Un grande amore 8834604687, 9788834604687

“Sono passati sessant’anni ma il mio esordio nella regia non smette di essere un ricordo amaro. Il pubblico in sala acco

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Italian Pages 192 [180] Year 2021

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Table of contents :
Copertina
Trama
Giuliano Montaldo
Collana
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Sommario
Doppio esordio e colpi di scena
Ci tuffiamo nelle Americhe
Torniamo più forti all’impegno civile
Negli anni bui il tema della violenza
Con Il Milione esploriamo l’Oriente
I film dell’intolleranza e altri mestieri
Ringraziamenti
Tavole fuori testo
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Un grande amore
 8834604687, 9788834604687

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“ Sono passati sessant’anni ma il mio esordio nella regia non smee di essere un ricordo amaro. Il pubblico in sala accolse la pellicola con applausi calorosi e convinti, ma il giorno dopo venne massacrata dalla critica. Nonostante la solidarietà di tanti amici, quelle critiche ingiuste e feroci mi ferirono in profondità e stavo meditando di lasciare per sempre quel lavoro e quel mondo. Avevo trentuno anni ed era tuo chiaro: il cinema non faceva per me. Ma a un passo dalla decisione di tornare a casa con le ossa roe, il colpo di scena. Leo Pescarolo, il produore cinematografico, vuole incontrarmi nel suo ufficio per discutere una proposta di lavoro. Sono davanti alla porta dello studio di Pescarolo. Dalla stanza accanto si sente una voce maschile: ‘Avanti, si accomodi’. Ma l’immagine che ho davanti agli occhi mi impietrisce. Una creatura splendida, il portamento elegante, lo sguardo intenso. Una giovane donna che sorride. Sorride a me. Avanzo incerto, senza riuscire a staccare gli occhi da quella meraviglia. Il produore si accorge che continuo a guardare quella deliziosa visione. ‘Si sieda e guardi me’, mi ordina mentre lancia uno sguardo severo a lei, che si sta avvicinando lentamente alla scrivania. Poi, finalmente, cambia tono: ‘Vorrei offrirle un lavoro per la Rai e un gruppo americano’. Dimenticare quel giorno che mi avrebbe cambiato la vita è impossibile. Una proposta di lavoro e un colpo al cuore.” Giuliano Montaldo racconta per la prima volta il film della sua vita. Oltre seant’anni di carriera, davanti e dietro la macchina da presa, raccolti dal filo rosso che lo lega alla moglie Vera, una grande storia di amore e cinema.

Giuliano Montaldo, aore e regista, inizia la sua aività nel 1951 con il film d’esordio di Carlo Lizzani, Achtung! Banditi!. Partecipa al film ricoprendo un ruolo di secondo piano e si occupa anche dell’organizzazione. Negli anni successivi continua la sua carriera d’aore recitando ancora per Lizzani, ma anche per Luciano Emmer e Valerio Zurlini. Alla fine degli anni cinquanta è l’aiuto regista di Gillo Pontecorvo in La grande strada azzurra (1957), di Lizzani in Esterina (1959) e collabora con Elio Petri per L’assassino, che esce nel 1961. Tra il 1958 e il 1959 esordisce alla regia con alcuni cortometraggi e nel 1961 realizza il suo primo lungometraggio, Tiro al piccione, che affronta un difficile momento storico araverso l’oica di un ragazzo che aderisce alla Repubblica di Salò. Nel 1964 Una bella grinta vince il Premio Speciale della giuria al Festival di Berlino e nel 1966 è il regista della seconda unità nel pluripremiato La baaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo. Nel 1971 il suo Sacco e Vanzei oiene un grande successo al Festival di Cannes. Nel 1982 firma lo sceneggiato per la televisione Marco Polo, girato in Cina, che riceve numerosi riconoscimenti e viene trasmesso in 46 paesi nel mondo. Ha inoltre direo Gli occhiali d’oro (1987), Tempo di uccidere (1989), I demoni di San Pietroburgo (2008) e L’industriale (2011). Regista e appassionato di opera lirica, nel 1998 firma il celebre allestimento della Tosca allo stadio Olimpico di Roma. Nel 2018 riceve il David di Donatello come miglior aore non protagonista per la sua interpretazione in Tuo quello che vuoi di Francesco Bruni. Già direore di importanti rassegne e premi cinematografici, è stato presidente di Rai Cinema dal 1999 al 2003. È sposato con Vera Pescarolo, sorella del produore Leo.

le Polene.

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Giuliano Montaldo Un grande amore La nave di Teseo

© 2021 La nave di Teseo editore, Milano Pubblicato in accordo con Grandi & Associati     ISBN 978-88-346-0694-0     Prima edizione digitale La nave di Teseo maggio 2021     est’opera è protea dalla Legge sul dirio d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Sommario

Doppio esordio e colpi di scena Ci tuffiamo nelle Americhe Torniamo più forti all’impegno civile Negli anni bui il tema della violenza Con Il Milione esploriamo l’Oriente I film dell’intolleranza e altri mestieri Ringraziamenti Tavole fuori testo

Doppio esordio e colpi di scena

Sono passati sessant’anni ma il mio esordio nella regia con Tiro al piccione non smee di essere un ricordo amaro. Il film era trao dall’omonimo romanzo autobiografico di Giose Rimanelli e venne presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1961. Il pubblico in sala accolse la pellicola con applausi calorosi e convinti ma il giorno dopo venne massacrata dalla critica dei giornali di destra e di sinistra, poco propensi ad apprezzare la storia di un ragazzo che si arruolava nell’esercito della Repubblica di Salò. Nel film era espresso con chiarezza un conceo semplice ma evidentemente fastidioso: il ragazzo voleva servire la sua Patria e, anche se con ritardo, si rendeva conto che la Patria non si trovava a Salò ma dalla parte opposta. Il fuoco veneziano, amico e nemico, contro Tiro al piccione fu spietato. E il piccione impallinato ero io. Nonostante la solidarietà di tanti amici, quelle critiche ingiuste e feroci mi ferirono in profondità e stavo meditando di lasciare per sempre quel lavoro e quel mondo. Avevo trentuno anni ed era tuo chiaro: il cinema non faceva per me. Meglio andarsene da Roma e tornare nella mia Genova. Ma a un passo dalla decisione di tornare a casa con le ossa roe, il colpo di scena. Una maina di seembre mi arriva una telefonata inaesa: Leo Pescarolo, il produore cinematografico, vuole incontrarmi nel suo ufficio per discutere una proposta di lavoro. Oggi, tanti anni dopo, non sono certo di riuscire a trovare le parole giuste per ricordare quel giorno magico. Ci provo. Sono davanti alla porta dello studio di Pescarolo. Busso, piano, la mano incerta. Nessuna risposta. Busso un po’ più forte. Ancora qualche secondo di aesa e la segretaria apre la

porta. Dalla stanza accanto si sente una voce maschile: “Avanti, si accomodi.” Ma l’immagine che ho davanti agli occhi mi impietrisce. Una creatura splendida, il portamento elegante, lo sguardo intenso. Una giovane donna che sorride. Sorride a me. Mi blocco, colpito al cuore da quella visione. Non riesco a muovere un passo, a dire una parola. Dalla stanza accanto la voce maschile aumenta di tono: “Ma venga avanti, no? Perché se ne sta lì impalato? Forza, venga!” Avanzo incerto, senza riuscire a staccare gli occhi da quella meraviglia. Il produore è seduto dietro una scrivania. È un uomo giovane, il fisico imponente e solido. Si alza per stringermi la mano, la presa è forte, autorevole. Si accorge che continuo a guardare quella deliziosa visione. “Si sieda e guardi me,” mi ordina mentre lancia uno sguardo severo a lei, che si sta avvicinando lentamente alla scrivania. Poi, fissandomi negli occhi: “Lei è Vera, mia sorella, oltre che mia socia. Lavoriamo bene insieme.” Come se avesse pronunciato una sentenza di condanna a morte. Poi, finalmente, cambia tono: “Vorrei offrirle un lavoro per la Rai e un gruppo americano, la regia di un film trao da un romanzo ambientato in Sardegna, L’isola dell’angelo.” Dalla scrivania ingombra di pile di volumi, manoscrii e carte, estrae un libro e me lo porge: “È questo. Cerchi di leggerlo in frea. Aendo la sua decisione al più presto.” Dimenticare quel giorno che mi avrebbe cambiato la vita è impossibile. Una proposta di lavoro e un colpo al cuore. *** Più avanti avremmo scoperto che io e la deliziosa visione avevamo vissuto storie in qualche modo parallele. Entrambi eravamo nati a Genova nel 1930, anche se in ambienti profondamente diversi. Lei figlia di una leggenda del teatro della quale ignorava il passato, mentre io, allevato e viziato da una famiglia proletaria, soprauo da madre e sorelle, già

a dieci anni mi divertivo a fare speacoli in piazza nel paese dove eravamo sfollati con il mio teatrino di buraini. A sedici anni recitai in teatri filodrammatici a Genova e fu Carlo Lizzani a notarmi in uno dei nostri speacoli e a offrirmi il mio primo ruolo nel suo film d’esordio, Achtung! Banditi! Il film era prodoo da Gaetano De Negri, genovese di cui era noto il forte impegno politico, che aveva affidato la regia all’esordiente Carlo Lizzani, aiuto di Rossellini e bravissimo documentarista, e interpretato da Gina Lollobrigida e Andrea Checchi, dove svolgevo anche il ruolo di assistente alla regia. Una storia di partigiani sulle alture dell’entroterra ligure. Una censura ministeriale preventiva bloccò però la realizzazione del film. Nessun finanziamento, niente coproduzione né prevendita. Ma De Negri non si arrese, fondò la Cooperativa Speatori Produori Cinematografici. E portuali, operai, impiegati, intelleuali aderirono: non molte lire ma sufficienti per iniziare l’avventura. Pochi collaboratori da Roma e pochissimi aori. Per la pauglia partigiana dovee scegliere dei giovanoi. Toccò anche a me. Niente soldi e noi su lei a castello in una palestra. Negli anni successivi recitai ancora per Lizzani ma anche per Luciano Emmer e Valerio Zurlini e rimasi così affascinato da quelle esperienze che decisi di lasciare il mio impiego di spedizioniere nel porto di Genova per tentare la fortuna a Roma. Proprio negli stessi anni, anche Vera, sedoa dalla scoperta del passato di sua madre, lasciava Genova e il suo precoce matrimonio per iscriversi all’Accademia d’Arte drammatica di Roma che l’avrebbe portata a una sofferta esperienza teatrale. A Roma non conoscevo nessuno, e naturalmente non avevo nemmeno il denaro per mantenermi, ma riuscii a poco a poco a inserirmi nel mondo del cinema come aiuto regista e sceneggiatore. Alla fine degli anni cinquanta fui aiuto regista di Gillo Pontecorvo in La grande strada azzurra, con Alida Valli e Yves Montand, poi di nuovo con Carlo Lizzani in Esterina, con Carla Gravina e Domenico Modugno, e

collaborai con Elio Petri per L’assassino, con Marcello Mastroianni e Salvo Randone. Esordii nella regia in alcuni cortometraggi finché riuscii a dirigere il mio primo film. *** Mi immersi nella leura dell’Isola dell’angelo, il racconto affascinante e coinvolgente di un reduce da una guerra disastrosa che ritorna nella sua isola, la Sardegna, anni dopo la fine del conflio e scopre che la moglie si è risposata. Tornai da Pescarolo un paio di giorni dopo. Entrai nel suo ufficio e lo trovai solo. Non feci in tempo a manifestare la mia delusione perché iniziammo subito a parlare di lavoro. Gli dissi che il racconto era bello e decisamente cinematografico. Lui aveva già chiaro in testa cosa fare e mi propose come protagonista Frank Wolff, un aore che conoscevo e che avevo apprezzato nel Salvatore Giuliano di Francesco Rosi. Fissammo la data per i sopralluoghi. A quel punto mi rilassai e con noncuranza, quasi timidamente, chiesi: “Sua sorella non potrebbe seguire la lavorazione?” Pescarolo mi guardò con severità e rispose glaciale: “È impegnata in un altro progeo.” Ebbi la conferma dei miei timori: era geloso. *** Dopo alcune seimane di lavoro con la generosa collaborazione degli abitanti della Maddalena, ci rendemmo conto che avevamo rispeato il preventivo e il piano di lavorazione. Stavamo preparandoci a partire, quando alcuni di quei pescatori e le comparse che avevano partecipato alle riprese vennero a salutarci con calore: la speranza di tui, anche la nostra a dire il vero, era che potessimo tornare presto a girare nella loro isola. A Roma iniziammo subito a lavorare al montaggio. Passavo giorni interi chiuso in una stanza del piano interrato nella palazzina della produzione, insieme a “Taglia&incolla”, il giovane montatore. L’allestimento del film stava producendo buoni risultati ed ero soddisfao.

Un pomeriggio, mentre fumavo una sigarea seduto su una panchina del giardino, uscì Leo Pescarolo che mi vide e mi sorrise. “Sciopero?” mi fece. “No,” risposi. “Siamo avanti, per oggi basta così…” Dopo tuo il tempo passato a lavorare spalla a spalla avevamo cominciato ad apprezzarci ed era iniziata una sorta d’amicizia. Mi si sedee di fianco, accese anche lui una sigarea e, soffiando il fumo della prima boccata, mi disse: “Sto andando da mia sorella. Sta traslocando, cambia casa. Vuoi venire con me?” Lo guardai incredulo e saltai in piedi. “Eccomi. Pronto.” Senza altre parole salimmo in macchina. Il tragio era breve e non ebbi il tempo di emozionarmi troppo. Arrivammo al portone del palazzo davanti al quale un grosso camion con i portelloni posteriori aperti occupava metà della carreggiata. All’interno del camion due uomini stavano sistemando divani e poltrone. L’appartamento era all’ultimo piano. Già dall’ascensore si sentivano urla furiose. Una voce rauca strillava: “A signo’! i c’è er doppio de robba, me deve da’ artri sordi…” Ci affacciammo all’interno e vedemmo un omone gigantesco, grandi baffi spioventi, che galleggiava in un lago di sudore. Davanti a lui, Vera. Minuta, esile, sovrastata da quel pachiderma. Io e il fratello la guardammo con una certa apprensione. Ma lei gli si fece incontro, il mento alto e la schiena dria, urlando più di lui: “Lei è un pazzo. Aveva visto tuo, sapeva perfeamente quanta roba c’era. E adesso veda di finire il lavoro!” Lui urlò ancora, anche se stavolta un po’ più piano: “No. Io me ne vado…” A quel punto Vera gli fa una finta con il direo sinistro, l’omone si piega per proteggersi da quella parte e lei, con un gancio destro, lo colpisce con violenza alla mascella. L’omone vacilla, sta quasi per cadere poi si accorge di me e Leo e grida: “Teneteme!” Lo raggiungo e gli dico con calma: “Forse è meglio se teniamo la signora.”

Il nostro arrivo aveva scombussolato i piani dell’omone. Ma anche il gancio della sua cliente. Così, borboando, finì il lavoro. Dunque la splendida signora Vera era anche un pugile esperto. *** L’amicizia con Leo si era consolidata. Mi presentavo con ogni scusa nel suo ufficio e lui sapeva benissimo che andavo a trovarlo nella speranza di rivedere la magnifica sorella dal sorriso e dal pugno micidiali. Mi raccontò che Vera era impegnata nella lavorazione di un film che stavano realizzando a Sorrento. Poi aggiunse che il weekend successivo sarebbe andata a Procida a trovare i genitori e ci sarebbe andata con Mimmola Girosi, segretaria di edizione, e Giovanni Axerio, lo scenografo. Non ci misi molto a decidere di farle una sorpresa presentandomi nella casa dei signori Pescarolo con Emi De Sica (avevo conosciuto Emi a una festa di Capodanno in casa di sua madre, Giudia Rissone, che mi aveva invitato insieme a un gruppeo di giovani aspiranti registi. Giudia era stata per molti anni nella compagnia di Vera Vergani come sua sostituta, aività che non svolse mai perché Vera non era mai assente o malata, ma restarono sempre amiche). Leo mi aveva raccontato che suo padre, di nome Leonardo come lui, era stato per molti anni commissario di bordo sui più celebri transatlantici italiani dove aveva incontrato l’affascinante signora Vergani che, con la sua compagnia teatrale, araversava più volte l’Atlantico per le tournée sudamericane. A bordo si erano incontrati e si erano innamorati. Il cameriere ci accompagnò nel saloo della stupenda casa procidana. La signora Vera fu sorpresa dall’arrivo dei nuovi ospiti ma appena vide Emi si slanciò ad abbracciarla con tenerezza. Poi guardò me con un punto interrogativo negli occhi, io mi inchinai, le sfiorai la mano con le labbra e lei, con afflato teatrale, mi chiese: “Ma noi ci siamo già conosciuti?”

Riuscii a piazzare una delle mie migliori baute: “Signora, se avessi avuto l’onore di conoscere una donna come lei, non avrei mai dimenticato quel momento.” Vera Vergani mi sorrise e abbracciò anche me. Il comandante Pescarolo, un bell’uomo alto ed elegante, salutò Emi con affeo e mi strinse compitamente la mano. Nell’intreccio dei convenevoli la signora Vera chiese al cameriere di pregare sua figlia di scendere, poi guardò me e disse: “È nel suo studio, al piano di sopra, con i suoi collaboratori,” quasi per invitarmi a raggiungerla. Stavo per farlo ma in pochi aimi Vera era già scesa accompagnata da Mimmola e dallo scenografo. ando mi vide sgranò gli occhi e le sfuggì un “ma…” Mi affreai a spiegare: “Emi voleva rivedere tua madre, e io l’ho accompagnata.” Vera sorrise, stupita ma radiosa. La signora disse ad alta voce: “Naturalmente vi fermate a pranzo. Ma prima prendiamo un buon aperitivo sul terrazzo.” Durante il pranzo Vera raccontò delle sue esperienze e soprauo del suo prossimo impegnativo lavoro, una produzione tedesca per un film con una troupe numerosissima. Intervenne anche Mimmola che, entusiasta di lavorare con un cast tedesco, soolineò la fortuna di avere Vera che parlava fluentemente la loro lingua. Intervenne Vera madre con un pizzico d’orgoglio: “Ovvio, è cresciuta con una governante prussiana.” Di rimando Vera figlia commentò con un filo di voce: “Una stronza…” Il vino bianco e fresco aveva fao il suo dovere e aveva contribuito a creare un’atmosfera amichevole. Solo io ero teso, guardavo Vera sperando di incontrare il suo sguardo. Ma non succedeva mai, mi ignorava con la massima naturalezza. Venne il momento del dolce, una splendida torta faa in casa dalle donne procidane. Vera si alzò per servire, prima la madre, poi Emi, quindi i due collaboratori, il padre, e

me per ultimo. Finalmente mi guardò negli occhi: “Ti va un pezzo di torta? È faa in casa. È buona!” La guardai anch’io negli occhi e scandendo bene le parole le risposi: “Io-ti-amo!” La frase, caduta in un momento di assoluto silenzio della tavolata, ebbe un effeo dirompente. Si girarono tui a guardarmi. Vera madre traenne a stento una risata. Vera figlia, visibilmente in imbarazzo, dopo un aimo di silenzio disse: “Sì, ma non capisco cosa c’entra con il dolce.” Guardai il comandante e gli chiesi a bruciapelo: “Posso parlare con lei?” Il comandante Pescarolo si tolse gli occhiali, mi guardò a lungo con un mezzo sorriso e poi: “Tra poco andiamo nel mio studio.” Il pranzo era finito, gli ospiti si spostarono al fresco sul terrazzo. Il comandante mi fece accomodare nello studio, una splendida biblioteca piena di libri, in un angolo pile di dischi, alle pareti tante fotografie e tanti quadri. Il comandante si sedee sulla sua poltrona e mi fece accomodare di fronte a lui. Non sapevo come iniziare e decisi di ribadire il conceo: “Io la amo.” E lui: “esto lo abbiamo sentito tui.” Mi guardò con il solito mezzo sorriso e aggiunse: “D’accordo, ma Vera cosa ne pensa?” “Non lo so. Sono disperato.” Il sorriso gli si allargò: “Deve avere pazienza, anch’io con sua madre ho aspeato una risposta, e l’ho aspeata a lungo.” Dopo un aimo di pausa, riprese: “Comunque lei mi è simpatico, speriamo bene…” La bauta finale rimase a me: “Già, speriamo!” *** Erano passate alcune seimane ed eravamo rientrati tui a Roma dopo quei pochi giorni di vacanza. Il lavoro non era troppo, così Leo mi propose due volte di andare a trovare sua

sorella sul set, a Sorrento. Evidentemente non era più geloso del nostro rapporto. La seconda volta trovammo Vera stremata. I rapporti con il regista tedesco non erano facili e neppure quelli con il direore di produzione. Il regista aveva pretese continue e richieste dell’ultimo minuto che meevano Vera in difficoltà. Una volta chiedeva di bloccare il traffico, un’altra di abbassare le saracinesche dei negozi della strada più trafficata della cià, un’altra di eliminare i cartelli pubblicitari. E sempre con pochissimo preavviso. Problemi non semplici da risolvere e che avrebbero inesorabilmente fao lievitare i costi, cosa che preoccupava moltissimo il direore di produzione. Per fortuna Vera era entrata in rapporti amichevoli con il sindaco e l’assessore alla cultura di Sorrento, orgogliosi che si girasse un film nella loro cià, e grazie alla loro collaborazione riuscì a soddisfare le richieste del regista senza pesare sul budget del film. ando Leo capì che il regista stava esasperando sua sorella, decise di affrontarlo, dirgliene quaro e rimeerlo al suo posto. Ma Vera aveva il pieno controllo della situazione e lo tranquillizzò: “No, ti prego, lascia stare. Ancora una seimana e le riprese saranno finite e finalmente se ne torneranno tui in Germania.” In ufficio da Leo studiavamo come trovare un altro lavoro. Non era facile, avevamo tante belle idee ma pochissime lire. Nei nostri lunghi pomeriggi la mia sola consolazione era Vera, finalmente tornata in forma dopo le fatiche di Sorrento, che veniva spesso a trovarci. Fu in quel periodo che nacque il rito delle nostre passeggiate. Una sera in ufficio dopo il lavoro trovai il coraggio di chiederle di accompagnarla a casa. Non avevo l’auto ma sapevo che era una buona camminatrice e che ogni giorno andava e tornava a piedi percorrendo diversi chilometri. Il traffico soffocava già quella zona di Roma ma Vera mi fece da

guida nel suo percorso segreto che ci immerse quasi subito in quelle incantate atmosfere campestri che la cià ancora regalava a chi la conosceva bene. Costeggiammo alcuni impianti sportivi con la luce radente che tingeva di arancio le chiome dei pini ma faceva caldo e dopo tanto scarpinare ci infilammo in un boscheo di allori e sedemmo su una panchina per riposare un po’, non lontano dai prati del Villaggio Olimpico, a pochi passi da casa sua. In quel momento il ponentino serale cominciò la sua opera rigeneratrice dalla calura ciadina asciugandomi la fronte sudata e là, finalmente da soli, cominciammo a parlare. Vera mi raccontò del suo matrimonio a dicioo anni con un industriale genovese, le liti frequenti, le incomprensioni, le gelosie, fino alla nascita di Elisabea. Mi preoccupai, ma lei aggiunse subito che dopo poco tempo c’era stata la separazione. E mi tranquillizzai. In quel momento Elisabea era in vacanza a Procida dai nonni e a breve l’avrebbe raggiunta a Roma. Spesso le nostre passeggiate erano silenziose. Un giorno la vidi particolarmente pensierosa, scuoteva la testa e non parlava. Le chiesi, un po’ in ansia: “Che ti succede?” Mi rispose sospirando: “Stavo pensando al nostro rapporto. Vedi, tu mi sei simpatico, non posso negarlo. Ma credo che andare oltre l’amicizia possa essere rischioso.” Le risposi con un groppo in gola: “Hai ragione, forse qualche problema può nascere, ma se c’è l’amore…” Nessuna risposta. Altri minuti di camminata silenziosa. Poi finalmente Vera si fermò, mi guardò e disse: “Vuoi venire a cena a casa mia?” Fui preso in contropiede ma riuscii a rispondere in modo entusiasta e ci avviammo verso casa. Poco lontano da ponte Milvio, una stradina con due soli palazzi. Nel primo, all’ultimo piano, c’era l’appartamento di Vera. Il sole stava calando e nel momento in cui entrammo nel portone si accesero le luci all’interno del palazzo. Vera fece strada e salimmo in ascensore tenendoci per mano.

Al pianeroolo Vera imboccò la breve scala che portava al suo portone. Salimmo i gradini, lei davanti e io dietro. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso: che gambe, che fianchi, che bella… Mi baeva il cuore, avevo le gambe molli. Non resistei più. L’afferrai e la strinsi a me. Vera era senza parole. La spinsi piano sui gradini, cercai di sollevarle la gonna. Vera a quel punto reagì, mi spinse via con forza e scoppiò in una fragorosa risata che mi raggelò. “Mi sbaglio o eri tu a dire che è meglio essere amici piuosto che complicare tuo con il sesso?” disse guardandomi e continuando a ridere. Ci rimasi male. Ma poi quella noe abbiamo fao l’amore per la prima volta. *** Dopo mesi di inaività pressoché totale, Leo ricevee una proposta. Era il 1964. Gino Agostini, distributore, e Gaetano De Negri, produore, chiesero a Pescarolo se fosse interessato a collaborare alla realizzazione di un film interamente ambientato a Bologna. Leo acceò l’offerta che includeva anche di seguire la lavorazione. Il titolo del film era Una bella grinta, la storia di un uomo ambizioso e arrivista che nell’Italia del boom economico vuole impiantare una fabbrica a pochi metri dall’autostrada del Sole. Una storia dura e drammatica dal forte valore sociale. Ma i soldi erano pochi. Venti milioni di lire fino alla copia campione e, per le riprese a Bologna, sei o see milioni. Cifre da lacrime agli occhi. Leo convinse i nuovi soci a offrirmi la regia, naturalmente senza compenso, riconoscendomi solo una partecipazione agli incassi. Acceai. Il ruolo di protagonista venne offerto a Renato Salvatori, che dopo Poveri ma belli di Dino Risi (1956), I soliti ignoti di Monicelli (1958), Era noe a Roma di Rossellini (1960) e soprauo

Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti (1960), era un aore già largamente affermato e popolarissimo, con la stessa clausola di partecipazione agli incassi. Dopo aver leo la sceneggiatura acceò anche lui (Renato, gran giocatore di poker, avrebbe incrementato le sue entrate passando le serate al tavolo verde di un club esclusivo di Bologna, dove quasi sempre vinceva). Da Roma partimmo in pochi, una troupe ridoa al minimo e due soli aori, Renato e la protagonista femminile, Norma Bengell, un’arice sudamericana. Il resto del cast dovevamo trovarcelo a Bologna. Dove ci aspeava Gino Agostini. Agostini per i bolognesi era un mito. Capo partigiano, impegnato politicamente, amante appassionato del cinema, aveva fondato il CIDIF, Consorzio italiano distributori indipendenti, per la distribuzione di film in Emilia e Romagna. Ed era diventato socio del proprietario di due cinema. Era amico di De Negri e insieme avrebbero prodoo diversi film dei fratelli Taviani. Senza di lui l’impresa di Una bella grinta sarebbe stata difficile da realizzare. Simpatico, grassoello, buona forchea, sempre oimista, Gino coinvolse molti amici e oenne tue le location a titolo gratuito. Iniziò subito a collaborare con Vera che si era resa disponibile per completare il cast. Fermava le persone per strada e cercava di convincerle a partecipare. Il più delle volte le risposte erano affermative. Ma Vera presto dovee partire per Pompei per la realizzazione di un documentario direo da un regista francese, lasciando un vuoto nel gruppo. La lavorazione iniziò con grande impegno e la calorosa collaborazione dei bolognesi che seguivano le riprese. Un colpo di fortuna, assolutamente inaeso, ci permise di risolvere il problema più importante: il set della nuova fabbrica in costruzione, un’operazione che sarebbe costata tempo e soldi. Durante una serata alla presenza di numerosi notabili bolognesi, Agostini conobbe un industriale che,

proprio in quei giorni, stava facendo costruire uno stabilimento esaamente dove lo volevamo noi, a fianco della nuova autostrada del Sole che veniva inaugurata proprio in quegli anni. Con grande generosità ci permise di utilizzare il suo cantiere per alcuni giorni, permeendoci così di accelerare le riprese e di risparmiare una montagna di soldi. Dopo due seimane, quando le riprese a Pompei erano finite, Vera venne a trovarmi. Con mia grande gioia si traenne per qualche giorno. Per quella prima sera, prenotai un oimo ristorante, volevo festeggiare. Era sabato e ci stavamo preparando per uscire dall’albergo. Ci meemmo eleganti, io con un bel vestito blu estivo nuovo con tanto di pochee nel taschino della giacca. Mentre mi stavo annodando la cravaa davanti allo specchio del bagno, dalla camera mi arrivò la voce di Vera: “Io sono pronta.” Afferrai la giacca e uscii dal bagno. Rimasi impietrito. Indossava un vestito di cachemire leggerissimo con una scollatura che sfiorava i capezzoli e scendeva fino all’ombelico. Riuscii appena a balbeare: “Ma esci così?” e lei, ironica: “Non sarai mica un provinciale?” Dopo un aimo di smarrimento ritornai in bagno e dai pantaloni tirai fuori bocce e pallino e mi ripresentai a lei. Lei sgranò gli occhi: “Ma sei pazzo? Esci così?” Fui veloce a ribaere, scandendo le parole: “Non sarai mica una provinciale?” Dopo pochi minuti uscimmo. Vera indossava un bel vestito poco scollato e io avevo rinchiuso il volatile in gabbia. Fu una bellissima serata e la noe trascorse con tanto amore. Venne l’ultimo giorno di lavorazione. Eravamo tui orgogliosi di aver portato a termine le riprese rispeando il

piano di lavorazione senza sforare il budget di una lira. Ci vollero alcuni mesi per il montaggio e finalmente ci ritrovammo nella sala di proiezione dell’ufficio di Pescarolo per vedere in anteprima il film. Seduti in sala c’erano Vera, Leo, Agostini, De Negri, il montatore e io. È sempre una grande emozione quando si spengono le luci e appaiono le prime immagine di un film, ma quella volta lo era ancora di più, avevo la mano di Vera tra le mie e quando apparve il titolo, Una bella grinta, regia di Giuliano Montaldo, lei me la strinse forte. Alla fine della proiezione, fui sommerso dai complimenti: era un bel film ed era piaciuto a tui. Gli abbracci e le pacche sulle spalle quasi mi soffocarono. Vera era commossa, mi abbracciò forte. E mi baciò, anche se suo fratello ci stava guardando. Il film fu apprezzato anche dalla critica tanto che venne invitato al Festival di Berlino, dove avremmo dovuto presenziare anche noi. Io e Vera decidemmo di partire in macchina. Sarebbe stato un viaggio lungo, le strade erano pericolose e avremmo incontrato pioggia e vento. Ma avremmo risparmiato un bel po’ di quarini. Araversammo tua la Germania e finalmente arrivammo a Berlino, dove il famigerato muro da pochi anni divideva la cià in Berlino Est e Berlino Ovest. Il nostro hotel si trovava nel centro della cià, dalle parti dello zoo, abbastanza lontano dal muro. Arrivammo stremati dal viaggio, il nostro solo pensiero era fare una doccia e riposare. Infai stavamo tentando di riprenderci dalla fatica sdraiati nudi sul leo, quando sentimmo aprire la porta. Guardammo allibiti entrare nella stanza un distinto signore che, come se niente fosse, ci salutava con educazione. Io mi coprii con un cuscino mentre Vera schizzava dal leo andando a nascondersi dietro una poltrona. Lui si avvicinò una sedia tranquillo e sorridente come se ci avesse trovato in abito da sera pronti a uscire. Appoggiò sul tavolo il mazzo di fiori che aveva in mano e disse: “Per lei, signora.” Poi decise che era arrivato il

momento di presentarsi: “Sono il rappresentante in Germania dell’ANICA, l’associazione che rappresenta l’industria cinematografica italiana nei rapporti con le istituzioni.” Vidi gli occhi di Vera affacciarsi da dietro la poltrona. Io non mi lasciai convincere e rimasi tenacemente aggrappato al cuscino. “Sono incaricato di seguire il Festival,” proseguì l’uomo dell’ANICA, “e credo di avere qualche notizia da darvi. Il vostro film andrà bene, questo è sicuro, ma per quanto riguarda i premi sappiate che non c’è niente da fare. I giochi sono fai, l’Orso a Jean-Luc Godard, il suo Agente Lemmy Caution, missione Alphaville rappresenta tua la Nouvelle Vague francese. Poi i riconoscimenti agli aori americani e un altro premio importante ai sovietici, che sono al Festival di Berlino per la prima volta. Come vedete non rimane altro a disposizione…” Stupito e seccato, cercai di rispondere con educazione: “Se mi passa le mutande, torno subito a Roma.” Lui mi sorrise e io aggiunsi: “Ma in fondo è già un miracolo essere in concorso, no?” Lui, sempre sorridendo, si alzò, salutò con grande cordialità me e la poltrona e se ne andò. Vera uscì dal suo nascondiglio e sussurrò guardandosi intorno circospea: “Ora sappiamo tuo, dopo la proiezione possiamo anche ripartire.” ell’anno la Berlinale, che cercava un rilancio dopo le deludenti edizioni degli anni precedenti, si svolgeva per la prima volta all’Europa-Center di Tauentzienstrasse. Tui i film in concorso vennero accompagnati da una calorosissima accoglienza. La sera della proiezione di Una bella grinta noi eravamo seduti al centro della grande sala, gremita di speatori. Il conduore salì sul palco e ci presentò con entusiasmo: “La signora Vera Pescarolo, produrice del film…” Vera, elegantissima, si alzò, sommersa dagli applausi, “… e Giuliano Montaldo, regista.” Mi alzai anch’io, feci un

mezzo inchino al pubblico, quindi gli applausi si affievolirono e le luci si spensero. Durante la proiezione non lasciai mai la mano di Vera. Eravamo tui e due tesi ed emozionati. Gli speatori seguivano in assoluto silenzio l’evolversi del racconto. ando si riaccesero le luci fummo acclamati da diversi minuti di applausi. La nostra tensione si sciolse, adesso eravamo solo felici. All’uscita, un giornalista tedesco ci raccontò in buon italiano che anche la stampa aveva accolto con favore il film. Il giorno dopo decidemmo di andare a cena a Berlino Est, curiosi di vedere con i nostri occhi il famoso muro. Superammo il Checkpoint Charlie controllato dai VoPos, i temibili soldati dell’Est, entrammo in Alexanderplatz e imboccammo un grande viale con una targa che indicava Stalin Allee. Il traffico di auto era quasi inesistente e i passanti erano rari. Parcheggiammo l’auto e trovammo il ristorante ungherese che cercavamo. La cena fu memorabile, mangiammo tanto e bevemmo troppo. ando alla fine ci alzammo, ero malfermo sulle gambe. Vera mi guardò e disse: “Ho la curiosa impressione che tu sia un po’ brillo, ce la fai a guidare?” Scoppiai a ridere: “Ma se sono lucidissimo, stai tranquilla.” Salimmo in macchina, un’Alfa Romeo targata Genova che mi aveva imprestato il marito di mia sorella. Guidai come se invece di essere a Berlino Est fossi alla 24 Ore di Le Mans. Nelle strade deserte i pochissimi pedoni ci guardavano incuriositi e un po’ spaventati correre ai centocinquanta all’ora lungo l’Unter den Linden, il viale dei tigli che portava verso il confine. Finché, all’improvviso, udimmo fischi e urla e vedemmo sbucare dal nulla degli uomini armati. Erano i VoPos. Inchiodai. Ero alticcio ma non mi sfuggiva il fao che la situazione in cui ci trovavamo non era bella. Arrivò di corsa un graduato scortato da due militari con il mitra spianato. Aprì la portiera urlando. Ero agghiacciato. Poi sentii Vera rispondere con tono autoritario in tedesco. Scambiarono

alcune baute secche di cui non capii una parola. Capivo solo che erano entrambi infuriati. Dopo un interminabile aimo di silenzio, il militare scoppiò in una fragorosa risata e cominciò a colpire con il pugno il teo della macchina. Si avvicinarono altri VoPos, parloarono tra di loro e tui scoppiarono a ridere. Io, avvinghiato al volante, continuavo a essere terrorizzato. Pochi secondi dopo il graduato con un ampio gesto ci diede il via libera. Finalmente superato il muro, tirai un sospiro di sollievo. Mi fermai in mezzo alla strada e chiesi a Vera: “Ma si può sapere cosa vi siete dei?” E lei sorridendo: “ando è arrivato ci stava urlando, ‘ma non avete visto lo stop?’ Io ho risposto: ‘E voi non avete leo la targa?’ Lui ha guardato meglio: ‘Sì, Genova, Italia.’ Allora ho gridato io: ‘E non lo sapete che in Italia quando leggiamo stop acceleriamo?’ Ci ha messo un po’ a capire, ma poi è scoppiato a ridere e ha deo: ‘Via, andate via, ma piano, mi raccomando.’” Alla maina ce la prendemmo comoda, dopo una robusta colazione in camera iniziammo a preparare i bagagli per tornare a Roma. Vera si stava facendo aiutare da una cameriera dell’hotel mentre io scesi a pagare gli extra non inclusi nell’ospitalità del Festival. Mentre ero in coda alla reception, mi riconobbe Franco Cauli, il critico cinematografico e giornalista dell’ANSA. Si avvicinò con un sorriso raggiante. “Complimenti,” disse. Pensai che mi stesse prendendo in giro. Continuò: “Bel colpo, congratulazioni davvero! Premio Speciale della giuria e Premio del Senato, non succede tui i giorni.” Sono sgomento, non riesco a capacitarmi, le notizie che avevamo dall’uomo dell’ANICA erano diverse. Buai le braccia al collo di Franco e lo strinsi forte in un abbraccio. Alla reception comunicai che saremmo rimasti in hotel altri due giorni. Salii in camera a piedi, facendo i gradini due alla volta e, col fiatone, dissi a Vera la fantastica notizia. Sgranò gli occhi incredula, poi mi abbracciò e mi baciò con passione. Dovevamo telefonare subito a Leo. Due premi! Incredibile, chi l’avrebbe mai deo. Al telefono Leo urlò tuo il suo

entusiasmo come un tifoso in gradinata quando la sua squadra segna. Riuscii a capire solo che sarebbe partito immediatamente per Berlino. Arrivò nel pomeriggio del giorno dopo, accompagnato da Renato Salvatori e Gaetano De Negri. Alla sera ci avviammo verso lo Zoo Palast, l’altra sede della Berlinale, io e Vera mano nella mano seguiti da Leo, Salvatori e De Negri. Eravamo tui eccitati. La folla davanti all’entrata era enorme e faticammo per farci largo ed entrare in teatro. La grande sala era gremita di speatori in aesa dell’annuncio dei vincitori del Festival. Per primi vennero annunciati i vincitori dei premi minori, costumi, musiche, sceneggiatura, in una sequenza che sembrava non dovesse finire mai. Noi diventavamo sempre più impazienti. Finalmente il cerimoniere si decise a chiamarmi sul palco; salii emozionato i pochi gradini mentre dalla quinta usciva un’elegante vallea con il premio, la statuea dorata di un orso. La guardai e la mostrai al pubblico mentre il cerimoniere stava annunciando: “Premio speciale della giura per il film Una bella grinta.” Prima che si spegnessero gli applausi, entrò un’altra vallea con una voluminosa busta e il cerimoniere riprese ad annunciare: “Premio del Senato per il regista e la produzione.” Uscii dalle quinte risucchiato dagli applausi. Tenevo tra le braccia l’Orso e la grossa busta e subito trovai ad aspearmi Renato, Leo e De Negri. “Apri il pacco,” furono le prima parole che mi rivolse Leo. Non so come facesse a conoscerne già il contenuto. Nella busta trovai quarantamila marchi in contanti, una cifra enorme, più di quanto era costato l’intero film. Decidemmo di dividerci il boino subito e in parti uguali, soo lo sguardo incredulo di un vigile del fuoco. Tornai in platea, Vera si alzò e mi venne incontro, mi abbracciò, ci baciammo, mentre il pubblico applaudiva. Ringraziai mostrando la statuea e, ancora tremante, mi

sedei di fianco a lei. Appena seduto, non mi traenni e le mostrai il malloppo bisbigliando: “Siamo ricchi.” Tornati in hotel ordinammo da bere, un brindisi con gli amici non poteva mancare. Era una serata storica per tui noi. Vera e io ci tenevamo strei l’uno all’altra mentre continuavamo a brindare. Tra un bacio e l’altro mi confidò che un regalo lo avrebbe voluto: niente meno che una confezione di bagnoschiuma Badedas. La maina successiva, accompagnato da un funzionario dell’albergo, riuscimmo a trovare un enorme boiglione di Badedas, ma mi sarei vergognato a tornare con una boiglia di sapone liquido per quanto smisurata. Ci voleva altro per la mia Vera. In una vetrina poco lontano vidi una bellissima borsa preziosa e la comprai. Arrivato in albergo, scrissi un biglieo piuosto sintetico: “Ti amo.” Dopo tue le emozioni che avevamo vissuto insieme, arrivò l’ora di partire; il tramonto stava avanzando e la strada per Roma era lunga. In autostrada il traffico era scorrevole, si viaggiava bene. Vera mi appoggiò la testa sulla spalla e io, felice, iniziai a cantare. Tu sei per me la più bella del mondo e un amore profondo mi lega a te… “Canti bene, complimenti!” fece Vera. La guardai con amore. Arrivammo a Salisburgo alla ricerca di un hotel degno dei premi che avevamo ricevuto. Davanti ai nostri occhi si materializzò un monumentale palazzo con una grande scria luminosa: Hotel Imperator. Era nostro. Salimmo lo scalone e chiedemmo una camera matrimoniale: “Sono tue occupate,” rispose gentilmente l’addeo alla reception e poi con un sorrisino ironico: “È libero solo l’appartamento imperiale.” Guardai Vera e risposi: “Prendiamo quello.” Non diedi soddisfazione al portiere di chiedere il prezzo.

Fummo accompagnati da due cameriere che aprirono un lussuoso appartamento riccamente arredato e con un leo da quaro piazze. Ci guardammo, era veramente una suite imperiale. Meraviglioso. Lasciammo le scarpe fuori dalla porta e dopo mezz’ora ce le restituirono pulite e luccicanti. Dopo la cena in un ristorante vicino tornammo in camera, in fin dei conti era il posto più bello della cià. Dormimmo strei strei in quella piazza d’armi. Fu una bella noata, anche se poi commentammo che con una brandina ci sarebbe andata bene lo stesso. Al maino, quando scesi a pagare, mi resi conto del significato della parola “Imperiale”. Anche se di sicuro l’Imperatore era sempre stato ospite. Il film uscì nelle sale italiane pochi giorni dopo. Arrivati a Roma, divorammo le recensioni: tue positive, spesso decisamente favorevoli. Alberto Moravia su L’Espresso scrisse: “Il regista è realista, di un realismo serrato e aderente, privo di retorica, che ci ricorda, un poco, quello del primo Rossellini.” Ne fui onorato, ma nei giorni successivi ci rendemmo conto dal ritorno dei dati di vendita ai boeghini che il film non stava andando particolarmente bene, anzi. Aveva vinto due premi internazionali e ricevuto critiche entusiastiche, ma i dati di vendita non erano lusinghieri. E nei mesi successivi fu anche peggio. Era un paradosso: Tiro al piccione era stato stroncato dai critici, non aveva vinto nulla ed era andato bene ai boeghini. Una bella grinta, al contrario, buone recensioni e desolazione ai boeghini. Ero amareggiato, per fortuna c’era Vera a sostenermi, mi incoraggiava e cercava di darmi forza e oimismo. Ma anche lei aveva dei problemi: i litigi con il fratello erano oramai all’ordine del giorno. La causa degli ariti era legata alle decisioni e alle scelte dei lavori che venivano proposti alla loro società, i costi elevati, l’incertezza dei ricavi. Leo era più disponibile, Vera più severa.

Una sera fummo invitati a cena a casa di Leo. Mentre cercavo di gustarmi l’aperitivo in sala, sentii grida e insulti che provenivano dalla cucina. Sorella e fratello si stavano accapigliando e Vera non stava avendo la peggio. Con grande fatica riuscii a separarli, poi quando finalmente i due si ritrovarono ansanti uno di qua e l’altro di là del tavolo mi sfogai e li sgridai aspramente: “Una scena così non voglio vederla mai più!” Presi Vera e ce ne andammo. Dopo quello scontro, i loro rapporti erano definitivamente compromessi, la roura insanabile. Vera, poco tempo dopo, decise di lasciare la società del fratello. Si sentiva forte, capace e non aveva paura del futuro. Collaborava da anni con alcune produzioni tedesche e il presidente di una di queste, Gyula Trebitsch, l’aveva più volte pregata di intensificare la collaborazione firmando con la sua società un contrao molto interessante. Ma, a quei tempi, Vera era ancora impegnata con la Clodio, la società di Leo. Ne parlammo per una noe intera, poi il giorno dopo Vera chiamò Trebitsch per dirgli che si era liberata dagli impegni con suo fratello e si poteva riparlare di quell’offerta. Pochi giorni dopo Vera si presentò ad Amburgo dove Trebitsch aveva organizzato un incontro con i suoi collaboratori. Vera venne faa sedere accanto al presidente che le chiese quale, secondo lei, poteva essere la differenza per un produore fra il lavorare in Germania o in Italia. Vera, tua presa dalla sua parte, come se stesse rivelando una profonda verità filosofica, cominciò a raccontare solennemente la storia dei due inferni, l’inferno tedesco e l’inferno italiano. In quello tedesco, nell’immensa piscina, la cacca bolle a cento gradi e, se un dannato tenta di uscire, i diavoli lo ricacciano giù a colpi di forconi. In quello italiano, invece, la cacca bolle e i demoni colpiscono con i forconi. “E dunque dove sta la differenza?” chiese il presidente un po’ spazientito. “Vede, presidente, in quello italiano un giorno la cacca è fredda perché si è roa la caldaia, un altro giorno i diavoli

sono in sciopero, un altro qualcuno si è rubato i forconi…” Dopo un breve silenzio, il presidente cominciò a saltellare sulla sedia ridendo a crepapelle, e tui gli altri gli andarono dietro. Una serissima riunione di lavoro tedesca si era trasformata in una allegra rimpatriata fra amici. “Che signora simpatica, sono sicuro che troveremo presto un accordo,” le disse Trebitsch prendendole una mano. Iniziava così per Vera una nuova stagione lavorativa, che la vedrà a lungo impegnata con produzioni d’oltralpe. E anche per me, da lì a poco, ci sarebbe stata una bella novità. alche seimana più tardi venni contaato da Gillo Pontecorvo che mi voleva come regista della seconda unità per La baaglia di Algeri. Gillo, fratello del famoso scienziato atomico (che io e Vera avremmo conosciuto a Mosca) è stato per me un personaggio indimenticabile. Dopo qualche anno di stenti vissuti a Roma, lo incontrai mentre stava lavorando alla sceneggiatura per il suo esordio alla regia con La grande strada azzurra (1957), capì al volo che avevo bisogno di aiuto e mi propose di lavorare per lui e di andare ad abitare a casa sua dove c’erano già altri ospiti, Callisto Cosulich, Franco Giraldi e, a turno, altri amici. Fui suo aiuto in Giovanna, episodio del film La rosa dei venti (1956), in Kapò (1959) e suo collaboratore nella Baaglia di Algeri (1966). Gillo non parlava mai del suo impegno politico (aveva fondato un’associazione comunista giovanile con Enrico Berlinguer), né della sua importante famiglia. Parlava più spesso del suo talento come giocatore di tennis e come pescatore subacqueo. Non molto alto ma grande seduore, corpo atletico, occhi fascinosi da conquistatore, sciupafemmine. Partii subito e portai con me Vera che non volevo lasciare sola. Il lavoro sarebbe durato poche seimane perché Gillo aveva tempi strei e si doveero girare alcune scene in contemporanea. Vera non aveva alcun incarico ufficiale nella produzione del film ma, non potendo tenerla ferma, la

coinvolsi come mia collaboratrice. Dovevo girare la scena di una donna algerina scacciata da un ufficio francese e della folla che protestava per quel traamento. La scena si svolgeva in una piazza assolata, da un lato palazzi e dall’altra un anfiteatro. Io riprendevo da lontano la marcia dei manifestanti verso l’ufficio francese. Vera stava posizionando le persone istruendole su quello che dovevano fare. La chiamai, col dito le feci segno di venire da me e gridai: “a, correre.” Vera si voltò, mi fulminò con lo sguardo e mi si avvicinò a grandi falcate. ando mi fu vicino mi mollò una sberla che mi fece girare la faccia. “Non farlo mai più,” mi urlò in faccia. La fermai prendendola per le spalle e guardandola negli occhi. Dalla folla di algerini si udirono grida di stupore, tui si erano voltati a guardare la scena. Si aspeavano che la massacrassi di boe. Invece scoppiai a ridere e la abbracciai. Un mormorio di disappunto salì dalla folla, alcune donne algerine si avvicinarono a Vera per congratularsi. Molti uomini disapprovarono apertamente. Prima di poter ricominciare a girare dovei ricorrere a tua la mia autorità. Il giorno dopo, mentre stavamo tornando in albergo e avevamo appena salutato l’interprete, vidi dirigersi a folle velocità verso di noi una macchina piuosto sgangherata. Feci in tempo a prendere Vera per un braccio e scaraventarla di lato che la macchina la sfiorò e si dileguò in una nuvola di polvere. Mi avvicinai a Vera, l’avevo geata per terra. Per fortuna non le avevo fao del male ma eravamo tui e due molto scossi. Arrivò di corsa l’interprete che aveva assistito all’episodio e a bassa voce ci avvisò: “Fate molta aenzione, qualcuno ha visto la scena di ieri sul set e non può tollerarla.” “Non oso pensare a cosa possa essere successo alle donne che ti si sono avvicinate ieri,” fu il mio commento. Per fortuna l’incarico stava finendo e tre giorni dopo lasciammo Algeri.

Ci tuffiamo nelle Americhe

Eravamo nel 1966. Nei giorni in cui Vera si trovava ad Amburgo, io venni invitato negli uffici della Jolly Film da Giorgio Papi e Arrigo Colombo. In quel periodo la loro società stava realizzando Il buono, il bruo, il caivo di Sergio Leone. Colombo piccoleo e vivacissimo, ebreo fuggito negli Stati Uniti nel 1938. Giorgio spilungone, sempre aento e silenzioso. Due persone profondamente diverse anche nel modo di vestire, Giorgio sempre elegante, Arrigo casual. Arrigo studiava aentamente i progei, Giorgio il piano di lavorazione e i costi. Mi accolsero con sorrisi e stree di mano. Papi disse: “Abbiamo visto i suoi due film, davvero girati bene, complimenti.” Intervenne il signor Colombo: “È vero, sono d’accordo. Però bisogna pensare di coinvolgere il pubblico con storie più intriganti e divertenti. Per questo vogliamo proporle la regia di un’avventura che sicuramente le piacerà. Il titolo è Ad ogni costo; sarà una coproduzione tra una società tedesca e una spagnola e forse anche un importante gruppo americano.” Papi prese una sceneggiatura e me la consegnò. “Legga e poi ci vediamo.” Lessi il copione che raccontava di un furto in una società diamantifera a Rio de Janeiro. Era davvero interessante e coinvolgente. Mentre a casa ero immerso nella leura sentii aprire la porta e vidi apparire Vera. Il mio cuore si mise subito a cantare. Era appena ritornata da Procida e aveva portato con sé sua figlia Elisabea, una bella ragazza di tredici anni. Mi sorrise: “La mamma mi ha parlato tanto di te, mi ha deo che vi volete bene.” E io: “Sono sicuro che anche per noi due sarà così.” Ci abbracciammo da subito con affeo. A cena parlammo a lungo. Elisabea era davvero simpatica, le

piaceva leggere, andare al cinema, ed era incuriosita dal mestiere di regista. Le risposi: “Ti spiegherò con calma, intanto ti faccio leggere una storia ambientata in Brasile, mi interessa sapere il tuo parere.” Tornai alla Jolly Film dopo pochi giorni per confermare la mia disponibilità e discutere della realizzazione del film. Venni a sapere che la Paramount sarebbe stata interessata a distribuire il film in America se avessimo coinvolto un cast hollywoodiano. Come protagonisti proponevano Edward G. Robinson e Janet Leigh. Naturalmente ne fui entusiasta e per altri ruoli proposi Riccardo Cucciolla e Adolfo Celi. Mancava ancora un aore tedesco e presi appuntamento con la Constantin Film, l’altra società coprodurice. Vera sarebbe venuta con me. Il giorno dopo arrivammo a Monaco di Baviera nella lussuosa sede della Constantin Film, ci fecero accomodare in una sala con le pareti coperte di foto, arici e aori che avevano lavorato con loro. Parlammo a lungo della realizzazione del film con i delegati alla produzione, la partecipazione della Paramount e la proposta dei loro aori li entusiasmò. ando offrimmo loro un ruolo per un aore tedesco il direore aprì un casseo della scrivania e ci mostrò alcune fotografie di aori che intendevano proporre per quel ruolo. Dieci bei tipi, tui interessanti, ma non mi convincevano fino in fondo. Dietro alla scrivania avevo notato la foto di un volto decisamente particolare che mi sembrava perfeo per il ruolo scoperto. Ne accennai a Vera, anche lei fu d’accordo, così disse al direore indicando la foto dietro di lui: “Interessante quell’aore, sarebbe perfeo per la parte.” Il tedesco si voltò, staccò la fotografia dal muro e scosse la testa: “Klaus Kinski. È un bravo aore, ma è un pazzo fuori di testa.” Non mi spaventai: “Anche il nostro personaggio ne combina di tui i colori…” Lui ci passò la fotografia mentre raccontava: “Sì, certo… Volete sapere l’ultima che ha combinato? È successo non più di due mesi fa, stava recitando un monologo a teatro quando uno speatore in prima fila si è messo a tossire rumorosamente. Kinski si è

fermato, ha smesso di recitare e gli ha strillato: ‘Basta!’ Ma il povereo non è riuscito a traenere un nuovo aacco di tosse, al che lui è saltato giù dal palco, lo ha afferrato per il bavero della giacca e ha preso a scuoterlo con violenza.” Dopo un aimo di silenzio il direore guardò prima me e poi Vera. “Dunque che ne dite? Ve la sentite ancora?” Fu Vera a rispondere: “È lui. Con noi farà il bravo, farà il pazzo solo recitando.” “Bene, la vostra è una scelta coraggiosa. Andiamo avanti.” Iniziammo la preparazione con il direore di produzione, lo scenografo, il costumista e il direore della fotografia. Eravamo molto impegnati ma spesso negli uffici della Jolly Film incrociavamo Sergio Leone che stava finendo il mixage di Il buono, il bruo, il caivo. Per caso avevo seguito una parte del suo lavoro durante le nostre pause e avevo particolarmente apprezzato la colonna sonora. Lo incrociai un giorno con Ennio Morricone, l’autore delle musiche, Sergio me lo presentò e io gli parlai del mio film. Subito dopo dissi ai produori che Morricone sarebbe stato perfeo anche per la nostra colonna sonora. Intanto Vera lavorava con la Rai per alcuni progei con diverse società del Nord Europa. Alla sera ci vedevamo e ci scambiavamo le impressioni sui nostri lavori, Vera mi raccontava della Rai e io del film. Lei era particolarmente entusiasta della partecipazione di Janet Leigh, una grande arice che qualche anno prima, nel 1961, aveva vinto il Golden Globe come migliore arice non protagonista per la magistrale interpretazione in Psyco di Alfred Hitchcock. La lavorazione di Ad ogni costo andava avanti speditamente e stavamo ormai entrando nel vivo della realizzazione del film. Arrivò Edward G. Robinson, l’aore che avrebbe interpretato il ruolo di un anziano professore che insegna proprio di fronte alla società diamantifera. Con il direore di produzione andammo ad accoglierlo all’Hotel Excelsior, dove l’aore era ospite insieme alla moglie. Entrambi erano felici di essere a Roma e lui stava già pensando al suo ruolo. Parlammo dei prossimi impegni, il

primo dei quali era con la costumista. Non era d’accordo, scosse la testa e ci fece una proposta che ci parve bizzarra. L’indomani maina qualcuno avrebbe dovuto accompagnarlo al mercato dell’usato di via Sannio, a San Giovanni. Si era già informato. Chiesi a Vera se poteva accompagnarlo. La maina una macchina portò l’aore e Vera nei pressi del mercato, c’era molta gente in strada e intorno ai banchi, e molti passanti guardavano con interesse quella strana coppia. Forse qualcuno aveva anche riconosciuto il grande aore di tanti capolavori, da Il piccolo Cesare (1931) di Mervyn LeRoy, alla Fiamma del peccato (1944) di Billy Wilder, da Lo straniero (1946) di Orson Welles fino ai Dieci comandamenti (1956) di Cecil B. DeMille. Seguito passo dopo passo da Vera, Robinson si faceva largo tra la gente, passava da un banco all’altro curioso, guardava, soppesava, scartava. Finalmente si fermò in una bancarella di abiti usati, frugò, indossò diverse giacche e finalmente trovò quello che cercava. Soddisfao, domandò a Vera di riaccompagnarlo in hotel ma prima fece un’altra richiesta: voleva una limea e due grandi sassi. Vera era perplessa ma ne parlò con l’autista che li aveva accompagnati e che un paio di ore più tardi tornò con lima e due belle pietre. Vera, che lo stava aspeando nella hall dell’hotel, salì nella stanza dei Robinson per consegnare quanto richiesto. Era ovviamente curiosa, non aveva capito cosa volesse fare. Seduta in camera loro, osservò quel grande professionista mentre creava il suo costume di scena. Aiutato dalla moglie, con la lima aveva raschiato i bordi delle tasche della giacca e del taschino. Un vecchio professore infila per anni le penne nel taschino della giacca e quindi lo consuma, spiegò. indi si alzò e se ne andò in bagno, seguito dalla moglie. Mise i sassi nelle tasche esterne della giacca e la immerse nella vasca piena d’acqua. Così si vedrà che sono state molto usate, disse. ella sera, Vera mi raccontò i deagli del loro pomeriggio non senza qualche stupore. Decisi che il giorno

dopo sarei andato in sartoria per vedere cosa avessero combinato: Edward provò il suo vestito, era perfeo. Le riprese erano alle porte e partimmo per Rio de Janeiro. Con il direore di produzione e Alberto Boccianti, lo scenografo, anticipammo di due giorni l’arrivo del resto della troupe. Dovevamo cercare una scuola di samba con tanti ballerini perché il copione prevedeva che il furto avvenisse proprio durante il famoso carnevale e il corteo doveva percorrere danzando la strada davanti alla diamantifera e alla scuola dove insegnava Robinson. Avevamo bisogno di un gran numero di comparse che avrebbero impersonato la gente assiepata sui marciapiedi e di una poderosa ed elegante sfilata danzante di uomini e donne con i meravigliosi costumi del carnevale carioca che avrebbero dovuto marciare, ballando il samba sulle musiche composte dal maestro Morricone. Avevamo trovato, per accompagnarci e farci da interprete, Pablo, un giovane studente brasiliano che parlava un buon italiano e lui, senza esitare, ci portò nella più grande scuola di samba di Rio. Il presidente ci accolse in un grande cortile con tanti giovani che facevano esercizi di ginnastica. Con l’aiuto di Pablo gli raccontammo il copione e gli spiegammo di cosa avevamo bisogno: in pratica dovevamo ricostruire una sfilata del carnevale tre mesi dopo che il vero carnevale aveva avuto luogo. Gli chiedemmo se la sua scuola era disponibile e quale sarebbe stato il costo. Il presidente rispose che sarebbe stato felice di partecipare con i suoi allievi, che i costumi erano disponibili e che la produzione avrebbe dovuto pagare solo i pullman per portare tui i ballerini sul luogo di lavorazione. In cambio voleva solo una citazione della scuola nei titoli del film. Il direore di produzione balbeò emozionato: “Domani avrà la leera con l’impegno firmato.” Mentre stavamo uscendo, andai a sbaere contro una ragazza che stava facendo dei salti acrobatici. Mi scusai e la guardai bene, fisico perfeo e un gran bel viso. Nella sceneggiatura il personaggio interpretato da Riccardo Cucciolla tenta di sedurre una bella ragazza. Lei sarebbe stata

perfea. Le proponemmo di recitare nel nostro film. Lei ci rispose con un salto acrobatico e ripetendo sì… sì… sì… Si chiamava Norma. Iniziammo le riprese. Le prime erano su un barcone ormeggiato, seminascosto, su uno dei moli del porto. All’interno si trovavano i tre che avrebbero dovuto aprire la cassaforte della diamantifera. Sono nascosti e stanno discutendo. Girammo molti ciak, andava tuo bene. Tra loro c’era anche Kinski che ogni tanto sbarellava, ma solo quando non era di scena. ando recitava era perfeo. Lavorammo intensamente per diversi giorni, finché arrivò il momento di filmare il carnevale. Vera era rimasta a Roma. Parlavo con lei ogni sera, le raccontavo di Kinski e dei ciak. ando le dissi che stavamo per filmare il carnevale, decise di raggiungermi a Rio per stare un po’ accanto a me e assistere alla sfilata della scuola di samba. Mandai un’auto della produzione all’aeroporto, io ero impegnato nelle riprese in un appartamento trasformato dallo scenografo nell’abitazione di Mary Anna, la segretaria del presidente della società diamantifera, interpretata da Janet Leigh. Alla fine delle riprese raggiunsi Vera in albergo, le comunicai che quella sera, in un salone dell’hotel, ci sarebbe stato un brindisi con il presidente della scuola di samba, gli aori e alcuni nostri collaboratori. Mi rispose che sarebbe senz’altro intervenuta dopo essersi un po’ riposata dal viaggio. Nella sala gremita mancava solo Kinski, c’erano gli aori e alcuni allievi della scuola danzavano alla musica di Morricone. Alzammo i calici per un brindisi di ringraziamento al presidente della scuola. Norma era scatenata, l’ennesima giravolta la posò davanti a me, mi guardò negli occhi e mi aggiustò la cravaa con fare complice. Sentii una voce alle mie spalle: “Tira giù quelle manine o te le taglio.” Norma abbassò in frea le braccia e si allontanò con un’altra piroea. Vera la seguì con lo sguardo e poi mi sorrise: “Visto come scappa?”

Felice di averla con me, andai al centro della sala e annunciai: “Signori, è arrivata Vera!” Si avvicinarono tui a salutarla con affeo, baci da Cucciolla e da tanti altri, anche Edward G. Robinson si avvicinò a braccia aperte, le presentai Janet Leigh e, entusiasticamente, il presidente della scuola di samba. Dopo aver visionato l’organizzazione delle riprese nella strada dove sarebbe sfilato il corteo, andai a parlare con il direore della fotografia e con gli elericisti che erano ancora al lavoro per piazzare le impalcature e sistemare il proieore di luce. Avrei usato due macchine da presa, una in alto per il totale della strada e una a livello del marciapiede. Il sole stava tramontando, accendemmo le luci. Salii alla postazione di ripresa in alto dove Vera mi aspeava osservando meravigliata i preparativi colossali. Arrivarono puntuali i pullman dai quali iniziarono a scendere gli allievi della scuola con i loro costumi sgargianti, le maschere e i volti truccati. Vera, accanto a me, non riuscì a traenere un ammirato “straordinario…” Con l’aiuto di Pablo spiegai al direore della scuola che il corteo sarebbe dovuto sbucare dalla strada sulla destra appena il tecnico del suono avesse fao partire la musica. Fra le comparse già sistemate sul marciapiede si erano infilati tanti curiosi e il numero degli speatori era enorme. Direore della fotografia e tecnico del suono diedero il segnale che erano pronti. Pablo, al microfono, diede istruzioni alle comparse: appena la musica inizierà e apparirà il corteo, tui dovranno applaudire. Aggiunse che era una prova e poi sarebbero iniziate le riprese. Al mio via dagli altoparlanti partì la musica di Morricone, il corteo spuntò dalla curva e avanzò ballando, si alzarono gli applausi, gli speatori erano entusiasti, applaudivano e ballavano anche loro. Il corteo continuava a sfilare, erano magnifici, perfei. Potevamo girare.

Pablo al microfono urlò: “Stop. Potete tornare al posto di partenza.” Non accadde nulla. Il corteo continuava la sua marcia cantando e danzando, e lentamente sparì dietro l’angolo della strada. Fermammo la musica. “Stop! Stop!” continuava a gridare Pablo nel megafono e anch’io sbraitavo. Il direore e altri della produzione si precipitarono in strada per fermarli ma dalla nostra postazione sentivamo le loro voci che non smeevano di cantare anche in assenza della musica. Si sentivano sempre più lontani. Eravamo preoccupati ma dopo poco, il tempo di fare a ritroso il tragio per tornare al punto di partenza, furono di nuovo pronti. Il direore della scuola arrivò ansimante e disse a Pablo di tradurmi: “Troppo bella quella musica… hanno perso la testa…” Ora finalmente potevamo girare. Vera sarebbe andata con altri a fare da argine alla fine della strada. Prima di andare mi disse: “Non passeranno, te lo promeo!” “Ciak. Musica. Azione.” Fu un’esibizione straordinaria davanti un pubblico eccitatissimo. Sembravano tornate le noi del vero carnevale. E il carnevale continuò anche senza la musica. Macchinisti ed elericisti finirono di lavorare alle 7.30 del maino. Decidemmo di prenderci un giorno di festa. Io e Vera ce ne rimanemmo a leo a commentare la serata, a ridere del corteo scomparso. Il sonno ci colse abbracciati, come sempre. Riprendemmo il lavoro con le riprese del furto alla compagnia diamantifera. Riccardo Cucciolla, Klaus Kinski e Robert Hoffmann erano pronti a scassinare l’enorme cassaforte. Chiesi a Vera di starmi vicino e assistermi. Le riprese avvennero in un clima sereno e amichevole. Perfino Kinski sembrava tranquillo. Finita la lavorazione, l’aore tedesco si dileguò come sempre, rimasero Cucciolla e Hoffmann che mi raccontarono di aver assistito anche loro alla sfilata del corteo cantando e

ballando il samba, travolti come gli altri dal clima magico di festa. Uscendo dal set sentimmo un gran vociare e degli insulti che volavano. Vera mi indicò un camion degli arezzisti circondato da tanti tecnici della troupe. Arrivammo di corsa e vedemmo Armando, il capo macchinista, seduto sul predellino del camion con la faccia trasfigurata dal dolore. “Cos’è successo?” Tui si fecero in quaro per raccontare, noi guardavamo Armando che, scuotendo la testa e borboando, si teneva con la destra un dito della mano sinistra. Alla fine delle riprese, raccontarono, Kinski si era avvicinato e con grande cortesia aveva chiesto se qualcuno voleva giocare a flic-floc con lui. Nessuno sapeva cosa fosse, così lui si rivolse ad Armando e gli chiese insistentemente di dargli un dito. Appena Armando gli porse l’indice della mano destra, Kinski l’afferrò, borboò flic-floc e con violenza gli torse il dito fino a spezzarlo. Urlo di Armando e fuga del tedesco. Eravamo increduli. Vera, che stava ascoltando spaventata, commentò: “Aveva ragione il direore della Constantin, è follia pura.” Sentimmo Armando, a testa china, borboare: “lo… lo ammazzo… lo devo amazzà…” Chiamammo un’ambulanza per portarlo in ospedale. Poi chiesi a Vera di seguirmi. Dovevamo parlare con Kinski. Arrivammo all’hotel, io ero imbestialito e Vera più di me. Ci aprì, non gli permisi di parlare, lo afferrai per il collo e lo sbaei più volte contro una parete. Vera, in tedesco, gli urlò nell’orecchio il suo intero repertorio di insulti. Kinski provò a balbeare qualcosa. Uscimmo sbaendogli la porta in faccia. Vera dovee partire, gli impegni la chiamavano a Roma. Noi dovevamo continuare la scena iniziata nella stessa location. Cucciolla e Hoffmann erano pronti, Kinski arrivò in ritardo accompagnato da due brasiliani, collaboratori di produzione, che dovevano proteggerlo. Non sarebbe stato facile ricreare il clima amichevole che c’era prima del flic-floc. Ma davanti a me avevo dei grandi

aori, in grado di simulare e rappresentare tui i sentimenti. Le riprese andarono avanti senza troppi intoppi ma durante l’ora di pausa il tedesco si nascose in un angolo della stanza lontano da tui e rifiutò il cibo. Il lavoro, per quel giorno era finito, la tensione era stata palpabile nonostante Armando non fosse ancora tornato dall’ospedale. La presenza dei brasiliani che scortavano Kinski non aiutava a rasserenare gli animi. Mentre tornavamo all’hotel, il direore di produzione mi disse che Armando era uscito dall’ospedale con la mano ingessata. Era furioso e non vedeva l’ora che finissero le riprese per pareggiare i conti. Era anche spaventato. “Che facciamo?” “Vediamoci in ufficio” risposi io. Io e il direore di produzione stavamo guardando il piano di lavorazione, la situazione era diventata insostenibile e stavamo rischiando di buare a mare tuo il lavoro fao. Per fortuna la lunga sequenza del furto era finita, il montatore, che aveva visto il materiale in technicolor, aveva confermato che non c’era bisogno di rifare nulla. Mancava solo una sequenza con il tedesco, da girare quaro giorni dopo. Verificammo sul copione, la scena era breve e poco significativa. Mi fermai a pensare. Come potevo eliminarla senza modificare il copione? Rilessi il passaggio: “Sale in macchina con Cucciolla e Hoffmann e mentre la macchina percorre una strada dice la bauta…” Pensai a Vera, mi mancava e in casi come quello mi sarebbe stata di aiuto. L’altro, seduto davanti a me, aspeava una risposta. Gli risposi con un sospiro. Poi dissi tuo di un fiato: “Riprendiamo una controfigura di spalle mentre sale sull’auto. La bauta che doveva dire in macchina può essere tagliata. Il signor Kinski ha finito.” Sospirò anche il direore di produzione. Poi, come fosse una liberazione, esplose: “Evviva! Vado in albergo, lo carico in macchina, lo porto all’aeroporto e lo meo sul primo aereo che parte per l’Europa.”

Poi però, abbassando un po’ la voce: “Come glielo dico ad Armando che il bastardo è partito?” “Tu digli che se gli avesse fao del male sarebbe finito in galera e avrebbe messo in difficoltà la produzione. In bocca al lupo.” “Farò così, speriamo che capisca.” *** Rimanemmo ancora due seimane a lavorare a Rio, poi finalmente a casa. A Roma finimmo di girare alcune scene con Robinson e Adolfo Celi, altre con Cucciolla. Lavorammo bene, l’unico sempre imbronciato, e con il dito ingessato, era Armando. Il film stava finendo, eravamo pronti a girare l’ultima scena, quella che avrebbe chiuso il film. In uno spiazzo davanti al Colosseo, lo scenografo aveva sistemato un bar con sedie e tavolini soo un capannone. Erano di scena Janet Leigh e Edward G. Robinson. ando dissi: “Stop. Buona questa. Abbiamo finito,” fu per tui un momento di commozione. Vera venne ad abbracciarmi, gli aori a salutarmi. Andai a ringraziare tui i nostri collaboratori. Dopo aver visto in moviola il materiale girato e stampato, Papi e Colombo, i produori, mi regalarono una seimana di riposo tua per me. Vera e io decidemmo di andare a Procida per riabbracciare quelle meravigliose persone che erano i suoi genitori. Nel grande giardino, seduti soo un albero di fico, ascoltavo le storie del comandante: l’amicizia con Arturo Toscanini, con John Rockefeller e con tanti aori americani ed europei che araversavano l’oceano sui transatlantici italiani. Fu allora che capii perché la grande arice Vera Vergani, la prima interprete dei Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, avesse lasciato il teatro per diventare la signora della sua vita. Tra tui i successi che aveva avuto come arice, il vero trionfo fu il matrimonio con quel signore elegante, spiritoso, generoso. Ascoltavo i suoi racconti, la grande bellezza degli arredi, delle feste, dello sfarzo delle favolose serate danzanti. Ma anche delle

tremende burrasche, con tui i passeggeri chiusi nelle loro cabine. Ascoltando viaggiavo anch’io, ma sul mare calmo della sua voce. La madre di Vera faceva di cognome Podrecca, storica famiglia che aveva ideato il celebre teatro delle marionee e fondato L’asino, il seimanale di satira politica. La mamma di Vera sposò Vergani e oltre alla figlia ebbe un figlio, Orio, diventato un celebre giornalista e scriore, considerato il primo fotoreporter italiano. La meravigliosa ragazza esordì giovanissima in teatro come arice con la regia di Dario Niccodemi. Grandi successi. Colta, simpatica, ricca di talento, conquistò le platee non solo italiane. ando sposò il comandante Pescarolo, Vera abbandonò il teatro, fra polemiche e rimpianti. Anche Mussolini le inviò un telegramma, “ordinandole” di non abbandonare il palcoscenico. Lei strappò il messaggio. ando il comandante andò in pensione, andarono a vivere a Procida dove lui era nato, in un magnifico appartamento circondato da un grande giardino. E dove li ho conosciuti io: che fascino la Vergani, che sorriso, che bellezza. anti bei racconti. Amava la musica, l’opera lirica. Nei pomeriggi, seduti sulla poltrona del saloo, cantavamo “le stelle sono tante, milioni di milioni” e ridevamo insieme. A volte mi chiedeva una romanza e io: “Di quella pira, l’orrendo foco.” Confesso di essermi innamorato della mamma della mia Vera figlia. Stesso nome e stesso splendore. Dopo Procida, io e Vera andammo in collina a Parodi Ligure dove mia mamma Beatrice passava l’estate in una casea con un panorama mozzafiato sulle colline di Gavi. Volevo presentarle Vera. Arrivati sulla terrazza, mia madre stava già sulla porta in aesa. Mi avvicinai per baciarla ma lei mi scostò: “Lascia passare prima lei.” Si abbracciarono. In un aimo Vera aveva conquistato anche Beatrice. I giorni di quella seimana festiva trascorsero magnificamente, soltanto troppo veloci. Tornammo a Roma. A tavola mi feci raccontare da Elisabea della scuola che aveva appena finito, un liceo artistico che frequentava con

passione, e dei suoi programmi per l’estate. Era piacevole conversare con le mie donne. ando la ragazza ci lasciò, finito di pranzare, e mentre prendevamo il caè, Vera mi raccontò che Elisabea per andare a scuola, faceva l’autostop. Non mi sembrava una buona notizia. Più tardi andai nella stanza della ragazza e la trovai che stava disegnando. “Scusa, ma è vero che fai l’autostop per andare a scuola?”, e lei: “Sì, tue le maine. Scendo in strada, faccio il classico segnale con il pollice e qualche macchina si ferma sempre.” Restai un po’ confuso poi, con cautela provai a dirle: “Non hai paura che potrebbe capitarti qualche tipo strano, qualche…” Mi interruppe: “Strano? Una volta uno stronzo di una certa età mi fa salire e dopo un po’ allunga la mano. Io guardo nello specchieo e vedo che dietro non ci sono auto. Allora tiro forte il freno a mano, lui sbae la testa contro il volante e si mee a urlare. A quel punto la macchina è ferma e io sono scesa. Lui è ripartito a razzo. Ho aspeato pochi minuti poi un’auto di un signore gentile si è fermata e mi ha portato fino all’ingresso della scuola.” Rimasi senza parole. Ma avevo capito, senza possibilità di sbagliare, che Elisabea, esaamente come sua madre, sapeva difendersi da sola. *** Dopo un lungo lavoro di montaggio la prima copia di Ad ogni costo era pronta per la proiezione. Papi e Colombo avevano invitato nei saloni della Technicolor i dirigenti della Constantin Film e della Coral, società coprodurice spagnola. ando si riaccesero le luci ci furono applausi, complimenti e stree di mano. Tui soddisfai, compreso il sooscrio. Papi e Colombo distribuirono sorrisi a tui. Il giorno dopo organizzai un’altra proiezione per Vera, per lo scenografo e per alcuni della troupe. Venne anche Armando, senza gesso e nuovamente sorridente. Alla fine erano tui felici e orgogliosi. Ad Armando chiesi sorridendo: “Non mi stringi la mano?” E lui: “Perché, vuoi fare flic-floc?” Il primo giorno di programmazione io e Vera decidemmo di andare a curiosare davanti al cinema più grande di Roma.

Arrivammo che stava per iniziare la proiezione delle 20.30. Il vasto piazzale era invaso dalle auto. Stavamo cercando un parcheggio quando il posteggiatore si avvicinò per avvertirci: “Se cercate un posto per annà ar cine, lassate perde, è stracolmo.” “Ma davvero?” faccio io con allegria. E lui: “Avoja! Mòrti c’hanno provato ma so dovuti annà via…” Guardai Vera, tirai fuori dalla tasca diecimila lire e gliele allungai. Lui guardò i soldi e balbeò: “Ma perché?”, e Vera: “Perché lei è tanto simpatico.” Ingranai la marcia e partimmo. Mentre il nostro amico parcheggiatore borboava: “Siete i primi che se non ponno annà ar cine so contenti.” Guidavo e cantavo: La sala è gremita tataata e io sono felice tataata epperò è proprio vero tataata che anche Vera lo è tataata E lei: Ci puoi giurare tataata… Cercammo un buon ristorante per bancheare, ora avevamo solo bisogno di buon cibo, buon vino e tanto amore. A fine serata Vera dovee aiutarmi ad alzarmi dalla sedia. Avevo bevuto troppo. “Come a Berlino, speriamo di non trovare i VoPos…” mi disse mentre si faceva dare le chiavi della macchina. Mi sdraiai sul sedile e mi addormentai all’istante. Dall’oltretomba sentii la sua voce lontana: “Sveglia, sveglia! Siamo arrivati.” Non mi rendevo conto di nulla e a occhi chiusi domandai: “Dove siamo?”, e Vera: “All’ospedale.” Provai ad aprire gli occhi: “Cosa dici?” “Be’, se avessi guidato tu saremmo finiti proprio là, al pronto soccorso!” ella noe Vera mi curò amorevolmente e sopportò con pazienza il mio ininterroo russare. Dopo qualche giorno andai alla Jolly Film per incontrare Papi e Colombo. Mi accolsero come un re, visto che avevano

appena ricevuto i risultati: il nostro film era primo al boeghino. L’entusiasmo era alle stelle. La Constantin Film lo stava già doppiando in tedesco e aveva fao sapere che diversi paesi erano interessati all’acquisto. Colombo non stava nella pelle: “Dobbiamo pensare subito al prossimo film con la tua regia. Devi esserci tu, ad ogni costo.” Il gioco di parole lo divertì molto. Ci salutammo con calore e io me ne tornai a casa felice. Con Elisabea parlammo molto del film. Lo aveva appena visto insieme ai suoi compagni di scuola. Io e Vera ascoltavamo le sue impressioni e quelle dei suoi amici, ci raccontava che durante la rapina avevano sentito brividi di tensione. E poi belli i costumi, bella la musica e bravi gli aori. Del regista niente. Aesi che finisse di raccontare e le chiesi sorridendo: “E del regista cosa pensi?” E lei: “Mi piacerebbe conoscerlo.” Tornai serio: “Stasera lo invito a cena.” ella sera arrivai a casa con un po’ di ritardo. Suonai il campanello, mi ero vestito elegante e avevo un mazzo di fiori in mano. Elisabea aprì la porta e mi guardò stupita. E io: “Buona sera, sono il regista!” Ci abbracciammo ridendo. *** Passarono alcuni mesi, io stavo valutando alcuni copioni mentre Vera stava realizzando dei documentari sulle bellezze spesso nascoste del nostro paese insieme al regista francese Jean-Marc Levin. Il regista si era affezionato a lei e io, lo confesso, ero un po’ geloso. Vera era riuscita a convincere i produori francesi e tedeschi che l’unica società ideale per seguire la lavorazione era la Clodio di suo fratello Leo Pescarolo. Un buon modo per riportare pace e serenità in famiglia. Ricominciarono così le divertenti e prelibate cene a casa di Leo, grande chef e grande affabulatore. Tra un bicchiere e l’altro Jean-Marc, uomo elegante e raffinato, con un grano di follia che mi ricordava un nobile spagnolo, mi raccontò come

grazie alla collaborazione con Vera fosse sempre riuscito a filmare in tue le location italiane, anche nelle più improbabili. L’affeo e la gratitudine che provava per lei era talmente grande che a un certo punto si lasciò andare a un estasiato: “Io amo Vera!” Lo guardai freddamente, lui mi sorrise. A fine cena gli ospiti si alzarono per andare nello studio di Leo. Io bloccai Jean-Marc e gli dissi con durezza: “Se ti permei di dire un’altra volta che ami Vera, ti spacco la faccia.” Il bel giovanoo rispose: “Ma è solo un modo per esprimere il mio grazie alla tua bellissima signora per tuo il lavoro che fa per me.” Una breve pausa, poi: “Sei una delle poche persone a non aver capito che io non posso amare le donne. Io sono… dall’altra parte. Puoi stare tranquillo!” In effei mi sono tranquillizzato. *** Elisabea era a Genova a trovare l’altra nonna per le vacanze di Pasqua. Vera si era liberata dal lavoro per qualche giorno e decidemmo di andare a Procida in auto. Da Pozzuoli partivano vecchie navi, residuati bellici, che collegavano Procida e Ischia. Posteggiai l’auto sul molo e salimmo sul tragheo. Fummo accolti, come sempre, con grande affeo. La nostra alcova era pronta. Passarono i giorni tra pranzi e passeggiate, verso le scogliere più lontane e con la vista migliore. Il mare era splendido, il tempo un po’ meno. Vennero a trovarci alcuni amici, una giovane coppia che, entusiasticamente, ci raccontò di aver visto il film al cinemino dell’isola. Per fare il modesto proposi di restituire loro i soldi del biglieo, ma la ragazza rispose: “Magari, così vado a rivederlo!” Le noi procidane non offrivano grandi occasioni di divertimento, la casa di Vera era il centro mondano e culturale dell’isola ma quando era possibile ce ne stavamo per i fai nostri. Il lunedì di Pasqua, di primo maino, mi telefonò da Milano un produore di spot pubblicitari. Mi voleva offrire un lavoro, ben retribuito, ma dovevo essere presente

l’indomani a Milano per l’incontro con l’agenzia che si sarebbe occupata dello spot. Partimmo subito. All’arrivo del tragheo a Pozzuoli, trovammo la nostra auto bloccata da altre veure parcheggiate tue intorno. Sicuramente villeggianti che se ne erano andati a Ischia o Procida. Inutile aspearli. Un marinaio a cui chiesi consiglio mi suggerì di far arrivare dal mare un pontone. Se voleva fare lo spiritoso, io non ero disponibile, dovee accorgersene perché se ne andò senza che lo invitassi io a farlo. Seduti su una panchina, consideravamo le varie opzioni. Tue irrealizzabili. Il problema si faceva serio. Vidi un vigile che camminava solitario sulla banchina. Il lunedì di Pasqua. Lo raggiunsi e gli raccontai il dramma, calcando un po’ la mano: “Devo andare a Milano per girare un film, domani iniziano le riprese. È un disastro! elle auto stanno bloccando la mia.” Mi fissò intensamente, poi osservò Vera che si stava avvicinando. Un cenno di saluto a lei e poi: “Voi siete Pescarolo, giusto? Vi conosco. Sedetevi sulla panchina e aspeate.” Con passo stanco si allontanò verso la cià. Ci sedemmo su una panchina poco lontano continuando a valutare le opzioni per arrivare a Milano, con o senza macchina. Dopo una trentina di minuti si presentò un uomo in tuta blu da meccanico accompagnato da un ragazzino che reggeva un enorme mazzo di chiavi. “Siete voi che avete bisogno? Dov’è la macchina?” Era una maina piena di sorprese e lo accompagnai con una certa curiosità. Si misero subito al lavoro. Dopo una rapida selezione visiva, estrasse dal mazzo del ragazzino la chiave giusta, aprì, tolse il freno a mano, e con l’aiuto mio e del ragazzo spostò di qualche metro la prima macchina. Stessa operazione per altre due. “Via libera,” mi disse. Feci per tirare fuori il portafogli ma lui mi prese una guancia e con un buffeo disse: “State in buona salute,” e se ne andò seguito dal giovane e silenzioso assistente.

Potevamo partire. In macchina, Vera mi disse: “Hai capito chi era quello, vero? Il ladro d’auto di Pozzuoli. Lo conoscono tui.” Lasciai Vera a Roma e proseguii per Milano dove incontrai un produore e una agenzia pubblicitaria che conoscevo. In una seimana di lavoro con un giovane direore della fotografia milanese lo spot era finito. Lavorare in pubblicità mi divertiva perché si traava di farsi venire delle idee che risolvessero in modo originale e lampante il filmato brevissimo. Era un mondo completamente diverso da quello del cinema, qui bisognava far entrare in pochi secondi in testa al pubblico un prodoo commerciale creando un’immagine indelebile, ed era un esercizio che mi interessava. Ebbi un’idea che rimase nella storia della TV. L’aore Nino Castelnuovo, reduce dal successo dello sceneggiato televisivo dei Promessi sposi dove interpretava Renzo Tramaglino, doveva convincere in pochi secondi della leggerezza dell’olio di semi. Era un ragazzo atletico, così mi inventai come dimostrazione il “salto della staccionata” che divenne un simbolo di successo, tanto che per quello spot ricevei dai produori dell’olio la staccionata d’argento. Ma quel lavoro per me era un gioco che mi stancò presto perché mi si chiedeva di prenderlo troppo seriamente. In uno degli ultimi lavori che svolsi si traava di celebrare una già celebre caramella. Alla prima riunione il proprietario dell’azienda mi guardò fisso negli occhi dicendo serissimo: “Ma lei, la caramella, la ama?” Risposi sorridendo: “No, non la amo. Però la stimo molto!” Scatenai l’ilarità generale, ma il cliente si offese e l’agenzia non mi cercò più. Ho poi realizzato altri spot ma quando in televisione mi è capitato di vedere un mio film interroo da due miei spot pubblicitari ho capito che era il momento di dire basta. Tornato a casa, mi resi conto che Vera mi doveva parlare, era un po’ reticente ma dopo qualche sollecito confessò che voleva cambiare casa. Voleva trovare un appartamento spazioso nel quartiere Prati, non lontano da piazza Mazzini,

dove c’è il palazzo della Rai, possibilmente all’ultimo piano, con terrazza. “È una bella impresa,” fu il mio commento. Ma Vera era decisa, a Roma il traffico era in continuo aumento, lei per il suo lavoro andava spesso alla Rai e le sarebbe piaciuto raggiungerla a piedi. Inoltre non soovalutava le pubbliche relazioni e in una casa più ampia avrebbe potuto invitare a cena tui coloro, ed erano tanti, che ci aiutavano nel nostro lavoro, amava ricevere ed era un’oima e calorosa padrona di casa che meeva gli ospiti a loro agio con il suo fascino e la buona cucina. Poi passò a parlarmi di Elisabea che nel suo liceo era in prima linea nell’impegno politico che coinvolgeva gli studenti in quegli anni di fuoco. Si era perdutamente innamorata di un universitario sardo che aveva la stoffa del leader e che a Vera non piaceva nemmeno un po’. Pensai che la nostra Elisabea era bella e corteggiata, così le dissi: “Doveva succedere.” E Vera, seria: “È successo.” L’impegno immobiliare di Vera si scatenò. Appena aveva un momento libero percorreva le strade del quartiere Prati in lungo e in largo, alla caccia della scria “affiasi”, chiedeva ai portieri dei palazzi, entrava nelle agenzie. Le chiesi se voleva che l’accompagnassi. Mi rispose male, non si fidava, secondo lei avrei potuto scegliere anche un sooscala, mentre lei aveva bisogno di spazio, aria, vista e un terrazzo per le cene all’aperto appena avesse fao caldo. Mi arresi. *** Fu in quel periodo del 1969 che venni convocato alla Jolly Film. Mi precipitai. Dietro alla grande scrivania vidi solo Giorgio Papi, rimasi un po’ sconcertato ma subito sentii una voce alle mie spalle: “Ciao, caro amico.” Mi voltai, Arrigo Colombo era sdraiato su una poltrona. “Non sono in gran forma, mi sento stanco, debole. Oggi vado dal doore.” Continuò con voce fioca: “Speriamo bene,” incrociò le dita e sorrise: “Ma ora ascolta Giorgio, ha buone notizie.” Mi sedei davanti a Papi. “Abbiamo acquistato i dirii di un romanzo, Candyleg di Ovid Demaris, e Mino Roli ha

scrio l’adaamento. I dirigenti della Paramount l’hanno leo e sono pronti a coprodurre, e vogliono la tua regia.” Era effeivamente una buona notizia, ma qualcosa mi diceva che sarebbe stato difficile. Chiesi: “Dove è ambientato?” E Papi: “Stati Uniti, San Francisco, Los Angeles e Las Vegas. alche scena in teatro di posa a Roma.” Colombo, che si era accorto delle mie incertezze dalla sua poltrona, mi disse: “Devi farlo… ad ogni costo.” Lessi il soggeo, la storia di un gangster solitario e audace che sfida la mafia. Chiamai Mino Roli per complimentarmi, e per dirgli che si traava di un progeo non facile da realizzare. Dovevamo vederci per studiare insieme come scrivere la sceneggiatura. Confessai i miei dubbi a Vera. Secondo me il film doveva essere affidato a un regista americano. Mi chiese di cosa parlasse il soggeo. Provai a raccontarglielo: “Un gangster, Hank McCain, dopo quindici anni di carcere esce da San intino, fuori lo aende il figlio ventenne. Dopo qualche giorno, il giovane gli propone un colpo in un casinò di Las Vegas. Il furto riesce ma Hank non sa che i veri proprietari del casinò sono mafiosi di New York, persone ricche, sempre eleganti, feste, serate di gala in smoking.” E Vera: “A me sembra bello, affascinante. La mafia in smoking non si è mai vista al cinema. Cosa ti spaventa?” “Dovremo scegliere molti aori americani, e la troupe… sai, con il mio inglese traballante. E poi tanto tempo lontano… lontano da te.” La strinsi a me: “Dobbiamo lavorare insieme, solo tu mi dai forza e coraggio.” Vera mi guardò, si mise una mano sul cuore e disse: “Ti giuro, il prossimo film sarò accanto a te.” Per quanto la storia fosse ben scria, avevo delle perplessità sul progeo, dirigere un film d’intraenimento non mi sembrava coerente con il mio percorso rivolto verso lavori connotati dall’impegno politico e sociale. Inoltre avevo sempre girato film che raccontavano il mio paese, basati su realtà che conoscevo bene e non sapevo se sarei stato in

grado di affrontare una situazione tanto diversa. Mi preoccupava anche l’eventuale presenza nella produzione di una major americana, temevo che avrebbe condizionato la mia libertà di espressione artistica e per un istante mi sembrò di tradire il nostro valoroso cinema nazionale. Fu Vera a liberarmi da ogni dubbio e ogni pregiudizio. “Non devi aver paura di affrontare un progeo commerciale internazionale, sei bravo e ne sarai capacissimo, questo lavoro sarà un successo, aprirà la tua carriera a un pubblico più vasto e in questo momento difficile è quello che ti serve. Dopo l’esperienza di Algeri devi rimeerti in pista nel ruolo di regista, ogni esperienza fa crescere e tu diventerai sempre più bravo, io credo in te, non tirarti indietro, fagli vedere chi sei e in seguito ti faranno fare tuo quello che vuoi!” Le sue parole mi convinsero. E soprauo mi colpì quella sua fiducia incondizionata, mi dava una forza immensa che non credevo di avere. Iniziammo a scrivere la sceneggiatura con grande impegno. Roli aveva già abbozzato qualche sequenza, ma decidemmo di ricominciare da capo. Papi mi comunicò che gli americani avevano proposto come protagonista John Cassavetes. Sapevo che amava lavorare sempre con il suo gruppo di amici: Peter Falk, Ben Gazzara e un’arice magnifica, la sua pluripremiata moglie, Gena Rowlands. Io e Vera andammo a trovare la mia agente, la signora Carol Levi, che confermò il grande talento di Cassavetes, ma mi spiegò anche che era disponibile a interpretare solo film commerciali, in modo da incassare abbastanza soldi da destinare alla produzione dei film direi da lui. Cassavetes, allora quarantenne, era reduce dai grandi successi come interprete di ella sporca dozzina (1967) di Robert Aldrich e Rosemary’s Baby (1968) di Roman Polansky. Ed era conosciuto perché più di una volta era scomparso prima di aver girato le ultime inquadrature del suo personaggio. In un paio di mesi la prima stesura della sceneggiatura fu pronta e tradoa in inglese.

Al direore di produzione chiesi che tue le scene ambientate negli uffici della mafia di New York e le sequenze delle feste fossero girate a Roma. Condivisi con Vera tuo il lavoro, anche se non aveva incarichi ufficiali. Avevo bisogno della sua opinione. Discutemmo a lungo a chi affidare i ruoli di alcuni di quei personaggi eleganti e duri. Fummo d’accordo su Salvo Randone (il padrino), Gabriele Ferzei (il vice), e la sua donna, Florinda Bolkan. Si doveva scegliere il casinò di Las Vegas per alcune scene del film, Papi fu irremovibile e dovei prepararmi a partire. Mi avrebbe accompagnato Ralph Serpe che avevo conosciuto due anni prima durante una serata in suo onore. Ralph era amico di tanti produori cinematografici, industriali e politici. Papi gli aveva telefonato, mi avrebbe aspeato a New York e insieme saremmo andati a Las Vegas. Mi avrebbe presentato al direore dell’hotel, il Casinò Sands, del quale era molto amico. Chiesi a Vera se ricordava Ralph Serpe. Si illuminò: “Come no! Lo ricordo benissimo, ha la faccia uguale al cognome, ma quando parla con il suo misto di italiano e americano è simpatico. Conosce mezzo mondo. Coraggio, e buona fortuna.” Si mise in posa davanti a me come una donna fatale: “ella sera Mr Serpe mi aveva deo che ero elegante e bellissima.” Ecco un buon viatico per l’incontro. Le risposi a muso duro: “Per fortuna non ho sentito, sennò…” e le strinsi il pugno destro davanti al naso. Finalmente arrivai a New York. Nell’ufficio di Serpe ero seduto davanti a lui per programmare il viaggio americano. Era effeivamente un simpatico individuo, sempre agitato. Nel suo italiano improbabile mi diede una prima notizia non allegra: era oberato da impegni urgenti e non avrebbe potuto accompagnarmi. Aveva già organizzato tuo, compresa la telefonata al suo amico Martino, il direore del casinò, che mi stava aspeando.

Chiamò Taormino, il suo segretario, e in dialeo siciliano gli disse di accompagnarmi subito in albergo e l’indomani maina in aeroporto. Ralph mi abbracciò con grande affeo e mi lasciò nelle mani del fido segretario, uno spilungone, che prese la mia valigia e mi accompagnò all’albergo a poche centinaia di metri dall’ufficio, nel cuore della grande mela. Ero stanco e dopo una cena leggera me ne andai in camera. Telefonai a Vera e crollai. Venni svegliato alle 6, l’auto con Taormino era già davanti all’ingresso. Provai a pagare gli extra, ma il sussurro che mi arrivò da dietro le spalle mi dissuase dall’insistere: “Tuo pagato. Buon viaggio.” Arrivai a Las Vegas nel pomeriggio e un autista mi portò direamente all’hotel Sands, un imponente palazzo appena costruito. Per la verità, tua Las Vegas era stata appena costruita, nelle strade i pedoni erano pochi, ma nella hall dell’hotel c’era la folla. Alla reception domandai del signor Martino a un impiegato che mi chiese tuo agitato se avessi un appuntamento. alche minuto dopo arrivarono due guardie per accompagnarmi agli uffici. Nella sala d’aspeo ero solo, un po’ timoroso, mentre i minuti trascorrevano nel silenzio assoluto. Finalmente una guardia armata mi invitò a seguirlo in un lungo corridoio fino a una grande porta dove mi affidò a due altre guardie, anche loro armate. Mi fecero entrare in un salone enorme con le pareti completamente spoglie, mi indicarono una poltrona dove accomodarmi e richiusero la porta. Davanti a me una grande scrivania totalmente sgombra e dietro un grande pannello di vetro smerigliato illuminato da una luce intensa con l’evidente scopo di abbagliare gli ospiti. Dopo poco entrò un signore altissimo e vestito con eleganza. Camminava come un cavallo (tempo dopo mi confidarono che per una vendea mafiosa gli avevano tagliato le dita dei piedi), andò a sedersi alla scrivania, in silenzio. Provai a presentarmi: “My name is Giuliano Montaldo, and I’m an italian movie director. is is my script” e dalla valigia estrassi la sceneggiatura. Mi rispose in una lingua tua sua: “Parla italiana, che io te capisco bene

assai.” Risposi: “Grazie, signor Martino, il mio inglese is very bad.” Gli porsi la sceneggiatura e dissi: “Alcune scene le vorremmo girare in questo magnifico casinò.” Lui, guardandomi negli occhi, arrotolò la sceneggiatura e mi disse: “Chisto te lo ficchi in culo!” Lo guardai a bocca aperta. “Tu me dai chisto,” sbaé la sceneggiatura sul tavolone, “poi sciuti un’altra cosa. i è nu posto dove si gioca e non si arrubba. Se tu dici che si rrubba poi io te piggio pè a pelle do’ culo, tu e tua l’equipe tua e ve sbae’ fuori d’o Nevada.” Aesi un po’ turbato che finisse il suo sfogo, poi, con calma, gli spiegai che nel film non esisteva la parola rubare. Il dialogo finì così. Mi sorrise e mi strinse la mano. La mia era sudata. Forse, con le mie poche parole, quel giorno salvai il culo mio e anche quello della mia troupe. Chiamai Vera per raccontarle l’incontro con Martino. Le spiegai che era un uomo di grande cultura, parlava solo di libri, di film, di mostre d’arte. E che era entusiasta della nostra sceneggiatura. Vera era stupita e incredula, così tagliai corto: “Poi ti racconto, ciao amore.” Dalla mia camera all’ultimo piano dell’hotel ammiravo le luci della cià e le insegne multicolori dei tanti alberghi e casinò. Il giorno dopo mi venne a prendere uno dei soopancia di Martino, il signor De Flora, al quale mi aveva affidato per farmi visitare il casinò. Mentre mi accompagnava per i lunghi corridoi osservai l’infinita sequenza delle slotmachine pronte per gli ospiti. Percorremmo grandi scaloni con gigantografie delle sale alle pareti finché raggiungemmo la sala più grande con altre centinaia di slot-machine e un’infinità di tavoli da gioco. Sul fondo della sala si vedeva un palcoscenico con sedie e leggii. Era pomeriggio ma c’era già molta gente. Ci fermammo a osservare la folla dalla balaustra di uno scalone, da dove si potevano cogliere le rare grida di gioia di chi vinceva e i gesti di sconforto più frequenti di chi perdeva. De Flora mi raccontò che il casinò apriva alle undici del maino e chiudeva alle due di noe ed era sempre molto animato. Osservai a lungo la sala, era sterminata ma

soprauo stracolma di gente. Mi convinsi che in quell’immenso spazio non saremmo potuti entrare con la macchina da presa senza bloccare l’intero casinò e farlo sarebbe costato una fortuna. L’unica soluzione era ricostruire una parte della sala in un teatro di posa e chiesi a De Flora se fosse possibile avere qualche foto per la documentazione. In pochi minuti mi preparò una grande busta con parecchie fotografie. Poi mi accompagnò all’aeroporto. Al momento di salutarmi mi confessò che sperava di rivedermi presto perché a lui piaceva molto il cinema. Confessione per confessione, gli dissi: “È una vita dura, ma piace anche a me.” In volo da Las Vegas a New York pensai a come rifare quella sala immensa, forse se ne poteva realizzare solo una parte ma certamente non potevamo filmare nella grande sala giochi di Las Vegas. A Fiumicino raccolsi la mia valigia e mi diressi in frea verso l’uscita. Volevo tornare a casa in frea ma appena superato il varco doganale sentii una vocina: “Giulianino…” Un bambino mi sta chiamando? Poi di nuovo: “Giulianino bello…” Finalmente vidi la mia bambina Vera, mollai la valigia e corsi da lei. La coprii di baci e la abbracciai con tuo l’affeo possibile, tra i sorrisi compiaciuti e lo stupore delle persone. Mentre ero totalmente dedicato a Vera sentii baermi sulla spalla. Un signore mi guardava con severità: “Non si devono abbandonare le valigie, le possono rubare. Tenga!” e mi sbaé la valigia per terra. A Roma mi aendevano brue notizie. Andai alla Jolly Film per incontrare Giorgio Papi al quale raccontai l’indimenticabile incontro con Martino. Giorgio mi sembrò distrao, quasi disinteressato. Aesi in silenzio spiegazioni, poi, con un sospiro, mi rivelò che Arrigo stava male, era ricoverato in clinica in aesa di un’operazione allo stomaco. Mi guardò con gli occhi lucidi: “Domani vado a trovarlo. Vuoi venire con me?” “Sì, certo.” Il giorno dopo, Giorgio e io entravamo nella camera di Arrigo alla clinica isisana. Era pallido, sdraiato nel grande leo, e vedendoci abbozzò un sorriso. Con voce flebile ci

parlò delle sue condizioni, di lì a pochi giorni sarebbe stato soo i ferri. Iniziai a raccontare l’avventura di Las Vegas sperando di vedere un qualche segno di interesse da parte sua ma quasi subito mi interruppe con un gesto della mano. Calò il silenzio. Arrigo aprì gli occhi e prese fiato: “La Jolly Film deve cedere i dirii e la produzione a un’altra società. Giorgio da solo non può seguire un lavoro così impegnativo e io… eccomi qui…” Balbeai: “E la regia?” Papi sapeva tuo: “Il titolo del film è Gli intoccabili, il primo sei tu e poi gli altri collaboratori che abbiamo scelto. Cediamo le cose già fae.” Rimasi di sasso, al dolore per la malaia dell’amico si aggiungeva l’incertezza del futuro del film al quale mi stavo affezionando molto. Pochi giorni dopo si fece avanti la Euro International Film fondata dai conti Cicogna, Marina e il fratello Bino. La loro proposta venne acceata dalla Jolly Film e sarebbero stati loro a produrre e distribuire la pellicola. Ne parlai con Vera che li conosceva da tempo, soprauo Marina. I Cicogna erano una famiglia simpatica con ricche residenze. La mamma e il papà di Vera avevano incontrato spesso quei signori. Vera figlia era amica di Marina già dall’infanzia. Un po’ ciccioa da ragazzina, poi, da grande, un fisico da mannequin. Elegantissima, forte come un ragazzo, grintosa, gran lavoratrice. Era stata una seimana pesante e le brue notizie mi avevano sconfortato. “Hai ragione,” mi disse lei. “Troppe sorprese e tanta fatica, però con i Cicogna sei in buone mani, dobbiamo avere coraggio. Forza, amore mio.” Come sempre Vera mi stava spronando e mi stava dando fiducia nel futuro. Aggiunse, come se fosse un deaglio, che aveva trovato l’appartamento dei suoi sogni. Non potevo crederci, era una casa di Prati, in viale Mazzini, a pochi passi dalla Rai, all’ultimo piano con un terrazzo fantastico su due livelli e persino un gazebo di ferro bauto. Le camere e i due saloi erano ampi e con i soffii altissimi, una graziosa veranda dava sul terrazzo-giardino e la stanza di Elisabea

era piena di luce, posta davanti all’ingresso per consentire l’indipendenza dei suoi continui andirivieni. Iniziammo a lavorare con la Euro International Film. L’architeo Mogherini stava allestendo il salone del casinò nel teatro di posa più grande della società De Paolis. Stavano lavorando bene e in frea, in un angolo avevano già posizionato la cassaforte che McCain avrebbe dovuto sfondare con un ordigno esplosivo. Iniziammo le riprese nello splendido ufficio dove si riunivano i capi mafiosi. Era stato ricostruito in teatro un ambiente elegantissimo con una splendida vista su New York. Gli interpreti di quelle scene erano Salvo Randone e Gabriele Ferzei, grandissimi aori teatrali italiani, e lavorare con loro era facile e bello. Finalmente arrivò a Roma John Cassavetes, e con Marina Cicogna ci presentammo all’hotel per il benvenuto. Non ci volle molto per renderci conto che si traava di un personaggio piuosto complicato. La movimentata avventura con lui cominciò il giorno dopo, quando era fissato il debuo nel ruolo di Hank McCain. Lo scenografo aveva trovato un enorme capannone vuoto sulla via Salaria, McCain e il figlio dovevano avanzare in campo lungo dialogando. Era noe ed erano illuminati da una luce flebile. Iniziammo le prove. John camminava dondolando mentre il figlio era molto rigido. Non mi piaceva, cambiai obieivo e posizione della macchina da presa. Cassavetes non era d’accordo e non impiegò troppo tempo per dirmelo: “Perché cambi?” L’interprete tradusse. “Visti da lontano non sembrate padre e figlio.” Lui alzò la voce: “Non mi piace.” Alzai la voce anch’io. “A me sì.” I macchinisti e il direore della fotografia erano pronti per la nuova prova. I due avanzarono e John borboò qualche parola. Sperando in qualcosa di meglio diedi il ciak 1. Come nella prova Cassavetes, invece di parlare, borboò. Riprovai. Ciak 2, stesso borboio. Ciak 3, come prima. Guardai la tradurice, neppure lei aveva capito ed era ormai chiaro che il sabotaggio aveva uno scopo preciso, meere in dubbio la mia autorità di regista da parte di un altro regista che in

questo film faceva solo l’aore. E questo era eticamente inacceabile, contro ogni regola di un lavoro che per funzionare ha bisogno di una gerarchia condivisa e rispeata. Mi stavo innervosendo. Poi persi la bussola: scaai in avanti all’improvviso, lo afferrai e lo scaraventai contro la serranda del capannone. Lui cercò di reagire ma un macchinista lo bloccò. Io ero furibondo e lui offeso. Voleva risolvere la questione a cazzoi. Anche il direore di produzione tentò di fermarlo ma lui, urlando, lo respinse con violenza. Poi salì in auto e se ne andò. La troupe era sconvolta, tui si guardavano l’un l’altro senza parlare. Sicuramente non avevano mai assistito a una scena del genere. alcuno venne a consolarmi con affeo, io andai a consolare il giovane aore che stava piangendo. Era oramai noe fonda quando rientrai a casa, Vera mi aspeava in ansia ed era al corrente di tuo, aveva parlato più volte con Marina Cicogna. “Dovevi dargli un pugno!” mi disse appena mi vide e mi abbracciò forte. Nel mezzo della noe squillò il telefono. Marina aveva parlato con l’agente di Cassavetes. Le aveva deo che era molto arrabbiato e aveva parlato più volte di voler andarsene. Discutemmo di un’eventuale sostituzione ma ci fu presto chiaro che se lui avesse lasciato, il film era finito. Venne indea una riunione alla Euro International Film con tui i dirigenti e alcuni collaboratori. La signora Marina, quel maino, aveva ricevuto una telefonata dell’agente dell’aore che l’aveva rassicurata: Cassavetes non avrebbe lasciato il film, aveva bisogno di soldi per il suo prossimo lavoro da regista. Ma non potevo lasciare le cose così in sospeso quindi trovai la forza per dire: “Posso lasciare io…” Frase che venne accolta con un coro di no. Allora pretesi che Cassevetes chiedesse scusa a tua la troupe. Marina Cicogna fu d’accordo con me. Chiesi a Vera di accompagnarmi sul set, la sua presenza mi tranquillizzava e mi dava forza.

Feci preparare tuo come il giorno precedente, eravamo pronti. ando arrivò Cassavetes, prima di iniziare le riprese brontolò qualche parola che tui prendemmo come sue scuse. Potevamo iniziare. Il clima si era quasi rasserenato e sembrava che lui non volesse più fare il pazzo. Partimmo. Ciak 4. Buona. Ciak 5. Buona. Nella pausa, John tornò alla sua rouloe. Lo raggiunsi e quando aprì la porta, nel mio maldestro inglese, gli dissi: “Volevo comunicarti che lascio il film,” mi guardò con occhi da panico, poi mi afferrò per il bavero ripetendo: “Mai… mai… mai.” Tornai da Vera che aveva visto tuo e sorridendo mi disse: “Il ghiaccio è roo.” Passammo una seimana di lavoro con un Cassavetes più tranquillo, addiriura con qualche sprazzo di allegria. Nei momenti di pausa ci parlavamo quasi con amicizia anche se aiutati dalla tradurice. In uno di questi curiosi colloqui, che lui intendeva da regista a regista, mi disse anche che aveva capito che ero un buon aore tanto che nel suo prossimo film mi avrebbe voluto affidare un ruolo. Gli risposi che se il suo sogno era quello di sbaermi contro una serranda molto probabilmente sarebbe rimasto solo un sogno. John si mise a ridere, i nostri rapporti si erano distesi. Mentre sul set la seimana trascorreva in buona armonia, a Milano, Roma, Genova e tante altre cià italiane ci furono scontri violenti, tra manifestanti e forze dell’ordine. Il Movimento degli studenti che si era espresso fino ad allora con pacifiche manifestazioni oceaniche cominciava a essere infiltrato da provocatori che con la forza davano alla polizia il pretesto per intervenire. Elisabea e il suo ragazzo erano sempre in prima linea e non sapevamo se esserne fieri o preoccupati. Io stavo girando nella sala del casinò ricostruita negli studi della De Paolis. Vera aveva cancellato tui i suoi impegni per una seimana, per trovare dei figuranti credibili come americani. Ne servivano molti perché il casinò doveva essere affollato di gente ai tavoli da gioco e alle slot-machine.

Menczer, il direore della fotografia, era soddisfao, disse che sembrava di essere davvero al Sands di Las Vegas. Filmammo il totale del salone e girammo diversi deagli. indi passammo all’arrivo di McCain che si avvicinava alla cassaforte e nascondeva la borsa con l’esplosivo. Nella scena successiva lui si allontanava e quando usciva di scena inquadrammo solo alcuni deagli della cassaforte. Stavamo andando bene. Passammo quindi alla scena dell’esplosione, spostai le macchine da ripresa in posizione sicura, l’esplosione doveva smurare la cassaforte. Diedi il via, gli artificieri avevano però esagerato con l’esplosivo e la deflagrazione fu devastante. Un disastro. Lingue di fuoco sempre più alte, scintille in tuo il teatro. Terrore. Fuga. In un aimo tua la costruzione fu in fiamme. Nel giro di pochi minuti il teo del teatro crollò. Un vero dramma. Incredibile ma vero, nel teatro accanto stavano girando I 2 pompieri con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Le comparse in costume da pompiere fuggirono di corsa verso la strada prendendosi gli insulti di tui: “Dove scappate! Vigliacchi!” Ci ritrovammo nel piazzale dello stabilimento con l’intera troupe e le comparse. Per miracolo nessuno risultò ferito. Finalmente arrivarono i pompieri, quelli veri. Stava bruciando tuo, un vero disastro per i produori e per tui noi. Per fortuna le riprese che avevamo fao in precedenza erano abbondanti e avremmo potuto usare quelle per sopperire alla distruzione della sala. Partimmo per San Francisco per continuare le riprese il più presto possibile. Riprendemmo a girare nel carcere di San intino e filmammo l’uscita dal carcere di McCain. Poi ancora a San Francisco dove cercava nascondigli sicuri dalla mafia che lo stava braccando. indi ci spostammo a Los Angeles e continuammo a lavorare cercando di dimenticare il terrificante rogo di Roma. Vera era arrivata negli Stati Uniti per la vendita di prodoi televisivi francesi e tedeschi e mi fece la sorpresa di venirmi a

trovare. Arrivò accompagnata dalla giovane segretaria di una società cinematografica americana. Trascorremmo un paio di giorni felici, ne avevo davvero bisogno. Mentre ero a cena con Vera e la segretaria, si presentò il cassiere della produzione: per un problema bancario, i soldi spediti dall’Europa erano stati bloccati e di conseguenza lui non poteva pagare le diarie alla troupe e neppure alcune forniture. Dovrebbe essere un problema della produzione, non del regista, gli feci notare, ma i responsabili della produzione erano a Roma e il cassiere era disperato. Fu Vera a suggerire una soluzione: avrebbe anticipato lei i dollari necessari e se li sarebbe fai restituire dalla Euro International a Roma. Perché, ci rivelò, aveva ricevuto gli anticipi in dollari delle sue vendite. Il cassiere la guardò incredulo: “Ma lei è scesa dal cielo?” Girammo le ultime scene a San Pedro, uno dei moli periferici di Los Angeles. Nell’ora di pausa venne a trovarmi la giovane segretaria per comunicarmi che Vera, per impegni inaesi, doveva traenersi a New York per un’altra seimana. Pensai che a quel punto i soldi non sarebbero bastati. Ma Vera si era già preoccupata di chiamare Ralph Serpe per chiedergli il favore di cambiarle un assegno italiano. Nell’ufficio di Serpe, Vera gli firmò l’assegno e glielo consegnò, lui lo guardò e balzò in piedi: “Banco di Santo Spirito? In giro mi prendete?” Il cassiere, che per fortuna era presente, gli rispose subito: “Ma è una grande banca italiana!” Il grande capo si sedee tranquillizzato e sorridendo disse a Vera: “Crediv ca fusse ’na presa p’o culo.” Arrivammo all’ultimo giorno di riprese. Dovevamo ancora girare un’ultima inquadratura sul molo, dove, tra le barche ormeggiate, c’era quella in cui si era nascosto McCain. Lo si intravvede mentre i mafiosi, armi in pugno, lo stanno cercando. Il primo piano dell’aore l’avevo già girato, mi mancava ancora il campo lungo di lui e dei mafiosi armati fino ai denti che avanzavano. Mentre i macchinisti stavano piazzando la macchina da presa, John Cassavetes mi si sedee accanto. Il suo italiano

era migliorato, il mio inglese no. Baendomi una mano sulla gamba mi disse: “Tu, con quegli occhi azzurri da buon popone, mi hai fregato.” “E perché?” gli chiesi. “Eccomi qui, a finire il film.” Lo guardai. “È giusto così. Sono contento di averti fregato…” Ci chiamarono per l’ultima inquadratura, era tuo pronto. Ma John Cassavetes era scomparso. Dopo i primi minuti di stupore, capii quello che aveva voluto dirmi e sorrisi. Non voleva lasciarmi la vioria finale. Dovei arrangiarmi con una controfigura. Passai i mesi seguenti in moviola con il montatore Franco Fraticelli e, alla Technicolor, con Erico Menczer, il direore della fotografia. Poi in uno studio per ascoltare le musiche scrie dal grande Ennio Morricone. Finimmo col mixage. Il giorno della prima proiezione alla Technicolor ebbi la sorpresa di rivedere Arrigo Colombo, finalmente guarito. Con un gesto di grande signorilità era stato invitato dai fratelli Cicogna insieme a Papi e ad alcuni collaboratori della produzione. ando sullo schermo apparve la scria Gli intoccabili, avvertii una forte emozione che si ripeté alla fine della proiezione quando fui sommerso dai complimenti e anche dalla commozione di alcuni dei partecipanti. Marina Cicogna, giorni dopo, telefonò entusiasta a Vera per comunicarle che il film sarebbe stato invitato al Festival di Cannes di quell’anno, il 1969, ed eravamo stati invitati tui a presenziare, i produori Cicogna, Vera e, ovviamente, io. Anche Cassavetes era stato invitato ma stava girando il suo film da regista e non avrebbe potuto partecipare. ando Vera mi diede la buona notizia, mi comunicò anche che non avrebbe potuto essere con noi, doveva andare ad Amburgo per dei nuovi progei. Al posto della sorella si offrì Leo. Non era la stessa cosa ma dovei acceare. Arrivammo all’hotel Martinez sulla

Croisee. Fummo accolti dagli addei al ricevimento del Festival che stavano aspeando Giuliano Montaldo e signora. Senza baere ciglio offrirono a Leo un mazzo di fiori e un profumo. A me consegnarono la chiave di una stanza matrimoniale. Ci guardammo con uno sguardo divertito. Chiesi a Leo: “Chi di noi due è la lei?” Insieme, rapidissimi, puntammo il dito indice l’uno contro l’altro. Provai a insistere: “Però i fiori e il profumo li hanno dati a te…” Ci avviammo verso la nostra camera evitando di tenerci per mano. Il film ricevee grandi consensi. Il salone del Palais des Festivals era gremito di speatori, erano presenti anche alcuni dirigenti della Paramount. Io sedevo accanto a Marina Cicogna, al fratello Bino e a Leo. Marina mi comunicò di aver già venduto il film in Germania e in Francia. Era sicura di un grande successo. Dopo i consueti brindisi e feste io e Leo ci incamminammo a piedi verso il nostro hotel. Gli chiesi: “Ti è piaciuto il film?”, e Leo: “Sembra girato da un regista americano, perché non ti trasferisci a Los Angeles?” “Ti confesso che un produore americano mi ha offerto un lavoro, ma ho deo di no. Adesso, dopo due film commerciali, ho voglia di proporre altri progei.” “Tipo?” “Storie che raccontino la mia sofferenza per l’intolleranza.” Dopo alcuni passi in silenzio, Leo si voltò verso di me e disse: “Vita dura. Auguri.”

Torniamo più forti all’impegno civile

Tornai a Roma molto eccitato, più per l’arrivo di Vera da Amburgo che per il successo di Cannes. Il nostro incontro fu ardente come quello tra due amanti che non si vedono da mesi. Nel fraempo in Italia la situazione si era faa più tesa da tui i punti di vista. Un aentato terroristico alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano aveva provocato diciassee morti e più di oanta feriti, dando inizio a una lunga sequenza di comploi, aentati sanguinosi e depistaggi che avrebbero funestato il paese negli anni a venire. Per la Banca dell’Agricoltura l’improbabile colpevole era stato individuato in Pietro Valpreda, ballerino anarchico con il volto da cane buono che ci osservava smarrito da tue le pagine dei giornali. Era evidente che si traava di una falsa pista studiata per sabotare la sinistra impegnata nelle rivendicazioni operaie dell’autunno caldo. La nostra Elisabea aveva lasciato gli studi ed era andata via di casa per vivere con il suo ragazzo in una comune e se ne erano perse le tracce. *** alche giorno dopo venne a cena da noi il giornalista Andrea Barbato, celebre per essere stato il coordinatore della serata straordinaria che la Rai aveva dedicato allo sbarco dell’uomo sulla luna, con altri amici. Dopo cena, in saloo, Andrea ci raccontò una storia terribile, riportata alla luce da Der Spiegel. Due giovani soldati tedeschi, qualche giorno prima della fine guerra, buano la divisa e si vestono da contadini. Entrano in un ex lager nazista, trasformato dai soldati canadesi in un campo di prigionia per i militari tedeschi. Sono stremati, hanno fame e

stanno cercando cibo. I due ragazzi vengono riconosciuti da alcuni tedeschi prigionieri e accusati di diserzione. Gli ufficiali tedeschi, anche loro prigionieri, vorrebbero processarli e chiedono il permesso di farlo in un lungo braccio di ferro con gli ufficiali canadesi. Alla fine gli ufficiali tedeschi prevalgono e oengono anche le armi per fucilare i due giovani. Era il quinto giorno di pace. Concluse Andrea: “È una storia vera. È successo davvero.” Lo guardammo turbati, non potevamo credere a tanta ferocia. Molto colpito da questa vicenda, il giorno dopo incontrai un amico produore, Silvio Clementelli, già direore, per molti anni, dei teatri dello stabilimento Titanus. Piccoleo, dinamico, saltellante, sempre gentile e di buon umore. Un elegante ufficio ai Parioli nel palazzo accanto alla sede di Papi e Colombo. Mi chiese se stavo lavorando su qualche progeo e mi venne in mente di raccontargli l’episodio dei due giovani tedeschi. “Pazzesco!” mormorò. “Certamente non sarà un film con la coda del pubblico ai boeghini, però è forte. Scrivete il soggeo, io intanto cerco dei coproduori.” alche tempo dopo incontrai Silvio Clementelli alla Clesi Cinematografica, la sua società di produzione. Era andato avanti nella ricerca di coproduori e in effei mi comunicò che la società iugoslava Jadran Film era interessata al progeo e la Euro distribuzione era in aesa della sceneggiatura. Mi sembrò un buon inizio. Ricordai a Clementelli che per realizzare Kapò di Gillo Pontecorvo, gli iugoslavi avevano costruito un lager con le baracche per i detenuti e le struure per le SS tedesche. La Jadran Film, probabilmente, avrebbe potuto occuparsi dell’allestimento a un costo acceabile. Per tante scene ci sarebbe voluto un gran numero di comparse in divisa tedesca e un bel gruppo in divisa canadese. Vera si sarebbe occupata della selezione delle persone. Precisai: “Vera esordisce come mio collaboratore.” E Silvio: “Era ora…” Ci salutammo

d’accordo su tuo ma prima di uscire Clementelli aggiunse: “Alla Euro hanno qualche perplessità sul titolo: Go mit uns, tu che ne dici? Era la scria sulla fibbia delle cinture della divisa tedesca. ‘Dio è con noi.’ A Barbato piace molto, più avanti ne parliamo.” Oavio Jemma e Lucio Baistrada stavano finendo di scrivere la sceneggiatura di Go mit uns mentre Vera, che era riuscita a liberarsi da un impegno, si era installata negli uffici della Clesi per la scelta degli aori. Per i due “disertori” tedeschi, mi propose Franco Nero, reduce dalle buone prove di Camelot (1967) di Joshua Logan, il Giorno della civea (1968) di Damiano Damiani e Un tranquillo posto di campagna (1969) di Elio Petri, e Larry Aubrey, giovane e bravo aore inglese. Per il ruolo del comandante canadese, Richard Johnson, aore e produore cinematografico inglese. La Jadran Film aveva da poco acceato di coprodurre, quindi decidemmo, con Vera e con il direore di produzione, di andare a Zagabria a incontrare i dirigenti della società e i loro architei. Si traava anche di fare un primo indispensabile sopralluogo. La Jadran ci propose Željko Senečić, architeo delle scene che aveva già lavorato con registi italiani, il quale aveva leo il copione e lo aveva molto apprezzato. Il giorno dopo l’architeo ci portò alcuni chilometri fuori Zagabria, in un luogo abbandonato, araversato da un torrente con ampi argini. C’erano alcune casee di legno semidistrue che, restaurate, avrebbero potuto diventare le baracche dei soldati canadesi. ell’area, recintata e con quaro torree ai lati, poteva diventare l’ex lager. Vera intanto aendeva di essere convocata per la scelta dei figuranti, soldati tedeschi e canadesi. La sceneggiatura era finita ed era già approvata da Clementelli e dalla Euro. Silvio ci comunicò che Bud Spencer avrebbe voluto un ruolo nel film, anche gratuitamente. Guardai Vera e lei subito: “Il canadese, che diventa amico dei due ragazzi e li difende, sembra scrio per lui…” Io e Silvio insieme: “Perfeo!” Eravamo pronti per la nuova avventura.

alche giorno prima dell’inizio delle riprese andammo a visitare il campo di prigionia con il direore di produzione e con Silvano Ippoliti, direore della fotografia. Željko aveva realizzato un lager nazista inquietante tanto era realistico. Sul grande cancello d’ingresso aveva messo l’agghiacciante scria: Arbeit macht Frei, il lavoro rende liberi. Arrivarono Franco Nero e Larry Aubrey. Iniziammo subito le riprese, dal momento in cui geano le divise naziste e indossano i panni di contadini. Il giorno dopo riprendemmo l’imponente colonna dei prigionieri tedeschi, scortati dai soldati canadesi, che marcia lungo l’argine del torrente verso l’ex campo nazista. Girammo anche qualche breve scena in altre location, poi solo nel campo nella zona canadese e in quella dei prigionieri. Sul set si presentò Bud Spencer, reduce dal successo de I quaro dell’Ave Maria, e quando scese dall’auto fu accolto dagli applausi della troupe. Si era fao seguire da una cucina da campo arezzata e fornita di ogni ben di Dio. E ci fu di grande aiuto. Di noe girammo la scena della lunga e tosta discussione tra il comandante canadese e i tedeschi. Alla fine il comandante canadese autorizza i tedeschi a processare i due disertori nelle baracche del loro seore. Accompagnati da due soldati canadesi, i due ragazzi, Franco e Larry, entrano in una baracca dove, intorno al comandante, sono allineati gli ufficiali tedeschi. L’interrogatorio è breve perché i due non rispondono, il comandante è furioso e, mentre i due si dirigono verso l’uscita, chiama un ufficiale che parla inglese. Il traduore si rivolge ai due canadesi in aesa fuori per dire che, per ordine del loro comandante, i due devono tornare nella baracca. Uno dei soldati canadesi risponde: “Il mio comandante ordina che loro ritornino nella nostra postazione.” Accompagnati dai due militari, i “disertori” si avviano verso la zona canadese e araversano il grande piazzale, seguiti dai due soldati tedeschi. Arrivano al varco dove di guardia si trova Bud Spencer; mentre i due giovani stanno entrando, il tedesco gli dice che i due devono tornare

nella baracca tedesca. Bud si erge, gonfia il peo e dice: “Se non sparite vi gonfio la faccia!” e i due di corsa si allontanano. Dovevamo girare un’altra scena in nourna e fino all’alba. Si traava di realizzare una sequenza con centinaia di soldati tedeschi raccolti nel piazzale dal loro comandante. Stanno protestando baendo sulle gavee perché il comandante canadese rifiuta di consegnare i due disertori condannati a morte. Sulle torree i soldati, armi in pugno, tengono soo mira i tedeschi. Era una sequenza costosa, con tantissime comparse, già vestite e pronte per la prova. Il tempo minacciava pioggia, e infai nel tardo pomeriggio piovve. Eravamo disperati. Con il direore di produzione e i funzionari della Jadran discutemmo su cosa fare. Dovevamo girare a tui i costi, anche se si sprofondava nel fango, dovevamo girare il totale del piazzale gremito. Per fortuna, dopo aver impregnato tuo e tui d’acqua, smise di piovere. Vera stava sistemando i soldati tedeschi, avevamo poco tempo. Io le gridai: “Corri! Corri!” Si voltò a guardarmi con i piedi nel fango. Le gridai ancora: “Corri! Svelta!” Ciak. Finalmente iniziammo a girare. Finita la scena eravamo tui stanchi e infreddoliti. Vidi Vera farsi incontro con passo deciso, mi si fermò davanti e a muso duro mi disse: “i il capo sei tu, ma a casa il capo sono io e ti faccio correre a piedi nudi per tuo il quartiere, ricordatelo!” Poi si voltò e se ne andò. Dopo due ore acceò le mie scuse. Riprendemmo a girare una situazione nel campo sempre più tesa. Il comandante canadese incontra i suoi superiori. Dice loro che i tedeschi vogliono i due ragazzi disertori e le armi per il plotone di esecuzione. Dopo un lungo silenzio sentenziano: “Va bene. In fin dei conti quello era un loro lager.” Girammo poi l’ultima scena.

Legati a due pali, fuori dal lager, Franco Nero (Bruno Grauder) e Lerry Aubrey (Reiner Schultz) vengono fucilati da un plotone di esecuzione agli ordini del comandante tedesco. Le armi vengono riconsegnate ai canadesi. Sull’immagine dei due disertori morti appare la scria: into giorno di pace Montaggio di Franco Fraticelli Musica di Ennio Morricone Go mit uns andò in concorso al Festival internazionale del cinema di Karlovy Vary, Vera e io eravamo stati invitati e partecipammo. Il film vinse il premio della giuria. *** Il 1971 fu l’anno in cui nacque Inti, il nostro primo nipote. Eravamo dei nonni giovani, poco più che quarantenni, ma la sua nascita rinsaldò i rapporti con Elisabea e quel bimbo diventò per noi il figlio che avevamo desiderato ma non avevamo avuto. Vera non si fermava mai, aveva subito ripreso i contai con la società di Amburgo e con i francesi. Stava lavorando tantissimo, concedendomi solo qualche breve vacanza per andare a Procida e a Genova. Per fortuna, alla domenica, noi due soli ce ne stavamo nella nostra cuccia e Vera mi preparava delle oime cene. Una sera, davanti all’ultimo bicchiere di vino, mi chiese: “Nel prossimo film cosa vogliamo raccontare?” Mi sdraiai sulla poltrona e le rivelai un pensiero che avevo in testa da qualche giorno: “Molto prima del colpo di fulmine che mi ha legato a te, ero andato a vedere uno speacolo in un teatro dell’Italsider a Sampierdarena, il quartiere operaio di Genova. Mi aveva molto colpito la storia che avevano messo in scena, quella di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzei, due emigrati italiani anarchici accusati ingiustamente negli Stati Uniti di furto e due omicidi. Malgrado i testimoni a favore, i due vennero condannati alla sedia elerica.”

Vera mi guardò, si alzò dalla sua poltrona e venne a baciarmi: “È un piacere ascoltarti, ma sappi che io, in quel periodo, stavo lavorando a un documentario sull’Italsider, proprio a Sampierdarena, e quello speacolo andai a vederlo. Finalmente! esta è la storia che aspeavamo. Difficile da realizzare ma è il miglior simbolo dell’intolleranza che si possa immaginare. Potrebbe diventare un grande film, proviamoci!” Come sempre Vera mi aveva dato l’ultima spinta di cui avevo bisogno. Se lei era con me sarebbe andato tuo bene. Andai da un produore a esporgli il progeo. Ero ansioso di conoscere le reazioni di persone non ancora coinvolte emotivamente. ando pronunciai i due nomi, Sacco e Vanzei, mi chiese se fosse una dia di import-export. Gli risposi sconsolato: “Sì, importano sedie eleriche.” Mi rivolsi allora a Fabrizio Onofri, amico, scriore e storico importante, per scrivere il soggeo, volevo che fosse fortemente emotivo. Onofri si stupì di questa richiesta ma conosceva bene la vicenda dei due anarchici e fu lieto di collaborare. Nei giorni successivi incontrai altri produori dai quali ebbi risposte sconcertanti: da “Troppo costoso” a “Fai venire un’altra idea” passando per “Perché non fai un western?” Il dubbio che il film fosse troppo difficile cominciò a impadronirsi di me. Vera tornò da Parigi. Andai a prenderla all’aeroporto piuosto avvilito. Eccola, finalmente. Splendida come sempre. Prima di salire in auto, mascherando il mio umore tetro, le dissi: “Mi hanno offerto la regia di un film western.” E lei, senza pensarci: “Se accei, ti lascio per sempre.” Mi fissò dall’altra parte dell’auto, “Pensa a Sacco e Vanzei.” ando mi infilai in macchina avevo già cambiato umore. Il giorno dopo andai alla Jolly Film. Arrigo Colombo stava bene, sembrava addiriura ringiovanito. Lui e Renzo Papi, mi accolsero con il solito grande affeo. Nel suo ufficio Arrigo

mi chiese subito: “Stai scrivendo una bella storia?” Risposi: “Sì, la storia di Sacco e Vanzei.” Arrigo si irrigidì, poi si abbandonò sulla poltrona con gli occhi chiusi. Io e Papi lo guardammo preoccupati. Arrigo riaprì gli occhi: “Nel 1938, io, ebreo, sono fuggito in America. Ho studiato la lingua leggendo le leere che Bartolomeo Vanzei scriveva al comitato di difesa a Boston. Conosco il loro calvario.” Per lui era doloroso ricordare quegli anni, aveva conosciuto l’intolleranza sulla sua pelle. Riprese: “Ti confesso che anch’io ho pensato che quella vicenda si sarebbe potuta portare sul grande schermo. Mentre in tue le nazioni del mondo si svolgevano manifestazioni oceaniche al grido Freedom for Nick and Bart, in Italia il fascismo aveva imposto il silenzio.” E Papi: “Infai qui non conoscevamo questo crimine orrendo.” Colombo concluse: “Provare a farne un film? Chi vivrà vedrà.” Nei giorni successivi ne parlammo ancora, immaginammo ipotesi, cercammo soluzioni. Era difficile. Spiegai a Vera che Arrigo sarebbe stato intenzionato a produrre il film ma era preoccupato per il costo. In America non c’era più neanche un maone di quell’epoca. Vera, realista come sempre, commentò: “Ha ragione. Bisogna trovare altre location. Invitiamolo a cena e parliamone.” Vennero da noi Colombo, Onofri e lo sceneggiatore Mino Roli con l’intento di capire dove realizzare il film. Vera ricordò che la prima sequenza scria da Onofri, era la retata di emigranti italiani in Massachuses. Le casee del comando canadese di Go mit uns potevano diventare quelle dei nostri emigranti. Arrigo, che aveva visto il film, approvò entusiasticamente. Vera continuò come se ragionasse ad alta voce: “Se non ricordo male sono gli irlandesi che in molte zone di quello stato hanno costruito, palazzi, strade, piazze…” Onofri capì al volo: “Dublino! Certo, ancora oggi se chiami un taxi, potrebbe arrivarti una carrozza con cavallo…” Cominciava a circolare un po’ di oimismo, così Colombo decise di avviare i sopralluoghi.

A suggellare il nostro sogno arrivarono le trenee al pesto, specialità del mio primo collaboratore. Colombo incaricò l’architeo Aurelio Crugnola di occuparsi delle scene. Era un compito difficile ma Crugnola era bravo e aveva esperienza. Partì per Dublino, poi andò a Boston e visitò i dintorni e quando tornò a Roma ci portò magnifiche notizie. La fabbrica dove lavorava Sacco esisteva ancora, chiusa e abbandonata, ma perfea per i nostri scopi. A Dublino aveva visto, strade, case e palazzi, identici a come erano nel 1920. Andammo avanti, era il momento di pensare al cast. Per Vanzei proposi Gian Maria Volonté, piemontese come Bartolomeo, che dopo i western di Sergio Leone aveva fao conoscere le sue immense qualità in capolavori come Svegliati e uccidi (1966) di Carlo Lizzani, Le stagioni del nostro amore (1966) di Florestano Vancini, I see fratelli Cervi (1968) di Gianni Puccini, Indagine su un ciadino al di sopra di ogni sospeo (1970) di Elio Petri, I senza nome (1970) di Jean-Pierre Melville. Era perfeo per quella parte. La faccia dura del lavoratore e una capacità espressiva straordinaria. Per Nicola Sacco Vera propose Riccardo Cucciolla, barese come lui, altro aore straordinario, basterà ricordare Italiani brava gente (1964) di Giuseppe De Santis e che aveva già lavorato con me in Ad ogni costo e con Gian Maria nei See fratelli Cervi. E Rosanna Fratello, brava cantante dal volto intenso, esordiente sul grande schermo, per il ruolo della moglie, Rosa Sacco. Per gli altri ruoli pensammo ad aori inglesi e americani. Eravamo oramai convinti delle nostre scelte quando ci arrivò una proposta dalla coproduzione francese: Yves Montand nel ruolo di Sacco al posto di Cucciolla. Era una proposta che poteva far crollare tuo. Durante la riunione nell’ufficio di Colombo, Vera esplose: “Montand e Volonté potrebbero essere due marine italiani che piantano la bandiera davanti a Ellis Island.” Per fortuna dopo qualche giorno la proposta venne ritirata.

Incontrai Ennio Morricone, il maestro aveva leo la sceneggiatura ed era pronto a scrivere la musica. Io oramai avevo in testa il film e pensai che una ballata sarebbe stata una colonna sonora efficace. In un momento di coraggio glielo proposi. Mi guardò: “La canti tu?” “Se vuoi… però Joan Baez è più brava di me.” Ennio, sorridendo: “Direi di sì, però non è facile contaarla, è meglio pensare a qualcun altro, rifleiamoci.” Partii per Washington per cercare nell’immenso archivio del National Archives i filmati di repertorio delle manifestazioni in favore della libertà dei due italiani. Prima di arrivare feci una breve tappa a New York per incontrare un amico di Colombo che contava di distribuire il film negli Stati Uniti. Uscendo dall’hotel per andare all’appuntamento quasi andai a sbaere contro Furio Colombo, che allora faceva il corrispondente della Stampa dagli Stati Uniti. Ne fummo ovviamente sorpresi. Ci fermammo qualche minuto a raccontarci di noi, e gli dissi che stavo preparando un film su Sacco e Vanzei. Ne fu entusiasta, così continuai: “Spero anche di incontrare Joan Baez o il suo agente.” E lui, serio: “L’agente? Eccolo, sono io! Stasera Joan è a cena a casa mia.” L’emozione stava per travolgermi: “Aspeami, ti prego.” Salii di corsa in camera a prendere la sceneggiatura in inglese, mi precipitai di soo e consegnai a Furio il fascicolo. Con il fiatone, gli dissi: “Il maestro Morricone sogna di lavorare con lei…” Lo abbracciai, come se gli avessi affidato il più delicato degli incarichi. Il giorno dopo, la signora Baez mi contaò in albergo per comunicarmi che sarebbe stata felice di partecipare. ando posai il telefono mi tremavano le mani. Tornai con un’enorme quantità di materiale di repertorio, tue immagini che facevano venire l’angoscia. C’erano manifestazioni di piazza, anche violente, in tuo il mondo, fotografie dei due accusati, del tribunale. Mi convinsi che eravamo sulla strada giusta, avrei solo dovuto trasferire quel

dramma sulla pellicola mantenendo la tensione che si percepiva dal materiale che avevo raccolto. Iniziammo a prepararci per le riprese nell’aula del tribunale ricostruita dal nostro scenografo in un teatro di Cinecià. Tui i ruoli erano stati affidati ad aori eccellenti. Come sempre Vera aveva fao un lavoro superlativo. Alla Jolly Film erano più tranquilli, visto che in America avremmo girato solo poche sequenze. Papi mi confermò che Arrigo era emozionato per questa impresa, gliene parlava di continuo come un innamorato. Volonté e Cucciolla si erano incontrati parecchie volte e avevano discusso a lungo delle loro parti. Gianmaria era entrato nel personaggio e, anche fuori dalle scene, parlava e si comportava come se fosse stato davvero Bartolomeo Vanzei. E anche Riccardo era coinvolto emotivamente. Il primo giorno ci venne data una prova di professionalità da parte dei nostri due aori che non dimenticheremo mai. L’aula era gremita da figuranti americani e italiani, divisi in due seori dai polizioi. ando nell’aula entrarono Riccardo e Gian Maria rimanemmo di stucco: erano loro, Sacco e Vanzei. Il costumista Enrico Sabbatini aveva fao il miracolo. Gli aori presenti, le comparse e anche noi stessi fummo affascinati e rapiti da come i due protagonisti erano riusciti a far rivivere i due personaggi. Erano perfei. Volonté-Vanzei sembrava voler sfidare i giudici, CucciollaSacco più timoroso, spaesato e incredulo di quella esperienza. Girammo molte sequenze in quell’aula, le sparate razziste, le inveive contro gli italiani del procuratore Katzmann (l’aore Cyril Cusack), gli interventi ironici e sprezzanti dell’avvocato difensore Fred Moore (l’aore Milo O’Shea) scatenavano violente risse verbali tra il pubblico che seguiva il processo. E poi ancora le testimonianze, quelle pilotate dell’accusa e quelle degli italiani contestate dal procuratore Katzmann. Anche il console italiano a Boston (nel film Sergio Fantoni) che non fu creduto. Eppure aveva dichiarato soo giuramento che il giorno degli omicidi Nicola Sacco era al

consolato perché con la moglie e il figlio voleva tornare in Italia. I figuranti e gli aori seguivano il processo come se fosse stato reale. Il coinvolgimento emotivo colpiva anche noi che stavamo da questa parte della macchina da presa. Nel camerino di Gian Maria provammo più volte l’interrogatorio di Vanzei e la sua arringa finale. Potevamo procedere. Riprendemmo Vanzei e Sacco seduti sulla panca e dietro di loro due polizioi. Poi Vanzei si alzò, guardò per un aimo Nicola e iniziò a parlare. Il suo discorso era travolgente, recitato in maniera magistrale. ando arrivò al punto in cui disse: “… quando le sue ossa, signor giudice, saranno disperse e quando i vostri nomi, le vostre istituzioni, non saranno che il ricordo di un passato maledeo, il nome di Nicola Sacco sarà ancora vivo nel cuore della gente,” gridai: “Stop!” Tui impietriti. “Il polizioo dietro a Sacco sta piangendo!” L’emozione era stata troppa, anche per un aore. Vera e la truccatrice corsero da lui per asciugargli le lacrime. Vera era agitata, gli parlò, quindi tornò da me: “Non piangerà più.” Cambiò tono: “Certo che se si commuove lui che è americano… non è male…” Dopo le scene a Cinecià andammo a girare a Zagabria, Boston e Dublino. Dopo oo seimane di lavoro terminammo le riprese. Nei mesi successivi il film venne montato, doppiato e mixato con la musica di Ennio Morricone e la straordinaria ballata con la voce di Joan Baez. Un’autentica magia. Sacco e Vanzei venne invitato in concorso al Festival di Cannes. Alla proiezione erano presenti, oltre al mio indispensabile collaboratore Vera, i produori, diversi aori, Joan Baez. Volonté non venne, lui non amava i festival. Riccardo Cucciolla fu premiato come miglior aore. Volonté no, proprio perché le giurie sapevano che lui non amava queste manifestazioni.

Malgrado il grandissimo successo di Cannes e il premio a Cucciolla, i distributori del film erano preoccupati perché alcuni esercenti temevano che la storia fosse troppo politica e che i due personaggi fossero poco conosciuti in Italia. Ma, fin dalle prime proiezioni nelle sale, vennero smentiti. Ci furono addiriura risse ai boeghini. A Roma un cinema dovee proseguire con un ultimo speacolo a mezzanoe e quel film divenne una bandiera per i giovani che reclamavano giustizia nel nostro paese. *** Passarono i mesi e il film continuava a essere in programmazione. Una sera decidemmo di andare a cena a Campo de’ Fiori. C’era un’atmosfera autunnale, non sembrava di essere a Roma, una leggera nebbiolina avvolgeva case e strade, c’era umido, poco traffico e rari passanti. ando uscimmo dal ristorante, nella grande piazza poche persone infreddolite si affreavano verso casa. Ma soo la statua di Giordano Bruno, un folto gruppo di giovani stava ascoltando le parole di un signore. Ci avvicinammo, quel signore, probabilmente un loro professore, stava raccontando la vita del filosofo. Ci fermammo anche noi ad ascoltare. Confesso che non sapevo molto di Giordano Bruno, non sapevo neppure che fosse di Nola. Tornando a casa, Vera, quasi soprappensiero, mi sussurrò: “In fondo anche quella di Giordano Bruno è una storia di intolleranza.” Non ci volle molto perché mi meessi a ragionare su un nuovo soggeo. Raccolsi una corposa documentazione, lessi libri, scrissi una bozza poi mi rivolsi agli amici Lucio De Caro e Piergiovanni Anchisi con i quali riscrivemmo il soggeo. Stavo iniziando una nuova avventura, ma questa volta con il cappello in mano. Dopo alcuni inutili incontri con alcuni produori, pensai di provare con Carlo Ponti, che però non conoscevo. Sapevo solo che quel signore si alzava presto al maino, al contrario delle abitudini diffuse nel mondo del

cinema, e arrivava in ufficio alle 8.30. Un giorno decisi di farmi trovare nell’anticamera al suo arrivo. Senza neanche farmi entrare in ufficio e con il suo forte accento lombardo, mi disse: “Cosa ci fai qui?” E io: “Volevo parlarle di Giordano Bruno.” E lui: “Cosa vuole da me quel filosofo?” E mi spedì via. Per un mese di fila, tui giorni lavorativi, alle 8.30, Carlo Ponti mi trovò seduto nella sua anticamera. Si sfogò con me in ogni modo, se non erano sfoò erano scai di irritazione, ne sentii di tui i colori. Ricordo questa: “Cambia il finale, invece che al rogo lo condannano a diventare papa.” Ma finalmente una maina mi disse: “Va bene, vai a fare il film su quello là, sono stufo di vederti tue le maine qui in ufficio.” Iniziai subito a lavorare al film e proposi la società di Leo Pescarolo come coproduore. Prima di iniziare il lavoro andammo a Genova per qualche giorno di vacanza, un abbraccio a mia sorella Ines e un affeuoso incontro con Carmino, cugino di Vera, e la sua bella figlia Angela. Tornati a Roma, la prima buona notizia la portò Vera, la quale comunicò a me, a Carlo Ponti e a suo fratello Leo, che la Less Film Concordia, società cinematografica francese, avrebbe partecipato alla coproduzione. Partimmo subito per Venezia per cercare di oenere l’autorizzazione a girare nella Sala del Maggior Consiglio, dove il Doge riceveva i suoi consiglieri. In aereo ero seduto accanto a Vera, dietro di noi c’erano Viorio Storaro, il grande direore della fotografia, l’uomo che dipinge con la macchina da presa e che avrebbe vinto tre Oscar, per Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola, Reds (1981) di Warren Beay e Piccolo Buddha (1993) di Bernardo Bertolucci, e lo scenografo Sergio Canevari. Riconfermai il bravissimo costumista Enrico Sabbatini. Eravamo eccitati da questa nuova avventura ma anche perfeamente coscienti dei problemi che avremmo incontrato. Inaspeatamente e senza troppe questioni ci

viene concessa la sala dei Dogi ma ci viene richiesto di non utilizzare luci artificiali. Guardiamo Storaro, dalla sua risposta sarebbe derivata la modifica o meno di una delle scene fondamentali del film. Storaro rimase in silenzio, a occhi chiusi. Dopo qualche minuto di riflessione arrivò la sentenza del maestro: probabilmente sarebbe stato sufficiente posizionare alcune lampade all’interno dell’enorme camino. Il direore ci autorizzò. Più difficile fu oenere il salone della Biblioteca Marciana per le riprese. Se ne dovee occupare Vera che, garantendo di far lavare i vetri mai più lavati dal 1500, conquistò il sovrintendente il quale alla fine cedee. Con il permesso di utilizzare i due ambienti più significativi di Venezia, e con l’animo più leggero, proseguimmo i sopralluoghi nel resto della cià. Ci spostammo a Firenze, dove incontrammo i dirigenti di Palazzo Vecchio che ci accolsero con simpatia. Trovammo location perfee per il film, Canevari era molto soddisfao. Poi ci spostammo nelle Cappelle Medicee della chiesa di San Lorenzo. Parlai con il priore, uomo severo, colto e aento. Mi presentai e gli raccontai che volevamo realizzare un film su Giordano Bruno. Mi guardava e annuiva, conosco te e conosco Giordano Bruno, sembrava pensare. Aesi la sua reazione con trepidazione, temendo che la risposta sarebbe stata, come spesso accade in quei luoghi sacri, negativa. Invece la risposta, che mi fece aendere alcuni lunghi minuti, fu positiva. Potevamo tornare a Roma, il più era fao. Proposi Volonté come protagonista anche se ero consapevole che per il regista e la troupe sarebbero stati cavoli amari. Dopo Sacco e Vanzei avevo imparato che quando Gian Maria impersonava una viima del potere o un ribelle, il suo comportamento, anche fuori scena, si adeguava. Gli feci avere la sceneggiatura e lo andai a trovare a Fregene nella sua casea al mare. Mi recitò alcune baute che approvai subito ma lui non era contento, scosse la testa: “Ascolta adesso,” e ripeté le stesse frasi con un forte accento nolano. Rimasi allibito: stavo ascoltando il vero Giordano

Bruno che parlava con la cadenza e l’inflessione della sua terra. Affidammo gli altri ruoli a bravi aori con il placet di Ponti e Pescarolo. Eravamo pronti per questa nuova impresa. Iniziammo a girare a Firenze nelle Cappelle Medicee. Appena arrivati andammo a porgere un saluto al priore. Nelle scene in programma erano previsti diversi figuranti, giovani seminaristi e qualche cardinale. Molti di questi erano ragazzi cileni fuggiti dal loro paese in guerra. Gianmaria aveva molto insistito per farli lavorare: “Hanno fame, hanno bisogno di qualche lira.” Fu accontentato ed era felice. Nei momenti di pausa quei simpatici giovani insieme ad alcuni fiorentini si ritrovavano a passeggiare nel quartiere leggendo Loa Continua, Avanguardia Operaia, il manifesto e l’Unità con sai e tonache. Venni immediatamente convocato dal priore e mi presentai con Vera. Mi affrontò a muso duro: “Dica a quei cialtroni di smeerla.” Me ne occupai subito. Dopo di che passammo un paio di giorni sereni. Vera era impegnata nella scelta delle ultime comparse. Lo scenografo era ripartito per Roma per preparare le altre scene, in pochi giorni a Firenze avremmo finito. In questo periodo Gian Maria non era molto impegnato e non si rintanava come sempre nella sua solitudine. Stavamo girando nella sala grande con i cardinali che discutevano della pena per l’eretico nolano. Sul fondo c’era un’ampia scala che conduceva dietro l’altare maggiore della chiesa. Più volte il priore, accompagnato da qualche prete, era sceso da quello scalone per vedere il set. Una maina Volonté chiese a Vera di far lavorare un altro cileno, anche se non avevamo più bisogno di figuranti. Vera e Gianmaria vennero da me con il sudamericano, uomo corpulento, di una certa età e un bel volto. Vera tagliò corto: “Lo faccio vestire da cardinale, uno più uno meno…” Io abbozzai. Durante l’ora di pausa il cardinale cileno salì la scala e andò dietro all’altare della chiesa Maggiore. Era la seimana che precedeva la Pasqua e la chiesa era aperta. Il cardinale cileno comparve davanti all’altare, alcuni fedeli gli

si avvicinarono e lui, con solennità, impartì loro la benedizione. Il priore, poco lontano lo vide, gentilmente lo accompagnò verso la scala e con una spinta violenta lo sbaé giù. Noi, da soo, vedemmo un panno rosso che rotolava giù sui gradini. A metà scala si affacciò il priore che urlò: “E adesso fuori tui.” Rimanemmo sbigoiti, guardammo il priore salire la scala e sparire. Feci qualche passo ma mi venne un malore e stavo per cadere. Storaro, che era vicino a me, se ne accorse e mi sostenne; arrivarono altri che mi afferrarono e mi sdraiarono sopra un vecchio altare. Respiravo con fatica, Vera era in lacrime. Il direore di produzione ordinò di chiamare un’ambulanza. Io trovai la forza per dire: “No, devo parlare con il priore.” Ancora qualche minuto e cercai di rimeermi in piedi. Con passi stentati e accompagnato da Viorio, dal direore di produzione e seguito da Vera, salii le scale ansimando. Improvvisamente mi arrivò un forte suono d’organo, era il priore che pigiava con forza i tasti. Ancora qualche gradino e sarei arrivato al suo fianco, stava pigiando i tasti ancora più teso. Il suono dell’organo mi costrinse ad alzare la voce: “Uno crede di fare un’opera buona e invece gli casca il mondo addosso.” Lui smise di suonare: “Ma cosa sta dicendo?” Continuai ansimando: “Noi siamo rovinati, il film è finito, tua la troupe è senza lavoro. Un disastro. E lei ha quasi ammazzato un uomo.” Lui chinò la testa. Dopo una lunga pausa e senza più guardarmi sospirò: “Finite il lavoro.” Altra pausa. “Ma lei non la vogliamo vedere mai più.” Il profugo cileno, per la verità solo ammaccato, era stato spogliato degli abiti religiosi ed era sparito. Di Volonté si era persa ogni traccia. Per tuo il pomeriggio lavorammo alacremente e in silenzio. Avevamo evitato un macello e mi stavo riprendendo a fatica. Eravamo arrivati all’ultimo giorno di lavoro a Firenze e ci aspeavano i tre giorni festivi di Pasqua. Ci saremmo rivisti tui a Mantova. Vera era sempre più affascinata da Venezia, e voleva trascorrere quei giorni di vacanza in laguna. Mi disse:

“Dobbiamo dimenticare il cardinale cileno.” Eravamo in un bell’albergo e frequentavamo, come nostra abitudine, buoni ristoranti. Una sera, con quel sorriso che mi ha sempre stregato, mi raccontò un suo sogno, trovare a Venezia una casea per trascorrere i nostri giorni liberi. Aveva gli occhi languidi. A Mantova iniziammo le riprese nel Palazzo Ducale che Vera, ancora una volta, era riuscita a oenere seducendo la sovrintendente. Ci spostammo poi a Tarquinia dove, in una grande piazza, il nostro architeo aveva ricreato Campo de’ Fiori del 1600. Al centro mise una lunga pedana di legno che avrebbe portato il condannato al rogo. Intanto Vera era impegnata nella scelta dei tanti figuranti, bisognava riempire la piazza con la gente del popolo e bisognava anche trovare le comparse per il corteo degli incappucciati. Con Viorio Storaro e il direore di produzione percorremmo le strade dove sarebbe sfilato il corteo. C’erano diversi particolari che non si potevano riprendere, così proposi a Storaro di far passare la lugubre marcia sul finire della noe, poco prima dell’alba, illuminata solo dalle tante torce portate a mano dagli uomini incappucciati. Ricevei l’assenso entusiasta del maestro Storaro. L’indomani avremmo girato la scena dell’esecuzione. Io e Vera stavamo dormendo a leo nella nostra camera d’albergo, era noe fonda, quando improvvisamente si aprì la porta e Gian Maria Volonté fece irruzione nella stanza. Era furioso: “Ma come fate a dormire? Domani mi bruciano vivo e voi dormite come se niente fosse?” Lo guardammo spaventati, lui ci guardò spiritato in silenzio, poi, ammorbidendo la voce: “Spostati più in là, provo a sdraiarmi.” Si tuò sul leo accanto a noi, addormentandosi immediatamente. Vera si voltò verso di me e mi sussurrò: “Ma come ha fao a entrare? Chi gli ha dato la chiave?” Mi voltai e lo guardai. Stava dormendo della grossa.

La sera dopo girammo la scena del corteo con tanto popolo e tanti incappucciati con le torce. Giordano Bruno camminava a fatica tra due guardie e dalla bocca gli colava un rivolo di sangue. Per impedirgli di parlare gli avevano conficcato un uncino nella lingua. La piazza era piena di gente in silenzio. Bruno salì sulla pedana e la percorse con grande lentezza. Venne legato al palo mentre alcuni incappucciati gli sistemavano le fascine intorno. Alle prime luci dell’alba, la condanna: l’orrendo fuoco aveva eseguito il suo macabro compito. alche giorno dopo, quando visionai le scene durante il lavoro di montaggio, mi resi conto una volta di più della grandezza della recitazione di Volonté. Una delle scene con la stupenda Charloe Rampling, che doveva rappresentare un momento d’amore, fu trasformata da Gian Maria, con la sua recitazione magistrale, in una sorta di scena satanica. Lei era stesa sul leo, lui le premeva entrambe le mani sul peo. Charloe doveva respirare a pieni polmoni, sempre più intensamente. Aspira e bua il fiato, le gira la testa, lui la guarda con occhi spiritati e lei sibila: “Tu sei il diavolo.” Rividi la scena del cardinale che legge la condanna al rogo. Nella sceneggiatura era scrio che Bruno alzava la voce dicendo: “Avete più paura voi.” Ma prima del ciak mi disse che aveva avuto una nuova idea. Girai il primo piano di Volonté, poi una panoramica sui volti dei cardinali e la leura della sentenza. Ritornai su Volonté che per tre volte, con un filo di voce ripete: “Avete più paura voi.” Allo stop mi accorgo che sono tui commossi. Il film è finito, montato e mixato. Leo organizza una proiezione per Carlo Ponti. In sala oltre a Leo e a me c’è anche Vera. Non guardiamo lo schermo ma le reazioni del produore, sta seguendo la storia molto concentrato. Alla parola “fine” lo guardiamo, lui sorride e ci stringe le mani: “Complimenti, un oimo lavoro… anche se temo che non incasserà molto.” Esce dalla sala. Le previsioni di Ponti furono

confermate, non molti speatori ma il film venne venduto in diversi paesi, compreso il Giappone. Vado a Napoli invitato dai domenicani del convento di San Domenico Maggiore: hanno visto il film e mi hanno invitato a un dibaito sul filosofo degli infiniti mondi. È in quella chiesa che il giovane Giordano ha iniziato il suo percorso sacerdotale. In una grande sala gremita di sacerdoti iniziano le domande, ben poco amichevoli: “Dove ha leo quell’episodio?” “Perché il film inizia a Venezia?” “Perché non ha raccontato le sue blasfeme provocazioni?” Mi alzo lentamente: “Ho visto che lì fuori c’è un grande cortile, se avete anche delle fascine, io sono pronto.” Un aimo di silenzio, qualche risatina e il dibaito diventa meno aggressivo. Molte scuole mi invitarono a partecipare a dibaiti con gli studenti, coinvolti dalle vicende vissute dal filosofo. La storia di Giordano Bruno aveva garantito una grande partecipazione e gli incontri con i liceali si rivelarono molto interessanti. Dall’uscita del film, a Campo de’ Fiori, il 17 febbraio, giorno del rogo, soo al monumento di Bruno c’era sempre più gente per ricordare il martire. Il cardinale Bellarmino, più di quarocento anni prima, aveva previsto bene: “el rogo rischia di bruciare in eterno.” Effeivamente la critica parlò bene del film e partecipai con piacere a numerosi dibaiti, ma ahimè non suscitava una pari curiosità del pubblico. Mi stavo demoralizzando e cercai conforto tra le lenzuola: “Dobbiamo decidere del nostro futuro, Vera, la risposta dei boeghini non ci aiuta. Temo che l’intolleranza sia diventato un tema che il pubblico non gradisce più.” Anche Vera era pensierosa ma tenace nel perseguire un rigoroso progeo culturale che non prevedeva film commerciali. Mi guardò con la solita tenerezza e mi rincuorò: “Speriamo di sì.” Nelle seimane seguenti, alcuni produori mi convocarono per propormi commedie, western e anche un

giallo banaloo anzichenò. Forte del sostegno di Vera risposi a tui con fermezza: “Grazie lo stesso, ma spero che arrivi una buona proposta.” E lo speravo davvero perché presi dall’entusiasmo avevamo comprato la casa della nostra vita con un bel mutuo da pagare. Un caro amico, direore di una filiale del Banco di Santo Spirito, aveva convinto Vera che era venuto il momento buono per smeere di pagare l’affio dell’appartamento di viale Mazzini e comprare una bella casa con l’aiuto della banca. Così, nel tempo libero, Vera aveva ripreso a girovagare nel quartiere Prati sperando di leggere un cartello che al posto di “affiasi” avesse “vendesi”. Spesso anch’io la accompagnavo anche solo per fare due passi insieme a lei. Tornando a casa una sera la trovai particolarmente allegra ed eccitata. Aveva trovato finalmente l’appartamento da acquistare, come voleva lei nel quartiere Prati, in via Paolo Emilio. Combinammo per andare a vederlo la maina successiva. Nel bel palazzo, all’ultimo piano, entrai incuriosito e mi si presentò un lungo corridoio e tante stanzee laterali. Rimasi subito perplesso e Vera, che mi seguiva aenta alle mie reazioni, se ne accorse. Allora mi indicò la porta e mi disse perentoria: “Vai sul terrazzo e guarda.” Salii i pochi gradini e vidi un panorama di Roma strepitoso, dai Parioli al Cupolone di San Pietro fino a Monte Mario. Rimasi incantato. Improvvisamente sentii una voce lontana che sembrava scendere dal cielo: “… perché Dio…”, guardai in alto e poi ancora, “… giudicherà chi…” Capii che quel venticello leggero che mi rinfrescava mi stava portando qualche parola del papa dalla vicina piazza San Pietro. Che brivido. Che emozione. Credevo fosse Dio. Ritornai da Vera: “ella visione magica di Roma mozza il fiato, ma l’appartamento con quelle cellee sembra un carcere.” Con tono autoritario reagì: “Ho già contaato una troupe di amici disposta a ristruurare tuo. Io so cosa voglio e lo farò. Tu non vieni più qui finché il lavoro non sarà finito. Chiaro?” E io, rassegnato: “Più chiaro di così.”

Negli anni bui il tema della violenza

Arrivarono le Brigate Rosse e cominciarono gli agguati, gli aentati e i colpi d’arma da fuoco contro magistrati, giornalisti e politici. Per molti giornali e televisioni, tui i crimini erano da aribuirsi a loro. Per fortuna Elisabea si era trasferita in Sardegna con la sua famigliola dove continuava con l’impegno politico ma meno esposta alla violenza che avvelenava l’Italia. Una maina, mentre stavo ancora dormicchiando, sentii Vera rispondere al telefono che squillava. Mentre prendevamo il caè, mi disse che un tizio, di cui non ricordava il nome, mi voleva incontrare nel pomeriggio con due suoi amici, per parlarmi di alcuni progei urgenti. Pensai che fossero i soliti rompiballe che vogliono fare cinema. Al pomeriggio suonò il campanello, andai ad aprire e mi trovai davanti tre uomini in abito scuro e cravaa nera, sembravano pronti per un funerale, anche se sul momento pensai a dei parlamentari. Li feci accomodare nel mio studio. Uno di loro reggeva un borsone che appoggiò sul pavimento. Si sedeero sul divano, poi quello che sembrava il capo iniziò: “Sappiamo che ha appena finito la regia di un film che sicuramente le avrà fao guadagnare molto, noi siamo in difficoltà e abbiamo bisogno di aiuto.” Li guardai perplesso e chiesi: “Ma voi chi rappresentate?” Il capo scandì: “Brigate Rosse.” Guardai il borsone, pensai che dentro ci fosse un registratore, poteva essere una trappola. Sulla porta si affacciò Vera con cipiglio da guerriera. Loro guardarono lei e poi me. A quel punto risposi con voce calma ma ferma: “Se entro trenta secondi non uscite, chiamo la polizia.” Si alzarono e in silenzio si diressero verso la porta, io li seguii. Il capo fu l’ultimo a uscire e, sulla porta, mi sussurrò: “La nostra rivoluzione comincerà qui, da te.” Io alzai la voce:

“Anche la mia rivoluzione è cominciata oggi, cacciando di casa tre stronzi!” Vera applaudì. alche giorno dopo squillò il telefono. Era la segretaria del questore di Roma che mi voleva incontrare l’indomani maina alle 10. Mi presentai puntuale in questura. Il questore era un signore gradevole ed elegante. Mi fece accomodare e, senza preamboli, mi chiese: “Lei conosce la signora Vera Pescarolo?” Sorrisi: “Naturale. È mia moglie.” E lui, serio: “Non è vero.” indi aprì un casseo e ne estrasse un assegno: “La signora ha dato questo al braccio finanziario delle Brigate Rosse. Le dica di non fare altre follie, altrimenti saranno guai seri.” Strappò l’assegno e mi congedò: “Per ora basta così, però… mi dia rea, non lo faccia più.” Tornai a casa furente. Feci sedere Vera sul divano e, guardandola fisso negli occhi, molto severo, le puntai il dito contro. Io: “esto è un interrogatorio.” Lei: “Sono pronta.” Io: “Signora, ricorda quando ho cacciato da casa quei tre paraculi?” Lei: “Sì, signor Montaldo.” Io: “E perché ha firmato un assegno da centosessantamila lire al loro braccio economico?” Lei: “È venuto a trovarmi un aore che aveva lavorato per la Clodio, mi ha deo che quei soldi servivano per aiutare delle persone in difficoltà…” Io: “In difficoltà ci va chi dà i soldi a loro, il questore lo sa benissimo e mi ha deo che se farai un’altra follia non potrò nemmeno portarti delle arance in galera. E sai perché?” Lei: “No.” Io: “Perché non siamo sposati.” Feci una pausa. Io: “indi dobbiamo sposarci.”

Lei: “Va bene. Acceo.” Fine dell’interrogatorio. Abbracci appassionati. Poi però le dissi che non doveva più sognarsi di fare stupidaggini di quel genere. Il giorno dopo mi presentai al comune di Roma, ufficio per le licenze matrimoniali. C’erano lunghe code davanti gli sportelli. ando fu il mio turno il funzionario mi guardò e mi disse: “Io la conosco, ho visto i suoi film, mi sono molto piaciuti, bravo. indi è qua per la licenza matrimoniale, vuole essere esposto per quindici giorni nella teca comunale?” Annuii. Lui guardò dietro di me: “E la futura signora dov’è?” Allargai le braccia: “Non sapevo che dovesse esserci anche lei.” Lui abbassò la voce e, con fare complice, mi fece segno di avvicinarmi: “Non si preoccupi. Mea la firma qui su questo foglio.” Mi indicò dove firmare: “E soo scarabocchi il nome di lei.” Scarabocchiai. Prese il foglio, due timbri, e me lo consegnò: “Stia tranquillo, ora ci penso io.” Arrivai a casa e solennemente annunciai a Vera: “Tra quindici giorni, cara Vera, sarai mia.” E lei: “E prima di chi ero?” Un bacio, poi le chiesi: “E chi invitiamo?” Rispose: “Numero uno, Elisabea.” Era l’inverno del 1974, stavamo insieme da più di dieci anni. Il giorno del nostro “sì” con rito civile erano venuti molti amici nel piazzale del Campidoglio. Per prima era arrivata Elisabea dalla Sardegna recando un boiglione di Filu ’e ferru. C’erano anche Leo con la moglie Maritè, Viorio Boni e tanti altri. Entrammo in grande allegria nella sala. Un funzionario ci chiese i nomi e ci bloccò: “Non siete stati esposti nella teca del comune. Oggi, mi spiace, niente nozze.” Le sue parole crearono una lastra di ghiaccio. Lui colse il nostro disappunto, aveva capito che la colpa non era nostra ma di qualche funzionario. Aggiunse in tono meno severo: “Però con la firma dei sindaci di Roma e di Genova nel giro di pochi giorni possiamo procedere.” Come se la cosa fosse faibile in qualche ora. Mi sedei su un gradino del piazzale con accanto Vera, Elisabea e gli altri ospiti che per dimenticare sorseggiavano dal boiglione d’acquavite. Cosa

potevamo fare? Si avvicinò Viorio Boni: “Conosco il sindaco. Seguitemi.” Il sindaco, Clelio Darida, ci accolse subito, era veramente amico di Viorio. Gli spiegammo la situazione paradossale, lui ci confermò che era disposto ad aiutarci, ma ci voleva anche la firma del sindaco o di un magistrato di Genova. Il giorno dopo presi il volo per Genova. Volevo incontrare il presidente dei magistrati, con il comune ci sarebbe stata troppa burocrazia. Dentro palazzo di giustizia c’era pochissima gente. Mi inoltrai per lunghi corridoi, sale d’aesa deserte, cortili, scaloni. In un corridoio vidi avanzare solitario un signore. Lo fermai: “Mi scusi.” L’uomo si bloccò e mi scrutò. Anch’io lo scrutai, era una faccia nota. E lui: “Lei era mio compagno di banco al liceo?” Mi si aprì la memoria: “E lei è Nan, quello che copiava tui i miei compiti?” Incredibile. Ci abbracciammo poi mi chiese: “Ma che ci fai qui?” Riassunsi in breve le ragioni della mia visita, e lui: “Hai un gran culo!”, “Dici?” feci io stupito, e lui: “Sono il segretario del presidente, e per queste sciocchezze, sono autorizzato a firmare e timbrare.” Io, improvvisamente di buon umore: “Hai ragione. Ho davvero un gran culo!” Ci avviammo soobraccio verso il suo ufficio, sembravamo due studenti che stanno per entrare in classe. Finalmente con tui i documenti pronti, accompagnato da Vera e da Viorio Boni, mi presentai al sindaco di Roma che, dopo un’occhiata ai fogli, mi disse: “Ora dovete decidere la data.” Vera e Viorio mi guardarono. Presi fiato e iniziai così: “Illustre signor sindaco, il rinvio del nostro matrimonio con tanti ospiti è stato molto, ma molto amaro, mi spiace. La colpa non è nostra ma solo dei funzionari del comune che si sono scordati di affiggere le pubblicazioni. Per aenuare la vostra colpa le chiedo di autorizzare l’apertura della sala, la maina del primo maggio.” Il sindaco restò a bocca aperta, guardò Viorio e Vera e riuscì a dire: “Ma non sa che il primo

maggio è…” Lo interruppi con educazione: “Siamo pronti a pagare i pochi funzionari presenti. Ci sposiamo al maino presto.” E Vera aggiunse: “Sarà un omaggio generoso.” Il sindaco abbassò la testa pensieroso. “Aspeatemi qui,” e uscì. Nell’aesa andammo sul balcone dello studio per goderci il panorama mozzafiato di Roma. Laggiù il Colosseo, l’arco di Tito e i ruderi della Roma imperiale. Riapparve il sindaco, sorridente: “Tuo a posto. Alle ore 8 del primo maggio, tre funzionari si troveranno nel piazzale in aesa. Ho trovato l’assessore, lui è felice di celebrare matrimoni. È uno scapolo impenitente.” Così il primo maggio 1974, festa dei lavoratori, alle ore 7.30 ci presentammo nel piazzale del Campidoglio. I tre funzionari erano già davanti alla porta della sala. Vennero ad accompagnarci Viorio Boni e Leo con le mogli, due amiche di Vera e pochi altri. Vera era elegantissima, ma anch’io non ero male. Una delle sue amiche, osservandomi con ammirazione, mi chiese: “Ma chi ti veste?” E io: “Chi mi ha vestito tra poco sarà mia moglie.” La cerimonia fu veloce. I funzionari non vedevano l’ora di richiudere la sala e raggiungere le famiglie che li aspeavano in auto per la gita del primo maggio. Noi andammo a casa a festeggiare. *** Finalmente la proposta che aendevo arrivò. Era l’inizio del 1975. Mi convocò l’amico Agostini per discutere un progeo. Partimmo con Vera, convinti che non avremmo ricevuto proposte banali. ando arrivammo da lui a Bologna, dopo i soliti convenevoli, mi chiese se avevo leo il libro L’Agnese va a morire di Renata Viganò. Sulle prime fui colto alla sprovvista, poi mi tornò in mente: “Sì, l’ho leo molti anni fa ma lo ricordo, mi aveva colpito, raccontava il valoroso contributo delle staffee partigiane alla loa per la liberazione nelle valli di Comacchio.” Gino si infervorò d’entusiasmo: “elle donne coraggiose non sono mai state

ricordate, non è mai stato realizzato un film che narri le loro storie. Che dici, ci proviamo?” Era la buona proposta che stavo aspeando. Andammo a conoscere Renata Viganò, la incontrammo a casa sua: era una donna avanti negli anni ma forte, aiva, curiosissima. Ci lasciò esporre la nostra proposta, l’Agnese sul grande schermo. Lei ci lasciò finire ma poi ci gelò il sangue, scosse la testa e ci disse: “Vi ringrazio, sono già venuti tre registi, Lizzani, De Santis e Puccini, anche loro volevano fare un film dal libro ma non hanno trovato una lira per realizzarlo.” Era finita la discussione. Renata Viganò si alzò e con grande simpatia ci propose: “È meglio se vi preparo un bel piao di agnoloi.” Se il problema era solo quello, potevamo continuare a parlarne. Gino, prima che raggiungesse la cucina, disse: “Il produore sono io, pochi soldi ma un gran desiderio di far rivivere l’Agnese.” Renata si fermò sulla porta, si girò verso di noi e disse: “Allora gli agnoloi ve li preparo ancora più volentieri.” Agostini iniziò subito a lavorare contaando la Palamo Film che, dopo pochi giorni, ci confermò che avrebbe partecipato alla coproduzione. Anche una società di Amburgo è pronta a collaborare, ma chiede che nel cast ci siano aori tedeschi. Per due giorni, Vera, in una stanza della società, incontrò diversi aori. Scelse Alfredo Pea, Nineo Davoli, Rosalino Cellammare e Aurore Clément. Poi Vera dovee lasciarci perché era impegnata con una società americana nella produzione di una serie di cartoni animati, ma presto sarebbe tornata a Roma con una dirigente della società per firmare il contrao e raggiungerci. Ne sentivo la mancanza, soprauo in quel momento iniziale in cui avevo mille idee in testa e faticavo a meerle in ordine. Con Gino Agostini andammo a Comacchio per i primi sopralluoghi. Dall’argine delle valli guardavamo questo immenso lago con le rive coperte da folti canneti. i e là si intravvedevano i tei dei casolari sommersi dall’acqua. Dopo

molto girovagare trovammo, in una zona protea dagli argini, una grande cascina dove l’acqua arrivava solo al piano terra. La indicai a Gino: “Potrebbe essere il rifugio dei partigiani. Però in sceneggiatura i tedeschi fanno saltare un argine e una massa d’acqua isola quasi completamente la costruzione.” E Gino: “Troveremo una soluzione.” A Lugo di Romagna si era sparsa la voce che l’Agnese della Viganò sarebbe diventato un film, così, dovunque andavamo, nei ristoranti, a piedi per le vie o anche solo a prendere un caè al bar, eravamo riconosciuti e salutati con amicizia. Molte persone vennero a dirci che erano pronte a collaborare. Andai nel palazzo comunale per incontrare il sindaco e alcuni assessori. Erano entusiasti del progeo tanto che quando raccontai i nostri problemi, quasi in coro risposero: “Vi aiuteremo.” alche giorno dopo, Gino ritornò da Ravenna con una grande notizia, la Cooperativa Muratori avrebbe tolto l’acqua bassa aorno al casolare e restaurato il piano terra. Ci rendemmo conto che solo pronunciare la parola “Agnese” in Romagna stava creando un grande entusiasmo. Mentre scorrazzavamo per le valli con Vera discutemmo anche sulla scelta della protagonista. Le arici che conoscevamo meglio e che erano più amate dal pubblico provenivano tue dal Centro-sud. Trascorremmo intere giornate e anche molte noi a pensare alla giusta interprete. L’idea che ci venne fu che con un’arice francese avremmo potuto trovare un coproduore francese. A Vera venne l’intuizione geniale: Simone Signoret, l’avevamo conosciuta quando aveva organizzato una serata a Parigi per presentare l’anteprima di Sacco e Vanzei. ella sera c’era anche Volonté; era stata una serata meravigliosa e Simone ci aveva accolto con grande affeo. Partimmo per Parigi e andammo a casa di Simone. La trovammo dimagrita e piuosto triste, ci abbracciò e ci invitò a sedere con lei nel suo accogliente soggiorno. Senza tanti preamboli le dissi che saremmo stati tui felici se avesse acceato di interpretare il ruolo di una staffea partigiana.

Mi fece cenno di aendere e, dopo aver frugato fra i tanti libri, me ne porse uno: era il romanzo della Viganò tradoo in francese. Sorpreso, lo sfogliai e in qualche pagina vidi degli appunti scrii a matita. La guardai. Tornò alla sua poltrona e, guardandoci con i suoi occhi tristi ci disse: “Vi ringrazio molto. Speravo davvero di poter essere Agnese ma, sapete, sto per morire… mi restano pochi mesi di vita.” Rimanemmo di sasso, io mi alzai e la abbracciai. Non riuscii a traenere le lacrime. Eravamo sconvolti, uscimmo da casa tenendoci per mano. Nel viaggio di ritorno non avevamo parole, fu Vera a rompere il silenzio: “Poverea, così bella e così umana. E ora noi che facciamo? Anche la nostra amica va a morire.” Appena a Roma convocai tui alla Palamo Film, era arrivato anche Gino Agostini. Intorno al tavolo eravamo tui avviliti. Non sarebbe stato facile trovare un’arice così brava per quel ruolo. Incontrai per caso a piazza del Popolo un caro amico, Franco Solinas. Ci sedemmo al bar a parlare delle nostre ultime avventure. Mi vide abbacchiato, così gli raccontai dell’Agnese, dell’incontro con Simone Signoret e delle pessime notizie che la riguardavano. Ora eravamo in difficoltà per sostituirla. “Hai pensato alla ulin?” mi chiese Franco e io mi figurai subito quell’arice svedese, bellissima e biondissima. Franco insistee: “Si è appena divisa dal marito e ora vive a Sacrofano, qua fuori Roma. Vai a trovarla.” Non avevo niente di meglio da fare così il giorno dopo andai a casa di Ingrid ulin. Mi aprì una cameriera cicciona che mi accompagnò in giardino. Ingrid stava uscendo dalla piscina, ammirai il suo bel viso e il corpo perfeo ma mi sembrò lontana anni luce dal personaggio immaginato. Non persi molto tempo, le raccontai brevemente di cosa avevamo bisogno, le lasciai la sceneggiatura e il mio numero di telefono. La maina del giorno dopo squillò il telefono, era lei: “Ho leo il copione, ci vediamo?” Un po’ stupito avvertii Vera e

nel pomeriggio andammo da lei a Sacrofano. Eravamo sceici ma, appena entrati in casa ci ricevee una donna vestita con un lungo camicione, dei grossi zoccoli ai piedi, speinata e senza trucco. Disse: “Ho mani grandi e piedi grandi. Ho sempre aiutato mio padre a pescare e a portare a casa in biciclea i salmoni, e i salmoni pesano. Io sono Agnese.” La guardammo senza parole, non era più la bionda dal corpo statuario che usciva dalla piscina. Dovei ricredermi e Vera le sorrise. Mentre stavamo salendo in macchina, Vera mi disse: “Se un’arice come lei dice quella frase, ‘io sono Agnese’, non ci sono dubbi, Agnese è lei.” A quel punto si rimise tuo in movimento, i produori, lo scenografo, noi stessi. Ma le sorprese non erano finite, Ingrid ulin chiese ai produori di poter andare a Comacchio per un mese prima dell’inizio delle riprese. Voleva conoscere e farsi raccontare da qualche staffea la loro storia. Una grande professionista. Vicino ad Alfonsine, soo l’argine di un fiume, trovammo un casolare che sarebbe potuto diventare la casa di Agnese. ando ne parlammo in paese i contadini della zona ci assicurarono che avrebbero pensato loro ad arredarla. Fecero un capolavoro. Tra Vera e Ingrid, sin dal primo incontro, nacque una amicizia calorosa, si intendevano al volo, erano diventate complici. Ma anche con il resto del gruppo sentimmo da subito una grande voglia di collaborare. Ogni giorno Ingrid cercava di imparare gesti, modi di dire e di fare, e oramai tui la chiamavano Agnese. L’autista le parlava in dialeo, non era per nulla facile capire ciò che diceva, neppure per noi, ma Agnese voleva imparare almeno un po’ di cadenza romagnola. L’autista era diventato il suo dialogue coach. Io mi divertivo a sentirli chiusi in macchina, lui che diceva una frase in romagnolo e lei, svedese, che la ripeteva. Arrivarono gli altri aori: Stefano Saa Flores (il comandante partigiano), Michele Placido, Nineo Davoli,

Flavio Bucci, Gino Santercole, Massimo Giroi (l’amante di Agnese), Johnny Dorelli, Eleonora Giorgi. Dalla Francia, solo per lavorare con la ulin, arrivò Aurore Clément. Anche William Berger sarebbe stato con noi. Iniziammo la lavorazione con la commovente assistenza di molti abitanti della zona. Spesso tua la troupe era invitata a cena e sul set ci portavano frua e panini con salame e prosciuo. Girammo una scena con Ingrid che doveva percorrere in biciclea un lungo trao di quell’infinito argine. Le donne che assistevano alla ripresa iniziarono a gridare: “Forza Agnese, non mollare.” Finalmente: “Motore, ciak, si gira!” E Agnese cominciò a pedalare. Tra gli aori si era creato un rapporto fraterno, lavoravano con impegno e nell’ora di pausa stavano tui insieme a ridere delle baute e delle storie raccontate dal formidabile Nineo Davoli. Proprio quell’anno, a novembre, sarebbe morto tragicamente Pier Paolo Pasolini, suo maestro e mentore, ma in quel magico aprile Nineo sprigionava tua la sua travolgente vitalità. Un pomeriggio, finita la lavorazione, salimmo tui sul pulmino per rientrare in albergo a Lugo. Mentre araversavamo la piazza di un paese Nineo vide una donna, fece fermare l’autista, aprì il finestrino e disse alla contadina: “Signo’, semo li partigiani dell’Agnese. C’avrebbe un po’ de formaggio e du fee de salame pe’ nnoi?” La donna allargò le braccia e rise: “Ma certo, con gioia, venite, venite.” Seguì una storica scorpacciata. el giorno dovevamo alzarci presto perché alle 7 sarebbe iniziato il lavoro nel cascinale restaurato dai muratori ravennati. Lasciai le accoglienti lenzuola e spalancai la finestra. Fui investito da un vento gelido e turbini di fiocchi di neve. Mi guardai intorno, era tuo bianco, le strade, le case, le rare automobili che passavano. Mi sedei pensieroso sul leo accanto a Vera. Lei, investita dall’aria gelida entrata nella stanza, si era rannicchiata ancora più soo le coperte. Le

scoprii un orecchio: “Le staffee raggiungevano i partigiani anche con la neve.” A quel punto Vera tirò fuori la testa: “Nella sceneggiatura non è prevista la neve.” Rimasi pensieroso qualche minuto ma poi decisi: “Vera, chiama la truccatrice, la costumista e l’operatore con la macchina da presa a mano. E chiama Ingrid.” ando raggiungemmo il set, la densa nevicata era aumentata di intensità. La prima scena si svolse in quell’ambientazione surreale, Agnese che avanza spingendo la biciclea mentre intorno a lei tuo è bianco, il cielo, l’argine, anche l’acqua rifleeva come un mare bianco. In quell’imprevista sequenza si sentirà la sua voce che si rivolge a Palita, il marito deportato e ucciso dai nazisti. “Sai che sono diventata responsabile delle staffee, tu non l’avresti mai immaginato…” Nei giorni successivi il lavoro riprese normalmente ma dovunque c’erano fango e chiazze della neve che si stava sciogliendo. Fu faticoso ma era tale l’entusiasmo che non ce ne accorgemmo, anche perché accadde un fao gioioso nella nostra famiglia, la nascita in Sardegna della nostra nuova nipotina Jana. Ci congratulammo con Elisabea al telefono e brindammo a grande distanza sentendola tra le nostre braccia. Arrivò il giorno dell’ultimo set, giravamo in un posto di blocco tedesco ricostruito magistralmente dallo scenografo. Agnese, insieme ad altra gente, doveva superare il varco vigilato da soldati armati. Mentre passano, un tedesco della pauglia che aveva arrestato suo marito Palita la riconosce, estrae la pistola e l’Agnese va a morire. Il film era completato. Un lungo applauso suggellò la fine delle riprese, ci abbracciammo e ci salutammo. Ora dovevo iniziare il lavoro di montaggio e mixaggio. Morricone aveva composto una meravigliosa colonna sonora. Il film uscì finalmente nelle sale, in tua l’Emilia ebbe molto successo di pubblico ma a Bologna vennero pochi speatori. Fummo tui sorpresi da questo fao, soprauo

Gino Agostini. Lo raggiunsi a Bologna con Vera, durante il tragio ci era venuta un’idea che forse poteva funzionare. A Bologna ci facemmo stampare subito dei volantini con su scrio: “Dal romanzo L’Agnese va a morire, scrio dalla vostra conciadina, Renata Viganò. Con tanto impegno e tantissima fatica abbiamo realizzato il film. Perché voi bolognesi non andate a vederlo?” Al maino mi piazzai davanti al cinema distribuendo i volantini ai passanti. Lessi lo stupore sulle facce della gente e risposi alle tante domande che mi fecero. Arrivarono anche alcuni fotografi e un giornalista. ello stesso giorno l’incasso al boeghino triplicò e altreanto successe nei giorni successivi. Ma la vita, spesso, dopo i momenti di felicità ce ne impone altri pieni di tristezza. Dopo mia madre Beatrice e mio padre Paolo, da tempo lassù seduti sulla loro nuvolea, ci aveva appena lasciati Leonardo, il magnifico comandante padre di Vera e di Leo. Furono giorni strazianti per Vera e suo fratello, e con loro anch’io piansi disperato. Da Genova arrivò Carmino, amatissimo nipote, che per giorni rimase accanto a Vera mamma, lei era forte e coraggiosa. Leonardo sarebbe rimasto sempre accanto a lei, così continuava a ripetere a tui. Anche Elisabea era molto addolorata, amava teneramente suo nonno. Il film venne presentato ai festival di Parigi, Belgrado e Teheran. Io e Vera decidemmo di andare a Teheran. ando arrivammo al cinema per la presentazione fummo accolti calorosamente dal pubblico in sala. C’erano anche molti giovani che, alla fine del film, si strinsero aorno a noi, forse perché immaginavano l’Agnese come una loro contadina in loa contro lo strapotere del regime dello scià. Con molti altri ospiti del Festival fummo invitati a cena nella ricca residenza della sorella dello scià. Ci vennero a prendere e un autista folle ci portò a destinazione a velocità pazzesca, infai arrivammo per primi. Appena entrati Vera

chiese di andare in bagno e un inserviente l’accompagnò. All’interno di quel bagno super tecnologico Vera ebbe un momento di incertezza, forse premee il pulsante sbagliato, fao sta che improvvisamente si scatenò un violento geo d’acqua. La doccea per pulire buava acqua dovunque, lei la prese in mano, provò a fermarla ma quella continuava a spruzzare; provò a chiedere aiuto, aprì la porta e subito arrivò un elegante signore che venne investito dal geo d’acqua. Era il marito della padrona di casa che, tuo bagnato, si dileguò. Il giorno dopo fummo cacciati dall’Iran, Vera, io e anche la povera Mariangela Melato che non c’entrava niente. Mariangela si infuriò e litigò con gli agenti che ci accompagnavano all’aeroporto: arrivò a strapparsi dal cappoo la coda di volpe con la quale si mise a percuotere un polizioo. Non ci fu nulla da fare, ci imbarcarono a forza sul primo aereo e ci rispedirono in Europa. In Italia il film venne proieato in molte scuole e io venni invitato spesso a presentarlo. Ero soddisfao perché, oltre al successo di boeghino, finalmente si tornò a parlare dei sacrifici delle donne durante la guerra di Resistenza. Vera e io tornammo ad Alfonsine invitati dal sindaco e, con lui, andammo a rivedere la casa di Agnese. L’interno era rimasto arredato come durante le riprese. La casa era diventata un luogo di incontro per convegni ed era spesso frequentata dagli studenti. Visitammo anche i dintorni. Nulla era cambiato, se con noi ci fosse stata anche Ingrid avrei potuto dire “motore, ciak, azione!” *** Il produore Mario Gallo mi chiamò perché voleva realizzare, con la mia regia, un film per la televisione da un racconto di Ray Bradbury, il grande scriore americano che aveva innovato il genere fantascientifico, dal titolo Circuito chiuso, sceneggiato da Nicola Badalucco. Lessi la storia a Vera perché ero fortemente indeciso se acceare l’offerta, ma lei lo trovò intrigante. Il racconto iniziava con l’immagine di una

grande sala cinematografica dove si proieava un film western in un pomeriggio qualunque, con i soliti pochi speatori che si nutrono di immagini, sullo schermo una sequenza con due pistoleri che si sfidano. Dall’arma puntata parte un colpo e in sala muore ucciso uno speatore. La polizia blocca tui e l’ispeore fa ripetere esaamente ciò che è accaduto. Al posto della viima si siede un inserviente del cinema. Si ripete la sequenza e poco dopo riappare la scena del duello, di nuovo il colpo di pistola e il giovanoo cade dalla poltroncina, morto. Arrivano i rinforzi della polizia guidati dal questore. Tra gli speatori c’è un sociologo che suggerisce al questore di guardare il panno bianco dello schermo. Infai c’è un buco. Alcuni agenti salgono sul palco, i colpi di pistola potrebbero essere venuti da lì. Si decide di eseguire una terza prova ma tui si rifiutano di prendere posto nella poltroncina delle viime. Ci si siede il questore dopo un’arrogante discussione con i suoi uomini. Parte il film e arriva la scena del duello. Ma il pistolero non spara, fissa il questore in sala. esto, terrorizzato, si alza e scappa ma il pistolero punta l’arma e lo uccide. Nelle successive immagini si vede il pistolero che guarda ancora la platea, rinfodera la pistola, gea il sigaro e si allontana. Si accendono le luci in sala. Gli speatori e i polizioi sono terrorizzati, il sociologo sale sul palco e trova il sigaro soo lo schermo. Ora non ha più dubbi: “Le immagini possono uccidere chi si nutre troppo di loro.” Decisi di acceare, per me era una nuova esperienza e i suggerimenti di Vera mi avevano convinto. Così io e Vera ce ne andammo in giro per Roma a cercare il cinema giusto, finché trovammo una sala parrocchiale a San Giovanni, il Don Orione. Gli aori, sapendo che si traava di televisione, quindi di visibilità assicurata, accearono quasi gratis. Giuliano Gemma, il pistolero, William Berger, lo sfidante, Flavio Bucci, il sociologo, e tanti altri come Aurore Clément, Maia Sbragia, Brizio Montinaro. L’ultimo giorno di lavorazione, nell’ora di pausa, Vera si accorse di essersi presa i pidocchi. Sparì immediatamente e

corse a casa. Per fortuna era l’ultimo giorno di lavorazione e la sua assenza non si fece sentire. L’indomani io e Leo partimmo presto per Boston dove verificammo la possibilità di realizzare un documentario sulla riabilitazione di Sacco e Vanzei firmata dal governatore del Massachuses Michael Dukakis su sollecitazione degli studenti di giurisprudenza di quella università. Non ci fu difficile oenere le autorizzazioni per la realizzazione del documentario e quindi tornammo presto in Italia. All’aeroporto ci aendeva Vera, vestita elegantemente da indiana e con un turbante in testa, una novità. Salendo in macchine le dissi: “Ti sta bene quel turbante” e lei, con un movimento degno del miglior teatrante, se lo tolse. Leo e io rimanemmo senza parole, era rapata a zero. Vera, ridendo, ci spiegò: “Ho dovuto farlo per eliminare i pidocchi che mi sono presa al cinema: mi sono rovesciata in testa una quantità di Mom che mi ha bruciato il cuoio capelluto.” Circuito chiuso era stato invitato in concorso al Festival del cinema di Berlino dove ritrovai in giuria l’amico Sergio Leone. Il film ebbe un buon successo tanto che la Rai decise di farlo uscire nelle sale cinematografiche. ando me lo proposero, mi sembrò una bell’idea ma poi pensai che gli aori erano venuti a lavorare per pochi soldi o addiriura gratis pensando che fosse un prodoo televisivo, se fosse diventato un film bisognava rinegoziare i loro compensi. La Rai non acceò, così Circuito chiuso rimase l’unico film per la televisione presentato a un festival cinematografico. alche seimana dopo andai a cena con Vera in un ristorante vicino a ponte Milvio. Vera indossava un bellissimo abito, giacca e pantaloni, i capelli erano appena cresciuti ma ancora molto corti. Mentre stavamo camminando sul marciapiede, da un bar della piazza si affacciò un omone che ci guardò mentre avanzavamo. Ci scrutò per bene, poi gridò verso l’interno del locale: “So’ tornati li froci a Ponte Milvio.” Ci guardò ancora un po’ e poi rientrò. Noi ci stringemmo ancora di più e ci allontanammo sbaciucchiandoci e ridendo.

Per evadere dalla routine romana decidemmo di fare una gita a Genova. Se mamma Vera aveva sempre considerato Carmino come un figlio, Angela, sua figlia, doveva essere nostra nipote. Partimmo pieni di allegria e di regali per i nostri parenti. Passammo alcuni magnifici giorni a Camogli con Angela e Giorgio, freschi sposi, e anche l’altro nipote, il simpatico Gigio. Un gioioso incontro ricco di tenerezza e affeo sincero. Abbiamo continuato questa tradizione tui gli anni anche perché Giorgio ci prepara, ancora oggi, oimi pranzi, e poi sono nati i loro figli, il gagliardo Stefano, ora avvocato, e l’ecleico e imprevedibile Andrea. Vera è sempre contenta quando decidiamo di andarli a trovare, ripete che è piacevole stare con loro e io sono d’accordo. Approfio ogni volta di questi viaggi a Genova per andare ad abbracciare mia sorella Ines e suo figlio Giancarlo. Vera mi accompagna sempre con grande felicità. Al rientro ricevemmo buone notizie anche da Elisabea. I nostri nipotini crescevano belli e simpatici. Aaccati alla cornea tui e due sentimmo commossi il vocino di Inti: “Ciao nonni.” Ce lo immaginammo scorrazzare sulle spiagge della Sardegna e sperammo di averlo presto un po’ con noi. *** Lo sceneggiatore Sergio Donati mi invitò nella sua casa di Fregene perché aveva scrio il soggeo di una storia realmente accaduta e me la voleva esporre. Lo ascoltai con aenzione. L’amico di un gioielliere, per fargli uno scherzo, con il berreo calato in testa e una sciarpa che quasi gli copre il viso, entra nella gioielleria gridando: “Fermi tui, questa è una rapina.” Il gioielliere estrae la pistola e lo uccide. Donati mi comunicò anche che Sergio Leone e il suo collaboratore Claudio Mancini erano pronti a produrre il film con la mia regia. Il titolo sarebbe stato Il giocaolo. Poche seimane dopo Sergio ci consegnò la prima stesura della sceneggiatura. Si traava della storia di un impiegato, incaricato dal titolare di una dia di versare o prelevare

denaro in contanti in banca. L’impiegato vive nel terrore di essere aggredito dai rapinatori. Diventa amico di un polizioo, frequenta il poligono di tiro, è sempre più bravo, mira, spara e colpisce il centro del bersaglio. È ossessionato dalle armi tanto che si compra un “giocaolo” e smee di avere paura. el giocaolo però è una pistola vera. Concordammo che il protagonista sarebbe stato Nino Manfredi, mentre Vera propose alcuni aori per gli altri ruoli; alla fine verranno scelti: Marlène Jobert (moglie di Nino), Arnoldo Foà (Griffo, titolare della dia), Viorio Mezzogiorno (il polizioo), Pamela Villoresi (Patrizia, figlia di Griffo). Manfredi mi chiese di collaborare alla stesura della seconda versione della sceneggiatura. Mi avevano avvertito che l’aore era molto esigente e decisi che avremmo lavorato insieme, la sua esperienza nei film-commedia all’italiana e in teatro poteva essermi utile. Un esempio che mi aveva colpito: un personaggio avrebbe dovuto dire, rabbioso: “Dovrei dirti una cosa ma non te la dico.” La versione di Nino diventò: “Sai che ti dico? (Pausa) Niente!” Chiedemmo a Claudio Mancini di riunire, prima dell’inizio della lavorazione, tuo il cast intorno a un tavolo per una due giorni in cui avremmo leo insieme la sceneggiatura. Se si voleva ritoccare qualcosa lo si doveva fare durante quella riunione e non sul set. Fu una specie di prova generale, gli aori leggevano e recitavano. Era un piacere sentire il grande Arnoldo Foà litigare con la figlia Pamela Villoresi, o ascoltare i dialoghi tra Manfredi e Mezzogiorno. Meno coinvolta fu l’arice francese che forse non si aspeava tanta amicizia e coinvolgimento. Avevo già vissuto la bella esperienza dell’amicizia tra Volonté e Cucciolla durante Sacco e Vanzei, e in quella occasione provai lo stesso piacere con Manfredi e Mezzogiorno. Anche la troupe era coinvolta da questa atmosfera. Ogni giorno a fine lavoro Claudio Mancini offriva un calice di vino con entusiasmanti cin-cin.

Anche Vera era felice, era diventata amica di Nino e della sua adorabile moglie Erminia. Il film fu presentato al Festival di Valladolid in Spagna e, quando uscì a Roma nelle sale, Elisabea venne dalla Sardegna per vederlo. Un po’ riconosceva la sua storia in quella di un uomo che cambia quando possiede un’arma, visto che suo marito aveva subito un aentato politico e per difendersi si era munito di pistola. Da quel momento la loro vita non era stata più felice e stavano per separarsi. *** Al cinema Mignon di Roma era in programma una retrospeiva su Carlo Lizzani. Decidemmo di andare a vedere Cronache di poveri amanti, film che Vera non aveva mai visto e nel quale io, agli inizi della mia carriera, recitavo il ruolo del proprietario di un negozio di salsamenteria, che gestivo insieme ad Antonella Lualdi, mia moglie. Siamo negli anni dell’espansione violenta del fascismo. Due camicie nere entrano nel negozio e pretendono un contributo in denaro minacciando me e mia moglie. Io mi rifiuto e li caccio via. Così, una sera, mentre torno a casa, un gruppo di fascisti mi circonda e mi massacra di boe. Nell’ultima scena sono in ospedale con accanto mia moglie. Le chiedo, nel delirio, con un filo di voce: “Che rumore fa la cassa che abbiamo appena comprato?” E lei, con le lacrime agli occhi: “Drin… drin… drin.” Io la guardo amorevolmente e ripeto: “Drin… drin…” Reclino la testa e muoio. Era una scena tragica ma Vera, seduta accanto a me, rompendo il silenzio commosso della platea esclamò a voce alta: “Certo che come aore sei proprio un cane!” Alcuni speatori si voltarono, una signora stizzita si ribellò: “Ma cosa dice!” Mi alzai e uscii offeso dalla sala. Poco dopo Vera uscì a sua volta dal cinema, si guardò intorno per cercarmi. Sentì un cane che abbaiava poco lontano. Mi aveva trovato: ad abbaiare ero io, nascosto dentro un portone. Per fortuna, anni dopo, la mia amata sposa fu costrea a rimangiarsi quella frase.

Spesso eravamo invitati alle cene della mondanità romana alla quale partecipava non solo il mondo del cinema ma anche quello della politica e dell’imprenditoria. Il più delle volte cercavamo di defilarci ma non sempre era possibile. Un’influente signora americana, amica di Vera, telefonò per invitarci a una cena al Grand Hotel a Roma soolineando: “Ci saranno anche dei ministri.” E Vera, che a volte perde la sua vena diplomatica: “Meno li vedo e meglio sto.” Per la verità la frase fu diversa, tanto che la sua amica scoppiò a ridere. Però acceammo e ci presentammo puntuali nel salone del Grand Hotel. Gli invitati erano moltissimi, tanti amici, tante persone influenti che conoscevamo di fama e un bel gruppo di politici. Al nostro tavolo presero posto il prefeo di Roma con moglie e Giulio Andreoi. Eravamo consapevoli che quando gli ospiti sono così numerosi l’antipasto arriva subito, il primo con calma, il secondo dopo una paziente aesa e il dolce è meglio gustarselo a casa. Andreoi prese subito la scena raccontando vita e miracoli di papa Sisto V, che per Gioachino Belli era solo e sempre papa Sisto, bizzarro personaggio che di noe girava per Roma vestito da contadino per ascoltare cosa si diceva di lui. Arrivò l’antipasto e Andreoi parlava, tra il primo e il secondo continuava a parlare, e sempre di papa Sisto. Vera cominciava a spazientirsi, la vedevo irrequieta e temevo il peggio. A un certo punto non ce la fece più e lo interruppe: “Con quel papa mi ha già roo…” Mi si gelò il sangue, il prefeo e la signora la guardarono a bocca aperta, ma Andreoi, come se nulla fosse, non si perse d’animo e chiese: “E de che volemo parlà?” E Vera, tanto per dire qualcosa: “Parliamo… del Friuli!” E lui, fulmineo: “Il Friuli è un’ampia regione storico-geografica dell’Italia nordorientale che comprende le aree di Udine (Friuli centrale), Pordenone (Friuli occidentale) e Gorizia (Friuli orientale), territori che già l’Impero austro-ungarico considerava Friuli. La questione della lingua friulana, di origini ladine, è molto interessante…” e continuò a ruota libera senza più fermarsi. Che personaggio. Ma il mio sentimento nei confronti dei saloi romani mi sembra ben descrio da questo componimento scrio in un

momento di alta ispirazione poetica: Lui tuo bello impeito fa finta di parlare Lei con lo sguardo vacuo fa finta d’ascoltare esto è il saloo buono Della romana gente Che ‘de li cazzi tua’ Non gliene frega niente. Dalla Sardegna arrivò Inti, finalmente dai suoi nonni. Era un bel bambino, simpatico e sveglio, che avevamo frequentato poco fino a quel momento. Vera si calò perfeamente nella parte della nonna e gli regalò una grande tenda da indiano che lui aveva sistemato nella nostra camera da leo. Io facevo il suo amico più grande e ogni tanto ci nascondevamo soo quella tenda per giocare. Durante alcuni giorni di vacanza da scuola partimmo per Procida per andare a trovare la bisnonna Vera che, sempre gagliardissima, diventò fiera di quel ragazzo e lo coccolò con grande affeo.

Con Il Milione esploriamo l’Oriente

In una cena da Angelo Guglielmi, magnifico amico e mitico capostruura di Rai Uno, il padrone di casa ci raccontò che una delegazione di deputati italiani, per la prima volta in Cina, era rimasta colpita dalla bellezza del paese e dalla calorosa accoglienza degli ospiti cinesi. Molti di loro avevano notato che spesso veniva ripetuta la frase: “Canbè Malco Polo.” Scoprirono che era un sentito ringraziamento al grande veneziano. In coda al suo racconto Guglielmi mi preannunciò che mi avrebbe chiamato il direore di Rai Uno per studiare come ricordare quel personaggio. Vera, che ascoltava con grande aenzione, aguzzò le orecchie. Fui convocato dal direore Mimmo Scarano e andai nel suo ufficio incuriosito. “Hai leo Il Milione?” mi chiese senza tanti preamboli e io, che mi aspeavo la domanda: “Sì, certo, anni fa. Marco Polo l’ha deato a Rustichello da Pisa. Erano in carcere nella Repubblica genovese, entrambi caurati dopo violente baaglie navali. È il resoconto di un lungo viaggio sulla via della seta, che Marco fa con il padre e lo zio. Ricordo bellissime pagine che raccontano usi, cultura, arte e tradizioni di quel popolo.” E lui: “Ti andrebbe di affrontare questa avventura in una serie televisiva?” Rimasi perplesso, per la verità non mi aspeavo la proposta di una serie, significava un impegno gravoso, molto tempo e molta fatica. Commentai come sopra pensiero: “Sta parlando di raccontare una storia che si svolge in tre continenti, Europa, Africa e Asia. Sarà dura.” Ma Scarano aveva già deciso: “Dobbiamo provarci.” La prima a provarci fu Vera. Appena saputo della proposta si entusiasmò e contaò subito alcune società francesi, tedesche e spagnole. Vincenzo Labella che, oltre a essere uno degli sceneggiatori del progeo, aveva amicizie americane,

firmò per conto della Rai un accordo di coproduzione con una major americana. Rifleei a lungo perché ero convinto che un progeo così ambizioso non doveva essere traato come un prodoo televisivo ma andava costruito con le caraeristiche di un film. indi cercai e trovai dei collaboratori esperti di cinema più che di televisione. Mi assicurai la partecipazione di grandi professionisti come Pasqualino De Santis per la fotografia, Luciano Ricceri per la scenografia, Enrico Sabbatini per i costumi, e lo straordinario Ennio Morricone per le musiche. E accanto a me, Vera, collaboratore alla regia, la migliore di tui. Ora mancavano solo i sopralluoghi e gli accordi finanziari con i cinesi. Dopo un volo lungo e turbolento con De Santis, Ricceri e Vincenzo Labella, finalmente arrivammo a Pechino. Sbarcammo borse e valigie e cercammo dei facchini. Inesistenti. Agli arrivi ci aendeva un gruppo di cinesi tui vestiti allo stesso modo. Dopo i saluti, che nessuno di noi capì, uno di loro si offerse di portare una valigia. De Santis, preoccupato di doversi portare i bagagli, ci consigliò ad alta voce: “esto ce sta, caricamolo.” La viima, con due valigie per mano e un sacco sulle spalle, si avviò verso l’uscita. Scoprimmo più tardi che era il viceministro della cultura. Il giorno dopo ci incontrammo in un ufficio con i funzionari incaricati di organizzare la produzione della serie. Per loro era un esordio, avevano solo partecipato alla realizzazione dei documentari sulla Cina di Michelangelo Antonioni e Carlo Lizzani, ma loro non avevano avuto bisogno di comparse né di troupe locali. Alle nostre richieste di manodopera i cinesi iniziarono a sparare cifre folli, seicento dollari alla seimana per il direore della produzione, duecento dollari per macchinisti, elericisti e così via. Noi ci guardammo interdei e chiedemmo all’interprete di tradurre ai funzionari la risposta di Labella: “Scusate, ci siamo sbagliati, a questi costi non

possiamo fare niente.” Avevano trovato, chissà dove, un prezzario dei lavoranti di Hollywood. Il giorno dopo chiedemmo di essere ricevuti dall’ambasciatore italiano, un elegante signore romano che ci accolse con calore. ando gli dissi che il film su Marco Polo non si poteva fare, rimase contrariato. “Ma cosa è successo?” chiese. Gli raccontammo l’incontro coi funzionari e le cifre esose che ci avevano sparato. Lui scoppiò in una fragorosa risata e poi: “I cinesi sono mercanti, non vi preoccupate. Se vi chiedono seicento, voi offrite venti, anche meno.” Ringalluzziti, il giorno dopo incontrammo nuovamente i nostri funzionari. Dopo contraazioni neppure troppo ardue passammo da seicento dollari a dicioo e tui gli altri compensi di conseguenza. Telefonai a Vera per raccontarle questa prima avventura e lei, con entusiasmo: “Giuliano, non mollare mai!” Nel fraempo i lavori nell’appartamento di via Paolo Emilio erano terminati. I nostri amici cinesi ci procurarono una grande camionea militare piuosto scomoda per i sopralluoghi in Mongolia. Labella rimase a Pechino per definire gli accordi mentre io, Ricceri e De Santis partimmo con quaro soldati cinesi che bofonchiavano la lingua mongola. Fu un viaggio interminabile, per due giorni ci inoltrammo in quell’infinito territorio senza strade saltando tra una buca e l’altra. Ci fermammo in paesini sperduti, ospitati in baracche e dormendo su lei di paglia con i cuscini imboiti di riso. Ci sosteneva solo l’entusiasmo dell’avventura. A un trao vedemmo in lontananza una lunga carovana di mongoli, centinaia di cavalli, migliaia di pecore e tantissimi cammelli che trasportavano le jurte, le loro casee. Alla nostra vista la carovana si fermò. Li raggiungemmo e fummo subito accerchiati da centinaia di mongoli nomadi. Ci accorgemmo che tui guardavano Ricceri con grande curiosità, non avevano mai visto un uomo con la barba.

Un anziano, forse il capo, scese da cavallo; aveva le gambe curve come la pancia del cavallo che montava. Uno dei soldati cinesi gli si avvicinò e scambiarono poche parole. Il mongolo fece segno di avvicinarci, estrasse da una sacca una specie di pipa e ci infilò delle foglie. Io tirai fuori dalla tasca due sigaree, tolsi la carta e gli offrii il tabacco. Il vecchio mi guardò con sguardo interrogativo poi tolse le foglie e mise il tabacco. C’erano tantissimi mongoli intorno a noi e ci guardavano incuriositi. ando accesi l’accendino avvicinandomi alla pipa, sentii mormorii di stupore, di incredulità, molti parloavano tra di loro. Il capo tirò alcune boccate, gli piacque molto, perché si voltò sorridendo verso i suoi con un gesto di apprezzamento; poi gridò un ordine a un giovane che scappò via tornando subito dopo con un agnellino tra le braccia. Il capo mi fece cenno di avvicinarmi con l’interprete che tradusse questo dialogo: “Un regalo”, “Abito molto lontano”, “Dopo il deserto del Gobi?”, “Sì”, “Oltre le montagne?”, “Sì”, “Allora portalo” e mi mise sulle braccia l’agnellino. Capii che per i mongoli nomadi la parola “lontano” non aveva alcun significato. L’agnellino l’ho poi regalato ai soldati cinesi. Rientrammo a Pechino dove Labella aveva concluso e firmato gli accordi finanziari mentre noi avevamo trovato quello che ci serviva. Con Ricceri e De Santis visitammo la Cià proibita. Ci aggirammo senza meta accompagnati dall’interprete e da una guida. Rimanemmo senza parole, era stupenda. La nostra speranza era che non fosse proibita anche per le scene che avremmo dovuto girare in quel magico luogo. Labella era il più oimista. Al nostro ritorno a Roma fummo accolti da una buona notizia. Vera aveva appena comunicato alla Rai che una società giapponese aveva acceato di coprodurre la serie. Con Ricceri, De Santis e Vera, partimmo per Venezia. Dovevamo risolvere il problema di piazza San Marco nel 1400. Io e Ricceri iniziammo la ricerca nelle isole e al Lido. Nel fraempo Vera e Sabbatini si aggiravano nelle calli

sperando di trovare qualche sartoria con materiale da trasformare in costumi dell’epoca. Al Lido, in località Malamocco, scoprimmo un grande spazio deserto in riva al mare davanti a un’isola verde, senza costruzioni. “È l’isola di San Giorgio prima della loizzazione” esclamò felice Ricceri. “Costruiremo in questo spazio la nostra piazza San Marco del 1400.” Ma erano ancora tanti i problemi da risolvere. Fummo costrei a rinunciare a filmare alcune scene in Palestina, a causa dei continui disordini in quel paese, e Ricceri propose di girare i pochi interni in Italia e gli esterni in Marocco. Un altro punto interrogativo fu il trasporto via mare delle arezzature per le scenografie e dei costumi, che erano tantissimi per ognuna delle oo puntate. Aori e comparse avrebbero dovuto cambiarsi d’abito, armi e divise a ogni puntata. La coproduzione americana propose i propri aori. Burt Lancaster, Anne Bancro e il giovane Mandy Patinkin per il ruolo di Marco Polo. Una scelta per noi oimale. alche mese prima, in un teatrino di New York io e Vera avevamo visto recitare un bravissimo aore, Murray Abraham. A fine speacolo andammo nel suo camerino e Vera gli chiese se gli sarebbe piaciuto recitare in un film italiano. “Immediatamente!” fu la risposta. Con una vigorosa strea di mano suggellammo il pao. Murray sarebbe stato nel cast. Andai a vedere il lavoro di Ricceri al Lido. Con la sua straordinaria squadra di carpentieri stava realizzando un miracolo, la piazza cresceva meravigliosa ed era quasi finita, i barconi d’epoca erano perfei. Ricceri stava facendo un lavoro costoso ma indispensabile. Nantas Salvalaggio, il noto giornalista veneziano, una maina salì sulla sua barca per un giro in laguna. Arrivato al Lido proseguì e a Malamocco gli si presentò davanti un’altra piazza San Marco, ma del 1400. Salvalaggio rimase senza

parole per lo stupore tanto che il giorno dopo pubblicò un articolo su quella sua straordinaria sorpresa. In quel periodo dovemmo fare i conti con un’improvvisa contingenza economica che fece lievitare i costi in maniera insostenibile. I contrai per la serie firmati prima di questo infausto evento, erano intoccabili, e i preventivi per i lavori schizzarono alle stelle. Dalla manodopera ai trasporti, tuo diventò d’un trao carissimo. In Rai ci furono momenti di forte tensione ma, con i contrai già firmati e i collaboratori da tempo al lavoro, il progeo non poteva essere fermato, si doveva andare avanti. Le penali per la rescissione dei contrai sarebbero state un massacro. Dopo lunghe e drammatiche riunioni venne rivisto il budget: la Rai avrebbe investito più del previsto. Come mi diceva spesso Vera (e come ancora oggi mi dice): “Forza e coraggio.” Partii per Los Angeles per incontrare Mandy Patinkin, giovane interprete molto apprezzato, al quale volevo proporre il ruolo di Marco Polo. Si era appena sposato con una ragazza anche lei arice, aveva leo la sceneggiatura ed era entusiasta dell’opportunità che gli veniva offerta. Il giorno dopo andammo tui insieme all’aeroporto, destinazione Roma e poi Venezia. Ci accompagnò la sua dolce sposina e assistemmo, con un certo imbarazzo, al loro addio straziante. In piazza San Marco iniziammo la lavorazione alla presenza di alcuni dirigenti Rai. Nella piazza si trovavano alcuni figuranti scelti da Vera, vestiti e truccati da veneziani del 1400. C’era anche un grande mercato affollato davanti al Palazzo Ducale e al pontile erano ormeggiati molti barconi. Una meraviglia. Nel pomeriggio Patinkin tornò in albergo dove qualcuno gli disse che nei tre mesi che avremmo trascorso in Mongolia non avrebbe potuto telefonare a nessuno. ando rientrammo anche noi il portiere dell’albergo ci avvisò che l’aore stava male. Lo trovammo sdraiato sul leo, in lacrime,

voleva lasciare il lavoro. Senza smeere di singhiozzare, ci confidò che non poteva vivere senza sentire la sua sposa per tre lunghissimi mesi. A nulla valsero i nostri tentativi di convincerlo, voleva tornare a casa. Era un guaio. Ne parlammo tra noi, decisamente preoccupati. Per fortuna Labella era amico di Lancaster, che in quel periodo si trovava a Roma: lo chiamò e gli espose il problema. Burt gli propose senza indugi il nome di Ken Marshall, un giovane e bravo aore che aveva appena finito di lavorare nel film La pelle di Liliana Cavani e che si trovava ancora a Roma. Per due giorni, in aesa del suo arrivo, girammo delle scene dove non era prevista la presenza del protagonista. Al terzo giorno, finalmente, arrivò lui, Ken Marshall, il nostro Marco Polo. L’avventura stava iniziando. Girammo le prime sequenze nella piazza con i tanti figuranti e ci spostammo anche nella puzzolentissima Isola dei Cani. Filmammo l’arrivo del veliero dal quale sbarcano, provenienti dall’Asia, il padre di Marco, Niccolò (Elliot Denholm) e lo zio Maeo (Tony Vogel). Marco non li vede da quando era bambino, fa fatica a riconoscerli, poi li abbraccia circondato dai tanti amici venuti ad accoglierli. Ogni giorno dovevamo combaere con una moltitudine di persone che sostava davanti all’ingresso dell’enorme costruzione con il desiderio di visitare la piazza. I due delegati Rai, stupiti che ci fosse così tanta folla, scoprirono che il guardiano, complice il figlio, alla domenica, faceva visitare la piazza a pagamento e la notizia si era sparsa. Il furbacchione fu cacciato subito. In quel trao di mare girammo anche la baaglia navale tra la Repubblica genovese e quella veneziana. Avevo deciso che le scene dovevano essere filmate da due macchine da presa e affidai la seconda al mio collaboratore Vera. Riprendemmo di noe, con il mare calmo, l’assalto dei marinai genovesi. Nella violenta baaglia sulla nave veneziana con morti e feriti, viene caurato anche Marco

Polo. De Santis aveva illuminato i set da maestro, i costumi di Sabbatini erano splendidi, ma la grande sorpresa furono le scene realizzate da Vera. indi girammo la partenza di Marco per la Cina con il padre, lo zio e i tre amici di Niccolò e Maeo. Le riprese a Venezia erano concluse, ero soddisfao, tui avevano fao un grande lavoro. Partimmo per Roma dove rimanemmo un paio di giorni nell’aesa che il materiale per filmare, caricato su due camion, arrivasse da Venezia. A Roma riunii tui i capi reparto già dalle prime ore del maino, dovevamo risolvere il problema Palestina. Al tavolo ci scervellammo per trovare i luoghi d’epoca dove era stato ospite papa Gregorio X (Burt Lancaster). Ricceri propose una basilica lontana dai centri abitati a pochi chilometri da Terracina. L’aveva già visitata e, secondo lui, poteva andare bene. Lo feci subito partire con Vera. Tornarono a tarda sera e Vera confermò che si traava di una località perfea, con pochi arredamenti da sostituire e anche un ampio chiostro d’epoca. Partimmo presto il giorno dopo per chiedere al priore il permesso di girare delle riprese cinematografiche. esti non mi fece continuare e iniziò a sbraitare: “Via, andate via, questo è un luogo sacro!” Si placò solo quando riuscii a dirgli che si traava della vita di Marco Polo. ando finalmente fu calmo ci disse che aveva perso le staffe perché un mese prima aveva permesso a una troupe di effeuare delle riprese senza sapere che si traava di un film pornografico. Aveva cominciato a sospearlo quando in sagrestia aveva sorpreso un “prete” in ai decisamente sconvenienti con una “suora”. Vera, uscendo, concluse: “Per Marco Polo portoni aperti.” E proprio in quella basilica riprendemmo la lavorazione. Il priore ci accolse con benevolenza e quando vide scendere dall’automobile Burt Lancaster si entusiasmò e continuò a starci dietro curiosando.

Ci aveva messo a disposizione tre stanze, una per i costumi e la sartoria, l’altra per il trucco e la terza dove Vera stava scegliendo le comparse giovani e robuste. Arrivò anche Ken che, appena vide Burt provare il costume del papa guerriero, corse ad abbracciarlo. Non lo aveva ancora ringraziato per averlo proposto nel ruolo di protagonista. In un museo di Genova il costumista Sabbatini aveva trovato una coa da crociato, un vestito di maglia metallica di circa dieci chili, che fu usato come modello. Burt la indossò e non la tolse mai, neppure nei momenti di pausa. “Aiuta a vivere il personaggio,” dichiarò più volte. Girammo le scene con legionari romani, crociati, Marco, il padre, lo zio e i tre compagni di viaggio. Ammiravo la splendida illuminazione con torce e candele e i perfei volti dei legionari e dei crociati scelti da Vera, mi entusiasmai per l’oima recitazione. Sentivo una grande felicità nel ripetere il solito mantra: “Motore, ciak, azione.” Ci trasferimmo in una località vicina a Tarquinia per girare nel soerraneo di una chiesa antica dove Leone X consegna a Niccolò Polo una piccola ampolla con l’olio santo chiesta da Kublai Khan, il mongolo diventato imperatore del Catai. Salutammo Burt Lancaster con entusiasmo, il suo ruolo era finito e lavorare con lui era stato magnifico. Un vero signore, sempre tranquillo e sereno, molto concentrato, perfeo per il ruolo. A Roma alloggiava in un appartamento nella caotica piazza Fontana di Trevi. Nei giorni in cui non era impegnato sul set, andava in un ristorante per imparare a cucinare i piai italiani. Il cuoco mi confidò: “Con poco successo.” Meglio il cinema. Arrivammo in Marocco per girare le scene previste in Palestina. In aesa di arezzature e costumi, e con una troupe ridoa, iniziammo a lavorare in quell’immenso deserto riprendendo una quantità di inquadrature dei veneziani in sella ai cavalli. Una sera assistemmo a una scena

naturale che ci lasciò esterrefai: il sole stava tramontando e contemporaneamente sorgeva la luna. Intanto Vera, con l’aiuto regista marocchino e due addei alla produzione, era partita alla ricerca del villaggio che sarebbe stato colpito dalla peste. Trovarono un piccolo centro abitato da famiglie di braccianti. L’aiuto andò a parlare con un gruppo di loro raccontando del nostro lavoro e delle riprese nel villaggio che, nel film, sarebbe stato sterminato dalla terribile malaia. Nacquero prima contestazioni poi reazioni violente tanto che i contadini cercarono di aggredirlo. Mentre lui fuggiva con i marocchini della produzione, Vera rimase immobile come a sfidarli. La osservarono con aenzione, impreparati ad affrontare una donna; poi, quasi intimoriti, l’accompagnarono fuori dal villaggio dove c’era la macchina parcheggiata. Al rientro l’aiuto regista riferì l’accaduto al direore di produzione marocchino che, molto seccato, salì su un’auto della polizia con due ufficiali e partì immediatamente. ando ritornarono era ormai sera ma il direore ci comunicò: “Fao, il villaggio è a disposizione.” Ricceri si mise subito al lavoro, sbarrò le porte, bloccò le finestre, chiuse interi vicoli come fosse davvero un villaggio decimato dalla peste. Vera intanto sceglieva i figuranti che poi Sabbatini vestì con i costumi di scena. Era una giornata nuvolosa, perfea per le inquadrature previste. Iniziammo con Marco, Niccolò e Maeo, seguiti dai tre amici veneziani che dovevano percorrere una stradina strea e deserta. Dal fondo apparve un corteo funebre con il cadavere steso, a viso scoperto, su due tavole di legno sorree dai paesani. La scena era talmente realistica che Jacopo, uno degli amici, si tolse il cappello, chiuse gli occhi e si appoggiò al muro, sul punto di svenire. esta scena non era prevista ma era perfea, avrebbe funzionato. I figuranti erano straordinari, recitavano come aori consumati. Vera mi raccontò che, tra le comparse, c’erano due

uomini del gruppo fortemente contrari alle riprese che poi si erano offerti di lavorare con noi. Nonostante il primo impao un po’ rude, ormai eravamo amici. Nella piazza deserta del paese, filmammo la scena nella quale i due veneziani riferiscono a Niccolò l’intenzione di abbandonare quella pericolosa avventura. Ormai logorati dalla stanchezza desideravano solo rivedere la loro terra, mentre Jacopo decide di rimanere con i Polo. Alla fine della lavorazione in Marocco e partiti gli aori, Sabbatini decise di regalare i costumi al direore di produzione marocchino. Io ero stanco, debole e avevo un po’ di febbre. Vera mi stava sempre accanto e anche molti dei collaboratori locali vennero a testimoniarmi il loro affeo. L’aiuto regista mi tradusse le parole che mi aveva rivolto il loro capo: “Lei deve stare bene. Coraggio, lei tornerà in Marocco a lavorare con noi, le vogliamo bene.” Eravamo pronti a partire quando i due delegati Rai ci comunicarono una notizia sconvolgente: nel consiglio d’amministrazione si era scatenata un’accesa discussione relativa al budget stabilito per la serie, dimenticando le circostanze che avevano fao lievitare i costi. Anche i giornali pubblicarono notizie sulle “spese folli” sostenute per realizzare il Marco Polo. Dall’Italia non erano ancora arrivate rimesse bancarie e i contanti che avevamo non bastavano neppure a noleggiare l’aereo. Un bel guaio: non potevamo tornare e quindi sarebbero sliati i tempi con tue le conseguenze sulle riprese. Nerone, il capo macchinista, che aveva seguito le nostre discussioni, se ne uscì con una proposta strabiliante: “Cacciamo fori tuo quello che c’avemo.” E accadde un fao indimenticabile. I lavoranti marocchini, che avevano ben compreso il bruo momento che stavamo vivendo, decisero di aiutarci versando i loro contanti e accompagnandoli con parole di affeo. Poche ore dopo, il direore di produzione chiamò Vera e le consegnò una grossa

busta piena di soldi. I due funzionari Rai confermarono che presto tui sarebbero stati rimborsati. Io ero in via di guarigione e la febbre era scomparsa. Era arrivato il momento di lasciare quella splendida terra. Salimmo sull’aereo tra baci, abbracci e lacrime di commozione. Viste le complicazioni che avremmo dovuto affrontare una volta giunti in Italia, eravamo allo stesso tempo dubbiosi ma con la speranza che la nostra avventura potesse continuare. A Roma, la polemica sui costi non si era arrestata, Scarano, il direore di Rai Uno, e Angelo Guglielmi, proposero di affidare la produzione alla Vides di Franco Cristaldi, segno che forse tue le problematiche economiche avrebbero potuto essere superate. Vera, che conosceva bene Franco, si recò subito nel suo ufficio e gli raccontò del prezioso regalo faoci dalla troupe marocchina, e lo pregò di restituire il denaro che ci avevano prestato. Senza esitare, il nostro produore rispose con un magnifico: “Sarà fao!” Insieme ai capi reparto incontrammo Cristaldi; decise lui che tuo il materiale necessario per le riprese in Cina avrebbe viaggiato via mare direo a un porto non lontano da Pechino. Allo stesso tempo si convenne, in funzione anche di una oimizzazione dei costi, che per le riprese da realizzare nel Golfo Persico e in Tibet avremmo avuto a disposizione una troupe ridoa composta dal direore della fotografia, un costumista, due macchinisti, due elericisti e Vera. Ricceri, il nostro infaticabile scenografo, sarebbe immediatamente partito per la Cina, c’era moltissimo lavoro da fare ed era necessario affreare il più possibile i tempi. L’organizzazione del viaggio richiese poco tempo e qualche seimana dopo iniziò la nostra avventura nel Golfo Persico. Dopo un lungo viaggio giungemmo in uno sperduto villaggio arabo, dove decidemmo di girare mentre il sole stava tramontando.

In quella scena Marco, Niccolò e Maeo, in sella ai cavalli, dovevano entrare nel villaggio dove vengono ben accolti dalla popolazione che offre loro alloggio e cibo. Mentre gli altri si riposano, Marco, sempre molto curioso, decide di esplorare i dintorni del posto che si trovava non lontano dal mare. A poca distanza dal villaggio la sua vista è abbagliata da fiamme altissime che escono dalla sabbia. Il paesaggio circostante è illuminato da quel rogo: lunghe lingue di fuoco si alzano dal terreno verso il cielo stellato. Nel Milione, Marco definirà quello speacolo naturale “i pozzi ardenti”. Riuscimmo a riprodurre quello straordinario fenomeno dopo un’impegnativa giornata di fatica grazie a Nerone e i suoi collaboratori. Le lunghe riprese nel Golfo Persico giunsero al termine e la nostra piccola troupe partì verso il Tibet dove, ad aenderci, trovammo freddo, neve alta e salite faticosissime. Nelle scene che dovevamo girare, i veneziani smontavano dai cavalli e, briglie in mano, proseguivano affondando le gambe in quell’immenso mare bianco. Un’improvvisa valanga di neve travolge Marco, che rotola giù dal ripido versante della montagna. Dopo pochi istanti il suo corpo scompare alla vista. Marco è introvabile e la disperazione colpisce il padre, lo zio e Jacopo. Marco però riesce a salvarsi e trova rifugio in una groa. La fortuna non lo abbandona e il nostro giovane veneziano, dopo qualche tempo, scorge un gruppo di sherpa tibetani che transita non lontano dalla groa dove aveva trovato riparo. Marco urla con tua la voce che ha in corpo fino a che viene sentito dagli sherpa che lo raccolgono e lo portano in un vicino tempio buddhista. Marco è stremato ma i monaci se ne prendono cura e il veneziano riacquista a poco a poco le forze. Il tempio in cui Marco ha trovato accoglienza è un luogo meraviglioso, ricco di raffinate decorazioni, con una statua del Buddha alta quasi venti metri che si staglia verso il cielo.

In quello splendido scenario stavamo girando una sequenza in cui Marco, aonito, assiste a un rito buddhista quando l’inquadratura venne bruscamente interroa da un urlo di dolore di Vera. Spaventato mi precipitai da lei per capire e aiutarla. Una vespa le era entrata nella tasca dei pantaloni e lei, infilandoci la mano, era stata punta dall’inseo. Il dolore, improvviso e inaspeato, era stato tremendo. Ci fermammo il tempo necessario per prestarle soccorso, mentre i monaci ci portarono delle pomate di erbe da meere sulla mano. Le pomate fecero rapidamente effeo, così, in breve tempo, riuscimmo a riprendere la lavorazione. I monaci furono molto collaborativi; la nostra presenza, novità straordinaria nel loro mondo fuori dal mondo, li divertiva molto. Fui soddisfao di ciò che avevamo realizzato, anche con una troupe ridoa. De Santis aveva svolto un lavoro meraviglioso e splendidi erano anche i costumi di Sabbatini, soprauo quelli realizzati per i monaci buddhisti. Ma la storia dei nostri viaggiatori non era ancora terminata. In quei luoghi, infai, dovevamo ancora girare la sequenza della lunga ricerca di Niccolò, Jacopo e Maeo in mezzo alle montagne innevate, a conclusione della quale finalmente i tre veneziani ritrovano Marco. Con quest’ultima scena finirono le riprese: era stata una bellissima esperienza conoscere quei luoghi e quelle persone, e adesso eravamo pronti a lasciare le fredde terre del Tibet. Dopo un lungo viaggio giungemmo a Pechino dove trovammo gli altri membri della troupe e gli operai cinesi che avrebbero lavorato con noi. A Nerone, il capo macchinista, vennero messi a disposizione cinque collaboratori locali, altri cinque per il capo elericista oltre a due interpreti. Il gruppo, ormai al completo, venne alloggiato in due alberghi nel centro cià. L’entusiasmo e la curiosità di tui rendevano la compagnia allegra e pronta per le nuove riprese. Per molti di loro era la prima volta in Oriente e, abituati al

traffico caotico di Roma, rimasero molto colpiti nel vedere le strade invase dalle biciclee. Mi accordai col direore di produzione per iniziare il prima possibile le riprese sulla Grande Muraglia che divide la Mongolia dal Catai. Il direore di produzione, con l’interprete, si recò immediatamente dal funzionario che lavorava in un ufficio costruito dentro una baracca ai piedi della scalinata che conduce alla Muraglia e gli chiese il permesso per le riprese. Il funzionario acconsentì, ma solo dietro il versamento di una cospicua cifra che l’interprete ci comunicò: “Tradoo in lire, quindicimila.” La cifra richiesta era giudicata troppo alta, e quindi l’interprete consigliò al direore di produzione di rivolgersi direamente al ministero competente. Con il direore di produzione, Vera e il traduore, chiedemmo di incontrare il ministro della Cultura (per fortuna non era presente il viceministro caricato di bagagli all’aeroporto). Dopo molti inchini da parte nostra e da parte sua, pregammo l’interprete di tradurgli la nostra richiesta: “Gentile ministro, se ci conferma che il costo dei luoghi per le riprese sarà sempre così elevato, saremo, a malincuore, costrei a rinunciare alla realizzazione del Marco Polo.” Il nome del veneziano è un simbolo per i cinesi e, davanti alla realizzazione di un’opera così rilevante, il ministro, seduta stante, decise di venirci incontro riducendo il costo per filmare sulla Grande Muraglia a millecinquecento lire. Dopo il via libera, partimmo subito per effeuare un veloce sopralluogo. ando giungemmo in cima alla scalinata ci si presentò una straordinaria visione, tra colline e valli infinite, la Grande Muraglia continuava a perdita d’occhio. Stranamente non c’era nessuno in quella splendida location, trovammo solo un fotografo con il suo cammello, in aesa di turisti, che ci guardava con grande curiosità. Dovevamo filmare al tramonto, ma l’inquadratura non prevedeva la presenza del fotografo che cercammo di

mandare via. Per vincere la sua resistenza i collaboratori cinesi gli offrirono un compenso che lo convinse a spostarsi. Il sole stava calando e noi dovevamo iniziare ma il cammello, abituato a scendere lo scalone all’imbrunire, se ne rimase ostinatamente immobile al suo posto. Neppure l’intervento del suo padrone servì a qualcosa ma poi, con grande pazienza, la troupe trovò la soluzione e finalmente il cammello fu allontanato. Eravamo pronti a girare. Marco, in compagnia di un cinese, doveva percorrere un trao della Grande Muraglia. Camminando si guardava intorno estasiato dallo straordinario panorama che gli si parava davanti. Anche noi tui fummo affascinati come Marco da quella vista impareggiabile. Dopo lunghi e faticosi sopralluoghi, Ricceri aveva trovato una località nell’infinita pianura mongola, dove poter girare le scene successive. Il luogo era adao perché, ai margini della pianura, erano presenti alcune colline dietro le quali avremmo potuto nascondere il grandissimo tendone per la sartoria con tui i costumi e le altre tende per il trucco e per il riposo degli aori. Per fortuna incrociammo una carovana di nomadi mongoli e con loro ci accordammo per trasformarli in figuranti: avrebbero interpretato i loro antenati di qualche secolo prima. Le traative erano difficili, spiegare cosa stavamo facendo a persone che non avevano mai sentito parlare di cinema e chiedere loro di recitare era impresa ardua anche perché le nostre spiegazioni venivano tradoe dall’inglese al cinese e poi dal cinese al mongolo. Erano pochi, noi avevamo bisogno di più di trecento uomini e almeno trenta donne, Vera decise quindi, in sella dietro a una cavallerizza mongola, di percorrere la vasta pianura verde. I nomadi infai si spostano per trovare la zona più fertile per le loro mandrie. Incontrarono alcuni capi tribù ai quali il traduore spiegò le nostre necessità invitandoli a raggiungere il nostro set.

Fu un lavoro immane che Vera riuscì a completare in pochi giorni. Avevamo ancora bisogno dei cavalieri mongoli al servizio del Gran Khan. Fummo raggiunti dall’ufficiale capo della cavalleria mongola al quale spiegai che dovevamo filmare un violento scontro fra i ribelli nomadi e i soldati del Gran Khan. Ebbi l’ardire di chiedere al grintoso ufficiale se i suoi uomini fossero bravi a cavalcare. Egli mi guardò con occhi torvi e, senza rispondermi, alzò un braccio impartendo un ordine a un soldato che poco dopo arrivò con una cassea sulla quale mi fecero sedere allontanandosi. Ero solo e non capivo cosa stesse succedendo. Udii un fischio e da dietro una collinea, sbucò una mandria di cavalli al galoppo senza sella e senza cavalieri. Mi stavano venendo incontro velocissimi, erano ormai vicini, stavo per essere travolto. Ero terrorizzato. Balzai in piedi per fuggire quando vidi risalire da soo la pancia dei cavalli i soldati che fermarono quella folle corsa a pochi metri da me. Un turbine di polvere mi investì e in un aimo fui circondato da decine di cavalli con i loro cavalieri che ridevano. L’ufficiale si avvicinò con il traduore e mi chiese: “Ti sembrano bravi abbastanza?” Se fosse stato in borghese e un po’ più smilzo, lo avrei preso a pugni. Avevo la pelle d’oca e l’adrenalina a mille, mi tremavano le mani ed ero spaventato dalle urla di Vera ma effeivamente dovei ammeere che sì, erano davvero bravi. Arrivò Vera agitatissima, “Sono pazzi,” mi disse. “Sì, ma molto bravi, e sono quello che fa per noi,” le risposi. Finalmente c’erano tui, figuranti e cavalieri. Vera li radunò davanti al tendone della sartoria, dovevano essere tui vestiti coi costumi dell’epoca. Sabbatini, il costumista, fece entrare il primo, un cavaliere. Le sarte e i collaboratori iniziarono il loro lavoro invitandolo per prima cosa a spogliarsi. Scoppiò il finimondo: urla, spintoni alle donne, il mongolo, furibondo, che tenta di aggredire Sabbatini. Con l’aiuto dell’interprete gli spiegarono che nessuno voleva fargli nulla di male e che dopo sarebbe stato vestito meglio di

prima. Dopo molto discutere il mongolo si tranquillizzò e permise alle sarte di concludere la sua preparazione. ando fu finalmente vestito e truccato si guardò incredulo allo specchio e sorridendo uscì di corsa per farsi ammirare, fiero come se fosse stato davvero un antico mongolo. Si formò un crocchio intorno a lui, gli altri lo toccavano e commentavano ridendo; poi, in un aimo, iniziò la baraonda, tui cercarono di entrare per primi in sartoria per farsi vestire e truccare, provocando così una rissa che faticammo non poco a sedare. Li lasciammo per andare a finire i nostri lavori e a fine giornata tui furono vestiti e truccati. Vennero a chiamarci per ammirare il risultato di quel lavoro titanico. Vera e io ci avviammo verso il tendone della sartoria ma scoprimmo che era vuoto, tui i figuranti erano spariti. Erano saliti in sella ai propri cavalli e se n’erano andati. Tui. Eravamo senza parole, Vera si guardava intorno sperando di vedere qualcuno all’orizzonte. Niente. E neppure il giorno dopo. Stavamo seduti nelle nostre tende e non sapevamo cosa fare. Sabbatini era in piena crisi, tui i suoi vestiti persi per sempre; i delegati Rai increduli; io, stremato e furioso, mi aggiravo tra le tende dicendo a tui: “Il film è finito.” La maina successiva, Vera decise di andarli a cercare. Su un cavallo senza sella, aggrappata a una ragazza mongola, insieme al traduore e ad altre donne partirono al galoppo verso la steppa mongola. Dopo ore, incontrarono delle famiglie di mongoli e poi altre ancora. Vera sapeva bene che sarebbe stato inutile spiegare loro che se i figuranti non fossero tornati il film avrebbe dovuto essere interroo. Nessuno di loro sapeva che cosa fosse un film. A sera rientrarono senza risultato. Vera era disperata. Eravamo al terzo giorno dalla loro sparizione e iniziammo seriamente a pensare come avremmo potuto sostituire quella parte fondamentale della storia. L’alternativa sarebbe stata di tornarcene a casa. Ma all’alba iniziammo a sentire il rumore dei cavalli al galoppo, stavano tornando, tui ancora

perfeamente vestiti e truccati. Ci riferirono che avevano fao un lungo giro per mostrarsi alle loro famiglie e agli amici, molto felici e fieri di indossare gli abiti dei loro avi. Riprendemmo finalmente a girare. Eravamo tui eccitati di ricominciare dopo quella preoccupante sosta forzata, solo Vera dovee riprendersi dopo le lunghe ore a cavallo del giorno prima. Ricceri aveva preparato una carovana formata da decine di carri e una gigantesca jurta, la tenda mobile del gran capo mongolo, appoggiata su un enorme carro trainato da sei cavalli. Intorno, cavalieri armati e poi centinaia di uomini e donne a cavallo e a piedi, e poi ancora cammelli, capre e pecore. ando tuo fu pronto ammirammo stupiti quel capolavoro di scenografia e, approfiando anche della magnifica giornata, iniziammo a girare. Riprendemmo i quaro veneziani che scendevano al galoppo da una vicina collina. Alla loro vista i soldati del Khan sfoderano le sciabole e si preparano allo scontro. Il Khan esce dal tendone mentre il solo Niccolò si fa avanti alzando un braccio in segno di saluto. Il capo, immobile, lo guarda sorpreso e osserva anche gli altri tre stranieri. Poi fa un cenno di saluto e ordina ai soldati di rinfoderare le spade. Niccolò e gli altri veneziani si avvicinano e la carovana riprende il viaggio con al seguito i quaro stranieri. Devono però guadare un torrente dove il pesante carro del Gran Khan affonda con le ruote. Si avvicinano in tanti ad aiutare a spingere, anche gli stranieri. Era una fatica immane ma con l’aiuto di tui superarono l’ostacolo. Decidono di fermarsi per la noe e, con rapidità inaspeata, montano le tende per tui e scaricano la jurta. Era oramai pomeriggio inoltrato e dovevamo prepararci per le riprese nourne. Riposizionammo le lampade, le arezzature, i binari coi carrelli e, poco discosto, il gruppo elerogeno. I mongoli erano sbalorditi nel vedere le nostre arezzature ma molto di più lo furono quando, alla sera, accendemmo le

lampade. Ne erano quasi spaventati, volevano avvicinarsi per osservarle meglio ma rimanevano abbagliati, poi confabulavano tra loro stupiti. Ricominciammo le riprese con una festa in onore degli ospiti veneziani. Il grande capo era perfeo così come tui i partecipanti scelti da Vera che correva da una parte all’altra del campo per spostare un oggeo o assegnare il posto giusto a un mongolo. Iniziammo le riprese e rimanemmo sbalorditi. I mongoli non stavano recitando, stavano facendo quello che normalmente fanno nelle loro feste, erano assolutamente naturali. Riprendemmo danze e speacoli con fuochi e prove d’abilità e anche Marco si doveva esibire ballando. Dopo quei giorni d’angoscia e di crisi eravamo felici di aver potuto fare delle bellissime riprese. Stavamo recuperando il tempo perduto. Il giorno dopo dovevamo riprendere la baaglia tra i mongoli ribelli e i soldati fedeli a Kublai Khan. Iniziammo con le riprese dall’alto di una collina da dove i veneziani stavano osservando la scena. Circa trecento ribelli arrivarono a cavallo assaltando il campo difeso da altreanti soldati. La baaglia si svolgeva tra le tende del campo e le nostre riprese, fae anche con la macchina da presa a mano, filmavano colpi di spada, corpo a corpo, assalti violenti. Dovevamo far capire la ferocia del combaimento e, soprauo, far sembrare quelle poche centinaia di combaenti, molte migliaia. I mongoli non si risparmiavano, la loa sembrava autentica, gli scontri cruenti si sprecavano tanto che, in quel caos, un soldato cadde a terra realmente ferito. Fermai subito la scena e corsi a soccorrerlo seguito da Vera e dal loro comandante. Giaceva a terra tramortito, l’ufficiale gli prese la testa con grande tenerezza e lo accarezzò fino a che non riaprì gli occhi e sorrise. Solo a quel punto l’ufficiale iniziò a capire cosa era successo. Per fortuna nulla di grave, ma lo aiutò ad alzarsi e lo accompagnò nelle loro tende. Vera mi guardò, anche lei era rimasta colpita da

tanto affeo da parte di un uomo dalle sembianze così rudi. Soo quella corazza c’era tanta gentilezza d’animo. L’avventura in Mongolia era straordinaria, i paesaggi, la gente, le tradizioni per noi così lontane. Ne parlammo spesso con Vera, eravamo eccitati, curiosi, eravamo (e siamo) così vicini nei nostri pensieri che a volte non so dire se ero io a pensare oppure lei. Ma eravamo anche tanto stanchi. Le sequenze da realizzare in Mongolia erano ancora molte ed eravamo davvero isolati dal mondo, la vita laggiù era veramente dura. Dormivamo, quando si poteva, in una vecchia caserma semi diroccata senza alcun comfort oppure nelle tende, al caldo e al freddo, gli insei e gli altri animali più o meno spiacevoli che scorrazzavano tra le nostre gambe. Mangiavamo cose senza sapere cosa fossero, cibi strani, sapori sconosciuti. Una maina, io e Vera uscimmo per iniziare il lavoro e trovammo la troupe schierata ad aenderci. Rimanemmo di stucco. Nerone, il capo macchinista ci affrontò: “A doò, nun se pò annà avanti così.” alche momento di suspense. “Sò tre seimane che nun sapemo c’ha fao ’a Roma.” Rimanemmo basiti. Non erano le famiglie o l’alloggio o il cibo, il problema era “’a Roma”. Comunque era una questione forse più difficile da risolvere che non le altre. Chiesi aiuto all’ufficiale cinese che ci seguiva, oramai un amico. Con molta difficoltà riuscì a meersi in contao con i dirigenti del ministero di Pechino che comunicarono con l’ambasciata di Roma e, dopo sei giorni, ci raggiunse il risultato dell’ultima partita. Convocai immediatamente la troupe e dal predellino di un camion feci il mio annuncio: “La Roma è stata sconfia in casa dall’Avellino, 2 a 0.” Un mormorio di disappunto salì dalla troupe poi Nerone alzò la voce: “Doò, nun ce faccia sapè più niente.” Poi si allontanarono delusi.

Il rapporto tra Nerone e i macchinisti cinesi era favoloso, non ha mai avuto bisogno del traduore, chiamava tui Chang e dava ordini in romanesco: “Chang, viè qua cò sta sostacchina. Chang, porta er ciak. Chang, dae da fa, mei er binario.” I vari Chang, diligenti, seguivano le istruzioni senza problemi, avevano imparato er romanesco. Le riprese continuarono in grande armonia, eravamo arrivati all’ultima seimana di lavorazione e poi avremmo lasciato le meravigliose verdi valli della Mongolia che ci avevano accolto con tanto calore. Malgrado la grande fatica, per tui noi rimarranno persone e luoghi indimenticabili. Il giorno della partenza una giovane mongola abbracciò Vera con trasporto e il capo tribù ci chiese, tra mille inchini, se poteva tenersi il costume di scena. Intorno a Marco, oramai un amico per tui, si strinsero i nomadi, salutandolo affeuosamente con abbracci e pacche sulle spalle. Dopo un interminabile viaggio raggiungemmo Pechino dove trovammo ad aenderci Franco Cristaldi e la sua bellissima moglie Zeudi Araya. Franco aveva già visionato molto materiale che era arrivato alla Technicolor a Roma ed era soddisfao. Mentre ci faceva i complimenti ci rendemmo finalmente conto dell’immane lavoro che aveva fao De Santis per far arrivare il negativo in Italia. Ci fermammo poco a Pechino perché l’arezzatura era già partita per la nuova destinazione insieme al grande scenografo Ricceri che, come sempre, ci anticipava per preparare le scene. Ricceri stava costruendo la “cià delle tende” in una località in riva a un lago dove Kublai Khan usava trascorrere i mesi estivi con la sua famiglia. Al nostro arrivo trovammo una cià immensa formata da tantissime tende disposte ai lati di un vialone, contornato da piante e fiori, che conduceva alla residenza dell’imperatore. Superato l’ingresso dell’enorme tenda dalla splendida facciata ci apparve la sala del trono, impressionante per maestosità e ricchezza degli arredi. Sulla riva del lago era ormeggiato il barcone imperiale decorato da fregi preziosi e decine di bandiere colorate che sventolavano

al forte vento. Trovammo ad ammirare quel meraviglioso lavoro un gruppo di cinesi impegnati nella produzione di un film. Erano entusiasti di ciò che era stato realizzato e stavano cercando di imparare come lavoravano i nostri tecnici. Cristaldi e sua moglie ci avevano accompagnato per assistere alle riprese. Marco, Niccolò e Maeo percorrono a piedi il lungo viale scortati dai soldati in alta uniforme, due guardie aprono il pesante tendone che funge da porta ed entrano nella grande sala del trono. Il rituale prevede che i tre si avvicinino, si inchinino e facciano tre passi indietro con la testa bassa. Arretrando Marco inciampa nel pesante tappeto e cade. Niccolò lo aiuta a rimeersi in piedi preoccupato della reazione dell’imperatore il quale però, invece di sentirsi offeso, lo guarda sorridendo divertito. indi venne il momento della consegna dell’olio santo che la moglie dell’imperatore aveva chiesto a Niccolò. Sarà lui a donarlo direamente nelle mani di Kublai Khan. La sala era fastosamente arredata con ori e tappeti preziosi, il trono sfolgorante di metallo prezioso poggiava su una pedana ricoperta di tappeti. Alle spalle, pesanti tendaggi riccamente ricamati. Girammo molte scene in quella tenda e nel resto della cià e anche sulla barca dell’imperatore. Era tuo così bello e ben fao che non potei astenermi dal fare i complimenti al nostro scenografo per il grandioso lavoro: “Ricceri non finisce di stupire! E anche Sabbatini con i costumi sempre nuovi che cambiano a ogni ambiente. Sono dei veri maestri!” Anche Cristaldi ne convenne e strinse vigorosamente la mano a tui i collaboratori. Vera era impaziente: “Ma quando arriva?” Eravamo in aesa di Inti, il nostro gagliardo nipotino di dieci anni partito da Roma con un cartello al collo e arrivato in Cina, in quel posto lontano da tuo. Al suo arrivo la troupe lo festeggiò come una mascoe. Eravamo orgogliosi di quel ragazzo,

aveva superato una prova difficile anche per un adulto. Vera era elerizzata, sapeva che avrebbe dovuto fare anche la nonna oltre che il mio collaboratore principale. Ma le piaceva. Il giorno dopo Inti si mise subito a seguire le riprese con noi, senza disturbare, aento e partecipe. A Vera venne un’idea strabiliante e chiese a Nerone di assumerlo come allievo macchinista. Nerone era la persona giusta, burbero e buono, soprauo aento a tuo e a tui. Nelle sue mani Inti sarà al sicuro. Inti era felice di poter partecipare al lavoro sul set come facevano i grandi e si dedicò con grande aenzione a imparare e a fare. Aiutava a sistemare i binari, correva a prendere gli arezzi, sempre pronto a eseguire gli ordini che gli venivano impartiti. Poi, a fine seimana, si meeva in coda come gli altri a ricevere la paga. esta era stata l’altra idea geniale di Vera, aveva affidato al cassiere una certa somma di tasca sua perché provvedesse alla paga del giovane collaboratore. E Inti ne era fierissimo. Dopo il primo stipendio venne di corsa da noi con gli occhi che gli brillavano a farcelo vedere. Era un ragazzino simpatico, affabile, amico di tui, anche dei componenti cinesi della troupe che lo accolsero con grande affeo. Dovevamo girare la scena delle grandi feste speacolari. Niccolò, Maeo, Marco e Jacopo erano seduti insieme ai dignitari e al pubblico per assistere alle esibizioni degli acrobati, dei loatori e dei ballerini con le sciabole. Uno speacolo straordinario che si concluse con i fuochi artificiali che riempirono il cielo di luci, colori e boi. Allo stop delle riprese tui scoppiammo in un fragoroso applauso, tua la troupe, i figuranti, i macchinisti italiani e anche i cinesi, entusiasti dello speacolo. Inti mi si avvicinò e mi sussurrò: “Ma sei sicuro che avessero già i fuochi artificiali?” “Certo,” gli risposi io, “li hanno inventati loro. Lo dice Marco Polo nel Milione.”

Ruocheng Ying, che interpretava il ruolo dell’imperatore, era un famoso aore cinese davvero molto bravo, così come l’arice che impersonava sua moglie, Beulah o, era magnifica, tanto che Zeudi ne era entusiasta e fece i complimenti a Vera per le scelte del cast: “Sei una forza! Ma come ha fao Giuliano a convincerti a collaborare?” E Vera, felice degli apprezzamenti: “Con l’amore, ovvio.” Franco Cristaldi seguiva tue le riprese, era aento e soddisfao di come stavano andando. Non interferiva mai sulle scelte che facevo e lo apprezzavo molto. Franco era un uomo intelligente e colto e sapeva fare il suo lavoro come pochi altri. Non a caso veniva chiamato “Tabelline”, perché mentre gli raccontavi la trama di un film lui prendeva appunti e, alla fine, diceva quale sarebbe stato il costo di quel lavoro (e non sbagliava mai). Viveva in una lussuosa residenza alle porte di Roma, una villa circondata da un immenso parco. Per alcuni anni con Claudia Cardinale e poi in una splendida storia d’amore con Zeudi. Lavorare con lui significava tranquillità, amicizia, oimismo. Un bel signore, sempre elegante, simpatico e tollerante. Meno su un punto: il catering. ello cinese lo trovava pessimo, immangiabile, e decise che doveva intervenire in prima persona. Chiamò sua sorella che arrivò in Cina con alcuni assistenti e abbondanti scorte. La notizia scatenò l’entusiasmo della troupe che aese trepidante l’assaggio del primo esperimento culinario. Dopo quella prova, la sorella di Franco venne soprannominata “Madre Foraggio”. Ci spostammo a Pechino per girare nella Cià Proibita. Era la prima volta che veniva concessa l’autorizzazione a una troupe cinematografica per filmare in quei luoghi. Era una location meravigliosa, perfea. Due enormi piazze contornate da palazzi antichissimi di un solo piano. Tra la prima e la seconda, un’immensa scalinata portava a un prezioso e gigantesco portale. Nella seconda piazza Ricceri doveva costruire il trono con ai lati le poltroncine per gli alti funzionari mongoli e gli altri ospiti. Ma il lavoro più impegnativo fu quello di Vera e di Sabbatini.

Vera doveva trovare molti figuranti giovani, snelli e alti di statura, mentre Sabbatini doveva vestirli come soldati, funzionari e alti dignitari. Fu un’impresa titanica che Vera portò a termine in brevissimo tempo, dopo aver visionato centinaia di giovanoi. Ci raggiunse a Pechino Ennio Morricone insieme alla sua bella e simpatica moglie Maria. Appena arrivarono sul set, tua la troupe li applaudì. Vera e io li abbracciammo con affeo. Franco Cristaldi gli fece grandi feste e lo invitò ad assistere alle riprese. A cena Ennio ci confidò l’emozione che aveva provato quando era entrato nella Cià Proibita, un sogno per tui gli occidentali. Iniziammo le riprese nella prima grande piazza dove entrava un corteo di militari in alta uniforme. Al centro, una portantina di dimensioni considerevoli sorrea da una cinquantina di mongoli. Sulla portantina, seduto su un ricco trono, Kublai Khan. In un religioso silenzio, il corteo sfila davanti ai soldati schierati sull’aenti fino alla grande scalinata dove la portantina viene adagiata a terra e l’imperatore ne scende per raggiungere da solo il grande portale. La ripresa successiva fu indimenticabile anche per noi che stavamo girando. Ripreso di spalle l’imperatore spalanca il grande portale rivelando la seconda immensa piazza piena di cinesi e mongoli riccamente vestiti e, sullo sfondo, il trono. Al di soo del palco del trono le poltrone degli ospiti davanti alle quali erano tui in piedi e a testa china. L’imperatore percorre il lungo corridoio formato dai militari rigidi sull’aenti fino al suo trono dove si volta verso la piazza e si siede. A quel punto anche i veneziani e gli ospiti si sedeero. Era stata una sequenza memorabile, unica anche nella storia della Cià Proibita. Inti continuava a seguire le riprese dibauto tra l’impegno col reparto macchinisti e la curiosità per questo mondo straniero e antico di cui non sapeva nulla. Era fiero di far parte della nostra organizzazione e ci meeva tuo l’impegno possibile per non deludere la nonna e il nonno.

Il giorno successivo riprendemmo a girare dove ci eravamo fermati: il trono, l’imperatore, i militari, gli ospiti e i figuranti erano nuovamente schierati come il giorno precedente. Dovevamo girare la scena della regina di uno stato confinante col Catai che per lungo tempo aveva fao strenua resistenza alle pressioni del Gran Khan, e che ora acconsente a essere annessa all’Impero. Dopo l’annuncio della soomissione dei territori del Sud, nel lungo corridoio di soldati schierati, l’austera regina e suo figlio, elegantemente vestiti di bianco in segno di luo, avanzano fino ad arrivare davanti al trono. Intorno a lei sono tui in piedi, anche Niccolò, Maeo e Marco. Davanti al Gran Khan la regina e il figlio si inchinano, l’imperatore si alza e, dopo un momento di silenzio, dichiara che da oggi il suo regno appartiene all’impero di Kublai Khan. indi la invita a unirsi alla sua famiglia. Con questa scena avevamo concluso le riprese nella Cià Proibita. Iniziammo a prepararci per trasferirci nel Sud. Tue le arezzature vennero caricate su grandi camion e i macchinisti e gli elericisti partirono sui pullman. Anche Inti andò con loro, fiero di far parte di quella straordinaria troupe addiriura come aiuto di Nerone. Per noi furono due giorni di riposo, finalmente Vera poteva essere tua mia. Ma non fu esaamente così, perché trovò il tempo per incontrare Emi, la sua amica cinese che si era laureata all’Università di Perugia e che, con il suo oimo italiano, era sempre pronta ad aiutarci. Ne approfiai per chiederle se a Pechino conoscesse un bravo agopunturista. “Certo,” fu la sua risposta, “il più bravo della Cina.” Mi organizzò subito un appuntamento e io mi feci accompagnare da Emi e da Vera. Volevo sapere come smeere di fumare. La gentilissima Emi mi tradusse la risposta: “Deve evitare i negozi che vendono sigaree. Però se vuole davvero smeere io posso aiutarla. Ma lei deve volerlo.” Vera mi prese per un braccio e mi portò via: “Abbiamo capito, lascia perdere. Tu non ce la farai mai.”

Dopo quella breve parentesi partimmo anche noi per il Sud, in aereo fino a Shanghai, poi in auto per raggiungere la troupe e Ricceri che era già al lavoro. Trovammo anche un raggiante Inti che stava lavorando insieme a Nerone, ormai erano diventati come padre e figlio. Purtroppo non potemmo dedicargli tanto tempo perché fummo presto rapiti dai nostri collaboratori per i sopralluoghi necessari alle prossime scene. A Pechino ci eravamo meravigliati di quella cià ricca e fastosa, ora, invece, avremmo dovuto filmare un Catai povero e disperato. Mentre la sartoria era al lavoro per produrre abiti logori, strapazzati e raoppati, Vera era di nuovo impegnata nella scelta di aori e figuranti a centinaia, che avrebbero dovuto interpretare i soldati dell’imperatore e i contadini in rivolta. Anche il truccatore e i suoi aiutanti avrebbero avuto molto lavoro da fare. Nelle scene successive si sarebbero viste le baaglie con i contadini in rivolta e i duri scontri con i soldati dell’imperatore. Niccolò e Maeo sono stupiti nel vedere tanta povertà, villaggi di baracche scassate e poveri braccianti con le mogli disperate. Jacopo, il servitore dei veneziani, sta male, non si regge in piedi, il suo viso è terreo ma non si lamenta. Sulla sponda di un grande fiume, gruppi di soldati cinesi lo araversano su dei barconi e assaltano il villaggio, bruciano le baracche, uccidono gli uomini, le donne e i bambini. Compiuta la maanza risalgono sulle imbarcazioni e riaraversano il fiume. Marco osserva inorridito questa strage e chiede, stentatamente nella loro lingua, di portarlo con una barca dall’altra parte del fiume. Vuole parlare con il comandante dei soldati dell’imperatore. Il comandante è sorpreso di trovarsi davanti uno straniero ospite del grande Khan e amico personale del figlio e ancora più sorpreso nell’apprendere che ha assistito all’assalto, agli incendi e alla morte che hanno disseminato. Marco chiede con fermezza che quella carneficina abbia termine. Poi riaraversa il fiume e comunica ai contadini che ci sarà una tregua.

La scena successiva si svolse in una capanna dove Jacopo, morente, è assistito da Marco, Niccolò e Maeo. I loro visi sono stravolti dal dolore e alla sua morte si riempiono di lacrime. La scena fu recitata con tale intensità drammatica che anche Vera e Inti si commossero. Avevamo terminato le riprese nel Sud, ora dovevamo ritornare a Pechino per le ultime brevi inquadrature. I camion vennero caricati e la troupe partì per il lungo viaggio verso la capitale. Oramai eravamo alla fine delle riprese in Cina ma ci mancavano ancora le due ultime inquadrature, una di Marco con il figlio dell’imperatore e una con Kublai Khan. Non sapevamo dove realizzare queste scene. La riunione con Vera, Ricceri e De Santis non ci portò nessun risultato. Proposi ancora la Cià Proibita, residenza dell’imperatore, ma avremmo dovuto chiedere nuovamente l’autorizzazione e questa volta per soli due aori. I delegati cinesi si misero subito in moto per farcela oenere e, per fortuna, ci riuscirono in breve tempo. L’ultima scena prevedeva che Marco aiutasse Kublai Khan che, in difficoltà, non riusciva a salire a cavallo, provava e rischiava di cadere. Marco lo sorregge e Kublai, sorridendo, lo ringrazia. Poi si allontana, si volta verso Marco e gli sorride ancora. Ora era proprio finita. Ci preparammo per tornare finalmente in Italia: la troupe stava lavorando per caricare i container con le arezzature e i costumi e tuo quello che non lasciammo sul posto. L’indomani ci trovammo all’aeroporto, noi e i cinesi che erano venuti a salutarci. Emi e le altre, tante, donne che avevano partecipato alle lavorazioni, abbracciarono e baciarono Vera con grande affeo e qualche lacrima. Tra di noi grandi stree di mano e pacche sulle spalle. Inti invece era disperato, sarebbe dovuto tornare presto a scuola e iniziare le medie. Effeivamente era comprensibile che, dopo

questa incredibile avventura, la routine scolastica gli sarebbe sembrata ben poco affascinante. Marco era al centro dell’aenzione di tui, fu quasi osannato anche dai cinesi che lo applaudirono a lungo. I macchinisti e i molti Chang stavano intorno a Nerone con dei regali. “Glazie Nelone, viva Nelone”, “Nelone non ti dimentichelemo mai.” Lui era visibilmente commosso così mi chiese: “A doò, come se dice grazie in cinese?” Lo guardai stupito e risposi: “Si dice vaffa…” Dopo mesi e mesi trascorsi in Cina, mentre i cinesi avevano imparato il romanesco, lui non sapeva neppure dire un semplice “xiè xiè”. Si era conclusa la nostra avventura, faticosa ma meravigliosa, la scoperta di un mondo a noi totalmente nuovo che avevamo guardato con gli occhi di un grande esploratore di cinquecento anni prima. Abbracciai Vera, mi era sempre stata a fianco, non si era mai risparmiata sooponendosi anche a lavori faticosi. Non mi aveva mai deluso, anzi, spesso mi aveva stupito con le sue idee originali. E io l’amavo sempre di più. L’aereo ci stava aspeando, gli ultimi fazzolei sventolati ci accompagnarono fino alla scalea. Arrivammo a Roma nella nostra casa, ad aspearci trovammo Elisabea con Jana, un altro magnifico regalo per noi nonni. Inti corse a riabbracciare la sua mamma e, da subito, iniziò a raccontare la sua straordinaria avventura: “Sai, lavoravo insieme al capo macchinista Nerone…” Già, Nerone, di cui pochi ricordano il vero nome – per alcuni Armando, per altri Aldo –, nato a Roma, nei pressi del Colosseo, moglie di nome Nerina, figlio di nome Bruno. Fisico atletico, forte il tono della voce, lo sguardo severo, poteva essere un imperatore romano. Però, che lavoratore. Un’istituzione per il mondo del cinema. Solo con Vera e il suo giovanissimo allievo, Nerone sorrideva mansueto. Avevamo tante cose da raccontarci e trascorremmo alcuni giorni felici. Vera fece la nonna per qualche giorno, la piccolina la impegnava molto e lei se ne occupava con gioia.

Ma il lavoro per il film non era terminato. Cristaldi, il direore Scarano e Angelo Guglielmi, avevano visionato le scene girate ed erano molti soddisfai; tra l’altro la competenza del nostro produore Cristaldi ci aveva permesso di finire il lavoro nei tempi programmati e senza problemi finanziari. Con Vera e i capi reparto ci trovammo nella sala proiezione della Technicolor e visionammo le sequenze girate in Cina: erano belle ed eravamo pronti per il montaggio e il mixage. Partii per New York per completare anche questa ultima fase, così come era previsto dal contrao di coproduzione con gli americani. Trovai ad aspearmi il loro montatore di fiducia, John Martinelli, persona simpatica e molto valida ma io sentivo già la mancanza del mio migliore collaboratore, Vera, che era rimasta a Roma. Lavorammo alacremente per concludere nel più breve tempo possibile montaggio e mixage, poi mostrammo la pellicola ai massimi dirigenti della società. Oo puntate, due giorni di proiezione, una visione piuosto stancante. Alla fine il direore mi fece grandi complimenti ma poi si lasciò andare a una critica: “Il viaggio per arrivare alla Mongolia è troppo lento, bisogna stringere, tagliare.” Dopo tua quella fatica non ero dell’umore giusto per sentire critiche di quel genere. Comunque il mio contrao prevedeva la clausola del final cut, quindi dipendeva solo da me se tagliare o meno, così gli risposi: “Con tuo il rispeo, le faccio notare che non hanno viaggiato su una Ferrari.” Ci fu un momento di freddezza e tensione ma non potevano impormi nulla. Terminò così il nostro incontro. La serie oenne un successo strepitoso negli Stati Uniti tanto che vinse il prestigioso Emmy Award, l’Oscar televisivo, e venne trasmessa in quarantasei paesi del mondo. In Italia ebbe il record di telespeatori che il sabato sera si radunavano nelle case per seguire insieme le puntate. Una sera, mentre passeggiavo con Vera nel nostro quartiere, un ristoratore, amico nostro, ci fermò e, con fare neanche tanto

simpatico, ci chiese quando sarebbe finita la serie, perché al sabato i clienti si dimezzavano. Il Marco Polo ebbe un boom di ascolti ben al di sopra delle aspeative. I dirigenti Rai che avevano tanto criticato le spese e che stavano per fermare le riprese, ora brindavano per il record di ascolti e le vendite all’estero. Fu un’operazione commerciale straordinaria che ripagò abbondantemente chi aveva avuto fiducia in noi. Era stata un’avventura faticosa e adesso era il momento del riposo. Ero stato invitato decine di volte a convegni e a conferenze per parlare del lavoro. I giornalisti mi telefonavano a casa a ogni ora per avere curiosità esclusive. Mi chiamò addiriura un rinomato programma televisivo di cucina per sapere una ricea di quei posti lontani. Io, che non so cuocere un uovo sodo, parlai entusiasticamente della “marmia mongola”, ovviamente inesistente, inventandomi un’improbabile ricea che spero nessuno abbia mai provato. I primi giorni di riprese di Marco Polo ci avevano fao innamorare di Venezia e Vera, dopo la fine del film, mi aveva telefonato per dirmi di aver comprato una casea in cià. Stavolta me lo comunicò dopo che fu arredata e pronta. “Vieni! Devi vederla.” A pochi passi dal Canal Grande, vicino al mercato del pesce, in una stradina laterale, c’è un palazzo. Tre piani di scale ed entriamo: piccola sala, camera da leo, bagno e cucinino. Le pareti del saloo sono affrescate da magnifiche immagini di Venezia. Una bella sorpresa: l’autrice è nostra figlia Elisabea. Madre e figlia hanno fao un gran lavoro. *** alche giorno dopo sono invitato a cena dal sovrintendente del Teatro La Fenice. Vera è con amici non lontano dalla nostra casea. Salutato il sovrintendente vado da lei per accompagnarla a casa. Entro nel ristorante e non posso credere a ciò che vedo. Vera balla sopra un tavolo, gli amici intorno a lei baono le mani e all’esibizione partecipano anche i clienti seduti ai tavoli. Mi vede, si inchina

e mi manda un bacio. L’aiuto a scendere dal tavolo, non si regge in piedi. Tanti saluti e ci avviamo verso la casea. La sorreggo. Percorriamo una strea calle a bordo di un piccolo rio. Vera sbanda, la tengo strea, a un trao bofonchia: “Devo fare pipì.” Rispondo: “Forza Veruzzi, ancora pochi passi e siamo a casa.” Mi spinge e si appoggia al muro: “Voi uomini fate la pipì in piedi, perché noi no?” Alza la gonna, fa scivolare le mutande, sta per cadere. Io la reggo e lei fa pipì. Vedo un uomo che avanza, tiene un borsone sulle spalle e una grossa valigia in una mano. La vede, sbalordito rallenta e si sposta verso il canale; sempre guardando Vera fa qualche passo di lato e cade in acqua. Urla parole incomprensibili. Afferro Vera e la trascino lungo la calle, giriamo l’angolo, lontane giungono le grida della viima. Pensai che in quel punto l’acqua era bassa. Aprii la porta di casa e feci entrare Vera.

I film dell’intolleranza e altri mestieri

Partimmo per Procida per abbracciare la gagliardissima mamma Vera e ci fermammo per qualche giorno. Vera e io riassaporammo il gusto della passione e delle gite in barca a fare bagni e a prendere il sole in intimità. Poi andammo a Parodi Ligure a trovare mia sorella Ines e suo figlio Giancarlo. Giorni bellissimi che sfruammo per riposarci ancora. Le vacanze non durarono molto perché appena tornati a Roma ricevei la telefonata del direore artistico dell’Arena di Verona che mi propose la regia della Turandot, opera lirica ambientata, appunto, in Cina. Forse credeva che avessi imparato qualcosa della cultura e delle tradizioni di quel paese e che fossi pronto ad allestire l’opera di Puccini. Altro aspeo non secondario era che mi intendevo pochissimo di lirica, un mondo per me inesplorato. Ma Vera ne era entusiasta, sua madre e sua nonna erano melomani e grandi amiche di Toscanini, padrino di baesimo della mia Vera. Non potevo perdere questa occasione. Per qualche giorno in casa si sentì solo suonare Puccini, dovevo farmi un’idea. Poi convocai il fedele e talentuoso amico Ricceri per gli allestimenti. Luciano mi consigliò come costumista Nanà Cecchi della mitica famiglia Cecchi d’Amico, una simpatica e giovane ragazza che si mise subito al lavoro con entusiasmo. Cominciò così il mio debuo nel mondo della lirica. Ma ero triste perché il mio fedele collaboratore, dopo tanti mesi di lavoro spalla a spalla, aveva ripreso il suo lavoro con le società tedesca e francese e non poteva muoversi da Roma. Mi promise però molte scappate per venire a trovarmi. Lei sapeva che avevo sempre bisogno di lei. Iniziai così la mia nuova esperienza, nello studio di Ricceri, insieme a Nanà che con competenza e grande

passione per la lirica mi insegnò i rudimenti della regia di un’opera. Ci spostammo a Verona e Vera ci raggiunse per qualche giorno. Insieme a lei, Ricceri e il direore artistico andammo a fare un sopralluogo sul palcoscenico dell’Arena; eravamo noi soli di fronte a quel grande capolavoro romano, noi e qualche dozzina di gai. Ricceri ci mostrò i disegni della reggia di Turandot, il direore delle luci mi diede alcuni consigli tecnici e il maestro del coro mi parlò dei suoi coristi che volli subito conoscere. Nelle poche opere che avevo visto da speatore avevo sempre avuto l’impressione di un coro estraneo alle scene, come se fosse bloccato in un ruolo marginale. ando li incontrai provai a far loro un discorso: “Per me, chi entra in scena vestito e truccato è un aore. Anche voi sarete aori e io vi aribuirò dei ruoli che voi seguirete. Aori. Non dimenticatelo mai.” Temevo che la reazione fosse contraria a questa novità nella lirica, invece scoppiarono in un applauso fragoroso, tui entusiasti della loro nuova veste scenica. Incontrai i protagonisti dell’opera: il soprano Ghena Dimitrova (Turandot), il tenore Nicola Martinucci (Cala), il soprano lirico Cecilia Gasdia (Liù). ando li ebbi davanti a me, mi resi conto che la Dimitrova era piuosto alta mentre Martinucci era piccolino. Ne parlai con Nanà che aveva già considerato di far vestire stivalei al tenore con suole di cinque o sei centimetri mentre la Dimitrova avrebbe avuto scarpe senza tacchi. Ma non bastava, avrei dovuto fare in modo che i due non si trovassero mai vicini sullo stesso piano. L’Arena di Verona è un teatro incredibilmente bello e unico e le prove soo un cielo di stelle mi hanno dato un’emozione impareggiabile, ma quando il cielo si ricopre di nuvole vengono i brividi. La sera della prova generale mi ritrovai in prima fila insieme a Vera, Inti e Nanà, fu una grande emozione per me poter dimostrare che ero in grado di fare il regista anche

negli spazi ristrei della lirica e non solo nelle vaste pianure mongole. La prova generale andò bene e fummo tui soddisfai anche del coro che cantava benissimo mentre “recitava”. Anche il direore artistico ci fece i complimenti. La sera successiva, nella magica atmosfera dell’Arena, il pienone di speatori ci premiò con lunghissimi applausi e, quando salii sul palco, sentii il grande apprezzamento che quella platea, storicamente molto esigente, mi stava tributando. Il successo fu tale che l’anno dopo venni invitato all’apertura della stagione lirica per ricevere il premio quale miglior regista… esordiente. Andai con Vera e Inti, ormai assiduo accompagnatore, e prima dell’inizio venni chiamato sul palco per ricevere il riconoscimento. Salii insieme a Inti emozionato di trovarsi davanti a tuo quel pubblico. Il sovrintendente mi consegnò il premio tra gli affeuosi applausi del pubblico e io lo misi nelle mani di Inti, che scendendo la scalea del palco, inciampò e cadde rovinosamente. Ci fu un urlo dalla sala ma lui, con grande presenza di spirito, balzò subito in piedi e si inchinò elegantemente verso il pubblico. Uno scroscio di applausi lo accompagnò al posto. La Turandot messa in scena a Verona venne replicata, sempre in grandi spazi all’aperto, a Francoforte, Vienna, Tokyo e poi anche a Roma, dove però non esisteva un luogo adao a contenere quella grande scenografia. Sergio Escobar, allora direore del Teatro dell’Opera di Roma, escogitò un’idea geniale: “L’arezziamo in una curva dello stadio Olimpico,” mi disse, “e se funziona meiamo in scena anche Tosca.” L’idea mi entusiasmò, con prezzi popolari e tanta disponibilità di posti avremmo potuto permeere a tui di assistere a quelle rappresentazioni. Ovviamente chiamai Ricceri e affidai i costumi a mia figlia Elisabea che alcuni anni prima anni era tornata a Roma e aveva iniziato la sua lunga gavea da assistente costumista, una carriera che da

quando era piccola sua madre aveva sognato per lei, visto il suo talento artistico e la sua passione per la storia. Ricceri, come sempre, fece il miracolo di allestire una scena formidabile e in poco tempo fummo pronti. La sera della prima arrivammo con grande anticipo, davanti all’entrata dello stadio c’erano già parecchi speatori in aesa e i soliti bagarini al lavoro. La curva si andava riempendo e molti stavano facendo il pic-nic per ingannare l’aesa. Poi si riempì all’inverosimile e alla fine gli applausi confermarono che la scommessa dell’opera allo stadio era stata vinta. Anche le repliche videro una grandissima affluenza di pubblico e, quando rappresentammo Tosca il pubblico era ancora più numeroso. La sera della prima, al momento in cui Tosca colpisce Scarpia con una coltellata dagli spalti iniziò il tifo da stadio: “Brava! Daje natra cortellata, ammazzalo quer fijo de…” Seduto vicino a Vera sorrisi quando lei mi disse: “Noi italiani amiamo il melodramma.” *** Mi stavo appassionando al mondo della lirica. Così acceai le proposte che mi giunsero da Genova a Firenze, e poi da Roma, Palermo, Catania e ancora da Verona. Elisabea era diventata bravissima e mi aiutò enormemente con le messe in scena. Vera, appena riusciva a liberarsi dal suo lavoro, non perdeva occasione per raggiungerci, collaborare e divertirsi insieme a noi. Fu un periodo felice, pieno di impegni diversi che ci permeevano di stare uniti. Venni invitato dal direore artistico della Fenice di Venezia a occuparmi della regia de Il pipistrello, la più famosa operea di Johann Strauss. ando lo annunciai a Vera scoprii un entusiasmo inaspeato, ma capii presto che complice era anche l’idea di passare qualche tempo in quella cià che amava particolarmente.

Iniziai a studiare l’operea che conoscevo superficialmente e solo per la sua musica trascinante. Mi vennero alcune idee che provai subito ad auare. Alla festa del principe Orlofsky, al momento del valzer, in scena c’è il coro che rappresenta tui gli invitati alla festa, ma è il corpo di ballo che entra e si mee a danzare, mentre gli ospiti stanno a guardare l’esibizione. Non mi piaceva, così proposi al direore un cambiamento: “Devono essere gli invitati a ballare, non altri. Facciamo ballare il coro, sono loro gli invitati.” Il direore mi guardò. “I coristi che ballano?” Rimase interdeo per qualche minuto poi si distese in un sorriso: “Forse è una follia, ma proviamo.” Ne parlammo anche con il direore d’orchestra Peter Maag che dopo qualche minuto di esitazione approvò l’idea. L’incontro con il coro fu stupefacente. Ne facevano parte donne e uomini di ogni età, che si erano ormai rassegnati al ruolo di comprimari, sempre sullo sfondo di un palco dove altri erano i protagonisti. Stavo proponendo loro di essere anche aori, sempre cantanti, ma al centro della scena. Un’entusiastica ovazione seguì le mie parole. alche giorno più tardi mi confidarono che alla sera, dopo le prove, si riunivano in una palestra per esercitarsi con il ballo. Il bravo e simpatico direore Peter Maag aveva l’abitudine di arrivare sempre con un po’ di ritardo, cosa che i musicisti non gradivano. Un pomeriggio, arrivai in teatro e notai che qualcuno dell’orchestra stava protestando: “Mi son stufo, mi me ne vado…” Erano ai loro posti e stavano aspeando il direore. Per stemperare la tensione mi avvicinai e proposi di fare uno scherzo al maestro. D’accordo con tui, mi misi al posto del direore con la bacchea: “Voi guardate il primo violino, non guardate me.” Eravamo pronti, una spia ci avrebbe avvertiti del suo arrivo. Si sentì in fondo al teatro la porta aprirsi e noi cominciammo a suonare. Furono oo minuti di profonda concentrazione per tui e, per me, faticosissimi a sbracciarmi come un ossesso. ando si spense l’ultima nota mi inchinai verso il pubblico per gli applausi, e il direore, unico speatore, si alzò dalla platea

scoppiando a ridere e disse: “Complimenti! Sei stato più bravo di me!” Prima dell’inizio della prova generale andai dietro le quinte per incontrare i coristi, li salutai e feci un breve discorso che conclusi con queste parole: “Signori e signore, ricordate che siete ospiti in costume a una festa, non siete coristi, ma ospiti, felici di danzare.” Poi andai a sedermi in platea accanto a Vera. Le musiche straordinarie di Strauss ci avvolsero, i coristi recitavano come veri aori e, quando fu il momento del valzer, i coristi entrarono in scena ballando e facendo acrobazie fantastiche, alcune coppie sembravano davvero dei professionisti. Vera mi guardò stupita: “Mai visto un corpo di ballo così, ma dove li hai trovati?” Le risposi soddisfao: “Non ci crederai ma questi sono i coristi!” *** Nel 1987 Piero Angela era già un divulgatore scientifico che godeva di grande popolarità e il suo programma televisivo ark aveva picchi di ascolto altissimi. Ed era anche un uomo sensibile, aento alle problematiche sociali, della guerra e dell’ambiente, sempre aperto a esperienze nuove. Conoscerlo e aiutarlo a sviluppare un’idea geniale per trasformarla in film fu per me non solo un onore ma anche un gran divertimento. Il soggeo si chiamava Il bunker e raccontava la follia che aveva travolto in quegli anni le classi più ricche del pianeta: costruirsi un rifugio sicuro in cui rinchiudersi in caso di guerra nucleare. Il titolo mutò in Il giorno prima e Piero collaborò alla sceneggiatura che raccontava la scelta di un gruppo di dieci persone molto diverse tra loro di sooporsi a uno stravagante esperimento promosso dall’azienda produrice: vivere in un rifugio antiatomico dove si sarebbe simulata la vita nel caso di esplosione della bomba. La sorpresa finale era che l’azienda aveva deciso di convincere il gruppo, una volta chiuso là dentro, che la guerra fosse davvero scoppiata, meendo in moto un vero psicodramma.

Avevo un cast magnifico e numeroso, ricordo Erland Josephson, aore preferito di Bergman, ma anche Burt Lancaster, Ben Gazzarra, Andréa Ferréol, Kate Nelligan, il giovane Andrea Occhipinti, oggi considerato il più aento e raffinato distributore cinematografico italiano, e ancora Alfredo Pea e Flavio Bucci, mie vecchie conoscenze dai giorni dell’Agnese va a morire, e molti altri straordinari aori. Gestire tua quella gente in un bunker ricostruito in teatro, con spazi assai limitati e in pieno agosto, fu un’impresa ai limiti del possibile, tanto che ancora oggi non amo parlare di questa coproduzione americana perché senza dubbio fallii, visto che il pubblico italiano questa volta non mi premiò in sala, a differenza di quello americano che gradì la versione televisiva del film. Mi consola solo il pensiero che il mio lavoro è simile a qualsiasi altro lavoro artistico: qualche fallimento è inevitabile. Anche se non te lo perdona nessuno. *** Nel 1987 Leo Pescarolo mi propose la regia di un nuovo film trao dal romanzo Gli occhiali d’oro di Giorgio Bassani, un’opera che conoscevo e che mi era piaciuta molto. La storia era ambientata a Ferrara e raccontava dei difficili anni del fascismo e delle leggi razziali, terribili per le famiglie ebree. Leo aveva già anche trovato altre società disposte a coprodurre il film. Nel libro era lo stesso Bassani che narrava la storia come voce fuori campo mentre nel film questo non era possibile, la voce narrante avrebbe dovuto essere quella del protagonista. Andammo a trovare Bassani a Ferrara per chiedergli di collaborare alla stesura della sceneggiatura: fu molto cortese ma declinò l’offerta, l’aveva già fao per un altro suo romanzo e non era rimasto soddisfao. Partii con Vera per Ferrara per i sopralluoghi e per incontrare alcuni amici dello scriore. I giorni che passammo con l’avvocato Paolo Ravenna, che aveva vissuto con Bassani quegli anni terribili, furono dolorosi ma determinanti. Ci raccontò di come loro, studenti ebrei, avevano vissuto il periodo della cacciata dall’Università di Bologna e di come un professore, insieme allo stesso Bassani, aveva creato una

scuola all’interno del gheo ferrarese per i ragazzi ebrei cacciati dalle scuole. Ne aveva parlato anche lo stesso Bassani nel suo libro, più volte e in prima persona, non erano solo episodi narrati, erano esperienze davvero vissute. Chiamai per la sceneggiatura gli amici Nicola Badalucco e Antonella Grassi e iniziammo insieme la stesura, cercando di mantenere il più possibile l’atmosfera incredula e tragica descria nel libro. Vera intanto preparava il cast. Mi propose come protagonisti Philippe Noiret, Rupert Evere e altri bravissimi aori fra i quali Valeria Golino, Stefania Sandrelli, Roberto Herlitzka e Nicola Farron. Nanà Cecchi, con la quale avevamo collaborato a Verona per la Turandot, fece la costumista aiutata da Elisabea. Chiamai Ricceri ad accompagnarci in questa nuova avventura certamente più facile del Marco Polo: il gheo di Ferrara infai è una location ideale per girare episodi degli anni della guerra e le ricostruzioni furono poche. Chiamai anche l’amico Morricone a comporre le musiche che l’anno successivo gli valsero il David di Donatello. Vera era felice di questa nuova regia nella sua amata Ferrara dove ritrovò molti amici dei suoi anni giovanili che ci aiutarono anche a scovare luoghi e cose che sarebbero state utili per il film. La vicenda raccontata nel film era una storia di intolleranza, tornavo così alle mie origini: dopo Sacco e Vanzei e Giordano Bruno questo sarebbe stato il terzo film sull’argomento. Il door Fadigati (Philippe Noiret), omosessuale, è viima di malevolenze e derisioni da parte della ricca comunità borghese che avvalla le tragiche angherie fasciste di cui è viima, fino al tragico epilogo. Dopo alcuni mesi eravamo pronti a girare. Arrivarono gli aori: Noiret, un vero signore d’altri tempi che non disdegnò mai di salutare togliendosi il cappello le persone che per strada lo riconoscevano; Rupert Evere, giovane e già conosciuto aore inglese, che il primo giorno si presentò con i jeans strappati sul ginocchio. Era guardato come un

mendicante, ma dopo pochi giorni tui i ragazzi di Ferrara si erano strappati i jeans nello stesso punto. Girammo avvolti dall’affeo di Ferrara; il sindaco, gli assessori e tantissima gente ci ricoprirono di gentilezze e ci aiutarono in ogni nostra necessità. Erano tui fieri che il romanzo del loro illustre conciadino stesse diventando un film. el film ha rappresentato qualcosa di speciale per noi, qualcosa che non possiamo dimenticare; le dimostrazioni d’amicizia di tante persone anche sconosciute, la simpatia di arici e aori, l’affeo di Philippe e Rupert e l’indistruibile rapporto di amicizia e complicità nato tra Vera e Marilù Anelli sono ancora oggi nei nostri cuori. Non per niente questo è ancora oggi il film più amato da Vera. La pellicola venne premiata per i costumi e la scenografia al Festival di Venezia, e oenne un ambito David di Donatello per le musiche di Morricone. Oramai Elisabea aveva consolidato il suo successo come costumista, aveva collaborato a molti film e speacoli teatrali guadagnandosi la stima di tui. *** Dopo il successo de Gli occhiali d’oro io e Vera ritrovammo il coraggio per affrontare un testo se possibile ancora più difficile di quello di Bassani. Tempo di uccidere è l’unico romanzo di Ennio Flaiano, genio leerario da sempre dedito alla scriura di sceneggiature, racconti, aforismi. Nell’opera, ambientata durante la guerra d’Etiopia, manca la sua consueta ironia ma domina un’atmosfera cupa, onirica e metaforica che cela il tema a me più caro, l’uomo solo in loa con l’intolleranza e la violenza. Avevo cercato di sceneggiare quel capolavoro con il grandissimo Furio Scarpelli e il giovane e sorprendente Paolo Virzì, che due anni prima si era diplomato con me in regia al Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Il film, del 1989, era prodoo da Leo Pescarolo che insistee per girarlo in inglese in modo da superare il

mercato italiano e affidare la parte del protagonista alla star hollywoodiana Nicolas Cage. Lavorare nelle ex colonie italiane era difficile e pericoloso, perché continuava a infuriare la guerra e la devastazione del paese, iniziata da noi italiani, non si era mai fermata. Al mio arrivo in Kenya, dove avevamo deciso di effeuare le riprese, incontrai in hotel Sergio Leone che, bloccato dalla stagione delle piogge, mi disse con aria triste: “Sai Giuliano, ho capito cos’è il mal d’Africa. Tornarci!” Davvero un bell’inizio. Non amo parlare di questo film e lo farò per il minimo indispensabile: vissi le riprese con un senso di estremo disagio, tuo fin dall’inizio mi suonava falso. Era come realizzare un film ambientato in Olanda ed essere costrei a girarlo a Tripoli. Per la prima volta mi sentivo un estraneo in un paese diverso dal mio e mi complicava la vita non girare nei luoghi reali, con un aore che per quanto bravo era distante anni luce da una storia italiana. Vera cercava di trasmeermi il suo entusiasmo, amava il paese e la sua gente, baeva villaggi e cià alla ricerca delle comparse più somiglianti agli etiopi, un’altra impresa quasi impossibile viste le etnie completamente diverse dell’Africa nera. Ai critici cinematografici presenti al Festival di Venezia, dove fu presentato, il film non piacque e furono decisamente impietosi, accusandomi di neorealismo e incapacità di restituire lo spirito del libro e, nonostante la magistrale interpretazione di Giancarlo Giannini, le musiche di Ennio Morricone e i bei costumi di Elisabea, fu un fiasco che mi avvilì talmente da tenermi per molti anni lontano dal set. *** Nel 1998 mi arriva una straordinaria proposta, assolutamente inaesa: la presidenza di Rai Cinema, la neonata società di produzione cinematografica della televisione pubblica. Era una carica importante, come essere a capo della Warner. Un ruolo non facile. È bello dire sì, il progeo piace, è interessante, ma è una sofferenza trovarsi

davanti un collega per dirgli che i leori del progeo hanno deo no. Discussioni di ore, amarezze, rancori. Però quando il film prodoo è invitato in concorso a un festival e premiato, baci e abbracci. Ma se è accolto con freddezza, stare accanto al regista e consolarlo è un altro momento di malinconia. Mi rimane l’orgoglio che il periodo della mia presidenza sia coinciso con una significativa ripresa del cinema italiano che, dopo un decennio di crisi, ha visto la produzione di opere straordinarie come Pane e tulipani (2000) di Silvio Soldini con Bruno Ganz, Licia Magliea e Giuseppe Baiston o I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana sulla figura di Peppino Impastato, con Luigi Lo Cascio e Luigi Maria Burruano. In quel periodo non ho scaato neanche una foto, sempre al lavoro, e anche Vera, in quegli anni, per correezza etica non ha lavorato con la Rai. Dopo cinque anni, un lungo periodo, ho lasciato l’incarico, ma l’amicizia nata con i dirigenti e con gli impiegati della Rai è sempre vivissima. In quello stesso periodo ebbi la gioia di veder iniziare la carriera di Inti come aiuto regista; da allora avrebbe lavorato nel cinema internazionale nei progei più impegnativi e alcuni anni più tardi mi avrebbe aiutato a riprendere a lavorare con grande passione nei miei ultimi film. *** Paolo Serbandini e il famoso regista russo Andrei Konchalovsky avevano lavorato alla sceneggiatura de I demoni di San Pietroburgo, una biografia di Fëdor Dostoevskij. Il grande romanziere fu ritenuto un provocatore e portato davanti a un plotone di esecuzione; all’ultimo momento gli venne concessa la grazia, ma fu costreo a trascorrere anni in Siberia. Una storia affascinante con un grande personaggio che non avevo mai smesso di sognare. Dalla società Jean Vigo, nel 2007, mi viene offerta la regia ma erano veramente troppi anni che non dirigevo un film, tuo intorno a me era cambiato, sui miei antichi collaboratori e sulle loro troupe non potevo più contare. “Perché non

chiedi aiuto a Inti?” suggerì Vera con il suo istinto infallibile. “È vero, Inti è in oimi rapporti con i migliori professionisti italiani di oggi, come ho fao a non pensarci?” Il mio nipotino era felicissimo di prendersi sulle spalle una scelta così difficile ma la sorpresa per me fu che accearono tui subito, senza pensarci due volte e rinunciando ad altri lavori molto più remunerativi pur di meersi a disposizione, come dissero loro, “di un grande maestro come lei”. Ebbi il meglio del meglio: alla fotografia Arnaldo Catinari, genio dai lunghi capelli; lo scenografo Francesco Frigeri, formatosi all’oima scuola dei suoi grandi predecessori; Luigi Rocchei che era il truccatore più celebre e maestro di Jana ormai era diventata sua prima assistente e, dulcis in fundo, i costumi progeati dalla nostra Elisabea, ormai affermata nella sua carriera e che aveva già vinto il suo primo David di Donatello per I cento passi. La produzione era un po’ tirata e ci rendeva difficile realizzare l’intero film in Russia e scegliere gli aori adai. Mentre mi chiedevo chi avrei potuto chiamare per il ruolo del protagonista, ancora una volta fu Vera ad avere l’idea giusta. E Frigeri ebbe l’intuizione che ci avrebbe consentito di girare a Torino e non in Russia: gli architei che avevano costruito le zone più significative di San Pietroburgo erano gli stessi che avevano creato le residenze reali di Venaria e Racconigi per i Savoia. Vera e io avevamo visto in Voci (2002), film trao da un romanzo di Dacia Maraini e realizzato da un caro amico, Franco Giraldi, il protagonista, l’aore serbo Miki Manojlović, conosciuto per Underground (1995) di Emir Kusturica. Dostoevskij poteva essere lui. Per l’arice nessun dubbio, Carolina Crescentini, brava e simpatica. Vera che la incontrò, disse: “È perfea.” Manojlović arriva a Roma, l’incontro è disastroso: lui è trasandato, barba lunga e baffoni, mille miglia lontano dal personaggio. Vera decide di portarlo da Luigi Rocchei e finalmente, dopo ore di aesa con la supervisione di Elisabea, esce Dostoevskij.

Francesco Frigeri ci convinse a girare una parte a Torino nei palazzi progeati dallo stesso architeo che costruì San Pietroburgo. All’inizio girammo negli splendidi saloni di Venaria, poi nella casa dove vive il protagonista, in un palazzo a Racconigi perfeamente arredato dallo scenografo. Un’altra location con un chiostro e accanto uno splendido giardino. Ma nel cinema un ruolo fondamentale lo ha sempre la meteorologia che, in quel caso, ci remava contro regalandoci l’inverno più soleggiato degli ultimi decenni. Così cominciavamo a preparare le comparse in piena noe per essere pronti a girare nelle brume dell’alba i totali con tonnellate di neve finta, poi con mille artifici e la sapienza di Catinari ci dedicavamo a deagli e primi piani. Mi domandavo: “Ma quando saremo a San Pietroburgo la neve ci sarà?” Un bel problema. La soluzione era una sola: girare la stessa scena due volte, una con neve finta e l’altra senza neve. Terminate le riprese a Torino, partimmo per San Pietroburgo. Nella splendida cià russa fummo ospitati in un hotel con piscina all’interno, Vera era felice perché adora nuotare. La troupe era ospite in un albergo poco lontano. Inti, ufficialmente aiuto-regista, venne a trovarci e ci raccontò che davanti al grande piazzale di fronte all’entrata dell’hotel c’erano delle donne a cavallo, forse delle polizioe in borghese. Ma si sbagliava, erano delle eleganti prostitute. I componenti della troupe rimasero colpiti e uno di loro disse che bisognava organizzare sfilate di cavallerizze a Roma in via Veneto per ricordare La dolce vita. Per due seimane lavorammo con serietà, senza problemi, i personaggi trovati da Vera tra gli aori russi erano perfei, le location d’epoca, non c’era bisogno di alcun intervento scenografico. Negli ultimi giorni realizzammo diverse sequenze di scontri fra studenti e guardie a cavallo, poi lasciammo San Pietroburgo a testa alta nonostante i tempi strei del piano di lavorazione continuamente correo da Inti secondo tempi

sempre più fii. Il rapporto così affeuoso con i giovani collaboratori che continuavano a dichiararmi più giovane di loro e con tua la mia famiglia intorno avevano prodoo il miracolo. I Demoni verrà accolto bene dal pubblico e verrà premiato con il Nastro d’argento ad Arnaldo Catinari per la fotografia e Francesco Frigeri per la scenografia. E, per la seconda volta, il prestigioso David di Donatello per i costumi fu vinto da Elisabea Montaldo. *** Gli anni passano e ricevo nuove offerte per la regia di opere liriche, anche dall’estero. Ma il desiderio di realizzare un altro film si fa sempre più forte. Mi propongono di tornare dietro la macchina da presa per realizzare un documentario, L’oro di Cuba. Acceo con entusiasmo. Partiamo, con Vera e una troupe ridoa, per quell’isola meravigliosa e così piena di significati politici. Effeuiamo tante riprese nella Baia dei Porci, dove i ribelli cubani americanizzati tentarono di sbarcare. Poi visitiamo la scuola dedicata a Cesare Zavaini, dove incontriamo tanti giovani allievi che studiano la storia del cinema e imparano a lavorare in questo campo con passione. Avremmo dovuto incontrare anche Fidel Castro, ma il líder máximo purtroppo era malato. I cubani sono un popolo meraviglioso e malgrado le tante difficoltà amano profondamente la loro isola. Vera, ammaliata dalla bellezza di quei posti, mi sussurra: “Mi piacerebbe tanto trovare una casea in quest’isola…” “Ma no? Tanto per cambiare?” rispondo alzando gli occhi al cielo… *** In un viaggio di ritorno da Venezia, nel 2011, dopo qualche giorno di felicità nella nostra casea, mentre in auto percorriamo l’autostrada, notiamo molte fabbriche semi deserte, pochi operai, pochi mezzi. Proseguendo, altre

immagini di piazzali vuoti, aziende con i portoni sbarrati. Ci fermiamo in un’area di sosta e poco lontano, davanti al cancello di una fabbrica, vediamo molti lavoratori che protestano. Borboo: “Ma cosa sta succedendo?” Vera mi risponde tristemente: “È la crisi. Temo che vivremo un bruo periodo.” Altri chilometri, poi un’altra sosta in un’area di servizio per un caè. Sto pensando a quella parola, crisi. Anche Vera è silenziosa, poi mi dice: “Immagina come sta vivendo questo momento il proprietario di un’azienda ereditata da suo padre, magari un ex operaio. Con l’incubo imminente di dover licenziare le maestranze.” Rispondo: “Potrebbe essere la trama di un film.” Vera: “Hai ragione, pensiamoci.” Il produore Angelo Barbagallo accea l’idea di un film sulla crisi e cerca una società di distribuzione per produrre il lavoro. Dopo una seimana abbassa la bandierina, si parte. La sceneggiatura è affidata ad Andrea Purgatori, mentre con Vera pensiamo a chi affidare i ruoli dei protagonisti. Pierfrancesco Favino è perfeo come proprietario della fabbrica, Carolina Crescentini interpreterà la sua bella moglie. Il film ha già un titolo, L’industriale, e per le riprese Torino è la cià ideale. Lo scenografo Francesco Frigeri, dopo un lungo girovagare nella periferia della cià, trova una fabbrica ancora in piena aività. Il proprietario ama il cinema ed è disponibile. All’esterno di quella fabbrica inizieremo le riprese. All’alba lo scenografo è già al lavoro all’esterno per sistemare striscioni di protesta e gigantografie dei figli degli operai. Arrivano le comparse perfeamente vestite da Elisabea, Vera e Inti le sistemano davanti alla cancellata, sedute a terra o su casse e sgabelli. Nel film lavora tua la mia famiglia, anche Jana, ormai a capo del reparto trucco. ando con la troupe arriviamo sul set, con nostra sorpresa, molti lavoratori degli stabilimenti della zona, in piena crisi, avanzano. Uno di loro con il megafono grida: “Anche voi che stavate lavorando senza problemi? Crisi

anche da voi?” Parliamo con loro e chiariamo l’equivoco, stiamo girando un film che parla proprio della crisi. Ora possiamo filmare con gli operai che in silenzio seguono il nostro lavoro. Ci spostiamo all’interno della fabbrica con la collaborazione del proprietario, il signor Bruno Scanferla. Realizzeremo una serie di sequenze di operai al lavoro, Nicola (Favino) che convoca tui e racconta delle sue baaglie per evitare chiusura e licenziamenti. Primi piani dei dipendenti, con visi cupi e tesi. Nell’ora di pausa vado ai gabinei e leggo una scria “Non dico di far centro, ma almen di farla dentro.” Tra me e me dico, il proprietario è anche spiritoso. Tante altre scene in diversi quartieri della cià. Poi affrontiamo due storie parallele, la dura loa di Nicola con le banche e la sua gelosia. Il nostro imprenditore sospea infai che la moglie si sia invaghita di un giovane venuto dall’Est. Su questi due binari la storia prosegue con diversi colpi di scena. Favino è un bravissimo aore, vive con passione il personaggio che soffre le difficoltà di quel momento poiché molti operai avevano lavorato accanto a suo padre che era poi diventato il proprietario dell’azienda. La Crescentini conferma il suo talento. “Pensavo che girare una storia di oggi sarebbe stato più facile ma non mi ricordavo quanto ti piace complicarti la vita!” mi disse Vera. Non potevo che darle ragione: per dare al film quella drammaticità delle storie senza speranza girai sempre nei giorni di pioggia e in lunghe ore di riprese nourne; la giovane troupe, gli stessi del film precedente, mi sostenne dandomi l’anima, ma alla fine eravamo stremati. Concluse le riprese torniamo a Roma. Riunione segreta nello studio di Vera, solo noi due. Con i calici di champagne, un brindisi al successo del film poi il tema reale: “E ora che facciamo? Abbassiamo la saracinesca?”

Vera: “Sì, forse è giunta l’ora… ma se dovessero proporci qualche racconto emozionante…” Sospiro e rispondo: “Nel periodo che stiamo vivendo, non credo. E poi la mia grande emozione è stare con te.” Cin-cin. *** In scena per l’opera a Genova, un bis di Turandot con un bel cast, scene di Ricceri, costumi di Elisabea, alla fine applausi. Vera è felice. Tra il pubblico c’è mia sorella Ines con il figlio Giancarlo e sua moglie Giuse. Dopo qualche tempo viene a trovarmi a casa un caro amico, Francesco Bruni, eccellente sceneggiatore e regista. Dopo il successo di Scialla! (2011) ha deciso di realizzare un altro film. È un piacere incontrarlo, siamo stati nello stesso periodo al Centro sperimentale di cinema, lui con gli allievi sceneggiatori e io con gli allievi registi. Mi racconta la storia della pellicola che vuole realizzare. Un uomo anziano, un poeta, colpito dall’Alzheimer, vive da solo, nell’appartamento di proprietà di una generosa signora che abita al piano sopra al suo. Il poeta ha bisogno di un badante a poco prezzo. La signora lo trova, un giovane trasteverino. Mentre Francesco racconta la trama si commuove, ha le lacrime agli occhi. In silenzio mi fissa, poi mi dice: “Mio padre è stato colpito dallo stesso male.” Sospira e continua: “Mentre scrivevo la sceneggiatura, pensavo che il poeta eri tu, Giuliano. Ti prego, dimmi di sì oppure rinuncio a fare il film!” Io rispondo senza indugi: “Sì.” ando ho raccontato a Vera che farò l’aore per Bruni, è scoppiata in una fragorosa risata e poi si è messa a fare il verso del cane. Chissà perché. Il film si intitola Tuo quello che vuoi (2017) e ha un cast composto da giovani interpreti, alcuni esordienti, come

Andrea Camperzano, il badante, ma anche una bravissima arice, Raffaella Lebboroni, nel ruolo della padrona di casa. Tuo quello che vuoi viene presentato in anteprima al Festival del cinema di Bari dal presidente Felice Laudadio. Un trionfo. Oltre venti minuti di applausi. Bruni è stato premiato in molti festival. Ha dovuto girare il mondo. L’aore che ha interpretato la parte di Giorgio Gherarducci, il poeta, è stato premiato con il suo primo David di Donatello. Mentre ero sul palco con la statuea in mano, ho guardato Vera seduta in prima fila. Avrei voluto abbaiare, ma mi sono traenuto. *** E finalmente con Vera abbiamo deciso che il momento di abbassare la saracinesca è arrivato davvero. Elisabea vive a Procida con il suo amato Piero, è felice. Scrive, dipinge, è protagonista di ogni evento culturale che si svolge sull’isola. Inti è un navigato e solido professionista del cinema, collaboratore di molti dei più importanti registi italiani e stranieri, è molto bravo e, a dea di quelli che hanno condiviso il set con lui, estremamente professionale. Jana è considerata una tra le migliori truccatrici sui set internazionali, e una delle poche cape reparto donna del seore. Vive a Londra con Richard ed è sempre al lavoro. Io e Vera siamo in aesa delle sorprese che ci regaleranno i loro splendidi figli, i nostri pronipoti Eva e Leone. Io amo sempre Vera. Grazie mia dolce creatura, se non avessi incontrato te che mi hai dato forza e coraggio, oggi sarei un ex portuale di Genova.*

N.B.: Vera Vergani e Leonardo Pescarolo si sono sposati a Roma il 22 febbraio 1930 alle ore 11. Giuliano Montaldo è nato a Genova il 22 febbraio 1930 alle ore 11. Vera, la mia Vera, è nata nove mesi dopo. *

Ringraziamenti

Ringrazio affeuosamente Giorgio Chiarva, Chiara Pedrazzoli, il nuovo amico di penna Stefano Teamanti e la mia adorata figlia Elisabea Montaldo che mi ha tanto aiutato.

In Lambrea a Genova con il mio nipotino Giancarlo negli anni cinquanta

Sul set di Kapò, aiuto di Gillo Pontecorvo

Aiuto di Pontecorvo in La grande strada azzurra

Tiro al piccione, il mio esordio nella regia, protagonisti Rossi Drago e Carriere

Il primo ciack di Tiro al piccione, auguri a “geo di champagne” con il direore della fotografia Carlo di Palma

Vera Pescarolo, una visione

Io e Leo Pescarolo soo il ponte di Brooklyn

Sto girando un primo piano di Bud Spencer in Go mit uns

Vera mio aiuto sul set di Go mit uns

Amici: Joan Baez, Ennio Morricone e Gillo reduce da una partita di tennis

Io e Vera proviamo un carrello per Sacco e Vanzei mentre la troupe è in pausa

I protagonisti di Sacco e Vanzei, Gianmaria Volontè e Riccardo Cucciolla

Riccardo Cucciolla premiato al Festival di Cannes come miglior aore per Sacco e Vanzei

La mia adorata Vera sul set

Il giocaolo con Nino Manfredi

Vera a Procida con il suo nipotino Inti

Insieme a Inti, dieci anni, in Cina per Marco Polo

Con lo scenografo di Marco Polo Luciano Ricceri

In Mongolia con il capo della Grande Carovana

Sopralluogo per Marco Polo in un tempio tibetano

Le cavallerizze mongole nei costumi di Enrico Sabatini

Con Pasqualino De Santis, direore della fotografia di Marco Polo

Con il grande produore Franco Cristaldi

Con il presidente della Repubblica Sandro Pertini alla presentazione di Marco Polo a Venezia

Nella nuova casa

Il giorno prima, nella foto con Ben Gazzarra, Andrea Occhipinti, Erland Josephson, Kate Nelligan

Con Philippe Noiret nel finale de Gli occhiali d’oro

Con Elisabea e sua figlia Jana

Giancarlo Giannini, prove di Tempo di uccidere

Con Leo Pescarolo in Africa

Tempo di uccidere, Ricky Tognazzi e Nicolas Cage

In una pausa con Vera in Africa

Vera Pescarolo, Vera Vergani, Elisabea Montaldo, tre generazioni di donne

Vera mi frega il ruolo

Con la maglia del Genoa

Jana Carboni al lavoro sul set

Noi due in viaggio negli anni 2000