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Italian Pages 268 [273] Year 2023
Materiali IT
Un incontro mancato: Walter Benjamin e Antonio Gramsci A cura di Dario Gentili, Elettra Stimilli e Gabriele Guerra
Quodlibet
© 2023 Quodlibet s.r.l. Macerata, via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 www.quodlibet.it isbn 978-88-229-2079-9 | e-isbn 978-88-229-1404-0
Materiali IT Collana diretta da Dario Gentili e Elettra Stimilli. Comitato scientifico: P aolo B artoloni, G reg B ird, V ittoria B orsò, S ieglinde B orvitz, Daniela Calabrò, Timothy Campbell, Edgardo Castro, Felice Cimatti, Donatella Di Cesare, Gianfranco Ferraro, Simona Forti, Federica Giardini, Céline Jouin, Vanessa Lemm, Enrica Lisciani Petrini, Davide Luglio, Federico Luisetti, Pietro Maltese, Danilo Mariscalco, Claudio Minca, Mena Mitrano, Marcello Mustè, Elena Pulcini, Caterina Resta, Constanza Serratore, Suzanne Stewart-Sternberg, Giusi Strummiello, Davide Tarizzo, Miguel Vatter.
Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università degli Studi Roma Tre.
Indice
7 Introduzione di Dario Gentili, Elettra Stimilli e Gabriele Guerra 1.
Filosofia della storia e materialismo storico
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La rottura di Benjamin con il tempo newtoniano e l’introduzione nella critica della relatività spazio-tempo Frank Engster 35
Storia e antistoria tra determinismo e messianismo. Una lettura di Gramsci e Benjamin Wolfgang Müller-Funk 45 “Valorizzazione del fatto culturale”: elementi di filosofia della storia Ingo Pohn-Lauggas 59
Materialismo storico e filosofia della praxis. Walter Benjamin e Antonio Gramsci critici del socialismo Francesco Raparelli 2. Rivoluzione, controrivoluzione, rivoluzione passiva
79 Sulla temporalità gramsciana Michele Filippini 97 Gramsci, Benjamin e le rivoluzioni passive Marcello Mustè 111 Presente, presenza, rivoluzione passiva: Gramsci e Benjamin Vittoria Borsò 5
indice
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Charles Baudelaire nell’epoca della rivoluzione passiva: Benjamin e Gramsci Dario Gentili 3.
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Modi capitalistici di produzione e produzione di soggettività
Note su arte, tecnica e politica: da Gramsci a Benjamin Massimiliano Tomba
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“Vivere tra pareti di vetro”. Gramsci e Benjamin, ovvero che ne è del materialismo storico quando il personale è politico Elettra Stimilli 173 Il piccolo principe: Sorel, mito e violenza tra Benjamin e Gramsci Massimo Palma 191
Il ribelle subalterno e lo straccivendolo: appunti per la funzione teorica dei marginalizzati in Gramsci e Benjamin Birgit Wagner
4. Traduzione e critica, avanguardia e cultura popolare
207 Critica, mediazione e strategia da Gramsci a Benjamin Marco Gatto 219 La lingua nell’epoca della sua traducibilità capitalista Sami Khatib 235 Un incendio non vero. Gramsci e Benjamin interpreti del futurismo Daniele Balicco 251
I contorni del banale. Arte e cultura popolari, folklore e Kitsch Marina Montanelli
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Introduzione Dario Gentili, Elettra Stimilli e Gabriele Guerra
Walter Benjamin e Antonio Gramsci erano contemporanei: nascono e muoiono a distanza di pochi anni l’uno dall’altro. Hanno pertanto vissuto la medesima epoca, la prima metà del Novecento, una delle più intense e drammatiche della storia europea. Due marxisti sui generis, che hanno cambiato radicalmente i temi e il lessico del marxismo, influenzandone profondamente le analisi più significative e i dibattiti a venire. Ogni volta che il marxismo è stato decretato in crisi e inattuale, il pensiero di Gramsci e quello di Benjamin hanno spesso rappresentato una risorsa per il suo rinnovamento: ad esempio, Gramsci per quanto riguarda gli studi post-coloniali, Benjamin per gli studi sui nuovi media. Due filosofi la cui fortuna postuma è dipesa dalla trasmissione del loro pensiero, affidata prima ad amici e sodali, poi a intere generazioni di studiosi delle discipline più disparate. Fino a travalicare i confini della cultura accademica ed entrare – con i loro volti e le loro citazioni – perfino nella cultura pop. Un destino il loro che, a considerarlo oggi, presenta diversi tratti in comune; eppure, che il pensiero dell’uno possa presentare tematiche, concetti, problematiche, analisi significativamente affini o soltanto paragonabili a quello dell’altro è una questione assai poco approfondita. Gli studi benjaminiani e gramsciani hanno una lunga tradizione, ma uno studio comparato è una novità assoluta, sia critica che metodologica. Infatti, rari sono gli studi che abbiano approntato un confronto, comunque limitato ad alcuni aspetti in particolare1. Questo libro si propone di essere il primo a livello 1 A nostra conoscenza, l’unico confronto in generale tra Benjamin e Gramsci – che rappresenta un precedente rispetto a cui questo libro è in continuità – è stato oggetto di un fascicolo monografico dell’«International Gramsci Journal» (Volume 3, Issue 4,
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dario gentili, elettra stimilli e gabriele guerra
internazionale che ambisce a confrontare il pensiero di Gramsci e quello di Benjamin in generale: un confronto dalla portata complessiva, sebbene articolato in base agli aspetti più rilevanti e oggi più attuali. Ne emergono senz’altro analogie ma non meno differenze importanti, ma ciò si rende pur sempre possibile perché è dalle medesime questioni che molto spesso entrambi muovono. Benjamin e Gramsci sono stati emarginati in vita dalle culture dominanti dei loro rispettivi paesi, marginalità che poi la situazione storico-politica e personale ha finito per accentuare negli ultimi anni: il primo in esilio a Parigi in seguito all’avvento del nazismo in Germania e condizionato dalla precarietà lavorativa ed esistenziale, il secondo costretto in carcere dal fascismo. Muoiono infine da vittime dei fascismi, sulla soglia della catastrofe della Seconda guerra mondiale. Per certi versi, proprio la condizione dell’ultima fase della loro vita ha finito per avvicinarne il pensiero più di quanto la loro rispettiva situazione d’origine potesse lasciar intendere (la famiglia di Benjamin appartiene all’alta borghesia ebraico-tedesca; Gramsci nasce in un piccolo centro dell’entroterra sardo da una famiglia modesta e in ristrettezze economiche). Forse è la marginalità e l’emarginazione che hanno seppur diversamente sperimentato ad averli indotti a seguire percorsi indipendenti, che hanno conferito al loro pensiero quell’originalità rispetto al proprio tempo e contesto che solo in seguito è stata avvertita e valorizzata. A volte hanno attinto a fonti culturali e filosofiche simili, senza tuttavia dimenticare la cosiddetta “cultura popolare”, quella trascurata dal grande pensiero borghese e in cui spesso germinano quelle nuove forme di 2020), intitolato Gramsci und Benjamin – Passagen / Gramsci and Benjamin – Bridges, a cura di Birgit Wagner e Ingo Pohn-Lauggas: https://ro.uow.edu.au/gramsci/vol3/iss4/. Nei volumi dedicati specificatamente a Benjamin o a Gramsci, raramente sono avanzati confronti, salvo poche eccezioni, ad esempio cfr. Renate Holub, Towards A Global Space of Democratic Rights: On Benjamin, Gramsci, and Polanyi, in Anca M. Pusca (a cura di), Walter Benjamin and the Aesthetics of Change, Palgrave Macmillan, London 2010. Anche Fredric Jameson, studioso sia di Benjamin che di Gramsci, solo sporadicamente accenna a qualche affinità, senza poi svilupparle; cfr. Fredric Jameson, Dossier Benjamin (2020), a cura di Massimo Palma, Treccani, Roma 2022, pp. 44, 220-221, 344. In questo quadro, è comunque interessante ricordare il recente convegno Critica e prassi. Gramscismo e Scuola di Francoforte a confronto, organizzato dal 19 al 21 maggio 2022 presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, dal Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali e dal Centro di Teoria critica e politica e dalla Società Italiana di Teoria critica, sebbene il programma non prevedesse un intervento specifico su Benjamin e Gramsci.
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vita che il capitalismo lusinga e poi tradisce. Entrambi, sulla base dell’analisi della realtà politico-sociale e artistico-culturale del loro tempo, hanno cercato di delineare le tendenze che avrebbero condotto a rivoluzionare la situazione della loro epoca e a generare una nuova forma sociale e politica di vita. Entrambi attribuivano ai loro scritti, anche ai loro testi di letteratura, cultura e arte, un valore direttamente politico; consideravano il lavoro intellettuale un’attività politica. Entrambi hanno analizzato le forme sociali e politiche così come i modi di produzione capitalistica del proprio tempo – la società di massa, il populismo, il liberalismo, il fordismo – non soltanto come oggetto della critica, ma anche per scorgervi all’interno un’alternativa, il profilarsi di una soggettività politica rivoluzionaria in grado innanzitutto di dare una nuova forma di vita all’umano. Molte questioni che hanno posto restano ancora oggi aperte; non solo alcune loro intuizioni hanno anticipato i tempi, ma ancora contribuiscono all’interpretazione, alla critica e alla trasformazione della nostra società, economia, forma di vita. La loro capacità di produrre pensiero e strumenti concettuali in tempo di crisi continua a risultare quantomai preziosa per concepire possibili alternative proprio laddove pare non se ne presentino. Il volume si articola in quattro parti: Filosofia della storia e materialismo storico; Rivoluzione, controrivoluzione, rivoluzione passiva; Modi capitalistici di produzione e produzione di soggettività; Traduzione e critica, avanguardia e cultura popolare. Ognuna di esse mira a restituire gli aspetti più significativi e attuali del confronto tra Benjamin e Gramsci, facendone emergere le convergenze, ma non meno le differenze. Il rapporto con la storia è uno dei temi che più accomuna la riflessione di Gramsci e quella di Benjamin. Entrambi, ognuno a suo modo, riflettono sulla temporalità, mettendo in questione tanto la concezione newtoniana dello spazio-tempo quanto la “linearità” temporale, quella che dispone passato, presente e futuro come momenti discreti, separati e susseguenti. Ne deriva l’importanza che sia per Benjamin che per Gramsci assume la concezione della storia, aspetto determinante del “marxismo occidentale”, in cui entrambi si iscrivono con tratti di profonda originalità (Engster). Fondamen-
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tale per entrambi è il rapporto tra filosofia e storia, teoria e prassi, che incide fortemente sul confronto con le filosofie della storia e con lo storicismo. Per certi aspetti, le rispettive concezioni della storia possono risultare addirittura contrapposte (Müller-Funk). Infatti, mentre Benjamin, com’è noto, nelle tesi Sul concetto di storia, muove una durissima critica allo storicismo, Gramsci, nei Quaderni, non smette di pensare la filosofia della praxis, ovvero il marxismo, come “storicismo assoluto”. Tuttavia, sembra possibile affermare che, pur usando in termini spesso antitetici la categoria di “storicismo”, in entrambi resta prevalente la questione della temporalità, che li conduce a concepire una molteplicità dei tempi storici, che sia per l’uno che per l’altro consente al materialismo storico di intervenire nella lotta politica. Infatti, ferme restando le differenze, entrambi cercano di stringere il nesso tra storia e politica, tra teoria e prassi, tra conoscenza e azione (Pohn-Lauggas). Non per altro, criticano il socialismo della Seconda Internazionale, che aveva assunto le armi del nemico di classe, ovvero positivismo e meccanicismo, come strumenti di naturalizzazione della storia (Raparelli). La categoria di “rivoluzione passiva” è, poi, tra quelle gramsciane una delle più riprese e discusse per la sua attualità. È infatti chiamata in causa per interpretare e analizzare una fase politica che, dalla fine degli anni Settanta del Novecento, si sta protraendo soprattutto in Occidente senza soluzione di continuità: la prassi rivoluzionaria è considerata sempre più inattuale e la gran parte delle mobilitazioni e delle rivendicazioni avanzate dai movimenti sociali perdono progressivamente forza di trasformazione radicale per finire tutt’al più assunte e risignificate all’interno dell’egemonia dominante, che ne trae così linfa per il suo rinnovamento e, pertanto, per la sua durata. Non può essere un caso che questa stagione egemonica coincida esattamente con l’imporsi del neoliberalismo. Gramsci ha desunto la categoria di “rivoluzione passiva” dal Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 di Vincenzo Cuoco e l’ha poi “verificata” rispetto a diverse vicende storiche, politiche, sociali ed economiche: dal Risorgimento italiano, alla controrivoluzione susseguita ai moti rivoluzionari dell’Ottocento in Francia, al fordismo, al fascismo (Mustè). Se ne può dunque dedurre che lui stesso l’abbia considerata una categoria dall’ampio spettro ermeneutico, che coinvolge e approfondisce altre sue categorie fondamentali, quali quelle di “egemonia” e “guerra di posizione”. 10
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Si può riscontrare una riflessione che presenta alcune affinità con la dinamica della rivoluzione passiva anche in Benjamin. In comune c’è di certo l’attenzione per la fase controrivoluzionaria in Francia, che nel Passagen-Werk e nelle analisi della figura di Charles Baudelaire rimanda alla “congiuntura” dell’avvento dei fascismi nell’Europa del tempo (Gentili); c’è l’interpretazione “antropogenetica” del fordismo, non limitato quindi soltanto a un modo di produzione capitalistico; ma c’è anche una concezione della temporalità storica, che nelle tesi Sul concetto di storia arriva a definire quello del progresso come “tempo omogeneo e vuoto”, in grado di neutralizzare le intermittenze della Jetztzeit prodotte dalla lotta delle classi oppresse (Filippini). In un’epoca come la nostra, in cui la rivoluzione ha perso la sua presa sulla storia, bisogna forse convertire in senso trasformativo la stessa rivoluzione passiva, muovendo dal basso la sua dinamica, contestando così l’egemonia delle classi dominanti (Borsò). A questo proposito risulta allora fondamentale evidenziare gli aspetti di una comune, seppur differente, analisi dei modi capitalistici di produzione che, contrariamente agli approcci marxisti allora più in voga, non focalizzano in maniera univoca il “lavoro” in senso classico in quanto contrapposto al capitale, ma coinvolgono la produzione di soggettività. Sia Benjamin che Gramsci sono infatti interessati a indagare la trasformazione antropologica che vede declinare il vecchio “individuo” e sorgere un nuovo “tipo di umano”, un nuovo “macchinismo”, che comprende anche il lavoro intellettuale e nuove forme di tecnica; contro qualsiasi inutile forma di nostalgia borghese, tale trasformazione antropologica prende atto della disintegrazione della distinzione tra pubblico e privato (Tomba). Non è un caso, allora, che la “quistione sessuale”, che Gramsci mette a fuoco come problema centrale dei modi di produzione fordisti, emerga anche in Benjamin con la prostituta come figura profetica di un ulteriore sviluppo delle forme capitalistiche di produzione, che vede, oggi, nel processo definito di “femminilizzazione del lavoro” la condizione generale della produzione post-fordista (Stimilli). Di qui, anche il comune interesse per George Sorel in vista di un uso non fascista del mito allo scopo di ridefinire un nuovo rapporto tra individui e massa (Palma), in cui i “subalterni” – come il Davide Lazzaretti descritto da Gramsci o lo straccivendolo della poesia di 11
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Baudelaire di cui parla Benjamin – siano protagonisti di una nuova “filologia vivente” e non semplicemente marginalizzati dalla storia dei vincitori (Wagner). Anche partendo da queste premesse e da queste tipologie esemplari si comprendono dunque le specifiche prestazioni di Benjamin e di Gramsci nel campo della critica letteraria e della interpretazione di diverse pratiche artistiche, che sono al centro dei testi dell’ultima sezione. I quali ad esempio si dedicano a indagare le specifiche declinazioni nazionali delle loro letterature, nell’applicazione del concetto di “nazional-popolare” in Gramsci o nella particolare interpretazione del lavoro del critico in Benjamin, che indaghi l’apporto di tali categorie rispetto sia alla produzione che al pubblico di riferimento, riarticolando così in modo nuovo la vecchia relazione popolare-elitario secondo le linee interpretative di una rigorosa critica materialistica (Gatto). Oppure ripercorrono le interpretazioni specificamente linguistiche dei due pensatori, tra analisi sociolinguistica dell’esperanto, come in Gramsci, e virtuosistica interpretazione della “pura lingua” in Benjamin; rintracciando così in entrambi una “comunicabilità” della lingua che va ben al di là del suo essere strumento di comunicazione e che in tal modo si fa strumento critico di interpretazione del mondo capitalistico nelle forme della storia linguistica della lotta di classe (Khatib). O anche passano in rassegna le speculari interpretazioni critiche del futurismo, in cui la pratica avanguardistica di rottura radicale con il mondo borghese esercita un’innegabile fascinazione su entrambi, però traducendosi in una serissima reinterpretazione del futurismo all’interno di un discorso complesso, di rilettura di quella prassi sul piano dell’estetizzazione della politica e della politicizzazione dell’arte, che non si traduce in un semplice farsi cassa di risonanza del totalitarismo, ma diventa modalità in nuce di intervento critico sul reale (Balicco). O, infine, riprendono in esame l’interpretazione gramsciana del folklore e quella benjaminiana del Kitsch, registrandovi delle profonde e feconde duplicità teoriche; mentre cioè – in Gramsci – la profonda ambivalenza del concetto di folklore, tra manifestazione culturale di un assoggettamento politico e sociale e pratica di resistenza a tale assoggettamento, dà luogo a una sorta di dialettica dell’illuminismo fautrice di un umanesimo potenziato, in Benjamin si ritrova, nelle sue riflessioni sul Kitsch e sul suo carattere duplice, tra funzione
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introduzione
utile alla borghesia in ascesa e sua implicita potenza critica, un illuminismo altrettanto potenziato, che possa servire a una nuova ridefinizione dell’umano (Montanelli). Il presente volume insomma, nel voler ripercorrere fasi e stazioni del pensiero di Walter Benjamin e Antonio Gramsci, non intende solo offrire alla riflessione critica modalità di reinterpretazioni di molti loro passaggi teorici, per rilevarne comunanze e intenti più o meno convergenti, ma anche – e per certi versi soprattutto – mira a riattivare, attraverso questa inedita comparazione, categorie e strumenti del pensiero critico, di cui si sente una grande urgenza. I curatori desiderano ringraziare l’Istituto Italiano di Studi Germanici (Roma), sede della Associazione Italiana Walter Benjamin (AWB), che si era fatta promotrice di un convegno dedicato a Benjamin e Gramsci, tenutosi appunto nei locali dell’IISG nei giorni del 25, 26 e 27 novembre del 2021, i cui interventi vengono qui pubblicati.
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1. Filosofia della storia e materialismo storico
La rottura di Benjamin con il tempo newtoniano e l’introduzione nella critica della relatività dello spazio-tempo1 Frank Engster
La rivoluzione sociale del secolo XIX non può far scaturire dal presente la sua poesia, ma dall’avvenire. K. Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte2. Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. […] Esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. W. Benjamin, Sul concetto di storia3. La tradizione di tutte le generazioni scomparse grava come un incubo sul cervello dei vivi. K. Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte4. […] è il balzo di tigre [Tigersprung] nel passato. W. Benjamin, Sul concetto di storia5. Lasciamo i morti a seppellire e piangere i morti. K. Marx, Lettera ad Arnold Ruge6.
La questione è radicale, la più radicale tra quelle che Benjamin andava affrontando: come superare la società capitalista? Benjamin, secondo la mia tesi, è diventato una figura unica all’interno della tradizione di coloro che hanno posto tale questione, esattamente per come è intervenuto in questa tradizione. Il suo intervento Traduzione dall’inglese di Guelfo Carbone. Karl Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, in K. Marx, Friedrich Engels, Ferdinand Lassalle, Opere, Società Editrice Avanti!, Milano 1922², vol. I, p. 9. 3 Walter Benjamin, Sul concetto di storia, in Id., Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 23 (tesi II). 4 K. Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte cit., p. 7. 5 W. Benjamin, Sul concetto di storia cit., p. 47 (tesi XIV). 6 K. Marx, Un carteggio del 1843, in K. Marx, F. Engels, F. Lassalle, Opere cit., p. 6. 1 2
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ha apportato una rottura radicale nel modo tradizionale di comprendere una rivoluzione – e con questa rottura, egli ha reso possibile una nuova comprensione della “tradizione” stessa7. Entrambe, tanto la rottura quanto la nuova comprensione, furono possibili poiché Benjamin ha rotto niente meno che con il tempo, cioè con il concetto classico del tempo cronologico newtoniano e del progresso storico. Questa rottura, allo stesso tempo, fa da ponte tra il marxismo “classico” o “tradizionale” e una critica poststrutturalista e addirittura post-marxista, ovvero, in un senso più ampio, una “teoria postmoderna”. Benjamin ha rotto con la concezione cronologica lineare del tempo e della storia introducendo lo spazio-tempo così come concepito da Einstein. Ha fatto un uso relativistico del tempo o meglio dello spazio-tempo nel campo della critica del capitalismo e, con ciò, gli è riuscito anche di rompere con la concezione newtoniana dominante del tempo e dello spazio, che predominava persino nel marxismo classico8. Tuttavia, in un certo senso, si può dire che Benjamin stesso “cade fuori dal tempo”, giacché non è perfettamente chiaro lo statuto che si può assegnare alla sua critica. Ha fatto un uso combinato di filosofia e letteratura, estetica e politica, Marx e religione, e questa strana costellazione è anche una delle ragioni per cui è diventato una figura unica e ben presto il beniamino di tutti. In ogni caso, indipendentemente da quanto sia difficile riunire sotto un titolo univoco l’opera di Benjamin così estesa, variegata e opaca, l’uso relativistico dello spazio-tempo è eccezionale e accurato. E lo troviamo nella sua critica allo storicismo e alla socialdemocrazia, nel suo uso di fotografie ed immagini, nei suoi concetti di passato, di Jetzt-Zeit e Geistesgegenwärtig7 Sull’uso non conservativo della tradizione da parte di Benjamin, cfr. Sami Khatib, Where the Past Was, There History Shall Be. Benjamin, Marx, and the “Tradition of the Oppressed”, «anthropology & materialism», 1, 2017, pp. 1-22. 8 Secondo Peter Fenves, Benjamin fu influenzato, in particolare, dalla teoria della relatività di Einstein e dalla sua nuova concezione del tempo e dello spazio, ma questa apparve esplicitamente nella sua terminologia non prima del 1914-15; cfr. Peter Fenves, The Messianic Reduction: Walter Benjamin and the Shape of Time, Stanford University Press, Redwood City 2010. Nel 1935, Benjamin introduce il saggio su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica con una impressionante citazione da Paul Valéry: «da vent’anni in qua né la materia, né lo spazio, né il tempo sono più ciò che sono sempre stati».
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keit, del messianico e del divino, dell’aura, del magico e della fantasmagoria, del mito e della legge, nelle sue idee di archivio, ricordo e memoria, di culto e di debito, di narrazione e tradizione, nel breve frammento Capitalismo come religione così come nel Passagen-Werk, quando fa riferimento all’intreccio tra infanzia ed esperienza spaziale, nella sua passione per i frammenti, per i dettagli, per i monumenti e le rovine, ma anche nel suo interesse per la tecnica della fotografia, per la registrazione, la traduzione e la riproducibilità9. Anche se in questa sede non possiamo spiegare la reale dimensione fisica dello spazio-tempo, vogliamo nondimeno indicare, con Benjamin, che cosa significhi la concezione relativistica dello spazio-tempo confrontata con il concetto newtoniano di tempo e trasferita alle relazioni sociali. Ma, sebbene la fisica sia sempre una sorta di scienza pilota per le altre scienze, critica inclusa, i suoi modi di conoscenza e le sue pratiche sono, da parte loro, determinate dalla forma sociale del capitalismo, e ciò che per la fisica è l’esperimento, per la critica del capitalismo è la rivoluzione: il suo grande “esperimento”. Pertanto, il primo passo sarà quello di mostrare come il tempo e la rivoluzione siano stati concepiti nel marxismo classico, che operava con il concetto newtoniano classico di tempo. Questa concezione era già stata contestata da una (auto-) critica immanente che introdusse un fattore soggettivo, a sua volta temporale, e i quattro fattori più rappresentativi e degni di nota vennero da Luxemburg, Lenin, Gramsci e Lukács. Ma fu soltanto Benjamin che ruppe veramente col marxismo classico, mostrando che una rivoluzione nel tempo mira a una rivoluzione del tempo stesso, e che la rivoluzione deve essere anticipata da questa nuova comprensione e dal nuovo uso del tempo o, meglio, dello spazio-tempo. Dopo questi tre passaggi, si presenteranno due usi diversi ma molto complementari dello spazio-tempo, quelli di Ernst Bloch e di Theodor W. Adorno. 9 Benjamin subì molto presto l’influsso della moderna scienza naturale, come, ad esempio, Marx, Engels o Bebel, ma ne cercò, in maniera esplicita, più come Brecht, un differente uso tecnico e sociale. In generale, la sua opera è caratterizzata dal fatto che diviene leggibile la penetrazione della seconda rivoluzione industriale nella vita di tutti giorni, cfr. Kyung-Ho Cha (a cura di), Aura und Experiment. Naturwissenschaft und Technik bei Walter Benjamin, Turia + Kant, Vienna 2017.
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I. Il tempo cronologico del marxismo classico e le sue falle Il presupposto o addirittura l’aspettativa del marxismo classico – delle organizzazioni di massa, dei partiti del movimento socialista dei lavoratori e della Seconda internazionale – era che la società capitalista sarebbe andata avanti praticamente da sé verso il suo stesso superamento, mediante la contraddizione intrinseca tra lavoro e capitale e tra le forze produttive e le condizioni imposte dal capitalismo, sia che il superamento avvenisse attraverso una crisi, sia che fosse frutto di uno sviluppo progressivo, sia che esso seguisse la via dell’evoluzione, sia quella della rivoluzione. In ogni caso, sebbene queste contraddizioni facessero intravedere il loro superamento in un modo quasi oggettivo e deterministico, la critica, nella teoria quanto nella pratica della politica rivoluzionaria, doveva identificarsi con il punto di vista del superamento pratico mediante un soggetto rivoluzionario: la classe operaia. Persino nel marxismo classico non c’era necessità sociale o storica senza la necessità di prendere parte attiva e passare alla pratica. Nonostante questo bisogno di un impegno rivoluzionario, nel marxismo classico, specialmente nel suo concetto di materialismo storico e nella sua comprensione della natura e della oggettività, tempo e spazio rimanevano tuttavia le condizioni oggettive e ineludibili per fare i conti con le contraddizioni della società e il loro sviluppo storico. La storia globale deve combattere le sue battaglie sul campo del mondo naturale, per come era concepito, e questa arena di lotta non è solo edificata su tempo e spazio pensati in modo omogeneo, ma anche la pratica sociale e persino quella rivoluzionaria devono agire in modo cronologicamente lineare e causale. Nel frattempo, già prima di Benjamin, una sorta di autocritica era intervenuta su questo determinismo e sull’oggettivismo del marxismo. Questa critica però portò solo sulla soglia della rottura che Benjamin avrebbe ancora dovuto operare, come se la critica tentasse di aggrapparsi al concetto marxista classico di rivoluzione e del suo soggetto rivoluzionario. Eppure, l’autocritica era concepita per risolvere il problema che quel concetto classico comportava piuttosto che per superarlo; ovvero, contrariamente alle aspettative iniziali, non sembrava darsi necessità immanente nella società capitalistica che portasse alla coscienza e alla prassi rivoluzionarie. Per risolvere questo problema, 20
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la critica andava in cerca di un fattore soggettivo. E sebbene questo fattore soggettivo venisse concepito in maniere piuttosto differenti, ci sono quattro versioni principali che coprono l’arco delle possibilità per risolvere il problema posto dal concetto classico. Questi quattro fattori vennero da quelli che erano probabilmente i rivoluzionari più influenti del tempo: Lenin, Luxemburg, Gramsci e Lukács. I.1. Lenin, la tecnica del politico e il kairós Lenin aveva già individuato quello che probabilmente è il problema principale della politica marxista fino ad oggi. Lenin10 sosteneva che il proletariato produce spontaneamente soltanto la “coscienza tradunionista”, cioè una coscienza riformista ma non rivoluzionaria. Ne segue che il progresso rivoluzionario non fuoriesce come necessità dalle contraddizioni del capitalismo e neanche porterà automaticamente a una coscienza rivoluzionaria di classe, nemmeno a un’organizzazione rivoluzionaria. Al contrario, secondo Lenin, senza un’“aggiunta esterna”, la coscienza della classe operaia rimane intrappolata nelle condizioni del capitalismo e da interessi di classe economici immediati quanto riformisti. L’aggiunta che deve venire da fuori – è risaputo – è il partito. Per Lenin, il partito deve compensare ciò che è assente nell’oggettività capitalista: il partito deve sostituirsi alla mancanza di un progresso verso una situazione rivoluzionaria e verso le corrispettive coscienza e prassi. In breve, il partito deve mettersi al posto del determinismo che il marxismo classico attendeva dal progresso sociale e storico e agire in sua vece. Col fine di rimpiazzare questo determinismo, Lenin concepisce un “nuovo tipo” di partito. Il “nuovo tipo” comporta un partito che deve letteralmente farsi carico della coscienza della classe operaia, dal momento che deve produrre un’accelerazione e guidare la classe operaia come un’avanguardia che guida la coscienza fuori dall’immediatezza e oltre la sua immanenza riformista ed economicista. Ma il partito deve anche preparare la strada per il momento cruciale di una situazione decisiva: il partito è un mezzo al servizio della tecnica politica del kairós, dell’opportunità di prendere 10
Cfr. Vladimir I. Lenin, Che fare?, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1968.
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il potere economico e politico nel momento giusto e nella giusta situazione.
I.2. Luxemburg e la non-linearità dell’auto-organizzazione Il polo complementare a Lenin è rappresentato da Rosa Luxemburg. Anche Luxemburg critica l’oggettivismo e il determinismo storico del marxismo del suo tempo, e anche lei ha colto la necessità di organizzare, imprimendole un’accelerazione, la coscienza rivoluzionaria. Ma, contrariamente a Lenin, il fattore soggettivo non deve venire da fuori, nella forma dell’avanguardia fatta da rivoluzionari di professione. Luxemburg enfatizza piuttosto uno sviluppo rivoluzionario che venga dall’interno, che sia frutto di processi di apprendimento interni, di auto-organizzazione, che venga dalla spontaneità delle masse. Il concentrarsi sull’auto-organizzazione la obbligò anche a confrontarsi con le contraddizioni interne della situazione politica del suo tempo. Cercò una via a metà strada tra la codardia della socialdemocrazia e l’autoritarismo bolscevico, e mise a punto l’idea di uno sviluppo cronologico, continuo ma non lineare, tra progresso e regressione, vittoria e sconfitta, riforma sociale e rivoluzione, interruzioni e balzi, organizzazione e spontaneismo, masse e leadership.
I.3. Integrazioni gramsciane Collocato, dal punto di vista logico, tra il partito d’avanguardia di Lenin e i processi di auto-organizzazione pensati da Luxemburg, Gramsci introduce nella contraddizione tra capitale e lavoro e nella lotta di classe il fattore soggettivo nel senso più proprio e vero del termine. O, per meglio dire, egli introduce tutta una serie di fattori, che ebbero, ciascuno, una peculiare e potente determinazione soggettiva. Possiamo riassumerli intendendoli come integrazioni. Per menzionare solo alcune delle più importanti e note di queste integrazioni: la società civile e i subalterni, il senso comune, la formazione e la pedagogia, gli intellettuali e il linguaggio, la cultura e la filosofia della prassi. Tutte queste integrazioni possono essere 22
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viste come pratiche e persino come tecniche per ottenere l’egemonia civile, culturale e politica nel corso delle “guerre di posizione” e delle “lotte culturali” con tutte le loro strategie, alleanze, tattiche, fronti unitari, ecc. Mentre nel marxismo classico la sovrastruttura (Überbau) era fatta derivare in un modo piuttosto meccanico da una base economica e materiale, Gramsci fa vedere come l’intera sovrastruttura possa essere utile per integrare la contraddizione tra capitale e lavoro con la lotta di classe. Questa attenzione per la sovrastruttura diventa un tratto comune del marxismo occidentale e della teoria critica. Ma c’è un altro tratto che caratterizza Gramsci: molto prima dell’operaismo, Gramsci si interessò di composizioni e, mentre l’operaismo si concentra sulle composizioni tecniche, politiche e sociali, Gramsci si rivolgeva alla composizione temporale del presente in cui il passato si prolunga, ma da cui può anche essere previsto il futuro che si prepara. I.4. L’esistenzialismo di Lukács In György Lukács troviamo non solo una quarta versione del fattore soggettivo, ma anche una versione finale e definitiva, giacché il fattore soggettivo subisce una svolta esistenzialista11. Nel suo famoso saggio sulla reificazione, incluso nel libro epocale che porta il titolo Storia e coscienza di classe, Lukács prosegue la critica di Lenin e di Luxemburg all’oggettivismo sociale e storico, ma ribalta i loro fattori soggettivi nel tentativo di trovare una specie di identificazione immediata tra oggettivismo e soggettività. È questa identificazione che causa una sorta di cortocircuito nel fattore esistenzialista. Questo fattore, a prima vista, sembra semplicemente incarnarsi nell’esistenza del lavoratore nella società capitalistica, nella misura in cui la sua esistenza, secondo Lukács, è alienata e reificata dalla forma della mediazione imposta dal capitalismo, ovvero dalla ben nota forma di merce: «Egli [l’operaio] è perciò costretto a subire come oggetto del processo la propria mercificazione, la propria riduzione a pura quantità. Ma proprio 11 Cfr. Frank Engster, Lukács’s Idea of Communism and Its Blind Spot: Money, in Gregory R. Smulewicz-Zucker (a cura di), Confronting Reification: Revitalizing Georg Lukács’s Thought in Late Capitalism, Brill, Leiden 2020, pp. 203-223.
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per questo egli viene spinto al di là della immediatezza di questa condizione»12. Tuttavia, il punto decisivo è che nel capitalismo non soltanto il lavoro con i suoi prodotti, ovvero gli oggetti e l’oggettività sociale che ne deriva, vengono mercificati, ma per la prima volta nella storia la forza lavoro stessa, cioè il soggetto di questa produzione di oggettività, diviene una merce che viene reificata e alienata – e su questo, secondo Lukács, la posizione del proletariato differisce radicalmente o, meglio, esistenzialmente, dalla visione di classe della borghesia e dal suo punto di vista epistemologico. La borghesia riflette sul lavoro e, attraverso il lavoro, sull’essenza della società e della produzione pratica della sua oggettività, esclusivamente da un punto di vista esterno e contemplativo, assumendo l’oggettività così come essa è data immediatamente. L’intuizione del proletariato, invece, tragica ed esistenzialista, è che nel capitalismo la potenza del lavoro espressa dal proletariato – cioè la sua soggettività, la sua prassi, la sua vita – diviene un oggetto e una merce a uso del capitale. Questo auto-riconoscimento è esistenzialista perché non può più rimanere esterno al lavoro e alla oggettività sociale, come è invece nel caso del punto di vista della borghesia, che rimane esclusivamente epistemologico e non pratico, un punto di vista filosofico nel migliore dei casi. La visione del proletariato costringe a un balzo nella auto-conquista pratica, esattamente come quel balzo che caratterizza l’esistenzialismo in generale a partire da Kierkegaard. La concezione di Lukács rappresenta al tempo stesso un apice e un punto di svolta nella critica dopo Marx. Il “dopo” va inteso sia in senso logico che cronologico, perché la rivoluzione è possibile in ogni momento. È possibile “in ogni momento” perché è indipendente dalle condizioni sociali necessarie, empiriche e oggettive, così come dallo sviluppo storico e dal grado di maturazione della situazione. Il balzo rivoluzionario di Lukács sorvola ogni condizione necessaria oggettiva, su cui il marxismo classico insisteva, e il balzo è anche sgravato dai diversi fattori soggettivi che erano stati aggiunti a tale oggettività. In poche parole, la rivoluzione diviene eternamente possibile, diviene possibile senza tempo, giacché essa è pensata soltanto come un momento puramente logico, 12 György Lukács, La reificazione e la coscienza del proletariato, in Id., Storia e coscienza di classe, a cura di G. Piana, SugarCo, Milano 2021, p. 219.
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l’atto decisivo di un’auto-identificazione che trasforma il proletariato in un’auto-appropriazione e trasforma questa auto-appropriazione nella prassi di un’auto-realizzazione entro una nuova società comunista. Lukács ha formulato questa idea come «soggetto-oggetto identico della storia»13. In questa formula il soggetto non solo si identifica con l’oggettività che esso stesso crea, ma, attraverso questa identificazione, anche teoria e pratica, necessità e libertà, logica e storia, fanno tutt’uno. Con la sua formula esistenzialista, Lukács aveva già portato il proletariato fino a una posizione semidivina, e infatti egli stesso attribuì a questa sua concezione uno “zelo messianico”14. Ciononostante, questo fervore messianico era ancora legato “solamente” allo spirito hegeliano, non al divino, sicché fu lasciato a Benjamin di oltrepassare la soglia e di portare a compimento il percorso verso il divino e il messianico. Prima però di arrivare alla rottura definitiva di Benjamin con il tempo cronologico, può essere d’aiuto uno sguardo all’uso del tempo nel marxismo classico e allo statuto temporale dei diversi fattori. L’ultima parola della rottura di Benjamin può essere rivelata solo se riconosciamo dapprima la temporalità dell’oggettivismo nel marxismo classico e poi quella dei fattori soggettivi15. Per quel che concerne il marxismo classico, esso si aspettava che le contraddizioni economiche arrivassero alla coscienza politicamente attraverso un progresso automatico mosso da una necessità oggettiva interna, e che questo progresso avrebbe trasformato la classe operaia, con una necessità quasi causale, in un soggetto rivoluzionario che avrebbe superato la società capitalista che lo aveva prodotto. I fattori soggettivi, al contrario, furono tutti e quattro frutto della reazione all’inconsistenza di quella aspettativa deterministica, e tutti e quattro introdussero, insieme al fattore soggettivo, un fattore temporale. Qualcosa deve intervenire per realizzare un Ivi, p. 260. Cfr. György Lukács, Preface to the New Edition (1967), in Id., History and Class Consciousness. Studies in Marxist Dialectics, a cura di R. Livingstone, MIT Press, Cambridge 1971, p. XXVII. 15 Ernesto Laclau e Chantal Mouffe hanno fatto riferimento a queste dimensioni temporali, almeno implicitamente, cfr. E. Laclau, C. Mouffe, Egemonia e strategia socialista: verso una politica democratica radicale, a cura di F.M. Cacciatore e M. Filippini, il melangolo, Genova 2011. 13 14
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progresso sociale e una necessità logica e storica che si presenta incompleta, non matura e mai pronta, se non grazie a un’aggiunta. I fattori non costituiscono soltanto una simile aggiunta, ma sono vere proprie tecniche per intervenire nell’oggettività sociale operando calcoli col suo tempo e col suo progresso. Con il partito d’avanguardia, Lenin ha introdotto un momento iperpolitico e al tempo stesso uno strumento puramente tecnico nel tempo cronologico, per accelerare la coscienza rivoluzionaria e per essere pronti per la giusta situazione sociale e per la giusta costellazione storica; Luxemburg ha fatto i propri calcoli sulla base della non-linearità dell’auto-organizzazione e della spontaneità; Gramsci ha introdotto diverse integrazioni che permettono di fare le proprie stime in base a differenti situazioni sociali, differenti composizioni e differenti temporalità, per cambiare e trasformare i rapporti di forza. E Lukács, infine, con il “soggetto-oggetto identico” ha voluto riferirsi a un atto logico puro e, come tale, senza tempo, a un balzo esistenzialista che diviene una sorta di auto-realizzazione della forza produttiva – come se il proletariato potesse fare i propri calcoli ricorrendo al tempo e allo spazio della società, identificandosi con la realtà sociale che esso stesso produce. Tuttavia, proprio perché questi fattori presentano questo statuto temporale, essi possono avere qualche effetto di sorta solo in base al concetto classico, newtoniano, di tempo, ovvero in base al tempo e al progresso cronologici e lineari. Questa fu la situazione in cui Benjamin è intervenuto e ha operato la rottura.
II. La rottura di Benjamin con il tempo cronologico Lukács è stato l’ultimo a profetizzare un soggetto rivoluzionario: ha annunciato nel proletariato un soggetto davvero divino, che potrebbe creare la stessa oggettività sociale in cui vuole vivere. Tuttavia, nel sistema religioso, l’ultimo profeta non è quello vero, quello finale, che porta il messaggio definitivo. È soltanto, in ordine cronologico, quello più vicino a noi, e fu Benjamin che, retroattivamente, fece di Lukács un simile ultimo profeta – non perché Benjamin non avesse altre rivoluzioni da proclamare dopo Lukács, ma perché ruppe con questo ordine cronologico “nel” o “del” tempo stesso, 26
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introducendo nella critica lo spazio-tempo della relatività. Questo gesto equivale alla rivoluzione apportata nel tempo newtoniano dallo spazio-tempo della relatività di Einstein. Ciò per cui Benjamin si adopera è una sorta di socializzazione dello spazio-tempo. Per “socializzazione” non va inteso che egli abbia già progettato la nuova società comunista del futuro. Piuttosto, Benjamin introduce il concetto di spazio-tempo per ottenere una nuova prospettiva sul modo di rivoluzionare l’esistenza attuale della società. In poche parole, attraverso l’introduzione dello spazio-tempo, ha rivoluzionato il concetto stesso di rivoluzione. Così, Benjamin cerca una via d’uscita da due dimensioni capitaliste del tempo: dal tempo quantificato astratto che vige nell’economia capitalista, che vige in particolare nella quantificazione del tempo di lavoro e nella relazione sociale delle cose; dal tempo storico continuo e omogeneo. Un tempo cronologico, quest’ultimo, che è lineare, ma che non è diverso dal tempo ciclico di una vuota ripetizione. Oltretutto, possiamo aggiungere che questo tempo storico è una funzione di quel tempo sociale astratto che è al potere nell’economia capitalista. 1. Nelle tesi Sul concetto di storia di Benjamin, la rivoluzione non è né il risultato di un progresso sociale che corrisponde alla presa dei mezzi politici ed economici16, come nel marxismo classico, né un balzo esistenziale, come è per Lukács. È “solo” una sospensione del tempo in quanto tale. Se Lukács aveva condotto la rivoluzione sul ciglio senza tempo di un balzo esistenziale, possibile, dal punto di vista logico, in ogni momento, la rivoluzione per Benjamin ora è sospendere il tempo. Con ciò, egli rivoluziona il tempo cronologico in senso negativo, cioè attraverso un’interruzione della continuità del tempo, attraverso un ritrarsi dal tempo omogeneo capitalista, disinvestendo sul tempo storico17. 2. Tale sospensione del tempo sembra essere un atto politico o addirittura rivoluzionario della classe operaia, proprio come nel marxismo classico e in Lukács, vale a dire una sorta di sciopero generale. Ma il proletariato ottiene la propria forza mediante «un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la no16 Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia cit., p. 39: «Non c’è nulla che abbia corrotto i lavoratori tedeschi quanto la persuasione di nuotare con la corrente» (tesi XI). 17 Cfr. Michael J. Thate, Messianic Time and Monetary Value, «Religions», 7, 9, 112, 2016, p. 69.
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stra»18. La forza proviene da un passato che è incompleto e perciò permane: riguarda il tornare di una storia di oppressione, che, per come è stata, è essa stessa soppressa. È come se questo passato irredento avesse una forza gravitazionale che può distorcere e curvare lo spazio-tempo, forzando il progresso sociale ed emancipatorio a tornare su questo passato inconcluso, piuttosto che proseguire innanzi a sé verso una storia compiuta. Questa curvatura del presente ad opera del passato, sebbene porti con sé soltanto una «debole forza messianica»19, deve invadere il presente con una violenza davvero divina per sospendere il tempo. 3. Inoltre, la rivoluzione, la marxiana “locomotiva della storia”, non conduce più a un futuro comunista come suo esito. La rivoluzione equivale soltanto al «ricorso al freno d’emergenza da parte del genere umano»20 per fermare il treno. La sospensione del tempo, dunque, non completa un progresso della storia mediante una rivoluzione comunista, ma dovrà “soltanto” interrompere il disastroso corso della storia – in modo tale che un altro tempo possa accadere o, meglio, che il tempo stesso possa essere diverso. 4. Di conseguenza, nella concezione di Benjamin, la rivoluzione attualizza il passato. Questa attualizzazione non significa, come nel marxismo classico, che sia così compiuta la missione della classe operaia, che, cresciuta sotto condizioni capitaliste, sia diventata matura per ottenere finalmente la presenza a sé stessa pienamente realizzata in un futuro comunista. Attualizzate del passato sono “soltanto” le vittime non redente e le opportunità mancate nella storia, tutto il kairós, tutte le possibilità che avrebbero potuto verificarsi, ma che sono perse nel tempo – se non torniamo noi da loro. La rivoluzione è senza tempo e sempre possibile, come era per Lukács, ma non perché il momento di auto-identificazione del proletariato come essenza sociale e forza produttiva della società e della storia è logicamente possibile in ogni momento. La rivoluzione è eternamente possibile perché sarebbe già dovuta accadere; la rivoluzione è presente non come un’opportunità persa, bensì il presente è il presente che è a causa di queste opportunità mancate e perse che appartengono al suo stesso passato. W. Benjamin, Sul concetto di storia cit., p. 23 (tesi II). Ibid. 20 W. Benjamin, Materiali preparatori delle tesi, in Id., Sul concetto di storia cit., p. 101. 18 19
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6. Questo passato diviene attualizzato, ma anche riconoscibile, nella Jetzt-Zeit, nell’“adesso”. Questo tema è probabilmente la socializzazione dello spazio-tempo più notevole che Benjamin opera nel campo della critica radicale, insieme a quella della gravitazione di un passato che curva il presente della società. La Jetzt-Zeit potrebbe essere il momento in cui questa curvatura collassa e l’intero passato diviene presente. Il passato diviene presente in un colpo solo, come in un’immagine: se lo spazio-tempo e la sua curvatura mediante il passato sono in qualche modo produttivi per il presente, allora i suoi prodotti sono immagini. Benjamin interpreta le immagini come fossero prodotti di procedure diagnostiche. In queste immagini lo spazio-tempo della società viene reificato. Nelle immagini, lo spazio-tempo della società è reificato proprio come il lavoro sociale si trova reificato nelle merci. Ma se non fosse per questo, l’essenza sociale potrebbe essere pensata come è intesa nella concezione della reificazione di Lukács, dove nell’autocoscienza della forza lavoro mercificata sia il tempo del lavoro sociale che il tempo storico si riconoscono e collassano in una divina auto-trasparenza. Se per Lukács la forza produttiva della classe operaia ottiene consapevolezza di sé nel momento rivoluzionario e opera il balzo nell’auto-realizzazione comunista, per Benjamin la verità del passato non può divenire pienamente presente in un’immagine, ma solo nei suoi dettagli: con Benjamin nei dettagli non c’è il diavolo, ma il messianico21. Leggere questo elemento messianico significa decifrare e attualizzare le costellazioni che i dettagli di un’immagine offrono, ma anche fare esperienza dell’aura o della magia dell’immagine in quanto tale, piuttosto che cercarvi una coerenza sistematica o logica. L’interpretazione di un’immagine, in cui la dialettica si trova in stato di arresto, è – in contrasto con la lettura cronologica lineare di un testo – non lineare; questa non-linearità corrisponde alla ricerca di Benjamin di un uso non-evoluzionistico e non-deterministico del tempo, del progresso e della storia. Le immagini e le fotografie esibiscono e, letteralmente, mostrano di che si tratta quando parliamo di spazio-tempo: spazio e tempo, sebbene sembrino separabili, sono intrecciati. 7. Non solamente i dettagli, ma anche i frammenti giocano un ruolo importante per il modo in cui lo spazio-tempo della società può presentarsi. Per Benjamin la verità ha un «nocciolo tempora21
Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia cit., pp. 35-37 (tesi IX).
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le»22, uno Zeitkern, ma la verità di questo nocciolo temporale è piuttosto frammentata. È una scheggia di tempo o, come dice nel Passagen-Werk, è un “cristallo” che, rappreso, riflette, ma anche distorce, la dinamica degli eventi passati23. Gli eventi cristallizzati aprono infatti a visioni in seno alle costellazioni storiche, ma solamente come in una galleria di specchi. 8. Nonostante il loro carattere frammentario e “costellativo”, attraverso le immagini la debole forza messianica può nondimeno essere afferrata: la debole forza è fissata. È fissata nelle costellazioni dei dettagli e dei frammenti come in monadi. La forza messianica fissata in queste monadi è nientemeno che una verità storica, ma la verità può essere soltanto rilasciata, come l’energia che è fissata nei nuclei dell’atomo, in modo distruttivo – solamente distruggendo e sconvolgendo. Deve essere rilasciata, o persino redenta, distruggendo il positivismo di uno storicismo che tratta i fatti storici come se fossero materia morta. Liberare la forza della verità funziona analogamente alla distruzione, in fisica, del nucleo dell’atomo che libera l’energia o la verità della massa, secondo la celebre formula di Einstein della trasformazione della massa in energia: E = mc2. III. L’uso dello spazio-tempo in Adorno e Bloch Come in ogni vera rivoluzione o “evento” (nel senso forte del termine datogli da Badiou), la verità arriva dopo. Una rivoluzione temporalizza a partire dalle cause e dagli effetti e, avendo l’uso dello spazio-tempo da parte di Benjamin rivoluzionato fino al paradosso la comprensione classica del tempo, nel suo caso a maggior ragione la verità deve arrivare a posteriori, grazie al nuovo uso che la critica radicale può fare del tempo. E, in effetti, questa verità si è palesata nella nuova età della critica che ha avuto inizio con Benjamin, ovvero nel marxismo occidentale e nella teoria critica. Come è stato possibile mostrare lo statuto temporale dei fattori soggettivi attraverso quattro esempi eccellenti, anche per l’uso dello spazio-tempo nel marxismo occidentale e nella teoria critica 22 W. Benjamin, I «passages» di Parigi, in Id., Opere complete, a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2000, vol. IX, p. 518. 23 Cfr. ivi, p. 515.
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è possibile evidenziarne le dimensioni ricorrendo a rappresentanti altrettanto eccellenti e, dal momento che il tempo ha tre dimensioni, possiamo assegnare ognuna delle tre dimensioni a un rappresentante e alla sua idea. La dimensione del passato è già coperta da Benjamin. L’uso che Ernst Bloch fa dello spazio-tempo è complementare, dato che, invece dell’attualizzazione di un passato non fissato e non vendicato, un futuro anticipato deve divenire presente – ma, esattamente come in Benjamin, per cambiare questo stesso presente. Al fine di mantenere il comunismo in vita, come il “sogno a occhi aperti” dell’umanità, Bloch si rivolge al materialismo del “desiderio”, all’“utopia concreta” e al “principio speranza”24. Anche Bloch, perciò, si affida al potere di un che di inattuale o di anacronistico (nel senso di Jacques Rancière o Patrick Eiden-Offe); a differenza di Benjamin, però, va oltre e si rivolge non a un passato incompiuto, ma a un futuro passato anticipato, un’anticipazione che è in grado di cambiare il presente attraverso una sorta di non-simultaneità o non-sincronismo: una “simultaneità dell’inattuale”. Infine, Adorno segna, rispetto allo spazio-tempo della relatività, una sorta di punto d’arrivo, come Lukács aveva fatto per il fattore soggettivo. È un punto di arrivo nel senso letterale, o meglio temporale, giacché Adorno, per quanto influenzato da entrambi, trova una propria posizione, che è a metà strada tra Bloch e Benjamin, tra passato e futuro, e che è un punto di arrivo perché egli guarda al presente come bloccato e in stato di arresto. Le contraddizioni della società del tardo capitalismo, come lo chiama Adorno, invece di spingere la società verso il progresso e l’emancipazione conoscono una riconciliazione che è tanto immanente quanto forzata, che porta a una chiusura uni-dimensionale (come era l’uomo per Marcuse). Il risultato è che il presente – e il tempo in generale – è bloccato. Ma c’è di più: Adorno radicalizza la critica di Benjamin del progresso, elaborandola specialmente nella sua Dialettica negativa25. Adorno non è interessato né allo sviluppo rivoluzionario né alla sua assenza, 24 Cfr. Ernst Bloch, Spirito dell’utopia, a cura di V. Bertolino e F. Coppellotti, BUR, Milano 2010; Id., Il principio speranza, trad. it. di E. De Angelis e T. Cavallo, Mimesis, Milano-Udine 2019, 3 voll. 25 Cfr. Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, a cura di S. Petrucciani, Einaudi, Torino 2013.
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ma alla “dialettica dell’illuminismo”26, cioè al fatto che il progresso nella scienza e nella tecnologia e nello sviluppo delle forze produttive si ribalti per la società nell’opposto, cioè nell’ideologia della massa e nella regressione, nella devastazione, nel rancore e persino nello sterminio. Anche Adorno, dunque, ha trasposto le contraddizioni del capitalismo e i loro sviluppi nello spazio-tempo, anch’egli ha socializzato lo spazio-tempo. Con questa trasposizione, però, Adorno non è interessato, come nel caso di Lenin, Luxemburg, Lukács e Gramsci, alla tecnica temporale di un fattore soggettivo e nemmeno ai diversi modi di invocare il passato o il futuro quali opportunità per il presente, come per Benjamin e Bloch. Adorno è interessato piuttosto alla dialettica che conduce a una chiusura del presente e, peggio ancora, che muta il progresso nella scienza e nella tecnologia nel suo opposto per la società, cioè in regressione individuale e in devastazione sociale. Secondo Adorno, la chiusura e il fatale mutamento si verificano mediante tre tecniche di identificazione: l’identificazione attraverso il pensiero concettuale, quella attraverso il principio di scambio e quella della ragione tecnico-scientifica. È a causa di queste tre identificazioni – e delle segrete connessioni tra di esse – che le contraddizioni del capitalismo si ritrovano ermeticamente chiuse in una riconciliazione forzata e al progresso storico in economia, nella scienza e nella tecnologia non corrisponde alcun progresso nell’emancipazione individuale e sociale. E dal momento che per Adorno lo spazio-tempo nel tardo capitalismo conosce la sua chiusura nell’immanenza di una falsa totalità, egli, coerentemente, ripiega in maniera ordinata e mantiene lo spazio-tempo aperto semplicemente riferendosi a un che di “non-identico”. Il non-identico svolge un ruolo vicario per ciò che non può essere pienamente padroneggiato e compiuto attraverso la sua identificazione: il valore d’uso e la natura, le avversità e la sofferenza, la preponderanza dell’oggetto, da una parte, e l’autonomia individuale, dall’altra, ma anche, e non secondariamente, una società totalmente diversa. Adorno segna allora una sorta di punto zero o di punto morto tra l’attualizzazione del passato di Benjamin e l’anticipazione del futuro (passato) di Bloch. Questo punto morto segna al contempo il 26 Cfr. Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 2017.
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punto in cui finisce l’uso dello spazio-tempo nella teoria critica e nel marxismo occidentale, proprio come Lukács ha posto un capolinea per tutti i fattori soggettivo-temporali ancora inclusi nell’uso del tempo newtoniano da parte del marxismo classico. È significativo il fatto che entrambi abbiano segnato questo capolinea attraverso la tecnica dell’identificazione, sebbene in modo complementare. Mentre l’identificazione del soggetto-oggetto attraverso l’autocoscienza della forza lavoro mercificata, proposta da Lukács, mira a un’ultima via d’uscita: il balzo esistenzialista fuori dalle contraddizioni del capitalismo; Adorno, da parte sua, vede nell’identificazione la chiusura che conferma le contraddizioni sociali e si rivolge soltanto a ciò che resiste a questa identificazione. Se Lukács specula su una sorta di auto-identificazione della forza produttiva della società e della storia, Adorno va criticando questa identificazione ipostatizzante, che tiene a freno il tempo e lo spazio della società. E mentre la concezione del proletariato da parte di Lukács, attraverso la sua auto-identificazione, contempla un uso riflessivo dell’essenza sociale e delle potenzialità proprie del proletariato per, letteralmente, operare calcoli, come un dio, con la propria prassi e, contemporaneamente, col tempo e lo spazio della società, Adorno vede nelle tecniche di identificazione la hybris di un calcolo arrogante, sprezzante, che muta in fato e sventura.
IV. La situazione attuale: fisica quantistica e post-marxismo Dopo il marxismo classico, dopo cioè che i fattori soggettivi sono stati assegnati alla concezione newtoniana classica dello spazio del tempo, e dopo che, con Benjamin, Bloch e Adorno, è stata rivendicata l’introduzione dello spazio-tempo, il passo successivo sarebbe quello di connettere l’attuale poststrutturalismo e il post-marxismo con i paradossi, gli effetti, gli intrecci della fisica quantistica. Punti di partenza sono stati già l’uso strutturalista di de Saussure e Freud da parte di Lacan, la “causalità strutturale” di Althusser, il concetto di virtualità e attualizzazione di Deleuze e Guattari, la temporalizzazione del significato operata da Derrida attraverso il materialismo del testo. Così come accade per la fisica quantistica, il poststrutturalismo e il post-marxismo sono concezioni che ruotano 33
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intorno a intrecci, a paradossi, a incertezze, che operano con un che di non rappresentabile e di non accessibile: una différance inoperosa (Derrida), un “altro” inoperoso (Lévinas), una “comunità inoperosa” (Nancy). Tutto ciò riguarda specialmente le entità e le identità classiche, quali il soggetto e l’oggetto, che esistono solamente come decentrati e spaccati, spezzati, fluidi e sfocati, divisi e disseminati, molteplici e indisponibili, perversi, queer, ibridi. Nonostante le loro rispettive differenze, queste critiche attuali hanno in comune il voler trovare concetti adeguati al dilemma costituito dal fatto che i soggetti non possono né identificare e rappresentare sé stessi, né farlo gli uni con gli altri e nemmeno farlo per i propri oggetti, se non in modo precario. Tutte queste concezioni condividono anche il fatto che non portano più a una comprensione comune del tempo e dello spazio – anche il tempo e lo spazio sembrano essere, proprio come la fisica quantistica, frammentati, non-omogenei, ibridi e, come il soggetto e l’oggetto, anch’essi hanno bisogno di essere “decostruiti”. Possiamo vedere quindi che lo spazio e il tempo non sono semplicemente categorie centrali sia per la critica sociale che per la scienza naturale. La vera questione ora, il vero compito, è piuttosto di farsi carico della loro intrinseca relazione. Se, da entrambi i lati, i concetti di spazio e tempo hanno ognuno una propria storia, che presenta analogia o omologia, sorge la questione: a cosa fa riferimento questa analogia? Penso che in entrambi i casi il riferimento vada alle relazioni instaurate dal capitalismo, che sono sia relazioni fisiche che relazioni sociali di spazio-tempo, costituendo una prima natura e una seconda natura. Il prossimo passo sarebbe quindi mostrare che la prima natura, che è esterna, e la seconda, che è puramente sociale, si sovrappongano in ciò che Marx chiamava un’“economia di tempo”27.
27 Cfr. Frank Engster, Das Geld als Maß, Mittel und Methode. Das Rechnen mit der Identität der Zeit, Neofelis, Berlin 2014.
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Storia e antistoria tra determinismo e messianismo. Una lettura di Gramsci e Benjamin Wolfgang Müller-Funk
1. Gramsci e… La storia come «rapporto dialettico di soggetto e oggetto» è, come rivela il titolo del famoso libro di Lukács Storia e coscienza di classe, una categoria centrale del pensiero marxista1. La storia non è un accumulo di eventi e di fatti, piuttosto il loro posizionamento narrativo2. L’assunto della storicità radicale nella tradizione marxista presenta molte sfaccettature e si basa sull’idea che la storia si dirige verso una meta e che le condizioni umane sono in continuo mutamento. Secondo Lukács l’essere umano è, in un certo senso, il prodotto e il produttore di sé stesso. La concezione del marxismo dell’ultimo quarto del XIX secolo (Engels, Kautsky), secondo cui la storia come risultato delle condizioni socio-economiche, dello sviluppo delle “forze produttive” e della natura in crisi del capitalismo, si avvia verso l’autodistruzione e di conseguenza apre la strada a una società senza classi, senza sfruttamento e senza proprietà privata, viene continuamente irreversibilmente messa in discussione nel “breve” XX secolo (Hobsbawm). La crisi dei modelli evolutivi sociobiologici deterministici, infatti, ha una causa interna e una esterna. La tecnologia moderna mostra per la prima volta il suo lato terribile e distruttivo nella Prima guerra mondiale3, principalmente quando si tratta di eliminare 1 Cfr. György Lukács, Geschichte und Klassenbewußtsein. Studien über marxistische Dialektik, Luchterhand, Neuwied-Berlin 1970, pp. 58-93. 2 Cfr. Wolfgang Müller-Funk, Die Kultur und ihre Narrative, Springer, Wien-New York 20102. 3 Cfr. Walter Benjamin, Der Erzähler, in Id., Ausgewählte Schriften 1, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1974, pp. 385-410.
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esseri umani, spesso civili inermi. A questa crisi si aggiunge poi il fallimento politico del movimento operaio negli anni Venti e Trenta; argomento poco considerato dagli intellettuali di ambito marxista – Trotsky, Gramsci e alcuni oppositori “di destra” all’interno della KPD (August Thalheimer e Heinrich Brandler) o del Partito Comunista Italiano rappresentano un’eccezione. La questione, spesso taciuta, che essi pongono insieme è: come è stato possibile che la radicale crisi economica del periodo interbellico non abbia portato alla trasformazione socialista, ma abbia invece causato una catena di sconfitte dei partiti marxisti, che in fin dei conti ha enormemente favorito l’ascesa delle forze totalitarie (nazionalsocialismo, fascismo, dittature militari, stalinismo)? L’aspetto interno mette in luce le discrepanze nelle visioni meccanicistiche del marxismo prebellico – troppo ottimista nel considerare la storia in senso deterministico, caratterizzata dallo scorrere lineare degli eventi, e così assumere l’esistenza di leggi storiche quasi scientifiche che dominano gli eventi (un cimelio dell’illuminismo, da Condorcet a Comte). In questo quadro il ruolo dell’essere umano è necessariamente ridotto a quello di esecutore di sviluppi inevitabili. Ciò si pone in evidente contraddizione con l’idea di rivoluzione, che altro non è che un atto libero della storia. Esiste un’ovvia connessione tra gli aspetti teorici e quelli pratici, poiché le concezioni deterministiche della storia di socialisti e comunisti hanno avuto conseguenze quali la capitolazione senza resistenza al nazionalsocialismo del più potente movimento operaio d’Europa, quello tedesco. Prima ancora, l’Italia era stata letteralmente invasa dal movimento di un ex-socialista, Mussolini. Il determinismo della storia ha promosso una politica di attesa, ipotizzando che i nuovi movimenti politici di destra sarebbero andati incontro al fallimento, creando così lo spazio per una presa di potere a sinistra. Secondo Gramsci, si tratta di una «concezione che è del senso comune ed è legata alla passività delle grandi masse popolari»4. E altrove Gramsci afferma seccamente e in modo politicamente scorretto dal punto di vista odierno: «la saggezza degli zulú ha elaborato questa massima riportata da una rivista inglese: “È 4 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. III, Q15, §13, p. 1770.
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meglio avanzare e morire che fermarsi e morire”»5. A questo si collega ciò che l’autore dei Quaderni del carcere intende come feticizzazione di organismi collettivi come i partiti, lo Stato e i sindacati; feticismo che consiste nell’attribuirvi una sorta di potere magico. Secondo Gramsci, l’individuo si aspetta che l’organismo agisca, anche se non agisce, e, essendo il suo atteggiamento molto diffuso, l’organismo è necessariamente inattivo. Estendendo questa argomentazione, si potrebbe dire che anche l’uso del termine progresso nel discorso del socialismo prebellico aveva un carattere feticistico. Il tentativo di Gramsci di riformulare la teoria di Marx come filosofia della prassi (sulla scia di Labriola e in confronto con Croce) si basa essenzialmente sulle Tesi su Feuerbach. Per Gramsci, esse postulano in ultima istanza una «identità di storia e filosofia»6, che, in contrasto con l’hegelismo liberale di stampo crociano, viene completata dall’unità di storia e politica. La filosofia della prassi non è semplicemente una filosofia della storia o una filosofia della politica; piuttosto, nel suo caso, la storia e la politica sono componenti integrali di tale filosofia della prassi che, a differenza delle concezioni deterministiche classiche, neutralizza la libertà e la mette in relazione con il processo dell’azione. Dunque è evidente che Gramsci, come Marx, utilizza la formula della «passione luridamente ebraica [schmutzig-jüdische]» esclusivamente in modo critico-ironico seguendo gli stereotipi antisemiti. Un certo tipo di idealismo che contrappone il pensiero puro all’azione egoistica impura7 si rintraccia anche nella discussione della filosofia di Croce; ciò non significa, naturalmente, che alla filosofia della libertà crociana venga talvolta attribuita una funzione correttiva, ad esempio nei confronti del “marxismo volgare” (Lukács), che non la limita alla teoria. Gramsci affinò le sue concezioni della storia anche grazie a Croce e al suo compagno politico Adriano Tilgher, i cui scritti Saggi di etica e di filosofia del diritto e Storia e Antistoria (in «Quaderni critici») sono stati pubblicati nel 1928. Nei Quaderni è presente tutta una serie di commenti a entrambe le opere che, come spesso accade, oscillano tra approvazione e riflessione critica. Gramsci riconosce il merito di Tilgher soprattutto nel momento in cui «ribadisce con Ivi, Q15, §12, p. 1769. Ivi, vol. II, Q10, parte II, §2, p. 1241. 7 Cfr. ivi, Q8, §61, p. 977. 5 6
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grande vigore la dottrina della libertà e del dover essere» e dà nuovamente spazio alla personalità nella storia8. Secondo Tilgher, dove non c’è «libertà di scelta», comanda la mera natura. È rivelatore di come Gramsci usi i due termini “storia” e “antistoria”. Per lui Gentile, che intende la storia come storia dello Stato, è un rappresentante della “storia”, mentre colloca la concezione etico-politica della storia di Croce nelle vicinanze dell’“antistoria”. Come vedremo, l’autore dei Quaderni del carcere tenta ripetutamente di colmare sinteticamente lo iato tra storia e antistoria; e allo stesso modo anche le opposizioni tra sviluppo graduale e progressivo, tra progresso a “salti”, tra riforma e rivoluzione, tra necessario e arbitrario, tra collettivo e individuale9. I concetti di storia e antistoria rappresentano termini antitetici ai quali l’autore sardo applica la nozione di “rivoluzione passiva”10, affinché essi possano essere sottoposti al processo di sintesi. Egli intende il concetto di antistoria come un momento importante di una necessaria critica dello storicismo e del determinismo, ma allo stesso tempo critica il «titanismo di maniera, la tendenza al velleitarismo» di cui Nietzsche è stato oggetto11. Insieme all’opposizione storia-antistoria, si pone la questione della prevedibilità degli eventi storici, che, se intesi come un continuum determinato, aprono alla possibilità della previsione e della prevedibilità storica, che sarebbe il momento razionale della storia. L’antistoria, invece, è il suo esatto contrario, ma allo stesso tempo l’elemento che interrompe sorprendentemente la storia. Rappresenta l’intrusione dell’imprevedibile razionale, che interrompe e mette in discussione e contrasta la storia come evento prevedibile. In un altro commento, la comprensione della sintesi viene spostata. Questo ha ovviamente a che fare con il fatto che «il processo dialettico nella storia reale si sminuzza in innumerevoli momenti parziali». È una dialettica della conservazione e del rinnovamento: L’errore filosofico […] di tale concezione consiste in ciò che nel processo dialettico si presuppone “meccanicamente” che la tesi debba essere “conservata” nell’antitesi per non distruggere il processo stesso, che pertanto viene Cfr. ivi, vol. I, Q3, §135, p. 395. Cfr. ivi, vol. II, Q8, §203, p. 1063. 10 Cfr. ivi, Q10, parte II, §41/XIV, p. 1324. 11 Cfr. ivi, Q10, parte II, §28/X, p. 1267. 8 9
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“preveduto”, come una ripetizione all’infinito, meccanica, arbitrariamente prefissata. […] La composizione fu trovata nella concezione “rivoluzione-restaurazione” ossia in un conservatorismo riformistico temperato12.
Riferendosi qui criticamente a Croce, Gramsci critica una concezione della storia come disposizione al gioco sportivo, come una «concezione di causalismo meccanico»13. Concepire lo sviluppo storico come una partita sportiva, con un arbitro e norme prestabilite da rispettare, è una forma di storia in cui l’ideologia non si basa sul contenuto politico, ma sulla forma e sul metodo della lotta14. In Gramsci, la posizione del problema come una ricerca di leggi, di linee costanti, regolari, uniformi è legata all’esigenza, concepita in modo un po’ puerile e ingenuo, di risolvere il problema pratico della prevedibilità degli accadimenti storici15. In sintesi, si può affermare che Gramsci, nello sviluppare la sua concezione della storia nel quadro di una filosofia della prassi, colpisce effettivamente dei paletti prudenti e si dimostra un virtuoso della sintesi, opponendosi alla vulgata marxista tipica della concezione prebellica. La sua filosofia della prassi è, qui come nel caso di Lukács o Korsch, un ritorno a Marx. Allo stesso tempo, però, l’autore lavora sulle figure di pensiero idealistiche di Croce, Tilgher o Gentile – in modo simile a come Marx lavorava sui suoi avversari contemporanei – ma Gramsci lo fa in modo meno polemico ed evita anche in gran parte il confronto tra posizioni “borghesi” e marxiste: «Nella concezione della dismissione non potrebbe scoprirsi una radice teleologica? E infatti in molti casi essa assume un significato, che, dopo il concetto kantiano della teleologia, può essere sostenuto e giustificato dalla filosofia della praxis»16. Egli si oppone al restringimento del concetto di libertà nel pensiero liberale, ma non lascia dubbi sul fatto che la libertà sia centrale per una filosofia della prassi: «Qual è quindi la caratteristica particolare della storia del secolo XIX? Che in questo secolo esiste una coscienza critica prima inesistente: si fa la storia, sapendo quello che si fa, si sa che la storia è storia della libertà»17. Ivi, Q10, parte I, § 6. Ivi, Q11, §15, p. 1404. 14 Cfr. ivi, Q10, parte II, §41/XVI, p. 1327. 15 Cfr. ivi, Q11, §15, p. 1404. 16 Ivi, Q11, §23, p. 1426. 17 Ivi, Q8, §112, p. 1007. 12 13
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2. … Benjamin Se si tiene conto del doppio concetto di storia e antistoria in quanto strumento metodologico per determinare la filosofia della storia di Benjamin e le sue caratteristiche più salienti, essa ricade inesorabilmente nella categoria di antistoria. Il compromesso e la sintesi non sono connotazioni presenti nella riflessione di Benjamin, nella sua aspra critica dello storicismo e del materialismo volgare (il darwin-marxismo) della fine del XIX secolo – che sono, dopo tutto, agli antipodi di Gramsci. In fondo, il compito di entrambi i pensatori è simile: sviluppare una concezione materialista della storia alla luce delle esperienze storiche e delle catastrofi del primo Novecento in una cornice teoricamente coerente soprattutto nel periodo storico di riferimento. In termini di tipologia testuale, difficilmente si potrebbe trovare un contrasto maggiore con quello di Gramsci. Gramsci è focalizzato su un’argomentazione concentrata che cerca di arrivare al punto, mentre Benjamin applica strumenti retorici e poetici ai punti nodali della riflessione con risultati a volte ambigui. Nelle tesi XI e XIII di Über den Begriff der Geschichte (1940), al pari di Gramsci, Benjamin denuncia la concezione economistica della storia della socialdemocrazia prima della guerra mondiale. La classe operaia era stata plasmata e convinta che nuotare nella «corrente» della storia e lo sviluppo economico avrebbero portato automaticamente alla nuova società18. Il progresso per come lo intendeva la socialdemocrazia, secondo Benjamin, si caratterizzava per tre aspetti fondamentali: aumento delle «competenze e delle conoscenze»; «infinita perfettibilità» e, in terzo luogo, inarrestabilità. Questa concezione del progresso si basava sull’«idea» di un «tempo omogeneo e vuoto»19; mentre Gramsci la relativizza, anche se in modo molto meno radicale, come quando considera momenti come progresso, reazione e rinascimento. Anche lo storicismo è impegnato in una concezione puramente quantitativa del tempo, come Heidegger l’ha descritta criticamente 18 Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Id., Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991, vol. I/2, p. 699. 19 Ivi, p. 701 (trad. it. di Wolfgang Müller-Funk – d’ora in poi WMF).
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in Sein und Zeit. Lo storicismo opera con linearità e causalità e presuppone la permanenza e l’immutabilità del passato. Secondo Benjamin, il concetto di fondo di “immedesimazione emotiva” si basa sul fatto che lo storico che rivive un’epoca passata dovrebbe dimenticare il “corso successivo” (Fustel de Coulanges). Il materialismo storico “revisionista” di Benjamin si oppone a questi due concetti storici fondamentali del suo tempo. Seguendo il metodo di Derrida, il termine revisione va inteso qui in una duplice accezione: come revoca e rifiuto, ma anche come ricongiungimento e “considerazione”. Una tale riformulazione del materialismo storico comporta: 1) l’idea che la storia sia costruzione e ricostruzione; 2) la revisione della concezione lineare del tempo; 3) la revisione del materialismo in cui entra in gioco la figura teologica della redenzione e del messianismo; 4) la revisione del movimento storico in cui la visione del passato sostituisce quella del futuro. Queste revisioni, che sono antistoriche nel senso di Gramsci, sono implicitamente collegate tra loro nel testo – il che diventa evidente nella prima tesi erratica sull’automa degli scacchi. Questa apertura del gioco di combinazioni teoriche nel testo è irregolare, perché contiene momenti di ironia e ambiguità. Il nano ingegnoso nascosto nell’automa, che viene equiparato al materialismo storico, opera come manipolatore – il che non rende il paragone particolarmente lusinghiero. Ma potrebbe essere che i suoi inganni meccanici siano più simili alla comprensione tradizionale del “materialismo storico”, che il testo mette tra virgolette non senza sottigliezza e di cui dice ironicamente che dovrebbe sempre vincere20. Ma questa «marionetta» può farlo, in una svolta retoricamente sofisticata, solo se prende la teologia al suo servizio. Nella tesi successiva, viene chiarito il significato di quella precedente e si assiste allo spostamento dell’immagine della felicità dal futuro al passato (quarta versione) e si mette in relazione la felicità mancata oppure ciò che è mancato con la redenzione. Di conseguenza, esiste una sorta di patto, un «appuntamento» tra i vivi e i morti; la storia si trasforma così in un evento redentivo secolarizzato: «Allora, come ogni generazione che ci ha preceduto, ci viene dato un debole potere messianico»21. È qui che corre la linea 20 21
Cfr. ivi, p. 693. Ivi, p. 694 (trad. it. WMF).
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di demarcazione tra il vecchio e il nuovo materialismo storico. Ciò rappresenta per Benjamin il nucleo problematico della questione: «L’odio e la volontà di sacrificio […] si nutrono dell’immagine degli antenati schiavizzati, non dell’ideale dei nipoti liberati»22. In questo passo l’autore ribalta la concezione della storia e ne mostra la paradossalità, poiché il nuovo angelo è spinto verso il futuro, ma contemporaneamente gli volta le spalle e guarda al passato con il suo volto stupito e spaventato, come incantato23. Il materialismo messianico di Benjamin prende le mosse dall’energia rispettivamente del tempo presente, del momento di crisi e dello stato di emergenza. In questo stato, il passato lampeggia e si illumina brevemente24. Benjamin mette così in discussione l’oggettività (apparente) di un tempo causale e lineare che viene sostituito dal «balzo di tigre nel passato». Da un lato l’Angelus Novus è spinto nel futuro dalla tempesta nel medaglione IX (rivoluzione passiva), dall’altro si assiste a un attivo «balzo sotto il libero cielo della storia» – quindi verso la «rivoluzione»25. In Benjamin, il materialismo della storia così formulato muta nella sua costruzione dalla prospettiva del rispettivo presente; ciò rappresenta, per così dire, l’aspetto culturale-scientifico-narrativo della filosofia post-marxista della storia secondo Benjamin: la storia è il risultato di una narrazione che prende sempre le mosse dal presente (prima versione). Inoltre, Benjamin sostiene che Marx vedeva anche il proletariato come un soggetto redentore, che può cambiare la propria situazione di sfruttamento e oppressione solo abolendo lo sfruttamento e l’oppressione. A differenza di Gramsci, anche questo modello porta a un restringimento della storia, della filosofia e della politica, ma, nel caso di Benjamin, attraverso una teologia messianica e mistica, che è evidente anche nella comprensione del tempo. La revisione del tempo (seconda versione) presenta in totale tre aspetti. Dissolve la triade apparentemente uguale di passato, presente e futuro attraverso il primato di un presente senza tempo (flash, momento). A ciò si collega l’idea di un arresto che rompe e Ivi, p. 700 (trad. it. WMF). Cfr. ivi, pp. 697-698. 24 Cfr. ivi, p. 701. 25 Ibid. (trad. it. WMF). 22 23
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interrompe il tempo – che è l’elemento strutturalmente mistico della filosofia della storia di Benjamin. In terzo luogo, la redenzione – che, seguendo la tradizione ebraica, non è mai certo che avvenga – mira all’abolizione dello sfruttamento e dell’oppressione e anche alla fine della storia: «solo per l’umanità redenta il suo passato è diventato citabile in ogni suo momento. Ogni momento vissuto diventa una citazione all’ordine del giorno – giorno che è appunto il giorno del giudizio»26. I concetti e le riflessioni di Gramsci e Benjamin sulla filosofia della storia sono insomma nati dalla crisi teorica e politico-pratica del marxismo tradizionale. Entrambi i pensatori prendono spunto dalla sua critica e sviluppano sistemi incompatibili, ma che non si annullano a vicenda, né possono essere conciliati da alcuna sintesi, per quanto ardita. Le riflessioni di Gramsci mirano alla ristrutturazione del marxismo in quanto filosofia pratica, ma non sembrano raggiungere pienamente lo scopo, perché escludono la malinconica rottura antistorica con il marxismo classico; la sacralizzazione antistorica della storia e del materialismo storico di Benjamin, invece, si spinge troppo oltre, nonostante la sua brillantezza letteraria. È teoricamente e politicamente compatibile con i discorsi sulla memoria del nostro tempo, che non ruotano più solo intorno alla Shoah, ma anche alle vittime del colonialismo e alle sue conseguenze. Contro il messianismo di Benjamin, si può sostenere che la speranza di un potere messianico degli oppressi e degli emarginati è stata storicamente un’illusione. Il concetto di Gramsci, al contrario, ha il vantaggio decisivo di rimanere rilevante per la politica dell’azione.
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Ivi, p. 694 (trad. it. WMF).
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Il tema della storia è un argomento di grande portata sia per Gramsci che per Benjamin, nel senso che si tratta chiaramente di un macro-argomento nell’opera di entrambi i pensatori. Un confronto, che non vuole indulgere in analogie superficiali ma non vuole nemmeno sfuggire di mano, richiede dunque un approccio specifico: al di là di un “semplice” confronto tra i due pensatori, in questo testo si presenterà anche qualche approfondimento analitico. Ci avvicineremo, infatti, al concetto di storia di Benjamin provenendo dai Quaderni del carcere di Gramsci, e più specificamente attraverso la sua rubrica Passato e Presente. Una traccia che qui non potrà essere seguita è il tema comune della filologia; indirettamente, ovviamente, se ne parlerà, poiché la filologia, quella vivente in particolare, prende (anche e soprattutto) le mosse dal pensiero storico. «L’esperienza su cui si basa la filosofia della praxis»2 – per alludere al passo chiave dell’undicesimo quaderno del carcere – ci porta all’«insieme dei rapporti sociali» inscritto nell’essere umano3. Questi dunque saranno i tre punti di riferimento della mia argomentazione: 1) la «realtà sociale dell’uomo»4; 2) il «corso della storia» da cui è 1 Il presente testo è una nuova elaborazione e una traduzione di alcuni brani di un mio saggio più ampio: Primat der Politik über die Geschichte: Vergangenheit und Gegenwart bei Gramsci und Benjamin, «International Gramsci Journal», 3 (4), 2020, pp. 103-121. 2 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975 [d’ora in poi Q.], 11 §28, p. 1428. 3 Karl Marx, Tesi su Feuerbach, in F. Engels, Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Editori Riuniti, Roma 1950, pp. 77-80, Tesi 6. 4 Walter Benjamin, I “passages” di Parigi, a cura di R. Tiedemann, in Id., Opere complete, vol. IX, Einaudi, Torino 2000 [d’ora in poi PW], p. 16. Per gli scritti di Walter Benjamin si fa anche riferimento all’opera completa in lingua originale, l’edizione delle Gesammelte Schriften a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, 20 voll., Frankfurt a.M. 1973-1986 [d’ora in poi GS].
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impossibile fare astrazione (qui si allude ovviamente alle marxiane Tesi su Feuerbach); 3) l’osservazione, la “contemplazione della storia” – un termine dal quale ovviamente sarà necessario allontanarsi immediatamente, poiché Benjamin, in particolare, si occupa di ben altro, di tutto tranne che di “contemplazione”. Prima di arrivare alla parte più analitica, però, è inevitabile una introduzione descrittiva al tema, cioè un riassunto del contesto storico-filosofico in cui si muovono Benjamin e Gramsci, che ci darà anche occasione di tracciare le prime linee di connessione e le differenze.
Storiografia e storicismo Una di queste linee è evidentemente riscontrabile nella questione molto concreta della storiografia. Per Gramsci, la storiografia è un momento chiave allorché si incontra con Benedetto Croce, di cui Gramsci considera sintomatico l’«avvicinamento delle due espressioni etica e politica»5. Nella sua discussione di questa storia etico-politica, Gramsci sottolinea che nello studio degli sviluppi sociali bisogna fare una distinzione tra il permanente e l’occasionale: «ciò che è occasionale dà luogo alla critica politica, ciò che è permanente dà luogo alla critica storico-sociale»; la prima mira a individuare «i gruppi e le personalità politiche», la seconda «i grandi raggruppamenti sociali»6. Riguardo al permanente, ai fenomeni delle sovrastrutture, Gramsci solleva la questione se la filosofia della praxis debba escludere completamente una storia etico-politica; si tratta, evidentemente, di una domanda retorica, tanto più che ci porta alla questione se per la filosofia della praxis i fenomeni della sovrastruttura non siano altro che «apparenze»7 della struttura. La risposta è chiara: Gramsci ovviamente si schiera per la «“valorizzazione” del fatto culturale, dell’attività culturale, di un fronte culturale come necessario accanto a quelli meramente economici e meramente politici»8. La filosofia della praxis respinge una riduzione idealistica Q. 7 §9, p. 858. Q. 4 §38, p. 455. 7 Q. 10.I §7, p. 1224. 8 Ibid. 5 6
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della storia al suo momento etico-politico, ma non lo esclude affatto, mentre viceversa Croce «prescinde dal momento della lotta, in cui la struttura viene elaborata e modificata, e placidamente assume come storia il momento dell’espansione culturale o etico-politico»9. Per Gramsci, la storia etico-politica di Croce è dunque diretta contro il materialismo storico stesso – e gli oppone, superandola, la sua «storia integrale»10. Già negli anni torinesi si era rivolto contro ogni tipo di teleologia storica (in quel momento però anche per motivi di mobilitazione politica), ma nei Quaderni del carcere, dove l’accezione dell’unità tra teoria e pratica, tra filosofia e politica, porta alla fondazione di una filosofia della praxis, cambia anche la concezione della storia: storia e politica diventano una sola cosa. Se questo corrisponda al benjaminiano primato della politica sulla storia11, resta da vedere. Anche nel delineare la critica dello storicismo di Benjamin si può partire da struttura e sovrastruttura – un modello che Benjamin, però, condensa in una fitta rete di rapporti ricca di associazioni12 sostituendo «le immagini riflesse della base attraverso la sovrastruttura»13 con «immagini» che corrispondono alla forma del mezzo di produzione «nella coscienza collettiva»14. È ciò che si legge nell’exposé del Passagenwerk, dove, infatti, l’affermazione che «non si tratta di illustrare l’origine economica della civiltà, bensì l’espressione dell’economia nella sua civiltà»15, è collegata alla riflessione sulle teorie del progresso. Benjamin ovviamente è critico nei confronti di una «ottusa fede […] nel progresso»16. Il suo obiettivo è un materialismo storico che abbia «annichilito in sé l’idea del progresso»17, e quindi il progetto dei Passages assume anche il ruolo di sviluppare un «nuovo metodo dialettico della scienza storica»18. La Q. 10.I, p. 1209. Q. 10.I, p. 1211. 11 Cfr. PW, K 1, 2, p. 112 (GS V.2, p. 1057). 12 Cfr. Irving Wohlfarth, Die Passagenarbeit, in Burkhardt Lindner (a cura di), Benjamin Handbuch. Leben – Werk – Wirkung, Metzler, Stuttgart-Weimar 2011, pp. 251-257. 13 PW, p. 999 (GS V.2, p. 1225). 14 Ivi, p. 6 (GS V, p. 46). 15 Ivi, p. 513 (GS V, pp. 573 sgg.). 16 Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997 [da ora in poi CS], p. 39 (GS I.2, p. 698). 17 PW, p. 596 (GS V.1, p. 574). 18 Ivi, p. 433 (GS V.2, p. 1006). 9
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concezione stessa dei Passages si oppone a qualsiasi accezione lineare della storia; il Passagenwerk può essere considerato il tentativo di realizzare l’interruzione del pensiero del progresso, per così dire, nella pratica testuale19. Nel secondo exposé del 1939 lo storicismo appare come oggetto centrale del libro progettato. Lo storicismo, secondo Benjamin, finge di riprodurre semplicemente i fatti, mentre in realtà, nella sua pretesa di voler capire «proprio come è stato davvero»20, fa affermazioni su causalità e connessioni. La storia dei dominatori si iscrive nella tradizione, e ciò sarebbe l’oggetto della Rettenden Kritik, di una critica che “salva” il passato: il passato non è semplicemente ciò che è accaduto di fatto – essendo ciò di cui ci ricordiamo ha invece un effetto sul presente ed è “affetto” dall’attualità21. È a questo che si riferisce il termine benjaminiano dell’Eingedenken: è ciò che libera il potenziale del passato. Se il compito dello storico materialista è quello di «spazzolare la storia contropelo»22, allora si tratta ugualmente di ricordare ciò che è stato dimenticato e soppresso, così come di gettare uno sguardo critico sulla storia della tradizione stessa. Se ora vogliamo fare un primo riferimento alla critica di Gramsci alla storia etico-politica di Croce, lo troviamo nel suo punto di partenza: la distinzione tra il permanente e l’occasionale. Non possiamo però operare un confronto tra le posizioni di Gramsci e di Benjamin sulla stessa questione, ma piuttosto evidenziare che per Benjamin questa questione si pone in modo diverso, cioè non si pone affatto. La domanda che cosa vada inteso come storia non è il suo tema, ma piuttosto la pretesa di formulare un concetto di storia nel qui e ora, che da un lato permetta la conoscenza storica, ma dall’altro sia anche capace di innescare un cambiamento politico23. Per quanto riguarda la connessione tra teoria e pratica – presente dunque anche in Benjamin – bisogna andare un po’ più a fondo, e la 19 Cfr. Willi Bolle, Geschichte, in Michael Opitz, Erdmut Wizisla (a cura di), Benjamins Begriffe, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2000, vol. 1, pp. 399-442. 20 CS, p. 27 (GS I.2, p. 695). 21 Thomas Weber, Rettende Kritik, in Historisch-kritisches Wörterbuch des Marxismus (HKWM), Argument, Hamburg 2012, vol. 8/I, pp. 103-108. 22 CS, p. 31 (GS I.2, p. 697). 23 Ralf Konersmann, Erstarrte Unruhe. Walter Benjamins Begriff der Geschichte, Fischer, Frankfurt a.M. 1991, p. 12.
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questione diventa anche più complicata di quando si traccia una critica della fede nel progresso, della selezione arbitraria e della visione dominante della storia. Ma prima di passare alla «svolta copernicana nella visione storica» postulata da Benjamin – dopo la quale ciò che è accaduto non costituisce più il punto fisso a cui bisogna avvicinarsi a tentoni, ma esattamente il contrario: l’accaduto è contestato e riceve la sua fissazione dialettica solo attraverso il ricordo24 – va dunque esaminato il concetto non di storia, ma di passato e presente, cioè la rubrica dei Quaderni del carcere già menzionata. Passato e presente Si tratta di un elemento del sistema di rubriche dei Quaderni del carcere che Gramsci usava per ordinare e sistematizzare il suo materiale e le sue note. Spesso, il fatto stesso che assegni certi temi, reperti o personalità a una di queste categorie è significativo e istruttivo – sia per il materiale stesso che per la concezione della categoria. Passato e presente è una di queste categorie: appare quasi esclusivamente nei quaderni miscellanei e, a differenza di altre rubriche, il materiale raccolto sotto questa voce non è presente in un quaderno tematico di una fase successiva25. Sulle ragioni di ciò ho riflettuto altrove26; qui basta notare prima di tutto che il materiale molto eterogeneo riguarda – in generale – il rapporto tra il livello individuale dell’esperienza e il contesto storico. Gramsci si occupa di due aspetti complementari di questo rapporto: uno è la pretesa di esaminare l’esperienza di vita individuale riguardo al suo contenuto universale e di dare alla sua presentazione – ad esempio negli scritti autobiografici – un significato educativo, «pedagogica universalità», nelle parole di Gramsci27; l’altro riguarda la riflessione sui modi in cui gli individui trattano la loro contemporaneità con il presente, qualcosa che per Gramsci presupPW, K1, 2, p. 112 (GS V.2, p. 1057). Cfr. Fabio Frosini, Passato e presente, in Guido Liguori, Pasquale Voza (a cura di), Dizionario gramsciano 1926-1937, Carocci, Roma 2009, pp. 626-628. 26 Cfr. Ingo Pohn-Lauggas, Past and Present: Popular Literature, in Francesca Antonini, Aaron Bernstein, Lorenzo Fusaro e Robert Jackson (a cura di), Revisiting Gramsci’s Notebooks, Brill, Leiden-Boston 2020, pp. 297-311. 27 Q. 14 §78, p. 1745. 24 25
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pone una critica che è politica in senso stretto28. Non si tratta, comunque, solo di una “critica” ma anche di un rivolgersi al passato con lo scopo di un suo «superamento»29. Entrambi i lati di questa concezione di Passato e presente sono pilastri portanti dell’architettura filosofica gramsciana, e non è quindi sorprendente che i contenuti più eterogenei siano riuniti in questa categoria, perché dopo tutto non c’è quasi nessun ambito che non possa essere assegnato al complesso di problemi concepito in questo modo. Vale la pena riflettere su come questo nesso possa a sua volta configurare una costellazione con Benjamin. Partendo dal percorso biografico di Gramsci, va notato che un suo elemento importante è stato il distacco dalla Sardegna, di cui si parla da più parti, e quindi la sua stessa “sprovincializzazione”. In questo contesto, è interessante leggere nel Quaderno 15 cosa dice di Francesco Guicciardini, contemporaneo e amico di Niccolò Machiavelli. Gramsci si interessa della sua opera Ricordi politici e civili, testo autobiografico-letterario fondatore del genere degli aforismi moral-politici: I “Ricordi” sono tali in quanto riassumono non tanto avvenimenti autobiografici in senso stretto […], quanto “esperienze” civili e morali […] strettamente connesse alla propria vita e ai suoi avvenimenti, considerate nel loro valore universale […]. Per molti rispetti, una tal forma di scrittura può essere più utile che le autobiografie in senso stretto, specialmente se essa si riferisce a processi vitali che sono caratterizzati dal continuo tentativo di superare un modo di vivere e di pensare arretrato come quello che era proprio di un sardo del principio del secolo30.
La prospettiva autobiografica trasmette intuizioni generali e questo processo emerge tanto più chiaramente «in quanto sperimentato da un “triplice o quadruplice provinciale” come certo era un giovane sardo del principio del secolo»31: Gramsci stesso, cioè. Il peso di un’osservazione così apparentemente casuale diventa chiaro quando la si mette in relazione con il ben più famoso passaggio in cui Gramsci, facendo riferimento alla sesta tesi su Feuerbach, pone la questione della natura umana e afferma che l’uomo «è da Cfr. F. Frosini, Passato e presente cit., p. 626. Q. 1 §156, p. 137. 30 Q., 15 §19, p. 1776. 31 Ibid. 28 29
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concepire come un blocco storico di elementi puramente individuali e soggettivi e di elementi […] oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo»32. Così l’osservazione su Guicciardini è un passaggio chiave per comprendere la rubrica Passato e presente: i suoi Ricordi dovrebbero servire da “modello” per come dovrebbero essere compilate le note raccolte sotto questa rubrica33. Queste note stesse sono, tra l’altro, autobiografiche in diversi punti. Pensiamo, ad esempio, al commovente paragrafo del Quaderno 9 dedicato al «concio della storia», che nessuno vuole essere perché tutti vogliono essere un aratore, cioè «avere una parte attiva»; ma per Gramsci, privato della possibilità dell’intervento politico, le cose ora sono diverse: «Qualcosa è cambiato, perché c’è chi si adatta “filosoficamente” ad essere concio, che sa di doverlo essere, e si adatta»34. Come in numerose altre occasioni mette in evidenza la dimensione politica della sua prigionia accanto a quella personale; si pensi alle lettere alla madre, nelle quali vuole che sia chiaro che lei non deve ascoltare i discorsi che si fanno su di lui, poiché la sua prigionia non ha nulla a che fare con la mancanza di rettitudine, con la coscienza e nemmeno con la colpevolezza o l’innocenza: «È un fatto che si chiama politica, appunto perché tutte queste bellissime cose non c’entrano per nulla»35. Con le osservazioni su Guicciardini e le sue implicazioni torniamo a Benjamin, cioè al fatto che anche la sua concezione di storia non può essere compresa senza il riferimento alle disposizioni individuali, a come gli eventi storici influenzino le singole biografie. Se il Passagenwerk, da un lato, è dedicato alla storia collettiva dell’Ottocento, con Infanzia berlinese intorno al millenovecento Benjamin ci presenta un tentativo di trovare una forma di scrittura autobiografica che soddisfi le sue esigenze letterarie, poetologiche e critiche. Il testo si discosta in modo significativo da ciò che si intende per un’autobiografia “classica”, a cominciare dall’assenza di una croQ. 10.II §48, p. 1338. «Molti spunti raccolti in questa rubrica di “Passato e presente”, in quanto non hanno una portata “storica” concreta, con riferimenti cioè a fatti particolari, possono essere raccolti insieme sul modello dei Ricordi politici e civili del Guicciardini» (Q. 14 §78, p. 1745). 34 Q. 9 §53, p. 1128. 35 Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di A. Santucci, Sellerio, Palermo 1996, lettera del 25 aprile 1927. 32 33
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nologia lineare, che Benjamin sostituisce con una disposizione topografica di immagini36. Lo spazio sostituisce l’estensione temporale e in un certo senso si inserisce tra la memoria individuale e la sua impronta socio-culturale: non si tratta di “ricostruire” un percorso di vita o una fase determinante in esso – qui l’infanzia – ma proprio di rendere comprensibile un processo di socializzazione. Con la sua rappresentazione caleidoscopica, Benjamin si sforza, come lui stesso scrive, di impadronirsi «di quelle immagini in cui l’esperienza della grande città si sedimenta in un bambino della borghesia»37: l’attenzione si rivolge non alla propria vita ma a ciò che diventa visibile in essa. Le dimensioni collettive e individuali del passato si uniscono. Ma già qui troviamo le figure dialettiche in cui la visione retrospettiva del passato si intreccia con la visione opposta dal passato al futuro, ad esempio nella descrizione di un viale desolato nel Giardino zoologico, un angolo di Berlino che «mostrava già i tratti dell’avvenire. Era un angolo profetico»38. Qui diventa evidente che non si tratta solo dell’oggetto della memoria – forse soprattutto non di questo – ma delle sue modalità. L’Infanzia berlinese è, come accennato, un testo autobiografico, poetologico e critico-sociale nello stesso tempo, dal momento che le immagini della memoria che contiene sono allo stesso tempo immagini del ricordare, sono ovviamente legate al concetto di storia di Benjamin, e soprattutto al progetto dei Passages. Con questo torniamo a Passato e presente e alla seconda sfumatura della rubrica gramsciana. È già chiaramente delineata nella primissima apparizione in un paragrafo del primo quaderno in cui Gramsci, come già indicato, pretende dal presente non solo di “criticare” ma anche di “superare” il passato. Vale la pena citarlo per intero: Passato e presente. Come il presente sia una critica del passato, oltre che [e perché] un suo “superamento”. Ma il passato è perciò da gettar via? È da gettar via ciò che il presente ha criticato “intrinsecamente” e quella parte di noi stessi che a ciò corrisponde. Cosa significa ciò? Che noi dobbiamo aver coscienza esatta di questa critica reale e darle un’espressione non solo 36 Cfr. Anja Lemke, Berliner Kindheit um neunzehnhundert, in B. Lindner (a cura di), Benjamin Handbuch cit., pp. 653-663. 37 Walter Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento [Ultima redazione (1938)], in Id., Opere complete VII. Scritti 1938-1940, a cura di R. Tiedemann, Einaudi, Torino 2006, pp. 17-18 (GS VII.1, p. 385). 38 Ivi, p. 37 (GS VII.1, p. 407).
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teorica, ma politica. Cioè dobbiamo essere più aderenti al presente, che noi stessi abbiamo contribuito a creare, avendo coscienza del passato e del suo continuarsi (e rivivere)39.
L’intenzione di Gramsci, quindi, è di esaminare come la storia diventi parte dell’esperienza degli individui e come essi si sforzino di usarla per il progresso; la critica politica e pratica depone consapevolmente certi pesi superati del passato. Gramsci fa riferimento tra l’altro alle proprie esperienze nell’Ordine Nuovo, ma trova materiale nei più diversi contesti40: dal sistema di governo inglese e le sue caratteristiche bonapartiste41 ai mutamenti della filosofia di Gentile durante il fascismo; dal trattamento degli ufficiali in congedo42 alla «crisi di autorità» dopo la Prima guerra mondiale, che viene trattata in un paragrafo della categoria Passato e presente che contiene anche quella che è probabilmente una delle osservazioni più conosciute e citate di Gramsci, e cioè che una crisi consiste «nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere»43. La pretesa, comunque, di scoprire – come il lettore operaio brechtiano – le tracce della propria storia e della propria efficacia nel materiale della visione tradizionale della storia44 ci porta anche in Gramsci a ciò che in essa è sottratto, e quindi alla connessione indissolubile tra storia e politica – o al primato della politica sulla storia. È questo “primato” che ci permette in conclusione di unire – ma anche di far di nuovo divergere – i percorsi di pensiero di Gramsci e Benjamin nelle questioni di storia. Eingedenken Anche nell’opera di Benjamin, questo percorso parte dall’“effetto” che il passato ha sul presente – che qui è una parola troppo debole: da lui, i “fatti” storici (tra virgolette!) diventano «qualche cosa Q. 1 §156, p. 137. Cfr. F. Frosini Passato e presente cit., p. 627. 41 Q. 6 §40. 42 Q. 2 §76. 43 Q. 3 §34, p. 311. 44 Cfr. Peter Jehle, Lesende Arbeiter, in Historisch-kritisches Wörterbuch des Marxismus (HKWM), vol. 8/I, Argument, Hamburg 2012, pp. 1000-1019. 39 40
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che ci colpì proprio in quest’istante», come dice nel Passagenwerk45. Il rapporto nella visione storica è invertito: «si considerava “ciò che è stato” come un punto fisso e si vedeva il presente sforzarsi di avvicinare a tentoni la conoscenza a questo punto fermo. Ora questo rapporto deve capovolgersi e ciò che è stato deve diventare il rovesciamento dialettico, l’irruzione improvvisa della coscienza risvegliata»46. L’allusione al ruolo del risveglio come «caso esemplare del pensiero dialettico»47 è evidente e qui non può essere approfondita; la mia attenzione si concentra piuttosto sul passo spettacolare di liberare dalla sua fissazione proprio il passato, il presunto immutabile, che sembra giacere davanti allo sguardo «come il cadavere sul tavolo dell’anatomista»: per Benjamin, «nulla è più incompiuto di ciò che è accaduto»48. Lo sforzo storico consiste ora proprio nel misurare questa circostanza – le questioni della storia e le questioni della sua tradizione non solo vengono avvicinate da Benjamin, ma vanno insieme, fanno parte dello stesso progetto, visto che in ogni epoca «bisogna tentare di strappare la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla»49. In quanto il passato influisce sul presente, il passato è soggetto all’attualità, e più di questo: in una visione della storia che supera l’ideologia del progresso, può persino acquisire un grado di «attualità più alto che al momento della sua esistenza»50. Di conseguenza, lo studio della storia ci fornisce intuizioni sull’attualità presente, sulla Jetztzeit51: secondo Benjamin dobbiamo afferrare l’oggi per poter interrogare il passato. Nella famosa dodicesima delle cosiddette Tesi di filosofia della storia (non è stato, del resto, Benjamin a chiamarle così), dove definisce la «classe oppressa che lotta» come «soggetto della conoscenza storica», la frase centrale è che l’errore della socialdemocrazia è stato quello di ritenersi «redentrice delle generazioni future» invece PW, K 1, 2, p. 112 (GS V.2, p. 1057). Ibid. 47 PW, p. 19 (GS V.1, 59). 48 Hermann Schweppenhäuser, Praesentia praeteritorum, in Peter Bulthaup (a cura di), Materialien zu Benjamins Thesen “Über den Begriff der Geschichte”. Beiträge und Interpretationen, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1975, p. 7. 49 CS, p. 27 (GS I.2, p. 695). 50 PW, p. 437 (GS V.1, p. 495). 51 GS 1.2, p. 701. La sfumatura di questo termine scompare nella traduzione italiana “attualità”. 45 46
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di pensare agli «antenati oppressi», svuotandosi così «della sua vera energia rivoluzionaria»52. Ecco perché Benjamin introduce il concetto dell’Eingedenken (rammemorazione) per la sua concezione della storia dal punto di vista degli oppressi: perché la storia «non è solo una scienza, ma anche, e non meno, una forma della rammemorazione. […] Ciò che la scienza ha “stabilito”, può essere modificato dalla rammemorazione»53. L’intenzione è quella di stabilire un legame tra passato e presente che sia costruito in modo tale che la memoria serva non solo al materialista storico ma indirettamente a tutti gli oppressi a prendere forza in modo molto concreto. In questo obiettivo di mobilitazione degli oppressi, per il quale la rammemorazione storica è uno dei mezzi impiegati, risuona già il primato della politica. La concezione storica dello storicismo va superata appena cade preda dell’errore di supporre che la verità non ci scapperà: perché piuttosto, la «vera immagine del passato guizza via»54. Per percepirlo occorre una “costellazione” con il presente: «infatti è un’immagine non rievocabile del passato quella che rischia di scomparire con ogni presente che non sia riconosciuto inteso in essa»55. La Tesi V ci porta al concetto chiave dell’immagine dialettica; il rapporto tra passato e presente diventa qui più complesso: perché dobbiamo riconoscere che il passato non getta semplicemente «la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellazione»56. Anche qui, la visione della storia è a-cronica: il passato, contraendosi in un momento, si presenta non come un corso ma, appunto, come immagine57. Condizione decisiva dell’immagine dialettica è un momento fissante della conoscenza ed essa quindi rappresenta una categoria programmatica della conoscenza. Ma come va tradotta questa “contemplazione” in un discorso politico, qual è la connessione tra l’atto di conoscenza e l’unità postulata di teoria e pratica? Qui ovviamente va preso in considerazione il concetto stesso del politico, CS, p. 43 (GS I.2, p. 700). PW, N 8, 1, p. 121 (GS V. 1, p. 589). 54 CS, p. 25 (GS I.2, p. 695). 55 Ibid. 56 PW, N 2a, 3, p. 116 (GS V.1, p. 576). 57 Cfr. Ansgar Hillach, Dialektisches Bild, in M. Opitz, E. Wizisla (a cura di), Benjamins Begriffe cit., pp. 186-229. 52 53
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che Benjamin contrappone allo “storico” quando presume di trattare ciò che è accaduto «non in maniera storiografica, come finora si è fatto, ma in modo politico, in categorie politiche»58. Politica La già citata svolta copernicana comporta una «sostituzione dello sguardo storico su ciò che è stato con quello politico»59; questo «trucco», come lo chiama lo stesso Benjamin, diventa un metodo nel Passagenwerk60, dove appunto si dice: «La politica consegue il primato sulla storia»61. Se paragoniamo questa conclusione alla visione di Gramsci che fa coincidere politica e storia, percepiamo non tanto una concezione comune della storia, quanto piuttosto una concezione sostanzialmente diversa di “politica”. Gramsci ricava questa identità dalle Tesi su Feuerbach e, in questo senso, considera «l’insieme delle forze materiali di produzione» come «tutta la storia passata cristallizzata»62. Ugualmente allo storico materialista concepito da Benjamin, per il quale «ogni epoca, di cui egli si occupa, è solo un antefatto dell’epoca cui lui stesso appartiene »63, anche Gramsci afferma che «il presente contiene tutto il passato» e che il passato è pienamente «realizzato» nel presente64; ma se ogni fase storica è un «documento» delle fasi precedenti, anche Gramsci nota che sono le classi dirigenti, le classi vincitrici che si inscrivono in questo modo in esso: «il bottino – ma questo è Benjamin a dirlo – come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come patrimonio culturale»65. Così in entrambi i pensatori abbiamo questa connessione tra storia, storiografia e azione presente, che mira all’empowerment. Gramsci lo dice esplicitamente, e sempre un po’ più direttamenPW, p. 437 (GS V.1, p. 495). Walter Benjamin, Il surrealismo. L’ultima istantanea sugli intellettuali europei, in Id., Opere complete: III. Scritti 1928-1929, Einaudi, Torino 2010, p. 205 (GS II.1, 300). 60 I. Wohlfahrt, Die Passagenarbeit cit., p. 256. 61 PW, p. 971 (GS V.2, p. 1057). 62 Q. 4 §25, p. 444. 63 PW, p. 532 (GS V.1, p. 593). 64 Q. 7 §24, p. 873. 65 CS, p. 31 (GS I.2, 696). 58 59
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te di Benjamin: «se scrivere storia significa fare storia presente, è grande libro di storia quello che nel presente crea forze in isviluppo più consapevoli di se stesse e quindi più concretamente attive e fattive»66. Ma le convergenze non possono e non devono nascondere le differenze: bisogna prestare attenzione soprattutto alla grande distanza che c’è tra la penetrazione dialettica del passato di Benjamin e la rivendicazione gramsciana di un suo “superamento”, rivendicazione contenuta in entrambi i livelli di significato della categoria Passato e presente, come ho mostrato. Qui, in un certo senso, Gramsci è evidentemente più “positivista” e più vicino al “proprio come è stato davvero” respinto da Benjamin. Sia nella “penetrazione” dialettica al centro del Passagenwerk che nella prospettiva messianica che caratterizzerà più fortemente le Tesi67, è evidente la differenza verso ciò che Gramsci intende per una critica politica che deve essere espressa in relazione al passato. Il chiasmo Da qui deriva l’enfasi sopra espressa sul fatto che l’immagine dialettica è prima di tutto una categoria di conoscenza. Il “politico” (nel senso convenzionale) può andare di pari passo con esso, ma non rappresenta il punto di fuga del concetto. In Gramsci, invece, passato e presente sono visti molto esplicitamente e inizialmente nel segno della richiesta di azione politica nel qui e ora. Nello stile di un chiasmo, lo si potrebbe sintetizzare così: Benjamin diventa politico con l’obiettivo della conoscenza, mentre Gramsci si pone questioni di conoscenza con l’obiettivo dell’azione politica. La figura del chiasmo, che contiene l’immagine dell’incrocio, si dimostra qui produttiva. Se possiamo identificare sia in Benjamin che in Gramsci l’unità tra teoria e pratica nelle questioni della storia – fatto che li rende “filosofi della praxis” nella loro concezione della storia, anche per il riferimento che entrambi fanno alle Tesi su Feuerbach – allora naturalmente bisogna sottolineare che questo vale sempre solo “in senso lato”. La lezione da trarre dalle presenti ri66 67
Q. 9 §107, p. 1171. Cfr. A. Hillach, Dialektisches Bild cit., pp. 223 sgg.
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flessioni è comunque un’altra. È affascinante notare come Gramsci e Benjamin, provenienti da diverse direzioni e con diverse destinazioni del loro pensiero, tuttavia in certi punti si incontrano in modo abbastanza evidente. Più affascinante, però, che affermare che le risposte alle stesse domande sono simili, è rendersi conto che sono domande diverse che hanno portato a risposte simili. Per un breve momento, ovviamente, prima che le strade si separassero di nuovo.
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Materialismo storico e filosofia della praxis. Walter Benjamin e Antonio Gramsci critici del socialismo Francesco Raparelli
I due pensatori sono senz’altro tenuti assieme dalla “sventura”, nel senso che al termine conferisce un’altra sventurata dell’epoca, Simone Weil. In modo diverso, entrambi muoiono di fascismo. Walter Benjamin, dopo quasi un decennio di fuga, Antonio Gramsci, dopo quasi un decennio di prigionia. Certo, il secondo sconta il suo attivismo politico, mentre il primo, il cui fratello era però militante comunista e morì in un campo di prigionia nazista, il suo profilo di intellettuale ebreo e marxista. Eretico quanto si vuole, Benjamin, ma marxista – almeno dalla metà degli anni Venti in poi; meglio ancora, leninista. Al contrario di quanto si afferma negli ultimi tempi, nei quali va di moda dipingerlo come un liberale, pure Gramsci fu un leninista per nulla pentito. Sventurati, leninisti, bersaglio del fascismo europeo. Cos’altro tiene assieme queste due straordinarie (e commoventi) figure del Novecento europeo? Se dalla vita si sposta lo sguardo sul pensiero, le cose si fanno più complicate. Certo non mancano gli studi che hanno colto, in modo corretto e raffinato, una significativa coincidenza delle loro idee sul tema della traduzione. Tanto che sia Benjamin che Gramsci conoscono una rinnovata fama mondiale grazie ai Cultural e ai Postcolonial Studies1. Così come risulta evidente, anche al lettore più distratto, che entrambi hanno preso molto sul serio il problema 1 Cfr. Stuart Hall, Razza, articolazione e società strutturate a dominante (1980), in Id., Cultura, razza, potere, a cura di M. Mellino, Ombre Corte, Verona 2015, pp. 67-124; S. Hall, L’importanza di Gramsci per lo studio della razza e dell’etnicità, ivi, pp. 125-160; Gayatri C. Spivak, Can the Subaltern Speak?, in Cary Nelson e Lawrence Grossberg (a cura di), Marxism and the Interpretation of Culture, Macmillan, Basingstoke 1988, pp. 271-313; Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa (2000), trad. it. M. Bortolini, Meltemi, Roma 2004.
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delle “sovrastrutture”, più in generale del linguaggio, della cultura, delle ideologie. Eppure Benjamin, nelle Tesi sul concetto di storia2, dichiara guerra allo storicismo, mentre Gramsci, nei Quaderni3, non smette di pensare la filosofia della praxis, ovvero il marxismo, come «storicismo assoluto». Differenza che non è di poco conto se, come si tenterà di fare nelle pagine a seguire, si vuole considerarli entrambi critici del socialismo. Per il primo, infatti, storicismo e socialdemocrazia tedesca coincidono; per il secondo, il socialismo, quello italiano al pari di quello «reale» in Russia, manca di storicismo. Convinzione di chi scrive è che entrambi, pur usando in termini (a volte) antitetici la parola “storicismo”, pensano in modo assai prossimo il problema della temporalità, più in particolare della molteplicità dei tempi storici. Così facendo, mettono all’angolo il socialismo e innovano il materialismo storico (§ 1). Ed è proprio quest’ultima innovazione ad averli resi autori decisivi per «lo studio della razza e dell’etnicità»4, feconda ispirazione per la critica postcoloniale. La polemica col socialismo, però, non si limita a offrire, al presente, strumenti utili per la teoria; mette piuttosto in campo una rete di concetti pratici in grado di illuminare la lotta sociale e politica, in un’epoca, come la nostra, segnata da catastrofi – bellica, economica, climatica, sanitaria – non particolarmente dissimili da quelle che hanno travolto la vita di Benjamin e Gramsci. Pensatori nella e della sconfitta, i due innovano il leninismo attraverso un uso alquanto spregiudicato di György Lukács, il primo, del Principe di Machiavelli, il secondo (§ 2). E ancora: pur non avendo alcuna nostalgia per il mondo antico, conquistato dal cinema sovietico, Benjamin, e dalla fabbrica fordista, Gramsci, in modo del tutto coincidente criticano la tecnica (§ 3). Se il materialismo storico è arma decisiva della lotta di classe, è la prassi a liberare il futuro, a compiere le possibilità ancora irrealizzate delle lotte passate, a radicare la previsione antagonista (§ 4). Entrambi pessimisti, perché ostili all’ottimismo positivistico dei socialismi vari, Benjamin e Gramsci conservano un unico ottimismo: quello relativo all’organizzazione 2 Walter Benjamin, Sul concetto di storia (1940), a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997. 3 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere (1929-1937), 4 voll., a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975 (d’ora in poi Q, seguito dal numero del quaderno). 4 Cfr. S. Hall, L’importanza di Gramsci per lo studio della razza e dell’etnicità cit.
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proletaria, assumendo che questa molto deve all’egemonia culturale, allo scontro nel campo delle «sovrastrutture complesse» (§ 5). 1. Retroazione È cosa nota che già Engels, in una lettera5 rivolta Joseph Bloch del 1890, offre un chiarimento essenziale sul materialismo storico, in particolare rispetto a quanto scritto da Marx nella Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica6. Engels avanza precisazioni importanti in merito al controverso rapporto tra base economica e sovrastrutture giuridica e politica, affermando che: la base economica è determinante solo «in ultima istanza»; le sovrastrutture, e le lotte che in esse hanno luogo, hanno un rapporto di reciprocità con la base economica. Nel corso del Novecento, la lettera in questione è stata fonte di marxismi originali, del dialogo tra questi e la critica postcoloniale. Se ciò è avvenuto, lo dobbiamo innanzitutto alla breccia aperta da Benjamin e da Gramsci. Scrive il primo, in un appunto preparatorio del Passagen-Werk, progetto mai realizzato i cui materiali preparatori, in parte, confluiscono nelle Tesi: Il materialismo storico non aspira a un’esposizione omogenea né continua della storia. Poiché la sovrastruttura retroagisce sulla struttura, risulta che una storia omogenea, ad esempio, dell’economia, esiste tanto poco, quanto una storia della letteratura o della giurisprudenza7.
Il secondo in più occasioni, ma in particolare nel breve passo a seguire, afferma: […] non è vero che la filosofia della praxis “stacchi” la struttura dalle superstrutture quando invece concepisce il loro sviluppo come intuitivamente connesso e necessariamente interrelato e reciproco8.
5 Cfr. Friedrich Engels, Lettera a L. Bloch a Londra (1890), https://www.marxists. org/italiano/marx-engels/1890/9/21-bloch.htm. 6 Cfr. Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, trad. it. di E. C. Mezzamonti, Einaudi, Torino 1978. 7 W. Benjamin, Sul concetto di storia cit., p. 121. 8 Q10, p. 1300.
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Benjamin sta chiarendo il compito del materialista storico, approfondendo la critica nei confronti del «tempo omogeneo e vuoto», ovvero quello proprio dello storicismo di Fustel de Coulanges e di Lepold von Ranke (e discepoli), non certo di Marx. Gramsci sta invece respingendo le critiche di Benedetto Croce al marxismo. Contrariamente a quanto quest’ultimo sostiene, la base economica non è un «dio ascoso», un’essenza che si manifesta nell’apparenza dei conflitti politici, dell’inquadramento normativo; sono piuttosto le fratture che percorrono le «sovrastrutture complesse» a mettere in tensione fino a modificare la base economica. Per Benjamin, critica del «tempo omogeneo e vuoto» significa critica dello storicismo o della «concezione positivistica della storia», intendendo con ciò l’ideologia del tempo propria della socialdemocrazia tedesca. Progressismo, primato del futuro sul passato, celebrazione della tecnica e del lavoro: sono questi i tratti di un’ideologia che, secondo Benjamin, ha «corrotto gli operai tedeschi», agevolando l’affermazione del nazismo. Josef Dietzgen, tra i filosofi più apprezzati dal riformismo socialdemocratico (di Eduard Bernstein, prima, e di Karl Kautsky, poi), tra i bersagli più frequenti delle Tesi. Avendo mistificato l’idea marxiana della «società senza classi» in un ideale kantiano, ovvero in un «compito infinito», da realizzare con piccoli e progressivi passi, la socialdemocrazia ha pure trasformato il «tempo omogeneo e vuoto» in una sorta di «anticamera» dove «attendere, con maggiore o minore tranquillità, l’ingresso della situazione rivoluzionaria»9. La rottura benjaminiana nei confronti del pensiero, della storiografia e della prassi socialdemocratici è radicale. Recuperando in modo originale il messianismo ebraico, Benjamin smette di pensare il presente come un passaggio, intendendolo invece come tempo «in equilibrio» e «giunto a un arresto». Un tempo, quello della lotta di classe, che, per un verso, realizza e redime il passato degli oppressi e della loro ribellione; passato, occorre precisare, che solo il materialista storico nel momento del pericolo è in grado di cogliere, e di coglierlo in costellazione interattiva con la lotta presente. Per l’altro verso, è un tempo che apre al nuovo, rendendo indeterminato e denso di biforcazioni il presente stesso, tutto da scrivere il futuro. La rivoluzione, allora, interrompe il treno del progresso e della storia universale, che è sempre quella 9
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dei vincitori, si presenta come un «freno di emergenza», celebre espressione che compare nei materiali preparatori delle Tesi. Per Gramsci, nella maturità della sua riflessione su Machiavelli, in quel laboratorio dirompente che è il Quaderno 13, si tratta di ripensare completamente il materialismo storico, contro il fatalismo economicista e contro l’avventurismo estremistico. Non si può non cogliere, nella definizione gramsciana di economicismo («economismo»), qualcosa di assai simile all’attesa nell’anticamera del «tempo omogeneo e vuoto» che, secondo Benjamin, caratterizza la prassi della socialdemocrazia tedesca. L’economicismo fatto in pezzi da Gramsci cancella la prassi politica, la lotta con i suoi tratti necessariamente aleatori, occasionali, contraddittori. Il volontarismo, di converso, non sa fare i conti con ciò che permane o muta più lentamente, ovvero la base economica, i raggruppamenti sociali10. Socialismo – «reale» e/o democratico – fa rima, senz’altro nel caso di Gramsci, con meccanicismo. Meccanicista e determinista è l’universo sociale con le sue evoluzioni, come definito da Bucharin nel suo Saggio popolare e contro il quale Gramsci, a partire dal 1930, non smette di avventarsi. Ma è altrettanto figlia del meccanicismo la nozione di «tempo omogeneo e vuoto», bersaglio polemico – come si è pocanzi visto – di Benjamin e delle sue Tesi. Se lo storicismo tedesco, e in generale europeo, afferma con Dilthey11 la distinzione tra le «scienze della natura» e quelle dello «spirito», l’accezione contro la quale si scaglia Benjamin è quella che, con Ranke, vuole afferrare la storia «proprio per come è stata davvero»12; quella che, con atteggiamento meramente contemplativo, non vuole giudicare, ma afferrare la verità eterna degli eventi passati, inevitabilmente intesi secondo un «tempo omogeneo e vuoto» – che è quello, appunto, della meccanica classica. Lo storicismo gramsciano conferma quanto correttamente asserito da Eugenio Garin13, ovvero che lo storicismo è fenomeno culturale e filosofico molteplice e disparato, politicamente disparati gli usi che se ne fanno. Non è l’accezione gramsciana dello storicismo che Benjamin respinge, ma Cfr. Q4, pp. 455-465. Cfr. Wilhelm Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito (1883), a cura di G. B. Demarta, Bompiani, Milano 2007. 12 W. Benjamin, Sul concetto di storia cit., pp. 118, 135-136. 13 Cfr. Eugenio Garin, Storicismo (1984), Enciclopedia Treccani, ad vocem. 10 11
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quella, ritenuta positivistica e anti-dialettica, che da Ranke arriva a Dilthey14. Retroazione e critica radicale del meccanicismo/determinismo significano far saltare in aria il concetto di «storia universale». Ciò è vero per Benjamin, esplicitamente, ma lo è anche per Gramsci. Entrambi pensano la storia in termini plurali e a «zig zag»15, densa di anacronismi e di accelerazioni improvvise. Come chiarisce Gramsci, è la stessa personalità degli uomini-massa a essere composta in modo bizzarro: […] si trovano in essa elementi dell’uomo delle caverne e principii della scienza più moderna e progredita, pregiudizi di tutte le fasi storiche passate grettamente localistiche e intuizioni di una filosofia avvenire quale sarà propria del genere umano unificato mondialmente16.
Ed è così che, per Gramsci quanto per Benjamin, va condannato l’esperanto, l’universalismo incapace di cogliere le fratture, le discontinuità, la coesistenza di tempi storici e forme di vita irriducibili17. 2. Lenin con Lukács, Lenin con Machiavelli Lenin, si è affermato all’inizio, è riferimento decisivo sia di Benjamin che di Gramsci. Ma il primo ci arriva con lo studio forsennato e caotico, ovviamente con l’amore per Asja Lacis18; il secondo da militante rivoluzionario comunista, dalla coraggiosa esperienza dei consigli operai di Torino fino alla drammatica prigionia fascista. Nonostante questa differenza non marginale, e nonostante Benjamin nomini Lenin assai raramente, la rottura del 1917 e la prima fase della rivoluzione dei soviet è al centro del pensiero di entrambi. A maggior ragione perché entrambi guardano al 1917 alla luce della sconfitta delle rivoluzioni in Italia e in Germania, dell’avvento dei 14 Cfr. Walter Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico (1937), trad. it. E. Filippini, Einaudi, Torino 1991, pp. 88-89. 15 Cfr. Hans Magnus Enzensberger, Zickzack, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1997. 16 Q11, p. 1376. 17 Cfr. Daniel Bensaïd, Marx l’intempestivo. Grandezze e miserie di un’avventura critica, trad. it. di C. Arruzza, Edizioni Alegre, Roma 2007. 18 Cfr. Howard Eiland, Michael W. Jennings, Walter Benjamin. A Critical Life, The Belknap Press, Cambridge-London 2014.
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fascismi, della tragica torsione autoritaria e criminale imposta da Stalin all’esperimento sovietico. Perché Lenin? Perché fu Lenin – insieme a Rosa Luxemburg, è bene sempre precisare – a combattere la degenerazione, culturale oltre che politica, dei partiti della II Internazionale19. Degenerazione culturale: abbracciando acriticamente positivismo scientifico e storicismo, meccanicismo e fatalismo, in molti casi – ad esempio, in Germania e in Austria – il neokantismo; quella politica: osteggiando o paralizzando la lotta di classe, in nome del gradualismo riformistico, ma soprattutto violentando l’internazionalismo proletario col sostegno alla catastrofe nazionalista e bellica della Grande Guerra. È Lenin che combatte, attraverso un originale recupero della dialettica, il materialismo meccanicista, nonché il revisionismo e l’opportunismo, dei partiti socialdemocratici e socialisti, delle loro fonti teoriche. Non è un caso che fu proprio Lenin – e, ripetiamo, Rosa Luxemburg – a ispirare due opere, Storia e coscienza di classe20 di György Lukács e Marxismo e filosofia21 di Karl Korsch, che hanno dato avvio al cosiddetto “marxismo occidentale” e che, per Benjamin, furono decisive. Gramsci, che conosce Lukács e Korsch indirettamente, aveva avuto però una frequentazione diretta di Lenin, di Mosca, della III Internazionale. Studioso brillante e creativo, l’autore dei Quaderni, ma anche e soprattutto dirigente comunista; panni che di certo non dismette quando, costretto dal carcere, si dedica agli studi «für ewig». Tra le ispirazioni eterogenee delle Tesi di Benjamin, come ampiamente noto, un posto particolare occupano sia Nietzsche, e la seconda delle sue Considerazioni inattuali22, che Storia e coscienza di classe di Lukács. Senza battere strade già ben calpestate23, vale la pena soffermarsi sui tratti distintivi del materialismo storico, come alternativo a quello volgare, presentati da Lukács nel saggio che, al «mutamenCfr. Antonio Negri, Trentatré lezioni su Lenin (1974), manifestolibri, Roma 2004. Cfr. György Lukács, Storia e coscienza di classe (1923), trad. it. di G. Piana, SugarCo, Milano 1991. 21 Cfr. Karl Korsch, Marxismo e filosofia (1923), trad. it. di G. Backhaus, SugarCo, Milano 1978. 22 Cfr. Friedrich Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874), in Id., Considerazioni inattuali, trad. it. di G. Colli e M. Montinari, Einaudi, Torino 1981. 23 Cfr. Dario Gentili, Il tempo della storia. Le tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin (2002), Quodlibet, Macerata 20192. 19 20
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to di funzione del materialismo storico»24, è dedicato: la crisi intesa come temporaneo collasso del comando capitalistico e, al contempo, chance rivoluzionaria; la connessione intima tra accumulazione capitalistica e violenza. La crisi capitalistica, che solo il materialismo storico del proletariato in lotta può conoscere correttamente, secondo Lukács è «un punto di relativa intermittenza della legalità immanente dello sviluppo capitalistico»25. Ciò significa che non esiste sviluppo lineare, né sempre né ovunque «organico», del capitalismo. Se la crisi, in assenza di offensiva operaia, può consentire di «mettere in moto ancora una volta la produzione in senso capitalistico»26, è pure la «contingenza necessaria» – ovvero una possibilità che il proletariato coglie come necessaria allo sviluppo capitalistico stesso – affinché la socializzazione delle forze produttive si traduca in alternativa comunista. Difficile non cogliere la vicinanza con i problemi affrontati da Benjamin, tanto nel suo saggio su Eduard Fuchs che nelle Tesi. Stessa vicinanza se si prende in considerazione il rapporto tra violenza ed economia. Convinzione di Lukács è che sia stato un errato modo di pensare e scrivere la storia ad aver reso volgare il marxismo della II Internazionale. Effetto politico nefasto? La cancellazione della violenza tra gli strumenti propri, e necessari, della trasformazione radicale dell’esistente. Materialismo storico, per Lukács come per Benjamin, vuol dire cogliere il nesso intimo tra capitalismo e violenza e, di converso, promuovere il carattere necessariamente distruttivo, e non solo costruttivo, della prassi rivoluzionaria. Nel suo breve saggio dedicato a Lenin, anch’esso noto a Benjamin, Lukács ritiene che sia stato il genio bolscevico l’unico ad avere effettivamente compreso l’attualità della rivoluzione come tratto essenziale dell’epoca, come tendenza che orienta la lotta, l’autonomia e la capacità di direzione della classe operaia, contro l’idea di uno sviluppo stadiale e ordinato della società russa e delle sue trasformazioni – dallo zarismo alla democrazia liberale e borghese, al socialismo. «Se infatti il carattere del periodo è rivoluzionario, una situazione acutamente rivoluzionaria può verificarsi in ogni momento»27: scrive G. Lukács, Storia e coscienza di classe cit., pp. 277-315. Ivi, p. 302. 26 Ivi, p. 301. 27 György Lukács, Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero (1924), trad. it. di G. D. Neri, Einaudi, Torino 1970, p. 38. 24 25
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Lukács nel suo Lenin. «In realtà non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria – essa richiede soltanto di essere intesa come una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo»28: scrive Benjamin nelle sue Tesi. Sarebbe sbagliato opacizzare il sapore messianico di queste ultime, ma lo è altrettanto omettere il loro riferimento diretto a Lukács, indiretto a Lenin. È Lenin che, praticamente, rompe il meccanicismo socialista (della II Internazionale), apre la storia alla diversione, all’imprevisto. Nonostante la catastrofe staliniana; catastrofe che Benjamin, a differenza di Lukács, non smette di condannare – così subendo anche lo scherno dell’amico Bertolt Brecht. Il nome di Lenin, in Gramsci, in particolare nei Quaderni del carcere, è legato a due concetti decisivi: “egemonia”; “traduzione”. Per quanto il secondo sia problema affrontato sia da Gramsci che da Benjamin, vale la pena accendere i riflettori sul primo. Non solo perché chiama nuovamente in causa il rapporto tra struttura e sovrastrutture, ma perché offre a Gramsci l’occasione di innovare il leninismo, passando per una originale lettura di Machiavelli. In questo modo, etica ed estetica, cultura in generale e ricerca storica, divengono luogo di politicizzazione e, dunque, di radicalizzazione della lotta di classe. La nozione di egemonia, tra l’altro, serve a Gramsci per spostare la critica all’economicismo dalla «teoria storiografica» a quella della «pratica politica»29. Bene prima sgomberare il campo, però. Egemonia, per Gramsci, non è un modo di far fuori il leninismo e di abbandonare la rivoluzione, la violenza organizzata, la presa del potere. Una vulgata, questa, che in Italia inizia con Palmiro Togliatti, con «la via italiana al socialismo»30. Già negli scritti politici che precedono il carcere, la nozione di egemonia deriva da Lenin e dal (suo) bolscevismo. In particolare, il termine compare nel marzo del 1924, con la ripresa della pubblicazione de L’Ordine nuovo, e con esplicito riferimento al noto saggio di Lenin che commenta la rivoluzione del 1905, Due tattiche della W. Benjamin, Sul concetto di storia cit., p. 55. Cfr. Q13, pp. 1595-1596. 30 Cfr. Paolo Capuzzo, Sandro Mezzadra, Provincializing the Italian Readings of Gramsci, in Neelam Srivastava e Baidik Bhattacharya (a cura di), The Postcolonial Gramsci, Routledge, London-New York 2012, pp. 34-54. 28 29
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socialdemocrazia nella rivoluzione democratica31. E serve a Gramsci per elaborare, produttivamente, la sconfitta dei consigli di fabbrica e del «biennio rosso». Già nel 1926, infatti, la «quistione meridionale» viene posta come decisiva per superare l’isolamento operaio32. «Egemonia del proletariato», dunque capacità operaia di ottenere «il consenso delle larghe masse contadine», è «la base sociale della dittatura proletaria e dello Stato operaio». In accordo con la lettura di Christine Buci-Glucksmann, vale la pena insistere sulla convergenza di Gramsci con Lenin, in particolare con quello che, nel X congresso del Partito comunista, precisa e amplia «la dialettica tra egemonia e dittatura del proletariato»33. Problema presente in Gramsci fin dal testo del 1924 a Lenin dedicato, nel quale introduce la nozione di dittatura del proletariato – attraverso la sua avanguardia consapevole, ovvero il partito – intesa come «espansiva», di contro a quella di tipo repressivo, propria della borghesia, più nello specifico del fascismo. Ma è con la rilettura di Machiavelli e del Principe, il moderno partito politico proletario, che Gramsci sente di interpretare correttamente le indicazioni di Lenin: la critica implacabile all’economicismo e il primato della prassi; l’analisi della situazione concreta e la capacità di cogliere, e agire, efficacemente i rapporti di forza; il passaggio dalla «guerra manovrata» a quella di «posizione»; il conflitto per il «prestigio»; il rapporto tra direzione e dominio, direzione e consenso. Andare «dentro alla verità effettuale della cosa»34, nel senso del realismo di Machiavelli, per Gramsci significa pensare la possibilità del comunismo in Occidente, dopo il fallimento italiano e tedesco posteriore al 1917 russo, dopo il trionfo dei fascismi. Ciò vuol dire fare i conti in modo nuovo con la crisi capitalistica, comprendere la molteplicità temporale che la segna, distinguere gli aspetti organici e quelli di congiuntura e occasionali della lotta che la attraversa, e la approfondisce. L’analisi della situazione concreta, dei concreti rapporti di forza, è quindi un’analisi «storico-politica», la riconquista di quel materialismo storico nel quale non vi è po31 Vladimir Il’ič Lenin, Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica (1905), in Id., Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1965, pp. 317-423. 32 Antonio Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale (1926), in Id., Nel mondo grande e terribile. Antologia degli scritti 1914-1935, Einaudi, Torino 2007, pp. 115-142. 33 Christine Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato. Per una teoria materialista della filosofia (1975), trad. it. di C. Mancina e G. Saponaro, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 216. 34 Niccolò Machiavelli, Il Principe (1513), Einaudi, Torino 1995, p. 102.
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sto per il fatalismo meccanicistico, con la «fortuna» che svolge un ruolo non più ancillare e subordinato rispetto ai fenomeni organici, relativamente permanenti. Lenin con Machiavelli è ancora una maniera, diretta e indiretta, di prendere le distanze da Bucharin come da Stalin, dal socialismo reale e da quello che ha ormai messo da parte il problema della rivoluzione, dello Stato proletario. 3. Della tecnica Il progressismo socialista mette al centro del proprio ottimismo la fiducia nella tecnica. Favorire lo sviluppo di quest’ultima è sempre motore di trasformazione positiva e, dunque, di progressivo sviluppo delle conquiste sociali. Benjamin e Gramsci, in vario modo, si oppongono alacremente a questa tesi. Tesi che vede assieme il positivismo socialista della II Internazionale e la dogmatica sovietica, di Bucharin ad esempio, incapace di affrontare criticamente i problemi del tutto nuovi posti dalla costruzione della società senza classi. Entrambi convinti che non esiste società comunista senza modificazione delle sovrastrutture, delle forme della sensibilità e della cultura, sono entrambi altrettanto convinti che non esista tecnica senza rapporti sociali, specifici modi di produzione, dominio e direzione politica. Ovvero: non c’è tecnica a favore del proletariato senza un uso politicamente proletario della tecnica stessa. In particolare, sono due, e assai originali, le posizioni di Benjamin sulla tecnica. La prima, nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: Se il naturale impiego delle forze produttive viene impedito dall’ordinamento della proprietà, allora l’incremento dei mezzi tecnici, dei ritmi produttivi, delle fonti di energia spinge verso un impiego innaturale. Lo trova nella guerra, la quale, con le sue distruzioni, produce la prova del fatto che la società non era matura per fare della tecnica il proprio organo, che la tecnica non era abbastanza sviluppata per padroneggiare le forze sociali elementari. La guerra imperialistica, nei suoi tratti più spaventosi, è determinata dalla discrepanza tra i potenti mezzi di produzione e il loro impiego insufficiente nel processo di produzione35. 35 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), a cura di F. Desideri e M. Montanelli, Donzelli Editore, Roma 2019, pp. 174-175.
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La seconda, di poco successiva, nel saggio dedicato a Eduard Fuchs: Ma la tecnica non è un fatto puramente scientifico. Essa è anche un che di storico. Come tale, essa impone di verificare la separazione positivistica, antidialettica, che si era cercato di stabilire tra le scienze della natura e quelle dello spirito. Le domande che l’umanità pone alla natura sono tra l’altro condizionate dallo stadio a cui è giunta la produzione. È questo il punto in cui fallisce il positivismo. Nello sviluppo della tecnica, esso riconosce i progressi della scienza naturale, ma non i regressi della società. Non si rende conto del fatto che a condizionare questo sviluppo concorre, in modo decisivo, il capitalismo36.
La prima affermazione, di grande attualità, chiarisce il rapporto tra tecnica non governata, non organica, e guerra imperialistica. Il riferimento alla dimensione organica, sempre decisivo in Gramsci, si fa altrettanto, e se vogliamo inaspettatamente, decisivo anche in Benjamin. Quando vi è un incremento dei mezzi tecnici in assenza di direzione politica proletaria, si ha una vera e propria «insurrezione della tecnica», scrive Benjamin, che riscuote, nel «materiale umano», «i crediti a cui la società ha sottratto materiale naturale»37. Diventa dunque intellegibile la seconda affermazione, che proprio dalle Tesi sul concetto di storia sarà ripresa, in aperta polemica con la socialdemocrazia tedesca e Dietzgen in particolare: senza la rottura dei rapporti sociali borghesi, allo sviluppo della tecnica si accompagna la regressione della società. Nuovamente ci troviamo di fronte a una critica radicale del progressismo, di più, alla definizione di un tempo storico molteplice, pluridirezionale. Contro l’economista socialista Achille Loria, ancora contro Bucharin, giudicato non distante dal primo, si scaglia Gramsci: mistificando il materialismo storico, entrambi sostituiscono l’insieme dei rapporti sociali di produzione con il mero strumento tecnico. Scrive infatti Gramsci nei Quaderni: In realtà la filosofia della praxis non studia una macchina per conoscerne e stabilirne la struttura atomica del materiale, le proprietà fisico-chimiW. Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico cit., pp. 88-89. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica cit., p. 175; cfr. Marina Montanelli, Massimo Palma (a cura di), Tecniche di esposizione. Walter Benjamin e la riproduzione tecnica dell’opera d’arte, Quodlibet, Macerata 2016. 36 37
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co-meccaniche dei suoi componenti naturali (oggetto di studio delle scienze esatte e della tecnologia), ma in quanto è un momento delle forze materiali di produzione, in quanto è oggetto di proprietà di determinate forze sociali, in quanto essa esprime un rapporto sociale di produzione e questo corrisponde a un dato periodo storico. […] L’insieme delle forze materiali di produzione è insieme una cristallizzazione di tutta la storia passata e la base della storia presente e avvenire, è un documento e insieme una forza attiva attuale di propulsione38.
Anche in questo caso, si tratta di combattere la degenerazione socialista che si lascia conquistare dalle forze inarrestabili dell’innovazione scientifica, senza cogliere che le stesse possono contribuire all’aumento dello sfruttamento, all’impoverimento culturale della società, alla distruzione della stessa attraverso la guerra. Ma l’esaltazione acritica della tecnica si accompagna, nelle retoriche socialiste, con la celebrazione delle scienze esatte: su questo nodo, pure, batte affilata la polemica gramsciana. La filosofia della prassi come storicismo assoluto significa che non vi è scienza senza rapporti sociali, radicale storicità degli stessi. Gramsci si spinge oltre, contestando da una prospettiva più convenzionalista che idealistica39 l’oggettività del mondo reale, così come intesa sia dal positivismo che dai socialisti vari. Per un verso, infatti, e alla luce della sua originale lettura delle marxiane Tesi su Feuerbach, Gramsci spazza via la distinzione rigida di soggetto e oggetto, chiarendo che non vi è conoscenza del mondo senza trasformazione pratica, dunque sociale e storica, dello stesso. Per l’altro, attraverso l’esempio delle nozioni di “Oriente” e “Occidente”, insiste sul carattere storico-sociale, convenzionale e linguistico, del sapere scientifico40. La convenzione in questione, al pari del linguaggio e delle sue pratiche, non esclude la realtà, riformula semmai il concetto di materia, ne estende il perimetro e ne modifica la sostanza. Come Lenin41 studioso critico della Scienza della logica, Gramsci insiste sulla creatività ontologica della prassi.
Q11, p. 1443. Cfr. Nicola Badaloni, Gramsci: la filosofia della prassi come previsione, in Storia del marxismo, Einaudi, Torino 1981, vol. III, pp. 251-340. 40 Cfr. Q11, §20. 41 Cfr. V. I. Lenin, Quaderni filosofici, a cura di L. Colletti, Feltrinelli, Milano 1969. 38 39
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4. Profezia e previsione Come chiarito in precedenza, Benjamin intende il presente dialetticamente, ovvero non più come passaggio, ma come tempo in equilibrio, «giunto a uno stato di arresto». In una nota preparatoria delle Tesi, precisa ulteriormente: […] esso definisce proprio quel presente nel quale di volta in volta si scrive la storia. Questo presente, per strano che possa sembrare, è l’oggetto di una profezia. La quale, dunque, non annuncia qualcosa che verrà. Fa sapere soltanto che cosa ha suonato la campana. E l’uomo politico sa meglio di chiunque altro quanto, per dir ciò, occorra essere profeti. […] Lo stesso si può dire della storia. Lo storico è un profeta rivolto all’indietro. Egli scorge il proprio tempo nel medium delle sciagure trascorse. Ma certo così, allora, per lui è finita con la placidità del narrare42.
Lo stesso tema, con alcune aggiunte, torna in un appunto successivo: Lo sguardo del veggente si accende davanti al passato che si allontana rapidamente. Vale a dire che il veggente volta le spalle al futuro: la figura di questo egli la scorge nell’oscurità serotina del passato che sta dileguandosi davanti a lui nella notte dei tempi. Questo rapporto di veggente con il futuro è un elemento obbligato dell’atteggiamento dello storico che sia determinato, come ha stabilito Marx, dalla situazione attuale della società. Saranno forse critica e profezia le categorie che vengono a convergere nella “salvazione” del passato?43
In primo luogo occorre chiarire che, per Benjamin, dialettica e critica coincidono. Meglio ancora, dialettica è anche e soprattutto il momento corrosivo, distruttivo; nella teoria, in particolare nella ricerca storica, ma ovviamente nella prassi. Più precisamente, vi è materialismo storico perché vi è prassi rivoluzionaria in atto. Nell’atto della prassi rivoluzionaria, il tempo si arresta e, nel presente, balena l’immagine delle lotte del passato, lotte degli oppressi che, se per un verso sono state sconfitte, per l’altro consegnano al presente possibilità non ancora realizzate, da realizzare. Il presente della prassi, allora, è oggetto di profezia perché il veggente, al pari dello storico, volge le spalle al futuro. Contrariamente a quanto solitamente si 42 43
W. Benjamin, Sul concetto di storia cit., p. 75. Ivi, p. 92.
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pensa, le macerie che si addensano nel passato, e con le quali lavora lo storico materialista, non paralizzano il conflitto. È vero invece che, in questo modo, «la politica consegue il primato sulla storia»44. Come «il messia tronca la storia», così fa la lotta di classe. La sospensione di chronos rende allora possibile, per la prassi, l’invenzione del nuovo, che non è il semplice risultato di uno sviluppo storico, teleologico o meccanicistico. Il passato, come inteso da Benjamin, è un discontinuum estratto con forza costruttiva, nel presente momento critico, dal semplice decorso storico. Seguendo l’indicazione ebraica, il profeta non interroga il futuro, ma, rammemorando il passato, «libera il futuro» dall’incanto del determinismo45. Anche per Gramsci, la politica primeggia sulla storia. Meglio, l’analisi storico-critica è un’arma della prassi. In Gramsci non vi è il tema della profezia, ma spicca in diversi modi quello della previsione. Analogamente a Benjamin, lo sguardo sul futuro confligge con la storia già scritta, necessaria nella sua evoluzione, del materialismo meccanicista. Tanto che, dopo aver trattato a più riprese il tema prima dell’arresto, nei Quaderni scrive: […] in realtà si può prevedere “scientificamente” solo la lotta, ma non i momenti concreti di essa, che non possono non essere risultati di forze contrastanti in continuo movimento, non riducibili mai a quantità fisse, perché in esse la quantità diventa continuamente qualità46.
Ritroviamo la dialettica hegeliana – nella specifica lettura di Lenin. In primo luogo, non vi è previsione, nel senso delle scienze della natura, nella lotta di classe e, più in generale, politica. In secondo luogo, la lotta politica è continuamente segnata dal discontinuo, dall’occasione, dalla fortuna. Assai prossimo alle nozioni della termodinamica, Gramsci parla con frequenza di «equilibrio instabile». In terzo, non vi è evoluzione lineare, nella storia, ma vi sono invece salti, passaggi improvvisi e imprevedibili dalla quantità alla qualità, ovvero dalla necessità alla libertà. Ancora Lenin, senz’altro, ma anche un originale modo di considerare il contributo epistemologico di David Ricardo. In diverse note, e tentando in merito anche un approfondimento epistolare con Piero Sraffa (tramite Tatiana Schucht), Gramsci insiste Ivi, p. 112. Ivi, p. 96. 46 Q11, p. 1403. 44 45
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nell’affermare che Ricardo ha introdotto, prima di Marx, la nozione di “legge tendenziale”: contro determinismo e naturalismo, la posizione libera di alcune condizioni può per un verso favorire conseguenze in buona parte previste, per l’altro agevolare un nuovo «automatismo», che Gramsci definisce «razionalità»47. A chi vuole fare di Marx e del materialismo storico una mera filosofia della storia, darwinista nel canone epistemologico, Gramsci ribatte che Ricardo, col metodo del “posto che”, ha reso possibile l’elaborazione di una nozione originale di “regolarità”, favorendo così la critica marxiana dell’economia politica quale rinnovata, e anti-idealistica, filosofia dell’immanenza, un altro modo per nominare quella della prassi48. 5. «Organizzare il pessimismo» È noto, fin troppo abusato, il motto gramsciano: «pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà»49. Forse meno abusato, ma altrettanto noto, quello di Benjamin nel testo dedicato ai surrealisti50: «organizzare il pessimismo». Sarebbe sciocco non cogliere la profondità teorica delle due massime; ciò non toglie che sia Gramsci che Benjamin scrivono dopo la sconfitta della rivoluzione in Occidente e con i fascismi che impazzano – il primo, in particolare, scrive nella prigionia fascista. I fatti, semmai, rendono ancora più radicale le affermazioni, sgomberando il campo da usi revisionistici o anarchici delle stesse. Sono di particolare attualità, vista l’epoca nella quale siamo immersi, i due passi gramsciani: Occorre invece violentemente attirare l’attenzione nel presente così come è, se si vuole trasformarlo. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà51.
Cfr. Q10, pp. 1245-1246. Cfr. Q11, pp. 1477-1481. 49 Gramsci attribuisce il motto, già in un articolo del 1920, a Romain Rolland. L’espressione «organizzare il pessimismo», invece, Benjamin la riprende dal surrealista Pierre Naville. È indiscutibile, però, che furono Gramsci e Benjamin a dare fama alle due massime. 50 Cfr. W. Benjamin, Il surrealismo. L’ultima istantanea sugli intellettuali europei (1929), in Id., Ombre corte. Scritti 1928-1929, a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino 1993, pp. 253-268. 51 Q9, p. 1131. 47 48
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In un quaderno successivo: D’altronde ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori, e non si esaltino a ogni sciocchezza. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà52.
La prima esortazione è senz’altro machiavelliana. Solo «la verità effettuale della cosa», non le cose come dovrebbero essere, serve alla prassi politica. Farla finita con i sogni a occhi aperti, fare i conti con il reale, che è scabroso e tragico, dunque organizzare il combattimento. La seconda esortazione, invece, indica lo stile del militante rivoluzionario: sobrietà di fronte ai «peggiori orrori», nessuna esaltazione per le sciocchezze. La volontà va intesa nel senso del partito, del «moderno principe». Non va dunque confusa col volontarismo ideologico, incapace di radicamento sociale, estremistico e cultore dell’evento. Volontà è organizzazione, nonostante tutto, nonostante l’epoca. Solo l’organizzazione può fronteggiare la crisi, tenere a bada l’incertezza, cogliere l’occasione. Nel piccolo capolavoro dedicato ai surrealisti, anche Benjamin insiste sull’organizzazione. Del pessimismo. Da contrapporre, quest’ultimo, all’ottimismo della poesia socialista, al progressismo che sogna di primavere nelle quali le future generazioni saranno angeliche e libere. Sfiducia radicale nel progresso, dunque urgenza dell’organizzazione comunista. Scrive Benjamin: E infatti organizzare il pessimismo non significa altro che allontanare dalla politica la metafora morale, e scoprire nello spazio dell’azione politica lo spazio radicalmente, assolutamente immaginativo. Ma questo spazio non può essere misurato contemplativamente. Se il duplice compito degli intellettuali rivoluzionari è quello di abbattere l’egemonia intellettuale della borghesia e venire a contatto con le masse proletarie, essi sono venuti quasi completamente meno alla seconda parte di questo compito, poiché essa non può essere assolta in modo contemplativo53.
Poco dopo, definendo lo spazio immaginativo come «corporeo», prodotto della distruzione dialettica dell’interiorità individuale e del «salotto buono» della borghesia, la critica è rivolta al materialismo 52 53
Q28, pp. 2331-2332. W. Benjamin, Il surrealismo cit., p. 267.
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di Bucharin, continuo bersaglio polemico delle pagine gramsciane. E, coincidente con quello di Gramsci, è l’odio nei confronti della contemplazione, lo stile che rende gli intellettuali rivoluzionari incapaci di contatto con le masse. Nel saggio su Fuchs, quasi un decennio dopo: La concezione deterministica si accompagna così a un incrollabile ottimismo. Alla lunga, nessuna classe potrà operare con successo senza la fiducia. Ma la differenza sta in questo: si tratta di vedere se l’ottimismo concerne la capacità d’azione della classe oppure invece le circostanze in cui la classe è chiamata a operare. La socialdemocrazia era incline a questo secondo e alquanto discutibile ottimismo54.
Nuovamente contrapponendosi alla socialdemocrazia, e con parole assai simili a quelle dei Quaderni, Benjamin ritiene che l’unico ottimismo possibile sia quello dell’organizzazione, dell’organizzazione costante e creativa della lotta di classe, nonostante la catastrofe del presente. Da posizioni diverse, con la medesima attenzione per lo scontro decisivo che avviene nell’immaginazione, nel linguaggio, nelle «sovrastrutture complesse», Benjamin e Gramsci sono, proprio adesso, nell’ora della loro piena leggibilità. Armi per pensare, allo stesso tempo, contro il fascismo, ma anche contro il socialismo. Alla ricerca di una trasformazione comunista che batta la dilagante catastrofe capitalistica – bellica, economica, sociale, ambientale.
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W. Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico cit., p. 100.
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2. Rivoluzione, controrivoluzione, rivoluzione passiva
Sulla temporalità gramsciana Michele Filippini
L’“attualità” ci fa vivere davvero il passato, la psicologia degli uomini del passato. E ci chiarisce le idee, e ci obbliga a trasformare il vocabolario. Antonio Gramsci, 5 febbraio 1918
1. La duplice struttura del tempo gramsciano I Quaderni del carcere hanno avuto, per buona parte della loro storia come testo politico, un’interpretazione univoca rispetto alla struttura temporale che li avrebbe contraddistinti. L’uso che ne è stato fatto all’interno del marxismo occidentale è stato infatti condizionato pesantemente dall’uso politico – di politica culturale – che il Pci ne ha fatto in Italia almeno fino agli anni ’701. Il filone nel quale veniva iscritto il pensiero gramsciano era quello dello storicismo – sulla scia di una presunta continuità della tradizione italiana che da Francesco De Sanctis passando per Antonio Labriola arrivava fino a Benedetto Croce e quindi ad Antonio Gramsci – che impli1 Cfr. Nicola Badaloni, Il marxismo di Gramsci: dal mito alla ricomposizione politica, Einaudi, Torino 1975. Alla fine degli anni ’60 Louis Althusser si rifaceva, criticandola, a una lettura del testo gramsciano fortemente condizionata da questo uso politico, in Leggere il Capitale (1965), Feltrinelli, Milano 1980, pp. 134-141. Il rapporto Althusser-Gramsci è però più complesso di questa critica iniziale, tanto che nello stesso periodo Althusser scriveva anche: «Chi, dopo Marx e Lenin, ne ha davvero tentata e continuata l’esplorazione? Non conosco che Gramsci». Id., Per Marx (1965), Editori Riuniti, Roma 1974, p. 94. Negli anni ’70 Althusser tornerà di nuovo su Gramsci con il suo volume Machiavelli e noi, manifestolibri, Roma 1999 (per la datazione dei manoscritti cfr. la Prefazione di François Matheron, pp. 7-13).
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cava una concezione del tempo lineare e progressiva, nella quale ogni presente storico era scomponibile e conoscibile sulla base delle relazioni tra le sue componenti2. Oltre alle conseguenze politiche di tale iscrizione, peraltro così reiterata da diventare un cliché di difficile confutazione, occorre sottolineare come la concezione della temporalità caratteristica di queste interpretazioni abbia nascosto per lungo tempo un’assai più complessa struttura temporale soggiacente al testo gramsciano. L’interesse per questo tema è emerso carsicamente negli anni recenti, anche se non ha trovato una formulazione compiuta3. L’enfasi sui “molteplici piani temporali” presenti nei Quaderni ha invece spesso guidato l’interpretazione nella direzione opposta, quella della valorizzazione incondizionata delle pluralità temporali presenti nel testo gramsciano, fornendo una lettura certo intrigante ma forse troppo audace rispetto al reale contenuto del testo4. Chi voglia quindi affrontare il tema della struttura del tempo gramsciano deve innanzi tutto riconoscere la sua non facile identificazione. Accanto a una concezione plurale della temporalità – come nel caso della teoria della personalità, dei fenomeni linguistici o delle considerazioni sul senso comune – esiste infatti nei Quaderni anche una “temporalità egemone” che sovradetermina questi rapporti e agisce come una sorta di “macchina di unificazione temporale”5. Non si tratta in questo caso solamente di uno dei tanti strati 2 La più celebre critica a questa struttura temporale è quella fatta da Louis Althusser in Leggere il Capitale cit., pp. 100-101. Dalla critica allo storicismo gramsciano veicolato dal Pci nasce anche il difficile rapporto tra la tradizione operaista italiana e il pensiero di Gramsci. Cfr. Mario Tronti, Tra materialismo dialettico e filosofia della prassi: Gramsci e Labriola, in A. Caracciolo, G. Scalia (a cura di), La città futura: Saggi sulla figura e il pensiero di Antonio Gramsci, Feltrinelli, Milano 1959, pp. 139-186; Antonio Negri, La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione, Feltrinelli, Milano 1977. 3 Cfr. Peter Thomas, Gramsci e le temporalità plurali e Fabio Frosini, Spazio-tempo e potere alla luce della teoria dell’egemonia, in Vittorio Morfino (a cura di), Tempora multa: il governo del tempo, Mimesis, Milano 2013, pp. 191-224 e 225-254, che criticano le due letture della temporalità in Gramsci fatte rispettivamente da Althusser e da Laclau. 4 Cfr. il paragone fatto da Thomas tra la teoria della personalità gramsciana e il concetto di “sintesi disgiuntiva” di Deleuze: P. Thomas, Gramsci e le temporalità plurali cit., p. 208. 5 Un esempio di questo tipo sono le considerazioni gramsciane sui gruppi sociali subalterni: «La storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente disgregata ed episodica. È indubbio che nell’attività storica di questi gruppi c’è la tendenza all’unificazione sia pure su piani provvisori, ma questa tendenza è continuamente spezzata dall’iniziativa
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temporali che, all’interno di una (presunta) unità di un “oggetto complesso” come un individuo o una lingua, combatte la propria battaglia cercando di imporre il proprio andamento. Si tratta invece anche della temporalità di quella forza che, certo temporaneamente e non “naturalmente”, ha il sopravvento sulle altre, pur non riuscendo o potendo assimilarle completamente. Questa forza non solo combatte per uniformare a sé il tempo, come modalità specifica della propria affermazione sulle altre temporalità, ma sovradetermina almeno in parte anche le regole di questa contesa. Questi due tipi di temporalità – quella plurale che vede sempre una lotta per l’affermazione e quella singolare rappresentata dalla forza che in quel momento è egemone – sono sempre in gioco contemporaneamente nell’analisi gramsciana. All’interno della prima il risultato dello scontro è diverso volta per volta, istante per istante; all’interno della seconda il rovesciamento avviene invece a ogni cambio d’epoca, quando la “linea del tempo” si modifica puntando in un’altra direzione. Questa duplice struttura temporale che è alla base dei Quaderni rispecchia la dinamica caratteristica delle analisi gramsciane sui blocchi storici, sul mercato determinato e sui sistemi organici in competizione6. Il gruppo dominante che «predomina e “detta legge”»7 in realtà detta anche il tempo. L’azione di questa “forza temporale” sulla pluralità di temporalità conflittuali deve quindi essere sempre tenuta in considerazione: i gruppi che dirigono la società combattono la loro guerra di posizione con il vantaggio di questa forza che sovradetermina la contesa. La pluralità non si dà quindi in campo neutro, ma su un campo già parzialmente strutturato dalla temporalità egemone, e questa posizione di vantaggio del gruppo dominante altro non è che la posta in gioco dell’egemonia, che ha come sua declinazione particolare anche l’affermarsi di una temporalità specifica. A questo proposito è stato Alberto Burgio a sottolineare per primo la differenza tra i concetti gramsciani di “durata” e di “fare epodei gruppi dominanti, e pertanto può essere dimostrata solo a ciclo storico compiuto, se esso si conchiude con un successo». Q25§2, p. 2283. 6 Rimando al mio Una politica di massa. Antonio Gramsci e la rivoluzione della società, Carocci, Roma 2015, pp. 140-142. 7 Q10II§8, p. 1246.
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ca”, identificando una duplice struttura della temporalità storica in Gramsci che vede la continuità della durata spezzata dall’intervento di un fenomeno che fa epoca8. Burgio sembra però situare queste due temporalità in successione, secondo uno schema lineare che sembra paradossalmente ricompattare lo sviluppo storico. L’unico movimento asincrono possibile in questo schema è infatti quello delle differenze geografiche che sfalsano i piani della temporalità lineare, producendo l’effetto di una “contemporaneità del non contemporaneo”, come nel caso della storia francese rispetto a quella degli altri paesi europei che combattono una battaglia già vinta in Francia con la rivoluzione9. La duplice struttura del tempo gramsciano che stiamo cercando di ricostruire nei Quaderni si basa invece sulla consustanzialità di queste due temporalità, non sulla loro consecutività, sulla scia del rapporto che Gramsci instaura tra il permanente e l’occasionale10, dove i due termini non sono determinati a priori, ma dipendono dal sistema organico nel quale si inscrivono. Durata ed epoca sono quindi compresenti come andamenti temporali: il primo è il teatro della lotta immanente delle forze sociali all’interno di un sistema di potere egemonico; la seconda è lo sfondo ineguale sul quale si combatte questa lotta. Nella durata non si danno novità a livello di organizzazione sociale complessiva, ma solamente forme diverse di organizzazione del sistema. Fare epoca significa invece fondare una nuova civiltà, distruggere i vecchi automatismi e crearne di nuovi, modificare il rapporto tra il permanente e l’occasionale. Ma se l’evento che fa epoca accade raramente, questo non vuol dire che la temporalità inscritta nell’epoca non sia presente e non giochi un ruolo decisivo nello spazio interno della sua durata. L’epoca si manifesta invece in ogni scontro egemonico, tanto nella forza che in quel momento governa il processo quanto nella struttura del campo di battaglia che, almeno in parte, è determinata da questa stessa forza. Allo stesso modo, se è vero che la durata è la caratteristica di un tempo omogeneo, lineare e che relega 8 Cfr. Alberto Burgio, Gramsci storico. Una lettura dei “Quaderni del carcere”, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 18-21; Id., Gramsci. Il sistema in movimento, DeriveApprodi, Roma 2014, pp. 112-118. 9 Cfr. Id., Gramsci storico cit., p. 122. 10 Cfr. Q13§17, pp. 1580-1581.
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ad accidente ogni sua increspatura, è altrettanto vero che non è possibile determinare con precisione il momento qualitativo nel quale dalla durata si passa all’epoca, come non si può conoscere a priori il momento nel quale la lotta sul piano dell’occasionale diventa lotta sul piano del permanente11. Nei Quaderni sono quattro le note nelle quali emerge il concetto di “fare epoca”, riferito rispettivamente a quattro movimenti: 1) l’idea di progresso, 2) quello che Gramsci chiama il “movimento Dreyfus”, 3) il fascismo, 4) l’americanismo. Solo il primo di questi movimenti per Gramsci fa epoca: dreyfusismo, fascismo e americanismo non fanno epoca, ma sono solamente movimenti “di durata” interni all’epoca capitalistica, l’idea di progresso fa invece epoca perché segna l’emergere di una nuova “mentalità”, di un nuovo “rapporto tra la società e la natura” interpretabile razionalmente, che fa sì che «gli uomini, nel loro complesso, sono più sicuri del loro avvenire, possono concepire “razionalmente” dei piani complessivi della loro vita»12. Si tratta di una rivoluzione della mentalità paragonabile solamente al grande sforzo sovietico di costruire l’“Uomo nuovo” all’interno di un diverso passaggio epocale. 2. Segni del tempo: teoria della personalità, senso comune, linguaggio, oriente-occidente Come si inserisce il discorso sulla temporalità nelle note gramsciane che delineano una teoria della personalità13? L’elemento centrale da tenere presente è l’individuo come entità stratificata, composta da elementi prettamente individuali e da altri determinati socialmente. Il conflitto tra queste due componenti si somma qui al conflitto interno agli elementi sociali dell’individualità, che riproducono nell’individuo quei conflitti che sono propri di una società divisa in classi. L’individuo è quindi preda di temporalità differenti, in lotta, espressione dei conflitti del presente e del passato: 11 Questa lettura del tempo gramsciano non implica necessariamente un’interpretazione “aleatoria” del suo marxismo. Il modo in cui si produce l’innovazione politica rimane infatti un “non detto” del discorso gramsciano. 12 Q10II§48, p. 1335. 13 Cfr. M. Filippini, Una politica di massa cit., pp. 67-102.
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[…] la propria personalità è composita in modo bizzarro: si trovano in essa elementi dell’uomo delle caverne e principii della scienza più moderna e progredita, pregiudizi di tutte le fasi storiche passate grettamente localistiche e intuizioni di una filosofia avvenire quale sarà propria del genere umano unificato mondialmente14.
Questa pluralità temporale è il dato di partenza di ogni individuo, che fa esperienza della propria vita secondo i diversi tempi, ad esempio, del folklore e del «disincantamento del mondo»15, dell’attaccamento al lavoro e della razionalità taylorista-fordista, della superstizione e della scienza. Questa pluralità temporale non deve però essere scambiata per una condizione oggettiva ed eterna che vede nella frammentarietà un valore in sé e che di conseguenza esprime una politica tendente a comprendere queste diverse temporalità in una “pluralità armoniosa”16. L’approccio gramsciano, legato a una visione progressiva e unificante dell’emancipazione – che lo si voglia considerare un pregio o un limite fa qui poca differenza –, è invece caratterizzato dal riconoscimento di una lotta che ha nell’uniformità temporale un suo obiettivo: […] constatato che, essendo contradditorio l’insieme dei rapporti sociali, non può non essere contradditoria la coscienza degli uomini, si pone il problema del come si manifesta tale contraddizione e del come possa essere progressivamente ottenuta l’unificazione17.
Questa tensione all’unità temporale è tipica di tutte le forze in gioco all’interno della battaglia egemonica, ognuna delle quali cerca di riportare “sul proprio tempo” gli avversari. Anche la classe operaia deve spingere in questa direzione, attraverso la coerenza individuale, la padronanza delle proprie azioni, lo sviluppo sistemaQ11§12, p. 1376. Max Weber, La scienza come professione, in Id., La scienza come professione. La politica come professione, Mondadori, Milano 2006, pp. 20-21. 16 Cfr. P. Thomas, Gramsci e le temporalità plurali cit., p. 208. L’enfasi sulla pluralità caratteristica di queste letture è legata alla preminenza della chiave interpretativa “immanentistica” nella lettura dei Quaderni. Leggendo il lascito gramsciano alla luce del solo dispositivo immanentistico della filosofia, della storia e della politica, si rischia però di lasciare in secondo piano altri elementi, che potremmo chiamare “storicamente teleologici”, che richiamano una diversa temporalità. Scrive Gramsci a questo proposito che «la teleologia […] ha un significato che, dopo le limitazioni di Kant, può essere difeso dal materialismo storico». Q7§46, p. 894. 17 Q16§12, p. 1875. 14 15
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tico e organico di un “uomo nuovo” e di conseguenza di un “ordine nuovo”. La Rivoluzione d’ottobre viene salutata da Gramsci come evento epocale anche perché pone le basi per questa possibile unità: Che una massa di uomini sia condotta a pensare coerentemente e in modo unitario il reale presente è fatto “filosofico” ben più importante e “originale” che non sia il ritrovamento da parte di un “genio” filosofico di una nuova verità che rimane patrimonio di piccoli gruppi intellettuali18.
La coerenza è in questo caso il risultato di quell’azione tesa a ricomprendere le diverse temporalità all’interno della temporalità della rivoluzione. Non bisogna certo sottovalutare l’importanza dell’apertura gramsciana alla pluralità rispetto alle visioni monistiche della classe operaia a lui contemporanee. Non va dimenticato che la novità di Gramsci è radicale, non solo nel considerare costitutiva la lotta interna a ogni unità politica formalmente intesa (compreso l’individuo), ma anche nel valorizzare questa pluralità nelle fasi di passaggio all’“Ordine nuovo”: il processo rivoluzionario nei Quaderni viene anche per questo ripensato sui tempi lunghi e sulle sue caratteristiche “consensuali”. Ma l’orizzonte ultimo della politica gramsciana rimane l’unità sociale e la coerenza individuale, da ottenere tramite un processo che vada di pari passo con la trasformazione. I due tipi di temporalità si manifestano quindi tramite la coesistenza di: 1) stratificazioni temporali diverse e 2) tensione all’unità o, meglio, tensioni verso unità diverse e divergenti. Se dal piano individuale si passa a quello dei fenomeni collettivi, questa doppia struttura temporale emerge con altrettanta forza. Il senso comune da una parte e il linguaggio dall’altra rappresentano infatti le forme collettive di questa pluralità temporale che deve tendere all’unificazione. Il senso comune è il “residuo” plurale che la storia intellettuale dell’umanità ha sedimentato nella coscienza popolare e si presenta pertanto come una stratificazione incoerente di visioni del mondo, pregiudizi e credenze. Al suo interno si può trovare di tutto, dagli elementi più retrivi e reazionari fino alle «intuizioni di una filosofia avvenire»19. Quest’ultima sua parte, identificata come “buon senso”, 18 19
Q11§12, p. 1378. Ivi, p. 1376.
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è quella che interessa Gramsci: «È questo il nucleo sano del senso comune, ciò che appunto potrebbe chiamarsi buon senso e che merita di essere sviluppato e reso unitario e coerente»20. La pluralità e l’incoerenza del senso comune sono invece funzionali alla riproduzione del dominio, perché parcellizzano le volontà individuali e impediscono la formazione di volontà collettive alternative a quella dominante. Queste volontà collettive alternative possono invece emergere dal doppio movimento di sviluppo del buon senso e di critica del senso comune: «Quando nella storia si elabora un gruppo sociale omogeneo, si elabora anche, contro il senso comune, una filosofia omogenea, cioè coerente e sistematica»21. Il tempo del senso comune è quindi certamente plurale, perché lì si combatte una battaglia egemonica, ma coesiste con un “tempo del dominante” che sovradetermina continuamente questa pluralità, imprimendovi una direzione, almeno finché non si crei un gruppo sociale omogeneo antagonista. Le pagine gramsciane del Quaderno 29 rispecchiano questa stessa struttura temporale rispetto alla questione della lingua. Anche il linguaggio è plurale su due livelli: quello interno alle capacità di linguaggio dell’individuo, che lo vede compartecipe del dialetto e della lingua nazionale (se non di più lingue), e quello interno alla comunità nazionale e internazionale, che vede dialetti e lingue dividersi il territorio, ma anche sovrapporsi22. La scelta dirimente non è in questo caso quella tra la preservazione della pluralità e l’imposizione dell’unità, ma tra due modi diversi di raggiungere l’unità. La possibilità di padroneggiare una lingua nazionale è infatti per Gramsci una precondizione essenziale per l’emancipazione dei gruppi subalterni, un elemento che non può essere sacrificato sull’altare della pluralità delle forme linguistiche23. La temporalità torna qui in primo piano: si tratta di uniformare a livello nazionale Ivi, p. 1380. Q11§13, p. 1396. 22 Cfr. Franco Lo Piparo, Lingua, intellettuali, egemonia in Gramsci, Laterza, Bari 1979. Si vedano anche i più recenti studi di Peter Ives, Gramsci’s Politics of Language. Engaging the Bakhtin Circle and the Frankfurt School, University of Toronto Press, Toronto 2004 e di Alessandro Carlucci, Gramsci and Languages: Unification, Diversity, Hegemony, Brill, Leiden-Boston 2013. 23 Questo non esclude comunque una sua «considerazione positiva della pluralità linguistica che fu cruciale per la sua consapevolezza dei pericoli insiti nell’imporre l’unificazione culturale e politica». A. Carlucci, Gramsci and Languages cit., pp. 15-16; cfr. anche P. Ives, Gramsci’s Politics of Language cit., p. 32. 20 21
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le lingue – perché solo queste posseggono gli strumenti per esprimere esaurientemente il pensiero moderno24 – rendendole traducibili tra loro, sfuggendo così al mito dell’universalità della lingua (l’Esperanto) per sincronizzare sullo stesso tempo (rivoluzionario) strutture linguistiche nazionali diverse. Al tempo della durata rappresentato linguisticamente dalla pluralità dei dialetti e delle lingue in competizione per il prestigio si sovrappone il tempo epocale delle lingue nazionali, le sole che possono permettere un collegamento forte tra cultura popolare e politica nazionale, fra popolo e gruppi dirigenti. Un’ultima considerazione rispetto alla duplice struttura temporale dei Quaderni va fatta rispetto a una delle più note distinzioni gramsciane, quella che fa riferimento al diverso rapporto tra Stato e società civile in Oriente e in Occidente. In Oriente, scrive Gramsci, la società era «primordiale e gelatinosa», mentre in Occidente si presentava come «una robusta catena di fortezze e di casematte»25. Si tratta di una divisone spaziale che in realtà fa riferimento a una divisione temporale, ovvero segnala un’evoluzione delle società occidentali: in Occidente non è più possibile prendere il potere assaltando i “luoghi” del potere, perché il potere si è disseminato nella società, rendendo quest’ultima una forza inerziale di conservazione all’interno della quale l’uso rivoluzionario della guerra manovrata non è più sufficiente. Si è spesso insistito su questa contemporaneità del non contemporaneo, ovvero sulla molteplicità di piani temporali nei diversi spazi funzionali al dominio globale del capitalismo, in particolare in relazione alle teorie dello sviluppo ineguale26. Esistono sicuramente ottime ragioni per sostenere questa lettura e l’identificazione delle temporalità plurali rimane, anche all’interno della nostra insistenza sulla duplice struttura del tempo gramsciano, un dato significativo dell’analisi gramsciana. Ma nell’analizzare questa distinzione si è forse concentrata troppo l’attenzione sul lato “occidentale” del processo, ovvero sulle novità che le società occidentali mostravano, avendo resistito alla prova della rivoluzione in Occidente. Ma l’attenzione, coerentemente con il testo gramsciano, Cfr. Q11§12, p. 1377. Q7§16, p. 866. 26 Cfr. Adam David Morton, Revolution and State in Modern Mexico. The Political Economy of Uneven Development, Rowman & Littlefield, Lanham, Maryland 2011. 24 25
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andrebbe indirizzata anche nell’altra direzione, quella dell’Oriente descritto in questa famosa citazione. Nell’analisi gramsciana la società civile “orientale” era certamente primordiale e gelatinosa all’uscita dalla guerra, quando i bolscevichi sferrarono il colpo mortale allo zarismo; ma l’avvento dello Stato operaio, con l’intensa stagione di politicizzazione delle masse lungo tutti gli anni ’20, aveva cambiato radicalmente il panorama. In particolare con il tentativo di stabilizzare il rapporto tra operai e contadini attraverso la Nep (Nuova Politica Economica) si era creato quel tessuto sociale sotto l’egemonia operaia che prima era mancato27. Era stato proprio questo processo a suggerire a Gramsci l’utilizzo del concetto di egemonia e a considerare Lenin come suo precursore, perché primo realizzatore pratico: […] il principio teorico-pratico dell’egemonia ha anche esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l’apporto teorico massimo di Ilici [Lenin] alla filosofia della praxis […]. La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico28.
Gramsci è quindi cosciente che il passaggio alla politica di massa ha cambiato lo scenario non solo in Occidente rispetto alla forma dell’ordine liberale, ma anche in Oriente rispetto alle forme attraverso le quali si era realizzata la rivoluzione. L’era post-rivoluzionaria in Urss, come la politica di massa in Occidente (fascismo e americanismo) delineano così, entrambe, uno scenario da guerra di posizione, nel quale su nessuno dei due lati esiste più una società civile primordiale e gelatinosa. Proprio per questo motivo una traduzione diventa possibile: Gramsci traduce il blocco sociale dai termini economici dell’Urss della Nep (alleanza operai-contadini per la gestione dello Stato sovietico) in quelli sovrastrutturali, ov27 Cfr. Sheila Fitzpatrick, Alexander Rabinowitch, Richard Stites (a cura di), Russia in the Era of Nep: Explorations in Soviet Society and Culture, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis 1991; Silvano Tagliagambe, Scienza, filosofia, politica in Unione Sovietica 1924-1939, Feltrinelli, Milano 1978; Massimo Cacciari, Preobraženskij e il dibattito sull’industrializzazione durante la Nep, in Id., Paolo Perulli, Piano economico e composizione di classe. Il dibattito sull’industrializzazione e lo scontro politico durante la Nep, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 11-143. 28 Q10II§12, pp. 1249-1250.
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vero dei blocchi intellettuali, dei paesi occidentali stabilizzatisi capitalisticamente. Se nei testi di Bukharin – il massimo teorico della Nep – sono infatti in primo luogo le forze economiche manovrate politicamente dallo Stato operaio che spingono alla formazione del blocco, in Gramsci è l’egemonia specialmente intellettuale e culturale alla base della sua costituzione29. È in questo caso l’“economicamente arretrata” Russia sovietica – ma politicamente più avanzata, perché primo esperimento di Stato operaio – a dettare le direttrici di pensiero e i problemi politico-teorici al movimento comunista internazionale. Abbiamo così sulla scena del mondo diversi tempi egemoni e concorrenti, che agiscono massicciamente sulla sincronizzazione delle temporalità plurali, che si trovano all’interno di ognuno dei blocchi. Il planismo, il corporativismo, la programmazione sovietica sono tutti “ritmi temporali” diversi e concorrenti, impegnati a riportare egemonicamente a unità (anche coercitivamente) le proprie rispettive società. 3. La forma della durata: la rivoluzione passiva Poste così le basi della duplice struttura del tempo all’interno dei Quaderni, possiamo ora rivolgere l’attenzione al concetto che Gramsci utilizza per analizzare la struttura temporale della durata, quella caratterizzata dalla forza egemonica che si impone funzionando come “macchina di unificazione temporale”: la rivoluzione passiva. Come accade spesso nei Quaderni, Gramsci non conia dal nulla una nuova parola, ma utilizza un concetto già formulato da altri autori traslandone il significato30, elaborando così di fatto un nuovo concetto. 29 Cfr. Stephen Cohen, Bucharin e la rivoluzione bolscevica: biografia politica, 18881938, Feltrinelli, Milano 1975. Sul rapporto Gramsci-Bukharin mi sia concesso il riferimento a M. Filippini, Una politica di massa cit., pp. 103-149. 30 È il caso di molti dei concetti più importanti dei Quaderni: “egemonia” da Lenin (cfr. Peter D. Thomas, The Gramscian Moment: Philosophy, Hegemony, and Marxism, Brill, Leiden 2009, pp. 57-58); “società civile” dagli economisti classici e da Marx (cfr. Jacques Texier, Significati di società civile in Gramsci, «Critica marxista», 5, 1988, pp. 5-36); “blocco storico” da Sorel (cfr. la nota di Gerratana in Vol. 4, Q, p. 2632 e Marco Gervasoni, Antonio Gramsci e la Francia. Dal mito della modernità alla “scienza della politica”, Unicopli, Milano 1998, pp. 169-170); “fordismo” dal dibattito europeo sul tema (cfr. Friedrich von Gottl-Ottlilienfeld, Fordismus: Paraphrasen über das Verhältnis
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Gramsci riprende il termine dal Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 di Vincenzo Cuoco, dove l’espressione segnalava la mancanza di partecipazione popolare alla rivoluzione dovuta al distacco fra i capi e il popolo. Alla Rivoluzione francese che impose una drastica rottura con il passato feudale vengono così contrapposte le rivoluzioni passive degli altri Stati europei, nei quali: […] le esigenze che trovarono in Francia una espressione giacobino-napoleonica furono soddisfatte a piccole dosi, legalmente, riformisticamente, e si riuscì così a salvare la posizione politica ed economica delle vecchie classi feudali, a evitare la riforma agraria e specialmente a evitare che le masse popolari attraversassero un periodo di esperienze politiche come quelle verificatesi in Francia negli anni del giacobinismo31.
L’assenza di un protagonismo politico delle masse e il lento e parziale accoglimento di alcune delle istanze rivoluzionarie da parte dei gruppi dirigenti possono essere considerate le caratteristiche del programma egemonico che prende il nome di rivoluzione passiva. Dietro a questa modalità di sviluppo storico, con la temporalità della durata che la contraddistingue, si nasconde secondo Gramsci «una dialettica addomesticata, perché presuppone “meccanicamente” che l’antitesi debba essere conservata dalla tesi per non distruggere il processo dialettico»32. La tesi (il gruppo egemone) determina la stessa antitesi (il gruppo subalterno) e ne guida le mosse, incorporandone gradualmente le istanze. La situazione che si viene a creare è allora quella di un’“inerzia storica”, nella quale il tempo scorre omogeneo e la politica si trasforma da azione soggettiva di progetto sul mondo ad amministrazione dell’esistente struttura di potere. L’unico movimento indisciplinato che permane nella società è quello, ininfluente ai fini del dominio, del «sovversivismo sporadico, elementare, disorganico delle masse popolari»33. L’esempio storico di questo scorrere temporale è il processo di unificazione italiana: «storicamente il Partito d’Azione [Garibaldi e Mazzini] fu guidato dai moderati [Cavour]»34, che furono in grado von Wirtschaft und technischer Vernunft bei Henry Ford und Frederick W. Taylor, G. Fischer, Jena 1924). 31 Q10I§9, p. 1227. 32 Q8§225, p. 1083. 33 Q10II§41, p. 1325. 34 Q19§24, p. 2010.
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di esercitare una forte attrazione ideologica nei suoi confronti, controllandone e sfruttandone l’azione politica disgregata. I moderati riuscirono così a imporre lo scorrere della tempistica unitaria grazie alla loro unità di intenti, allo stretto legame che avevano con il gruppo sociale di riferimento e all’attrazione “ideologica” esercitata sugli intellettuali tradizionali. L’esclusione delle grandi masse contadine dal neonato Stato italiano si materializzerà in seguito come frattura territoriale e sociale, tra un Sud che crea il risparmio dallo sfruttamento dei contadini e un Nord che drena queste risorse per finanziare il settore industriale. È così che per Gramsci si apre la “questione meridionale”, caratterizzata da una mancata sincronizzazione rivoluzionaria che lascia intatta una pluralità contraddittoria di tempi all’interno del dominio moderato35. È questo il tempo della durata e della rivoluzione passiva. Tale processo continuerà nell’Italia unificata attraverso il trasformismo, che Gramsci considera una vera e propria «forma di sviluppo storico»36. Mantenendo saldi i rapporti di potere interni e gli interessi specifici sui quali si era costruita l’unità, il trasformismo svolge infatti un compito di filtro per le nuove istanze provenienti da una società in trasformazione, allargando progressivamente le basi dello Stato. La nuova borghesia industriale e finanziaria viene in questo modo gradualmente inserita nei meccanismi di rappresentanza degli interessi all’interno del sistema politico, attraverso una dinamica di inclusione “dall’alto”, rinnovando la base di consenso dello Stato senza comprometterne gli assetti di potere, evitando di coinvolgere – «simultaneamente»37 scrive Gramsci con enfasi – le masse nei suoi processi di riorganizzazione. 4. La forma dell’epoca: come emerge la novità Abbiamo visto come per Gramsci la rivoluzione passiva rappresenti il modello borghese di “gestione storica” dello sviluppo e del cambiamento. Un modello che è all’opera immediatamente dopo la Rivoluzione francese con la formazione degli Stati nazionali in 35 Cfr. A. Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale, in Id., La questione meridionale, a cura di F. De Felice e V. Parlato, Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 131-160. 36 Q15§11, p. 1767. 37 Q13§1, p. 1560.
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Europa come reazione a questi sconvolgimenti. La temporalità caratteristica di questo sviluppo è quella della rivoluzione passiva, che si distende su un tempo lineare, il cui sviluppo è controllato da una dialettica “falsata” nella quale la tesi presuppone l’antitesi prima del confronto con essa. Solo qualche anno più tardi rispetto a quando Gramsci svolgeva queste riflessioni, Walter Benjamin scriveva le sue tesi Sul concetto di storia, che contenevano una critica simile del tempo storico borghese: L’idea di un progresso del genere umano nella storia è inseparabile dall’idea che la storia proceda percorrendo un tempo omogeneo e vuoto. La critica all’idea di tale procedere deve costituire il fondamento della critica all’idea stessa di progresso38.
Il tempo omogeneo e vuoto descritto da Benjamin sembra ricalcare quello della rivoluzione passiva descritto da Gramsci: l’omogeneità costringe al conformismo come la vuotezza preclude ogni possibilità di costruzione soggettiva alternativa. Questo paragone – oltre che suggestivo dato che i due autori non conoscevano i rispettivi scritti39 – può essere utile soprattutto per indagare le caratteristiche della seconda temporalità a cui Gramsci allude: il “tempo epocale”. Bisogna però rilevare come si tratti, in questo caso, di un aspetto che non trova nei Quaderni una specifica trattazione, ma che emerge saltuariamente senza trovare una formulazione compiuta. Il problema di come emerga nella riflessione gramsciana il “tempo della rivoluzione”, in particolare di come questo trovi il suo innesco – oltre alla sua fenomenologia, che abbiamo visto essere caratterizzata dalla sincronizzazione di tempi diversi – rimane irrisolto40. Alcuni spunti di una riflessione sul tema – che non abbiano la 38 Walter Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 45. 39 Le tesi vennero scritte tra il 1939 e il 1940 ed erano state pensate come introduzione al Passagen-Werk: cfr. G. Bonola, M. Ranchetti, Introduzione e Sulla vicenda delle tesi “sul concetto di storia”, in W. Benjamin, Sul concetto di storia cit., pp. VII-XIX e 5-13. I Quaderni e le Tesi, pur essendo testi diversi sotto molti punti di vista, condividono nondimeno alcune particolari caratteristiche: entrambi sono incompleti e non pubblicati dagli autori, entrambi sono stati scritti in situazioni di pericolo sotto l’incalzare dei regimi fascista e nazista, entrambi sono l’ultima opera dei loro autori. 40 Non trova risposta in particolare il problema dell’elemento che permette il passaggio da un mercato determinato all’altro, da un “sistema organico” all’altro, ovvero il modo in cui questo elemento cessa di funzionare come uno dei fattori dell’equilibrio
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pretesa di schierare Gramsci nelle contese odierne tra immanenza/ trascendenza o articolazione/evento – possono nondimeno essere rintracciati proprio nel confronto con il testo benjaminiano. Scrive Benjamin nella tesi XIV: La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dall’adesso [Jetztzeit]. Così, per Robespierre, l’antica Roma era un passato carico di adesso, che egli estraeva a forza dal continuum della storia41.
La prima considerazione da fare è che per Benjamin il tempo “epocale” – per lui la Jetztzeit, l’adesso, il tempo-ora messianico, che introduce la novità – è quello che fa la storia. Una storia che vede un soggetto richiamarsi a frammenti del passato per rompere la continuità del tempo borghese: i giacobini potevano così ricollegarsi all’antica Roma per rompere il tempo omogeneo e vuoto del sistema feudale. La storiografia materialista si deve quindi opporre allo storicismo (quello della Seconda Internazionale) che culmina nella storia universale il cui «procedimento è additivo; essa mobilita la massa dei fatti per riempire il tempo omogeneo e vuoto»42. Il materialismo storico sviluppa invece una storiografia che contempla cesure radicali che interrompono la linearità temporale di un dominio: «proprio del pensiero non è solo il movimento delle idee, ma anche il loro arresto»43. Per il materialista il tempo storico è quello carico di Jetztzeit, in cui il presente richiama frammenti del passato per riscattarli e farli rivivere. Il collegamento fra due istanti nel tempo scardina così la linearità del tempo borghese e fa emergere un diverso andamento. Questa immagine della temporalità non lineare, ma costituita di emersioni, di picchi storici di particolare intensità, sembra riproesistente per diventare il germe di un nuovo equilibrio. Il problema attraverserà in seguito buona parte della riflessione marxista e post-marxista, condensandosi attorno ai problemi dell’aleatorietà (cfr. L. Althusser, Sul materialismo aleatorio, Unicopli, Milano 2000), della distinzione tra forza-lavoro e classe operaia (cfr. Mario Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966), dell’evento (cfr. Alain Badiou, L’essere e l’evento, Il melangolo, Genova 1995) e dell’articolazione (cfr. Ernesto Laclau, Chantal Mouffe, Egemonia e strategia socialista: verso una politica democratica radicale, Il melangolo, Genova 2011). 41 W. Benjamin, Sul concetto di storia cit., pp. 45-46. 42 Ivi, p. 51. 43 Ibid.
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dursi anche all’interno dei Quaderni, ad esempio nel rapporto che viene tracciato tra Machiavelli e i giacobini francesi. Ambedue vengono richiamati come “frammenti” del passato, che possono essere riattivati all’interno di una storia che proceda per oscillazioni di intensità invece che per accumulazione. Lungo questa nuova temporalità anche la consequenzialità storica viene messa in questione. Così scrive Gramsci rispetto alla necessità dell’irruzione simultanea delle masse contadine nella vita politica: Ciò intendeva il Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese, in questa comprensione è da identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe (più o meno fecondo) della sua concezione della rivoluzione nazionale44.
Il rapporto tra i giacobini e Machiavelli rompe così nel testo gramsciano la linearità del tempo borghese. Non solo i primi richiamano il secondo, ma il riferimento vale anche invertendo la normale consequenzialità temporale: se «i giacobini […] certamente furono una “incarnazione categorica” del Principe di Machiavelli»45, anche Machiavelli compartecipava di un «giacobinismo precoce». Il loro destino era stato simile anche dal punto di vista storiografico: entrambi “usati” dalla storia dei vincitori – Machiavelli ridotto a simbolo di cinismo politico e imprigionato in una scienza politica sinonimo di gestione del potere, i giacobini ridotti a emblema dell’estremismo e del fanatismo –, ma entrambi con la possibilità di rivivere nella temporalità di un soggetto rivoluzionario in grado di riconoscersi in essi46. I riferimenti gramsciani ai giacobini e a Machiavelli servono quindi nei Quaderni a questo scopo: spingere il presente a riconoscersi nella loro azione, offrendo alla classe operaia le chiavi di un tempo storico alternativo a quello delle rivoluzioni passive. Un secondo esempio di questa temporalità “intensiva” e non lineare riguarda il problema del rapporto tra città e campagna, tra operai e contadini. Era questo d’altronde il perno sul quale stava ruotando lo Stato operaio nato dalla Rivoluzione d’ottobre. Nel Q13§1, p. 1560, corsivo mio. Ivi, p. 1559. La stessa struttura temporale ritorna anche in questo passo: «c’è la “passione” del “giacobino” nel Machiavelli e perciò egli doveva tanto piacere ai giacobini e agli illuministi». Q17§27, p. 1929. 46 Cfr. la tesi VI in W. Benjamin, Sul concetto di storia cit., p. 391. 44 45
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criticare l’indifferenza del Partito D’Azione rispetto alle masse contadine – al contrario dei giacobini che avevano imposto una riforma agraria radicale47 –, Gramsci segnala come i democratici italiani avessero anche a disposizione, storicamente, una precisa «tradizione a cui risalire e ricollegarsi» per promuovere tale sincronizzazione. Si trattava della tradizione medioevale dei Comuni, che testimoniava di una «borghesia nascente [che] cerca alleati nei contadini contro l’Impero e contro il feudalismo»48. Il blocco storico di città e campagna, la sincronizzazione di questi due tempi sul tempo rivoluzionario, era già allora la chiave per una rivoluzione democratica, uno di quegli aspetti del “tempo epocale” che collega eventi distanti cronologicamente sulla base della loro intensità: […] il più classico maestro di arte politica per i gruppi dirigenti italiani, il Machiavelli, aveva anch’egli posto il problema, naturalmente nei termini e con le preoccupazioni del tempo suo; nelle scritture politico-militari del Machiavelli è vista abbastanza bene la necessità di subordinare organicamente le masse popolari ai ceti dirigenti per creare una milizia nazionale capace di eliminare le compagnie di ventura49.
Una temporalità storica alternativa a quella della rivoluzione passiva è quindi per Gramsci potenzialmente sempre presente, anche all’interno dello sviluppo lineare di un tempo che è sovradeterminato dalla pratica del soggetto egemone. Spetta al soggetto rivoluzionario che vuole costruire l’egemonia sapersi ricollegare agli istanti storici, che nel passato hanno espresso questa intensità, tenendo sullo stesso piano di contemporaneità i tentativi di abbattere il vecchio sistema organico per crearne uno nuovo. L’egemonia di un soggetto emergente presuppone quindi sempre una tensione alla sincronizzazione dei diversi tempi dei soggetti subalterni, solo così questi possono sottrarsi all’uniformità spoliticizzante caratteristica del tempo borghese. In questo senso la contemporaneità, per Gramsci, è frutto di uno sforzo politico: essa si crea, non esiste originariamente. Come si metta in moto questo processo, ovvero come la sincronizzazione dei tempi dei subalterni possa disgregare l’unità del 47 Gramsci rileva infatti come «senza la politica agraria dei giacobini Parigi avrebbe avuto la Vandea già alle sue porte». Q19§24, p. 2029. 48 Ivi, p. 2015. 49 Ibid.
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tempo omogeneo e vuoto, è questione destinata a rimanere aperta per quanto riguarda la lettera dei Quaderni. Gramsci non riesce a (o forse non può) delineare le forme attraverso le quali si produce la “novità” all’interno di un sistema organico. L’unico evento epocale che aveva visto la classe operaia protagonista era stato infatti innescato da una guerra di manovra (la Rivoluzione d’ottobre), all’interno di un contesto di debolezza di una società che non esiste più dopo l’avvento della politica di massa. È probabile che questo “non detto” del testo gramsciano corrisponda a un “non detto” strutturale della teoria politica, un aspetto che risulta indicibile proprio perché non razionalizzabile all’interno delle categorie della politica. Non a caso tutte le dicotomie classiche del pensiero marxista – teoria e pratica, struttura e sovrastruttura, ideologia e coscienza di classe – portano traccia dell’impossibilità di definire razionalmente il passaggio dall’una all’altra. Che gli scritti gramsciani permettano una riflessione su questo snodo di problemi senza forzarne la soluzione risulta essere, a questo punto, un elemento di forza, non di debolezza, per chi voglia utilizzare il suo marxismo “aperto” per interpretare e modificare la società contemporanea.
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1. Gramsci e Benjamin: analogie e differenze È legittimo considerare Gramsci e Benjamin come espressioni di una comune esigenza del marxismo teorico? A questa domanda si può rispondere in parte positivamente e in parte, come vedremo, no. Ciò che unisce questi autori è, in primo luogo, la persuasione che tra il marxismo della Seconda Internazionale e la nuova ortodossia del periodo staliniano (il così detto marxismo-leninismo) esista un rapporto di sostanziale continuità, segnato da una visione deterministica della storia e da una concezione meramente “progressiva” della lotta rivoluzionaria. Benjamin sviluppò questo concetto attraverso una critica radicale dei tre princìpi capitali dello storicismo (l’idea di storia universale, la narratività, l’immedesimazione con il passato)1 e con una negazione dell’«idea del progresso come tale»2, del «tempo omogeneo e vuoto», caposaldo della «teoria socialdemocratica» tra Ottocento e Novecento. Gramsci, d’altro lato, operò una critica analoga, sia pure con un lessico differente, tanto nei confronti del socialismo riformista dei primi anni del secolo tanto verso la scolastica di Bucharin. Entrambi, inoltre, seppero riconoscere nel pensiero dello stesso Marx la radice del problema. Negli appunti che corredano le tesi Sul concetto di storia, Benjamin parlò, in questo senso, della rivoluzione come «locomotiva della storia universale»3 (a 1 Walter Benjamin, Appendice a Sul concetto di storia, in Id., Opere complete. VII. Scritti 1938-1940, a cura di E. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed. it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2006, pp. 505-506. 2 W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Id., Opere complete. VII. Scritti 1938-1940 cit., p. 490. 3 W. Benjamin, Appendice a Sul concetto di storia cit., p. 497.
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cui oppose la felice immagine del «freno d’emergenza») e non mancò di confutare la «teoria del progresso in Marx», definita, secondo la Prefazione del ’59, dal «dispiegarsi delle forze produttive»4. Anche Gramsci, fin dall’articolo giovanile sulla «rivoluzione contro il Capitale»5, riconobbe nello spirito “scientifico” di Marx l’origine di molte deformazioni che, dopo la sua morte, si sarebbero manifestate nel marxismo della Seconda Internazionale. Inoltre, non può sfuggire il fatto che entrambi rifiutarono l’immagine del comunismo come ideale normativo e finalistico6, lavorarono parallelamente sul significato fecondo della traduzione e della traducibilità7, con una comune critica dell’esperanto, e soprattutto affermarono l’unità di storia e politica (e filosofia), che, spiegava Benjamin, «è identica a quella teologica tra rammemorazione e redenzione»8. Le analogie sono dunque importanti e disegnano una traiettoria per molti versi simile. Le affinità si arrestano, tuttavia, in un punto determinato, che riguarda il modo di concepire la fisionomia del soggetto rivoluzionario. Nella visione di Benjamin, è nell’«attimo» in cui il passato si contrae nel presente9, nello «stato d’eccezione»10, che l’azione rivoluzionaria redime il passato, delineando una storia degli oppressi che supera il «patrimonio culturale» dei vincitori. Perciò la rivoluzione si configura come una specie di “vendetta”: «è nella tradizione degli oppressi – scrive Benjamin – che la classe operaia compare come l’ultima classe asservita, come la classe vendicatrice e liberatrice. Questa coscienza è stata abbandonata dalla socialdemocrazia fin dall’inizio. Essa assegnò alla classe operaia il ruolo di redentrice delle generazioni a venire»11. Nel passaggio in cui è più evidente il distacco da Marx ed Engels (per i quali la rivoluzione comunista è “erede” della rivoluzione borghese e del suo mercato mondiale, non di schiavi o servi, e con ciò riscatta Ivi, p. 503. Antonio Gramsci, La rivoluzione contro «Il Capitale» (1° dic. 1917), in Id., Scritti (1910-1926). 2. 1917, a cura di L. Rapone con la collaborazione di M.L. Righi, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2015, pp. 617-620. 6 W. Benjamin, Appendice a Sul concetto di storia cit., p. 496. 7 Ivi, pp. 500-505. 8 Ivi, p. 513. 9 Ivi, p. 498. 10 Ivi, p. 511. 11 Ivi, p. 501. 4 5
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la regola del lavoro alienato e dello sfruttamento), Benjamin accoglie, paradossalmente, la figura marxiana del soggetto, come proletariato costituito in classe e, in ultima istanza, formato dallo stesso sviluppo dell’industria. Il soggetto è ancora la classe, la quale, per la sua posizione oggettiva nella società moderna, può generare il discontinuum nella storia, raccogliendo l’eredità dei vinti di ogni epoca. In questo punto, Gramsci si muove nella direzione inversa. Tiene ferma la concezione storica di Marx, ripensando le classi subalterne nella figura del folclore (sedimentazione del senso comune e per sé incapaci di iniziativa rivoluzionaria), ma correggendo profondamente, oltre Marx e oltre lo stesso Lenin, la figura del soggetto. Con la teoria dell’egemonia, il problema fondamentale della filosofia della praxis diventa quello della costituzione del soggetto politico, nella duplice combinazione di società civile e Stato e di dimensione nazionale e internazionale. Rispetto al paradigma di Benjamin, cambia dunque la lettura della modernità e del progresso, come proveremo a mostrare attraverso il caso esemplare della teoria delle rivoluzioni passive. 2. Una nuova morfologia della politica Come tutte le principali categorie dei Quaderni del carcere (si pensi all’egemonia e alla guerra di posizione) anche il concetto di rivoluzione passiva ha una fisionomia duplice. Da un lato è uno strumento analitico, necessario per leggere la realtà e in particolare la storia. D’altro lato è uno strumento strategico, con una finalità politica e pratica, che serve a prospettare correttamente il problema di una rivoluzione mondiale. Sul piano analitico (come per tutto il marxismo teorico, a cominciare dallo stesso Marx), il problema di Gramsci è la lettura del ciclo delle rivoluzioni borghesi. A differenza di Marx, tuttavia, che aveva indicato nel 1848 lo «Höhepunkt»12, il punto culminante e di conversione dalla «linea ascendente» a quella «discendente» del moto europeo13, Gramsci riconosce nel 1870 12 Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 52. 13 Ivi, pp. 85-86.
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(anche grazie alle analisi di Labriola e Croce) il momento in cui inizia propriamente l’età contemporanea e post-borghese (quella età in cui il capitalismo mondiale si separa dai valori espansivi della borghesia rivoluzionaria)14. Nella sua lettura, la rivoluzione borghese ha prodotto, nell’epoca 1789-1870, due risultati principali: da un lato la costruzione degli Stati nazionali europei, come forma moderna della politica; d’altro lato l’unificazione cosmopolitica dell’economia, cioè l’espansione globale del modello capitalistico in un mercato mondiale. Dopo il 1870 inizia la «linea discendente», questi due prodotti (Stato nazionale-cosmopolitismo economico) diventano i poli di una contraddizione esplosiva, che trascina il mondo in una serie di guerre distruttive. Come Gramsci si esprime fin dagli scritti giovanili (di fronte ai 14 punti di Wilson), lo Stato nazionale è fuori scala rispetto allo sviluppo globale dell’economia. Tra nazionalismo politico e cosmopolitismo economico si afferma un’antitesi irriducibile, che per molti versi traduce, in termini moderni, la contraddizione marxiana tra rapporti di produzione e forze produttive. Si tratta di “conguagliare” la politica all’economia. Per conseguire questo risultato, occorre superare la morfologia moderna della politica, incardinata nella teoria della sovranità (Hobbes) e nella sua declinazione borghese nella figura dello Stato territoriale. Di qui la nuova teoria “allargata” dello Stato, comprensiva della hegeliana bürgerliche Gesellschaft, e la ricerca di una diversa combinazione tra “nazionale” e “internazionale”, che culmina nella teoria della traducibilità e nella figura “fantastica” del moderno Principe, in quanto germe delle volontà collettive. Come scrive nell’unica nota di stesura unica del Quaderno 22, il mondo attuale è impegnato nella difficile transizione «dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica»15: cioè nel compito di affermare una nuova misura della politica, adeguata al mondo globalizzato, e di superare la concezione classica dello Stato sovrano. Per questo nei quaderni acquista una importanza fondamentale la teoria delle crisi, che Gramsci mette a fuoco in due note che si 14 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 1229. 15 Ivi, p. 2139.
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leggono nel Quaderno 13 e nel Quaderno 15. Nel Quaderno 13 la crisi è interpretata come disgregazione dell’apparato egemonico, quando «i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali» e il senso comune non riconosce più la visione del mondo dominante: «si parla di crisi di autorità e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso»16. Nel Quaderno 15, con riferimento alla crisi del 1929, Gramsci chiarisce ulteriormente che la crisi non è un evento unico ma è un processo complesso, che accompagna l’intero sviluppo della modernità, per manifestarsi nella contraddizione fondamentale tra il cosmopolitismo della vita economica e il nazionalismo della politica17. 3. Cosa sono le rivoluzioni passive Per rappresentare il ciclo delle rivoluzioni borghesi Gramsci ricorse alla categoria di rivoluzione passiva. Solo di recente, grazie al metodo cronologico di lettura dei quaderni, è stato possibile ricostruire con precisione lo sviluppo di questo concetto18. Il termine deriva dall’uso che ne avevano fatto Vincenzo Cuoco nel Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1801 e altri autori (Michele Natale nel 1799 e Francesco Lomonaco nel 1800-1801), ma in realtà risale a una più antica tradizione, che può essere ricondotta ai Rights of Man di Thomas Paine, databili agli inizi del 1792, dove per la prima volta si parla di «passive revolutions»19. Nel suo saggio, Cuoco aveva utilizzato il termine (mostrando di ignorare il precedente di Paine) per indicare una rivoluzione, come Ivi, pp. 1602-1603. Ivi, pp. 1755-1759. 18 Cfr. in particolare: Fabio Frosini, Rivoluzione passiva e laboratorio politico: appunti sull’analisi del fascismo nei Quaderni del carcere, «Studi storici», 2, 2017, pp. 297-328; Antonio Di Meo, La «rivoluzione passiva» da Paine a Cuoco a Gramsci, in Id., Decifrare Gramsci. Una lettura filologica, Bordeaux, Roma 2020, pp. 88-133; F. Frosini, «Rivoluzione passiva»: la fonte di Gramsci e alcune conseguenze, in Crisi e rivoluzione passiva. Gramsci interprete del Novecento, a cura di G. Cospito, G. Francioni e F. Frosini, Ibis, Como-Pavia 2021, pp. 181-217; Marcello Mustè, Rivoluzioni passive. Il mondo tra le due guerre nei Quaderni del carcere di Gramsci, Viella, Roma 2022. 19 Thomas Paine, Rights of Man, Common Sense, and Other Political Writings, a cura di M. Philp, Oxford, Oxford University Press, 1995 (trad. it. di T. Magri, I diritti dell’uomo, Editori Riuniti, Roma 1978). 16 17
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quella napoletana, che, a differenza della Francia dell’89, non aveva un carattere spontaneo e popolare ma imitativo, ed era per questo destinata alla sconfitta. La formula era stata ripresa da Benedetto Croce nella prefazione del 1896 agli Studi storici sulla rivoluzione napoletana del 1799 e Gramsci la incontrò, intorno al novembre 1930 (la prima occorrenza è nel Quaderno 4), nella più ampia rielaborazione che ne aveva fatta Guido De Ruggiero nel libro del 1922 su Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX. Solo più tardi, nella miscellanea del Quaderno 8 (gennaiofebbraio 1932), Gramsci stabilì una corrispondenza tra il concetto di rivoluzione passiva e quello di restaurazione-rivoluzione che, in un articolo su Giosuè Carducci, Daniele Mattalia aveva attribuito a Edgar Quinet20. Ma il collegamento più importante (sia pure implicito e non dichiarato nei quaderni) fu quello con il quarto saggio sul materialismo storico di Antonio Labriola (Da un secolo all’altro), dove, con riferimento al Risorgimento italiano, figurava la distinzione tra «storia attiva» e «storia passiva» e tra «popoli attivi» e «popoli passivi»21. Al di là della questione delle fonti, Gramsci adottò questo concetto (allargandone in maniera inaudita il significato) per indicare tutto il processo espansivo innescato dalla Rivoluzione francese dell’89, in una forma non più giacobina e attiva ma appunto passiva, cioè come “traduzione” nazionale del progresso globale e come rivoluzione dall’alto, compiuta dalle classi dirigenti ma capace di assimilare, realizzare e anche depotenziare, le rivendicazioni delle classi subalterne. È molto importante osservare che il Risorgimento italiano è solo un esempio del processo europeo di rivoluzione passiva, dove la dialettica tra moderati e democratici rappresenta perfettamente l’assenza del popolo-nazione e del momento giacobino e attivo. Anche qui lo sguardo di Gramsci è sempre globale, mai puramente nazionale. Gramsci fu colpito senza dubbio dall’ossimoro presente nella formula, capace di indicare, al tempo stesso, un reale processo di trasformazione rivoluzionaria (la rivoluzione passiva è una rivoluzione, nel senso pieno del termine) e il carattere passivo che in essa mantengono le classi subalterne. A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., p. 957. Antonio Labriola, Scritti filosofici e politici, a cura di F. Sbarberi, Einaudi, Torino 1976, vol. 2, pp. 854-855. 20 21
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La rivoluzione passiva indicava con precisione non solo il processo caratteristico delle rivoluzioni borghesi, ma il passaggio di epoca che, secondo Gramsci, si era consumato. Le rivoluzioni attive (quella francese e quella sovietica) erano l’ultimo esempio di una guerra di movimento, specie dopo la sconfitta tedesca del marzo 1921. Gramsci arrivò a parlare, nel Quaderno 15 (marzo-aprile 1933), di «una identità assoluta»22 tra rivoluzione passiva e guerra di posizione. Finita per sempre l’epoca della guerra di movimento, del concetto di rivoluzione nel senso classico e tradizionale, lo stesso movimento operaio era entrato nella dimensione della rivoluzione passiva, cioè di un conflitto condotto nelle trincee della società civile. Questa fu, d’altronde, la ragione di fondo della critica che rivolse a Trockij (teorico «dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatta»23) e al saggio su Lo sciopero generale di Rosa Luxemburg24. La scoperta della rivoluzione passiva condensava la scoperta del mutamento morfologico del concetto di rivoluzione e, in generale, della politica moderna. 4. Tra Marx e Max Weber Se è vero quanto abbiamo affermato, cioè che la rivoluzione passiva rappresenta una lettura originale del processo delle rivoluzioni borghesi, si comprende perché al suo centro rimane il confronto con l’opera di Marx. Negli anni trascorsi nel carcere speciale di Turi, la lettura di Marx fu continua e approfondita, a cominciare dalle traduzioni dal tedesco che condusse tra il maggio 1930 e il luglio 1931 nel Quaderno 725. La vecchia critica liberale a Gramsci, di avere elaborato un marxismo senza Marx o senza il Capitale, appare del tutto infondata. È vero il contrario e tutto il dossier sulle rivoluzioni passive ci mostra questo confronto decisivo con Marx. Nel concetto di rivoluzione passiva entrarono, in modo particolare, la Sacra famiglia, riconosciuta come origine del concetto A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., p. 1766. Ivi, pp. 801-802. 24 Ivi, pp. 858-860. 25 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere. 1. Quaderni di traduzioni (1929-1932), II, a cura di G. Cospito e G. Francioni, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2007, pp. 799-808. 22 23
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di traducibilità (la rivoluzione passiva è infatti una figura della traducibilità globale, nel senso che traduce nelle sfere nazionali il contenuto delle rivoluzioni attive)26, la Miseria della filosofia, dove Gramsci indicò, nella critica a Proudhon, l’addomesticamento della dialettica hegeliana, cioè l’elisione dell’opposizione e del conflitto sociale nel contesto di una rivoluzione passiva27, e la Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica, da cui ricavò, rielaborandoli, i due princìpi della politica moderna: da un lato l’idea (così suonava la sua riformulazione) che «nessuna formazione sociale scompare fino a quando le forze produttive che si sono sviluppate in essa trovano ancora posto per un loro ulteriore movimento progressivo», d’altro lato la regola per cui «la società non si pone compiti per la cui soluzione non siano già state covate le condizioni necessarie»28. Come è facile intendere, i due princìpi ricavati dalla Prefazione del ’59 stabilivano esattamente la base teorica del passaggio dalla rivoluzione attiva alle rivoluzioni passive. Ma il testo di Marx che certamente influenzò di più la riflessione di Gramsci fu il 18 brumaio di Luigi Bonaparte29. Oltre un articolo di Robert Michels sulle tendenze oligarchiche della democrazia e sul potere carismatico30, furono infatti il 18 brumaio di Marx e il saggio di Max Weber su Parlamento e governo che permisero a Gramsci di indicare in una particolare lettura del cesarismo (quello che definì un «cesarismo senza un cesare»31) la forma politica caratteristica delle rivoluzioni passive. In Marx Gramsci non poteva trovare una teoria del cesarismo, perché, come si sa, Marx aveva rifiutato con nettezza la legittimità di questa categoria32, ma vi trovò una teoria della crisi che superava la visione schematica del Manifesto. Nel 18 brumaio Marx rileggeva il processo della rivoluzione borghese sottolineando A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., pp. 1468-1473. Ivi, p. 1083. 28 Ivi, p. 869, p. 1057. 29 Tutta la questione è stata studiata da Francesca Antonini nella prima parte del suo libro Caesarism and Bonapartism in Gramsci: Hegemony and the Crisis of Modernity, Brill, Leiden-Boston 2020. 30 Robert Michels, Les partis politiques et la contrainte sociale, «Mercure de France», 1° maggio 1928, pp. 513-535. 31 A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., p. 1195. 32 K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte cit., p. 37, pp. 43-48. 26 27
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«ein langer Katzenjammer»33, la lunga nausea, che, dopo la prima fase espansiva del moto rivoluzionario, si era impossessata della società europea, rendendo possibile un potere, come quello di Luigi Bonaparte, che non poggiava né sulla borghesia né sul proletariato, ma sul consenso delle classi sociali (contadini e sottoproletariato) che erano rimaste ai margini dello sviluppo capitalistico. Era l’immagine perfetta della crisi organica, dell’«interregno» nel quale «il vecchio muore e il nuovo non può nascere»34. A questa teoria marxiana della crisi Gramsci unì la lezione di Max Weber, il quale, in Parlamento e governo, aveva delineato il cesarismo come destino politico dei processi di modernizzazione, in un rapporto dialettico con lo sviluppo della democrazia parlamentare e della «gabbia d’acciaio» della burocratizzazione35. Gramsci unì l’analisi di Marx con quella di Weber e perciò, nel Quaderno 9, indicò non nel cesarismo in generale (potere carismatico e dell’uomo provvidenziale) ma nel “cesarismo senza un cesare”, come quello che si era affermato nei governi di coalizione in Italia tra il 1922 e il 1926 e in Inghilterra con il gabinetto Mac Donald, quindi nella pratica del trasformismo, la forma politica caratteristica delle rivoluzioni passive. 5. Una crisi organica globale Fin qui abbiamo considerato la rivoluzione passiva come una categoria analitica, capace di cogliere il ritmo delle rivoluzioni borghesi e di inaugurare una nuova figura della politica e della rivoluzione, saldandosi con i concetti di guerra di posizione e di egemonia. A un certo punto, però, Gramsci operò una prevedibile estensione del discorso, sollevando la domanda se l’epoca attuale, cioè la realtà globale degli anni Trenta del Novecento, configurasse o meno una nuova situazione di rivoluzione passiva. Nel Quaderno 10 pose la questione in forma diretta, chiedendo: «questo “modello” della formazione degli Stati moderni può Ivi, p. 52. A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., p. 311. 35 Max Weber, Parlamento e governo. Per la critica politica della burocrazia e del sistema dei partiti, a cura di F. Fusillo, Laterza, Roma-Bari 1993, in particolare le pp. 95-120. 33 34
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ripetersi in altre condizioni?». «La quistione – spiegò – è di somma importanza, perché il modello Francia-Europa ha creato una mentalità»36. La risposta richiedeva una analisi delle forze che componevano il quadro mondiale, delle «grandi potenze», come le definì: in particolare della Russia, dell’America, dell’Europa. Una nuova rivoluzione passiva avrebbe dovuto manifestarsi nella capacità espansiva della rivoluzione sovietica del 1917 (sul modello della Rivoluzione francese dell’89), nella possibilità di trasformarne il principio in una rivoluzione mondiale, nella forma, specificata nel Quaderno 22, del passaggio dal «vecchio individualismo economico all’economia programmatica». Come ora vedremo, questa analisi ebbe una risposta negativa. A differenza di quanto hanno sostenuto in passato gli interpreti più autorevoli37, Gramsci non interpretò la realtà degli anni Trenta come una rivoluzione passiva, ma la concepì come una epoca di crisi organica globale, dove nessuno dei soggetti in campo mostrava la capacità di guidare, in chiave egemonica, il passaggio di epoca. Questo significava un destino inevitabile di guerra e di inaudite distruzioni, che il prigioniero presentì acutamente ancora prima del loro accadere. Il discorso riguardava in primo luogo l’Unione Sovietica, dopo la morte di Lenin, la lotta per il potere e l’avvio dei piani quinquennali promossi da Stalin. Nella famosa lettera al comitato centrale del partito russo del 14 ottobre 1926 Gramsci aveva già espresso la sua preoccupazione per l’esaurimento della capacità espansiva e propulsiva dello Stato sovietico: «voi oggi – aveva scritto allora – state distruggendo l’opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il P.C. dell’URSS aveva conquistato per l’impulso di Lenin»38. Nei quaderni il giudizio diventò ancora più severo e radicale, trovando una perfetta metafora nell’immagine della Riforma senza Rinascimento, cioè di una dottrina che non era riuscita a svilupparsi sul terreno delle superstrutture A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., pp. 1358-1359. Cfr. ad esempio Franco De Felice, Rivoluzione passiva, fascismo, americanismo in Gramsci, in Id., Il presente come storia, a cura di G. Sorgonà e E. Taviani, Carocci, Roma 2016, pp. 315-368 e Mario Telò, Note sul futuro dell’Occidente e la teoria delle relazioni internazionali, in Giuseppe Vacca (a cura di), Gramsci e il Novecento, Carocci, Roma 1999, pp. 51-74. 38 Chiara Daniele (a cua di), Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, Einaudi, Torino 1999, pp. 404-412. 36 37
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e dell’egemonia. Ma anche l’America, l’altra grande potenza, soffriva agli occhi di Gramsci di una malattia analoga, in quanto nazione vergine, «senza tradizione», dove «la struttura domina più immediatamente le soprastrutture»39. È facile comprendere, perciò, che tutto il discorso sull’americanismo e sul taylorismo riguardava non l’America ma l’Europa, ossia la possibilità che l’Europa, forte delle sue «grandi tradizioni storiche e culturali», potesse entrare nel terreno della modernità ed esercitare una funzione egemonica nel mondo. Ma anche l’analisi dell’Europa rivelò a Gramsci il limite della situazione, perché la forza delle tradizioni rappresentava anche l’insieme delle «sedimentazioni passive» che la rivoluzione borghese aveva prodotto e cristallizzato, a cominciare dalla resistenza degli Stati nazionali a superare sé stessi e ad allargarsi a una dimensione realmente globale. Come si vede, nessuna delle grandi potenze appariva in grado di raccogliere la sfida della rivoluzione del ’17 e di guidare quel passaggio all’economia programmatica che rappresentava la vera sfida del presente. Perciò una nuova rivoluzione passiva appariva impraticabile. Il quadro che si spalancava era quello di una crisi organica globale, di un mondo senza egemonia e senza guida, che correva diritto verso la catastrofe. Fu quasi per un drammatico e doloroso paradosso, perciò, che Gramsci riconobbe il germe di una rivoluzione passiva solo nel fascismo o, più precisamente, nel corporativismo: «non sarebbe il fascismo – scrisse nel Quaderno 8 – precisamente la forma di “rivoluzione passiva” propria del secolo XX come il liberalismo lo è stato nel secolo XIX?»40. La risposta a questa domanda restava sostanzialmente negativa, perché il corporativismo, come tentativo di un americanismo di marca europea, nasceva nel fascismo da esigenze di «polizia economica» e ribadiva perciò, piuttosto che superare, le tendenze improduttive dell’economia nazionale. Ma restava il fatto, paradossale e doloroso, che solo il fascismo indicava una tendenza di rivoluzione passiva, mentre le grandi potenze – Russia, Europa, America – si dimostravano incapaci di affrontare il passaggio di epoca.
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A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., p. 72. Ivi, pp. 1088-1089.
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6. Conclusione Dopo la rottura sovietica, atto di separazione dal capitalismo ma anche precoce arresto della capacità espansiva di costruzione di un ordine mondiale, Benjamin e Gramsci cercano di definire una nuova idea di rivoluzione, oltre lo schema staliniano ma, al tempo stesso, lontana dalla «teoria socialdemocratica». Questa ricerca è il punto di convergenza, il problema comune, che li unisce. Benjamin svolge una critica più radicale dell’idea di progresso, arrivando a concepire la rivoluzione come una distruzione della linea evolutiva del passato, del «patrimonio culturale», e, di conseguenza, come l’emergere di una soggettività nascosta, latente, capace di raccogliere l’eredità dell’intera vicenda degli oppressi e dei vinti della civiltà. Alla maniera di Marx, la rivoluzione è «salto dialettico»41, «arresto messianico dell’accadere»42, «un attimo di pericolo»43: è «lotta di classe», come ripete più volte nelle tesi Sul concetto di storia, dove la classe oppressa si fa «soggetto della conoscenza storica»44, cioè divide, riscatta e redime l’intero passato: «il messia infatti viene non solo come il redentore, ma anche come colui che sconfigge l’Anticristo. Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere»45. Nello stesso Augenblick della rivoluzione, la classe «sconfigge l’Anticristo», atterrisce il nemico e redime la storia, riattivando la «scintilla» obliata della «speranza». Anche Gramsci, come Benjamin, si dispone alla ricerca di una nuova figura della rivoluzione, dopo la vittoria e, al tempo stesso, il ripiegamento della novità sovietica. Attraverso la ricerca sulle rivoluzioni passive, rileggendo dunque (come abbiamo osservato) l’intero ciclo delle rivoluzioni borghesi, Gramsci si persuade che l’epoca della «guerra di movimento» è finita per sempre, non solo in Occidente ma nella storia universale. Il destino della rivoluzione è ormai affidato alla «guerra di posizione» e al conflitto W. Benjamin, Sul concetto di storia cit., p. 491. Ivi, p. 492. 43 Ivi, p. 485. 44 Ivi, p. 489. 45 Ivi, p. 485. 41 42
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egemonico, alla lotta per l’affermazione di una nuova visione del mondo nell’orizzonte della società civile e di un effettivo pluralismo democratico. Gramsci non crede più, come Benjamin, all’«attimo di pericolo» e al «salto dialettico». Di conseguenza, nella sua teoria, il conflitto sociale non può essere più configurato nei termini tradizionali della «lotta di classe». È in gioco, come si è detto, la natura del soggetto. «Intellettuale organico» (o, come dirà efficacemente Togliatti, «intellettuale collettivo»), il nuovo soggetto è il risultato di combinazioni complesse, è il «moderno Principe» che chiude in sé il germe della volontà collettiva. Non redime il passato in un attimo di eccezione, alla maniera dell’angelo della storia, ma lo porta dentro sé stesso come coscienza di una modernità incompiuta.
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1. Il presente nella crisi e della crisi Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più “dirigente”, ma unicamente “dominante”, detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati1. La svolta copernicana nella visione storica è la seguente: si considerava “ciò che è stato” come un punto fisso e si assegnava al presente lo sforzo di far avvicinare a tentoni la conoscenza a questo punto fermo. Ora questo rapporto deve capovolgersi e ciò che è stato deve ottenere la sua fissazione dialettica dalla sintesi che il risveglio compie con le sue antitetiche immagini di sogno2.
Nelle mie riflessioni intendo mettere a fuoco la configurazione spazio-temporale del presente chiedendomi fino a che punto è collegato con il fenomeno che Gramsci individua come “rivoluzione passiva”. Il concetto si sviluppa partendo dalla diagnosi di una grande crisi di disgregazione degli apparati nazionali in cui i gruppi sociali si staccano dallo Stato, una crisi quindi dell’autorità e dello Stato, 1 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, v. I, p. 311 [Q 3]. 2 Walter Benjamin, Das Passagen-Werk, in Id., Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1982, v. V/2, p. 1057 (trad. it. di Vittoria Borsò, d’ora in poi VB).
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un conflitto tra nazionalità o individualismo economico e un’economia programmata, diremmo oggi globale. Nel passaggio citato, Gramsci si riferisce direttamente alla crisi in Italia ed Europa per cui la politica non ha nessun rimedio. È la crisi che Gramsci identifica nella decadenza della vecchia Europa con l’avvento del fascismo e del nazionalsocialismo, fonte di disgregazione mondiale del vecchio senza che il nuovo possa nascere. La crisi ha una temporalità dove è latente il pericolo di fenomeni “morbosi”, in cui Gramsci presagisce il fascismo e una nuova guerra3. Lo scetticismo di Gramsci si riferisce al presente come particolare momento storico. Ma resta da esplorare se nella ricerca di strumenti pratici di trasformazione effettuata nei Quaderni nei contesti di rivoluzione passiva, l’analisi del presente assuma una speciale rilevanza. Le due citazioni si riferiscono a dimensioni diverse. Gramsci ha presente la situazione politica che Benjamin vede con lo stesso profondo scetticismo. Unisce invece entrambi la fiducia nelle potenziali mutazioni della prassi materiale. Mentre però nei Quaderni le speranze di Gramsci sono rivolte a nuove pratiche sociali che trovano una delle più evidenti espressioni nell’analisi del fordismo in America, Benjamin ha invece in mente operazioni collegate alla prassi culturale o estetica. Gli attori a cui si riferisce Gramsci sono i lavoratori, Benjamin si rivolge invece agli intellettuali. Sottolinea l’importanza politica nel presente del “risveglio”, dove la relazione tra passato e presente si capovolge e il presente diventa lo spazio dell’immagine dialettica con cui è possibile destarsi abbandonando i miti della storia. In quest’ultima dimensione e nel materialismo storico incontriamo di nuovo una sintonia e un momento importante per entrambi i pensatori, che hanno segnato diversi filoni della filosofia politica e di studi culturali del XX secolo. L’inquietudine per la grande crisi politico-economica degli anni Trenta è per entrambi il motore della produzione di una “nuova” filosofia politica della storia. Mi sembra promettente insistere sulla potenzialità del presente della crisi nelle varie fasi del pensiero di Gramsci partendo dal Quaderno 22 (1934) su americanismo e for3 Cfr. Marcello Mustè, Rivoluzioni passive. Il mondo tra le due guerre nei Quaderni del carcere di Gramsci, Viella, Roma 2022. Sulla differenza tra Marx e Gramsci nella concezione della crisi, cfr. Dario Gentili, Crisi come arte di governo, Quodlibet, Macerata 2018.
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dismo. Tali potenzialità, a mio parere, sono visibili se consideriamo la crisi non come situazione o dispositivo politico nelle sue forme di validazione del potere, ma come configurazione spazio-temporale di un modo di esistenza in cui la temporalità è il campo del possibile, inteso come impensato, in cui il presente si fa particolarmente denso e sensibile e la materialità e la singolarità dell’esperibile possono inaugurare il momento delle rotture e delle biforcazioni della storia, il momento di possibili nuovi inizi anche se essi non hanno trovato riscontro nei discorsi consolidati, secondo l’interpretazione che Foucault fornisce della genealogia di Nietzsche4. Nel mio percorso mi soffermerò sul dialogo mancato tra Gramsci e Benjamin, le cui corrispondenze mettono in luce momenti cruciali nell’analisi della temporalità storica. 2. Rivoluzione e rivoluzione passiva: Gramsci Se Benjamin non affronta direttamente la formazione del politico e dell’emergenza di un corpo collettivo rivoluzionario, Gramsci è invece esplicito riguardo alla relazione tra condizione sociale e formazione politica di classe, cioè tra la localizzazione strutturale nella piramide produttiva e sociale e la costruzione di un progetto politico con capacità egemonica e contro-egemonica. Ma piuttosto che contro-egemonica nel senso di un movimento, la rivoluzione passiva, che in un primo momento indica un percorso speciale della politica italiana e di altri Stati europei in assenza del momento giacobino, concerne la possibile formazione di una volontà collettiva che, pur senza movimenti di lotta, è capace di trasformare la vulnerabilità di classi subalterne verso o contro le iniziative materiali e psichiche di “cooptazione” da parte delle classi dominanti. La rivoluzione passiva è una trasformazione dovuta a un vettore sociale, piuttosto che a un movimento politico o di classe che fornisce leader e un’autonomia potenzialmente organizzata e auto-istituente delle classi di lavoratori. Contrariamente alla rivoluzione permanente secondo Marx ed Engels che Gramsci vede come continuità discontinua, come movimento di superamento e attualizzazione, di 4 Cfr. Michel Foucault, Nietzsche, la généalogie, l’Histoire (1971), in Id., Dits et Écrits, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 1994, v. I, pp. 136-156.
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trasformazione e conservazione5, l’ossimoro della rivoluzione passiva tra sostantivo e attributo indica anche il pericolo delle rivoluzioni passive, ove, pur essendo il mutamento dovuto alle classi operaie o subalterne, la validazione egemonica resta nelle mani delle classi dirigenti, storicamente la borghesia, che ha il compito di assimilare e svolgere “dall’alto” le innovazioni che il movimento operaio aveva introdotto nella storia mondiale. Sappiamo bene che in Europa, all’inizio del XX secolo, un tale compito fallisce sfociando nelle due guerre mondiali. Nelle rivoluzioni passive sono quindi possibili trasformazioni, ma anche conservazione. Ciò nonostante, l’importanza della rivoluzione passiva, che si sviluppa nel pensiero di Gramsci con lo svolgersi delle sue riflessioni e degli avvenimenti a cui si riferisce, è da vedersi non tanto sul piano storico – come trasformazione che conduce a una modernità alternativa – ma soprattutto nello scrutinio di strutture a livelli macrosociali ove occorre insistere sulla contingenza esistente a microlivelli. Vedremo qui una consonanza speciale con il materialismo storico di Benjamin. Nelle più diverse versioni o, meglio, contesti in cui Gramsci, dal 1930 al 1935, elabora il concetto, sono costanti specialmente le contraddizioni della modernizzazione6 e la temporalità della crisi: è il presente che potenzialmente riapre la storia ad alternative. Come tutte le categorie-chiave dei Quaderni, anche la rivoluzione passiva ha un carattere duplice perché rappresenta al contempo un paradigma di comprensione storica e uno strumento di trasformazione pratico. La rivoluzione passiva può segnalare un passaggio di epoca e nasce come alternativa alla rivoluzione intesa nel senso di guerra di movimento, i cui esempi sono la Rivoluzione francese e quella sovietica. È un’alternativa che, potenzialmente, è il frutto di una modernità diversa da quella che mette al centro il potere e il dominio globale del capitalismo perché emerge nelle classi subalterne con le trasformazioni di costumi, stili di vita, materialità e tecnologie. Non ha bisogno del movimento emancipatorio delle ideologie, ma solo – e non è poco – della materialità della prassi, ovverosia di pratiche materiali che eliminano il dualismo tra soggetto e oggetto, fondano altre relazioni e inaugurano nuove ontologie. 5 Cfr. Peter D. Thomas, Gramsci’s Revolutions: Passive and Permanent, «Modern Intellectual History», 17, 1, 2020, p. 153. 6 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., v. II, p. 961 [Q 8, § 35].
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L’emergenza e l’attualizzazione di potenzialità latenti nel presente della crisi e non visibili in un macromodello dell’azione politica hanno bisogno di spazio, di attori e di pratiche materiali per sviluppare forme vive, storicamente concrete, di una rivoluzione passiva che non ricada nella conservazione del vecchio – lo rende chiaro Gramsci nei suoi commenti alla rivoluzione permanente nella prefazione di Marx del 18507. In questo senso, per Gramsci, si può e si deve rivisitare il passato, e persino il Risorgimento, come possibile campo di «modificazioni molecolari»8. Sono il tipo di trasformazioni in cui potrebbe emergere il potenziale di una rivoluzione passiva come prassi singolare e comune di un presente inteso come stadio intermedio, ma continuo, di prassi instituente9. 3. Fordismo/Americanismo o la produttività della materialità Il potenziale della rivoluzione passiva si manifesta nel quaderno sull’americanismo e il fordismo. Eccezionale è l’acutezza geopolitica e geoculturale di Gramsci. Partendo dall’analisi materiale del fordismo, individua nell’americanismo che lo continua l’egemonia mondiale. La razionalizzazione scientifica promossa da Taylor e perfezionata negli anni Trenta da Henry Ford investe l’intera società americana fino a diventare una forma di vita tipicamente americana. Gramsci mette a fuoco il «passaggio appunto dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica»10. Con la sua lettura di Marx relativa all’economia politica che Gramsci critica riconoscendo nell’organizzazione del lavoro anche l’emergenza e la produttività del “tempo libero” del lavoratore, mette a fuoco, nel passaggio alla razionalizzazione della produzione, le resistenze 7 Nel 1932 (aprile-maggio), all’inizio dell’analisi del fascismo, diventa sempre più importante il concetto di egemonia come superamento della rivoluzione permanente. Cfr. ivi, v. III, pp. 1579-1589 [Q 13, § 17]. 8 «Si può applicare al concetto di rivoluzione passiva (e si può documentare nel Risorgimento italiano) il criterio interpretativo delle modificazioni molecolari che in realtà modificano progressivamente la composizione precedente delle forze e quindi diventano matrice di nuove modificazioni». Ivi, p. 1767 [Q 15, § 11]. 9 Cfr. Roberto Esposito, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2020. 10 A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., v. III, p. 2139 [Q 22, §1].
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della classe operaia (come in parte delle classi dominanti). È la resistenza «delle forze subalterne, che dovrebbero essere manipolate e razionalizzate»11. L’analisi del fordismo si estende poi al confronto tra società meno sviluppate e più progredite, domandandosi anche se il corporativismo dello Stato fascista italiano possa diventare una forma di taylorismo, in cui gli strati parassitari in Italia ed Europa – i «pensionati della storia economica»12 – portano a forme particolarmente brutali di fordismo: soprattutto la deprofessionalizzazione del lavoro operaio in favore del funzionamento automatico della macchina, l’affermazione dell’operaio massa con il tramonto dell’operaio artigiano e la radicalizzazione del taylorismo tramite Ford, che introduce il controllo capillare oltre che del lavoro anche delle coscienze e delle vite private dei lavoratori. Nei Quaderni, Gramsci torna varie volte alle difficoltà d’introdurre produttivamente in Italia e in altri paesi di “capitalismo arretrato” nuove forme di economia come il fordismo e analizza con precisione la struttura dell’economia, dell’industria e del mercato in relazione alle masse di lavoratori in fabbrica e nei latifondi. Con precisione quasi visionaria descrive l’approfondimento delle asimmetrie geopolitiche e sociali che accompagnano il culto del profitto anche nel neoliberalismo del ventunesimo secolo13. Nel fordismo in America, Gramsci mette in luce la contraddizione interna del processo capitalista che riduce il lavoratore a “gorilla ammaestrato”, con il controllo della vita privata da parte dei grandi industriali, trasformando l’amministrazione economica della fabbrica in una vigilanza generalizzata in campo culturale e politico, ma non critica innovazioni e razionalizzazioni. In effetti, proprio la contraddizione tra disciplinamento e produzione di tempo libero e di nuovi stili di vita può essere il fulcro di un antagonismo capace di far emergere trasformazioni che agiscono a livello psico-fisico. Ibid. Ivi, pp. 2140-2141 [Q 22, §1]. 13 «In certi paesi di capitalismo arretrato e di composizione economica in cui si equilibrano la grande industria moderna, l’artigianato, la piccola e media cultura agricola e il latifondismo le masse operaie e contadine non sono considerate come un mercato. Il mercato per l’industria è pensato all’estero, e in paesi arretrati dell’estero, dove sia possibile la penetrazione politica per la creazione di colonie e di zone di influenza. L’industria, col protezionismo interno e i bassi salari si procura mercati all’estero con un vero e proprio dumping permanente». Ivi, v. II, p. 799. 11 12
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Peraltro, proprio per le contraddizioni interne, per l’egemonia in cui sfocia, il fordismo può fomentare una diversa sensibilità, una nuova mentalità e un altro senso comune. La struttura ideologica del fordismo, pur avendo come scopo mantenere, difendere e sviluppare il fronte teorico e ideologico della società, implica tutte le forme materiali della vita pubblica: giornali, riviste, biblioteche, scuole, stampa, clubs ecc. Nasce nelle classi subalterne una prassi materiale con potenzialità di liberazione14. L’obiettivo di ammaestrare l’operaio potrebbe però essere destinato a fallire, perché ogni attività materiale contribuisce potenzialmente a sviluppi intellettuali. Alle contraddizioni interne al capitalismo si aggiungono quindi quelle in campo sociale che approfondiscono la crisi organica del capitalismo. Nell’analisi del fordismo ci troviamo di fronte alla possibile indeterminatezza del momento presente; si formano peraltro resistenze alla razionalizzazione dei lavoratori, ma anche nei settori delle forze dominanti. È così che inizia il testo su fordismo e americanismo: «le forze subalterne, che dovrebbero essere “manipolate” e razionalizzate secondo i nuovi piani, resistono necessariamente. Ma resistono anche alcuni settori delle forze dominanti, o almeno alleate delle forze dominanti»15. Soffermiamoci sul confronto tra nuovo e vecchio continente nelle riflessioni su fordismo e americanismo che, con la tesi dell’ingombro politico della storia europea, permette di riflettere sulle consonanze con la diagnosi storica di Benjamin. Con una acutezza che continua ad essere valida ai nostri giorni, Gramsci osserva che le contraddizioni del fordismo, che in America portano a una trasformazione delle forme di vita, si manifestano nel vecchio continente con una «vecchia e anacronistica struttura sodale-demografica»16. Perciò in Europa l’introduzione del fordismo trova «resistenze “intellettuali” e “morali” e avviene in forme particolarmente brutali e insidiose, 14 «Passaggio dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento eticopolitico, cioè l’elaborazione superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall’“oggettivo al soggettivo” e dalla “necessità alla libertà”. La struttura di forza esteriore che schiaccia l’uomo, lo assimila a sè, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove iniziative». Ivi, p. 1244 [Q 10, § 6]. 15 Ivi, p. 2139. 16 Ivi, p. 2140.
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attraverso la coercizione più estrema»17. Segue la famosa diagnosi sull’incapacità europea di aprirsi a forme moderne di produzione e di circolazione sul mercato: «Per dirla in parole povere, l’Europa vorrebbe avere la botte piena e la moglie ubriaca, tutti i benefici che il fordismo produce nel potere di concorrenza, pur mantenendo il suo esercito di parassiti che divorano masse ingenti di plusvalore, aggravano i costi iniziali e deprimono il potere di concorrenza sul mercato internazionale»18. L’America non era gravata da questo ingombro storico. Al contrario. L’americanismo consiste nell’imperniare tutta la vita sulla produzione. L’Europa ha invece troppi mediatori, un vero fardello storico. Con l’ingombro storico dell’Europa, Gramsci apre un argomento che Benjamin approfondisce contrastando il vecchio ed il nuovo mondo tanto sul piano dello spazio che su quello del tempo. Se ora passiamo a Benjamin, è per considerare due momenti che lo avvicinano a Gramsci: il comparatismo storico o la prassi nel presente e la necessità di analizzare la materialità della prassi non solo a un macrolivello sociale, ma al microlivello di singolarità, percezioni e sensazioni nelle situazioni materiali. 4. Benjamin e la critica della rivoluzione: il “carattere distruttivo” e lo spazio del presente come bivio Il confronto con Benjamin si riferisce al metodo di considerare la storia, contrastando lo storicismo con il materialismo storico. In Eduard Fuchs, der Sammler, der Historiker del 1937 si condensa già la costellazione delle tesi Sul concetto di storia del 1940. Anche in Fuchs, lo storicismo fonda un concetto idealistico di cultura: «La maniera altezzosa in cui la storia della cultura presenta i suoi contenuti è per il materialista storico priva di realtà e generata da falsa coscienza»19. Ed è a partire da questa base che si arriva alla frase ripresa poi nella VII tesi di Sul concetto di storia: «Non c’è mai documento di cultura che non sia, nello stesso tempo, documento di Ivi, p. 2141. Ibid. 19 Walter Benjamin, Eduard Fuchs, der Sammler und der Historiker, in Id., Angelus Novus. Ausgewählte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1988, v. 2, p. 311 (trad. it. VB). 17 18
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barbarie. Nessuna storia della cultura ha soddisfatto questo fatto e lo si può sperare con difficoltà»20. In sintonia con Gramsci, Benjamin identifica il problema nella metodologia tradizionale e idealista della storia della cultura, che considera gli artefatti senza metterli in relazione con il processo di produzione in cui sono stati prodotti o recepiti. Inoltre, data l’idealizzazione del concetto di cultura, «viene a mancare la considerazione di un principio distruttivo che faccia del pensiero e dell’esperienza dialettica qualcosa di più autentico»21. La distanza che Benjamin esprime rispetto al concetto di rivoluzione militante adottato dalle sinistre si riconosce nella critica che già nel 1929 rivolge al compromesso politico del surrealismo, mentre preferisce la rivolta che si astiene dal solidificare la dinamica di distruzione delle vecchie strutture con una politica rivoluzionaria. È nel lucido frammento Il carattere distruttivo del 1931 che Benjamin, nel suo studio di carattere alla Teofrasto e La Bruyière, abbozza il concetto di “carattere distruttivo” come metodo per aprire nuovi cammini e non come finalità politica. Ci soffermiamo su questo concetto perché, sebbene rivolto agli intellettuali22 e non alla prassi di vita del “nuovo” lavoratore, rappresenta un’affinità con la produzione di un presente come possibile spazio di mutazioni e trasformazioni, uno spazio che può corrispondere alla dimensione produttiva della rivoluzione passiva. Per Benjamin, il carattere distruttivo ha una prassi che rimane sempre “fresca e giovane”. È una prassi rivolta contro l’“uomo-astuccio”, una prassi che non è più quella della creazione del genio solitario, ma di colui che si muove in mezzo alla folla, che provoca e sperimenta lo choc, amando farsi fraintendere e conoscendo solo una 20 Ibid. (trad. it. VB). La VII tesi riassume il programma del materialismo storico: «Non è mai un documento di cultura senza essere insieme un documento di barbarie. E come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo della trasmissione per cui è passato dall’uno all’altro. Il materialista storico, quindi, prende le distanze da esso nella misura del possibile. Egli considera suo compito spazzolare la storia contropelo». W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 31. 21 W. Benjamin, Eduard Fuchs cit., p. 312 (trad. it. VB). 22 Stando alla lettera di Benjamin a Scholem del 28.10.1931, probabilmente il modello di Benjamin è Gustav Glück, banchiere e mecenate, membro del Partito comunista di Berlino e amico di Benjamin. Cfr. Werner Hamacher, Das theologisch-politische Fragment, in B. Lindner (a cura di), Benjamin-Handbuch. Leben-Werk-Wirkung, Metzler, Stuttgart-Weimar 2006, p. 191.
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parola: «Fare spazio; solo un’azione: sgomberare, liberare lo spazio. Il suo bisogno d’aria fresca e spazio libero è più forte di ogni odio»23. Il carattere distruttivo abbatte strutture per produrre spazi “vuoti” e cammini possibili, senza fissare azioni o posizioni (senza guerre di posizione, direbbe Gramsci). In questo frammento, in cui la sintassi sottolinea movimento, freschezza e piacere, il messianismo del presente come Jetzt-Zeit, come immagine del passato e speranza di redenzione futura, è messo in sordina. Benjamin vede qui soprattutto lo spazio del presente come uno spazio vuoto, aperto a diversi cammini. In questo frammento sono riuniti in un Denkbild i motivi che rimandano alla crisi. Il carattere distruttivo rappresenta per Benjamin un engagement per la politica del cambiamento, della possibile svolta, della crisi24: «non vede niente di durevole […]. Vedendo vie dappertutto, si trova sempre all’incrocio di cammini. Nessun momento sa ciò che porta il prossimo. Abbatte l’esistente, non per le rovine, ma per far posto al cammino che vi passa in mezzo»25. Il presente è questo momento senza azioni o mete prefissate, il momento delle potenzialità. La fine del frammento precisa la temporalità della prassi del carattere distruttivo: la tensione fra passato e futuro produce un presente come apertura di una Schwelle, intesa come incrocio di cammini e potenzialità di mutamenti, come potenzialità del passaggio senza fine o finalità, senza passare dall’altra parte26. È la modalità che corrisponde all’essere storico, sottolinea Benjamin, il cui sentimento fondamentale è il pessimismo verso il corso delle cose, mentre la relazione tra passato e futuro comporta un presente la cui modalità più produttiva consiste nella disponibilità a tener conto del fatto che tutto può andare male: «Il carattere distruttivo ha la coscienza dell’uomo storico, il cui sentimento 23 Walter Benjamin, Der destruktive Charakter, in Id., Illuminationen, a cura di S. Unseld, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1977, p. 290 (trad. it. VB). 24 Krisis und Kritik è il titolo di un progetto di rivista sviluppato insieme a Bertolt Brecht. Il primo numero doveva uscire per l’editore Rowohlt il 15/01/1931. In una nota programmatica appunta Benjamin: «Il campo di lavoro della rivista è la crisi attuale in tutti i campi dell’ideologia; il compito è constatare questa crisi o anche provocarla, precisamente con gli strumenti della critica». Citato in Michael Opitz, Literaturkritik, in B. Lindner (a cura di), Benjamin-Handbuch cit., p. 330 (trad. it. VB). 25 W. Benjamin, Der destruktive Charakter cit., p. 289 (trad. it. VB). 26 Cfr. Maria Teresa Costa, Für ein Ethos des destruktiven Charakters im Ausgang von Walter Benjamin, in Daniel Weidner e Sigrid Weigel (a cura di), Benjamin-Studien 2, Fink, München 2011, pp. 179-194.
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fondamentale è un’insormontabile diffidenza nel corso delle cose, nonché la prontezza con la quale prende nota del fatto che tutto può andare storto. Perciò il carattere distruttivo è la fiducia stessa»27. Contrariamente a Gramsci, più fiducioso di possibili mutamenti, il pessimismo di Benjamin è indubbiamente un’eco delle fosche circostanze politiche. Tuttavia, negli anni 1930-31 in generale e soprattutto in questo frammento, il pessimismo non è sinonimo di sfiducia, ma di sospensione di ogni struttura e critica di mete rivoluzionarie. È il metodo di produzione di un presente aperto, con potenziali cammini che nel Passagearbeit sono i labirinti dello spazio di immagini (Bildraum) – un presente che muove dallo choc28. Questo metodo che con lo choc abbatte il “dato” senza rivoluzioni o pretese rivoluzionarie è altamente significativo tanto per il concetto di storia elaborato in Eduard Fuchs, der Sammler, der Historiker e condensato nelle Tesi29 quanto per la teoria dell’avanguardia, implicita negli scritti di Benjamin, dove lo choc è il metodo privilegiato di avanguardie come il Dadaismo, perché trasforma la realtà in un Bildraum30. Nel saggio del 1929, la critica del surrealismo riguarda il compromesso politico con la sinistra militante, dove si esprime la distanza di Benjamin rispetto al concetto di rivoluzione. La funzione dell’arte d’avanguardia dovrebbe invece essere quella di «organizzare il pessimismo, allontanando la metafora morale dalla politica e scoprendo nello spazio dell’azione politica totalmente lo spazio delle immagini»31. Benjamin definisce il tratto caratteristico della posizione borghese di sinistra, rappresentata dal surrealismo di André Breton, «un incurabile innesto tra morale idealistica e prassi politica»32. La rivoluzione rappresenta per Breton la verità W. Benjamin, Der destruktive Charakter cit., p. 290. «Più è forte lo choc […] tanto più grandi sono le possibilità che si rappresenti il carattere distruttivo». Ivi, p. 289 (trad. it. VB). 29 Cfr. Dario Gentili, Il tempo della storia. Le tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, Quodlibet, Macerata 2019, p. 82. 30 «Lo spazio entro cui si muove il soggetto scrivente è uno spazio di immagini (Bildraum), un luogo di segnali geroglifici. Questa decifrazione può avvenire solo attraverso la congiunzione di passato soggettivo e choc attuale». Mauro Ponzi, W. Benjamin e il surrealismo: Teoria delle avanguardie, in Caterina Graziadei, Antonio Prete, Fernanda Rosso Chioso, Vivetta Vivarelli, Tra simbolismo e avanguardie. Studi dedicati a Ferruccio Masini, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 296. 31 W. Benjamin, Der Surrealismus, in Id., Angelus Novus cit., p. 214. 32 Ivi, p. 209. 27 28
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del sogno politico dell’arte. Tuttavia, il sogno non ha verità, come invece suppone Breton nel secondo Manifesto del 193033. È peraltro il Bildraum della manifestazione materiale del sogno che deve ispirare la prassi politica, sostiene Benjamin facendo riferimento al Traité du style con cui Aragon, nel 1928, si distacca dal ruolo militante secondo il dettato di Breton. Una tale prassi poetica ha la funzione di scoprire nella realtà uno “spazio d’immagini”. La prassi consiste in una “distruzione dialettica” tramite il Witz, i fraintesi e le immagini in movimento che abbattono il mito: «Proprio dopo una tale distruzione questo spazio diventa uno spazio di immagini e concretamente corporeo o anche una “innervazione corporea” della collettività»34. È quindi una prassi che necessita un principio distruttivo, che ha la funzione di sospendere le vecchie strutture per dar adito a possibili modificazioni sociali, prescindendo da mitologie politiche che cadrebbero nella linearità e nell’idealismo della storia della cultura. Il materialismo storico che Benjamin mette in atto con il processo di scrittura e con lo spazio di immagini in cui si muove come soggetto scrivente – l’analogia con la scrittura asistematica di Gramsci è stata ampiamente studiata35 – è anche il principio osservato in Eduard Fuchs come collezionista. Segnalando l’ambivalenza di Fuchs, che come storico è un tradizionalista, Benjamin critica tanto la visione idealizzata della rivoluzione e della tradizione democratica nella Francia ottocentesca quanto la trasformazione della Rivoluzione francese in egemonia – diremmo con terminologia gramsciana36. In Fuchs solo la parte del collezionista, ispirata da intellettuali francesi, porta all’avanguardia del materialismo storico che cam-
33 «Il surrealismo poetico […] si è applicato finora a ristabilire il dialogo nella sua verità assoluta». André Breton, Manifestes du surréalisme, Gallimard, Paris 1967, pp. 37-38 (trad. it. VB). 34 W. Benjamin, Der Surrealismus cit., p. 215 (trad. it. VB). 35 Cfr. Raul Mordenti, Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, Einaudi, Torino 1996, p. 33. Anche le «sfumature» che rendono vaghe le differenze tra generi, come tra note, appunti e scrittura (ivi, p. 62) ricordano la dinamica topografica del Passagenarbeit. 36 «Fuchs resta, tra l’altro, nella tradizione democratica quando tiene in particolar modo alla Francia: alla terra delle tre grandi rivoluzioni, alla patria degli esiliati, all’origine del socialismo utopico, alla patria di Quinet e Michelet, odiatori di tiranni, al suolo dove giacciono i comunardi». W. Benjamin, Eduard Fuchs cit., p. 321 (trad. it. VB).
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bierebbe il concetto di cultura37. L’eredità tedesca dello storico ha invece come conseguenza un moralismo che in Germania nemmeno la psicoanalisi è in grado di eliminare. Ed è per il moralismo “inconscio” che Fuchs dirige la sua critica esclusivamente alla coscienza della borghesia38, sviluppando una concezione revisionistica delle rivoluzioni francesi39. Come storico, Fuchs non riconosce che la coscienza non è decisiva per il fatto storico, ma è la forma di comportarsi dovuta alla posizione assunta nel processo di produzione. Esattamente questo aspetto resta inconscio, mentre invece viene sopravvalutata l’ideologia e idealizzata l’arte usata come legittimazione della situazione politico-sociale dominante40. Anche per Benjamin, un tale assetto è responsabile della relazione mancata tra chi detiene il potere nella vita economica e chi viene sfruttato. Relazione mancata perché tra di loro «si inserisce un apparato di burocrazie giuridiche e amministrative, i cui membri non operano più come soggetti morali completamente responsabili; la loro responsabilità cosciente non è nient’altro che l’espressione inconscia di questa storpiatura»41. Nel concetto di cultura, nel suo essere basato sulla prassi di produzione e sull’esperienza materiale, momenti chiave della filosofia della prassi, riconosciamo la consonanza con Gramsci, per il quale la prassi è alla base della teoria delle contraddizioni esistenti nella società e quindi di quella teoria politica che contrasta l’arte di governo in quanto egemonia su classi subalterne42. Prassi è piuttosto l’espressione della volontà di queste classi di educare sé stesse all’arte di governo. Benjamin è in sintonia per quanto riguarda la relazione tra cultura ed economia, ma con la differenza che l’emancipazione delle cosiddette classi subalterne non fa parte del pensiero benjaminiano, tendente alla critica della società borghese. Benjamin afferma nel Passagenarbeit: «Non la formazione economica della Cfr. ivi, p. 324. Cfr. ivi, p. 326. 39 Abbiamo qui una traccia dell’analogia tra la critica benjaminiana allo storicismo di Fuchs e quella di Gramsci a Croce: «È da vedere se, a suo modo, lo storicismo crociano non sia una forma abilmente mascherata di storia a disegno, come tutte le concezioni liberali riformistiche». A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., p. 1327 [Q 10, § 41]. 40 Cfr. W. Benjamin, Eduard Fuchs cit., p. 326. 41 Ivi, p. 327 (trad. it. VB). 42 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., v. III, p. 1423 [Q 11, § 25]. 37
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cultura, ma l’espressione dell’economia nella sua propria cultura è da descrivere. In altre parole si tratta di provare a captare un processo economico come un chiaro fenomeno primordiale dal quale emanano tutte le apparizioni della vita dei passages e come tali di tutto l’800»43. La cultura non si manifesta come ideologia o Überbau né come tradizione o Spirito, ma nel processo storico-dialettico, mediatizzato dalle condizioni della produzione. In Eduard Fuchs, der Sammler und der Historiker, il collezionista di caricature, dell’arte erotica e dei costumi è visto da Benjamin come un pioniere di un tale materialismo storico. Mentre lo storicismo genera l’immagine eterna di epoche passate, il materialismo storico produce l’esperienza singolare e materiale di ogni passato come genealogia di ogni momento presente: «Mettere in pratica l’esperienza con la storia, che è anche originaria in ogni presente – questo è il compito del materialismo storico»44. Per il soggetto, la differenza rispetto allo storicismo è fondamentale. Mentre lo storicismo agisce sulla coscienza come su un possesso, analogamente al potere del capitale sul lavoro, il materialismo storico apre il soggetto a nuove esperienze e opera quindi a microlivelli. Le consonanze con Gramsci sono qui notevoli. In Passato e Presente, il dissenso di Gramsci rispetto a Benedetto Croce è diretto all’idealismo storicistico dello “Stato-Governo”, la concezione elitaria della cultura e l’incapacità di concepire una società civile45. Uno degli argomenti fondamentali di dissenso è il concetto di «dignità storica» che per Gramsci «solo la lotta, col suo esito, e neanche col suo esito immediato, ma con quello che si manifesta in una permanente vittoria, dirà ciò che è razionale o irrazionale, ciò che è “degno” di vincere perché continua a suo modo e supera il passato»46. Il parallelo tra il dissenso di Gramsci verso Croce e quello di Benjamin verso lo storicismo di Eduard Fuchs dimostra ancora una volta la loro stretta adesione al materialismo storico. Come «fase critica della filosofia»47, il materialismo storico reinterpreta il marxismo come filosofia della praxis, la natura umana come il W. Benjamin, Das Passagen-Werk cit., V/1, p. 573 e sg. (trad. it. VB). W. Benjamin, Eduard Fuchs cit., p. 304. 45 A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., v. II, p. 691 [Q 6, §10]. 46 Ivi, p. 690. 47 Ivi, p. 1069 [Q. 8, § 211]. 43 44
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«complesso dei rapporti sociali»48 e la materia come «socialmente e storicamente organizzata per la produzione» e come facente parte di «un rapporto umano»49. 5. Materialità delle contraddizioni e temporalità del presente Dal disincanto della storia e dal risveglio dai miti storici, nella relazione anche conflittuale tra passato e presente, può nascere una densità percepibile del tempo presente, dissociato dal peso della tradizione e dall’ipoteca del futuro – un presente la cui materialità stimola nuove forme di sensibilità, prassi nuove, un modo di esistenza alternativo. Passato e presente. Come il presente sia una critica del passato, oltre che [e perché] un suo “superamento”. Ma il passato è perciò da gettar via? È da gettar via ciò che il presente ha criticato “intrinsecamente” e quella parte di noi stessi che a ciò corrisponde. Cosa significa ciò? Che noi dobbiamo aver coscienza esatta di questa critica reale e darle un’espressione non solo teorica, ma politica. Cioè dobbiamo essere più aderenti al presente, che noi stessi abbiamo contribuito a creare, avendo coscienza del passato e del suo continuarsi (e rivivere)50.
Per Gramsci, l’aderenza al presente e la trasformazione rispetto al passato si esprimono nella prassi del conflitto e delle mutazioni sul piano sociopolitico, ove la crisi del passato continua a modulare il presente rendendo necessaria una critica costante – o, come direbbe Benjamin, un costante risveglio dai miti passati e presenti. Sia Gramsci che Benjamin individuano l’emergenza del presente nel punto di estremo disincanto rispetto al percorso della storia. Con la crisi del disincanto storico il presente potrebbe fondare una politica come campo di potenzialità e come facoltà di riaprire il corso della storia. È qui che si manifesta anche il comune atteggiamento critico rispetto al marxismo ortodosso. In entrambi, il presente esprime la critica rispetto al culto del progresso e delle sue promesse illusorie51. Per Gramsci e Benjamin la storia universale non è il Ivi, p. 885 [Q. 7, § 35]. Ivi, p. 1442 [Q. 30, § 30]. 50 Ivi, v. I, p. 137 [Q. 1, § 156]. 51 Cfr. Daniel Bensaïd, Qui est le Juge? Pour en finir avec le tribunal de l’Histoire, Fayard, Paris 1999. 48 49
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compimento di un destino né un’essenza, ma un fatto accaduto che potenzialmente avrebbe potuto avere un altro corso. È nello svanire delle promesse storiche che avviene ciò che Benjamin chiama la catastrofe della storia, cioè la condizione in cui si risveglia o nasce un “istante prezioso” a partire da cui tutto ridiventa possibile. Qui emerge la potenzialità di una politica diversa che potrebbe condurre alla triplice crisi del capitalismo contemporaneo: la crisi della storicità moderna, delle strategie di emancipazione e delle teorie critiche52. Il disincanto rende il presente materialmente esperibile e politicamente produttivo quando, con la coscienza della debolezza del sovrano, il conflitto diventa un conflitto di forze tra diverse alternative, osserva Benjamin affermando che compito del principe è evitare lo stato d’eccezione, non certo deciderlo come afferma la teologia politica di Carl Schmitt. Il modello di Benjamin è il sovrano barocco53 che si caratterizza per la malinconia e l’incapacità di decidere. È una malinconia che, secondo l’interpretazione postmoderna dell’allegoria, risulta dall’abisso tra i segni e la realtà e, secondo una lettura politica, è un sintomo del vuoto tra simbolo e potere, tra l’idea e il reale, un vuoto che rende impossibile la decisione di fronte all’estrema crisi dello stato d’eccezione e che potrebbe riaprire il fondamento del politico, ovvero l’indecidibilità dell’Uno per affidare la decisione al conflitto delle parti54. Con l’indecidibilità nel presente della crisi, il tempo viene disconnesso dalla spazialità che invece lo segmenta facendo del presente un semplice intervallo tra passato e futuro. Benjamin elabora più esplicitamente la fenomenologia del presente nel contesto del flâneur. Il tempo del flâneur è rallentato, abbandona la furia del futuro per immergersi nella percezione della Ivi, p. 152. «Se il moderno concetto di sovranità [ovvero quello sostenuto da Schmitt] porta al supremo potere esecutivo da parte del principe, quello barocco si sviluppa sullo sfondo di una discussione sullo stato d’eccezione e implica che una delle principali funzioni del principe sia quello di evitarlo». Walter Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2000, p. 47 (trad. it. VB). 54 Cfr. Ernesto Laclau, Emancipation{s), Verso, London-New York 1996; sulla decisione mancata nel dramma barocco, cfr. Albrecht Koschorke, Das Problem der souveränen Entscheidung im barocken Trauerspiel, in Cornelia Vismann et al. (a cura di), Urteilen / Entscheiden, Fink, München 2006, pp. 175-195. 52 53
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materialità che lo circonda senza consumarla. La metafora della tartaruga, usata varie volte nel Passagenarbeit e nello studio su Baudelaire55, esprime il divenire intenso del presente che si produce nei labirinti della città moderna. Se Parigi rappresenta la modernità del XIX secolo, nel XX è Berlino. Qui, la situazione del flâneur fa sì che si formino nuovi soggetti, come si evidenzia nel saggio Die Wiederkehr des Flaneurs dedicato al libro di Franz Hessel Spazieren in Berlin. Il valore socio-storico della Berlino moderna consiste nel fatto che i passanti hanno lasciato dietro di sé il godimento dell’ozio, precedentemente aristocratico poi divenuto borghese nell’800; gli attori sono invece paragonabili ai “Lumpensammlern”, figure emarginate, poveri nullatenenti, licantropi che vagano «nella socialità selvaggia»56. Con la terminologia di Gramsci, sono figure del proletariato che invadono le città demolendo la predominanza borghese dell’immagine cittadina. Benjamin sottolinea con la socialità selvaggia il principio distruttivo e quindi potenzialmente performativo di questa nuova dimensione urbana. La città diventa impenetrabile alla ragione, si trasforma in una “scena del crimine” – la cui percezione è analizzata più precisamente nel saggio sulla riproducibilità tecnica del 1935 in riferimento alla fotografia di Atget, dove le strade di Parigi sono svuotate dalla presenza di esseri umani. Nelle fotografie, la camera trattiene immagini passeggere e misteriose. Lo choc dell’osservatore della scena arresta le associazioni con il conosciuto57: «L’allontanamento del rivestimento linguistico, che normalmente ricopre l’immagine, e la frantumazione dell’aura sono la segnatura del percepire»58, mentre lo choc del vuoto rende impossi55 «Verso il 1840, il portare a spasso tartarughe appartenne per un certo tempo a un buon stile. Il flaneur si faceva dettare volentieri da loro il proprio ritmo». Walter Benjamin, Charles Baudelaire. Ein Lyriker im Zeitalter des Hochkapitalismus, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1974, p. 52. (trad. it. VB). Cfr. V. Borsò, Baudelaire, Benjamin et la/les modernité/s, «L’année Baudelaire», 8, 2004, pp. 149-172. 56 «Qui [a Berlino] e non a Parigi si capisce come il flaneur abbia potuto allontanarsi dal passeggiatore filosofico acquistando le effigi del lupo mannaro vagante in una socialità selvaggia che Poe ha definito in L’uomo della folla». W. Benjamin, Die Wiederkehr des Flaneurs, in Id., Angelus Novus cit., p. 420 (trad. it. VB). 57 «Sempre più piccola diventa la camera, sempre più pronta a captare immagini passeggere e segrete il cui choc arresta nell’osservatore il meccanismo delle associazioni». Walter Benjamin. Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1979, p. 64 (trad. it. VB). 58 Ivi, p. 58 (trad. it. VB).
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bile il riconoscimento del reale. Facendo eco al carattere distruttivo, Benjamin descrive lo spazio come l’immagine di un appartamento svuotato che non ha ancora nuovi inquilini. L’esperienza dello choc e la disintegrazione dell’aura sono le condizioni che danno peso all’esperienza sensibile (Erfahrung) e, per quello che riguarda il collasso dei miti della storia, Benjamin vede già in Baudelaire il poeta che «dà spazio a un cielo che nel Secondo Impero è pieno di stelle senza atmosfera»59, invocando una presenza sensibile e corporea che fa del presente l’istante aperto all’avvento di potenzialità. Con l’intensità dell’esperienza sensibile il presente si apre a una forma di emancipazione che non deriva da fondamenti ideologici, ma da un risveglio sensibile nelle attività del corpo, nella prassi materiale, nell’esperito. Nel divenire del presente, la qualità evenemenziale cambia il ritmo dell’esperienza corporea generando un campo aperto di possibilità. Il presente è uno spazio in cui una forma diviene tramite pratiche materiali di relazione, che necessita una microanalisi dell’esperito (Benjamin) e della materialità della prassi (Gramsci). Rileggendo Benjamin e Gramsci in questa chiave scopriamo in essi la latenza di un’ontologia del divenire che in ogni singolo soggetto può sollecitare una prassi politica di ri-strutturazione e trasformazione dello spazio del presente e della presenza.
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W. Benjamin, Charles Baudelaire cit., p. 194 (trad. it. VB).
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Charles Baudelaire nell’epoca della rivoluzione passiva: Benjamin e Gramsci1 Dario Gentili
1. Rivoluzione passiva, ieri e oggi Nel 2018 sono ricorsi cinquant’anni dal 1968. È stata un’occasione per fare il bilancio di un’esperienza sociale e politica, che – è opportuno ricordarlo – in alcuni paesi tra cui l’Italia è durata, pur attraversando diverse fasi, un intero decennio. Una buona parte del dibattito che ne è scaturito si è incentrato sull’effettiva valenza rivoluzionaria del movimento del ’682: il ’68 è stato in effetti un moto rivoluzionario, che poi è risultato sconfitto o neutralizzato, oppure con il senno di poi il suo esito più significativo è stato quello di generare una “controrivoluzione” condotta dall’alto3, dalle classi dirigenti, che ha aperto il campo per l’affermazione del cosiddetto neoliberalismo? Per rispondere – e, più in generale, per comprendere la torsione in chiave conservatrice dell’idea di rivoluzione – risulta fondamentale tornare a riflettere sulla categoria di “rivoluzione passiva” di Antonio Gramsci4. 1 Questo saggio è una rielaborazione e un approfondimento di Dario Gentili, Charles Baudelaire im Zeitalter der passiv eitalter der passiven Revolution: Benjamin und Gramsci, in Birgit Wagner, Ingo Pohn-Lauggas (a cura di), Gramsci und Benjamin – Passagen / Gramsci and Benjamin – Bridges, «International Gramsci Journal», 3(4), 2020, pp. 31-44. 2 Cfr. Iaria Bussoni, Nicolas Martino (a cura di), È solo l’inizio. Rifiuto, affetti, creatività nel lungo ’68, ombre corte, Verona 2018. 3 Cfr. Paolo Virno, Do you remember counterrevolution?, in Id., Michael Hardt (a cura di), Radical Thought in Italy: A Potential Politics, University of Minneapolis Press, Minneapolis-London 1996, pp. 241-259. 4 Per un’analisi puntuale ed esaustiva della categoria di “rivoluzione passiva” in Gramsci, cfr. Marcello Mustè, Rivoluzioni passive. Il mondo tra le due guerre nei Quaderni del carcere di Gramsci, Viella, Roma 2022.
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Nel Quaderno 8, Gramsci definisce “rivoluzione passiva” quella dinamica secondo cui, in una determinata congiuntura storica, “il progresso” non procede dall’“iniziativa popolare”, bensì rappresenta una «reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico e disorganico delle masse popolari con “restaurazioni” che accolgono una qualche parte delle esigenze popolari, quindi “restaurazioni progressive” o “rivoluzioni-restaurazioni” o anche “rivoluzioni passive”»5. Gramsci utilizza la categoria di “rivoluzione passiva” per interpretare gli eventi storici e politici del XIX secolo, in particolare del Risorgimento italiano; a proposito di Gioberti e dei teorici della rivoluzione passiva, Gramsci riscontra in essi «l’espressione pratica delle necessità della “tesi” di sviluppare tutta se stessa, fino al punto di riuscire a incorporare una parte dell’antitesi stessa, per non lasciarsi “superare”, cioè nell’opposizione dialettica solo la tesi in realtà sviluppa tutte le sue possibilità di lotta, fino ad accaparrarsi i sedicenti rappresentanti dell’antitesi: proprio in questo consiste la rivoluzione passiva o rivoluzione-restaurazione»6. In entrambe le definizioni, è solo una parte, una “qualche parte” delle istanze sovversive della classe subalterna a essere catturata e neutralizzata. C’è un resto, un residuo. Gramsci si chiede in diversi punti dei Quaderni se questa categoria possa servire anche all’interpretazione di fenomeni che si verificano nel periodo successivo. Nel Quaderno 22, Americanismo e fordismo, Gramsci pone infatti la questione «se l’americanismo possa costituire un’“epoca” storica, se cioè possa determinare uno svolgimento graduale del tipo, altrove esaminato, delle “rivoluzioni passive” proprie del secolo scorso o se invece rappresenti solo l’accumularsi molecolare di elementi destinati a produrre un’“esplosione”, cioè un rivolgimento di tipo francese»7. Oggi si sarebbe propensi a dire che l’americanismo, quale forma di regolamentazione sociale, e il fordismo, quale modo di produzione capitalistico, si sono rivelati effettivamente una “rivoluzione passiva”, non avendo condotto in Occidente – al culmine del loro sviluppo – all’esito di un’“esplosione” quale fu la Rivoluzione francese. 5 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 2001, v. II, p. 957 [Q 7, 25]. 6 Ivi, v. III, p. 1768 [Q 15, 11]. 7 Ivi, v. III, p. 2140 [Q 22, 1].
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Per dirimere la questione se l’americanismo rappresenti un’epoca di rivoluzione passiva, è necessario guardare più da vicino agli eventi all’interno di quell’epoca da cui Gramsci ha tratto gli elementi per la definizione di “rivoluzione passiva”. Bisogna risalire al “sovversivismo sporadico e disorganico delle masse popolari” nel corso della seconda metà dell’Ottocento, individuando inoltre quali “esigenze popolari” esso abbia accolto, affinché la restaurazione dell’ordine avesse la cifra del progresso. In tal senso, il grande affresco che Walter Benjamin fornisce della Parigi capitale del XIX secolo, delineato a partire dalla figura di Charles Baudelaire, può fornire alcuni elementi significativi, soprattutto per comprendere in che modo l’americanismo abbia attecchito nella metropoli parigina all’indomani della fase rivoluzionaria culminata nel 1848. Benjamin infatti rintraccia, nelle forme di vita metropolitane parigine che hanno caratterizzato la restaurazione post-rivoluzionaria, il prefigurarsi di quell’“adattamento psico-fisico” che invece per Gramsci è stato il fordismo quale modo di produzione a produrre a partire dall’inizio del Novecento. Quella di Benjamin può essere considerata una modifica e un’integrazione della concezione gramsciana della rivoluzione passiva, ponendo una precedenza e un’autonomia del mutamento antropologico e delle forme di vita – egli intravede infatti già nella condotta di Baudelaire una forma di americanismo – rispetto alla sua cattura all’interno del modo di produzione capitalistico di tipo fordista. Benjamin tuttavia, soprattutto negli appunti del Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato più che in Di alcuni motivi in Baudelaire, sembra a tratti addirittura cogliere, nell’Hochkapitalismus della Parigi del XIX secolo, la preistoria del lavoro intellettuale di epoca post-fordista8. Del resto, diversa è l’esperienza del mondo del lavoro che hanno Gramsci e Benjamin: per il primo è quella della Torino 8 Per comprendere la situazione del tutto peculiare in cui si trova Parigi dopo il 1848, è fondamentale considerare la congiuntura economica, che precedette la rivoluzione industriale in Francia, anticipando piuttosto alcuni tratti del capitalismo post-fordista: Parigi diventa un grande mercato internazionale per l’enorme quantità di merci che vi convergono, essendo lo snodo principale della rete ferroviaria in pieno sviluppo; il surplus di capitale che ne deriva viene sia investito nella rivoluzione urbanistica di Haussmann (chiamata anche a risolvere una disoccupazione di massa) sia è oggetto di speculazione con la creazione di banche di credito. Cfr. David Harvey, Paris, Capital of Modernity, Routledge, New York-London 2006.
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in pieno sviluppo fordista, per il secondo è quella del precariato intellettuale del lavoro a commissione nella Parigi degli anni Trenta.
2. La rivoluzione passiva nell’Ottocento: Parigi, la bohème, la flânerie, Baudelaire La categoria di “rivoluzione passiva” è utilizzata da Gramsci soprattutto per l’analisi della storia italiana, in particolare per il Risorgimento. Tuttavia, è attraverso il confronto con gli eventi nella Francia del XIX secolo che egli arriva alla sua definizione. Pertanto, potrebbe essere estremamente interessante considerare se Benjamin riconosce, nella Parigi dell’epoca, fenomeni che possono in qualche modo essere ricondotti alle dinamiche della rivoluzione passiva. L’analisi di Benjamin si concentra sulla forma di vita che si è configurata in seguito alla fase rivoluzionaria “esplosiva” della prima metà del secolo. A partire dalla sconfitta proletaria del 1848, si avvia, per usare l’espressione di Marx, la fase della “controrivoluzione”, culminante nel colpo di Stato di Luigi Bonaparte e nell’istaurarsi del Secondo Impero. Nell’archeologia della Parigi del XIX secolo che ha delineato, adoperando come cartina di tornasole la vita e l’opera di Baudelaire, Benjamin ha visto questa forma di vita emergere ed essere poi catturata e messa al lavoro all’interno di una nuova fase del capitalismo, da lui definita “avanzata”, che di tale forma di vita ha fatto poi il suo prototipo. Questa forma di vita consiste in una serie di figure quali il flâneur, il bohémien, l’ozioso, il cospiratore di professione, il giocatore, il nottambulo, il detective, lo straccivendolo, la prostituta, il poeta, l’artista. Si tratta di quella bohème nei cui confronti Marx esprime un giudizio molto severo – “schiuma di tutte le classi” – poiché riconosce in essa un’ambiguità di fondo, che la rende sensibile alle lusinghe del potere in quanto è irriducibile all’appartenenza di classe: Accanto a roués in dissesto, dalle risorse e dalle origini equivoche; accanto ad avventurieri corrotti, feccia della borghesia, vi si trovavano vagabondi, soldati in congedo, forzati usciti dal bagno, galeotti evasi, birbe, furfanti, lazzaroni, tagliaborse, ciurmatori, bari, maquereaus, tenitori di postriboli, facchini, letterati, sonatori ambulanti, straccivendoli, arrotini, stagnini, accattoni, in una parola, tutta la massa confusa, decomposta, fluttuante, che i francesi chiamano 132
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la “bohème”. […] Questo Bonaparte – che si erige a capo del sottoproletariato; che soltanto in questo ambiente ritrova in forma di massa gli interessi da lui personalmente perseguiti, che in questo rifiuto, in questa feccia, in questa schiuma di tutte le classi riconosce la sola classe su cui egli si può appoggiare senza riserve – è il vero Bonaparte, il Bonaparte sans phrase9.
Ma la bohème nemmeno trova patria nei ranghi di quello che è l’esito fondamentale della rivoluzione borghese: la cittadinanza. Insomma, non è soggettivabile né all’interno del popolo né della classe; la folla delle metropoli ottocentesche finirà piuttosto per configurare quella massa sensibile ai richiami all’unità del popolo del nazi-fascismo: «La “folla” di cui si pasce il flâneur è lo stampo in cui settant’anni dopo fu forgiata la comunità di popolo nella quale i conflitti di classe, come si suol dire, sono superati»10. Per Gramsci, d’altro canto, la bohème corrisponde a quelle «sedimentazioni vischiosamente parassitarie»11 che rappresentano un ostacolo all’innestarsi dell’americanismo all’interno del sistema produttivo europeo. Anche Benjamin evidenzia il carattere altamente improduttivo di questa forma di vita al suo apparire nella metropoli, quando il flâneur è di casa nei passages di Parigi: Nella Parigi di Baudelaire […] esistevano ancora i passages, in cui il flâneur era sottratto alla vista dei veicoli che non ammettono la concorrenza del pedone. Vi era il passante che si incunea nella folla, e vi era ancora il flâneur, che ha bisogno di spazio e non vuole rinunciare alla sua vita privata. Quest’ultimo se ne va oziando, come una personalità; così protesta contro la divisione del lavoro che trasforma gli uomini in specialisti. Protesta anche contro la loro laboriosità. Intorno al 1840 andò per qualche tempo di moda portare a spasso nei passages tartarughe al guinzaglio. Da loro, il flâneur si faceva volentieri dettare il ritmo. Fosse dipeso dalla sua volontà, il progresso avrebbe dovuto tenere questo passo12.
Di lì a qualche decennio sarà il fordismo a stabilire il ritmo del progresso: «Ma [il flâneur] non ebbe l’ultima parola. L’ebbe invece
9 Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852), Editori Riuniti, Roma 2006, pp. 87-88. 10 Walter Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, a cura di G. Agamben, B. Chitussi, C.-C. Härle, Neri Pozza, Vicenza 2012, p. 850. 11 A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., v. III, p. 2145 [Q 22, 2]. 12 W. Benjamin, Charles Baudelaire cit., pp. 671-672.
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Taylor, il cui slogan divenne “Abbasso la flânerie”»13. Ecco come, per Benjamin, si compie la metamorfosi e questa forma di vita – che nasce fuori dal mercato – diventa una merce tra le altre e viene messa al lavoro e a valore: In tali condizioni […] il gesto della flânerie diventa insensato per la libera intellighenzia e perde quindi ogni significato. Ora il tipo del flâneur per così dire si rimpicciolisce, come se una fata cattiva lo avesse toccato con la bacchetta magica. Alla fine di questo processo di rimpicciolimento sta l’uomo sandwich: qui l’immedesimazione nella merce è compiuta. Il flâneur ora è davvero nei panni della merce. Egli adesso va a passeggio a pagamento e la sua ispezione del mercato è diventata, da un giorno all’altro, un lavoro14.
Per Benjamin, piuttosto che essere un ostacolo all’affermarsi dell’americanismo, l’improduttività delle forme di vita bohémienne scaturite dalla rivoluzione del 1848 ha rappresentato per il capitalismo un’opportunità per la messa a valore e a profitto degli stili di vita metropolitani. In effetti, Benjamin coglie con straordinario acume che, nella Parigi del XIX secolo, la metropoli diventa fabbrica, ovvero diventa lo spazio privilegiato per l’estrazione del valore. Come più volte scrive, lo spazio labirintico della metropoli assume ovunque la funzione del mercato: «Il labirinto è la via giusta per chi arriverà comunque in tempo alla meta. Questa meta per il flâneur è il mercato»15. In tal modo, il mercato fornisce al flâneur e allo stesso Baudelaire la possibilità di vedersi riconosciuta e valorizzata la propria individualità, altrimenti annullata nella classe o nella cittadinanza. Per Benjamin, Baudelaire è infatti il “prototipo” per eccellenza dell’individuo per come andrà a configurarsi nell’epoca delle masse, quando lo “stile di vita” diventa tutt’uno con la produzione artistica. Anzi, perché la sua poesia possa avere mercato, è la stessa vita di Baudelaire a dover diventare la merce da promuovere. Nel fare del proprio stile di vita una merce da poter riprodurre in serie consiste quell’americanismo che Benjamin riscontra già in Baudelaire: «L’articolo di massa stava di fronte agli occhi di Baudelaire come un modello. È questo il fondamento più solido del suo “americaniIvi, p. 672. Ivi, p. 903. 15 W. Benjamin, I «passages» di Parigi, in Id., Opere complete, a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2000, v. IX, p. 368. 13 14
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smo”»16. Il suo stile di vita da dandy è allora il potenziamento della sua individualità, di quella individualità che deve distinguersi dalla folla uniforme. Ma ciò accade non contro l’affermarsi della società di massa, bensì in virtù di essa. Il mercato è quell’ambito in cui l’individuo ha l’opportunità di emergere e distinguersi dalla massa. Da una parte – come ha sostenuto Marx nell’analisi del bonapartismo – il capo carismatico, dall’altra il mercato: queste sono le lusinghe a cui è sensibile l’individuo nella folla metropolitana e nella società di massa. Questa dinamica rintracciata da Benjamin nella Parigi del XIX secolo – in seguito alla sconfitta della rivoluzione potenzialmente “esplosiva” del 1848, quando Baudelaire era dalla stessa parte della barricata con il proletariato e con Louis-Auguste Blanqui che ne era il leader – la si può riscontrare, pur con le dovute distinzioni, anche oggi, poiché riguarda la capacità del capitalismo di estrarre valore dalla mercificazione delle forme di vita. L’espressione con cui Benjamin ne definisce l’atteggiamento – il suo essere divenuto “impresario di sé stesso” – assomiglia in modo tutt’altro che casuale a quell’“imprenditore di sé stesso” con cui Michel Foucault definisce l’individualità messa a mercato e a profitto in epoca neoliberale17: Non vi è alcuna approfondita analisi di Baudelaire che possa trascurare di confrontarsi con l’immagine della sua vita. In verità, tale immagine è determinata dal fatto che egli si è accorto per primo e nella maniera più feconda di conseguenze che la borghesia era in procinto di ritirare la sua commissione al poeta. Quale commissione sociale poteva prendere il suo posto? Non lo si poteva domandare a nessuna classe; si poteva al massimo dedurlo dal mercato e dalle sue crisi. […] Ma il medio del mercato, in cui si dava a conoscere, determinava un modo di produzione e anche un modo di vita che differivano di molto da quelli dei poeti di un tempo. Baudelaire era costretto a pretendere la dignità del poeta in una società che non aveva da assegnare dignità di sorta. […] In Baudelaire il poeta segnala per la prima volta un valore di esposizione. Baudelaire è stato l’impresario di se stesso18.
W. Benjamin, Charles Baudelaire cit., p. 593. Cfr. Michel Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (19781979), Feltrinelli, Milano 2005. Ho approfondito la figura benjaminiana di Baudelaire in quanto prototipo intellettuale del neoliberale “imprenditore di sé stesso” in D. Gentili, Cosmo e individuo. Per una genealogia del lavoro intellettuale in epoca neoliberale, «aut aut», 365, 2015, pp. 21-36. 18 W. Benjamin, Charles Baudelaire cit., pp. 576-577. 16 17
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Il “valore di esposizione” – che proprio allora per Benjamin comincia a prevalere sul “valore cultuale” dell’opera d’arte auratica19 – entra così nel mercato capitalista e qui trova il suo ambito peculiare di valorizzazione. È stato insomma Baudelaire per la prima volta a conferire alla propria vita un valore di esposizione, ad avere «l’idea di un’originalità dettata dal mercato»20; ben prima quindi che oggi ciò diventasse per chiunque la prerogativa del regime di visibilità e di autopromozione sui social media e non solo. È lo stile di vita l’ultimo avamposto dell’individualità nella società globalizzata, ed è il mercato a stabilire il successo o meno – e a quale prezzo – della sua aspirazione a distinguersi dalla massa. 3. Adattamento psico-fisico Se, a differenza di Gramsci, Benjamin ben comprende che l’elemento “progressivo” della rivoluzione passiva dell’americanismo consiste nel rendere produttive le forme di vita metropolitane, entrambi tuttavia concordano pienamente sul fatto che la peculiarità dell’americanismo consiste nel richiedere un generale “adattamento psico-fisico” al nuovo sistema di produzione. Ma se per Benjamin l’“adattamento psico-fisico” è stato già sollecitato dalla vita nelle metropoli della seconda metà dell’Ottocento, tanto che la metropoli è stata una sorta di palestra per il successivo adattamento ai ritmi produttivi della fabbrica fordista, per Gramsci accade il contrario: è il sistema industriale fordista a richiedere un “adattamento psico-fisico”, che trova poi nella metropoli il suo ambiente di vita. E tuttavia, per entrambi il fordismo necessita dell’elaborazione di un nuovo tipo umano: In America la razionalizzazione ha determinato la necessità di elaborare un nuovo tipo umano, conforme al nuovo tipo di lavoro e di processo produttivo: questa elaborazione finora è solo nella fase iniziale e perciò (apparente19 Si tratta della diade dialettica che Benjamin tematizza in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, a cura di F. Desideri e M. Montanelli, Donzelli, Roma 2019. Su questo aspetto, cfr. Marina Montanelli, Massimo Palma (a cura di), Tecniche di esposizione. Walter Benjamin e la riproduzione dell’opera d’arte, Quodlibet, Macerata 2016. 20 W. Benjamin, Charles Baudelaire cit., p. 576.
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mente) idillica. È ancora la fase dell’adattamento psico-fisico alla nuova struttura industriale, ricercata attraverso gli alti salari; non si è verificata ancora (prima della crisi del 1929), se non sporadicamente, forse, alcuna fioritura “superstrutturale”, cioè non è ancora stata posta la quistione fondamentale dell’egemonia21.
Tale adattamento necessita di addestramento e “tirocinio” costanti, affinché un tale disciplinamento forzato e “non naturale” possa via via essere percepito dal lavoratore come uno stile di vita volontariamente perseguito e quindi “naturale”: «la vita nell’industria domanda un tirocinio generale, un processo di adattamento psico-fisico a determinate condizioni di lavoro, di nutrizione, di abitazione, di costumi ecc. che non è qualcosa di innato, di “naturale”, ma domanda di essere acquisito»22. L’egemonia dell’americanismo giunge infine a realizzarsi nel momento in cui tale disciplinamento assume la sua dimensione “superstrutturale”, diventa cioè un’auto-coazione e un auto-disciplinamento per conformarsi a uno stile di vita generale e diffuso: l’uomo nuovo risulta pertanto essere l’esito di un processo di tipizzazione23. Questo medesimo processo di tipizzazione Benjamin lo vede all’opera nello spazio metropolitano, è qui – sul piano superstrutturale prima che su quello strutturale del fordismo – che si afferma l’egemonia dell’americanismo. È qui infatti che l’adattamento psico-fisico trova la motivazione per farsi auto-disciplinamento; tale motivazione è il godimento che promette il mercato: Nel momento in cui l’uomo, come forza lavoro, è merce, non ha certo bisogno di mettersi deliberatamente al posto della merce. Quanto più prende coscienza del fatto che questo suo modo d’essere gli è imposto dal sistema produttivo – quanto più si proletarizza –, tanto più lo attraversa l’alito gelido dell’economia mercantile, tanto meno gli capiterà di immedesimarsi nella merce. Ma la classe dei piccolo borghesi cui apparteneva Baudelaire non era ancora arrivata a questo punto. Aveva solo iniziato la discesa dalla scala gerarchica di cui stiamo parlando. Molti suoi membri si sarebbero inevitabilmente accorti, un giorno, della natura di merce della loro forza lavoro. Ma quel giorno non era ancora giunto. Fino ad allora essi potevano, se si può dir così, far passare il tempo. Che frattanto potessero, nel migliore dei casi, A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., v. III, p. 2146 [Q 22, 2]. Ivi, v. III, p. 2149 [Q 22, 3]. 23 Cfr. Michele Filippini, Una politica di massa. Antonio Gramsci e la rivoluzione della società, Carocci, Roma 2015, pp. 151-185. 21 22
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prendere parte al godimento, ma mai al potere, rendeva la dilazione concessa loro dalla storia materia di passatempo24.
È sulla base di questa considerazione che Benjamin vede l’analogia tra l’abitante della grande metropoli della seconda metà dell’Ottocento e l’operaio della fabbrica fordista del Novecento. Se per l’operaio della fabbrica fordista la motivazione all’auto-disciplinamento proviene dagli alti salari, per gli individui della folla metropolitana essa viene dallo spettacolo della merce – in entrambi i casi agisce una promessa di godimento: quella che deriva dalla maggiore disponibilità di denaro per il consumo e quella narcisistica di potersi esporre sulla grande vetrina del mercato. E sono proprio le forme di vita improduttive, e quindi potenzialmente sovversive per il sistema capitalistico (il flâneur, il bohémien, Baudelaire), che fioriscono nella metropoli, a rappresentare per Benjamin il punto di vista privilegiato per afferrare i dispositivi di cattura e di disciplinamento di ciò che egli chiama Hochkapitalismus. È pertanto la stessa metropoli a essere la palestra per l’adattamento psico-fisico all’americanismo. Nella Parigi di Baudelaire, Benjamin coglie le primissime manifestazioni di un fenomeno già entrato a regime nella Londra “americanizzata” di L’uomo della folla di Edgar Allan Poe e ormai perfezionato nelle metropoli del suo tempo: L’operaio non specializzato è quello più profondamente degradato dal tirocinio della macchina. Il suo lavoro è impermeabile all’esperienza. L’esercizio non vi ha più alcun diritto. […] Il testo di Poe rende evidente il rapporto tra sfrenatezza e disciplina. I suoi passanti si comportano come se, adattati ad automi, non potessero più esprimersi che in modo automatico. Il loro comportamento è una reazione a shock. […] All’esperienza vissuta dello shock fatta dal passante nella folla corrisponde quella dell’operaio addetto alle macchine. Ciò non autorizza ancora a supporre che Poe abbia avuto un concetto del processo di lavoro industriale. In ogni caso Baudelaire era lontanissimo da un concetto simile. Ma egli è stato affascinato da un processo dove il meccanismo riflesso che la macchina mette in moto nell’operaio si può studiare nell’ozioso come in uno specchio25.
W. Benjamin, Charles Baudelaire cit., pp. 675-676. Walter Benjamin, Su alcuni motivi in Baudelaire, in Id., Opere complete. Scritti 1938-1940, a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Einaudi, Torino 2006, vol. VII, pp. 398-399. 24 25
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4. Americanismo e fascismo L’analisi dei moti rivoluzionari nella Francia dell’Ottocento da cui Gramsci e Benjamin traggono entrambi gli elementi per leggere la loro contemporaneità – gli anni Venti e Trenta del Novecento – pare già una buona base di partenza per legittimare un confronto. Per aggiungere un ulteriore elemento che ne rafforzi le ragioni, non bisogna dimenticare che sia Benjamin sia Gramsci sono due attenti lettori di Der achzehnte Brumaire des Louis Bonaparte di Marx, nella cui analisi del bonapartismo entrambi trovano una chiave di lettura per interpretare la propria epoca. Entrambi riscontrano cioè nell’analisi marxiana del bonapartismo – di cui sarei propenso a rintracciare alcuni tratti negli attuali “populismi”26 – aspetti che si ritrovano nell’affermarsi dei fascismi in Europa all’interno della congiuntura economica della crisi del 1929. Per Gramsci, ciò è evidente nella definizione di “crisi non organica”, ovvero nella declinazione autoritaria – l’ingresso sulla scena politica del “capo carismatico” – che assume la “crisi organica” nel momento in cui “il partito unico” (il “partito dell’ordine”, per dirla con Marx), «che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell’intiera classe»27, non è in grado di far fronte e governare da sé la crisi economica28. Sulla scorta della sua lettura del 18 brumaio di Marx e delle vicende della Francia post 1848, insieme all’americanismo, Gramsci prende in considerazione un altro fenomeno novecentesco a cui poter applicare la categoria di “rivoluzione passiva”, il fascismo: «Può avere questa trattazione [delle rivoluzioni passive che non possono giustificarsi e comprendersi senza la Rivoluzione francese, che è stata un evento europeo e mondiale e non solo francese] un riferimento attuale? Un nuovo “liberalismo”, nelle condizioni moderne, non sarebbe poi precisamente il “fascismo”? Non sarebbe il fascismo precisamente la forma di “rivoluzione passiva” propria del secolo XX come il liberalismo lo è stato del secolo XIX?»29. Non fu il fa26 Cfr. Martin Beck, Ingo Stützle (a cura di), Die neuen Bonapartisten. Mit Marx den Aufstieg von Trump & Co. verstehen, Dietz, Berlin 2018; Francesca Antonini, Caesarism and Bonapartism in Gramsci: Hegemony and the Crisis of Modernity, Brill, Leiden 2021. 27 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., v. III, pp. 1603-1604 [Q 13, 23]. 28 Sul nesso tra crisi economica e crisi politica nella concezione gramsciana della crisi, cfr. Dario Gentili, Crisi come arte di governo, Quodlibet, Macerata 2022², pp. 71-75. 29 A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., v. II, pp. 1088-1089 [Q 8, 236].
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scismo a rappresentare il “nuovo liberalismo” che sarebbe dovuto emergere dalla crisi irreversibile del liberalismo classico in seguito al crollo di Wall Street del 1929; vale però la pena ricordare che, qualche anno dopo (1937), ebbe luogo il Colloquio Lippmann, che gettò le basi per lo sviluppo diversi decenni dopo del neoliberalismo30. Seppur concepita nel contesto dell’Ottocento europeo, Gramsci non intende limitare l’utilizzo della categoria di “rivoluzione passiva” a una determinata congiuntura storica; avanza invece l’ipotesi che possa essere una categoria da poter applicare anche a epoche e a contesti storici differenti, in quanto affermazione di un’idea di rivoluzione alternativa al paradigma della Rivoluzione francese, ovvero una rivoluzione promossa dalle classi dominanti. È tale per Gramsci il fascismo, che definisce come “nuovo liberalismo”, in quanto svolge la funzione che ebbe il liberalismo – in seguito alla Rivoluzione francese – per restaurare e rinnovare, come sostiene lo stesso Marx in Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte analizzando le “rivoluzioni borghesi” del XIX secolo, l’egemonia di classe. Per certi versi tali sono – rivoluzioni borghesi – fascismo e nazismo per Benjamin. Importante è capire se americanismo e fascismo possano eventualmente rappresentare due fenomeni distinti di rivoluzione passiva oppure se convergano nel determinare un fenomeno unitario. 5. Rivoluzione passiva oggi Per concludere, l’americanismo è sia per Benjamin che per Gramsci una rivoluzione passiva – questa è la risposta alla questione posta da Gramsci. Ma non solo per la sua capacità di catturare istanze e forme di vita che si producono nei fermenti rivoluzionari che lo hanno preceduto, ma anche perché, seppur nella capacità di adattamento messa all’opera nella rivoluzione passiva, si manifesta un residuo, la persistenza di una potenza rivoluzionaria. Questa potenza ancora informe e indeterminata – a cui l’americanismo dà forma sia per governarla che per renderla produttiva – Gramsci la definisce “animalità”: «La storia dell’industrialismo è sempre stata (e lo diventa oggi in una forma più accentuata e rigorosa) una continua lotta contro l’elemento “animalità” dell’uomo, un processo ininterrotto, spesso doloroso 30
Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica cit.
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e sanguinoso, di soggiogamento degli istinti (naturali, cioè animaleschi e primitivi) a sempre nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione che rendano possibili le forme sempre più complesse di vita collettiva che sono la conseguenza necessaria dello sviluppo dell’industrialismo»31. Gramsci porta ad esempio il proibizionismo e la “crisi del libertinismo”; crisi del libertinismo che, secondo Benjamin, lo stesso Baudelaire presagì, vedendo la sua pulsione al godimento costantemente delusa da quel mercato che prometteva il godimento per poi lasciarlo frustrato: «egli immagina il giorno in cui anche le donne perdute, le reiette, si pronunceranno per una condotta regolata, condanneranno il libertinaggio e non ammetteranno più nulla che non sia il denaro»32. Tuttavia, per Gramsci e per Benjamin, è nel sottrarre all’americanismo l’iniziativa sull’antropogenesi dell’uomo nuovo, è nell’orientare inversamente rispetto all’adattamento questa medesima potenza umana di dar forma alla propria vita che ancora è custodita la chance rivoluzionaria. Gramsci lo sostiene chiaramente: «Non è dai gruppi sociali “condannati” dal nuovo ordine che si può attendere la ricostruzione, ma da quelli che stanno creando, per imposizione e con la propria sofferenza, le basi materiali di questo nuovo ordine: essi “devono” trovare il sistema di vita “originale” e non di marca americana, per far diventare “libertà” ciò che oggi è “necessità”»33. Ciò vale per la rivoluzione passiva dell’Ottocento, per quella dell’americanismo e nondimeno, oggi, per quella neoliberale. Avendo però ben presente che, nel passato, ognuna di queste rivoluzioni passive del sistema capitalistico di produzione si è accompagnata in politica a una complementare rivoluzione passiva di stampo autoritario. È infatti questa articolazione “non organica” della “crisi organica” che bisogna riscontrare nei neo-populismi e nei neo-sovranismi, che – invece di rappresentare una risposta alla crisi economica iniziata nel 2007-2008 (e ancora in corso) e un’alternativa politica al neoliberalismo – svolgono piuttosto una funzione interna alla conservazione dei rapporti di forza vigenti. È il caso di porsi la questione se attualmente – in un’epoca di crisi diffusa (sociale, economica, ambientale, culturale) sempre meno A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., v. III, pp. 2160-2161 [Q 22, 10]. W. Benjamin, Su alcuni motivi in Baudelaire cit., p. 415. 33 A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., v. III, p. 2179 [Q 22, 15]. 31 32
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governabile dall’ordine capitalistico – stia venendo meno la capacità di persuasione del “progresso”, la cui «dialettica di conservazione e innovazione»34, a partire dall’affermazione dell’egemonia borghese, secondo Gramsci ha sostenuto – e credo ancora sostenga – ogni forma di “rivoluzione passiva”. Eppure, già a suo tempo, Gramsci ne diagnosticava la crisi, non tanto della «fede di dominare razionalmente la natura e il caso» quanto piuttosto denunciava che «i “portatori” ufficiali del progresso sono divenuti incapaci di questo dominio, perché hanno suscitato forze distruttive attuali altrettanto pericolose e angosciose di quelle del passato»35. Non è da meno Benjamin, anzi. Dopo aver analizzato il sorgere dell’idea di progresso nella Parigi di Baudelaire, allo scoppio della Seconda guerra mondiale non solo ne critica fermamente i “portatori ufficiali” – quei «politici nei quali avevano sperato gli oppositori del fascismo», la loro «ottusa fede […] nel progresso, il loro confidare nella loro “base di massa”, e infine il loro servile inquadramento in un apparato incontrollabile»36 – ma denuncia l’insostenibilità dell’idea stessa: «Il concetto di progresso va fondato nell’idea della catastrofe»37. Chissà se quella catastrofe scampata allora grazie alla “iniziativa popolare” – senz’altro alla fine della Seconda guerra mondiale, ma altrettanto si potrebbe sostenere per la crisi del fordismo negli anni Settanta – non stia tornando all’ordine del giorno proprio oggi, al tramonto dell’epoca del progresso e magari anche delle rivoluzioni passive.
Ivi, v. II, p. 1325 [Q 10, 41]. Ivi, v. II, pp. 1335-1336 [Q10, 48]. 36 Walter Benjamin, Sul concetto di storia (1940), a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, pp. 37-39. 37 W. Benjamin, I «passages» di Parigi cit., p. 531. 34 35
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3. Modi capitalistici di produzione e produzione di soggettività
Note su arte, tecnica e politica: da Gramsci a Benjamin Massimiliano Tomba
1. Intensificazioni Arte e tecnica. È su questo nesso che Benjamin si interroga negli anni Trenta. Più precisamente, l’oggetto della sua indagine è il rapporto tra arte, liquidazione dell’aura e riproducibilità tecnica. La sua analisi è motivata dalle implicazioni politiche racchiuse in quel nesso. Nelle note per la prima edizione allo scritto sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, scrive: «I mutamenti dei modi di esposizione attraverso la riproduzione tecnica si fanno sentire anche nella politica»1. L’attenzione di Benjamin ricade primariamente sulle modificazioni della appercezione prodotte da fotografia, radio e cinema. Queste innovazioni tecniche hanno non solo reso l’oggetto artistico riproducibile ma, al tempo stesso, hanno anche dato luogo a una sorta di fruizione collettiva. Non solo, anche la produzione artistica, come è il caso della cinematografia, non può più essere considerata un prodotto individuale, ma il risultato di una produzione industriale organizzata secondo i moderni criteri della divisione del lavoro. L’attore è diventato uno strumento. Un mezzo sostituibile. È quanto Bertolt Brecht aveva rappresentato nel 1926 in Man ist Man. Al centro della trama di questo pezzo teatrale c’è la trasformazione di un uomo, Galy Gay, in un altro uomo. Un’operazione niente affatto complicata, perché «un uomo vale l’altro. Un uomo è un uomo», «Un uomo, lo si può rifare a volontà»2. La rappresentazione teatrale di Brecht, non 1 Walter Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, in Id., Kritische Gesamtausgabe, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2012, vol. 16, p. 12. 2 Bertolt Brecht, Teatro, Einaudi, Torino 1963, vol. 1, pp. 348-349.
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massimiliano tomba
solo nel contenuto ma anche e soprattutto nella forma, può essere intesa come un tentativo di portare a esperienza cosciente modificazioni tecniche ed economiche che rendono l’individuo fungibile ed equiparabile a una macchina. Non per salvare l’individuo. Ma per riconfigurarlo in relazione al collettivo. E non solo al collettivo. Il cinema aveva mostrato come la materia, ad esempio una pioggia o un orologio, recita accanto all’attore. Si tratta di questioni ancora aperte. Si potrebbe dire che l’umanità sta ancora cercando di fare i conti con modificazioni tecniche che devono essere portate alla coscienza e governate. Ai giorni nostri, il cosiddetto neomaterialismo ha esteso la nozione di “agency” al non umano. Ma in questa estensione della nozione di agency, il neomaterialismo non fa altro che riflettere in modo acritico l’insignificanza della agency umana, che, proprio perché insignificante, può essere estesa a ogni essere, vivente e non. Il rapporto, o l’integrazione tra la tecnica e l’organico, è stata celebrata nel mito del cyborg. Questo segnerebbe la fine dell’“uomo” e l’inizio di una nuova politica. Questa nuova politica si presenta oggi con caratteri analoghi a quelli che è possibile ritrovare nel cinema. Il politico cessa di parlare a una camera di deputati e senatori e si rivolge invece direttamente alla telecamera. I suoi interlocutori non sono i rappresentanti eletti, ma la audience televisiva e i social media. Così come la fungibilità dell’attore ha generato per compensazione la star, allo stesso modo la fungibilità del politico ha generato il leader autoritario. Ai giorni nostri, l’analogia tra i due campi si palesa nel numero sempre crescente di passaggi di personale dal mondo dello spettacolo a quello della politica. Si tratta ora di indagare queste modificazioni della tecnica e della politica come un campo di possibilità. Per indagare questo campo di possibilità è utile allargare lo sguardo. Esso ha una storia che va indagata a partire dalle analisi dei grandi mutamenti prodotti dalla tecnica della produzione di massa già all’inizio del XX secolo. È possibile prendere le mosse da alcuni personaggi concettuali. Questi possono essere, per iniziare, Ernst Jünger, Theodor Adorno e Antonio Gramsci. Nel 1932, Jünger pubblica Der Arbeiter. In un paragrafo in cui si confronta con la fine della nozione classica di individuo, Jünger scrive: «Quanto più l’individualità si dissolve, tanto più diminuisce l’opposizione del singolo alla propria mobilitazione»3. Il grado di 3
Ernst Jünger, L’operaio. Dominio e forma, Guanda, Parma 1995, p. 134.
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intensificazione e massificazione raggiunto dal lavoro ha reso sostituibile non solo il singolo lavoratore, ormai assimilabile al milite ignoto o al soldato anonimo, ma il tipo umano tradizionale per il quale «le regole del XIX secolo, e in particolare quelle della psicologia, non sono più valide»4. La protesta che sale dalla sfera privata è inefficace, perché i termini classici delle contraddizioni, o delle opposizioni binarie come si direbbe con un linguaggio più alla moda, sono venute meno: «antico e nuovo, potere e diritto, sangue e spirito, guerra e politica, scienze naturali e scienze morali, tecnica e arte, sapere e religione, mondo organico e mondo meccanico»5 non sono più termini contraddittori. Le leggi della guerra valgono anche per l’economia. La sua disciplina vale per ogni attività umana. Anche la coppia libertà e ubbidienza non opera più come opposizione. Sulla base di queste trasformazioni, che giungono fino alle fibre più intime del tipo umano, prende forma una nuova gerarchia, diversa da quella tradizionale del XIX secolo e ancora fondata sulla individualità. Il nuovo ordine gerarchico del XX secolo è deciso, secondo Jünger, dal nuovo carattere del lavoro. La dittatura è un fenomeno di questa transizione. Un fenomeno necessario, ma solo come temporanea forma di transizione poiché per il nuovo tipo umano libertà e ubbidienza si identificano. L’ordinamento gerarchico che prende forma è tripartito. Il gradino inferiore è caratterizzato da un generale livellamento a cui, aggiunge Jünger, «uomini e cose sono soggetti»6. Questo livellamento è fondato sulla sostituibilità del lavoratore non solo con ogni altro lavoratore, ma anche con la macchina. Nel secondo gradino gerarchico il lavoratore è parte di una molteplicità di funzioni pianificate. Nel terzo e ultimo gradino, il singolo lavoratore si fonde con il lavoro totale. Jünger invita a non guardare con nostalgia alla perdita dell’individualità. Il nuovo Rangordnung in formazione richiede una nuova politica e una nuova configurazione individuale. È questa la posta in gioco. E non solo per Jünger. È il momento di introdurre il secondo personaggio concettuale. Nel 1944, Adorno pubblica i Minima Moralia. In un paragrafo in cui si confronta con la fine della nozione classica di individuo, Adorno scrive: «Quando si dice che l’individuo viene liquidato dalIvi, p. 137. Ivi, p. 138. 6 Ibid. 4 5
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la testa ai piedi, si è ancora troppo ottimisti»7. Adorno vuole indagare la decadenza dell’individuo a partire dalle tendenze sociali della odierna società capitalistica. Per fare questo sviluppa e applica la categoria di composizione organica del capitale non solo all’intera società, ma anche all’individuo8. L’idea è che la modificazione nella composizione tecnica del capitale investe anche l’individuo, la sua sfera emotiva, fisica e psicologica. Cresce così la «composizione organica dell’uomo»9. Questa non va intesa come una macchinizzazione e deformazione operata sull’individuo. L’individuo, o l’uomo, non è il sostrato statico di mutazioni o deformazioni che opererebbero dall’esterno. Questo modo di vedere sarebbe ancora reazionario, perché considererebbe la modificazione della composizione organica dell’umo sia in termini di modificazione di un substrato individuale immutabile sia in termini di perdita dell’individualità. Per Adorno, l’individuo non è mai separato dalla società. La deformazione a cui l’individuo è soggetto è una deformazione della società su sé stessa. E questa deformazione investe anche i momenti del naturale. L’intero vivente è trasformato in «equipaggiamento»10. La divisione del lavoro, penetrata all’interno dell’individuo, trasforma anche le emozioni in gusci vuoti, qualcosa di estraneo ed oggettivo a cui il soggetto, o ciò che rimane di esso, si rivolge. L’individuo è ridotto a un cumulo di riflessi automatici e senza resistenza. Si tratta, per Adorno, del carattere psicotico che è anche la condizione antropologica dei movimenti totalitari di massa. Prima di passare al terzo personaggio concettuale, è utile evidenziare alcuni elementi che emergono dalla giustapposizione tra Adorno e Jünger. Per entrambi il cambiamento del tipo umano ha implicazioni politiche. Per Adorno esso produce il materiale antropologico utilizzato dai totalitarismi. Per Jünger produce la base di un nuovo ordinamento gerarchico in cui il lavoratore individuale, liquidato al livello più basso, riemerge nella forma del lavoro totale al livello più alto. Per entrambi il nuovo livellamento operato dalla tecnica ibrida l’umano con la macchina. Le categorie storicamente 7 Theodor W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1979, aforisma 88. 8 Ivi, aforisma 147. 9 Ibid. 10 Ibid.
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impiegate dalla psicologia perdono di valore, in quanto non ci sarebbe più una psiche individuale. Gramsci è la terza figura di questo trittico. La sua analisi della modificazione dei processi tecnici di produzione è costruita sulla possibilità di un loro uso comunista. La sua analisi si articola attorno a tre assi principali: la disintegrazione della distinzione tra pubblico e privato; una trasformazione antropologica che vede declinare il vecchio individuo e sorgere un “nuovo tipo umano”; un nuovo “macchinismo’ che comprende anche il lavoro intellettuale. In generale, il discorso di Gramsci è caratterizzato da anti-romanticismo e anti-antiamericanismo11. Per ciascuno di questi aspetti della trasformazione in corso Gramsci cerca di dare una risposta puntuale. Una risposta che lavori non contro la trasformazione, ma nella trasformazione in corso. Che va intesa come campo di possibilità e azione. Come vedremo, questo è un punto di vicinanza con l’analisi di Benjamin. Una lettera del 20 ottobre 1930 alla nuora Tatiana esemplifica la prospettiva di Gramsci. La lettera inizia parlando della moglie Giulia che soffriva di esaurimento nervoso e anemia cerebrale. Nel descrivere le condizioni di Giulia, Gramsci coglie l’occasione per una generalizzazione e scrive che «non si tratta di un fenomeno individuale; purtroppo è diffuso e tende a diffondersi sempre di più, come si vede dalla pubblicazioni scientifiche fatte in rapporto ai nuovi sistemi di lavori introdotti in America»12. La generalizzazione compiuta da Gramsci può certo essere intesa come mancanza di sensibilità per la specificità della salute della moglie. Ma, si potrebbe osservare, Gramsci era coerente con i propri presupposti e operava nella dissoluzione della separazione tra sfera pubblica e privata. Gramsci aveva preso sul serio la pratica degli ispettori inviati da Ford per controllare la vita privata dei dipendenti e imporre loro un nuovo regime di vita conforme al nuovo tipo di lavoro. Ecco la questione. Come coordinare il nuovo tipo di lavoro, sia manuale sia intellettuale, con un nuovo regime di vita. Il nuovo «macchinismo», concludeva Gramsci, «ci stritola»13. Ma esso va affrontato senza nostalgia o romanticismo. 11 Cfr. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 2007, vol. 3, Q 22, par. 2; vol. 1, Q 5, par. 105. 12 Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi, Torino 1965, pp. 374-375. 13 Ibid.
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Si tratta delle stesse riflessioni annotate nei Quaderni: «L’introduzione della razionalizzazione senza cambiamento del sistema di vita può portare a un rapido logoramento nervoso e determinare crisi di morbosità inaudita»14. Questi contraccolpi morbosi, che costituiscono l’oggetto di studio del freudismo, sono politicamente manifesti nel fascismo. Alla loro base c’è l’emergere di un nuovo tipo umano, un “uomo collettivo” che nel suo farsi può scatenare fanatismi di ogni genere. Si tratta, per Gramsci, di orientare la costruzione del nuovo tipo umano. E questo orientamento richiede la disciplina dei contraccolpi morbosi generati dalla transizione. Richiede il controllo degli istinti naturali in modo da produrre un nuovo «nesso psico-fisico» di «tipo superiore»15. Richiede, infine, il controllo del regime di vita, come è evidente nel fordismo in termini di proibizionismo, controllo delle abitazioni e controllo della moralità dei lavoratori16. Consiste in un conformismo dall’alto che deve accompagnare e orientare la costruzione del nuovo tipo umano. È il nuovo Rangordnung di cui parla Jünger. Se i liberali di destra e di sinistra si attardavano in romantiche lodi dell’individualità borghese e in prese di posizione anti-americane, il fascismo costituiva la risposta sbagliata a una domanda giusta. Non solo i nuovi metodi fordisti di produzione di massa vennero introdotti nella Germania nazista, nell’Italia fascista e in Unione Sovietica, ma New Deal, fascismo italiano, nazismo tedesco e disciplina bolscevica andavano intesi come manifestazioni del declino dello Stato liberale e della nascita di un nuovo tipo di società17. Questa transizione richiede una «coercizione di nuovo tipo»18. L’interesse per l’americanismo di Leone Davidovic (Trotsky) è condiviso da Gramsci, che considera giusto il principio della coercizione, diretta e indiretta, da introdurre nell’ordinamento della produzione e del lavoro. Ma errato nella forma19. Gramsci osserva che da un lato il tentativo di accelerare con mezzi esteriori la disciplina e l’ordine A. Gramsci, Quaderni cit., Q 5, par. 41. Ivi, Q 22, par. 11. 16 Ivi, Q 22, par. 1 e Q 22, par. 11. 17 Cfr. Anne Showstack Sassoon, Gramsci and Contemporary Politics. Beyond Pessimism of the Intellect, Routledge, London-New York 2000, p. 18; Stefan J. Link, Forging Global Fordism, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2020. 18 A. Gramsci, Quaderni cit., Q 22, par. 10. 19 Ivi, Q 22, par. 11. 14 15
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nella produzione può sfociare in forme di bonapartismo, come lo stalinismo; dall’altro questa razionalizzazione del lavoro deve operare non solo nella direzione della produzione di un nuovo tipo di lavoratore, ma anche di uomo. Questa seconda dimensione è per Gramsci cruciale. L’americanismo, i metodi fordisti di controllo e intervento nella vita dei lavoratori, vanno presi sul serio. Più di quanto non avesse fatto Trotsky. Le energie nervose dei lavoratori vanno tenute sotto controllo. E questo significa controllo nell’uso dell’alcol, della vita sessuale e familiare dei lavoratori. In altre parole, significa controllo sulla vita “privata” dei lavoratori. Proprio qui, nella prossimità di fordismo e fascismo, Gramsci apre un campo di possibilità e di intervento politico. I nuovi metodi di lavoro meccanizzano i gesti del lavoratore, ma lasciano libero il suo cervello, che «invece di mummificarsi, ha raggiunto uno stato di completa libertà»20. L’operaio pensa e capisce che lo si vuole ridurre a un “gorilla ammaestrato”. Non ha soddisfazioni immeditate in ciò che fa, e questo «lo può portare a un corso di pensieri poco conformisti»21. Ecco il campo di intervento. Questo corso di pensieri “poco conformisti” può dare luogo a un diverso tipo di conformismo, se ancora lo si può chiamare in questo modo. Si tratta di un “conformismo dal basso” in grado di permettere «nuove possibilità di autodisciplina, cioè di libertà anche individuale»22. Si tratta, in altre parole, dell’uomo collettivo in lotta per distruggere il «conformismo autoritario» divenuto ingombrante e retrivo dopo aver compiuto il proprio lavoro23. Il lavoro autoritario del conformismo e dell’americanismo è caratterizzato dalla distruzione di tradizioni, forme sociali in declino e di tutto il «vecchiume europeo non ancora seppellito»24. È caratterizzato anche dal disciplinamento (fordista) del lavoratore e della sua vita privata. Un disciplinamento che è più avanzato negli Stati Uniti in virtù della loro mancanza di tradizione, che invece genererebbe fenomeni di resistenza e passività sociale in Europa. Per Gramsci americanismo e fordismo rappresentavano il futuro. La questione era decidere se esso costituisse un’epoca di graduaIvi, Q 22, par. 12. Ivi, Q 22, par. 12. 22 Ivi, Q 7, par. 12. 23 Ivi, Q 9, par. 23. 24 Ivi, Q 22, par. 11. 20 21
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le mutamento sociale e politico oppure se potesse rappresentare un accumularsi molecolare di elementi in grado di produrre un’esplosione rivoluzionaria del tipo della Rivoluzione francese25. Gramsci batte entrambe le strade. Qui la sua forza analitica. Ma anche la sua debolezza. Questa consiste in un teleologismo storico che ancora costituisce l’impalcatura delle sue riflessioni. E sulla base di questa impalcatura che Gramsci condanna il vecchiume europeo come un ostacolo da eliminare, parla di «passività del popolo cinese» e considera l’Oriente come «fermato alla fase dell’indagine rivolta solo al mondo interiore»26. Il rivolgimento sociale viene pensato a partire da una intensificazione della tendenza storico-economica. Gramsci non solo non mette in discussione il carattere intrinsecamente capitalistico della tecnologia moderna e del nuovo macchinismo. Pensa che il passaggio di mano dei mezzi di produzione, cioè la loro appropriazione da parte dei lavoratori, significhi già controllo sulla produzione. Come se il fordismo potesse essere, alla maniera dei bolscevichi in Russia, impiegato ai fini del comunismo. Se Gramsci guarda a tradizioni e strati sociali improduttivi come «sedimentazioni vischiosamente parassitarie»27 e ostacoli sulla via del progresso, questi “ostacoli”, contro Gramsci, possono essere anche intesi come anacronismi produttivi, elementi non sincronizzati, che in genere i movimenti di destra sanno utilizzare molto meglio della sinistra. Per lavorare con queste sedimentazioni un cambiamento di rotta è richiesto. Sia nella teoria che nella politica. 2. Cambiamenti di rotta Per quanto diverse, politicamente su fronti opposti, le posizioni del fascista Ernst Jünger, dell’intellettuale anticomunista Theodor Adorno e del comunista Antonio Gramsci hanno qualcosa in comune. Jünger intensifica la tecnica fino a immaginare una mobilitazione totale del lavoro in grado di dare origine a un nuovo tipo umano e ordine sociale; Adorno intensifica la “composizione organica dell’uomo” fino alla liquidazione totale dell’individuo; GramCfr. ivi, Q 22, par. 1. Ivi, Q 4, par. 23 e Q 5, par. 29. 27 Ivi, Q 22, par. 2. 25 26
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sci intensifica fordismo e americanismo per farne la base per una trasformazione totale e molecolare dei modi di pensare e operare. Date queste differenze e dati gli interventi di questi personaggi concettuali, la questione è se sia possibile, pensando con Benjamin, offrire un diverso angolo prospettico sulle trasformazioni del tipo umano e del capitalismo all’inizio del XX secolo. Benjamin lavora con tensioni. La sua prospettiva non è né quella jüngeriana del “milite ignoto” né quella gramsciana di un nuovo, superiore tipo umano. Ma nemmeno quella del flâneur o della bohème. Quando legge Baudelaire come prefigurazione della messa a valore capitalistica degli stili di vita metropolitani, bisogna tenere in mente Blanqui. Quando indaga il XIX secolo, Benjamin non lavora né dalla prospettiva di Baudelaire né da quella di Blanqui, ma nella e con la tensione tra Baudelaire e Blanqui. Se Taylor ebbe l’ultima parola contro gli oziosi di Parigi28, non si tratta né di intensificare Taylor con Ford né di celebrare la fine delle «sedimentazioni vischiosamente parassitarie»29 né di glorificare il flâneur che se ne va oziando nel labirinto metropolitano. Si tratta invece di costruire una tensione produttiva tra la protesta dell’ozioso contro la laboriosità e la lotta socialista contro la razionalizzazione di lavoro e istinti. Henry Ford affermò che “la storia è grossomodo una sciocchezza. È tradizione”. Ford invitava a non studiare la storia. Né a prenderla in seria considerazione. Nel dire questo non affermava solo un personale punto di vista, ma dava voce a una forma di autorappresentazione della modernità capitalistica caratterizzata da una assolutizzazione del presente. Quando la macchina tritasassi della razionalizzazione fordista fa piazza pulita di forme di vita oziose e tradizioni non sussunte nel processo di valorizzazione, non elimina solo sedimentazioni parassitarie e residui storici, ma elimina l’ozio come immagine alternativa a un presente e un futuro dominati dalla laboriosità. Se Gramsci continua a vedere un’uscita dalla società capitalista attraverso una sua intensificazione, Benjamin apre tensioni in grado di generare nuovi campi di possibilità e cambiamenti 28 “Abbasso la flânerie”. Così Benjamin sintetizza in uno slogan la posizione di Taylor. Cfr. Walter Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, Neri Pozza, Vicenza 2012, pp. 671-672. 29 A. Gramsci, Quaderni cit., Q 22, par. 2.
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di rotta. Quando Benjamin parla della vita dell’ozioso non è per innalzarla a modello. Per Benjamin, l’ozio del flâneur, in quanto anacronistico, contiene immagini di possibile liberazione che possono essere attivate dall’incontro con Blanqui e con il socialismo. Se nella società contemporanea la vita dell’ozioso fa schifo è perché la vita fa schifo in una società dove non c’è posto per l’ozio e tutto è dominato dalla produttività. Se anche l’ultimo frammento di ozio rintracciabile nell’immagine del flâneur viene liquidato, non resta pressoché nulla per poter pensare a una vita non laboriosa. Resta una sorta di puritanesimo, di nuova etica del lavoro e di razionalizzazione del lavoro e degli istinti sessuali. Gramsci credeva di poter utilizzare tutto questo al fine della creazione di un nuovo tipo umano30. Secondo Gramsci, questo nuovo tipo umano sarebbe soggetto anche a una “coercizione di nuovo tipo”, cioè una coercizione esercitata dalla élite di una classe sulla propria classe. Autodisciplina della classe operaia sulla classe operaia. Qui la riflessione di Gramsci si arresta. Si potrebbe dire che per lui la soluzione si trova nel sostituire il dominio della classe dei capitalisti con quella dei lavoratori. Oggi sappiamo che questo passaggio di mano del dominio è insufficiente e può facilmente portare all’autosfruttamento dei lavoratori invece che alla loro liberazione. Oggi sappiamo che la fabbrica, le macchine e la tecnica moderne hanno un intrinseco valore d’uso capitalistico che non si rovescia dialetticamente in liberazione. Dominio e tecnica non sono nozioni che possono essere passate di mano dalla classe degli oppressori a quella degli oppressi. Gli operai americani lo avevano capito. Nel mezzo di una lunga lotta con la Ford Motor Company, negli anni Trenta gli operai usarono il termine “fordismo” per attaccare il regime autocratico di oppressione delle fabbriche di Ford31. La questione, ancora attuale, è se e in che misura tecnica e forme di dominio presenti possano essere utilizzate a fini emancipativi. La questione è se la loro intensificazione e accelerazione possa rovesciarsi dialetticamente in qualcosa di radicalmente diverso. O se invece tecnica e dominio debbano essere non semplicemente criticati, ma riconfigurati in modo completamente diverso. Ivi, Q 22, par. 3. Cfr. Carl Raushenbush, Fordism, Ford and the Workers. Ford and the Community, League for Industrial Democracy, New York 1937, p. 3. 30 31
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È quanto stava cercando di fare Benjamin differenziando tra una nozione di tecnica intesa come “dominio della natura” e una “seconda tecnica (zweite Technik)” intesa invece come interazione e gioco (Zusammenspiel) tra la natura e l’umanità32. L’enfasi di questa interazione (Zusammenspiel) va posta nel gioco (Spiel) con la natura, cioè un diverso modo di rapportarsi a essa e dominarla, mantenendo la distanza con essa. Non si tratta di perseguire una identificazione con la natura. Non si tratta di abolire la distanza tra l’umano e la natura. Non si tratta nemmeno di ritornare alla natura. Questi erano, e sono, tuttalpiù linee di fuga fasciste. Le riflessioni di Benjamin sulla “seconda tecnica” si intrecciano a quelle sulla “seconda natura” come integrazione del collettivo nell’individuo33. E su questo intreccio che per Benjamin si decide la lotta fra fascismo e comunismo34. Sull’integrazione tra l’individuale e il collettivo, sulla sua forma e configurazione si dovrebbe dire, si gioca anche la partita sulla forma di dominio che andrà a prevalere. Da un lato la differenziazione e la distanziazione dalla natura come “gioco”, dall’altro l’identificazione biologico-animale perseguita dal fascismo. Queste riflessioni degli anni Trenta riprendono in parte quanto annunciato nelle pagine finali di Strada a senso unico (1926). Qui Benjamin si riferisce al dominio della tecnica non in termini di “dominio della natura” (prima tecnica), ma «dominio del rapporto fra natura e umanità»35. C’è una differenza semantica fra le due nozioni di dominio (Beherrschung). Il secondo tipo di dominio, possibile come seconda tecnica, è collettivo e riguarda non individui o popoli, ma l’umanità come specie. Questi termini vanno ora chiariti. Il dominio sulla natura è malato e distruttivo non in quanto dominio, ma in quanto caotico o anarchico nel senso in cui Marx parlava di anarchia del mercato capitalistico da parte di produttori indipendenti e in concorrenza fra loro. Questa forma di dominio è inoltre caratterizzata dalla proprietà privata sulla cosa. Questo rapporto, elevato a dogma nella formula dello ius utendi et abutendi, W. Benjamin, Kritische Gesamtausgabe cit., vol. 16, p. 150. Ivi, p. 143. 34 Ivi, p. 146. 35 Walter Benjamin, Strada a senso unico, in Id., Opere Complete, Einaudi, Torino 2001, vol. 2, p. 462. 32 33
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fa di ogni proprietario un signore assoluto. Dominare questa forma di dominio richiede un secondo tipo di dominio. Un dominio di secondo grado. La prima forma di dominio è distruttiva e caotica. Superarla significa superare la sua forma atomistica, individualistica, proprietaria e capitalistica. Ecco il campo di intervento delineato da Benjamin. Esso si colloca tra la seconda tecnica, il secondo dominio, e la seconda o, si dovrebbe forse dire, terza natura dell’uomo. Se la prima natura è oggetto di dominio, sia essa una forza esterna o interna come le pulsioni e gli istinti; se la seconda natura è caratterizzata dal sistema del diritto nello spirito oggettivo di Hegel o, in Lukács, da un mondo sociale alienato che domina e si contrappone agli uomini36; ciò che Benjamin chiama “seconda natura” nelle annotazioni scritte per la terza edizione del saggio sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica37 si distingue dalla seconda natura di Hegel e Lukács al punto che sarebbe più opportuno parlare di una “terza natura”. Questa ha a che fare con una modificazione della percezione resa possibile dalla tecnica. La percezione e le sue modificazioni costituiscono il fulcro dell’analisi di Benjamin su aura e politica. Se il dualismo soggetto e oggetto, e con esso quello tra umano e natura, cade all’interno delle condizioni formali di esperienza e del trascendentale delineato da Kant, allora è sulla base del carattere storico della percezione e delle forme di esperienza che quel dualismo può essere messo in questione. La scommessa può essere rappresentata in questi termini: in che misura e come ciò che è frammentato per gli individui, la loro esperienza come Erlebnis, può essere la base di una nuova esperienza collettiva, una Erfahrung di tipo nuovo. Si tratta di indagare la diversa configurazione del rapporto tra individuo e collettivo alla base dell’apparato percettivo integrato con la seconda tecnica. In questa nuova configurazione né l’individuo è liquidato, come afferma Adorno, né, si potrebbe e dovrebbe aggiungere, lo è l’aura. Essa è piuttosto soggetta a trasformazioni e riconfigurazioni. Anche nella perdita di originalità, unicità, ere-
36 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari 2010, paragrafo 4; György Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugarco, Milano 1991, p. 27 e p. 168. 37 W. Benjamin, Kritische Gesamtausgabe cit., vol. 16, p. 143.
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dità culturale e autorità storica e tradizionale dell’oggetto38, aura e tradizione non scompaiono una volta e per tutte, ma vengono rivoluzionate39. A questi rivoluzionamenti corrispondono rivoluzionamenti sociali e politici. È in questo contesto che Benjamin definisce le rivoluzioni come «tentativi di innervazione del nuovo collettivo quale emerge per la prima volta nella storia. Un collettivo che ha nella seconda tecnica i propri organi»40. Benjamin non si riferisce all’individuo e alla sua fusione o ibridazione con la tecnica. Il problema non è né la celebrazione della vecchia individualità né la morte dell’uomo nel cyborg. Né una fusione mistico-biologica con la natura. La questione riguarda il farsi collettivo dell’apparato percettivo. Riguarda l’integrazione dell’individuo con il collettivo e la percezione di questa nuova integrazione. Questo nuovo tipo di percezione collettiva iniziò con la radio, la fotografia e il cinema. È ciò che Paul Valéry definisce in termini di ubiquità delle opere41. La stessa musica può essere ascoltata nel medesimo istante in qualsiasi punto del globo. E in qualsiasi punto del globo la stessa opera musicale può essere riprodotta a piacere, senza il vincolo di una data o di un luogo. Questi sviluppi della tecnica hanno alterato, osserva ancora Valéry, ciò che chiamiamo materia, spazio e tempo. Qui si inserisce la riflessione di Benjamin. Il suo interesse è per questa alterazione. Schematicamente il ragionamento di Benjamin può essere sintetizzato in questo modo: la seconda tecnica modifica l’opera d’arte, la sua forma e il suo contenuto. L’arte che si è integrata con la tecnica rende l’opera d’arte riproducibile e la sua fruizione collettiva. Qui emerge la scommessa politica. È una scommessa di non poco conto, perché la posta in gioco è l’alternativa tra fascismo e comunismo. La nuova appercezione collettiva può essere la base di un nuovo modo del dominio che, nei termini di Strada a senso unico, può essere definito come dominio collettivo sul dominio della natura. Questo dominio è possibile sulla base di nuove forme di appercezione non atomizzate o individualistiche; di forme di proprietà non esclusiva o privata; del superamento dell’anarchia capitalista. Ivi, pp. 10-11. Ivi, p. 213. 40 Ivi, p. 109. 41 Paul Valery, Scritti sull’arte, Tea, Milano 1984, pp. 107-109. 38 39
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Benjamin non pensa la tecnica nella forma della sua intensificazione, del macchinismo o della caserma industriale. A interessargli è la tensione fra arte e tecnica. A differenza di Heidegger, non si tratta di richiamare la loro origine comune nella τέχνη, ma di lavorare nella loro tensione. La tecnica applicata all’arte (cinema, seconda tecnica) permette a quest’ultima di lavorare in un nuovo campo della percezione (terza natura) in cui i sensi, l’intelligenza e la memoria diventano collettivi. Qui entra in campo la politica. Questo nuovo spazio collettivo della percezione non è di per sé liberatorio o emancipativo. Lo può essere solo come parte di un più ampio progetto politico oltre la frammentazione caratterizzata da individualismo e moderna proprietà privata individuale. Se questo intervento politico fallisce, resta il dominio tecnico-collettivo su individui e natura. Restano le fantasie elitarie di una avanguardia artistica diretta a un pubblico di nicchia. Resta la denuncia della barbarie presente e passata, ma che, come affermava Bertolt Brecht al Congresso di Parigi del 1935, non intacca i rapporti di proprietà che ne stanno alla base. Benjamin conclude il suo scritto sull’Opera d’arte, elaborato nello stesso anno e in dialogo con Brecht, allo stesso modo: con l’alternativa tra conservazione o trasformazione dei rapporti di proprietà42. Queste implicazioni politiche vanno sviluppate. Anche se in forma ancora provvisoria. La tecnica non solo rende riproducibile l’opera d’arte, ma la democratizza. Non solo ciascuno può possedere una riproduzione artistica, ma ciascuno può diventare un artista, un fotografo e l’autore di un video. Si tratta di un processo che ha una storia. Nel 1857 Léon de Laborde pubblicò De l’Union des Arts et de l’Industrie. Un testo che Benjamin non cita e probabilmente non conosceva. Ma il testo di de Laborde può essere messo in dialogo con Benjamin. Il cristianesimo volgarizzò il culto di Dio, la stampa volgarizzò le lettere, i veri studiosi hanno volgarizzato la scienza; l’industria, cioè il genio delle arti applicate, è in procinto di popolarizzare le arti. Siamo meno sinceramente religiosi, per essere in comunità con il prossimo; meno istruiti, perché uno legge il suo Cicerone e il suo Virgilio a stampa e allo stesso tempo con centomila al42 Adorno, in una lettera del marzo 1939, mette Benjamin in guardia dalla cattiva influenza politica esercitata da Brecht e gli suggerisce invece di leggere il suo saggio sul Jazz. Le posizioni di Benjamin e Adorno non potrebbero essere più distanti.
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tri lettori invece di possedere il manoscritto con dieci o dodici colleghi; meno profondamente colti, per esserlo più praticamente? Le arti, infine, perderanno qualcosa della loro elevazione per aver abbassato il loro sguardo sulla folla, ridurranno il loro vertice espandendo la base? Certamente no.43
Léon de Laborde impiegava il termine vulgariser non in senso derogatorio, ma come sinonimo di populariser. Democratizzare, si potrebbe dire. La tecnica democratizza l’arte. Ma si tratta di una possibilità, non di un esito necessario. Perché il termine “democrazia” è un termine politico e non una misura quantitativa. La possibilità democratica va costruita sulla tensione fra arte e tecnica. Non sulla loro unità originaria. L’arte democratizzata riduce la distanza fra l’opera e il pubblico, ne mette in discussione l’aura, fino al punto che ciascuno può immaginarsi come autore. Se per Benjamin ciascuno all’inizio del secolo scorso poteva avanzare la pretesa di essere filmato44, oggi la tecnica fa sì che ciascuno possa avanzare la pretesa di filmare e rendere pubblici i propri cortometraggi. Ciascun lettore può avanzare la pretesa di essere un autore e di pubblicare i propri testi in una piattaforma virtuale. Ciascuno può diventare un giornalista, un commentatore, un esperto, un critico. Ciascuno può avanzare la pretesa di diventare un politico. Non solo la distanza tra autore e spettatore si riduce, ma anche quella tra il politico e le masse. Ne segue che il politico è sostituibile alla maniera di un qualsiasi attore televisivo. Ma proprio questa vicinanza e fungibilità produce frammentazione e fenomeni autoritari. La fungibilità dell’individuo viene compensata dal culto della star televisiva e del leader politico. La frammentazione del reale in una molteplicità di punti di vista e di pezzi di realtà, che sussistono come bolle indipendenti, viene compensata da una unità autoritariamente imposta dall’altro. Il nazionalismo, che sembrava essersi assopito dopo i disastri della Seconda guerra mondiale, risorge a nuova vita. Ecco la scommessa della seconda tecnica. La partita si gioca a livello della percezione. È sulla base di una nuova forma di percezione collettiva che ciò che appare come frammentato a livello individuale può essere riconfigurato in un tutto ricco di senso a livello collettivo. La tecnica ha reso possibile l’esistenza di milioni di let43 Léon de Laborde, De l’Union des Arts et de l’Industrie, L’avenir, Imprimerie Impériale, Paris 1857, vol. 2, p. 27. 44 W. Benjamin, Kritische Gesamtausgabe cit., vol. 16, p. 76.
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tori-autori-attori-artisti. Il compito della seconda tecnica è lavorare nell’inesauribile reservoir delle sperimentazioni rese possibili dalla modificazione in senso collettivo della percezione. Questo lavoro è gioco (Spiel)45. L’arte e la politica hanno qui un compito preciso. Se il «film è la prima forma di acquisizione del collettivo»46, le rivoluzioni sono «tentativi di innervazione» del nuovo collettivo, che «ha i propri organi nella seconda tecnica»47. L’opera di Fourier, scrive Benjamin, può essere considerata come il primo documento nel campo di questa sperimentazione48. Una sperimentazione con il collettivo. Con l’unità nella moltiplicazione. Queste sperimentazioni sono ancora in corso. È sulla loro base, cioè sulla possibilità di dare senso alla frammentazione per mezzo di un nuovo trascendentale tecnico-collettivo, che si decide la contrapposizione tra emancipazione e autoritarismo. O, per dirla nei più crudi termini di Benjamin, tra l’«allegria del comunismo» e la «gravità animale del fascismo»49.
Ivi, p. 120. Ivi, p. 61. 47 Ivi, p. 151. 48 Ivi, p. 152. 49 Ivi, p. 146. Sono noti gli interventi compiuti da Max Horkheimer sul testo francese di Benjamin. Horkheimer sostituì il termine “fascisme” con “état totalitaire” e il termine “communisme” con “forces constructives de l’humanité”. Cfr. ivi, p. 339. 45 46
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“Vivere tra pareti di vetro”. Gramsci e Benjamin, ovvero che ne è del materialismo storico quando il personale è politico Elettra Stimilli
A un primo sguardo, sembra impossibile cogliere qualche affinità tra due autori praticamente coetanei, ma così distanti come Antonio Gramsci e Walter Benjamin. L’uno, nato in Sardegna, in un’isola rurale ed economicamente arretrata, da famiglia numerosa di piccoli impiegati e proprietari terrieri, legata alla cultura popolare e alle tradizioni religiose locali; l’altro, primo di tre figli di una famiglia ebraica pienamente assimilata all’alta borghesia berlinese. L’uno, colpito in tenerissima età da una forma allora sconosciuta di tubercolosi ossea, sostenuto con convinzione e fatica dalla madre negli studi dopo la morte prematura del padre; l’altro contornato da un ambiente familiare altolocato, con domestici e governante francese. L’uno educato in un liceo tradizionale di Cagliari; l’altro frequentante una delle migliori scuole secondarie di Berlino, la Kaiser-Friedrich-Schule nel quartiere elegante di Charlottenburg. Gramsci scopre il socialismo studiando all’Università di Torino, la città più industrializzata della penisola italiana, partecipa attivamente alla vita politica e diventa uno dei fondatori e poi segretario del Partito comunista. L’adesione di Benjamin al marxismo è più teorica che militante in senso stretto; decisivo è il suo incontro con Asja Lacis, la regista rivoluzionaria lettone, che lo porta a raggiungere Mosca. È così che prende forma un rapporto con la città della rivoluzione del Novecento1 completamente differente rispetto a quello che emerge nella biografia di Gramsci, fondamentalmente legato alle sue relazioni con il Comitato centrale russo (sebbene anche nel suo caso ci sia una donna a definire il suo legame con Mosca: 1 Cfr. Walter Benjamin, Diario moscovita e Mosca, in Id., Opere Complete. II. Scritti 1923-1927, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed. it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2001, pp. 506-612 e 624-653.
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Giulia Schucht, la giovane aristocratica russa, da cui avrà due figli, incontrata nel 1922 nel sanatorio, in cui era stato ricoverato per gravi problemi di salute)2. Eppure, nonostante la differenza di classe, di contesto geografico, sociale e culturale, molti sono gli elementi che accomunano i due autori, non ultimo il lavoro di critica letteraria, che entrambi hanno svolto a più riprese per riviste e giornali, e che manifesta un’affine sensibilità politica per la letteratura. In questo intervento non mi interessa affrontare un confronto in questi termini. Si tratta piuttosto di mettere a fuoco un punto di vista specifico in una lettura incrociata dei due autori a partire da una questione determinata, che chiama in causa anche la nostra contemporaneità. Entrambi sono lucidi interpreti dei mutamenti profondi che, da un punto di vista marxista, hanno coinvolto i modi di produzione capitalistica a cavallo tra le due guerre e che nelle loro analisi emergono come il portato di un processo più ampio, in cui la distinzione classica tra struttura e sovrastruttura non regge in vista di una efficace definizione del campo di azione politica. In entrambe le analisi emerge l’ambiguità insita nella dissoluzione in atto nel processo in corso della separazione tra pubblico e privato attuata in età moderna, da un lato uno dei fenomeni più inquietanti, dall’altro, serbatoio di un potenziale politico. Nel mondo della trasparenza assoluta in cui oggi viviamo, dove nulla è più privato, ma dove la salvaguardia delle libertà individuali ha paradossalmente assunto una nuova carica politica, prima con la critica delle normazioni eccezionali promulgate in seguito alla diffusione della pandemia, poi con la difesa dei valori occidentali contro la Russia di Putin, durante la guerra in Ucraina, tentare da questo punto di vista un’irruzione incrociata sul lavoro di questi autori analogamente “eretici” marxisti può contribuire a mettere a fuoco contraddizioni e potenzialità anche per il presente.
2 Cfr. Angelo D’Orsi, Gramsci. Una nuova biografia, Feltrinelli, Milano 2017; Howard Eiland, Michael W. Jennings, Walter Benjamin. Una biografia critica, trad. it. di A. La Rocca, Einaudi, Torino 2015.
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1. Americanismo, la creazione di una nuova etica Se il lavoro è l’istituzione moderna che si iscrive sulla soglia della definizione borghese dello spazio impolitico del privato e dello spazio pubblico della politica, è con Karl Marx che questo dominio assume la forza e la valenza di un’istituzione politica in quanto rapporto sociale di subordinazione al capitale. Secondo una certa interpretazione del testo marxiano, il superamento politico delle contraddizioni strutturali dell’economica capitalista coinciderebbe con l’organizzazione di una pianificazione economica centralizzata in un ambito fortemente industrializzato. Questa, com’è noto, è l’interpretazione del testo marxiano che ha avuto maggior fortuna nel Novecento, particolarmente nel contesto dello sviluppo industriale che ha caratterizzato l’epoca successiva alla Seconda guerra mondiale, nell’ambito del dominio storico e geografico legato all’esistenza dell’Unione Sovietica. Antonio Gramsci è brillante interprete del testo marxiano proprio nel momento in cui, tra le due guerre mondiali, è testimone del primo formarsi di quel «passaggio dal vecchio individualismo all’economia programmatica»3. La peculiarità della sua analisi sta nel mostrare con estrema lucidità come questo passaggio allo stesso tempo coinvolga la Russia post-rivoluzionaria e, seppure in maniera differente, anche l’Europa devastata dalla Grande Guerra e dalla crisi legata alla riconversione dell’industria bellica, oltre che gli Stati Uniti. Così facendo mette in luce un nesso stringente tra le differenti politiche di programmazione economica delle diverse potenze mondiali volte all’egemonia negli anni che precedono l’affermarsi dei fascismi e lo scoppio del secondo conflitto mondiale. A quanto risulta, le prime riflessioni gramsciane su “americanismo e fordismo” risalgano alla fine del 1929 e ai primi mesi del 1930, dunque nel periodo appena successivo al crollo della borsa di New York4. Evidente in esse è la necessità di connettere le cause della crisi economica mondiale alla possibilità che «l’americanismo
3 Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 2014, p. 2139. 4 Marcello Mustè, Rivoluzioni passive. Il mondo tra le due guerre nei Quaderni del carcere di Gramsci, Viella, Roma 2022, p. 128.
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possa costituire un’“epoca” storica»5, come egli tende a credere. È indicativo il fatto che rispetto a «quelli che nell’“americanismo” vogliono trovare l’origine e la causa della crisi»6, Gramsci si collochi in una traiettoria completamente differente, dando prova di una perspicacia profetica in riferimento ai mutamenti in corso del tutto simile a quella mostrata anche da Benjamin. L’americanismo, di cui sintetizza i caratteri nel Quaderno 22, non è in alcun modo, per Gramsci, l’origine della crisi, ma al contrario risulta ai suoi occhi una risposta, una reazione alla fase critica attraverso una ristrutturazione del capitalismo, nel tentativo di adattare i modi di produzione alla fine storica dell’egemonia borghese. Con la fine dell’egemonia borghese si intende il periodo in cui il capitalismo si libera della sua classe di origine e si fa globale, non avendo così quasi più legami con la visione borghese del mondo. L’americanismo risulta, dunque, agli occhi di Gramsci il tentativo di elaborare un nuovo “tipo umano” adeguato a un capitalismo affrancato dalla forma di vita borghese. La razionalizzazione del lavoro in gioco in questo processo non solo combina «la forza (distruzione del sindacalismo operaio a base territoriale) con la persuasione (alti salari, benefizi sociali diversi, propaganda ideologica e politica abilissima)»7, ma ottiene anche di imperniare sulla produzione “tutta la vita” sia a livello individuale che a livello sociale. Ciò comporta una trasformazione profonda dell’istituzione moderna del lavoro, del suo ruolo politico in quanto elemento essenziale di definizione della differenza tra ambito pubblico della politica e ambito privato dell’impolitico, su cui sorge l’istituzione moderna dello Stato come terreno di sviluppo dei rapporti capitalistici di produzione. L’adeguazione dei costumi alle necessità del lavoro, di cui l’americanismo è espressione, implica il fatto che i nuovi metodi di lavoro siano «indissolubili da un determinato modo di vivere, di pensare, di sentire la vita: non si possono ottenere successi in un campo senza ottenere risultati tangibili nell’altro»8. Si tratta della vera e proA. Gramsci, Quaderni dal carcere cit., p. 2140. Ivi, p. 1755. 7 Ivi, pp. 2145-2146. 8 Ivi, p. 2164. 5 6
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pria «creazione di una nuova etica»9, che implica uno sfasamento dei confini su cui si sono fondate la politica e la morale borghese. È indicativo che in questo contesto Gramsci ponga particolare attenzione all’ambito della riproduzione, da lui esplicitamente connesso al dominio della produzione. La centralità della «quistione sessuale» nel taylorismo e nell’organizzazione dei processi di produzione fordisti lo porta a focalizzare «la funzione economica della riproduzione»10 e quindi, in termini marxisti, il suo ruolo politico. Puritanesimo, proibizionismo, lotta alla prostituzione e assoluto controllo della vita privata rientrano perfettamente nel progetto fordista, in vista della creazione di un «tipo nuovo di lavoratore e di uomo»11. La questione “coscienza del fine” può sembrare per lo meno spiritosa a chi ricorda la frase di Taylor sul “gorilla ammaestrato” – scrive Gramsci in un noto passo del Quaderno 22 –. Il Taylor infatti esprime con cinismo brutale il fine della società americana: sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti macchinali ed automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia, dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico macchinale12.
La novità in gioco nei modi capitalistici di produzione fordisti è la creazione di un nuovo «nesso psico-fisico» tra lavoratore e macchina, in vista di una «maestranza stabile, un complesso affiatato permanentemente, perché anche il complesso umano (il lavoratore collettivo) di un’azienda è una macchina che non deve essere troppo spesso smontata e rinnovata nei suoi pezzi singoli senza perdite ingenti»13. Gramsci è consapevole del fatto che questo equilibrio non possa essere solo «esteriore e meccanico», ma debba diventare “interiore”, «proposto dal lavoratore stesso e non imposto dal di fuori»14. Questo implica un peculiare controllo della sessualità e della riproduzione come presupposti imprescindibile per il funzionamento del processo generale. Un elemento che diventerà il terIvi, p. 2150. Ivi, p. 2148. 11 Ivi, p. 2165. 12 Ibid. 13 Ivi, p. 2166. 14 Ibid. 9
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reno di lotta dei movimenti del femminismo marxista negli anni Settata del secolo scorso15. Tra l’altro, non va dimenticato come questo aspetto, lucidamente analizzato da Gramsci nel Quaderno 22, accomuni il progetto fordista con quello leninista; lo dimostra la conversazione che Clara Zetkin ha avuto con Lenin, nel 1920, alla vigilia del varo della NEP, resa pubblica solo dopo la morte del leader bolscevico16. L’indistinzione tra vita privata e quella pubblica a discapito delle libertà individuali, che caratterizza il passaggio dal «vecchio individualismo» borghese «all’economia programmatica» delle nuove forme di produzione, porta Gramsci a vedere nell’americanismo il risultato più eclatante della ristrutturazione globale del capitalismo, in cui la vita diventa universalmente economica, unificata a un identico modello mondiale. 2. Al margine del fordismo Quando, nel febbraio del 1929, detenuto nella prigione di Turi, Gramsci ottiene il permesso di scrivere e dà così inizio a quelli che sarebbero diventati i Quaderni del carcere, dove “americanismo e fordismo” e la «quistione sessuale» vengono fin da subito presentati come «argomenti principali» della sua ricerca17, Walter Benjamin pubblica nella «Literarische Welt» il saggio Der Surrealismus18. In questo saggio Benjamin riporta la definizione che André Breton, padre del surrealismo, attribuisce a Nadja come «livre à porte battente», «libro dove la porta sbatte»19. Poi, per rendere comprensibile cosa prova il lettore del testo surrealista, riporta un suo ricordo di Mosca: A Mosca abitavo in un albergo in cui quasi tutte le stanze erano occupate da lama tibetani che erano venuti a Mosca per un congresso di tutte le chie15 Cfr. almeno Mariarosa Dalla Costa, Selma James, Potere femminile e sovversione sociale, Marsilio, Venezia 1972; Leopoldina Fortunati, L’arcano della riproduzione. Casalinghe, prostitute, operai e capitale, Marsilio, Venezia 1981. 16 Cfr. Noemi Ghetti, Gramsci e le donne. Gli affetti, gli amori, le idee, Donzelli, Roma 2020, p. 87. 17 Cfr. A. Gramsci, Quaderni dal carcere cit., p. 5. 18 Walter Benjamin, Il Surrealismo. L’ultima istantanea sugli intellettuali europei, in Id., Opere complete. III. Scritti 1928-1929 cit., Einaudi, Torino 2010, pp. 210-214. 19 Ivi, p. 203.
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se buddiste. Mi colpì, in corridoio, il numero delle porte che erano sempre socchiuse. Quello che prima mi parve un caso, assunse per me un carattere inquietante e sgradevole. Mi spiegarono che in queste camere alloggiavano membri di una setta che avevano fatto voto di non soggiornare mai in ambienti chiusi. Il lettore di Nadja non può non sentire lo stesso choc che provai io allora20.
Quindi aggiunge: «Vivere tra pareti di vetro è una virtù rivoluzionaria per eccellenza. Anche questa è una forma di ebrezza, è un esibizionismo morale di cui abbiamo grande bisogno. Il senso della privacy non è più una virtù aristocratica, è diventata sempre più una caratteristica di piccoli borghesi arrivati»21. Il surrealismo, com’è noto, è il movimento artistico nato dal trauma della Grande Guerra, che ha ereditato dalla rivolta dadaista un rifiuto totale delle convenzioni borghesi. Il suo intento principale è quello di fondere la rivoluzione sociale e politica incarnata dai bolscevichi con la liberazione di un inconscio sovversivo e nuove creazioni artistiche volte a rompere l’alienazione dell’esistenza borghese, che la guerra aveva portato alla luce in tutta la sua tragicità. Secondo Benjamin il surrealismo aveva riscoperto un «concetto radicale di libertà»22 che l’Europa aveva perduto, quel medesimo concetto che Gramsci, negli stessi anni, vedeva definitivamente smarrito nel passaggio dal «vecchio individualismo» borghese «all’economia programmatica» delle nuove forme capitalistiche. Ciò che colpisce Benjamin nei surrealisti è proprio il fatto che essi siano «i primi a liquidare il mummificato ideale moralistico-umanistico di libertà del liberalismo»23. Per i surrealisti, «la lotta per la liberazione dell’umanità nella sua forma più direttamente rivoluzionaria (che è tuttavia e precisamente la liberazione da ogni punto di vista) resta l’unica a cui valga la pena di dedicarsi»24. Ma conquistare «le forze dell’ebrezza per la rivoluzione»25, come tendono a fare i surrealisti, per Benjamin, non basta. «Mettere l’accento esclusivamente su di essa equivarrebbe a trascurare interamente la preparazione metodica e disciplinare della rivoluzione a favore di Ivi, pp. 203-204. Ibid. 22 Ivi, p. 211. 23 Ibid. 24 Ibid. 25 Ibid. 20 21
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una prassi oscillante fra l’allenamento e i preparativi di una festa»26. In breve, ciò che Benjamin rimprovera al «marxismo gotico» dei surrealisti è la sua inclinazione bohémien. Quella stessa inclinazione che, nella sua genealogia incompiuta della Parigi capitale del XIX secolo, ritrova in Charles Baudelaire. Il rischio maggiore di questa forma di vita, apparentemente esterna ai meccanismi di potere e, in questo senso, potenzialmente portatrice anche di una dimensione rivoluzionaria, è il fatto di essere catturata e messa al lavoro all’interno di meccanismi che caratterizzano quella nuova fase del capitalismo che in modo ancora più profetico di Gramsci Benjamin individua all’opera nella Parigi del XIX secolo. Non il capitalismo fordista, che pure Benjamin vede in atto dietro al luccichio delle merci, ma una forma di capitalismo non ancora completamente dispiegato, essenzialmente volto alla valorizzazione della vita in tutti i suoi aspetti e non solo alla forza macchinica funzionale alla fabbrica. Nei materiali preparatori al libro mai ultimato su Parigi, la sua attenzione viene attratta da figure riconducibili alla bohème, di cui Baudelaire è il prototipo e per questo da lui eletto a nucleo centrale di questo lavoro. Il flâneur, l’ozioso, il cospiratore di professione, il giocatore, il nottambulo, il detective, lo straccivendolo, il poeta, l’artista e la prostituta sono figure al di fuori del mercato, la cui produzione non è in alcun modo riconducibile al valore di scambio e alla mercificazione fordista o taylorista. Nella Parigi di Baudelaire […] esistevano ancora i passages, in cui il flâneur era sottratto alla vista dei vicoli che non ammettono la concorrenza del pedone. Vi era il passante che si incunea nella folle, e vi era ancora il flâneur, che ha bisogno di spazio e non vuole rinunciare alla sua vita privata. Quest’ultimo se ne va oziando, come una personalità; così protesta contro la divisione del lavoro che trasforma gli uomini in specialisti. Protesta anche contro la loro laboriosità. […] Ma non ebbe l’ultima parola. L’ebbe invece Taylor, il cui slogan divenne “Abbasso la flânerie”27.
Apparentemente al margine del processo da Gramsci definito «americanismo», come in grado di non rinunciare alla propria Ibid. W. Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, a cura di G. Agamben, B. Chitussi, C.-C. Härle, Neri Pozza, Vicenza 2012, pp. 671-672. 26 27
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vita privata, in realtà il flâneur si scopre, nella Parigi dei Passages descritta da Benjamin, al centro di una trasformazione che lo avvolge e, come in un gorgo, coinvolge la sua vita intera. «È questo il fondamento» di ciò che indicativamente Benjamin definisce l’«americanismo» di Baudelaire, che vede nell’«articolo di massa» il «suo modello»28. L’uomo-sandwich è l’esempio calzante di questo processo, che rende lo stesso flâneur una merce e attraverso cui la sua stessa vita assume un «valore di esposizione», che trasforma in dimensione pubblica tutto ciò che è più intimo e privato. Sono i prodromi di quell’enorme mutamento dei modi capitalistici di produzione post-fordisti, per molti versi ancora in atto ai nostri giorni, la cui peculiarità, in definitiva, è quella di ridurre ciascuno a “imprenditore di sé”. Se Baudelaire è l’emblema dell’«impresario di se stesso»29, Benjamin scorge indicativamente nella prostituta l’allegoria più efficace della vita che si fa merce. Parigi risulta il contenitore poliedrico dove, tra le merci come nuove invenzioni del secolo, si inserisce, come una statua nella sua nicchia, la prostituta30. Con lei non solo la merce cerca di guardarsi in faccia e celebra la sua incarnazione, ma nell’atto di vendita di sé la prostituta espone la soglia che l’istituzione della famiglia fordista descritta da Gramsci cerca di rendere invisibile, quel limite tra lavoro produttivo e lavoro di riproduzione e cura, che nel corpo prostituito si fondono. La «quistione sessuale», che Gramsci mette a fuoco come problema centrale dei modi di produzione fordisti, emerge in Benjamin con la prostituta come figura profetica di un ulteriore sviluppo delle forme capitalistiche di produzione, che vedrà nel processo definito di «femminilizzazione del lavoro» la condizione generale della produzione post-fordista31, quando sono messe a valore le stesse capacità interrelazionali, di collaborazione “creativa” e “versatile”, di mediazione e di seduzione che costituiscono i talenti principali della prostituta come efficace “imprenditrice di sé”. Benjamin tiene in conto quanto afferma Marx in proposito: Ivi, p. 593. Ivi, p. 577. 30 Cfr. ivi, pp. 816-817. 31 Cfr. Angela McRobbie, Reflections on Femminims, Immaterial Labour and the Post-Fordist Regime, Newformation, London 2010; Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, OmbreCorte, Verona 2010. 28 29
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“Gli operai in Francia chiamano la prostituzione di mogli e figlie l’ennesima ora di lavoro, il che è letteralmente vero”. Karl Marx, Der historische Materialismus, a cura di Landshut e Mayer, Leipzig (1932)32.
C’è un’espressione in voga in pieno Ottocento che Benjamin annota e che esprime chiaramente il fenomeno: la prostituzione è il «quinto quarto della giornata lavorativa»33. Questa forma addizionale di sfruttamento della classe operaia viene oscurata nell’organizzazione economica fordista focalizzata da Gramsci, in cui è solo la famiglia ad avere una «funzione economica» come fulcro della «nuova etica» per quei «gorilla ammaestrati», che si vuole programmare. Benjamin, invece, porta alla luce in tutta la sua ambiguità il suo ruolo solo apparentemente marginale. La prostituta, oltre a essere icona del labirinto cittadino e sua abitante, ne è la custode. In lei si concentra un sapere e una capacità di orientamento successivo allo shock che produce, rendendo visibile ciò che normalmente viene oscurato: un’intrinseca connessione tra lavoro e prostituzione che prende forma nei modi capitalistici di produzione post-fordisti. Quanto più il lavoro si avvicina alla prostituzione – scrive Benjamin – tanto più ci si sente spinti a definire la prostituzione come lavoro – come succede già da tempo nel gergo delle puttane. Nel segno della disoccupazione quest’avvicinamento avanzò a passi da gigante; il keep smiling riciclò sul mercato del lavoro quello che sul mercato dell’amore era l’atteggiamento della prostituta che lancia un sorriso invitante34.
La vendita in vetrine del corpo della prostituta, oltre a risultare un canone dell’esperienza, si rivela allora agli occhi profetici di Benjamin la forma storica dell’epoca della trasparenza assoluta, dove nulla è più privato, costruita sugli avanzi del mondo di sogno della borghesia. Una ricostruzione per molti versi analoga a quella delineata da Gramsci che, pur confrontandosi con gran lucidità con un capitalismo affrancato dalla forma di vita borghese, tuttavia non si spinge a prefigurare, come invece fa Benjamin, un oltrepassamento dell’organizzazione fordista della produzione.
32 Walter Benjamin, I passages di Parigi, in Id., Opere complete, Einaudi, Torino 2000, vol. IX, p. 569. 33 Cfr. ivi, p. 778. 34 W. Benjamin, Charles Baudelaire cit., p. 814.
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3. Gramsci e Benjamin: marxisti eretici Contrariamente a quanto è solita fare la critica benjaminiana, le tesi Sul concetto di storia35, verosimilmente scritte nei primi mesi del 1940 e lasciate in eredità ai posteri come testo incompiuto, sono presentate dal suo stesso autore non come un testo autonomo, ma come «un’armatura teorica»36 elaborata come premessa storico-gnoseologica per i materiali che andava raccogliendo in vista della stesura del libro su Baudelaire, autentica critica economico-politica del XIX secolo. In gioco nelle tesi è la possibilità di articolare un’idea di storia in grado di definire il terreno di intervento politico in senso marxista. Si può dire che questo sia il testo in cui emergono le maggiori affinità tra Benjamin e Gramsci. Comune è la critica al marxismo della Seconda Internazionale e alla nuova ortodossia staliniana, in cui entrambi individuano un sostanziale rapporto di continuità. Entrambi si oppongono a una visione deterministica della storia e a una concezione meramente “progressiva” della lotta rivoluzionaria. La loro posizione rispetto al marxismo dell’epoca è dunque similmente anomala, tanto da renderli analogamente “eretici” all’interno del pensiero marxista. Potrebbe sembrare – e per molti aspetti è vero – che, dopo la comune delusione della realtà sovietica, le loro posizioni contrastino rispetto alla figura e alla funzione della rivoluzione. Se per Gramsci il destino della rivoluzione è ormai affidato al conflitto egemonico che vede nel “moderno Principe” un nuovo soggetto in grado di coagulare una tensione collettiva come coscienza di una modernità ancora da compiere, Benjamin continua, invece, a chiamare in causa la lotta di classe come terreno di scontro politico in grado di mobilitare il «soggetto della conoscenza storica», che si faccia carico dell’eredità dell’intera vicenda degli oppressi e dei vinti. Nonostante l’attenzione per le classi subalterne, che tanto peso ha avuto nella ripresa del pensiero gramsciano da parte degli studi post-coloniali37, potrebbe sembrare che Gramsci sia piuttosto uni35 Walter Benjamin, Sul concetto di storia, in Id., Opere complete cit., VII. Scritti 1938-1940, Einaudi, Torino 2006, pp. 483-493. Per un’analisi puntuale del testo cfr. Dario Gentili, Il tempo della storia. Le tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, Quodlibet, Macerata 2019. 36 Walter Benjamin, Gesammelte Briefe, a cura di C. Gödde e H. Lonitz, Surhkamp, Frankfurt a.M. 2000, vol. VI, p. 400. 37 Cfr. almeno Neelam Srivastava, e Baidik Bhattacharya (a cura di), The Postcolonial Gramsci, Routledge, London 2012.
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vocamente interessato alla definizione di un soggetto politico, che si articoli nei termini classici del rapporto tra Stato e società civile. Si potrebbe sostenere, cioè, che le classi marginalizzate dallo sviluppo capitalistico, per Gramsci, non possano farsi soggetto politico senza l’elaborazione di un’egemonia che riesca ad addensare queste forze. Tuttavia, non si darebbe egemonia nel senso gramsciano senza la possibilità di un’elaborazione della storia che si ponga dal punto di vista degli oppressi. Qualcosa che ha intimamente a che fare con la prospettiva che emerge nelle tesi Sul concetto di storia di Benjamin. Per entrambi si tratta allora di articolare un concetto materialistico di storia, in cui il passato non si presenti mai come un continente chiuso e un processo definitivamente compiuto, come Benjamin vede in atto nello storicismo. Anche la modernità, che pure ha teso a definire i limiti di ciò che è politico dal punto di vista dei vincitori, separando lo spazio pubblico di azione politica dalla dimensione privata, che come tale è tutelata solo per chi ne ha diritto, continua a recare in sé possibilità ancora incompiute. Come le porte socchiuse dell’albergo di Mosca dove Benjamin soggiornava o come il marciapiede in cui alberga la prostituta, sono la soglia di quella dimensione che rende politico ciò che apparentemente è solo personale. Questo è possibile non grazie alla ripresa e alla difesa dei diritti liberali borghesi; quegli stessi diritti che sono stati chiamati in causa anche ai nostri giorni, nelle critiche alle normazioni eccezionali promulgate in seguito alla diffusione della pandemia o con la difesa dei valori occidentali contro la Russia di Putin durante la guerra in Ucraina, senza voler mettere in discussione il fatto che le democrazie occidentali con strutture istituzionali liberali sono anche promotrici di politiche egemoni, che continuano a sfruttare l’80% delle risorse del pianeta a favore di una minima parte della popolazione mondiale. Una condizione che continua a produrre sperequazione e sfruttamento. Solo la costruzione di una coscienza collettiva dal punto di vista degli oppressi è in grado di squarciare il futuro in cui i vinti trovino ancora posto nella storia proprio a partire da una radicale trasformazione del passato. Una diversa narrazione nel senso di Benjamin è il modo attraverso cui un’egemonia nei termini di Gramsci si rende ancora possibile a partire dal potere dei subalterni di autorappresentarsi come forza politica di fronte al divenire della storia.
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Il piccolo principe: Sorel, mito e violenza tra Benjamin e Gramsci Massimo Palma
Prologo-epilogo: Georges Sorel, “sociologo del mito” e prefascista Nel gennaio 1938 la rivista «Esprit» pubblicava un contributo di Paul-Ludwig Landsberg, allievo di Scheler e Husserl, in cui Georges Sorel veniva definito «il primo sociologo del mito». Landsberg, da poco emigrato dalla Germania, notava come Sorel, debitore à la fois di Nietzsche e di Marx, di Bergson e di Lenin, avesse un’idea del mito collettivo come una pura forma dal «contenuto interscambiabile». A Sorel, scrive Landsberg, si doveva una buona parte della “mitomania” dell’epoca, nonché un’influenza sulla piega politica presa da certo post-surrealismo che in quegli anni insisteva sulla necessità di inventare nuovi miti (pochi mesi dopo uno che con quegli ambienti aveva più di una liaison, Raymond Queneau, parlò al riguardo di «sete di mito (soif de mythe)»1). Landsberg proseguiva l’articolo ricordando l’incontro del vecchio Sorel, nel 1912, con un giovane Mussolini, che ne sarà «molto influenzato»2. 1 L’espressione «sete di miti» è in Raymond Queneau, Le mythe et l’imposture, «Volontés», février 1939, 14, pp. 14-17, poi in Id., Le Voyage en Grèce, Gallimard, Paris 1973, pp. 151-155: 154. 2 Paul-Ludwig Landsberg, Introduction à une critique du mythe, «Esprit», janvier 1938, pp. 512-529, citazione a p. 518 (riproduzione di una conferenza tenuta a Bruxelles nel dicembre 1937). Landsberg, da posizioni personaliste, era come Benjamin in contatto con il Collège de Sociologie di Bataille e Caillois, tra gli istituti più attivi in Francia nel propagare la necessità di un recupero del mito. Cfr. Denis Hollier (a cura di), Le collège de Sociologie, Gallimard, Paris 19952, pp. 50-52 nota e p. 827. Sull’uso di Sorel all’interno del Collège (e in particolare in Caillois come elogio settarista di una “minorité agissante” e mitopoietica), cfr. le critiche di Marcel Mauss in una lettera a Elie Halévy, ivi, pp. 848-849. Sul tema cfr. Rita Bischof, Tragisches Lachen. Die Geschichte von Acéphale, Matthes & Seitz, Berlin 2010, pp. 238-240.
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Nel 1938, quindi, certe linee critiche nei confronti della contraddittoria eredità del teorico del sindacalismo erano state già ampiamente tracciate. Antonio Gramsci e Walter Benjamin, l’uno appena morto, l’altro morituro, si iscrivono dunque in un sentiero già tracciato. Entrambi possono vantare una notevole sensibilità per il concetto soreliano di “mito” e le sue ambiguità. Quasi all’unisono, infatti, Benjamin e Gramsci riconoscono a Sorel il discutibile merito di aver generato mostri. Già nel 1927 Benjamin lo aveva definito “padre” di Georges Valois, esponente di un sindacalismo che è «il miglior vivaio (Pflanzschule) dei capi fascisti»3. E in quello stesso 1938, anno dell’uscita dell’articolo di Landsberg, in una recensione dedicata a Julien Benda, Benjamin appaierà Sorel a Céline, ma anche a Rosenberg e Goebbels4. I quattro nomi, elencati in perfida scala discendente verso il basso, presenterebbero una vena comune riconoscibile oggi come un culte de la blague con tratti distintamente antisemiti, che aveva addirittura in Baudelaire il suo avo5. 3 Walter Benjamin, Per la dittatura (1927), in Id., Senza scopo finale. Scritti politici 1919-1940, a cura di M. Palma, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 78-82: «Quale allievo di Sorel, il grande, davvero significativo teorico del sindacalismo, [Valois] è partito dal socialismo che, a giudicare dalla più recente esperienza europea, è il miglior vivaio dei capi fascisti. Sotto l’influsso di Sorel, Valois si è confrontato con gli studi economico-sociali e, in occasione di una prima revisione delle sue convinzioni politiche, è entrato nella redazione dell’Action française come specialista di questioni economiche. È stata solo una tappa per lui». Ivi, p. 79. Che anche quella fascista fosse solo una tappa è mostrato dalla fine di Valois da combattente della resistenza francese, morto infine a Bergen-Belsen. 4 Il riconoscimento di un filo in qualche modo diretto, sotto l’egida nietzscheana, tra Sorel e i teorici del mito – anche razzisti e nazionalsocialisti – è una costante del pensiero tedesco emigrato. Oltre che in Landsberg e in Benjamin lo stesso elenco – Sorel, Mussolini, Gobineau, Rosenberg, con la significativa aggiunta di Pareto – si rinviene in un altro ebreo tedesco ormai parigino negli anni Trenta, Eric(h) Weil (Logica della filosofia [1950], a cura di L. Sichirollo, il Mulino, Bologna 1997, p. 384 nota 6), che nella categoria di “Intelligenza” ricostruisce l’alleanza tra intellettuali e volontarismo in nome della mitologia della forza creatrice come unica “verità” da agevolare. A leggere le Réflexions soreliane come «stacco ironico tra verità e forza, verità e vita, verità e comunità» era stato il Thomas Mann del Doctor Faustus (1947, cap. XXXIV, Continuazione; trad. it. di E. Pocar, Mondadori, Milano 1996, p. 435). 5 W. Benjamin, Caillois, Benda, Bernanos, Fessard (1938), in Id., Senza scopo finale cit., pp. 229-233: «Quando [Benda] ad esempio parla del culte de la blague in Sorel, tocca una vena che oggi si può scorgere con altrettanta chiarezza in un adepto del fascismo come Céline e nei suoi portavoce Rosenberg o Goebbels» (ivi, p. 232). Il nesso Sorel-propaganda fascista è svolto parallelamente anche in La Parigi del Second Empire in Baudelaire (1938), in Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, a cura di G. Agamben, B. Chitussi, C.-C. Härle, Neri Pozza, Vicenza 2012, pp. 633-714:
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Anni prima, nei Quaderni, Gramsci aveva riservato a Sorel e alle sue cattive amicizie un trattamento di pari durezza, ma preferendo inquadrarlo in una categoria sociologica: l’intellettuale. Bisogna tener presente che si è esagerato alquanto sulla “austerità” e “serietà” morale e intellettuale del Sorel; […] una certa vanità […] risulta dal tono molto impacciato della lettera in cui vuole spiegare al Croce la sua adesione (sia pure platonica) al “Circolo Proudhon” di Valois e il suo civettare con elementi giovani della tendenza monarchica e clericale. Ancora: c’era un certo dilettantismo negli atteggiamenti “politici” del Sorel, che non erano mai schiettamente politici, ma “politici-culturali”, “politici-intellettuali”, “au dessus de la mêlée”. […] Egli stesso era un “puro” intellettuale6.
Riecheggiando il celebre manifesto pacifista (Au-dessus de la mêlée, 1915) di Romain Rolland, Gramsci non si peritava di definire Sorel un dilettante, mai davvero politico – attore rilevante della politica culturale, non altro. Sorel sarebbe dunque in fondo inutile a livello politico, se non dannoso, per entrambi, per Gramsci e per Benjamin? Le cose stanno diversamente. E in un certo senso proprio la definizione di Sorel come «primo sociologo del mito», fornita nell’agitato articolo di Landsberg trova un fecondo, ambivalente sviluppo nei due. Entrambi si interrogano difatti sulla penetrazione, l’effica«il culte de la blague che si ritrova in Georges Sorel e che è divenuto una componente inalienabile della propaganda fascista ha in Baudelaire il suo primo ovario. Lo spirito con cui Céline ha scritto le sue Bagatelle pour un massacre e il titolo che ha scelto fanno subito pensare a un’annotazione dei diari di Baudelaire» (ivi, p. 636). Sul punto Stephanie Polsky, Benjamin’s gamble: commodifying life in the age of heroic demise, «Conserveries mémorielles», 7, 2010, pubblicato il 10 avril 2010, ultima consultazione il 22 giugno 2022 (URL: http://journals.openedition.org/cm/441). 6 Antonio Gramsci, Quaderno 4, XIII, 1930-1932, §44, in Id., Quaderni del carcere, 4 voll., a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 2001 (1975), vol. I, p. 469. Si veda ivi, vol. IV, pp. 2558-2559, all’interno di una bibliografia su Sorel e l’Action Française in cui compare anche Valois, la citazione da Pierre Lasserre, Georges Sorel théoricien de l’impérialisme. Ses idées. Son action, L’artisan du livre, Paris 1928, p. 50: «Un antidémocrate de gauche, quelle fortune et quel argument pour les anti-démocrates d’extrême droite!». Sul Cercle Proudhon fondato nel dicembre 1911, sotto la «presidenza morale di Sorel» (ibid.), e cui aderirono anche membri dell’Action Française, cfr. l’analisi di Mimmo Cangiano, Cultura di destra e società di massa, Nottetempo, Milano 2022, pp. 201-202, sul breve momento di avvicinamento tra Sorel e Charles Péguy tra il 1911 e il 1912 proprio a partire dall’uso “narrativo” del mito per preservare l’autonomia di una pretesa cultura proletaria o popolare rispetto a quella borghese. Cfr. ivi, pp. 281-288, sull’approssimazione in chiave antidreyfusarda e antiborghese (nonché antisemita), e le persistenti distanze.
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cia, il pericolo dei miti sociali in riferimento alla costruzione di un agire politico di massa. 1. 1921: Le Riflessioni e la Critica della violenza È nel 1921 che Benjamin legge finalmente quel «libro necessario dalla Francia» che gli doveva arrivare, come aveva annunciato per lettera all’amico Gerhard Scholem il 1° dicembre 19207. Con ogni probabilità, in quel messaggio stava parlando delle Réflexions sur la violence di Sorel. Quando le legge Benjamin, le Réflexions sono ormai alla quarta edizione. In prima stampa il testo esce per la Librairie de “Pages Libres” nel 1908, conta 257 pagine. Due anni dopo esce per Marcel Rivière con un capitolo (Unité et multeplicité) e 165 pagine in più. La terza edizione, per gli stessi tipi, è del 1913 e conta anche il capitolo Apologie de la violence. Dopo la pausa della guerra, in cui Sorel tace editorialmente per sei anni, nel 1919 le Réflexions riappaiono con l’aggiunta ulteriore di un Pladoyer pour Lénine, sempre per Rivière: contano 458 pagine. È l’edizione che vedrà Benjamin, ristampata identica nel 1921. In Italia il testo era stato tradotto dalla prima edizione nel 1909, a opera di Antonio Sarno, con una introduzione di Benedetto Croce, con cui Sorel corrispondeva dal 20 dicembre 1895 (il rapporto epistolare si chiuderà il 26 agosto del 1921, un anno prima della morte, a settantaquattro anni, di Sorel8). Sempre per interessamento di Croce9, l’opera verrà rieditata con le aggiunte nel 1926: Gramsci dovrebbe aver avuto presente entrambe le edizioni. Per quanto riguarda Benjamin, un primo, enigmatico cenno all’opera soreliana appena letta è nell’oscuro frammento chiamato 7 Walter Benjamin, Gesammelte Briefe, 6 voll., a cura di Ch. Gödde e H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1995-2000, vol. II (1996), pp. 109-113: «Appena mi arriverà un libro che mi è necessario dalla Francia andrò alla seconda parte della Politica». 8 Cfr. Georges Sorel, Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Onufrio, De Donato, Bari 1980: si tratta di 343 lettere. Una selezione fu pubblicata su «La Critica», a partire dal numero XXV del 1927 fino al numero XXVIII del 1930. 9 Sorel parla di Croce come «scrittore (écrivain) […] molto conosciuto in Italia per la sua notevole sagacia come critico e come filosofo». Cfr. Georges Sorel, Riflessioni sulla violenza (19195), in Id., Scritti politici, a cura di R. Vivarelli, Utet, Torino 20062, pp. 79421, in part. p. 340 nota a.
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Capitalismo come religione, dove appare un mero appunto, in un elenco: «Capitalismo e diritto. Carattere pagano del diritto Sorel: Réflexions sur la violence, p. 262»10. Vale la pena notare come il punto richiamato non sia esattamente perspicuo. Se diamo retta alla quarta edizione – o alla quinta, invariata nel 1921 – il passo di p. 262 non sembra richiamare alcun tratto “pagano” del diritto, che è chiamato in causa, nell’ambito di un passo sulle presunte “leggi naturali” dell’economia, solo con una breve frase: «il diritto può arrivare alle formule più semplici, più sicure, più belle, poiché il diritto delle obbligazioni domina in ogni capitalismo avanzato»11. A dispetto di una prima occorrenza non proprio nitida, nelle stesse settimane la presenza di Sorel in un altro storico luogo del giovane Benjamin si fa più evidente e chiara. In Per la critica della violenza Sorel emerge infatti con tonalità piuttosto accese ed elogiative, benché in fin dei conti il giudizio sulla sua teoria appaia ambivalente. Se di recente Fredric Jameson ha proposto di leggere tutto Zur Kritik der Gewalt come un «commentario su Sorel suggellato non dalle costituzioni e dalle riflessioni giuridiche dell’Illuminismo ma, piuttosto, dalla “divina violenza” di Sorel, appunto, e del bolscevismo», e ancora come una «meditazione sull’influente Riflessioni sulla violenza»12, è vero che nel suo testo Benjamin dichiara come il libro abbia senz’altro il merito di aver distinto – «in relazione alla violenza» – due diverse modalità di sciopero generale: il “politico” e il “proletario”. Lo sciopero generale politico è finalizzato alla costruzione di una Staatsgewalt «forte, centralizzata e disciplinata»13, mentre quello proletario si prefigge l’unico compito dell’annientamento della potestà statuale. Esso «elimina tutte le conseguenze ideologiche di ogni possibile politica sociale; i suoi partigiani considerano le riforme, anche le più popolari, come
10 W. Benjamin, Capitalismo come religione (1921), in Id., Senza scopo finale cit., pp. 42-47, in part. p. 45. 11 G. Sorel, Riflessioni sulla violenza cit., p. 280. 12 Fredric Jameson, Dossier Benjamin (2020), a cura di M. Palma, Treccani, Roma 2022, p. 126 e pp. 225-226. 13 W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921), in Id., Senza scopo finale cit., pp. 49-73, p. 63. La citazione è da G. Sorel, Refléxions sur la violence, Paris 19195, p. 250; trad. it., p. 271: «les politiciens préparent déjà les cadres d’un pouvoir fort, centralisé, discipliné». Facile notare come Benjamin traduca pouvoir con Gewalt.
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borghesi»14. Lo sciopero generale proletario sarebbe, nei termini benjaminiani, un «mezzo puro non-violento» perché prende la «decisione di riprendere soltanto un lavoro interamente mutato, non coartato dallo Stato». Sorel ricusa ogni sorta di programmi, utopie, insomma, di posizioni di diritto per il movimento rivoluzionario: «Con lo sciopero generale tutte queste belle cose vanno in fumo; la rivoluzione appare come una pura e semplice rivolta, senza che ai sociologi, alle eleganti persone di mondo amiche delle riforme sociali, agli intellettuali che si dedicano alla professione di pensare per il proletariato, venga lasciato posto alcuno»15. A questa concezione profonda, etica e genuinamente rivoluzionaria non si può controbattere con una considerazione che voglia stigmatizzare come violenza uno sciopero generale di tal fatta, per via delle sue possibili conseguenze catastrofiche16. Nel Benjamin ancora premarxista del 1921 è evidente la valutazione positiva del catastrofismo palingenetico di Sorel. E al contempo un apprezzamento della genuinità rivoluzionaria di Sorel – l’apprezzamento della qualità “morale” della sua scelta a favore della categoria dei “produttori” (pur ambivalente nella scelta terminologica). Non una parola, invece, spende Benjamin sull’elemento che tanto toccherà Gramsci, ovvero il carattere mitico dello sciopero generale. Che appare nelle Riflessioni sulla violenza quasi in apertura. Gli uomini che partecipano ai grandi movimenti sociali si figurano le loro future azioni sotto forma di immagini di battaglie […]. Lo sciopero generale dei sindacalisti e la rivoluzione catastrofica di Marx sono dei miti17.
Il mito è, dunque, innanzitutto «un’immagine collettiva di battaglia». Ancora nella lettera a Daniel Halévy collocata in guisa di introduzione alle Riflessioni leggiamo: Gli attuali miti rivoluzionari sono quasi puri; essi permettono di comprendere l’attività, i sentimenti e le idee delle masse popolari che si preparano ad entrare in una lotta decisiva, non si tratta di descrizioni di cose, ma di G. Sorel, Riflessioni sulla violenza cit., p. 229; trad. mod. Ivi, p. 233. 16 W. Benjamin, Per la critica della violenza cit., p. 64. 17 G. Sorel, Riflessioni sulla violenza cit., p. 104. 14 15
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espressioni di volontà. […] conducono gli uomini a prepararsi per una battaglia per distruggere ciò che esiste18.
Ora, è noto come anche Benjamin, in quel capolavoro di “distruttivismo” anarchico che è Per la critica della violenza, non faccia che trattare del “mito”. Ma non ne parla affatto nella chiave soreliana. Certo, “mito” è termine decisivo per Benjamin proprio in quel saggio denso, forse redatto con fin troppa foga e finito per un caso fortunato in una delle sedi editoriali più prestigiose dell’accademia tedesca19. Ma Benjamin ne stigmatizza pesantemente appena qualche pagina dopo: «Nella sua forma archetipica, la violenza mitica è mera manifestazione degli dei»20. O ancora: «la manifestazione mitica della violenza immediata si rivela nel suo strato più profondo identica a ogni violenza giuridica»21. Il termine “mito” – caratterizzato da eterno ritorno dell’uguale, mutismo, destinalità ed epifania di violenza iterata che spoglia la vita di ogni determinazione (rendendola “mera vita”) – trova dunque una sua specificazione determinata nella Gewalt giuridica: lo stesso ambito giuridico, le sue procedure sanzionatorie, sarebbero un’operazione mitologica trasparente al “critico” della violenza, che ne svela la matrice mitica atta, in ultima istanza, a riproporre la morte come unica alternativa – «sostanza dura» – in caso di trasgressione22. Una mossa radicalmente anti-soreliana, dato che “mito” è termine decisivo in Sorel, sin dall’inizio. Ma dove l’elogio di Benjamin a Sorel pare radicalmente arenarsi, nello stesso punto comincia l’interesse di Gramsci.
Ivi, p. 114. Sul carattere formalmente eccepibile di Per la critica della violenza ha scritto Peter Bojanić, Una critica filosofica della violenza, in Alessandra Sannella, Micaela Latini (a cura di), La grammatica della violenza. Un’indagine a più voci, Mimesis, Milano-Udine 2017, pp. 99-108, in part. p. 100. Il saggio, grazie a Emil Lederer, uscì nell’agosto 1921 sull’«Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik» fondato da Weber, Werner Sombart e Edgar Jaffé. 20 W. Benjamin, Per la critica della violenza cit., p. 67. 21 Ivi, p. 69. 22 Riprendiamo Furio Jesi, Károly Kerényi, in Id., Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea (1979), a cura di A. Cavalletti, Einaudi, Torino 2001, p. 31: «la mitologia è quel linguaggio universale che getta intorno all’uomo un cerchio dal quale non è possibile uscire senza entrare immediatamente nel cerchio della morte». 18 19
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2. Gramsci, il Quaderno 13 e Sorel mitopoieta Il celebre Quaderno 13 gramsciano, dedicato alla politica di Machiavelli, si apre infatti con una questione aperta e tutta soreliana. Il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistematica ma un libro “vivente”, in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del mito. […] L’elemento dottrinale e razionale si impersona in un condottiero, che rappresenta plasticamente e “antropomorficamente” il simbolo della “volontà collettiva”23.
Il “condottiero” – poco oltre avvicinato al “capo charismatico” di Robert Michels e Max Weber – sarebbe dunque l’eroe-mito, la “persona” drammatica che simboleggia la volontà collettiva. Ma è ben lontana da Gramsci – così come da Benjamin, che in Per la critica della violenza lo pensa nella chiave del “grande criminale” – una qualsivoglia attenzione alla figura fondativa dell’eroe: Gramsci accoglie con fastidio il cianciare di Michels sul “charisma” – un Michels in quegli anni ormai conclamato sostenitore del regime fascista, da che era stato corrispondente tanto di Sorel quanto di Weber24. Il tema era apparso già vari anni prima nello scritto sul “capo” apparso in memoria di Lenin nell’«Ordine Nuovo». Celebrando il dirigente bolscevico da poco scomparso, Gramsci rifuggiva dalla 23 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., vol. III, p. 1555 o Id., Il moderno principe. Il partito e la lotta per l’egemonia. Quaderno 13. Noterelle sulla politica del Machiavelli, a cura di C. Donzelli, Donzelli, Roma 2012, p. 85. Si veda Gabriele Pedullà, L’arte fiorentina dei nodi, in Niccolò Machiavelli, Il principe. Edizione del cinquecentennale, Donzelli, Roma 2013, pp. V-CXVII: XXV, che mostra la novità, notata da Gramsci, del Principe quanto al suo carattere “mitico” (o profetico e quindi prescrittivo) rispetto agli specula principis della tradizione quattrocentesca. L’intera e orientata lettura di Leo Strauss poggia sull’identificazione tra Machiavelli e il profeta, come «portatore di un nuovo codice, il codice in accordo con la verità, con la natura delle cose». Leo Strauss, Thoughts on Machiavelli, The University of Chicago Press, Chicago-London 1958, p. 83. 24 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Q 2, § 75, vol. 1, pp. 230-239: «Il Michels ha fatto molto baccano in Italia per la “sua” trovata del “capo charismatico” che probabilmente [occorrerebbe confrontare] era già nel Weber; bisognerebbe vedere anche il libro del Michels sulla Sociologia politica del 27: non accenna neanche una concezione del capo per grazia di dio è già esistita e come». Ivi, p. 231. Il riferimento è al Corso di sociologia politica, Istituto Editoriale Scientifico, Milano 1927. Sull’ultimo Michels, e sugli «equivoci del presunto weberismo di Michels», cfr. le valide pagine di Francesco Tuccari, I dilemmi della democrazia moderna. Max Weber e Robert Michels, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 309-339: 317 e 337-339.
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lettura del dirigente politico come leader e personalità. Annotava piuttosto come «nella quistione della dittatura proletaria il problema essenziale non è quello della personificazione fisica della funzione di comando. Il problema essenziale consiste nella natura dei rapporti che i capi o il capo hanno col partito della classe operaia: […] sono essi puramente gerarchici, di tipo militare, o sono di carattere storico e organico?»25. Sono queste parole che anticipano il Benjamin del saggio su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Più precisamente prefigurano una nota densissima della Terza Versione che si sofferma sulla scomparsa della contrapposizione, nella lotta di classe, tra individuo e massa: «per quanto la massa sia decisiva per il capo rivoluzionario (für den revolutionären Führer), la più grande prestazione di questi non consiste nell’attrarre a sé le masse, ma nel farsi continuamente includere in esse, per essere sempre di nuovo, per loro, uno tra centinaia di migliaia»26. Qualche anno dopo in Gramsci il nesso soreliano e “mitico” del problema del “capo” è esplicitato immediatamente con parole famose. Il principe è infatti identificato con un mito. Il Principe del Machiavelli potrebbe essere studiato come una esemplificazione storica del “mito” sorelliano, cioè di una ideologia politica che si presenta non come fredda utopia né come dottrinario raziocinio, ma come una creazione di fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva27.
Gramsci pensa a un uso del mito politico nella chiave di un’organizzazione non spontaneista della volontà collettiva (e quindi non a una manifestazione “immediata” della sua violenza, in termini benjaminiani). Definendo la volontà politica in «senso moderno» come «coscienza operosa della necessità storica», rivendica al partito il ruolo di «protagonista di un reale ed effettuale dramma storico»28. In questa chiave Gramsci immagina un uso “giacobino” del 25 A. Gramsci, Capo, «L’Ordine Nuovo», III, 1, marzo 1924, in Id., Scritti dalla libertà, a cura di A. D’Orsi, Editori Internazionali Riuniti, Roma 2012, pp. 483-487. 26 W. Benjamin, Terza Versione, §12, nota 12, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, a cura di F. Desideri e M. Montanelli, Donzelli, Roma 2019, pp. 93-94. 27 A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., vol. III, p. 1556 (Il moderno principe cit., p. 88). 28 Ivi, p. 1559 (Il moderno principe, pp. 97-98).
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mito per affermare la volontà politica collettiva, sottolineandone la concretezza, di contro all’astrazione intellettualistica, calcolata, del mito soreliano. E rivendicando così anche la linea che da Machiavelli arriverebbe proprio ai giacobini del Settecento prima e del Novecento dopo, per separarsi da Sorel proprio nella sua incapacità di strutturare i soggetti creatori del mito politico. Si può studiare come il Sorel, dalla concezione dell’ideologia-mito non sia giunto alla comprensione del partito politico, ma si sia arrestato alla concezione del sindacato professionale. È vero che per il Sorel il “mito” non trovava la sua espressione maggiore nel sindacato, come organizzazione di una volontà collettiva, ma nell’azione pratica del sindacato e di una volontà collettiva già operante, azione pratica la cui realizzazione massima avrebbe dovuto essere lo sciopero generale, cioè un’“attività passiva” per così dire, di carattere cioè negativo e preliminare (il carattere positivo è dato solo dall’accordo raggiunto nelle volontà associate) di una attività che non prevede una propria fase “attiva e costruttiva”29.
L’ostilità soreliana all’organizzazione partitica viene stigmatizzata da Gramsci come un «impulso dell’irrazionale, dell’“arbitrario” (nel senso bergsoniano di “impulso vitale”)», ossia della “spontaneità”. Ma l’interesse delle formule di Sorel non può arrestarsi alla condanna. Può un mito però essere “non costruttivo”, può immaginarsi, nell’ordine delle intuizioni del Sorel, che sia produttivo di effettualità uno strumento che lascia la volontà collettiva nella sua fase primitiva ed elementare del suo mero formarsi, per distinzione (per “scissione”) sia pure con violenza, cioè distruggendo i rapporti morali e giuridici esistenti? Ma questa volontà collettiva così formata elementarmente non cesserà subito di esistere, sparpagliandosi in una infinità di volontà singole […]?30
Per ovviare alla dispersione “elementare” di un’azione primitiva e non mediata, Gramsci si richiama a un partito di tipo nuovo. Un partito che non ripudi a priori l’elemento dell’irrazionale, ma che lo sappia organizzare nella sua complessità, indirizzandone la tendenIvi, pp. 1556-1557 (Il moderno principe cit., p. 89). Ivi, vol. III, p. 1558 (Il moderno principe cit., p. 92). L’affinamento del mito al concetto di “blocco storico” in Gramsci è ben analizzato da Carmine Donzelli nella sua Introduzione, in Il moderno principe cit., pp. 32-34, sulla base del Quaderno 10, dedicato a Croce, § 41, che si chiede se la crociana dialettica dei distinti possa trovare una soluzione speculativa o storica, «data dal concetto del “blocco storico” presupposto dal Sorel». Ivi, vol. II, p. 1316. 29 30
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za all’universale, al totale. Le passioni politiche vanno quindi elaborate, plasmate attraverso l’organismo partitico, perché perdano la dispersività senza perdere la diffusione. E in questo il carattere mitico, che pertiene all’organismo complesso che Gramsci chiama in causa come “mito-principe”, può aiutare. Il moderno principe, il mito-principe non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a diventare universali e totali31.
Eppure il tema della “passione”, ovvero dell’irrazionale come matrice dell’atto politico, ha una duplicità incontestabile. Valido come metafora dell’impegno partitico a organizzare un’egemonia, rischia di svanire appena enunciato, secondo una facile critica crociana, che – vedremo – riprenderà un giovane Ernesto de Martino. E allora che fare degli irrazionali? Del mito, della passione? L’elemento “passionale” come origine dell’atto politico, così come è teorizzato dal Croce, non può essere accettato tal quale. Dice il Croce a proposito del Sorel: «il “sentimento di scissione” non l’aveva garantito (il sindacalismo) abbastanza, forse anche perché una scissione teorizzata è una scissione sorpassata; né il “mito” lo scaldava abbastanza, forse perché il Sorel, nell’atto stesso di crearlo, lo aveva dissipato, dandone la spiegazione dottrinale» (cfr. Cultura e Vita morale, II ed., p. 158). Le osservazioni sul Sorel sono giuste anche per il Croce: la “passione teorizzata” di cui si dà spiegazione dottrinale, non è anch’essa “dissipata”? Né si dica che la “passione” del Croce sia cosa diversa dal “mito” di Sorel, che la “passione” significhi la “categoria” o il “momento spirituale pratico” mentre il “mito” sia una “determinata” passione. […] Sorel non ha teorizzato un determinato mito, ma “il mito” come sostanza dell’azione pratica e ha poi fissato quale determinato mito era storicamente e psicologicamente aderente a una certa realtà. La sua trattazione ha perciò due aspetti: uno propriamente teorico, di scienza politica, e uno pratico, politico. […] In ogni modo rimane la “teoria dei miti” che non è altro che una “teoria delle passioni” con un linguaggio meno preciso e formalmente coerente. Se teorizzare il mito significa dissolvere tutti i miti, teorizzare le passioni significa dissipare tutte le passioni32. Ivi, vol. III, p. 1558 (Il moderno principe cit., pp. 92-93). Ivi, vol. II, Q7, §39, p. 888. Il riferimento è alla seconda edizione (Laterza, Bari 1926) dell’opera “polemica” di Croce. 31 32
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La domanda di Gramsci nel Quaderno 13 potrebbe dunque sintetizzarsi così: è possibile, nella chiave dell’organizzazione della volontà politica collettiva, una considerazione meno anti-filosofica delle passioni e, quindi, del mito stesso? È possibile immaginare una fase in cui le passioni, anche particolari, della struttura (gli interessi corporativi, le istanze economiche che concernono il gruppo sociale, la classe mentre produce), diventa “politica”, fino «a prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l’area sociale, determinando oltre che l’unicità dei fini economici e politici, anche l’unità intellettuale e morale, ponendo tutte le questioni intorno a cui ferve la lotta non sul piano corporativo, ma su un piano “universale” e creando così l’egemonia di un gruppo sociale fondamentale su una serie di gruppi subordinati»33? La questione dell’egemonia passa anche per l’amministrazione del mito. 3. 1934: de Martino, Benjamin, la fiaba e il consiglio In un breve contributo del 1934, Critica e fede, quando quel giovane ventiseienne aveva tutt’altre idee politiche rispetto al futuro antropologo prima socialista e poi comunista, Georges Sorel veniva chiamato in causa da Ernesto de Martino, con una critica che ricalca quelle di Croce e di Queneau, e dello stesso Gramsci. Vedete Sorel: proponeva alle élites proletarie il mito dello sciopero generale, ma poi ne penetrava tanto bene il carattere di funzione e di mito, da dichiararlo impossibile, come tutti i miti […] [a Sorel, come ad altri] spiriti tormentati del nostro tempo sfugge una semplice verità: che non c’è altro modo di aver una fede se non quella della contadina bretone. Fin quando si dirà: “io debbo credere in questo mito perché la sua funzione mi è necessaria ad agire in un certo senso”, è finita, non c’è nulla da fare. La volontà di credere non ha fatto un solo credente34.
Trent’anni dopo, in un passo del capitolo Mundus del progetto incompiuto chiamato La fine del mondo Ernesto de Martino, Ivi, vol. III, p. 1586 (Il moderno principe cit., p. 144). Ernesto De Martino, Critica e fede, «L’Universale», IV, 1934, pp. 279-283, in part. pp. 282-283. Si deve a Massimiliano Biscuso, La questione del simbolismo civile nell’ultimo de Martino, «nostos», 5, dicembre 2020, pp. 59-111, l’aver richiamato di recente questi nessi. 33 34
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a proposito della domanda «Che cos’è il mito?», ne segnalava il «particolare rilievo nell’attuale congiuntura culturale», e forniva un lungo elenco di dotti di varie discipline responsabili di tale «rinnovato interesse» per il mito: «oltre che storici delle religioni ed etnologi e antropologi, anche filosofi, storici e critici della letteratura contemporanea, e perfino ideologi della politica come Sorel (di cui non è certamente spenta l’eco sollevata dal “mito dello sciopero generale”)»35. Tre decenni dopo Critica e fede de Martino dunque si riprometteva, negli appunti e materiali relativi a La fine del mondo, di affrontare il tema della definizione del mito (e quindi del simbolismo mitico-rituale). Il confronto, lì, viene instaurato tra storicità e mito. Il mito serve ad “attenuare” e “mascherare” la responsabilità umana, a frenare le alienazioni individuali, ad “attenuare” e “mascherare” la storicità del futuro. Il mito, si legge ancora, «destorifica il divenire nella ripetizione della stessa immutabile permanenza metastorica»36. Proprio «attraverso questa pia fraus si sta nella storia come se non ci si stesse»37. La coscienza operante è «subordinata, protetta e dischiusa dalla coscienza mitico-rituale egemonica». Guardando a Gramsci e Benjamin alle prese col mito soreliano, e sulla base di questo spunto di de Martino dall’eco gramsciana, la domanda da porsi è se anche e persino all’interno del rapporto col mito non vi sia una coscienza operante e produttiva, pur subordinata, pronta a invertire la dinamica egemonica costruendo dal basso una diversa narrazione, che non destoricizzi, ma aumenti le possibilità di intervento politico all’interno della cornice storica. Nel testo sul Narratore, scritto nel 1936 in perfetta coincidenza temporale con i rimaneggiamenti del saggio sull’opera d’arte, Benjamin trova nella fiaba – con qualche differenza da de Martino, che si esprime diversamente al riguardo nei dintorni del passo citato – un’alternativa e un preludio di ciò che può essere il rovesciamento. Ancora Fredric Jameson ne offre una lettura significativa: «Le fiabe, ricordiamo, sono l’anti-mito per eccellenza, il loro ottimismo conta35 Ernesto de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, nuova edizione a cura di G. Charuty, D. Fabre e M. Massenzio, Einaudi, Torino 2019, p. 150. 36 Ivi, p. 151. 37 Ibid.
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dino è l’antidoto ai mortali riti estetizzanti del fascismo moderno, la loro narrazione è reminiscenza e riscoperta di un modo non alienato di essere. La narrazione è in essenza un artigianato: è un’attività fisica […,] una sorta di mimesi immateriale di questa nuova “povertà dell’esperienza” e una lezione su come usarla in modo produttivo»38. Fiaba e narrazione, nella lettura benjaminiana, raccontano di un rapporto col mito in cui la sua egemonia può, se non ribaltarsi, essere “trattata”, gestita, anche nel suo essere presa in giro. La fiaba (Märchen), che ancora oggi è la prima consigliera (Ratgeber) dei bambini, essendo stata un tempo la prima consigliera dell’umanità, vive ancora, segretamente, nella narrazione. Il primo vero narratore è e rimane quello delle fiabe. La fiaba ci informa delle prime disposizioni prese dall’umanità per sbarazzarsi dell’incubo che il mito le aveva insinuato nell’animo39.
Ma se la fiaba è la prima consigliera dell’umanità in chiave antimitica, se alla narrazione spetta di continuarne il ruolo in condizioni storico-produttive del tutto mutate, è forse promettente notare come vi sia nel corpus benjaminiano almeno un punto in cui il consigliere – l’uomo di consiglio – è stato trattato come figura drammatica e personaggio politico. Accade una decina di anni prima delle argomentazioni su Leskov e la narrazione. Il tema posto da Gramsci negli anni Trenta – la gestione politica della sfera passionale che è interessata dal mito – era stato già analizzato da Benjamin in una chiave che vede comparire anche il nome di Machiavelli. Ed è un luogo in cui Benjamin parla di dittatura. 4. 1925: Benjamin e Machiavelli, dittatura e calcolo degli affetti Nell’Origine del dramma barocco tedesco, Benjamin fa un gran parlare di principi. Protagonisti assoluti del Trauerspiel, ma assolutamente inetti all’azione, i sovrani vengono presentati nel primo capitolo come figure costitutivamente indecise. E Incapacità di decisione è l’anti-schmittiano titolo di uno dei suoi paragrafi più chiari, dove le opere di Gryphius (Catharina), Hallmann (Mariamne), F. Jameson, Dossier Benjamin cit., p. 331. Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov (1936), in Id., Esperienza e povertà, a cura di M. Palma, Castelvecchi, Roma 2022, pp. 83-84. 38 39
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Lohenstein (Agrippina e Sophonisbe) vengono usate per affermare che «il principe, a cui spetta la decisione sullo stato di eccezione, mostra alla prima occasione che una decisione gli è pressoché impossibile (ein Entschluss ihm fast unmöglich ist)»40. Il sovrano, creatura, tiranno e talora martire, cede proprio laddove tutto il dominio è nelle sue mani, perché non ha un nesso politico col mondo che dovrebbe governare, guidare, amministrare. Se non c’è alcuna possibilità di identificare nella Herrschergewalt, pur fissata dalla dottrina del diritto pubblico dell’epoca, un’effettiva capacità di intervenire in modo produttivo sul mondo, più in là nello stesso capitolo Benjamin parla di una figura ulteriore, vicina al sovrano indeciso e incapace, che lo affianca e lo scavalca. Parla del cortigiano, insieme “santo” e “intrigante”. Se il dramma protestante tedesco insiste sui tratti infernali di questo consigliere, nella cattolica Spagna egli entra in scena con la dignità del sosiego, “che mescola l’ethos cattolico e l’antica atarassia in un ideale di cortigiano ecclesiastico e mondano”. Ed è proprio la straordinaria ambiguità della sua supremazia spirituale a determinare la dialettica, del tutto barocca, della sua posizione. Lo spirito – questa la tesi dell’epoca – si mostra nel potere; lo spirito è la capacità di esercitare una dittatura (Geist ist das Vermögen, Diktatur auszuüben)41.
Paradossalmente, proprio mentre prospetta alla sovranità l’impossibilità di esercitarsi, rovesciando quindi l’incipit («sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione») e la generale tesi schmittiana di quella Teologia politica del 1922 che cita esplicitamente in tre celebri note del primo capitolo42, Benjamin pare aprire più di uno spiraglio per la tesi gemella di Carl Schmitt, espressa nel 1921 in parallelo con Per la critica della violenza, sulla dittatura. A “usare” l’istituto dittatoriale sarebbe piuttosto il Geist del cortigiano, più vicino al mondo del sovrano, più uso alla modifica lenta dei rapporti. È satanico per i luterani; disciplinato, sussiegoso e triste per i cattolici spagnoli. Proprio al consigliere, e non al prin40 Walter Benjamin, Origine del dramma barocco tedesco (1928), trad. di A. Barale, intr. di F. Desideri, Carocci, Roma 2018, p. 121. 41 Ivi, p. 149. La citazione interna è tratta da Herbert Cysarz, Deutsche Barockdichtung. Renaissance, Barock, Rokoko, Georg Olms, Hildesheim 1924, p. 248. 42 Carl Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, Duncker & Humblot, München 1922, pp. 11-12 e 14, citata in Origine del dramma barocco tedesco cit., p. 115, nota 18 e p. 116, nota 21 e nota 22.
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cipe, spetterebbe in dote lo spirito dittatoriale. Il consigliere sopra il principe, dunque. La dittatura su “mandato”, commissaria, ben più concreta della sovranità. Proprio La dittatura di Schmitt vedeva tra i protagonisti del suo incipit Niccolò Machiavelli, alfiere dell’«assoluta tecnicità» della politica, della «tecnica razionale dell’assolutismo politico»43. In questa chiave di “possibilità della dittatura” (poter “senza alcuna appellagine eseguire le sue deliberazioni” – recitano i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio 33 citati da Schmitt) è forse curioso ma non impertinente che il Segretario fiorentino venga citato, per l’unica volta in un testo che ha molto a che vedere con le sue teorie e i suoi personaggi, proprio in questo stesso paragrafo dell’Ursprung che abbiamo appena richiamato. [L’intrigante] rappresenta accanto al despota e al martire il terzo personaggio tipico. I suoi calcoli abietti riempiono lo spettatore delle Haupt- und Staatsaktionen di un interesse tanto più grande, in quanto vi può ritrovare non soltanto la padronanza del meccanismo politico, ma anche un sapere antropologico, o addirittura fisiologico, che lo appassiona. L’intrigante superiore è tutto intelletto e volontà. Corrisponde in questo a un ideale delineato per la prima volta da Machiavelli44.
Il consigliere è quindi per il pubblico l’indice di una cognizione antropologica e insieme politica che si esplica in chiave antimitica. È alfiere di un pessimismo duro sull’animalità umana cui si affianca un’operatività, uno Spielraum tutto politico: l’intrigante è «intelletto e volontà». Dopo una lunga citazione da un’opera di Dilthey (Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renaissance und Reformation), che sottolinea «l’uniformità della natura umana, la potenza dell’animalità e degli affetti», Benjamin prosegue: 43 Carl Schmitt, Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen Souveränitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf (1921), Duncker & Humblot, Berlin 2015, pp. 8-9. Sul ruolo del Segretario, cfr. Carlo Galli, Schmitt e Machiavelli (2005), in Id., Lo sguardo di Giano. Saggi su Carl Schmitt, il Mulino, Bologna 2008, pp. 83-106 (sul limite di sguardo nella Dittatura, ivi, pp. 85-86). Benjamin scrisse a Schmitt nel 1930 (Gesammelte Briefe cit., vol. III, p. 558), di avere avuto conferme del suo metodo proprio dalla Dittatura. Dario Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida, Quodlibet, Macerata 2009, pp. 135-142, ha sottolineato il concetto di “mandatario” – analizzato nella Dittatura schmittiana – nello scritto benjaminiano Il carattere distruttivo, nei fatti coevo alla lettera di Benjamin a Schmitt. 44 W. Benjamin, Origine del dramma barocco cit., pp. 146-147.
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Gli affetti umani come motore calcolabile della creatura – nell’inventario delle conoscenze destinate a tradurre la dinamica della storia in azione politica, questo è l’ultimo elemento. Ed è anche all’origine di un insieme di metafore che cercano di mantenere vivo questo sapere nel linguaggio poetico45.
Anche a prescindere dal tratto indubbiamente “triste” e “luttuoso” dell’intrigante-cortigiano-consigliere, Benjamin sembra indicare in questa sua capacità che è insieme “poetica” e “politica” il mezzo per tenere vivo il suo sapere: la calcolabilità degli affetti, dell’umana animalità, si fa strumento di potere politico. «L’intrigante superiore» – dice Benjamin – è tutto intelletto e volontà. Non il principe, ma, dietro, dentro l’automa del sovrano, un piccolo consigliere plasma miti e passioni, sa calcolare. È intelletto. Ma calcolando, architettando strategie che non disdegnino il coinvolgimento di sfere non razionali, vuole “organizzare il pessimismo”. E, come il narratore di fiabe, il consigliere – il partito, gramscianamente, o il dittatore, nella lettura drammaturgica benjaminiana coeva alla sua svolta ideologica del 1924 – può far intuire (a un pubblico di lettori, a spettatori “distratti”, a una classe) un’azione, un modo di produzione che non rima con il mito, né con l’alienazione, che mima la libertà.
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Ivi, p. 147.
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Il ribelle subalterno e lo straccivendolo: appunti per la funzione teorica dei marginalizzati in Gramsci e Benjamin1 Birgit Wagner
Questo contributo è dedicato a due figure marginalizzate: il ribelle “subalterno” Davide Lazzaretti in Gramsci e lo straccivendolo nella poesia di Baudelaire, che serve da pretesto per un saggio di Benjamin.Va precisato subito che il ribelle di Gramsci è un personaggio storico, mentre lo straccivendolo di Benjamin trae la sua origine dalla celebre poesia Le vin des chiffonniers di Baudelaire; Benjamin cercò comunque di dare nella sua elaborazione un quadro socio-economico della situazione degli “straccivendoli” nella Parigi del XVIII secolo. Si tratta di due case studies il cui interesse è legato precisamente a quello che Adorno chiamava l’«Anspruch der Singolarität auf Wahrheit» (il diritto della singolarità di essere percepita nella sua verità)2, in quanto si tratta di una delle premesse metodologiche che Benjamin e Gramsci hanno rispettato – e come! – nelle loro rispettive teorizzazioni. Il mio saggio, quindi, ruota intorno a due quesiti centrali: in primis, in quale modo le due figure sopranominate corrispondano al concetto gramsciano del “subalterno”; in secondo luogo, come Benjamin integra lo “straccivendolo” nella sua opera teorica. Si verificheranno alcune differenze significative, ma anche parallelismi3. 1 Questo saggio, qui un po’ rielaborato, è apparso la prima volta in tedesco nell’«International Gramsci Journal», 3/4, 2020, a cura di Ingo Pohn-Lauggas e Birgit Wagner, pp. 45-58. 2 Theodor W. Adorno, Der Essay als Form, in Id., Noten zur Literatur, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1981, pp. 9-33. 3 Cfr. anche il contributo di Dario Gentili in questo volume, che considera questioni parallele alle mie sotto punti di vista filosofico-politici. Questi non sono assenti nel mio saggio, ma l’attenzione si sposta su figure singole, letterarie e no. Va considerato inoltre
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Sebbene si tratti di fatti conosciuti, è opportuno cominciare con una riflessione sulle esperienze biografiche dei due studiosi, per permettere di valutare le loro posizioni sui “subalterni”. Come si sa, l’infanzia e l’adolescenza di Gramsci in una piccola città sarda, più tardi negli anni di ginnasio a Cagliari, furono caratterizzate dal suo handicap fisico, dalla necessità di lavorare in giovane età e non per ultimo dalla scarsa nutrizione, soprattutto negli anni ginnasiali. È superfluo accennare al suo destino successivo come prigioniero politico. Basta dire che fin dalla sua infanzia aveva una certa familiarità con la situazione di persone marginalizzate, tra l’altro perché lui stesso ne era afflitto. Benjamin invece era figlio di una famiglia ebraico-tedesca, con una bambinaia (lui usa il termine “Magd”, col significato di “serva” oggi desueto, ma che corrispondeva all’uso linguistico di quei tempi), con un domicilio familiare a Berlino e una residenza in campagna. Di questa infanzia e adolescenza compie un ritratto commovente in Berliner Kindheit um neunzehnhundert, libro segnato dall’esperienza della perdita irrecuperabile di questi privilegi sociali ed esempio straordinario di letteratura autobiografica per il suo modo insolito di amalgamare memoria personale e collettiva. Alla prima pagina di questo bel testo nota che «colui di cui qui si parla in una fase successiva fece a meno della sicurezza che era toccata alla sua infanzia»4. Negli anni del suo esilio, Benjamin ha sperimentato condizioni precarissime sul piano economico e su quello umano, che lo resero di fatto una sorta di marginalizzato. Di per sé le esperienze dei due non sono sovrapponibili, ma sono comunque utili per avvicinarsi al tema dei “marginalizzati”; trovano il loro punto di incontro nel fatto che entrambi, loro malgrado, sono stati vittime delle diverse forme di fascismo dell’epoca.
il loro statuto umano e storico e la loro importanza per la “filologia vivente” gramsciana, ovvero un processo conoscitivo/epistemologico non basato sul “caso” singolo come sorgente di conoscenza generale, ma che non lo esclude a priori. 4 Walter Benjamin, Kindheit um neunzehnhundert. Fassung letzter Hand, in Id., Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann, H. Schweppenhauser, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1989, vol. VII.1, pp. 385-433, p. 385 (trad. it. di Birgit Wagner – d’ora in poi BW).
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Benjamin e lo straccivendolo Date le condizioni, non sorprende che Charles Baudelaire sia diventato uno dei temi di ricerca privilegiati dal Benjamin maturo. Il poeta francese era diventato per certi versi oggetto di identificazione da parte di Benjamin, tanto per motivi biografici – entrambi sono dovuti passare da un alloggio povero a un altro ancora più miserabile5 –, quanto per le lucide analisi di Baudelaire sullo stato degli intellettuali e scrittori a Parigi alla prima fioritura del capitalismo. Sotto un altro punto di vista, la coscienza di Baudelaire della sua situazione sociale e politica si differenzia invece in modo decisivo da quella di Benjamin, perché quest’ultimo getta uno sguardo preciso sulle prese di posizione del primo. Baudelaire e il suo “straccivendolo” vengono messi in discussione in Charles Baudelaire. Ein Lyriker im Zeitalter des Hochkapitalismus già nel primo capitolo, Das Paris des Second Empire bei Baudelaire, e precisamente nella prima parte intitolata Die Bohème. Il primo paragrafo avvicina questo fenomeno alla condizione del cospiratore di professione («Berufsverschwörer»), un «tipo politico»6 che Marx aveva già posto in relazione con la bohème, differenziandolo nettamente dalla coscienza di classe del “vero” operaio7. Benjamin rintraccia caratteristiche sociali di questo tipo negli «scritti teorici di Baudelaire»8, introducendo – a mio avviso correttamente – un parallelo molto diretto: «le concezioni politiche di Baudelaire non vanno molto al di là di quelle dei cospiratori di professione»9. Ma che cosa ha tutto questo a che fare con lo straccivendolo? «La grande poesia», come la chiama Benjamin10, Le vin des chiffonniers, nasce da una realtà sociale e giuridica accuratamente in5 Cfr. il mio saggio Walter Benjamin de passage, in Marie-Paule Berranger, Myriam Boucharenc (a cura di), À la rencontre. Affinités et coups de foudre. Hommage à Claude Leroy, Presses Universitaires de Paris Ouest, Paris 2012, pp. 271-282. 6 Walter Benjamin, Charles Baudelaire. Ein Lyriker im Zeitalter des Hochkapitalismus, in Id., Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhauser, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991, vol. I/2, p. 513 (trad. it. BW). 7 Cfr. il già citato saggio di Gentili in questo volume. 8 W. Benjamin, Charles Baudelaire cit., p. 514 (trad. it. BW). 9 Ivi, p. 515 (trad. it. BW). 10 Ivi, p. 519 (trad. it. BW).
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dagata da Benjamin. I confini della città di Parigi nel XVIII secolo erano frontiere doganali, per cui il prezzo del vino era maggiore in città rispetto alle zone limitrofe. Nella Parigi odierna si conservano ancora tracce delle frontiere, come per esempio gli edifici doganali in piazza Denfert-Rochereau. Gli straccivendoli reali di quel tempo corrispondono certamente alla definizione gramsciana del “subalterno”, come vedremo più avanti. Sta di fatto che i cittadini parigini poveri amavano attraversare le frontiere doganali per godersi il “vin de la barrière” a prezzo più contenuto, come lo stesso straccivendolo di Baudelaire. Questa professione, chiaramente da situare in uno dei gradini più bassi della scala sociale, ha avuto origine dallo scarso valore dei rifiuti all’inizio della rivoluzione industriale, a causa dei metodi di riciclo del tempo. Benjamin cita dettagliatamente due studi dell’Ottocento che danno un’immagine precisa dell’introito più che modesto di questi lavoratori – sguardi precoci dei primi «studiosi del pauperismo»11 incentrati sulla miseria umana. Lo straccivendolo di Baudelaire, una figura poetica fittizia, è situato esattamente nello spazio che si apre tra la realtà sociale e lo stato mentale di un uomo che si immagina cospiratore e vendicatore. Vediamo la seconda e terza strofa del poema (poema che non è stato tradotto da Benjamin nelle sue versioni dei Fleurs du mal, forse perché mal si adatta alla metrica tedesca – lo straccivendolo, in tedesco “der Lumpensammler”): On voit un chiffonier qui vient, hochant la tête, Buttant, et se cognant aux murs comme un poète, Et, sans prendre souci des mouchards, ses sujets, Épanche tout son cœur en glorieux projets. Il prête des serments, dicte des lois sublimes, Terrasse les méchants, relève les victimes, Et sous un firmament comme un dais suspendu S’enivre des splendeurs de sa propre vertu12.
Parafrasando: lo straccivendolo è ubriaco e si fa coraggio immaginando fantasie di vendita e di compensazione, come veniva rap11 12
Ivi, p. 521 (trad. it. BW). Charles Baudelaire, Œuvres complètes, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1975, p.
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presentato per un pubblico popolare dal feuilleton di Eugène Sue, Les Mystère de Paris. Bisogna sottolineare che queste letture raggiungevano anche gli strati sociali bassi delle città, per esempio nei cabinets de lecture, dove i romanzi a puntate potevano essere letti a prezzo basso e avevano l’effetto di fomentare le fantasie, come nota Gramsci nei suoi studi sui romanzi in questione. Lo straccivendolo di Baudelaire sotto gli effetti dell’alcol è convinto di essere un ribelle, ma una volta passata la sbornia tornerà a ramazzare spazzatura. In parole gramsciane, egli rappresenta senz’altro il “subalterno”, un uomo che a causa della sua formazione limitata non è capace di comprendere la situazione classista del proprio stato e non possiede le informazioni sufficienti per capire il sistema capitalistico nei suoi fondamenti, oltre all’assenza totale di una organizzazione politica che ne rappresenti gli interessi. Come interpreta Benjamin questo personaggio allo stesso tempo letterario ma ancorato alla società reale dell’Ottocento? Egli nota in primis che il poema di Baudelaire si interessa di uno degli «oppressi, allo stesso modo delle loro illusioni e delle loro condizioni»13. Sono termini meno precisi di quelli che si trovano in Gramsci, ma corrispondono allo stesso stato di cose: una comprensione insufficiente dello straccivendolo per analizzare lo stato attuale della sua classe sociale. Ma poco dopo, questi appare rappresentato sotto la categoria di eroe (terminologia presa a prestito di nuovo da Baudelaire) nella terza parte del libro di Benjamin, sottotitolata Die Moderne: «Lo spossessato emerge dall’immagine dell’eroe»14 e «l’eroe è il soggetto reale della modernità. Ciò vuole intendere che per vivere in essa occorra una costituzione eroica»15. Ma chi sono questi eroi? Il primo è Baudelaire stesso, ma è un flâneur che per staccarsi dalla moltitudine cittadina e vivere secondo le sue idee ha bisogno di uno sguardo distaccato. Il secondo è il suicida proletario, la cui morte rivela il suo stato di “diseredato” – ad esempio il cittadino tunisino il cui suicidio ha dato inizio alla cosiddetta “primavera” araba. Poi alcune figure dell’universo romanzesco di Balzac, come la donna lesbica, che mette in discussione le concezioni egemoniche della femminilità e della mascolinità. Per W. Benjamin, Charles Baudelaire cit., p. 527 (trad. it. BW). Ivi, p. 575 (trad. it. BW). 15 Ivi, p. 577 (trad. it. BW). 13 14
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ultimo il tipo dell’“apache”, che avrà grande fortuna nella letteratura e cinematografia francese delle prime decadi del secolo XX: il piccolo criminale caparbio, indisciplinato, dalla forte carica erotica, non disciplinabile, tipico della malavita parigina. Tratti eroici caratterizzano anche lo straccivendolo, perché rappresenta «migliaia di esistenze non regolate, a casa nei sotterranei della grande città»16. Quello che unisce tutti questi eroi della modernità è il fatto che sono rappresentanti di un’opposizione fondamentale – anche se analizzata spesso in maniera fuorviante – per l’organizzazione capitalistica della Parigi del XIX secolo. Benjamin cita a proposito un testo francese: Qui abbiamo un uomo che deve raccogliere nella capitale i rifiuti del giorno precedente. Tutto ciò che la grande città ha gettato via, tutto ciò che ha disprezzato, tutto ciò che ha calpestato, lui lo registra e lo raccoglie. […] Si comporta come un avaro con un tesoro e si aggrappa alle macerie, che prenderanno la forma di cose utili e piacevoli tra le fauci della dea dell’industria. […] Questa descrizione è una metafora estesa del procedimento del poeta secondo il cuore di Baudelaire. Straccivendolo o poeta: la raccolta pertiene a tutti e due17.
Proprio lo straccivendolo è preso in esame da Benjamin – come abbiamo visto – per una descrizione metaforica del credo poetico di Baudelaire (si ricordi il verso «se cognant aux murs comme un poète»). Detto in altre parole: lo straccivendolo di Benjamin, passando attraverso un processo di metaforizzazione, diventa il rappresentante del poeta e anche una metafora per la scrittura dello stesso Benjamin, soprattutto nel Passagenwerk. Nella parte chiamata Erkenntnistheorie, Theorie des Fortschritts infatti si legge: «Non ruberò nulla di prezioso e non mi approprierò di formulazioni piene di spirito. Ma gli stracci, la spazzatura – di quelli non farò l’inventario, ma lascerò che si realizzino nell’unico modo possibile: usandoli»18. Questa formula si può senz’altro adottare per il “metodo” di Gramsci nei Quaderni del carcere – un metodo di raccolta di citazioni, a prima vista insignificanti, da gior16 Walter Benjamin, Das Passagen-Werk, in Id., Gesammelte Schriften, vol. V, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1983, p. 574 (trad. it. BW). 17 Ivi, pp. 582 e sgg. (trad. it. BW). 18 Ivi, p. 574 (trad. it. BW).
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nali e riviste fascisti. Rappresentano per Gramsci tanti spunti per riflettere, come le numerose citazioni di Benjamin sull’Ottocento nel Passagenwerk. Comunque, la realtà sociale e politica dello straccivendolo, un “subalterno”, per utilizzare il concetto di Gramsci, finisce per passare in Benjamin attraverso un processo di metaforizzazione, che tiene comunque in considerazione la situazione reale di questa categoria di lavoratore. Si tratta di un processo che non è per niente da criticare in Benjamin: il suo saggio non tratta il tema della storia dei subalterni, ma è dedicato al poeta e teorico Baudelaire. Inoltre, in altri scritti come il Passagenwerk, sono presenti rappresentazioni sorprendenti (in modo letterario, più che teorico) della condizione di uomini e anche di donne marginalizzati19. E la letteratura certo non sarebbe una delle forme di conoscenza. Per la seconda parte di questo contributo, rimane da capire se anche Gramsci metaforizzi o meno i marginalizzati. Gramsci e il ribelle sociale In Gramsci il limite tra figure reali e figure fittizie non è mai oltrepassato. Inoltre, bisogna considerare che il banditismo endemicamente diffuso nella Sardegna delle prime decadi del Novecento era una realtà per l’adolescente Antonio – chiamato Nino in famiglia – una realtà presente anche nelle narrazioni, così come è presente nel racconto del premio Nobel Grazia Deledda nel romanzo auto(mito) biografico Cosima (1937)20. Quindi Nino conosceva miti e leggende sulle figure dei banditi e anche i motivi alla base del fenomeno, da valutare diversamente, rispetto a quanto era stato fatto fino a quel momento. Talvolta si consideravano ribelli sociali, come li ha
19 Si veda la seguente citazione tratta dal Passagenwerk a proposito di una venditrice impoverita di un passage parigino che aveva visto tempi migliori: «La luce di una lampada a gas cade sulla carta da parati di colore azzurro chiaro, piena di quadri e busti in bronzo. Una donna anziana sta leggendo accanto ad essa. È sola, da tanti anni». Ivi, vol. V/2, p. 1042; trad. it. BW. Bisogna ricordare che Benjamin è, tra l’altro, un grande artista della lingua tedesca. 20 “Auto(mito)biografico” è un termine proposto dalla critica francese – come alternativa al concetto più tardo di “autofinzione”.
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definiti Eric Hobsbawm, anche per la Sardegna21 – e per quanto il giudizio sia discutibile, visto che i banditi a volte erano anche spinti da una motivazione criminale, molti di loro, tuttavia, venivano considerati “eroi” da larghi strati della società sarda. A causa della sua esperienza personale e della sua pratica di socializzazione culturale, Gramsci possedeva una maggiore familiarità rispetto a Benjamin con realtà della marginalizzazione già a partire dalla sua infanzia e giovinezza; per questo la sua prospettiva risulta più antropologica rispetto a quella di Benjamin, ovvero quella di uno studioso della letteratura, della storia sociale e della storia della filosofia. Di contro, a onor del vero, l’attenzione di Benjamin per la cultura materiale è più sviluppata rispetto a quella di Gramsci. Il ribelle sociale di Gramsci, Davide Lazzaretti, è per molti versi un “cospiratore di professione”, un subalterno insufficientemente politicizzato. Le note che lo concernono si trovano nel Quaderno 25, intitolate Ai margini della storia (Storia dei gruppi sociali subalterni)22. Lazzaretti è una figura dell’Ottocento, come lo straccivendolo di Benjamin, e non è un bandito, per quanto ne condivida alcuni tratti e Gramsci stesso lo associ al brigantaggio. Lazzaretti è nato nel 1834 da una famiglia povera del borgo toscano Arcidosso (ancora oggi un paese), dove esercitava la professione di carrettiere, del tutto comparabile a quella dello straccivendolo. Già in giovane età affermava di avere sogni a sfondo religioso e visioni. Nel corso della sua breve esistenza ha fondato la “Chiesa Giurisdavidica”, una chiesa che seguiva i dettami del diritto del Davide biblico. Fomentava un movimento ribelle, sostenuto dagli strati sociali più bassi del luogo, una sorta di socialismo utopico ispirato dalla Bibbia: modi di vivere secondo il modello della chiesa paleocristiana, proprietà condivise, ecc. Un «miscuglio di dottrine religiose d’altri tempi con una buona dosa di massime socialistoidi», scrive Gramsci23. Precisando anche: «La bandiera di Davide era rossa con la scritta “La repubblica e il regno di Dio”»24. 21 Cfr. Eric Hobsbawm, Primitive Rebels. Studies in Archaic Forms of Social Movement in the 19th and 20th centuries, Manchester Univ. Press, Manchester 1959. 22 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 2283. 23 Ibid. 24 Ivi, p. 2281.
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Ricordando che il Regno d’Italia era in questi tempi una monarchia, propagare idee repubblicane sotto il segno di un paleocristianesimo idealizzato era quindi un atto ad alto rischio. Nell’anno 1878 Lazzaretti fu scomunicato dalla Chiesa cattolica e le sue opere furono messe all’indice25. Nell’agosto dello stesso anno lui e i suoi seguaci furono bloccati da una pattuglia di carabinieri e militari, e tutti uccisi: «con crudeltà feroce e freddamente premeditata»26, come nota Gramsci. La cooperazione dei centri di potere rappresentati dal Regno e dalla Chiesa fu perfetta nel perseguire un obiettivo comune. Perché Gramsci si interessa a una figura marginale sotto il profilo storico? Il filosofo sardo considera questa figura perché per lui non esistono fenomeni marginali e ogni esperienza merita di essere considerata. E poi perché Lazzaretti è un “caso” che permette di riflettere sulle condizioni dei subalterni e di sviluppare una teoria in proposito. Qui saranno riassunte le riflessioni di Gramsci su questa figura. Egli constata la bizzarra commistione tra ragioni politiche e motivazioni religiose di Lazzaretti. Secondo il suo giudizio, Lazzaretti è da accostare al banditismo dell’epoca: «la stessa cosa è avvenuta più in grande per il “brigantaggio” meridionale delle isole»27. E poi specifica: «il dramma del Lazzaretti deve essere riannodato alle “imprese” delle così dette bande di Benevento, che sono quasi simultanee»28. Le motivazioni del ribelle sociale sono quindi comparabili a quelle dei “briganti” e Gramsci condivide qui a ragione le argomentazioni di Hobsbawm applicate al caso Lazzaretti. Non a caso, le reazioni delle autorità a questi due fenomeni sono comparabili. Inoltre, Gramsci nota, seguendo un precoce biografo di Lazzaretti, che questi per i suoi ragionamenti attingeva alla terminologia di base di un romanzo storico di Giuseppe Rovani, Manfredo Pallavicino (1845). Si tratta di un procedimento tipico dei subalterni, che per mancanza di istruzione si rifanno a scritti cui si sentono vicini. Lo conosciamo dalla nostra esperienza odierna, attraverso il successo forse non tanto sorprendente delle fake news. 25 Lazzaretti aveva pubblicato vari libelli sotto denominazioni generiche di tipo “preghiere”, “profezie”, “sogni e visioni”. 26 A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., p. 2280. 27 Ivi, p. 2280. Si noti la menzione delle isole, valido per la Sicilia, ma anche per la Sardegna. 28 Ivi, p. 2282.
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Gramsci riporta inoltre un fatto macabro: Cesare Lombroso, rappresentante della cosiddetta antropologia positivistica, fece riesumare il cadavere di Lazzaretti, per affermare dopo la misurazione del cranio che il defunto aveva un’inclinazione ereditaria verso la criminalità. Gramsci commenta questo fatto come segue: «questo era il costume culturale del tempo: invece di studiare le origini di un avvenimento collettivo, e le ragioni del suo diffondersi, del suo essere collettivo, si isolava il protagonista e ci si limitava a farne la biografia patologica»29. E il motivo alla base di questo agire era il seguente: «per una élite sociale, gli elementi dei gruppi subalterni hanno sempre alcunché di barbarico e di patologico»30. Anche questo ragionamento è utile per riflettere sui giudizi delle nostre élites su uomini e donne, a torto o a ragione, considerati come “marginali”. Questo significa che, dal punto di vista odierno, le premesse metodologiche di Lombroso sono da qualificare come insostenibili – sebbene rappresentino lo stato della ricerca del suo tempo, se non per tutti, almeno per molti studiosi – e comunque necessarie per classificare la tendenza dei regnanti a ricondurre strumentalmente l’origine delle ribellioni alle motivazioni biografiche dei loro capi, esimendosi così dalla riflessione storico-sociale e – soprattutto – escludendo la possibilità di una riflessione adeguata del fenomeno per il proprio elettorato. Subito dopo il primo paragrafo di tipo biografico-analitico, si leggono alcune note destinate ai «criteri metodologici», dove Gramsci sviluppa la sua teoria dei subalterni. La storia dei subalterni sarebbe sempre «disgregata e episodica»31, poiché riportata in forma lacunosa, spesso attraverso scritti che rimandano ad atti di un tribunale penale, cioè generalmente non a deposizioni originali degli accusati. Ma i subalterni sono sottomessi all’egemonia dei regnanti, anche quando si ribellano: esattamente come Benjamin suggerisce per il suo straccivendolo. Quindi Lazzaretti sviluppa il suo credo e la sua missione da una commistione di esperienze biografiche e letture più o meno casuali,
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autodidatte e non contestualizzate32. Gramsci ne deduce una massima – secondo la sua parola-chiave “filologia vivente”! – per cui la storia dei subalterni deve dedicarsi alle singole figure e ai rispettivi movimenti, mentre non è opportuno arrivare a generalizzazioni affrettate. Mi pare un monito che possiamo apprezzare anche oggi, nel momento in cui si indaga su movimenti populisti di destra o di sinistra. Alla fine del Quaderno 25 Gramsci si domanda come mai la sociologia dell’epoca – oggi denominata antropologia positivista – si occupi tanto del fenomeno della criminalità, principalmente grazie a Lombroso e ai suoi seguaci. Gramsci si chiede – interrogativo particolarmente comprensibile anche dalla nostra odierna prospettiva – se si trattasse di deformazioni professionali oppure di «un postumo del basso romanticismo del ‘48 (Sue e le sue elucubrazioni di diritto penale romanzato)»33. Tale ragionamento è accostabile al Benjamin dello straccivendolo, lettore fittizio o comunque sporadico del feuilleton di Sue. Di certo, la conclusione di Gramsci può essere considerata oggi come uscita direttamente dagli studi culturali. Gli intellettuali italiani, secondo Gramsci, «da un punto di vista scientifico» – e cioè secondo i criteri delle scienze naturali – considererebbero il fenomeno del banditismo come barbarie34. In una breve nota egli è capace di puntualizzare la naturalizzazione di fenomeni storico-criminali, senza però approvarli. Un passaggio che si può leggere insieme al celeberrimo saggio Alcuni temi della quistione meridionale del 192635. Gramsci lamenta in questo testo come la situazione socio-politica e il malcostume endemico nel Sud dell’Italia e nelle isole siano determinati da una popolazione ritenuta “barbarica” – senza che gli 32 Con questo procedere è vicino al mugnaio Menocchio, il cui destino – reale – è stato indagato da Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Einaudi, Torino 1975. Nella sua prefazione Ginzburg ricorda in qualche passaggio la terminologia gramsciana, insieme ad altre opere di riferimento. 33 A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., p. 2293. Cfr. a proposito anche Ingo Pohn-Lauggas, Von den ‘Mystères de Paris’ zum ‘Superuomo di massa’, in Daniel Winkler, Martina Stemberger, Ingo Pohn-Lauggas (a cura di), Serialität und Moderne. Feuilleton, Stummfilm, Avantgarde, Transcript, Bielefeld 2018, pp. 123-135. 34 A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., p. 2294: «Scientificamente (cioè naturalisticamente)». 35 Antonio Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale, in Id., Scritti politici, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 243-265.
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“specialisti” si scomodino ad articolare un’analisi storico-sociale. Tale atteggiamento conduce all’impossibilità di eliminare i problemi, perché coincide con la discriminazione di interi strati di popolazione senza condurre a proposte di analisi concrete. Nel Quaderno 27, sottotitolato Osservazioni sul folklore, non si trovano più tracce di Lazzaretti, ma Gramsci torna un’altra volta sulle analisi del Quaderno 25 e sviluppa la sua teoria sul “folklore”, non come elemento pittoresco del passato, ma come «concezione del mondo e della vita»36. E proprio per questo da prendere sul serio, umanamente e politicamente. Il processo mentale che porta Gramsci dal Quaderno 25 (1934) al Quaderno 27 (1935) è paradigmatico per il “metodo” utilizzato dal prigioniero: dalla “filologia vivente” (nel nostro caso quello che oggi chiameremmo un case study) a una teoria elaborata che non trascura i fondamenti empirici. Conclusioni Nei case studies qui discussi, Gramsci e Benjamin partono dalle loro esperienze biografiche, ma non da una ricerca sul campo, piuttosto da rapporti letti. In questo modo Benjamin si è fatto un’idea delle circostanze reali di uno straccivendolo nella Parigi dell’Ottocento. Il Lazzaretti, del quale Gramsci non ha avuto esperienza diretta, non è un “eroe” per lui, piuttosto un esempio delle ambizioni disorientate di un subalterno, con tutte le conclusioni che l’autore dei Quaderni del carcere sa dedurre da questa storia esemplare e che – come credo di aver dimostrato – offre numerose possibilità di riflessione sulla precaria situazione della politica contemporanea. Lo straccivendolo di Benjamin è per questo una cifra che sta per il poeta e infine per sé stesso. Il suo presunto eroismo rappresenta certo una valorizzazione, una stima per i marginalizzati, ma resta 36 A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., p. 2311. Questa «concezione del mondo e della vita» è da collegare al concetto gramsciano di «senso comune». Interessante inoltre l’insistenza di Gramsci sul diritto consuetudinario, accettato da larghe parti della popolazione italiana di quel tempo – si pensi al “codice barbaricino”, il diritto consuetudinario a lungo applicato dalla popolazione dell’interno della Sardegna, più del codice civile dello Stato. Cfr. Antonio Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina, Il Maestrale, Nuoro 2000.
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comunque il relitto di una visione idealizzata del povero, malgrado tutte le contestualizzazioni. Eppure, la letteratura – e con essa la celebre poesia di Baudelaire – non è anch’essa una parte rilevante della storia umana? E non ha Benjamin reso esemplarmente giustizia a questo fatto? Gli straccivendoli di ieri e di oggi con le loro fantasie di vendetta e di giustizia non vivono forse anche ai nostri giorni nei sogni di molti uomini e donne? E gli intellettuali non dovrebbero prenderli sul serio, come ha fatto Benjamin?
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4. Traduzione e critica, avanguardia e cultura popolare
Critica, mediazione e strategia da Gramsci a Benjamin Marco Gatto
1. Questo intervento vuole limitarsi al campo della critica letteraria. A ben vedere, non si tratta di un restringimento disciplinare, visto che sia in Gramsci sia in Benjamin la critica letteraria corrisponde a una più generale critica o filosofia sociale della cultura, e visto che la figura del critico, di conseguenza, corrisponde a quella di uno «specialista+filosofo»1, ossia di un intellettuale-umanista (negli intendimenti gramsciani), e a quella di un filologo che è pure filosofo (come traspare dalle pagine di Benjamin). Questo è sicuramente un primo motivo di convergenza, accanto alla necessità, posta da entrambi, di vedere nel concetto di “critica” uno spazio di riflessione destinato a rinvigorire le ragioni di un marxismo non appiattito sul meccanicismo volgare della Seconda Internazionale (e ciò vale anzitutto per Gramsci) e a rafforzare, dunque, un marxismo ricco di dialettica (è il caso di Benjamin). I termini “mediazione” e “strategia” sono parte di questo vocabolario. E se anche in tal caso il primo è più legato al particolare hegelismo del comunista italiano e il secondo all’idea di «battaglia letteraria», posta da Benjamin all’apice delle note tesi sul compito del critico2, entrambi i termini – “mediazione” e “strategia” – mi 1 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. 3, p. 1551 (Q. 12, § 3). I successivi riferimenti si trovano direttamente nel testo con la sigla Q., seguita dal numero del quaderno, del paragrafo e della pagina. 2 Cfr. Walter Benjamin, La tecnica del critico in tredici tesi, in Id., Strada a senso unico, in Id., Opere complete, a cura di E. Ganni, vol. 2: Scritti 1923-1927, Einaudi, Torino 2001, p. 429.
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pare possano per certi aspetti illuminare alcune traiettorie comuni. Cercherò per questo motivo di esaltare, forse enfatizzandole eccessivamente, prossimità e convergenze, non senza ribadire che profonde possono apparire le divergenze in materia di giudizio estetico. Si può iniziare col dire che entrambi sono in larga parte radicati nella cultura nazionale d’origine. L’intera problematica letteraria nei Quaderni si gioca sul terreno della nazione (o di poche altre nazioni, convocate in sede di raffronto). Oggetto di interesse per Gramsci è la storia degli intellettuali e dei letterati italiani, la loro particolare attitudine mentale, la loro disposizione sociale sullo scacchiere della cultura, peculiarità lette alla luce del percorso storico nazionale e delle sue contraddizioni (è da intendersi in tal senso il Nesso di problemi che apre il Quaderno 21, dedicato alla letteratura popolare). Se si apre un confronto con altre “nazioni letterarie” – in particolar modo, la Francia e la Russia, riassunte l’una dal romanzo d’appendice e l’altra dai fulgidi esempi di Tolstoj e Dostoevskij –, il motivo della comparazione si riassume nella necessità di approfondire anzitutto i deficit della cultura italiana. A questo proposito, la pregnanza dell’espressione “nazionale-popolare” sta senza dubbio nella potenza dell’accostamento (del resto non nuovo, perché proveniente da Ruggiero Bonghi)3, ma anche nell’enfasi accordata alla negazione che la precede e che ne segnala la valenza critico-diagnostica: la letteratura italiana, per Gramsci, ha un carattere non nazionale-popolare, perché prodotta da intellettuali privi di «connessione sentimentale» (Q. 11, § 67, 1505) col popolo-nazione. Anche per Benjamin l’orizzonte letterario e culturale è quello della Germania, per quanto le aperture extranazionali siano molto più ricche e diversificate, e non certo limitate a una comparazione interessata. È Benjamin che si candida a essere, in una lettera a Scholem, «il primo critico della letteratura tedesca»4, eleggendo, se non la Germania, l’Europa centrale a irriducibile geografia di riferimento. In realtà, a mio modo di vedere, il radicamento permette a entrambi, e non è un paradosso, di superare le contraddizioni di 3 Cfr. Ruggiero Bonghi, Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia (1856), Sugarco, Milano 1993. 4 Walter Benjamin a Gershom Scholem, 20 gennaio 1930, in Walter Benjamin, Lettere. 1913-1940, raccolte da G.G. Scholem e Th.W. Adorno, Einaudi, Torino 1978, p. 177.
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uno sterile nazionalismo culturale e di contrassegnare in direzione materialistica i loro punti di vista. Questo sguardo geograficamente militante e situato suggerisce di distinguere, per comodità analitica, due questioni, nel novero delle quali mi sembra produttivo allestire un confronto fra i due pensatori: da un lato, il rapporto tra letteratura e subalternità (tra l’espressione culturale e la «tradizione degli oppressi»5, per menzionare l’ottava Tesi sul concetto di storia); dall’altro, la polemica contro il carattere di casta delle rispettive letterature nazionali e dunque la polemica contro gli intellettuali e la cultura dominante. 2. In prima battuta, devo giocoforza isolare alcuni passi gramsciani, nella certezza che la profonda coerenza del ragionamento di Gramsci mi permetta quest’operazione di apparente smembramento. Nel Quaderno 15 – un quaderno miscellaneo – alla nota 58, si legge con chiarezza il proposito del programma egemonico-culturale imbastito dal prigioniero. «Mi pare che il problema sia questo – scrive Gramsci –: come creare un corpo di letterati che artisticamente stia alla letteratura d’appendice come Dostojevskij stava a Sue e a Soulié o come Chesterton, nel romanzo poliziesco, sta a Conan Doyle e a Wallace, ecc.» (Q. 15, § 58, 1821-1822). La strategia consiste nell’emersione di un’intellettualità che, al pari della letteratura da essa prodotta, «affondi le sue radici nell’humus della cultura popolare» (ivi, p. 1822), garantendo, attraverso un percorso emancipativo, la crescita culturale degli strati subalterni. I quali, privi di questo “corpo di letterati”, sarebbero al contrario condannati a subire l’egemonia di altre produzioni culturali, come accade appunto in Italia, dove il popolo legge la letteratura d’appendice francese perché non esiste una letteratura pensata per le proprie esigenze. E tuttavia Gramsci dimostra che la praticabilità di tale strategia incontra non pochi problemi, derivanti dal fatto che «lo sviluppo del rinnovamento intellettuale e morale non è simultaneo in tutti gli strati sociali» (ivi, p. 1821), perché un’accentuata stratificazione 5 Walter Benjamin, Sul concetto di storia, in Id., Opere complete, a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, vol. 7: Scritti. 1938-1940, Einaudi, Torino 2006, p. 486.
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sociale produce una coesistenza di possibili sviluppi, di simultanei stazionamenti, di accelerazioni inaspettate. Al fondo sussiste, però, una ragione comune, un contrassegno materialistico: per come si è configurata storicamente, la cultura italiana non rende possibile la «funzione “educatrice nazionale”» degli scrittori (così nel Q. 21, § 5, 2114): questi «non si sono posti e non si pongono il problema di elaborare i sentimenti popolari dopo averli rivissuti e fatti propri» (ibidem). Ciò rende impossibile l’innesco di una strategia d’emancipazione estetica e produce ristagno. Nessuno – continua Gramsci – si pone realisticamente il problema del consumo culturale delle classi subalterne e nessuno trae la conclusione che «se i romanzi di cento anni fa piacciono, significa che il gusto e l’ideologia del popolo sono proprio quelli di cento anni fa» (ivi, p. 2114). Se ne ricava, pertanto, un deficit di rappresentazione. Il popolo italiano, nell’attività di lettura, beneficia di una produzione letteraria pensata ed elaborata per un pubblico-altro. E non solo: il popolo italiano non è oggetto di studio e rappresentazione, se non per mezzo delle narrazioni paternalistiche di scrittori appartenenti ai ceti alti. I quali, per dirla con una battuta di Gramsci diventata famosa, per il loro carattere di casta «si sent[ono] più legati ad Annibal Caro o Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese e siciliano» (ivi, p. 2116). E, del resto, il «termine “nazionale” è in Italia legato a questa tradizione intellettuale e libresca» (ibid.), e non alla cultura generale del popolo-nazione. Ora, per quanto sia probabilmente connessa più al problema della letteratura di consumo, e quindi alla questione della letteratura come produzione, che a ragionamenti di sociologia letteraria, sorprende trovare una simile argomentazione anche in Benjamin, con toni e accenti che non possono non ricordare le pagine di Gramsci. Nei Frammenti di critica letteraria, pubblicati nella traduzione di Gabriele Guerra con il titolo onnicomprensivo di Letteratura e strategie di critica, Benjamin si confronta con lo scrittore norvegese Knut Hamsun, autore del celebre Fame (1890). I frammenti 116 e 117, databili al luglio del 1929, riflettono su un identico deficit di rappresentazione. Ci sono esistenze che la letteratura ha taciuto, soppresso, replicando la loro invisibilità sociale: […] nulla di ciò che si trova al centro dell’esistenza di tali uomini [è a noi] accessibile […]. Se si è compreso questo senso di estraneità e ci si è potuti sin210
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cerare quanto a lungo nel corso delle generazioni il contadino abbia taciuto, allora ci sta di fronte Hamsun: la bocca sdentata di infinite generazioni di contadini, che ora comincia ad aprirsi e a dire lentamente la sua parola sulla nostra vita, e che per la prima volta e nella sua lingua lascia esprimere il suo giudizio su di noi6.
E, ancora, nel secondo frammento, questa necessità di dare voce agli oppressi si scontra – qui direi gramscianamente – con l’ignavia e l’indolenza degli intellettuali legittimati e riconosciuti: Alle sue creature più semplici e miserabili come contadini, coloni e mendicanti, egli ha sempre attribuito tutta l’indicibile fragilità, complicazione e abissalità che i nostri “grandi” romanzieri, che non sanno niente ed i problemi li hanno solo nella loro testa, considerano la maledizione e il privilegio del decadente uomo della grande città7.
Insomma, entrambi legano l’assente rappresentazione dei “senza voce” alla miopia degli intellettuali, al carattere classista della loro proposta letteraria o culturale, che sovente risulta confortevole, e non certo spiazzante, per il pubblico. Nel frammento 118, Benjamin menziona una letteratura che è fonte di tranquillità e di quietismo, perché mira a subdoli meccanismi di identificazione tra il lettore e l’eroe. Per chiosare come segue: «il successo di queste opere risiede nel fatto che esse rendono ognuno un “piccolo Napoleone”, un “Goethe interiore”»8. 3. Mi sembra che la strategia di tenere assieme il nesso appena evocato – subalternità versus carattere elitario della cultura tradizionale – emerga dal Programma di critica letteraria (anch’esso probabilmente del ’29) e in particolare dall’individuazione dei gruppi sociali che permettono di questo nesso la manutenzione. Siamo nei pressi del “settarismo” denunciato da Gramsci, in numerosi luoghi dei Quaderni. Si vedano le pagine corrosive su alcuni «sacerdoti 6 Walter Benjamin, Elementi di storia della cultura e della letteratura, in Id., Letteratura e strategie di critica. Frammenti I, a cura di G. Guerra, Mimesis, Milano 2012, p. 40. 7 Ivi, p. 41. 8 Ibid.
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dell’arte» (Q. 23, § 3, 2190), sull’onnipresenza di «papi singoli» (Q. 14, § 72, 1738), su quell’«ultimo accesso di malattia» (ibidem) culturale che è D’Annunzio, e via dicendo; si vedano insomma le riflessioni sul carattere esclusivistico della cultura. Benjamin scrive: La comunità tedesca dei lettori ha una struttura davvero speciale: si divide in due metà, pressoché uguali tra loro: il ‘pubblico’ e i ‘circoli’. Entrambe queste parti si sovrappongono solo in parte. Il ‘pubblico’ vede nella letteratura uno strumento per divertirsi, per ravvivare o approfondire la società, un passatempo nel senso migliore o peggiore. I ‘circoli’ vedono in essa i libri della vita, le fonti di sapienza, gli statuti delle loro piccole conventicole unica fonte di salvezza9.
Il passo certifica che la critica tedesca si è occupata solo del pubblico come destinatario generico, ma non dei “circoli”, cioè di quei gruppi sociali ristretti e autoreferenziali che agiscono come “sette”. Benjamin aggiunge: «è questa [la] specifica forma di barbarie in cui cadrà la Germania se il comunismo non vince»10. Cioè un’ideologia autonomistica che produce forme culturali fondate su un’assente relazione con «l’attività collettiva»11, che è una definizione possibile anche del contesto italiano che Gramsci, dal carcere, prova a descrivere, allestendo una controproposta egemonica fondata sull’esercizio militante e pedagogico della critica, sulla necessaria nascita di un intellettuale-persuasore che sia in grado di giungere agli strati più bassi per vivificarli umanisticamente e avviarli verso un’emancipazione cosciente (è il noto passaggio dal “senso comune” al “buon senso”, dalla superstizione alla critica, dal caos all’ordine coerente, che si deposita nelle straordinarie pagine del Quaderno 11). È il primo stadio, questo, di una «critica materialistica», una critica che, scrive Benjamin sempre nel Programma, «condurrà verso una estetica, movimentata, dialettica»12, e dunque eteronoma, ostile a qualsivoglia chiusura. In altri termini, se il confronto con la materialità dei processi produttivi cessa, si riproduce il mito dell’autonomia estetica o, peggio, non si vede il proliferare a tutti i livelli del conformismo capitalistico. Id., Per una critica letteraria, in ivi, p. 59. Ivi, p. 60. 11 Ibid. 12 Ivi, p. 64. 9
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In quest’ultima intuizione rintraccio un’ulteriore convergenza tra questi scritti frammentistici datati 1929-1930 (mi riferisco ora ai cinque punti Sulle caratteristiche della nuova generazione) e le posizioni di Gramsci. Perché il settarismo degli intellettuali incontra non solo l’asservimento del pubblico medio o, direbbe Gramsci, del popolo-nazione a una produzione letteraria inadeguata, ma incontra anche i convincimenti elitistici di chi ritiene la letteratura un fatto per pochi. A tal proposito, Benjamin così si esprime in un passo incisivo: È sempre esistita una letteratura di intrattenimento, si vorrebbe dire una letteratura che non si fa carico di nessun tipo di obbligo rispetto al suo tempo e di fronte alle idee che lo muovono; al massimo assumendo quelle idee che conducono al consumo in una forma piacevole e confezionata secondo i dettami della moda. Una tale letteratura di consumo naturalmente ha tutto il diritto di esistere e almeno nella società borghese trova il suo posto e la sua giustificazione; ma quel che non è ancora mai accaduto in nessun ordinamento sociale – e neppure in quello borghese – è che una simile letteratura di piacevole consumo diventasse identica a quella d’avanguardia più avanzata in senso tecnico e artistico13.
4. Ora, se leggiamo con attenzione il Quaderno 23 e le note che Gramsci destina alle “patologie” proprie dei letterati italiani, ci accorgiamo che questa omologia di risultati coinvolge due fenomeni apparentemente lontani. Sia il populismo letterario dei «nipotini di Padre Bresciani», frutto di un «individualismo antistatale e antinazionale» (Q. 23, § 8, 2197) e di un paternalismo classista, sia l’aristocraticismo dei “neolalici”, ossia di coloro che parlano solo per sé, in una lingua da congrega comprensibile solo a pochi adepti, coincidono nella manutenzione di una condizione sociale e culturale esclusivistica. Da un lato, l’intrattenimento che nasce da una semplificazione reazionaria dei contenuti (con l’inevitabile produzione di testi esteticamente inadeguati) e, dall’altro, la reificazione del linguaggio in un presunto stile irraggiungibile (alto perché incomprensibile): due facce della stessa medaglia, che comunicano una situazione di stallo valoriale. Si comprende pertanto l’urgenza di una strategia critica che riabiliti la necessità del giudizio, contrassegnandolo materialisticamen13
Ivi, pp. 65-66.
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te. La critica è, in tal senso, mediazione tra l’opera e la vita, campo di battaglia in cui si fronteggiano elementi apparentemente distanti, che il materialista deve mostrare nella loro unità, demistificandone l’immediatezza. L’atto critico implica insomma la ricostruzione di una totalità fatta di mediazioni sottili e invisibili. Bisogna evidenziare che l’impostazione gramsciana del problema diverge talora da quella di Benjamin, perché resta ancorata, per molti aspetti, a una logica di distinzione tra il giudizio estetico e il giudizio politico. È altresì vero che esiste una dialettica più profonda e meno evidente, che va estratta dai Quaderni (ma anche dalle Lettere). Essa ha come principio cardinale il riconoscimento che Gramsci tributa alla specificità letteraria (la cui cartina al tornasole è la necessità di emancipare esteticamente il popolo, in modo che possa accedere a forme di rappresentazione più sofisticate, come accade già in altri paesi come la Russia, in cui il popolo legge Dostoevskij e non certo la brutta copia dei feuilletons) – specificità letteraria che però non si converte in autonomia estetica e anzi coincide col carattere eteronomo e materialistico dell’arte, che per essere compresa ha difatti bisogno di uno strumentario non solo analitico, ma anche politico-culturale14. Sta di fatto che la critica si colloca all’interno di un processo di mediazione che assume, in Gramsci, l’immagine di un percorso di scardinamento inesauribile delle immediatezze, delle false parvenze con cui i testi culturali si presentano, un percorso che deve condurre al problema della determinazione di classe, al “concreto” che si cela dietro le forme. E da qui – da questo risultato – partire per proporre una contro-egemonia. Mi pare indubbio che mediazione critica significhi per Gramsci demistificazione dell’autonomia estetica e scardinamento di un’idea populistico-romantica dell’arte come ambito separato e governato da leggi accessibili solo a pochi. Ritroviamo in Benjamin e nel suo Programma della critica letteraria questo medesimo indirizzo: Funzione della critica, soprattutto oggi: far cadere la maschera dell’“arte pura” e mostrare che non vi è un terreno neutrale dell’arte. La critica materialistica come strumento per questo scopo15. 14 Su questo punto mi si permetta di rimandare al mio Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria nell’Italia del Novecento, Quodlibet, Macerata 2016. 15 W. Benjamin, Per una critica letteraria cit., p. 61.
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5. Questa idea di un dentro materialistico del testo che va sgusciato emerge con forza, a mio parere, nelle note dantesche del Quaderno 4, nel rovello gramsciano sulla «critica dell’inespresso», sul “non-detto”, sull’«inesistito» (Q. 4, § 79, 519) del testo, note alle quali mi accosto velocemente, provando a vedere un possibile e nuovo motivo di incontro con Benjamin e con le sue pagine dedicate al rapporto tra contenuto reale e contenuto di verità (mi riferisco ai saggi giovanili su Hölderlin16 e anzitutto al saggio su Le affinità elettive di Goethe17). Quando Benjamin enuncia una «legge fondamentale della letteratura», e cioè che «quanto più significativo è il contenuto di verità di un’opera, e tanto più strettamente e invisibilmente esso è legato al suo contenuto reale»18, manifesta un’idea di letteratura e di testo fondata su una dialettica del nascondimento e della latenza. Le opere sono la sede di una profondità che va esplorata al di là di qualsiasi immediatezza formale: «durevoli si rivelano […] quelle […] la cui verità è più profondamente calata nel loro contenuto reale»19. E nel cammino diagnostico e critico di esplorazione di questa dimensione sottana del testo ci si imbatte nell’evidenza per cui il contenuto di verità, nella vita storica dell’opera, «continua a restare nascosto», mentre il contenuto reale «viene alla luce»20. È celebre l’affermazione che segue: «Si può paragonare il critico al paleografo davanti a una pergamena il cui testo sbiadito è ricoperto dai segni di una scrittura più forte che si riferisce ad esso»21. Da qui la necessità del commento come primo atto per valutare «se la parvenza di un contenuto di verità sia dovuta al contenuto reale, o se la vita del contenuto reale sia dovuta al contenuto di verità»22. Quest’ultimo è, in un’altra immagine benjaminiana, il «nucleo stesso del contenuto reale»23. 16 W. Benjamin, Due poesie di Friedrich Hölderlin, in Id., Opere complete, vol. 1: Scritti 1906-1922, a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2008, pp. 217-239. 17 Id., “Le affinità elettive” di Goethe, in ivi, pp. 523-589. 18 Ivi, p. 523. 19 Ibid. 20 Ibid. 21 Ibid. 22 Ibid. 23 Ivi, p. 526 (altrove Renato Solmi traduce con «nocciolo stesso del contenuto reale»: cfr. Walter Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962, p. 166).
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Ora, mi pare che tale distinzione analitica, che poi deve dar vita a una combustione dialettica dell’uno e dell’altro momento24, si ritrovi in Gramsci, nelle pagine che il comunista sardo dedica al rapporto tra giudizio estetico e giudizio politico, un rapporto che può essere anche conflittuale, oscuro, difficile. Non solo: il nocciolo del contenuto di verità si caratterizza per la sua collocazione entro uno spazio non epidermico, bensì nascosto. Quando Gramsci si chiede se sia lecito vedere nel testo ciò che non viene verbalizzato – nello specifico, in Inferno X, il dolore di Cavalcante alla notizia, peraltro equivocata, della morte di Guido: un dolore che noi sentiamo solo come tonfo dell’anima in pena nella sua arca – presuppone l’esistenza, problematica per il materialista, di un contenuto che va ricostruito in ragione della sua assenza. Gramsci non arriva, come Benjamin, a inserire un elemento mediano per aggirare il problema e resta impigliato in una logica della distinzione, seppure apra sottilmente alla dimensione inconscia del testo. Benjamin innesta la questione della “tecnica” come tertium in grado di stabilire un confine tra strato epidermico, apparente, superiore, verbalizzato, e uno strato più profondo dell’opera, nel quale si deposita (depositum historiae, dice Franco Fortini25) il contenuto di verità. È il confine tra ciò che può o non può essere visto o letto; metodologicamente, è un concetto mediano che permette di riscrivere l’annosa dialettica tra forma e contenuto. Siamo nei pressi del concetto di “poetato” che trova respiro nei saggi su Hölderlin, ripresentandosi nel lungo contributo su Goethe. Esso mette in luce, come ha scritto recentemente Michele Capasso, la forma interna dell’opera, analizzando i «nessi intuitivi e intellettuali immanenti all’opera» e dev’essere «dedotto, posto dall’opera stessa»26, in modo che si acceda a un fondamento ultimo, che è appunto nascosto, non superficiale. In questo luogo non si trova il mistero dell’opera, ma la regione del suo realizzarsi come forma, il suo problema tecnico ed estetico. Mi pare che questa critica del profondo accomuni, a gradi di consapevolezza diversa, i nostri due autori. E che sia legata a una 24 Cfr. a tal proposito Romano Luperini, Il dialogo e il conflitto. Per un’ermeneutica materialistica, Laterza, Roma-Bari 1999, in part. p. 30. 25 Franco Fortini, Opus servile (1989), in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano 2003, p. 1651. 26 Michele Capasso, La critica come compito filosofico. Benjamin lettore di Hölderlin, «Il Pensiero», LX, 1, 2021, p. 110.
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strategia di conoscenza che insiste sul nesso dialettico tra immediato e mediato per contrassegnarlo materialisticamente, ossia collocandolo entro una dimensione ulteriore, in cui contenuto reale e contenuto di verità si incontrano dando vita a nuove interrogazioni. Non c’è dubbio che, sul piano della critica letteraria e della cultura, siamo nei pressi di un marxismo assai rinnovato, sostenuto da un’idea di complessità testuale e ideologica che non ha trovato molti spazi di rappresentazione nei decenni successivi, malgrado qualche eccezione di peso27. L’esaurimento delle spinte superficializzanti della postmodernità, dovuto al ritorno prepotente dei conflitti su scala globale, lascia tuttavia pensare che l’ermeneutica demistificante possa trovare al giorno d’oggi nuovi motivi di legittimazione. Un paziente lavoro di ricostruzione dell’alfabeto dialettico e materialistico sembra pertanto urgente e auspicabile, a partire dal rinvigorimento di quelle categorie che rendono possibile l’intelligibilità di nessi fin troppo abilmente coperti e nascosti dall’astrazione capitalistica.
27 Mi riferisco anzitutto a Fredric Jameson, L’inconscio politico. Il testo narrativo come atto socialmente simbolico (1981), Garzanti, Milano 1990.
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1. In un articolo del 1920 Gramsci scrive: È prevedibile facilmente che l’avvento della classe operaia alla libertà porterà con sé alla luce della storia dei nuovi complessi di espressioni linguistiche, se anche non muterà radicalmente la nozione di bellezza. L’esistenza dell’esperanto, se anche non dimostra molto di per sé e sebbene sia in relazione col cosmopolitismo borghese più che con l’internazionalismo operaio, dimostra tuttavia, per il fatto che interessa fortemente gli operai e riesce a far loro perdere del tempo, che esiste l’aspirazione e la spinta storica alla formazione di complessi verbali che superano i limiti nazionali, e nei cui confronti le attuali lingue nazionali avranno lo stesso ufficio che oggi hanno i dialetti2.
In questo passaggio Gramsci oppone un genuino universalismo proletario della lingua a una forma borghese di cosmopolitismo linguistico (una posizione che ai giorni nostri è occupata dall’inglese a livello globale). Insistendo sul desiderio di una lingua comune che trascenda i confini e l’immaginario dello Stato-nazione, Gramsci pone l’internazionalismo proletario contro l’esperanto senza rinunciare all’aspirazione universalista che in quest’ultimo viene storpiata. L’esperanto fu creato come lingua utopica agli inizi del XX secolo dall’oculista polacco Ludwik Lejzer Zamenhof, il quale nel 1905 pubblicò Fundamento de Esperanto. Il vocabolario e la grammatica Traduzione dall’inglese di Guelfo Carbone. Antonio Gramsci, Cronache di cultura, in Id., Scritti 1915-1921, a cura di S. Caprioglio, Moizzi Editore, Milano 1976, pp. 217 sgg., p. 219 [il traduttore ringrazia Maria Luisa Righi della Fondazione Gramsci per il reperimento di questa fonte]. 1 2
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dell’esperanto, semplificati, furono creati artificialmente a partire dalle parole di uso più comune nelle lingue occidentali europee. Nei Quaderni del carcere, Gramsci torna sulla “questione della lingua”, sulla traducibilità e sull’esperanto, ricomprendendo la sfida posta da una lingua artificiale entro la più ampia tendenza alla formalizzazione astratta tipica della scienza positivista borghese: L’esperantismo filosofico è specialmente radicato nelle concezioni positivistiche e naturalistiche; la “sociologia” è forse il maggior prodotto di una tale mentalità. Così le tendenze alla “classificazione astratta”, al metodologismo e alla logica formale. La logica e la metodologia generale vengono concepite come esistenti in sé e per sé, come formule matematiche, astratte dal pensiero concreto e dalle concrete scienze particolari (così come si suppone che la lingua esista nel vocabolario e nelle grammatiche, la tecnica fuori del lavoro e dell’attività concreta ecc.)3.
La critica di Gramsci all’esperanto non cade nella trappola delle opposizioni estrinseche che non danno luogo a una dialettica. Invece di giocare concretezza contro astrattezza o particolarismo contro universalismo, Gramsci propone una forma non binaria di ciò che Hegel e Marx avrebbero chiamato universalità concreta – un internazionalismo proletario sviluppato a partire da una traducibilità, non formalista, di culture e lingue. Pur senza esaminare l’opera di Gramsci nel suo complesso, si può in ogni caso notare come una tale critica dell’esperantismo filosofico sia sorprendentemente affine alle prime teorie di Benjamin sulla traduzione e la lingua (1916-1921), e anche alle più tarde considerazioni sull’esperanto nel contesto delle tesi Sul concetto di storia (1940). Rifacendoci a Gramsci e a Benjamin, l’esperanto e l’esperantismo possono essere letti come sintomi delle società in cui la forma di merce organizza un’economia politica della lingua e delle relazioni linguistiche. 2. Nel saggio Il compito del traduttore del 1921, Benjamin pone l’accento sul senso originale della traduzione. La traduzione non 3 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1977, v. II, p. 1467.
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è un supplemento secondario del lavoro letterario, ma una caratteristica primaria, originale, capace di mostrare un dominio irriducibile alle intenzioni, alle aspettative e alle esigenze di scrittori e lettori: «La traduzione è una forma. […] La traducibilità inerisce essenzialmente a certe opere: ciò non significa che la loro traduzione sia essenziale per le opere stesse, ma vuol dire che un determinato significato inerente agli originali si manifesta nella loro traducibilità»4. Invece di comprendere la traducibilità come una relazione antropocentrica, formata dal suo uso pragmatico, Benjamin disloca la traducibilità nel medium della sua stessa comunicabilità linguistica. La traduzione non funziona secondo la formalizzazione di somiglianze o secondo equazioni e approssimazioni tra la lingua di approdo e la lingua di partenza. Infatti, la lingua non è concepita come un organon o un involucro per la comunicazione, per il contenuto, per il significato o per l’informazione. Piuttosto, la lingua è concepita come medialità – come un puro mezzo della sua stessa comunicabilità in quanto medium. Già nel saggio precedente Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo (1916), Benjamin ha introdotto l’idea di un mezzo puro a-teleologico pensato in termini linguistici. Ciò che il saggio sul compito del traduttore chiama «pura lingua»5, questo precedente lavoro lo presentava come lingua in generale o «lingua nominale»6, indifferente agli scopi comunicativi umani. L’«essere spirituale»7 dell’umano, dunque, non è comunicato attraverso la lingua, ma nella lingua, intesa come puro medium del linguaggio in quanto tale: «Ogni lingua comunica se stessa»8. La lingua nominale, o lingua in generale, parla in tutte le lingue e con ciò garantisce la traducibilità di ogni lingua in una lingua diversa. La lingua in generale, o ciò che il saggio più tardo su Il compito del traduttore chiama “pura lingua”, indica la lingua priva di ogni sua funzione semiotica-denotativa: «Redimere nella propria lingua 4 Walter Benjamin, Il compito del traduttore, in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, p. 40. 5 Ivi, p. 50. 6 W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Id., Angelus novus cit., p. 59. 7 Ivi, p. 59. 8 Ivi, p. 55.
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quella pura lingua che è racchiusa in un’altra; o, prigioniera nell’opera, liberarla nella traduzione – questo è il compito del traduttore. In nome del quale egli spezza limiti annosi della propria lingua»9. La traduzione di una lingua in un’altra è possibile grazie a questo medium non formalizzabile della lingua pura. Quest’ultima non definisce una metalingua oppure un’astrazione da ogni lingua che esiste “naturalmente”, ma è piuttosto uno strato linguistico incorporato in ogni lingua. Come sostiene Werner Hamacher, […] la lingua della traduzione non è una lingua tra tante altre, piuttosto essa è una lingua tra le lingue, una lingua intermedia (Zwischensprache) che non esprime altro che la relazione delle lingue, ma che esprime questa relazione, di converso, non come dato, bensì come divenire. La traduzione esprime ciò che non è ancora presente; in questa misura essa è storica, orientata verso una distanza storica, ma in questa misura, inoltre, essa non è un semplice fenomeno, piuttosto è il fenomeno di qualcosa che rimane ancora, e forse indefinitamente, sepolto, trattenuto e a-fenomenico: la lingua nel suo insieme e in quanto tale10.
In altre parole, la traducibilità esprime la relazione tra lingue, la razionalità linguistica in quanto tale. Si tratta di una razionalità in divenire e non di una relazione fissa tra determinate lingue messe sullo stesso piano. La traducibilità ha infatti una traiettoria storica e una direzione messianica: nella traduzione, le lingue «si sviluppano […] così fino alla fine messianica della loro storia»11. In questo senso, il compito del traduttore può essere descritto come l’agire nella traiettoria della Sprachgeschichtlichkeit, della «storicità linguistica»12. Il lavoro del traduttore contribuisce al «grande motivo dell’integrazione delle molte lingue nella sola lingua vera»13 e con ciò continua a scrivere la storicità della lingua (come accade anche nella traducibilità postuma delle opere letterarie). La traducibilità è dunque una forma mediale di vita linguistica postuma, che si pone oltre, o accanto, rispetto alle relazioni linguistiche dei singoli traduttori, scrittori e lettori. La lingua degli uomini si trova quindi ad essere decentrata in una pura lingua non intenzionale (potremW. Benjamin, Il compito del traduttore cit., p. 50. Werner Hamacher, Intensive Languages, «MLN», 127/3, 2012, p. 539. 11 W. Benjamin, Il compito del traduttore cit., p. 45. 12 W. Hamacher, Intensive Languages cit., p. 490. 13 W. Benjamin, Il compito del traduttore cit., p. 47. 9
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mo addirittura dire: inconscia), che viene squadernata in ogni atto di traduzione intenzionale. La traducibilità e le vite postume delle opere letterarie sono la prova dell’esistenza di relazioni non umane nella lingua14. Tuttavia, si potrebbe giustamente obiettare che, in particolare nella poesia, certi modi di dire e certe formulazioni sono, semplicemente, intraducibili. Benjamin ha scritto il saggio sul traduttore come una prefazione al suo tentativo, in qualche misura insufficiente, di tradurre i Tableaux parisiens di Benjamin. Squadernando una teoria provvisoria della pura lingua, il saggio di Benjamin capovolge questa impossibilità: l’intraducibilità singolare di ogni opera diventa la condizione di possibilità della sua universale traducibilità. Ciò che ha un’esistenza singolare, ed è intraducibile, diventa la porta della traducibilità universale, una volta che i diversi modi linguistici del significato sono compresi come configurazioni del medium dell’essere linguistico. Quest’ultimo non è una sostanza ontologica o un’astrazione concettuale, ma è invece la relazionalità di tutte le lingue nella loro differenzialità. Benjamin scrive che «entrambi», l’originale e la traduzione, diventano riconoscibili «come i cocci frammenti di uno stesso vaso»15. Vaso e frammento tuttavia non si relazionano tra loro come il tutto e la parte. Come ha mostrato Paul de Man nel suo commentario, Benjamin «non sta dicendo che i frammenti costituiscono una totalità, dice che i frammenti sono frammenti, e che rimangono frammentari in modo essenziale»16. Ogni lingua esprime una differenza singolare, in quanto frammento originale e, in quanto differenziale senza totalità fissata (unità olistica, una lingua), ogni lingua presenta una relazione altrettanto differenziale. La pura lingua è il motore integrale di tutte le relazioni differenziali nelle e tra le lingue. La pura lingua è medialità linguistica in quanto tale, essa connette 14 Se, come sostenuto da Benjamin, «[l]a traduzione è una forma», allora ci si potrebbe chiedere se «certi concetti di relazione conservano tutto il loro significato, anzi forse il loro significato migliore, se non sono riferiti esclusivamente a priori all’uomo. […] Poiché si può affermare che se la traduzione è una forma, la traducibilità deve essere essenziale a certe opere». Ivi, p. 40. 15 Ivi, p. 49. 16 Paul de Man, “Conclusions” on Walter Benjamin’s “The Task of the Translator”. Messenger Lecture, Cornell University, March 4, 1983, in Charles A. Porter, Alyson Water (a cura di), 50 Years of Yale French Studies. A Commemorative Anthology. Part 2: 1980-1998, Yale University Press, New Haven 2000, p. 32.
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cioè la differenza, la molteplicità e la singolarità senza la totalità onnicomprensiva dell’“Uno”. La pura lingua, con ciò, è sempre in divenire e cresce nella e come storia, fino alla sua fine messianica. 3. Una simile teoria messianica della traducibilità, basata sulla traiettoria ateleologica delle vite postume delle opere letterarie, sembra essere molto lontana da Gramsci. Tuttavia, Peter Ives evidenzia somiglianze e parallelismi tra le teorie sulla traducibilità di Benjamin e Gramsci, altrimenti divergenti: […] per Gramsci, come per Benjamin, la traduzione non è solo la trasmissione da una lingua a un’altra, o il rendere accessibile un testo a persone che, contingentemente, non sanno parlare la lingua in cui è stato scritto. […] Entrambi sostengono che non ogni opera è traducibile, e che la traduzione dipende anche dalle lingue e dalle culture da cui e in cui la traduzione deve essere effettuata. Ma Gramsci è meno preoccupato dalla qualità di ciò che deve essere tradotto di quanto invece non lo sia rispetto alle due (o più) culture chiamate in causa. […] La traduzione non è solamente una questione di comunicabilità17.
Parafrasando Ives, si può anche dire che la comunicabilità non è solamente una questione di comunicazione, a meno che la comunicazione non sia pensata al di là del suo uso strumentale come vaso o involucro di un contenuto extra-linguistico. Questo parallelo tra Benjamin e Gramsci diviene più evidente se leggiamo il problema della comunicabilità come un sintomo della lingua nell’epoca della sua traducibilità capitalista. Le osservazioni tarde di Benjamin sull’esperanto possono servire qui come punto di partenza. Negli appunti preparatori delle tesi Sul concetto di storia (1940), Benjamin ha abbozzato una serie di note criticando la promessa utopica dell’esperanto, mettendolo a confronto con una lingua autenticamente universale: […] il mondo messianico è il mondo dell’attualità universale e integrale. Solo in esso si dà una storia universale. Ma non in quanto scritta, bensì in 17 Peter Ives, Gramsci’s Politics of Language: Engaging the Bakhtin Circle and the Frankfurt School, University of Toronto Press, Toronto 2004, p. 108.
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quanto festeggiata. Tale festa è depurata da ogni celebrazione. Essa non conosce canti di festa. La sua lingua è la prosa liberata, che ha fatto esplodere i vincoli della scrittura. { […] La storia universale nel suo senso odierno è sempre solo una sorta di esperanto. (Essa esprime la speranza del genere umano, esattamente come lo fa il nome di quella lingua universale). }18.
E ancora: { La molteplicità delle storie è analoga alla molteplicità delle lingue. La storia universale nel suo senso odierno può essere sempre solo una specie di esperanto. L’idea di storia universale è un’idea messianica. } { Il mondo messianico è il mondo dell’attualità universale e integrale. Solo in esso si dà una storia universale. Ma non in quanto scritta, bensì in quanto festeggiata. Tale festa è depurata da ogni celebrazione. Essa non conosce canti di festa. La sua lingua è la prosa integrale, che ha fatto esplodere i vincoli della scrittura ed è compresa da tutti gli uomini (così come la lingua degli uccelli lo è dai fortunati). […] }19.
Criticando l’esperanto in quanto universalità fittizia, Benjamin fa anche riferimento, in senso positivo, all’universalità in quanto storia universale messianica. Il concetto di storia universale del secolo XIX, tuttavia, è un concetto oppressivo, giacché concepisce la storia come storia del progresso e presuppone la borghesia e l’Europa cristiana come i suoi protagonisti. Al contrario, l’idea messianica di storia universale si rivolge a un punto di riferimento (messianico) ateleologico senza una progressione lineare o un attore prestabilito. Invece di contribuire alla fantasia borghese della storia della cultura intesa come una accumulazione di tesori culturali depredati, la versione messianica della storia universale è legata alla storia come a un luogo di negatività – la storia degli espropriati e la “tradizione degli oppressi”20. In continuità con i precedenti saggi sulla lingua e sul compito del traduttore, per Benjamin l’universalità non è un concetto vuoto, dedotto da astrazioni idealistiche, ma è materialmente radicato nella medialità linguistica e nella relazionalità linguistica. Questa media18 Walter Benjamin, Materiali preparatori delle tesi, in Id., Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 95. 19 Ivi, p. 84. 20 Ho sviluppato questa interpretazione di Benjamin nel saggio: Where the Past Was, There History Shall Be: Benjamin, Marx, and the “Tradition of the Oppressed”, «Anthropology & Materialism. A Journal of Social Research», 1, 2017 (numero speciale su Walter Benjamin, Discontinuous Infinities, a cura di J. Sieber e S. Truskolaski, https:// journals.openedition.org/am/789, ultimo accesso 23.11.22).
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lità si esprime nella storicità linguistica. L’universalità quindi non è un ideale assoluto, ma una trama relazionale materiale: relazionalità storico-linguistica in divenire. Mentre nell’Europa medievale e della prima modernità questa storicità linguistica aveva un medium linguistico almeno nelle Scritture, cioè il latino, nel moderno capitalismo industriale la storia universale e la lingua universale non possono più essere concepite come “una”. Nella modernità capitalista, l’universalità è relegata all’universalità astratta della forma di merce, mentre l’universalità della lingua può essere trovata nella molteplicità delle lingue e della loro relazionalità sempre cangiante, che Benjamin aveva chiamato pura lingua. In questo senso, l’invenzione dell’esperanto può essere valutata come il sintomo di una mancanza, propria della modernità, di una lingua universale: (L’idea di una storia universale sta e cade con l’idea di una lingua universale. Finché quest’ultima possedeva un fondamento, fosse esso teologico, come nel medioevo, oppure logico, come da ultimo in Leibniz, la storia universale non era un’idea impossibile. Invece, come è stata praticata a partire dal secolo scorso, la storia universale può essere sempre solo una sorta di esperanto)21.
Senza scendere nei dettagli di questi appunti densi e in certa misura criptici, vorrei concentrarmi sulla frase prima richiamata: «mondo dell’attualità universale e integrale» (Welt allseitiger und integraler Aktualität)22. Solo in questo mondo la lingua e la storia stringono un legame autenticamente universale, costituendo la base per la storia universale. Certo, è possibile prendere questo riferimento come appartenente a una teologia panlinguistica o a un monoteistico fonocentrismo di Dio (una lingua «che ha fatto esplodere i vincoli della scrittura»23), inaccessibile per gli esseri umani. Conviene però menzionare il fatto che questa formula, «mondo dell’attualità universale e integrale», è una auto-citazione: era apparsa per la prima volta nel saggio sul surrealismo del 1929, dove Benjamin la collega all’azione politica e all’immediatezza di uno spazio immaginale corporeo (Bildraum)24. W. Benjamin, Materiali preparatori delle tesi cit., p. 77. Ivi, p. 73. 23 Ivi, p. 95. 24 Walter Benjamin, Il surrealismo. L’ultima istantanea degli intellettuali europei, in Id., Senza scopo finale. Scritti politici (1919-1940), a cura di M. Palma, Castelvecchi, Roma 2017, p. 106. Un’interpretazione dettagliata di questo saggio e della formula 21 22
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Nel saggio sul surrealismo, facendo riferimento ad Aragon, Benjamin esorta a «rimuovere dalla politica la metafora morale» al fine di «scoprire nello spazio dell’agire politico lo spazio immaginale (Bildraum) al cento per cento. Ma questo spazio dell’immagine non va più misurato in senso contemplativo»25. Questa presa di posizione contro la rappresentazione e il moralismo si propone di liberare l’azione politica dalle ideologie strumentali e deterministiche. L’azione politica non è più portatrice di qualcos’altro – una morale superiore, un programma o una incarnazione del progresso della storia verso il socialismo – ma un’apertura che si presenta come un’immagine immediata, uno spazio immaginale dove il moralismo si trova disattivato e il significato metaforico si estingue. Al crocevia non rappresentabile di corpo, immagine e linguaggio politico, Benjamin pone l’immediatezza di uno spazio immaginale. L’ingresso in questo spazio immaginale, allora, non può essere trovato intenzionalmente; piuttosto, si spalanca all’improvviso nelle esperienze liminali, nelle facezie involontarie, nel lapsus freudiano e in altre deviazioni inaspettate dall’azione politica convenzionale: «Infatti, anche nella facezia, nell’insulto, nell’equivoco, ovunque un’azione si crea da sé, ed è, l’immagine la avviluppa in sé e se ne ciba, dove la vicinanza perde le proprie tracce, si dischiude questo spazio immaginale di cui siamo alla ricerca, il mondo dell’attualità universale e integrale»26. Lo spazio immaginale emerge in modo non intenzionale nell’azione politica collettiva come un’esibizione immediata di quest’ultima, priva della rappresentazione politica formale. Lì dove la vicinanza può guardare coi propri occhi, lì dove l’estrema prossimità e la distanza auratica entrano in uno stato di indifferenza reciproca, lo spazio immaginale diviene reale. Questa realtà non è fissa, è invece satura di tensioni dialettiche. Nondimeno essa contiene un più alto grado di attualità, più attualità di quanto la realtà possa contenere. L’excursus attraverso il saggio sul surrealismo mostra la posta in gioco politica dei riferimenti maturi di Benjamin all’universalità messianica, in cui la lingua e la storia “mondo dell’attualità universale e integrale” si può trovare nel mio “To Win the Energies of Intoxication for the Revolution”: Body Politics, Community, and Profane Illumination, «Anthropology & Materialism. A Journal of Social Research», 2, 2014 (https:// journals.openedition.org/am/348, ultimo accesso 23.11.22). 25 W. Benjamin, Il surrealismo cit., p. 105. 26 Ivi, p. 106.
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formano davvero una trama universale che va oltre il formalismo convenzionale del linguaggio e le teleologie politiche di stampo progressista. Negli appunti preparatori delle tesi Sul concetto di storia, prima menzionati, Benjamin critica esplicitamente l’idea ottocentesca della storia universale, uno dei pilastri dello storicismo. Contro quest’ultimo, Benjamin riconosce al Capitale di Marx la «liquidazione» dell’elemento epico dello storicismo27. 4. A prescindere dal fatto che questa critica colga nel segno o meno, il riferimento di Benjamin a Marx autorizza una lettura inversa del problema della lingua universale e della storia universale, che li assuma come sintomi dell’universalismo del capitalismo globale attualmente vigente. Marx – scrive Benjamin – «riconobbe che la storia del capitale si poteva costruire solo entro l’imponente armatura d’acciaio di una teoria»28. In effetti, questa teoria – vale a dire la critica dell’economia politica di Marx – fornisce un indizio cruciale per il problema della lingua universale. Secondo Benjamin, è solo in un mondo messianico che la storia universale può esistere, fondata su una lingua davvero universale. Così, il ripudio di una falsa lingua universale (l’esperanto) può essere interpretato come una critica implicita del linguaggio formale dello scambio capitalista delle merci, cioè del denaro. Nel Capitale (1867-72), Marx scrive: «[s]e le merci potessero parlare, direbbero: il nostro valore d’uso può interessare gli uomini. A noi, come cose, non compete. Ma quello che, come cose, ci compete, è il nostro valore. Questo lo dimostrano le nostre proprie relazioni come cose-merci»29. La prosopopea marxiana del «linguaggio delle merci» (Warensprache)30 non deve essere presa per una metafora, che rimane esteriore rispetto a ciò che significa. Le merci davvero parlano l’una con l’altra attraverso la prosopopea dei “portavoce” delle merci, cioè i proprietari. La questione, tuttaW. Benjamin, Materiali preparatori delle tesi cit., p. 77. Ibid. 29 Karl Marx, Il capitale. Libro primo, a cura di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 97. 30 Ivi, p. 65. 27 28
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via, è di quale lingua si tratti. Se ogni merce parla (spricht) e promette (verspricht) un’altra merce, qual è il segreto di questa lingua, che la ammanta della sua apparente comunicabilità trans-nazionale, trans-culturale e trans-storica? Per quanto abbia avuto origine in Europa, il capitalismo, come Marx aveva profetizzato negli anni Quaranta dell’Ottocento, conduce logicamente alla formazione del mercato mondiale. Questo mercato mondiale ha bisogno di un linguaggio globale per scambiare le merci. Già nel 1931 l’amico di Benjamin, Bertolt Brecht, osservava: […] solo chi chiuda gli occhi davanti all’immane potere di quel processo rivoluzionario che trascina tutte le cose di questo mondo, senza eccezioni e senza rinvii, nella circolazione delle merci, può supporre che le opere d’arte di qualunque genere possano sottrarsi ad essa. Infatti, il senso più profondo di questo processo consiste nel non permettere che alcuna cosa sia priva di rapporti con le altre e nel connetterle invece tutte insieme, così come consegna tutti gli uomini (sotto forma di merce) nelle mani di tutti gli uomini; questo è appunto nient’altro che il processo della comunicazione31.
L’espansione globale delle relazioni dettate dalle merci intesse una rete onnicomprensiva di relazionalità sociale che Brecht, qui, definisce il “processo di comunicazione” stesso. Circolazione, scambio, mutuo rapporto e comunicazione sono infatti funzioni create dai due modi dell’esistenza del capitale: il denaro e la merce. Tali funzioni sono sociali. Di più: esse racchiudono, esprimono e reprimono la relazionalità sociale del capitalismo. Le relazioni sociali della produzione sono represse nella misura in cui sono trattate come un’appendice del valore di scambio e quindi della merce lingua e della comunicazione. Marx aveva compreso che le merci si relazionano l’un l’altra «soltanto come valori di scambio»32. In quanto valori di scambio, le merci esprimono una relazione sociale, cioè il valore, che, da parte sua, si sostanzia del lavoro astratto. Quest’ultimo ha bisogno della forza lavoro e di tutte le relazioni del processo di lavoro, del grado storico della produttività e delle relazioni di classe. È in questo modo indiretto, represso, che nei suoi atti linguistici la merce lingua connette e comunica la forza lavoro nel mercato su scala globale. 31 Bertolt Brecht, Il processo dell’Opera da tre soldi (1931), in Id., Scritti sulla Letteratura e sull’Arte, a cura di C. Cases, Einaudi, Torino 1975, p. 76. 32 K. Marx, Il capitale. Libro primo cit., p. 97.
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Detto in altri termini, la merce lingua non designa né una langue, una lingua come il tedesco, il francese o l’italiano, e nemmeno un certo gergo impiegato in economia. Essa fa piuttosto riferimento a una struttura globale che esprime il valore capitalista facendolo passare avanti agli atti linguistici culturalmente situati nella lingua o nei dialetti, e intervenendo prima di essi. A differenza della forma di vita premoderna, la modernità capitalista prospera sulla base di un modo arbitrario della produzione del senso (differenza culturale) e del valore (validità obiettiva), introducendo un nuovo tipo di relazione sociale, indifferente alle materialità specifiche o al contenuto semantico. Contrariamente al mito della modernità eurocentrica, tuttavia, altre relazioni (pre- o non moderne) non cessano di esistere accanto a questa nuova relazione sociale (che nel capitalismo è la relazione prevalente). Come ricorda Vivik Chibber, «non bisogna supporre che la spinta universalizzante del capitale renda omogenee le relazioni di potere o, più in generale, renda omogeno il paesaggio sociale»33. Infatti, «[i]l capitalismo è perfettamente compatibile con un’ampia gamma di formazioni politiche e culturali»34. Secondo Marx, il capitalismo è la realizzazione violenta (accumulazione primitiva), la produzione e la riproduzione di una specifica forma sociale – la forma di merce – che consiste in una relazione sociale differenziale. Quest’ultima richiede eterogeneità come risorsa per produrre gli effetti di omogeneizzazione attraverso lo scambio di merci e le relazioni stabilite dal mercato. In altri termini, il regime di accumulazione capitalista si basa sulla combinazione e sulla trasformazione delle relazioni sociali esistenti al fine di instaurare le sue proprie relazioni specifiche, cioè la dialettica asimmetrica di capitale e lavoro. In questo senso, come afferma Chibber, «il capitalismo non è soltanto coerente con una grande eterogeneità e con la gerarchia, ma genera sistematicamente eterogeneità e gerarchia»35. L’universalità coatta del capitalismo consiste in un quadro relazionale fatto di rapporti che uniscono potenze sociali e culturali differenti e le rendono, con ciò, quantificabili, commisurabili e scambiabili.
33 Vivik Chibber, Postcolonial Theory and the Specter of Capital, Verso, London 2013, p. 285. 34 Ibid. 35 Ibid.
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5. Una volta che la lingua sia stata artificialmente (cioè convenzionalmente) definita come un medium, che si presume sia “neutro”, essa può essere astratta, universalizzata e se ne possono tagliare fuori le tracce dei posizionamenti di classe, della cultura di classe e della collocazione di classe. La lingua, intesa come la merce lingua, diviene allora il medium astratto della mediazione universale, espressa nella forma del denaro, che è capace di mediare e calcolare una piatta sequenza temporale, fatta di passato (debito finanziario), presente (investimenti e credito) e futuro (plusvalore come capitale), ottenuti appunto grazie alla mediazione del denaro. Una simile merce lingua può dar luogo soltanto a una nozione astratta di storia universale, da intendersi come storia del capitale36. Così concepita, la merce lingua si avvicina essenzialmente alla struttura linguistica dell’esperanto, che Benjamin criticava negli appunti preparatori delle tesi Sul concetto di storia prima menzionati. Se si segue l’argomento di una tale lettura parallela di lingua e storia, una storia universale “esperantista” sarebbe la storia di una catena infinita di eventi scambiabili, resi accessibili sul mercato mondiale capitalista, coerenti con esso e traducibili in esso. Come nella storia universale dal punto di vista dello storicismo la singolarità delle storie è livellata sulle relazioni di causa ed effetto, di stampo positivistico, così nell’esperanto ogni singolarità grammaticale, semantica e sintattica è livellata su uno standard generale misurabile. La trasformazione del concreto singolare (lingua vivente) nel rappresentante di un universale astratto (esperanto), attraverso cui ogni singolarità è resa il momento particolare di uno standard generale, non ha mai fine: essa consiste nel compito infinito di livellamento e formalizzazione, il cui punto di evaporazione sta nell’interminabile raccolta di tutti i significati linguistici privati del loro modo singolare di significazione. L’esperanto, scrive Agamben, consiste in una «regolarizzazione» e in un’«estrema semplificazione grammaticale della struttura delle lingue storiche, che lasciano immutata la concezione fondamentale della lingua come sistema di segni che veicolano dei significati». E 36 Werner Hamacher, Guilt History. Benjamin’s Sketch “Capitalism as Religion”, «Diacritics», 32/3-4, 2002, p. 89.
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ancora: «l’esperanto è un voler-dire infinito, che non può mai trovare compimento»37. Una lingua il cui unico obiettivo è la trasmissione del significato, la più semplice possibile, rimane intrappolata in un movimento senza fine di rimandi reciproci e pragmatici, privi di una direzione (messianica o redentiva). Proiettata su questo sfondo, la critica di Benjamin mira non solo all’esperanto come lingua realmente esistente, ma ad ogni genere di esperanto, cioè ad ogni concezione della lingua e ad ogni pratica linguistica che sia basata sulla comunicazione uniforme di contenuti linguistici, ovvero di significati. Ogni sistema linguistico, infatti, che faccia uso del semplice carattere di segno della lingua subordinando ciò che significa (il simbolo come mero segno) a ciò che è indicato nel segno (il significato), tratta l’espressione linguistica come uno scambio tra elementi significanti commensurabili: «Basare un discorso su ciò che è significato, tuttavia, vuol dire renderlo traducibile. Le “traduzioni” sono la “fiera” discorsiva alla quale “chi giunge dai luoghi più remoti ci porta la sua merce”»38. La vicinanza alla forma di valore dello scambio di merce capitalista non è affatto una coincidenza. Se si paragona la critica di Benjamin alle lingue universali artificiali alla forma di merce capitalista, la nozione di arbitrarietà formalistica della lingua ridotta a mero segno può essere intesa come il correlato semiotico della merce lingua del capitalismo, della lingua come merce politico-economica. La lingua mondiale del capitale, il linguaggio delle merci, può ben essere una lingua artificiale. Nella sua validità universale, tuttavia, non è una mera ideologia, ma costruisce una realtà sociale. *** Da questa prospettiva, non sorprende che la critica di Gramsci delle teorie borghesi della lingua non è delimitabile al suo contesto 37 Giorgio Agamben, Lingua e storia. Categorie linguistiche e categorie storiche nel pensiero di Benjamin, in Id., La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 46 sg. 38 Friedrich Kittler, Discourse Networks 1800/1900, tr. ing. mod. di M. Metteer e C. Cullens, Stanford University Press, Stanford 1990, p. 71. La citazione riportata in questo passaggio è tratta da una lettera di Goethe a Joseph Stanislaus Zauper del 7 settembre 1821: Johann Wolfgang Goethe, Goethes Briefe. Hamburgerausgabe, 4 voll., a cura di K.R. Mandelkow e K.F. Gille, Christian Wegner Verlag, Hamburg 1967, vol. IV, p. 9.
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contemporaneo, e, in particolare, alla “questione della lingua” sollevata in Italia, sulla scorta dell’organizzazione dell’Italia in Stato nazionale. Come asserisce Peter Ives: «Gramsci spariglia le carte nel dibattito sull’appartenenza della lingua alla struttura o alla sovrastruttura, sul fatto che sia determinata unicamente dalle condizioni materiali o che invece le determini. Per Gramsci la lingua è materiale, anche se storicamente materiale»39. Per Gramsci, «la struttura della lingua, come risulta evidente dalla grammatica, è documento di una società e rende manifesti aspetti della sua storia così come le relazioni di potere vigenti»40. Una simile interpretazione della lingua può essere mobilitata sia contro la formalizzazione artificiale della lingua (come è nel caso dell’esperanto) sia contro le relazioni di scambio astratte della merce lingua capitalista. La lingua, infatti, non è mai un medium neutrale, una nomenclatura del mondo esterno, una generica facoltà umana intesa come costante antropologica, nemmeno semplicemente uno strumento ideologico della classe dominante. Leggendo la politica della lingua di Gramsci con Benjamin e Marx potremmo aggiungere: se la lingua è traducibile solo nella e attraverso la storia delle sue vite postume, la storia della traducibilità è anche la storia della lotta di classe. È questa storia che la traducibilità capitalista della lingua tenta di reprimere.
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P. Ives, Gramsci’s Politics of Language cit., p. 34. Ibid.
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Un incendio non vero. Gramsci e Benjamin interpreti del futurismo Daniele Balicco
Ogni verso che scrivo è un incendio Incendio non vero è quello che scrivo non vero seppur è per dolo. Aldo Palazzeschi In ogni giovane – la polvere pirica di Marinetti Vladimir Majakovskij
Walter Benjamin incontrò di persona Filippo Tommaso Marinetti una sola volta, a Capri, nel settembre del 1924. Dopo il thè delle cinque, di fronte ad un piccolo pubblico, il fondatore del futurismo italiano lesse un suo testo poetico insieme a Ruggero Vasari ed Enrico Prampolini. Gli ingredienti della performance non sono difficili da immaginare: un testo scritto come se la pagina fosse uno spazio aggredito da un’esplosione tipografica e una lettura orientata ad esasperare movimento e rumore. Non sappiamo con precisione quale testo Marinetti teatralizzò in quell’occasione1. Benjamin ci parla di un contenuto noioso2, dove la celebrazione dell’era moderna come progresso violento passa attraverso la descrizione di colpi d’arma da fuoco, inseguimenti, sferragliare di treni e nitriti di ca1 Per una ricostruzione della serata futurista caprese del 1924 a cui partecipa Benjamin, cfr. Sergio Lambiase, Futuristi a Capri, in L. Vergine, Capri. 1905-1940. Frammenti postumi, il Saggiatore, Milano 2018, pp. 240-252. 2 Notizie sulle impressioni di Benjamin di fronte alla performance di Marinetti si possono leggere in Howard Eiland, Michael W. Jennings, Walter Benjamin. Una biografia critica, Einaudi, Torino 2015, pp. 194-195.
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valli. Eppure, la potenza estetica della lettura lo incanta. Del resto, proprio qui, a Capri, sta faticosamente scrivendo, da cinque mesi, la prima bozza della sua tesi di abilitazione mancata. E non è detto che l’esasperazione sinestetica della poesia di Marinetti non gli sia apparsa, allora, come un gesto allegorico noto: in altre parole, come risultato espressivo di quella medesima volontà artistica ostinata che accomuna le età di crisi e che, ai suoi occhi, costella le rovine fossili del dramma barocco tedesco con la violenta disarmonia dell’espressionismo weimariano. Che ci fosse, per altro, un’inconsapevole atmosfera secentesca anche nelle sperimentazioni estetiche futuriste – si pensi all’importanza che Marinetti stesso attribuisce all’analogia, già nel Manifesto tecnico della letteratura futurista del 1912 – era stato registrato, benché con disapprovazione, nella celebre stroncatura che Benedetto Croce scagliò, nel 1918, dalle pagine della Critica contro il futurismo; interpretandolo come «cosa estranea all’arte»3. Qualche anno prima, Antonio Gramsci aveva incontrato di persona Filippo Tommaso Marinetti a Torino: con precisione, il 2 aprile del 1922. L’occasione era stata la Mostra Internazionale d’arte futurista, allestita nei locali del Winter Club. Era stato lui stesso a cercare Marinetti, proponendogli di fare da guida, insieme a Umberto Calosso, a un gruppo di operai e studenti dell’Istituto di cultura proletaria – sezione italiana del Proletkul’t internazionale di Mosca – di cui Gramsci era fra i fondatori. Nel 1922 Marinetti aveva ormai abbandonato qualsiasi velleità politica. Il partito futurista era stato sciolto due anni prima e i suoi tumultuosi rapporti con Mussolini non si erano ancora del tutto pacificati; lo saranno di lì a breve. È curioso, tuttavia, che Gramsci non si faccia alcun problema a coinvolgere proprio Marinetti come guida degli operai alla mostra, nonostante sia stato lui stesso, solo tre anni prima, fra i protagonisti delle reiterate violenze che arditi e fascisti scatenarono contro le strutture territoriali del socialismo italiano. Qual è dunque la ragione di que3 Benedetto Croce, Il futurismo come cosa estranea all’arte, «La Critica», XVI, 1918, pp. 383-384. Medesimo riferimento al barocco, ma di segno diametralmente opposto, si può leggere, quasi negli stessi anni, in Roberto Longhi, I pittori futuristi, «La Voce», V, 1913, 15, p. 1051. Per un’analisi del rapporto fra futurismo e cultura secentesca, si veda: Alberto Asor Rosa, Il futurismo nel dibattito intellettuale italiano dalle origini al 1920, in Renzo de Felice (a cura di), Futurismo, cultura e politica, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1986, pp. 49-66.
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sta inconsueta disponibilità? E che cosa ci dice della sensibilità critica di Gramsci? Nelle pagine che seguono ricostruiremo anzitutto il giudizio di Gramsci sull’arte futurista e sulla sua specifica politicità. Per poi confrontarlo con la celebre tesi di Walter Benjamin, scritta una decina d’anni dopo il suo incontro con Marinetti a Capri, per cui l’arte futurista diventa l’emblema del fascismo; e, soprattutto, della sua pericolosa capacità di estetizzare la politica4. 1. Partizione del sensibile Il primo articolo di Gramsci sul futurismo è del 1913. Scritto per il «Corriere Universitario» di Torino, e firmato con lo pseudonimo Alfagamma, è un breve testo in difesa delle prove sperimentali di alcuni fra i poeti più significativi del movimento d’avanguardia italiano, come Palazzeschi, Govoni, Buzzi. Gramsci li presenta come «ciò che di meglio la letteratura poetica odierna può offrire alla storia»5. Un giudizio senza dubbio netto, entusiasta, aggressivamente anti-crociano; giudizio che si conferma poche righe dopo, interpretando la scomposizione sinestetica di Adrianopoli assedio orchestra di Marinetti come un magnifico esempio di quella «nuova tendenza dell’arte odiernissima, dalla musica alla pittura dei cubisti»6 che è orientata a estraniare le forme elementari della percezione attraverso un processo di scomposizione dei piani di realtà: La prova di Adrianopoli assedio-orchestra è una forma d’espressione linguistica che trova il suo perfetto riscontro nella forma pittorica di Ardengo Soffici o di Pablo Picasso; è anch’essa una scomposizione in piani dell’immagine; questa non si presenta alla fantasia sfumata negli avverbi o negli aggettivi […], ma come una serie successiva o parallela o intersecantesi di sostantivi-piani, dai limiti bene fissati7.
Come si vede, Gramsci interpreta, fin da subito, il futurismo come variante italiana di una ricerca comune dell’arte europea di quegli 4 Un’interpretazione della lettura di Benjamin e Gramsci del movimento futurista si può leggere in Sergio Givone, Due opposte interpretazioni del futurismo, in Id., Hybris e melancholia. Studi sulle poetiche del Novecento, Mursia, Milano 1984, pp. 98-118. 5 Antonio Gramsci, Per la verità, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 6. 6 Ibid. 7 Ivi, p. 7.
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anni, ricerca che sta alterando, in ogni campo artistico, le forme tradizionali della composizione estetica. Se non si presuppone questa nuova partizione del sensibile8, la poesia e la pittura futurista non si capiscono; e poco importa che non la capiscano gli intellettuali borghesi come Croce, contro cui, programmaticamente, quest’arte insorge; più grave, per Gramsci, è il fatto che non venga compresa dalla cultura socialista. Perché il futurismo, invece, andrebbe osservato come sintomo di una trasformazione culturale profonda. Nei suoi gesti di disarticolazione formale, come nei suoi manifesti tecnici, sta prendendo voce, infatti, la nuova sensibilità della vita moderna industrializzata; una vita sempre più artificiale, simultanea, distratta, tecnologica, urbana; una vita fatta di corpi individuali e di masse – e per questo potenzialmente egualitaria – che sta iniziando proprio ora a insorgere contro le gerarchie sociali e l’obsolescenza psichica della vecchia Europa liberale. Basterebbe anche solo leggere con un po’ d’attenzione alcuni passaggi del Manifesto tecnico della scultura futurista di Boccioni (1912) – sicuramente la figura intellettuale più complessa dell’intero movimento – per rendersi conto di come questa nuova partizione del sensibile prefiguri già un ordine politico nuovo, ben al di là delle fragili barriere istituzionali che, invano, lo Stato liberale italiano proverà a difendere ancora nell’immediato dopoguerra: La pittura s’è rinsanguata, approfondita e allargata mediante il paesaggio e l’ambiente fatti simultaneamente agire sulla figura umana e sugli oggetti giungendo alla nostra futurista compenetrazione di piani. Così la scultura troverà nuova sorgente d’emozione, quindi di stile, estendendo la sua plastica a quello che la nostra rozzezza barbarica ci ha fatto sino ad oggi considerare come suddiviso, impalpabile, quindi inesprimibile plasticamente. […] La scultura deve quindi far vivere gli oggetti rendendo sensibile, sistematico e plastico il loro prolungamento nello spazio, poiché nessuno può più dubitare che un oggetto finisca dove un altro comincia e non v’è cosa che non circondi il nostro corpo: bottiglia, automobile, casa, albero, strada, che non lo tagli e non lo sezioni con un arabesco di curve e di rette9.
Simultaneità, compenetrazione di piani, impossibilità di distinguere uno spazio fisico discontinuo, rottura dei confini, capacità di ogni 8 Cfr. Jacques Rancière, La partizione del sensibile. Estetica e politica, DeriveApprodi, Roma 2016. 9 Umberto Boccioni, Manifesto tecnico della scultura futurista (1912) ora in Manifesti del futurismo, a cura di V. Birolli, Abscondita, Milano 2008, p. 52 (corsivo nell’originale).
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finito di farsi attraversare dall’ambiente che lo circonda e dalle forze che lo irradiano. Bastano anche solo questi pochi elementi per capire la tendenza di fondo dell’inconscio politico futurista: un sabotaggio programmato delle forme istituzionali della razionalità borghese e del suo potere distintivo: la capacità di separare il pubblico dal privato, l’individuo dalla società, lo Stato dal mercato, la psiche dal corpo10. All’altezza di questi anni, la richiesta di rottura si esprime ancora solo ad un livello simbolico, estetico, psichico, formale; mentre la sua declinazione politica resta oltremodo confusa. Prima dello scoppio della Grande Guerra, fra i futuristi troviamo di tutto: anarchici, socialisti, repubblicani, pacifisti, guerrafondai, ultranazionalisti. Gramsci non prenderà mai sul serio i vani tentativi del movimento di Marinetti di trasformarsi, alla fine della Prima Guerra Mondiale, in una forza politica organizzata. Con ironia, infatti, nel 1918, registrerà sul settimanale Il Grido del Popolo la fondazione del partito futurista, il cui manifesto politico può apparire per l’appunto “futurista” solo in un paese retrogrado come l’Italia, dove la tradizione liberale europea non ha mai avuto, se si esclude Cavour, rappresentanti culturalmente consapevoli di quanto questa tradizione pretenda dall’amministrazione pubblica e dal governo dello Stato: Questo programma è stato scritto da Filippo Tommaso Marinetti per conto del nuovo partito politico futurista. Sfrondato delle amplificazioni verbali, delle imprecisioni di linguaggio, di qualche lieve contraddizione, esso non è altro che il programma liberale che i nipoti di Cavour hanno dimenticato avrebbero dovuto realizzare per i migliori destini d’Italia. Ma i nipoti di Cavour hanno dimenticato gli insegnamenti e le dottrine del loro antenato. Il programma liberale sembra così straordinario e pazzesco che i futuristi lo fanno proprio, persuasi di essere originalissimi e ultra-avveneristici. È lo scherno più atroce delle classi dirigenti. Cavour non riesce a trovare in Italia altri discepoli e assertori che F.T. Marinetti e la sua banda di scimmie urlatrici11.
Dopo la fondazione del partito nel 1918, Marinetti cercherà invano di realizzare politicamente la ribellione estetica futurista. Anzi10 Sul rapporto fra l’estetica di Boccioni e il pensiero del Gramsci ordinovista, cfr. James Martin, Intersecting Planes: Futurism, Fascism and Gramsci, in John London (a cura di), One Hundred Years of Futurism: Aesthetics, Politics and Performance, Intellect Ltd, Bristol (UK) 2018, pp. 79-99. 11 Antonio Gramsci, Cavour e Marinetti, in Id., Sul fascismo, Editori Internazionali Riuniti, Roma 2012, p. 46.
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tutto, si alleerà con i reduci e con gli Arditi partecipando, anche se in modo altalenante, all’esperienza fiumana. Scriverà perfino due saggi di teoria politica (Democrazia futurista nel 1919 e Al di là del Comunismo nel 1920) per poi candidarsi, nel 1919, nelle liste dei Fasci di Combattimento insieme a Mussolini. La sua strategia è quella di esercitare un’egemonia culturale «sull’attivismo della piccola borghesia nazionalista ribelle, ma tentando anche di stabilire qualche collegamento con le minoranze della sinistra anarchica e bolscevica, per attirarle nella prospettiva della “rivoluzione italiana”, in nome dell’odio comune contro l’ordine costituito»12. Come ben sappiamo, però, la rivoluzione italiana per cui Marinetti tanto maldestramente si spese prenderà altre vie: del resto, già nel maggio del 1920, lui stesso romperà l’alleanza con il partito di Mussolini che aveva ormai rinunciato alla pregiudiziale anti-monarchica, anti-clericale e filo-proletaria che fu, invece, all’origine del suo movimento. In questi stessi anni, Gramsci matura una profonda avversione per il velleitarismo politico di Marinetti. Del resto, Rivoluzione d’Ottobre ed esperienza diretta dei Consigli di Fabbrica alla Fiat di Torino lo hanno persuaso che il gesto di rottura radicale, anticipato dall’estetica futurista di inizio secolo, sta finalmente trovando una sua traduzione politica: la democrazia operaia13. Che non si realizzerà, però, attraverso una graduale occupazione delle vecchie istituzioni statali, come ancora credono i socialisti. Basta osservare, infatti, come lo Stato liberale stia dando copertura istituzionale alla violenza fascista per derubricare il gradualismo a ingenua illusione. La posizione di Gramsci è ben diversa: di fronte al collasso dello Stato borghese bisogna organizzare una rottura violenta, il cui nucleo direttivo non può che essere preparato all’interno dei consigli di fabbrica. Come sappiamo, è proprio in difesa di questa strategia che il 21 gennaio del 1921 si separerà dai socialisti, per fondare, insieme ad Amedeo Bordiga, Umberto Terracini, Angelo Tasca e Palmiro Togliatti, il Partito Comunista d’Italia. 12 Emilio Gentile, “La nostra sfida alle stelle”. Futuristi in politica, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 126; per una ricostruzione generale del panorama culturale dell’anti-democrazia italiana, cfr. R. de Felice (a cura di), Futurismo, cultura e politica cit.; Giulia Albanese, David Bidussa, Jacopo Perazzoli, Siamo stati fascisti. Il laboratorio dell’anti-democrazia. Italia 1900-1922, Feltrinelli, Milano 2020. 13 Antonio Gramsci, Democrazia operaia, in Id., L’Ordine nuovo. 1919-1920, Einaudi, Torino 1955, pp. 10-13.
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Può essere curioso notare che, proprio poche settimane prima della scissione di Livorno, Gramsci torni ad occuparsi ancora una volta di Marinetti. Il 5 gennaio del 1921 ha pubblicato, infatti, sull’Ordine Nuovo, il resoconto di un aneddoto avvenuto l’estate prima, a Mosca, durante i lavori del II Congresso della Terza Internazionale. L’articolo s’intitola “Marinetti rivoluzionario?”14 e riporta anzitutto la stupefazione con cui Serrati reagì alle parole pronunciate in un perfetto italiano, e quindi non fraintendibili, dal commissario dell’istruzione sovietico Anatolij Lunačarskij, secondo cui «in Italia esiste un intellettuale rivoluzionario e che egli è Filippo Tommaso Marinetti»15: I filistei del movimento operaio sono oltremodo scandalizzati; è certo ormai che alle ingiurie di: “bergsoniani, volontaristi, pragmatisti, spiritualisti”, si aggiungerà l’ingiuria più sanguinosa di “futuristi! Marinettiani”! Poiché una tale sorte ci attende, vediamo di elevarci fino all’autocoscienza di questa nuova nostra posizione intellettuale16.
Il giudizio di Lunačarskij su Marinetti – su cui pare abbia convenuto perfino Lenin17 – serve a Gramsci, in realtà, per attaccare frontalmente il gradualismo progressista dei socialisti italiani. Il loro sdegno di fronte alla violenza estetica futurista è la controprova di una miopia culturale profonda che si esprime, infatti, in una cultura politica astratta, velleitaria, tutta istituzionale e ormai imprigionata nella tattica. Vale la pena riportare quasi per intero questo breve articolo, perché testimonia, in modo molto chiaro, tanto la finezza critica di Gramsci, che sa interpretare la sperimentazione estetica futurista come sintomo di una nuova partizione del sensibile; quanto la sua perspicacia politica che lo porterà, di lì a breve, a riconoscere nell’uso politico della violenza la strategia di legittimazione con cui il fascismo si proporrà, di fronte al capitale industriale e latifondista italiano, come l’unico soggetto organizzato in grado di imporre un nuovo comando sul lavoro: 14 Antonio Gramsci, Marinetti rivoluzionario?, in Id., Socialismo e fascismo. L’Ordine nuovo 1921-1922, Einaudi, Torino 1966, pp. 20-22. 15 Ivi, p. 20. 16 Ibid. 17 La convergenza del giudizio su Marinetti di Lenin e Lunačarskij è riportata in Cesare De Michelis, I contatti politico-culturali fra futuristi italiani e Russia, in R. de Felice (a cura di), Futurismo, cultura e politica cit., pp. 351-380.
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Il campo della lotta per la creazione di una nuova civiltà è invece assolutamente misterioso, assolutamente caratterizzato dall’imprevedibile e dall’impensato. […] Cosa resta da fare? Niente altro che distruggere la presente forma di civiltà. […] I futuristi hanno svolto questo compito nel campo della cultura borghese: hanno distrutto, distrutto, distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso un’opera superiore a quella distrutta: hanno avuto fiducia in se stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista, quando i socialisti non si occupavano neppure lontanamente di simile questione, quando i socialisti certamente non avevano una concezione altrettanto precisa nel campo della politica e dell’economia, quando i socialisti si sarebbero spaventati (e si vede dallo spavento attuale di molti di essi) al pensiero che bisognava spezzare la macchina del potere borghese nello Stato e nella fabbrica. I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari18.
Gramsci è chiarissimo: spetta al movimento operaio continuare, nella lotta politica, quel gesto di rottura radicale che i futuristi hanno anticipato nell’arte. Con un’avvertenza importante, però, che il realismo socialista farà di tutto per disattendere: secondo Gramsci, una volta trasformata la società anche l’arte, necessariamente, inizierà a mutare. Questa metamorfosi, proprio come quella delle farfalle, seguirà, autonomamente, regole proprie. Per questa ragione non potrà in alcun modo essere imposta, prescritta, né tantomeno vincolata a qualsivoglia teoria politica o filosofica. In quanto evento, e inconsapevole stenografia del futuro, l’arte sarà sempre caratterizzata «dall’imprevedibile e dall’impensato»19. Inutile dunque imporre poetiche prescrittive; anzi, dannoso: perché così si sabota la possibilità di conoscere, in figura, un anticipo di futuro. 2. Restaurazione dell’aura come rivoluzione passiva Nel 1922 Lev Trockij scrive quasi contemporaneamente una lettera a Gramsci e una a Majakovskij. Nel bel mezzo della guerra civile, il comandante dell’Armata Rossa sta lavorando al saggio 18 19
A. Gramsci, Marinetti rivoluzionario? cit., p. 21. Ivi, p. 20.
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Letteratura e rivoluzione20 e ha bisogno di alcune delucidazioni sulla storia europea del futurismo e sulle posizioni politiche attuali di Marinetti. Che Trockij faccia una richiesta simile a Gramsci non deve stupire troppo: il futurismo italiano ebbe fin da subito un enorme impatto sulla cultura d’avanguardia russa21. Basti pensare che il primo Manifesto di Marinetti verrà tradotto dalla rivista «VeCer» quasi immediatamente, due settimane dopo la pubblicazione francese: l’8 marzo del 1909. Da allora, i rapporti fra futuristi italiani e russi furono continui: iniziò quasi subito una lotta feroce sulla primogenitura del movimento – russa o italiana? – a tal punto che, nel suo primo viaggio a Mosca, nel 1914, nessun futurista russo volle incontrare di persona Marinetti; eccetto Malevič. E tuttavia ciò che realmente separò i due movimenti nel corso degli anni Dieci sarà il rapporto con la guerra: idolatrata dagli italiani – con poche eccezioni: Palazzeschi; ripudiata dai russi – con un’unica importante eccezione: Majakovskij. Gramsci risponde alle richieste di Trockij con una lettera datata 5 settembre 1922. Da giugno si trova a Mosca. La situazione in Italia sta precipitando; siamo a quasi un mese dalla marcia su Roma e Gramsci è l’unico fra i delegati italiani – lo ricorderà lo stesso Trockij nel 193222 – a capire con chiarezza che in Italia sta per iniziare una dittatura violenta. Per l’insieme di queste circostanze (senza scordare che, mentre scrive, Gramsci si trova ricoverato al sanatorio moscovita Serebrjanij Bor), il tono della lettera è cupo, spesso sarcastico; ora, infatti, non si tratta più di difendere le sperimentazioni estetiche di una corrente d’avanguardia. Perché è in gioco la storia, la politica, perfino la sua stessa sopravvivenza. Il quadro generale descritto non può che essere impietoso:
Lev Trockij, Letteratura e rivoluzione, Einaudi, Torino 1973. Per capire l’importanza dell’impatto del futurismo italiano sulla Russia prerivoluzionaria, cfr. anzitutto L. Trockij, Il futurismo, in Id., Letteratura e rivoluzione cit., pp. 111-140. Fra i molti studi: Giorgio Kraiski, Poetiche russe del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1968; Cesare De Michelis, Il futurismo italiano in Russia, De Donato, Bari 1973; Id., I contatti politico-culturali fra futuristi italiani e Russia cit., pp. 351-380; Halina Stephan, Il secondo futurismo russo: la dimensione politica, in R. de Felice (a cura di), Futurismo, cultura e politica cit., pp. 381-406. 22 La citazione del discorso di Trockij è riportata nella prefazione di Roberto Massari al volume: All’opposizione nel Pci con Trotsky e Gramsci. Bollettino dell’Opposizione comunista italiana (1931-1933), Massari editore, Bolsena 2004, p. 6. 20 21
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Dopo la guerra, il movimento futurista in Italia ha perduto interamente i suoi tratti caratteristici. Marinetti si dedica molto poco al movimento. Si è sposato e preferisce dedicare le sue energie alla moglie. Al movimento futurista partecipano attualmente monarchici, comunisti, repubblicani e fascisti. […] I più importanti esponenti del futurismo d’anteguerra sono diventati fascisti, a eccezione di Giovanni Papini, che è divenuto cattolico e ha scritto una Storia di Cristo. Durante la guerra i futuristi sono stati i più tenaci fautori della “guerra sino in fondo” e dell’imperialismo23.
Il valore della rottura estetica futurista inizia ora a essere osservato in modo diverso. Il bellicismo infantile, le velleità superomistiche, l’idolatria della tecnica come volontà di potenza, l’inconsistenza ideologica: se portato sul piano dell’azione politica, il movimento rivela tutta la sua nefasta improntitudine. Di fronte all’esasperazione del conflitto sociale e, soprattutto, alla copertura liberale della violenza fascista, i libretti ideologici che Marinetti va scrivendo in questi anni («se si possono in genere definire come dottrine le fantasie di quest’uomo, che a volte è spiritoso e sempre è notevole»24) appaiono per quello che sono: poco più che simpatiche boutades. Nella lettera si ricorda anche il suo coinvolgimento come guida alla mostra futurista di Torino, poco prima della partenza di Gramsci per Mosca; e della sua soddisfazione «per essersi convinto che i lavoratori avevano per le questioni del futurismo molta più sensibilità che non i borghesi»25. Su questo ultimo aspetto, però, Gramsci introduce, in chiusura, un elemento nuovo, su cui mediterà a lungo, soprattutto nei Quaderni del carcere. Si tratta, in sostanza, del rapporto fra gruppi intellettuali d’avanguardia, impoliticità delle masse e vittoria del fascismo come rivoluzione passiva. In un presente che ormai obbliga i lavoratori a «lottare con le armi per difendere la loro libertà»26, il gesto di rottura futurista diventa inessenziale. Serve piuttosto sperimentare una nuova forma di creatività, una nuova partizione del sensibile, che sia capace di proiettarsi su un tempo lungo; che è il tempo della sconfitta. Gramsci immagina un’intelligenza politica di tipo nuovo, che sia integrata nella vita popolare e che sappia interrogare il senso comune per portarlo fino alla comprensione politica del presente. L. Trockij, Letteratura e rivoluzione cit., p. 141. Ivi, p. 142. 25 Ibid. 26 Ivi, p. 143. 23 24
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Contro il dominio fascista trionfante, nessuna avanguardia ha più senso. Bisogna ripartire da zero, iniziando a impostare una lunga, sotterranea, faticosa e invisibile lotta per l’egemonia. Osservati con queste nuove lenti teoriche, i futuristi appaiono ora – ma siamo ormai negli anni Trenta – come un «gruppo di scolaretti che sono scappati da un collegio di gesuiti»27 o, ancora peggio, come un caso da manuale di «secentismo»28 intellettuale, le cui acrobazie estetiche possono anche sedurre la curiosità delle classi popolari; ma solo perché acrobazie virtuosistiche, astratte, retoriche, incomprensibili perché estranee alla cultura popolare. Come si vede, l’ultimo Gramsci ha cambiato radicalmente prospettiva. All’altezza dei Quaderni, ripensa ormai il futurismo collocandolo nella storia di lungo periodo dell’intellettualità italiana cosmopolita e della sua sostanziale incapacità di entrare in un rapporto politico autentico – e dunque trasformativo – con la vita popolare delle masse29. Nel 1935, mentre Gramsci si trova in libertà condizionale alla clinica Cusumano di Formia, Walter Benjamin è tornato da Sanremo a Parigi. Da più di due anni è in esilio, in condizioni economiche al limite dell’indigenza. Solo negli ultimi mesi, infatti, Horkheimer è riuscito a garantirgli un finanziamento mensile stabile con i fondi dell’Istituto di Sociologia di Francoforte. A Parigi, Benjamin può finalmente riprendere il suo lavoro sui Passages. In aprile, è riuscito a incontrare Friedrich Pollock che gli ha chiesto di scrivere una sintesi del progetto; e sarà proprio la rapida stesura di questo exposé – che diventerà il celebre Parigi capitale del XIX secolo30 – l’occasione per riflettere sulle premesse gnoseologiche della ricerca da cui nascerà il suo saggio più famoso: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica31. Nelle sue cinque differenti stesure, il testo discute una filosofia della storia della percezione e soprattutto dei media che l’hanno, di volta in volta, predisposta e addestrata. La tesi di Benjamin è radicale: il 27 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Giarratana, Einaudi, Torino 1975, vol. I, p. 115. 28 Ivi, vol. III, p. 1739. 29 Ivi, vol. III, pp. 1669-1670; 2109-2110. 30 Walter Benjamin, Parigi, la capitale del XIX secolo [Exposé del 1935], in Id., Opere Complete, Einaudi, Torino 2000, vol. IX, pp. 5-18. 31 Come edizione italiana di riferimento si consideri: Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Edizione integrale comprensiva delle cinque stesure, a cura di F. Desideri e M. Montanelli, Donzelli, Roma 2012.
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sistema delle arti contemporanee va riconfigurato a partire dall’invenzione del cinema, arte industriale per antonomasia che può esistere solo nella riproducibilità tecnica; solo nella simultaneità della sua percezione di massa. Cinema e fotografia hanno inoltre disattivato l’aura delle opere d’arte tradizionali, vale a dire il loro essere evento unico, irripetibile, cultuale, confinato in uno spazio/tempo conchiuso; perturbando così – forse per sempre – il rapporto dei soggetti con la tradizione e con le forme simboliche della gerarchia. Ma che cosa c’entra tutto questo con il futurismo? In realtà, Benjamin, attraverso l’analisi dell’impatto della nuova tecnologia cinematografica sul sensorio di massa, sta provando a mappare una tendenza culturale polarizzata in due direzioni opposte: la prima è quella che definisce con il termine di politicizzazione dell’arte. Di fronte al terremoto appercettivo contemporaneo, l’arte può politicizzarsi assumendo consapevolmente su di sé il potenziale liberatorio implicito nella produzione in scala di questo nuovo sensorio ubiquitario: la sfida sarà quella di trasformare l’impoliticità tendenziale delle masse in coscienza politica, stabilendo un principio elementare di eguaglianza – «ogni uomo di oggi può rivendicare il diritto di essere filmato»32 – per arrivare fino al riconoscimento della posizione occupata da ciascun soggetto all’interno del processo produttivo che lo sovrasta, umiliandolo. Per Benjamin, un modello possibile di questa pratica di distrazione cosciente è la sperimentazione teatrale di Brecht, dove l’autore diventa, contemporaneamente, un produttore politecnico33 e un didatta di massa. La tendenza opposta viene invece definita con il termine estetizzazione della politica. Nella prima versione del saggio – siamo nel settembre del 1935 – la diagnosi suona precisamente così: I movimenti, nel cui corso le masse […] conquistano il primo piano della scena storica, hanno reso necessarie delle trasformazioni profonde in entrambi gli ambiti – in quello estetico e in quello politico. Queste trasformazioni […] sono il campo di battaglia delle lotte politiche presenti. Esse ricevono il loro carattere particolare attraverso il tentativo, ampiamente diffuso, di organizzare quei movimenti di massa senza tener conto del sovvertimento delle basi sociali, di cui sono espressione e condizione, nell’ordine dei rapporti di W. Benjamin, L’opera d’arte cit., p. 95. Walter Benjamin, L’autore come produttore, in Id., Opere Complete, VI. Scritti 1934-1937, Einaudi, Torino 2004, pp. 43-58. 32
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produzione e proprietà. Questo tentativo ampiamente diffuso è quello intrapreso dal fascismo. Il segreto di questo tentativo sta nel dare ai movimenti di massa un’espressione invece di organizzarli. Oppure, detto altrimenti: il fascismo cerca di dare a questi movimenti di massa una forma immediata, invece di condurli alla loro forma mediata attraverso il sovvertimento dei rapporti di produzione e di proprietà. Questa forma immediata in cui si manifestano i movimenti di massa privati del loro proprio scopo, apparentemente senza finalità, ma in verità al servizio di pochi, è il fascismo. Il fascismo, di conseguenza, porta all’estetizzazione della politica34.
Secondo Benjamin, il fascismo riesce a invertire la direzione della spinta liberatoria interna alla riproducibilità tecnica, restaurando una modernissima dimensione cultuale. Che pretenderà, infatti, di lì a poco, un sacrificio tribale di massa: la guerra. Restaurare l’aura e il suo culto – come illusione della possibilità che esista ancora un punto di vista soggettivo onnisciente («il duce») sulla realtà – serve alla dittatura per fornire ai movimenti di massa uno stile espressivo, un ordine mentale, una propria collocazione sociale riconoscibile e un fine politico. Si produce così un immenso inganno estetico che ha lo scopo di simulare una rivoluzione, dissimulando la conservazione dei rapporti di proprietà. Inoltre, la forza trasformativa del nuovo sensorio ubiquitario viene convogliata all’interno dei confini della nazione. E non è un caso, infatti, se proprio il fascismo investirà moltissimo sulla nuova tecnologia dei film sonori, che imprigionano l’apertura potenzialmente universale della riproducibilità tecnica in una dimensione linguistica nazionale. Il problema è che l’insieme di queste mosse – la restaurazione dell’aura come culto del duce e della nazione – porta per logica interna a un unico sbocco possibile: la guerra. Ed è precisamente sull’estetizzazione della guerra che entra in gioco, proprio in chiusura di saggio, la figura di Marinetti con il suo delirante manifesto/poema in favore della conquista fascista d’Etiopia. Dal 1929 Filippo Tommaso Marinetti è consacrato dal fascismo accademico d’Italia. Il rapporto con Mussolini si è pacificato, anche se il regime, nella sua sostanziale liberalità estetica, riserva un trattamento abbastanza freddo agli artisti vicini al futurismo, prediligendo quasi sempre, nelle occasioni celebrative come negli appalti di arte pubblica, la più tradizionale, per quanto inquieta, 34
W. Benjamin, L’opera d’arte cit., pp. 30-31.
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corrente novecentista35. Accademico e ormai innocuo, Marinetti celebra la guerra d’Etiopia in un breve scritto del 193336 che anticipa la pubblicazione de Il poema africano della divisione 28 ottobre37. Benjamin riporta una lunga citazione di questo scritto in conclusione del saggio. In realtà, temi futuristi ritornano sottotraccia in buona parte dell’intero testo: gli effetti della riproducibilità tecnica sono infatti osservati da Benjamin a partire dalla simultaneità, dalla produzione di shock, dal tattilismo, dalla distruzione della tradizione, dall’assoluta preminenza data alla tecnologia come forza con cui «ricostruire e meccanizzare l’universo»38. Ma sull’insieme di questi problemi, Benjamin adotta un punto di vista simile a quello seguito nell’interpretazione del surrealismo: le sperimentazioni estetiche comuni alle avanguardie di inizio secolo vanno comprese come tentativo artigianale di produrre quell’addestramento appercettivo che solo il cinema riuscirà a imporre – in modo industriale – sulla vita delle masse. Ciò che invece differenzia ancora il futurismo dalle altre avanguardie europee è sicuramente l’idolatria della guerra. Benjamin non interpreta però questo aspetto della poetica futurista in modo ovvio, vale a dire considerandolo come semplice ideologia. Perché lo strano nazionalismo modernista39, a cui il futurismo dà voce, nasconde proprio nell’estetizzazione della guerra una questione epocale: 35 Per una prima ricognizione del rapporto fra futurismo e Stato fascista, si vedano: Enrico Crispolti, La politica culturale del fascismo, le avanguardie e il problema del futurismo, in R. de Felice (a cura di), Futurismo, cultura e politica cit., pp. 247-280; Alessandro Del Puppo, Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva nell’arte italiana del primo Novecento, Quodlibet, Roma 2013; Michele Dantini, Arte e politica in Italia tra Fascismo e Repubblica, Donzelli, Roma 2016. 36 Benjamin citerà il testo di Marinetti come se fosse stato pubblicato sulla «Stampa» di Torino solo nella terza e quinta versione del saggio; in realtà, non esistono prove di questa pubblicazione in Italia e si presume che Benjamin l’abbia letta da una fonte francese o tedesca che, nel 1935, avrebbe anticipato il sostegno di Marinetti alla guerra d’Etiopia. 37 Filippo Tommaso Marinetti, Il poema africano della divisione 28 ottobre, Mondadori, Milano 1937. 38 Cfr. Fortunato Depero, Ricostruzione e meccanizzare l’Universo [1915], Abscondita, Milano 2019. 39 «L’ideale di un “uomo nuovo” appartenente ad un futuro ancora indefinito era intrinseco al fascismo italiano, per quanto tale uomo nuovo avesse più che altro i caratteri di un tipo ideale, mentre in Germania l’uomo nuovo incorporava esemplarmente il passato risorto: dal novero dei caduti in guerra, o dal mondo degli antichi eroi germanici». George L. Mosse, Futurismo e cultura politica in Europa: una prospettiva globale, in R. de Felice (a cura di), Futurismo cultura e politica cit., p. 27.
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[Per il pensatore dialettico] l’estetica della guerra attuale si presenta come segue: se il naturale impiego delle forze produttive viene impedito dall’ordinamento della proprietà, allora l’incremento dei mezzi tecnici, dei ritmi produttivi, delle fonti di energia spinge verso un impiego innaturale. Lo trova nella guerra, la quale, con le sue distruzioni, produce la prova del fatto che la società non era matura per fare della tecnica il proprio organo, che la tecnica non era abbastanza sviluppata per padroneggiare le forze sociali elementari40.
L’idolatria futurista della guerra è sintomo di un progresso storico che si involve in barbarie per contraddizioni interne. Secondo Benjamin, infatti, a causa del fascismo, lo sviluppo tecnologico delle forze produttive non riesce a trasformare i rapporti di proprietà; e la produzione, non potendo essere organizzata socialmente, inevitabilmente crea disoccupazione di massa e squilibri nel mercato mondiale a cui solo la guerra potrà trovare soluzione. Come scrive chiaramente, anche se solo nella prima versione del saggio, la società imprigionata dal fascismo «invece di impiegare il potenziale fornito dalla tecnica per la produzione di beni, lo utilizzerà per la distruzione di uomini»41. E così Marinetti si trasforma, nella lettura di Benjamin, in araldo delirante di una catastrofe storica. Proprio come nei romanzi di Kafka, su cui sta meditando in questi anni, negli scritti di Marinetti le forze che devastano il mondo restano inconoscibili. Ma il rebus non risolto non diventa monito d’allerta per il pericolo che incombe su tutti. All’opposto: si capovolge in colpevole celebrazione di un massacro insensato. L’estetizzazione della politica seduce così l’infantile delirio di onnipotenza di una sovranità come quella fascista che non sa organizzare coscientemente la potenza tecnologica che ha scatenato; e che, per questa ragione, involve in godimento estetico la traiettoria del suo stesso annientamento: “Fiat ars – pereat mundus” dice il fascismo e, come proclama Marinetti, si aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale trasformata in tecnica. Questo è, chiaramente, il compito dell’art pour l’art. L’umanità, che un tempo, con Omero, era uno spettacolo per gli dèi olimpici, lo è diventata per se stessa. La sua autoestraneazione ha raggiunto quel grado tale da farle vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine. Così stanno le cose quanto all’estetizzazione della politica 40 41
W. Benjamin, L’opera d’arte cit., p. 106. Ivi, p. 33.
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perseguita dal fascismo. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione dell’arte42.
Ciò che paradossalmente accomuna Benjamin e Marinetti è una lettura estetica della tecnologia come se fosse ancora tecnica43, vale a dire come se fosse semplice strumentazione neutra il cui potenziale liberatorio, od oppressivo, dipende esclusivamente dall’uso politico che se ne riesce a fare; detto altrimenti, dallo stato dei rapporti di proprietà. Che ci sia un problema interno al tipo di razionalità impiegato nello sviluppo delle macchine della riproducibilità e che questa stessa specifica razionalità vincoli a monte l’uso che se ne può fare, è un’eredità teorica marxiana che Benjamin non fa propria. Resta tuttavia aperta una questione. Marinetti e il futurismo sono stati ben altro, ovviamente, che una semplice cassa di risonanza al delirio di onnipotenza di un regime totalitario. Non a caso Gramsci stesso ne resterà a lungo affascinato. La diagnosi di Benjamin, però, vale a prescindere dalla storia del futurismo: come possiamo facilmente constatare, infatti, l’estetizzazione della politica, con pericoli annessi, funziona perfettamente ancora oggi. Viceversa, è la politicizzazione dell’arte a essere sparita dall’orizzonte del pensabile.
Ivi, p. 175. La bibliografia sulla distinzione teorica fra tecnica e tecnologia è oltremodo vasta; per l’economia di questo discorso si veda almeno Roberto Finelli, Filosofia e tecnologia: una via d’uscita dalla mente digitale, Rosenberg & Sellier, Torino 2022. 42 43
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Il presente contributo si propone di tornare sulle pagine di Antonio Gramsci dedicate al folklore, ispiratrici dell’importante dibattito del Secondo dopoguerra sul meridionalismo e poi, tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, della fondazione della demologia. Il tentativo, in seconda battuta e a prima vista paradossale, sarà di farle dialogare con le riflessioni di Walter Benjamin sull’arte popolare, di massa e sul Kitsch. La sintesi del paradosso apparente: tradizioni contadine, arcaismi, “arretratezza” economica versus metropoli, industrializzazione, capitalismo avanzato. Tutto sta nell’intendimento della nozione di folklore, se la si può espandere e rinnovare sulla base delle trasformazioni storico-sociali o meno. Detto altrimenti, da una posizione esterna alla cornice etnoantropologica, tenteremo di prendere filosoficamente sul serio, cercando di superarlo, il limite in cui è incappata la demologia1: l’aver finito per circoscrivere la disciplina a un’antropologia del patrimonio folklorico, ritenuto tanto più “autentico” quanto meno contaminato dalle grammatiche omologanti dell’industria culturale. Prospettiva anacronistica, dal momento che lingue, pensieri, percezione e forme di vita delle classi subalterne si sono riarticolate proprio dentro (e anche contro) queste grammatiche. La convinzione è che si tratti di un tema di estrema attualità. Non sono quanto mai urgenti nuove analisi storiche dei folklori, non solo delle “plebi rustiche” contemporanee, ma anche e soprattutto di quelli metropolitani e globali? Per svilupparne i risvolti di libertà e resistenza là dove ci siano, per criticarli e liquidarli nel caso di apparenze sociali delle più regres1 Su questo e dall’interno della disciplina, cfr. Fabio Dei, Popolo, popolare, populismo, «International Gramsci Journal», 2(3), 2017, pp. 208-238.
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sive? Non è questo un compito fondamentale della filosofia della praxis di oggi, essendo la nostra, proprio ora, un’epoca di grandi riemersioni dell’arcaico e di superstizioni? 1. Gramsci. Il folklore: una cosa molto seria Partiamo dunque subito dal Quaderno 27, dalla decisiva dichiarazione di metodo che, insieme alla definizione, articolata e dialettica, del fenomeno “folclore”, Gramsci lì offre2. Si può dire che finora il folclore sia stato studiato prevalentemente come elemento “pittoresco” (in realtà finora è stato raccolto solo materiale da erudizione […]). Occorrerebbe studiarlo invece come “concezione del mondo e della vita”, implicita in grande misura, di determinati strati ([…] nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita […]) con le concezioni del mondo “ufficiali” […] che si sono successe nello sviluppo storico. (Quindi lo stretto rapporto tra folclore e “senso comune” che è il folclore filosofico). | Concezione del mondo non solo non elaborata e sistematica, perché il popolo (cioè l’insieme delle classi subalterne e strumentali […]) per definizione non può avere concezioni elaborate, sistematiche e politicamente organizzate e centralizzate nel loro sia pur contraddittorio sviluppo, ma anzi molteplice […] se addirittura non deve parlarsi di un agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia […]. Anche il pensiero e la scienza moderna danno continuamente nuovi elementi al “folclore moderno”, in quanto certe nozioni scientifiche e certe opinioni, avulse dal loro complesso e più o meno sfigurate, cadono continuamente nel dominio popolare e sono “inserite” nel mosaico della tradizione […]. Certo esiste una “religione di popolo”, […] molto diversa da quella degli intellettuali […] e specialmente da quella organicamente sistemata dalla gerarchia ecclesiastica […]. Così è vero che esiste una “morale del popolo” […]: […] degli imperativi che sono molto più forti, tenaci ed effettuali che non quelli della “morale” ufficiale. Anche in questa sfera occorre distinguere diversi strati: quelli fossilizzati che rispecchiano condizioni di vita passata e 2 Ricordiamo che parte delle Osservazioni sul “Folclore” (1935) provengono dal Quaderno 1 (1929-1930), §§ 86, 89, primo commento di Gramsci a Giovanni Crocioni, Problemi fondamentali del Folklore (1928), le cui tesi egli le ricava verosimilmente dalla recensione a Crocioni di Raffaele Ciampini con cui interloquisce criticamente. È tornata sull’analisi comparata dei due testi dei Quaderni Costanza Orlandi, Folclore e modernità nella riflessione gramsciana, in L. Durante, G. Liguori (a cura di), Domande dal presente. Studi su Gramsci, Carocci, Roma 2012, pp. 127-139.
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quindi conservativi e reazionari, e quelli che sono una serie di innovazioni, spesso creative e progressive, determinate spontaneamente da forme e condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in contraddizione, o solamente diverse, dalla morale degli strati dirigenti3.
In ordine, le prime questioni fondamentali: il rifiuto dell’atteggiamento romantico o erudito-classificatorio (naturalizzatore e coloniale) nei confronti del folklore, il rapporto dialettico tra questo e la cultura “ufficiale” delle classi dominanti, e il senso comune, e la scienza; la stratificazione culturale, che vuol dire anche molteplicità del sé e compresenza di tempi storici eterogenei nel soggetto e fuori di esso; il tema del folklore progressivo. Soprattutto, è enunciato il principio metodologico basilare: il folklore, per essere superato in senso emancipatorio, deve essere conosciuto, non in modo fittiziamente disinteressato, bensì storico; va anzitutto accolto nel mondo della storia. Questa conoscenza deve perciò muovere dall’interno dello stesso contesto folklorico. Così prosegue Gramsci riferendosi all’importanza dell’inserimento dello studio del folklore nella formazione dei docenti di scuola e università: […] conoscere il “folclore” significa […] conoscere quali altre concezioni del mondo e della vita lavorano di fatto alla formazione intellettuale e morale delle generazioni più giovani per estirparle e sostituirle con concezioni ritenute superiori. Dalle scuole elementari alle… Cattedre d’agricoltura […] l’insegnamento del folclore agli insegnanti dovrebbe rafforzare […] questo lavoro sistematico. È certo che occorrerebbe mutare lo spirito delle ricerche folcloristiche […]. Il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. Solo così l’insegnamento […] determinerà […] la nascita di una nuova cultura […], cioè sparirà il distacco tra cultura moderna e cultura popolare o folclore4.
Chiarifichiamo questo punto prospettico – dall’interno –, dunque, lo “spirito” adeguato che ha da assumere la ricerca trattando di questa cosa “molto seria”. Facciamolo, servendoci del luogo del Quaderno 4 (1930-1932) sul rapporto tra sapere, comprendere e sentire, ossia sul necessario «[p]assaggio dal sapere al comprendere al sentire e viceversa». 3 Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975 (d’ora in poi Q, seguito dal numero del quaderno), 27, pp. 2311-2313 (corsivi nostri). Per la “religione” e la “morale del popolo”, Gramsci risponde alle domande poste da Ciampini nella sua recensione. 4 Ivi, p. 2314 (corsivo nostro).
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L’elemento popolare “sente”, ma non comprende né sa; l’elemento intellettuale “sa” ma non comprende e specialmente non sente. […] L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato, cioè che l’intellettuale possa essere tale se distinto e staccato dal popolo: non si fa storia-politica […] senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole, cioè spiegandole […] nella determinata situazione storica e collegandole […] a una superiore concezione del mondo, scientificamente elaborata, il “sapere”5.
Il co-sentire è l’atteggiamento metodologico che offre l’accesso al com-prendere, a un sapere “vivente” e non “meccanico”, che, solo, può farsi “forza sociale”, creare cioè il “blocco storico” (è in questione qui anche la differenza tra intellettuale tradizionale e intellettuale organico)6. Nel modo di intendere il nesso tra teoria e prassi ne va non solo del tratto vitale della conoscenza, ma della condizione di possibilità della trasformazione rivoluzionaria, nonché della sua maniera. Il presupposto epistemologico di una tale relazione tra co-sentire e comprensione sta in quella “filosofia spontanea” che riguarda tutti gli uomini e le donne, espressa dalle lingue, dal “senso comune”, dalle doxastiche Weltanschauungen, fino al folklore, dei determinati (nello spazio e nel tempo) gruppi sociali. Spostiamoci perciò nel Quaderno 11 (1932-1933): Occorre […] dimostrare […] che tutti gli uomini sono “filosofi”, definendo i limiti e i caratteri di questa “filosofia spontanea” […] contenuta: 1) nel linguaggio stesso […]; 2) nel senso comune e buon senso; 3) nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di credenze […] che si affacciano in quello che generalmente si chiama “folclore”. […] Per la propria concezione del mondo si appartiene sempre a un determinato aggruppamento […]. Si è conformisti di un qualche conformismo, si è sempre uomini-massa o uomini-collettivi. […] Quando la concezione del mondo non è critica e coerente ma occasionale e disgregata, si appartiene simultaneamente a una molteplicità di uomini-massa, la propria personalità è composita in modo bizzarro: si trovano in essa elementi dell’uomo delle caverne e principii della scienza più moderna […], pregiudizi di tutte le fasi storiche passate grettamente localistiche e intuizioni di una filosofia avvenire quale sarà propria del genere umano unificato mondialmente7.
Q 4, pp. 451-452. Cfr. ibid. 7 Q 11, pp. 1375-1376 (corsivi nostri). 5 6
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In ogni lingua, compresi dialetti e gerghi, in ogni apparato di dogmi e credenze, non una, ma molte concezioni del mondo, sedimentate storicamente, giustapposte in un intreccio in apparenza inestricabile tra contemporaneo e non contemporaneo. L’individuo è una fictio, si è sempre anzitutto parlati e pensati, si è sempre inconscia conferma del gruppo, dei gruppi. Alla complessità delle formazioni sociali corrisponde quella delle formazioni discorsive8: totalità strutturate secondo vari livelli di articolazione differentemente combinati tra loro; pertanto, il terreno ideologico è diversificato, attraversato da più correnti. Una pluralità caotica, che pone problemi più sofisticati rispetto alla gretta falsa coscienza contrapposta a un soggetto di classe che si vorrebbe omogeneo, puro9. In gioco, si è detto, è la combinazione di molteplici tempi storici. Qualsiasi concezione lineare, stadiale dello sviluppo viene meno. Lezione questa, ripresa e ampliata, si sa, dagli studi postcoloniali10. Il moderno è smerigliato, i suoi punti-limite, scabrosi, sono al contempo i suoi presupposti. Alla critica spetta allora il compito di districare l’intreccio: la costruzione contro-egemonica non consiste nella semplice imposizione di un’altra concezione del mondo; ma anzitutto nella dis-articolazione e ri-articolazione coerente e consapevole delle idee, delle opinioni, del senso comune; smontaggio e rimontaggio, che consentono la transizione al “buon senso”, dalla “filosofia spontanea” a quella “superiore”11. La critica innesca «un processo di distinzione e di cambiamento» del «peso relativo» degli elementi delle vecchie ideologie: ciò che era «secondario» o «incidentale», può diventare «il nucleo di un nuovo complesso ideologico»12 – come nel caso, appunto, del nocciolo progressivo di un insieme folklorico di credenze. La filosofia della prassi è in prima istanza pratica della critica, perché le ideologie sono «forze materiali»13 e 8 Cfr. Louis Althusser et. al., Leggere il Capitale (1996), a cura di M. Turchetto, Mimesis, Milano 2006, in part. pp. 165-270 e Stuart Hall, L’importanza di Gramsci per lo studio della razza e dell’etnicità (1986), in Miguel Mellino (a cura di), Cultura, razza, potere, ombre corte, Verona 2015, pp. 125-160, in part. p. 152. 9 Ibid. 10 Cfr. Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa (2000), Meltemi, Roma 2004; Ranaijt Guha, History at the Limit of World-History, Columbia University Press, New York 2002. 11 Cfr. Q 11, p. 1383. 12 Q 8, p. 1058; cfr. anche Q 11, pp. 1377-1378. 13 Q 13, p. 1595; cfr. anche Q 11, p. 1383.
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non mero e deterministico riflesso della base economica; «organizzano le masse, formano il terreno in cui gli uomini si muovono» e, eventualmente, «acquistano coscienza della loro posizione, lottano»14. Questo processo di chiarificazione non sopprime dunque la molteplicità, ma la setaccia e riordina secondo congruente e unitaria logica storica. Perciò è un gesto essenziale per la costruzione del blocco storico. (Contro)egemonia è infatti un’«unità intellettuale e morale», oltre che dei «fini economici e politici» – si tratta del «passaggio dalla struttura alla sfera delle superstrutture complesse»15; un’unità non astrattamente omogenea (a mezzo del solo “dominio” di una classe sulle altre), ma che si dà piuttosto nel modo della costellazione: combinazione plurale di forze sociali, sistema espansivo di alleanze – grazie alla conquista del “consenso” da parte di chi “dirige” il blocco –, articolazione e traduzione dei diversi interessi pur nella convergenza della lotta contro il capitalismo e lo Stato borghese16. 2. Dialettiche dell’illuminismo: quale critica della ragione progressista? Il folklore è una cultura per Gramsci, seppure incoerente, è un sistema: con una visione del mondo (senso comune), una lingua (dialetti o gerghi), una morale e una religione (semplificazione della dottrina cattolica, nel caso dell’Italia, e commistione con superstizioni, credenze magiche), un gusto (melodrammatico17). Allo stesso tempo, non è propriamente una cultura, perché è un calderone contraddittorio, apparentemente isolato, di idee e opinioni come tali incomunicabili. In verità, si è letto sopra, il folklore non è un conglomerato statico, separato dalla società e dalle culture più “progredite”; al contrario, è sempre in movimento, incamera incessantemente elementi nuovi nei propri schemi rituali: assimila anche schegge di pensiero “moderno”, per quanto decontestualizQ 7, p. 869. Q 13, p. 1584. 16 Anche S. Hall, L’importanza di Gramsci per lo studio della razza e dell’etnicità cit., pp. 140-141, ha parlato, in merito alla nozione di egemonia, di costellazione; qui si enfatizza il termine, trattandosi pure di un concetto fondamentale di Benjamin. 17 Cfr. Q 14, pp. 1676-1677, 1738. 14 15
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zate e «più o meno sfigurate». Ciò per Gramsci significa anzitutto che il folklore non può essere compreso indipendentemente dalle dinamiche del comando capitalistico, borghese e della Chiesa; in secondo luogo, che esso può (e deve) avere, per il pensiero e la prassi rivoluzionari, una funzione sia diagnostica che prognostica: offrendo infatti radiografie decisive delle condizioni delle classi subalterne, può tanto chiarire le tendenze dei progetti egemonici, quanto fornire indicazioni per quelli contro-egemonici. Il rapporto tra la critica, tra la «filosofia superiore e [il] senso comune è assicurato dalla politica»; al pari del «rapporto tra il cattolicesimo degli intellettuali e quello dei “semplici”» (e di ogni rapporto gnoseologico, contro la pseudoneutralità del sapere), soltanto che partito e scopo sono di segno opposto: «la filosofia della praxis non tende a mantenere i “semplici” nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita»18. La prospettiva non è quella dell’evangelizzazione e dell’obbedienza, ma della soggettivazione politica e dell’emancipazione di sé e della società tutta. Il primo passo per sollecitare un tale ambizioso quanto difficile processo di liberazione coincide con la presa di distanza dello studioso o studiosa militante da ogni forma di «idoleggiamento romantico» del popolare. Fondamentali in questo senso sono le letture di Gramsci di Ernesto de Martino e di Alberto Maria Cirese. Il co-sentire che rende possibile il comprendere non è in alcun modo culto del “pittoresco” o del “primitivo” in quanto espressione di una «misteriosa “potenza creatrice” del popolo»19. Una esaltazione, che secondo questa differente gradazione ha riguardato un ampio arco ideologico: dall’erudizione di stampo liberale alle mitologie fasciste e nazionalsocialiste. L’idoleggiamento romantico non è stato estraneo poi, nel Secondo dopoguerra, alla politica culturale del PCI e talvolta al neorealismo. Si tratta anzitutto di scongiurare Q 11, pp. 1383-1384. Ernesto de Martino, Gramsci e il folklore, «Il calendario del popolo», 8, aprile 1952, p. 1109. Cfr. anche Id., Gramsci e il folklore nella cultura italiana, «Mondoperaio», III, 133, 16 giugno 1951, p. 12, ristampato (da C. Bermani) su «Il de Martino», 5-6, 1996, pp. 87-90; Id., Due inediti su Gramsci. “Postille a Gramsci” e “Gramsci e il folklore” (1951), «La Ricerca Folklorica», 25, aprile 1992, pp. 73-79; Alberto Maria Cirese, Gramsci e il folklore come concezione tradizionale del mondo delle classi subalterne, «Problemi», 49, maggio-agosto 1977, pp. 155-167. 18 19
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nuove torbide assimilazioni dell’arcaico; ma, d’altro canto, anche di sgomberare il campo da qualsiasi impulso “orientalistico” che, catalogando come esotismi da collezione i “reperti” delle culture subalterne, sempre finisce per naturalizzarle e infantilizzarle, per confermare il potere che le opprime ed estromette dal mondo storico20. Il folklore per Gramsci è in primo luogo «servitù ideologica», la manifestazione sul piano culturale di un assoggettamento economico e sociale21. La scienza del folklore è da intendersi perciò come alta «conoscenza politico-scientifica» dei nessi tra «dislivelli culturali» e «dislivelli di potere socio-economico»22 – tutt’altro che il superamento della «scienza moderna» in favore di nuove «stregonerie»23. Né analisi meramente culturalista, né economicismo à la Nikolaj Bucharin, dunque. Non si dà trasformazione rivoluzionaria senza trasformazione profonda delle sovrastrutture. Come ha scritto de Martino, difendendosi dalle critiche sia crociane (Giuseppe Giarrizzo) che del PCI (Mario Alicata), «per trasformare una società occorre conoscere esattamente le forme di resistenza che si oppongono al processo di trasformazione»24. Tra queste, il folklore. Approcciato seriamente, esso affiora allora in tutta la sua ambivalenza: la sua carica antagonistica, come tale, può essere tanto reazionaria quanto progressiva. Il «risveglio» della sua materia, volendola elaborare e, casomai, politicamente organizzare, è pertanto insieme necessario e rischioso25. Tale posizione terza tra l’idoleggiamento e la negazione propria di un razionalismo grezzo fa leva sul folklore progressivo: dall’interno del fenomeno, per tornare all’inizio, si tratta di vagliare gli elementi in cui pulsa la possibilità della critica, della rottura dell’emarginazione; quegli elementi, di nuovo con de Martino, che «espri20 Riprendiamo la suggestione del difetto orientalistico del sapere occidentale messo in luce da de Martino – con riferimento a Edward W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente (1978), Feltrinelli, Milano 2001 – da Marco Gatto, Oltre il paradigma leviano. Subalternità e mediazione da Ernesto de Martino a Rocco Scotellaro, «Filologia Antica e Moderna», n. s., a. III, n. 1 (XXXI, 51), 2021, pp. 151-182. 21 E. de Martino, Gramsci e il folklore nella cultura italiana cit., p. 88. 22 Cfr. A.M. Cirese, Gramsci e il folklore come concezione tradizionale del mondo delle classi subalterne cit., p. 162. 23 Cfr. Q 3, pp. 328-329. 24 Ernesto de Martino, Per un dibattito sul folklore, «Lucania», a. I, n. 2, 1954, pp. 76-78, in part. p. 76. 25 Cfr. E. de Martino, Storia e folklore cit.
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mono culturalmente» le lotte delle e dei subalterni per emanciparsi dalla propria condizione. Così, esiste «un folklore della resistenza», delle «occupazioni delle terre o delle fabbriche», degli «scioperi»26. Approfondirà la questione Cirese con la distinzione tra il folklore «come protesta», ossia il folklore in generale in quanto risultato della discriminazione della cultura borghese, e il folklore «di protesta», gli strati che di esso sono effettivamente progressivi. In gioco con questi secondi è «l’acquisizione della coscienza del folklore come proprio patrimonio nel quale e col quale si è stati vivi, ma entro il quale si è stati anche condannati e confinati»27. È il passaggio dall’«istinto di classe» – con riferimento a Lenin e alla definizione dell’«elemento spontaneo» in quanto «forma embrionale della coscienza» – alla coscienza di classe28. Con lo studio del folklore ne va, in altri termini, di una imprescindibile dialettica dell’illuminismo: innanzitutto, di una critica della ragione progressista che consenta non solo la disarticolazione e la comprensione della polarità interna al moderno di “cultura” e “barbarie”, “civiltà” e “regressione”29, ma anche l’emendazione di sé, di questa stessa ragione, dall’economicismo e dallo scientismo rozzi. Non più cieco antimagismo, stolido antispiritualismo, che peraltro riproducono superstizione e folklore, ma pieno attraversamento di questi fenomeni in quanto propriamente moderni, al fine di costruire sulla base della scomposizione critica dei loro elementi una cultura, una società, un essere umano nuovi. Si tratta perciò di una dialettica dell’illuminismo fautrice di un umanesimo potenziato30, che integri nell’alveo della storia, del pensiero, della politica quanto tradizionalmente derubricato ad “astorico”, “primitivo”, E. de Martino, Gramsci e il folklore nella cultura italiana cit., p. 89. Alberto Mario Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe. Note su Verga, Deledda, Scotellaro, Gramsci, Einaudi, Torino 1976, pp. 116-117. 28 Ivi, pp. 113-115; cfr. anche Vladimir I. Lenin, Che fare? (1902), a cura di V. Strada, Einaudi, Torino 1971, p. 38. 29 Renato Solmi ha per primo suggerito, nella sua Introduzione alla prima edizione italiana dei Minima Moralia (1954), un’affinità tra la ricerca folklorica di de Martino e l’intendimento della “dialettica dell’illuminismo” di Theodor Adorno e Max Horkheimer. Cfr. anche Placido Cherchi, Maria Cherchi, Ernesto de Martino. Dalla crisi della presenza alla comunità umana, Liguori, Napoli 1987, pp. 337-391; Stefano Petrucciani, A lezione da Adorno. Filosofia Società Estetica, manifestolibri, Roma 2017, pp. 143-157. 30 Cfr. E. de Martino, Gramsci e il folklore cit.; Id., Gramsci e il folklore nella cultura italiana cit.; Id., Due inediti su Gramsci cit.; M. Gatto, Oltre il paradigma leviano cit. 26 27
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“impolitico”. Integrazione, non come reimmissione caritatevole della «cultura degli emarginati» «nel circolo di un pluralismo relativistico che […] lascia intatte […] le ragioni strutturali della discriminazione»31; ma come nome di altre elaborazioni, altre unità, altri ordini: contro-egemonici appunto. Il folklore progressivo non è da contrapporre (e sostituire) come tale alla cultura dominante, piuttosto a esso spetta la funzione di anello di congiunzione tra il vecchio e il nuovo. Dal discioglimento delle sue precedenti configurazioni diviene possibile per quanto setacciato agganciarsi al «processo di emancipazione politica e sociale»32, combinarsi con gli elementi più avanzati del pensiero moderno e produrre così differenti catene significanti germi della nuova cultura. D’altronde, quando Gramsci riflette sul problema del gusto della massa e del ruolo dell’arte in questo senso, enuclea tratti e criteri assolutamente illuministici (sotto l’influsso, certo, anche delle sperimentazioni sovietiche); ma non nel senso dell’illuminismo «persecutorio», «odioso», dell’universalismo astratto33. In primis, la funzione dell’arte ha da essere “sociale” (Benjamin direbbe politica, di contro a quella rituale), deve cioè «creare», «elevare» il gusto della massa; in secondo luogo, i principi del razionalismo e del funzionalismo (anch’essi emendati, “potenziati”) devono rispondere criticamente alle nuove «estetiche dell’individualismo» come il decorativismo (l’art nouveau) e a qualsiasi tipo di «barocchismo» artistico-letterario34. Lo stile melodrammatico, amato dal popolo perché emotivo, empatico, deve fare spazio alla «prosa sobria». Il problema del contenuto è organicamente connesso a quello della forma: nuova arte e nuova cultura devono abbandonare «la tronfiezza, lo stile oratorio, l’ipocrisia stilistica» che, quando contagiano le classi subalterne, divengono un ancora più posticcio «montare sui trampoli», un «fingere uno stile ridondante» a imitazione del «libretto dell’opera ottocentesca» a discapito del comune modo di esprimersi35. Quasi brechtianamente: essenzialità, sobrietà, costruzione, per superare la stessa distinzione tra cultura alta e cultura popolare. A. M. Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe cit., p. 117. Ernesto de Martino, Il folklore progressivo, «L’Unità», 26 giugno 1951, p. 3. 33 Q 14, p. 1727. 34 Ivi, pp. 1724-1725. 35 Ivi, pp. 1737-1739. 31 32
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3. Benjamin. Fino al cuore delle cose abolite La tesi del presente contributo è che l’illuminismo di Gramsci sia molto più prossimo a quello di Benjamin che a quello francofortese: è una forza dialettica interna alla vita offesa assai simile a quella ricercata da entrambi. Tutti e due filosofi della praxis, perché per il Benjamin marxista «la politica consegue il primato sulla storia»36, sulla conoscenza. Nietzscheanamente, uso della storia ai fini della prassi presente o, con l’XI tesi su Feuerbach di Marx, non tanto (o non solo) differente interpretazione del mondo, ma sua trasformazione. Il soggetto conoscente è quello collettivo e storico della «classe oppressa in lotta», non più il trascendentale kantiano. Basti pensare a uno dei concetti più innovativi di Benjamin, quello di Jetzt der Erkennbarkeit, che nell’ultima fase della sua produzione si definisce come concetto assolutamente gnoseologico-pratico: come sinonimo di chance rivoluzionaria37. Noti sono al contrario gli esiti della dialettica, negativa, di Adorno: la convinzione che la libertà, in «epoca di repressione sociale universale», possa vivere «solo nei tratti dell’individuo escoriato»38. Il rifiuto della escatologia lukácsiana della lotta di classe39 (a seguito dei disastri staliniani) determina in questo caso l’impossibilità di discernere dei soggetti collettivi della resistenza: il capo, minuto, che si erge è quello del soggetto teoretico, la gnoseologia (individuale) scalza la prassi. Altrettanto può dirsi per il rapporto tra moderno e arcaico, Aufklärung e Mythos: se Benjamin si immerge nel mito guardando alla sua dissoluzione, Adorno concepisce un’oscillazione interminabile tra i due estremi. Per il primo la specificazione storica resta fondamentale, il secondo (con Horkheimer) finisce per ontologizzare il nesso tra mito e storia: già Ulisse può allora incarnare la 36 Walter Benjamin, I “passages” di Parigi (1927-1940), a cura di E. Ganni, 2 voll., Einaudi, Torino 2010, p. 433. 37 Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia (1940), a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997. 38 Theodor W. Adorno, Dialettica negativa (1966), a cura di S. Petrucciani, Einaudi, Torino 2004, p. 237. 39 Cfr. Theodor W. Adorno et al., Wissenschaft und Krise. Differenz zwischen Idealismus und Materialismus. Diskussionen über Themen zu einer Vorlesung Max Horkheimers, in Max Horkheimer, Gesammelte Schriften, a cura di G. Schmid Noerr, 19 voll., Fischer, Frankfurt a.M. 1985-1996, vol. XII, p. 364.
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razionalità borghese, annunciare il principio astratto dell’«equivalente», dello scambio40. Una tale destoricizzazione oblia inevitabilmente l’altro dello sfruttamento nelle sue differenti determinazioni – nel caso di quello capitalistico, il lavoro vivo – e permette che la totalità sociale imperversi nella forma del dominio. Così con l’analisi dell’industria culturale, la critica al mito che si accompagna a quella del feticismo non riesce a uscire dalla dimensione totalitaria del “mondo amministrato”. Benjamin, dopo aver letto il saggio di Adorno sul jazz e rispondendo alle dure critiche di questi all’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, sintetizza le differenze tra i loro approcci nell’immagine pregnante di due proiettori puntati su uno stesso oggetto ma da lati opposti41. Benjamin pensa per polarità, è questo il suo metodo dialettico: come dall’interno di un campo elettromagnetico, coglie gli spostamenti di baricentro che rideterminano ogni volta peso e ruolo dei poli, il loro rapporto. Ciò gli consente di non rimanere bloccato nello scontro diretto tra totalità e individuo. Le nuove formazioni strutturali della materia portate alla luce dalla cinepresa, la ricezione distratta e di massa gli svelano un altro spettro sensoriale e percettivo, affine a quello onirico o della psicosi, che, però, può essere tanto oggetto di manipolazione regressiva e fascista quanto margine d’azione progressivo, indicando la strada di una nuova innervazione collettiva del sensorio umano, cioè della liberazione estetico-antropologica condizione imprescindibile di ogni vera rivoluzione politica42. Nel montaggio cinematografico può operare, certo, come afferma Adorno, una ricostruzione puerile 40 Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo (19692), Einaudi, Torino 1997, p. 56. Su questo, cfr. Hans-Jürgen Krahl, La contraddizione politica della teoria critica di Adorno (1969), in Nicolas Martino, Francesco Raparelli (a cura di), L’intelligenza in lotta. Sapere e produzione nel tardocapitalismo, ombre corte, Verona 2021, pp. 65-70; Gian Enrico Rusconi, Hegelismo, marxismo e teoria critica. Th.W. Adorno, in Alfred Schmidt, Gian Enrico Rusconi, La scuola di Francoforte. Origini e significato attuale, De Donato, Bari 19783, pp. 135-158. 41 Theodor W. Adorno, Walter Benjamin, Briefwechsel 1928-1940, a cura di H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1994, p. 190. 42 Cfr. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1935-1936), a cura di F. Desideri, M. Montanelli, Donzelli, Roma 2019. Sull’analogia con la sensorialità onirica e psicotica, cfr. ivi, pp. 64, 100, 132; sulla nuova innervazione del collettivo, cfr. ivi, pp. 26, 29, 47, 83, 118; e Id., Il surrealismo. L’ultima istantanea sugli intellettuali europei (1929), in Id., Opere complete di Walter Benjamin, a cura di E. Ganni, 9 voll., Einaudi, Torino 2000-2014 (d’ora in poi OC), vol. III, pp. 201-214, in part. p. 214.
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della realtà per via mimetica, ma anche il gesto ludico-costruttivo che disattiva la falsa apparenza, che torna, appunto, a giocare con la realtà, emendandola a partire dalla critica dei rapporti sociali. Accrescimento sensibile, intellettuale, politico, dunque, di contro alla produzione, per parte capitalistica e di regime, di «rappresentazioni illusorie […] e ambigue» a uso e consumo delle masse, che tali devono rimanere43. Ecco l’illuminismo, anch’esso “potenziato”, di Benjamin: egli percorre «i territori del sogno e della follia», sulla scorta dei surrealisti alla ricerca di uno «spazio immaginale» in quanto spazio eminente dell’azione politico-rivoluzionaria, ma, a differenza loro, lo fa con l’«ascia affilata della ragione»44. Scongiura in pari tempo il determinismo economicista (suo bersaglio polemico è Bucharin45) e gli incantamenti estetico-mitologici in cui il surrealismo alla fine resta avviluppato. Astuzia della ragione, ma senza panrazionalismi e marce teleologiche della mediazione, dello Spirito, del Progresso; astuzia della ragione, insieme a una tenerezza di memoria goethiana per l’empiria reificata46. L’obiettivo è il «risveglio storico», che può nondimeno scaturire, pena il riaffermare un’Aufklärung tanto «persecutoria» quanto inefficace, solo tra le stesse dinamiche oniriche – autentica intelligenza del sogno. Dunque Freud (in opposizione al rischio reazionario della psicanalisi archetipica di Jung), soltanto che il sogno è da intendersi come fenomeno storico e collettivo47. Anche per Benjamin è in questione la centralità delle sovrastrutture in quanto forze materiali che plasmano nel profondo le trame sociali – e un rapporto tra sovrastrutture e base economica non 43 Per la critica di Adorno, cfr. T.W. Adorno, W. Benjamin, Briefwechsel 1928-1940 cit., pp. 169-173; su gioco e tecnica emancipativo-perfettiva, cfr. in part. W. Benjamin, L’opera d’arte, Terza versione, § VI. 44 Cfr. W. Benjamin, I “passages” di Parigi cit., II, p. 918 e I, p. 510 e, per la nozione di spazio immaginale (Bildraum), Id., Il surrealismo cit., pp. 213-214 (tr. it. mod.). 45 Cfr. ivi, p. 213. 46 Sul rapporto, fondamentale, Benjamin-Goethe, cfr. almeno il recente Ursula Marx, Alexandra Richter, Johann Wolfgang Goethe. Philosophische Alchemie, in Jessica Nitsche, Nadine Werner (a cura di), Entwendungen. Walter Benjamin und seine Quellen, Wilhelm Fink, Paderborn 2019, pp. 97-124. 47 Cfr. W. Benjamin, I “passages” di Parigi cit., II, p. 988. Su Jung, cfr. ivi, p. 986 e I, pp. 439, 446, 528-529, 534, 546; per il progetto di critica delle categorie junghiane, cfr. Marina Montanelli, Baudelaire Laboratory. Brief History of a Project by Walter Benjamin, «Aisthesis», 13(2), 2020, pp. 17-29.
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meccanicistico, ma di tipo “espressivo” complesso, secondo una dinamica di azioni e retroazioni continue e articolate; anticipazione, altrettanto, della nozione althusseriana di surdeterminazione48. I Passages di Parigi, l’immane e incompiuto progetto che ha tenuto impegnato Benjamin gli ultimi tredici anni della sua vita, avrebbe dovuto scandagliare le fantasmagorie e l’immaginario della collettività del XIX secolo per comprendere le configurazioni originali del capitalismo avanzato. Con la grande industria, sono gli albori della cultura di massa, dell’omologazione estetica, del Kitsch. Di quegli elementi che, contrariamente a quanto riterrà buona parte della demologia italiana degli anni Sessanta, Gramsci non reputa “corruttori” di una qualche “purezza”; piuttosto, studio del folklore, del romanzo d’appendice e di altre espressioni moderne di cultura popolare sono aspetti di uno stesso problema. Il gesto è il medesimo: salvazione dei rifiuti della “vera” intellettualità49. Di qui, riscrittura della storia in forma “accresciuta”, secondo nuove ed effettuali totalità organiche (in Benjamin, è la sua peculiare monadologia), capaci di render conto dell’eterogeneità temporale e dei piani, sovrastrutturali e strutturali, all’opera in ogni formazione sociale; naturalmente, una storia di classe. Tra gli appunti per La Parigi del Secondo Impero in Baudelaire, saggio pensato come capitolo dei Passages, prima di trasformarsi in un progetto di libro su Baudelaire, Benjamin appunta: «[p]er il metodo materialistico, sceverare il vero dal falso non è il punto di partenza, ma quello di arrivo. Ciò significa, in altre parole, che esso prende le mosse dall’oggetto imposto dall’errore e dalla doxa»50. Ancora, tra i primi appunti per i Passages: «Noi costruiamo qui una sveglia che scuota il kitsch del secolo scorso e lo “chiami a raccolta”»51. Il Kitsch come categoria nasce nell’ultimo quarto dell’Ottocento: con esso 48 Cfr. W. Benjamin, I “passages” di Parigi cit., I, pp. 437-438, 513-514, 544-545 e L. Althusser, Contraddizione e surdeterminazione (Note per una ricerca) (1962), in Id., Per Marx, a cura di M. Turchetto, Mimesis, Milano-Udine 2008, pp. 81-118. 49 Nel progetto di “Storia degli intellettuali italiani” (cfr. Q 8) Gramsci inserisce nel sommario sia “La letteratura popolare dei romanzi d’appendice” che “Folclore e senso comune”; su questo cfr. anche A.M. Cirese, Gramsci e il folklore come concezione tradizionale del mondo delle classi subalterne cit. 50 W. Benjamin, [Appendice a La Parigi del Secondo Impero in Baudelaire] (1938), in Id., OC, VII, pp. 210-233, in part. p. 229. 51 Id., I “passages” di Parigi cit., II, p. 971 e I, p. 214.
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si indicano inizialmente, tra i mercatini di Monaco di Baviera, i prodotti artistici di bassa qualità, in svendita, riproduzioni grossolane per turisti, cose nuove spacciate per antiche, le cui mancanze stilistiche vengono travisate da esuberanze decorative e sentimentali – perversione del Romanticismo52. Weltanschauung della borghesia in ascesa, il Kitsch è una delle condizioni atmosferiche fondamentali della seconda modernità: al nuovo soggetto sociale dominante e al livellamento dell’industrializzazione corrisponde la diffusione di una cultura dei luoghi comuni, del conformismo, dell’ingenuità, del dilettantismo, della «dittatura del cuore»53 (il melodrammatico di Gramsci). Si tratta senz’altro di una categoria estetica, ma sin da principio anche di una categoria antropologica e politica – il gusto kitsch è di un Kitsch-Mensch54. Il Kitsch, scrive Benjamin nel primo ermetico testo dedicato ai surrealisti, «è l’ultima maschera del banale» – che controbilancia quella marxiana del soggetto astratto di diritto, tutore e rappresentante delle merci –, con cui, a partire da questo frangente di secolo, ci si abbiglia per ritrovare «la forza dello scomparso mondo delle cose»55, evaporato tra le maglie della vischiosa combinazione di feticismo, estetismo e consumismo56. Un’evaporazione che è anche una ridislocazione, esito della dialettica tra piani egemonici e subalterni, di arte, cultura popolari e folklori entro la cornice unificante di tale categoria. Trasfusioni e spostamenti, che parlano dell’elaborazione inconscia, da parte della società, della transizione ai modi di produzione (e riproduzione) del capitalismo avanzato, della ricezione dell’immane crescita tecnologica tanto più inconsapevole dal punto di vista della critica dei rapporti di sfruttamento quanto più matrice di disuguaglianza e distruzione57. «[S]uprema ultima smorfia […] [dell’]albero totemico degli oggetti [smarriti] nel folto della storia originaria [Urgeschichte]» è il Kitsch. È il lato delle cose «consumato dall’abitudine e […] ornato 52 Per la storia del concetto, cfr. almeno Andrea Mecacci, Il kitsch, il Mulino, Bologna 2014. 53 Espressione di Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984), Adelphi, Milano 1985, p. 271. 54 Cfr. Hermann Broch, Note sul problema del Kitsch (1950), in Id., Il Kitsch, Abscondita, Milano 2018, pp. 133-148. 55 W. Benjamin, Kitsch onirico (1926), in Id., OC, II, pp. 378-380, in part. p. 379. 56 Cfr. Abraham Moles, Il kitsch. L’arte della felicità (1971), Officina, Roma 1979. 57 Cfr. il capitolo finale o epilogo di tutte le versioni del saggio su L’opera d’arte.
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da sentenze a buon mercato» – scongiuro per sopravvivere alla catastrofe della tradizione –, nonché il lato, come insegna il surrealismo, in cui sono rappresi gli enigmi onirici dell’inconscio collettivo58. È proprio questo lato a presentarsi al pensiero critico come un bivio: il banale è attiguo al bene59, nel banale c’è il sogno della spinta liberatrice, il banale può tramutarsi in fascismo. Il Kitsch dà massimamente da pensare. Di nuovo, si schiude la terza via di Benjamin: egli prende parte per il costruttivismo, con Adolf Loos e Le Corbusier, per la critica radicale al decorativismo dell’art nouveau; per l’architettura di vetro di Paul Scheerbart, per il funzionalismo del Bauhaus, per le figure ingegneristiche di Paul Klee, per il brechtiano Verfremdungseffekt, per la sobrietà di contro all’immedesimazione emotiva60; questo posizionamento, come in Gramsci, non emerge però da una negazione razionalistica di tipo gretto. Si tratta, viceversa, di «spingersi fino al cuore delle cose abolite», ossia di «decifrare i contorni [di quel] banale»61. È la conoscenza, mancata dai surrealisti, che risale all’intreccio delle origini storiche, sociali, economiche delle immagini oniriche in quanto immagini dialettiche. Soltanto così il contesto feticistico può aprirsi all’emancipazione. Soltanto così può formarsi un essere umano altro capace di fendere l’apocalisse culturale con l’atteggiamento «barbarico» di chi non ha paura di ricominciare da capo facendosi guidare dall’«arbitrario elemento costruttivo», rompendo sia con la nostalgia per mondi passati che con “nuove” e posticce baraonde ideologiche prive di presa sull’epoca – l’esempio di Benjamin: insieme «astrologia e sapienza yoga, Christian science e chiromanzia, vegetarianismo e gnosi, scolastica e spiritismo»62. A muovere questo approccio è l’intuizione che le configurazioni originali del capitalismo avanzato siano le configurazioni originali del divenire macchina antropogenetica del capitalismo. La rilevanza del Kitsch sta nel condurci al centro di una tale antropogenesi. In un appunto risalente verosimilmente al 1929 sull’arte popolare, Benjamin scrive: «[l]’arte ci insegna a vedere dentro alle cose [in die DinW. Benjamin, Kitsch onirico cit., pp. 379, 378. Ivi, p. 379; sui pensieri “al bivio”, cfr. anche Id., I “passages” di Parigi cit., II, p. 937. 60 Cfr. W. Benjamin, Esperienza e povertà (1933), in Id., OC, V, pp. 539-544, in part. pp. 540-543. 61 W. Benjamin, Kitsch onirico cit., p. 379. 62 W. Benjamin, Esperienza e povertà cit., pp. 540-541. 58 59
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ge hineinsehen]. L’arte popolare e il Kitsch ci permettono di vedere fuori dall’interno delle cose [aus den Dingen heraus zu sehen]»63. Le cose stesse tornano cioè qui a serrarsi «più vicino all’essere umano: si conced[ono] alla sua presa», laddove la grande arte «comincia solo due metri lontano dal corpo»64. Ancora: «Arte popolare e Kitsch devono essere considerati come un unico grande movimento che, alle spalle di ciò che si chiama grande arte, lascia passare di mano in mano determinati contenuti come staffette. Certo, nei dettagli dipendono dalla grande arte, ma volgono a modo loro quel che gli viene passato, orientandolo verso il proprio scopo, il proprio “volere artistico”». Il Kunstwollen dell’arte popolare e del Kitsch, a differenza di quello della grande arte e delle avanguardie, non si riferisce all’arte stessa (cosa per Adorno dialetticamente ben più feconda), ma risponde a un intento molto più arcaico, cogente, quello di attirare a sé donne e uomini facendo affiorare in loro l’idea che quel medesimo spazio e quel dato momento in cui si consuma l’esperienza estetica siano già esistiti una volta nella loro vita. È la sensazione rassicurante di sentirsi come avvolti in «un vecchio e comodo cappotto». Questa particolare capacità di riattualizzazione «è la più potente attrattiva che evoca il ritornello della canzone popolare», ossia il «tratto fondamentale di ogni arte popolare», del Kitsch e del folklore65. All’opera, in altre parole, è la rassicurazione del già stato, di un tempo fuori dalla storia, di una eterotopia intrauterina. «Il déjà vu, da patologico caso eccezionale quale è nella vita civilizzata, diventa una facoltà magica al cui servizio si pone l’arte popolare (e non meno il Kitsch)», che, dall’inconscio, ripesca «il primitivo, con tutti i suoi strumenti e immagini», l’«arsenale infinito» (non archetipico, ma sempre storico) di «maschere del nostro destino»66. Torna qui fondamentale il saggio sulla riproducibilità tecnica, la nota al paragrafo XI della Terza versione sulla polarità sincronica immanente a ogni opera, e che Benjamin colloca nella mimesis in quanto fenomeno originario di ogni attività artistica, tra apparenza, legata al culto e alla funzione rituale dell’arte, e gio63 Walter Benjamin, Appunti sull’arte popolare (1929), in Id., Letteratura e strategie di critica. Frammenti I, a cura di G. Guerra, Mimesis, Milano-Udine 2012, pp. 86-87, qui p. 87 (tr. it. mod.). 64 W. Benjamin, Kitsch onirico cit., pp. 379-380. 65 W. Benjamin, Appunti sull’arte popolare cit., p. 86 (tr. it. mod.). 66 Ivi, p. 87 (tr. it. mod.).
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co, legato al valore espositivo, alla sperimentazione e alla funzione politica dell’arte67. Lo spazio di conforto generato dal Kitsch, dall’arte popolare, dal folklore è dell’ordine dell’apparenza. Nell’economia generale del testo, si comprende inoltre che tale polarità non è costitutiva del solo fare artistico, ma dell’umano in senso ampio. Rito e gioco, dunque, come due risposte sorelle e antitetiche al bisogno umano di orientamento e protezione, come due diversi modi di istituire il mondo, di concepire il rapporto con la natura, con la tecnica, con la storia. Nel primo caso, la tecnica è strumento di dominio della natura, avvertita come estranea e minacciosa, e il tempo è quello destinale e mitico dell’eterno ritorno; nel secondo, è medium di emancipazione, di miglioramento della natura e il tempo è quello storico di una ripetizione ludica, differenziale, costruttiva. Dinanzi agli sconvolgimenti della modernità, ai nuovi fenomeni di messa in crisi della presenza, per dirla ancora con de Martino, il Kitsch riaggiorna la produzione di apparenze estetiche: rispetto alla grande arte, repliche di schemi estremamente semplificati, che si appellano alle corde del cuore, alla sfera fantasmatica dell’inconscio. Sono esorcismi moderni di dominio dell’estraneo, volti ad assicurare il proprio “esserci nel mondo” (e spesso anche la continuità dello sfruttamento). Maschere appunto, dietro la cui parvenza dell’ultima novità vivono le più antiche esigenze dell’essere umano. La cultura di massa è un fatto industriale da cui non si torna indietro; da qui bisogna muovere per Benjamin per andare in direzione della politicizzazione dell’arte, di un processo trasformativo radicale che sappia ricongiungere piacere estetico (che passa inevitabilmente anche per il consumo) e critica68. Non è solo una questione cognitiva, ma sensibile: solo assumendo questo presupposto, si può concorrere con l’estetizzazione della politica. È pertanto anzitutto un serio scandagliamento delle forme d’arte popolare, dei nuovi folklori a poter permettere la disattivazione di opzioni regressive, ma pure dello stesso dualismo tra utopia (o avanguardia) e reazione. Con l’augurio di una rinnovata stagione di illuminismo barbarico, rivoluzionario.
W. Benjamin, L’opera d’arte cit., pp. 91-92. Sul nesso tra piacere e critica, cfr. ivi, pp. 61-63, 97-99, 129-130, 164-166; sul consumo, cfr. ivi, pp. 10-12. 67 68
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Materiali IT
Francesco Marchesi, Riscontro. Pratica politica e congiuntura storica in Niccolò Machiavelli Enrica Lisciani-Petrini e Giusi Strummiello (a cura di), Effetto Italian Thought Elettra Stimilli (a cura di), Decostruzione o biopolitica? Dario Gentili, Crisi come arte di governo Elettra Stimilli (a cura di), Teologie e politica. Genealogie e attualità Marco Assennato, Progetto e metropoli. Saggio su operaismo e architettura Antonio Montefusco (a cura di), Italia senza nazione. Lingue, culture, conflitti tra Medioevo ed età contemporanea Carla Benedetti, Manuele Gragnolati e Davide Luglio (a cura di), Petrolio 25 anni dopo. (Bio)politica, eros e verità nell’ultimo romanzo di Pier Paolo Pasolini Giacomo-Maria Salerno, Per una critica dell’economia turistica. Venezia tra museificazione e mercificazione Corrado Claverini, La tradizione filosofica italiana. Quattro paradigmi interpretativi Andrea Cerutti e Giulia Dettori (a cura di), La rivoluzione in esilio. Scritti su Mario Tronti Étienne Balibar, Antonio Negri, Mario Tronti, Anatomia del politico, a cura di Jamila M. H. Mascat Matteo Trentini, Per una storia negativa. «Contropiano» e l’architettura Giacomo Agnoletti, The Italian Dream. L’Italia nello specchio della paraletteratura contemporanea Elettra Stimilli e Arthur Bradley (a cura di), Teologia politica oggi? Andrea Agliozzo, Mutarsi in altra voce. Metrica, storia e società in Franco Fortini Dario Gentili, Elettra Stimilli e Gabriele Guerra (a cura di), Un incontro mancato: Walter Benjamin e Antonio Gramsci
Finito di stampare nel mese di luglio 2023 a cura di nw srl presso lo stabilimento di LegoDigit srl, Lavis (tn) per conto delle edizioni Quodlibet