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Viaggio nella storia
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LAWRENCE STONE

VIAGGIO NELLA STORIA EDITORI LATERZA

Uno storico tra i più prestigiosi del nostro tempo mette sotto accusa gli eccessi, le unilateralità e, talvolta, le angustie di quella che si è soliti definire « nuova storia ». Gli sto¬ rici devono « ritornare al racconto » — dice Stone —, ritrovare quel gu¬ sto e quell’attenzione ai « grandi problemi » che spesso, negli ultimi anni, i loro libri hanno smarrito. Conformemente a questi criteri, le pagine del libro gettano nuova e chiara luce sulla storia di quattro secoli che hanno trasformato l’Eu¬ ropa in una società razionalista, democratica, individualistica e in¬ dustrializzata. L’analisi di aspetti essenziali della nascita del mondo moderno, — il puritanesimo e la Riforma, la fondazione dello Stato, il problema della devianza sociale e psichica, la rappresentazione della vecchiaia e della morte, la fisionomia della famiglia — viene condotta in un serrato confronto con i maggiori autori contemporanei; da TrevorRoper ad Ariès, da Thompson a Hobsbawm, da Christopher Hill a Le Roy Ladurie. Un viaggio nella storia per arrivare a capire meglio la società in cui viviamo.

In sovracoperta: A. L. Egg, Le compagne di viaggio

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Titolo dell’edizione originale

The past and thè present Routledge & Kegan Paul, Boston, London and Henley 1981 © 1981 Lawrence Stone Traduzione di Enrico Basaglia

Lawrence Stone

VIAGGIO NELLA STORIA

Editori Laterza

1987

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel gennaio 1987 nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza &; Figli, Bari CL 20-2834-4 ISBN 88-420-2834-7

A Sir Kobert Bìrley, John Prestioich e R. H. Tawney, i primi a farmi capire che cosa sia davvero la storia.

INTRODUZIONE

I saggi raccolti in questo volume sono di due tipi. I primi sono panoramiche in cui mi provo a descrivere e commentare alcune delle modifiche più radicali nei quesiti che gli storici sono soliti rivolgere al passato, nonché alcuni dei nuovi dati, degli stru¬ menti e delle metodologie impiegati per trovare le risposte. Mi ritengo particolarmente fortunato di aver potuto assistere, e in una certa misura partecipare, a una così eccitante trasformazione della mia professione. Se, come appare probabile, nel corso dei prossimi quindici anni Taifiusso delle nuove reclute nei ranghi dell’accademia risulterà gravemente limitato dalla rnancanza di posti di lavoro, si arriverà forse alla stagnazione intellettuale, poiché è dai giovani che vengono le spinte innovatrici. Se così accadrà, gli ultimi venticinque anni finiranno per essere conside¬ rati come una sorta di fase eroica nell’evoluzione della compren¬ sione storica, compressa tra due periodi di pacifico consolida¬ mento delle conoscenze acquisite. II secondo gruppo di saggi è costituito da meditate recensioni di alcuni libri che, in un modo o nell’altro, trattano tutte il mede¬ simo tema. È lo stesso problema che tormentò sia Marx che Weber: come e perché l’Europa occidentale cambiò tanto nel corso dei secoli XVI, XVII e XVIII da poter porre le fondamenta sociali, economiche, scientifiche, politiche, ideologiche ed etiche della società razionalista, scientifica, democratica, indivi¬ dualista, tecnologica e industrializzata in cui oggi viviamo. L’In¬ ghilterra è stato il primo paese ad avviarsi lungo questa strada, e proprio all’esempio inglese si rifacevano tanto Marx che Weber. Tutti i saggi qui raccolti furono scritti negli anni Sessanta e Settanta, e riflettono uno spostamento dell’attenzione dal cam¬ biamento sociale, economico e politico al cambiamento dei valori, delle credenze religiose, dei costumi e dei modelli di comporta-

Introduzione

vili

mento intimo. I saggi non si limitano dunque a riflettere il modi¬ ficarsi della mia personale prospettiva della storia, ma piuttosto quella transizione più generale, avvenuta nella professione dello storico tra gli anni Sessanta e Settanta, dalla sociologia all’antro¬ pologia come fonte principale di nuove ispirazioni. I libri che scelsi di recensire erano quelli che all’epoca ritenevo portatori dei progressi più significativi, e i miei saggi tentano di ripro¬ durre il fervido fermento di nuove idee, nuovi approcci e nuovi dati che caratterizzò quell’età dell’oro della storiografia. Sono dunque pochi gli aspetti della « nuova storia » che non com¬ paiano in questo volume, in termini più generali nelle tre pano¬ ramiche sulla storiografia, più particolari nei saggi monografici.

RINGRAZIAMENTI Il primo capitolo è stato pubblicato per la prima volta in un libro a cura di C. Delzell, The future of History, Vanderbilt University Press 1976. Il secondo viene ripubblicato per gentile concessione di « Daedalus », rivista dell’American Academy of Arts and Sciences, Boston, Massachussetts, inverno 1971, Historical Studies Today. Il copyright del terzo capitolo appartiene alla Past and Present Society, Corpus Christi College, Cambridge, Inghilterra. L’articolo viene ristampato per gen¬ tile concessione di « Past and Present: A Journal of Historical Stu¬ dies », 85 (novembre 1979). Quasi tutti i saggi successivi sono stati pubblicati dalla « New York Review of Books » tra il 1965 e il 1980, e vengono ristampati per gentile concessione della stessa, copy¬ right 1965/80 Nyrev Ine. Parti dei capitoli quarto e settimo deri¬ vano da recensioni comparse sul « New Statesman » tra il 1962 e il 1964. L’ultimo saggio è stato pubblicato dal « Journal of Interdisciplinary History » (1981). Ringrazio tutti gli interessati per avermi autorizzato a ripubblicarli. Le recensioni sono state ridotte e modifi¬ cate per concentrarsi sulle questioni e i problemi storici più vasti, evitando di soffermarsi su pregi e difetti particolari dei libri recensiti.

Parte prima STORIOGRAFIA

I LA STORIA E LE SCIENZE SOCIALI NEL SECOLO XX

Uevoluzione della professione di storico Dal secolo XVI fino alla metà del XIX, la storia è stato un campo sempre più praticato di ricerca, di esercizio letterario e di insegnamento; da Guicciardini a Ralegh, a Clarendon, a Gibbon, a Voltaire, a Macaulay, videro la luce alcune delle opere di narrazione storica tra le più accattivanti e durature che siano mai state scritte b Questi libri costituirono altrettanti capisaldi delTalta cultura nelle rispettive epoche, nel senso che ad ogni per¬ sona colta e rafimata si richiedeva di averli letti e averne assor¬ bito il contenuto. D’altra parte, l’uomo istruito doveva anche conoscere, quantomeno tradotti, i grandi storici classici come Tucidide, Svetonio, Livio, Plutarco e Tacito. Sono tre i motivi principali per i quali la storia era consi¬ derata componente essenziale dell’educazione del gentiluomo. In primo luogo era ritenuta fonte di insegnamento morale, una vi¬ cenda che dimostrava come, grazie alla benefica provvidenza di Dio, la virtù finisca sempre per trionfare sul vizio. Questa con¬ fortante teoria fu bellamente ignorata dal Principe di Machiavelli nel secolo XVI, e fu oggetto della feroce satira del Candide di Voltaire nel XVIII, ma a quanto pare entrambe le opere ebbero scarso effetto sulla sensibilità del pubblico. Esiste dunque una netta divaricazione tra il modo in cui le generazioni passate perce¬ pivano la lezione morale della storia e quello odierno, quando si dà per assunto quasi scontato il fatto che i malvagi prosperino, e che gran parte degli uomini che esercitano il potere politico siano paranoici infatuati di sé e probabilmente corrotti, e comunque più interessati alla propria carriera personale che non al bene pubblico. Si tratta di una visione degli obiettivi, della statura

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Varie prima. Storiografia

e dell’operato dei protagonisti della politica radicalmente diversa da quella prevalente prima della metà del secolo XIX. In secondo luogo la storia era un’inesauribile fonte di svago, giacché forniva racconti assai più appassionanti, più articolati e più significativi rispetto agli arzigogolati romanzi e alle artificiose novelle dell’epoca. Ciò che appariva come la verità nuda e cruda, raccontata con eleganza dagli storici, destava maggiore interesse delle costruzioni immaginarie degli scrittori creativi. In terzo luo¬ go si riteneva che la storia fosse un’insostituibile fonte di istru¬ zione per gli adolescenti, capace di far loro capire la natura del¬ l’uomo e del potere politico. Per questo era materia di studio obbligatoria per i rampolli dell’é/zVe, che in casa, nelle accademie o nelle università si preparavano al momento in cui avrebbero rivestito le maggiori cariche pubbliche. Disponiamo deU’illuminante possibilità di sapere in quali ter¬ mini venissero considerate la natura e il compito della storia intorno al 1850, quando la prolungata fase dilettantesca si stava ormai esaurendo, ma ancora la storia non si era sviluppata come professione a pieno titolo, praticata quasi esclusivamente all’in¬ terno delle università da esperti impegnati a tempo pieno. L’indi¬ cazione ci viene dalla lezione inaugurale del Regius Professor di storia a Oxford, H. H. Vaughan, nel 1848. Quella di Vaughan fu una carriera tragica e in definitiva sterile, che produsse ben poche cose di valore davvero durevole; ma la sua idea di ciò che avrebbe dovuto essere la storia riveste oggi un particolare inte¬ resse storiografico. Per ogni storico, sostiene Vaughan, il proble¬ ma centrale dovrebbe essere la « scoperta dei cambiamenti critici nella condizione della società ». Occorre notare che l’enfasi è qui posta sul cambiamento, non sulla descrizione statica, e che la natura del cambiamento statico non è definita come ricorrente o periodica, come avviene nelle scienze sociali o naturali, bensì critica, e dunque, dobbiamo presumere, unica. Quanto all’oggetto della storia, Vaughan lo definiva nei termini più ampi, adden¬ trandosi tanto a fondo nella storia popolare, sociale e culturale da potersi guadagnare il consenso del più nuovo tra i « nuovi » storici d’oggigiorno: « Esistono istituzioni, leggi, consuetudini, gusti, tradizioni, credenze, convinzioni, magistrature, feste, passa¬ tempi, cerimonie, e altri elementi di organizzazione sociale di que¬ sto genere, che si distinguono, sia sul piano concettuale che su quello dei fatti, dalla condizione dell’unità nazionale ». Nella con-

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cezione di Vaughan, quindi, il contenuto della storia va ben oltre l’evoluzione politica dello Stato nazionale, fino a comprendere la più vasta gamma possibile di fenomeni socioculturali. Anzi, Vau¬ ghan arrivava a dichiararsi assai scettico sulla storia scritta esclu¬ sivamente in termini istituzionali, un approccio fuorviante quan¬ do si tratta di percepire i cambiamenti avvenuti nel tempo. Le istituzioni, scriveva, « conservano il nome, ma muta la loro qua¬ lità, ovvero, pur mantenendo la tipologia della struttura origi¬ naria, esercitano poteri affatto nuovi. Soltanto a questa condi¬ zione esse sono davvero permanenti, nel senso più attivo e sano del termine » È esattamente quanto sosteneva Walter Bagehot nel suo classico studio sulla costituzione inglese, pubblicato meno di vent’anni dopo Le doti di un buono storico, secondo Vaughan, sono tre; la prima è « il principio di attrazione dei fatti » — in altre parole, una appassionata curiosità per il passato e un’infinita disponibilità a frugare negli archivi più polverosi per scoprirne, appunto, i fatti. La seconda è la « predisposizione naturale alle previsioni più o meno definite » — in altre parole, l’intuizione preconcetta, da verificare poi sui documenti. Si tratta di una posizione quasi ovvia per le scienze sociali o naturali, ma per un secolo a venire sarebbe stata anatema per lo storico di professione. La terza dote è « l’abitudine a cogliere le cose al volo » — il dono intuitivo di chi sa afierrare il dettaglio significativo nella massa caotica della documentazione. Se la posizione di Vaughan può essere considerata un esem¬ pio tipico di come la storia venisse interpretata alla metà del secolo XIX — e abbiamo ragione di ritenere che così sia stato —■ si trattava dunque di una materia comprendente una vasta gam¬ ma di esperienze umane — politiche, religiose, intellettuali, so¬ ciali, ritualistiche e culturali — da studiare combinando una serie di formulazioni teoriche a priori con la cura più attenta per i dati documentarii riguardo le circostanze concrete e particolari. È per questo che ancor oggi, più di un secolo dopo la loro pub¬ blicazione, le opere di studiosi ottocenteschi come Burckhardt appaiono così straordinariamente fresche e emozionanti. A quel tempo gli storici erano ancora ispirati da un’infinita curiosità, e il campo dei loro interessi non aveva limiti; per questo conti¬ nuano ad esercitare su di noi un fascino tanto immediato.

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Tarte prima. Storiografia

Tra il 1870 e il 1930 la storia si trasformò in disciplina professionale autonoma. Nelle università furono creati diparti¬ menti a se stanti, si istituirono corsi di dottorato per preparare e accreditare i futuri professionisti, si costituirono le associa¬ zioni professionali. Grazie all’influenza del nazionalismo liberalborghese, frattanto, l’evoluzione degli Stati nazionali e dei loro rapporti diplomatici e militari andava definendosi come oggetto privilegiato della ricerca storica. Si istituirono archivi nazionali, inventariando i più importanti documenti relativi a quei temi e mettendoli gratuitamente a disposizione degli studiosi. Attorno al 1900 i problemi, i metodi e le fonti erano ormai ben definiti, e lo sviluppo della professione ebbe degno coronamento nei mas¬ sicci tomi della Cambridge Modern History. Dalla lettura di questi volumi risulta evidente che l’evolu¬ zione professionale della storia e la definizione dei suoi compiti avevano compiuto passi da gigante, ma anche che il prezzo pagato per tanti progressi era stato assai alto. L’onniveggente padronanza della materia generosamente auspicata da H. H. Vaughan e altri alla metà del secolo veniva seccamente ridimensionata, in parte per scelta deliberata degli storici, in parte perché ognuna delle nuove professioni organizzate in strutture dipartimentali riven¬ dicava il proprio ruolo nello studio dell’uomo nel passato e nel presente. Erano queste le scienze sociali in genere — Tantropologia, la sociologia, la psicologia, l’economia, la geografia umana, la demografia — ma anche le sotto-discipline specializzate della storia, come le storie del diritto, dell’arte, dell’educazione, del¬ l’economia. In secondo luogo, trionfava la teoria storicista, e si era davvero convinti che per stabilire la Verità bastasse attenersi fedelmente ai fatti desunti dagli archivi. Era una storia avalu¬ tativa. I risultati furono ad un tempo positivi e negativi. Tra quelli positivi lo sviluppo della storia politica di taglio narrativo come occupazione altamente professionale, saldamente basata sulla ri¬ cerca d’archivio, informata ai criteri di erudizione più rigorosi e facilitata dall elaborazione di particolari tecniche paleografiche e diplomatiche per verificare l’attendibilità e il significato delle fonti documentarie. In quanto professione, la storia era maturata, ed era ormai riuscita a tracciare i lineamenti principali dell’evolu¬ zione politica, militare, costituzionale e diplomatica delle maggiori potenze europee nell’arco degli ultimi mille anni.

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La storia e le scienze sociali nel secolo XX

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D’altro canto però, come già si è detto, è innegabile che l’en¬ tità dei problemi e la portata dei metodi impiegati per risolverli risultassero gravemente impoverite. La generazione successiva, quella degli storici del primo Novecento, può quindi essere ripar¬ tita, retrospettivamente, in due gruppi, il primo dei quali di gran lunga il più numeroso. Questi studiosi si contentavano di elabo¬ rare le questioni e le tecniche più sperimentate prima del 1900, descrivendo nei minimi dettagli degli eventi isolati, di carattere soprattutto politico o amministrativo, senza preoccuparsi troppo di metterli in rapporto con alcunché, né di renderli comprensi¬ bili al di fuori di quel pugno di colleghi che zappava nel loro stesso, specializzatissimo, orticello. Dal 1920 agli anni Cinquanta le pagine delle riviste edite dalle organizzazioni nazionali ufficiali, come la « American Historical Review », o la « English Historical Review », o la « Revue Historique », furono dedicate quasi esclusivamente a questo genere di materiali, il fondo del barile dell’antiquariato storico, pubblicando documenti soltanto perché non erano mai stati pubblicati prima, e rimaneggiando all’infinito i soliti quesiti, ormai vecchi e stantii. Quanto alle riviste più specialistiche, come le « Annales Historiques de la Révolution Frangaise », i loro interessi divennero ancor più miopi. Gli sto¬ rici non si rivolgevano più al pubblico colto: parlavano soltanto alla cerchia ristretta dei loro colleghi. Giustamente, quindi, tanto gli scienziati sociali che il pubblico colto medio cominciarono ad accusare gli storici di essersi ridotti a trattare soltanto i fatti — e i fatti unici in particolare — trala¬ sciando del tutto la teoria; li accusavano di trascurare l’irrazio¬ nale, come se Freud e Nietzsche non fossero mai esistiti, sicché gli uomini dei quali scrivevano non soltanto erano totalmente razionali, ma lo erano anche nelle accezioni più limitative del termine — homo economtcus, o homo politicus, o homo theologicus, ad esempio; li accusavano di coltivare convinzioni troppo ingenue suil’oggettività storica e sulla storia avalutativa; li accu¬ savano di sottovalutare l’importanza, se non altro nella limita¬ zione delle alternative possibili, delle condizioni economiche mate¬ riali, come se non fosse mai esistito Marx; di aver capito ben poco dell’importanza o dei meccanismi della struttura e della mobilità sociale; di accontentarsi di un’analisi bidimensionale della politica, senza indagare sulle forze sottostanti; infine, di concentrarsi sulle attività di minuscole élites senza curarsi delle masse subalterne.

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Parte prima. Storiografia

Il secondo, sparutissimo, gruppo di storici reagiva in modo piuttosto scomposto aU’empirismo sempre più miope dei colleghi, toccando l’estremo opposto della macroteoria: visionari con mo¬ delli globali dell’evoluzione dell’uomo come Spengler o Toynbee, o studiosi che operavano ad un livello inferiore della generaliz¬ zazione teorica come Turner o Beard.’ Li accomunava il disprezzo per la maggioranza dei colleghi, contenti di passare la vita su un minuscolo frammento del grande mosaico che, si presumeva, avreb¬ be finito per fornire la base documentaria per una storia poUtica definitiva. Una brillante immagine di Emmanuel Le Roy Ladurie defi¬ nisce i due gruppi, quello degli appassionati dei fatti e quello dei macroteorici, rispettivamente come i cercatori di tartufi e i paracadutisti: i primi stanno col grugno a terra, alla ricerca di un qualche fatto minuto e prezioso; i secondi scendono dalle nuvole, spaziando con lo sguardo sul panorama della campagna, ma stanno troppo in alto per coglierne con chiarezza i dettagli. Frattanto, anche gli scienziati sociali si erano spaccati in due correnti piuttosto simili: da una parte gli appassionati delle rico¬ gnizioni generali e gli sperimentalisti, dall’altra i costruttori di modelli. Volendo essere cattivi, potremmo definire i primi come coloro che dicono: « Non sappiamo se ciò che scopriamo abbia un significato particolare, ma perlomeno è vero », mentre i se¬ condi dicono: « Non sappiamo se ciò che presumiamo sia vero, ma perlomeno ha un significato preciso ». Furono i primi, in genere, ad avere il sopravvento nei vasti imperi delle scienze sociali in espansione aU’interno delle università americane. Purtroppo nessuno dei gruppi dava — e dà — prova di parti¬ colare interesse o rispetto per la documentazione e i metodi della storia. Non riconoscevano la rilevanza della storia sul loro lavo¬ ro, né ammettevano la possibilità che ciascun individuo e ciascuna istituzione fossero profondamente influenzati dal rispettivo pas¬ sato, con le sue caratteristiche di unicità. Disprezzavano la descri¬ zione qualitativa di insiemi di eventi unici che aveva caratterizzato buona parte della storia vecchia maniera, in parte perché il parti¬ colarismo empirico impediva la costruzione di modelli compara¬ tivi, e persino lo sviluppo di ipotesi generali di media portata, in parte perche i metodi impiegati non potevano fornire dati scientificamente verificabili. Di conseguenza nell’ambito delle scien-

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ze politiche, dell’antropologia, della psicologia e di molte altre scienze sociali era assai diffuso lo scetticismo nei confronti del1 approccio storico. Troppi economisti e sociologi, con qualche rara e straordinaria eccezione come Joseph Schumpeter e Max Weber, non si curavano quindi della storia ritenendola irrile¬ vante Soprattutto i sociologi, poi, si isolarono ancor più dagli storici adottando uno stile di scrittura quasi antiletterario, oscuro, turgido, ripetitivo, pretenzioso, costellato di espressioni gergali o neologismi privi di significato, o altrimenti da formule algebriche inutilmente sofisticate e tabelle statistiche impenetrabili. Come ha osservato Liam Hudson; « quando una scienza è ormai conso¬ lidata, le è possibile trasmettere le verità in una prosa contorta quanto evasiva. Laddove invece le fondamenta sono meno solide, lo stile non è soltanto un limite imposto a ciò che ci verrebbe naturale di esprimere, ma è anche, per molti e importanti versi, l’essenza stessa dell’espressione » Fu un vizio particolarmente diffuso, questo, nella sociologia americana, che pure presentava autorevolissime eccezioni come Robert K. Merton e C. Wright Mills, mentre molti antropologi erano, e sono, scrittori stupendi. La prosa del più influente tra i sociologi americani, Talcott Parsons, risulta praticamente impe¬ netrabile per chiunque non sia un suo aficionado, e parrebbe che questo stile cominci a diffondersi anche in Franci; 'n Italia. Entrambi i gruppi di scienziati sociali eranc anzialmente indifferenti tanto al dato quanto all’interpretazione del cambia¬ mento. Per l’antropologo il tempo si fissava nel momento della stesura dei suoi appunti, ed è probabile non fosse affatto interes¬ sato a stabilire — e comunque non disponeva certamente dei mezzi per farlo — se i fenomeni da lui scoperti avessero origine antica, o se invece si trattasse di sviluppi recentissimi, prodotti nell’arco dell’ultima generazione. Là psicologia si trovava intrappolata dal presupposto freudiano, impossibile da verificare, della centralità e universalità senza tempo di talune esperienze infantili dell’uomo. Freud postulava un dramma infinitamente ripetitivo in cui al trau¬ ma della nascita si susseguono quelli dello svezzamento, dell’obbligo della pulizia personale, della vergogna e della colpa per le manifestazioni di sessualità infantile, e del conflitto edipico con i genitori — un ciclo inevitabile che oggi sappiamo storicamente, e con ogni probabilità anche teoricamente, falso. Si tratta di pre¬ supposti legati a una cultura, validi forse per qualche membro

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malato della società borghese europea alla fine dell’Ottocento, ma non certo per la maggioranza degli uomini appartenenti alla mag¬ gioranza delle classi in quasi tutti i periodi precedenti, e persino in quelli successivi. Un’altra fiorente scuola di psicologia era quella dei comportamentisti sperimentali, che raccoglievano dati in definitiva inutili sulle reazioni osservabili, e sulle loro modi¬ fiche in condizioni di stress, negli esseri umani o nei ratti. Anche la sociologia era prigioniera di una visione assolutamente statica della società, vuoi per la sua devozione alla tecnica di ricerca fondata sulla ricognizione generale, vuoi per la sua ado¬ zione incondizionata della teoria funzionalista. In una certa mi¬ sura, anzi, tutte le scienze sociali furono contagiate dal morbo del funzionalismo. Stando a questa teoria, tutti i modelli di com¬ portamento e tutte le istituzioni devono in qualche modo essere funzionali alla conservazione del sistema sociale — e se tale fun¬ zionalità non appare evidente, ecco subito inventata una « fun¬ zione latente », visibile soltanto a un occhio esperto. Tre sono Ì motivi per i quali lo storico deve rifiutare la teoria funzionalista quando viene portata (come spesso avviene) ai suoi limiti estremi. In primo luogo esistono aU’interno di ogni società istituzioni di carattere residuale, ancor meno utili ai fini della conservazione del sistema di quanto non lo sia l’appendice per l’uomo, ma che sopravvivono perché ormai dotate quasi di una vita istituzionale propria, che consente di superare la schiacciante evidenza della loro scarsa funzionalità sociale. La Chiesa nel primo Cinquecento, l’Università del primo Settecento, o le carceri nel tardo Novecento sono degli ottimi esempi. Anche nel caso degli individui, i loro valori si plasmano e si fissano durante l’infanzia e l’adolescenza, e se hanno la sorte di vivere in un’epoca di rapida trasforma¬ zione, il bagaglio dei valori ereditati che si portano dietro dalla giovinezza non sarà più funzionale alla conservazione del sistema. Anzi, è assai più probabile che ne derivino acute tensioni inter¬ generazionali, proteste, o persino rivoluzioni. Ogni società è dun¬ que gravata dal peso di istituzioni e valori non-funzionali. In secondo luogo molte società si vedono attaccate da nuove e potenti ideologie che minacciano di disintegrarne l’intera strut¬ tura sociale, politica e culturale. Il cristianesimo alla fine dell’im¬ pero romano, il calvinismo nel XVI secolo e il marxismo-leninismo nel secolo XX, ad esempio. In terzo luogo — ed è il fattore più importante — l’uomo è molto più di un essere razionale, finaliz-

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zato alla conservazione del sistema, ed esistono quindi nella sua società, nella sua cultura e nelle sue istituzioni molti aspetti af¬ fatto privi di utilità funzionale. L’uomo è anche un animale ludico — homo ludens — che ricerca il piacere, che ama il godimento estetico e il gioco, e a questo fine inventa una vasta gamma di istituzioni e strutture, come Las Vegas e Disneyland, gli stadi e le piste da sci, i bar e le sale da ballo, i parchi, i musei e i teatri, destinate sostanzialmente allo svago e non alla funzionalità — a meno di definire lo svago un criterio finalizzato alla conser¬ vazione del sistema, e dunque funzionale. L’uomo è inoltre una creatura la cui vita viene ordinata e dotata di significato da una serie di simboli e rituali, molti dei quali sono privi di rilievo funzionale — come oggi si affannano a spiegarci Victor Turner, Clifford Geertz e altri antropologi. Costituiscono indispensabili illuminazioni sui livelli di significato più profondi della società, ma non per questo sono necessariamente dotati di una funzione. Sia i linguisti rivoluzionari come Noam Chomsky che gli antro¬ pologi simbolici come Claude Lévi-Strauss sostengono che le vaste regioni del finguaggio e del rituale sono del tutto prive di utilità funzionale, essendo indicatori dei processi di pensiero sotterranei che governano il comportamento, spesso in modo assolutamente irrazionale. Anche non tenendo conto della componente di esage¬ razione presente nelle loro ipotesi, il funzionalismo ne ha ricevuto un colpo duro, forse anche mortale. Se finalmente la storia, insie¬ me con le scienze sociali, potesse strapparsi di dosso la camicia di forza perniciosamente semplicistica dell’interpretazione, sareb¬ bero tutte più libere di avventurarsi lungo nuovi e più sofisticati percorsi verso la spiegazione dello stravagante comportamento dell’uomo. Il risultato di queste tendenze della storia come delle scienze sociali nel periodo compreso tra il 1870 e il 1930 fu di rendere sempre più ampio lo iato che le separava. La storia divenne sem¬ pre più miope e ripiegata su se stessa, mentre le scienze sociali divenivano sempre più a-storiche. Lo studio dell’uomo nel pas¬ sato e nel presente fu ripartito in piccoli frammenti definiti, e energicamente difesi, dai confini della compartimentazione pro¬ fessionale. La critica da muovere a questa frammentazione risulta ovvia: di norma non è possibile trovare la soluzione di un pro¬ blema importante, che riguarda persone in carne ed ossa, all’interno di una soltanto, o anche più di una, di queste artificiose

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delimitazioni accademiche. Con decisione crescente le nuove disci¬ pline esclusero gli storici da aree sempre più vaste dell’esperienza umana, uno stato di cose che Cari Bridenbaugh definì sconsolatamente nel 1965 come « la crescente tendenza ad abbandonare la storia nelle mani degli scienziati sociali, che sul piano culturale sono ancor più sottosviluppati di noi » Gli scienziati sociali, dal canto loro, rimanevano bloccati dall’assoluta ignoranza di un pas¬ sato che non li interessava; daU’indifferenza per gU efietti del condizionamento storico su ogni situazione, insieme di credenze o assetto istituzionale esistente; dalla mancanza di interesse per i processi del cambiamento, e dall’assenza di modelli teorici che consentissero di afferrare il problema stesso dal cambiamento; dalla tendenza a scrivere in una prosa contorta e aggrovigliata; dalla crescente ossessione per la quantificazione sperimentale o la ricognizione generale, spesso assurdamente appUcata ai problemi più irrilevanti, o altrimenti per la macroteoria onnicomprensiva. Gli appelli alla reciproca cooperazione per risolvere i problemi di media portata lanciati da sociologi di orientamento storico come R. K. Merton cadevano perlopiù nel vuoto, sia tra gU storici che tra gli scienziati sociali. Intorno al 1930 l’indirizzo della professione storica cominciò a mutare, e per i trent’anni successivi tra « nuovi » e « vecchi » storici infuriò una guerra civile, particolarmente feroce in Fran¬ cia, ma estesa anche all’Inghilterra e l’America, all’epoca gli altri due centri principali della ricerca. Le ostilità si aprirono nel 1929 con la comparsa in Francia di una nuova rivista, le « Annales d’Histoire: Economique et Sociale » (avrebbe poi preso il titolo di « Annales, Economies, Sociétés, Civilizations »), e con quello quasi contemporaneo in Inghilterra della « Economie History Review » (che nella prima fase copriva l’intero campo della storia sociale, oltre che di quella economica) La battaglia fu lunga e feroce; il titolo, lo stile e il contenuto di un libro di Lucien Eebvre, Combats pour l’histoire, possono darci un’idea della sua intensità®. Attorno al 1960 i «nuovi storici» orientati verso le scienze sociali avevano ormai fatto presa suU’immaginazione e sulla fervida dedizione dei giovani più dotati; attorno al 1976 erano ormai divenuti loro stessi Vélite del potere che controllava le clientele accademiche in Erancia, e in una certa misura in

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America, e cominciavano ad infiltrarsi nei bastioni dell’ortodossia come la Sorbona e Harvard. In Inghilterra « Past and Present », una rivista con ambizioni e obiettivi simili a quelli delle « Annales », incontrò nel 1960 un’improvvisa ondata di successo popolare, tanto da divenire, alla fine del decennio, l’unica seria rivale delle « Annales » stesse a livello mondiale. Ha esercitato forse un’influenza maggiore in America che in Inghilterra giacché, sebbene alcuni membri del comitato redazionale occupassero solide posizioni a Oxford, Cam¬ bridge e Londra — molti di loro sono oggi in cattedra —, erano e sono tuttora ben lontani dall’aver afferrato le leve fondamen¬ tali del potere e del prestigio accademico nelle grandi sedi della cintura inglese. Non a caso due membri del comitato di reda¬ zione si sono successivamente trasferiti negli Stati Uniti. In Ame¬ rica la marea dei periodici fondati negli anni Sessanta è di per sé testimonianza del trionfo del nuovo movimento, e i loro titoli stanno ad indicare da quale parte soffiasse il vento: « Compara¬ tive Studies in Society and History »; « Journal of Interdisciplinary History »; « Journal of Social History »; « Computers and thè Humanities »; « Historical Methods Newsletter »; « The History of Childhood Quarterly »; « Journal of Psycho-History »; « Family History ». Nelle scienze sociali, frattanto, si manifestava qualche accenno — perlopiù destinato al fallimento, se si considerano le cose in retrospettiva — ad un ritorno alla storia. Nel campo delle scienze politiche Gabriel A. Almond dichiarò nel 1964 che « gli studiosi di politica comparata, abbandonata la storia per le teorie e i me¬ todi della sociologia, ''dell’antropologia e della psicologia, sono forse sul punto, ora, di ritornare alla storia. Ma se così faranno, porteranno con sé gli interrogativi, i concetti e i metodi acquisiti durante il loro peregrinare da figliuol prodigo » Anche nella sociologia si manifestavano segni di un ritorno alla storia, la cui espressione più appariscente fu la febbrile tradu¬ zione in inglese, per la prima volta negli anni Cinquanta e Ses¬ santa, di quello che era stato forse il più grande sociologo-storico. Max Weber. È probabile che negli anni Sessanta la traduzione di Weber influenzasse il modo di fare storia più di qualsiasi altro apporto isolato delle scienze sociali, soprattutto perché la sua era un’alternativa al determinismo economico del marxismo voi-

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gare, ormai largamente screditato tra gli storici; alle teorie marxi¬ ste delle classi, di cui risultava ormai evidente l’inapplicabilità alle società premoderne; alle teorie del marxismo volgare sulla trasformazione dei mezzi di produzione come massima forza gene¬ ratrice del cambiamento in altri settori della società. Da Weber gli storici impararono che i fattori istituzionali, ideologici e cul¬ turali non sono mere sovrastrutture, un enunciato questo la cui validità veniva messa sempre più in discussione col procedere della ricerca. La traduzione di Weber, insieme con il rinnovato inte¬ resse per il primo Marx e per Émile Durkheim, fu di enorme stimolo per gli storici, incapaci da un lato di comprendere il lin¬ guaggio del mentore riconosciuto della sociologia americana di allora, Talcott Parsons, dall’altro di impiegare fruttuosamente ai propri fini quel poco che riuscivano ad afferrare delle sue teorie strutturaliste. Fu dunque un sollievo, per loro, ritornare su quei classici dell’Ottocento e del primo Novecento. Anche tra gli economisti vi fu un rinnovato interesse per la storia, se non altro per poter raccogliere dati più concreti sui quali verificare le loro teorie. Ne risultò lo sviluppo esplosivo della storia economica, organizzata in modi assai diversi, e con risultati altrettanto diversi, nei diversi paesi. In America gli storici economici facevano capo ai dipartimenti di economia piuttosto che a quelli di storia, e da questo derivavano un forte orienta¬ mento teorico e statistico neU’interpretazione e nell’analisi dei dati. Quando però gli economisti americani cominciarono ad occu¬ parsi di macro-econometria, gli storici dell’economia li seguirono pedissequamente lungo una strada teoricamente affascinante ma alquanto sterile sul piano storico, con risultati abbastanza discuti¬ bili. In Francia gli storici dell’economia facevano capo ai dipar¬ timenti di storia, e si occupavano soprattutto di raccogliere ele¬ menti atti a costruire serie di informazioni quantitative protratte nel tempo sui prezzi, i salari, il denaro, la rendita, la produzione per capita, l’investimento di capitali, il commercio estero e altre variabili economiche chiave. I più autorevoli, come Henri See o Ernest Labrousse, utilizzavano questi dati per interpretare i gran¬ di problemi della storia, ma altri, simili in questo agli storici politici che tanto disprezzavano, si preoccupavano più di accumu¬ lare dati concreti che di elaborare modelli interpretativi. In In¬ ghilterra, per qualche misterioso capriccio della storia dell’ammi¬ nistrazione, gli storici dell’economia non appartenevano in genere

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né ai dipartimenti di storia né a quelli di economia, costituendo invece dei dipartimenti di storia economica affatto indipendenti, e di dimensioni inevitabilmente ridotte. Alcuni dei loro membri provenivano dagli studi economici, ma perlopiù erano studiosi di formazione storica, fedeli ai consueti metodi di ricerca empirici che sembrano essere un aspetto profondamente radicato della cul¬ tura inglese. Nonostante qualche brillante successo iniziale, e nonostante la massiccia produzione di opere di erudizione ad altissimo livello, pare probabile che a lungo andare l’isolamento amministrativo, e in definitiva intellettuale, degli storici dell’eco¬ nomia inglesi così dagli storici non economici come dagli econo¬ misti di professione produrrà soltanto introversione e sterilità. Le pagine della « Economie History Review » rivelano già i sin¬ tomi di una tendenza involutiva. La più influente tra le scienze sociali voltesi alla storia per verificare le proprie teorie e per espandere la propria base docu¬ mentale è stata la demografia; sui sorprendenti successi della de¬ mografia storica nel corso degli ultimi decenni, risultato di un fruttuoso scambio tra demografi e storici, ritorneremo più avanti. La scienza sociale che più recentemente ha cominciato a manife¬ stare un interesse tanto per il passato quanto per i cambiamenti nel tempo è l’antropologia, in cui gli studi di tipo statico di Bronislaw Malinowski o Radcliffe Brown sono stati sostituiti dalle opere più sofisticate e più radicate nella storia di Edward EvansPritchard, o anche, più recentemente ancora, dalla nuova antro¬ pologia simbolica di studiosi come Mary Douglas, Victor Turner e Clifford Geertz. Soltanto negli ultimi anni però, a cominciare da Religion and thè Decime of Magic: Studies in Copular Beliefs in Sixteenth and Seventeenth-Century England di Keith V. Thomas [trad. it. La religione e il declino della magia, Milano 1985], l’antropologia ha iniziato ad influire in modo decisivo sulla pro¬ fessione storica, specie per quanto riguarda lo sviluppo degli studi sulla religiosità popolare (ad esempio, le cerimonie funebri o di incoronazione, le feste pubbliche, le manifestazioni di gruppo), o sul folklore e sulle forme e i significati della cultura popolare. Se negli anni Trenta fu soprattutto l’economia ad influenzare la storia, come la sociologia negli anni Cinquanta e la demografia negli anni Sessanta, sono questi nuovi tipi di antropologia ad attirare oggi l’attenzione di alcuni tra gli storici più giovani.

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Il periodo critico della conversione degli storici all’interesse per le scienze sociali, e della prospettiva di un ritorno degli scien¬ ziati sociali alla storia, è coinciso con la fine degli anni Ses¬ santa. Non è difiìcile dare sostanza a questo enunciato: almeno due tra le maggiori riviste ufficiali, la « American Historical Review » e la « Revue Historique » ospitavano articoli in cui risul¬ tava evidente l’apporto dei metodi e dei problemi agitati dagli storici influenzati dalle scienze sociali (a tutt’oggi la « English Historical Review » continua ad attenersi al suo tradizionale esclu¬ sivismo settario). La seconda dimostrazione è data dall’irruzione nei dipartimenti di storia americani da parte della grande scuola storiografica francese genericamente nota come « scuola delle Annales » (dalla sua rivista interna), o come « scuola della VI Section » (dalla sua affiliazione istituzionale alla VI sezione dell’École pratique des hautes études a Parigi) Inaugurato da un programma di scambi istituito dal dipartimento di storia dell’Uni¬ versità di Princeton nel 1968, il rivolo si è trasformato in un vero e proprio torrente, e gli americani conoscono ormai a fondo tutte le personalità e le opere di questa scuola così straordina¬ riamente creativa e innovatrice. La terza dimostrazione è data dalle nuove materie trattate durante le sedute dell’annuale con¬ vegno della American Historical Association. Una rapida occhiata al programma lascia l’impressione che non vi sia ricerca in corso oggi in America che non verta sul tema degli oppressi, di coloro che non hanno la possibilità di esprimersi — gli schiavi, i poveri, o le donne —, su problemi quali la struttura e la mobilità sociale, la famiglia e la sessualità, la criminalità e la devianza, la cultura popolare e la stregoneria, e che non ricorra alle teorie delle scien¬ ze sociali attinte dalla psicologia, dalla sociologia o daU’antropologia, nonché a metodologie tipiche delle scienze sociali come la quantificazione. A guardar meglio si scopre che la prima impres¬ sione non è del tutto corretta, ma il cambiamento avvenuto tra il 1965 e il 1975 rimane stupefacente. Escludendo quelle dedicate alla didattica, le sedute del con¬ vegno dell’American Historical Association tenutosi ad Atlanta nel dicembre 1975 furono 84. Ben 12 di queste riguardavano le Donne (8), la Famiglia (3) e la Sessualità (1), per non parlare dei 6 seminari dedicati alla Storia della Donna. La seduta sulla sessualità comprendeva argomenti piuttosto esoterici quali La so¬ domia e la marina britannica durante le guerre napoleoniche

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— un aspetto, verrebbe dato di pensare, non certo tra i più significativi di quel periodo di crisi e rivolgimenti per l’Europa. I contenuti di questo convegno mettevano in grande evidenza i rischi che corre chi cede alle lusinghe della moda. La sanzione ufficiale definitiva del nuovo movimento venne nel 1966, quando il « Times Literary Supplement » dedicò tre interi numeri alle Nuove vie della storia. Erano articoli pieni di speranza nella prospettiva di un nuovo millennio della storia che, così pareva, era proprio dietro l’angolo; bastava aspettare che il pensionamento o la morte liberassero le cattedre occupate dagli storici vecchia maniera — o si poteva persino sperare in una loro esperienza di conversione alla Nuova Luce. Edward Shils, ad esempio, che divide la sua vita tra Chicago e Cambridge, Inghil¬ terra, scriveva ottimisticamente che « si rilevano negli Stati Uniti i primi segni di un’amalgama tra storia e scienze sociali, in un momento in cui gli studiosi hanno rinunciato a considerare legit¬ timo l’isolarsi entro i confini della loro propria società, e gli sto¬ rici cominciano a liberarsi dalle catene dello storicismo. Il risul¬ tato, che attualmente possiamo vedere soltanto in stato assai em¬ brionale, è la nascita di una scienza umana scientificamente com¬ parata, e di una storia comparata. Siamo agli esordi di un’auten¬ tica Science humaine » ’b È una nobile ambizione, quella così ben descritta da Shils, e non merita di esser messa da parte con un gesto di scherno. Si tratterebbe di riunire la storia con tutte le scienze sociali e uma¬ ne, per ricreare il campo unitario dello studio di tutti gli aspetti dell’esperienza umana nel passato come nel presente: si tratte¬ rebbe insomma di ritornare al 1850, ma con tutto il bagaglio di conoscenze accumulato negli ultimi centoventicinque anni in una vasta gamma di discipline diverse.

L’apporto delle scienze sociali Avendo descritto gli aspetti esteriori della guerra civile, e il trionfo dei rivoluzionari all’interno della categoria degli storici tra il 1930 e il 1975, è giunto il momento di definire con mag¬ gior precisione l’effettivo contributo delle scienze sociali al nuovo movimento. In primo luogo esse costrinsero gli storici a dichia¬ rare in modo più esplicito e preciso quelli che sino ad allora

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erano stati presupposti e convincimenti sottaciuti, se non addi¬ rittura inconsapevoli. Gli storici appresero che ritenendosi im¬ muni da tali preconcetti non facevano che ' ingannare se stessi. Il pensiero umano, dopo tutto, « prima di irrigidirsi nell’abito da festa, ai fini della pubblicazione, è affare nebuloso e intuitivo: al posto della logica borbotta, semisommerso, uno stufato misto di intuizioni e illuminazioni parziali » Gli scienziati sociali esige¬ vano che fosse portato alla luce e esposto alla vista di tutti. Agli storici si chiedeva ora di spiegare con precisione qual era l’in¬ sieme dei loro presupposti, e quale il modello causale utilizzato — tutte cose che la maggior parte di loro tendeva ad evitare come la peste. Venivano inoltre bruscamente invitati a definire con maggiore attenzione la terminologia. Gli storici hanno sem¬ pre fatto uso di concetti generali fin troppo vaghi, come « feuda¬ lesimo » o « capitalismo », « classe media » o « burocrazia », « corte » o « potere », o « rivoluzione », senza mai spiegare chia¬ ramente quale significato vi attribuissero. La mancanza di preci¬ sione ha spesso dato luogo a confusione; è ormai assodato, ad esempio, che i due dibattiti più prolungati e feroci che dilania¬ rono • la storiografia inglese dopo la seconda guerra mondiale, quello sull’ascesa o sul declino della gentry tra il secolo XVI e gli inizi del XVII, e sui suoi eventuali rapporti con la Rivoluzione inglese, e quello sul miglioramento o sul peggioramento del tenore di vita della classe operaia tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, furono in larga misura provocati dal fatto che nessuna delle parti in causa aveva definito la propria terminolo¬ gia con sufficiente chiarezza. In molte occasioni, quindi, fu una conversazione tra sordi, senza che si giungesse mai al confronto diretto sui problemi. Lo stesso vale per il grande dibattito sulle origini sociali della Rivoluzione francese, che infuria ormai da più di vent’anni. Il terzo contributo delle scienze sociali fu l’affinamento delle strategie di ricerca e una migliore definizione delle questioni. In particolare, esse sottolinearono l’esigenza di confronti sistematici nel tempo e nello spazio, in modo da isolare ciò che è particolare e unico da ciò che è generale; favorirono poi il ricorso alle tecni¬ che di campionatura scientifiche, invitando a confrontare sempre il gruppo oggetto dell’analisi con un altro gruppo standard, onde evitare di trarre conclusioni erronee da esempi isolati. Ad esse si deve poi l’individuazione e la possibile spiegazione di taluni

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caratteri ricorrenti in fenomeni quali la stregoneria, i movimenti millenaristici e le « grandi rivoluzioni ». Il quarto importante contributo consiste nella metodologia, nella verifica condotta su dati quantitativi — ogniqualvolta que¬ sti siano reperibili — dei presupposti fondati sul senso comune e degli enunciati letterari. La quantificazione, se usata con criterio e buon senso, presenta molti vantaggi rispetto ai vecchi metodi di verifica storica. In primo luogo il suo armamentario è costi¬ tuito da dati apparentemente precisi e controllabili, che possono essere confermati o refutati solo in base a criteri logici e scien¬ tifici, invece delle sfilze di citazioni scelte accuratamente nelle fonti favorevoli alla tesi di chi scrive. Come osservò il dottor Samuel Johnson nel 1783: « È questo, caro signore, il bello dei numeri. Servono a ridurre a certezza tutto ciò che prima vagava indefinito per la mente » Una discussione suU’attendibilità delle fonti e sulla correttezza della manipolazione statistica si svolge di necessità ad un livello intellettuale superiore rispetto alla mera battaglia di prontezza di spirito retorica, o allo scambio di cita¬ zioni contraddittorie, e ciò costituisce di per sé un grande passo avanti per la storiografia. I risultati risulteranno forse più noiosi da leggere, ma sono più illuminanti e •—-in genere — provocano meno animosità. In secondo luogo, al di là dei suoi meriti in positivo, la quan¬ tificazione ha dei meriti in negativo ancor più importanti. È spesso capace di spazzar via le ipotesi infondate, che si rifanno a testimonianze puramente letterarie, sostenute per motivi di pre¬ giudizio nazionale o personale. Basteranno due esempi: le teorie sui benefici della prima colonizzazione spagnola del Messico crol¬ larono miseramente quando i quantificatori demografici scopri¬ rono che in meno di cinquant’anni dopo il primo sbarco di Hernan Cortes la popolazione indiana precipitò da circa venticinque milioni a circa due milioni di anime. Quanto alla teoria della rapida mobilità geografica come caratteristica peculiare delle aree aperte di frontiera nel?America tardo-ottocentesca, fu distrutta dalla scoperta di analoghi modelli di movimento costante nella città di Boston, sulla costa orientale. In terzo luogo la quantificazione porta allo scoperto i pre¬ supposti che — se le parole hanno davvero un significato — non possono non essere all’origine del modo in cui gli storici tradi¬ zionali usano termini come « più », « meno », « maggiore », « mi-

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note », « crescente », « declinante », e via dicendo. Da qualche parte nella mente deU’autore deve per forza di cose vagare una cifra quantitativa capace di sostanziare queste parole, altrimenti non gli sarebbe lecito usarle. La quantificazione lo costringe a rivelarla al lettore, e a spiegargli in quale modo sia stata rico¬ struita. In quarto luogo essa aiuta lo storico a chiarire il suo discorso, per il semplice motivo che il tentativo di esprimere i concetti in termini matematici è forse una delle migliori cure contro la confusione di idee che siano state inventate. Può an¬ che offrire una scappatoia per evitare di pensare, però, ed è opportuno osservare come in campo storico la quantificazione presenti rischi e difetti sempre più preoccupanti, sui quali ritor¬ neremo neH’ultima parte di questo saggio. Il quinto ed ultimo contributo delle scienze sociali alla storia è consistito nel fornire ipotesi da verificare sulla testimonianza del passato. Oggigiorno, quindi, utilizziamo tutti a nostro piaci¬ mento concetti quali la rivoluzione delle aspettative crescenti, il disincanto del mondo, il ruolo politico del carisma, il valore della « descrizione densa » nell’interpretazione della cultura, l’im¬ portanza critica del passaggio dalla burocrazia patrimoniale a quella moderna, l’alienazione degli intellettuali, la crisi d’identità dell’adolescente, la differenza tra status e classe, la famiglia a ceppo e la famiglia nucleare, e via dicendo, tutte teorie prese a prestito dalle altre discipline sociali. Uno degli esempi più significativi dei risultati conseguibili accettando per un verso le determinanti delle possibilità umane stabilite dalle scienze sociali, e adottando per l’altro una prospet¬ tiva comparatistica che trascende i confini nazionah, è dato da Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II di Fernand Braudel. Pubblicata in francese nel 1949, riveduta e am¬ pliata nel 1966, e finalmente tradotta in inglese nel 1972-73 [trad. it. 1953, 1976, presso Einaudi] si tratta senza alcun dub¬ bio di una delle opere storiche più influenti del dopoguerra. Due sono i motivi della sua importanza. Il primo sta nell’accento posto sulla geografia, l’ecologia e la demografia come fattori costrittivi che imponevano limiti rigorosi a qualsiasi azione dell’uomo. Il secondo nel modo in cui si sbarazza totalmente di ogni prospet¬ tiva nazionale, spaziando sull’intero bacino mediterraneo. Il gran¬ de scontro tra l’Islam ottomano e la Cristianità latina che cul¬ mino con la battaglia di Lepanto nel 1571 viene affrontato come

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insieme globale, senza alcun tentativo di schierarsi da una delle due parti. Rispetto alle immani e inesorabili ondate della malaria, del disboscamento, dell’erosione del suolo, della crescita e del declino demografico, dei trasferimenti di metallo prezioso o della rivoluzione dei prezzi, l’azione di imperatori come Filippo II viene presentata come un fattore marginale nell’evoluzione delle società sorte intorno al grande mare interno. È una storia deter¬ ministica, fatalista, estranea così ai fautori liberali del libero arbi¬ trio e del progresso, come a quelli marxisti dell’evoluzione socio¬ logica suUa base delle trasformazioni nei modi di produzione. A entrambi dispiace questo pessimismo pragmatico, dettato dalle ferree limitazioni dello sviluppo malthusiano e dell’ecologia. In questa prospettiva un abbagliante fenomeno urbano quale fu il Rinascimento italiano ci appare come un lusso culturale che le risorse agricole e tecnologiche della regione non erano assolutamente in grado di sostenere. Non si vuole affermare con ciò che il modello braudeliano sia vero o falso, ma soltanto mettere in rilievo il radicale spostamento della prospettiva storica implicito in questo modo di utilizzare le scienze sociali. A questo punto sarà opportuna qualche osservazione sul modo in cui gli storici dovrebbero avvicinarsi alle discipline misteriose e complesse dei loro colleghi, gli scienziati sociali. Per ottenere dalle scienze sociali ciò che gli occorre, lo storico non è obbligato a intraprendere lunghi e intensivi studi in una o più di quelle disci¬ pline. Di fronte ad esse non dovrebbe porsi in atteggiamento di soggezione per il loro gergo arcano, per l’elevato livello di generalizzazione teorica, per la complessità delle formule alge¬ briche. Dovrebbe invece addentrarsi nel campo specifico alla sem¬ plice ricerca di un’idea o di un’informazione specifica. Non po¬ tendo farsi padrone della materia, non dovrebbe lasciarsi intimi¬ dire dal più idiota tra i proverbi, che vuole sia meglio non saper nulla che sapere poco. Se fosse vero, dopo tutto, e se lo prendessimo sul serio, dovremmo rinunciare fin da ora ad ogni forma di istruzione pre-universitaria, che è sempre, per defini¬ zione, superficiale. Non c’è nulla di male nell’aggirarsi per le scienze sociali alla ricerca di una formula, un’ipotesi, un modello, un metodo che abbiano attinenza immediata col proprio lavoro, e che potrebbero contribuire alla migliore comprensione dei dati e a una loro orga¬ nizzazione e interpretazione più pregnanti. Certo, è fondamentale

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scegliere la teoria e il metodo più adatto, e non quello sbagliato, una cernita non certo facilitata dal fatto che nessuna scienza sociale dispone oggi di un unico Vero Modello, versando tutte in una condizione estremamente primitiva e caotica. Allo stato attuale delle cose, anzi, parrebbe che alcune di esse, in partico¬ lare l’economia, la sociologia e la psicologia, siano sull’orlo del tracollo e della disintegrazione intellettuale. D’altro canto, però, ciò concede allo storico maggiore libertà di scelta. Può attingere alla sociologia marxista, weberiana o parsoniana; all’antropologia sociale, culturale o simbolica; all’economia classica, keynesiana o neo-marxista; alla psicologia freudiana, eriksoniana o junghiana. Per lo storico la linea di condotta migliore consiste nella cernita di ciò che gli pare più immediatamente utile e illuminante; nel non prendere come Vangelo qualsiasi formula, modello, ipotesi, paradigma o metodo; nell’attenersi rigorosamente alla convinzione che qualsiasi teoria monocausale unilineare non può non essere falsa quando si tratta di spiegare un grande evento storico; e nel non lasciarsi mettere in soggezione dalla sofisticheria metodolo¬ gica, specie nel campo della quantificazione: in sostanza, consi¬ ste nel ricorrere a tutto il buon senso di cui è capace per compen¬ sare la sua ignoranza tecnica. È certo una procedura pericolosa. Ogni scienza sociale è una frontiera in rapido avanzamento, ed è fin troppo facile che un frettoloso invasore proveniente da un’altra disciplina si imbatta in un insieme di idee o di strumenti già sorpassato. Non tener conto dell’apporto delle scienze sociali è chiaramente un errore fatale; padroneggiarle tutte, o anche una soltanto, è chiaramente impossibile. In genere il massimo in cui lo storico può sperare è la visione sintetica e superficiale dello studente entusiasta inte¬ ressato alla materia. Di regola questo è sufiiciente e anzi, data la proliferazione e la crescente specializzazione delle discipline umane, è davvero il massimo cui si possa aspirare. Ma lo storico deve avanzare con grande cautela in questi campi, non dimenti¬ cando mai i limiti impostigli dalla sua relativa ignoranza. Un’igno¬ ranza inevitabile, dovuta all’enorme sviluppo della conoscenza, e alla sua frammentazione in discipline specializzate e chiuse in se stesse.

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La nuova storia La « nuova storia » nata dai grandi rivolgimenti alPinterno della professione negli ultimi quarant’anni si distingue/ da quella che l’ha preceduta per le seguenti caratteristiche. In primo luogo il modo diverso di organÌ2zare il materiale: i libri hanno una struttura analitica, non narrativa — non a caso quasi tutte le maggiori opere storiche degli ultimi venticinque anni hanno carat¬ tere analitico piuttosto che narrativo. In secondo luogo, si pone nuovi quesiti: perché le cose siano avvenute in quel dato modo, e con quali conseguenze, invece dei vecchi interrogativi sul cosa e sul come. È proprio per risolvere i nuovi quesiti che lo storico è costretto ad organizzare analiticamente il proprio materiale. In terzo luogo si occupa di nuovi problemi, attenta soprattutto a tre settori tutti riguardanti il rapporto tra l’uomo del passato e la sua società. Il primo è la base materiale dell’esistenza umana, i limiti imposti dalla demografia, dalla geografia umana e dal¬ l’ecologia (un tema che appassiona soprattutto i francesi), i livelli tecnologici, i modi della produzione e della distribuzione econo¬ mica, dell’accumulazione del capitale e dello sviluppo economico. Il secondo è il campo sempre più vasto della storia sociale. In questo ambito rientra lo studio delle funzioni, della composizione e dell’organizzazione di tutta una serie di istituzioni situate a un livello inferiore rispetto allo Stato nazionale: le istituzioni desti¬ nate alla distribuzione diseguale della ricchezza, del potere e dello status; quelle destinate alla socializzazione e all’istruzione, come la famiglia, la scuola e l’università; quelle destinate al controllo sociale, come la famiglia, la polizia, le carceri, i manicomi; quelle che organizzano il lavoro, come le aziende private, i monopoli e i sindacati; quelle del governo locale, come le assemblee muni¬ cipali, i funzionari rionali e le strutture politiche urbane; quelle destinate alla cultura e allo svago, come i musei, le gallerie d’arte, le case editrici, il mercato del libro, le feste, gli sport organizzati. Oltre alle istituzioni, è vivissimo anche l’interesse per i pro¬ cessi sociali: per la mobilità sociale, geografica e occupazionale, sia tra gruppi che tra individui all’interno di un gruppo, e per i mutevoli modelli distributivi delle tre variabili chiave; la ric¬ chezza, il potere e lo status. Si tenta di situare questa mobilità — o la sua assenza — nel contesto dei conflitti o della coopera-

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zione tra gruppi, il che induce a ricercare le radici sociali dei movimenti politici e ideologici, sia all’interno àoWfélite domi¬ nante, sia nella massa che la segue: i puritani nel Seicento, ad esempio, o i radicali religiosi o politici del Settecento, o i liberali dell’Ottocento, o i fascisti del Novecento Il terzo grande campo di attività, che va rapidamente guada¬ gnando terreno, è un nuovo tipo di storia socio-culturale: vale a dire lo studio intensivo degli effetti sull’opinione pubbHca di massa dei diversi sistemi di comunicazione, dalla stampa, all’alfa¬ betizzazione, al contrabbando delle opere proibite; dei legami tra l’alta cultura e la sua matrice sociale e politica; della reciproca interazione tra la cultura dominante e quella popolare; e infine, ma non per questo meno degni di attenzione, gli studi sulla cul¬ tura delle masse semianalfabete come campo di ricerca a se stante, e non soltanto come elemento, sia pure importante, del più vasto campo della storia delle classi lavoratrici. La quarta caratteristica della « nuova storia » è data dalla novità della sua materia: le masse, in luogo di quella minuscola élite pari all’uno, o al massimo al due, per cento della popola¬ zione che sino a poco tempo fa costituiva l’oggetto della storia. Si è tentato deliberatamente di strapparsi all’antico fascino dei detentori ereditari del potere politico e religioso, dei monopolizzatori della parte più consistente dei capitali, dei consumatori esclusivi dell’alta cultura. Nella sua Elegy Written in a Country Churchyard Thomas Cray dichiarava: het not [...] grandeur bear with a disdainful smile The short and simple annals of thè poor *. E vero che fino a tempi assai recenti gli storici considera¬ vano i poveri con un « sorriso altero », concentrando buona parte della loro attenzione su re e presidenti, nobili e vescovi, gene¬ rali e uomini politici. Negli ultimi decenni il cambiamento è stato spettacolare, e molte tra le opere storiche più importanti sono dedicate alle masse incapaci di esprimersi, le cui cronache, per quanto indubbiamente « brevi », si sono rivelate tutt’altro che « ingenue », Le opere di studiosi come Eugene Genovese sugli schiavi in America, di Edward P. Thompson e Eric J. Hobsbawm sulla classe operaia in Inghilterra, di Marc Bloch, Georges Le-

* Il grande non consideri con un sorriso altero / le brevi e ingenue cronache della meschinità.

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febvre, Georges Duby, Pierre Goubert e Emmanuel Le Roy Ladurie sui contadini francesi, sono universalmente riconosciute come testi classici della loro generazione. La sfida — che per quanto riguarda il periodo a partire dal secolo XVII può ormai dirsi più o meno vinta — consiste nel trovare il modo di rico¬ struire l’atteggiamento mentale, i valori e la visione del mondo di uomini che non hanno lasciato testimonianza scritta dei loro pensieri e sentimenti personali: in altre parole, del novantanove per cento dell’umanità vissuta prima del 1940. Senza dubbio la forza motrice di questo radicale mutamento dell’oggetto di stu¬ dio venne dall’antropologia e dalla sociologia, ma le tecniche che consentono di addentrarsi in queste zone oscure dell’esperienza passata furono, e continuano ad essere, elaborate in modo auto¬ nomo da numerosi storici creativi quanto rigorosi, costretti a sco¬ prire nuove fonti sulle quali lavorare. A seguito di tutti questi sviluppi, sono almeno sei i grandi campi della ricerca storica entrati nella fase eroica dell’esplora¬ zione preliminare, e avviati a una rapida evoluzione, i cui prota¬ gonisti possono conoscere l’emozione dello scienziato naturale che anno dopo anno spinge sempre più in là le frontiere della cono¬ scenza dei fatti e della comprensione teorica. Essi si trovano ancora nell’esplosiva fase primaria dell’accumulazione della cono¬ scenza e della formazione delle ipotesi. Uno di questi è la storia della scienza, sia in quanto storia interna, fine a se stessa, dello scambio delle idee tra pochi uomini di genio, sia in quanto riflesso del mutare della cultura e della società nelle diverse epoche. T. S. Kuhn, col suo concetto del paradigma scientifico e del modo in cui si modifica, e R. K. Merton, con la sua opera sulla sociologia della professione scien¬ tifica, hanno rivoluzionato l’intero settore. Il secondo campo è la storia demografica, sviluppatasi dopo che i demografi moderni ebbero riconosciuto il ruolo decisivo del¬ l’entità, della crescita e della distribuzione per fasce d’età della popolazione nel determinare tanti aspetti della vita nel secolo XX. Si è arrivati così ad un assalto in massa ai documenti demo¬ grafici del passato, perlopiù materiali riferiti a censimenti e regi¬ stri parrocchiali di battesimi, matrimoni e morti, di cui soltanto oggi si cominciano a cogliere i primi frutti maturi. Risulta già evidente, comunque, che quantomeno a partire dal secolo XVI l’Europa nord-occidentale e il Nordamerica hanno presentato un

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modello affatto unico di nuzialità assai tarda e di fertilità relati¬ vamente scarsa. È inoltre assodato che in passato si verificarono marcati cambiamenti nell’assetto quantitativo delle popolazioni e nelle tendenze demografiche, nonché nei tassi di mortalità e di fertilità, la cui combinazione ha creato una sorta di modello omeostatico. Non si demolisce con questo l’ipotesi di una fondamentale transizione demografica nel corso del secolo XIX, da un tasso di natalità e di mortalità elevato ad uno più basso, ma tanto basta per modificare sostanzialmente la valutazione del suo impatto, e per confutare l’antico presupposto dell’uniformità del mondo demografico premoderno Il terzo campo è la storia del cambiamento sociale, lo studio dell’interazione tra l’individuo e la società che lo circonda. A questo scopo è stato necessario identificare gruppi di status e classi sociali, analizzare le istituzioni, le strutture e i valori so¬ ciali, e i modelli della mobilità sociale individuale e di gruppo. Il quarto campo è la storia della cultura di massa — delle mentalités. Decisamente ispirato all’antropologia, esso ha già pro¬ dotto, per quanto riguarda i secoli XVI e XVII, opere di grande valore come quelle di R. Mandrou sulle credenze popolari, di N. Zemon Davis sui rituali e le feste, di K. V. Thomas sulla magia, di E. Eisenstein sugli effetti dell’invenzione della stampa e della conseguente alfabetizzazione, nonché interi scaffali di libri e articoli sulla stregoneria; per quanto riguarda il secolo XVIII ha prodotto gli studi di Michel Vovelle sulla decristianizzazione, e di Robert Darnton sulla diffusione dell’Illuminismo nella bassa cultura; quanto al secolo XIX, della nascente cultura politica della classe operaia si sono occupati E. P. Thompson per l’Inghilterra, Maurice Agulhon e Charles Tilly per la Trancia. Il quinto campo è la storia urbana, una materia che ancor oggi pare alla ricerca di un problema, nella misura in cui la sua unica, vaghissima, definizione consiste nel fatto di comprendere tutto ciò che avviene nelle città. Allo stato attuale si occupa, con una metodologia soprattutto quantitativa, di geografia e ecologia urbana, di religiosità e valori sociali urbani, di sociologia e demo¬ grafia urbana, di politica e amministrazione urbana C e infine la storia della famiglia, anch’essa attualmente in una fase di sviluppo esplosiva ma ancora disarticolata. Si inte¬ ressa non soltanto ai limiti demografici entro i quali è costretta la vita familiare, ma anche dei legami di parentela, delle strut-

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ture più o meno allargate della famiglia, degli assetti e delle con¬ venzioni matrimoniali con le relative cause e conseguenze econo¬ miche e sociali, del mutare nel tempo dei ruoli sessuali e della loro diversificazione, dei diversi atteggiamenti teorici e pratici nei confronti dei rapporti sessuali, nonché del mutare dei legami affet¬ tivi tra marito e moglie, e tra genitori e figli. Questi sei campi di indagine sono quelli che attualmente sem¬ brano prospettare le novità più promettenti. Ma ci sono almeno altri tre candidati alla lista. Le nuove forme di storia politica, fondate sullo studio computerizzato così del processo decisionale legislativo per appello come della correlazione esistente tra il com¬ portamento elettorale popolare e le variabili socio-culturali, a tutt’oggi hanno avuto soltanto qualche incerto, pur se promettente, accenno di avvio. Entrambi i filoni di ricerca richiedono una quantità enorme di tempo, e le soddisfazioni si fanno aspettare. Il secondo, perdipiù •— determinato com’è dalla capacità di col¬ legare i risultati elettorali rionali o di quartiere con le variabili etniche, religiose, economiche e di altro genere rivelate dai dati sui censimenti ottocenteschi — presta il fianco all’« errore ecolo¬ gico ». Non è facile mettere in rapporto le informazioni stati¬ stiche sulle caratteristiche di un gruppo residente in una data area geografica con il comportamento politico tenuto in determi¬ nate occasioni da un gruppo particolare, ma ignoto, di individui appartenenti all’area medesima La nuova storia politica è quin¬ di ancora ai primi passi, nonostante l’immensa e costosissima banca-dati ormai accumulata dal Consorzio universitario per la ricerca politica di Ann Arbor. Anche la psicostoria rivendica sempre più insistentemente la sua legittimità a costituirsi in campo di ricerca a se stante. Può assumere due forme, la prima delle quali studia l’individua¬ lità, il contributo dell’esperienza infantile alla strutturazione psico¬ logica, e quindi il comportamento e le azioni in età adulta dei personaggi intellettuali o politici più in vista del passato. Per far questo occorre addentrarsi in quello che è in genere un pe¬ riodo assai oscuro anche nelle vite meglio documentate, partendo perdipiù da determinati presupposti teorici sul legame tra l’espe¬ rienza infantile e il comportamento adulto. È sorprendente, e sconsolante, il fatto che l’opera più interessante in questo set¬ tore sia ancor oggi una delle più vecchie, Young Man Luther: A Study in Fsychoanalysis and History di Erik H. Erikson [trad.

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it. Il Giovane Lutero, Roma 1979]. Il secondo tipo di psico¬ storia si interessa alla psicologia di gruppi particolari; tra i libri più influenti possiamo citare L’enfant et la via familiale sous Vancien régime di Philippe Ariès [trad. it. Padri e figli nell’Euro¬ pa medievale e moderna, Bari 1968], e Slavery: A Problem in American Institutional and Intellectual Life di Stanley M. Elkins, dedicati rispettivamente all’infanzia e agli schiavi Come vedre¬ mo più avanti, però, tutto sta ad indicare come la psicostoria si stia muovendo in una direzione a-storica, rifacendosi a precon¬ cetti non verificabili sulla natura umana ricavati dalle scienze so¬ ciali e affatto indifferenti al condizionamento culturale radicato nella storia. Se la storia dell’economia possa ancora far parte dei settori in via di sviluppo esplosivo è questione tutt’altro che definita. Senza dubbio la sua fase eroica furono gli anni compresi tra il 1910 e il 1950, dominati da studiosi come Frederic C. Lane, Thomas C. Cochran e John U. Nef in America, M. M. Postan, J. H. Clapham e T. S. Ashton in Inghilterra, Marc Bloch e Henri Sée in Francia. Questi uomini, e altri loro coetanei altrettanto autorevoli, sono ormai tutti morti, o in pensione; dalle riviste e dai libri del settore si ha l’impressione che i loro Successori si dedichino in buona parte a un lavoro di pulizia, colmando i vuoti nei dati, modificando le ipotesi troppo semplicistiche, e in genere rimettendo ordine nel settore. L’unico impeto nuovo viene dal Middle West americano, con la cosiddetta « nuova storia econo¬ mica », decisamente ispirata ai modelli econometrici formali e alla progredita sofisticazione matematica dell’economia pura Rimane ancora da vedere in quale misura questa « nuova sto¬ ria economica » sarà capace di trasformare e ravvivare la materia. Si nutrono gravi dubbi sulle possibilità della storia fondata sui modelli ipotetici — definita da un critico « la storia fondata sul principio che se mia nonna avesse avuto le ruote sarebbe stata una carrozza » — di produrre qualcosa di utile allo storico, cui interessa ciò che è accaduto, non ciò che poteva accadere, ma non accadde. È un dato di fatto, dopo tutto, che per il trasporto delle merci ingombranti l’America costruì le ferrovie, invece di affi¬ darsi alle vie d’acqua. Questo tipo di procedimento può offrire un utile apporto metodologico per chiarire le idee in merito alle ipotesi storiche, ma nulla di più^. Ancor più dubbia è l’even¬ tualità che gli incertissimi dati statistici lasciati anche da periodi

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recenti come il secolo XIX siano abbastanza solidi da poter soste¬ nere le fragili e sofisticate sovrastrutture che tanto deliziano i « cliometristi » — come si compiacciono di definirsi. Impressio¬ nanti se visti da lontano, questi edifici appaiono assai meno sicuri quando vengono sottoposti ad un esame critico dettagliato. Una delle difficoltà nell’applicazione della teoria economica alla storia sta nel fatto che essa dà il meglio di se stessa quando tratta pro¬ blemi le cui variabili sono ridotte, e dunque più facili da maneg¬ giare; spesso però si tratta di problemi tanto ristretti da risultare triviali. Ulteriore difficoltà, il fatto che la teoria economica con¬ cepisce un mondo in cui la scelta è sempre libera e razionale, e non è mai distorta dal pregiudizio personale o di classe, o dal potere monopolistico. Un mondo del genere non è mai esi¬ stito Vale la pena di osservare che, fatta eccezione per il com¬ portamento elettorale e l’analisi per appello, tutti questi campi di studio rientrano nella categoria generale della storia ecologica, o sociale, o della mentalità; che, a parte la storia della scienza e la psicostoria individuale, si occupano tutti delle masse piutto¬ sto che delle élites; che di regola si interessano più al cambia¬ mento nella lunga che nella breve durata; e che il loro sistema di riferimento è in genere più grande o più piccolo dello Stato nazionale. Per affrontare i problemi indotti dalle nuove aree di ricerca gli storici hanno adottato una serie di nuove tecniche, tutte prese a prestito dalle scienze sociali. Una di queste è la prosopografia, come la chiamano da sempre gli storici classici, ovvero l’analisi delle linee di carriera, per dirla con gli scienziati sociali. È uno strumento prezioso per l’esplorazione di qualsiasi aspetto della storia sociale: si tratta di indagare sulle caratteristiche di fondo comuni ad un gruppo-campione di attori storici attraverso lo stu¬ dio collettivo di un insieme di variabili uniformi che interessano le loro vite — come la nascita e la morte, il matrimonio e la famiglia, le origini sociali e la posizione economica e di status ereditata, il luogo di residenza, il livello di istruzione, l’entità e la fonte del patrimonio e del reddito personali, l’occupazione, la fede religiosa, l’esperienza nelle cariche pubbliche e via dicendo. Questo strumento viene impiegato soprattutto per agganciare i due problemi delle radici sociali dell’azione politica, e della strut-

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tura e mobiiità sociale. Lo studio delle élites, fino a poco tempo fa oggetto principale di questo genere di indagine, doveva ben poco alle scienze sociali; l’opera di studiosi come Ronald Syme e Lewis Namier aveva poco o nulla a che fare con Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca e gli altri teorici della politica ò.'élite. Gli stu¬ diosi delle masse, dal canto loro, sono stati costretti — o l’hanno scelto deliberatamente — a seguire i metodi della ricognizione generale, ignorando le accattivanti suggestioni degli studi sui casi individuali e limitandosi alla correlazione statistica di molte varia¬ bili riguardanti un campione della popolazione, nella speranza di imbattersi in qualche scoperta di rilievo. Questa tecnica ha recen¬ temente prolificato, generando la « psefologia » (psephology), ovvero lo studio del comportamento elettorale fondato sulla cor¬ relazione tra i modelli di voto dell’elettorato e i dati dei censi¬ menti, o l’analisi per appello, che studia il comportamento elet¬ torale dei legislatori Il secondo metodo è la storia locale, lo studio approfondito di una località — un villaggio o una provincia — nel tentativo di scrivere una « storia. totale » nell’ambito di un’entità geografica di dimensioni trattabili, mettendo così in luce i problemi più ampi del cambiamento nella storia. Senza dubbio le opere più impor¬ tanti in questo settore sono quelle dei francesi, in particolare di Pierre Goubert e Emmanuel Le Roy Ladurie su intere province, di Pierre Deyon su una singola città, e di Martine Segalen e Gerard Bouchard su singoli villaggi. Anche la storia coloniale della Nuova Inghilterra è stata però rivoluzionata da analoghi studi condotti da Philip Greven, John Demos, Kenneth Lockridge e altri, mentre la storia dell’Inghilterra è stata grandemente arric¬ chita dalla scuola di studi locali che fa capo a Leicester, e in particolare dall’opera di William G. Hoskins e di Joan Thirsk I « nuovi » storici hanno preso a prestito dalle scienze sociali anche una serie di nuove tecniche, sulla maggior parte delle quali ci siamo già soffermati: la quantificazione, i modelli teo¬ rici consapevoli, la definizione esplicita dei termini, la disponi¬ bilità a trattare i tipi ideali astratti, oltre che le realtà partico¬ lari. Quanto agli strumenti materiali, il prestito più importante è stato il computer, dapprima adoperato dagli scienziati natu¬ rali, poi adottato da quelli sociali e oggi accessorio sempre più diffuso per il ricercatore storico che pratica questi nuovi campi. Intorno al 1960 gli storici ebbero improvvisamente libero ac-

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cesso a questa macchina tanto potente quanto ottusa, che può trattare quantità enormi di dati con una rapidità favolosa, ma soltanto se questi le vengono presentati in categorie limitate, spesso artificiose, e se le domande sono formulate nel modo più chiaro, logico e preciso. Quindici anni di esperienze contraddit¬ torie con questa macchina hanno insegnato agli storici la sua potenziale utilità ma anche i suoi concreti difetti. Trattando grandi quantità di dati è capace di rispondere a un numero mag¬ giore di domande, e di verificare un numero maggiore di corre¬ lazioni multiple di quanto potrebbe fare la mente di un uomo in una vita intera. Ma non capisce l’ambiguità, e dunque esige che i dati vengano confezionati in una forma ben precisa, in categorie chiaramente definite, rischiando di distoreere la com¬ plessità e l’incertezza della realtà. Inoltre la preparazione del materiale richiede una quantità enorme di tempo sicché, tutto sommato, se anche il ricorso al computer aumenta in misura enorme le dimensioni del campione e la complessità delle corre¬ lazioni delle variabili, può darsi che i tempi della ricerca ne risultino comunque rallentati. E ancora, il computer impedisce quel processo di feedback che è il modo di pensare normale dello storico, che verifica le sue intuizioni sui dati, a loro volta generatori di nuove intuizioni. Quando lo storico usa il computer questo procedimento a due direzioni diviene impossibile fino all’ultimissima fase della ricerca,. poiché solo quando saranno finalmente disponibili gli stampati affiorerà qualche accenno di possibile soluzione dei problemi, capace di generare nuove idee e nuovi interrogativi. Purtroppo accade spesso che omissioni o semplificazioni avvenute all’atto della registrazione e codificazione dei dati impediscano di ottenere le risposte agli interrogativi sorti in una fase successiva. La cosa peggiore è poi quel tipo di atrofia delle capacità critiche che pare derivare dal semplice fatto di lavorare con schede perforate e computer. Come osserva Hudson, « Pare che la maggioranza degli scienziati sociali che si affidano alle schede perforate e ai computer rinunci in pratica alle sue capacità di ragionamento, e di conseguenza i dati risul¬ tano quasi immancabilmente sotto-analizzati, o analizzati nel modo più goffo e approssimativo. Pare insomma che, impercet¬ tibilmente, sia il ricercatore a divenire una creatura della mac¬ china per il trattamento dei dati, e non viceversa » Nonostante la sua impostazione sostanzialmente umanistica.

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lo storico corre il rischio di questa insidiosa deformazione men¬ tale allo stesso modo dei colleghi delle scienze sociali. Il computer è una macchina di cui d’ora in avanti gran parte degli storici professionisti dovrebbe essere in grado di fare un uso elementare — sei settimane di corso sono più che suffi¬ cienti — ma deve essere impiegata soltanto come ultima risorsa. Là dove è possibile, gli storici quantitativi faranno bene a lavo¬ rare su campioni più piccoli, utilizzando una calcolatrice a mano. Nonostante le sue innegabili ed esclusive virtù, il computer non è certo quella risposta ai desideri dello storico che si sperava potesse essere.

Il futuro della storia e delle scienze sociali E indubbio che negli ultimi quarant’anni la « nuova storia », con i suoi considerevoli debiti nei confronti delle scienze sociab, ha ringiovanito la scienza storica, tanto che quest’arco di tempo può essere considerato, insieme con i quarant’anni che precedet¬ tero la prima guerra mondiale, il più fertile e creativo nella storia della professione. Chiunque abbia avuto la buona sorte di aver vissuto e lavorato in questo periodo non può che essere orgo¬ glioso dei risultati conseguiti nella comprensione deU’uomo nella società del passato. Oggh però, il futuro appare meno promettente, in parte per¬ ché il successo stesso del movimento sta generando qualche segno di hyhris. Resi arroganti dalla vittoria, alcuni dei sostenitori più accesi e aggressivamente sicuri di sé di questo o quell’aspetto della nuova storia non soltanto rivendicano un valore esagerato alla propria opera, ma riservano anche un immeritato disprezzo alla materia e alla metodologia degli storici più tradizionali. Com e inevitabile, questo atteggiamento provoca vivaci reazioni, tanto da far pensare ad un nuovo conflitto tra Antichi e Mo¬ derni — il che nuocerebbe a entrambe le parti. La mancanza di moderazione dei nuovi vincitori trova l’esempio migliore nei titoli e nel contenuto dei manuali recentemente preparati da al¬ cuni tra i più autorevoli rappresentanti della professione in Ame¬ rica e in Francia. Nel 1971 David S. Landes e Charles Tilly pubblicarono una raccolta di saggi intitolata History as a Social Science, in cui la « nuova storia » avanzava rivendicazioni fin

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troppo audaci. Nel 1974 Pierre Chaunu pubblicava Histoìre, Science sociale: La àuree, Vespace et l’homme à Vépoque moderne, in cui affermava che la storia è né più né meno una scienza sociale. L’assunto al fondo di questo atteggiamento nei confronti della storia in quanto disciplina è stato così descritto da un cri¬ tico piuttosto ostile: « Agli occhi di alcuni Pindottrinamento sistematico degli storici in tutte le scienze sociali evoca un’im¬ magine di inseminazione, in cui Clio giace inerte, priva di pas¬ sione (se non forse per il roteare degli occhi) mentre l’antropo¬ logia o la sociologia gettano il loro seme nel suo grembo ». Giu¬ stamente il nostro critico (E. P. Thompson) chiede alla Musa della Storia di reagire in modo più attivo e energico a questa aggressione contro la sua persona (una reazione che meglio cor¬ risponda alla rivoluzione sessuale della nostra epoca) L’obie¬ zione principale all’assorbimento totale della storia nelle scienze sociali auspicato da Chaunu ed altri è che « la disciplina della storia è soprattutto disciplina del contesto », che tratta un parti¬ colare problema e un particolare gruppo di agenti in un momento particolare in un luogo particolare. Il contesto storico va consi¬ derato prima di ogni altra cosa, e non può essere ignorato o messo da parte per riuscire ad inserire i dati in un qualche modello onnicomprensivo ispirato alle scienze sociali. La stregoneria nel¬ l’Inghilterra cinquecentesca, ad esempio, può risultare illuminata dai casi di stregoneria nell’Africa del ventesimo secolo, ma è diffìcile che questi possano spiegarla, stante l’enorme diversità dei contesti sociali e culturali. Vista dall’altro lato della barricata, agli occhi di molti scien¬ ziati sociali la storia appare ormai poco più di un’utile fonte di dati finalizzati alle loro indagini teoriche. La storia esiste, è stato sostenuto, anche « allo scopo esplicito di far progredire le inda¬ gini delle scienze sociali »: una presa di posizione estrema, certo, ma che si basa su una concezione fondamentalmente errata del¬ l’integrità e dell’importanza della storia in quanto studio del¬ l’uomo nella società del passato Tanto più che questo appare come un momento inopportuno per aggiogare la Musa della Storia al carro delle scienze sociali, che attualmente versano quasi tutte in uno stato di grave crisi, e procedono ad una riflessione interna sulla propria validità scien¬ tifica. L’idea di un’antropologia avalutativa è stata spazzata via dai diari di Malinowski; la sociologia avalutativa incontra criti-

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che sempre più severe, che attaccano la sua stessa utilità; alla luce dei lampanti svarioni ideologici di F. Skinner, e delle anti¬ tetiche teorie romantiche di R. D. Laing, la psicologia avalutativa è chiaramente un non-senso; quanto alla più « dura » delle scien¬ ze sociali — l’economia — ha fallito nella sua missione di pre¬ vedere e curare i nuovi problemi della stagflazione, dei giganti multinazionali e della limitatezza delle risorse naturali. Per cam¬ biar di metafora, è forse tempo che i topi storici abbandonino la nave delle scienze sociaH, piena di falle e ormai sottoposta a sostanziali lavori di restauro, invece di tentare di arrampicarsi a bordo. La storia è sempre stata sociale, ma si è lasciata at¬ trarre dal canto delle sirene delle scienze sociali convinta — forse a torto, come ormai è dato di pensare — della loro scientificità. D’altro canto però, poiché tutte queste scienze stanno attra¬ versando un periodo di rivolgimenti e transizioni, nessuno può prevederne il futuro. Ci fu un momento in cui pareva che sareb¬ bero stati i sociologi ad offrire agli storici il contributo maggiore — come fu infatti per Max Weber e R. K. Merton — per poi ripiegare sulla ricognizione quantitativa generale, o sulla più astratta delle teorie funzionaliste, entrambe sostanzialmente inu¬ tili ai fini della storia. Oggi l’apporto più sentito viene dalla demografia e dall’antropologia simbolica e sociale. Tra dieci anni sarà un’altra disciplina, forse la psicologia sociale, ad avere molto da offrire alla storia. Lungo questa frontiera in perpetuo movi¬ mento la disciplina più influente muta di decennio in decennio, e lo storico deve stare sempre all’erta per cogliere le nuove ten¬ denze e le nuove idee. Può ben darsi che si tratti soltanto di un temporaneo periodo di ripensamento prima di un nuovo balzo in avanti. Si può comunque affermare con una certa sicurezza che esi¬ stono almeno tre modi in cui gli storici orientati verso le scienze sociali rischiano di consentire all’entusiasmo di avere la meglio sul raziocinio. Il primo consiste nell’immoderato e sventato ri¬ corso alla quantificazione come risposta a tutti i problemi^. È troppo facile esagerare le potenzialità di questo metodo, finché lo strumento diviene fine a se stesso. Un esempio classico di come non (debba essere applicato ci viene dalla innovatrice ricerca sulla schiavitù in America condotta da Robert W. Fogel e Stanley L. Engerman, Time on thè Cross: The Economics of American Negro Slavery. È ormai evidente che le fonti storiche sono state

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comprese e utilizzate in modo gravemente scorretto, e che nella loro furia quantificatrice gli autori sono pervenuti a risultati ad un tempo falsi e privi di significato. Pare inoltre che le manipo¬ lazioni statistiche stesse fossero seriamente carenti. Di conse¬ guenza tutte le principali conclusioni del libro, sulla relativa mi¬ tezza della schiavitù come forma di disciplina industriale, sulla rarità della separazione forzata delle famiglie di schiavi, sull’assi¬ milazione da parte della manodopera servile dell’etica puritana dell operosità, nonché sulla fondamentale redditività e praticabi¬ lità economica del sistema schiavista, rimangono certamente da dimostrare, e forse si riveleranno false La pretesa di aver demolito un secolo di erudizione storica ricorrendo ai più moderni metodi quantitativi si è rivelata una spacconata priva di con¬ tenuto. Sono parecchie le morali da trarre da questo esempio. Innan¬ zitutto l’apporto della metodologia quantitativa, per quanto sofi¬ sticata, non potrà mai compensare l’errata interpretazione o la carenza dei dati. L’unico risultato è quello che gli esperti in computer definiscono « effetto GIGO »: garbage in - garhage out (immondizia in entrata - immondizia in uscita). Prima della metà del secolo XX qualsiasi informazione statistica è da ritenersi più o meno inesatta, incompleta o inutilizzabile (in quanto di regola intesa per un uso affatto diverso da quello cui intende adibirla 10 storico), e dunque non soltanto è futile, ma oggettivamente fuorviante calcolare numeri o percentuali precise fino a due deci¬ mali. Una modesta proposta per contribuire a una maggiore one¬ stà nella nostra professione potrebbe essere l’approvazione di una mozione autocensoria contro la pubblicazione di qualsiasi libro o articolo fondato su fonti storiche anteriori al secolo XX che contenga percentuali esatte fino al primo decimale, per non par¬ lar del secondo. Un altro grave difetto dei più ambiziosi tra i quantificatori consiste nel non conformarsi a quei criteri professionali, desti¬ nati a consentire la valutazione scientifica dei dati, che sono stati faticosamente elaborati da più di un secolo di erudizione storica. Time on thè Cross, ad esempio, fu pubblicato in due volumi. 11 primo, che conteneva soltanto le conclusioni, fu distribuito in un gran numero di copie, mentre la tiratura del secondo fu assai inferiore, e avvenne in un momento successivo. Ma la cosa peg¬ giore è che nel secondo volume molte delle conclusioni del primo

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non risultano sostanziate, e non si trova nemmeno un elenco dei documenti consultati. Ci si limita a rassicurare il lettore sulla vastità senza precedenti dei dati esaminati, la cui pubblicazione completa viene intrapresa soltanto ora, molto tempo dopo l’uscita delle conclusioni. D’altro canto è giusto spiegare come, anche quando si preoc¬ cupano di descrivere scrupolosamente le fonti e i metodi, non è possibile che gli storici quantitativi, impegnati su masse enor¬ mi di informazioni, mettano in stampa tutti i dati grezzi su cui si basa il loro studio, ed altrettanto impossibile è un resoconto più che sintetico del modo in cui il materiale grezzo è stato mani¬ polato. Sarà possibile, nella migliore delle ipotesi, una breve descrizione delle fonti e dei metodi in un articolo o appendice a se stante (sempre molto prolissi e noiosi), che comunque conti¬ nuerà a nascondere più di quanto non riveli sul modo in cui le sfumature e le ambiguità dei dati grezzi sono state compresse in una forma leggibile dalla macchina, poiché non potremo mai disporre del codice completo. Altrettanto oscura, o quasi, risulta ogni successiva manipolazione statistica. Il concorrere dei tre pro¬ blemi obbliga spesso il lettore a scegliere tra l’accettazione sulla fiducia e il rifiuto aprioristico di cifre i cui metodi di verifica non gli vengono rivelati in modo completo, e che probabilmente, se lo fossero, sarebbero al di là delle sue possibilità di com¬ prensione. Un ottimo esempio ci viene dal nuovo e stimolante libro di Charles, Louise e Richard Tilly, The Rebellious Century, 18301930 (Harvard University Press, Cambridge Mass. 1975). Se vuole scoprire le fonti e i metodi alla base dei grafici 5-8, sugli atti di violenza collettiva in Francia nell’arco di più di un secolo — la cui raccolta, codificazione e analisi ha richiesto innume¬ revoli ore-uomo di molti ricercatori per più di un decennio — il lettore è costretto a rintracciare le descrizioni metodologiche sparse in non meno di sei articoli diversi (p. 314). Saranno pochi i lettori abbastanza tenaci o curiosi da arrivare a tanto. La grande maggioranza, com’è inevitabile, accetterà i grafici così come stanno, senza approfondire. La ratifica o la condanna delle scoperte più importanti del libro dipendono dall’attendibilità di questi grafici, eppure non c’è nulla nel libro stesso che ci con¬ senta di accertare in quale modo sono stati compilati, mentre le complicatissime analisi usate per spiegare l’andamento alterno

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dei grafici basterebbero a confondere chiunque non appartenga alla cerchia dei cliometristi più sofisticati. Questo libro, cui manca buona parte dell’apparato erudito fondamentale, si conforma evi¬ dentemente ai migliori criteri di erudizione di cui la storia cliometrica sia capace. È il prodotto di un decennio di massicce ricer¬ che, eppure al lettore rimane un’impressione di impotente disa¬ gio sia per quanto riguarda l’attendibilità dei dati, sia per la validità delle spiegazioni proposte. Il libro pone quindi nei ter¬ mini più vistosi il problema della verifica nella storia cliometrica. Se il lettore coscienzioso rimane sconcertato anche da que¬ st’opera, senza alcun dubbio tutte le altre gigantesche imprese del medesimo genere gli lasceranno la medesima impressione. Dob¬ biamo quindi concludere che qualsiasi progetto di queste dimen¬ sioni non ha alcuna possibilità di mettere a disposizione del let¬ tore tutti i dati grezzi, i codici e la metodologia statistica. Ne consegue l’impossibilità di seguire i normali processi di verifica sulla scorta delle note a piè di pagina. In quale modo il revisio¬ nismo storico possa procedere in queste circostanze rimane an¬ cora da capire. L’unica soluzione sarebbe di depositare tutti i dati grezzi — i codici, i programmi e lo stampato — in banche¬ dati statistiche alle quali possano rivolgersi i ricercatori più seri per ricontrollare l’intero procedimento dall’inizio alla fine. Ban¬ che-dati di questo genere stanno nascendo — come già si è detto — ad Ann Arbor e altrove e potranno forse fornire una soluzione parziale al problema, purché gli studiosi accettino di mettere a disposizione non soltanto il prodotto finale — i nastri del computer — ma anche i dati, i codici e ogni altro materiale. È giusto però aggiungere che non furono i cliometristi i primi a macchiarsi del reato di lesa erudizione. Anche uno dei più autorevoli storici intellettuali americani della passata gene¬ razione, Perry Miller, non pubblicò il suo apparato critico, limi¬ tandosi a depositarlo presso la Houghton Library a Harvard. Quando, trentacinque anni dopo, un ricercatore curioso si prese la briga di esaminarlo, i risultati si rivelarono estremamente inquietanti. Fu subito chiaro che invece di fondarsi, come aveva dichiarato, sulla più vasta gamma di fonti possibile, Miller si era rifatto pesantemente ad un numero limitato di autori, tutti di impostazione nettamente unilaterale^. L’occasionale caduta di uno dei grandi storici tradizionalisti non basta comunque a giu-

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stificare l’adozione incondizionata di queste cattive abitudini da parte dei cliometristi. Non servirebbe a nulla ripetere il trito cliché reazionario dell’umanista con le spalle al muro: « con le cifre si può dimo¬ strare tutto »; è assai più facile dimostrare tutto con le parole, che vengono sempre organizzate tanto in vista dell’effetto reto¬ rico, come mezzo di persuasione soggettivo, quanto per portare avanti un’argomentazione logica. Si deve però riconoscere che esiste anche una retorica delle cifre, e soprattutto una retorica dei grafici. L’aspetto stesso di un grafico può essere radicalmente modificato cambiando la scala verticale o orizzontale; usando carta millesimata semilogaritmica invece che aritmetica; scegliendo con cura un numero indicatore base che evidenzi o mascheri una tendenza; utilizzando medie mobili invece che cifre grezze. La manipolazione dell’aspetto del grafico è del tutto indipendente dal problema dell’attendibihtà dei dati, e dal fatto che siano stati calcolati per estrapolazione, che siano stati adattati applicando un adeguato indice di errore, o che vi siano state apportate le opportune modifiche per tener conto del valore maggiore o mi¬ nore del denaro. Le percentuaH si prestano altrettanto bene alla manipolazione, a seconda dell’indicatore scelto come numero base. Uno dei problemi più gravi della quantificazione storica deriva dal fatto che lo storico medio ha imparato a esaminare le parole con il massimo grado di cura e di sospetto, mentre in genere accetta sulla fiducia un grafico o una tabella, e non è in grado di valutarne l’attendibilità o di capire in che modo sono stati elaborati. Non è preparato a guardare i dati numerici con l’occhio critico del professionista. Il difetto forse più grave di alcuni membri (ma non certo tutti) di questa nuova scuola di devoti cliometristi, come loro stessi si definiscono, è la tendenza ad ignorare o trascurare ogni testimonianza che non sia quantificabile, mentre proprio nella combinazione dei dati statistici con i materiali letterari e di ogni altro genere possibile risiedono le maggiori probabilità di arrivare alla verità. La dimostrazione di un’importante tesi storica è dav¬ vero convincente quando si fonda sulla più ampia gamma di fonti possibile, sui dati statistici come sui commenti contempo¬ ranei, sulle leggi approvate e applicate, sugli assetti istituzionali, sui diari e le corrispondenze private, sui discorsi pubblici, sulla teologia morale e gli scritti didattici, sulla letteratura creativa.

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sui prodotti artistici, sugli atti e sui rituali simbolici. Un ulteriore rischio deriva dai problemi di scala. Negli anni Sessanta si verificò una curiosa combinazione di circostanze che per la prima volta rendeva possibile la raccolta e la manipola¬ zione di enormi quantità di dati. Le circostanze in questione furono l’avvento del computer, l’accesso al quale era di fatto aperto a tutti, un interesse crescente per la mobilità sociale nel secolo XIX, la scoperta dei dati sui censimenti ottocenteschi, e l’improvvisa disponibilità di una cornucopia di fondi destinati alla ricerca, che consentì l’ingaggio di nutrite squadre di iloti da impiegare in vasti progetti collettivi. Il risultato fu l’affermazione dei grandi progetti di ricerca quantitativa. Queste gigantesche iniziative, la maggiore delle quali — vero tirannosauro della nostra epoca — è già costata più di due milioni e mezzo di dollari, sono cresciute perlopiù sul fertile suolo americano, ma se ne danno esempi anche in Francia e in Inghilterra. In un progetto congiunto franco-americano David Herlihy ed altri hanno riversato nel computer il catasto fiorentino del 1427, che elenca 60.000 famiglie e 264.000 persone. In Francia un’équipe diretta da Le Roy Ladurie ha computerizzato 78 variabili per 3.000 di¬ stretti desunti dal censimento dei coscritti francesi dal 1819 al 1930, mentre da anni Louis Henry coordina una gigantesca inda¬ gine — condotta in buona parte con calcoli manuali — sulla demo¬ grafia storica francese, fondata sia sui dati aggregati per centi¬ naia di villaggi e città, sia sulla ricostruzione familiare di un campione ridotto. In Inghilterra un’impresa analoga, e altrettanto ambiziosa, è stata avviata da E. A. Wrigley a Cambridge; si fonda sui dati aggregati di più di 400 villaggi, per una dozzina e più dei quali si è anche proceduto alla ricostruzione familiare. Anche i francesi sono impegnati a riversare nel computer i dati dei loro censimenti ottocenteschi, e lo stesso sta facendo per alcune zonecampione selezionate dell’Inghilterra un’équipe diretta da D, V. Glass, In Nordamerica procedono iniziative gigantesche, come la fabbrica accademica organizzata da Theodore Hershberg, impe¬ gnata ad analizzare con il computer i due milioni e mezzo di per¬ sone iscritte nei censimenti di Filadelfia tra il 1850 e il 1880, mentre un’altra « fabbrica » sostanzialmente analoga ma impo¬ stata su indirizzi assai più sofisticati, quella di Michael Katz, sta lavorando sulla città di Hamilton, Ontario. Queste grandi im¬ prese ricordano più un moderno laboratorio scientifico, con le sue

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squadre di ricercatori e le sue impressionanti attrezzature dirette da un unico professore, che non il tradizionale studioso solitario, assorto sui libri nel suo studio, o sui manoscritti in archivio. Sono molti i rischi impliciti in questi progetti; il più grave è che in una certa misura le conclusioni cui possono giungere gli studi quantitativi, col loro grande dispendio di denaro e di lavoro, dipendono tuttora dall’utilità e dall’attendibilità delle va¬ riabili scelte dal direttore della ricerca ancor prima di cominciare la raccolta dei dati. Se dunque nella compilazione del codice è sfuggita qualche variabile — ad esempio, la distribuzione sociale dell’alfabetizzazione quale risulta dalle firme nel catasto fiorentino del 1427 — l’omissione verrà scoperta troppo tardi per poter tornare indietro. Un altro difetto è la loro totale dipendenza dalla precisione e dalla completezza delle fonti originali, mentre tutto induce a sospettare che alcuni documenti, ad esempio i registri parrocchiali, siano gravemente e disordinatamente incompleti, talvolta per quanto riguarda le sepolture, talaltra per i matri¬ moni, e quasi sempre per la nascita e la morte dei neonati dece¬ duti entro la prima settimana di vita; che i documenti fiscali non siano quasi mai attendibili; che i censimenti, anche al giorno d’oggi, siano assai imprecisi, specie per le categorie occupazionali e per l’omissione di gruppi subalterni come i poveri, le donne, i bambini e via dicendo. Perdipiù, quand’anche i dati fossero accurati, non si può comunque essere sicuri che tutti i collabora¬ tori alla ricerca li codifichino nel medesimo modo. Quasi sempre sussiste, nel processo di codificazione, una certa misura di discre¬ zionalità personale. L’aspetto peggiore, poi, è che quando l’indi¬ viduo menzionato in un documento va riferito a quello menzio¬ nato in un altro, i problemi di collegamento tra le fonti diven¬ gono quasi sempre insuperabili, anche senza tener conto del fatto che chi si è trasferito in una zona diversa scompare del tutto dal campione. Considerando tutti questi problemi, e i risultati sinora pub¬ blicati, ci si chiede se la concentrazione in pochi progetti gigan¬ teschi di quantità enormi delle scarse risorse di denaro e mano¬ dopera disponibili sia stata davvero una scelta oculata, e se non sarebbe stato più produttivo distribuire quei fondi favorendo le ricerche di un gran numero di singoli studiosi. È ragionevole chie¬ dersi se settemila dollari assegnati a cento storici non avrebbero prodotto risultati migliori sul piano del progresso della conoscenza

I. La storia e le scienze sociali nel secolo XX

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che non settecentomila dollari spesi per un unico progetto. A tutt’oggi la documentazione sulla scorta della quale la questione potrebbe essere decisa non è comunque disponibile, e non lo sarà per parecchi anni a venire. In ogni caso, se pure alcuni di questi mammuth della ricerca storica giungeranno a qualche con¬ clusione davvero importante nell’arco dei prossimi cinque anni, è comunque probabile che finiscano per estinguersi nella glacia¬ zione finanziaria degli anni Ottanta. Se così accadrà, è possibile che di alcuni di essi non rimarranno che chilometri di nastro da computer e montagne di stampati, fonti di sorpresa negli anni a venire più per la mole che non per il loro potenziale apporto alla scienza. Desteranno meravigfia, un po’ come il progetto di mandare uh uomo sulla luna, testimonianza piuttosto delle enor¬ mi ambizioni, delle immense risorse finanziarie e del virtuosismo tecnico dell’uomo negli anni Sessanta che non del contributo scientifico al progresso della conoscenza. Alcuni di questi progetti si limitano a dimostrare ciò che è ovvio, come ad esempio che l’operaio ottocentesco risiedeva nelle vicinanze del luogo di lavoro, dovendo visi recare a piedi. Altri forniscono informazioni apparentemente prive di significato, che non sarebbero mai state misurate se non per il fatto di essere, appunto, misurabili — ad esempio, la distribuzione geografica del¬ l’ernia nella Francia del primo Ottocento, o le dimensioni medie di una famiglia inglese dal secolo XVI al XIX (4,75 persone) Altri minacciano di insabbiarsi a tal punto nei problemi metodologici, specie per quanto riguarda il collegamento delle fonti — l’impresa di dimostrare che il John Smith o Patrick O’ReiUy citato in un documento è lo stesso John Smith o Patrick O’ReiUy menzionato in un altro — che per anni o persino decenni non ne emerge nulla di significativo. Il problema del collegamento tra un documento e l’altro è anzi talmente grave da limitare deci¬ samente, nelle ricerche che considerano il cambiamento diacro¬ nico, il numero dei soggetti campionabili, spesso ridotti alle sole persone che hanno la sorte di un nome fuori dal consueto. L’unico libro ad afirontare questo problema è tutt’altro che rassicurante quanto all’attendibilità dei risultati della metodologia quantita¬ tiva quando questa dipende dal collegahiento delle fonti È probabile che molti di questi eccessi rechino in sé il germe della propria distruzione, ma è perniciosa, dal punto di vista della professione, la convinzione sempre più diffusa tra gli studiosi

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Parte prima. Storiografia

freschi di laurea che soltanto i temi in qualche modo quantifica¬ bili meritino di essere studiati — un atteggiamento che riduce drasticamente la materia della storia, e spesso conduce a quella medesima banalità scolastica dalla quale i pionieri della « nuova storia » avrebbero voluto liberare la loro professione. Ne con¬ segue che molto studenti, privi delle risorse necessarie per que¬ sti progetti giganteschi, si tuSano a capofitto negli studi quan¬ titativi, molti dei quali finiscono per dimostrare qualcosa che le fonti letterarie ci avevano fatto già conoscere da tempo, e sono irrimediabilmente compromessi dai difetti dei dati grezzi. Molti altri studi si basano su un campione troppo piccolo per poter avere un qualche significato — ad esempio, un grafico sui tassi di criminalità nel Medioevo fondato sui documenti di un unico tribunale feudale di un villaggio la cui popolazione fu letteral¬ mente decimata dalla Peste Nera. Lo studio stesso della crimina¬ lità attraverso l’analisi dei documenti giudiziari, oggi assai in voga, pone gravi problemi metodologici sul mutare del significato della criminalità e del modo in cui viene percepita dalle diverse classi della medesima società — i criminali appartenenti alle classi inferiori, i giudici e gli accusatori appartenenti a quelle superiori — in periodi diversi. E pone inoltre il problema inso¬ lubile di determinare se ciò che viene quantificato si riferisca alla mutevole realtà della definizione dell’attività criminale, o agli alti e bassi dello zelo della polizia e dei giudici Il medesimo problema concettuale si pone per quanto riguar¬ da il lavoro dei Tilly ed altri sul mutare dei livelli di violenza. Le diverse società assumono atteggiamenti assai differenziati di fronte alla violenza fisica, e tracciano in punti diversi il confine tra ciò che è violento e ciò che non lo è. Nei regimi europei del primo evo moderno, ad esempio, la rivolta popolare era uno strumento di protesta semilegale per chi non aveva altro modo di esprimersi, e nel modo in cui esso veniva impiegato c’era un « economia morale della folla » dotata di una propria legitti¬ mità E perdipiu, nonostante le spaventose conseguenze perso¬ nali di una ferita in un’epoca in cui la tecnologia medica era impotente, quando non era attivamente perniciosa, molte società accettavano con grande disinvoltura livelli di violenza interper¬ sonale che oggi ci farebbero orrore. Fino a quando non verrà chiarito lo spinoso problema delle percezioni storiche relative, gli studi quantitativi sulla criminalità o sulla violenza saranno

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La storia e le scienze sociali nel secolo XX

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sempre delle sortite interessanti sì, ma di dubbio valore, i cui risultati statistici si prestano a un’ampia gamma di interpreta2Ìoni, Ma la cosa più inquietante è il progetto — già avviato, a quanto ci risulta, a Chicago, Harvard e Rochester — di impo¬ stare su due direttrici significativamente distinte i futuri dotto¬ rati in storia Alcuni si prepareranno nel modo tradizionale, approfondendo la letteratura bibliografica nei settori più impor¬ tanti, familiarizzandosi con i grandi concetti interpretativi, e acquisendo un minimo di esperienza di lavoro sulle fonti prima, rie. Il secondo gruppo sarà troppo impegnato ad acquisire sofisti¬ catissime competenze nel campo della metodologia statistica e delle scienze sociali per poter arrivare a queU’ampia conoscenza storica e a quella familiarità con le fonti che sino ad oggi sono state considerate gli attributi essenziali dello storico di profes¬ sione. È evidente che da ciò si svilupperanno due tipi di storici radicalmente diversi. Non è difficile comprendere i motivi alla base di questa specializzazione, ma si tratta di una spaccatura metodologica da rifiutare, se vogliamo che la nostra disciplina continui ad essere un’impresa umana collettiva alla quale tutti possono prendere parte. Il secondo campo di ricerca che minaccia di sfuggire ad ogni controllo è la psicostoria. È ovvio che chiunque voglia studiare seriamente un individuo o un gruppo sociale è costretto a ricor¬ rere alle spiegazioni psicologiche del comportamento umano. Se gli psicostorici fossero capaci di attenersi al semplice enunciato che la funzione della psicologia consiste nel rendere più com¬ pleta la biografia di un individuo, tutto andrebbe per il meglio. Oggi però molti presuppongono l’esistenza di una teoria del comportamento umano che trascende la storia. La pretesa di pos¬ sedere un sistema interpretativo scientifico del comportamento umano, basato su dati clinici comprovati, universalmente valido indipendentemente dal tempo e dal luogo, risulta del tutto inac¬ cettabile per lo storico, in quanto non tiene conto dell’impor¬ tanza critica dei diversi contesti — religiosi, morali, culturali, economici, sociali e politici. Tanto più che questa pretesa è stata recentemente rifiutata anche da alcuni tra gli psicologi più intel¬ ligenti. Secondo Sigmund Koch, ad esempio, « la psicologia mo¬ derna ha proiettato un’immagine dell’uomo tanto avvilente quan¬ to semplicistica ». L’idea stessa della razionalità quantificatrice,

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Parte prima. Storiografia

tra l’altro, così cara alla psicologia sperimentale, viene ora consi¬ derata da alcuni come una « malattia della coscienza » ^. In secondo luogo, molti psicostorici hanno nei confronti delle nor¬ mali regole della documentazione un atteggiamento di assoluta disinvoltura; qualunque studente che decidesse di seguire i loro metodi incorrerebbe in un’inevitabile bocciatura. Anche l’opera più brillante di questo genere, il Giovane Lutero di Erik Erikson, ricava i suoi dati da una serie di eventi molti dei quali, come ammette francamente lo stesso autore, non sono che leggende postume, e potrebbero senza dubbio non essersi mai verificati. « Siamo costretti — afferma — ad accettare la semi-leggenda come semi-storia ». E infine lo storico ha difficoltà ad inghiottire l’atto di fede che consente al discorso di passare dal banale, dal¬ l’individuale, al cosmico, al generale — ad esempio, dalla pre¬ sunta stitichezza di Lutero e dai suoi litigi col padre alla rottura col papato e alla nascita della Riforma luterana. Sino ad oggi buona parte degli studi biografici fondati sulla psicostoria si sono rivelati una delusione, per assenza di risultati interessanti o di erudizione; 'più promettente parrebbe essere lo studio psicologico di gruppi sociali ben definiti sottoposti ad analoghe esperienze di stress, com’è ad esempio l’affascinante Padre e figli di Ariés, già menzionato più sopra. Questo particolare indirizzo di ricerca è comunque già minacciato dal riduttivismo psicologico più estremo — si veda ad esempio la History of Childhood di Lloyd De Mause — che compare ormai regolarmente sulle pagine dello « History of Childhood Quarterly ». L’orientamento più promet¬ tente è forse quello che modifica la rigidità della teoria psicolo¬ gica freudiana alla luce della storia sociale e culturale. L’esempio meglio riuscito è l’indagine di Cari Schorske sul cambiamento in tutti gli aspetti della cultura borghese nella Vienna tardo-otto¬ centesca^^. Sinora, però, Schorske ha avuto pochi imitatori. Il terzo elemento pericoloso è dato dall’abitudine di spia¬ nare la spiegazione storica in una gerarchia causale a senso unico; abitudine che sta diventando il marchio di fabbrica di molti studiosi francesi. Questo dogma postula l’esistenza di tre livelli di spiegazione, la cui relativa autonomia decresce seguendo un ordine di importanza gerarchico. In primo luogo l’infrastruttura, i parametri economici e demografici che sono i supporti del pal¬ coscenico e i primi motori del processo storico; poi viene la strut¬ tura, dell’organizzazione e del potere politico; e infine la sovra-

I. La storia e le scienze sociali nel secolo XX

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struttura, il sistema delle credenze intellettuali e culturali. Se intesa troppo rigidamente, questa sistematizzazione minaccia di soffocare ogni indagine creativa, escludendo a priori la possibi¬ lità che la spiegazione storica sia di fatto un processo assai più dispersivo e confuso. Per usare il linguaggio degli ingegneri, può ben trattarsi di un sistema di feedback a iterazione unilineare multipla, con molte variabili semi-indipendenti, ciascuna delle quali reagisce in risposta allo stimolo di alcune, o tutte, le altre. La critica fondamentale da muovere a queste minacce alla professione della storia è che esse tendono tutte a ridurre lo studio dell’uomo, e la spiegazione del cambiamento, a un deter¬ minismo semplicistico, meccanicistico, fondato su una qualche idea teorica preconcetta di validità universale, indipendente dal tempo e dallo spazio, verificata — così si pretenderebbe — sulla scorta di regole e metodi scientifici. Sia gli storici che gli scien¬ ziati sociali devono ammettere quantomeno l’esistenza dei tre limiti universali alla conoscenza umana che condizionano tutte le discipline interessate alla natura dell’uomo. Così li ha definiti il sociologo Robert Nisbet: « in primo luogo, la consapevolezza dell’elemento di arte presente in ogni tentativo di afferrare la realtà, per quanto rivestito di metodologie pretenziose e sistemi computerizzati; in secondo luogo, che comunque si proceda, con qualunque grado di obiettività e rispetto della verità, non è pos¬ sibile sfuggire ai limiti imposti dalla forma assunta daU’indagine; e infine, che molte delle parole usate dagli scienziati sociali, dagli umanisti e da altri per accostarsi alla realtà sono irrimediabil¬ mente metaforiche » Sono verità, queste, che troppi esponenti della « nuova sto¬ ria » hanno oggi dimenticato. L’errore fondamentale, come os¬ serva Liam Hudson, consiste nel ritenere che « gli uomini siano riducibili alla forma delle testimonianze sul loro conto che ci risultano più facili da raccogliere. La prima tendenza, quella stati¬ stica, è una forma di scolasticismo della quale siamo tutti, chi più chi meno, prigionieri. La seconda, quella riduttiva, è ideo¬ logia nuda e cruda » Sarebbe sbagliato concludere questo saggio su una nota insa¬ nabilmente pessimista. È certo comunque che il trionfo della « nuova storia » ha portato con sé i segni di una nuova illu¬ sione nella scienza avalutativa, di un nuovo dogmatismo, e di un nuovo scolasticismo, che minacciano di diventare sterili e sof-

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Parte prima. Storiografia

focanti quanto lo erano quelli contro i quali furono lanciati i primi attacchi una quarantina di anni fa. Non è possibile fingere che le grandi riviste degli anni Trenta, le « Annales » e l’« Eco¬ nomie History Review », siano ancora oggi eccitanti e stimolanti quanto apparivano nella loro esuberante giovinezza. La seconda è assai più angustamente tecnica di un tempo, e la piima, che pure continua ad essere avventurosa e innovatrice come non mai, è ormai tanto vasta e dispersiva da renderne difficile la digestione. Nemmeno la loro rivale più recente, « Past and Present », pos¬ siede più quello smalto pionieristico che la caratterizzava fino a una decina di anni fa. Il calo dell’entusiasmo non è certo dovuto all’inferiore qualità degli articoli pubblicati; il fatto è che è più stimolante e gratificante riuscire a convertire gli infedeli che non predicare a chi è già convertito. D’altro canto, però, per l’ultima arrivata di queste riviste, l’americana « Journal of Interdisciplinary History », la curva del successo intellettuale continua ad essere ascendente. Può darsi sia giunto il momento, per lo storico, di riasserire l’importanza del concreto, del particolare, del circostanziale, oltre che del modello teorico generale e dell’intuizione procedurale; di guardarsi meglio dalla quantificazione fine a se stessa; di consi¬ derare con sospetto i grandi progetti cooperativi dai costi fanta¬ smagorici; di ribadire l’importanza fondamentale di un attento esame dell’attendibilità delle fonti; di dedicarsi con passione alla fusione dei dati e dei metodi quantitativi con quelli qualitativi, unica via affidabile per accostare la verità quando si tratta di una creatura strana e imprevedibile qual è l’uomo; di dar prova di lodevole modestia quanto alla validità delle sue scoperte in questa difficilissima disciplina. Se così avverrà, sarà possibile evitare il rischio di una spac¬ catura all’interno della professione, oggi particolarmente minac¬ cioso in America. Da un lato i « nuovi storici » sono sulla cresta di un’onda fatta di borse di studio concesse a piene mani, di arti¬ coli elogiativi nella stampa popolare, dell’ammirazione di interi greggi di dottorandi, e dell’occupazione di alcune almeno delle posizioni di potere chiave all’interno della professione. Dall’altro, però, alcuni degli umanisti più anziani, come Jacques Barzun e Gertrude Himmelfarb, si sono mobilitati non soltanto contro gli eccessi indifendibili di alcuni « nuovi storici », ma anche contro

I. La storia e le scienze sociali nel secolo XX

la tolleranza storia

incondizionata per l’approccio

Al

multilaterale

alla

È sempre più diffuso lo scetticismo sul valore che per la sto¬ ria riveste buona parte della metodologia più nuova e estrema adottata dalle scienze sociali. La cosa risulta chiara dal tono pru¬ dente di una serie di articoli sulla « nuova storia » comparsi sul « Times Literary Supplement » nel marzo 1975, ben diverso dal¬ l’ottimistica euforia dei tre numeri della medesima rivista pub¬ blicati nove anni prima, nel 1966, dei quali si dice oggi, con un certo cinismo, che si trattò di una decisione redazionale det¬ tata presumibilmente dal bisogno « di scaricarsi la coscienza nei confronti dell’avanguardia ». Si diffondono nell’aria i segnali d’al¬ larme contro i rischi di un nuovo dogmatismo e di un nuovo scolasticismo metodologico. Senza dubbio l’allarmismo dei con¬ servatori non è del tutto giustificato. Ma se davvero gli storici finiranno per rendere più angusta la loro visuale, restringendo la gamma delle alternative intellettuali — come fecero nel primo Novecento — rischieranno una sterilità crescente, o altrimenti la frammentazione in fazioni. Soltanto difendendo con energia i due princìpi della diversificazione metodologica e del pluralismo ideo¬ logico il necessario scambio intellettuale tra lo storico e lo scien¬ ziato sociale potrà essere ancora fruttuoso, e la « nuova storia » continuerà a riscuotere lo straordinario successo conosciuto negli ultimi quarant’anni, contribuendo alla soluzione dei nuovi pro¬ blemi che preoccuperanno la nuova generazione dei professionisti della storia.

II LA PROSOPOGRAFIA

Le origini Negli ultimi quarant’anni la biografia collettiva (come la defi¬ niscono gli storici moderni), o analisi multipla delle carriere (come la definiscono gli scienziati sociali), o prosopografia (come la defi¬ niscono gli storici dell’antichità), si è sviluppata tanto da dive¬ nire una delle tecniche più preziose, e più abituali, del ricerca¬ tore storico. La prosopografia ^ è in sostanza l’individuazione delle caratteristiche di fondo comuni a un gruppo di attori storici attra¬ verso lo studio collettivo delle loro vite. Il metodo consiste nella definizione dell’universo che si intende studiare, e quindi nel porsi una serie di interrogativi uniformi — in merito alla nascita e alla morte, al matrimonio e alla famiglia, all’origine sociale e alla posizione economica ereditata, al luogo di residenza, al livellodi istruzione, all’esperienza negli incarichi pubblici, e così via. I diversi tipi di informazioni raccolte sugli individui all’interno del¬ l’universo in questione vengono poi giustapposti, combinati, ed esaminati alla ricerca di variabili significative. Vengono poi ricer¬ cate così le correlazioni interne come quelle con altre forme di comportamento o di azione. La prosopografia viene usata come arma per aggredire due tra i problemi fondamentali della storia. Il primo riguarda le radici dell’azione politica, la rivelazione degli interessi più pro¬ fondi che — si presume — stanno alla base della retorica poli¬ tica, nonché l’analisi delle afiìliazioni sociali ed economiche dei gruppi politici, svelando il funzionamento del meccanismo poli¬ tico e identificando chi ne controlla le leve. Il secondo riguarda la struttura e la mobilità sociale: un primo insieme di problemi

IL La prosopografia

49

richiede l’analisi del ruolo all’interno della società — e in parti¬ colare le sue trasformazioni nel tempo — di specifici gruppi di status (appartenenti in genere aWélite) come i detentori di taluni titoli, i membri delle associazioni professionali, i detentori di cari¬ che pubbliche, i gruppi occupazionali, o le classi economiche; un altro insieme di problemi è dato poi dall’esigenza di determinare il grado della mobilità sociale a certi livelli attraverso uno studio sulle origini familiari, sociali e geografiche dei nuovi arrivati ad un dato status politico o occupazionale, sull’importanza di tale posizione nella prospettiva di una carriera, e sugli effetti che Tinsediamento in quel ruolo comporta per le fortune della fami¬ glia; un terzo insieme di problemi si misura con la correlazione tra i movimenti intellettuali e religiosi e i fattori sociali, geogra¬ fici, occupazionali o altri. Agli occhi dei suoi sostenitori, dunque, la funzione della prosopografia consiste nel dare un senso preciso all’azione politica, contribuendo a spiegare i cambiamenti ideolo¬ gici o culturali, a identificare la realtà sociale, a descrivere e ana¬ lizzare con precisione la struttura della società, nonché l’inten¬ sità e la natura dei movimenti al suo interno. Nata come stru¬ mento della storia politica, viene oggi impiegata sempre più spesso anche dagli storici sociali. I contributi di maggior rilievo allo sviluppo della prosopo¬ grafia si rifanno a due scuole piuttosto differenziate. La scuola elitaria si interessa soprattutto alle dinamiche dei piccoli gruppi, o all’interazione, sul piano dei legami familiari, matrimoniali ed economici, di un numero ridotto di individui. Oggetto di studio sono, di regola, le élites al potere, come i senatori romani o statu¬ nitensi, o i parlamentari e i ministri inglesi, ma il medesimo processo, e il medesimo modello, si possono applicare — come di fatto è avvenuto — anche ai capi rivoluzionari La tecnica consiste in un’indagine approfondita e meticolosa delle genea¬ logie, gli interessi economici e le attività politiche del gruppo in questione, i cui rapporti vengono portati alla luce da studi detta¬ gliati sui singoli casi, sostenuti solo in misura secondaria e rela¬ tivamente irrilevante da un apparato statistico. Lo scopo è di dimostrare la forza di coesione del gruppo in oggetto, tenuto insieme dai legami di sangue, dall’appartenenza al medesimo am¬ biente, e dagli interessi economici comuni, per non parlare dei pregiudizi, degli ideali e dell’ideologia. Quando il problema cen¬ trale è politico, si sostiene che proprio questa rete di legami

50

Parte prima. Storiografia

puramente economici e sociali offre al gruppo la sua unità, e dun¬ que la forza, nonché le motivazioni politiche stesse, nella misura in cui la politica è soprattutto contrapposizione tra inseriti e esclusi. Questa scuola deve poco o nulla alle scienze sociali, anche se da esse avrebbe avuto molto da imparare, né si è mai consa¬ pevolmente macchiata del peccato di teorizzazione psicologica o sociologica. Essa parte però esplicitamente dal presupposto che la politica sia fatta più dal gioco di piccole élites dominanti e dei rispettivi clienti che non dai miovimenti di massa, e che l’egoi¬ smo — inteso come feroce lotta hobbesiana per il potere, la ricchezza e la sicurezza — sia la molla che fa girare il mondo ^ La seconda scuola è quella interessata soprattutto alla dimen¬ sione di massa, di orientamento più statistico e deliberatamente ispirata alle scienze sociali. Per la maggior parte — ma non sem¬ pre, occorre sottolinearlo — i seguaci di questa scuola si occu¬ pano dei grandi numeri, ed è nella natura delle cose che della massa in quanto tale così come dei suoi singoli membri non sia possibile conoscere alcunché di davvero intimo e dettagliato: sono tutti morti, e non ci è possibile intervistarli. I seguaci di questa scuola hanno l’impressione che la storia sia determinata dai movi¬ menti dell’opinione popolare, piuttosto che dalle decisioni dei cosiddetti « grandi uomini », o dalle élites, e sono da tempo con¬ vinti deU’inutilità di una definizione dei bisogni umani fondata esclusivamente sul potere e sulla ricchezza. Di necessità si inte¬ ressano più alla storia sociale che a quella politica, ponendosi quindi una serie di interrogativi più vasta, seppure inevitabil¬ mente più superficiale, rispetto a quelli che in genere si pongono i seguaci della scuola elitaria. Oltre a questo, la loro attenzione si applica assai più alla verifica delle correlazioni statistiche tra le tante variabili che non alla ricerca di un senso complessivo della realtà storica attraverso un insieme di studi dettagliati su singoli casi. Nella misura in cui si sono provati a descrivere il passato, la loro preferenza è andata alla costruzione di tipi ideali weberiani piuttosto che alla presentazione di serie di esempi concreti. Buona parte del loro lavoro riguarda la mobilità sociale, pur affrontando talvolta anche la ricerca di rapporti statistici significativi tra l’am¬ biente e le idee, e tra le idee e i comportamenti politici o reli¬ giosi. Pur differenziandosi nettamente quanto al tema di studio, e in parte anche quanto a presupposti, strumenti e obiettivi, le

II. La prosopografia

51

due scuole hanno dunque in comune l’interesse per il gruppo piuttosto che per l’individuo o l’istituzione. La prima, precisa, identificazione delle due scuole aH’interno della professione avvenne tra il 1920 e il 1940, in coincidenza con la pubblicazione di numerose opere che ebbero un profondo efietto su tutti gli sviluppi successivi. Quasi tutti i materiali grezzi sui quali si fondavano, e si fondano, questi studi prosopografici rientrano in tre categorie generali: semplici elenchi dei nomi dei detentori di talune cariche o titoli, o di qualifiche pro¬ fessionali e titoli di studio; genealogie familiari; veri e propri dizionari biografici, generalmente costruiti in parte sulla scorta delle prime due categorie, in parte facendo riferimento ad una serie di fonti infinitamente più vasta. La raccolta di materiali biografici di questo genere era già stata avviata molto tempo prima della comparsa sulla scena dei prosopografi di professione. Prendendo ad esempio la storia inglese (ma quella romana funzio¬ nerebbe altrettanto bene) per tutto il tardo Settecento, l’Otto¬ cento e il primo Novecento diligenti schiere di antiquari, di eccle¬ siastici e di eruditi avevano prodotto stupefacenti quantità di infor¬ mazioni biografiche di ogni sorta. Dalle stampe pubbliche come da quelle private fuoriusciva un’ondata di raccolte biografiche di ogni tipo e qualità: membri del Parlamento, Pari, baronetti, gentry, arcivescovi di Canterbury, clero londinese. Lord Cancel¬ lieri, giudici, sergeants at law *, ufficiali dell’esercito, recusanti cattolici, profughi ugonotti, allievi di Oxford e Cambridge — l’elenco potrebbe continuare all’infinito L’utilità di questo intenso flusso — che trovava riscontro negli Stati Uniti, in Germania e altrove — non risulta affatto chiara, poiché la prosopografia in quanto metodo storiografico an¬ cora non era stata inventata, e gli storici di professione non utiliz¬ zavano queste pubblicazioni se non come miniere dalle quali estrarre brani di informazione riguardo a individui particolari. Sul piano della motivazione psicologica, questi ossessivi collezionisti di informazioni biografiche appartengono alla medesima categoria di maschi erotico-anali dei collezionisti di farfalle, di francobolli

* Membri di un ordine superiore deU’avvocatura inglese, abolito nel 1880, nei ranghi del quale venivano prescelti i giudici della Common Law.

{N.d.T.)

o dì fViKvhertì di sìg^anew; sv'nc' miti paxk'ttì cvJLm'niIì d^Hctìc^» protestante. In psirte pex^ lo» siìnx>lo \'enìva Iv'tV' d;Urorgv'>gIìc* e d.al coinwigimento env'tìw locale o ìstìturìon.ale. che si esprì¬ meva nel desiderio vii dociin>enrare il p;tss:iro dei membri di una associiCÌone. dì un universirà. vii una-professione o dì una setta. In parte derivava anche da queirìnesaurìbile passione per la genea¬ logia e la ricexvM degli antenati che ax-eva contagiato ampi set¬ tori delle classi superiori inglesi a partite d.al scxolo XVI. Con l'enorme espansione ottocentesca della cla.

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INDICE DEL VOLUME

Introduzione

vii

Ringraziamenti

Parte prima

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Storiografia

I.

La storia e le scienze sociali nel secolo XX

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La prosopografia

48

III.

Il ritorno al racconto: riflessioni su una nuova vec¬ chia storia

81

Parte seconda

3

La nascita del mondo moderno

IV.

La Riforma

109

V.

La crisi del secolo XVII

133

VI.

Il puritanesimo

146

VII.

Magia, religione e ragione

156

Vili. La Corte e il Paese

179

IX.

La legge

187

X.

La vecchiaia

199

XI.

La morte

210

XII.

La storia della famiglia negli anni Ottanta. Acqui¬ sizioni e prospettive

230

Note

265

Indice dei nomi

289

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STORIA E SOCIETÀ

Guido Gigli La seconda guerra mondiale, 1964 Giampiero Carocci (a cura di) Il Parlamento nella storia d’Italia, 1964 Brunello Vigezzi (a cura di) 1919-1925. Dopoguerra e fascismo. Politica e stampa in Italia, 1965 Enzo Piscitelli Storia della Resistenza romana, 1965 Franco Fortini (a cura di) Profezie e realtà del nostro secolo, 1965 Elio Apih Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia (1918-1945), 1966

Giorgio Bocca Storia dell’Italia partigiana, 1966, 1967“^ Michael Edwardes Storia dell’India dalle origini ai giorni nostri, 1966 F. Margiotta Broglio Italia e Santa Sede dalla grande guerra alla Concilia¬ zione, 1966

Gastone Manacorda (a cura di) Il socialismo nella storia d’Italia, 1966 Aldo Romano Storia del movimento socialista in Italia: voi. I. L’Unità italiana e la Prima Intemazionale. 1861-1871, 1966 voi. II. L’egemonia borghese e la rivolta libertaria. 1871-1882, 1966 voi. III. Testi e documenti. 1861-1882, 1967 Pietro Scoppola (a cura di) Chiesa e Stato nella storia d’Italia. Storia docu¬ mentaria dall’Unità alla Repubblica, 1967 Giampaolo Pansa Guerra partigiana tra Genova e il Po. Lai Resistenza in pro¬ vincia di Alessandria, 1967 Giorgio Rochat L’esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini. 1919-1925, 1967 Chr. Seton-Watson Storia d’Italia dal 1870 al 1925, 1967 Mario Toscano Storia diplomatica della questione dell’Alto Adige, 1967, 1968^

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Lawrence Stone insegna attualmente al¬ l’Università di Princeton. Tra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo Crisi del¬ l’aristocrazia. L'Inghilterra da Elisabetta a Cromwell (1972); Le cause della rivolu¬ zione inglese (1982) e E amiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra tra ‘500 e ’800 (1983).

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