria ha così contribuito a promuovere la riarticolazione più profonda della società dai tempi della prima rivoluzione industriale. Ci vogliono degli scossoni perché persone cresciute e formate in un contesto inflazionistico si convincano che è giunto il momento di cambiare abito mentale, che si è entrati a pieno titolo in un’epoca di disinflazione, di inflazione tendente allo zero. Un analista dei mercati finanziari, Roger Bootle, ancora nel 1996 scriveva: «L’aggiustamento alla bassa inflazione sarebbe più rapido (e forse meno costoso) se si trovasse un mezzo per “scuotere” le aspettative. Il mezzo

probabilmente c’è, e a mio parere avrà i connotati di un periodo di caduta dei prezzi nei paesi occidentali. In parte questo è già avvenuto in Giappone, ma pochi vi hanno fatto caso, perché tutti pensano che il Giappone faccia storia a sé. Se i prezzi cominciassero a calare negli Stati Uniti, la psicologia dei mercati ne risentirebbe certamente. Si tratterebbe di un evento determinante, che farebbe abbandonare le aspettative tradizionali e costringerebbe a elaborarne di nuove».10 Dato che negli Stati Uniti i prezzi hanno cominciato a calare da diversi anni, è lecito chiedersi se questo «scossone», questa modificazione della «psicologia dei mercati» che la Fed ha sicuramente provocato con le sue decisioni di non aumentare, se non marginalmente, i tassi di interesse a breve nel corso del 1997, sia da ricercarsi nella caduta dei prezzi, come dice Bootle, o in qualcos’altro. Per Greenspan, si tratta della rivoluzione della produttività del lavoro. Ma ci sono voluti alcuni anni - durante i quali i prezzi stavano già diminuendo, senza peraltro riuscire a rimuovere dai mercati la paura dell’inflazione - prima che la rivoluzione della produttività lo convincesse a resistere alle pressioni verso l’alto dei tassi di interesse. Va comunque ricordato che la Fed nel 1993 aveva inaugurato una politica monetaria per cui i tassi a breve equivalevano a zero: essendo l’inflazione al 3 per cento, i tassi furono in quell’anno portati al 3 per cento, e se l’inflazione fosse stata vicina allo zero anche i tassi a breve si sarebbero probabilmente avvicinati allo zero. Di per sé questo avrebbe dovuto convincere tutti della fine dell’inflazione, così che i tassi di interesse reali sarebbero potuti scendere a livelli ancora più bassi. Uno dei principali benefici della disinflazione, infatti, è il calo dei tassi d’interesse che, come minimo, dovrebbe corrispondere al calo dell’inflazione, permettendo a chi è indebitato di ridurre l’onere del ripagamento. La. qual cosa non è affatto evidente dato che il calo dei tassi reali dipende, tra l’altro, dalle ipotesi in base alle qua1i i mercati

prevedono il futuro andamento del livello generale dei prezzi. 11 «Se l’inflazione scomparisse e i mercati non credessero a questo fatto, resteremmo inchiodati a tassi d’interesse che in termini reali saranno più alti di prima. Questo non solo annulla i benefici .derivanti dalla fine dell’inflazione, ma potrebbe provocare un disastro economico».12 Perché, dunque, il crack del 1997 è stato preceduto da un aumento dei tassi di interesse europei e canadesi, oltretutto dopo che Greenspan aveva esternato la sua «filosofia» sul nuovo paradigma economico? La risposta, come dimostrato pochi giorni dopo, risiede nei rendimenti delle economie dei paesi asiatici. Nel corso del ’97 i mercati dei titoli asiatici hanno rendimenti troppo elevati rispetto a quelli dei paesi europei e degli stessi Stati Uniti. I fondi azionari tendono così a spostarsi verso questi mercati, costringendo i mercati occidentali ad elevare il loro rendimento, incluso il rendimento dei Buoni del Tesoro. Il «tiro alla fune» tra rendimenti reali elevati, ma rischiosi, dei mercati asiatici e bassi tassi a breve dei mercati occidentali (determinati dalla bassa inflazione) doveva essere interrotto mettendo in ginocchio i mercati asiatici nel loro insieme. Le autorità monetarie occidentali non potevano permettersi che i benefici della disinflazione sui propri tassi di interesse, la possibilità di ridurre i debiti (quelli pubblici in particolare) abbassando i tassi di interesse reali, fossero compromessi da paesi i cui tassi di redditività crescevano oltre le capacità di controllo da parte della finanza occidentale.13 La crisi dei paesi asiatici ha permesso all’Occidente di ristabilire il controllo su una regione che, se da una parte ha attirato capitali dall’estero da investire prevalentemente nel settore manifatturiero, dall’altra ha impedito ai Fondi pensione e d’investimento occidentali, che nell’area asiatica avevano investito più del 25 per cento, di operare liberamente sul posto.14 Nella maggior parte dei paesi asiatici colpiti dalla crisi erano i governi locali che controllavano i fondi pensionistici e

decidevano come investirli.15 Nella ricostruzione degli eventi che hanno portato alla crisi asiatica, tra le misure prese dal primo ministro malese Mahathir Mohamad nel mese di settembre, quella di utilizzare i fondi pensione pubblici per aumentare il valore delle azioni con l’acquisto di titoli malesi, ma non di titoli stranieri, rappresenta il punto di rottura di un rapporto sempre più fragile tra investitori internazionali e paesi asiatici. 16 Nel corso del 1996-97, per compensare il calo della produttività del lavoro malese, il governo aveva incoraggiato con tutti i mezzi gli investimenti esteri nel suo paese, al punto che la parte degli investimenti rispetto al PIL aveva raggiunto il 43 per cento, la percentuale più elevata della regione asiatica. Ma ciò che ha veramente acceso la miccia della crisi asiatica è stato il divieto da parte delle autorità locali di permettere anche agli stranieri di beneficiare dell’investimento dei fondi pensionistici del settore pubblico, una misura considerata ad esclusivo beneficio di compagnie di fatto in perdita netta di competitività.17 Il 13 dicembre, a Ginevra, la World Trade Organization, che dal gennaio del 1995 sostituisce il GATT, ha infatti imposto a tutti i paesi emergenti la completa liberalizzazione dei loro mercati nei confronti delle istituzioni finanziarie dei paesi avanzati, dando agli investitori stranieri la possibilità di piazzare sui mercati di questi paesi i risparmi occidentali e, anche, di gestire i risparmi locali (che, ad esempio a Singapore, rappresentano il 40 per cento della busta paga di un operaio).18 Nella primavera del ’97, a Seoul, il movimento di lotta contro i soprusi delle «democrazie incomplete» asiatiche aveva posto la questione di una più giusta distribuzione dei redditi, un obiettivo fondamentale in vista della ristrutturazione del «modello asiatico» incentrato attorno ai chaebol, le conglomerate di potere in cui politici, banchieri, imprenditori si reggono l’un l’altro a furia di ruberie e di repressione dell’opposizione. La crisi dei mercati asiatici ha costretto certamente questi paesi a rivedere alcune «regole» interne di

democrazia, al prezzo comunque di oltre 2 milioni di licenziamenti, della precarizzazione dell’occupazione, dell’aumento dei senza tetto e dell’espulsione di migliaia di lavoratori stranieri illegali.19 Per i paesi occidentali il risultato finale di questa crisi è stato quello di liberalizzare i mercati emergenti, ciò che assicura ai Fondi e alle assicurazioni occidentali una libertà di movimento assoluta.20 Che la crisi sia stata in qualche modo «provocata» o che sia stata l’esito naturale, preceduto dal tipico overtrading, borsistico, di una crescita eccessiva rispetto alle capacità finanziarie dei paesi asiatici, è in definitiva un problema secondario. Il fatto è che, tre mesi prima del crack, nel Rapporto annuale del Fondo monetario internazionale (FMI) si poteva leggere a proposito dell’andamento delle economie coreana e tailandese nel 1996: «Gli amministratori hanno accolto favorevolmente gli impressionanti e costanti risultati macroeconomici e hanno lodato le autorità per la loro invidiabile fedina fiscale». Un’osservazione non particolarmente preveggente, di cui Michel Camdessus, il presidente del FMI, farà certamente tesoro per rivedere alcuni problemi di comunicazione interna tra i vertici e il «piccolo» gruppo di 1000 economisti che costituiscono lo staff del Fondo. La lungimiranza del Fondo è d’altronde confermata dalla scelta di tenere a Hong Kong il meeting annuale del FMI e della Banca mondiale per celebrare, un mese prima dell’esplosione della crisi, i successi economici del Sud-Est asiatico.21 Il discredito dei modelli econometrici del FMI è d’altronde dimostrato dal fatto che l’annuncio delle misure di stabilizzazione come condizione per ricevere massicci aiuti finanziari non hanno convinto nessuno, al punto che le svalutazioni delle monete asiatiche non si sono interrotte all’annuncio dell’intervento del Fondo. Si tratta infatti di misure macroeconomiche, come l’obbligo del pareggio (Thailandia) o addirittura di un surplus del bilancio pubblico

(Indonesia), che peggiorano la recessione quando il problema prioritario è la riforma del sistema finanziario e del settore bancario privato. Le «guerre del pane» e la repressione militare sono il risvolto concreto, più volte sperimentato dai paesi latinoamericani, di un approccio schematico e tragicamente inadeguato del FMI ai problemi di «aggiustamento strutturale» delle economie in crisi. Che il regime repressivo di Suharto sia indifendibile nel suo tentativo di resistere alle misure imposte dal Fondo per riacquistare credibilità sui mercati globali non muta la sostanza delle politiche d’intervento del FMI. Durante la crisi si è parlato molto degli effetti deflazionistici indotti dalla svalutazione delle monete di questi paesi e dalla conseguente riduzione delle possibilità di esportazione di beni e servizi occidentali verso questi stessi paesi. 22 Quasi tutte le previsioni di crescita per il ’98 sono state ritoccate verso il basso, polverizzando la mini-ripresa avviata nel corso del ’97. La chiusura dei mercati asiatici, si è detto più volte, comporterà il rischio per le economie europee e americana, che negli anni ’90 hanno potuto beneficiare di questi sbocchi di mercato per assicurare la continuità della produzione interna, di dover comprimere ulteriormente salari e occupazione. Essendosi sviluppati a tassi dell’8-9 per cento l’anno, rispetto ai tassi dell’1-2 per cento europei o del 4 per cento statunitense, i paesi asiatici si troverebbero oggi con una capacità produttiva sproporzionata rispetto alle possibilità di consumo interno. Dato che le loro monete sono state svalutate del 30 o 40 per cento, cercheranno in tutti i modi di esportare la sovrapproduzione nei paesi occidentali. Quindi, niente ripresa o ripresina in Europa, ma solo auto, computer e scarpe da ginnastica asiatiche vendute a prezzi stracciati, con la soddisfazione di veder compromessi anche quei posti di lavoro che negli anni di crescita dei mercati emergenti non erano stati eliminati dalla febbre occidentale del downsizing e della produzione snella.23 Per fondare storicamente questa analisi della crisi e delle sue

conseguenze per i paesi sviluppati, alcuni economisti hanno utilizzato il periodo tra il 1870 e gli ultimi anni del secolo scorso quale esempio di impatto deflazionistico provocato dall’emergenza sulla scena globale di nuove economie. In 30 anni i paesi emergenti di allora, ossia gli Stati Uniti, l’Argentina e l’Australia, causarono una riduzione del 40 per cento dei prezzi delle merci scambiate internazionalmente, trascinando l’Europa in una lunga depressione. Benché «suggestivo», l’esempio storico è però scarsamente utilizzabile, perché in quegli anni il sistema monetario internazionale era a base aurea. Diversamente da oggi, il sistema internazionale basato sull’oro limitava le possibilità monetarie di piegare i paesi emergenti alle direttive del paeseguida, cioè dell’Inghilterra.24 Il gold tandard siglò infatti la fine dell’impero inglese, di certo non la crisi dell’economia americana. Le valutazioni degli effetti della crisi asiatica sulle economie occidentali si basano il più delle volte su un’interpretazione meccanica dei processi in atto.25 Dal punto di vista degli effetti sul commercio internazionale, non si può dire che soltanto i paesi asiatici abbiano investito eccessivamente e quindi si trovino oggi con capacità produttive tali da costringerli a seguire la via del dumping sui mercati occidentali. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno an-ch’essi investito a tassi crescenti: nel 1992 gli investimenti rappresentavano il 9 per cento del PIL, e sono aumentati al 12 per cento nel 1997. L’aumento degli investimenti è dovuto alla natura dei nuovi beni strumentali che hanno un ciclo di vita inferiore a quello dei beni strumentali dell’epoca fordista. Di conseguenza bisogna investire di più per mantenere lo stesso stock di capitale. In Asia, i tassi di crescita non sono stati particolarmente più elevati di quelli dei paesi avanzati, perché gli investimenti erano tecnologicamente meno produttivi. Ciò che ha spinto verso l’alto i rendimenti dei titoli è stata soprattutto la forte mobilitazione del risparmio interno. 26 Come ha scritto l’economista Paul Krugman, il modello

asiatico si è basato più sulla «traspirazione che sull’ispirazione».27 Nei paesi asiatici gli investimenti produttivi «in eccesso» sono il riflesso di una sopravvalutazione delle loro monete che, essendo ancorate al dollaro americano, durante la prima metà degli anni ’90 ha favorito soprattutto le importazioni dall’Occidente. La svalutazione, grazie all’aumento delle esportazioni, dovrebbe permettere a queste economie di continuare a crescere a tassi compatibili con i bisogni di ristrutturazione produttiva interna. Come dire che, se i beni asiatici costano di meno a causa della svalutazione, per i paesi occidentali l’impatto deflazionistico sarà in parte compensato dalla ristrutturazione dei processi produttivi all’interno di questi stessi paesi.28 La svalutazione, ad esempio, rende più .care le materie prime importate con le quali gli asiatici producono i beni per l’esportazione. L’aumento del costo del finanziamento delle attività commerciali e l’arretratezza delle infrastrutture per la fornitura locale riducono le esportazioni verso l’Occidente. 29 In ultima analisi la durata della crisi asiatica e i rischi di diffusione dell’instabilità monetaria al resto del mondo dipenderanno dal tempo che ci vorrà per lo smantellamento del modello asiatico e dei regimi politici che ne hanno garantito lo sviluppo.30 Per quanto differente, ciò che è accaduto al Messico dopo la crisi del dicembre 1994 permette di intravedere quale potrebbe essere lo sviluppo futuro dei paesi asiatici. In termini reali, l’economia messicana è oggi più ampia di prima della crisi del ’94, e il milione di posti di lavoro eliminati nel ’95 sono stati più che recuperati. Nel 1997 il tasso di crescita del PIL è stato del 7 per cento e nel corso dell’anno, stando alle statistiche ufficiali, sono stati creati 800000 nuovi posti di lavoro. Dopo essere diminuiti della metà, i salari reali sono in ripresa, come pure il consumo interno. La svalutazione del peso, che aveva dimezzato il valore in dollari dei beni d’esportazione, ha aumentato la dipendenza del Messico dal mercato statunitense

(l’85 per cento delle esportazioni messicane sono verso gli USA). La ripresa delle esportazioni è stata realizzata senza espansione del credito internala causa degli alti tassi di interesse, mentre la privatizzazione del sistema bancario ha fortemente delegittimato il governo di Zedillo che ha compensato solo in parte gli azionisti. La globalizzazione finanziaria del Messico ha portato le banche europee e nordamericane a detenere il 17 per cento degli attivi bancari, e il dinamismo di questo settore sta gradualmente smontando i chaebol bancari messicani. L’instaurazione di un regime di cambi flessibili sembra aver facilitato il superamento delle precedenti svalutazioni violente del peso. Il dato che, forse più di ogni altro, permette di cogliere il segno della crisitrasformazione dell’economia messicana è il passaggio di 10 milioni di lavoratori ai Fondi pensione privati sulla falsariga di quanto è accaduto in Cile sin dai primi anni ’80. L’aumento della povertà degli esclusi dal sistema pensionistico privato, specialmente in regioni rurali come il Chiapas, è una delle cause della repressione militare di Zedillo. La dinamica della crisi dei paesi asiatici è infatti simile alla crisi che investì il Cile nel 1982. Diversamente dalla maggior parte dei paesi latino americani, il Cile entrò in crisi a causa dell’indebitamento verso l’estero causato dal settore privato, in particolare da conglomerati (i groupos) centrati su istituzioni finanziarie che avevano contratto debiti a breve (due terzi del totale) non garantiti dal governo. Esattamente come è accaduto in Asia negli anni ’90, un tasso di cambio elevato e la facilità con cui i capitali esteri affluivano nel settore privato cileno causarono soprattutto l’aumento dei prezzi di beni immobiliari. Nel 1981 i prezzi dei terreni urbani erano nove volte superiori ai prezzi del 1970. Entro il 1986 il governo estese la sua garanzia a tre quarti del debito estero delle banche private, un’operazione che costò al popolo cileno il 20 per cento del Prodotto interno lordo. Rispetto alla crisi messicana che nel ’95 comportò una contrazione del 6 per cento del PIL, quella cilena

fu decisamente più grave: nel 1982 il PIL cileno si contrasse del 14 per cento.31 Con la crisi asiatica, il «dilemma della Fed», ossia la scelta tra tener bassi i tassi di interesse per evitare che le svalutazioni delle monete asiatiche possano aggravare l’impatto deflazionistico, oppure aumentare i tassi per raffreddare l’economia interna, non sembra risolvibile sulla base di analisi commerciali e monetariste tradizionali. Non sono i bassi tassi di interesse che permettono di evitare la deflazione, perché questa dipende da processi strutturali che riguardano i nuovi modi di produrre. Negli ultimi anni le riduzioni dei tassi di interesse non hanno impedito ai prezzi di continuare a diminuire. Di per sé la politica monetaria sembra impotente di fronte al processo disinflazionistico in atto. La crisi "asiatica ha solo svelalo la tendenza deflazionistica dell’economia globale, certamente non l’ha provocata. Il problema difficile da capire è la vera causa della riduzione generalizzata dei prezzi al di là delle sue interpretazioni tradizionali. Fosse solo per la massa di cittadini americani che hanno investito i propri risparmi in titoli azionari, la politica monetaria della Fed sarà necessariamente «prudenziale». La Fed non può correre il rischio di aumentare i tassi di interesse per raffreddare la sua economia, perché ciò svaluterebbe i risparmi che i cittadini americani hanno investito in titoli per garantirsi la pensione.32 Gli Stati Uniti cercheranno semmai di frenare all’esterno il surriscaldamento dei mercati.33 In fin dei conti vale ancora la vecchia regola secondo cui gli Stati Uniti risolvono all’esterno ciò che non riescono a gestire al loro interno.34 L’Europa monetaria non potrà dimenticare quanto accaduto ai paesi del Sud-Est asiatico. Occorre fare un’ultima premessa a proposito delle variazioni del livello generale dei prezzi e delle sue tendenze, verso l’alto o verso il basso. In questi casi, è sempre importante precisare di cosa si parla in termini storici. «I salari inseguono i prezzi, i prezzi inseguono i salari, e entrambi inseguono la propria storia passata», scriveva Clyde Farnsworth nel 1977. La domanda è

se il fenomeno della disinflazione che caratterizza questo periodo si iscrive in quella che gli storici dei prezzi chiamano onda lunga, oppure se abbiamo a che fare con un «normale» fenomeno ciclico. Le differenze tra onde lunghe e onde corte o cicliche non possono lasciare indifferenti, anche se l’estrema vicinanza dei processi che si vogliono analizzare rende azzardato qualsiasi giudizio definitivo. Il punto, però, è un altro. La storia dei prezzi - che dal profilo statistico, grazie agli indici dei prezzi di beni di consumo compilati da Henry Phelps-Brown e Sheila Hopkins, «inizia» nel 1264 – conosce quattro onde lunghe intercalate da periodi più brevi. Tutte e quattro le onde lunghe (medievale, del XV secolo, del XVIII e del XX secolo) sono caratterizzate da processi inflazionistici di lunga durata. I periodi tra le quattro onde inflazionistiche sono invece periodi di caduta dei prezzi, o di fluttuazione verso il basso, relativamente brevi. L’analisi storica del capitalismo, in particolare dopo i lavori di Fernand Braudel, ha di fatto privilegiato le onde lunghe, vale a dire i periodi di crescita inflazionistica, rispetto ai periodi più brevi caratterizzati da processi ciclici di disinflazione.35 E soprattutto all’interno delle onde lunghe, infatti, che sono stati messi in evidenza i cambiamenti qualitativi più importanti dell’economia di mercato, quelli che «hanno fatto epoca». Oggi si dispone di un numero elevato di spiegazioni delle cause dei movimenti dei prezzi (monetarista, malthusiana, marxista, neoclassica, agraria, ambientalista e storicistica), ma quasi tutti gli approcci teorici si sono affinati per svelare le cause della dinamica inflazionistica ed eventualmente i suoi effetti sociali, come l’aumento della violenza, la caduta del tasso di natalità, l’alcolismo. La disinflazione e la deflazione sono stati studiati più che altro come fenomeni storici di transizione da un’onda lunga all’altra, quasi fossero dei periodi di tregua o di assestamento in vista di un decollo verso nuovi capitalismi.

Ancora di recente la disinflazione di questo decennio è stata interpretata dallo storico dei prezzi David Fischer come conseguenza delle politiche anti-inflazionistiche adottate dalle autorità monetarie a partire dal 1989, politiche concordate sul piano internazionale per bloccare l’aumento dei prezzi di produzione.36 L’aumento dei tassi di interesse, così sostiene Fischer, ha avuto come effetto significativo «solo» quello di frenare una crescita eccessiva, ad esempio del settore immobiliare, ma i prezzi hanno continuato a crescere a tassi superiori agli aumenti salariali. L’aumento della disoccupazione rappresenterebbe il costo sociale delle politiche anti-inflazionistiche perseguite dalle banche centrali. In altre parole, il calo dei prezzi sarebbe da attribuirsi essenzialmente alla recessione del 1990-91, una recessione che, se ha ridistribuito la ricchezza a favore dei più ricchi, non ha però estirpato durevolmente l’inflazione. La ripresa economica americana del 1992, quella successiva dei paesi europei, sarebbero quindi del tutto simili alle ultime fasi di tutte le precedenti rivoluzioni dei prezzi, all’ultimo stadio di un lungo periodo di aumento strutturale degli stessi. L’incomprensione della disinflazione come fenomeno nuovo e duraturo ha origine nella carenza degli strumenti teorici interpretativi. Una debolezza che ci sembra di riscontrare anche nei più recenti tentativi marxisti di analisi della odierna fase di rinascita del capitalismo finanziario (del «rigoglio finanziario») che si ispirano all’opera di Fernand Braudel o alla teoria del crollo del Capitalismo-casinò.37 In realtà, la ripresa della crescita economica, prima negli Stati Uniti, poi in Europa, non ha alcuna caratteristica comune con le riprese precedenti. La differenza fondamentale risiede appunto nelle caratteristiche strutturali della odierna crescita disinflattiva, nella trasformazione del modo di produrre all’interno di un contesto di globalizzazione dei mercati finanziari. E pur vero che lo sfasamento tra l’economia americana e le economie europee e giapponese può spiegare il perché della

bassa inflazione sul piano mondiale. Sarebbe infatti una sciocchezza attribuire alla sola intelligenza di Alan Greenspan il merito d’aver facilitato la crescita economica riducendo l’inflazione al tasso ufficiale (comunque sovrastimato) del 2,6 per cento nel 1997. Se fosse così, al «genio» di Greenspan bisognerebbe onestamente contrapporre le virtù di Antonio Fazio, il governatore della Banca d’Italia, dato che tra il 1991 e il ’97 l’inflazione italiana è scesa ad un tasso inferiore all’1,9 per cento. Secondo alcuni ciò significa che il vero test della «fine dell’inflazione» lo si avrà solo nel momento in cui anche le economie europee e giapponese conosceranno tassi di crescita paragonabili a quelli statunitensi, solo quando le economie dei tre blocchi saranno di fatto sincronizzate. Si può comunque sostenere che le economie europee, per quanto diverse da quella statunitense sotto il profilo delle dinamiche storiche del mercato del lavoro e dello Stato sociale, hanno svelato la loro natura disinflattiva nel momento in cui hanno dato i primi segnali di ripresa. E la ripresa, per lenta e sfasata che sia, all’origine della riduzione manifesta del livello generale dei prezzi, non il contrario. Il che non dovrebbe rappresentare alcun mistero particolare in un contesto economico in cui, in ogni caso, la competitività internazionale impedisce di aumentare i prezzi per aumentare i margini di profitto, e in cui la globalizzazione dei mercati finanziari rende difficile agli Stati-nazione aumentare i tassi di interesse lui Buoni del Tesoro per coprire i disavanzi attirando risparmio. Si tratta piuttosto di capire se la ripresa della crescita europea a tassi più vicini a quelli statunitensi riuscirà o no ad assorbire una disoccupazione ancora superiore a quella americana. E bisogna ancora chiarire se il riassorbimento della disoccupazione europea presuppone necessariamente una flessibilizzazione del mercato del lavoro sulla falsariga di quella americana, ciò che non sembra suffragato dagli studi più recenti.38 In un’economia globale, la sincronizzazione dei tassi di

crescita non solo è compatibile con la diversità quantitativa della crescita in Europa, USA e Giappone, ma anche con la diversità qualitativa, storicamente determinata, dei tre modelli. La caratteristica fondamentale della globalizzazione consiste nella titolarizzazione degli scorie nazionali di capitale alle borse di tutta il mondo dove, a fronte di un processo di graduale aumento dell’offerta di titoli, circolano masse enormi di risparmio.39 La qualità dei titoli emessi si riferisce alla produttività economica delle imprese o degli Stati che «si quotano» sul piano globale. In questo senso è certo che i paradigmi tecnologico-produttivi del post-fordismo finiranno per imporsi su scala mondiale, esattamente come è stato per il taylorismo e il fordismo. Ma a livello locale o regionale ci sarà spazio per modalità e principi diversi di ridistribuzione della ricchezza prodotta. Sarà probabilmente questa diversità ad assicurare una crescita dinamica relativamente equilibrata. Checché se ne dica, sono le imperfezioni del mercato che ne assicura la crescita. La globalizzazione «disassembla» i modelli più antichi di convivenza e di mentalità, ma quelli più recenti si sedimentano a ritmi più lenti. «L’assunzione di abitudini o di idee di origine straniera - ha scritto il filosofo Remo Bodei - non incide molto sulle strutture profonde dell’identità, almeno per l’immediato. Il fatto che un giapponese beva la Coca-Cola non lo rende in effetti più americano di quanto un americano diventi giapponese mangiando il sushi».40 L’economista americano Herbert Stein, dopo un semestre di servizio nell’amministrazione a Washington, ricordava con un po’ di nostalgia come, un giorno dell’anno 1979, «ci svegliammo per scoprire che stavamo vivendo nel lungo periodo, e che avremmo sofferto per la nostra incapacità di gestirlo». Non tutti vivono il presente storicamente, anche perché a volte ciò comporta costi personali elevati. Sta di fatto che quell’anno fu l’inizio di un’onda lunga di trasformazioni, e benché non sappiamo con certezza quanto lunga sarà questa

fase, sappiamo però che con la disinflazione e i suoi effetti sociali e politici dobbiamo in qualche modo imparare a convivere. Sappiamo soprattutto che dobbiamo imparare a conoscerla.

2. 1979

A Wall Street l’annuncio della svolta monetaria del nuovo presidente della Fed Paul Volker, il 6 ottobre del 1979, è ricordato ancora oggi come il Saturday Night Disaster. Sappiamo che nel fissare la data di un passaggio d’epoca c’è sempre qualcosa di arbitrario, ma in più di un senso il 1979 è paragonabile al 1770, l’anno che la maggior parte degli storici concorda nel considerare simbolicamente come l’inizio della prima rivoluzione industriale in Inghilterra. In entrambi i casi il decollo non si produsse bruscamente, dato che fu preparato da lunghi periodi di lente trasformazioni e neppure si impose in maniera egemonica sull’insieme dell’area geopolitica ed economica che in seguito subirà il medesimo cambiamento strutturale. In entrambi i casi la scossa che fece vacillare uno dopo l’altro equilibri sociali e culturali ancestrali scaturì dal settore monetario-finanziario, un settore che, per quanto molto dinamico e in espansione, era ancora limitato e periferico rispetto al resto del sistema economico. In entrambi i casi, la dinamica economica innescata da questo settore non cesserà di scontrarsi con l’immobilità e la resistenza dell’insieme della società. Le utopie dei contemporanei nasceranno appunto da questo «non più, non ancora». Con Volker la politica monetaria della Fed sigla la rottura definitiva con la tradizione dello Stato sociale e con il

paradigma fordista sviluppatosi prima negli Stati Uniti, con il New Deal di Roosevelt degli anni ’30, poi su scala internazionale con il sistema monetario di Bretton Woods. La Fed dà in quell’anno il suo avallo alla teoria di Milton Friedman, l’economista considerato fino ad allora un simpatico eccentrico di destra. Da tempo il professore dell’Università di Chicago sosteneva che l’inflazione degli anni ’70 andava capita per quello che era, ossia un «fenomeno puramente monetario». Per sradicarla bisognava agire sull’offerta di moneta, riducendola senza badare agli effetti sui tassi di interesse. Durante tutto il periodo postbellico le autorità monetarie avevano sempre cercato di agire sui tassi di interesse per evitare che un loro aumento rallentasse la crescita economica e occupazionale. Sul finire degli anni ’70 la politica monetaria inflazionistica non riusciva però più a garantire il pieno impiego e a rivitalizzare tassi di crescita stagnanti. Occorreva quindi agire con decisione sulla massa monetaria. L’effetto di questo cambiamento di dottrina nella politica della Fed fu immediato: i tassi di interesse salirono di colpo al 20 per cento. Con grande sorpresa di Volker e dei suoi colleghi friedmaniani l’inflazione restò elevata per più di un anno ancora, costringendo il presidente Carter ad annunciare alla nazione una nuova legge finanziaria e un programma economico che comprendeva ulteriori controlli sul credito e una nuova stretta monetaria. Dopo l’ottobre del ’79, sulla scia della crisi degli ostaggi iraniana e dell’invasione sovietica dell’Afganistan, il dollaro non aveva smesso di subire la crisi di fiducia internazionale, crisi che si era manifestata inequivocabilmente nel mese di gennaio del 1980 con la svendita di dollari per acquistare oro. Business Week aveva affermato che erano stati «i timori degli arabi a proposito dell’Afganistan e dell’Iran a sostenere il rialzo dei prezzi». E così che nella primavera del 1981, con un discorso televisivo, il presidente Carter esortò i cittadini a ridurre le spese per placare

l’inflazione, cosa che gli americani fecero immediatamente. Molti tagliarono a pezzi le carte di credito e le spedirono alla Casa Bianca. I consumi diminuirono effettivamente, e non poteva essere altrimenti visto che gli aumenti dei tassi di interesse incidevano direttamente sui debiti delle famiglie americane, riducendone il reddito disponibile. Per prevenire un tracollo economico generale causato dalla riduzione massiccia del consumo, la Fed si vide così costretta a invertire subito la rotta, e in tre mesi abbassò i tassi di interesse dal 20 all’8 per cento. Ma al crollo dei tassi di interessi i consumatori statunitensi reagirono immediatamente provocando una nuova esplosione del consumo e dell’inflazione. Di nuovo la Fed si vide costretta a cambiare strategia, portando il prime rate, il tasso sui fondi della Fed, al 21 per cento. I primi passi della nuova politica monetaria rivelarono, per usare le parole dello storico Jules Michelet, «quale immenso e potente consumatore è il popolo, quando ci si mette». Nel corso del xix secolo Michelet aveva potuto toccare con mano la «potenza del popolo consumatore».41 Al crollo del prezzo del cotone nel 1842, il popolo francese aveva reagito con un cambiamento stupefacente della «scheda dei consumi» e delle abitudini estetiche. «I prezzi calavano, invano; nuove riduzioni, fino al momento in cui il cotone scese a sei soldi... A quel punto successe qualcosa di inatteso. Quella parola sei soldi, fu un risveglio. Milioni di compratori, di povera gente che non aveva mai potuto comperare, si misero in moto». Il prezzo di sei soldi della tela indiana rappresentava la soglia monetaria di una rivoluzione psicologica di immensa portata. A quel prezzo le donne parigine, che fino ad allora avevano indossato abiti blu o neri non lavati da anni per paura di ridurli in brandelli, potevano permettersi di comprare nuovi vestiti e popolare i boulevards della metropoli con mille colori. «Oggi, suo marito, povero operaio, al prezzo di una giornata di lavoro, la copre d’un vestito di fiori». A quel prezzo il popolo poteva uscire dal lutto di un lavoro

materiale senza dignità, senza «égalité visible», senza estetica, senza etica. Chi indossa abiti così belli, osservava Michelet, «vuole esserne degno, e si sforza di rispondervi con la sua rettitudine morale». La rivoluzione del prezzo del cotone, a suo modo, aveva preparato la rivoluzione del 1848, aveva trasformato la coscienza di quel «popolo di uomini-macchina che vivono a metà, che producono cose meravigliose, e che non riproducono se stessi», la coscienza di quel popolo fino allora costretto dal salario reale a non generare che la propria morte. Da quel momento in poi il consumismo operaio sarà l’espressione del rifiuto del lavoro umiliante, del rumore delle macchine «al quale non ci si abitua mai» perché mai ci si abitua a non poter sognare. I colori degli abiti delle donne saranno come le parole con cui i lavoratori si riappropriano rumorosamente del linguaggio, sulla strada, la sera, all’uscita dalla manifattura, dopo il lavoro. I colori e le parole ritornano, alla fine del circuito produttivo, a ricomporre una collettività ridotta al silenzio durante il processo lavorativo da giganti d’acciaio in grado di trasformare mucchi di stracci in tessuti belli quanto «le più belle sete di Verona». La trama dei tessuti, la vista dei colori, il suono delle parole, il movimento dei corpi lungo i boulevards, riproducevano materialmente la «comunità di coloro che non hanno più comunità». Il popolo consumatore, con cui nell’ottobre del 1979 le autorità monetarie americane stavano facendo i conti, era il «popolo fordista» cresciuto negli anni della produzione e del consumo di massa. La rigidità verso il basso del salario si rivelava nella estrema sensibilità ad ogni variazione del costo del denaro. Nel consumo a credito, facilitato dalla diffusione delle carte di credito durante la seconda metà degli anni ’70, che avevano portato le famiglie americane ad indebitarsi per una somma due volte superiore all’intero debito del Terzo Mondo, si condensa una storia iniziata nel xix secolo. E di quel periodo l’apparizione delle prime forme di credito che commercianti e venditori ambulanti procuravano alla

popolazione in cammino alla conquista dell’Ovest. «Più avanza la conquista dell’Ovest, più il venditore ambulante rappresenta il cordone ombelicale che lega tutte le terre di frontiera a Chicago, che si specializza in questo commercio di sostegno».42 Il credito al consumo fu una necessità della conquista della frontiera, così come gli aumenti salariali saranno una necessità per la conquista dell’operaio-massa, dopo che le terre libere dell’Ovest furono ridotte anch’esse a merce capitalistica. Nella sua forma moderna, il credito al consumo ha in Chicago la sua capitale simbolica, è figlio del western e della ferrovia. Chicago è il punto di passaggio, una «tappa» per il grande esodo di uomini e donne in fuga dai bassi salari delle fabbriche dell’Est verso le terre libere dell’Ovest. La frontiera, scriverà Marx nel primo Libro del Capitale prendendo spunto dalla «moderna teoria della colonizzazione» di E.G. Wakefield (autore di England and America del 1833), rappresenta per gli immigrati l’occasione per fuggire in massa dal lavoro salariato.43 Negli Stati Uniti «le cose vanno altrimenti. Qui il regime capitalistico s’imbatte dappertutto nell’ostacolo costituito dal produttore che, come proprietario delle proprie condizioni di lavoro, arricchisce col proprio lavoro se stesso e non il capitale». La fuga dal lavoro salariato è resa possibile dalla disponibilità di terre libere. La disponibilità di ricchezza in abbondanza fa sì che i mezzi di produzione e di sussistenza restino tali, senza trasformarsi in capitale, cioè in mezzi per sfruttare e dominare l’operaio. «Dove la terra è molto a buon mercato e tutti gli uomini sono liberi - aveva scritto con stizza Wakefield - dove ognuno può mantenere a suo piacimento per se stesso un pezzo di terra, il lavoro è carissimo, per quanto riguarda la partecipazione operaia al suo prodotto; non solo, ma la difficoltà sta nell’ottenere lavoro combinato, a qualsiasi prezzo». Secondo Marx, quell’imbroglione di Wakefield aveva dimostrato, senza neppure rendersene conto, che il capitale,

terra o strumenti di lavoro che siano, non è una cosa, ma un rapporto sociale tra persone mediato da cose, e, prima ancora, mediato dal denaro. Un rapporto sociale che durante la lunga marcia verso l’Ovest prende la forma di un rapporto di debitocredito. Un rapporto sociale basato sulla violenza, se è vero che le terre dell’Ovest erano state rese libere annientando i loro abitanti originari. Nella seconda metà dell’Ottocento, il credito al consumo si svilupperà negli Stati Uniti in un mercato senza banche né prestatori di denaro, grazie alla sola intermediazione dei venditori ambulanti. Il nesso vitale tra il commercio delle rive del Michigan e la capanna di tronchi, la log cabin del young man going west, sarà l’esodo verso forme di vita più libere, più intelligenti, fuori delle regole dello Stato del lavoro salariato. Questa «gente così stramba», come Marx aveva chiamato gli ex-salariati americani andati a coltivare la terra, a fabbricarsi parte dei mobili e degli utensili, a costruirsi le loro case e a portare il prodotto della loro attività industriale «a qualunque mercato, anche lontanissimo», rappresenta l’anima nascosta che, oggi ancora, è all’origine delle forme più innovative e spregiudicate di credito al consumo. All’apice del fordismo degli anni ’70, dopo che la mercificazione di tutte le forme di produzione e di consumo era culminata nel Welfare State, il «popolo consumatore» reagirà agli aumenti dei tassi di interesse voluti dalla Fed come gli immigrati avevano reagito ai bassi salari, cioè fuggendo da quella disciplina moderna che è la costrizione monetaria, costringendo il capitale monetario ad un lungo inseguimento, imponendogli di ristrutturarsi a partire dalle oscillazioni della domanda. Il deficit spending, che John Maynard Keynes teorizzerà per permettere allo Stato di uscire dalla depressione degli anni ’30 ampliando la domanda effettiva, rappresenterà il prolungamento di quelle prime esperienze di credito al consumo che avevano permesso la conquista del West. Il fatto che malgrado lo sviluppo del Welfare State il credito bancario privato non cesserà di rappresentare una leva aggiuntiva della

domanda regolata dallo Stato, dimostra quanto forte sia rimasta la voglia di fuggire dalle costrizioni statali. Lungo tutto questo arco di tempo, dalla metà dell’Ottocento alla fine degli anni ’70, il ripagamento del debito trasformerà il credito al consumo e lo stesso deficit spending keynesiano in un veicolo potentissimo di estensione della forma capitalistica di produzione e riproduzione. La natura di «ponte sul futuro», il carattere fiduciario e quel tratto di aleatorietà impliciti in ogni forma di «pagherò» («vi devo», I Owe You, IOU, come dicono gli americani), in altre parole il rischio di perdita di controllo sull’inflazione dei prezzi che sta in agguato dietro la creazione di denaro in aggiunta a quello circolante, tutto ciò verrà regolato da norme di controllo sempre più sofisticate. La storiografia operaista e, più tardi, quella «regolazionista», di solito citano a questo riguardo gli Economats, i magazzini interni alle imprese dove gli operai si alimentavano con i «buoni acquisto» emessi dalle imprese per vendere agli operai le merci prodotte da loro stessi. Tra il 1800 e la guerra di Secessione, la pratica del piccolo credito, con semplici annotazioni su quaderni, non smette di svilupparsi e diversificarsi, estendendosi alla maggior parte dei negozi di beni di prima necessità. Nelle grandi città, dove gli operai sono pagati ogni trimestre o ogni mese, i datori di lavoro concedono normalmente questo tipo di credito. Saranno però le industrie automobilistiche della Ford, della Citroen, della Peugeot, a rendere del tutto evidente con i loro credit-bureaus il nesso tra norme di produzione e norme di consumo, il legame di reciproca funzionalità tra una produzione in via di standardizzazione e la corrispettiva massificazione del consumo, quel rapporto dinamico che solo l’aumento del potere d’acquisto operaio assicurava.44 Dai «buoni acquisto» al deficit spending keynesiano, dal micro al macro, il passo non sarà breve, ma sarà inevitabile per trasformare il fordismo da modello di impresa a modello di società. Questo nesso tra produzione e consumo diventa però più

chiaro e preciso se si ricorda che nel 1850 la Singer Sewing Machine Company comincia a vendere a rate le sue macchine da cucire.45 Dopo il 1850, la formula della Singer conquista il commercio di beni durevoli industriali: si vendono a rate i libri, i pianoforti e altri strumenti musicali. Il sistema della vendita rateale, definito con l’espressione anglosassone hire-purchase (che all’inizio era uno slogan pubblicitario della Singer), riunisce infatti le condizioni di sicurezza richieste per questo tipo di transazioni perché prende l’articolo acquistato come garanzia del credito. Con termini di rimborso brevi e con un versamento elevato, soprattutto con l’inclusione nel prezzo di vendita di un tasso di interesse che permette di eludere le leggi sull’usura importate dall’Inghilterra, il sistema hire-purchase si estenderà dalle macchine da cucire a tutta la gamma dei beni di consumo funzionali alla riproduzione dell’economia domestica. Che sia la vendita di macchine da cucire ad ispirare le prime forme razionali di credito al consumo non può passare inosservato. La macchina da cucire è un bene strumentale che permette di potenziare tecnologicamente il lavoro domestico femminile. Soprattutto, si tratta di uno strumento che contribuisce a diminuire i costi di riproduzione della forzalavoro, nel senso che riduce quella parte di salario che altrimenti sarebbe da destinare all’acquisto di nuovi indumenti. La vendita rateale a credito, prima ancora di porre le basi di un vasto mercato per la produzione di massa, veicola all’interno della famiglia il principio dell’economia di scala che in seguito si generalizzerà nella produzione fordista con la catena di montaggio. La divisione del lavoro, che l’ingegner Taylor porterà ai suoi massimi livelli con l’applicazione del principio del «one best way», presuppone una precisa divisione sessuale del lavoro riproduttivo. Per le sue stesse modalità di funzionamento, la vendita rateale frazionata nel tempo è simmetrica ad un modo di produzione frazionato nello spazio. Il tempo pubblico della produzione taylorista struttura il tempo

privato della vita familiare. L’entrata della macchina da cucire nello spazio familiare privato distrugge lo spazio pubblico di quei collettivi femminili che in America si costituivano attorno al cucito. Parlando dei tessuti e dei modi di produrli, Deleuze e Guattari 46 ricordavano come Platone avesse visto nell’arte della tessitura il paradigma della «scienza sovrana», dell’arte di governare gli uomini. In America i collettivi femminili che si costituivano per la produzione di patchwork, erano veri e propri «quilting parties», momenti di cooperazione informali e ludici, durante i quali le donne parlavano cucendo, assemblando pezzi di stoffa, colori, materiali diversi, in modi solo apparentemente disordinati. Il patchwork è uno spazio amorfo, informale, un luogo in cui si produce comunicando e si comunica producendo, uno spazio temporale in cui la comunicazione fa tutt’uno con l’atto collettivo del cucire, dando al prodotto finale una forma «pazza», anomala, imprevedibile, del tutto diversa da altre forme di tessitura (come il ricamo) per le quali è invece necessaria un’organizzazione disciplinata e individualista del lavoro. L’estetica del patchwork è quella di un modo di produzione e di un’arte di governare che trae linfa dalla intelligenza collettiva di individui all’interno di uno spazio che oggi chiameremmo «privato sociale». Che all’origine del Quilt e della tecnica del patchwork, alla fine del xvn secolo, ci sia la penuria tessile e, in seguito, a metà del XVII secolo, il successo del cotone indiano, non fa che confermare l’esistenza di una forma nascosta di «credito al consumo», un credito per così dire non monetario, che alla penuria risponde con la cooperazione produttiva, con un modo di produrre a mezzo di comunicazione, in cui l’esercizio del potere dell’uno sull’altro non viola i principi della democrazia discorsiva. Si tratta di un «agire assieme» deterritorializzato, se è vero che il successo del cotone, la cui produzione in Inghilterra con le tecnologie industriali più avanzate ne aveva fatto crollare il prezzo nell’Europa continentale, aveva reso

esteticamente più bella e più allegra la vita delle donne che Michelet aveva incontrato nelle strade di Parigi. Nella forma della vendita rateale il credito al consumo permette di capire come il denaro prestato per l’acquisto di un bene strumentale diventa capitale dal momento in cui attiva un modo di produrre che ha nella divisione (sessuale) del lavoro il suo modo di funzionare. La natura fiduciaria di questo denarocredito, il suo poter essere denaro creato ex nihilo, sulla base di una quantità di denaro non ancora in circolazione, non ancora nelle tasche degli acquirenti (in questo caso della macchina da cucire), poggia su un modo di lavorare che assicura il ripagamento in denaro del capitale e degli interessi grazie alla salarizzazione del lavoro. Che nelle prime forme di credito al consumo vi sia una componente determinante di denaro creato ex nihilo (ciò che autorizza a vedere in esse l’embrione del deficit spending che in futuro garantirà la costruzione del moderno Welfare State come risposta alla crisi del ’29), è dimostrato dalla specificità del bene che è all’origine del sistema della vendita rateale. Ai tempi della Singer la macchina da cucire è già un bene per la cui produzione è necessario un tipo di organizzazione capitalistica del lavoro. E una merce prodotta da lavoratori salariati, prodotta cioè con versamento di denaro-capitale. Il potere d’acquisto per comperare le macchine da cucire è quindi già in circolazione, per cui in teoria potrebbero essere acquistate a credito o dagli operai che le hanno prodotte o da chi lavora in altri settori dove si producono beni di consumo non durevoli, sulla base della sola circolazione del risparmio. Di fatto, la Singer ha davanti a sé uno sbocco di mercato con enormi potenzialità, ma con una domanda effettiva (solvibile) insufficiente. Di per sé la pubblicità non sarebbe bastata a creare il bisogno di comprare il suo prodotto. Bisognava che questo bisogno fosse accompagnato da un’aggiunta di potere d’acquisto, dall’iniezione di un reddito creato oltre la massa dei salari già distribuiti. Il mercato si espanderà assumendo che

chi non è ancora un salariato lo sarà sicuramente domani, così da poter ripagare il debito contratto in precedenza. Negli Stati Uniti sarà la guerra civile del 1861-1865 a siglare definitivamente il passaggio verso l’industrializzazione del settore agro-alimentare, necessaria ad eliminare i margini di autoconsumo che le famiglie operaie custodivano gelosamente accanto al lavoro in fabbrica. Le grandi piantagioni di cotone coltivate da schiavi di colore furono trasformate, dopo la guerra civile, in aziende a mezzadria. Dietro il consumo a credito, dietro l’hire-purchase della Singer, c’è la storia delle donne e dei neri agli albori della rivoluzione fordista. Il decennio 1870-1880 sigla il passaggio dalla prima alla seconda industrializzazione, da una configurazione nordatlantica del mercato mondiale si passa ad un nuovo modello di crescita proiettato sulla produzione taylorizzata e sulla salarizzazione fordista. Negli anni della «Grande depressione» si consuma la crisi irreversibile delle economie dei paesi di prima industrializzazione. In Europa emergono concorrenti nuovi come la Germania e la Svizzera, mentre gli Stati Uniti chiudono il loro mercato, perturbando l’economia internazionale che era venuta consolidandosi prima del 1870. In questa transizione la domanda giuoca un ruolo decisivo nel determinare il passaggio da un modello tecnologico di crescita ad uno nuovo, dal «modello tessile» centrato sul cotone, al «paradigma fordista» centrato sul petrolio, i mezzi di trasporto e le vie di comunicazione. La netta superiorità dei salari americani rispetto a quelli europei facilita la costituzione di un mercato interno sempre più autosufficiente. Dal 1860 in poi l’industria siderurgica non ha più bisogno di ricorrere alle importazioni per lo sviluppo delle vie ferrate. All’espansione della domanda si aggiungono i nuovi flussi immigratori dai paesi europei in via di industrializzazione. Il fordismo non sarebbe stato neppure pensabile senza la presenza massiccia di forza-lavoro immigrata.47 La storia nascosta del credito al consumo e del ruolo

trainante della domanda per il decollo dell’economia statunitense spiegano perché la risposta dei consumatori americani agli aumenti dei tassi di interesse voluti da Volker per sconfiggere l’inflazione fu così sproporzionata rispetto ai calcoli dei nuovi responsabili della Fed. Una risposta che solo parzialmente coincideva con l’ipotesi che l’economista John Maynard Keynes aveva sviluppato negli anni ’30. Keynes aveva ipotizzato che la gente aumenta o riduce le spese in corrispondenza con l’aumento o la diminuzione del proprio reddito. Aveva però aggiunto che la «legge psicologica fondamentale di qualsiasi collettività moderna» dimostra che all’aumento del reddito reale corrisponde un aumento superiore del risparmio. Ma questa affermazione di Keynes non reggeva più, dato che il reddito di molte famiglie americane era ormai costituito da un indebitamento privato importante. Se il consumo era aumentato con l’aumento del reddito, confermando la prima parte dell’ipotesi di Keynes, esso era però cresciuto in modo tale da provocare una diminuzione generale del risparmio netto, non un suo aumento. Il «popolo consumatore» era stato, per così dire, più keynesiano di Keynes. In queste circostanze, si poteva certamente ottenere una momentanea diminuzione della spesa con l’aumento dei tassi di interesse, perché un aumento degli interessi sui debiti causa un arresto pressoché immediato della spesa delle famiglie indebitate. Ma ciò non comporta necessariamente una riduzione permanente della spesa, soprattutto quando i consumatori si sono abituati a prendere decisioni in un contesto di bassi tassi di interesse, anzi di tassi di interesse reali addirittura negativi, come accadde nel corso degli anni ’70. Per oltre trent’anni il fordismo aveva potuto funzionare grazie al «patto sociale» che legava la crescita salariale agli aumenti dei profitti, degli investimenti e dell’occupazione, un patto politico che aveva permesso allo Stato sociale di ridistribuire ricchezza assicurando un equilibrio dinamico tra

interessi conflittuali. Di fronte alla crisi dei presupposti economici, politici e culturali su cui poggiava il paradigma fordista, poteva forse bastare un aumento, per quanto spettacolare, dei tassi di interesse o il discorso di un Carter alla televisione? Rispetto alla teoria di Keynes, quella di Milton Friedman presentava alcuni vantaggi pratici per chi deve prendere decisioni sul breve periodo. Il vantaggio più evidente consisteva nel freddo economicismo del suo approccio. A Friedman la «psicologia del consumatore» faceva sorridere tanto quanto agli operai facevano sorridere gli «psi» che si prodigavano per inventare teorie per nascondere il dato più macroscopico, e cioè che nel ventre del fordismo era cresciuta una classe operaia consumista indifferente agli appelli di sapore illuminista che sempre più frequentemente venivano sbandierati per «tenere assieme» la nazione riducendo il consumo. Il successo che la teoria di Friedman andava riscontrando presso gli operatori economici non era solo ideologico, era invece la manifestazione di un cambiamento strutturale che andava capito per quello che realmente era. Nel romanzo Destra sinistra, scritto pochi mesi prima della crisi del ’29, Joseph Roth fa dire ad uno dei suoi personaggi: «E alle Borse del mondo che si decide l’etica della società». E un’esclamazione che si addice bene a investitori e speculatori cinici e assetati di denaro. Che dire, però, degli impiegati pubblici della città di New York che avevano investito i loro fondi pensionistici (Pension funds) in titoli obbligazionari, quotati allo Stock Exchange Market, per evitare che la crisi fiscale della City del 1974-1975 riducesse la loro rendita pensionistica? Nei primi anni ’70 il deficit pubblico della città di New York era cresciuto enormemente sotto la pressione dei nuovi poveri che dalla fine degli anni ’6o affluivano dal Sud in città per cercare lavoro. Per non aumentare le tasse sui ricchi ed evitare che il commercio se ne andasse dalla City, le autorità cittadine avevano «persuaso» i Fondi pensione degli impiegati

statali, gestiti malamente dalle banche commerciali, ad acquistare titoli obbligazionari (City Bonds) che nessun investitore avrebbe mai comperato. Il socialismo dei fondi pensione, come Peter Drucker soprannominò la «proprietà collettiva dei mezzi di produzione» nel capitalismo avanzato, permetterà da una parte di finanziare il deficit pubblico newyorchese, ma dall’altra spaccherà verticalmente qualsiasi possibilità di alleanza politica tra i nuovi poveri e gli impiegati pubblici.48 E qui che nasce il «pensiero unico», è sulle modalità di garanzia del reddito differito che l’economicismo liberista trova la sua forza sociale. Era da tempo che Friedman andava sostenendo, contro le teorie keynesiane, che solo le modifiche del reddito di natura permanente potevano indurre le persone a cambiare le proprie abitudini di spesa.49 Il presupposto della teoria del reddito permanente è che l’individuo ha un programma di consumo per la vita, ed è sull’arco dell’intero ciclo di vita che egli prende le decisioni quotidiane di bilancio. La razionalità delle scelte tra consumo e risparmio discende da questa presa in considerazione del ciclo di vita da parte di ciascun individuo. In questa teoria c’è una concezione attuariale (o assicurativa) del risparmio e del reddito, nel senso che la scelta di un individuo di spendere o risparmiare è una scelta razionale se egli riesce a livellare il consumo lungo il ciclo della sua vita. Ad esempio, se le sue riserve, i suoi risparmi, gli garantiscono un reddito sufficiente dal momento in cui cessa di lavorare fino alla morte, allora si può dire che il suo comportamento è stato razionale; se invece ha sovrastimato la durata della sua vita e muore presto, lascerà ai suoi eredi un’eredità non programmata; se, ancora, le sue riserve si esauriscono perché vive più a lungo del previsto, morirà in povertà. Il suo piano di vita muta continuamente a mano a mano che egli impara dall’esperienza passata o che cambiano le sue legittime aspettative. I critici della teoria friedmaniana del reddito permanente

sostengono che essa permette di spiegare soltanto determinati comportamenti parsimoniosi, come ad esempio quello di un lavoratore autonomo che a causa delle oscillazioni e dell’alcatorietà del proprio reddito è costretto ad essere più cauto e prudente di un lavoratore salariato nella gestione del proprio risparmio. La teoria del reddito permanente non è però in grado di spiegare la prodigalità, l’atteggiamento consumistico del tipo «qualche santo prowederà», quel comportamento incurante del risparmio che si ritrova soprattutto nella popolazione salariata. Con un reddito salariale più affidabile e regolare le famiglie dei lavoratori dipendenti sono in grado di destinare normalmente al consumo quote più elevate di reddito, e quindi hanno un tasso di risparmio inferiore a quello dei lavoratori autonomi, dei liberi professionisti, degli imprenditori. Non è privo di interesse il fatto che Friedman elabora la sua teoria mettendo a confronto le famiglie occupate in agricoltura con quelle dei salariati nel periodo tra il 1935-36 e il 1941. Ne deduce che gli agricoltori fissano il loro consumo normale ad una quota più bassa del reddito medio e che il tasso di incremento dei loro consumi cresce meno rapidamente del reddito. Per Friedman questo aumento del risparmio a tassi più elevati dei tassi di crescita del reddito si spiega con il bisogno delle famiglie agricole di compensare le annate buone con quelle cattive e con il fatto che i fattori transitori incidono sul reddito in misura relativamente maggiore che sul reddito delle altre famiglie. Si tratta di una teoria particolarmente utile in contesti di incertezza crescente, in cui il problema principale consiste nell’assicurarsi contro eventi non controllabili, non prevedibili. Ed è appunto l’aumento dell’incertezza e dell’imprevedibilità che caratterizza il contesto generale nella seconda metà degli anni ’70, permettendo così all’economista di Chicago di legittimare scientificamente l’attacco politico liberista contro i salariati. Come fare per agire sulle variabili monetarie, essenzialmente

sulla offerta di moneta con l’aumento dei tassi di interesse, e nel contempo modificare permanentemente le abitudini salariali dell’o-peraio-massa fordista? Come fare per andare dal denaro alla fabbrica, dal reddito al salario? Da sola la teoria monetarista di Milton Friedman si rivelerà incapace di traghettare l’economia fuori dal pantano delle abitudini consumistiche dei cittadini fordisti.50 L’aumento dei tassi di interessi della Fed avrebbe certamente ridotto la parte di reddito aggiuntivo corrispondente ai debiti contratti, ma niente assicurava che questa riduzione eliminasse alla radice, cioè sul posto di lavoro, il consumismo implicito nella permanenza della relazione salariale. Era stato proprio Friedman a spiegare che la razionalità del comportamento di spesa dipende dall’esperienza passata e dall’orizzonte temporale di vita di ciascun individuo. Il vero problema era che il reddito della maggioranza dei cittadini era un reddito salariale, un reddito cioè basato su un preciso contratto di lavoro. Per cambiare le abitudini di spesa in modo permanente secondo i precetti di Friedman si doveva intervenire sul rapporto salariale in quanto tale, estirpando l’irrazionalità consumistica implicita nella prevedibilità e nella continuità del reddito salariale. Il bersaglio, come presto si dimostrerà, era la forma salario, e il patto sociale che sulla relazione salariale era stato costruito storicamente. L’uscita dal fordismo doveva partire dall’alto del sistema monetario americano. Alla fine degli anni ’70 la politica monetaria degli Stati Uniti stava subendo i contraccolpi della sua stessa logica di funzionamento. La crescita economica postbellica aveva potuto funzionare grazie ad una precisa asimmetria del sistema monetario internazionale. Usciti dalla guerra con un apparato industriale intatto e con l’esperienza del New Deal alle spalle, gli Stati Uniti erano riusciti ad assicurarsi il diritto di signoraggio grazie agli accordi monetari internazionali di Bretton Woods del 1944. Diritto di signoraggio significa che la moneta del paese-guida, il dollaro

statunitense in questo caso, pur essendo una moneta nazionale come tutte le altre, viene utilizzata anche come mezzo di pagamento internazionale, ciò che comporta un vantaggio considerevole sugli altri paesi. Grazie a questo diritto gli Stati Uniti detengono il potere di creare moneta senza vincoli esterni. Gli accordi di Bretton Woods avevano stabilito che erano i paesi-membri a doversi adattare alla creazione di dollari assicurando una determinata parità di cambio con la valuta americana. Per statuto il dollaro aveva una «parità» con l’oro di 35 dollari l’oncia, anche se questo aggancio all’oro assomigliava più a un complesso di colpa verso il passato che a un dispositivo monetario moderno e razionale. Erano bastati pochi anni per capire che l’aggancio del dollaro al «relitto barbarico», come Keynes aveva soprannominato il metallo prezioso, era del tutto formale. A partire dalla fine degli anni ’50, la creazione di dollari da parte degli USA non smetterà di eccedere la quantità di oro detenuta a Fort Knox. Nazionale o internazionale che fosse, il denaro si era di fatto smaterializzato col progredire della mercificazione degli spazi di vita. Il tallone oro ottocentesco era stato ormai sostituito dal «tallone salario», dal prezzo in merci della forza-lavoro. Parlare di diritto di signoraggio significa attribuire al denaro una funzione politica, oltre alle normali funzioni economiche che di solito si attribuiscono al denaro, come la funzione di mezzo di pagamento di beni e servizi e quella di unità di misura e di riserva dei valori. Una funzione che nasce col denaro stesso, se è vero che il primo abuso del sistema monetario nel nostro continente risale a 500-600 anni a.C. nella Lidia di Creso. Caratteristica delle monete di questo regno era di non essere fatte di puro metallo, ma di una lega di oroargento, l’elettro. La lega di oro e argento esiste in natura, ma la si può creare anche artificialmente con la fusione dei due metalli. Coniando moneta in lega, le autorità del regno di Lidia avevano reso pressoché impossibile il controllo della garanzia

rilasciata. Il tenore in oro di quelle monete variava talmente da contenere una quantità di oro molto inferiore (alla fine del regno raggiunse addirittura il 20 per cento) a quello che si riscontrava nell’elettro naturale (che era di oltre il 70 per cento). Con questo trucco Creso riuscì ad arricchirsi smisuratamente.51 Da quel momento in poi la regolazione statale del sistema monetario non ha cessato di suscitare i sospetti più diversi nell’immaginario collettivo. Alcuni economisti hanno tentato di combattere il monopolio monetario statunitense cercando di dimostrare la sua irrazionalità dal punto di vista economico stesso. Robert Triffin,52 ad esempio, aveva messo a nudo il «dilemma» del sistema monetario di Bret-ton Woods: se da una parte il mondo dipendeva dal disavanzo degli Stati Uniti per conseguire la crescita della massa monetaria e l’espansione economica, dall’altra quell’aggancio del dollaro all’oro sanciva il diritto di pretendere che gli Stati Uniti convertissero in oro tutti i dollari circolanti nel mondo. Triffin aveva puntato il dito sulla asimmetria tra denaro nazionale e internazionale, una «perversione» che l’economista Jacques Rueff,53 consigliere di De Gaulle, voleva eliminare ristabilendo la supremazia dell’oro. Rueff considerava l’oro l’unica moneta veramente apatride che aveva già dato prova di funzionare tra il 1870 e il 1914. Per altri economisti, tra cui Bernard Schmitt54 e lo stesso Triffin, non si trattava di ritornare al gold standard, bisognava invece emanciparsi dal «relitto barbarico» instaurando una moneta sovranazionale moderna in grado di eliminare dai circuiti finanziari internazionali la moneta americana. A sostegno della loro critica al diritto di signoraggio americano, al potere di creazione di «elettro-dollari», questi ed altri economisti sostenevano che l’afflusso di dollari nei paesi esportatori di beni e servizi verso gli Stati Uniti era causa di inflazione in questi stessi paesi. Non potendo pagare in dollari i propri operai, l’esportatore tedesco convertirà in marchi i dollari ricevuti in pagamento dagli importatori americani. In tal

modo si crea un potere d’acquisto che eccede la quantità di beni e servizi prodotti e circolanti in Germania (pari al PIL tedesco ridotto della quota esportata). Lo stesso meccanismo inflazionistico lo si ha quando gli americani utilizzano la loro moneta per effettuare investimenti. Importazioni e investimenti diretti all’estero sono all’origine del disavanzo della bilancia dei pagamenti americana che, nell’ottica delle teorie critiche di Triffin o di Schmitt, segnala l’esportazione dell’inflazione verso il resto del mondo. L’aumento del deficit americano, infatti, si traduce nell’aumento delle riserve monetarie nel resto del mondo, e dato che in ciascun paese l’offerta di moneta è determinata dalle riserve detenute dalla banca centrale, ne conseguirà un aumento inflazionistico dei redditi. Oltretutto, la banca centrale del paese esportatore o sede di investimenti diretti americani, la Bundesbank supponiamo, farà riaffluire i dollari negli Stati Uniti acquistando i Buoni del Tesoro che il governo americano emette per finanziare il deficit pubblico. Il ritorno dei dollari negli Stati Uniti è praticamente automatico, dato che permette alla Bundesbank di far fruttare riserve che altrimenti sarebbero sterili. Vendendo Buoni del Tesoro a investitori stranieri (banche centrali, come la Bundesbank, o investitori privati), gli USA possono aumentare la spesa pubblica senza dover incidere fiscalmente sui redditi dei cittadini americani. L’uso internazionale di una moneta nazionale come il dollaro è ciò che fa duplicare il potere d’acquisto all’interno degli Stati Uniti. Finanziare la spesa pubblica senza aumentare corrispondentemente il prelievo fiscale sui redditi americani è anch’esso un modo di inflazionare i redditi, ma questa volta all’interno degli Stati Uniti. E difficile negare che il disordine monetario internazionale sia in qualche modo causato dallo squilibrio fondamentale tra logica economica e logica di potere. Al centro di queste teorie, di cui quella di Bernard Schmitt è la più coerente, si trova il desiderio di ristabilire la simmetria perduta a causa della sete di

potere di una nazione sul resto del mondo. Un sogno, si potrebbe dire, «vecchio come il mondo», che riguarda la garanzia della legittimità statale delle monete. Già Adam Smith aveva affermato che l’emissione e il controllo della stabilità della moneta è una prerogativa dello Stato nazionale, pari per importanza alla difesa del suo territorio.55 E altrettanto vero, comunque, che il mercato gioca anch’esso un ruolo importante nella creazione e circolazione delle monete, e questo da sempre. Non si può impedire a qualcuno di utilizzare dollari in un paese latino americano (si parla appunto di «dollariz-zazione») o nei paesi ex-socialisti dove molte cose possono essere acquistate con dollari invece che con rubli. Molte imprese europee detengono diverse divise nei loro conti. Si può affermare con Michel Aglietta che la storia della moneta è la storia di una oscillazione tra la regolazione monetaria statale e la volontà dei mercati finanziari di liberarsi dai vincoli posti dagli Stati nazionali o dai sistemi monetari internazionali.56 Il dibattito sull’instabilità monetaria internazionale verte sulle cause più profonde che storicamente fanno oscillare l’economia monetaria da una parte all’altra. Le teorie monetarie critiche della «dollarizzazione» del resto del mondo nascono in un preciso contesto storico. Sono gli anni ’60 della guerra del Vietnam. Il dollaro è visto alla stessa stregua delle bombe lanciate dai soldati americani sulla popolazione vietnamita. Distrugge i paesi in cui arriva perché, violando la sovranità nazionale, impedisce loro di crescere e svilupparsi secondo il principio dell’autodeterminazione. Gli europei accusano gli Stati Uniti di esportare l’inflazione un po’ come Ho Chi Minh protesta contro «l’importazione» delle bombe. Per finanziare la guerra in Vietnam, il presidente Johnson preferisce aumentare il deficit federale piuttosto che aumentare il prelievo fiscale sui suoi cittadini. Tra il 1965 e il 1966 le spese per la difesa aumentano del 10 per cento, e nello stesso periodo le ordinazioni da parte del Dipartimento della Difesa

aumentano del 30 per cento. Prima ancora che questi aumenti abbiano il tempo di figurare nel bilancio nazionale, l’economia americana cresce a tassi elevatissimi, toccando l’8,5 per cento alla fine del ’65. La disoccupazione diminuisce rapidamente e a partire dal 1965-66 l’inflazione decolla. E soprattutto l’aumento della domanda di beni d’importazione che causa l’aumento del disavanzo della bilancia dei pagamenti e la fuoriuscita di dollari.57 C’è qualcosa, però, che non permette di suffragare pienamente le teorie monetarie basate sulla logica della simmetria. Tra il i960 e il 1965 il deficit americano aumenta in media di 2 miliardi di dollari l’anno. Ma a questa fuoriuscita di dollari corrisponde un aumento annuale di appena 2 per cento delle riserve monetarie nel resto del mondo, ciò che non basta affatto a spiegare l’origine dell’inflazione fuori degli Stati Uniti.58 In Europa i prezzi dei prodotti alimentari e di quelli industriali incominciano a crescere nel 1961. Ma si tratta di un’inflazione causata da aumenti dei salari superiori alla produttività. Di fronte alla pressione salariale i governi europei rispondono secondo i precetti keynesiani, permettono cioè ai salari nominali di aumentare per poi ristabilire il loro valore reale con l’aumento dei prezzi. E la pressione salariale interna, più che l’afflusso di dollari, che spiega l’inflazione in Europa.591 dollari arrivano certamente come bombe sui paesi europei, soprattutto quando tra i 1963 e il ’64 le autorità monetarie adottano politiche restrittive, rendendo attrattivi gli investimenti americani in Europa. Gli operai sembrano comunque determinati a non perdere la «sovranità salariale» così come i vietnamiti resistono contro la violazione del principio di autodeterminazione. Alla stessa stregua non si può sostenere che il riafflusso di dollari dal resto del mondo verso gli Stati Uniti sotto forma di acquisto di Buoni del Tesoro abbia causato inflazione, questa volta all’interno degli Stati Uniti. L’Euromereato nasce già nel 1958 con la decisione da parte dei sovietici di non depositare

negli USA i dollari ricevuti in pagamento delle loro esportazioni di petrolio. I cosiddetti mercati off-shore, basati sul non rientro dei dollari negli Stati Uniti, si moltiplicano nel corso degli anni ’70. Il carattere privato, extra-statale di questi mercati permette a compagnie europee e americane di attingere a crediti erogati a tassi più convenienti di quelli praticati dalle autorità monetarie ufficiali per il finanziamento dei loro investimenti.60 Alla fine degli anni ’70 le autorità monetarie americane non riescono più a controllare la massa di dollari in circolazione fuori degli USA. Dopo l’abbandono, nell’agosto del 1971, per decisione di Nixon e di Kissinger, dell’ultimo vincolo con l’oro che aveva retto il sistema dei cambi fissi di Bretton Woods, l’instaurazione dei cambi flessibili a partire dal 1973 permette ai paesi europei di sganciare la loro politica monetaria dal controllo americano. Non essendoci più parità fisse tra le monete europee e il dollaro, i governi si sentono liberi di perseguire gli obiettivi sociali con politiche monetarie e fiscali espansive. La svalutazione, se necessaria, viene utilizzata per evitare che l’aumento dei prezzi interni si traduca in perdita di competitività sul piano internazionale. La quadruplicazione del prezzo del petrolio, d’altra parte, aumenta la domanda di prestiti da parte dei paesi importatori di materie prime. La massa di euro-petro-dollari, cioè dei dollari depositati sull’Euromercato, incomincia a non più funzionare come leva per gli investimenti all’estero per le imprese americane. Se tra il 1968 e il 1973 e tra il 1977 e il 1979 gli investimenti diretti all’estero, sia degli USA sia dei paesi europei, aumentano come effetto dell’«esplosione dei salari», dopo il primo shock petrolifero di fine ’73 e il secondo del ’79 una parte importante dei dollari internazionali prende la strada dei prestiti ai paesi importatori di petrolio. La conseguenza di questo uso dei dollari, non più come strumento di produzione di ricchezza e di profitti, ma come veicolo di prestiti ai paesi indebitati, è ciò che spiega la svalutazione della moneta americana della fine degli anni ’70. Le autorità monetarie

statunitensi non riescono più a controllare l’offerta di dollari di fronte alla concorrenza degli istituti privati di creazione di euro e petrodollari.61 La perdita di fiducia nella moneta del paese-guida raggiunge un tale livello che neppure la decisione di Paul Volker del 6 ottobre del ’79 di aumentare i tassi di interesse riesce a convincere gli investitori stranieri della serietà delle intenzioni dei nuovi dirigenti della Fed. I detentori di dollari rispondono alla mossa di Volker «rimonetizzando» il relitto barbarico, il bene rifugio che più di ogni altro simbolizza in quegli anni la crisi di fiducia nella moneta internazionale. Il 21 gennaio del 1980 la quotazione dell’oro raggiunge il massimo storico di 875 dollari l’oncia. I teorici del sistema monetario internazionale hanno tutte le ragioni di denunciare questo sviluppo «illogico» dell’economia mondiale. Per loro la creazione di moneta privata extra-statuale è un nonsenso, una impossibilità logica. E comunque difficilmente contestabile che l’Euromercato e i mercati offshore dimostrano la loro debolezza, o la loro natura perversa, solo nel momento in cui non riescono più a funzionare da centri di erogazione di denaro capitale. La storia degli investimenti diretti all’estero dimostra che i capitali escono dagli Stati Uniti tutte le volte che i salari americani aumentano più della produttività. I dollari piazzati sull’Euromercato non rappresentano però un problema particolare se vengono investiti in modo produttivo, se cioè sono all’origine di produzione di ricchezza all’estero. Quando i dollari fuori degli USA sono creati dalle banche dell’Euromercato per fare prestiti a paesi che possono utilizzarli solo per pagare le importazioni, come nel caso dei paesi poveri importatori di petrolio, il sistema ruotante attorno alla moneta americana vacilla, svelando le fragilità su cui si regge. Alla asimmetria operaia si aggiunge l’asimmetria del rapporto tra sviluppo e sottosviluppo. I due pilastri del fordismo – aumento del consumo di massa e basso costo delle materie prime – si

rovesciano nel loro contrario. Sono gli scherzi della dialettica che, appunto, è asimmetrica.

3. La rivoluzione derivata

Nel 1979 Chicago torna ad essere la capitale dell’esodo da una forma del denaro a una nuova. Ci vorrà del tempo per capire che la vera rivoluzione ha in Chicago il suo quartier generale, come lo ebbe nell’Ottocento con le prime forme di credito al consumo. La storia della rivoluzione dei mercati finanziari e del ruolo strategico dei prodotti derivati è di fondamentale importanza per capire cosa accade dopo la svolta monetaria della Fed dell’ottobre del 1979. «Con la salita dei tassi di interesse - scrive Gregory Millman, economista specializzato in mercati finanziari - ci fu un crollo nel valore degli investimenti degli istituti finanziari di Wall Street. Fu la notizia migliore che il Chicago Board of Trade avesse mai ricevuto».62 Un fatto, in particolare, permise alla Camera di commercio di Chicago di capire che era arrivato il suo momento, che i prodotti finanziari trattati nell’arena della sua Borsa dal 1858, i futures e le options fino ad allora snobbati dagli operatori di Wall Street, stavano finalmente per imporsi stravolgendo la natura stessa del mercato. Richard Sandor, già docente all’Università di Berkeley negli anni della contestazione, da tempo impegnato a studiare la possibilità dei contratti a termine, i futures sulle ipoteche, descrive così l’illuminazione storica dei Chicagoans: «Il

venerdì della settimana precedente al "Disastro del sabato sera", l’IBM aveva fatto un’emissione di obbligazioni. Dopo uno scontro aspro con la Morgan Stanley, la Salomon Brothers era riuscita a soffiare l’operazione alla vecchia banca d’investimento». Ma invece di vendere il titolo dell’IBM, la Salomon l’aveva tenuto. «Così, quando Volker fece il suo annuncio, passando per i corridoi della Morgan Stanley si vedevano solo facce sorridenti. Sembrava che la Salomon Brothers fosse saltata in aria insieme con la bomba che aveva preparato contro altri, giacché l’esplosione dei tassi di interesse aveva fatto scendere paurosamente il valore delle obbligazioni IBM. E tuttavia... perché alla Salomon Brothers nessuno si buttava dalla finestra?» I giornali rivelarono - racconta Sandor - che la Salomon Brothers aveva una copertura molto solida. Era stato questo che aveva cambiato completamente la natura del mercato. Usando i futures inventati da Sandor per le obbligazioni di lungo periodo, «la Salomon era riuscita a cautelarsi contro le variazioni catastrofiche del tasso di interesse, analogamente a quanto avevano fatto gli agricoltori per proteggersi dai cali rovinosi dei prezzi del granoturco o del frumento. L’era dei futures sui tassi di interesse era finalmente arrivata».63 Quello della Salomon Brothers è uno dei moltissimi esempi di utilizzazione dei prodotti derivati con lo scopo di premunirsi contro i rischi in un’economia la cui caratteristica fondamentale è l’incertezza. Elaborati da matematici puri, progettisti di software per satelliti, a volte da ingegneri aeronautici o genetisti (soprannominati «quants») al servizio delle maggiori istituzioni finanziarie, i derivati sono strumenti ormai talmente sofisticati che molto spesso, quando si cerca di capirne il funzionamento, ci si perde per strada. Ma la loro diffusione, dagli anni ’80 in poi, è simmetrica ai processi di trasformazione dell’economia post-fordista. Sono l’altra faccia della nuova economia, la più criticata ma anche la meno capita. I derivati64 sono dei prodotti finanziari che si comprano e si

vendono come qualsiasi altra merce, e sono costruiti sulla base di un altro prodotto finanziario ad esso preesistente. Si tratta di prodotti che non hanno un valore «in sé», ma un valore che deriva da prodotti soggiacenti che possono essere i normali titoli azionari, le obbligazioni, le divise, le ipoteche, i debiti e i crediti, gli interessi, le materie prime come il petrolio, il grano, la carne bovina. Nulla vieta che i «soggiacenti» possano essere un giorno tutti i beni e servizi normalmente scambiati sui mercati. Secondo alcuni esperti, è solo questione di tempo prima che si arrivi a definire l’intero Prodotto interno lordo come il «soggiacente» di un insieme di derivati acquistati e venduti in Borsa.65 Questo perché l’esistenza stessa dei derivati riflette il bisogno di proteggersi dal rischio di volatilità del prezzo di qualsiasi cosa si possa detenere, forza-lavoro inclusa. Il prodotto dello scambio dei derivati è infatti l’incertezza stessa. È l’idea di fare dell’incertezza una merce di scambio in quanto tale che rende i derivati qualcosa al tempo stesso semplice e complessa. Nel 1921 l’economista americano Frank Knight scriveva che «ogni atto di produzione è una speculazione sul valore relativo del denaro e dei beni prodotti». 67 L’incertezza che accompagna la produzione di qualsiasi bene, materiale o immateriale che sia, si riferisce alla volatilità del suo prezzo. Una volta prodotta, la merce deve essere socialmente validata, il suo valore di mercato deve cioè essere riconosciuto dalla società. Marx diceva che le merci, quando arrivano al mercato per essere vendute, devono compiere un «salto mortale», devono cioè trasformarsi in denaro. Questa metamorfosi della merce in una somma di denaro definisce il rischio implicito nel suo prezzo di vendita. I prezzi di vendita possono essere alti o bassi, possono permettere di realizzare profitti o perdite. E in questo campo di oscillazione o di volatilità dei prezzi che i derivati trovano la loro ragione d’essere. Di per sé questi strumenti finanziari non riducono i rischi che accompagnano la volatilità dei prezzi dei beni che si scambiano sul mercato.

Possono però determinare, ed è questo il punto essenziale, chi si addossa la speculazione e chi la evita. E la distribuzione del rischio, la «socializzazione della incertezza» tra i partecipanti al mercato dei derivati, che ne riduce la grandezza su scala individuale. L’apparizione negli ultimi vent’anni di rischi inediti, l’emergenza della volatilità e dell’incertezza dei mercati, spiegano l’esplosione dei prodotti derivati. Fino ai primi anni ’70, ad esempio, i tassi di cambio erano fissi, il prezzo del petrolio variava entro margini ristretti, l’aumento annuale del livello generale dei prezzi era costante, i tassi di interesse erano anch’essi relativamente stabili. Il venir meno della prevedibilità dell’andamento di queste e di altre variabili ha costretto a inventare sempre nuovi dispositivi per gestire i rischi, per muoversi in un mondo in cui l’incertezza è diventata una «forma di vita». Per questa ragione è corretto dire che i prodotti derivati sono i sintomi e non la causa della volatilità dei mercati. Bisogna risalire all’invenzione della carta moneta per trovare un’innovazione di tale importanza nella storia finanziaria. Non a caso, alle banche centrali l’invenzione dei prodotti derivati viene paragonata alla scoperta dell’energia nucleare. Eppure, ancora oggi, i derivati sono considerati da molti economisti una specie di «insulto della ragione», strumenti diabolici così lontani dal mondo «reale» da essere prevalentemente idonei alle speculazioni più selvagge. Per non pochi economisti, ad esempio, i derivati sono all’origine del crack del 1987, e i fallimenti nel 1994 di giganti come la Procter & Gamble, la Gibson Greetings, la Metallgesellschaft AG o, nel 1995, della Barings Bank, non hanno certamente aiutato a migliorarne la reputazione. Il fatto che i derivati siano strumenti sofisticati e ancora poco conosciuti rende difficile l’idea che, dopo essere stati sviluppati dai mercati finanziari per far fronte all’instabilità economica seguente il crollo del sistema monetario di Bretton Woods, i prodotti derivati non sono, come

piace credere, una «perversione» della finanza, ma l’espressione del nuovo modo di produrre e scambiare ricchezza. Si può affermare che la proliferazione dei derivati non è nient’altro che «un commento del nostro tempo». Ci sono due grandi categorie di derivati: i contratti a termine (futures) e le opzioni (options). Per quanto complessi e sofisticati, i derivati di oggi hanno origine nella più antica attività umana, l’agricoltura. Per spiegare cosa sia un acquisto o una vendita a termine, un future, si fa spesso l’esempio del grano nell’Egitto del XIV a.C. La «qualità meravigliosa» del grano, dicevano i contemporanei, risiede nel fatto che lo si può acquistare o vendere prima ancora che il fiume in piena abbia inondato il paese o che il grano sia stato seminato. Ci si accorda con qualcuno per comperare o vendere ad una data futura il prodotto del raccolto, ma a un prezzo fissato in anticipo. Se alla scadenza del contratto il prezzo del grano è inferiore a quello prefissato, a guadagnarci sarà chi con il future è autorizzato a vendere ad un prezzo superiore. Ci perderà, invece, chi deve sborsare più soldi per la medesima quantità di grano, venduta a scadenza ad un prezzo inferiore. Si dice che i futures sono dei contratti basati sulla simmetria delle parti contraenti: a priori, entrambe le controparti hanno le medesime chances di guadagnare o di perdere denaro in futuro. Lo scambio finale tra i contraenti si effettuerà in ogni caso, qualsiasi sia il prezzo del soggiacente (per questo si chiamano contratti «fermi»). Quando, a scadenza del contratto, si ha consegna fisica del soggiacente contro pagamento della totalità della somma convenuta in anticipo, il contratto future è di tipo «physical settlement». Se, invece, non c’è consegna fisica del soggiacente, ma solo versamento della differenza tra prezzo fissato dal contratto e prezzo corrente, si dice che l’esercizio è di tipo «cash settlement». Per descrivere le opzioni, invece, si fa l’esempio dei bulbi dei tulipani nell’Olanda del xvn secolo. La volatilità del loro prezzo (calo dei prezzi dopo raccolti favorevoli, loro aumento

dopo inverni rigidi) era tale che i commercianti di tulipani avevano proposto ai produttori di bulbi di acquistare delle opzioni che davano loro il diritto di vendere il prodotto del loro raccolto a prezzi fissati in anticipo. I commercianti di tulipani acquistavano le opzioni (si parla di acquisto call) per assicurarsi la possibilità di aumentare le scorte quando i prezzi dei tulipani aumentavano; queste opzioni davano al commerciante il diritto, ma non l’obbligo, di chiedere alla controparte di consegnare i tulipani ai prezzi prestabiliti. I coltivatori in cerca di protezione contro la caduta dei prezzi avevano interesse a comperare le opzioni (acquisto put) che davano loro il diritto di vendere alla controparte, i commercianti, i tulipani ai prezzi prefissati. Entrambe le controparti assumevano questi rischi in cambio di un premio pagato per l’opzione, un premio che presumibilmente doveva compensare i venditori di tulipani per il rischio di aumento dei prezzi, mentre al contempo doveva compensare il compratore per il rischio di una diminuzione degli stessi prezzi. Lo scambio di opzioni fra commercianti e produttori olandesi durò fino a quando un raccolto particolarmente abbondante fece crollare il prezzo dei bulbi. I produttori fecero un uso massiccio del diritto di vendere al prezzo più elevato fissato nel contratto opzionale prima del raccolto abbondante. I commercianti, che si erano impegnati ad acquistare i bulbi ad un prezzo superiore a quello finale, si videro così costretti a dichiarare fallimento. Il mercato olandese delle opzioni cessò temporaneamente di esistere, lasciando in sospeso il problema di come ripartire più equamente perdite e guadagni. La spiegazione storica della crisi da sovrapproduzione dei bulbi olandese e della bolla speculativa che l’accompagnò non è ancora del tutto chiara. Da studi recenti68 sembrerebbe che dietro l’uso massiccio delle opzioni, che decretò la crisi di un mercato non meno sofisticato di quelli odierni, ci fosse l’obiettivo di determinati gruppi economici di impedire ad un numero crescente di persone di entrare in un mercato che fino

ad allora era stato loro precluso. E ciò avvenne nel momento in cui i tulipani, da beni fino allora considerati esotici, seducenti e rari, furono trasformati in beni standardizzati, dando vita ad una domanda che coinvolgeva un numero crescente di piccoli speculatori.69 Se così fosse, si tratterebbe di un precedente utile per interpretare il presente. Diversamente dai futures, i contratti opzionali si basano sulla asimmetria delle parti contraenti: una delle controparti acquista l’opzione, e paga al venditore70 una percentuale del montante nozionale (il premio dell’opzione). Grazie al versamento del premio, l’acquirente ha allora il diritto ma non l’obbligo di acquistare (o di vendere, secondo il tipo di opzione) il prodotto soggiacente al venditore dell’opzione al prezzo fissato in anticipo (il cosiddetto strike, o prezzo d’esercizio). Se, a scadenza del contratto, il soggiacente viene consegnato, l’opzione è di tipo «physical settlement». Se invece viene versata solo la differenza tra il prezzo di mercato e l’anticipo versato, il contratto è di tipo «cash settlement». Dunque, se si detiene un’obbligazione e si teme che il suo valore crollerà in seguito, poniamo, ad un aumento dei tassi di interesse, l’acquisto di una opzione sul titolo obbligazionario permetterà di cautelarsi contro tale eventualità creandosi una copertura (hedge). E ciò che fece la Salomon Brothers dopo aver acquistato le obbligazioni dell’IBM: acquistando una opzione su obbligazione IBM, temendo un crollo del valore di questo titolo in seguito all’aumento dei tassi di interessi, si creò una copertura. Operazione saggia, dato che l’indebolimento del dollaro sul piano internazionale autorizzava a temere una contromossa da parte della Fed, come puntualmente accadde. La caratteristica dei derivati è quella di offrire un mezzo per proteggersi dai rischi generati dalle variazioni dei prezzi dei prodotti soggiacenti. Che si tratti di futures o di opzioni, ci si trova di fronte ad una sorta di polizza di assicurazione per cautelarsi contro i movimenti sfavorevoli del prezzo del soggiacente, esattamente come ci si cautela contro gli incendi e

le inondazioni. La gestione dei rischi riguarda sia chi vuole solo premunirsi contro eventuali perdite di guadagno (gli «hedgers»), sia gli investitori o gli speculatori alla ricerca di profitti netti. In quanto tali, i derivati rappresentano un potente dispositivo di socializzazione del rischio. La domanda, che da sempre accompagna lo sviluppo dei futures e delle opzioni, è «quanto vale un derivato»? La determinazione, sulla base del modello di Black e Scholes elaborato nel 1973,71 del valore di un prodotto derivato, ad esempio di una opzione, dipende da quattro elementi: tempo, prezzi, tassi di interesse e volatilità (vedi esempio in Appendice). L’elemento tempo riguarda la fissazione della data di scadenza del derivato, mentre il prezzo riguarda la differenza tra il prezzo corrente del titolo che soggiace il contratto di copertura, e il prezzo dello stesso a scadenza. I tassi di interesse sono quelli che i contraenti possono guadagnare con il loro denaro aspettando il momento in cui possono o devono esercitare il diritto di acquisto o di vendita del derivato. Il quarto elemento è quello decisivo, perché riguarda la volatilità attesa del titolo soggiacente. La probabilità che il prezzo di un titolo, ad esempio un’azione della Microsoft, possa salire o scendere è in sé irrilevante, mentre l’unica cosa che realmente importa sapere è di quanto il prezzo del titolo può variare. Che la direzione della variazione del prezzo - in su o in giù - sia irrilevante è stata la vera scoperta di Black e Scholes, e non a caso questa peculiarità delle opzioni ha rappresentato il maggior grattacapo per la costruzione del modello di calcolo del valore delle opzioni. Di fatto, essa spiega la natura asimmetrica dell’opzione: per l’investitore, la perdita potenziale sul derivato è limitata al premio di copertura, mentre il profitto potenziale è illimitato. Ciò che conta è il margine di variazione del titolo, il fatto che gli investitori si attendano che l’azione della Microsoft possa variare durante il periodo di vita dell’opzione al massimo di 10 punti percentuali, o di 5 punti nell’una e di 5

nell’altra direzione. Per chi acquista o vende opzioni ogni informazione riguardante l’impresa, la moneta, i tassi di interesse, o quant’altro, su cui si costruisce la copertura, è rilevante per definire il margine di variazione del valore del titolo. Di quanto varierà il valore del titolo nel periodo di vita del contratto opzionale? Di fatto, ciò che i derivati fanno è dare un prezzo all’incertezza. Prima della diffusione dei derivati, l’attività di compravendita di azioni o obbligazioni comportava determinati costi di transazione. Se i detentori di un’azione, ad esempio, percepivano il rischio che la quotazione del loro titolo diminuisse, la vendita di tale azione per acquistare altri titoli comportava inevitabilmente dei costi (commissioni, tasse, parcelle). Nella misura in cui permettono di assicurarsi contro l’eventualità di una variazione del valore dei titoli senza dovere venderli e acquistarli ogni volta che oscilla il prezzo, i derivati sono un modo per ridurre i costi impliciti in questo genere di transazioni finanziarie.72 La riduzione dei costi di transazione ha sicuramente facilitato l’aumento del volume dei titoli scambiati giornalmente sui mercati borsistici. Per i critici dei derivati questo aumento è all’origine del raccorciamento dell’orizzonte temporale entro il quale imprese e investitori definiscono le loro strategie. La conseguenza di tale accelerazione sarebbe responsabile del crescente scollamento dell’attività finanziaria dall’attività economica reale. L’attività finanziaria frenetica da una parte ha creato una classe di lavoratori improduttivi che si occupano solo di vendere e comprare simboli di ricchezza, dall’altra ha impedito all’«economia reale» di svilupparsi in modo da equilibrare produzione e occupazione, profitti e salari. Non bisogna però confondere la causa con l’effetto, ossia attribuire ai derivati la responsabilità dell’aumento, per quanto vertiginoso, del numero di scambi che ogni giorno vengono effettuati alle borse mondiali. Sono la fine del regime dei cambi fissi nel 1973 e l’abolizione del regime delle

commissioni fisse elevate del ’74, semmai, che spiegano l’aumento del numero di scambi sui mercati. Sono il forte aumento del deficit federale americano del 1981 e la necessità di finanziarlo aumentando il volume dei Buoni del Tesoro, che hanno rafforzato l’uso dei derivati come strumenti di gestione del rischio. L’uso dei derivati non sarebbe cresciuto così tanto se il cambiamento del contesto economico e politico non avesse posto l’incertezza al centro stesso dell’economia di mercato. «Il messaggio è l’incertezza, i derivati sono il messaggero». L’economista Merton Miller, professore all’Università di Chicago, difensore convinto dei nuovi prodotti finanziari, ha ragione quando sostiene che dietro le critiche alle innovazioni finanziarie si nasconde una sorta di riedizione dell’attacco che nel Settecento gli economisti fisiocratici avevano sferrato ai primi teorici dell’industrializzazione. «Non si mangiano le macchine!», dicevano i fisiocratici a tutti coloro che incominciavano a vedere nel lavoro d’industria un’attività altrettanto produttiva di quella dei contadini nei campi. La definizione fisiocratica del valore in termini esclusivamente fisico-materiali, l’idea secondo cui l’unico valore aggiunto concepibile sia quello che scaturisce dal lavoro agricolo, è molto simile al modo di pensare di coloro che non vedono assolutamente nulla di produttivo nelle attività finanziarie odierne. Per i «nuovi fisiocratici», l’attività finanziaria ha un carattere essenzialmente speculativo, è cioè distruttrice di ricchezza materiale e umana così come le macchine sarebbero state distruttrici di produzione e di occupazione nel settore agricolo (e non, invece, fattori di aumento della produttività del lavoro). «Non si mangiano i derivati!» I derivati sono visti come il simbolo di un modo di gestire una crescita della ricchezza che, mentre distrugge posti di lavoro salariato, arricchisce una nuova classe di rentiers e gonfia l’esercito dei servi assoldati dai mercati borsistici. Per quanto ideologicamente rassicurante, la critica dei nuovi

strumenti finanziari rimane il più delle volte alla superficie del problema. Se al posto delle grandi banche si mettono i Fondi pensionistici e d’investimento e se ai cartelli monopolistici si sostituiscono i mercati dei derivati, emerge lo schema con cui Hilferding definì all’inizio del secolo il capitale finanziario emergente. Il fatto è che oggi, come ai tempi di Hilferding, ciò che sta cambiando radicalmente è la natura della produzione di valore, della «combinazione dei fattori» all’origine del valore stesso. Ad esempio, l’espansione dei derivati, oltre ad essere la conseguenza dell’aumento dell’incertezza e della volatilità, riflette il cambiamento fondamentale nel modo in cui l’informazione circola all’interno dell’economia globale. I derivati sono veicoli di informazione in un’economia digitalizzata nella quale la socializzazione dei rischi è decisiva per gestire i rischi stessi. Non c’è dubbio che la possibilità della crisi stia sempre in agguato dietro la volatilità dei mercati, ma non è certamente il crack del 1987 e neppure quello del 1997 che permettono di dedurre meccanicamente l’origine della crisi dal «divorzio» tra economia reale e finanza. Con i derivati si possono realizzare guadagni e perdite pari a quelli realizzabili con i prodotti classici, senza con ciò dover investire in partenza somme importanti e senza incorrere in costi di transazione elevati. In tal modo, ossia aumentando le possibilità di investimento, la differenza finale tra le fondamenta dei derivati, cioè il liquido (cash) dei titoli soggiacenti e il valore nominale dei derivati, risulta molto elevata. Si parla di effetto leva dei derivati. Nel 1995 il valore totale dei titoli soggiacenti i contratti sui derivati - il cosiddetto «valore nozionale» - era pari a 40,7 mila miliardi di dollari,73 di cui 18 erano detenuti da poche banche commerciali. Soltanto 6 istituti finanziari detenevano 14 mila miliardi di dollari (Chemical, Citibank, Morgan, Bankers Trust, Bank of America e Chase).74 La definizione stessa dei derivati, cioè quella di essere dei contratti in cui le controparti si pagano reciprocamente solo la

variazione dei valori dei titoli soggiacenti, fa sì che, dei 40,7 mila miliardi di dollari di valore nozionale, solo 1,7 è realmente versato a scadenza, ciò che corrisponde al 4,3 per cento del volume totale dei titoli negoziati. Non bisogna quindi confondere, come accade spesso, il valore nozionale o, per così dire, cartaceo dei derivati scambiati giornalmente sui mercati, con il valore liquido (replacement cost) dei contratti stessi. L’effetto leva va insomma analizzato tenendo presente la definizione stessa dei contratti sui derivati, il fatto cioè che il loro valore monetario reale è calcolato sulla base dell’incertezza del valore dei titoli soggiacenti. La controparte di un’impresa che cerca di proteggersi dal rischio di caduta dei prezzi di vendita può essere un’altra impresa che ha bisogno di proteggersi da rischi opposti. Ad esempio, una compagnia petrolifera che vuole proteggersi dalla caduta del prezzo del petrolio può favorire una compagnia aerea che ha bisogno di proteggersi dal rischio opposto di aumento del prezzo del petrolio. Oppure un’impresa francese che ha bisogno di dollari per una filiale americana può assumere le obbligazioni in franchi francesi di un’impresa americana con filiali in Francia, mentre la compagnia americana può assumersi le obbligazioni in dollari della filiale in Francia. Nella maggioranza dei casi, comunque, la difficoltà di trovare una controparte con bisogni perfettamente simmetrici fa sì che la banca o il dealer all’origine del contratto assuma il ruolo di controparte in cambio di una commissione per la sua esecuzione. Le banche o i dealers possono assumersi questo ruolo di assicuratori di Società alle prese con rischi di volatilità nella misura in cui diversificano la loro esposizione su un numero elevato di clienti con bisogni differenti. Se necessario, le banche si rivolgono al pubblico e usano le opzioni per proteggersi, perlomeno in parte, da eccessive esposizioni al rischio. La diversificazione della gestione del rischio permette insomma di ridurlo socializzando il rischio stesso, cioè

distribuendolo su un numero elevato di soggetti. Dei 40,7 mila miliardi di dollari di derivati scambiati nel 1995, il 65,4 per cento riguardava contratti su tassi di interesse di singole valute, il 32,3 per cento erano contratti su tassi di cambio, l’ 1 , 5 per cento soltanto titoli azionari, e lo 0,8 per cento merci. Se si aggiunge che, della somma totale dei contratti su tassi di interesse e di cambio, il 55 per cento delle transazioni coinvolgeva controparti straniere, si ha un’idea del grado di globalizzazione di questi mercati. La gestione dei rischi concerne quindi in gran parte la volatilità relativa a tassi di interesse e di cambio. Ciò va analizzato alla luce dell’incertezza generata dalla politica monetaria delle banche centrali di fronte a processi disinflattivi di cui si è capito con molto ritardo la natura strutturale. La difficoltà di cogliere la portata storica dei prodotti derivati è paragonabile a quella con la quale ci si scontrò nel corso dell’Ottocento quando la moneta-segno, la moneta fiduciaria priva di un suo valore intrinseco, incominciò a circolare in quantità sempre più eccedenti la base aurea che pure rappresentava nominalmente. Nel periodo del gold standard l’oro non ha mai coperto quantitativamente la totalità della circolazione monetaria perché il bisogno di finanziamento degli investimenti andava ben oltre la quantità di denarocredito che l’oro detenuto dalle banche centrali consentiva di erogare. Di fatto, il denaro circolante si è sempre riferito all’oro come equivalente generale delle merci, e questo perché il denaro non è questa o quella materia, e neppure si riduce a questa o a quest’altra funzione soltanto. Il denaro è invece forma di valore,15 sedimentazione nel tempo delle forme delle attività sociali che concorrono alla produzione e alla distribuzione della ricchezza. Le funzioni del denaro quale mezzo di pagamento, misura e riserva di valore, si articolano storicamente tra di loro, solidificandosi in determinate istituzioni monetarie, per garantire la produzione e la circolazione della ricchezza sulla base della ricorrenza di

quei rapporti sociali che, mutando di epoca in epoca, concorrono alla sua creazione. Il denaro come forma del valore è quindi l’insieme di relazioni, istituzioni, simboli, idee, prodotti della vita economica, «cultura» nel suo aspetto sia linguistico sia materiale, in cui si fissa il fluire incessante della vita. E in ciascuna di queste manifestazioni del denaro, e nelle funzioni che le sottendono, che la vita sociale ed economica si esprime o, per meglio dire, si rapprende: la loro «oggettività», il loro essere sedimentazioni della vita, si contrappone alla fluidità della vita stessa.76 D’altronde, è in questa contraddizione tra fluire della vita e sua fissazione in forme di valore di volta in volta cangianti, che si annida la «tragedia» del denaro e dei suoi correlati epistemologici: il denaro non esiste che per la sua crisi.77 Nel caso dei prodotti derivati ci si trova di fronte ad una forma embrionale del valore in cui le funzioni del denaro si articolano in modo del tutto nuovo. La centralità dell’incertezza, il bisogno di socializzare il rischio di variazione dei tassi di interesse e di cambio in un periodo di ristrutturazione inedita dei processi di produzione e distribuzione della ricchezza sociale costringono ad interrogarsi sulla nuova natura del denaro e sulle modalità di funzionamento del sistema monetario. Ciò presuppone lo studio del sistema monetario in cui, oggi, si «rapprendono» le forme di vita. Il contributo macro-economico dei derivati risiede nel rendere possibile la creazione dei redditi, anticipando la vendita della produzione futura. Per definizione i contratti futures sono concepiti per rendere liquida la produzione finale delle merci, cioè per assicurare la creazione di una domanda solvibile in vista di una produzione futura. E d’altronde questo il contributo specifico dei derivati al problema macroeconomico della gestione dei rischi. La denominazione, ad esempio, di «cash-crops» di materie prime come il cotone, il caffè, il cacao, trattate alle borse merci internazionali,

designa esplicitamente l’assimilazione dei futures a un valore tanto liquido, e perfettamente costituito, quanto lo è il denaro contante. Una volta pronte per l’esportazione, queste materie prime non sono inventariate al loro prezzo di costo, ma al loro prezzo di vendita, espresso dalla quotazione del momento alla Borsa corrispondente. In altri termini, i contratti futures permettono a queste merci di essere considerate, prima ancora d’essere vendute, merci incorporanti un potere d’acquisto uguale al loro prezzo di vendita. In quanto tali sono del tutto simili ai beni prodotti su ordinazione che hanno un valore finale, o prezzo di vendita, riconosciuto socialmente nella sua totalità. Si tratta di una caratteristica che assume un’importanza fondamentale nel modo di produzione post-fordista in cui la centralità della vendita costringe a ristrutturare i modi di produrre a partire dalla domanda. Nel sistema economico postfordista il problema più difficile non riguarda solo la creazione di sbocchi o «nicchie» di mercato in funzione delle quali mobilitare le risorse disponibili. La determinazione di uno specifico sbocco di mercato per la vendita di beni o servizi deve essere completata dalla garanzia di solvibilità di una domanda finale puntuale, circoscritta alla produzione di questi beni o servizi. L’intima prossimità tra produzione e vendita si ripercuote sul valore del denaro versato a scadenza, sulla necessità di garantirne il più possibile la stabilità. In un modo di produzione basato sulla mobilitazione pressoché totale di competenze, vissuti, capacità relazionali umane, la forma monetaria del valore ha una valenza per così dire biologica. E proprio questa diretta dipendenza da un contesto al contempo locale e universale che apparenta il mondo di produzione postfordista a quello agricolo più antico. Quando l’investimento di risorse vitali avviene in un’economia monetaria tanto incerta quanto lo sono le condizioni atmosferiche, occorre fare il possibile per ridurre l’incertezza del valore del denaro, di ciò che rappresenta l’altra faccia del valore delle risorse umane

messe all’opera. La storia della nascita dei contratti a termine sulle ipoteche, come quella dei futures sui Buoni del Tesoro a breve (Treasury bills) o poliennali (Treasury bonds), permette di capire che le caratteristiche fondamentali dei derivati e la loro espansione vanno ricercate nel crescente bisogno di liquidità in contesti storici connotati da specifiche percezioni sociali del rischio e dell’incertezza.78 Dopo aver studiato la possibilità di sviluppare un prodotto derivato sui mutui ipotecari ispirandosi alle colture agricole, Richard Sandor si trovò a dover concludere che i contratti futures non potevano funzionare per le ipoteche. Diversamente da ciò che avveniva con il granoturco o i fagioli o la pancetta di maiale o altre derrate che possono essere classificate a seconda delle loro caratteristiche o vendute a camionate, le ipoteche avevano delle peculiarità specifiche. Venivano rimborsate a tassi diversi, legati al quartiere in cui si trovava l’immobile, al fatto che i proprietari fossero single, sposati o divorziati, ai livelli di reddito e a molti altri fattori. Le ipoteche non avevano caratteristiche comuni tali da trasformarle in prodotti di base.79

Ma nel 1970, un anno prima della pubblicazione dei risultati della ricerca in cui Sandor dichiarava l’impossibilità di standardizzare le ipoteche, gli enti governativi avevano emesso un titolo denominato «Ginnie Mae», grazie al quale investitori istituzionali come le compagnie assicurative, i fondi pensione, le banche d’investimento, compravano quote di un fondo costituito da ipoteche. Con i «Ginnie Mae» il governo aveva trovato il modo di convogliare risparmio per la promozione della proprietà immobiliare laddove i depositi bancari locali erano insufficienti. Dal momento che gli americani detenevano gran parte dei loro risparmi sotto forma di polizze di assicurazione o di fondi pensione, era logico che per le ipoteche si facesse ricorso a questi capitali. I «Ginnie Mae» contribuirono a collegare l’alta finanza con il grosso pubblico della provincia, rendendo possibile a Sandor e, in seguito, al Chicago Board of Trade, di avviare l’operazione di

standardizzazione delle ipoteche, premessa necessaria per la creazione di un mercato dei futures sulle ipoteche indispensabile per cautelarsi dai rischi legati alle variazioni dei tassi di interesse. La classificazione di un bene come la casa comporta la suddivisione delle ipoteche a seconda dei rischi, così che un Fondo pensione americano può acquistare i pagamenti del capitale, una compagnia giapponese di assicurazione sulla vita può comprare i pagamenti degli interessi fino a tre anni, l’opzione del mutuatario al pagamento della sua prima ipoteca può essere acquistata da una banca tedesca, e così via. Con questa operazione di standardizzazione di un bene complesso come la casa, prende avvio la securitization, il processo di titolarizzazione (o «cartolarizzazione») dello stock di capitale locale sul mercato globale. E d’altronde interessante notare come la standardizzazione di un bene immobiliare come la casa abbia preceduto quella che, con Fapertura di mercati borsistici in Germania, Francia, Svizzera, Singapore, Hong Kong, Osaka e Shanghai, sarà la globalizzazione dei mercati degli anni ’90. La nascita di mercati borsistici in cui vengono trattati i futures e le opzioni sui Buoni del Tesoro del governo tedesco o di quello italiano, o sulle obbligazioni del governo francese e di quello giapponese, in altre parole la determinazione di un mercato globale caratterizzato dalla natura mobiliare del capitale, ha origine nell’operazione di standardizzazione del mercato immobiliare, ossia di un mercato che ha bisogno di attirare capitale per poter crescere oltre i limiti imposti dai depositi bancari locali. Ed è ancora più importante notare come questa operazione costitutiva di ciò che chiamiamo globalizzazione prenda avvio da un ente governativo, cioè dallo Stato nazionale, che emette titoli di nome «Ginnie Mae» per facilitare il dirottamento di capitali gestiti dai Fondi pensione e di investimento. Come dire che la globalizzazione, se da una parte mette in crisi il concetto di Stato-nazione, dall’altra è un processo in cui la nuova

finanza istituisce uno spazio nel contempo globale e locale. Chiamiamo Stato globale il processo istituzionale in cui lo sviluppo locale dipende dai movimenti di capitale, tanto quanto quest’ultimo dipende costitutivamente dal superamento dei limiti, sociali ed economici, dei luoghi dello spazio mondiale. E grazie alla securitization dei crediti ipotecari (che, ad esempio in Italia, sta avvenendo da qualche anno con accordi tra piccole e grandi banche locali e merchant banks internazionali come la Bankers Trust, la Morgan Stanley e la Natwest) che è stato possibile sviluppare i prodotti derivati al di là dei confini agricoli originari, oltre i cereali e la pancetta di maiale, trattate a Chicago sin dal 1858. La standardizzazione del «bene casa» è la conseguenza del bisogno di liquidità e della necessità di superare i limiti locali per sviluppare un settore socialmente e politicamente strategico come quello immobiliare. Nel corso degli anni settanta e ottanta, dominati da elevati tassi di inflazione, il ceto medio si è infatti consolidato prima di tutto attorno alla proprietà immobiliare, in seguito grazie all’investimento del risparmio in Buoni del Tesoro. Durante gli anni dell’inflazione, statunitensi, canadesi, australiani, giapponesi e gran parte degli europei hanno subito il fascino della casa di proprietà. Il prezzo della casa saliva fino a non aver più nessun rapporto con il prezzo d’acquisto, e tutti erano contenti. Contenti almeno finché la cuccagna durava, soprattutto se la proprietà valeva un bel po’. L’inflazione del valore della casa era infatti un potente meccanismo di ridistribuzione della ricchezza. Chi non aveva una casa di proprietà era sfavorito: come tutti, continuava a pagare sempre più cari beni e servizi ma, a differenza dei proprietari, non era compensato da guadagni in conto capitale esenti da imposte.80

È molto probabile che l’inflazione dei prezzi delle abitazioni abbia fatto salire l’inflazione generale, sia perché, incoraggiando i consumi indotti dalla stessa proprietà della casa, ha fatto crescere la ricchezza, sia perché, dovendo in qualche modo compensare il costo crescente delle abitazioni, ha finito col promuovere l’inflazione dei salari. D’altronde, la casa rappresenta un crocevia di valori materiali e immateriali che ben si prestano a riassumere il concetto stesso di ceto

medio, al di là della sola distribuzione dei redditi attorno alla media o alla mediana. La formazione della classe media come ceto politico non sarebbe stata comunque possibile senza un aumento dei suoi redditi oltre gli aumenti salariali, ciò che, anche grazie alle facilitazioni fiscali sulla proprietà immobiliare, fu assicurato da tassi ipotecari nominali mediamente inferiori ai tassi d’inflazione. Di conseguenza, il debito ipotecario reale (tasso ipotecario nominale meno tasso d’inflazione) cresceva in quegli anni meno dell’aumento del valore reale dei beni immobiliari. Negli anni di inflazione, indebitarsi per acquistare una casa aveva cioè una valenza speculativa oltre a quella abitativa, esattamente come, negli anni ’80, la detenzione di Buoni del Tesoro a tassi nominali cumulativamente superiori ai tassi inflazionistici ha permesso di distribuire ricchezza reale all’interno di un ceto medio alle prese con la crisitrasformazione del regime salariale fordista. Negli anni ’90 saranno gli investimenti del risparmio, per il tramite dei Fondi pensione e d’investimento, sul mercato borsistico a garantire il medesimo meccanismo di creazione e distribuzione di redditi aggiuntivi. Nel corso degli anni ’70, negli Stati Uniti, il rafforzamento dei ceto medio non sarebbe stato possibile senza la creazione di un mercato dei contratti a termine (futures) che permettesse alle banche e alle cooperative di risparmio, come le Savings & Loan Associations» «di cautelarsi contro i rischi legati alle variazioni dei tassi di interesse. I primi anni ’70 sono gli anni in cui il governo aumenta il deficit pubblico per finanziare la guerra nel Vietnam, e continua fino alla fine del decennio per gestire le conseguenze sociali della guerra, come la povertà e l’esclusione dei reduci del conflitto. In tale contesto nazionale e internazionale, in cui i tassi di interesse possono (prevedibilmente) variare per regolare la gestione complessiva delle variabili economiche, l’unico modo di convogliare capitali per la promozione della proprietà

immobiliare è quello di assicurare gli investimenti degli istituti finanziari. Esattamente come l’agricoltore che deve attendere qualche mese prima che la semina di fagioli arrivi a maturazione, o come chi investe in titoli di Stato per finanziare una guerra senza sapere come andrà a finire, i risparmiatori che investono per il tramite dei Fondi pensione in titoli di cui non conoscono in anticipo il valore futuro devono essere rassicurati perlomeno contro il rischio di non perdere il capitale anticipato. La nascita della nuova finanza comporta una sorta di Aufhebung delle caratteristiche locali della comunità sociale. Ma l’esigenza della standardizzazione a sostegno della globalizzazione dei mercati finanziari, il fatto che le caratteristiche dei soggetti che possono ottenere prestiti ipotecari sono determinate «dall’alto», sconta un processo di segno diverso e forse più potente dei mercati stessi. La guerra del Vietnam non determinò soltanto il contesto macroeconomico e finanziario che diede origine al bisogno dei prodotti derivati per assicurare la continuità e il rafforzamento del ceto medio americano. Il Vietnam fu all’origine di un movimento globale di lotta contro la guerra. La soluzione locale di un problema che ha origine in questioni che hanno valenza universale, come il diritto all’autodeterminazione dei popoli, fa della globalizzazione un processo che riproduce su scala allargata l’essenza stessa di queste soluzioni. I prodotti derivati rappresentano una rivoluzione per la loro capacità di creare le condizioni indispensabili per la mobilità dei capitali, ma la loro forza innovativa discende dalla rivoluzione del concetto stesso di spazio-tempo. I derivati sono lo specchio di una rivoluzione in cui tempo e spazio si costituiscono a partire da processi la cui essenza sta altrove da ogni tempo e da ogni spazio. Questo altrove è l’essenza stessa della vita collettiva, quella «cosa» che tiene assieme la comunità umana la quale, per poter vivere dentro il tempo e dentro lo spazio, è costretta a pensarsi oltre il

tempo e oltre lo spazio. Nel suo studio su Chicago come «storia del nostro futuro», Marco d’Eramo81 spiega come la standardizzazione, che ha permesso di gestire i rischi di portafogli d’investimento sempre più diversificati, sia consustanziale alla definizione stessa dei prodotti derivati. Definire criteri uniformi di qualità, quantità, peso, volume è più semplice nel mondo delle macchine, degli utensili o delle monete, dato che si tratta di strumenti artificiali pensati per essere standard. «Molto di più colpisce la standardizzazione di una gallina, un uovo, un vitello, un porcellino o una qualità di grano». È infatti da questi prodotti che nasce a Chicago il primo mercato organizzato dei futures a metà del secolo scorso. Nel 1841 un intermediario cerealicolo di nome W.I. Whiting e un manovratore di montacarichi di nome Thomas Richmont costituirono il Chicago Board of Trade, un circolo informale che non aveva né uno statuto legale né una struttura societaria. Nei suoi primi anni di vita il Board operò per fissare dei sistemi di controllo e dei criteri di classificazione per il grano, la carne di maiale, la carne bovina, il legname e altre derrate e redigeva un rapporto quotidiano sulle condizioni e i prezzi del mercato che inviava per telegrafo ai suoi iscritti. Nasce così la standardizzazione, ossia la definizione in termini di caratteristiche, scadenze, prezzi d’esercizio, tipo di soggiacenti, montanti dei derivati, tutti aspetti che rendono questi prodotti estremamente liquidi (un compratore non ha nessun problema a rivendere i suoi contratti, né un venditore ad acquistarli). In natura, ricorda D’Eramo, non crescono carote tutte uguali di qualità 1 o pere tutte uguali di qualità 2. La natura offre una scala continua di beni. Affinché questi beni prodotti in natura diventino merce scambiabile in astratto, su carta, «il mercante di futures deve sostituire una graduatoria discontinua di limitate qualità «diverse: 1, 2, 3,...». La standardizzazione avviene distribuendole carote o i maiali o altre merci all’interno di queste categorie omgenee di qualità, astrattamente definibili

per enumerazione, sfumature più sottili di varietà, che si situano «tra» una cat e l’altra, saranno quindi sacrificate sull’altare della quantificazione artificiale, con perdita notevole per il sapore delle cose. («Quella «essa definizione che si disinteressa del sapore delle cose tende a produrre cose senza sapore», un concetto facilmente comprensibile per chi soggiorna negli USA per qualche tempo). La standardizzazione, imposta fin dai suoi primi inizi dal mercato dei futures di Chicago, il fatto di poter vendere o comprare a termine il «bue ideale» o l’«idea di bue» al quale il bue reale dovrà adeguarsi per essere mercatizzato, Marco d’Eramo la vede come una vera e propria operazione epistemologica: Per quanto all’inizio derivi da una pura convenzione arbitraria, il nome della cosa produce la sua cosa. Non solo. Esso ne definisce l’essenza, la quidditas, e perciò esclude dalla sua sostanza tutto ciò che non rientra nella sua definizione. Nel mercato dei futures di manzo non è definito il sapore della bistecca, come nei futures delle mele non è definito il sapore, ma solo la varietà, la dimensione, il colore.

Fissare in termini aritmetici il valore di un future o di una opzione sui futures, il cui soggiacente è un prodotto con caratteristiche qualitative molto differenziate, comporta un’astrazione dal valore d’uso della cosa più radicale ancora della normale astrazione dai valori d’uso più diversi effettuata dal denaro. L’astrazione a mezzo di futures porta alla «quidditas della mela, la "merita" definita dal colore, dalla consistenza, dalla dimensione, più in generale dalla forma, ma non dal sapore».82 Quale è la quidditas della «moltitudine sociale»83 che emerge dietro la generalizzazione dei derivati? Esiste una «moltitudinità» capace di sapore, di vita, di pensiero di segno opposto a quello determinato dalla globalizzazione dei mercati? Forse sono queste le domande alle quali ogni giorno, senza rendercene conto, rispondiamo, cercando di dare un senso a ciò che facciamo e desideriamo.

4. L’incertezza keynesiana

La domanda di liquidità veicola la trasformazione della politica keynesiana dalla sua dimensione nazionale a quella globale. In epoca fordista lo Stato nazionale disponeva di una relativa autonomia per quel che riguardava il perseguimento degli obiettivi sociali interni. Questa autonomia era assicurata dalle restrizioni alla circolazione internazionale dei capitali. Il passaggio dal regime dei cambi fissi a quello dei cambi flessibili sigla la transizione internazionale da un keynesismo in cui prevaleva il consolidamento su scala nazionale del modello produttivo fordista, a un keynesismo in cui la crescita economica viene gestita con la socializzazione del consumo e l’indebitamento pubblico. La politica keynesiana di deficit spending, il finanziamento della spesa pubblica in modo relativamente indipendente dalle entrate tributarie, permetteva allo Stato di creare una domanda aggiuntiva ai redditi salariali versati all’interno del circuito economico. Ma negli anni ’80 e ’90 i margini di manovra per una regolazione keynesiana della crescita economica e sociale si restringono progressivamente fino a scomparire quasi completamente. Nelle politiche statali odierne, agli obiettivi di ridistribuzione statale dei redditi tra le classi sociali si sostituisce la politica di riduzione della spesa e del debito

pubblico, un cambiamento che tende inevitabilmente a rafforzarsi con la liberalizzazione dei movimenti di capitale. La crisi del keynesismo non comporta la retrocessione a schemi, prima di tutto teorici, di determinazione delle variabili strategiche dello sviluppo. Si tratta in tutti i sensi di una crisi di trasformazione che del keynesismo conserva comunque l’aspetto cruciale: come gestire l’incertezza, come valutare in anticipo la probabi-fità che il peggio accada. Di Keynes rimane il «nove volte su dieci», il Trattato sulla probabilità del 1920,84 la questione della «inferenza non dimostrativa» che Rudolf Carnap riprenderà nella sua opera Logicai Foundations of Probability del 1950. Il problema di come assicurare a beni e servizi di essere «liquidi come denaro contante» permette di vedere nei derivati una specifica declinazione del concetto di preferenza per la liquidità, definito compiutamente da Keynes negli anni ’30, ossia dopo la Grande crisi del ’29. Nel capitolo XVII della Teoria generale85 («Le proprietà essenziali dell’interesse e della moneta») Keynes sostiene che il denaro ha un valore particolare, tale da preferirlo agli altri beni capitale. Questo vantaggio del denaro liquido su tutte le altre merci consiste nella comodità e nella sicurezza offerta dalla sua disponibilità. A parità di valore tra un determinato bene capitale, supponiamo una macchina, e la somma di denaro corrispondente al suo prezzo, il denaro ha un valore che, come scrive Keynes, «non si estrinseca in alcunché di visibile», 86 ma che tuttavia rappresenta una caratteristica per la quale la gente è disposta a pagare qualcosa, il cosiddetto premio di liquidità. La nozione di «premio di liquidità», che è poi il tasso di interesse, è sempre stata una nozione piuttosto curiosa: non è forse strano definire una differenza qualitativa tra due forme dello stesso valore? Perché mai il possesso di una somma di denaro dovrebbe essere preferibile a un bene capitale di pari valore? Il valore economico non è forse l’astrazione per eccellenza da qualsiasi qualità specifica? Mille franchi in

denaro non è una quantità più grande di una merce che ha un valore di mille franchi. Ma una somma di mille franchi in denaro non è la stessa cosa di una merce di mille franchi. La prima cosa è sempre preferibile alla seconda: se non quantitativamente, le è superiore almeno qualitativamente. L’«assurdità» del concetto keynesiano di preferenza per la liquidità si capisce però facilmente se si tiene presente il contesto storico in cui Keynes sviluppò la sua teoria monetaria. Negli anni immediatamente successivi alla crisi del ’29, la paura di una crisi da sovrapproduzione era ancora molto viva, ed è per evitare la ripetizione del ’29 che Keynes elabora la nozione di preferenza per la liquidità. Si preferisce il denaro quando si ha paura di non poter vendere, cioè di non poter realizzare monetariamente la ricchezza che si detiene. Per il denaro liquido, per la sua disponibilità, per assicurarsi contro l’incertezza, si è pronti a pagare un premio, cioè un interesse, pur di non restare con in mano una ricchezza illiquida, un bene capitale invendibile. La definizione della moneta come forma specifica di assicurazione contro l’incertezza residuale, contro il «nove volte su dieci», è del tutto chiara in Keynes: «Il nostro desiderio di detenere moneta come riserva di ricchezza è un barometro del nostro grado di sfiducia nelle nostre capacità di calcolo e nelle nostre convenzioni sul futuro... Esso subentra nei momenti in cui le più superficiali, più instabili convenzioni si sono indebolite».87 La superiorità qualitativa del denaro consiste nel suo essere strumento di riconoscimento, di validazione sociale del valore delle merci. E quando i consumatori acquistano un bene che il suo venditore ne ha effettivamente realizzato il valore. Tutto ciò che permette di esprimere la stessa validazione sociale è desiderabile tanto quanto il denaro. Non è il denaro ad essere un fine in sé, è la vendita. E in quanto frutto della vendita che il denaro diventa un fine in sé. Sarebbe meglio dire che è la continuità della vendita ad essere un fine in sé, al punto da

rendere qualsiasi strumento finanziario in grado di assicurare la continuità del processo di valorizzazione «buono come il denaro». L’insistenza di Keynes sulla superiorità del denaro rispetto a beni di valore quantitativamente identico si spiega alla luce della paura della crisi, della paura che la domanda di denaro in quanto «bene superiore» - la tesaurizzazione - porti alla paralisi del processo di valorizzazione, cioè alla crisi. Occorre forse ricordare che nel capitolo xvn della Teoria generale, Keynes ha come bersaglio l’idea, ancora diffusa tra i suoi contemporanei, che il denaro come forma suprema della ricchezza sia l’oro. La definizione keynesiana del denaro non ha sicuramente nulla a che fare con l’idea, sempre cara alla ortodossia marxista, secondo cui il denaro è incarnazione del lavoro astratto contenuto nelle merci scambiate. Per Keynes, e questo già dal suo Treatise on Money del 1930, la forma suprema del denaro risiede nel suo essere «money of account», unità di conto, veicolo vuoto la cui funzione essenziale è quella di stabilire contabilmente le relazioni di debito-credito tra i soggetti economici.88 Ci si potrebbe chiedere, quindi, se la sua teoria dell’incertezza non sia in qualche modo il riflesso della sua critica al sistema monetario a base aurea, al fatto che essenzialmente la crisi può scoppiare allo quando la domanda di denaro è domanda di denaro-merce, di oro. In un regime monetario in cui l’oro sia presente come tallone, misura della ricchezza «in ultima istanza», la domanda di denaro (la tesaurizzazione) per assicurarsi contro le incertezze del futuro porta diritti alla crisi, perché la quantità d’oro detenuta dalle banche centrali non è mai quantitativamente sufficiente a soddisfarne la domanda. La critica di Keynes alla Legge di Say non sarebbe quindi altro che la ripresa della critica che Marx fece alla teoria della moneta-merce di Ricardo. Basta eliminare il «falso» problema ricardiano della costruzione di una unità di misura fissa che permetta di individuare le cause della

variazione dei prezzi (la famosa «misura invariabile del valore») e il gioco è fatto. Una conseguenza logica di tale interpretazione della teoria del denaro di Keynes sarà quindi quella di considerare l’eliminazione dell’oro come il primo passo verso l’eliminazione della causa fondamentale dell’incertezza. L’economista Bernard Schmitt avrebbe quindi ragione di considerare il problema della tesaurizzazione come un problema logicamente risolvibile.89 A questo punto, infatti, l’unico ostacolo che rimane da superare è quello di riformare il sistema monetario impedendo la circolazione di monete nazionali sul piano internazionale. Con l’instaurazione di una moneta sovranazionale apatride, pura unità di conto dei rapporti di scambio tra economie nazionali finalmente simmetrici, si elimina tout court il problema di quale regime di cambio sia preferibile. In questa visione delle cose l’incertezza è l’effetto di un «errore umano», di un sopruso da parte di un paese, gli Stati Uniti, che imponendo al resto del mondo di accettare la loro moneta nazionale violano le leggi elementari della Logica. Nella teoria di Schmitt, l’incertezza è eliminabile se ci si rifa alla razionalità di un sistema costruito su basi rigorosamente logiche e non contaminate da interessi politici partigiani. Non sembra questo il modo con il quale Keynes definisce l’incertezza nella sua teoria economica complessiva.90 Il punto essenziale, come evidenziato da Skidelsky, è la distinzione di Keynes tra probabilità e incertezza. Un conto sono le «probabilità conosciute», l’incertezza legata alle aspettative di breve periodo che generalmente accompagna gli imprenditori. Ben altra cosa sono le «probabilità sconosciute», quelle che riguardano gli investimenti di lungo periodo, l’incertezza come esplosione di quelle probabilità che «non possono dipendere da una rigorosa speranza matematica, perché non esiste la base per compiere tale calcolo».91 La probabilità estrema, l’«evento residuale», quello che fa scoppiare la crisi, non è eliminabile

con un’organizzazione del sistema razionalmente-logicamente costruita, perché la crisi si scatena quando viene meno la legittimità dell’ordine del mercato, «la fede stessa, la credenza di cui questa società ha bisogno per costituirsi». 92 La preferenza per la liquidità è simmetrica alla crisi di fiducia nella possibilità di una data organizzazione dell’economia di poter continuare a funzionare sulla base di regole e di principi che pretendono di avere una valenza assoluta e a-storica. In Keynes, la moneta come unità di conto è sicuramente la massima astrazione concepibile, la possibilità di enumerare il valore delle merci senza passare dai luoghi sporchi del lavoro concreto, senza cadere nelle difficoltà, logicamente irrisolvibili, di come fare astrazione dalla molteplicità dei lavori tra loro diversissimi per qualifica professionale o utilità sociale. Ma la superiorità di Keynes, quel suo essere «grande borghese» che conosce l’incertezza perché in essa ci vive, risiede nel fatto che Keynes sa che la mente umana non può esorcizzare il corpo della comunità umana. Scrive nella Teoria generale: Le decisioni umane che influiscono sul futuro, siano esse personali o politiche o economiche, non possono dipendere da una rigorosa speranza matematica, poiché non esiste la base per compiere tale calcolo; ... è il nostro stimolo innato all’attività che mantiene il meccanismo in azione, mentre il nostro raziocinio sceglie fra le alternative nel miglior modo possibile, mediante il calcolo dove possiamo farlo, ma spesso ricadendo sul capriccio o sul sentimento o sul caso per trovare un movente alla nostra azione.

Il limite che definisce la soglia d’incertezza assoluta è il limite posto dal corpo collettivo alla capacità del pensiero di voler prescindere da esso, cioè di operare per pura astrazione linguistico-mentale, per riduzione ad unum.93 II limite è il modo in cui si di storicamente quel corpo collettivo che chiamiamo società e che si dà concretamente nelle forme del suo fare, dei suoi sentimenti, dei miei «capricci», dei suoi desideri. E il corpo concreto che continuamente si manifesta come ammonimento nelle seduzioni faustiane. Ed è un corpo

collettivo, se è vero che il «grande borghese», nei momenti di incertezza, si pensa come classe e come tale agisce non appena percepisce che qualcosa sta girando male. Il premio della liquidità «che noi pretendiamo per dividerci dalla moneta è la misura della nostra inquietudine». 94 E l’inquietudine «borghese» di restare con pezzi di carta in mano, con simboli di ricchezza non convertibili in denaro spendibile. L’essenza della modernità, di cui Keynes è la massima espressione nel campo della teoria economica, è la percezione della immanenza della crisi, l’eco delle parole con cui Marx fissa l’essenza della modernità nel Manifesto del 1848: «Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria». La paura che rende il denaro qualcosa di qualitativamente superiore a tutte le altre forme di ricchezza è la paura che le convenzioni non riescano più ad assicurare l’interesse, l’utilità dell’«essere in mezzo» a una società non più socialmente e politicamente coesa. Con la crisi monetaria è un modello di società che «si dissolve nell’aria». Sapendo che il nostro giudizio individuale non vale nulla, cerchiamo di ricorrere al giudizio del resto del mondo, che forse è meglio informato. Cioè cerchiamo di conformarci al comportamento della maggioranza o della media. La psicologia di una società di individui, ciascuno dei quali cerca di copiare gli altri, conduce a ciò che potremmo definire un giudizio convenzionale.95 E dunque razionale imitare gli altri in un contesto di incertezza, quando il «giudizio convenzionale» si scontra contro l’indicibile, la soglia dell’incertezza sconosciuta. A quel punto il comportamento mimetico fa precipitare il meccanismo economico nella crisi. Tutti corrono a vendere i simboli di ricchezza, tutti vogliono avere la «certezza monetaria» di esistere. Nella teoria keynesiana il concetto di «convenzione» rimanda ad una razionalità economica storicamente determinata, a «leggi consuetudinarie», che diventano norme

di comportamento finanziario in virtù della ripetizione e della stabilità dei rapporti sociali.96 A questo proposito il disincanto di Keynes verso la teoria economica ortodossa resta a tutt’oggi un esempio insuperato di «metodo scientifico»: In pratica, si è tacitamente convenuto, di regola, di ricorrere sostanzialmente ad una convenzione. L’essenza di questa convenzione (...) sta nel supporre che lo stato di cose esistente continuerà indefinitamente, salvo in quanto vi siano motivi specifici per attendersi un mutamento... Il metodo convenzionale di calcolo sarà compatibile con un grado notevole di continuità e stabilità nei nostri affari fino a quando possiamo confidare che la convenzione sarà mantenuta... Una procedura del genere di questa testé descritta - ne sono certo - è quella che ha fornito la base per lo sviluppo dei nostri principali mercati di investimento. Ma non vi è da sorprendersi che una convenzione, tanto arbitraria se s,i considerano le cose da un punto di vista assoluto, abbia i suoi punti deboli. E questa sua precarietà che costituisce una non piccola parte del nostro problema contemporaneo di assicurare un investimento sufficiente.97

Durante i decenni di crescita del Welfare State l’inquietudine del capitale è ridotta al minimo, il capitale è disposto a «dividersi dalla moneta», a investire massicciamente in mezzi di produzione e a creare occupazione. Ma, si badi, questo accade non a causa del livello dei tassi di interesse, ma perché bassa è la probabilità di non vendere tutto quanto si è prodotto. E la forza della convenzione che rende relativamente importante il livello dei tassi di interesse: «Giacché il suo valore effettivo è in gran parte governato dall’opinione prevalente su quello che sarà, secondo le aspettative, il suo valore futuro. Qualsiasi livello di interesse che sia accettato con sufficiente convinzione come probabilmente durevole, sarà durevole».98 Nel periodo di crescita economica fordista, per gli imprenditori il futuro è garantito dall’espansione della domanda effettiva, del mercato, che lo Stato sociale contribuisce ad alimentare con la spesa pubblica e la ridistribuzione dei redditi. I profitti crescono perché non hanno difficoltà a realizzarsi monetariamente, perché esiste una domanda che lo Stato socializza verso il basso, aumentando così la propensione a consumare.

L’esplosione dei prodotti derivati si spiega alla luce del cambiamento del contesto storico e della ridefinizione dell’incertezza che ne consegue. Il sistema economico non corre più il rischio di una ripetizione della crisi da sovrapproduzione del ’29, perché le banche centrali non hanno nessun interesse a privare il sistema della liquidità di cui ha bisogno. Si può affermare che da tempo ormai le recessioni hanno preso il posto della «grande crisi», e forse i crack borsistici stanno prendendo il posto delle stesse recessioni. Non per questo il rischio di perdita di valore dei titoli di ricchezza è stato eliminato una volta per tutte. Anzi, questo pericolo è aumentato da quando i tassi di interesse e di cambio delle valute si muovono in modi sempre più imprevedibili. Il rischio è aumentato soprattutto da quando lo Stato ha cessato di creare redditi aggiuntivi con il finanziamento in deficit della spesa pubblica. Non basta la disponibilità da parte delle banche centrali a creare liquidità per evitare il crollo del sistema finanziario. Ciò che occorre assicurare è la creazione di redditi liquidi, senza i quali la realizzazione monetaria della ricchezza, ossia la vendita, non si darebbe se non attraverso una crisi da sovrapproduzione dopo l’altra. E la modalità di creazione dei redditi che caratterizza l’uscita dal keynesismo. Durante l’era di Bretton Woods la prevedibilità dei tassi di cambio e dei tassi di interesse era inscritta negli accordi stessi. Agganciando i tassi di cambio delle monete dei paesi-membri alla parità del dollaro con l’oro (per quanto fittizia, per quanto formale), l’evoluzione dei tassi di interesse era prevedibile, perché discendeva dal sistema dei cambi fissi e perché rifletteva una politica di spesa sociale espansiva. D’altra parte, all’interno del sistema monetario di Bretton Woods l’indebolimento iniziale del dollaro favoriva le imprese americane, che quindi non avevano incentivi particolari a gestire il rischio di svalutazione che operava in loro favore sul versante delle esportazioni. Il passaggio al regime dei cambi flessibili dei primi anni ’70

pone la necessità di creare tutta una serie di dispositivi finanziari per «navigare a vista» in un contesto sempre più caratterizzato dalla instabilità dei tassi di cambio e di interesse. In questi anni l’attività di innovazione finanziaria ha come obiettivo quello di estendere a tutti i valori monetizzati il principio dei futures e delle opzioni che avevano fatto la fortuna del Chicago Board of Trade nella seconda metà dell’Ottocento. Nei primi anni ’80, in seguito alla svolta monetarista della Fed, le imprese americane e i gestori istituzionali di fondi di risparmio si trovano confrontati con un dollaro forte e con tassi di interesse reali che sembrano dover salire inesorabilmente. I mercati finanziari si sviluppano perché gli investitori hanno bisogno di proteggersi contro dinamiche imprevedibili e potenzialmente devastanti, quelle dinamiche che si accentuano con la riduzione del livello generale dei prezzi. «Per tutti gli anni ’80 - scrive Bootle - in piena tendenza disinflazionistica, i mercati hanno continuato ad agire in previsione di un ritorno dell’inflazione, sia pure non ai livelli degli anni precedenti». 99 La sopravvivenza delle aspettative inflazionistiche di tipo fordista, in un contesto disinflattivo nuovo e duraturo, ha reso la transizione al post-fordismo un processo altamente instabile, un processo in cui l’incertezza sul futuro si è trasformata in fenomeno sociale generale. L’affermazione del modello di crescita post-fordista non sarebbe stata possibile senza una trasformazione della percezione sociale dell’incertezza, senza un cambiamento dell’orizzonte temporale entro il quale la comunità sociale si pensa e si riproduce. Dal keynesismo statale si è passati al «keynesismo di mercato», un regime in cui la determinazione della domanda effettiva su scala mondiale vede il dirottamento sui mercati borsistici di masse enormi di risparmio per ristabilire in termini reali il rapporto tra salario diretto e salario indiretto, tra reddito attuale e reddito futuro. Si tratta di un passaggio che per importanza storica è

paragonabile al New Deal degli anni ’30, la risposta pratica di Roosevelt alla crisi del 1929. La svolta monetarista di Volker del 1979 sigla l’impossibilità di ritornare alla dottrina economica precedente, quella in cui lo Stato sociale ha gestito la crescita massificata fordista. Gli Stati Uniti sono di nuovo depositari di «un esperimento ragionato nel quadro del sistema sociale esistente», per usare le parole con cui Keynes si esprimeva in una lettera aperta a Roosevelt, pubblicata sul New York Times il 31 dicembre 1933. Come allora, «la difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle idee vecchie».

5. Il capitalismo dei Fondi pensione

Una delle conseguenze più importanti del «salto di paradigma» post-fordista riguarda il ruolo dei Fondi pensione e dei Fondi comuni d’investimento nella definizione della sicurezza sociale all’interno del mercato unico europeo dei capitali. Benché ancora lontani dalla privatizzazione completa del sistema pensionistico auspicata dalla destra liberista, non c’è dubbio che in Europa la tendenza generale sia verso il rafforzamento dei sistemi previdenziali basati sul principio della capitalizzazione rispetto al tradizionale sistema pensionistico pubblico basato sul principio della ripartizione. Uno spostamento di tale importanza si spiega alla luce di una diversa percezione sociale dell’incertezza e del rischio risultante dai nuovi modi di produrre ricchezza. La crisi dello Stato sociale è certamente responsabile della insicurezza diffusa riguardo il futuro delle rendite pensionistiche e, quindi, del ricorso crescente a forme di investimento del risparmio privato sui mercati dei titoli. Ma il disinvestimento statale, da solo, non basta a spiegare un cambiamento di questa portata, sia perché la rete della sicurezza sociale è ancora sufficientemente solida, sia perché il rischio di delegittimazione politica è ancora elevato sul fronte della previdenza pubblica. Il problema, semmai, è spiegare il

rapporto sempre più «disinvolto» dei cittadini con i mercati borsistici. Durante la crisi asiatica, ad esempio, la maggior parte di coloro che, per il tramite dei Fondi, avevano investito parte dei propri risparmi in titoli asiatici, non si è lasciata prendere dal panico. Di fronte al rischio di perdere somme importanti, i piccoli risparmiatori sono stati sicuramente meno catastrofici degli economisti e degli specialisti finanziari che per settimane hanno descritto in termini apocalittici gli effetti della crisi asiatica sulle economie occidentali. Se avessero dato retta alle loro analisi, la crisi asiatica sarebbe stata certamente molto più lunga e più grave. Il che, ovviamente, non toglie nulla alla gravità della crisi, ma dimostra che il rapporto tra gestione del reddito complessivo e percezione del rischio della massa dei piccoli e medi risparmiatori è mutato. Un modo per spiegare la composizione, l’evoluzione e la destinazione del risparmio delle economie domestiche nel corso degli anni ’80 e ’90 è quello di analizzare il tasso di disinflazione e i suoi effetti sulla ricchezza attesa. Nei paesi in cui, negli anni ’70, l’inflazione era relativamente moderata, come in Germania e in Svizzera, la disinflazione degli anni ’80 e ’90 è stata meno marcata. In questi casi il volume del risparmio non ha conosciuto le riduzioni importanti che si sono avute nei paesi in cui la diminuzione del livello generale dei prezzi, invece, è stata molto più forte e più rapida. In questi paesi la ricerca di rendimenti elevati ha portato i risparmiatori ad investire in titoli di proprietà a prezzi crescenti, come ad esempio nel settore immobiliare. La deregolamentazione, facilitando l’erogazione del credito ipotecario e la speculazione, ha contribuito anch’essa a gonfiare il valore della ricchezza patrimoniale. Nella prima metà degli anni ’90 il risparmio ha ripreso ad aumentare più o meno ovunque perché durante la recessione le economie domestiche hanno cercato di ridurre i debiti precedentemente accumulati (si sono cioè «risolvibilizzate»). Le variazioni del volume del risparmio sono state più forti laddove il cosiddetto «secondo pilastro»,

cioè la previdenza professionale basata sul principio della capitalizzazione (volontaria e/o obbligatoria), era meno sviluppato. Invece, nei paesi in cui il risparmio obbligatorio riduce automaticamente il reddito disponibile (come in Svizzera), i margini di risparmio libero sono molto più ristretti. Ciò non toglie che, anche in questi paesi, la ricerca di rendimenti elevati da parte dei Fondi abbia giocato un ruolo importante nel provocare l’esplosione speculativa del settore immobiliare e la sua crisi alla fine degli anni ’80. Un altro modo d’analizzare le variazioni del volume e della composizione del risparmio e i suoi effetti sulla crescita economica è quello di guardare all’evoluzione demografica. In teoria, l’invecchiamento della popolazione comporta una riduzione complessiva del risparmio investibile. Il passaggio dall’età attiva all’età inattiva significa di per sé un consumo «passivo» del risparmio accumulato in precedenza. Se a questo effetto dell’invecchiamento si aggiunge il prolungamento della speranza di vita (grazie anche ad un «accanimento terapeutico» non del tutto disinteressato), l’aumento dei costi della salute indotto dall’allungamento della vecchiaia riduce ulteriormente il volume totale del risparmio. Sta di fatto che la contrazione del risparmio complessivo prevista dalla teoria del ciclo di vita è stata molto più contenuta del previsto a causa dell’intreccio «generazionale» tra regime fordista e nuova economia postfordista. La popolazione anziana uscita dai «trent’anni gloriosi» ha oggi un reddito medio superiore al reddito medio della popolazione attiva grazie a regimi pensionistici che si sono consolidati nel secondo dopoguerra sulla base dell’aumento del volume del lavoro salariato. Ciò permette alla popolazione pensionata di avere una rendita stabile e, contrariamente alla teoria, un margine di reddito investibile in titoli borsistici che permette di aumentare il «risparmio differito». Per la popolazione attiva giovane, confrontata con l’instabilità del reddito e dell’occupazione, sarà sempre più difficile smentire la massima di Winston Churchill: «Il

risparmio è una cosa bellissima. Specialmente quando a praticarlo sono stati i tuoi genitori». Non sono solo gli anziani che, con i loro risparmi, stanno contribuendo a rafforzare i sistemi pensionistici privati. Anche tra gli attivi sono sempre più numerosi coloro che mettono i loro risparmi in qualsiasi tipo di Fondo. Si calcola che entro il 2030 i Fondi pensionistici investiti sui mercati dei capitali europei raggiungeranno la somma di 3 mila miliardi di ECU, ciò che spiega l’aumento del numero di fusioni e acquisizioni tra i maggiori gestori istituzionali del risparmio privato. La fine delle politiche cartellari ha costretto i gestori del risparmio a investire in titoli sempre più remunerativi.100 Per le banche la gestione di portafoglio di azionisti come i Fondi previdenziali rappresenta ormai la via privilegiata per aumentare i margini di profitto ben oltre la tradizionale attività creditizia. Per i sistemi pensionistici pubblici europei, basati sul principio della ripartizione (le rendite distribuite ai pensionati sono versate da chi è in età lavorativa), l’aumento del numero di persone con più di 60 anni (che entro il 2030 dovrebbe crescere dal 18 al 31 per cento della popolazione totale), comporterà inevitabilmente una pressione finanziaria. Si stima che nei prossimi 40 anni il numero di salariati che verseranno le quote assicurative a sostegno di ciascun pensionato si ridurrà in media da 4 a 2. Le pensioni versate attualmente dallo Stato (primo pilastro) rappresentano in media il 10 per cento del PIL, ma entro il 2030 si stima che la percentuale potrebbe aumentare fino al 15 per cento. Il primo pilastro costituisce comunque ancora la parte principale dell’insieme delle prestazioni pensionistiche europee (88 per cento). Per mantenere il sistema pensionistico pubblico finanziariamente sano sono state proposte diverse soluzioni: aumento dell’età pensionabile, riduzione degli incentivi al prepensionamento, riduzione del rapporto tra pensioni e guadagni salariali, aumento dell’imposta sul valore aggiunto. Tutte queste soluzioni non sembrano all’altezza del problema,

o perché la popolazione anziana dimostra di voler resistere contro la riduzione delle pensioni, o perché un aumento della pressione sui salari o sui prezzi è interpretato dagli imprenditori come una tassa sull’occupazione. E in questo contesto che i Fondi pensione, i Fondi comuni di investimento e le Assicurazioni sulla vita, che si basano sul principio della capitalizzazione per il versamento delle rendite complementari (le prestazioni versate dipendono esclusivamente dal rendimento degli attivi investiti), si stanno diffondendo ovunque.101 Pur rappresentando attualmente soltanto il 7 per cento in media del totale delle rendite pensionistiche dei paesi-membri dell’Unione Europea, il secondo pilastro è destinato a crescere parallelamente alla pressione sui sistemi pensionistici pubblici. In Svizzera, dove il secondo pilastro è obbligatorio dal 1985, alla fine del ’93 la massa dei risparmi gestita dai Fondi era pari all’83 per cento del PIL (era il 79 per cento in Inghilterra e il 60 per cento negli 102 USA). Se si analizza la domanda di gestione del portafoglio sotto il profilo dell’avversione al rischio e dell’orizzonte temporale, è possibile delineare due modelli di comportamento delle economie domestiche: - il modello franco-tedesco-svizzero-giapponese, anche detto «modello renano», in cui le economie domestiche detengono direttamente poche azioni e obbligazioni, ripartiscono essenzialmente il loro patrimonio tra liquidità bancaria, assicurazioni vita e Fondi pensione. I Fondi detengono soprattutto obbligazioni (specialmente Buoni del Tesoro); - il modello anglosassone, in cui le economie domestiche hanno poca liquidità e poche obbligazioni, ma detengono direttamente o, sempre di più, indirettamente tramite i Fondi, grossi portafogli di titoli privati. Nel modello anglosassone i Fondi investono prevalentemente in azioni.103 Negli ultimi anni anche in Europa sta aumentando in modo consistente la parte dei fondi investiti in titoli azionari. Dal 20

per cento del totale dei fondi europei investiti in azioni nel 1986, si è passati al 32 per cento nel 1997 (negli USA è il 50 per cento e in Inghilterra il 65 per cento).104 La crescente segmentazione del mercato del risparmio, la diversità delle categorie di assicurati per classi di età e statuto professionale, la domanda di consulenza personalizzata, hanno messo in crisi il modello bancario e assicurativo a struttura unica (bancassurance) comprensivo delle tre funzioni di promozione, gestione e distribuzione. Alla segmentazione del risparmio e alla differenziazione della domanda di prodotti assicurativi corrisponde la proliferazione di Fondi di investimento indipendenti che offrono prodotti assicurativi diversificati e competitivi.103 E sulla base di questi cambiamenti qualitativi che il modello assicurativo europeo si sta trasformando secondo il modello anglosassone, in cui prevale una gestione aggressiva dei capitali in continuo movimento sui mercati dei titoli.106 Con la costituzione dell’Euro la diversificazione internazionale degli investimenti dei Fondi pensione e di investimento sconvolgerà alcune differenze storiche tra i mercati nazionali. Negli Stati Uniti il grado di internazionalizzazione dei mercati riguarda soprattutto il settore pubblico, dato che sono i non-residenti (banche centrali incluse) che acquistano buona parte dei Buoni del Tesoro con i quali gli USA finanziano la spesa pubblica. Il mercato azionario americano, invece, è tradizionalmente un mercato nazionale, le azioni emesse dalle imprese sono acquistate dai Fondi di investimento (al ritmo di 200 miliardi di dollari l’anno a partire dal 1991). In Germania si ha una situazione paragonabile a quella americana, dato che la detenzione di titoli pubblici da parte di non-residenti, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, è di circa il 40 per cento. Il finanziamento delle imprese è però ancora prevalentemente una prerogativa delle banche tedesche. In Germania il totale dei crediti bancari alle imprese è pari al

prodotto lordo di un anno, mentre è solo del 40 per cento negli Stati Uniti. Del tutto opposta è la situazione degli altri paesi europei, come la Francia o l’Italia,107 in cui i non-residenti detengono soprattutto titoli azionari, mentre i residenti investono i risparmi prevalentemente in Buoni del Tesoro. L’unificazione monetaria europea dovrebbe quindi modificare profondamente la tradizionale divergenza tra tassi di internazionalizzazione negli USA e in Europa. I Fondi si stanno già organizzando per uscire dai confini nazionali e investire in titoli di altre imprese europee.108 Si assisterà molto probabilmente ad una accelerazione dei processi di ristrutturazione delle imprese determinata dagli investimenti dei fondi su titoli azionari e obbligazionari privati. Il downsizing delle imprese europee, se da una parte è destinato ad ampliare il bacino di lavoro autonomo (outsourcing), dall’altra non potrà essere controbilanciato dalle classiche garanzie dello Stato sociale europeo. Difficilmente il Welfare State riuscirà a coprire il disavanzo pubblico attirando capitali con l’aumento dell’offerta di obbligazioni pubbliche. In prospettiva, l’unica possibilità che resta allo Stato sociale di garantire un livello minimo di solidarietà sociale è quella di introdurre l’imposta sui capital gains che, come sta accadendo negli Stati Uniti, assicura la riduzione del deficit pubblico sull’onda del rafforzamento dei mercati borsistici.109 Per proteggersi dalla volatilità dei prezzi i prodotti derivati conosceranno in Europa uno sviluppo considerevole. 110 E infatti questa la «nuova frontiera» dell’innovazione finanziaria, quella che dovrebbe assicurare la transizione verso la società post-fordista incentrata sulla privatizzazione progressiva dei regimi di sicurezza sociale. La protezione contro la volatilità dei mercati è d’altronde una conseguenza della domanda di garanzia da parte di risparmiatori tradizionalmente avversi al rischio, ma pur sempre costretti a proteggersi contro l’incertezza del reddito corrente. E stato osservato che le condizioni di salute sono un fattore rilevante: in Italia, ad

esempio, dopo 10 giorni di malattia del capofamiglia c’è una riduzione del 5 per cento dei titoli detenuti. La domanda di redditività degli investimenti sarà tanto più pressante quanto più si accentuerà la tendenza ad abbandonare i piani di previdenza professionale a «benefici garantiti» (defined-benefits) a favore del sistema dei «contributi garantiti» (defined-contribution). Si sta andando nella direzione di sistemi previdenziali in cui i contributi del datore di lavoro al fondo previdenziale verranno gestiti in proprio dai dipendenti con la scelta del mix di portafoglio e l’assunzione di tutti i rischi. Si tratta di un altro tassello del processo di desalarizzazione in cui la tipica insicurezza degli indipendenti si generalizza anche all’universo dei lavoratori salariati. Ovunque, la riforma dello Stato sociale si muove lungo quattro assi principali:111 1) definizione delle condizioni (in particolare la clausola del lavoro), in base alle quali le prestazioni sociali vengono erogate, per eliminare gli automatismi ridistribuivi tipici del periodo fordista. Dal Welfare State si passa così al Workfare State, e dagli unconditional entitlements si giunge ai conditional entitlements; 2) riduzione della copertura assicurativa e delle prestazioni sociali in generale, sia per comprimere il costo del lavoro, sia per ridefinire la solidarietà circoscrivendola alla sola popolazione esclusa; 3) introduzione generalizzata del means testing, della verifica dei mezzi, con la fissazione scalare delle prestazioni in base al calcolo del reddito dei beneficiari dell’aiuto sociale; 4) decentralizzazione della gestione della spesa sociale e suo «plafonamento», la cosiddetta devolution, verso i luoghi in cui il rapporto tra amministrazione e bisogni è più stretto, meglio verificabile e controllabile, ossia a livello regionale e comunale. In regime fordista l’assicurazione sociale nazionale si fondava sul principio secondo cui l’uguaglianza dei cittadini

richiedeva una comune piattaforma di diritti sociali attraverso i quali tutti potevano partecipare alla vita sociale, politica e culturale. In caso di perdita della capacità lavorativa, per motivi di età, di invalidità o di malattia, tutta la popolazione residente adulta aveva diritto a prestazioni o aiuti sociali. 112 L’idea di «comunità di rischio», in cui l’onere del finanziamento e dell’amministrazione è ripartito tra i singoli assicurati, il datore di lavoro e lo Stato, aveva quale obiettivo originario quello di conciliare le diverse concezioni della coesione sociale (liberali, marxiste e cattoliche). La tecnica assicurativa si basava sulla non conoscenza delle probabilità di rischio di ciascun cittadino (il «velo di ignoranza» di John Rawls). L’opacità sociale è infatti una condizione implicita del sentimento di equità: tutti i membri della società si considerano solidali nella misura in cui percepiscono la comunità nazionale come una classe di rischi relativamente omogenea.113 Il passaggio al post-fordismo e la privatizzazione della copertura assicurativa strappa il velo di ignoranza di John Rawls. Va in crisi la possibilità stessa di far leva sulle premesse comunitarie della solidarietà assicurativa, la possibilità di classificare per grandi categorie sociali la probabilità statistica dei grandi rischi (disoccupazione, malattia, invalidità e vecchiaia stessa). Ogni escluso diventa un caso singolare, particolare, irrappresentabile secondo le classificazioni tradizionali. La «comunità nazionale» diventa più che altro una moltitudine di casi singolari e concreti per i quali lo Stato elabora strategie di controllo e programmi di reinserimento individualizzati. La crisi della forma salariale e del patto sociale che ne ha garantito la stabilità non permette più di definire il rischio negli stessi termini rawlsiani. I fenomeni di esclusione, di disoccupazione di lungo periodo, di precarizzazione sono la manifestazione drammatica di una mutazione più ampia e radicale che riguarda l’individualizzazione dei rapporti lavorativi e remunerativi. L’esclusione dal campo assicurativo

sociale di un numero crescente di lavoratori con attività indipendente fa della precarietà e della vulnerabilità una condizione non più aleatoria e circostanziale, ma una condizione stabile e difficilmente reversibile. Al paradigma assicurativo viene a mancare la possibilità tecnica di socializzare la copertura dei rischi perché con la crisi della centralità del lavoro salariato i rischi sono tecnicamente incalcolabili. L’unica possibilità di recuperare l’idea di «comunità di destino» di una popolazione di non-salariati è quella che deriva dall’estensione del concetto di rischio di catastrofe.114 Di fronte al rischio di catastrofe non si assicurano gli individui, ma le popolazioni. La nozione di rischio è immediatamente sociale se concerne la popolazione nel suo insieme. La privatizzazione della copertura assicurativa è la conseguenza della crisi della forma salario e della ridefinizione del concetto di rischio su scala globale. Il rischio è «catastrofico» perché concerne la società intera. Nella misura in cui il finanziamento dell’assicurazione privata passa attraverso i mercati globali, l’effetto paradossale della privatizzazione e della individualizzazione della copertura assicurativa è quello di ridefinire la nozione di solidarietà a livello globale. Non è un caso se nel campo assicurativo le innovazioni finanziarie abbiano subito un’accelerazione proprio nel settore dei rischi di catastrofe naturale. L’emissione sui mercati borsistici «cat bonds» (titoli catastrofe, detti anche «atti di Dio») a partire del 1994, grazie ai quali le compagnie di riassicurazione distribuiscono i loro rischi su un numero elevato di investitori, segna il passaggio verso la securitization (o titolarizzazione) dell’intera industria assicurativa. Con la securitization il mercato diventa il luogo in cui la gestione dei rischi viene «socializzata» (o distribuita) grazie appunto all’emissione, vendita e acquisto di titoli assicurativi. In caso di catastrofe naturale (terremoti, uragani, ecc.) è l’intera comunità dei detentori di titoli che subirà le conseguenze finanziarie, e

non più soltanto la compagnia assicurativa che ha emesso la polizza. E il caso di ricordare che lo Stato sociale ha rappresentato storicamente una mediazione tra gli interessi del capitale e quelli del movimento operaio: in primis l’interesse da parte del capitale di avere a sua disposizione una forza-lavoro in salute. In una società in via di de-salarizzazione e di precarizzazione delle condizioni esistenziali è il capitale stesso che sarà costretto a far dipendere i propri interessi dallo sviluppo di forme di mutualizzazione del rischio. Per quanto de-naturalizzato, per quanto ridotto dai nuovi strumenti finanziari di gestione del rischio nelle mani del capitale, il rischio di catastrofe è un rischio immanente. E il rischio keynesiano di una comunità divenuta moltitudine, il rischio che questa comunità non si riproduca più «in salute» per il capitale, che lo abbandoni vendendo i suoi titoli perché non ha sufficiente reddito per curarsi, o perché gli mancano i mezzi finanziari per intraprendere un lavoro su mandato. Il rischio di catastrofe è il rischio che la collettività cessi di funzionare come «offerta differita» della propria vita. Nei prossimi anni bisognerà studiare da vicino le forme e le modalità concrete della riorganizzazione del mercato assicurativo, in particolare i modi in cui i Fondi calcoleranno i premi per la copertura dei rischi di una popolazione differenziata e irriducibile alle tradizionali classi di rischio. Non è affatto chiaro se le mega-fusioni tra Assicurazioni, Fondi e Banche di investimento siano la via migliore per realizzare economie di scala tali da aumentarne la competitività. Si potrebbe assistere al processo opposto, cioè alla proliferazione di mini-fondi radicati sul territorio sociale, e nel contempo inseriti informaticamente sui mercati globali. I vantaggi sarebbero quelli di una conoscenza più precisa della natura e della distribuzione dei rischi relativamente all’organizzazione locale della produzione sociale. L’apparizione, in Francia, di «sociétés de portage», sorta di

associazioni di mutuo soccorso di lavoratori indipendenti in cui la «ri-salarizzazione» permette di sviluppare forme di indennizzo contro i rischi, costituisce un esempio embrionale di ricerca di alternative sul terreno della socializzazione di una comunità «apatride». Le «conseguenze monetarie» della crisi del fordismo hanno un nome preciso: disinflazione. Quando i prezzi cominciano a scendere in modo durevole fino a raggiungere tassi di inflazione negativi, i programmi pensionistici stipulati in periodi di inflazione diventano sempre più rischiosi. Se ad esempio le pensioni corrisposte per prestazioni già effettuate non possono subire tagli, il passaggio al regime di deflazione evoca lo spettro che le pensioni non possano più essere corrisposte, o perché i Fondi che le pagavano falliscono, o perché, con l’aumento del valore del denaro, l’impegno stabilito in termini monetari non potrà essere onorato. Con la disinflazione e la deflazione la paura del crollo del sistema pensionistico tende a generalizzarsi. E questa la ragione principale che costringe i Fondi pensione e di investimento a investire in titoli a elevati tassi di redditività. Ed è sempre questa la ragione per cui la «svolta borsistica» si basa su un consenso sociale di massa. Che lo si voglia o no, il capitalismo dei Fondi pensione è l’altra faccia del regime di crescita post-fordista. Non c’è alcun dubbio circa la pericolosità di un sistema pensionistico basato sul principio della capitalizzazione. La ricerca di rendimenti elevati da parte dei gestori dei Fondi per assicurare anche solo il mantenimento del valore reale delle rendite può causare crack borsistici molto pesanti. È però altrettanto chiaro che un ritorno al sistema pensionistico pubblico è possibile solo se si ritorna al sistema industriale fordista e alla crescita inflazionistica che ha caratterizzato del secondo dopoguerra. E quindi difficile criticare il fordismo, da una parte, e denunciare unilateralmente l’uso capitalistico dei Fondi pensione, dall’altra.

6. Critica della critica: appunti

In un’intervista con Bert Van Den Brink115 a proposito del libro Fatti e norme (1992), Jürgen Habermas pone nel modo seguente la questione della integrazione di una società che si è fatta moltitudine, la questione della costruzione della «solidarietà tra estranei»: Di fronte alla varietà degli interessi in contrasto e al pluralismo delle forme di vita, l’integrazione sociale non può più realizzarsi da sola, e comunque non abbastanza sulla base dei processi informali d’intesa, in quanto viene a mancare lo sfondo di comune mondo di vita. Le società moderne devono integrarsi su un piano più astratto.116

Come sempre, Habermas pone le questioni cruciali del nostro tempo in un modo che costringe ad interrogarsi sulle possibili risposte pratiche. Per dirla molto sinteticamente, seguendo il modo in cui Habermas definisce il «piano più astratto» necessario per integrare una società differenziata e irriducibile alla sintesi, poniamo la seguente domanda: nel capitalismo dei Fondi pensione, la rivendicazione di una partecipazione dei cittadini-salariati alle scelte di investimento dei fondi può essere considerata una versione, certo non l’unica, della «democrazia comunicativa»? In definitiva, il potere economico che i Fondi esercitano sui mercati globali riassume abbastanza bene le istanze di rappresentanza degli interessi concreti dei risparmiatori e la necessità di porre sotto

controllo democratico la «circolazione non ufficiale del potere». Nel nome della redditività degli investimenti in titoli, i Fondi distruggono occupazione, mettono letteralmente in crisi intere regioni e intere popolazioni, costringono ad aumentare la produttività del lavoro senza valorizzare le qualità del capitale umano, oltretutto mettendo a repentaglio i nostri soldi con attività speculative spregiudicate.117 Oggi - dice Habermas - la sovranità popolare può soltanto realizzarsi nel contesto reciproco tra le comunicazioni informali di sfere pubbliche (possibilmente) non manipolate, da un lato, e i processi istituzionalizzati dell’opinione e della volontà, dall’altro lato. Credo che sarebbe già tanto di guadagnato se, almeno nelle occasioni di crisi e nelle situazioni più difficili, la circolazione del potere prevista dalle nostre costituzioni potesse davvero imporsi contro l’effettiva circolazione «non ufficiale» del potere... Solo così le forze della solidarietà sociale potranno affermarsi contro l’amministrazione controllata dal potere e contro l’economia controllata dal denaro ossia contro le altre due istanze che provvedono all’integrazione della società. 118

Il nuovo Finanzkapital La democrazia comunicativa di Habermas, l’agire orientato all’intesa reciproca, che nella versione più recente ha nel diritto la categoria principale della «mediazione sociale tra la fattualità e la validità», noi dobbiamo per così dire «metterla alla prova» analizzando i meccanismi di integrazione e disintegrazione del nuovo capitalismo finanziario. Nello sviluppo più recente del capitalismo, l’agire orientato al successo economico si dà nella costituzione di grandi gruppi industriali e finanziari (Fondi pensione e di investimento, Assicurazioni e Banche d’investimento) che ambiscono a dominare il mercato mondiale imponendo la logica dell’investimento in titoli azionari e obbligazionari a elevati tassi di rendimento. Nel solo 1997, negli USA le fusioni e acquisizioni di 1 miliardo e oltre di dollari sono state 156, il 60 per cento in più dell’anno precedente. In soli 3 anni 27600 imprese si sono fuse assieme, superando il totale delle fusioni realizzato nel corso degli anni ’80. La logica che sottende l’ondata di fusioni negli anni ’90 è differente rispetto a quella degli anni ’80, in cui prevalevano le acquisizioni ostili (hostile takeovers) miranti a scorporare le

grosse compagnie e a ricompattare la struttura del controllo azionario. Negli anni ’90 prevalgono le fusioni realizzate sulla base del capitale azionario delle società, e non, come negli anni ’80, con denaro preso a prestito. E d’altronde questo il risultato principale del processo di downsizing, cioè la possibilità di acquisire posizioni di dominio sui mercati globali attraverso la forza del capitale azionario. Negli ultimi 5 anni vi sono state 2492 fusioni nel settore delle banche commerciali, 1435 accordi nel settore delle radio e telecomunicazioni, 5114 fusioni nel solo settore assicurativo e pensionistico.119 Diversamente dai tempi in cui Hilferding scriveva il suo Finanzkapital (1910),120 l’odierno capitale finanziario non è il risultato della fusione tra grande capitale industriale e capitale bancario, bensì della fusione istituzionale delle funzioni del denaro (mezzo di scambio, mezzo di risparmio, mezzo di investimento) in modo da poter dominare senza ostacoli i mercati globali. Alla fusione delle funzioni del denaro sotto la direzione dei nuovi conglomerati finanziari corrisponde infatti la dissociazione tra investimenti produttivi e investimenti finanziari, di cui la separazione tra azionisti e dirigenti d’azienda è la forma più conosciuta. Questa separazione può infatti darsi anche all’interno delle stesse imprese, con la centralizzazione della gestione delle risorse di tesoreria distinta dalla gestione industriale vera e propria, a volte con essa in diretta concorrenza. La conseguenza di questa nuova forma del capitale finanziario, in cui acquisto e vendita di titoli, speculazione sui mercati dei cambi e accesso ai mercati dei derivati definiscono nel loro insieme la logica dell’agire orientato al successo economico, riguarda sia le imprese sia le banche tradizionali. Le imprese sono costrette a condizionare le scelte di investimento e di ristrutturazione produttiva alla logica del rendimento finanziario. Le banche, anch’esse, devono abbandonare la tradizionale logica del credito, privilegiando la

gestione patrimoniale (diventando così «banche dividendo»). In entrambi i casi, per garantire alti rendimenti azionari in modo da riuscire a mobilitare capitale, banche e imprese si ristrutturano, riducendo il più possibile il personale e concentrando gli obiettivi indipendentemente dai bisogni e dalle risorse locali. Ciò che definisce il nuovo capitale finanziario non è, quindi, la fusione tra banche e grandi imprese, né (a rigore) la fusione nel settore dei grandi investitori istituzionali, ma la logica della fusione delle funzioni del denaro che ne assicura la massima libertà di movimento sui mercati globali, e la logica della dissociazione tra investimento finanziario e investimento produttivo. Rispetto al Finanzkapital hilferdinghiano, la differenza più visibile consiste nell’impossibilità di definire l’odierno trasferimento dei capitali da una branca all’altra dell’economia, o da un paese all’altro, sulla base della composizione organica del capitale. All’inizio di questo secolo, la fusione tra banche e imprese permetteva di immobilizzare grandi masse di capitale costante, soprattutto di capitale fisso (macchinari), col risultato che la posizione di dominio dei conglomerati industriali discendeva dalla loro capacità di imporre monopolisticamente i prezzi a scapito del libero gioco della concorrenza. Gli ostacoli posti dall’espansione massificata dei nuovi processi di produzione, in particolare la difficoltà di trasferire i capitali una volta immobilizzati in capitale-macchine, venivano superati con la formazione di saggi di profitto monopolistici che permettevano di trasferire capitali dalle branche di produzione in cui l’alta composizione organica del capitale ne riduceva i profitti. Una volta fissata in processi produttivi altamente e pesantemente meccanizzati, grazie alle «società per azioni» che mobilitavano masse enormi di capitale, la capacità di produzione del settore cartellizzato si effettuava a detrimento del settore concorrenziale e della capacità di consumo. Nella misura in cui i trust e i cartelli attingevano per il loro finanziamento alle

medesime banche, la differenza tra imprese con una loro specifica identità e imprese «fuse» con altre non cambiava sostanzialmente la natura delle cose. Una volta evidenziate le differenze tra il Finanzkapital d’inizio secolo e quello odierno, in particolare la diversa natura della composizione organica del capitale che, grazie all’informatizzazione, riduce il «peso» del capitale fisso nella formazione dei prezzi di produzione e, inoltre, il crescente ricorso al mercato borsistico per il finanziamento d’impresa, dell’analisi di Hilferding rimane l’aspetto centrale, quello per così dire più «facile» da utilizzare ideologicamente e politicamente. Infatti, l’originalità di Hilferding, ciò che ha permesso al suo «modello» di sopravvivere al di là delle trasformazioni intervenute da allora, consiste nel fatto che per la prima volta il dibattito marxista sulla trasformazione dei valori in prezzi di produzione viene «risolto» con uno sforzo di descrizione empirica del capitalismo a lui contemporaneo. Hilferding offre cioè ai marxisti di allora e di oggi la possibilità di accantonare i dibattiti teorici sulle contraddizioni logiche tra il Marx del i Libro del Capitale e il Marx del in Libro. Finalmente la Sinistra può individuare concretamente il suo avversario, finalmente può organizzarsi per contrastarlo. L’operazione di Hilferding è quella di rappresentare il funzionamento concreto del capitale monopolistico eliminando il problema stesso della trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Nella impostazione teorica di Hilferding, il valore, ossia la quantità di lavoro astratto contenuto nelle merci, lascia il posto ai prezzi di produzione, ai prezzi come espressione monetaria dei valori dei fattori di produzione (capitalemacchine e forza-lavoro) che concorrono a determinare il saggio di profitto. Viene così tolta la contraddizione, che Marx aveva denunciato nella teoria di Ricardo, restandone a sua volta prigioniero, dovuta al fatto che la trasformazione dei valori in prezzi di produzione dipende da una precisa successione logica: valore, saggio di profitto, prezzo. Dato che

questo procedimento per la determinazione dei prezzi dei prodotti presuppone che i valori delle merci che entrano nel processo di produzione di capitale (cioè macchine e forzalavoro) siano anch’essi trasformati in prezzi, ne consegue che il ragionamento di Marx è irrimediabilmente circolare.121 Concentrandosi soltanto sui prezzi di produzione senza curarsi della contraddizione del metodo marxiano, Hilferding si mette nella posizione di descrivere i processi di fusione e concentrazione del capitale in corso. La qual cosa non è grave in sé, a condizione che questa operazione riduttiva abbia una valenza politica direttamente traducibile in azione e organizzazione. Descrivendo in concreto le forme del capitalismo finanziario, Hilferding aveva individuato nelle grandi imprese i luoghi della nascente classe operaia massificata fordista. Ma non si può dire che, sulla base dell’analisi del capitale monopolistico, la Sinistra sia riuscita a ridefinire la strategia di lotta. Dalla «denuncia» del nuovo capitale monopolistico si passerà alle politiche statali antimonopolistiche degli anni della Repubblica di Weimar, in cui Hilferding fu ministro delle finanze nel ’23 e nel ’28. Il dibattito sull’industrializzazione sovietica negli anni ’20, in particolare tra Preobrazenskij, Trockij e Bucharin, rappresenterà l’ultimo esempio significativo di utilizzazione politica del modello di Hilferding avente come scopo quello di elaborare una teoria dello Stato sovietico all’altezza dei processi di trasformazione a livello mondiale. La questione del rapporto tra valori e prezzi di produzione riapparirà, non a caso, quando la paralisi politica dei partiti di sinistra verrà sbloccata dall’emergenza di una nuova composizione sociale della classe operaia, quella dell’operaiomassa. Paradossalmente, sarà proprio il «lavoro senza qualità», il lavoro taylorizzato indifferente alle caratteristiche socioprofessionali, che riproporrà in modo politico il nesso contraddittorio tra valori e prezzi di produzione. Il lavoro dell’operaio-massa è un lavoro che, nella concretezza del suo

prezzo, ossia del suo salario, è nel contempo lavoro astratto, sostanza e forma del valore. E «astratto» a causa della sua genericità, della sua intercambiabilità, del suo essere lavoro tout court. In regime fordista, i prezzi di produzione saranno infatti direttamente condizionati dalle lotte sul salario in quanto espressione monetaria del valore-lavoro operaio. La trasformazione dei valori in prezzi di produzione riemergerà, insomma, come problema della trasformazione politica del lavoro contenuto nelle merci salario in lavoro comandato dal capitale.122 Le lotte operaie riveleranno precisamente la scissione tra lavoro astratto e attività umana, tra lavoro e lavoratore, quella separazione costitutiva sia del paradigma taylorista sia della contraddizione del valore. Saranno le lotte dell’operaio-massa fordista a rivelare la portata reale della contraddizione marxiana, dando corpo ad una notevole intuizione che Claudio Napoleoni ebbe nel i960: «Se si riuscisse a dare questa dimostrazione (il che richiederebbe una ricerca che non può certo esser condotta qui), apparirebbe chiaro che la vera rilevanza teorica della teoria del valorelavoro sta proprio nella contraddizione a cui essa mena».123 In Hilferding, la formazione dei prezzi di monopolio è descritta in termini di deviazione rispetto ai valori. Riuscendo ad imporre determinati prezzi di vendita in virtù della loro posizione monopolistica, i cartelli riescono a spostare ricchezza a scapito sia delle imprese concorrenziali sia dei consumatori. Rapportato al capitalismo odierno, questo meccanismo si esplica attraverso la mobilità dei capitali sui mercati borsistici determinata dalla logica del rendimento dei titoli azionari e obbligazionari. I rendimenti «monopolistici» odierni non dipendono più, come in Hilferding, dalla composizione organica del capitale, cioè dall’alta concentrazione di capitale fisso (macchinari), ma dalla produttività del lavoro in processi produttivi tecnologicamente «leggeri» e innovativi. L’informatizzazione del capitale costante, permettendo di ridurre la forza-lavoro, aumenta il tasso di profitto e quindi il

rendimento azionario delle imprese quotate in borsa. Le imprese sono premiate con l’afflusso di capitali quando licenziano, non quando creano occupazione. Sono invece penalizzate le piccole e medie imprese che, avendo scarso accesso ai mercati borsistici, possono essere concorrenziali a condizione di precarizzare le condizioni riproduttive, salariali e contrattuali, della forza-lavoro che impiegano. Lo scandalo, quello che definisce alla radice le posizioni critiche della Sinistra, è direttamente proporzionale agli effetti sul mercato del lavoro dovuti al funzionamento di questo nuovo capitale finanziario. Ancora più scandaloso è che gli Stati Uniti siano il paese che beneficia maggiormente di questa logica, grazie all’elevata capitalizzazione dei suoi mercati, a scapito dell’Europa o dei paesi asiatici. Nella misura in cui i nuovi modi di produrre generano effetti disinflattivi, le politiche monetarie dei paesi non-usA sono costrette a mantenere i tassi di interesse a livelli troppo elevati per trattenere in casa i risparmi. Tassi di interesse elevati impediscono di veicolare i capitali verso le industrie europee che ne hanno bisogno per finanziare l’innovazione produttiva, senza la quale non si dà rilancio occupazionale. Di conseguenza, per le imprese europee l’unico modo di essere concorrenziali è licenziare sempre di più. E dato che il Welfare State europeo non può permettersi il lusso di garantire in eterno i diritti sociali acquisiti in decenni di lotte del movimento operaio, ne consegue che la logica americana si sta imponendo senza opposizione, fuorché quella della Sinistra che non ha perso la testa di fronte al «pensiero unico» dominante.124 Un modo per impostare l’analisi al di là, o al di qua, della disperazione o della rabbia che lo spettacolo di un capitalismo cinico e perverso suscita nel «popolo della Sinistra», è quello di reintrodurre la questione del valore proprio laddove essa era stata rimossa da Hilferding. Senza alcuna presunzione, ovviamente, di risolvere il problema della trasformazione del valore in prezzi di produzione, anche perché si tratta di un

problema irrisolvibile dal punto di vista logico-formale. La produttività sociale Più semplicemente, occorre partire dai dati che, oggi, meglio riassumono i problemi di questo nuovo capitalismo finanziario. Tra i tanti problemi dibattuti negli ultimi anni quello della produttività del lavoro rappresenta un’occasione privilegiata per reintrodurre la questione della formazione del valore nell’analisi della crescita economica e della sua natura ciclica. La volatilità dei prezzi, le scelte di politica monetaria, la crisi di saponi intere come quella dei paesi asiatici ma, soprattutto, l’espansione impressionante dell’economia americana, pongono la questione cruciale della produttività del lavoro. Come misurare la produttività che sta alla base della odierna produzione di ricchezza? Quali sono le condizioni sociali che ne assicurano gli aumenti? La difficoltà di definire la produttività del lavoro post-fordista risulta evidente dal dibattito tra politici ed economisti che negli Stati Uniti si è sviluppato a partire dalla campagna per le elezioni presidenziali del 1996. Politici ed economisti sono d’accordo nel ritenere che, dopo quanto è successo in questi anni di ristrutturazione e di sviluppo delle tecnologie informatiche e delle telecomunicazioni, la misura ufficiale della produttività deve essere necessariamente sbagliata.125 Dal 1973 l’aumento annuo della produttività del lavoro si era ufficialmente attestato a poco più dell’1 per cento, e solo di recente è stato «aggiornato» al 2,9 per cento per gli anni ’90. Il dibattito sulla veridicità della misura ufficiale della produttività si è subito diviso in due fronti, dal momento in cui i politici hanno voluto passare dall’analisi economica della produttività alla definizione degli obiettivi politici da perseguire. Per i politici, sia nel campo del partito democratico sia in quello repubblicano, la sottovalutazione del tasso di produttività rappresenta un buon motivo per allentare i freni di una politica monetaria considerata eccessivamente prudente,

oppure per ridurre la pressione fiscale. In tal modo il Prodotto interno lordo (PIL) potrebbe aumentare ancora più del tasso attuale, secondo alcuni potrebbe addirittura raddoppiare. Per economisti seri come, tra altri, Paul Krugman o Alan Blinder, la sottovalutazione stessa della produttività del lavoro dimostra semmai che il PIL sta già crescendo a tassi ben superiori a quelli ufficiali. Errori di misurazione della produttività riguardano infatti sia il PIL effettivo sia quello potenziale. In quanto tali, errori del genere non significano che l’economia abbia una capacità espansiva più ampia di quanto si riesca realisticamente a pensare. Non si può pretendere di stimolare ulteriormente la crescita economica se l’attuale tasso di crescita del PIL è dovuto a livelli di produttività difficilmente superabili. Meglio evitare che la politica monetaria e/o fiscale riaccenda l’inflazione in conseguenza della sottovalutazione del tasso di crescita reale.126 Posto in questi termini, il dibattito sulla produttività appare come bloccato su se stesso. La definizione della produttività rimane quella di sempre, vale a dire la quantità di prodotto per ora di lavoro. A seconda di come si considerano gli effetti delle ristrutturazioni in settori particolari, come ad esempio quello sanitario o bancario, la produttività ufficiale potrebbe essere ancora più elevata del nuovo tasso di crescita annua del 2,9 per cento. Nel settore bancario la misura ufficiale della produttività è ancora, sorprendentemente, calcolata sulla base del numero di ore lavorate dagli impiegati bancari, così quando aumenta il loro numero, come negli anni ’80, aumenta la produttività. Se invece, come negli anni ’90, il loro numero diminuisce a causa dei licenziamenti, la produttività del settore bancario decresce. Il che è evidentemente assurdo, dato che la ristrutturazione del settore ha avuto quale risultato l’aumento del numero di transazioni bancarie per ora-lavoro, un aumento chiaramente visibile nell’andamento dei profitti.127 La stessa cosa accade per il settore sanitario, la cui ristrutturazione, quando riduce il numero di prestazioni

mediche e il tasso di occupazione di posti-letto ospedalieri, dovrebbe logicamente comportare un aumento della produttività del settore invece della sua riduzione secondo i criteri ufficiali di misurazione. Sia nel settore bancario sia in quello sanitario, la sottovalutazione della qualità dell’output comporta la sottovalutazione degli aumenti di produttività. E quindi giusto ritenere del tutto insufficienti anche i più recenti aggiornamenti statistici della crescita annuale della produttività del lavoro. Ma l’incapacità di pensare diversamente la produttività riguarda più che altro la considerazione delle condizioni sociali che ne permettono l’aumento. E un’incapacità che, purtroppo, si ritrova anche nell’economicismo con cui i teorici della «fine del lavoro» propongono in Europa la riduzione dell’orario di lavoro per ripartire equamente il reddito tra occupati e disoccupati. Anche per loro la produttività ha raggiunto un livello tale da permettere il finanziamento della ripartizione dell’occupazione con la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. Ma si tratta di un ragionamento circolare: si vuole ripartire quel lavoro che è precisamente la causa della riduzione del personale. Se poi questa riduzione d’orario comporta, come è realistico supporre, una riduzione (anche meno che proporzionale) del salario, ragionando così si arrischia di generalizzare un peggioramento delle condizioni salariali, oltretutto senza avere la certezza che ulteriori futuri aumenti della produttività non provocheranno nuovi licenziamenti. Il paradigma di Taylor Da cosa dipende questo approccio riduttivo e, in definitiva, pauperistico alla definizione sociale della produttività? Prima di tutto, l’analisi della produttività del lavoro discende da una particolare rappresentazione sociale del lavoro. Di fatto, in questi approcci economicisti il lavoro continua ad essere analizzato nei termini in cui Adam Smith prima, e Frederick Taylor dopo, l’avevano studiato, cioè

applicando il paradigma operazionale per rappresentare l’organizzazione del processo di produzione.128 Nel modello taylorista il lavoro è un’attività oggettivata, cioè separata dal lavoratore, un’attività che può essere scomposta e ricomposta ricorrendo ad uno strumento di misura esterno, il cronometro, anch’esso risultante dalla suddivisione e dalla scansione meccanica del tempo. L’atto del produrre tayloristico consiste nella successione di operazioni elementari che si susseguono l’una all’altra a una velocità di realizzazione fisicamente misurabile. Per effettuare una operazione di parcellizzazione-segmentazione del lavoro è indispensabile poter pensare il lavoro come se fosse un corpo separato dal soggetto, qualcosa che si può «vivisezionare», osservare, scrutare in laboratorio. Gli studi di Michel Foucault permettono di capire che Adam Smith studia il lavoro industriale nella fabbrica di spilli nello stesso periodo in cui nasce la nozione statistica di «popolazione», di «sessualità», di «malattia»: sono tutte oggettivazioni di fenomeni sociali che la scienza nascente mette nelle mani dello Stato, dell’industriale o del medico, affinché possano intervenire su di essi dall’esterno con l’applicazione di leggi, meccanismi e regole a valenza universale. E a partire dalla separazione tra corpo e paziente che prende avvio l’industrializzazione della medicina, il cui tratto «tayloristico» consiste nella indifferenza verso il paziente preso nella sua specifica singolarità.129 Ciò che rende particolarmente difficile l’analisi delle trasformazioni post-fordiste del lavoro, e che è all’origine di frequenti incomprensioni tra coloro che studiano i nuovi modi di lavorare, è lo schema sulla base del quale il lavoro è pensato. Senza una riflessione sui presupposti epistemologici del modello di produzione taylorista e fordista è impossibile afferrare appieno ciò che differenzia l’attuale organizzazione della produzione di ricchezza. La separazione taylorista tra lavoro e lavoratore è stata possibile vietando agli operai l’accesso al linguaggio,

privandoli del diritto di progettare i modi migliori di lavorare comunicando-negoziando tra di loro e con la direzione le condizioni di possibilità del cambiamento.130 La creazione di un esercito di «specialisti del lavoro», una categoria di professionisti aventi per oggetto la definizione e la prescrizione unilaterali delle sequenze di operazioni lavorative, è stato il grande contributo dell’ingegner Taylor alla generalizzazione del modo di produrre che cent’anni prima Adam Smith aveva già teorizzato. Da sempre la produttività del linguaggio consiste nel permettere di sviluppare un discorso sul lavoro, sulle modalità lavorative grazie alle quali realizzare un determinato progetto. Il linguaggio è però anch’esso un’attività comunicativa che, in virtù della sua separazione dal lavoro direttamente esecutivo, ne studia modi e tempi operativi. La produttività del «linguaggio-come-lavoro» consiste nel creare le condizioni sociali per accrescere la quantità di prodotto per ora di lavoro eseguito. La separazione tayloristica tra lavoro esecutivo e uffici di Ricerca & Sviluppo in cui si pensa, si discute, si comunicano saperi e competenze ha permesso di privare i lavoratori della produttività linguistica contenuta nel loro lavoro. Il linguaggio ha sempre fatto parte dell’attività lavorativa concreta, in quanto tale l’atto linguistico-comunicativo è da sempre parte integrante dell’atto produttivo. «Passami il 22», dove 22 denota una determinata chiave inglese, è un atto linguistico a tutti gli effetti. Ma è anche un atto produttivo perché permette di coordinare gesti e movimenti di due o più persone all’interno di una data divisione del lavoro. Il lavorare non ha mai escluso il comunicare, se non dal momento in cui l’esercizio del potere ha comportato la scissione di questi due atti produttivi in due sfere organizzative distinte. La scissione è avvenuta per poter sottrarre il sapere che gli operai detenevano nella loro professionalità, per togliere loro la possibilità di esercitare il potere contenuto nel loro sapere.

La meccanizzazione dei processi lavorativi è stato il modo in cui il sapere e la sua comunicazione sono stati dislocati dai luoghi in cui si lavora e si interagisce socialmente. Il patto sociale, il compromesso fordista che ne è seguito, si è basato sullo scambio tra sapere/potere e salario. La forma salario fordista è ciò che ha permesso di riunire ciò che era stato preventivamente separato grazie ai precetti di Taylor, di funzionalizzare reciprocamente la separazione stessa, di farla agire come fattore di crescita economica. L’automazione e l’informatizzazione si inscrivono quindi completamente nel processo di taylorizzazione spinta del lavoro esecutivo. In quanto aumento della forza produttiva della scienza incorporata nelle macchine, automazione e informatizzazione hanno contribuito ad accelerare la riduzione della quantità di lavoro socialmente necessaria alla produzione di beni e servizi. La disoccupazione che ne è seguita non ha toccato soltanto la forza-lavoro meno qualificata, ma tutta la gamma di lavoratori e di professionisti che nel taylorismofordismo contribuivano al funzionamento del modello economico incentrato sulla separazione tra sapere e potere. Ma automazione e informatizzazione non sono di per sé sufficienti per distruggere la forma salariale dei rapporti sociali di produzione. Il patto sociale costruito sulla forma salario comporta altri interventi sul «corpo malato», altri processi di destrutturazione dell’attività lavorativa. La crisi del fordismo non va cioè ridotta alla sua sola dimensione quantitativa, come se fosse un problema di riduzione degli effettivi per accrescere la produttività del lavoro, la produttività dello stesso lavoro taylorizzato. Quando si parla di crisi del fordismo si deve capire che si tratta della crisi dei presupposti in base ai quali gli aumenti di produttività del lavoro sono stati possibili. In particolare, la crisi del fordismo è la fine della separazione tra layoro e lavoratore, tra lavoro come linguaggio e lavoro come esecuzione meccanica. Dal momento in cui il fordismo è entrato in crisi non è più

possibile misurare la produttività del lavoro separatamente dalla produttività del linguaggio, ossia dall’esterno dei processi produttivi stessi, perché nel dopo-fordismo queste due attività concorrono assieme a definire la nuova produttività. La misura dei suoi possibili incrementi chiama in essere modalità di «misurazione» che mettono in crisi il paradigma del «dentrofuori». Il «general intellect» Nel dibattito odierno sulla natura del lavoro post-fordista l’ostacolo maggiore è costituito dal come interpretare il «ruolo» del linguaggio e della comunicazione all’interno dei processi produttivi. Molto spesso l’entrata della comunicazione nella sfera direttamente produttiva è interpretata in termini neo-manageriali, come se fosse l’ennesimo stratagemma capitalistico per suddividere la classe dei lavoratori tra una «élite del sapere», i knowledge workers,131 e la massa di jobbers i quali, interiorizzando la precarietà come forma di vita, riproducono la propria indifferenza nei confronti del capitale con la gestione «opportunistica» del tempo di lavoro. Da una parte ci sarebbero i super-qualificati, coloro che si identificano nel lavoro attivando al massimo le capacità comunicative, relazionali, cooperative e creative; dall’altra i «neotaylorizzati», l’esercito dei precari legati al lavoro dalla miseria di un reddito incerto. Da una parte coloro che «sanno vendersi» perché «sanno comunicare», coloro che, mettendosi in proprio, si trasformano in «micro-capitalisti autonomi» al soldo del committente; dall’altra parte la massa di coloro che, rifiutando il lavoro salariato come modello di vita, non sono però ancora pronti per fare il salto nel nuovo paradigma produttivo. Questa interpretazione è molto diffusa e ha dato origine alle teorie del lavoro post-salariale. Si tratta di un modo il più delle volte ideologico di descrivere la configurazione del nuovo modo di lavorare. La fine del lavoro taylorista e del patto sociale su cui poggiava è analizzato sociologicamente in

termini di rimotivazione al lavoro. Delegare, decentrare, responsabilizzare, appaltare, esternalizzare, restituire autonomia e indipendenza «per» ritrovare il gusto dell’agire orientato al successo, «per» superare la tipica separazione taylorista tra lavoro e lavoratore definendo il reddito al di là della categoria giuridica del contratto di lavoro salariato. Posta in questi termini, la comunicazione e la «svolta linguistica» che stanno alla base dei nuovi processi di produzione sono viste da un punto di vista essenzialmente strumentale, come veicoli di ri-motivazione al lavoro, di implicazione negli obiettivi del committente. Il modello produttivo che fuoriesce da queste analisi non si differensa dal paradigma taylorista e dal «pensiero dell’operazione» che del •irlorismo rappresentò il presupposto epistemologico. La separazione viene in realtà occultata dagli ideologi del lavoro post-salariato. Gran parte del lavoro autonomo di seconda generazione è infatti un Irroro dipendente dal committente, un lavoro eterodiretto in cui la fusione tra lavoro e lavoratore è possibile solo se il lavoro «in proprio» è separato dalle strategie e dagli obiettivi del committente.132 Una volta tolto il velo di ignoranza che avvolge le analisi delle reali condizioni di lavoro nella società post-salariale, una volta evidenziato ad esempio il prolungamento della giornata di lavoro sociale che è alla base della riorganizzazione del lavoro post-fordista, è difficile negare che oggi ci si trova di fronte ad una ri-taylorizzazione del lavoro diffuso. E quanto, ad esempio, André Gorz denuncia nel suo libro Misères du présent. Richesse du possible.133 Ma la critica di Gorz all’ideologia della società post-salariale parte dalla medesima incomprensione del ruolo della comunicazione e del linguaggio nei nuovi processi di produzione. Persino in autori critici come Gorz la comunicazione è vista in termini esclusivamente strumentali, come mezzo per dividere la classe al suo interno tra coloro che si identificano in ciò che fanno e coloro che continuano ad avere un rapporto di disaffezione verso il lavoro,

anche se al prezzo della precarietà e dell’insicurezza economica. Ora - scrive Gorz - quando le capacità comunicative, relazionali cooperative, immaginative entrano a far parte della forza-lavoro, queste capacità, che implicano l’autonomia del soggetto, non possono per definizione essere comandate: esisteranno e si articoleranno non su ordinazione ma in virtù di iniziative del soggetto. Il dominio del capitale non può quindi esercitarsi direttamente sul lavoro vivo sulla base di costrizioni gerarchiche. 134

Per produrre, per cooperare, per innovare, sostiene Gorz, l’esercizio della comunicazione può darsi «soltanto» nella forma dell’asservimento al capitale. Per Gorz è inutile pretendere che sul terreno linguistico-comunicativo il soggetto possa preservare una sua integrità personale, tanto quanto è assurdo (per lui) credere che una prostituta possa realmente separarsi dal suo corpo nel rapporto servile che instaura con il cliente.135 Come parte integrante degli esseri umani, il linguaggio è uguale al corpo: dal momento in cui viene «dato» a qualcuno che ne può disporre per i propri fini e per il proprio godimento, l’integrità della persona viene irreparabilmente compromessa. È l’integrità ad essere sempre in gioco, «che si prostituisca il proprio corpo, la propria penna, la propria intelligenza, il proprio talento o qualsiasi altra risorsa non separabile dal soggetto che la mette al lavoro».136 Di conseguenza, per essere ancora veicolo di riappropriazione della coscienza collettiva, della «coscienza di tutti», il linguaggio deve separarsi dai luoghi fisici della produzione capitalistica. Per quanto paradossale possa sembrare, la critica di Gorz a coloro che sostengono l’importanza della comunicazione nei nuovi modelli di produzione rimane del tutto all’interno del «pensiero dell’operazione» che ha fatto da episteme all’organizzazione tayloristica del lavoro. Per uscire dal linguaggio-corpo «messo al lavoro» o, gorzianamente, al servizio del capitale; per uscire dall’illusione di un rapporto conflittuale e antagonistico dentro il linguaggio, Gorz propone

di salarizzare tutte le forme di prestazione di servizio. Solo la salarizzazione dei servizi alla persona permette infatti di separare di nuovo il lavoro dal lavoratore, di stabilire quella distanza tra il lavoratore o la lavoratrice e i suoi «datori di lavoro» che permette di circoscrivere il coinvolgimento emotivo e personale che sta sempre in agguato laddove «ci si dà» all’altro. Secondo Gorz il linguaggio e il corpo possono diventare terreni di conflitto a condizione di staccarsi dai luoghi diretti della produzione di valore di scambio, ossia definendo un terreno a sé stante sul quale la coscienza collettiva possa essere ricostruita sulla base del riconoscimento che «siamo tutti precari», siamo cioè tutti soggetti che hanno diritto al libero godimento della ricchezza prodotta, soggetti che hanno una cittadinanza indipendentemente dalle condizioni lavorative.137 Non potendo essere il lavoro salariato, perché tendenzialmente riducibile a zero malgrado tutti i tentativi di tenerlo in vita dividendo la comunità umana, e, «soprattutto», non potendo essere i lavoratori indipendenti postfordista che con il loro lavoro comunicativo-relazionale «ils produisent de la richesse et du chômage dans un seul et même acte», ne consegue che lo spazio pubblico della lotta può solo essere il tempo del nonlavoro salariato. Bisogna quindi ridurre l’orario di lavoro per ridistribuire le condizioni di possibilità della stessa presa di coscienza collettiva della comune condizione di asservimento al capitale. La controversia attorno al come interpretare la centralità del linguaggio e della comunicazione nel modello post-fordista dimostra quanto sia difficile avere le idee chiare sulla questione della produttività del lavoro. Da quanto sostiene Gorz sembrerebbe impossibile pensare il conflitto al di fuori del paradigma taylorista e fordista se non con una forzatura volontaristica. Per Gorz la centralità produttiva del linguaggio e della comunicazione è a senso unico, cioè capitalistica, tant’è vero che gli effetti della cosiddetta post-salarizzazione sono da

lui interpretati nei classici termini di aumento dello sfruttamento, anzi peggio, dell’auto-sfruttamento di una categoria elitaria, i knowledge workers. Il linguaggio, come il corpo, non può essere terreno di conflitto, ma solo veicolo di compromissione, di immedesimazione, illusoria perché ideologica, negli obiettivi del capitale da parte dei lavoratori indipendenti. Vediamo dove sta l’errore di Gorz. A quale produttività del lavoro ci si riferisce di solito quando si sostiene che essa ha raggiunto livelli tali da non permetterne più aumenti significativi? Dicendo che la produttività del lavoro non può aumentare più di tanto, gli economisti non fanno altro che ripetere quanto Marx aveva scritto nei Grundrisse a proposito degli aumenti di produttività del lavoro salariato. «Quanto più è già ridotta la frazione che incide sul lavoro necessario, ossia quanto maggiore è il pluslavoro, tanto meno un qualsiasi aumento della produttività può ridurre sensibilmente il lavoro necessario».138 Se il lavoro di cui si vuole misurare la produttività è lo stesso lavoro che Marx aveva davanti agli occhi, allora è certo che l’automazione e l’informatizzazione degli ultimi vent’anni hanno ridotto a tal punto il lavoro necessario che ogni incremento della sua produttività è destinato ad essere sempre più piccolo. Per ottenere un incremento della produttività è necessario poter comprimere la parte della giornata lavorativa che spetta all’operaio come salario. Ma quanto più questa parte della giornata lavorativa è già compressa, tanto meno aumenterà la parte che accresce il valore del capitale. Marx fa l’esempio seguente: «Se il lavoro necessario fosse 1/1000 e la produttività si triplicasse, il lavoro necessario calerebbe soltanto a 1/3000, o il plusvalore sarebbe aumentato soltanto a 2/3000». E aggiunge: «Ma ciò accade non perché è cresciuto il salario o perché è cresciuta la partecipazione del lavoro al prodotto, ma perché il salario è già diminuito enormemente, se lo consideriamo in rapporto al prodotto del lavoro o della giornata

di lavoro vivo».139 Il modo in cui il capitale è riuscito ad aumentare la produttività a partire da un lavoro necessario ridotto al minimo dall’automatizzazione e dall’informatizzazione è stato quello di uscire dal rapporto salariale, appropriandosi di una serie di attività il cui contributo alla valorizzazione del capitale permette di liberarsi dei limiti che il rapporto salariale pone agli aumenti di produttività. E con l’aumento del volume di lavoro extra-salariale, o extra-contrattuale, che si possono oggi ottenere continui aumenti di produttività comprimendo il lavoro vivo sociale. E quanto Marx aveva intuito al termine del ragionamento precedente, senza comunque sviluppare oltre la sua indagine: «La validità di questi teoremi, in questa forma astratta, è limitata al livello attuale del rapporto. In seguito interverranno ulteriori relazioni che li modificheranno notevolmente».140 L’uscita dal fordismo è stata possibile grazie all’aumento del lavoro straordinario non pagato, alla proliferazione di contratti di lavoro irregolari e atipici, all’individualizzazione degli orari di lavoro, all’esternalizzazione del lavoro (outsourcing), al ritorno delle donne nella sfera domestica. Modulazione degli orari di lavoro, aumento della «densità» delle ore lavorate e compressione salariale, sono ormai la norma in tutti i paesi sviluppati. Alla convivenza, all’interno delle stesse unità produttive, di regimi d’orario molto diversi (dipendenti a tempo indeterminato e a orario «fisso», lavoratori part-time, a tempo determinato, lavoratori indipendenti), corrisponde una strutturazione territoriale differenziata del comando sulle condizioni riproduttive della forza-lavoro. Fino al 1973, negli Stati Uniti il tasso di produttività annuo è di 2,3 per cento, e da allora l’aumento medio ufficiale è stato costantemente pari all’1 per cento. L’inizio del calo del tasso di produttività coincide con l’invenzione del Personal Computer. Questo fatto non deve sorprendere, anzi esso non fa che confermare, per quanto in modo «paradossale», che alla

massima applicazione della scienza direttamente negli strumenti di produzione, nel capitale costante, corrisponde l’aumento della produttività del lavoro vivo fuori dai vincoli contrattuali del rapporto salariale. Si pone quindi la domanda: il lavoro vivo extra-salariale è produttivo oppure no e, se sì, in che modo? Se non è produttivo, allora si arriva ai risultati davvero fantasiosi di Roger Sue, professore di sociologia alla Sorbona.141 Per dimostrare la diminuzione del lavoro sull’arco di un secolo sulla base di un’inchiesta sull’occupazione realizzata in Francia dall’INSEE nel 1985-86, Roger Sue ha diviso il numero totale di ore di lavoro recensite per il totale delle persone in età superiore ai 15 anni. Da questo ragionamento risulterebbe che in Francia si lavora in media 2h31 al giorno! L’ingiustizia starebbe esclusivamente nella pessima distribuzione di queste 2h131 di lavoro, dato che c’è chi lavora 10 o 15 ore al giorno e chi è «in giro a far niente», o a «lavorare servilmente». Confondendo i sogni con la realtà, mescolando classi di età, sesso, attivi e non attivi, lavoro domestico e «tempo libero», il «cittadino medio» del professore della Sorbona, oltre ad essere un cittadino astratto privo di esistenza concreta, difficilmente potrà aumentare la sua produttività riducendo ulteriormente la parte di lavoro necessario all’interno della giornata lavorativa. Stando così le cose, che interesse avrebbe il capitale a investire in nuove tecnologie per accrescere la produttività? Se, come è stato stimato, il tasso di rendimento dell’investimento in computer è pari al 50 per cento, perché mai acquistarli se per il capitale il guadagno in produttività del lavoro aumenta soltanto della metà di 21131 al giorno? E certo che la riduzione del costo del lavoro necessario derivante dall’applicazione dei computer, cioè l’aumento della produttività del lavoro, non potrebbe mai compensare i costi dovuti all’«so di questi stessi computer. Soprattutto se si tiene conto che i salari della forzalavoro formata per usarli sono normalmente superiori a quelli

della forza-lavoro non qualificata. Bisogna forse concludere che l’aumento del lavoro vivo «immateriale», o linguistico-relazionale, dovuto ai sempre nuovi investimenti nelle nuove tecnologie è «illusorio» o improduttivo? E vero che si passa del gran tempo davanti al computer a formarsi, a provare e riprovare per imparare sempre nuovi programmi, a «divertirsi» giocando con i computer games, a «istupidirsi» navigando su Internet, ma questo «perder tempo» non è forse la nuova frontiera del capitale, quella che «mette al lavoro» le qualità più comuni della forzalavoro?142 Il ricorso capitalistico alle facoltà comunicative e relazionali non è affatto la via che porta alla creazione di una élite di knowledge workers. Tutt’al più si tratta di un esempio di «eterogenesi dei fini», dato che nell’uso capitalistico delle risorse linguistiche e relazionali vengono messe in rilievo le qualità più comuni degli esseri umani, quelle qualità che rendono naturalmente produttiva la comunità sociale. Questo, e non altro, è l’uso politico che il pensiero critico fa del concetto di general intellect sviluppato da Marx nei Grundrisse.143 E proprio la massificazione del lavoro comunicativo-relazionale che costringe a rivedere il concetto stesso di politica, a pensare la politica a partire dalla crisi della sua relativa autonomia, come un processo di produzione della differenza all’interno dei processi di valorizzazione. Una volta abbandonato il paese delle meraviglie dei teorici della «fine del lavoro», gli incrementi di produttività sono realisticamente «misurabili» includendo nel calcolo la quantità di tempo di lavoro vivo che si aggiunge al tempo immediatamente necessario alla produzione materiale di beni e servizi. E la caratteristica fondamentale di questo lavoro vivo aggiuntivo è la sua natura fortemente comunicativa. Si tratta di un insieme eterogeneo di attività che comportano un dispendio notevole di energia psicofisica: il tempo della comunicazione sociale, il tempo della riflessività, il tempo

dell1’apprendimento, il tempo della riproduzione e dell’affettività, sono quattro blocchi di tempo di lavoro che, compenetrandosi tra di loro, si aggiungono al tempo di lavoro immediato-esecutivo.144 L’economia post-fordista funziona già da tempo attingendo alla somma di questi blocchi di tempo di lavoro vivo, all’interno delle aziende tanto quanto nel bacino del lavoro autonomo eterodiretto e nella sfera riproduttiva. Il problema della ridistribuzione del lavoro attraverso la riduzione dell’orario va quindi pensato innanzitutto a partire dal volume totale del lavoro vivo, ciò che comporta un intervento politico capace di incidere sui rapporti sociali all’interno di questo universo lavorativo. La conquista del tempo libero è un progetto, non una realtà già esistente, è un evento che si deve costruire a partire dal tempo che maggiormente struttura la nostra vita. E questa la questione, davvero cruciale, che i teorici della «fine del lavoro» non si pongono neppure lontanamente, dimostrando paradossalmente di considerare gli attuali rapporti sociali di produzione come immutabili, e quindi modificabili soltanto dall’esterno con proposte che hanno quale unico effetto quello di legittimare la dialettica tra i rappresentanti istituzionali del vecchio regime fordista. La centralità dell’evento Ciò che rende l’insieme di tempi di lavoro linguistico-comunicativo la caratteristica fondante del nuovo paradigma di produzione, e non un dispositivo per creare un’élite di knowledge workers imborghesiti, è di essere un’attività che si definisce all’interno di un contesto produttivo emergenziale. Più si procede nella direzione dell’automazione e dell’informatizzazione, e più l’evento, l’imprevisto, il fatto inedito assumono un’importanza strategica superiore al tempo produttivo della routine, della ripetizione, della programmabilità della produzione tipica del modello della produzione meccanica. Nella nuova economia la mobilitazione dei saperi e delle competenze collettive per risolvere problemi

inediti, dal guasto di una macchina digitalizzata alla volatilità del mercato, alla molteplicità dei possibili risultati, diventa il tratto essenziale del «lavorare assieme», della cooperazione comunicativa. Possiamo definire «situazioni emergenziali» quelle nelle quali si ha una sorta di sospensione improvvisa dei riferimenti valoriali e delle regole costituite a causa del carattere eccezionale dell’evento. La necessità di prendere rapidamente decisioni di fronte a problemi inaspettati, per i quali non esistono modelli di comportamento codificati in precedenza, sviluppa forme spontanee di cooperazione, nuovi scambi comunicativi, e la trasformazione dei rapporti sociali che ne consegue può avere conseguenze più o meno durature nel tempo. Nelle situazioni emergenziali il tempo stesso cessa di essere tempo programmabile, ripetibile, scandibile secondo la logica lineare-spaziale del modo di produzione tayloristico. E un tempo impregnato di soggettività, di emotività, di implicazione affettiva, durante il quale l’individuo si riconosce come individuo collettivo, vede dispiegata davanti a sé la potenza dell’agire assieme, una potenza in quanto tale, che non si riferisce ad alcunché di esterno, a nessuna gerarchia di valori, a nessuna unità di misura oggettiva. E il tempo della con-fusione in cui prevale la dimensione affettiva del soggetto collettivo sopra la dimensione dell’interesse economico individuale. La centralità strategica dell’evento, della situazione emergenziale, della molteplicità degli esiti possibili, di tutte quelle situazioni in cui alla regolarità del lavoro di routine si sostituisce la discontinuità, la rottura del tempo cronometrico, la mobilitazione delle competenze in una dimensione temporale soggettiva, permette di definire gli incrementi di produttività diversamente dalla teoria economica classica. Produttiva è quell’organizzazione del lavoro, quel modo di cooperare che permette di mobilitare le qualità più comuni della forza-lavoro per gestire situazioni emergenziali, per

risolvere problemi inediti. Una tale produttività necessita non soltanto della mobilitazione di competenze professionali e quindi di formazione, ma soprattutto dell’attivazione del tempo di comunicazione nella sfera produttiva e riproduttiva, del tempo di analisi e di studio dei problemi di produzione e di utilizzazione dei prodotti, del tempo di costruzione di reti informali di scambio e di lavoro comune, di messa in rapporto di una molteplicità di soggetti tra loro molto diversi. Sono tutte qualità che ineriscono alla intelligenza collettiva della comunità sociale. La riduzione dell’orario di lavoro deve essere quindi concertata e negoziata tenendo conto di tutte le componenti sociali che concorrono alla definizione della nuova produttività. In una strategia di questo tipo la riduzione del tempo di lavoro non si gioca tanto sull’orario, quanto su blocchi di tempo di vita.145 Solo liberando blocchi di tempo sufficientemente lunghi, tali cioè da mettere in rilievo la natura bio-sociale dei nuovi rapporti di produzione – evitando che la riduzione tecnica dell’orario distribuita sull’arco della settimana si traduca semplicemente in aumento dell’intensità del lavoro giornaliero – si garantisce che all’interno del bacino composito del lavoro l’accesso alla formazione e alla conoscenza non sia causa di ulteriori forme di esclusione. E la comunità linguistica che deve organizzare la ripartizione del lavoro. E la «comunità concreta» perché linguistica che deve lottare contro l’ingiusta ripartizione del reddito che impedisce di dare corpo alla cittadinanza e alla riappropriazione del tempo per sé. La comunità antagonistica non si ricostruisce fuori del linguaggio produttivo, ma dentro e contro l’uso capitalistico del linguaggio per polarizzare i redditi, per dividere in termini reddituali il corpo collettivo. 146 È proprio la lotta all’interno delle condizioni esistenziali (e quindi linguistiche!) che permette di porre la questione del reddito sganciata da quella dell’orario di lavoro. Questo è quanto dimostrano i disoccupati francesi in lotta per l’aumento

delle indennità indipendentemente dalle promesse socialiste delle 35 ore. Diversamente da quanto si crede, il «darsi» attraverso il linguaggio non è assimilabile al «darsi» all’altro in modo servile. La separazione, il «distacco professionale» che Gorz vede giustamente come necessario per evitare il servilismo dei rapporti sociali, la natura prostitutrice e servile che sta in agguato nei rapporti non mediati da contratto, questa separazione non riporta necessariamente all’istituzionalizzazione della forma salario. La prostituzione non è iscritta nei rapporti di produzione e di scambio per il fatto di essere mediata da rapporti di lavoro che fuoriescono dai normali contratti collettivi. La separazione è nel linguaggio e nel corpo, è ciò che fa del linguaggio (verbale e corporale) un’attività autoreferenziale. Proprio perché non si stacca dal corpo della forza-lavoro, il linguaggio ritorna alle condizioni di vita da cui era stato attivato per produrre beni e servizi. In questo periplo circolatorio, l’in-differenza nei confronti del capitale viene «messa in parola» dal linguaggio stesso. Riappropriarsi del linguaggio non è altro che volersi riappropriare delle condizioni di vita per la propria valorizzazione. Questa riappropriazione è politicamente difficile, ma lo è a maggior ragione se della de-salarizzazione si vuole vedere solo la faccia negativa e non, anche, l’occasione per dare senso a ciò che si fa laddove si fa.147 La riflessione femminile sul lavoro post-fordista è assai più lucida e politicamente spregiudicata delle analisi dei detrattori della crisi del fordismo: «L’abbiamo detto: c’è "qualcosa di buono" nella transizione in atto. La difficoltà – di fronte a un capitalismo onnivoro – sta nel sottrarre questo qualcosa alla sola misura (astratta) del capitale: sta nel dargli nuova misura e nuovo valore».148 Diverso, ad esempio, è l’atteggiamento femminile nei confronti del lavoro flessibile: «se ne hanno la possibilità, molte donne scelgono la flessibilità»; diverso è il punto di vista sulla ripartizione del tempo tra tempo produttivo

e riproduttivo: alle ipotesi di riduzione generalizzata del tempo di lavoro le donne obiettano che «è ancora maschile il tempo che viene contrattato»;149 diverso è il modo di vivere lo stesso lavoro: «una donna sul mercato del lavoro non si consegna tutta alla misura dei soldi (...) ma la commisura alle gratificazioni offerte dalla qualità del lavoro, dall’amicizia con le colleghe, dall’amore, dai figli...».150 Il punto di vista della differenza lavora sul tempo, sull’inaudito del tempo, su quel tempo per sé che il linguaggio permette di produrre con il «semplice gesto di una nominazione».151 Tempo di lavoro e tempo «per sé» non sono due tempi contrapposti, l’uno dalla necessità e l’altro dalla libertà. Sono, invece, due tempi che definiscono la differenza a partire dalla loro relazione. E quando la differenza irrompe nel «tempo del re», nel tempo del capitale, o nel tempo maschile, che essa può dare al senso la sua connotazione differenziale.152 I rendimenti crescenti La definizione della produttività del lavoro post-fordista ha una rilevanza che va oltre le descrizioni tutto sommato sociologiche che fino ad oggi hanno prevalso nelle analisi del modo di produzione post-fordista. Su questa base è infatti possibile definire l’economia post-fordista come economia dei rendimenti crescenti. La teoria dei «rendimenti decrescenti» era stata formalizzata da Alfred Marshall tra il 1880 e il 1890, cioè poco prima che la taylorizzazione e la fordizzazione del lavoro ponessero in termini diversi il problema macro-economico della produttività. Marshall teorizza i rendimenti decrescenti in un periodo in cui il grosso della produzione di merci è costituito da risorse fisiche pesanti, il cui sfruttamento, a parità di tecnologia, comporta il loro progressivo esaurimento. Comunque, già con il regime d’accumulazione fordista la teoria dei rendimenti decrescenti di Marshall viene superata legando le economie di scala (riduzione dei costi unitari all’aumentare delle quantità del prodotto) alla dinamica

salariale. Nello stesso pensiero economico di Taylor, l’idea di una produzione e di un consumo di massa, realizzabile grazie agli aumenti della produttività del lavoro e alla riduzione dei costi unitari, è già compiutamente presente. Come ha scritto Marco Revelli: Al cuore di quel meccanismo stava l’idea – la scoperta – che il produttore può «produrre il proprio mercato» abbassando costantemente i costi di produzione, e quindi i prezzi, attraverso l’ampliamento dei volumi produttivi. Creando cioè le condizioni per distribuire i costi fissi (in macchine, in impianti, ma anche in logistica, in spazi produttivi, in burocrazia aziendale) su un numero crescente di unità di prodotto e abbassare, quindi, proporzionalmente i costi unitari così da intercettare fasce sempre più ampie di potenziali consumatori. Da trasformare quote crescenti di popolazione in «domanda effettiva» e creare, appunto, per questa via, il proprio mercato.153

Nell’economia post-fordista, in cui la macchina industriale «cresce dimagrendo» secondo la logica della lean production e del just in time, la prevalenza di merci a basso contenuto di risorse materiali e ad alto contenuto di know-how rende possibile ciò che, ancora nel 1939, l’economista inglese John Hicks considerava «la distruzione della parte più importante della teoria economica». Il ruolo strategico delle informazioni come «merci strumentali» non fa che accentuare la definizione dei rendimenti crescenti. Come ha scritto Pierre Lévy: L’intera economia poggia sul postulato della rarità dei beni che a sua volta è fondato sul carattere distruttivo del consumo e sulla natura esclusiva o privata della cessione e dell’acquisizione. Ma trasmettendo una informazione non la si perde, né facendone uso la si distrugge. Poiché dall’informazione e dalla conoscenza, beni economici primari nella nostra epoca, discende ogni altra forma di ricchezza, possiamo progettare l’emergere di una economia dell’abbondanza, i cui assunti, e soprattutto le pratiche, rappresentino una profonda rottura con il funzionamento tradizionale dell’economia. Di fatto, già viviamo più o meno in questo regime, ma continuiamo a servirci degli strumenti ormai inadeguati dell’economia della rarità. 154

I rendimenti crescenti sono possibili dal momento in cui gli alti costi iniziali di Ricerca & Sviluppo incorporati nelle nuove tecnologie (Up-front Costs) vengono rapidamente diminuiti con la diffusione dei nuovi prodotti secondo la logica della rete, con la creazione di micro-ecologie (Network Effects), di

ambienti che sono «locali» in quanto fortemente interconnessi al loro interno.155 Si tratta di spazi locali, di luoghi di produzione e distribuzione in cui il profitto è calcolabile sulla base della ottimizzazione delle relazioni tra produttori e consumatori-utenti (alcuni economisti chiamano «attention economy» questa strategia economica). Ciò che conta in questa economia è l’anticipazione, la capacità di piazzare sul mercato il prodotto prima degli altri, per creare attorno ad esso un ambiente, un reticolo che ne renda indispensabile l’utilizzazione, anche se di qualità inferiore a quella di prodotti simili offerti dalla concorrenza. Bill Gates non è che l’esempio più noto di questo modo di agire sul mercato. Nell’economia post-fordista dei rendimenti crescenti, l’evento, la situazione emergenziale, definisce il lavoro non solo nella sua qualità per così dire «reattiva», come mobilitazione dell’intelligenza collettiva per risolvere i problemi, i «guasti» imprevisti. Nel post-fordismo il lavoro, la sua produttività, consiste anche nel creare attivamente l’evento, spiazzando il concorrente con tattiche psicologiche (psychological positioning). Il rendimento del «lavoro-evento», del «lavoro emergenziale», è crescente perché consiste nella continua attivazione di risorse umane come l’intuizione, la riflessione, la creatività, la cooperazione, la comunicazione, l’informalità, risorse che nella loro dimensione cooperativorelazionale sono teoricamente inesauribili. L’effetto ricchezza La conoscenza che permette di innovare i processi produttivi, il «progresso tecnico» che contribuisce ad aumentare la produttività del lavoro, non cade dal cielo, non è cioè esterna al contesto in cui si dà crescita economica. La conoscenza innovativa è qualcosa che si produce e che, per questa ragione, deve essere remunerata. Si tratta quindi di considerare il progresso tecnico come un costo. E quanto risulta dagli sviluppi teorici nel campo dell’analisi microeconomica dei fattori di crescita.156 Le teorie della crescita

endogena hanno infatti permesso di liberarsi dell’idea neoclassica di una conoscenza innovativa esterna allo spazio dell’agire umano, quasi fosse suggerita a Robinson dal suo pappagallo, oltretutto gratuitamente.157 Il problema che si pone riguarda il rapporto tra innovazione dei processi di produzione e sistema finanziario. Il legame tra la crescita e il sistema finanziario passa dal finanziamento della produzione delle innovazioni tecniche.158 Infatti, una volta definita la formazione e l’accumulazione del capitale immateriale come fenomeni endogeni, occorre emanciparsi dalla teoria neo-classica anche laddove questa non considera i costi dell’innovazione. Se l’innovazione è prodotta, chi e come la paga? Dato che la produzione dell’innovazione è per definizione incerta, nel senso che è difficile anticiparne i rendimenti economici, come attirare l’interesse dei potenziali investitori? Oltretutto, dato che la conoscenza innovativa è un bene pubblico, soprattutto in una economia fortemente comunicativa in cui la diffusione informale delle innovazioni vanifica la possibilità di esercitare su di esse una proprietà monopolistica completa, quali sono i meccanismi che ne permettono l’appropriazione o la «regionalizzazione»? La risposta che normalmente si dà a questi interrogativi si basa sui modelli di allocazione del risparmio come fonte principale di finanziamento della crescita economica. Nel corso degli anni ’80 i mercati finanziari liberalizzati hanno permesso di «dirottare» la massa dei risparmi su titoli di proprietà che assicuravano alti rendimenti in virtù del loro essere forme di ricchezza rigide. Il mercato immobiliare è l’esempio più noto di come la realizzazione di guadagni facili sia stata fluidificata dalle trasformazioni dei prodotti finanziari sulla falsariga delle modificazioni della struttura interna e della composizione sociale del risparmio. Altri esempi di titoli che hanno «depistato» i risparmi dal finanziamento dell’innovazione produttiva sono le azioni che, in seguito ai processi di fusione e concentrazione, si sono contratte; oppure le azioni, da molto

tempo sottovalutate, di imprese pubbliche privatizzabili. Sono esempi ancora attuali, salvo nel settore immobiliare, dove l’ondata speculativa sul finire degli anni ’80 è terminata in un «bagno di sangue», lasciando il territorio costellato di simulacri di una «razionalità economica acquisitiva» forgiata in tempi di inflazione, durante i quali i tassi di interesse reali erano di fatto negativi, per cui investire nella casa aveva una valenza speculativa oltre che abitativa. La «perversione» dei mercati finanziari liberalizzati ha contribuito ad accelerare le ristrutturazioni aziendali secondo i princìpi della produzione snella, ossia riducendo il più possibile i costi di produzione a causa del costo eccessivo del denaro. Più i mercati finanziari permettevano facili guadagni, più i risparmi lasciavano il sistema bancario per dirigersi sui titoli emessi in Borsa e. più le banche sono state costrette a mantenere elevati i tassi di interesse per trattenere risparmio nel loro settore. Da una parte, le ristrutturazioni, diminuendo i costi in un contesto globale sempre più competitivo, hanno permesso l’abbattimento dei prezzi, innescando la disinflazione; dall’altra, gli aumenti dei tassi di interesse reali, dovuti alla concorrenza tra mercati finanziari e settore bancario, hanno eliminato uno dopo l’altro i facili guadagni (come nel settore immobiliare), costringendo i risparmi a dirigersi sui titoli azionari. La disinflazione ha in tal modo contribuito ad eliminare gli investimenti in titoli vecchi non direttamente produttivi a vantaggio di titoli azionari più direttamente legati alla crescita economica. In un certo senso, la crisi dei mercati asiatici rappresenta l’ultimo esempio in ordine cronologico di questo processo di «disinflazione selettiva». Questo passaggio non è stato indolore e il crack borsistico dell’ottobre 1987 è la dimostrazione del ritorno dei cicli economici, ossia del disequilibrio come caratteristica immanente della crescita economica. Ma cosa ha insegnato quell’evento che continua a essere evocato ogni volta che si

assiste a un aumento del valore della ricchezza titolarizzata, come nei mesi precedenti il crollo del ’97? In primo luogo, l’analisi retrospettiva del crack dell’ottobre 1987 rivela che la liberalizzazione dei mercati finanziari nel corso degli anni ’80 ha modificato in modo considerevole il cosiddetto «effetto ricchezza», ossia il rischio di contrazione dei consumi conseguente alla riduzione della ricchezza attesa. L’effetto ricchezza si basa sull’assunto teorico, di derivazione friedmaniana, secondo cui le economie domestiche tendono a mantenere costante un determinato rapporto tra reddito e ricchezza patrimoniale. Se, ad esempio, la ricchezza aumenta in conseguenza di un aumento dei prezzi dei titoli in cui le economie domestiche hanno investito i propri risparmi, i consumi aumenteranno in modo corrispondente. Se, invece, i prezzi dei titoli calano perché le autorità monetarie decidono di aumentare i tassi di interesse per frenare l’inflazione, secondo la teoria dell’effetto ricchezza si dovrebbe verificare un calo della domanda come effetto della riduzione della spesa del reddito disponibile. Il mantenimento del rapporto tra ricchezza e reddito comporta infatti una riduzione dei consumi, se la ricchezza detenuta sotto forma di titoli diminuisce. Secondo le stime della Fed, per ogni dollaro in meno di ricchezza patrimoniale i consumatori potrebbero ridurre i loro consumi da 3 a 5 centesimi di dollaro, ciò che comporta il rischio potenziale di recessione. Se questa riduzione si generalizza sul piano internazionale per effetto dei meccanismi di contagio insiti in un sistema mondiale sempre più integrato, la recessione si traduce facilmente in depressione deflazionistica. Cogliendo tutti di sorpresa, l’effetto ricchezza seguente il crack del 1987 fu di gran lunga inferiore alle aspettative degli economisti della Fed. Per evitare una depressione simile a quella seguita alla grande crisi del ’29, le autorità monetarie iniettarono molta liquidità, ciò che fece scendere i tassi di interesse della Fed (il Fund rate) dal 7,25 per cento dell’agosto ’87, al 6,5 per cento del marzo dell’88. La riduzione dei tassi

favorì la crescita, che infatti nel corso del 1988 fu molto sostenuta (3 per cento di crescita del PIL). A metà del 1989, temendo la riapparizione dell’inflazione, la Fed aumentò di nuovo i tassi di interesse. Comportandosi esattamente come un anno e mezzo prima, prevedendo cioè una ripresa dell’inflazione del tutto inesistente, l’aumento dei tassi provocò il minicrack del 13 ottobre del 1989.159 Nel 1988 la crescita fu sostenuta, sia perché i consumi domestici americani diminuirono meno del previsto, sia perché questa diminuzione fu compensata dalla svalutazione del dollaro, che permise di aumentare le esportazioni. Il calo dei consumi domestici ci fu (dal 4 per cento del 1987 scesero all’1,8 per cento nell’88, il livello più basso dalla recessione dell’82), ma nel corso dello stesso 1988 aumentarono di molto i risparmi delle stesse economie domestiche americane. L’effetto ricchezza fu quindi soprattutto un effetto precauzionale che non diminuì il reddito spendibile in modo permanente ma, più semplicemente, ne differì il consumo all’anno seguente. Le difficoltà di stima dell’effetto ricchezza dipendono da un cambiamento profondo nella composizione della popolazione attiva, del ceto medio in particolare. Il nuovo ceto medio americano, risultante dai processi di ristrutturazione produttiva (downsizing) e dall’aumento del ricorso al subappalto (outsourcing), è costituito prevalentemente da economie domestiche che devono gestire un rapporto molto incerto e fluttuante tra reddito attuale e reddito differito. Avendo investito parte del proprio reddito in titoli azionari (dal 1989 al 1997, la proporzione di famiglie americane indirettamente detentrici di titoli azionari non ha smesso di crescere), sia per ragioni previdenziali, sia per ragioni dovute all’instabilità del reddito corrente, il ceto medio americano ha un comportamento di spesa che rende difficile qualsiasi valutazione macroeconomica dell’effetto ricchezza. Potrebbe darsi che l’effetto ricchezza funzioni di più quando la Borsa ha un andamento al

rialzo di quando la borsa subisce gli scossoni al ribasso dovuti a un crack. Non bisogna poi dimenticare che la concentrazione della proprietà azionaria negli Stati Uniti è molto elevata: l’1 per cento più ricco detiene la metà dei titoli, ciò che rende ancora meno efficace l’effetto ricchezza. Un altro esempio di oscillazione tra reddito differito e reddito corrente, tra risparmio e spesa corrente, lo si è avuto nel periodo tra il 1995 e il 1997. Secondo la teoria dell’effetto ricchezza, in un periodo in cui l’indice Dow Jones aumenta del 50 per cento, un ceto medio costretto a risparmiare per il proprio pensionamento dovrebbe aumentare il risparmio in misura superiore all’aumento della spesa corrente. Tra il ’95 e il ’96 sembrava appunto che il comportamento previdenziale avesse prevalso su quello di spesa, dato che il risparmio era salito al 5 per cento all’inizio del ’95, ciò che per gli Stati Uniti rappresenta un tasso elevato. Sta di fatto che all’inizio del ’97, cioè nel periodo di maggiore ottimismo dei mercati borsistici, il risparmio è sorprendentemente calato al 4 per cento. Per quanto si tratti di oscillazioni vicinissime nel tempo, l’ipotesi che si può tentare è la seguente: la teoria dell’effetto ricchezza, secondo cui ad un aumento, o una diminuzione, della ricchezza attesa corrisponde un aumento, o una diminuzione, del reddito spendibile perché la gente desidera mantenere costante il proprio livello di vita all’età del pensionamento, è una teoria che mantiene la sua validità solo se si tiene conto della precarizzazione dei redditi correnti. Essendo il nuovo ceto medio costituito sempre più da forzalavoro indipendente, che lavora con contratti non-salariali, la componente di incertezza del reddito attuale impedisce di fare previsioni sulla sola base dell’andamento borsistico. All’obiettivo di un reddito pensionistico che garantisca lo stesso standard di vita corrente si è aggiunta la necessità di mantenere costante il livello di vita attuale, ciò che non è assolutamente evidente quando reddito e occupazione sono strutturati al di fuori della forma salario, al di fuori della

garanzia del reddito. Basta un aumento dell’indebitamento personale dovuto al non pagamento della fattura da parte del committente e, per quanto la Borsa possa tirare al rialzo, si sarà costretti a diminuire il proprio consumo e il proprio risparmio per ridurre il debito, ciò che contraddice la teoria dell’effetto ricchezza.160 L’analisi del nuovo Finanzkapital dovrebbe tenere maggiormente conto della composizione sociale che sottende la logica finanziaria dei mercati. Gran parte delle analisi critiche odierne vede nella logica dei Fondi soltanto il finanziamento delle imprese che garantiscono elevati saggi di profitto in virtù di una composizione organica del capitale ad elevato risparmio di lavoro (basso capitale variabile) e ad elevato capitale costante informatizzato. Di conseguenza, le crisi dei mercati borsistici sono interpretate essenzialmente come crisi causate da un’eccessiva concentrazione dei capitali e da movimenti speculativi, da processi di fusione e concentrazione che non hanno alcun riguardo all’occupazione e al capitale umano. I prezzi di produzione odierni sarebbero, come in Hilferding, una deviazione da un volume dato di lavoro astratto che viene ripartito senza cura dei bisogni delle piccole e medie imprese concorrenziali, le uniche che, tra l’altro, sono ancora in grado di creare occupazione. L’errore sta nel dare per scontata la trasformazione dei valori in prezzi di produzione, nell’assumere come «data» la quantità di valore da ridistribuire in modo iniquo tra i settori economici. Questo errore, è utile ricordarlo, portò Hilferding a dare del Finanzkapital un’immagine statica, mentre gli sviluppi storici successivi hanno dimostrato che tra banche e industria il rapporto di forza può mutare notevolmente, può addirittura rovesciarsi. A partire dal secondo dopoguerra non si può certo dire che le banche abbiano sempre dominato le imprese. Il punto debole di questo approccio consiste nel non voler analizzare la formazione del valore prima ancora della formazione dei prezzi. Se, come abbiamo visto nel caso di

Gorz, si considera soltanto il lavoro salariato e se, di conseguenza, la sua riduzione è vista esclusivamente come il risultato dello sviluppo delle forze produttive del capitale (della scienza applicata alle macchine), è chiaro che la precarizzazione del lavoro e le forme dell’outsourcing saranno analizzate come forme residuali di comando sulla classe sociale secondo la (ormai) falsa legge del valore-lavoro. Insomma, si è costretti a lavorare non perché è necessario, ma perchè ciò permette al capitale di dividere la classe al suo interno, ripartendo in modo del tutto iniquo un volume dato e incomprimibile di lavoro astratto. Tutto ciò che accade al di fuori di questo schema interpretativo diventa così pura critica del «pensiero unico». Le Borse crollano perché sono in mano a un pugno di speculatori assetati di guadagno, mentre nessuno più si preoccupa di creare occupazione salariata o di meglio ripartire l’occupazione esistente. Se invece si guardasse alla formazione del valore, invece di saltare subito alla dinamica dei prezzi, ci si accorgerebbe che alla crisi della forma salario corrisponde un’innovazione del modo di produrre valore, che precede il modo stesso di ridistribuirlo. Questo cambiamento riguarda le fonti del valore, nel senso che con la centralità della comunicazione, dell’agire relazionale, della circolazione informale dei saperi, è la vita intera della comunità sociale che è «messa al lavoro». La determinazione bio-economica del valore è ciò che sta alla base del superamento della forma salario, è ciò che, attraverso le forme più atipiche di rapporti contrattuali, costringe la forzalavoro ad attivarsi per il capitale entro uno spazio che non è più la fabbrica o l’ufficio, ma lo spazio di vita stesso. L’iniqua distribuzione della ricchezza costituisce la modalità con la quale il capitale comanda l’aumento della quantità di valore. I luoghi-mondo Gli studi di Saskia Sassen sulle città globali permettono di capire che la globalizzazione non è uno spazio immateriale senza luoghi, ma un processo che si svolge

all’interno di precisi territori urbanizzati.161 Non appena si analizza questo processo, si scorgono delle conseguenze singolari, giacché si deve constatare che ne fanno parte le segretarie, come pure gli addetti alla pulizia degli edifici dove i professionisti svolgono il loro lavoro. Emerge cioè una configurazione economica molto diversa da quella immateriale, suggerita dal concetto di economia dell’informazione, in cui ritroviamo condizioni materiali, luoghi di produzione e vincoli spaziali.162

La globalizzazione ha nelle città i suoi centri di produzione, nient’affatto nei quartieri generali delle imprese o nelle Borse, intese come entità separate. Le città globali scompongono lo Stato-nazione in una serie di attività concrete e di assetti organizzativi che rappresentano la trama di una rete globale di unità produttive, di servizi e di mercati,, solo parzialmente riducibili all’attività delle imprese e delle banche transnazionali. L’asse più importante di questa nuova geografia della centralità è quello che collega i principali centri finanziari e d’affari internazionali: New York, Londra, Tokyo, Parigi, Francoforte, Zurigo, Amsterdam, Sidney, Hong Kong. Ma oggi di questa centralità fanno parte anche città come San Paolo e Città del Messico. 163

La globalizzazione è fatta di luoghi e di ordinamenti urbani riconducibili a complessi produttivi concreti: Solitamente i servizi specializzati, divenuti una componente chiave di tutte le economie sviluppate, non vengono analizzati in quanto processi produttivi o lavorativi; di regola vengono invece visti come un tipo di prodotto, consistente in una consulenza tecnica di alto livello. Perciò si è sempre prestata scarsa attenzione alla serie di mansioni effettive, più o meno altamente retribuite, richieste dalla produzione di tali servizi. Una volta collocata la produzione di quei servizi al centro dell’analisi, l’accento si sposta dalla consulenza al lavoro che essa sottende. I servizi devono venire prodotti e gli edifici che ospitano coloro che lavorano devono essere costruiti e tenuti in ordine.164

La rappresentazione dominante del processo di globalizzazione si occupa dei circuiti alti del capitale, mentre ignora quelli bassi e in tal modo esclude dalla globalizzazione i vincoli sociali e localizzativi che gravano su questa stessa globalizzazione: vincoli territoriali (speculazione immobiliare, congestionamento del traffico dovuti al «just in time

delivery»), demografici (etnicizzazione del mercato del lavoro), sociali (ineguaglianze, discriminazioni), urbani (impoverimento dei quartieri periferici). La distribuzione ineguale delle potenzialità di profitto dei diversi settori dell’economia sta producendo distorsioni sempre più gravi non solo sul piano nazionale, ma anche su quello macro-economico globale. Le principali città si fanno una concorrenza spietata per l’accesso a mercati sempre più globalizzati di risorse e attività, che vanno dall’investimento estero all’acquisizione di quartieri generali, dalle istituzioni al turismo alle manifestazioni multinazionali. Allo stesso tempo, oltre a contendersi quote degli stessi affari, le città globali intessono tra loro rapporti sempre più integrati, dando origine a veri e propri sistemi urbani transnazionali. Col termine «globalizzazione» si deve quindi intendere una catena di produzione fatta di imprese, di servizi finanziari alle imprese, di sistemi di subappalto e di una molteplicità di mercati specializzati, a loro volta caratterizzati da una molteplicità di localizzazioni sempre più discoste dal proprio hinterland e dal proprio sistema nazionale urbano. Ed è proprio la crescente immaterialità delle risorse produttive, la funzione strategica dei servizi nella produzione industriale (innovazione, consulenza finanziaria, marketing, relazioni pubbliche, ristorazione, ecc.), che ridisegnano materialmente la geografia del capitale. La globalizzazione è una catena «infrastrutturale» di posti di lavoro e di lavoratori, in cui segretarie, addetti alle pulizie e alla manutenzione degli edifici, tecnici, corrieri che recapitano programmi di software, assicurano il funzionamento della catena finanziaria di produzione di capitale. Questa concettualizzazione della globalizzazione dimostra i limiti dell’analisi comparata tradizionale, di cui lo studio di Paul Hirst e Grahame Thompson, La globalizzazione dell’ economia,1^ rappresenta un buon esempio. Pur riconoscendo gli effetti di accelerazione verso una configurazione globale dell’economia dovuti alle nuove tecnologie informatiche, alla

liberalizzazione dei mercati e alla mobilità dei capitali sui mercati finanziari, l’analisi comparata tende a dimostrare la natura ancora essenzialmente internazionale dell’economia mondiale. Se paragonato al periodo tra il 1880 e il 1913, lo sviluppo dei rapporti capitalistici internazionali degli ultimi vent’anni appare addirittura meno integrato di allora. I mercati delle merci, del capitale e del lavoro si sarebbero espansi orizzontalmente (più paesi fanno oggi parte dell’economia internazionale), ma dal profilo della loro integrazione non evidenzierebbero tendenze particolarmente nuove o marcate. In queste analisi manca la ri-definizione del territorio nel processo di globalizzazione, il fatto che, per poter funzionare, il «modo di produzione globale» odierno ha assoluto bisogno di articolarsi nei luoghi urbani, i luoghi-mondo. La letteratura economica dominante continua a ripetere che la localizzazione non ha più importanza, che le imprese possono insediarsi ovunque grazie alla telematica, che oggi le principali industrie sono basate sull’informazione e quindi non sono legate al luogo. E così svalutano le città e le aree regionali proprio nel momento in cui esse divengono i luoghi principali della nuova economia. Non basta, ad esempio, prendere in considerazione i servizi e la loro importanza crescente per caratterizzare l’economia globale; bisogna invece analizzare come e dove i servizi sono prodotti e chi li produce. La società di contabilità può servire clienti distanti, ma il suo servizio dipende per sua natura dalla vicinanza di altri specialisti, avvocati e programmatori. Spesso quello che viene preso per una forma di comunicazione faccia a faccia non è altro che un processo produttivo che necessita di molteplici inputs e retroazioni simultanee. Nello stadio attuale dello sviluppo tecnico, il modo più efficiente di operare, soprattutto là dove si ha a che fare con un prodotto molto complesso, si basa ancora sulla possibilità di avvalersi immediatamente e contemporaneamente di esperti idonei.166

Il lavoro comunicativo-relazionale non solo è il lavoro produttivo su cui si basa il regime post-fordista, ma è anche

quel lavoro «immateriale» che dà corpo al sistema globale, lo riterritorializza, lo spazia-lizza concretamente in una rete sistemica transnazionale. E l’agire comunicativo-relazionale che ha messo in crisi la relativa autonomia dello Stato-nazione, non perché gli Stati non hanno più margine di manovra per imporre dall’alto norme e regole ridistributive (fiscali, monetarie, sociali, concordate internazionalmente), ma per la ragione esattamente opposta: gli Stati-nazione devono negoziare i margini di autonomia dell’economia urbanaregionale perché da essa dipendono per la loro stessa sopravvivenza. Apatride non è il capitale, apatride è la nuova qualità produttiva del lavoro vivo. Questa è la vera novità contenuta nel concetto di globalizzazione. La messa al lavoro del «general intellect» dopo l’esaurimento delle possibilità stesse di aumentare la produttività del lavoro con l’aumento della composizione organica del capitale, ossia con l’aumento dell’automazione e dell’informatizzazione, è un passaggio storico e politico simile per complessità al passaggio dall’epoca preindustriale a quella industriale. Ogni aumento della produttività sociale tocca le corde vitali di una comunità continuamente alle prese con la determinazione del proprio reddito tra tempo presente e tempo futuro, tra genitori e figli, tra lavoro remunerato e lavoro riproduttivo. Il finanziamento della crescita endogena Lo studio della formazione del valore e della sua distribuzione attraverso il meccanismo dei prezzi di produzione mette in luce un altro problema che le teorie della crescita endogena lasciano irrisolto. Dal punto di vista macro-economico, il finanziamento della crescita e della attività di Ricerca & Sviluppo da cui dipende è imputato prevalentemente alla allocazione del risparmio. In regime di concorrenza imperfetta, in cui ognuno tende a proteggere le proprie innovazioni di prodotto o di processo, i prezzi di monopolio introducono delle distorsioni

nella distribuzione mondiale del risparmio. 167 Si può dire che le più recenti teorie della crescita endogena sono un tentativo di estendere su scala macroeconomica la teoria del ciclo dell’innovazione di Joseph Schumpeter. Le economie che innovano i processi di produzione, e che possono farlo in virtù dell’ampiezza del loro mercato e della loro posizione monopolistica sul piano internazionale, beneficiano di una rendita di posizione grazie alla diminuzione dei costi di produzione, ciò che assicura loro elevati saggi di profitto. Solo la diffusione per imitazione delle innovazioni diminuisce nel tempo la rendita di posizione, e la saturazione dei mercati che ne consegue, a causa della generalizzazione dei nuovi processi di produzione o di prodotto (gli innovatori sono sostituiti dagli imitatori), porta di nuovo alla crisi e alla necessità di uscirne con una nuova ondata di investimenti innovativi. Degli studi di macro-economia finanziaria, ciò che lascia perplessi è il ruolo eccessivo attribuito al risparmio nel finanziamento della crescita economica a mezzo di innovazione. Se è certo che, come evidenziato dalle più recenti teorie della crescita endogena, l’innovazione deve essere in qualche modo finanziata e che le modalità di finanziamento della crescita che ne deriva (disintermediazione bancaria a favore dell’intermediazione dei Fondi, o fusione tra banche e Fondi) sono fondamentali per decidere della divisione internazionale del lavoro, meno chiaro è il ruolo svolto in questo processo dal volume complessivo del risparmio. E davvero la disponibilità del risparmio che decide della capacità di finanziamento dell’innovazione e, quindi, della crescita? Della teoria dello sviluppo economico di Schumpeter sembra che i modelli della crescita endogena non colgano l’aspetto più innovativo per ciò che riguarda il finanziamento dell’innovazione. Per Schumpeter l’innovazione che scombussola la routine degli affari (il «normale flusso circolare») e che, in tal modo, permette alle imprese innovatrici

di conquistare transitoriamente una posizione di monopolio non è finanziata sulla base del risparmio esistente, bensì tramite la creazione ex nihilo di denaro-capitale da parte delle banche finanziatrici. Dato che – scrive Schumpeter – la concessione del credito, nell’unico caso in cui è essenziale per il processo economico, potrebbe avvenire solo per mezzo di mezzi di pagamento a credito di questo tipo creati ex novo..., la concessione del credito implica, dunque, in questo caso, creazione di potere d’acquisto e il potere d’acquisto così creato serve solo a concedere il credito all’imprenditore, è necessario solo per questo scopo.168

Nel modello di Schumpeter, il salto innovativo da un livello all’altro della produzione e circolazione di beni e servizi è, non a caso, di tipo inflazionistico. L’aggiunta di potere d’acquisto nelle mani del capitalista imprenditore permette a costui di sottrarre risorse a prezzi inflazionati (macchine e/o forzalavoro) a coloro che non dispongono di sufficiente potere d’acquisto. Con la creazione per mezzo di credito di un potere d’acquisto ex novo, naturalmente non viene accresciuta la quantità di servizi produttivi di cui dispone il sistema economico. Diventa tuttavia possibile ovviamente una «nuova domanda». Essa determinerà un aumento dei prezzi dei servizi produttivi. In questo modo avviene la «sottrazione di beni», l’introduzione di impieghi diversi dei servizi del lavoro e della terra esistenti.

Il processo, continua Schumpeter, «si risolve in una compressione del potere d’acquisto esistente» e l’imprenditore innovatore «si ricava uno spazio per esso a spese del potere d’acquisto esistente».169 Schumpeter, come d’altronde Keynes su questo punto, considera l’inflazione {ivi impressa), causata dall’aggiunta di potere d’acquisto in un’economia monetariamente autosufficiente, come un potente fattore di accumulazione in virtù del risparmio forzato che imprime al resto dell’economia. Il che presuppone – è questo il lato neoclassico della teoria di Schumpeter – che in ogni momento le merci offerte siano equivalenti al potere d’acquisto già creato per la loro

produzione. Solo l’aggiunta di denaro ex nihilo permette al capitalista imprenditore di acquisire una posizione monopolistica sul mercato. L’inflazione scomparirà dal momento in cui l’aumento della quantità di beni e servizi creati grazie alla nuova combinazione dei fattori ristabilirà il «parallelismo tra flusso della moneta e flusso dei beni».170 È importante osservare che in regime post-fordista i costi della innovazione riguardano attività remunerate (quelle dei ricercatori) ma anche, se non soprattutto, un insieme di attività che sfuggono alla determinazione tradizionale dei costi perché risultanti dallo scambio informale di competenze e «saperi vissuti». Ciò deriva immediatamente dalla natura linguisticorelazionale del modo di produzione post-fordista, una caratteristica che rende difficile la distinzione tra lavoro esecutivo e lavoro creativo-innovativo. Ciò significa, per riprendere l’impostazione di Schumpeter, che il denaro creato ex nihilo che permette all’imprenditore innovatore di «sottrarre agli impieghi consueti i mezzi di produzione di cui ha bisogno» non e causa di inflazione. Nella teoria di Schumpeter, i beni e servizi sottratti dall’imprenditore-innovatore alla normale routine dell’economia erano fattori di produzione dalla cui diversa combinazione scaturiva un processo di crescita più potente. La sottrazione produceva inflazione perché riguardava fattori di produzione già esistenti sul mercato, quindi già prodotti. Nel modo di produzione post-fordista i fattori di produzione, dalla cui diversa combinazione scaturisce l’innovazione, sono sempre meno fattori materiali e sempre più fattori immateriali, ossia dipendono sempre meno da merci e sempre più da capacità, facoltà lavorative-produttive (pensiero, intuizione, qualità cognitive). E appunto questo che qualifica le teorie dei rendimenti crescenti. Quindi, anche nell’ipotesi schumpeteriana (non sempre necessaria e sufficiente) di un pagamento di questa diversa combinazione dei fattori di produzione con denaro creato ex

nihilo, nel post-fordismo l’inflazione «da sottrazione» scompare dal modello. Infatti, questo potere d’acquisto aggiuntivo serve per finanziare una facoltà pubblica remunerandola per la sua prestazione privata, puntuale e individuale. Si può dire che la contemporaneità nella comparsa del potere d’acquisto e delle merci ad esso corrispondenti, che in Schumpeter produceva momentaneamente l’apparenza di un’inflazione, in regime post-fordista produce l’apparenza della deflazione. Infatti, il livello generale dei prezzi può avere una crescita negativa senza che ciò porti a una depressione perché la riduzione dei prezzi risulta da una attività sociale la cui remunerazione è inferiore alla quantità di valore aggiunto da essa prodotto. E la natura linguistico-comunicativa, dunque pubblica, di una facoltà simultaneamente lavorativa e innovativa a far sì che nel post-fordismo la deflazione non sia in alcun modo comparabile alla Grande depressione degli anni ’30. Nelle teorie della crescita endogena è la natura pubblica, oltre che cumulativa, delle nuove tecnologie a rendere il loro costo di comunicazione largamente inferiore al loro costo di produzione (al limite il costo si riduce a quello di una fotocopia). Le medesime tecnologie possono essere utilizzate simultaneamente da un numero qualsiasi di agenti, ciò che permette di caratterizzarle come «beni non rivali». Chiunque può utilizzare la totalità dello stock di sapere tecnicoscientifico, ciò che non vale nel caso (schumpeteriano) di uno stock di capitale fisico il cui uso è, invece, «rivale» (una stessa macchina non può servire simultaneamente un numero qualsiasi di utilizzatori). Ciò non toglie che l’innovazione sia appropriata (o «mercatizzata») monopolisticamente con l’introduzione di diritti di proprietà (brevetti, copyright, per l’inventore, e strategie positioning sul mercato per l’impresa innovatrice). Ma ogni innovazione si aggiunge comunque allo stock di conoscenze e di sapere della società. Quindi ogni ricercatore-innovatore che viene pagato per la sua attività

permette di aumentare la produttività dei suoi colleghi e dei suoi successori.171 E questa esternalità sociale positiva che non viene pagata. Il rendimento sociale dell’innovazione è dunque superiore al suo rendimento privato.172 La natura «apparentemente» deflazionistica della crescita postfordista si spiega tenendo conto di questo divario tra aumento della produttività sociale e aumento della domanda effettiva non corrispondente al contenuto sociale della innovazione. La tendenza deflazionistica è destinata a rafforzarsi nella misura in cui la tecnologia e l’innovazione si «smaterializzano» e, in questo senso preciso, si socializzano in virtù del loro carattere linguistico-comunicativo. Che lo si voglia o no, siamo ben lontani dalla visione marxista che si ispira al Finanzkapital di Hilferding, in cui la mobilitazione del capitale da parte dei cartelli si effettuava a partire da un volume dato di risparmio, ignorando totalmente la creazione ex nihilo di denaro capitale. Certo, Hilferding spinse molto in avanti la sua analisi con numerose suddivisioni sottili: credito di circolazione, credito di capitale, ecc. ma non fece che suddividere la stessa specie di credito, quello che trasferisce da un soggetto economico ad un altro il potere d’acquisto esistente. Ciò che indebolisce la tesi, secondo cui il nuovo Finanzkapital priverebbe l’Europa del risparmio di cui ha bisogno per finanziare la sua crescita a causa della distorsione dei prezzi degli attivi finanziari, è appunto il voler far dipendere l’innovazione da un risparmio dato. Se, come è stato stimato, sul totale dei titoli che potenzialmente potrebbero essere emessi a fronte di un volume di risparmio in costante aumento, solo il 40 per cento dello stock di capitale mondiale è effettivamente titolarizzato, allora il problema della scarsità del risparmio scompare completamente.173 Questo divario tra domanda e offerta di titoli è la conseguenza della crescita mondiale della classe media e del suo risparmio piazzato in Fondi pensione e di investimento. La gara a emettere nuovi

titoli per attrarre capitali spiega in gran parte l’aumento del loro valore di mercato e la pressione al ribasso sui tassi di interesse. Il problema non è la mancanza di risparmio, semmai è la politica monetaria perseguita dai paesi europei che, imponendo tassi di interesse elevati, cioè resistendo alla pressione verso il basso sui tassi di interesse per paura dell’inflazione, ha reso eccessivamente caro il finanziamento della crescita in Europa. Il «dibattito proibito» È quanto sembra sostenere Jean-Paul Fitoussi nel suo libro II dibattito proibito.174 Secondo l’Autore, la distorsione che meglio spiega il divario tra la crescita statunitense e quella europea riguarda gli effetti sui tassi di interesse causati dalla volontà europea di impedire la fuga dei capitali favorita dalla globalizzazione dei mercati. In un periodo, inaugurato da Volker nell’ottobre del ’79, caratterizzato dalla politica anti-inflazionistica americana, le scelte di politica monetaria in Europa hanno aggravato la crisi occupazionale a causa di un costo del denaro eccessivo che ha penalizzato gli investimenti innovativi, senza peraltro riuscire a impedire la fuga del risparmio verso i mercati che offrivano rendimenti più elevati. Volendo perseguire testardamente una politica anti-inflattiva come quella inaugurata dalla Fed, in particolare dopo la caduta del muro di Berlino e la riunificazione delle due Germanie, l’Europa si è condannata ad avere tassi elevati di disoccupazione. La causa dell’inasprimento della politica monetaria, che per la Francia è all’origine delle tre crisi valutarie tra settembre 1992 e luglio 1993, per Fitoussi è da ricercarsi nel rifiuto da parte francese di svalutare il franco o di lasciar rivalutare il marco, essenzialmente per ragioni di credibilità. Dopo la riunificazione tedesca, si sapeva che «la Germania avrebbe adottato una combinazione di politica economica – un policy mix – analoga a quella degli USA: politica monetaria restrittiva per tagliare le tensioni inflazionistiche e politica di bilancio espansiva per far fronte ai bisogni della ricostruzione dell’Est.

L’una e l’altra coniugavano i loro effetti per produrre poi una crescita dei tassi di interesse. In altri termini, poiché la riunificazione avrebbe creato un aumento considerevole della domanda, essa avrebbe necessariamente provocato una crescita altrettanto forte dei tassi di interesse in Germania».175 Un apprezzamento del marco, che peraltro la stessa Germania aveva proposto nel 1990 sia alla Francia sia all’Italia, avrebbe permesso di raffreddare la macchina inflazionistica che arrischiava di mettersi in moto e nel medesimo tempo avrebbe avvantaggiato gli altri paesi europei, la Francia in particolare, favorendone le esportazioni in conseguenza della svalutazione delle loro monete. La Francia, come gli altri paesi europei, in particolare l’Italia, si rifiutò per non perdere credibilità. Le parità devono essere mantenute a ogni costo. Occorre capire che i simboli giocano un ruolo decisivo in questa vicenda, altrettanto decisivo della non comprensione, sul piano economico, dell’importanza dell’evento. 176

L’effetto, ben noto, di questa decisione fu l’aumento dei tassi di interesse «tirati» dalla Germania a causa dei suoi bisogni di finanziamento interno. E questo in un periodo di recessione, oltre tutto una recessione che era già stata preceduta da un evidente calo dei prezzi, ossia da un processo disinflattivo. L’aumento dei tassi nominali, in un periodo di calo del tasso d’inflazione, non può che far crescere il costo del denaro in termini reali a livelli proibitivi per chi vuole innovare i processi produttivi. Diversamente da quanto auspicato da Fitoussi, sembra che la volontà di perseguire una politica monetaria restrittiva sia un vizio tipicamente europeo. Il 9 ottobre 1997, le banche centrali europee hanno deciso di aumentare i tassi di interesse per far convergere i tassi dei singoli paesi-membri in vista della unificazione monetaria. Se ciò favorisce l’Italia e la Spagna, che possono ridurre i loro tassi verso quello comune, di certo per paesi come la Germania e la Francia questa misura non può che aggravare le condizioni del finanziamento della ripresa,

aggravando la disoccupazione già massiccia in questi paesi. La cosa paradossale è che nel 1990 i paesi europei cercarono di difendere i loro esclusivi interessi nazionali, mentre oggi è proprio nel nome dell’Unione Europea che si è deciso di aumentare i tassi di interesse! Si noti che questa decisione, la Bundesbank l’ha presa il giorno dopo le dichiarazioni allarmistiche di Greenspan circa l’andamento «esuberante» delle Borse. Ma mentre la Fed si è guardata bene dall’aumentare i suoi tassi di interesse, i tedeschi sono stati più papisti del Papa. Con oltre il 12,5 per cento di disoccupati, è francamente difficile capire perché la Bundesbank abbia fatto ciò che gli americani, con un tasso del 4,6 per cento di disoccupazione, non hanno fatto. Se il problema della crescita non è imputabile alla scarsità di risparmio provocata da un Finanzkapital dominato dalla logica finanziaria dei Fondi; se, d’altra parte, la relativa libertà di creare mezzi di finanziamento ex nihilo non viene sfruttata a causa della paura di un rilancio dell’inflazione, c’è da chiedersi se il «dibattito proibito» in Europa non riguardi in realtà la modificazione dei soggetti cui destinare il finanziamento della crescita innovativa. I processi di outsourcing, con la conseguente espansione di un bacino composto di grandi agenzie di consulenza in concorrenza con una miriade di piccole e medie aziende e di lavoro autonomo, dovranno pur significare qualcosa dal profilo delle strategie di finanziamento della crescita innovativa. A maggior ragione se si tiene presente che negli ultimi anni l’esternalizzazione ha comportato per le imprese una perdita netta di sapere e di conoscenza, alla quale i nuovi modelli di fabbrica d’automobili, come la Volkswagen in Brasile o la Smart in Francia, cercano di rispondere organizzando sul posto la cooperazione dei lavoratori indipendenti (che per la Smart è addirittura pari al 93 per cento del personale!)177 E perché non si vuole finanziare il lavoro che produce innovazione extra muros che il «modello europeo» non ha

nessuna chance di creare occupazione. Il gran parlare di flessibilizzazione del lavoro «all’americana» non sfiora neppure lontanamente la questione centrale, che è quella della creazione di potere d’acquisto per valorizzare la quantità di innovazione necessaria per rilanciare lo sviluppo economico. La de-salarizzazione definisce un territorio di produzione di valore che, se non viene analizzato in modo da «completare», oltre che aggiornare, lo schema hilferdinghiano, inchioda il pensiero critico su posizioni poco agibili politicamente. L’odierna formazione del valore è contraddetta dalla formazione dei prezzi di produzione nella misura in cui questi veicolano una riorganizzazione del comando che ha nelle sole imprese quotate in borsa il centro propulsore.178 In uno studio dal titolo How the nation that fired the most, hired the most,179 l’economista californiano Woody Brock dimostra che la ragione per cui, negli USA, dal 1980 al 1995 sono stati creati 67 milioni di posti di lavoro, mentre ne sono distrutti 42 milioni, risiede non tanto nella flessibilità del mercato del lavoro, quanto piuttosto nella flessibilità del mercato dei capitali. Un rapporto del FMI calcola che in Europa per ogni dollaro preso a prestito dalle banche, un altro 1/2 dollaro è preso a prestito dai mercati finanziari. Negli Stati Uniti, invece, le imprese prendono a prestito dai mercati finanziari 2 dollari per ogni dollaro che ottengono dalle banche. La tradizionale dipendenza delle imprese europee dal sistema bancario penalizza una crescita sempre più dipendente dalla innovazione, anche perché in Europa i criteri bancari di valutazione del rischio di investimento sono particolarmente conservatori. La formazione di un mercato finanziario europeo dovrebbe quindi contribuire a ridurre la disoccupazione accelerando le ristrutturazioni industriali. Secondo Fitoussi, la strategia europea della disinflazione competitiva, la scelta di perseguire una politica monetaria restrittiva per aumentare la competitività delle imprese a scapito dell’occupazione, è stata un fallimento perché ha

portato a elevati tassi di interesse reali e quindi ha reso troppo caro il finanziamento della crescita. «Il problema oggi si pone in termini molto diversi: la strategia di disinflazione competitiva ha prodotto gli effetti scontati sull’inflazione, che è praticamente scomparsa; a meno di cercare una inflazione negativa, cioè la deflazione, questa strategia non ha più ragion d’essere».180 Ma la riduzione dei tassi di interesse per frenare la disinflazione non ha dato prova alcuna di poter invertire la tendenza alla distruzione dei posti di lavoro. Come visto, questo è anche il caso degli Stati Uniti, dove la creazione di posti di lavoro è tuttora accompagnata da continue ristrutturazioni aziendali che non cessano di ridurre il personale stabile. Invece, è l’effetto disinflazionistico della desalarizzazione che vanifica la possibilità di rilanciare l’occupazione salariata sfruttando 1’«illusione monetaria» keynesiana. E ben vero che i disoccupati sono rigidi di fronte ai bassi salari offerti dagli imprenditori, ma non è con una politica monetaria espansiva che si riuscirà ad aumentare i salari nominali in modo da «illudere» i disoccupati. L’impossibilità di produrre inflazione è strutturale, ciò che rende del tutto problematico l’uso keynesiano degli strumenti monetari per creare nuova occupazione. Se, oltretutto, si aggiunge che i tassi di interesse non possono andare sotto zero,181 così che i tassi reali sono destinati a rimanere positivi in un periodo di inflazione vicina allo zero, ci si rende conto di quanto poco agibile sia un rilancio occupazionale basato sull’indebitamento delle imprese verso il settore bancario. E quindi innovando le modalità di creazione del credito di finanziamento, per destinarlo ai soggetti che realmente concorrono alla produzione di innovazione, che sarà possibile uscire dalla «trappola della illiquidità». A tal fine, è necessario ridefinire i criteri di valutazione del rischio ma, soprattutto, è di fondamentale importanza creare le condizioni finanziarie affinché la crescita sia in qualche modo socializzata.

Nuovi siti monetari Ciò non toglie nulla, almeno per il momento, all’importanza strategica dei tassi di interesse, non foss’altro che per il fatto che le banche restano pur sempre, malgrado la potenza dei mercati finanziari, il filtro attraverso cui si effettua la creazione-integrazione della liquidità del sistema. Fino a quando prevale l’asimmetria tra potenza dei mercati finanziari anglosassoni e sistema di finanziamento bancario europeo i tassi di interesse sono destinati a giocare un ruolo sproporzionatamente importante per il rilancio della crescita. Per questa ragione potrebbe darsi che nuovi siti di creazione monetaria si aggiungano al sistema bancario proprio per aggirare le costrizioni derivanti da un costo del denaro troppo elevato. Già in passato si è assistito alla proliferazione di luoghi di creazione di moneta (si pensi alle Building Societies o alle Poste, o alle cooperative del piccolo risparmio) in conseguenza delle politiche di controllo quantitativo della massa monetaria (physical control). Negli anni ’70 questa tendenza era stata facilitata dal fatto che lo Stato, essendo il soggetto maggiormente indebitato, aveva tutto l’interesse ad assecondare la pressione al ribasso sui tassi di interesse esercitata dal mercato. Dovendo essere preso a prestito attraverso operazioni sull’open-market per finanziare la spesa pubblica, il denaro affluiva nei centri privati di creazione monetaria (secondo il principio «i crediti creano i depositi»), ciò che permetteva di trasformare il «denaro privato» in denaro effettivo.182 In quegli anni si diceva che, malgrado i ripetuti tentativi di imporre controlli sugli aggregati monetari (Mi, M2 o M3), «the last instance never comes».183 Oggi un modo per sfuggire al razionamento del credito derivante dal costo eccessivo del denaro potrebbe essere, ad esempio, quello di fare dei Fondi pensione e di investimento, oppure delle catene di supermercati, di agenzie per il credito ai lavoratori indipendenti, di associazioni auto-imprenditoriali o delle banche etiche, dei veri e propri centri di creazione

monetaria. Allargando le maglie della creazione monetaria, che lo Stato ha «interesse» ad assecondare per evitare la fuga degli investitori verso titoli con rendimenti più elevati di quelli pubblici, permetterebbe di rilanciare la crescita finanziando i bacini di innovazione tecnologica e sociale. Diversamente dagli anni ’70, durante i quali i nuovi centri «privati» di creazione monetaria finanziavano progetti a lungo termine sulla base di depositi a breve (con i rischi che questo comportava), oggi i depositi potrebbero avere una durata maggiore proprio a causa della riduzione delle garanzie statali sul fronte delle pensioni e della copertura assicurativa dei nuovi rischi sociali in generale. Potrebbe essere un modo di organizzare operativamente la critica (o la semplice diffidenza) nei confronti di una gestione del risparmio sempre più sganciata dai bisogni sociali e imprenditoriali locali. 184 I progetti dal basso di «banche del tempo», dei LETS (Local Employment and Trading System), o delle «economie plurali» sperimentate dai giovani nei centri sociali, sarebbero in tal senso una anticipazione embrionale di un modo diverso di concertare crescita economica, innovazione e spazi di autodeterminazione.185 La gestione dei rischi II «dibattito proibito» andrebbe sviluppato su un piano diverso da quello proposto da Fitoussi. Se c’è una cosa che la finanziarizzazione delle imprese permette di capire è la difficoltà di anticipare l’andamento dei tassi di interesse e, quindi, la difficoltà di gestire i rischi legati alla volatilità dei prezzi degli attivi. La qual cosa, si potrebbe dire, non è che l’altra faccia della mercatizzazione del finanziamento della crescita.186 Che la disinflazione segua il suo corso in virtù dei processi di riduzione dei costi di produzione e delle riorganizzazioni aziendali incentrate sul paradigma post-fordista, sembra ormai un fatto difficilmente reversibile, perlomeno nel medio periodo. E probabile che le politiche monetarie europee non abbiano ancora registrato appieno il fenomeno della

disinflazione, per cui non appena il prezzo di qualche materia prima importata dà segni di aumento, subito si teme il ritorno dell’inflazione. E quanto è accaduto in Germania alla fine d’agosto 1997. Ci vorrà ancora del tempo prima che in Europa la disinflazione venga capita per quello che realmente è, cioè un processo strutturale destinato a durare nel tempo. Nel frattempo i tassi di interesse reali, malgrado la tendenza al ribasso, saranno ancora elevati, ciò che agevolerà l’«americanizzazione» dell’Europa unita. Ma una cosa è la tendenza, un’altra sono le variazioni attorno alla tendenza. Dal punto di vista della gestione dei rischi, l’errata valutazione dell’andamento dei tassi di interesse è ciò che, nel 1994, ha messo in crisi una serie di giganti come la Procter & Gamble, la Gibson Greetings e la Metallgesellshaft AG, tutte imprese alquanto attrezzate nelle attività di risk-management, nella stipulazione di accordi sui derivati per proteggersi dalla volatilità dei mercati. Lo shock suscitato dalla quasi-bancarotta di società prestigiose fu tanto maggiore quanto più costrinse a tentare di capire come mai simili errori di gestione del rischio fossero possibili. Non c’è una ragione intrinseca, sostiene Peter Bernstein nella sua ricostruzione dei fatti, perché uno strumento di copertura (hedge) debba di per sé portare alla rovina un’impresa che ne fa un uso razionale. Anzi, una perdita importante su uno strumento di copertura dovrebbe significare che la scommessa originaria, quella per la quale si è fatto ricorso ai derivati, procura simultaneamente un guadagno di segno contrario. Se una compagnia petrolifera perde su una copertura contro la riduzione del prezzo del petrolio, dovrebbe per contro realizzare un profitto sullo stesso aumento del prezzo che ha causato la perdita sul contratto di copertura. Se una compagnia aerea perde su una copertura contro l’aumento del prezzo del petrolio, deve essere a causa di una diminuzione del prezzo della materia prima che, però, le permette di ridurre i costi operativi e quindi di aumentare i profitti.

L’uso dei derivati come strumenti di copertura contro i rischi porta al disastro finanziario quando questi strumenti vengono utilizzati non per limitare l’esposizione al rischio di volatilità, ma per aumentarla. E l’aumento dell’esposizione al rischio che trasforma le tesorerie delle imprese in centri di profitto, violando così il principio fondamentale della teoria dell’investimento: non ci si può aspettare di realizzare grossi profitti senza correre il rischio dì grosse perdite. La differenza fondamentale tra speculazione, in quanto attività orientata verso la percezione del futuro, e gioco d’azzardo (gambling) dipende in larga parte dal fatto che, di fronte alla prospettiva di forti perdite, c’è chi preferisce alzare la posta piuttosto che accettare una perdita sicura, ma contenuta.187 L’origine del disastro finanziario della Procter & Gamble, 188 che alla fine del 1993 firmò un contratto di copertura molto complesso con la Bankers Trust, sembra sia da ricercarsi nella errata valutazione dell’andamento dei tassi di interesse. Dopo quattro anni di continua riduzione dei tassi a breve, che dal 10 per cento scesero a meno del 3 per cento, l’accordo fu firmato sull’assunto che un aumento importante dei tassi sarebbe stato praticamente impossibile. Dopo solo quattro mesi dal contratto, il 4 febbraio 1994, la Fed invece aumenta i tassi di interesse, una misura che ovviamente fa trasalire i mercati che non si aspettavano un tale aumento. Per la Procter & Gamble è l’inizio dei guai, dato che l’accordo non contemplava una perdita dovuta ad aumenti dei tassi di interesse, ma solo un guadagno massimo calcolato su un eventuale ulteriore calo dei tassi. Invece di limitare la perdita, la società gioca al rialzo, e stipula un altro contratto, di nuovo basato sulla previsione di una diminuzione dei tassi. Ma questi continuano ad aumentare, passando dal 3 per cento di febbraio al 6 per cento di dicembre. E per la Procter & Gamble, ostaggio delle sue previsioni, è la catastrofe. Al di là degli errori umani che l’attività di gestione dei rischi comporta inevitabilmente; al di là della possibile non

conoscenza da parte di Raymond Mains, tesoriere della compagnia, del Triangolo di Pascal, della curve di Gauss e delle covarianze di Markowitz, interessa capire se errori del genere siano evitabili o se, invece, la gestione efficace del rischio sia intrinsecamente limitata da eventi non prevedibili.189 Per quanto riguarda l’andamento dei tassi, le valutazioni retrospettive di Alan Greenspan portano a concludere che, sin dai primi mesi del suo insediamento alla Fed, le decisioni relative ai tassi di interesse dipesero quasi sempre dall’idea che il rischio di inflazione fosse dietro l’angolo e che quindi era razionale aumentare i tassi tutte le volte che determinate informazioni macro-economiche (occupazione, utilizzazione delle capacità produttive, risparmio, consumo, ecc.) lo autorizzavano. La cosa imprevedibile è stata la strutturalità della disinflazione, un fenomeno legato alla potenza produttiva del nuovo modo di lavorare. La disinflazione post-fordista è un fenomeno nuovo, tale da rendere scarsamente utilizzabili i modelli di previsione e lo stesso concetto di razionalità economica che, bene o male, è alla base delle scelte in un contesto sempre più incerto. La tensione tra gestione dei rischi e tassi di interesse permette di definire l’incertezza come la difficoltà di concepire presente e futuro in una successione lineare. Per le imprese industriali, la possibilità di proteggersi dall’incertezza con la creazione di coperture permette loro di assumere rischi interni maggiori per finanziare gli investimenti e l’attività di Ricerca & Sviluppo. Gli istituti finanziari stessi sono vulnerabili alla volatilità dei tassi di interesse e dei tassi di cambio. Nella misura in cui possono proteggersi contro tale volatilità, possono concedere prestiti a chi ne ha bisogno. In questo senso l’uso dei derivati è oggi non solo inevitabile, ma anche positivo. Ciò non toglie nulla alla pericolosità di questi strumenti finanziari. Quasi sempre l’uso bancarottiere dei derivati è stato imputato all’assenza di controlli sulle attività di tesoreria delle imprese al loro interno oppure sui mercati interbancari non

organizzati. La libertà d’azione di Nick Leeson, che il 24 febbraio del 1995 portò al fallimento la Banca Barings, è l’esempio più conosciuto.190 Anche esempi più recenti, come quello della Union Bank of Switzerland (UBS), la cui fusione con la SBS dell’8 dicembre del 1997 è apparsa ad alcuni come un’operazione non del tutto indipendente dal buco finanziario causato dalla filiale londinese che opera sui derivati, confermano che l’uso di questi strumenti è sempre complesso.191 Nel caso dell’UBS, come in quello della Banca Barings, il manager che sorvegliava il dipartimento dei derivati era responsabile non solo dei profitti realizzati, ma anche del controllo sui rischi, ciò che ovviamente non è garanzia di trasparenza. Inoltre, il buco dell’UBS sembra sia stato causato dall’uso di un modello di determinazione dei prezzi in cui i valori dei titoli azionari delle banche giapponesi, sulla base dei quali l’UBS aveva acquistato molti derivati, erano sistematicamente sovrastimati. La crisi dei mercati asiatici e il fallimento della giapponese Yamaichi Securities hanno inferto il colpo fatale ad una gestione dei rischi inadeguata rispetto alle trasformazioni strutturali del contesto economico mondiale. Tra il crack del 1987 e quello del 1997 è mutato l’atteggiamento nei confronti dei prodotti derivati. Se dopo il primo crack i derivati erano considerati da molti come la «causa» della crisi, dopo il ’97 sembra che i derivati siano visti piuttosto come «vittime» di un mutamento intervenuto nelle dinamiche socio-economiche fondamentali. Ed è giusto che sia così, perché i derivati non sono altro che i messaggeri di una nuova percezione sociale del rischio e dell’incertezza, non la causa delle trasformazioni strutturali e delle crisi che a queste corrispondono.

7. La razionalità della moltitudine

Che negli Stati Uniti si pensi di finanziare la spesa sociale investendo parte delle riserve della Social Security in azioni e obbligazioni, non fa che confermare il cambiamento di mentalità e di strategia generato dalle nuove condizioni di crescita economica post-fordista. E del gennaio del 1997 un rapporto dell’Advisory Councilon Social Security della Casa Bianca, in cui si propone, con varianti più o meno radicali, di riformare la sicurezza sociale abbandonando in parte o completamente il finanziamento basato sul principio della ripartizione, in cui il versamento delle pensioni è assicurato dagli oneri sociali versati dai salariati.192 Secondo i membri dell’Advisory Council, il sistema sociale inaugurato con il New Deal degli anni ’30 non può più affidarsi alla sola crescita del volume salariale e a qualche ritocco fiscale per far fronte ai cambiamenti demografici e dei modi di produrre. Bisognerebbe, invece, dirottare i risparmi sui mercati dei titoli per beneficiare degli elevati tassi di crescita. Dal 1900 il rendimento annuale medio dei titoli azionari e obbligazionari è stato pari al 7 per cento, tre volte più del 2,3 per cento dei Buoni del Tesoro e di gran lunga superiore alla crescita dei salari. Perché non passare direttamente dai risparmi al capitale, senza la mediazione dello Stato sociale?

Il «keynesismo di mercato» implicito nelle proposte del Consiglio può certamente essere interpretato come l’ennesima boutade neo-liberista, una specie di ritorno ai princìpi ottocenteschi della responsabilità individuale per la garanzia della pensione. Nelle condizioni storiche odierne, comunque, la «privatizzazione della sicurezza sociale» è altrettanto in sintonia con la tradizione liberal-democratica della «propertyowing democracy» di Thomas Jefferson, la tradizione che l’economista keynesìano Sir James Meade193 ha rinverdito nel corso degli ultimi trent’anni, proponendo di sostituire la proprietà azionaria (la democrazia partecipativa dello stakeholder) alla jeffersoniana proprietà fondiaria.194 Per arrivare a proporre un tale capovolgimento dei princìpi della sicurezza sociale, in particolare la nozione di rischio assicurativo, che in una prospettiva del genere ricadrebbe direttamente sulle spalle del singolo cittadino, bisogna che alcune condizioni di fondo siano date. La prima è la certezza che almeno la gestione dei rischi sia socialmente assicurata. Dato che la copertura dei rischi ha un costo, bisognerebbe perlomeno che il risparmio di spesa che lo Stato può in tal modo realizzare fosse utilizzato per ridurre i costi individuali di gestione del rischio. La qual cosa non sembra contemplata nelle proposte di riforma del sistema pensionistico.195 Il problema maggiore, comunque, consiste nel come analizzare il rapporto tra i tassi di produttività che sottendono l’aumento del valore dei titoli e la distribuzione della ricchezza conseguita sui mercati. Si tratta di una questione decisiva per mettere alla prova il «keynesismo di mercato» implicito nel dirottamento del risparmio direttamente sui mercati dei titoli. E infatti a questo proposito che le proposte dell’Advisory Council dimostrano di essere carenti, perché si basano ancora su una misura ufficiale del tasso di produttività che ha ben poco a che fare con la realtà. Dare per buono l’1 per cento, o anche il 3 per cento, di aumento ufficiale della produttività del lavoro, per sostenere i vantaggi dell’investimento del risparmio privato in

titoli che hanno rendimenti nettamente superiori, significa proporre un sistema di finanziamento della sicurezza sociale che esclude chi, a causa dei bassi salari determinati da «bassi» tassi di produttività, non ha risparmio da investire.196 Usiamo l’espressione «keynesismo» con riferimento esplicito all’economia di mercato per sottolineare da una parte la natura non statale di simili forme ridistributive, dall’altra il fatto che si tratta comunque di forme di creazione di redditi sulla base della produzione di ricchezza futura. I nuovi mercati finanziari permettono di creare una domanda effettiva di natura keynesiana derivante da una produzione in divenire. La novità sta nel carattere non-statuale di una socialità che ha origine nell’incertezza relativa al futuro dei sistemi di sicurezza del Welfare State. La natura keynesiana dei redditi aggiuntivi che gli investimenti dei risparmi sui mercati permettono di creare risiede nella possibilità di anticipare i redditi sulla base dell’andamento futuro dei titoli borsistici. Nel Welfare State keynesiano, il deficit spending era un dispositivo di anticipazione (un «ponte sul futuro») di redditi che l’espansione della produzione e dell’occupazione avrebbe materializzato. Per questa ragione il denaro anticipato dallo Stato, ossia sulla base di un reddito fiscale ancora inesistente, permetteva alle imprese di investire e creare ricchezza a fronte di un mercato in espansione. La condizione fondamentale era che i destinatari dei redditi anticipati dallo Stato sociale, come i giovani in formazione scolastica, i disoccupati, gli assistiti, divenissero lavoratori salariati. Lo Stato keynesiano è stato in tal senso il garante della «generale laboriosità» e dell’espansione della base imponibile. Anche nel keynesismo di mercato i redditi anticipati dipendono dalla ricchezza attesa. Ma, diversamente dal regime fordista, questa ricchezza è prodotta da una forza-lavoro che diventa socialmente produttiva secondo modalità del tutto diverse dal regime del lavoro salariato. Se, con Keynes,

l’orizzonte temporale era la salarizzazione del lavoro produttivo, oggi, nel tempo di trasformazione dei redditi anticipati in redditi prodotti dal capitale, sono soprattutto le forme della ridistribuzione extra-statale che definiscono le condizioni sociali della produttività della forza-lavoro. Quali sono le modalità di anticipazione e distribuzione dei redditi in questa fase di transizione? I modi in cui, oggi, la ricchezza prodotta viene socialmente ridistribuita, rendendo in tal modo più o meno «gestibili» gli effetti della crescita economica post-fordista, sono sostanzialmente tre: il «keynesismo privato», il «keynesismo filantropico» e il «keynesismo formativo». Ci sono in primo luogo le forme di keynesismo privato, individuale o familiare, che sono emerse grazie all’intreccio tra trasformazioni produttive e cambiamenti demografici. L’aumento della redditività del risparmio investito in titoli borsistici sta accentuando forme di distribuzione del reddito all’interno delle reti familiari o intersoggettive. A partire dalla metà degli anni ’90 il reddito medio della popolazione anziana è superiore al reddito medio della popolazione attiva, per cui accade sempre più frequentemente che il reddito mancante ai più giovani venga anticipato dalle generazioni più anziane con aiuti intra-familiari. La seconda forma di ridistribuzione di reddito che si è rafforzata con l’entrata nel post-fordismo è il keynesismo filantropico, una forma di carità ottocentesca che si è molto diffusa negli anni ’80 e ’90. Il movimento dei «nuovi filantropi» è costituito da imprenditori, finanzieri, stars dell’industria dell’entertainment, persone con un’età media tra 40 e 50 anni che hanno realizzato ricchezze enormi sulle ceneri del fordismo. In molti casi la loro fortuna è frutto di eventi imprevisti (lancio di prodotti che hanno creato nuove ondate tecnologiche, aumenti spettacolari delle quotazioni dei titoli, ecc.). La filantropia è sovente irrispettosa del modo di lavorare delle fondazioni o associazioni tradizionali. L’accento è posto

su obiettivi circoscritti per evitare sperperi amministrativi (creazione localizzata di posti di lavoro, rinnovamento di quartieri disastrati, programmi scolastici mirati sui poveri, interventi sull’ambiente) e sul controllo d’efficienza secondo logiche aziendali spesso difficilmente conciliabili con i bisogni degli utenti delle associazioni non-profit. La morale è spesso fastidiosamente autoreferenziale, anche se capita che dietro l’attivismo filantropico dei nuovi ricchi si nascondano esperienze di vita dure, violente, umilianti, vissute negli anni della depressione o dell’emigrazione o nei ghetti urbani. Si potrebbe sostenere che il ritorno della filantropia, se da una parte rispecchia la crisi dello Stato sociale e il ritorno dello «Stato della carità», dall’altra conferma la transizione verso una forma di «individualismo contrattuale» nel quale il rispetto dell’individuo va di pari passo con la ricostruzione del legame sociale. Il fatto che la mendicità, dopo secoli di interdizione perché considerata una forma di secessione dal sociale, di rottura egoistica dell’ordine delle cose, sia oggi sempre più accettata (anche nel Codice penale), ripropone la questione del nuovo diritto sociale. Nell’ottica dei diritti dell’uomo all’autonomia individuale si è giunti a definire la mendicità come l’esercizio del «libero arbitrio». E chiaro che a questo strano «diritto» corrisponde la crisi dei meccanismi di inserimento sociale garantiti dal lavoro salariato. Meno chiara, invece, è la possibilità di vedere nella «scelta» del vagabondo che «rifiuta» di integrarsi socialmente una forma embrionale del nuovo Stato sociale post-fordista. Secondo Rosanvallon, la scelta individuale può essere rispettata se ad essa corrispondono delle obbligazioni positive tali da poter coniugare diritto al reddito e dovere di integrazione nella società (con l’impegno a partecipare a corsi di riqualificazione, ad attività di pubblica attività, ecc.). L’esempio del Reddito minimo d’inserimento francese (RMI) va appunto nella direzione dell’individualismo contrattuale che, forse meglio delle utopie comunitariste e della filantropia,

assume la crisi del modello fordista senza con questo «soffocare» l’individuo nello spirito di carità della comunità locale. L’impasse di questa prospettiva è però già oggi evidente, non tanto perché la crescita economica non crea sufficienti posti di lavoro per la massa di persone ai margini della società. Non è d’altronde questo il nucleo propositivo dell’individualismo contrattuale, che invece si preoccupa di avvicinare il diritto formale al diritto reale stabilendo una serie di doveri di implicazione nella società. Il problema maggiore risiede nel credere di poter fissare dei diritti a partire da rapporti sociali tra i nuovi «magistrati del sociale», ossia gli operatori sociali che si occupano degli esclusi, e gli esclusi stessi. L’agire comunicativo, che dovrebbe costituire l’amalgama di questo supposto nuovo Stato assistenziale, difficilmente potrà funzionare se non riesce a sostanziarsi in forme di ridistribuzione di reddito effettivo, e non, come oggi, di elemosina. E più probabile che la secessione dal sociale costringa a ripensare l’intera questione della solidarietà a partire dalla ricchezza invece che dalla povertà. La terza forma è il keynesismo formativo che lo Stato sociale cerca di garantire per assicurarsi il controllo sui processi educativi di fronte alla concorrenza del settore privato. La proliferazione di corsi di aggiornamento professionale, di programmi occupazionali, di iniziative formative a carattere universitario, di creazione/ promozione di lavori d’utilità pubblica o «socialmente utili», nella maggioranza dei casi sono finanziati dallo Stato e gestiti da fondazioni e associazioni. L’obiettivo è quello della riqualificazione professionale possibilmente mirata, ma il tratto fondamentale di questi programmi consiste nelle pratiche comunicative e relazionali con cui vengono svolti, ciò che li pone parzialmente in sintonia con l’evoluzione e le dinamiche del mercato del lavoro postfordista. I vincoli amministrativi che accompagnano i sussidi statali ai programmi formativi riguardano soprattutto il

costo e la durata dei corsi. Si tratta di un settore in cui la garanzia statale del reddito è transitoria, perché destinata a ridursi nei prossimi anni a causa dei tagli che riguarderanno anche questa voce della spesa pubblica. Il modello anglosassone del Workfare State, al quale si ispirano i programmi occupazionali europei, è nato nel 1994 a New York City con l’elezione a sindaco di Rudolph Giuliani. In Inghilterra Tony Blair ha varato un «New Deal» per disoccupati in età tra 18 e 24 anni che prevede sussidi per imprenditori (60 sterline la settimana per la durata di 6 mesi) che assumono sperimentalmente disoccupati giovani. Laddove non ci sono posti disponibili, il programma occupazionale prevede l’obbligo di partecipare ad attività di «utilità sociale» (isolazione di immobili, bonifica di terre incolte, e altre cose del genere) dove i disoccupati, oltre alle indennità, ricevono 15 sterline la settimana. Differentemente dal New Deal di Franklin D. Roosevelt, che negli anni ’30 creò 4 milioni di posti di lavoro promuovendo (su basi volontarie) attività pubbliche importanti (costruzioni di dighe, rimboschimento di intere regioni e altre imprese infrastrutturali), l’odierna creazione dei «webs» (Work Experience Programmes) contribuisce a creare un serbatoio di manodopera fluttuante e mal pagata. Emblematico l’esempio del «parks department» della città di New York che, dopo aver licenziato 4000 dipendenti pubblici nel 1991, oggi utilizza 6000 «webs» a tempo parziale. Queste tre forme di keynesismo di mercato concorrono a determinare il cosiddetto terzo settore, quello spazio di «convivialità», di «produzione di rapporti sociali» o di «reciprocità», che si situa tra la sfera dell’economia di mercato e il settore pubblico. Il «privato sociale» è costituito da un insieme di iniziative locali fortemente impregnate di associazionismo, da esperimenti di economia sociale e di autoimprenditorialità, che hanno quale denominatore comune quello di organizzare la ridistribuzione del reddito secondo criteri di efficienza sociale. La misura dell’efficienza, o della

coesione sociale, è definibile sulla base della «quantità di convivialità» necessaria per realizzare l’obiettivo del «diritto di vivere nella società».1971 beni e i servizi che si producono nel terzo settore non sono quindi riducibili ai beni e servizi dell’economia di mercato, e neppure a quelli prodotti dal settore pubblico, anche perché quest’ultimo, rovesciando il principio di sussidiarietà, tende sempre più a delegare alle associazioni del terzo settore un numero crescente di compiti operativi e di funzioni esecutive. Non c’è dubbio che il privato sociale sia stato molto sollecitato in questi anni per contenere i guasti provocati dalla trasformazione dei modi di produrre e di lavorare. L’assistenza e la riqualificazione professionale sono gli assi lungo i quali il terzo settore si è ridefinito a partire da una tradizione in cui volontariato e nuove professioni sociali sono cresciuti dando vita a sempre nuove forme di istituzionalizzazione dei bisogni emergenti. Di fatto, oggi il terzo settore rappresenta non più un «complemento» ai limiti dell’economia privata e dello Stato sociale, ma un «settore» sui generis, la cui natura ibrida di privato-sociale-pubblico è spesso considerata un’occasione per innovare sia il modo di produrre merci sia quello di garantire coesione sociale. Non sono tanto le ambiguità teoriche e ideologiche, che inevitabilmente caratterizzano il dibattito sul terzo settore, a definirne il limite politico. Si tratta in tutti i casi di uno spazio di sperimentazione sociale importante, al punto che Peter Drucker, in un articolo apparso sulla Harvard Business Review nel 1989, consigliava ai suoi allievi, cioè i manager delle imprese for-profit, di andare a imparare come si lavora presso le associazioni non-profit. È vero infatti che i tentativi di lavorare in modo diverso, di «agire comunicando», di produrre relazioni sociali, di riflettere su ciò che si sta facendo, di continuamente formarsi per saper rispondere a «bisogni emergenziali», nonché il know-how sempre più sofisticato che ci vuole per trovare fonti di finanziamento, sono caratteristiche

non più solo delle associazioni senza scopo di lucro, ma anche delle imprese capitalistiche più innovative. La questione centrale, comunque, riguarda la dinamica che sottende il keynesismo di mercato, di cui il terzo settore è una declinazione concreta. Il vero limite del keynesismo di mercato consiste nell’occultare e quindi nel riprodurre quella separazione tra lavoro vivo sociale e reddito, che il paradigma post-fordista pretende di superare soggettivando il lavoro con le tecniche dell’implicazione, della motivazione, della partecipazione e dell’agire comunicativo. Le forme extra-statali in cui si danno oggi creazione e ridistribuzione di reddito non solo riproducono la distribuzione ineguale dei redditi, ma contribuiscono a creare forme di reintegrazione sociale attraverso Yesclusione dalla ricchezza reale. C’è una ideologia della reintegrazione, del reinserimento degli esclusi, che fa tutt’uno con il non riconoscimento di tutto il lavoro vivo che è il reale motore della crescita economica post-fordista. L’incapacità di porre in relazione le trasformazioni dei modi di produrre e di lavorare con i meccanismi dell’esclusione sociale e politica è responsabile delle derive del keynesismo di mercato. Il terzo settore viene rivitalizzato grazie alla teoria della fine del lavoro, all’idea che il lavoro necessario si è ridotto a tal punto da permettere il finanziamento della disoccupazione. «Lavorare meno, lavorare tutti», da obiettivo di lotta quale è stato sin dalla nascita del movimento operaio, è oggi svuotato della sua natura politica e trasposto sul piano tecnico della giustizia ridistributiva. Il lavoro di cui si vuole ridurre l’orario è essenzialmente il lavoro immediatamente produttivo di beni materiali. L’idea della riduzione dell’orario di lavoro per creare occupazione deve invece tenere conto dell’aumento del tempo di lavoro vivo socialmente necessario nel modo di produzione post-fordista. Non si tratta di creare nuovo lavoro, ma di rimunerare quello che già c’è e che non è socialmente riconosciuto. Il keynesismo di mercato sta già dimostrando che il

problema odierno non è affatto la mancanza di ricchezza distribuibile. La ricchezza c’è, tant’è vero che la questione della crisi non riguarda affatto la scarsità, semmai l’eccesso di produzione a livello mondiale. Ciò che manca, per contro, sono le modalità concrete della ridistribuzione di questa ricchezza «in eccesso». La critica del keynesismo di mercato non è la critica moralistica della povertà e dell’esclusione che esso genera, ma la critica della privatizzazione di una ricchezza che ha una natura eminentemente pubblica. I modelli di Reddito minimo garantito, elaborati a livello accademico nel corso degli anni ’80, hanno sempre preteso di avere una valenza universale (di tipo «kantiano»), di essere cioè razionalmente accettabili da parte dei «partners sociali», quasi che la ridistribuzione del reddito fosse una faccenda tecnica e non, come è sempre stato, politica. Dal punto di vista tecnico-finanziario, l’unico modo di realizzare il RMG, in una qualsiasi delle sue varianti, è quello di abbassare la soglia di povertà a tal punto da rendere il dispositivo del tutto insufficiente per combattere la povertà stessa. Non c’è quindi altra possibilità razionale di lottare contro la povertà se non aprendo un ciclo di lotte che liberi dal complesso dell’esclusione e dell’emarginazione, ponendo come obiettivo il riconoscimento dal basso del diritto al reddito di cittadinanza. A tale proposito è utile confrontarsi con i lavori che nel campo della teoria economica stanno tentando di ridefinire il concetto stesso di razionalità economica.198 Dalla massima secondo cui «non si può battere il mercato» si è giunti oggi all’idea che, invece, «si può battere il mercato». La teoria dell’efficienza dei mercati si basa sull’ipotesi della razionalità degli operatori economici. L’unico modo di battere il mercato, si dice, è di disporre di informazioni che altri non hanno. Dato però che un mercato è efficiente se tutti possono beneficiare senza costi e istantaneamente delle stesse informazioni, ne consegue che il prezzo di mercato risultante dall’attività

economica è, deve essere, unico per tutti. Una imperfezione del mercato, tale per cui, ad esempio, il titolo azionario di una impresa risulta sopravvalutato, non resiste alle forze che riportano il prezzo del titolo al suo valore di equilibrio. L’informazione relativa all’azione che dà un guadagno superiore al guadagno medio dei titoli quotati in borsa farà affluire gli investitori su questo titolo. L’aumento della domanda del titolo ne farà aumentare il prezzo di mercato così che l’impresa verserà ai suoi azionisti un dividendo inferiore. Così il cerchio si chiude, il valore dell’azione ritorna al suo livello reale, che è il valore d’equilibrio risultante dal rapporto tra domanda e offerta. Si dice che «il mercato parla un proprio linguaggio», che le informazioni pertinenti che riguardano un attivo finanziario sono già contenute nel suo prezzo. E dunque impossibile realizzare guadagni superiori alla media prevedendo il prezzo futuro di qualche bene o attività sulla base di informazioni ottenute privatamente o più rapidamente degli altri. Alla fine, dopo alti e bassi, guadagni e perdite, è il mercato che vince. Meglio, insomma, lasciar fare al mercato, meglio comportarsi passivamente con una gestione diversificata del portafoglio basata su indici di borsa rappresentativi del rendimento medio dei mercati (il cosiddetto indexing). E ciò che, ad esempio, hanno deciso di fare i Fondi pensionistici e le compagnie d’assicurazione dopo una serie di fallimenti dovuti a tentativi spericolati di «fare il colpo grosso», fallimenti che hanno comportato perdite notevoli per gli assicurati. La teoria dell’efficienza del mercato esclude la possibilità stessa di una strategia gestionale capace di anticipare rendimenti dei titoli superiori a quelli sanciti dal mercato.199 Ma sostenere che ogni soggetto economico deve avere, in ogni momento, le stesse informazioni e, oltretutto, deve interpretarle nello stesso modo di ogni altro soggetto operante sul mercato, assomiglia più che altro a un atto di cieca fedeltà alla Legge divina del Dio Mercato. Che ne è della diversità dei

soggetti, di quella pluralità che fa tutt’uno con la teoria della conoscenza? L’informazione non presuppone forse che essa venga trasformata in significato prima ancora di incitare all’azione? E il significato che si dà a ogni informazione non allude forse a un processo soggettivo, dunque a qualcosa che, di nuovo, è irriducibile a criteri costruiti sull’ipotesi dell’uniformità dei comportamenti? Le trasformazioni economiche degli ultimi due decenni hanno posto le basi per il superamento dell’idea che «non si può battere il mercato». Nel contesto economico odierno, caratterizzato da una volatilità permanente dei prezzi degli attivi, le innovazione teoriche nel campo della scienza economica tendono ad ampliare la nozione di razionalità economica fino ad includervi comportamenti «irrazionali». L’idea che si possa battere il mercato, che comportamenti apparentemente anomali siano riusciti a dimostrarsi vincenti, la dimostrazione statistica che di fronte alla medesima informazione, al medesimo evento, si possano effettuare scelte economiche basate su interpretazioni diverse, sta trovando una sua legittimità teorica perché sono venute meno le condizioni storiche entro le quali la «vecchia» teoria dell’efficienza del mercato aveva una sua ragione operativa. La teoria dell’efficienza del mercato e l’uniformità delle aspettative razionali che ne deriva, presuppone un andamento abbastanza regolare del mercato, una sua routine. I program trading, elaborati sulla base di programmi informatici capaci di trattare tutte le informazioni relative ai rischi, sono stati utilizzati con un certo successo fino al momento in cui ci si è trovati di fronte a eventi inediti, eventi non previsti dall’andamento precedente dei mercati. Con i program trading l’investitore affida al computer il compito di indicargli quale deve essere il suo comportamento di fronte alla possibilità di acquistare o vendere determinati titoli. La macchina informatica svolge cioè il compito di gestione dei rischi tipico di una banca o di qualsiasi intermediario, permettendo a chi usa

questi programmi di ridurre i costi delle attività di intermediazione. Quando i mercati, nell’ottobre del 1987, furono incalzati dalla decisione della Fed di aumentare i tassi di interesse per frenare in anticipo l’inflazione, le macchine dei program trading agirono come coloro che si spostano contemporaneamente sullo stesso lato della barca, facendola così rovesciare. I program trading furono ovviamente additati quali responsabili del crack borsistico. Avendo memorizzato non solo rapporti lineari di causa ed effetto relativi a variabili oggettive, ma anche comportamenti soggettivi di imitazione tra gli operatori, i programmi informatici svelarono i limiti della teoria dell’efficienza del mercato, in particolare il limite di comportamenti passivi di fronte a eventi non previsti. Rispetto alla dottrina delle aspettative razionali, l’innovazione teorica risiede nella definizione del concetto stesso di «evento non previsto». Si tratta di eventi senza memoria, eventi non prevedibili perché privi di informazioni accumulate in passato. Mordecai Kurz,200 l’economista dell’Università di Stanford che sta sviluppando la critica più radicale della teoria dell’efficienza del mercato, sostiene che «c’è solo una verità, e molte opinioni. Quindi, il più delle volte la maggior parte della gente ha torto». La verità è che il contesto storico in cui siamo è talmente imprevedibile da mettere in crisi qualsiasi tentativo di fissare regole di comportamento sulla base di un accumulo di conoscenze e di informazioni riferite al passato, anche al passato più recente. L’economista di Stanford ha calcolato empiricamente che tra il 1947 e il 1992 i prezzi dei titoli sono stati sistematicamente sopra o sottostimati, quindi sempre sbagliati se confrontati con la curva che sintetizza il movimento dei prezzi su un arco di tempo abbastanza lungo. Secondo Kurz, solo un terzo del movimento aleatorio (stocastico) dei prezzi è dovuto a fattori esogeni, a informazioni o a eventi imprevisti provenienti dall’esterno, mentre i restanti due terzi del movimento dei

prezzi è dovuto a una «incertezza endogena». Essendo prodotta all’interno del contesto in cui si opera, la conoscenza può fare sempre meno riferimento a parametri esterni, cioè a regole di comportamento che abbiano una validità universale perché costruite sulla base di eventi esperiti in passato dagli operatori economici. Kurz si spinge molto avanti quando sostiene che, invece di parlare di «aspettative razionali», bisognerebbe parlare di «credenze razionali» (rational beliefs). Ci sono esempi di investitori (Warren Buffet, Bill Ruane, Walter Schloss, Well Fargo) che hanno puntato e vinto su determinati titoli senza badare a ciò che la maggior parte degli investitori sosteneva «razionalmente». Ma con Kurz si sta andando verso l’affermazione di una teoria in cui le molteplici credenze sono definite razionali in quanto soggettive, una teoria, si potrebbe dire, della razionalità della moltitudine. La teoria delle credenze razionali – scrive Kurz – non mira a spiegare le differenze tra modelli scelti da differenti operatori razionali. Sostiene che i dati passati da soli non riescono a spiegare le ragioni per cui allo stock market gli investitori selezionano una regola di decisione piuttosto che un’altra, e sostiene che l’informazione del mercato da sola non può spiegare perché due diversi investitori tenteranno due approcci differenti per risolvere lo stesso problema. 201

La diversità della moltitudine è assunta come tale, è un dato per così dire «ontologico»: sulla base delle medesime informazioni, individui razionali arrivano a conclusioni differenti. Dire che la diversità è assunta come tale equivale a equiparare le scelte di investimento degli operatori economici alle scelte che ognuno fa quando si trova di fronte a un menù o all’offerta di un insieme di beni. Nessuno può legittimamente contestare la mia scelta di un determinato piatto o di una determinata merce asserendo che dovrei preferirne un’altra. Alla stessa stregua, nessuno può contestare la scelta di un investitore con riferimento a un criterio esterno alla scelta stessa. Semmai, dice Kurz, ciò che permette di spiegare il rendimento economico di un paese è la distribuzione di queste

molteplici scelte. Sulla base di una determinata distribuzione delle scelte soggettive di investimento si avrà questo o quest’altro risultato economico complessivo. Quanto alla produzione di una credenza o di un’altra, la teoria economica di Kurz libera la soggettività da qualsiasi riferimento «ultramondano» e fissa lo statuto autoreferenziale dell’«io credo che sia vero ciò che io credo». A suo modo, la teoria di Kurz soddisfa gli auspici del filosofo Pierre Lévy: «Si può sperare in una finanza ancora più intelligente, in grado di esplorare contemporaneamente diverse ipotesi di valutazione, una finanza che sappia dimostrarsi creativa progettando vari scenari del futuro invece di reagire prevalentemente di riflesso».202 Bisogna insistere su un punto di fondamentale importanza. Se la teoria delle «credenze razionali» ha qualche possibilità di imporsi sulla più nota teoria delle aspettative razionali, ciò dipende dal cambiamento radicale del contesto in cui ci si trova oggi. Il tratto decisivo di questo cambiamento consiste nel fatto che la moltitudine è dotata di una razionalità e questa razionalità diffusa è autosufficiente per ogni individuo preso nella sua singolarità. La componente oggettiva della valutazione è cioè interna alla scelta soggettiva, interna all’agire del singolo operatore. La diversità e versatilità delle credenze dà così origine a molteplici stati di equilibrio dei prezzi. L’insieme di questi molteplici stati di equilibrio ha un impatto concreto sulla dinamica della società in virtù di meccanismi di comunicazione formali. E la forma della comunicazione, vale a dire le modalità in base alle quali le singole credenze e i singoli equilibri da esse risultanti sono distribuiti e interagiscono indipendentemente dal loro rispettivo contenuto specifico, che produce questo o quel risultato finale. La comunicazione vale qui nella sua qualità prettamente tecnica, nella sua «vuota» capacità di veicolare credenze singolari e di farle interagire. In questo processo il confine tra ordine e disordine è difficilmente

tracciabile, al punto che è preferibile ragionare in termini di «ordine stocastico» o aleatorio. In un’economia monetaria si può parlare di una teoria delle «credenze razionali» solo dal momento in cui tutto quanto è stato fino ad oggi relativamente esterno all’universo degli operatori economici viene interiorizzato dall’economia stessa, cioè solo quando le stesse autorità monetarie si trasformano in soggetti di decisione alla stessa stregua di tutti gli altri. Infatti, le aspettative razionali tenderanno sempre all’uniformità e, in quanto tali, saranno sempre necessariamente causa di crisi, fino a quando la regolazione dell’economia dipende da una politica che trae forza normativa dalla esteriorità del controllo sui mercati monetari e finanziari. Dopo il crack dell’87, la Fed non smise di agire, seppure in misura decrescente, nell’ottica della politica antiinflazionistica. Alan Greenspan ammette oggi che già nell’87, non avendo capito che si era entrati in un’era di disinflazione, la sua politica monetaria fu sbagliata. Ma perché mai un politica monetaria restrittiva alla fine di un lungo periodo di crescita può essere così profondamente «sbagliata»? Gli aumenti dei tassi di interesse del 1987 erano del tutto coerenti con la logica del ciclo economico (business cycle) che prevede un’impennata dei tassi di interesse per placare il surriscaldamento dell’economia. L’errore, riconosciuto da Greenspan, non fu quello di provocare un evento imprevedibile, ma di pretendere di dominare un evento non conosciuto, un evento di fronte al quale nessuno disponeva delle informazioni necessarie per reagire in modo diverso. L’evento sconosciuto era il cambiamento strutturale sopravvenuto nel corso degli anni ’80, un cambiamento senza precedenti nella storia, e quindi privo di quelle informazioni di cui gli operatori hanno bisogno per prendere le loro decisioni. Oggi Greenspan spiega che alla Fed le decisioni sui tassi di interesse si prendono facendo mille telefonate a rappresentanti

del mondo economico, interpretando con maggior scetticismo i dati ufficiali sulla produttività, discutendo di quanto sta accadendo nel mondo politico. Descrivendo 1’«agire comunicativo» che si è instaurato all’interno della Fed dopo la serie di errori passati, Greenspan rivela una cosa molto importante, e cioè che le autorità monetarie non si fidano più degli aggregati monetari che definiscono la relativa esteriorità della politica monetaria, ma cercano di comportarsi come un qualsiasi operatore economico che interpreta i dati a disposizione sulla base di criteri soggettivi. Di fronte alle medesime informazioni, ai medesimi dati sui prezzi o sui tassi di cambio, la Fed si permette di agire secondo criteri suoi, contraddicendo (se del caso) l’opinione dei mercati, «nuotando contro la corrente» se crede che ciò sia giusto. La Fed si comporta come un detective perplesso, che cambia opinione con lo sviluppo di una conoscenza sempre più ricca degli indizi sociali e economici. In questo «entrare nel mercato» delle autorità monetarie, in questo agire dall’interno dell’economia reale, risiede il nucleo di verità della teoria secondo cui «si può battere il mercato». Una verità certamente difficile da accettare, dato che equivale ad affermare che la banca centrale, cioè lo Stato, è priva della sua relativa autonomia perché «risucchiata» nella società reale. La teoria delle «credenze razionali» riflette la crisi del rapporto tra potere e razionalità economica. Di fronte alle medesime informazioni la razionalità economica è plurale, nel senso che ogni singolo investitore contiene in sé la capacità di effettuare scelte di investimento in un ambiente instabile, strutturalmente incapace di produrre una quantità sufficiente di informazioni da utilizzare quale criterio esterno (a valenza, dunque, universale) di decisione. A priori, non c’è nessuna ragione perché una scelta di investimento sia più razionale di un’altra. Il mercato si configura così come un insieme di soggetti capaci di agire razionalmente nella diversità delle alternative possibili.

Questa razionalità diffusa entra però in contraddizione con qualsiasi pretesa di rappresentare dall’esterno l’interesse generale. Per quanto riguarda la politica monetaria, ciò equivale a dire che essa perde la sua capacità di regolare i mercati dall’esterno, anzi contribuisce solo a destabilizzarli. La nozione di potere è racchiusa nel concetto stesso di razionalità economica plurale. E curioso che la prima decisione del premier laburista Tony Blair, dopo la lunga parentesi tory, sia stata quella di assicurare l’indipendenza della Banca d’Inghilterra. Sembra che a tenere in vita la relativa autonomia dello Stato monetario, in un periodo in cui tutto congiura contro l’efficacia di misure politiche prese dall’esterno dei processi decisionali reali, siano soprattutto i socialisti. La questione, per così dire «ontologica», riguarda la compatibilità tra molteplici modelli di analisi economica in assenza di un potere esterno, di un dispositivo statale che razionalizzi l’insieme delle scelte individuali dall’alto della sua autonomia. Quale è la condizione essenziale affinché, di fronte alle medesime informazioni, le scelte più diverse siano tutte legittimamente razionali? «Stabilire prezzi – scrive Nietzsche nella Genealogia della morale – misurare valori, escogitare equivalenti, barattare – ciò ha preoccupato il primissimo pensiero dell’uomo in una tale misura, che in un certo senso pensare è tutto questo».203 In perfetto stile neoclassico, Nietzsche descrive lo sviluppo originario dell’uomo come «animale apprezzante in sé», ciò che non lascia dubbi circa la possibilità di vedere in ogni singolo individuo la matrice monetaria del suo stesso pensare. Noi, dice Nietzsche, «pensiamo monetariamente».204 In ciò risiede la razionalità economica di ciascun soggetto preso nella sua singolarità. Il fatto è che Nietzsche sviluppò l’idea di un’origine fondamentalmente monetaria del nostro stesso pensare per spiegare ai moralisti del suo tempo la genealogia del senso di colpa.205 «Questi genealogisti della morale si sono mai, sino a

oggi, anche solo lontanamente immaginati che, per esempio, quel basilare concetto morale di "colpa" ha preso origine dal concetto molto materiale di "debito"?»206 Per il filosofo tedesco ciò è tanto più chiaro quanto più nella sua lingua la parola Schuld significa sia colpa sia debito. Il sentimento di colpa, della nostra personale obbligazione...ha avuto, come abbiamo visto, la sua origine nel più antico e originario rapporto tra persone che esista, nel rapporto tra compratore e venditore, creditore e debitore: qui, per la prima volta, si fece innanzi persona a persona, qui per la prima volta si misurò persona a persona.207

Ed è appunto il senso di colpa del debitore che permette al creditore di «faire du malpour le plaisir de le faire». L’intima soddisfazione che il creditore prova nel punire il debitore insolvente risiede nella possibilità stessa di fissare l’equivalenza tra il danno subito e la sofferenza di chi lo ha provocato. Da dove deriva questa idea «antichissima, profondamente radicata, oggi forse non più estirpabile, l’idea di una equivalenza di danno e dolore? L’ho già rivelato: nel rapporto contrattuale tra creditore e debitore, che è tanto antico quanto l’esistenza dei soggetti di diritto».208 E il senso di colpa, derivante dall’incapacità di liberare la mente dal denaro, di fare tabula rasa della «coscienza monetaria», che legittima l’esercizio del potere di signoraggio dei sistemi monetari sul corpo della comunità indebitata. «Ma specialmente sul corpo del debitore il creditore poteva infliggere ogni sorta d’ignominia e di tortura...».209 Ciò che impedisce alla moltitudine di diventare corpo collettivo è il senso di colpa vissuto da ciascuno nella propria individualità.210 Il senso di colpa produce l’autonomia del politico, in un certo senso «legittima» il potere nella sua esteriorità. Le crisi monetarie sono possenti macchine di fabbricazione della memoria a una collettività che, per trovare la sua via per crescere, ha invece bisogno di un po’ di tranquillità, di restare indisturbata dal rumore algido con cui i mercati si muovono quotidianamente.

«Nessuna felicità, nessuna serenità, nessuna speranza, nessuna fierezza, nessun presente potrebbe esistere senza capacità di dimenticare».211 Il vantaggio della «dimenticanza attiva» sta nel darsi tempo per riflettere su ciò di cui si ha bisogno per crescere come collettività. Già le lotte dei ferrovieri francesi nei mesi di novembre e dicembre del 1995 avevano posto la questione cruciale del tempo sociale, contrapposto al tempo e alle modalità della unificazione europea imposti ai paesi-membri dall’alto.212 Per qualche settimana, tra caos rabbia e solidarietà, si delineò all’orizzonte una possibile uscita dal Welfare State diversa da quella auspicata dai funzionari della Unione Europea, un superamento delle costrizioni finanziarie di uno Stato sociale ormai incapace di produrre socialità. Si trattò di un movimento a suo modo «etico-pratico», in cui forme di amicizia e di generosità si resero concretamente necessarie per far vivere una comunità sociale senza Stato. Come fornire elettricità ai quartieri, come spostarsi dalle periferie al centro città, come organizzare i tempi familiari, come attivare reti informali di aiuto reciproco: di colpo il mansionario post-fordista, l’insieme di competenze che fanno parte dei più aggiornati manuali di gestione aziendale, hanno fabbricato un’altra memoria. E nell’oblio del senso di colpa verso chi esercita il potere dall’esterno che matura la memoria di sé come corpo collettivo. Ciò non significa dimenticare la razionalità monetaria, significa invece darsi i mezzi per forgiare una «unità di conto», una misura del tempo che non equivale al tempo astratto dell’economia monetaria, il tempo della violenza sulle differenze di cui è fatta la collettività. E questo, d’altronde, che emerge dal movimento di lotta dei disoccupati che, sempre in Francia, segna l’entrata nella fase finale dell’Euro. La nuova Europa pone l’antica questione della sua origine, quel suo essere, come ha scritto Cacciari, arcipelago, irriducibile pluralità di comunità, e al tempo stesso patria assente, dimora che desidera poter ospitare l’altro. E nella crisi

che l’Europa continuamente si pensa e si definisce. Le lotte ricordano, a volte non senza dolore, che esiste un’altra transizione verso l’Europa post-fordista, una transizione in cui l’accumulo delle sofferenze di una società che ha scelto l’esodo dal proprio passato produce eventi, emergenze di cui si era perso memoria. Il tempo dell’esodo è ritmato dalle mormorazioni, dalla rabbia di non riuscire a vedere, anche in lontananza, un luogo in cui poter sostare per riposarsi. Si mormora sull’orario di lavoro, sui licenziamenti, sulle crisi borsistiche, sulle pensioni, su tutto ciò che conferma la partenza definitiva dalla «casa della schiavitù» fordista. Le mormorazioni fabbricano la memoria di ciò che non è più. A volte le mormorazioni impediscono di vedere ciò che di buono si dà sulla via dell’esodo, ciò che nelle nuove forme del lavoro e della produzione di ricchezza va messo in rilievo e agito collettivamente. Al «capitalismo dei Fondi pensione» corrisponde un modo di produrre ricchezza in cui la comunicazione e le relazioni di reciprocità intessono l’intero arco della vita dei cittadini, dai più giovani ai più anziani. Già oggi, di fronte ai nuovi rischi e all’incertezza, stanno nascendo forme organizzate di mutualizzazione e di socializzazione. Nei rapporti di reciprocità la comunità costruisce i «derivati» per gestire la sua incertezza. Non nelle arene delle borse, ma nei luoghi di vita. La deflazione post-fordista insegna che la diminuzione dei prezzi è il segno della vita attiva di una collettività che produce e innova attraverso il suo linguaggio e le sue relazioni umane. Nella caduta dei prezzi c’è la possibilità di rendere visibile quella uguaglianza che è iscritta nel nostro stesso essere comunità linguistica. Michelet ci ricorda quanto potente può essere una parola come «sei soldi», come un semplice numero può risvegliare milioni di cittadini. Già una volta la caduta dei prezzi ha dipinto le strade di splendidi colori. Già una volta si è usciti dal lutto. Come i quiltingparties delle donne americane, le forme di

aggregazione producono A patchwork della comunità a venire. Laddove non si vede un ordito ordinato, occorre saper riconoscere la trama di una cittadinanza fatta di aggregazione e di democrazia comunicativa. Laddove il silenzio si fa assordante, occorre ascoltare il rumore profondo della resistenza.

Appendice

Per capire il funzionamento elementare dei prodotti derivati basti fare l’esempio di un tipico contratto a termine (future). L’altra grande categoria dei derivati sono le opzioni, che a differenza dei contratti a termine non comportano l’obbligo d’acquisto del soggiacente a scadenza del contratto. I contratti a termine si distinguono tra contratti futures, che si effettuano sui mercati organizzati, e i contratti forward che si effettuano sui mercati non organizzati (detti «отc» Over the counter). I mercati organizzati sono circa 60 in tutto il mondo e si distinguono a seconda dei tipi di contratti che vi si effettuano. Ad esempio, il Chicago Board Options Exchange (СВОЕ) tratta gli indici S&P 100 e S&P 500, il Chicago Board of Trade (свот) tratta la soia, il grano, le obbligazioni dello Stato americano. In Europa i mercati organizzati sono, ad esempio, il London International Financial Futures Exchange (LIFFE), dove si trattano obbligazioni dello Stato tedesco, inglese e italiano, Libor deutschemark, Libor Sterling; La Deutsche Terminbörse di Francoforte (DTB), che tratta l’Indice Dax e le obbligazioni

dello Stato tedesco; La European Option Exchange di Amsterdam (EOE), che tratta l’Indice EOE e azioni olandesi; oppure il mercato di Parigi (MATIF), il mercato di Zurigo (SOFFEX, Swiss Option & Futures Exchange). La proliferazione dei mercati organizzati non americani prende avvio nel 1982 con l’apertura del LIFFE. I mercati non organizzati «отс» si sono costituiti al di fuori delle regole tipiche dei mercati organizzati, in particolare la regola della standardizzazione delle caratteristiche dei contratti (data di scadenza, montanti unitari, modo di quotazione) e la camera di compensazione (clearing house) che assicura la copertura finale delle transazioni. Per far fronte ai «rischi sistemici» impliciti in questi mercati non regolati, dal 1987 sono state elaborate regole che riguardano, in particolare, il livello minimo di fondi propri che ogni istituto bancario partecipante deve rispettare (ad esempio la ratio Cooke, fissata nel 1987 dal Comitato della Banca dei Regolamenti di Basilea, che richiede che i fondi propri rappresentino l’8 per cento dei rischi ponderati). L’esempio seguente riguarda un tipico contratto a termine negoziato sui mercati non organizzati. Differentemente dai contratti futures trattati sui mercati organizzati, i contratti a termine sui mercati OTC si chiamano contratti forwards.

Esempio Una impresa sa che tra 5 mesi deve chiedere un prestito di 10 milioni di franchi per la durata di 3 mesi. Secondo gli accordi stabiliti con la sua banca, sa che potrà prendere a prestito la somma al tasso di interesse a 3 mesi, costatato alla vigilia del prestito, cioè fra 5 mesi, con l’aggiunta di un margine di 0,20 per cento. Il suo rischio è dunque che il tasso

di interesse a 3 mesi aumenti nel corso dei prossimi 5 mesi. Per proteggersi dal rischio acquista un FRA (Forward Rate Agreement) sul mercato – quindi non necessariamente presso la sua banca principale. Questo FRA ha una data d’inizio tra 5 mesi e una durata di 3 mesi. Il tasso di interesse a 3 mesi è del 5 per cento, così che l’impresa acquista il FRA «3 mesi tra 5 mesi» al tasso di 5,20 per cento. (L’uso dei termini «acquistare» o «vendere» non significa che chi acquista deve sborsare una somma. Serve solo a distinguere il ruolo di ciascun partecipante al momento del regolamento del differenziale 5 mesi più tardi). Trascorsi i 5 mesi vi sono due casi possibili: Caso 1: se il tasso di interesse a 3 mesi si trova al di sotto di 5,20 per cento, ad esempio 4,89 per cento, l’impresa deve pagare alla banca che le ha venduto il FRA: 92 giorni 1 10 milioni x (5,20% - 4,89%) x---------------x------------------- = 7824 360 1 + 4,89%x 92 (360)

(dove 92 giorni rappresentano la durata del prestito su 3 mesi, 360 giorni rappresentano un anno bancario, e l’ultimo fattore è un fattore di attualizzazione, o interesse composto, sui 3 mesi del FRA). Caso 2: se il tasso di interesse a 3 mesi è superiore a 5,20 per cento, ad esempio 5,56 per cento, la banca venditrice del FRA deve allora pagare all’impresa: 92 giorni 1 10 milioni x (5,56% - 5,20%) x---------------x------------------- = 9071 360 1 + 5 , 5 6 % x 92 (360)

Riassumendo: Caso 1: l’impresa paga interessi pari a (4,89 per cento + 0,30 per cento) alla banca prestatrice alla fine dei 3 mesi, ossia: 5,19 92 giorni 10 milioni x-------x--------------= 132 633 100 360

e paga nel FRA all’inizio dei 3 mesi: Fr. 7824 cioè, in totale: Fr. 140457. Caso 2: l’impresa paga interessi pari a (5,56 per cento + 0,30 per cento) alla banca prestatrice alla fine dei 3 mesi, ossia: 5,86 92 giorni 10 milioni x------x------------= 132 633 100 360

e riceve nel 9071

FRA

all’inizio dei 3 mesi: Fr.

cioè, in totale, 149 755 - 9071 = Fr. 140 684. Acquistando il FRA, l’impresa ha quindi fissato il costo del prestito ricevuto a un tasso del (5,20 per cento + 0,30 per cento), ciò che corrisponde a un pagamento d’interesse totale di: 5,50 92 giorni 10 milioni x------x------------= 140555 100 360

(la leggera differenza sul risultato finale, dovuta ai due margini dello 0,20 per cento e dello 0,30 per cento, deriva dal fatto che gli interessi sul prestito sono pagati alla fine dei 3 mesi, mentre il differenziale del FRA è pagato all’inizio).

Note

1. La rivoluzione dei prezzi 1. Marc Bloch paragonava il fenomeno monetario a «qualcosa come un sismografo che, non contento di segnalare i terremoti, talvolta li provocasse». Evitando di cadere nel «panmonetarismo», che afferma l’anteriorità del fattore monetario rispetto al fattore produttivo sulla base della equazione degli scambi di Irving Fischer, Bloch si limita a dire che «talvolta» il sismografo crea la scossa, e pensa alla grande inflazione tedesca del 1923, al sistema di John Law, agli assegnati, tutti esempi di emissioni monetarie «folli», in ogni caso sui generis. La ricerca storica, secondo la migliore tradizione delle «Annales d’histoire économique et sociale», non privilegia il fatto monetario, ma lo segue da vicino, cercando di non anticipare frettolosamente i risultati. Dell’Autore, e del suo approccio storico, si veda Il problema dell’oro nel Medioevo, in Lavoro e tecnica nel Medioevo, Laterza, Bari, 1959, pp. 88-138. 2. Cfr. P. Vilar, Oro e moneta nella storia, 1450-1920, Laterza, Bari, 1971. Per una visione d’assieme, si veda Aldo De Maddalena, Moneta e mercato nel ’500. La rivoluzione dei prezzi, Sansoni, Firenze, 1973. 3. «Le pagine del suo diario – scrive P. Vilar – tra il 12 ottobre 1492, data in cui abbordò la prima isola, e il 17 gennaio 1493, quando riprese il largo, contengono non meno di 65 passi concernenti l’oro » (p. 81 ). 4. Cfr. Z. Bauman, Memorie di classe. Preistoria e sopravvivenza di un concetto, Einaudi, Torino, 1987 (si veda in particolare l’Introduzione).

Prezzi al consumo* Svizzera Germania*** Francia Italia Gran Bretagna USA Giappone

1986-95 3,1 2,6 2,7 5,3 5,0 3,8 1,4

1996 0,8 1,5 2,0 3,8 2,4 2,9 0,1

1997** 0,5 1,8 1,3 1,9 3,2 2,6 1,5

1998** 1,3 2,1 1,6 2,7 3,9 2,8 1,4

* Variazione percentuale rispetto all’anno precedente ** Stime SBS *** dal 1995: Germania riunificata

5. La tendenza disinflattiva è chiaramente deducibile dalla tabella, che riassume l’andamento dei prezzi al consumo a partire dal 1986 nei paesi economicamente più sviluppati. Ad eccezione del Giappone, le previsioni per il 1998 tendono al rialzo, ma l’evoluzione economica generale risultante dalla crisi dei mercati asiatici dovrebbe, semmai, accentuare la tendenza strutturale alla stabilizzazione dei tassi d’inflazione vicini allo zero. Si noti che il processo disinflattivo per l’insieme dei paesi OCSE ha inizio nei primi anni ’80. Si noti, anche, che le misurazioni ufficiali dell’inflazione ne esagerano la portata, perché trascurano di prendere in considerazione sia il miglioramento della qualità dei prodotti sia la comparsa di nuovi prodotti a prezzi decrescenti. Per quanto riguarda l’Inghilterra, non è del tutto chiaro se il suo più elevato tasso d’inflazione sia la conseguenza di tensioni sul mercato del lavoro, in particolare nei settori dell’auto, dell’informatica e della costruzione (dove alcuni accordi sindacali prevedono aumenti di salario del 10 per cento) o se, invece, l’inflazione non sia la conseguenza paradossale della stessa politica anti-inflazionistica che ha portato al 7,25 per cento i tassi direttori della Banca d’Inghilterra. Gli alti tassi di interesse inglesi penalizzano le esportazioni a causa della sopravvalutazione della sterlina, cosi che l’alto costo del denaro è riportato sui prezzi interni. 6. Cfr. P. Coy, «It Overstates Inflation! Does Not! Does So. Fueled by the issue of quality changes, the consumer price index debate rolls on», in Business Week, 9 giugno 1997, pp. 60 e sgg. 7. Cfr. M. MacNamee, «An Economy on Steroids? New Commerce numbers may show that U.S. growth has been even more robust than previously thought», in Business Week, 7 luglio 1997, pp. 28

e sgg. 8. Cfr. D. Foust, «Alan Greenspan’s Brave New World», in Business Week, 14 luglio 1997, p. 41. 9. Il 3 gennaio 1998, nel suo intervento inaugurale all’American Economie Association, il presidente della Fed, ribadendo che si è entrati nell’era della Zero-Inflation Economy, è ritornato di nuovo sui suoi passi, confermando la sua opinione circa il rapporto tra andamento «strutturale» dei mercati, produttività del lavoro e disinflazione. 10. R. Bootle, La fine dell’inflazione. Sopravvivere e prosperare nell’era del tasso zero, Il Sole-24 Ore, Milano, 1996, p. 114. 11. Per avere un’idea di quali siano le aspettative del mercato riguardo all’inflazione si guarda di solito ai rendimenti delle obbligazioni poliennali emesse dallo Stato. Se il rendimento è basso, ciò significa che i mercati si attendono che nei prossimi anni l’inflazione rimarrà bassa. Più questa aspettativa è forte, ossia più i mercati sono convinti della futura bassa inflazione, e minore sarà il premio (risk premium) richiesto dagli investitori per gli investimenti in titoli non protetti contro il rischio d’inflazione. 12. R. Bootle, op. cit., p.114. 13. Si osservi che, a fine gennaio 1998, la fuga dai mercati asiatici ha avuto l’effetto di aumentare il valore dei Buoni del Tesoro americani (che danno maggiore sicurezza), al punto che la differenza tra il rendimento dei titoli a dieci anni protetti dall’inflazione (3,65 per cento) e il rendimento degli stessi titoli non protetti (5,65 per cento) è addirittura inferiore al tasso di inflazione futuro previsto. La differenza (spread) è infatti pari a 2 per cento, mentre secondo le stime degli analisti il tasso di inflazione dovrebbe situarsi tra il 2,5 e il 3 per cento. Ciò significa un premio per il rischio negativo (2 per cento - 2,5 o 3 per cento), ciò che viene considerato un «nonsenso». E come dire che sono gli investitori a pagare un premio per poter investire in Buoni del Tesoro non protetti dal rischio d’inflazione. E evidente che le previsioni degli economisti riguardanti l’inflazione futura sono ancora sopravvalutate. 14. Nel 1997 i Fondi di investimento americani, secondo i dati di fine anno della Lipper Analytical Services, erano così distribuiti: 20 per cento negli Stati Uniti, 15 per cento in Giappone, 11 per cento in Inghilterra, 6 per cento in Francia, 6 per cento in

Germania, 5 per cento in Svizzera, 5 per cento in Olanda, 5 per cento in Brasile, 5 per cento a Hong Kong, 4 per cento in Messico, 4 per cento in Australia, 4 per cento in Indonesia, e il 10 per cento in «altri paesi». Il ruolo dei gestori dei Fondi pensione e di investimento nello smantellamento delle chaebol estiatiche è, non a caso, decisivo. Sono infatti i gestori dei Fondi che stanno guidando la rivolta degli azionisti contro le pratiche clientelari dei dirigenti delle conglomerate locali. Cfr. «The Shareholder revolt comes to Korea», in Busines Week, 23 febbraio 1998, pp. 22-23. 15. Cfr. «Survey of fund management» («Ali capitalist now»), The Economist (25 ottobre 1997), dedicato ai Fondi di investimento. 16. In un articolo tempestivo, apparso in La Repubblica il 3 agosto 1997 («Dragoni, fine del mito»), subito dopo la svalutazione della moneta malese che ha «preparato» la crisi dell’intera area asiatica, Federico Rampini riassumeva in quattro punti le ragioni della fine della mitica invincibilità dei Dragoni del Sud-Est asiatico: «Il primo motivo della crisi è strettamente monetario. I governi di quell’area avevano “agganciate” da anni le loro monete al dollaro. L’ascesa della valuta americana ha creato enormi difficoltà agli asiatici, rendendo sempre più care le loro monete e quindi le loro esportazioni. C’è poi un secondo problema dalle origini più antiche. In questi anni di tumultuosa crescita economica, i Dragoni orientali hanno accumulato spaventosi deficit commerciali con l’estero. Questo fa giustizia di un altro luogo comune: chi continua a predicare contro il “pericolo giallo” non sa che l’Europa esporta in quell’area più di quanto importa. Il terzo fattore di crisi risiede nel fatto che i paesi emergenti, più che fare concorrenza a noi, se la fanno tra loro. Così l’irrompere sul mercato globale del colosso economico cinese (e dei suoi salari ancora più bassi) sta creando difficoltà ai vicini (lotte sindacali, scioperi, aumenti del costo del lavoro). Infine, il capitalismo senza democrazia si dimostra ancora una volta più vulnerabile. Corruzione dilagante, scandali finanziari, inefficienza dei mercati, tutti questi handicap ostacolano lo sviluppo economico e sono più difficili da curare nei sistemi politici illiberali che reggono quei paesi. Il primo ministro della Malaysia, Mahathir Mohamad, preferisce attribuire le fluttuazioni monetarie al complotto speculativo del miliardario George Soros, il nuovo Belzebù a disposizione di chi cerca un facile capro espiatorio. In realtà la speculazione interviene sì, ma quando un paese ha già perso credibilità per gli

errori dei suoi governanti». Si aggiunga che i paesi asiatici sono stati colpiti dalla crisi anche a causa del protezionismo da loro esercitato nei confronti degli investitori stranieri. Infatti, se gli investitori stranieri assicurano la liquidità, e con ciò contribuiscono a promuovere la crescita interna, dall’altra non detengono la maggioranza delle azioni trattate alle borse locali. 17. Questa misura fu accompagnata dalla messa fuori legge della possibilità di vendere azioni non detenute in vista di un loro acquisto a prezzi inferiori (short-selling of stocks). Si noti che le svalutazioni delle monete asiatiche, avviate con la decisione da parte della Thailandia di sganciare la propria moneta dal dollaro US dopo 14 anni di parità fisse, non avevano incrinato più di tanto la confidenza degli investitori internazionali. Cfr. John Ridding, James Kynge, «Complacency gives way to contagion», in Financial Times, 13 gennaio 1998, p. 8. Cfr. Revue d’Economie Financière, n° 44, dicembre 1997, interamente dedicato ai sistemi finanziari asiatici. 18. Gli accordi, che entreranno in vigore all’inizio del 1999, riguardano anche la liberalizzazione delle telecomunicazioni e delle tecnologie dell’informazione. I paesi emergenti sono stati praticamente costretti ad accettare le condizioni unilaterali imposte dai paesi sviluppati in conseguenza dell’emergenza della crisi asiatica. Cfr. J.-C. Buhrer, «Comment l’accord mondial sur les services financiers a été negocié», in Le Monde, 20 gennaio 1998, p. vi. La strategia è quella dell’Accordo multilaterale sugli investimenti (AMI) il «manifesto del capitalismo mondiale» elaborato dall’OCSE e pubblicato da Le Monde diplomatique nel febbraio del 1998. 19. Cfr. Business Week, «Jobs Shock. Asia’s workers brace for layoffs that could total nearly 2 million» (22 dicembre 1997, pp. 26 e sgg.) 20. Si osservi che il 13 ottobre, quindi due settimane prima dell’inizio della crisi asiatica, tre fusioni importanti sono state effettuate nel settore assicurativo-bancario: La BAT Industries con il gruppo Zurigo, Il Gruppo italiano Generali con la AGF francese, La Nord-banken svedese con la Merita finlandese. Sulle paneuropean mergers cfr. S. Wagstyl, «Ar-ranged marriages», in Financial Times, 14 ottobre 1997, p. 17. 21. La crisi di credibilità del Fondo monetario internazionale, come prevedibile, si è manifestata non appena il Fondo ha chiesto

al Congresso americano 18 miliardi di dollari per ricostituire i fondi decurtati dal salvataggio finanziario dei paesi asiatici. Se i liberali vogliono vincolare il versamento al FMI al rispetto dei diritti delle popolazioni povere, i repubblicani chiedono che il FMI venga ristrutturato in modo da evitare che i prossimi salvataggi permettano agli investitori globali di uscire indenni dalle crisi che loro stessi hanno contribuito a provocare. 22. Per una visione d’assieme dei termini commerciali in base ai quali, in Occidente, sono state elaborate previsioni deflazionistiche come effetto macro-economico della crisi asiatica, si veda Business Week, « A Global Reality Check. Where is the market headed? How wor-ried should you be?» ( 1o novembre 1997, pp. 22 e sgg.). 23. La tesi del rischio generalizzato di deflazione è sostenuta, tra altri, da Robert Reich, già ministro del Lavoro statunitense durante la prima legislatura dell’amministrazione Clinton. La svalutazione delle monete asiatiche e l’insolvenza tecnica di molte banche dell’area (Giappone); l’aumento della disoccupazione nei maggiori paesi dell’America latina e gli alti tassi di interesse (Brasile); la stagnazione e la disoccupazione in Europa, conseguenza dell’applicazione dei parametri di Maastricht; negli USA, una domanda «tirata» dall’indebitamento privato, che ha ormai raggiunto i limiti di guardia, e che quindi non può sostenere da sola l’aumento delle esportazioni dai paesi asiatici: sono questi i fattori che portano l’economista Reich a proporre misure di rilancio della domanda. In particolare, Reich suggerisce politiche monetarie meno restrittive e l’allentamento delle condizioni d’entrata nella Unione monetaria europea. Per gli Stati Uniti, Reich propone l’uso del surplus del budget federale per sgravi fiscali, e per il Giappone una politica espansiva della spesa pubblica. Cfr.R. Reich, «Deflation: the real enemy», in Financial Times, 15 gennaio, 1998, p. 12. Una tesi simile a quella di Reich è stata sviluppata da François Chenois sul numero di febbraio 1998 de Le Monde diplomatique («La faccia finanziaria di una crisi da sovrapproduzione», pp. 4-5). Un editoriale del Financial Times (17 gennaio 1997, p. 6), pur condividendo le preoccupazioni di Reich circa il rischio di contagio della crisi asiatica, tendeva comunque a limitarne la portata. Le esportazioni dirette, sia dall’Europa sia dagli USA, verso i paesi asiatici maggiormente colpiti dalla crisi sono relativamente contenute. I prestiti delle banche americane a Thailandia, Malaysia, Filippine, Indonesia e

Corea del Sud rappresentano solo il 20 per cento dei prestiti totali, circa la stessa percentuale dei prestiti all’Inghilterra. Il servizio sul debito ha rappresentato nel ’97 il 16 per cento del PIL dei paesi asiatici, quando negli anni ’80 si elevava al 50 per cento per i paesi latino-americani. Secondo le stime di dicembre del FMI la crisi asiatica dovrebbe comportare una riduzione della crescita dello 0,8 per cento, «un ammontare significativo, ma non disastroso». Secondo il Financial Times, uno dei rischi maggiori di peggioramento della situazione non solo asiatica è la possibilità che la Cina sia costretta a svalutare, ciò che farebbe saltare la parità fissa tra la divisa di Hong Kong e il dollaro. La Cina si trova infatti a dover scegliere tra la svalutazione, che permetterebbe di aumentare le esportazioni in una fase in cui il rischio di deflazione è elevato (nel 1996 il tasso di crescita era del 9,7 per cento, mentre nel ’97 era sceso all’8,8 per cento, e si prevede un’ulteriore riduzione nel ’98, addirittura al 6 per cento), e il mantenimento dell’attuale tasso di cambio, soprattutto per evitare l’aumento dell’indebitamento in dollari. In una situazione in cui i disoccupati sono già oltre 150 milioni, la pressione internazionale sui cinesi per non svalutare si traduce inevitabilmente in un aumento dei licenziamenti. Privati della possibilità di agire sui tassi di cambio, alle autorità cinesi non resta altro che attuare misure di esenzione doganali per gli investitori stranieri, allentare il controllo sul credito, rilanciare la costruzione di alloggi e sviluppare una strategia più aggressiva sui mercati esteri. Tutto dipenderà, in ultima analisi, dalla evoluzione delle tensioni sociali interne (Cfr. F. Bobin, «La Chine affirme qu’elle ne dévaluéra pas sa monnaie», in Le Monde, 20 gennaio 1998, p. 2). 24. Vedi il sempre utile libro di M. de Cecco, Money and Empire. The International Gold Standard, 1890-1915, Basil Blackwell, Oxford, 1974. 25. Cfr. G. Baker, «No Dark Age of Deflation. Fears of deflation stalking the world, especial-ly the US, are overblown», in Financial Times, 1° dicembre 1997, p. 10. 26. Nel 1996, gli investimenti americani diretti all’estero sono stati per il 62 per cento del totale in Europa e Canada, 18 per cento in America latina, e solo il 17,6 per cento nell’insieme dell’area asiatica. Anche per quanto riguarda le vendite di affiliate US all’estero il 59 per cento proviene da affiliate in Europa, e solo il 18,8 per cento da affiliate nei paesi asiatici.

27. Cfr. P. Krugman, Un’ossessione pericolosa. Il falso mito dell’economia globale, Etas Libri, Milano, 1997, pp. 130-31 e sgg. Per una sintesi ragionata delle varie interpretazioni dei modelli di sviluppo, cfr. M.E. Camarda, Le quattro tigri dell’est asiatico, L’Epos, Palermo, 1997, nonché F. Chenois, La mondialisation du capital, Syros, Paris, 1997. Sul ruolo del Giappone nell’area asiatica, cfr. l’utile lavoro di E. Douville-Feer, L’economie du Japon, La Découverte, Paris, 1998. 28. Ciò non toglie che nel breve periodo determinate imprese occidentali subiranno i contraccolpi della riduzione delle importazioni da parte dei paesi asiatici. E il caso, ad esempio, dell’italiana Gucci, della Mitsubishi Electric giapponese, della ABB svizzero-svedese. Quest’ultima ha licenziato in Europa 10000 dipendenti, una riduzione in parte dovuta anche al rallentamento delle economie asiatiche. Il tentativo di aumentare le esportazioni dai paesi asiatici non dovrebbe avere un impatto sui tassi di crescita occidentali superiore all’1 per cento (cfr. Financial Times, «East’s troubles knock at West’s door», 27 gennaio 1998, p. 22). 29. Cfr. Business Week, «Cheapest exports? Not so fast. Manufacturers face soaring materials and financing costs», 2 febbraio 1998, pp. 20-21. 30. Secondo il Financial Times (20 gennaio, 1998) la ripresa dei mercati borsistici asiatici del 19 gennaio del 1998 poteva già significare un ritorno di fiducia tra gli investitori internazionali. 31. Una differenza importante tra la crisi messicana e quella cilena risiede nella natura del debito estero. In Messico è stato essenzialmente il settore pubblico ad indebitarsi, non con le banche, ma con gli investitori istituzionali americani. Anch’essi avevano elargito dollari a breve, ma si trattava di crediti legati ai Buoni del Tesoro (tesobonos), ossia a titoli di debito rinegoziabili sul mercato. La natura privata del debito estero cileno, come quella odierna di paesi come la Corea, ha reso il processo di aggiustamento successivo alla crisi molto più drammatico perché ha favorito l’aumento sproporzionato dei prezzi di beni non commerciabili internazionalmente dopo la svalutazione, come il suolo urbano. Oltretutto, l’indebitamento pubblico messicano non era tale da giustificare la crisi del ’94-’95, anche perché dopo la crisi del 1982 il Messico non aveva mai cessato di ripagare il servizio sul debito ai creditori stranieri. Se il Messico è stato penalizzato dai mercati è a causa di un cambiamento di strategia

politica globale che ha a che fare con la ricerca di rendimenti elevati da parte dei Fondi pensione e d’investimento delle economie sviluppate. 32. Negli ultimi tre mesi del ’97 c’è stato un aumento record di investimenti nei Fondi di investimento americani (mutualfunds), al punto che il totale degli attivi finanziari dei Fondi (4,490 miliardi di dollari, erano 3,539 miliardi all’inizio dell’anno) sta per superare il totale degli attivi delle banche commerciali americane. Gli investimenti in obbligazioni pubbliche hanno superato quelli in titoli azionari, dimostrando una certa diffidenza da parte dei risparmiatori nei confronti dello stock market. Vi è stato pure, sempre sul finire del ’97, un forte deflusso dai fondi internazionali (cfr. Financial Times, «Record inflows for mutual funds», 30 gennaio 1998, p. 14). Nel medesimo periodo vi è stata una riduzione di un terzo del flusso di capitali privati investiti nei paesi emergenti, e si prevede che nel ’98 vi sarà un’ulteriore diminuzione del 15 per cento (Cfr. «Capital flow to emerging markets falls», ibid., p. 4). 33. Si osservi che il surriscaldamento dell’economia americana difficilmente può e potrà essere attribuito alla riduzione del tasso di disoccupazione, sia perché il modo in cui negli USA si calcola il tasso di disoccupazione trascura un numero molto elevato di disoccupati scoraggiati, sia perché vi è un aumento del numero di persone anziane che ritornano a lavorare. Di conseguenza il pool di forza-lavoro disponibile è assai più vasto di quanto traspare dalle statistiche ufficiali (cfr. «The labor pool is deeper than it looks», in Business Week, 24 novembre 1994, p. 41. Cfr. anche M. Calamandrei, «Al lavoro anche i pensionati», in Il Sole-24 Ore, 30 dicembre 1997, p. 16. 34. Secondo Gerard MacDonnell, economista della Bank Credit Analyst, la crisi asiatica non dovrebbe far rimpatriare i capitali asiatici investiti nei Buoni del Tesoro americani. Anzi, dell’aumento dei risparmi, conseguente all’aumento delle esportazioni, al calo degli investimenti, al trauma dei consumatori e all’aumento della disoccupazione nei paesi asiatici, dovrebbero beneficiare gli Stati Uniti. Oltretutto, l’afflusso dei risparmi asiatici sui titoli pubblici americani spingerà ancora di più verso il basso i tassi di interesse a lungo termine. 35. Tra i lavori più importanti cfr. G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore,

Milano, 1996. 36. D. H. Fischer, The Great Waves. Price Revolutions and the Rhythm of History, Oxford University Press, New York, 1996 (cfr. «The Cost of Anti-Inflation: Price Fears and Policy Recessions, 1980-95», pp. 215-17). 37. Cfr. ft. Kurz, La fine della politica e l’apoteosi del denaro, manifestolibri, Roma, 1997. 38. Vedi, ad esempio, Stephen Nickell, «Unenployment and labor market rigidities: Europe versus North America», in Journal of Economie Perspectives, III, 1997. Sul rapporto tra stabilità dei prezzi e disoccupazione cfr. G. Ackerlof, «The Macroeconomics of Low Inflation », Brookings Papers on Economic Activity, 1, 1996. 39. Tra le descrizioni più efficaci del processo di globalizzazione, cfr. S. Brittan, «Who’s afraid of globalisation?», Financial Times, 8 gennaio, 1998, p. 11. 40. R. Bodei, La filosofia del Novecento, Donzelli, Roma, 1997, pp. 172-73.

2. 1979 41. Cfr. J. Michelet, Le peuple, Flammarion, Parigi, 1974, pp. 9699. 42. Cfr. R. M. Gelpi e F. Julien-Labruyère, Storia del credito al consumo. La dottrina e la pratica, il Mulino, Bologna, 1994, pp. 153-59. A partire dagli anni ’70 il debito privato americano si situa tra il 17 e il 20 per cento del reddito disponibile. 43. Si deve a Paolo Virno, a Lucio Castellano, e ai collettivi redazionali delle riviste italiane Luogo comune e Derive Approdi, l’interpretazione dell’esodo come nuova forma di lotta, di cui la fuga dall’Est verso le terre dell’Ovest rappresenta un’anticipazione delle più recenti forme di esodo dalle costrizioni del lavoro salariato. Il carattere positivo della fuga, il suo essere affermazione di valori trasformativi e non di tradimento, è stato messo in luce dall’economista americano Albert O. Hirschman nel libro Lealtà defezione protesta, scritto nel 1968, uscito negli Stati Uniti nel

1970, e pubblicato nel 1982 da Feltrinelli. «Ho introdotto uscita e voce – scriveva Hirschman nell’Introduzione – e cioè forze di mercato e forze esterne al mercato, e cioè meccanismi economici e politici – come gli agenti principali, rigorosamente pari per rango e importanza. Nello sviluppare il mio discorso su questa base spero di dimostrare ai politologi l’utilità dei concetti economici e agli economisti l’utilità dei concetti politici». Per un’interpretazione del Libro dell’Esodo come base del nostro pensiero e del nostro agire politico, si veda, di M. Walzer, Esodo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano, 1986. Mi permetto di rinviare a un mio saggio, «La fuga come categoria politica», apparso in G. Martignoni (a cura di), La fuga, l’estasi, il viaggio, Ed. Alice, Cornano (CH), 1993. 44. Cfr. B. Coriat, L’atelier et le chronomètre, Christian Bourgois, Paris, 1979, capitolo IV. 45. R.M. Gelpi, F. Julien-Labruyère, op. cit., pp. 155-57. 46. G. Deleuze e F. Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophénie, Les Editions de Minuit, Parigi, 1980, pp. 594-96. La traduzione italiana, curata da Giorgio Passerone, è stata pubblicata in quattro volumi da Castelvecchi, Roma, 1997. 47. Cfr. P. Verley, L’échelle du monde. Essai sur l’industrialisation de l’Occident, Gallimard, Paris, 1997. 48. Cfr. P. Drucker, The Unseen Revolution. How Pension Fund Socialism Came to America, Heineman, London, 1976. 49. Cfr. M. Friedman, A Theory of the Consumption Function, Princeton, Princeton University Press, 1957. Per una rassegna delle teorie sulla funzione del risparmio, cfr. M. Douglas e B. Isherwood, Il mondo delle cose. Oggetti, valori, consumo, il Mulino, Bologna, 1979. Molto utile, di F. Lepori, Consumo, risparmio e ricchezza a livello micro-economico. Aspetti analitici ed evidenza empirica per la Svizzera, Banca dello Stato del Cantone Ticino, 1994. 50. Sulle «virtù» macroeconomiche del consumismo americano rispetto alla parsimonia giapponese e tedesca, cfr. P. Coy, « Spend and Grow Rich - It’s the American Way», in Business Week, 26 gennaio 1998, p. 53. 51. «Che la moneta più antica del mondo sia stata fatta in lega di metallo è un fatto importante. Infatti, se è vero – come in genere si

riconosce – che lo scopo iniziale della coniatura fu quello di produrre lingotti di metallo di cui si garantiva con il punzone dello Stato l’uniformità di valore, dobbiamo dire che le autorità del regno di Lidia, coniando moneta in lega, hanno reso difficile, per non dire impossibile, il controllo della garanzia rilasciata (...) Mentre il peso delle monete era molto uniforme, il loro tenore in oro variava considerevolmente» (Bolin, Penningens födelse, citato in L. Backlund, Che cos’è il dollaro. Meccanismo monetario e economie nazionali, Mazzotta, Milano, 1977, p. 8). 52. R. Triffin, Gold and the Dollar Crisis, New Haven, Yale University Press, i960. 53. J. Rueff, L’ordre social, Edition Genin, 1966, 3 a ed. Vedi anche L’errore monetario dell’Occidente, Etas Kompass, Milano, 1971. 54. Dei molti lavori di B. Schmitt si veda, in questo contesto, L’or, le dollar et la monnaie supranational, Calmann-Lévy, Paris, 1977. 55. Per un’ampia rassegna sui rapporti tra sovranità nazionale e sistema monetario internazionale, si veda, a cura di B. Théret, L’Etat la finance et le social. Souvraineté nationale et construction européenne, La Découverte, Paris, 1995. 56. Cfr. M. Aglietta, «Ordre et désordre», intervista a cura di C. Vercellone e F. Sebaï, in Futur antérieur, L’Harmattan, 1995/1, pp. 55 e sgg. 57. Cfr. R. Solomon, The International Monetary System, 19451976, Harper & Row, 1977, pp. 44-49. 58. Ibid., pp. 49-50. 59. Cfr. B. Eichengreen, L’expansion du capital. Une histoire du système monétaire international, L’Harmattan, Paris, 1996, pp. 164-71. 60. Cfr. G.J. Millman, Finanza barbara. Il nuovo mercato mondiale dei capitali, Garzanti, Milano, 1996, pp. 119-32. 61. Cfr.G. Arrighi, op. cit., pp. 397-403.

3. La rivoluzione derivata 62. G. Millman, op. cit., p. 158. 63. Ibid., pp. 158-59. Il libro di Millman è particolarmente utile per avere una visione d’assieme della storia dei nuovi mercati finanziari. 64. Per lo studio tecnico dei derivati si rimanda a P. Chabardes e F. Delclaux, Les produits dérivés, Gualino, Paris, 1996. Vedi anche The Journal of Applied Corporate Finance, (autunno) 1994, interamente dedicato ai derivati; «Financial Derivatives. New Instruments and Their Uses», Fed Bank of Atlanta, dicembre 1993; «The beauty in the beast », in The Economist, 14 maggio 1994, pp. 21-24. Cfr. C.W. Smithson e C.W. Smith, Jr., Managing Financial Risk: A Guide to Derivative Products, Financial Engineering, and Value Maximization, New York, Irwin, 1995. Vedi anche F.D. Arditti, Derivates. A Comprehensive Resource for Options, Futures, Interest Rate Swaps, and Mortgage Securities, Harvard Business School Press, 1996. 65. Cfr. R. Schiller, Macro Markets: Creating Institutions for Managing Society’s Largest Economic Risks, Oxford University Press, 1994. Secondo Schiller, del reddito delle economie americane (1990), solo il 14 per cento è negoziabile su mercati relativamente liquidi. Si tratta di assicurazioni vita, fondi pensione e di investimento, depositi e strumenti di credito. Per il restante 86 per cento (di cui 4,5 per cento proprietà, 3,2 per cento terreni, 3 per cento titoli di imprese non quotate, 2,5 per cento beni di consumo durevoli, 72,1 per cento capitale umano) non ci sono ancora mercati liquidi tali da permettere la creazione di strumenti derivati per gestire i rischi di oscillazione dei prezzi. Ad esempio, perché non creare un mercato dei derivati per i redditi? 66. Cfr. P.L. Bernstein, Against the Gods. The Remarkable Story of Risk, John Wiley & Son, Inc., 1996, pp. 312-14. 67. Citato in Bernstein, op. cit., p. 305. 68. Cfr. P.M. Garver, «Who put the Mania in Tulipmania?», in Journal of Portfolio Management, XVI, n° 1, autunno, pp. 53-60. 69. «La più spettacolare, e certamente la più allarmante di queste esplosioni speculative, fu la grande mania del tulipano del 1636-

37. E stata oggetto di numerosi scritti meravigliati e divertiti dall’apparente incongruenza tra la banalità del fiore e la stravaganza del trattamento che gli fu riservato. Soltanto una cultura profondamente borghese, sembrano voler dire, poteva scegliere l’umile tulipano – piuttosto che, ad esempio, gli smeraldi o gli stalloni arabi – come trofeo della speculazione. Ma nel diciassettesimo secolo i tulipani non avevano nulla di borghese. Erano, quantomeno all’inizio, esotici, seducenti e perfino pericolosi. E precisamente nel momento in cui la loro rarità sembrò passibile di addomesticamento per un mercato di massa si realizzò il potenziale di una domanda in rapido rialzo. Fu questa trasformazione, da esemplare per intenditori a bene accessibile a tutti, a rendere possibile la mania» (S. Schama, La cultura olandese dell’epoca d’oro, Il Saggiatore, Milano, 1988, p. 357). 70. L’ammontare del versamento deriva dal calcolo probabilistico della volatilità del prezzo del prodotto soggiacente. 71. Il modello Black e Scholes apparse sul numero di maggiogiugno 1973 de The Journal of Politicai Economy. Fisher Black è morto nel 1995, mentre Myron Scholes e Robert C. Merton (anch’egli autore originario del modello) hanno vinto il Nobel per l’economia nel 1997. La scelta di premiare due tra i maggiori responsabili dello sviluppo non solo teorico dei prodotti derivati segna una svolta significativa nella scienza economica verso l’economia finanziaria (e un duro colpo per i «macroeconomisti»). 72. Cfr. M.H., Miller, «Financial Innovation: Achievements and Prospects», in Japan and the World Economy, IV, n° 2, giugno 1992. 73. Central Bank Survey of Derivatives Market Activity, in Bank for International Settlements, dicembre, 1995. 74. I dati sono dell’ Office of the Comptroller of the Currency, pubblicati in The New York Times, 15 giugno 1995, p. 1. 75. Nella tradizione marxista la definizione del denaro come forma di valore è stata sempre circoscritta alla funzione del denaro come equivalente generale delle merci, vale a dire il denaro nella sua forma di merce incarnante una determinata quantità di lavoro astratto. Questo riduzionismo discende dal modo in cui Marx sviluppa l’esposizione della sua teoria nel primo libro del Capitale, che inizia con l’analisi della circolazione semplice delle merci (M D - M’) in cui il denaro (D) media lo scambio tra le merci (M, M’)

nella sua qualità di merce equivalente che contiene una determinata quantità di lavoro astratto. Sulla base di questa definizione, il passaggio alla circolazione del capitale (D - M - D’) impedisce di definire il denaro nella sua funzione moderna di denaro creato ex nihilo, ossia sulla base di nessun equivalente generale in circolazione. Eppure, come più volte Marx dimostra nelle Teorie del plusvalore, nel rapporto tra capitale e lavoro il denaro è creato ex nihilo perché le merci-salario saranno prodotte dal momento in cui la forza-lavoro è comandata dal capitale. «Ciò che il capitalista compra, è il diritto di disporre temporaneamente della forza-lavoro; egli la paga solo quando questa forza-lavoro ha operato, si è oggettivata in prodotto. Qui, come in tutti i casi in cui il denaro serve come mezzo di pagamento, l’acquisto e la vendita precedono l’alienazione reale del denaro da parte del compratore (...) Cioè: l’operaio ha venduto al capitalista la sua porzione di prodotto prima che questo fosse convertito in denaro» (Storia delle teorie economiche, Einaudi, Torino, 1954, voi. 1, pp. 11920). E l’anteriorità del diritto (contrattuale) di comandare la forza-lavoro che libera la creazione monetaria dal vincolo di una riserva di valore precedentemente accumulata. Con lo sviluppo del capitale su scala mondiale, la funzione del denaro come mezzo di pagamento creato ex nihilo assume un’importanza crescente, mentre la funzione del denaro come equivalente generale che misura il valore nella sfera della circolazione si relativizza. E solo nei momenti di crisi, cioè quando si cerca di convertire i titoli di ricchezza in «denaro sonante», che rispunta quest’ultima funzione. Quando la sfera della circolazione delle merci diventa anch’essa sfera di comando e di valorizzazione del capitale, quando non solo il lavoro direttamente produttivo, ma l’esistenza stessa della forza-lavoro sono usate dal capitale per produrre valore, la funzione del denaro come equivalente generale non si materializza più in una merce particolare, come l’oro, ma prende la forma della comunità. E il corpo della comunità che, per così dire, diventa «oro». Nelle crisi monetarie odierne, infatti, è la sproporzione tra istanze monetarie e bisogni (quantitativi e qualitativi) della comunità sociale che emerge violentemente. E comunque la definizione (errata) del denaro come equivalente generale che, ancora oggi, prevale nelle analisi critiche del denaro in Marx. E quindi comprensibile che la sua teoria venga, per così dire, gettata alle ortiche anche da economisti intelligenti: cfr., ad esempio, G. Alvi, Le seduzioni economiche di Faust, Adelphi, Milano, 1989, p. 211.

76. Dietro l’atteggiamento blasé di Georg Simmel o di Robert Musil si ritrova la migliore definizione di forma: «La spiegazione reale dell’accadere reale – scrive Musil nell’Uomo senza qualità – non m’interessa. La mia memoria è cattiva. Inoltre i fatti sono sempre intercambiabili. Mi interessa ciò che è spiritualmente tipico, vorrei dire addirittura l’aspetto spettrale dell’accadere». L’aspetto «spettrale» che definisce la forma-denaro è l’eterno ritorno della crisi, la crisi come «struttura latente» dei rapporti sociali di produzione. La crisi si dà nelle forme dello «spiritualmente tipico», ossia all’interno di costellazioni istituzionali storicamente determinate. Si dà come intersezione tra l’economico, il sociale e il politico. Blasé è colui che, di fronte all’accadere reale della crisi, non si scompone, rimane «freddo» e disincantato, perché per il blasé ogni crisi «vale l’altra». Fondamentale, a questo proposito, è l’opera di G. Simmel, Filosofia del denaro (UTET, Torino, 1984) e, sempre di Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito (Armando, Roma, 1995), di cui si veda la bella Introduzione di Paolo Jedlowski. Cfr. anche, di V. d’Anna, Georg Simmel. Dalla filosofia del denaro alla filosofia della vita, De Donato, Bari, 1982. Per la definizione del concetto di forma in Marx si veda L’analisi della forma di valore, a cura di C. Pennavaja, Laterza, Roma-Bari, 1976. 77. Nella contraddizione tra vita e forme di vita, scrive Simmel in una lettera a un amico, «nulla si può tentare di più che indicare l’inizio e la direzione di una via infinitamente lunga: la pretesa di una qualche completezza sistematica e definitiva sarebbe, nel migliore dei casi, una auto-illusione» (citato in D. Frisby, Georg Simmel, il Mulino, Bologna, 1985, p. 135). Anche dal metodo di Marx, che rispetto a quello simmeliano è di segno opposto, è impossibile dedurre una «teoria» sistematica definitiva: «Che il capitale racchiuda delle contraddizioni siamo gli ultimi a negarlo. Il nostro scopo è anzi quello di svilupparle completamente» (Grundrisse). L’«asistematicità» del metodo marxiano, che deriva dal rifiuto del metodo logico-deduttivo nella analisi critica del reale, è stata ripetutamente attaccata dai critici di Marx, da Eugen von Böhm-Bawerk in poi. Nell’interpretazione dei critici basta scoprire l’errore di un termine medio sul piano logico-deduttivo per respingere la teoria in blocco. 78. A partire dai derivati è infatti possibile ricostruire una sorta di «bio-storia» della gestione dei rischi. E quanto si può intravedere nel libro di P. Bernstein, Agaìnst the Gods, op. cit.

79. Cfr. G. Millman, op. cit., p. 155. Vedi anche R. Kuttner, Everything for Sale. The Virtues and Limits of Markets, Alfred A. Knopf, New York 1997, pp. 165-66. 80. R. Bootle, op. cit., p. 85. 81. M. d’Eramo, Il maiale e il grattacielo. Chicago: una storia del nostro futuro, Feltrinelli, Milano, 1995, pp. 39 e sgg. 82. Ibid., p. 44. 83. Per l’impostazione preliminare della definizione di moltitudine merita leggere questo passo di Paolo Virno: «Il contrasto politico decisivo è quello che oppone la Moltitudine al Popolo. Il concetto di “popolo”, a detta di Hobbes (ma anche di larga parte della tradizione democratico-socialista), è strettamente correlato all’esistenza dello Stato, anzi, ne è un riverbero. “Il popolo è un che di uno, che ha una volontà unica, a cui si può attribuire una volontà unica. Il popolo regna in ogni Stato” e, reciprocamente, “il re è popolo”. La cantilena progressista sulla “sovranità popolare” ha per contrappunto acre l’identificazione del popolo con il sovrano o, se si preferisce, la popolarità del re. La Moltitudine, invece, rifugge dall’unità politica, recalcitra all’obbedienza, non consegue mai lo status di persona giuridica né, quindi, può “promettere, fare patti, acquistare e trasferire diritti”. Essa è antistatale, ma, proprio per questo, anche antipopolare: “I cittadini, allorché si ribellano allo Stato, sono la moltitudine contro il popolo”». «La democrazia della Moltitudine – continua Virno – prende sul serio la diagnosi che, non senza amarezza, propose Cari Schmitt negli ultimi anni della sua vita: “L’epoca della statualità sta ormai giungendo alla fine... Lo Stato come modello dell’unità politica, lo Stato come titolare del più straordinario di tutti i monopoli, cioè del monopolio della decisione politica, sta per essere detronizzato”» (P. Virno, Mondanità. L’idea di «mondo» tra esperienza sensibile e sfera pubblica, manifestolibri, Roma, 1994, pp. 103 e 105).

4. L’incertezza keynesiana 84. J.M. Keynes, Trattato sulla probabilità, a cura di A.

Pasquinelli e S. Marzetti Dall’Aste Brandolini, 1994.

CLUEB,

Bologna,

85. J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione dell’interesse e della moneta, UTET, Torino, 1971. 86. Ibid., p. 368. 87. Cfr. «The General Theory of Employment», in Quarterly Journalof Economics, trad. it. in Keynes. Antologia di scritti economico-politici, a cura di G. Costa, Bologna, 1978, p. 167. 88. Cfr. G. Heinsohn e O. Steiger, «Private property, debts and interest or: the origin of money and the rise and fall of monetary economics», in Studi economici, XXXVIII, 1983, n° 21, pp. 3 e sgg. 89. Per la esposizione della teoria complessiva di Schmitt, vedi l’Introduzione di Stefano Figuera a B. Schmitt, Teoria unitaria della moneta, nazionale e internazionale, Liguori, Napoli, 1993. 90. Cfr. A. Orléan, «Per una teoria delle aspettative in condizioni di incertezza», in M. Messori (a cura di), Moneta e produzione, Einaudi, Torino, 1988. 91. Cfr. il cap. 26 del Trattato, op. cit., pp. 337-45. 92. A. Orléan, op. cit., p. 276. 93. «Keynes fu sempre attirato da ciò che può essere definito come paradossale, misterioso, enigmatico, psicologico; in tutta la sua opera si sente la presenza di quest’aspetto indefinibile della sua personalità che influì profondamente sul suo sistema di credenze fondamentali riguardo alla verità, all’uomo e alla società. Il suo “concetto d’incertezza deve molto al metodo di Bloomsbury – un metodo che confida nella psicologia come strumento esplicativo”; non può meravigliare quindi che egli abbia tentato un radicale rovesciamento dei valori della morale corrente» (A. Pasquinelli e S. Marzetti Dall’Aste Brandolini, Introduzione a J.M. Keynes, Trattato, op. cit., p. XXIII. Sul «metodo di Bloomsbury» gli Autori citano P. V. Mini, Bloomsbury and The General Theory, MacMillan, London, 1991, p. 125). 94. Cfr. nota 64. 95. Ibid., p. 166. 96. «Ma come avviene che un’aspettativa diventa una norma? E

una questione di psicologia di gruppo: ogni operatore tende a formulare un insieme di aspettative che sa di poter condividere con tutti gli altri. Se questo stupisce, basta pensare che la condivisione di un’aspettativa è un “metodo” comunemente adottato, sia dalle società che dagli individui, per risolvere problemi di tutti i generi. Supponiamo che io debba trovarmi con qualcuno a Parigi a una certa data. Né io né l’altro sappiamo di preciso dove e non possiamo comunicare. Tutti e due cercheremo di indovinare il posto che sceglierà l’altro. Le probabilità di un incontro sono apparentemente infinitesimali: forse passeremo tutta la giornata a vagare per Parigi. Eppure una soluzione si troverà: l’uno arriverà a identificare la convenzione condivisa dall’altro, e tutt’e due si faranno trovare, per esempio, a mezzogiorno ai piedi della torre Eiffel» (R. Bootle, op. cit., p. 113). 97. Cfr. J.M. Keynes, Teoria generale, op. cit., pp. 292-93. 98. Ibid., p. 345. 99. R. Bootle, op. cit., p. no. 5. Il capitalismo dei Fondi pensione 100. Cfr. «The Pension Boom. Why nest-egg investing is sweeping the Continent», in Business Week, 15 dicembre 1997, pp. 20-21. 101. Cfr. P. Davis, Pension Funds, Retirement-Income Security and Capital Markets: an International Perspective, Clarendon Press, Oxford, 1996. Per un’analisi critica dello sviluppo dei Fondi pensione, cfr. F. Chenais (a cura di), La mondialisation financière: genèse, coûts et enjeux, Syros, coll. «Alternatives économiques», Parigi, 1996 (vedi in particolare R. Farnetti, «Le rôle des fonds de pension et d’investissement collectifs anglosaxons dans l’essor de la finance globalisée»). Vedi anche McKinsey Global Institute, The Global Capital Markets: Supply, Demand, Pricing and Allocation, Washington DC, 1994; «The Power of Mutual Funds. They are reinventing the way we save and reshaping the economy », in Business Week, 18 gennaio 1993, pp. 34 e sgg. 102. Cfr. Les retraites complémentaires dans le marché unique. Livre vert, Commission européenne, Dir. générale XV, 5 giugno

1997. 103. Per un confronto tra il «modello anglosassone» e il «modello renano» si vedano le seguenti tabelle: Struttura degli attivi finanziari in Germania (1995, %) FAMIGLIE Depositi Risparmio alloggio Assicurazione vita Obbligazioni Fondi comuni d’investimento Azioni Altri Prestiti

40 3 21 16 8 5 7 0

Assicurazioni vita 37 0 0 15 12 16 0 20

Fondi comuni d’investimento 7 0 0 62 0 24 7 0

Struttura degli attivi finanziari delle economie domestiche americane (%) Depositi Obbligazioni pubbliche Altre obbligazioni Azioni non quotate Azioni quotate Fondi Assicurazioni vita Fondi pensione Altri

1991 20 3 7 16 17 8 3 25 1

Fine 1996 16 4 5 12 20 11 3 27 2

Struttura del portafoglio dei fondi pensione (in %, 1993) USA

Giappone

Inghilterra

Germania

Paesi Bassi

48

24

57

10

8

9

27

Azioni internazionali

4

5

24

1

11

2

9

Immobiliare

2

3

5

12

11

16

7

Liquidità

12

5

4

8

3

10

8

Obligazioni nazionali

33

54

7

67

61

59

48

9

3

2

8

4

1

100

100

100

100

100

100

Azioni nazionali

Svizzera Canada

Obligazioni internazionali Totale

100

Fonte: Pension Funds Indicators (1995), in Revue financière, luglio 1997.

104. Cfr. The Economist, «Survey of Fund Management», 25 ottobre 1997, p. 14. Vedi anche F. Chenois, La mondialisation du Capital, op. cit., il capitolo 2 («La finance, pivot de la mondialisation du capital»). 105. Cfr. P. Artus, «L’épargne: évolution, flux, comportements», in Revue d’economie financière, luglio 1997, pp. 38-39. 106. Benché manchino ancora statistiche precise sul rapporto tra risparmio e categorie socio-professionali, sulla formazione iniziale del risparmio, sullo stato civile della clientela assicurativa, è stato osservato che la segmentazione del mercato del risparmio riflette tendenze che contraddicono la teoria tradizionale del ciclo di vita secondo cui la cessazione dell’attività comporta l’estinzione graduale del risparmio (il suo «consumo passivo»). Sono sempre più frequenti situazioni in cui i pensionati continuano a risparmiare fino a una certa età. Si continua a risparmiare in funzione della classe d’età cui si appartiene (terza età, quarta età) e in funzione del desiderio o del bisogno di trasferire risorse finanziarie alle generazioni più giovani. Dal 1995 il reddito medio della popolazione anziana è superiore al reddito medio della popolazione attiva, il che dimostra che la transizione al post-fordismo, da un regime di garanzia dell’impiego e delle pensioni ad uno caratterizzato dall’incertezza occupazionale e reddituale, è all’origine della formazione di un mercato del risparmio privato. La formazione di risparmio «precauzionale» è un fenomeno che riguarda però anche un numero crescente di persone in età

inferiore ai 45 anni. Dato che per gestire direttamente il proprio portafoglio occorre tempo, costanza e pazienza, ingredienti che, semmai, si ritrovano nella popolazione dei pensionati, alla riduzione progressiva dell’età dei risparmiatori dovrebbe in futuro corrispondere un aumento del ricorso ai Fondi nella loro qualità di intermediari professionali della gestione del risparmio altrui. 107. Nel corso della prima metà degli anni ’90, con forti oscillazioni da un mese all’altro, tra il 20 per cento e il 40 per cento del debito pubblico francese è stato detenuto da Fondi pensione e d’investimento stranieri, dai Fondi americani in particolare (cfr. F. Chesnais, «Demain les retraites à la merci des marches», in Le Monde diplomatique, aprile 1997, p. 14). 108. «... a causa del miglior rendimento delle azioni a lungo termine e dato che i Fondi pensione cercano precisamente investimenti a lungo termine, alcuni osservatori ritengono che esista una possibilità di elevare il tasso di rendimento di certi Fondi europei di pensione e di assicurazione sulla vita che detengono attualmente una forte proporzione di obbligazioni pubbliche, aumentando la parte delle azioni nei portafogli di tali Fondi» (enfasi aggiunta). Volume dei mercati dei valori mobiliari (azioni domestiche) (1966) Paesi

Capitalizzazione borsistica in % del PIL

Belgio 45,9 Danimarca 41,8 Germania 29,6 Grecia Spagna 42,3 Francia 38,9 Irlanda Italia Lussemburgo Paesi Bassi Austria Portogallo Finlandia Svezia Inghilterra Unione Europea USA

Giappone

49,7 21,7 193,4 97,8 14,3 23,7 50,7 97,2 149,9 32 68 65

Fonte: Fédération des Bourses de la CE, Commission européenne.

È poco probabile che l’offerta di obbligazioni aumenti nelle stesse proporzioni dello sviluppo degli attivi finanziari dei Fondi pensione. Gli altri strumenti d’investimento sono principalmente le azioni e le obbligazioni societarie. Questi valori mobiliari sono chiamati in futuro a svolgere un ruolo maggiore sui mercati europei dei capitali. Misurata in percentuale del PIL, la capitalizzazione del mercato americano è molto più importante di quella dei mercati dell’Unione (USA: 68%; UE: 32%) (vedi tabella più sopra) e i mercati dei capitali sono riusciti ad assorbire l’aumento progressivo degli attivi gestiti dai Fondi pensione, il che ha permesso di versare pensioni sufficienti» (Les retraites complémentaires, op. cit., pp. 19-23). 109. Sui limiti specifici e sempre più stringenti posti dal processo di globalizzazione sulle possibilità di prelievo fiscale a livello statale, si veda l’importante analisi di The Economist, «Disappearing Taxes. The tap runs dry. The forces of globalisation and new technology threaten to weaken the power of governments to tax their citizens. Can governments plug the leak?» (31 maggio 1997, pp. 17-19). Si osservi quanto M. Aglietta scrive nella Postfazione alla riedizione del suo Régulation et crises du capitalismi. «Quando si paragona la struttura della spesa di bilancio da una parte, quella della fiscalità dall’altra tra i paesi servendosi di statistiche dell’ocDE, emergono due caratteristiche. La Francia e la Germania danno un peso molto meno importante che non gli Stati Uniti e il Giappone all’investimento pubblico, relativamente più importante ai trasferimenti e alle spese di funzionamento. Soprattutto, questi due paesi europei hanno una fiscalità sul capitale estremamente bassa: 12 e 13% sul totale delle imposte contro quasi il 30% negli Stati Uniti e in Giappone. Più in generale, nell’insieme dei paesi anglosassoni, dove l’accettazione del capitalismo e il primato dei mercati sono diffusi in tutti gli strati della popolazione, la fiscalità sul capitale è molto più elevata in proporzione del totale delle imposte rispetto all’Europa continentale. A seconda dei paesi questa differenza è compensata da minori imposte sul consumo (Stati Uniti ma anche Giappone) o da minori imposte sui salari (Regno Unito e Australia)» (Le Capitalisme au tournant du siècle, La théorie de la régulation a l’épreuve de la crise, Postface alla riedizione dell’opera Régulation et crise du capitalisme, Odile Jacob, Paris 1997).

110. Cfr. E. Luce e S. Iskandar, «Life or death struggle. Europe’s largest derivatives exchange is preparing for a big fight against screen-based rivais», in Financial Times, 19 settembre 1997, p. 13. Cfr. «Everlasting LIFFE», in The Economist, 5 luglio 1997, pp. 79-80. 111. Cfr. «The changing face of the welfare state», in The Economist, 26 agosto 1995, pp. 23-24. Cfr. M. Ferrera, Le trappole del welfare. Uno stato sociale sostenibile per l’Europa del XXI secolo, il Mulino, Bologna, 1998. 112. Per una analisi comparata della genesi e dello sviluppo dello Stato sociale in Europa, vedi J. Alber, Dalla carità allo Stato sociale, il Mulino, Bologna, 1986. 113. Cfr. P. Rosanvallon, La nuova questione sociale. Ripensare lo Stato assistenziale, Edizioni Lavoro, Roma, 1997. 114. Ibid., p. 20. Cfr. «An earthquake in insurance», in The Economist, 28 febbraio 1998, pp. 79-81.

6. Critica della critica: appunti 115. Cfr. J. Habermas, Solidarietà tra estranei. Interventi su «Fatti e norme», a cura di L. Ceppa, Guerini e associati, Milano, 1997. 116. Ibid., p. 142. 117. Secondo Michel Aglietta, «In questo modo di regolazione l’esercizio della gouvemance delle imprese è decisivo. La crescita di un azionariato salariato, assumendo il controllo dei fondi pensione, potrebbe modificare l’arbitraggio tra gli interessi dei risparmiatori e quelli dei lavoratori. ... Invece di un rendimento massimo a breve termine, essi potrebbero esigere un tasso di redditività garantito a lungo termine, in cambio di una stabilità del controllo di proprietà» (Postface, op. cit., p. 47). Il che è lungi dall’essere evidente, dato che il modo di produzione e la dinamica della domanda globale impediscono di stabilizzare l’impiego salariato sul medio e lungo periodo. L’esercizio del controllo di proprietà da parte dei salariati all’interno dei Fondi pensione sembra più che altro destinato a trasformarsi in regolazione della propria de-salarizzazione. D’altronde, la de-mutualizzazione dei Fondi è già in atto ovunque.

118. Habermas, Solidarietà, op. cit., p. 144. 119. I dati della Securities Data Corp. sono stati ripresi da Leslie Wayne in un articolo apparso su International Herald Tribune, 20 gennaio 1998, pp. 11 e 13 («Merger Rush Roars On, Altering US»). Sulla ondata di fusioni, non solo negli Stati Uniti, cfr. anche Financial Times, 23 gennaio 1998, inserto «Global Investment Banking», p. II. 120. R. Hilferding, Das Finanzkapital, Marx-Studien, III, 1910. 121. Per la ricostruzione dettagliata e complessiva del dibattito sulla trasformazione, si rimanda al ponderoso lavoro di G. Jorland, Les paradoxes du capital, Odile Jacob, Paris, 1995. 122. L’analisi più pregnante della contraddizione nella teoria marxiana del valore è, a tutt’oggi, quella che Antonio Negri ha sviluppato nel suo Marx oltre Marx, Quaderni di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano, 1979. 123. C. Napoleoni, Sulla teoria della produzione come processo circolare, in F. Botta (a cura di), Il dibattito su Sraffa, De Donato, Bari, 1974, p. 58. 125. Allo scrivente, ad esempio, la linea politica de Le Monde diplomatique degli ultimi anni sembra riassumibile come sopra. 125. A partire dal famoso articolo «The Technology Paradox» (6 marzo 1995), la rivista americana Business Week è l’unica che sia riuscita a porre in termini nuovi il problema dell’inadeguatezza della misura della produttività. Dietro il sarcasmo de The Economist verso tutto ciò che allude al new paradigm della information economy, invece, si cela un notevole ritardo teorico. 126. Per una illustrazione della controversia sulla questione della produttività, cfr. The American Prospect, settembre-ottobre 1997, sul quale intervengono A. Blinder, B. Bluestone e B. Harrison, e J.K. Galbraith. Vedi anche « Assembling the new economy», in The Economist, 13 settembre 1997, pp. 77-83. Inoltre, di M. Castels, La Société en réseaux. L’ère de l’information, Fayard, Paris, 1998, pp. 95-117. Il rapporto «paradossale» tra investimenti in tecnologie informatiche e produttività del lavoro è chiaramente visibile nella figura 1.

Figura 1 Investimento e diminuzione della produttività. L’aumento degli investimenti in nuovi mezzi di produzione a partire dal 1974 si spiega tenendo conto della riduzione dei prezzi delle nuove tecnologie relativamente ai prezzi di beni e servizi non durevoli, come illustrato dalla figura 2.

Figura 2 Prezzo dei nuovi mezzi di produzione. 127. Cfr. MJ. Mandel, «Yes, they will - and here’s why», in Business Week, 1° dicembre 1997, p. 35.

128. Cfr. l’analisi molto acuta che Philippe Zarifian ha sviluppato a questo proposito nel suo Le travail et l’événement, l’Harmattan, Paris, 1995. Vedi anche R. Kanigel, The One Best Way. Frederick Winslow Taylor and the Enigma of Efficiency, Penguin Books, New York, 1997. 129. Si osservi che la sopravvivenza del paradigma della separazione nella scienza medica ufficiale, quando in tutti gli altri settori economici si cerca, bene o male, di ripensare le premesse epistemologiche, è ciò che rende il settore delle cure mediche l’unico ad avere tassi inflazionistici crescenti. Il continuo appello alla «verifica scientifica» per affermare la superiorità della medicina tradizionale nasconde, oltre all’evidente interesse pecuniario, un vuotò di riflessione critica al limite dell’irritazione. E ciò addirittura all’interno delle teorie e della prassi socialista. Vedi H.-G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1994. 130. Sempre di P. Zarifian, si veda Travail et communication. Essai sociologique sur le travail dans la grande entreprise industrielle, PUF, Paris, 1996. 131. «Due caratteristiche generali distinguono i knowledge workers dagli altri lavoratori: il possesso e l’impiego nei processi lavorativi di elevate competenze maturate in un percorso individuale di studio e di esperienze; la dominanza del workplace within, un posto di lavoro che sta dentro le persone, ossia un ruolo definito dai processi elaborativi interni alla persona, dalla qualità degli inputs forniti ai processi lavorativi e dalla giurisdizione acquisita in base al controllo effettivamente esercitato sui processi piuttosto che da job descriptions o da poteri formali assegnati dall’organizzazione» (F. Butera ed E. Donati, «Il lavoratore diventa una piccola impresa», in L’impresa, Rivista italiana di management, 8, 1996. 132. Cfr. S. Bologna e A. Fumagalli (a cura di), Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, FerltrinelliInterzone, Milano, 1997. 133. A. Gorz, Misères du présent, Richesse du possible, Galilée, Paris, 1997, pp. 81-91. 134. Ibid., p. 74. 135. «Le corps, la sexualité n’étant pas separables de la personne toute entière, leur vente est toujours une vente de soi» (p. 75). 136. Cfr. pp. 76-77.

137. «Ecco dunque il cuore del problema e il cuore del conflitto: si tratta di separare dal “lavoro” il diritto di avere diritti e in particolare il diritto a quel che è prodotto e producibile senza lavoro, e con sempre meno lavoro. Si tratta di prendere atto del fatto che né il diritto a un reddito, né la piena cittadinanza, né la realizzazione e l’identità di ciascuno possono più essere centrati sull’occupazione di un posto di lavoro, né dipendere da esso. E di cambiare la società di conseguenza» (p. 91). Questa è una prospettiva del tutto condivisibile, ma a differenza di Gorz noi crediamo che questa trasformazione sia politicamente agibile solo includendo anche i soggetti produttivi post-fordisti. 138. Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (Grundrisse), La Nuova Italia, Firenze, 1968, voi. 1, p. 338. 139. Ivi. 140. Ibid., p. 339. 141. Cfr. R. Sue, Temps et ordre social, PUF, Paris, 1994. 142. È interessante quanto Paul Krugman scrive, in diretta polemica con R. Reich e i suoi «analisti simbolici», a proposito dei knowledge workers e del futuro del lavoro: «Sembra possibile argomentare che, nel lungo periodo, la tecnologia tenderà a svalutare il lavoro dell’analista simbolico e favorire i talenti che sono comuni a tutti gli esseri umani... Tempo verrà in cui la maggior parte dei commercialisti sarà sostituita dal software di sistemi esperti, ma gli esseri umani sono ancora necessari – e ben pagati – per svolgere occupazioni veramente difficili come giardinaggio, pulizie domestiche, e le migliaia di altri servizi che riceveranno una quota sempre crescente della nostra spesa a mano a mano che i beni di consumo diventano meno cari» (op. cit., pp. 150-51). 143. Non si riesce a capire perché Gorz rimproveri a P. Virno o a M. Lazzarato di voler definire un nuovo soggetto politico sulla base del general intellect marxiano circoscritto all’élite dei knowledge workers. Siccome Gorz sa benissimo che non è questo l’intento di coloro che lavorano politicamente attorno al concetto di general intellect (di fatto, è esattamente il contrario, dato che il general intellect si riferisce all’agire comunicativo e relazionale come fenomeno di massa), sorge il dubbio che il rimprovero di Gorz sia, un modo contorto di evitare di porre il problema politico all’altezza della crisi del pensiero politico della Sinistra, di cui egli è un

rappresentante eterodosso. 144. Seppur notevolmente ridotto in seguito alle ristrutturazioni aziendali di questi anni, il lavoro esecutivo continua a concorrere alla produzione finale di beni e servizi. 145. La cosiddetta «annualizzazione dell’orario», sempre che la riduzione dell’orario settimanale sia coniugata con la liberazione di blocchi di tempo sufficientemente lunghi. 146. «Il linguaggio stesso – scrive Marx nei Grundrisse – è l’esserci medesimo della comunità – il suo modo naturale di esistere». E aggiunge: «Un individuo isolato non potrebbe possedere proprietà sulla terra più di quanto potrebbe parlare. Tutt’al più potrebbe consumarne la sostanza, come fanno gli animali». 147. Dire la differenza è un prerequisito per poterla affermare e agire dall’interno della cooperazione linguistica comandata dal capitale. Erodoto attribuiva la prima coniatura della moneta metallica ai re di Lidia verso la fine dell’ottavo secolo prima di Cristo. Nelle stesso periodo «tutte le figlie dei lidi esercitano la prostituzione, accumulando la dote, e fanno ciò finché si sposano, e concludono esse stesse il matrimonio». E ciò che si vuole realizzare che fa del rapporto col denaro e dell’attività lavorativa che lo sottende un rapporto che include e mantiene la differenza, che definisce il rapporto «nel» senso che gli si dà. Si fa per non fare, si fa per stare con chi si ama, il senso del non-fare definisce alla radice ciò che si fa. Servile è ogni attività che impedisce di realizzare il proprio progetto di vita. Dunque servile è anche il lavoro salariato se esso rende impossibile liberarsi dal lavoro per costruire, con un’altra attività, ciò che si desidera, per dare un altro senso alla propria vita. Cfr. M. Cacciari, Dell’inizio, Adelphi, Milano, 1990, («Le forme del fare», pp. 359-433). 148. Cfr. I. Vantaggiato, «Quel che resta del tempo», in A. Buttarelli, G. Longobardi, L. Muraro, W. Tommasi e I. Vantaggiato, La rivoluzione inattesa. Donne al mercato del lavoro, Nuova Pratiche Editrice, Milano, 1997, p. 50. 149. «La rivendicazione del carattere sessuato dell’esperienza temporale non sposta automaticamente tale esperienza all’interno di un ordine simbolico femminile: non la rappresenta, cioè, “a partire da sé” ma rischia di riprodurre categorie temporali maschili» (ibid., p. 57).

150. «Sottosopra», E accaduto non per caso, Libreria delle donne di Milano, gennaio 1996. 151. I. Vantaggiato, op. cit., p. 42. 152. «Riconoscendo, accanto al tempo come misura, l’esistenza, la pensabilità e la rappresentabilità di un altro tempo la cui irruzione alla “corte del re” è irruzione di senso e di desiderio cui attingere per non assecondarne un ritmo già battuto dal re» (ibid., p. 60). 153. M. Revelli, La sinistra sociale. Oltre la civiltà del lavoro, Bollati Boringhieri, Torino, 1997, p. 41. 154. Cfr. P. Lévy, Il virtuale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997, pp. 47-48. A questo proposito si veda, di C. Goldfinger, L’Utile et le Eutile. L’économie de l’immatériel, Odile Jacob, Paris, 1994, al quale Lévy ha attinto, pur non condividendone il concetto di «immaterialità», «che mi sembra derivare da una metafisica inadeguata alla comprensione delle evoluzioni in atto». 155. Cfr. W. Brian Arthur, «Increasing Returns and the New World of Business», in Harvard Business Review, luglio-agosto 1996, pp. 100 e sgg. 156. Si veda l’utile rassegna delle più recenti teorie della crescita endogena di D. Guellec e P. Ralle, Les nouvelles théories de la croissance, La Découverte, Paris, 1995. 157. «Il punto di partenza della crescita endogena consiste nel porre l’ipotesi che la produttività marginale del capitale non si annulla quando lo stock di capitale diventa grande. Una delle proprietà fondamentali della funzione di produzione neo-classica è dunque rimessa in discussione». In seguito: «Le teorie della crescita endogena si accordano con la maggior parte delle teorie anteriori nell’attribuire al progresso tecnico un ruolo motore nella crescita. Esse vanno tuttavia più lontane delle precedenti su due punti: integrano il progresso tecnico come risultante di un’attività economica remunerata, e il cui livello sia dunque endogeno; e modellizzano in modo più ricco le forme della tecnica e la loro evoluzione... E la natura di bene in parte pubblico del sapere che ne fa un motore della crescita...» (D. Guellec e P. Ralle, op. cit., pp. 42 e 63). Il modello di Paul Romer sintetizza questi progressi della teoria della crescita rispetto all’impostazione neo-classica originaria. Si veda P. Romer, «Increasing Returns and Long Run Growth», in Journal of Politicai Economy, XCIV, 1986, pp. 1002-1037;

«Endogenous Technical Change», Journalof Political Economy, XCVIII, n° 5, 1990, pp. S71-S102. Vedi anche Patrice Flichy, L’innovazione tecnologia. Le teorie dell’innovazione di fronte alla rivoluzione digitale, Feltrinelli-Interzona, Milano, 1996. 158. Cfr. M. Aglietta, Macroéconomie financière, La Découverte, Paris, 1995. E attorno al problema del finanziamento della crescita a mezzo di innovazione che Aglietta costruisce alcune tesi di macroeconomia finanziaria. 159. Cfr. G. Baker, «The storm that blew around the world... but quickly blew over», in Financial Times, 16 ottobre 1997, p. 11, e R. Chote, «Would a crash matter?», in Financial Times, 18 ottobre 1997, p. 6. 160. La necessità di analizzare meno astrattamente il comportamento finanziario del nuovo ceto medio americano è confermata dall’aumento del numero di fallimenti personali registrati dalla Visa Corporation. Dal 1987 al 1997, i fallimenti dovuti a sovraindebitamento verso gli istituti di credito sono cresciuti fino a raggiungere 1,34 milioni di casi. Tra il 1996 e il ’97 l’aumento dei casi è stato del 19 per cento, ma la somma dei debiti non pagati è cresciuta ancora di più, da 30 a 40 miliardi di dollari. Si tratta di un record storico assoluto, incluso il periodo della grande depressione degli anni ’30. E questo è accaduto nel periodo di maggior crescita economica e di continua creazione di posti di lavoro. E certamente vero che negli Stati Uniti le procedure fallimentari sono legalmente più semplici che altrove, per cui dichiarare bancarotta è un esercizio abbastanza diffuso. Ma non c’è dubbio che un simile aumento rende meno utilizzabile la teoria dell’effetto ricchezza, dato che, in teoria, nel medesimo periodo si sarebbe dovuto constatare una riduzione del numero di fallimenti, non un aumento di tali proporzioni. In periodi di disinflazione, infatti, il servizio sui debiti aumenta in termini reali, per cui non appena si può si cerca di ripagare i debiti contratti. Se l’aumento dell’indebitamento supera l’aumento della ricchezza attesa, ciò è dovuto alla necessità di indebitarsi presso gli istituti bancari per svolgere la propria attività e all’impossibilità di costituire un risparmio per ridurre il debito contratto. In periodo di disinflazione, basta un ritardo nel pagamento delle fatture da parte di un committente per mettere alle corde chi si è indebitato. 161. S. Sassen, Le città nell’economia globale, il Mulino, Bologna, 1997. Per un approccio filosofico-antropologico alla questione dei «luoghi-mondo», cfr. E. S. Casey, Getting Back info Place. Toward a

Renewed Understanding of the Place-World, Indiana University Press, Indianapolis, 1993. 162. Cfr. S. Sassen, op. cit., pp. 9-10. 163. Ibid., pp. 13-14. 164. Ibid., pp. 14-15. 165. La globalizzazione dell’economia, Editori Riuniti, Roma, 1997. Per dati utili sui processi di globalizzazione a livello di Stati-nazione, settori industriali e imprese, vedi i 10 inserti che il Financial Times ha pubblicato settimanalmente a partire dal 30 gennaio 1998 «Mastering Global Business». 166. Cfr. S. Sassen, op. cit., p. 85. 167. E il limite (sia classico sia neo-classico) che a tratti appare anche nel pur eccellente lavoro di M. Aglietta. Si legga, ad esempio, quanto segue: «Il risparmio investito nei trasferimenti di proprietà sugli attivi esistenti è improduttivo; il risparmio investito nel finanziamento degli investimenti delle imprese è produttivo. La finanza non è dunque neutra, nemmeno a lungo termine, perché essa influenza l’allocazione del risparmio tra questi due tipi d’impiego. In crescita endogena, lo spostamento del risparmio verso gli investimenti improduttivi influisce negativamente sul tasso di crescita. I plusvalori sperati sui trasferimenti di proprietà scoraggiano le scommesse imprenditoriali sulla innovazione e forzano i tassi d’interesse reali a portarsi al livello che rende il rendimento sui crediti competitivi con quello degli attivi speculativi» (Aglietta, op. cit., p. 16). Aglietta allude qui al rapporto tra risparmio e investimento in una economia chiusa o nel mondo intero, in cui «è certo dal punto di vista contabile che il risparmio di un periodo è uguale all’investimento che si effettua nello stesso periodo» (p. 37). Di conseguenza, in perfetto spirito keynesiano e schumpeteriano, per il finanziamento dei progetti di investimento che si realizzeranno nel lungo periodo, siccome i risparmi attuali non sono sufficienti, «le banche sono indispensabili per sostenere i piani di finanziamento perché sono le sole a poter strappare la scommessa sul futuro alla costrizione del risparmio disponibile... E il potere di creazione monetaria che pone le banche in questa posizione» (p. 38). Questo approccio teorico vale in un contesto di crescita fordista, in cui gli investimenti di lungo periodo generano quel risparmio che la normale routine degli affari non riesce a creare. Non vale però in regime di crescita post-fordista, in cui la formazione del risparmio è

fortemente condizionata dall’incertezza del futuro (quando non semplicemente dai bassi salari e dalla loro instabilità): In questo caso il risparmio attuale viene investito attraverso i mercati finanziari, ciò che accorcia l’orizzonte temporale delle banche costringendole a definire le strategie di investimento a partire dal rendimento a breve dei titoli. E il modo di produzione post-fordista che ha messo in crisi la relazione keynesiana tra risparmi e investimenti, tra mercati finanziari e sistema bancario. 168. J. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Sansoni, Firenze, 1971, p. 116. Per una ricostruzione del pensiero di Schumpeter cfr. N. De Vecchi, Schumpeter viennese. Imprenditori, istituzioni e riproduzione del capitale, Bollati Boringhieri, Torino, 1993. 169. Cfr. J. Schumpeter, op. cit., pp. 118-19. 170. Ibid., pp. 120-21. 171. Cos’altro significa che «trasmettendo una informazione non la si perde, né facendone uso la si distrugge» (P. Lévy) se non che le informazioni sono «fattori di produzione» che rimangono nella società in quanto essa è costituita da individui socialmente determinati? L’appropriazione privata delle informazioni presuppone la natura sociale, cioè linguistico-comunicativa, della facoltà di produrle. E d’altronde questo il risultato più importante degli studi di Ferruccio Rossi-Landi. Paolo Virno è riuscito ad andare oltre il capovolgimento delle premesse «schumpeteriane»: «Bisogna precisare una volta di più che il passato-in-generale non è una determinazione cronologica. L’esperienza della facoltà non precede nel tempo l’esperienza delle performances che la realizzano; della lingua non ci si avvede, se non in relazione ad un concreto proferimento (essa balena come altroquando o “de tout temps” solo nel preciso istante in cui si enuncia qualcosa). Si potrebbe dire: il passato-in-generale è un prima contemporaneo al suo “"poi”. Salvo aggiungere: il fatto stesso che i simultanei si diano a vedere come “prima” e “poi” è il segno inequivocabile della differenza radicale (...) sussistente tra loro». (Dal dattiloscritto II ricordo del presente. Saggio sul tempo storico, di prossima pubblicazione). 172. Cfr. D. Guellec e P. Ralle, op. cit., pp. 69-72. 173. Cfr. J. C. Edmunds, «Securities», in Foreign Policy, op. cit., pp. 120-22.

174. J.-P. Fitoussi, Il dibattito proibito, il Mulino, Bologna, 1997. Sul libro di Fitoussi, vedi gli articoli di Michele Salvati, Giorgio Lunghini, Augusto Graziani apparsi sul manifesto, rispettivamente il 2, 10, 13 settembre 1997. 175. Cfr. J.-P. Fitoussi, p. 63. 176. Ibid., p. 64. 177. È quanto ho illustrato nel mio saggio «Il lavoro autonomo nella cooperazione comunicativa», in S. Bologna e A. Fumagalli, op. cit. 178. L’importanza economica del financial engeneering, delle attività di tesoreria delle imprese, è stata confermata da uno studio della Wharton School della University of Pennsylvania, pubblicato nel 1997. Di tutte le ristrutturazioni effettuate negli ultimi quindici anni, il financial engeneering è quello che ha assicurato risultati economici maggiori. In questi anni le imprese sono state attraversate da tre tipi di ristrutturazione: la ristrutturazione organizzativa con riduzione di personale (downsizing), ricorso all’outsourcing e applicazione delle tecniche del just in time; la ristrutturazione del portafoglio delle imprese, con i cambiamenti della struttura di proprietà degli attivi a mezzo di disinvestimenti, vendita degli attivi e spin-offs (creazione di imprese esterne alla casa-madre a partire dal know-how accumulato all’interno); infine, la ristrutturazione finanziaria, il financial engeneering, i cambiamenti nella composizione del capitale con operazioni di «leveraged buy-outs» e di «debt-equity swaps», che sono le tipiche attività con le quali si acquistano e si vendono società, finanziando queste operazioni con opzioni basate sui flussi di cassa futuri o su una parte dell’attivo delle società acquistate. Di queste tre ristrutturazioni, il financial engeneering è quella che di gran lunga ha permesso di realizzare aumenti di profitti. La ristrutturazione organizzativa, il downsizing, si è rivelata negativa sotto il profilo dell’aumento dei profitti per ragioni che sono state più volte messe in evidenza negli ultimi anni. La riduzione brutale del personale, il ricorso al subappalto, la flessibilizzazione delle condizioni lavorative e contrattuali, sono tutti processi che, se hanno fatto aumentare nel breve periodò le quotazioni delle imprese così ristrutturatesi, non hanno però assicurato livelli di produttività sufficientemente elevati nel medio periodo a causa della perdita di coesione e di motivazione del personale, di perdita di sapere e di competenze come effetto dell’esternalizzazione. Le ristrutturazioni finanziarie e il loro impatto sulla crescita della

ricchezza sembrano quindi più importanti degli aumenti di produttività che si sono avuti in questi anni in conseguenza della riduzione drastica del personale, dell’aumento degli orari e dell’esternalizzazione dei costi sociali con la creazione di un bacino di lavoratori autonomi eterodiretti. Il vero superamento del taylorismo, si potrebbe dire, non si ha ancora quando le imprese si sono riorganizzate con il downsizing e l’outsourcing, bensì quando a queste ristrutturazioni fa seguito il riconoscimento effettivo dei nuovi soggetti della valorizzazione. Gli aumenti di produttività non sono cioè circoscrivibili alla sola produttività neo-taylorista, per quanto lo sfruttamento dei lavoratori autonomi e dell’esercito dei precari abbia permesso di ridurre una parte importante dei costi salariali e di sfruttare la cooperazione informale di chi è costretto a lavorare un numero di ore senza alcun rapporto con l’orario contrattuale dei lavoratori dipendenti. Paradigmatico è l’esempio della Corea del Sud, in cui l’introduzione di orari flessibili che consentono un massimo di dodici ore giornaliere di lavoro e 56 alla settimana senza premi per gli straordinari non ha impedito al tasso di crescita nel 1996 di calare al 7 per cento dal 9 per cento dell’anno precedente. 179. Citato in S. Davies, «In search of a virtuous circle», in Financial Times, 26 gennaio 1998, p. 20. 180. Op. cit. p. 151. 181. «Il pericolo deflazionistico è accresciuto da un fatto spesso dimenticato ma estremamente importante, e cioè che i tassi di interesse non possono essere negativi, e per una ragione molto semplice: la valuta (banconote e monete) non paga interesse, e il suo valore nominale è fisso, ed è per questo che il denaro si svaluta quando c’è inflazione e acquista valore reale quando i prezzi calano. Di conseguenza, se gli istituti di credito, spronati dalle banche centrali, tentassero di imporre tassi di interesse negativi sui depositi bancari, la gente si affretterebbe a ritirare i propri risparmi accumulando invece contanti, per evitare di pagare interessi negativi (e siccome questo rischierebbe di provocare il crollo delle banche, le autorità monetarie dovrebbero accrescere l’emissione di banconote per soddisfare la maggiore domanda). La impossibilità pratica che si diano tassi di interesse negativi è profondamente radicata nella natura stessa del denaro. Si tratta di un problema di economie monetarie» (R. Bootle, op. cit., p. 26). Non è privo d’interesse il fatto che in Giappone, dopo la crisi asiatica e il fallimento di alcune delle principali banche giapponesi, l’acquisto di casseforti (prodotte, oltretutto, in Thailandia, quindi importate in Giappone a prezzi

stracciati) sia aumentato del 50 per cento. Oltre all’aumento dei furti verificatosi dopo il terremoto Kobe del ’95, i bassissimi tassi di interesse rendono più conveniente la detenzione in cassaforte (e non più, come in passato, sotto i futon) del denaro contante. Si tratta di un aspetto della disinflazione non previsto dalle più aggiornate teorie monetarie. 182. E un errore dire che lo Stato «stampa denaro» per finanziare i propri deficit. Il denaro è creato attraverso le operazioni di debito/credito che si svolgono all’interno del mercato. Per finanziare la spesa pubblica deficitaria, lo Stato ricorre a istituti finanziari privati che, acquistando i certificati di debito pubblico (liabilities), li «utilizzano» per creare depositi (cioè per concedere crediti ai propri clienti). La banca centrale non crea credito (non presta) direttamente ai dipartimenti dello Stato o a agenzie economiche private (se non in casi eccezionali, e comunque per brevi periodi di tempo). La Banca centrale agisce da intermediario tra i dipartimenti dello Stato e gli istituti finanziari privati che formano il «mercato». Questi ultimi «controllano» l’indebitamento dello Stato attraverso i termini e le condizioni da loro posti al momento dell’acquisto dei certificati di debito statali. Non è dunque, a rigore, lo Stato che fissa i tassi di interesse, ma il «mercato». 183. Cfr. G. Thompson, «Monetarism and economie ideology», in Economy and Society, X, n° 1, febbraio 1981, pp. 54-55. Tra il 1979 e il 1982, la svolta monetarista anglosassone per porre fine alla spirale inflazionistica, vista come l’effetto di una spesa pubblica eccessiva, portò alla separazione netta tra le attività delle banche centrali e quelle dei governi statunitense e inglese. Dal punto di vista monetario la strategia si rivelò un fallimento totale, perché il tentativo, ad esempio inglese, di controllare rigidamente un aggregato monetario (la M3) portò ad una instabilità ancora più elevata dell’insieme degli aggregati monetari e alla rivalutazione della sterlina. Con l’imposizione di alti tassi di sconto in concomitanza con un tasso di cambio elevato, le autorità monetarie inglesi riuscirono a produrre una recessione di vecchio tipo. Fu questa recessione a ridurre l’inflazione, mentre la crescita monetaria continuava a ritmo intenso (cfr. Bootle, op. cit., pp. 217-18). Sul piano internazionale, la politica monetarista della Fed portò diritti alla crisi messicana del 1982, quando il governo dichiarò la sua incapacità di continuare a servire il debito del paese verso l’estero. Dalla metà degli anni ’80 la capacità di regolare la politica monetaria sulla base di obiettivi di crescita degli aggregati monetari non ha dato prova di efficacia,

tant’è vero che Mi, M2 e M3 si muovono in modo erratico e senza alcuna relazione significativa con gli obiettivi prefissati dalle banche centrali. 184. Per quanto riguarda la gestione dei rischi su scala locale con l’uso di prodotti derivati non è affatto escluso che tra non molto l’accesso sia per così dire «democratizzato»: «Dalla sua creazione il mercato dei prodotti derivati ha conosciuto grandi evoluzioni, in particolare per quel che riguarda l’accesso ai prodotti. In effetti, ancora pochi anni fa, soltanto gli attori maggiori potevano intervenire su tali mercati, e in particolare sui mercati a trattativa privata riservati a una élite finanziaria. Questi prodotti sono ora proposti a imprese di medie dimensioni o a piccole entità come le collettività locali dal bilancio modesto. Beninteso, i montanti teorici delle operazioni effettuate sono meno elevati. Questo fenomeno è stato reso possibile dai progressi notevoli effettuati nel campo del trattamento delle informazioni: regolamenti amministrativi, scritture contabili, calcoli finanziari complessi. Poiché il costo fisso di questi trattamenti è diminuito, è ora possibile trattare-operazioni di dimensioni inferiori senza penalizzare il prezzo complessivo del prodotto. Non è impossibile che tali prodotti siano proposti al grande pubblico tra qualche anno. Verosimilmente bisognerà semplificarne il funzionameno, anche se i grandi princìpi di copertura dei rischi mediante swaps od opzioni resteranno identici. Questa democratizzazione è già iniziata in Gran Bretagna, dove i privati possono contrarre prestiti a tasso variabile presso la loro banca e poi sottoscrivere indipendentemente swaps o da caps» (Les produits derives, op. cit., pp. 142-43). 185. Cfr. i progetti di «economia parallela» analizzati da C. Offe e R.G. Heinze nel loro Economia senza mercato (Editori Riuniti, Roma, 1997). Affinché questi progetti riescano a sviluppare appieno la loro carica innovativa è necessario che escano dalla dimensione pauperistica che il più delle volte li caratterizza. Ciò significa porre la questione politica della rappresentanza dei soggetti coinvolti in questi esperimenti, ad esempio ponendoli in diretto contatto con i lavoratori autonomi e i loro tentativi di gestire in proprio i rischi sociali e l’offerta di servizi necessari alla loro attività. La questione dell’organizzazione monetaria, per quanto posta in termini affascinanti, non può comunque essere risolta «parallelamente», ma deve esplorare formule combinatorie dall’interno delle dinamiche finanziarie odierne. Il rischio di «contagio» ideologico dell’economia di mercato non è implicito nel denaro in quanto tale, ma nel non

poter realizzare i progetti di attività e di vita che si ritengono adeguati ai propri desideri. 186. Secondo M. Aglietta, la trasformazione dei sistemi finanziari non porta alla scomparsa delle-banche, bensì «al possibile allargamento della funzione bancaria a istituzioni finanziarie che ne erano separate... Più probabilmente gli investitori istituzionali, grandi raccoglitori del risparmio contrattuale, sono chiamati ad avere una maggiore influenza in gruppi finanziari rimodellati». Aglietta vede nell’alleanza tra banche e compagnie d’assicurazione un modello finanziario nell’Europa del mercato unico dei servizi finanziari. «In effetti, è l’alleanza del risparmio a lungo termine con la stima delle capacità espansive delle imprese» (op. cit., pp. 50 e 51). L’ipotesi di Aglietta è discutibile, perché dipende anche da un processo di cui non tiene conto nella sua analisi, e cioè l’intensità delle ristrutturazioni delle imprese europee e la tendenza all’esternalizzazione. Non si può ancora dire con certezza se in Europa il capitale-rischio, diversamente dai paesi anglosassoni, resterà prevalentemente nelle mani degli istituti bancari (ciò che effettivamente aprirebbe il campo alle fusioni tra fondi pensione e banche sul modello della bancassurance), o se invece l’aumento del lavoro autonomo porterà a modalità di finanziamento della crescita innovativa senza passare dalle banche, o direttamente sui mercati dei capitali, oppure attraverso istituzioni finanziarie create ex novo. In ogni caso, anche un sistema congiunto banche-assicurazioni «paneuropeo» dovrebbe attenersi ai tassi di rendimento dei mercati azionari, ciò che inevitabilmente modifica il ruolo tradizionale delle banche nei confronti delle imprese. 187. E di Nicholas Kaldor la definizione di «speculazione» come acquisto e rivendita, a date successive, di attività reali (merci, immobili) o finanziarie (obbligazioni, azioni, valute) allo scopo di ricavare un profitto. Affinché lo speculatore possa guadagnare, è necessario che il prezzo di vendita al momento del realizzo superi il prezzo di acquisto aumentato dei costi connessi al trascorrere del tempo (manutenzione, custodia, deterioramento, ecc.). «Speculare, significa dunque anticipare in condizioni in cui le variabili che partecipano alla formazione del prezzo sono incerte. E un’attività orientata verso la percezione del futuro» (Aglietta, op. cit., p. 23). In una economia in cui quasi tutte le variabili sono incerte è quindi necessario distinguere tra normali attività speculative e «gioco d’azzardo», o «speculazione irresponsabile». 188. Cfr. P. Bernstein, op. cit., pp. 323-25.

189. Non bisogna comunque trascurare il movimento ludico che si manifesta in attività «senza sostrato» visibile come quelle legate ai prodotti derivati. Spesso si constata un primato del gioco rispetto alla coscienza del giocatore, così che si può dire che, facilmente, chi lavora con i prodotti derivati rischia di diventare un «giocatore giocato». Come ha scritto il filosofo Gadamer, «Il fascino del gioco, l’attrazione che esso esercita, consiste appunto nel fatto che il gioco diventa signore del giocatore... L’autentico soggetto del gioco - come è particolarmente evidente dai giochi in cui il giocatore è uno solo non è il giocatore, ma il gioco stesso. E il gioco che ha in sua balìa il giocatore, lo irretisce nel gioco, lo fa stare al gioco» (H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 1983, pp. 137 e sgg.). 190. Per una descrizione sintetica del fallimento della banca Barings, cfr. Les produits dérivés, op. cit., pp. 117-18. 191. Cfr. The Economist del 31 gennaio 1998. Oltre alla ricostruzione dei fatti, The Economist ha dedicato all’ u BS un editoriale in cui si insinua che la fusione con la più piccola SBS sia stata decisa ad arte non tanto per evitare la bancarotta (per un istituto che detiene 15 miliardi di dollari di capitale proprio il buco «stimato» di 1 miliardo di franchi non basta a farlo fallire), ma per contenere i danni. Secondo il settimanale inglese è legittimo chiedersi se in realtà non sia stata la SBS ad acquistare l’UBS, dato che al momento degli accordi il buco era ufficialmente stimato a soli 500 milioni di franchi.

7. La razionalità della moltitudine 192. Cfr. «How to Fix Social Security?», in Business Week, 20 gennaio 1997, pp. 26-28. Si noti che in Svizzera l’Assicurazione Vecchiaia Superstiti (AVS), che funziona sul principio della ripartizione, investe già il 15 per cento circa delle sue riserve sui mercati borsistici. Nel rapporto dell’Advisory Council si propone di investire il 40 per cento delle riserve della social security. 193. J. Meade, Agathotopia. Istruzioni per l’uso imprenditoriale della ricchezza pubblica, del lavoro e della proprietà privata, Feltrinelli, Milano, 1989. 194. Cfr. R. Kuttner, «Broaden the wealth: an idea even conservatives

love», in Business Week, 22 settembre 1997, p. 10. La traduzione apologetica del «keynesismo di mercato» la si ritrova, ad esempio, in J. D. Davidson e Lord W. Rees-Mogg, Sovereign Individual. How to Survive and Thrive During the Collapse of the Welfare State, Simon & Schuster, New York, 1997. 195. Per il momento sembra che la preoccupazione maggiore dell’amministrazione clintoniana sia quella di assicurare la solvibilità della social security entro la metà del prossimo secolo. Per coprire un disavanzo del sistema pensionistico stimato a 9 o 10 mila miliardi di dollari entro il 2050, le rendite pensionistiche saranno diminuite del 25-30 per cento e i surplus annuali del budget federale, che si prevede dureranno fino al 2010 o 2012, saranno sistematicamente accantonati. Ciò non fa che rafforzare la tendenza verso sistemi di pensionamento «defined contribution» (in base ai quali datori di lavoro e impiegati investono in un fondo da gestirsi in proprio con investimenti in titoli borsistici) piuttosto che verso sistemi «guaranteed contribution» (in cui i datori di lavoro assicurano una determinata rendita agli impiegati). 196. Negli Stati Uniti il totale delle azioni detenute (direttamente o indirettamente) dalle economie domestiche (e.d.) americane era, nel 1995, ripartito nel modo seguente: 55 per cento da e.d. con redditi pari o superiori a 100 mila dollari; 27 per cento da e.d. con redditi tra 50 e 100 mila dollari; 13 per cento da e.d. con redditi tra 25 e 50 mila dollari; 4 per cento da e.d. con redditi tra 15 e 25 mila dollari; 1 per cento da e.d. con redditi pari o inferiori a 25 mila dollari. L’iniqua distribuzione dei redditi borsistici (capital gains) si deduce dal fatto che la classe più ricca di detentori di azioni rappresenta solo il 6 per cento delle economie domestiche americane, la seconda il 20 per cento, la terza il 31 per cento, la quarta il 19 per cento, la quinta il 24 per cento. E comunque importante sottolineare che, dopo un periodo di continuo aumento della disuguaglianza (iniziato nel 1973), a partire dal ’96 la tendenza è verso una riduzione del tasso di disuguaglianza in conseguenza dell’aumento del reddito medio della classe media (cfr. «Sharing Prosperity», in Business Week, 1° settembre 1997, pp. 34 e sgg.). 197. Sulle difficoltà di definizione di un modello di finanziamento del settore nonprofit, cfr. J. G. Dees, «Enterprising Nonprofits», in Harvard Business Review, gennaio-febbraio, 1998, pp. 54 e sgg.

198. Cfr. T. P. Pare, «Yes, You Can Beat the Market», in Fortune, 3 aprile 1995, pp. 68 e sgg. 199. La conseguenza di una strategia prudenziale da parte dei Fondi è che, se dal 1995 alla fine del ’97 i titoli azionari misurati dallo Standard & Poor’s 500-Stock Index hanno registrato un aumento annuo di 31,2 per cento (aumento che supera quello record del periodo tra il 1926 e il 1928), nello stesso periodo il rendimento medio dei Fondi di investimento americani non ha superato il 25 per cento. Solo il 6 per cento dei 1573 fondi azionari è stato superiore al rendimento delle azioni della S&P. L’incidenza dei costi amministrativi (tra i e 2 punti percentuali) da sola non spiega un rendimento dei Fondi tanto inferiore a quello medio delle azioni. Sembra invece che la gestione di fondi eccessivamente grandi come quelli americani renda difficile una gestione più dinamica dei risparmi. Per i gestori di fondi di grandi dimensione risulta quindi più difficile, se non impossibile, «battere il mercato». 200. Cfr. M. Kurz, «Rational Preferences and Rational Beliefs», in The Rational Foundations of Economie Behaviour, Proceedings of the IEA Conference held in Turin, Italy, International Economie Association, MacMillan, London, 1996. 201. Ibid., p. 353. 202. Op. cit., p. 46. 203. F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano, 1984, p. 59. 204. Nel suo libro The Economy of Literature (Johns Hopkins University Press, London, 1978), Marc Shell sviluppa sulla base di queste premesse la sua teoria sul «pensare monetario». Vedi anche, sempre di M. Shell, Moneta, linguaggio e pensiero, il Mulino, Bologna, 1988. 205. Sull’uso della genealogia della morale nietzscheana per «psichiatrizzare il sociale», riferito alle lotte nel settore pubblico francese, si veda l’articolo molto bello di M. Lazzarato, «Francia: lotta di classe nel post-fordismo», in Derive Approdi, IV, nn. 9-10, febbraio 1996. 206. Ibid., p. 51. 207. Ibid., p. 58. 208. Ivi.

209. Ibid., p. 52. 210. E ben vero che, come sostengono i teorici del dono, sin dalla nascita noi contraiamo un debito nei confronti della madre, un debito che non si può pagare, ma solo riconoscere. Nel dono non c’è gratuità perché non c’è simmetria o equivalenza: si tratta di uno scambio in cui chi dona chiede all’altro di rimanere nella relazione. Sotto questo profilo, il denaro è «pegno di vita», remunerazione senza appropriazione, è il «prezzo della fidanzata» (bridewealth) che conserva la libertà di tornare nella sua famiglia d’origine (cfr. P. Rospabé, La dette de vie. Aux origines de la monnaie, La Découverte, MAUSS, Paris, 1995). Ma, appunto, rimanere nella relazione significa uscire dall’individualità, significa rovesciare il senso di colpa vissuto individualmente nell’«arte di non essere governati» (Foucault). 211. Nietzsche, op. cit., p. 45. Keynes in un suo articolo sulla questione della «National Self-Sufficiency» (Yale Review, 1934), auspicava un certo ritiro dal commercio internazionale affinché la vita resa possibile dalla scienza fosse piacevole e degna di essere vissuta. Per essere noi stessi i «nostri padroni» e «compiere quindi i nostri esperimenti verso l’ideale repubblica sociale del futuro», Keynes voleva minimizzare il groviglio economico tra le nazioni. A tal fine era preferibile che «le merci fossero fatte all’interno ogni qual volta fosse ragionevolmente e commercialmente possibile e, soprattutto che la finanza fosse essenzialmente nazionale». Sappiamo che, per imporsi su scala mondiale, il keynesismo dovette attendere la seconda guerra mondiale. C’è da chiedersi se, oggi, qualcosa di simile non sia «necessario» per realizzare i più elevati sogni di Keynes. 212. Cfr. P. Zarifian, Eloge de la civilité. Critique du citoyen moderne, l’Harmattan, Paris, 1997. Si veda anche, di A. Lipietz, La società en sablier. Le partage du travail contre la déchirure sociale, La Découverte, Paris, 1996. Cfr. «Ceci n’est pas un journal, c’est une Occupation», il manifesto, febbraio 1998.