Tra grammatica e retorica. Da Dante a Pirandello 8806055305


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Tra grammatica e retorica. Da Dante a Pirandello
 8806055305

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Tra grammatica e retorica Da Dante a Pirandello

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Einaudi Paperbacks

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METROPOLITAN TORONTO “

LIBRARY — Languages

WITHDRAWN From Toronto Public Library

Copyright © 1983 Giulio Einaudi editore s.p.a., Tortino ISBN 88-06-05530-5

Giovanni Nencioni

Tra grammatica e retorica Da Dante a Pirandello

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Indice

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Avvertenza

Fra grammatica e retorica da Dante a Pirandello 3 28.

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Conversioni dei Promessi sposi L’Orlando furioso pubblicato e commentato da Pietro Papini Trompeolettore vagabondo Il Vasari scrittore manierista? Lalingua di Michelangelo Danteelaretorica Agnizionidilettura L’Orlando innamorato rifatto da Francesco Berni, col commento di Severino Ferrari Antropologia poetica? Pirandello dialettologo Formeeformule nelle lettere del Manzoni L’interiezione nel dialogo teatrale di Pirandello Postille versiliane Giacomo Leopardi lessicologo e lessicografo

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Indice analitico

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89 108 132 r4r

Avvertenza

L’invito dell’editore Giulio Einaudi e l’insistenza dell’amico Pier Vincenzo Mengaldo mi hanno deciso a raccogliere qui alcuni miei scritti prevalentemente rivolti alla lingua letteraria. Scelgo quelli che, per essere più direttamente collegati a problemi e orientamenti che negli ultimi decenni hanno segnato il corso degli studi, possano conservare un qualche interesse per il lettore odierno. E li colloco in ordine cronologico, sia perché meglio egli si renda conto della mia partecipazione a quel corso, sia perché un raggruppamento tematico presterebbe a quegli scritti un’importanza paradigmatica che non hanno. In realtà la mia produzione saggistica è stata piuttosto rapsodica (Trompeo direbbe vagabonda). Le più volte ho scritto, e parlato, quando mi è stato chiesto d’intervenire su

qualche tema. Perciò alcuni di questi saggi sono discorsi scritti; e si sente. Il lettore vorrà accettare la loro occasionalità,

pensando che è l’inevitabile effetto di quella dell’autore. La raccolta comincia con una lettura manzoniana in cui

campeggia la biblioteca di don Ferrante. Consenta l’Editore che questa semplice avvertenza si allunghi fino a comprendere il ricordo che quelle poche pagine, al semplice toccarle per metterle al loro posto, hanno improvvisamente destato nell’autore. Il quale si è ricordato che don Ferrante e i suoi libri furono il tema di una delle ultime meditazioni di ben altro autore, Raffaele Mattioli. Egli sentiva — mi raccontò poco prima di morire — che quel personaggio era troppo vero per non essere stato vivo; e perciò si era messo con fede a braccarlo nella Milano dei Promessi sposi, rifacendo sulle carte del tempo, puntigliosamente, l’itinerario di Renzo Tramaglino in

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cerca di Lucia. Quell’itinerario e quel puntiglio lo condussero a un palazzo Spinola; altre indagini gli rivelarono che uno Spinola era morto nella famosa pestilenza e poté infine accertare che i libri di quello stesso Spinola erano passati nell’ Ambrosiana. Si riprometteva di esporre probativamente la sua ricerca appena il tempo glielo avesse concesso. Il tempo non glielo concesse. Mi è caro congedarmi dal mio don Ferrante nel nome di Raffaele Mattioli. G. N.

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Conversioni dei Prozzessi sposi *

1. Un’edizione dei Prozzessi sposi come quella che Alberto Chiari e Fausto Ghisalberti hanno procurato ai tipi di Arnoldo Mondadori era, pit che opportuna, improrogabile. Uno dei suoi tre tomi ci dà, col vero titolo di Ferzzo e Lucia, l’unico abbozzo del romanzo nel testo primitivo evitto da una selva di correzioni e varianti e corredato di tutte queste nel loro più probabile ordine genetico, oltre che delle postille di Claude Fauriel e di Ermes Visconti, obliterando sia l’edizione

antologica di Giovanni Sforza, sia quella integrale ma acritica che Giuseppe Lesca pubblicò nel 1915 col falso titolo Sposi promessi. In un altro tomo rivede la luce la prima redazione compiuta dei Promessi sposi, pubblicata tra il 1825 e il ’27 e non più ristampata come opera a sé da quando — or è quasi

un secolo — la Corte di cassazione, pronunciandosi sulla causa tra Alessandro Manzoni e Felice Le Monnier, sancî il di-

ritto dell’autore a disconoscerne il testo a favore di quello tisciacquato nell’Arno. Anche la ventisettana esce in edizione critica, cioè come ristampa della principe milanese emendata nelle scorrezioni e negli arbitrii del copista e del tipografo e accompagnata da un apparato filologico che ordinatamente raccoglie dalla minuta autografa, dalla copia per la censura e dagli interventi autografi su questa le correzioni, le varianti, i tentativi attraverso i quali il Manzoni è giunto alla forma consacrata nella stampa di Vincenzo Ferrario. Un terzo tomo

ripete l’edizione che dei Prozzessi sposi ultimi e canonici pubblicarono nel 1942 Michele Barbi e Fausto Ghisalberti, dopo che fin dal 1934 la questione del testo era stata posta su * Da «La rassegna della letteratura italiana», LX, serie VII, 1956,

pp. 53-68.

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rigorose basi dallo stesso Barbi; ma la presente, oltre ad annunciarsi un perfezionamento di quella (non fosse che per il prezioso ricupero di elementi originari saltati dal compositore tipografico e non reinseriti dal Manzoni correttore di bozze), è giustificata da un apparato dove le varianti raccolte sui margini dell’esemplare della ventisettana che il Manzoni — dispensandosi da una nuova minuta — acconciò per la tipografia, le modificazioni apportate sulle poche superstiti bozze in colonna, sulle prove di torchio e sui fogli di stampa già tirati e nuovamente riveduti; tutto insomma l’insistente lavorio

che corre tra la stesura del ’24-27 e il testo definitivo è ragionato al fine di ricostruire la volontà estrema dell’autore. Non possiamo addentrarci nell’opera dei due editori; e d’altronde sarebbe irrispettosa presunzione spacciare con due parole, fossero anche di lode incondizionata, il risultato di un impegno più che ventennale, assolto in parte sotto la guida di un maestro come Michele Barbi e tutto secondo i criteri fissati da lui. È però doveroso e, pur senza onere di prova, legittimo affermare che questa edizione, indubbiamente la più certa di quelle condotte finora, costituisce un’esca incomparabile e quanto mai tempestiva, per i manzonisti in genere, per i nuovi studi di critica stilistica in ispecie.

2. I quali studi — si potrebbe obbiettare — sono cominciati, su quel gran testo, da un pezzo: da quando il Canti, il Gelmetti, il Morandi, il D’Ovidio, il Rigutini, il Petrocchi (per fare i nomi pit notabili) promossero la comparazione tra la prima e la seconda stesura dei Prozzessi sposi, discutendo, classificando, motivando le correzioni. E quel loro lavoro resta valido come accertamento oggettivo di carattere idio-

matico e statistico, talvolta come giudizio di stile. Se non che ad essi — manzoniani puti o temperati, semi- o antimanzoniani — irretiti nella riardente «questione della lingua» e impegnati in sottili disquisizioni (che d’altronde tanto contribui-

rono, insieme con gli studi di linguistica storica e di filologia romanza, ad approfondire il problema delle origini della nostra lingua letteraria e alcuni concetti generali) attorno alla soluzione manzoniana, sfuggî di questa l’implicazione stilisti-

ca più importante e con ciò la possibilità d’impostare e svolgere la comparazione in modo adeguato. Ma ai critici ideali-

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stici, che quella soluzione ridussero, nei riguardi dei Promzessi sposi, ad una questione di stile, sfuggf forse più gravemente ciò che di essa a tale non poteva ridursi senza invalidare la scoperta più originale del Manzoni e distoglierne, come da un equivoco, la critica letteraria. Ne è indice il fatto che la lingua conquistata nella prima stesura del romanzo, frutto di un’esperienza linearmente tesa, fin dalla rottura col classicismo montiano, a trovare per gradi e vie molteplici — della lirica, della tragedia, della prosa morale, storiografica, epistolare — l'impasto, le strutture, il ritmo adeguati alla novità e complessità dell’ispirazione matura, non sia stata studiata che per contrapporla, quasi ombra alla luce, a quella della seconda redazione, che per rilevarne, a dirla col padre Cesari, le tecche, anche se non sono mancate nei comparatisti più indipendenti preferenze puntuali per la prima. Si è cosî pregiudicata la sua caratterizzazione, avallato lo zelo dei puristi e il campanilismo dei fiorentinisti, e fatto il gioco del Manzoni casanoviano, mirante a screditare la prima stesura e porla in dimenticanza. Che il travaglio linguistico del Manzoni fino alla prima edizione dei Promessi sposi sorga da un'esigenza di stile; e che l’insoddisfazione per la ventisettana e l’ulteriore ricerca formale muovano dalla stessa inappagata esigenza, è verità incontestabile, ma parziale; non implica, insomma, che tutti

i motivi di quel travaglio e tutti i criteri per risolverlo rientrino nei termini di un problema di stile, se per stile s’intende, come ha inteso la critica idealistica, il rapporto fra l’intuizione estetica e la sua espressione. Né con ciò ripieghiamo sulle premesse ideologiche della creazione manzoniana: i profondi interessi storici, morali, religiosi, il fondamentale antiestetismo. Vogliamo invece dire che nel travaglio formale dell’autore dei Promessi sposi s'inserisce, come fattore risolutivo, un’esigenza che, formale anch'essa, stilistica nel senso tradizionale non è; 0, semmai si tenga a conservarle questo attributo, bisognerà specificarla stilistica in senso ballyiano. Noi la diremo, a scanso di equivoci, linguistica. Quel sottile

scernitore ha sostenuto e dimostrato, primo in Italia, che lingua e letteratura sono, entro una vivente società unilingue,

entità correlate sf, ma diverse: precedente, più vasta, normativa, in quanto istituzione sociale e nazionale, la lingua. C'era

tanto da invertire non solo la secolare configurazione, lettera-

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ria ed aulica, della questione della lingua, ma il rapporto stesso tra lingua e letteratura. Se fino al Manzoni era spettato alla letteratura legiferare in materia di lingua e a questa adeguarlesi, col Manzoni il potere legislativo tornava alla lingua, e

toccava alla letteratura prender norma da essa. Gravi e, nella nostra tradizione, nuovissime le conseguenze: si pensi che, in forza della soluzione manzoniana, l’unità idiomatica so-

vramunicipale e la sovramunicipale validità che da secoli il letterato chiedeva per l’opera sua all’aulicismo linguistico, doveva cercarsi in direzione opposta, sî che l’aristocratico e il peregrino divenivano fatti eccentrici e, finalmente, provinciali. Si è troppo insistito nel distinguere i due tempi della concezione manzoniana della lingua: eclettica nel primo, fiorentina nel secondo; o meglio, si è troppo insistito nel dare a quei due tempi un valore diverso, se non opposto: letterario, nonostante le contrarie intenzioni, al primo, sociale al secondo. In realtà essi sono due soluzioni non antipodiche di un unico problema. Come l’esigenza e l'impostazione di quel problema sono restate identiche da Ferzzo e Lucia ai Promessi sposi del ’40, cosî dalle soluzioni eclettiche a quella esclusivamente toscana e, in extremis, fiorentina c’è svolgimento

lineare di una stessa ricerca, non diversione o inversione di

rotta. Ne è conferma il fatto che la seconda introduzione a Fermo e Lucia e la lettera al marchese Casanova, ultimo pronunciamento del Manzoni sull’elaborazione stilistica del romanzo, coincidono nel definite i motivi e i fini della ricerca.

Già nell’introduzione si confessa, sia pur paradossalmente, che la «dicitura» del romanzo è «un composto indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po” anche latine»; si afferma la necessità di evitare il «colore municipale», come han fatto in modo sufficiente coloro che hanno atteso ad uno «studio particolare della lingua toscana» 0, «trattando materie generali, discusse dai primi scrittori di Europa, si sono serviti di uno stile per cosî dire europeo»; si dichiara infine che, «a bene scrivere bisogna sapere scegliere quelle parole e quelle frasi, che per convenzione generale di tutti gli scrittori, e di tutti i favellatori (moralmente parlando) hanno quel tale significato; parole e frasi che o nate nel

popolo, o inventate dagli scrittori, o derivate da un’altra lingua, quando che sia, comunque, sono generalmente ricevute

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e usate. Parole e frasi che sono passate dal discorso negli scrittori senza parervi basse, dagli scrittori nel discorso senza pa-

rervi affettate; e sono generalmente e indifferentemente adoperate all’uno e all’altro uso. Parole e frasi divenute per que-

st'uso generale ed esclusivo tanto famigliari ad ognuno, che ognuno (moralmente parlando) le riconosca appena udite;

dimodoché se un parlatore o uno scrittore per caso adoperi qualcheduna che non sia di quelle, o travolga alcuna di quelle ad un senso diverso dal comune, ognuno se ne avvegga e ne resti offeso; e per provare che quella parola sia barbara, o inopportuna non debba frugare un vocabolario, né ricordarsi (memoria negativa che debb’esser molto difficile) che

quella parola non è stata adoperata dai tali e dai tali scrittori, ma gli basti appellarsene alla memoria, all’uso, al sentimento degli altri ascoltatori, i quali fossero mille, converranno tosto del sî o del no. Parole e frasi tanto famigliari ad ognuno che il parlatore triviale e l’egregio cavino dallo stesso fondo, e dopo d’averli uditi successivamente, un uomo colto senta fra di loro differenza d’idee, di raziocinio, di forza etc. ma non di lingua. Parole e frasi, per finirla, tanto note per uso,

e immedesimate col loro significato che quando uno scrittore ingegnoso, per mezzo di analogia le fa servire ad un significato pellegrino, quel nuovo uso sia inteso senza oscurità e senza equivoco, ed ogni lettore vi senta in un punto e l’idea comune, e quel passaggio, quella estensione etc. che ha in quell’uso particolare» (Ferzzo e Lucia, pp. 11 sgg.). Che differenza c’è tra questo ideale di lingua fissata dalla convenzione generale degli scrittori e dei parlanti, usata indifferentemente dagli uni e dagli altri, immedesimata col suo significato, occupante la memoria, l’uso, il sentimento di tutti cosî

esclusivamente che una deviazione dalla norma comune possa offenderli; che differenza c’è tra questo ideale e quello — dichiarato nella lettera al Casanova — di una lingua dall’andamento naturale, scorrevole, spigliato, dove tutto scorra, sgusci a meraviglia, di una lingua non sfentata né strascicata né screziata né appezzata né cangiante né astratta, qual era nei primi Promessi sposi? Come concezione teorica e come fine pratico da raggiungere, nessuna. Che è infatti la parola

convenzionale, immedesimata nel suo significato, se non quella che scorre, che sguscia via? Una parola, insomma, che non si accampa davanti al lettore, e si fa subito dimenticare; una

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parola senza nimbo, che serve l’idea o l’immagine e non fa aggio su essa; magari eloquente, ma né squisita né ornamentale né illusionistica: qualcosa di anestetico, segno e non insegna, elemento di una (per usare un tecnicismo linguistico) sincronia comune e vigente. E che è mai, d’altro canto, una lingua d’autore dichiarata globalmente composta, indigesta, screziata, appezzata e cangiante, se non un impasto guardato dall’esterno dell’officina scrittoria, cioè commisurato ad una entità semplice, omogenea, unitaria, che siede al di fuori e al

di sopra? Fin dalle liriche e dalle tragedie avvertiamo i prodromi di questa esigenza; non fosse che come stridore tra la coda dorata che molte parole, forme e costrutti si tirano dietro e la sprezzatura con cui il poeta li costringe a significare. Ma siamo ancora entro il rapporto fra la tradizione letteraria e lo scrittore, entro l’orbita cioè del linguaggio letterario; manca un punto di confronto e di riferimento esorbitante che, in termini sia pur vaghi, impersoni la norma istituzionale. Il quale punto, invece, esiste fin dall’abbozzo del romanzo, seppure più come esigenza ormai matura che come realtà. Ma l’importante è che il Manzoni guardi non più dentro, ma fuori della tradizione letteraria; che il rapporto tra quella e lo scrittore si sia arricchito di un terzo polo, il polo della lingua, complicando di una nuova dimensione il problema stilistico tradizionale. 3. Fin dal tempo di Ferzzo e Lucia il Manzoni era dunque — non allarmi l’anacronistica parola — strutturalista. Solo che quel terzo polo, quella nuova dimensione restava un’incognita da trovare. Nessuna sincronia comune e vigente era lf

ad accogliere il ribelle al costume ristretto e prezioso, a consentirgli di staccarsi a un tratto dal polo della tradizione letteraria. La tastiera di segni anestetici — né comete né insegne

né flauti — doveva esser costruita sperimentalmente, deducendola da quella stessa tradizione, dalle recenti esperienze illuministiche e romantiche, e dai principali usi idiomatici d’Italia, colti nelle loro concordanze orizzontali. Il modo stesso di lavorare del Manzoni, prevalentemente per via di vocabolari, d’inchieste e di confronti tra sincronie contemporanee — cosî diverso dalla tradizionale formazione

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del letterato italiano, maturantesi soprattutto nell’assaporamento dei grandi modelli del passato, — ci dimostra quanto la sua posizione fosse, in teoria e in pratica, innovatrice fin dalla prima stesura. Fino da essa il suo eclettismo linguistico si differenzia profondamente da quello di un Cesarotti e di un Monti, aspiranti a giudiziosa libertà e modernità, ma — come ha dimostrato lo stesso Manzoni — su un piano di arbitrarietà letteraria; nonché dai romantici, cosî facili alle contaminazioni di elementi popolari ed arcaici, cosî estrosi e negletti. Precursori — in parte ed ir partibus — dell’esigenza manzoniana furono semmai gli scrittori tecnici, i galileiani ad esempio, gli scienziati e i trattatisti del Settecento, a partire dal semplice e solido Ludovico Muratori, coloro insomma che, puntando sulla funzionalità della lingua, sentirono variamente la necessità di un riferimento linguistico obbiettivo e contribuirono a costituire quello «stile europeo» cui si accenna nell’introduzione a Ferzzo e Lucia. Ma nessuno la sentf, meditò e

risolse con la metodica consapevolezza del Manzoni. Potrebbe obbiettarsi che, adeguando il suo linguaggio ad una sincronia istituzionale non data naturalmente ma dedotta sperimentalmente, il Manzoni nulla facesse di diverso da altri scrittori; che non uscisse insomma da un problema di stile tradizionale, a due dimensioni. L’incognita da lui trovata non era forse un prodotto della sua officina, tratto in gran parte dalla tradizione letteraria? Senza dubbio. Ma quel prodotto — e in ciò stava la novità — anziché avere un valore concreto e puntuale, all’interno della singola situazione ed espressione, tendeva ad astrarsi, a ipostatizzarsi e infine ad imporsi, non già come stilema ricorrente, ma come norma e

limite linguistico all’esigenza stilistica dello scrittore. Molte delle sordità formali di cui si accusa l’autore dei Prozzessi sposi sono certo da attribuire al dualismo tra lingua e stile, che complica il travaglio formale del Manzoni e che sarebbe inconcepibile in scrittori come il Foscolo e il Leopardi, intesi a intonare liberamente il proprio strumento; come, inversamente, i suoi atti di ribellione individuale alla norma obbiettiva costituiscono, tanto sono significativi, riprove per assur-

do di quel dualismo. Ciò premesso, va da sé che quando il Manzoni, per approssimazioni successive — da una soluzione latamente eclettica a quella toscano-lombarda e alla toscana — ritenne di poter

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identificare la sua norma istituzionale, fino ad allora più o meno officinalmente prodotta, con una unità idiomatica reale, si sentisse giunto all’optimum e perciò al termine della sua ricerca linguistica. Da allora in poi, trovata definitivamente l’incognita, non dovevano profilarglisi che questioni particolari, applicative; e, a rigor di logica, il suo triangolare problema stilistico, superato il polo della tradizione letteraria, doveva ormai ridursi a un rapporto bilaterale, tra lo scrittore e la lingua comune. Ma il nostro linguista strutturale e scrittore grammaticale, come, rispetto all’istituzione prescelta e all’obbligo di osservarla, si preoccupava quasi unicamente del settore lessicale del sistema linguistico, cosîf non seppe chiedersi — e giustamente glielo rimproverarono i suoi avversari anche temperati — quanto di concreto, cioè di adeguato all’Italia contemporanea, ci fosse nella sua schematica formulazione dei concetti di lingua, dialetto, uso, società ecc., che,

sillogisticamente applicati ad una situazione complessa come l’italiana, dovettero a un Ascoli, a un D’Ovidio, a un Caix

parere algorismi sul nero di una lavagna. Non si accorgeva, soprattutto, di quanto ci corresse tra il ferreo dedurre del «Sentir messa» e degli scritti senili (teoreticamente insigni nella storia del nostro pensiero linguistico) e la cauta approssimazione della concreta ricerca che lo portò ad acquistare — per dirla con Giuseppe De Robertis — «il senso di ciò che è vivo e ciò che è morto in una lingua» 0, che è lo stesso, «il

senso vivo della lingua». Ricerca che proseguî anche dopo la soluzione fiorentina e mai si ristrinse, rigorosamente, entro i suoi termini; che anzi produsse, fin entro quei termini, frut-

to sf grande in virtà del perdurare del fattore diacronico, del coefficiente letterario. Quel processo, che laboriosamente si

compiva nella sua officina individuale, contraddiceva al sistema della tabula rasa che il Manzoni teorico avrebbe preteso applicare sul piano collettivo; contraddiceva, in forza di una lunga e complessa storia culturale, all’astorico naturalismo del riferimento ad una sincronia prestabilita e geograficamente localizzata, nonché al miraggio di una unità piatta, ad unica dimensione. Lo stesso Tommaseo, sostenitore del toscano e fautore di un dizionario domestico dell’uso, in un discorso

intorno all’unità della lingua italiana tenuto all'Accademia della Crusca l’anno in cui fu pubblicata la Relazione manzoniana veniva analizzando il modo di acquistare quel sesto

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senso e, con ben altra esperienza dei fatti di lingua che non avesse un altro antiaccademico e fautore oltranzoso dell’uso dialettale, Luigi Settembrini (che nelle sue Lezioni di letteratura italiana aveva candidamente proposto di scrivere ognuno nel proprio dialetto, ma «ammaccando le punte delle parole e acconciando un po’ le terminazioni», sf da renderlo meno «scabro e puntuto», cioè più consono alla lingua comune), finiva col mostrarne l’articolazione necessariamente

molteplice, e il carattere piuttosto culturale che naturale della possibile unità linguistica italiana. «Uno degli espedienti — consigliava il Tommaseo — per rendere la varietà ministra di unità, per conciliar natura ed arte, per soddisfare all’istinto e al dovere, per essere insieme l’uomo del municipio e l’uomo della nazione, e non fare in Italia due patrie avverse, in ciascun scrittore due anime divise, sarebbe... che lo scriven-

te cogliesse dal proprio idioma i modi più chiari, quei modi che egli, per inesperto che sia, non può non sentire comuni col suo ed altri dialetti e alla lingua dei libri. E se attinge all’idioma veramente parlato da’ più della terra dov’egli nacque, sarà sicuro di scrivere italiano, e il suo dire avrà quella movenza che rende efficace la viva parola; perché nella movenza, siccome delle immagini scolpite e dipinte, cosî dei componimenti e dei costrutti, è principalmente posta la bellezza e il vigore. Quell’unità, che gl’Italiani di un tempo prendevano al loro scrivere dallo studio delle forme latine, non senza gravità soverchia talvolta e non senza stento, la prendano dalle forme e dall’andamento del proprio dialetto, segnatamente, ripeto, in quanto esso ha del comune con quella lingua che altri intitola toscana e altri italiana, altri buona, altri bella...» Come si vede, nonostante la divergenza di fondo tra la poligenesi tommaseiana e la monogenesi manzoniana, il senso della sincronia comune alla società nazionale, il senso — in parole meno tecniche — della lingua una e viva si fondava anzitutto, e per il Tommaseo e per il Manzoni, sopra il continuo confronto tra il dialetto materno e la lingua letteraria. Operazione che il Manzoni «fiorentino» non interruppe, non bastando — in onta alle affermazioni teoriche — il mal noto e mal certo uso dei fiorentini colti ad appagare tutti i bisogni noetici ed espressivi dell’autore dei Prozzessi sposi. Il quale neppure si domandò quanto in quell’uso ci fosse di naturale e di coltivato, quanto di esso insomma apparte-

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nesse alla sincronia municipale del tempo e quanto alla tradizione letteraria. Proprio quell’attributo «colti» era già — come fu più volte osservato — vistosa spia che la diacronia, la storia, cacciata dall’uscio rientrava dalla finestra. Rientrava,

oltre che nel lessico non «domestico», nell’aperto campo dell’estensione analogica, riconosciuta, fin dall’introduzione a Fermo e Lucia, prerogativa dello «scrittore ingegnoso», e nella sintassi, cosi elaborata dal Manzoni scrittore come negletta, a vantaggio del lessico, dal Manzoni teorico. Il problema stilistico del Manzoni restò dunque, di necessità, triangolare, anche quando la sua estrovertita coscienza di scrittore ebbe trovato (o creduto di trovare) vivo e spiran-

te il fertium comparationis. Guardando ad esso, cioè seguitando a guardare fuori del circolo soggettivamente stilistico, egli si applicò a sincronizzare col fiorentino, oltre al suo parlare materno, la tradizione di lingua letteraria da cui la sua complessa personalità non poteva prescindere; ciò che, data l'omogeneità dei due fattori, genialmente e inventivamente fecondati dal sesto senso, condusse ad un prodotto di tono alto e di apparenza naturale. 4. A determinare i modi e i risultati della ricerca manzoniana nelle sue fasi, a descrivere le sincronie che il Manzoni

elaborò, specie la prima, tutta uscita da un mal relato e male assicurato «senso del vivo e del morto», è certo utile, non

sufficiente, il lavorio di comparazione condotto finora. Non per nulla la moderna linguistica strutturale ci ha insegnato che, per descrivere esaurientemente una sincronia, sia comune o individuale, occorre stabilire analiticamente il valore e la qualità di ogni segno e delle correlazioni dei segni tra loto, e le loro tendenze associative e frequenze statistiche, nel campo lessicale, morfologico e sintattico; e dalla critica stilistica abbiamo appreso la relatività di quei valori rispetto alla

sintesi dell’enunciato e la diversa loro importanza in rapporto alla loro distribuzione, cioè all'economia del contesto.

Questi due correlati aspetti di ogni manifestazione linguistica, e quindi di ogni lingua individuale, che nella loto puntuale implicazione si riducono al rapporto tra una associazione sintagmatica effettuale ed una tastiera di associazioni sintagma-

tiche virtuali presente nella memoria e nella coscienza lingui-

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stica, sono particolarmente tangibili nel testo del Manzoni,

cosi estravertito, cioè conteso tra un’esigenza soggettivamente stilistica e un’esigenza stilistica oggettiva.

Alla ricognizione del linguaggio manzoniano non si può tuttavia giungere che per gradi. Occorre partire da concordanze indipendenti delle tre stesure e relative varianti, che grosso modo, e salvo dimostrazione in contrario, possono

considerarsi tre fasi della ricerca dello scrittore. Attraverso le concordanze, sicuramente fondabili sull’edizione Chiari e Ghisalberti, sarà facile individuare non solo le successive sincronie, ma una trama di linee diacronicamente moventisi dal-

la prima all’ultima sincronia, secondo il maturarsi del «senso del vivo e del morto», l’affinarsi del contrappunto semantico e sintattico, l’arricchirsi insomma dell’invenzione verbale;

purché mai si perdano di vista le situazioni del racconto, che di necessità condizionano le correlazioni di sincronie sorte da un esercizio poetico. Ci si conceda un esperimento.

«Cosî si dileguò del tutto quella soave speranza: e, dileguandosi, non solo portò via il conforto che aveva recato, ma, come accade il più sovente, lasciò l’uomo in peggior condi-

zione di prima. Ormai la contingenza più felice era di trovar Lucia inferma» (I promessi sposi, 1827, p. 627). Considero questo passo della ventisettana per il soave, che ricorre anche un po’ più avanti nel ritrovamento di Lucia:

«Si china a

sciorre i laccetti, e stando cosî col capo appoggiato alla parete di paglia dell’una delle capannucce, gli vien da quella all’orecchio una voce... Oh cielo! è egli possibile? Tutta la sua anima è in quell’orecchio: la respirazione è sospesa... Sf! sî! è quella voce!... “Paura di che?” diceva quella voce soave: “abbiamo passato ben altro che un temporale. Chi ci ha custodite finora, ci custodirà anche adesso”» (ibid., p. 629). Nel primo passo il Manzoni aveva esitato tra so4ve e cara (cfr. le varianti 44 locum), ma la sostenuta qualità dell’impasto (si dileguò, dileguandosi, contingenza, inferma) aveva de-

terminato la preferenza del termine omogeneo. Per la stessa ragione, convalidata dalla liricità della situazione e del tono, il soave si era imposto, senza alternativa, nel secondo brano. Due soluzioni comparativamente insoddisfacenti: ché, sebbene il secondo soave sia esaltato dalla funzione predicativa e dalla posizione in arsi e in cesura, semanticamente e qualitativamente non si differenzia dal primo, il quale, nonostante

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la funzione attributiva e la posizione ritmicamente subordinata, appare, rispetto alla situazione ed al tono, non meno

vago che eccessivo. Con la conseguenza che, per una omogeneità di lega letteraria, si rinuncia ad una gradazione semantica e si sostituisce ad una correlazione che avrebbe accresciuto il valore distintivo dei due termini una equazione che li appiattisce entrambi. Tutt’altra cosa nella stesura del ’40, dove il sistema di correlazioni è sottilmente graduato, la distribuzione e frequenza attentamente sorvegliate, e la sincronizzazione, quasi sempre perfetta, costringe i segni, con o senza blasone, a calibrare le

loro risorse espressive entro i rigori del contrappunto. « Cosî svani affatto quella cara speranza; e, andandosene, non solo portò via il conforto che aveva recato, ma, come accade le più volte, lasciò l’uomo in peggiore stato di prima. Ormai quel che ci poteva esser di meglio, era di trovar Lucia ammalata» (I promessi sposi, 1840, p. 625). Il cara, cosi domestico e

tutto del cuore, è questa volta a casa sua, in un contesto piano, dove la sua carica emotiva, ambientata e direi servita non

meno dalla neutralità che dalla affettività dimessa degli altri elementi, risalta nella sua forza elementare. La screziatura,

l’appezzatura della prima redazione (ché prima deve considerarsi, per questo passo che non ha corrispondente in Ferzzo e Lucia, la ventisettana) è risolta pienamente nella seconda, dove la materia verbale non fa groppo e nel suo nitido continuum è avvertibile la minima variazione di intensità. Torniamo all’episodio del riconoscimento: «Si china per levarsi il campanello, e stando cosî col capo appoggiato alla parete di paglia d’una delle capanne, gli vien da quella all’orecchio una voce... Oh cielo! è possibile? Tutta la sua anima è in quell’orecchio: la respirazione è sospesa... Sf! sf! è quella voce!... “Paura di che?” diceva quella voce soave: “abbiam passato ben altro che un temporale. Chi ci ha custodite finora, ci custodirà anche adesso” » (ibid., p. 627). Le forme arcaiche o

impacciose (sciorre, dell’una delle capannucce, è egli possibile) sono espunte; eliminate le suffissazioni caratterizzanti (laccetti, capannucce), che quando, come in questo caso, han valore superfluamente epitetico, invischiano e sperdono l’attenzione del lettore. In un discorso qualitativamente neutro, tutto sostantivo e verbale, tutto pregnanze e reticenze, l’unico aggettivo, e lirico, so4ve, non può non divenire un armo-

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nico a denso cromatismo; denso, ma puro di ogni ozio esornativo, si da culminare il canto di Lucia ritrovata.

5. Dall’esperimento fatto risulta (e da qualsiasi altro non risulterebbe diversamente) quanto lessico e sintassi si coimplichino e condizionino in un’unica linea sintagmatica. Coimplicazione e condizionamento che non pertengono solo alla concretezza dell’enunciato, ma si proiettano su uno sfondo di normalità astratta, sia che questa preceda l’enunciato, sia che scaturisca, per invenzione analogica, dalle esigenze espressive della situazione. Certo è che l’analista del linguaggio manzoniano non può trascurare questo legame né per l’esame stilistico di singoli passi né per la descrizione astratta delle sincronie e degli stilemi; come non può condurre la comparazione tra le successive stesure e le successive sincronie, al fine

di creare una prospettiva diacronica e ricostruire lo sviluppo della ricerca manzoniana, senza riguardo, generale o puntuale, alle situazioni. Le fluttuazioni, insomma, in alcuni settori del lessico e della sintassi, e certe sottrazioni, addizioni o mu-

tazioni debbono spiegarsi con mutamenti situazionali nel senso più lato, attinenti cioè alla forma non tanto «esterna» quanto «interna» del romanzo. Ciò è ben pit percepibile nel campo della sintassi e nel passaggio da Ferzzo e Lucia ai primi Promessi sposi, che costituiscono due opere per molti rispetti diverse. Un caso esemplare possiamo trarlo dallo stesso episodio del ritrovamento di Lucia, che basterà esaminare nella catastrofe. «Le capanne in quel luogo eran tutte abitate da donne; ed egli procedeva lentamente d’una in altra, guardando. Or mentre passando, come per un vicolo, tra due di queste, l’una delle quali aveva l’apertura sul suo passaggio, e l’altra rivolta dalla parte opposta, egli metteva il capo nella prima, senti venire dall’altra, per lo fesso delle assacce ond’era connessa, senti venire una voce... una voce, giusto cielo! che egli avrebbe distinta in un coro di cento cantanti, e che con una modulazione di tenerezza e di confidenza ignota ancora al suo orecchio, articolava parole che forse in altri tempi erano state pensate per lui, ma che certamente non gli erano state mai proferite: “Non dubitate: son qui tutta per voi: non vi abbandonerò mai”» (Ferzzo e Lucia, p. 643). È giusto, si do-

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manda, confrontare quest’ampia struttura parabolica tutta incastri e riprese, di cui neppure l’interiezione riesce a rompere la legatissima sequenza, col ritmo staccato della stesura ventisettana? «Quando gli parve d’essere abbastanza lontano, pensò anche a levarsi d’attorno la causa dello scandalo;

e, per far quella operazione senza essere osservato, andò a porsi in una stretta fra due capannucce, che avevano i dorsi volti l’una all’altra. Si china a sciorre i laccetti, e stando cosî

col capo appoggiato alla parete di paglia dell’una delle capannucce, gli vien da quella all’orecchio una voce... Oh cielo! è egli possibile? Tutta la sua anima è in quell’orecchio: la respirazione è sospesa... Sî! sf! è quella voce!... “Paura di che?” diceva quella voce soave: “abbiamo passato ben altro che un temporale. Chi ci ha custodite finora, ci custodirà anche adesso” » (I promessi sposi, 1827, p. 629). Qui non si tratta di correzione; si tratta di conversione in qualcosa d’altro. Sono, si può dire, due mani, due artisti diversi; che in

Fermo e Lucia si avvicendano ancora, non più nella ventisettana. Il Manzoni dei Promessi sposi è diventato l’uomo di garbo che non era, l’uomo di garbo che stende periodi con molte idee sottintese e preferisce raccontare fatti che dare giudizi. Quante cose suggestive, temerarie, vertiginose egli si è ringoiate, fino a diventare enigmatico, fino a farsi «deli-

cato come un predicatore di corte», in quel processo di riassorbimento che lo ha condotto dalla narrazione ergagée alla rappresentazione commentata.

Questo capitale mutamento della forma interna è particolarmente evidente nel nostro brano, tanto pit che la situazione, a considerarla nel suo aspetto obbiettivo, resta identica. Si guardi come dall’iniziale «Or mentre», macroscopico annunzio della catastrofe, il moto sintattico incalzi ansiosamente verso di essa, e gli stessi incastri e le stesse riprese non facciano che accrescere, rallentando e frastagliando il ritmo, quella tensione; sf che tutto è atteso, tutto è previsto in virtà di una tessitura linguistica anticipante, psicologicamente, le significazioni noetiche. Struttura periodica sî, ma tutt’altro che solenne e complessa, come l’attributo, convenzionalmente, ci fa pensare; sintetica in apparenza, in realtà analitica, e fatta vibrante per ossimoro sintattico; struttura nuova, più nuova, malgrado le apparenze, della coupée settecentesca,

perché capace di articolazioni, modulazioni, profondità igno-

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te alla secchezza di quella. Or che cos'è questo procedere legato, anzi costretto, per grandi benché mosse campate psicologico-sintattiche, su un unico piano del discorso, se non la presenza dell’autore, che narra, interpreta e tutto richiama ad

un fuoco unico, esterno alla scena? Ne è riprova il fatto che il culmine melodico e lirico del brano non sta, in questa pri-

ma stesura, nelle parole di Lucia, ma in quelle che immediatamente le precedono e sono l’accordo intonante dello scrittore: «... una voce, giusto cielo! che egli avrebbe distinta in un coro di cento cantanti, e che con una modulazione di tenerezza e di confidenza ignota ancora al suo orecchio, articolava parole che forse in altri tempi erano state pensate per lui, ma che certamente non gli erano mai state proferite...» Si guardi la versione dei Promessi sposi. Il fuoco, il centro di gravità del brano non è fuori della scena e dell’azione, ma dentro; e non è unico, ma si pluralizza nei vari momenti di

essa. Al «legato» della prima partitura si sostituisce uno «staccato». Se qui la catastrofe non è anticipata sintatticamente né annunciata da richiami vistosi, è perché ogni fase dell’azione esiste in sé, anche se non solo per sé. D’altronde, la sapiente arte dell’interpungere e dell’andare a capo costituisce, nel Manzoni dei Promessi sposi, una chiara riprova del bisogno di scandire la rappresentazione nei suoi tempi, in modo che nessuno stinga sull’altro e ne resti contratto o appiattito. Ma questa puntualità, questo — come è stato equivo-

camente battezzato — realismo non implica un frammentismo tradotto in una tecnica divisionistica. Anche dove l’azione è più suddivisa, dove i processi interiettivi e di segmentazione sono più frequenti, le cellule sintattiche si compongono in un discorso organizzante, ricco di contrappunto ma privo di vulcanismi, e la rappresentazione, o i suoi episodi, entro una

prospettiva giudicante. Si veda com’è annunciata la catastrofe del ritrovamento di Lucia: col mutamento, appena avvertibile, del tempo verbale dal passato al presente, logoro stilema del discorso narrativo, qui fattosi chiave per forza di contrappunto: «Si china a sciorre i laccetti...» L’andante staccato dei Promessi sposi è una partitura armonizzata dall’alto, da un punto all’infinito, sî che tutte le parti compaiono in luce equa e si corrispondono provvidamente. Non per nulla a quel realismo si è dato l’attributo di «metafisico».

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6. Sarebbe un peccato se il nuovo interesse per la forma esterna portasse a trascurare la forma che si dice interna. Sarebbe rinnegare, col negativo, l’apporto positivo della critica di contenuto: quel vichiano svisceramento della favola per estrarne l’etimo umano, quella storia ideale eterna condotta attraverso la poesia. L’antropologia desanctisiana o crociana non basta più a darci conto del fatto artistico; e respingiamo — anche a dispetto di reali coincidenze — la confusione tra tema poetico e biografia. Ma la critica stilistica più matura afferma e pratica — come suo fine pieno — l’analisi congiunta delle due forme, proclamandosi critica integrale. Ebbene: anche rispetto alla forma interna il confronto delle tre redazioni conferma il processo evolutivo di quella esterna; con la differenza che la grossa, la vera conversione è una: da Fermo e Lucia ai primi Promessi sposi, idest dalla profusione di sé alla dissimulazione onesta. Si direbbe che Ferzzo e Lucia, ol-

tre che un abbozzo, costituiscono anche il journal dei Promessi sposi; perché alla sua pagina par consegnato ciò che al poeta a tu per tu col suo lavoro veniva in mente, sia che attenesse all’opera organicamente, sia che l’opera stessa, potentemente viva, reagendo sull’autore, glielo suscitasse dentro. Una partita doppia in cui l’«avere» ci sembra raccolto in quelle digressioni o persecuzioni amare, ora mordenti ora solenni, dove traluce la scuola dei moralisti e degli oratori sacri francesi. Ma tutto ciò che i Prozzessi sposi potevano essere e non sono stati si può mietere con larghezza. Brani di crudo, magari sguaiato realismo (Renzo gridante con la bava alla bocca [Fermo e Lucia, p. 110]; la cena della vecchia dell’In-

nominato [ibid., pp. 349 sg.]; per non citare quello truce, te-

nebroso della storia di Geltrude), talvolta tuffato in atmosfere da romanzo nero, talvolta trasposto in chiave di compiaciuto tecnicismo (la specificazione della flora comasca nell'apertura del romanzo [Fermo e Lucia, p. 18], propagginatasi poi nella vigna di Renzo); psicologismo aggressivo, chirutgico (il rimprovero del padre guardiano al padre Cristoforo «balordo» [Ferzzo e Lucia, pp. 115 sg.1); velati approcci con la passione e con la cattiveria; umorismo facile, quasi faceto, come nell’addio di Ludovico alle ruvide lane, al mondo e al barbiere (ibid., p. 68); confessioni autobiografiche; resti

di antiche pompe; gusto insistente della notazione di costu-

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me, del ritratto, del colore. Per ognuno dei quali aspetti è stata trovata o può trovarsi una fonte, magari su indiscrezio-

ne dello stesso autore, magari in quel tristo Seicento da cui il Manzoni ha preso, se non altro, il gusto della citazione peregrina; e ne è stata indicata o può indicarsene la ripresa o lo sviluppo nella nostra letteratura posteriore. Il ritratto di don Valeriano-Ferrante: «... capo di casa, ultimo rampollo di una famiglia illustre, che purtroppo terminava in lui, uomo tra la virilità e la vecchiezza, era di mediocre statura, e tendeva un pochetto al pingue, portava un cappello ornato di molte ricche piume, alcune delle quali spezzate al mezzo cadevano penzoloni e d’altre non rimaneva che un torso: sotto a quel cappello si stendevano due folti sopraccigli, due occhi sempre in giro orizzontalmente, due guance pienotte per sé, e che si

enfiavano ancor più di tratto in tratto e si ricomponevano mandando un soffio prolungato, come se avesse da raffreddare una minestra: sotto la faccia girava intorno al collo un’ampia lattuga di merletti finissimi di Fiandra lacera in qualche parte e lorda da per tutto: una cappa di... sfilacciata qua e là gli cadeva dalle spalle, una spada col manico di argento mirabilmente cesellato, e col fodero spelato gli pendeva dalla cintura; due manichini della stessa materia, e nello stesso stato della gorgiera uscivano dalle maniche strette dell’abito, e un ricco anello di diamanti sfolgorava talvolta, nell’una delle due sudicie sue mani: talvolta; perché quell’anello passava anche una gran parte della sua vita nello scrigno d’un usuraio; e in quegli intervalli, Don Valeriano gestiva alquanto meno del solito» (Ferzzo e Lucia, p. 495); e il ritratto di donna Prassede «seduta sur una gran seggiola con le mani posate e distese sui bracciuoli di qua e di là dei quali pendevano le maniche della zimarra di un dammasco rabescato a fiori,... col volto imprigionato tra un cappuccio di taffetà nero che copriva la fronte, e una enorme lattuga che girava intorno alla gola e sul mento» (ibid., p. 506); due ritratti come questi, tra la caricatura di un picaresco e la malizia di un Fra Galgario, sono stati, ahimè, soppressi nella conversione, quando la sublimata tipicità dei personaggi li ha fatti parere un divertimento indebito. Ma basterebbero questi due ritratti e l’esaminato ritrovamento di Lucia a farci sospettare che Ferzzo e Lucia non siano soltanto l’abbozzo e il jourzal dei Promessi sposi, ma an-

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che un’opera a sé — non importa se incompiuta — da quelli diversa e scritta da un diverso artista; e a farci esprimere il rammarico già espresso a proposito della ventisettana: che Fermo e Lucia siano stati considerati troppo poco per se stessi e troppo in funzione dei Prozzessi sposi. Neppur qui inten-

do negare il diritto alla comparazione; sostengo anzi che la comparazione, a cui, data la natura una e trina del romanzo, è difficile sottrarsi, dovrebbe, se condotta in modo rigoroso ed esauriente, individuare e porre nella giusta luce tanto i caratteri propri di ogni stesura quanto i mutamenti avvenuti

nel passaggio dall’una all’altra. Ciò che impedisce una obbiettiva ricognizione in questi due sensi — statico e dinamico — dell’opera manzoniana è il non concepire il confronto che come gara eliminatoria; conseguenza di una dicotomia estetica eretta a rigido principio critico.

Un esauriente confronto tra la forma interna di Ferzzo e Lucia e della ventisettana porterebbe, credo, a conclusioni analoghe a quelle che scaturiscono dalla comparazione linguistica. Intanto i motivi fondamentali della ricerca e quindi dell’evoluzione manzoniana sui due piani non sembrano eterogenei. Al fastidio della parola qua talis, dell’oreficeria verbale, che condusse il Manzoni alla elaborazione di un sistema

di segni funzionali, corrispose il fastidio del romanzo, dell’arte come finzione; il bisogno di uscire dalla favola e dal suo futile piacere, restando nella poesia; la volontà di scio-

gliersi da temi, modi, canoni secolari e prestigiosi («Se noi inventassimo ora una storia a bel diletto, ricordevoli dell’a-

cuto e profondo precetto del Venosino, ci guarderemmo bene dal riunire due immagini cosî disparate come quelle che si associavano nella mente di Fermo; ma noi trascriviamo una

storia veridica; e le cose reali non sono ordinate con quella scelta né temperate con quella armonia che sono proprie del buon gusto; la natura e la bella natura sono due cose diverse» [Fermo e Lucia, p. 491]), di rompere con la tradizione, di espungere ciò che, con una presenza centrifuga e porosa, arrestasse l’attenzione del lettore, e far sî che ogni elemento corresse, ovvio ed essenziale, al suo centro di verità. Una con-

versione siffatta doveva trasporre in tutt’altra chiave la primitiva partitura: dal senso, potremmo dire, al soprasenso; cosî come la progressiva convenzionalizzazione del linguag-

gio ne esaltava l’acme simbolica e noetica a spese della pre-

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ziosità. Caso esemplare (e direi limite) di ciò è la biblioteca di don Ferrante; la quale in Fermo e Lucia, intonata dal suo pittoresco ritratto, che la precede immediatamente, si riduce, nonostante le intenzioni, ad un quadro di costume e quasi di genere, con solo qualche sentore d’equivoco e qualche scoperto intervento dell’autore. Tant'è vero che questi, alla fine,

non bastandogli un don Ferrante macchietta e volendo elevarlo ad archetipo, ha sentito il bisogno di dichiararne il significato ideale in una postilla accolta tra le varianti: «Don Ferrante era quello che doveva essere, quello che sono sempre stati e saranno sempre gli uomini provetti i quali già da gran tempo hanno veduto dove stia la perfezione del sapere, hanno adottato un sistema e chiuso il numero delle loro idee. La loro avversione, i loro sospetti, le loro ire non sono già contra gli uomini nuovi, ma contra le idee nuove...» (Ferzzo e Lucia, p. 852). Postilla che non è interpretazione autentica del don Ferrante presentato, ma proponimento di rimpastare un personaggio di alta tipicità: il nuovo don Ferrante, privo di ritratto e manovrato a doppio filo, dall’ Anonimo e dall’ Autore, cui il lettore può dare tutti i volti e tutti i significati,

fuorché quello letterale. La biblioteca convertita di don Ferrante è, nei Prozzessi

sposi, il centro di gravità delle allusioni, sparse qua e là nel romanzo, ai dotti e agli ignoranti, alla scienza falsa e alla vera, e ai limiti di questa. Un lettore sensibile avverte subito che non si tratta, non può trattarsi di una semplice canzonatura del peripateticismo seicentesco; che il senso vero è qui il soprasenso, ammiccato dall’autore con un mezzo tecnico che in questo brano ha la sua applicazione più concertata: un’ironia seria ed ilare, senza precedenti nella nostra tradizione, neppure in Ferzzo e Lucia, dove è acre, sanguinosa. Quell’ironia agisce sul piano tanto della forma interna che dell’esterna, con effetto analogo: d’aggirare le cose e puntare oltre le parole, portando temi e stilemi tradizionali, scelti, come tali, di proposito, a risultati che li smentiscono. Ecco un altro aspetto della ricerca manzoniana: il nuovo ottenuto senza l’abolizione del vecchio, usando anzi il vecchio, ma

guardandolo dall’altra sponda. È, tutto sommato, una sincro-

nizzazione indiretta, che si attua senza sostituzione o altera-

zione di materia, mediante un mutamento di prospettiva, cioè del rapporto tra i motivi o stilemi tràditi e il «fuoco»

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dell’autore. Si legga, in Ferzzo e Lucia, il noto passo sulla dottrina magica di don Ferrante: «Della magia aveva pure una cognizione più che mediocre, acquistata non già colla rea intenzione di esercitarla, ma per ornamento dell’ingegno, e per conoscere le arti cosî dannose dei maghi e delle streghe e potere cosî entrare a parte della guerra che tutti gli uomini probi e d’ingegno facevano a quei nemici del genere umano. Il suo maestro e il suo autore era quel Martino del Rio il quale nelle sue Disquisizioni magiche aveva trattata la materia a fondo, aveva sciolti tutti i dubbi e stabiliti i principj che per quasi due secoli divennero la norma della maggior parte dei letterati e dei tribunali, quel Martino del Rio che con le sue dotte fatiche ha fatto ardere tante streghe e tanti stregoni, e che ha saputo col vigore dei suoi ragionamenti dominare tanto sulla opinione pubblica, che il metter dubbio sulla esistenza delle streghe era diventato un indizio di stregheria. A un bisogno don Valeriano sapeva parlare ordinatamente e anche luculentamente del maleficio amatorio, del maleficio ostile e del maleficio sonnifero, che sono i cardini della scienza, e co-

nosceva i segreti dei consessi delle streghe, come se vi avesse assistito» (Ferzzo e Lucia, p. 497). La prima parte è un quadretto di costume, se non di genere, intonato su un’ironia elementare che non vale, nella seconda, a filtrare lo sprezzan-

te giudizio sul secolo «professore d’ignoranza e dilettante d’enciclopedia» con cui l’autore entra in scena; giudizio non meno aperto, per quell’ironia posticcia, della condanna del popolo che promoveva o tollerava i processi agli untori (Fermo e Lucia, p. 583). A che giova poi riprendere l’intonazione prima? A far sentire ancora di più il logoro di quei modi impiegati con sî indifesa confidenza, la durezza di quella modulazione; a scadere nel comico più ordinario, servito, com'era inevitabile, da una materia verbale non meno stanca e vischiosa, che sornuotano, per colmo di disgrazia, tessere dan-

tesche. La conversione è invece condotta con procedimento co-

perto, diffidente: i mezzi sono gli stessi, ma sapientemente graduati e scalati entro una prospettica distanza. È la tecnica dell’ironia concertata. Proprio a proposito della dottrina magica di don Ferrante, sentendo che l’argomento non offre margine di sicurezza ad un’ironia metafisica in proprio, il Trascrittore l’affida all’Anonimo:

se la veda lui, che vive nel

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mondo di don Ferrante. E l’Anonimo fa il dover suo, dandoci un impassibile sorriso sul volontario e frivolo asservirsi dell’umano sapere: «[Nei segreti] della magia e della strego-

neria s’era internato di più, trattandosi, dice il nostro anonimo, di scienza molto più in voga e più necessaria, e nella quale i fatti sono di molto maggiore importanza, e più a mano, da poterli verificare. Non c’è bisogno di dire che, in un tale studio, non aveva mai avuto altra mira che d’istruirsi e di co-

noscere a fondo le pessime arti de’ maliardi, per potersene guardare, e difendere. E, con la scorta principalmente del gran Martino Delrio (l’uomo della scienza), era in grado di discorrere ex professo del maleficio amatorio, del maleficio sonnifero, del maleficio ostile, e dell’infinite specie che, put

troppo, dice ancora l’anonimo, si vedono in pratica alla giornata, di questi tre generi capitali di malie, con effetti cosî dolorosi. Ugualmente vaste e fondate erano le cognizioni di don Ferrante in fatto di storia...» (I prozzessi sposi, 1840, pp. 471 sg.). «Ugualmente vaste e fondate...»: l’ironia passa ora nelle mani del Trascrittore, conseguendovi la più divertita malizia; come in quel perfido passo sulla filosofia antica, che manca in Fermo e Lucia: «Della filosofia antica aveva imparato quanto poteva bastare, e n’andava di continuo imparando di più, dalla lettura di Diogene Laerzio. Siccome però que’ sistemi, per quanto sian belli, non si può adottarli tutti; e,

a voler esser filosofo, bisogna scegliere un autore...» (ibid., p. 470); dove l’ordinarissima normalità è in ragione diretta dell’indice di reticenza e di pregnanza, sî che il tutto equivoca tra il significato proprio, affatto legittimo, e il soprasenso imposto, se altre spie non bastassero, da quel delli, cosî felicemente (per chi sa che cosa bello può significare per il Manzoni) preferito, fin dalla prima edizione, alla variante ingegnosi. Ma subito dopo, scendendo da quel culmine, il Trascrittore passa le redini dell’ironia nelle mani di don Ferrante, dove si modula festosamente: «E pit di una volta disse, con gran modestia, che l’essenza, gli universali, l’anima del mondo, e la natura delle cose non eran cose tanto chiare quanto si potrebbe credere» (ibid., p. 471). Ognuno vede quanto siamo lontani dalla grezza ironia che nell’abbozzo tiene tutto l’episodio sotto una luce fissa. Questa tecnica permette al Manzoni d’impiegare impunemente i più consacrati stilemi; e con tanto più frutto, quanto

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più sacri essi sono. Si guardi la spericolata climax in crescendo a lode, diciamo cosî, di Valeriano Castiglione, autore di

quello Statista regnante che terminò per don Ferrante la questione del primato tra il Segretario Fiorentino e Giovanni Botero; o si prenda l’elencazione, scandita dall’anafora e dal parallelismo, a conclusione dell’architettatissimo periodo sulle cognizioni di don Ferrante in fatto di filosofia naturale: cose che avrebbero mandato in visibilio il più arcigno maestro di rettorica. L’interessante è che nell’abbozzo la climax è assai meno spericolata, l’elencazione contratta, minimizzata o (per rettificare il senso del tempo) in germe. Se, per un momento, ci immedesimiamo nell’arcigno maestro di rettorica, non dirò entrambi, ma il secondo brano non può appagarci. Vediamo le premesse di quell’ottima dispositio, e non le troviamo mantenute; pregustiamo i flexus e i rexxs, le iterazioni, gl’incisi, le riprese nell’ascesa della parabola; e quel digradare a cascata, attraverso una variante isocolia, di cui abbiamo nell’orecchio modelli egregi; ma deploriamo l’occasione sciupata. «Quanto alla storia naturale, non aveva a dir vero attinto alle fonti, e non teneva nella sua biblioteca, né Aristotele, né Plinio, né Dioscoride; giacché come abbiam detto Don Valeriano non era un professore, ma un uomo colto semplicemente: sapeva però le cose più importanti e le più

degne di osservazione; e a tempo e luogo poteva fare una descrizione esatta dei draghi e delle sirene, e dire a proposito che la remora, quel pescerello, ferma una nave nell’alto, che l’unica fenice rinasce dalle sue ceneri, che la salamandra è in-

combustibile, che il cristallo non è altro che ghiaccio lentamente indurato» (Ferzzo e Lucia, p. 498). Tutt’altra cosa, ineccepibile, la conversione definitiva, che, lungi dal mutare lo schema della prima stesura, sretoricizzandolo, svolge tutte le risorse della sua dispositio. «Della filosofia naturale s’era fatto più un passatempo che uno studio; l’opere stesse d’Aristotile su questa materia, e quelle di Plinio le aveva piuttosto lette che studiate: non di meno...» L’avvio par quasi lo stesso, con due invece di tre coordinate, che però là, stipate di notazioni pedanti e impacciate di adipe verbale, avevano una funzione logica, qui iterano uno stesso ritmo, come a pren-

dere più forte lo slancio e a dirigere oltre l’attenzione del lettore. «... Non di meno, con questa lettura, con le notizie rac-

colte incidentemente da trattati di filosofia generale, con

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qualche scorsa data alla Magia naturale del Porta, alle tre sto-

rie lapidum, animalium, plantarum, del Cardano, al Trattato dell’erbe, delle piante, degli animali, d’Alberto Magno, a

qualche altr’opera di minor conto...» (questo nuovo crescendo a ritmo ternario, oltre che creare, con lo spiegamento di citazioni prestigiose, il clima del parturient montes mancato nell’abbozzo, inarca l’accumulato slancio, cosî superbamente da reggere, nella discesa epifanica, lo snodarsi più articolato e diramato) «sapeva a tempo trattenere una conversazione

ragionando delle virti più mirabili e delle curiosità più singolari di molti semplici; descrivendo esattamente le forme e l’abitudini delle sirene e dell’unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco senza bruciare: come la remora,

quel pesciolino, abbia la forza e l’abilità di fermare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave; come le gocciole della rugiada diventin perle in seno delle conchiglie; come il cameleonte si cibi d’aria; come dal ghiaccio lentamente indurato, con l’andar de’ secoli, si formi il cristallo; e altri

de’ più maravigliosi segreti della natura» (I prozzessi sposi, 1840, p. 471).

Ma, gettata la toga di Cornificio, dobbiamo domandarci perché il Manzoni, invece di dissolvere lo schema rettorico dell’abbozzo, lo ha portato alla fioritura estrema; perché lui, che tollerava la rettorica a patto che fosse «discreta, fine, di

buon gusto», si è compiaciuto di questa, indiscretissima. Dove se n’è andato l’ideale della lingua parlata (sia pure dalle persone colte), della lingua non letteraria? O forse, nella biblioteca di don Ferrante, a fianco dell’Astrologia, della Magia e della Scienza cavalleresca, la Rettorica rivendicava un seggio? Qui, mi pare, sta la risposta: don Ferrante, letterato del secolo suo ed epistolografo all’Achillini, non poteva esser presentato che con la tecnica della sincronizzazione indiretta; quella stessa che consente al Manzoni di usare i luoghi più comuni, le frasi più fatte, isolandole dal contesto entro un castone di distacco o d’ironia. Nella biblioteca di don Ferrante la Rettorica, malgrado le apparenze, non regna; serve il ritmo, non rettorico ma poetico, che incalza oltre le clausole, i capiversi, i paragrafi, in riprese e concatenazioni maliziosissime; serve di veicolo a un’ilarità cosî eterea, cosî libe-

ra, che gode financo, preziosamente, di sé e della propria concertazione.

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Questo, diciamo pure, preziosismo manzoniano è una con-

ferma che la prosa dei Promessi sposi costituisce un frutto letterario; letterario, anche se istituzionalizzato. Aveva ra-

gione il Caix negando la fondatezza teorica del sistema della tabula rasa; aveva ragione di affermare che «la lingua, come l’arte, la scienza, la religione ed ogni manifestazione dello spirito umano, ha una tradizione, un’eredità che s’ingrandisce,

si eleva, si perfeziona per il lavoro delle generazioni, e che noi possiamo svolgere, ampliare e modificare, ma non disconoscere, se non vogliamo tornare nell’infanzia». Ma in pratica neppure il Manzoni, nonostante certi rigori della teoria, aveva applicato quel sistema; né certo era suo proposito, neppure in teoria, di impoverire e municipalizzare la cultura e la lingua italiana. Tanto poco municipale è la sua prosa, che in un linguaggio che avrebbe voluto coincidere con un dialetto i modi più municipali, se non siano, come accade soprattutto per quelli lombardi, ironizzati dallo scrittore, sanno troppo di natura. A malgrado o meglio in virtà delle sue contraddizioni il Manzoni è giunto al nuovo e importante risultato di creare una lingua letteraria che, sincronizzata direttamente o indirettamente con la norma istituzionale contemporanea e, per lo più, sovramunicipale, feconda l’attualità di questa con la tradizione e l’invenzione dell’autore, conseguendo una unità a più dimensioni.

7. È forse maturo il tempo per un commento stilistico dei Promessi sposi; pet fare, con criteri odierni, ciò che Policarpo Petrocchi fece con la filologia manzonistica dell’età sua. Certo, poiché a tale commento occorre una accumulazione di reperti oggettivi, non fossero che statistici, attraverso ricer-

che meticolose e resistenti alla tentazione delle immersioni simpatetiche (che paiono e non sono l’«apriti sesamo» della difficile porta), non mancherà chi gridi al nuovo positivismo. Ma, a parte il fatto che tra la critica letteraria ed una filologia e linguistica capaci non solo di rispettare, ma di servire la poesia, corre oggi una collaborazione vitale, gli esemplari saggi stilistici sui Prozzessi sposi di un nostro eminente critico, né positivista né alunno delle scuole di stilistica anagrafate, e fra di essi — giacché parliamo di accertamenti positivistici — quello appunto sulle scelte manzoniane tratte dal voca-

CONVERSIONI

DEI « PROMESSI

SPOSI»

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bolario milanese del Cherubini, ci additano quali frutti, a saper fare, può produrre questo nuovo senso di indagine. Personalmente io ritengo che una analisi stilistica integrale, cioè della forma interna ed esterna, e diacronica oltre che

sincronica, sia oggi la più idonea a farci ripercorrere la via del formale trovarsi del Manzoni, a darci ragione di tutto ciò di cui si può chieder ragione, fino al punto senza condizioni, fino al refas della Grazia. Diacronica, ho detto, oltre che sincronica; e penso che un commento anche diacronico non può sorprendere oggi che l’opera d’arte è vista non solo come motore immobile, come stella polare dell’interprete, ma come essenza germinativa che cerca la propria forma o, se si vuole, come forma che si cerca dentro il suo tempo; oggi che la filologia testuale è giunta ad ammettere un apparato che serva a ricostruire non solo il testo originale, ma le fasi del suo farsi: apparato che Lanfranco Caretti ha proposto appunto di chiamare diacronico. E tale è quello dei Prozzessi sposi editi da Chiari e Ghisalberti.

L’Orlando furioso pubblicato e commentato da Pietro Papini *

Se a Modena non resta chi di Pietro Papini serbi una memoria diretta, ben poco sapremo di lui dalle stampe. La scomparsa di studiosi più rinomati attorno al tempo (la primavera del 1930) in cui egli mori distolse l’attenzione perfino del «Giornale storico della letteratura italiana», che, pur avendogli largito molti anni prima due severe recensioni, gli lesinò il necrologio di rito. Né il danno della funebre concorrenza fu risarcito dall’Enciclopedia italiana, loquace su molti cattedratici ancor viventi, ma di lui, come di altri valenti allievi della «scuola storica» quali il Romizi il Bertoldi lo Strac-

cali il Lisio e via dicendo, muta. Ostracismo ideologico o gerarchismo accademico? Dal momento che la lista degli italianisti «memorabili» fu stesa da Vittorio Rossi, non parrebbe; ma è comunque significativo che tanti buoni cultori della filologia positivistica siano assenti da un’opera ispirata a tutt’altro concetto della cultura e che il Dizionario enciclopedico italiano senta ora il bisogno, a quel che si vede dai primi volumi, di riparare all’immeritata esclusione. D'altronde lo stesso presidente della Deputazione di storia patria per le provincie modenesi, il professore Giovanni Canevazzi, che concludendo la storia della Scuola militare di Modena aveva ricordato tra i suoi insegnanti il Papini con parole di molta stima («Colto, geniale, ha parecchie pubblicazioni...»)', nel-

l'adunanza ordinaria che la Deputazione tenne il 26 aprile 1930 lo rimpianse, insieme ad altro socio da poco defunto, + Presentazione della ristampa anastatica dell’edizione

Sansoni nella

«Biblioteca Carducciana», Firenze 1903 e 1916, procurata dallo stesso editore nel 1957, pp. VII-XXIII.

! La Scuola Militare di Modena (1756-1915), vol. II (1814-1915), Modena 1920, p. 282.

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DI PAPINI

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come «letterato di molto gusto» e autore dei commenti all’Orlando furioso e alla Secchia rapita, ma non ne promosse, come senti di dover fare per l’altro, una commemorazione particolare *. La ragione di tanto silenzio, che non val la pena d’indagare se fosse rotto in altra sede o ad altro livello, è chiara: nel 1930 il Papini aveva concluso da molti anni la sua carriera di critico letterario e di commentatore

(l’ultima

sua opera notevole di cui mi consti — il commento al poema tassoniano — è del 1912), e la sua attività sopravvivente doveva ormai restringersi, da non meno anni ed in un clima culturale tutto mutato, alla scuola e alla conversazione modenese. Di Modena egli non era che cittadino adottivo. Vi risiedeva almeno dal 1885, quando, dopo una breve permanenza nelle scuole secondarie, era stato nominato straordinario di letteratura italiana nella Scuola militare, che non avrebbe più lasciata; ma era nato a San Casciano, nel 1855 e, compiuti

gli studi liceali a Siena, si era iscritto nel ’79 alla Facoltà di lettere e filosofia di Firenze. Nell’83 vi si laureava «in filologia», dicono gli atti di archivio senza più specificare. Il curricolo dei suoi studi brilla non solo della diligenza dello scolaro, ma dei nomi di maestri come Comparetti, Villari, Vitelli, Rajna, Bartoli, Trezza. Era la grande stagione dell’Istituto di studi superiori, vertice, insieme con Pisa e Bologna,

di quel triangolo in cui maturava la nuova filologia italiana e roccaforte della scuola storica non solo per il numero e il valore dei maestri che adunava, ma per la loro consapevolezza metodologica. Oggi, scontata la reazione neoidealistica, quella scuola piuttosto che un covo di eruditi ci appare, nell’uggia accademica del suo tempo, il cerchio di luce che include gli spiriti magni. E quelle grandi ombre, dal sembiante né triste né lieto (quale a sodi positivisti si conviene), vengono a noi non come

i responsabili di una poco felice parentesi del nostro rinnovamento culturale, ma come i portatori della metodologia scientifica europea nella provincia oratoria della nostra università. È un fatto che, rileggendo il manifesto di uno di quei maestri, La filosofia positiva ed il metodo storico di Pasquale 2 «Atti e Memorie della R. Deputazione di storia patria pet le provincie modenesi », serie VII, vol. VII, Modena 1932, pp. xxXIx sg.

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FRA GRAMMATICA

E RETORICA

Villari, non lo sentiamo né antitetico né estraneo alla nostra

esperienza di lavoro. Nel richiamo ai contemporanei grandi cultori delle scienze morali e sperimentali in Europa, nonché a Machiavelli, Galileo e Vico; nell’affermazione di una scienza dell’uomo concreta e relativa, cioè storicistica; nel fervido

senso del valore degli ideali per l'evoluzione del mondo umano: ravvisiamo la voce perenne dell’umanesimo italiano ed europeo, del pensiero scientifico promosso da Bacone e da Galileo, dello storicismo che muove da un Machiavelli e un Guicciardini. Vi avvertiamo, in più, una onesta professione

di fede nel pensiero disciplinato, conscio dei propri limiti e ligio all’esperienza, nel pensiero che si pone come metodo anziché come sistema; e cogliamo, tanto nelle pagine del Villari che in quelle del troppo dimenticato Trezza, la convinzione che i nuovi studi eruditi, pur necessari e benefici, non possono essere fine a se stessi. «Questo non è che il vestibolo, a dir

cosî, della critica, né ci può dare quell’organismo delle menti senza del quale nulla si opera di efficace e di grande». Se il Garin ha rilevato «il motivo positivistico che venne imponendosi ai più seri fra i neokantiani e gli hegeliani, da Fiorentino a Spaventa» ed ha ammesso che «nell’umanesimo della vasta, inesauribile ricerca crociana sembrano convergere e trovar soddisfazione anche le più vitali esigenze positivistiche» ‘, io credo si possa andare oltre, asserendo che la storio-

grafia, la filologia e la linguistica italiane di oggi procedono, nonostante il perdurare di etichette e pronunciamenti antipositivistici, con metodo sostanzialmente positivistico, quel me-

todo che nei migliori campioni italiani si mostrò ben dotato di senso storico ed aperto a tutti gli aspetti, individuali e sociali, dell’esperienza, e giunse perfino a denunciare gli sconfinamenti metafisici della filosofia comtiana ed essere per la sua temperanza sconfessato dai seguaci del Comte. Né riterrei temerario dire che proprio in quelle discipline il positivismo italiano dette le sue prove più positive, evitando, nelle sue manifestazioni più alte, le involuzioni metafisiche o meccanicistiche dei suoi filosofi. Troppo spesso noi dimentichia° 6. TREZZA, La critica moderna, Firenze 1874, p. 7. * La filosofia. Storia dei generi letterari italiani, Milano 1947, II, pp. 640,

654. 5 Cfr. viLLARI nella prefazione ai suoi Saggi di storia, di critica e di politica, Firenze 1868.

L’KORLANDO

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3I

mo di essere i diretti discepoli di quei maestri; se è vero che, come loro, studiamo lo spitito umano per «una via pratica, sicura, positiva», rinunziando «ai sistemi, alle conoscenze

assolute, alle prime ragioni, che per ora sono troppo lontane da noi» e cercando solo ciò che possiamo conoscere, «fatti e leggi di questi fatti; ma fatti e leggi dello spirito umano e del pensiero»; e se, anche quando abbiamo dissentito nei principî o inalberato altri manifesti ideologici, abbiamo pur sempre applicato la loro tecnica. Che il nostro concetto di fatto, legge, documento sia in parte diverso dal loro, è innegabile; che la nostra problematica si sia arricchita e assottigliata fino a diventare scopo a se stessa, non è men vero; ma direi che il nostro più complesso, in definitiva più concreto storicismo, che la nostra più spregiudicata e tecnicizzata riflessione costituiscono un inveramento, non un ripudio del loro operare. Riprova di ciò è che andiamo rimeditando e ristampando le opere non solo dei maggiori, sf dei minori di quella scuola; ma più ancora che, tutti occupati ad affinare il metodo, a loro attingiamo spesso la materia prima dei pazienti reperti, per

farla lievitare entro una prospettiva di connessioni a loro sconosciute. Basta scorrere, esempigrazia, i più recenti commenti del Furioso, non escluso l’ultimo, integrale e puntuale, di

Lanfranco Caretti, per accorgersi quanto essi debbano al lavoro di scavo compiuto dalla scuola storica e in particolare ai commenti sorretti dal magistero di Pio Rajna, come quelli di Augusto Romizi e di Pietro Papini. Le storie della critica ariostesca (penso a quelle di Walter

Binni e di Raffaello Ramat) sono troppo severe con la scuola storica quando ne lodano l’erudizione ma l’accusano di mancare «del senso della poesia e di ogni vera attenzione ai fatti artistici nelle loro specifiche qualità» e, rispettivamente, «di intendimento profondo di cosa sia storia e di cosa sia atte». Ora, se alcuni positivisti hanno giudicato di storia e di arte come se sapessero che cosa storia e arte sono (mentre, da

buoni positivisti, avrebbero dovuto guardarsi dalle idee, dalle essenze, anche se dissimulate), hanno peccato: e tra quei

peccatori bisogna collocare in prima schiera il Rajna, che pur s’impanca a soppesare l’arte dell’Ariosto. Ma che i critici estetici avessero più senso della poesia e più attenzione al fatto artistico di (poniamo) un Lisio, e davvero sapessero che cosa

arte e storia sono, non sembra consentito dalla rassegna delle

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FRA GRAMMATICA

E RETORICA

loro interpretazioni della poesia ariostesca, le quali agli stessi rassegnatori appaiono formule brillanti ma unilaterali, pit atte a schematizzare che a motivare storicamente (in senso

sia sostanziale che formale) un’esperienza tanto complessa. Il vero è che quelle formule — cristallizzazione di intuizioni talvolta geniali, in parte fondate su una valutazione sommaria dei dati, in parte preconcepite, ma sempre utili, come ipotesi di lavoro, in vista di quell’«organismo delle menti» cui aspirava il Trezza e aspira ogni vero interprete — devono essere verificate sperimentalmente, cioè condotte a collimare coi dati, che è quanto dire con l’individualità storica del testo. Alla quale verificazione e rifondazione, in definitiva al progresso reale dell’interpretazione artistica, ha dato e dà un apporto notevolissimo quella minuta, pedissequa analisi del contesto che, come genere letterario, vanta una tradizione

non meno insigne del saggio critico. Io credo che una storia della critica ariostesca dovrebbe far più conto dei commenti; specie di quelli dalla metà dell'Ottocento in poi. Se è vero che essi sono il sottobosco della critica, si sa che il sottobosco

è a volte più denso e quasi sempre più aromatico delle piante d’alto fusto. Nella specie, per valutare il contributo critico della scuola storica certi commenti, certe edizioni e certe note

di editori mi paiono non meno importanti dell’opera del Rajna, cui invece vien fatto riferimento capitale e quasi esclusivo; anche perché, come genere letterario, il commento si atta-

glia al metodo storico in modo specialissimo, per quella sua sommissione e aderenza al testo, alla quale si può chiedere ciò che la sintetica autonomia del saggio critico non può dare. Il commento di Pietro Papini al Furioso trova grazia presso di noi anche per il fatto che, positivista almeno in ciò serio e coerente, il suo autore non pretese di conoscere le leggi della poesia; ma persuaso che molti ancora fossero i fatti da raccogliere, acclarare, ordinare, preferî ritrarsi in una modesta opera di glossatore. A differenza di quello del Romizi, che, di qualche anno anteriore (1900), concludendo una intensa

fase di ricerca delle fonti e integrandola per la parte delle fonti classiche, nella copia di citazioni e informazioni antiquarie fa correre una vena di calda partecipazione alla bellezza del «poema umano, poema del cuore e della vita terrena», per lo pit sotto forma di apprezzamento psicologico; quello del Papini è impassibile. Il glossatore si cancella di fronte al

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poeta. Ma dall’impartecipazione non s’inferisca l’insensibilità; la prefazione ci attesta quanto egli sentisse la fantasia ariostesca, soprattutto come capacità di creare e ricreare nel-

lo stile, oltre ogni questione di fonti e di priorità d’invenzione. D’altronde, se prendiamo la prefazione del Romizi al proprio commento, o la conclusione del suo studio su Le forti latine dell’Orlando Furioso (Torino 1896), vi vediamo affer-

mata senza riserve la grandezza incomparabile dell’Ariosto, che viene assunto in una triade suprema, come poeta «umano», con Omero poeta «eroico» e Dante poeta «sacro». Cosi, anche a prezzo di tali esuberanze, due commenti rajniani, densi di riscontri e di un continuo parallelismo col Boiardo,

dissociano nettamente il problema della fonte e del contenuto da quello dell’originalità e dello stile. A che cosa il discepolo pisano e il fiorentino dovevano questa maggiore libertà di valutazione e sensibilità formale? All’influenza, risponderei, di un altro maestro, anche lui esponente del metodo storico ma che nelle sue letture critiche portava un senso dello stile ed una capacità di sintonia poetica ignoti ai più austeri colleghi. L’estro anagnostico di Giosuè Carducci immise nella formazione bartoliana e rajniana del Papini un fermento che poteva derivare il neutralismo e il conseguente oggettivismo papiniano verso un soggettivismo

impressionistico o avviarlo alla descrizione oggettiva dei procedimenti individuali di stilizzazione. Che il Papini, come altri studiosi (di cui ricordo Tommaso Casini e Alfonso Ber-

toldi) si dividesse tra Firenze e Bologna, profittando delle due scuole, ce lo dimostra la commemorazione del Carducci

che egli tenne agli allievi della Scuola militare di Modena il 23 febbraio 1907 e pubblicò nella «Rivista militare» dello stesso anno. «Fu lui — disse fra l’altro — che avviò seriamente nelle nostre scuole la critica storica e la volle contemperata e ravvivata dal forte sentimento del bello». E continua: «La critica puramente estetica anche a fondo psicologico, di cui fu maestro il De Sanctis, aveva il difetto d’isolar lo scrittore fuori del suo tempo rischiando spesso di comprenderlo a mezzo; ma la critica storica, che si occupa di cercare le fonti e gli

elementi dell’opera letteraria e di studiare l’ambiente ove è sorta, trascura troppo quanto procede dal genio personale e dall’emozione artistica dell’autore... La scuola del Carducci mirò ad armonizzare i due metodi, facendo sf che dall’erudito

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e dallo storico spuntasse l’artista». È detto qui con stretto vigore ciò che il Papini diluirà nel suo trattatello di letteratura italiana compilato, «secondo i programmi del Ministero della guerra», per la Scuola militare (Modena 1908); dove,

premesso che la critica «impressionista» del De Sanctis ha «il gran merito d’aver richiamato l’attenzione e lo studio sul valore intrinseco dell’opera d’arte, prescindendo da criteri estranei e accessori», ma che tuttavia «un’opera letteraria

non è solamente il prodotto del genio individuale», perché «raccoglie nel lavoro individuale molti elementi del lavoro altrui, sia della passata letteratura sia delle tradizioni del pensiero popolare, sia della vita complessa in mezzo alla quale sorge l’artista»; e definita la «critica storica» come quella che cerca «per quali vie l’artista è giunto alla sua creazione, per quanta parte vi ha contribuito il passato e l’ambiente, in che modo essa è il prodotto non solo del genio individuale, ma del tempo e della società in cui è sorta; conclude che «lo scrittore, che nella critica segnò l’orma più vasta per i nostri tempi, è Giosuè Carducci», il cui

«metodo, completo e sicuro, le

ha aperto nuovi orizzonti». Non si restrinse il Carducci ad essere «diligente e paziente ricercatore di documenti inediti, restitutore di testi antichi», ma «volle... che, formata una

solida e potente coltura, il critico movendo dai fatti ricostruisse l’opera geniale dello scrittore e ne rilevasse con attenta e minuta analisi le bellezze e i difetti. Per lui dunque la critica storica si integra con la critica estetica e con la psicologica, la quale mette in rapporto l’opera d’arte non solo col passato e con l’ambiente, ma anche con l’anima e col temperamento dell’artista» (pp. 183 sgg.). Le lunghe citazioni dal sommario ma vivace trattatello non hanno soltanto lo scopo di documentare la presenza del Carducci critico storico e critico di gusto nell’orizzonte mentale del Papini, ma di metterci altresi a contatto con un conclusivo esame di coscienza nelle questioni di principio e col tono più personale. Ed ecco due passi che ci concernono pi da vicino: un giudizio pillulare sull’Ariosto, da cui risulta in modo inequivoco come il parallelo col Boiardo gravasse per il Papini la partita delle fonti, non quella del valore: «Ludovico Ariosto portò con l’Orlando furioso il poema romanzesco alla più alta perfezione d’arte. Continuò la tela del Boiar-

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do e, come il Boiardo, prese elementi dai poemi e dai romanzi popolari, dalle letterature classiche e da molte altre fonti, tut-

to fondendo in mirabile armonia e vestendolo d’una forma varia e squisita, che sollevò il suo poema molto al disopra dell’Innamorato, facendone uno dei più grandi capolavori del rinascimento e dell’ingegno umano» (p. 22); ed una dichiarazione dei compiti del metodo storico nell’interpretazione del poema: «L’Orlando furioso non si comprenderebbe a dovere, se non si conoscesse quanto l’Ariosto ha preso dai poemi e dai romanzi popolari, quanto dai poemi d’arte, quanto dalle letterature classiche; e non si conoscesse per quali vie il divino scrittore sia riuscito a una perfezione meravigliosa della forma. Per questo si sono cercate le fonti romanze e classiche del suo poema, si è cercato quale e quanta fu la sua coltura nell’antica letteratura italiana e nelle lingue latina e greca, si è cercato finalmente quali fossero i rapporti del poeta con la corte di Ferrara, coi letterati del tempo, con la don-

na toscana da lui amata... Chi può negare che dal conoscere questi fatti esterni venga una luce maggiore e più completa sul lavoro individuale dell’artista? » (p. 184).

È chiara in queste pagine, e nella stessa prefazione al Furioso, la consapevolezza dell’insufficienza della critica storica concepita come ricerca di fonti; e vi è chiara l’esigenza a ridurla da fine a mezzo, mezzo di una critica più piena che, «movendo dai fatti, ricostruisca l’opera geniale dello scrittore»: la quale critica avrebbe dovuto di quell’opera «rilevare con attenta e minuta analisi le bellezze e i difetti» e,

come abbiamo visto, «mettere in rapporto l’opera d’arte non solo col passato e con l’ambiente, ma anche con l’anima e col temperamento dello scrittore». Bastano tale coscienza e tale esigenza a renderci conto che gli attributi di «geniale» e di «letterato di molto gusto» dati dal Canevazzi al Papini non erano senza qualche fondamento. D'altronde, il fatto di rimproverare al commento del Romizi l’eccesso di dottrina, e precisamente il cumulo di raffronti e di riferimenti a «fonti molteplici e disparate», e insieme di lodarlo come il primo che «porta una minuta diligenza su la parola e sulla frase» parrebbe conferma che il Papini cercava il superamento del genealogismo e dell’antiquarismo nella direzione dello stile. Non per nulla conclude la sua prefazione affermando che «non sarebbe un vero commento dell’Ariosto quello che tra-

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scurasse 0 poco curasse la lingua e lo stile», e dichiarando: «Io a questo specialmente ho atteso». Il Furioso si prestava in modo eminente a un esperimento siffatto; e il commentatore se ne mostra ben conscio. «La sua

è la lingua pit ricca, più varia e nello stesso tempo pit fresca, più viva e più signorile del gran secolo... Voi vedete il conoscitore profondo della precedente letteratura dal duecento al cinquecento, da Brunetto Latini al Sannazzaro. E come il suo periodo s’infiora di ricordi danteschi e petrarcheschi, delle grazie del Boccaccio e del Poliziano, cosi parole ed espressioni già coperte di ruggine sono ivi rimesse a nuovo e richiama-

te a vita e splendore... Io vorrei dire che accadde in lui per la lingua e per lo stile quello che accadde per la materia. Essa è un mirabile impasto di infiniti ricordi. Scrittori greci e latini, i più vari e disparati italiani, ipoemi cavallereschi popolati e letterari, la storia del tempo, la vita della società contemporanea, le arti belle e le scienze somministrano all’Ariosto il

materiale grezzo che egli lavora a suo modo, e assimila e riduce in un tutto omogeneo nella sua fantasia; cosicché spesso i ricercatori di fonti sono costretti a fare un pauroso lavoro di decomposizione... Questa medesima attitudine dovette averla per la lingua. La memoria riteneva e voci e modi letti nei più disparati scrittori o sentiti dal popolo di Toscana; il genio speciale, guidato da un gusto finissimo, richiamando al bisogno tutti questi ricordi creava una lingua fresca e spontanea, uno stile tutto nuovo e tutto individuale, dove soltanto un’analisi minuta fa riconoscere i primitivi elementi». Ora, l’aver messo tanto in risalto la lingua e lo stile, ed averli fatti, in programma, l’oggetto precipuo del suo commento sotto un riguardo non rettorico, non puristico, ma finalmente storico, è il gran merito del Papini. Resta però da vedere se e come egli abbia tradotto in atto il suo proposito. Le stesse enunciazioni teoriche che abbiamo trascritte fanno dubitare che egli sia riuscito a configurare una vera critica stilistica, vuoi storica vuoi estetica, cosi come gli accenni al

temperamento dello scrittore e all'ambiente in cui sorse il poema non promettono una interpretazione psicologica o una

illustrazione sociologica qualificate. Dall’equivoco ci toglie un passo della prefazione alla Secchia rapita, svelandoci che cosa in realtà stesse dietro le papiniane etichette di lingua, forma, stile. «Poiché le parole e le locuzioni sono parti essen-

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ziali della forma, e la forma in arte è tutto, cosî non possiamo

e non dobbiamo trascurare quanto di speciale, di nuovo, di difettoso, di oscuro si trova nella lingua e nello stile di un’opera letteraria. E noi abbiamo dato a questa parte della Secchia una cura diligentissima, rilevando anche quel materiale linguistico che, pur essendo patrimonio certo della lingua nostra, è sfuggito ai vocabolari speciali...» Una stilistica siffatta, chi non dia corpo alle apparenze, non si eleva al disopra di un riscontro lessicografico e di un’esegesi grammaticale, siano pure non puristici. Sfuggi al Papini, come sfugge al lettore dei suoi teoremi, e si ridusse a gesto mnemonico e ca-

priccioso, il rapporto dinamico, creativo tra il dato linguistico fattosi tradizione di stile e il contesto poetico, cioè, alla fine, la stessa distinzione fra lingua e stile, quale fu in modo più o meno riflesso presente, per non nominare invano il Parodi, al Caix e al Lisio. Mancando quei concetti, le «bellezze» e i «difetti» restavano confidati a un «genio speciale» e a un «gusto finissimo» non meglio definiti, e la loro motivazione o descrizione non sappiamo a che. Dal momento però che l’azione, con la scelta vitale che le impone il concreto, pene-

tra spesso là dove una velleitaria teoresi fallisce, si ha il dovere di accertare se nell’accensione del contatto ermeneutico il Papini non abbia conseguito, sia pure in implicito, l’analisi formale cui tendeva. Il commento del Papini non parve, in verità, stilistico neppure al recensore redazionale del «Giornale storico». Spacciato il criterio editoriale, già in ritardo sulla filologia ariostesca contemporanea e per giunta contraddittorio: — dopo aver rilevato le mende delle troppo classiche edizioni Morali e Panizzi, il Papini si è attenuto alla prima senza neppure darsi pensiero di riscontrare direttamente e per intero l’edizione definitiva del 1532, curata dal poeta stesso e seguita dal Morali con lettura non impeccabile; né si è preoccupato (ciò che già gli aveva rimproverato il Lisio nella «Rassegna bibliografica della letteratura italiana», 1904, p. 11) che esistesse una questione critica del testo del Furioso, emersa fin

da quando, vari anni prima, Ferruccio Martini aveva riprodotto il primo canto con le varianti di lezioni che intercedono tra due copie della medesima edizione 1532 —; spacciata questa inetta filologia testuale, il recensore del «Giornale storico» osservava come il commento — la parte positiva dell’ope-

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ra papiniana — fosse «principalmente filologico, anzi linguistico e grammaticale», non già stilistico; giacché più che alla illustrazione dello stile, cui avrebbero soprattutto giovato «continui o almen sufficienti riscontri fra il testo del 1532 e quello del ’16 e del ’21», oltre che «i testi degli autori, specialmente latini, imitati dall’Ariosto», il Papini aveva atteso

«alla illustrazione della lingua e della grammatica per ispianare l’intelligenza dei sensi letterali» e non era riuscito neppure a soddisfare tutte le esigenze di chi cercasse «un’ampia illustrazione storica del poema, ed un aiuto ad una più intima comprensione degli spiriti che vi circolano dentro» («GSLI», 1905, pp. 243 sgg.). E il tassonista G. Rossi imputerà al commento della Secchia rapita di «non sempre documentare la lingua usata dal Tassoni, facendo vedere quanto egli trasse dagli scrittori precedenti e quanto innovò nell’uso letterario del tempo» («GSLI», 1913, p. 158). Due giudizi partenti da una diversa concezione della stilistica, eppure concordi. In realtà nel commento papiniano la critica delle varianti d’autore è quasi assente. Il raro ricorso all’edizione del ’16 ha per lo più lo scopo di chiarire un’anfibologia o sciogliere un nodo ermeneutico: come in VIII, 52, 4 e in XIII, 10, 7. Che si ricerchi il perché del mutamento è un’eccezione: come quando, a proposito di X, 57, 6, e precisamente degli allotropi schera/schiena, «È notevole — si rileva — che nella prima edizione ha quasi sempre la i, che tolse poi spesso nella ed. del 1532, preferendo cosi una forma più rara». Qui ci affacciamo all’officina ariostea; e con la nota a 45, 2 dello stes-

so canto vi penetriamo: «Offro questo esempio della finezza colla quale l'A. ha proceduto nella correzione del suo poema. Nell’edizione del 1516 e 1521 si legge d’Alciza; e abbiamo già visto c. V, 11, n. 5, che lA. ama spessissimo il d’ per da. Perché qui ha corretto? Per indicare coll’espressione più faticosa la fatica del distacco. L'armonia ha avuto una parte notevole nella correzione del Furioso». L'armonia: ecco una chiave, non certo la meno importante, per aprire i segreti di quell’officina e mostrare «come lavorava l’Ariosto». Ma, trovata quella chiave, il Papini la butta via. Se in XXXVI, 40, 3 («le nievi si disciolveno e i torrenti») si sottolinea la forma desinenziale -ezo e si rimprovera al Morali di averla normalizzata in -oro in sei casi su otto, ma poi si ripristina la lezione

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del ’32 in un sol luogo (XXXVII, 97, 1) e per gli altri ci si

acqueta alla correzione moraliana ‘, a che pro’ affinare l’orecchio sulle varianti d’autore? a che scopo additarne la esperta consapevolezza? Anche fuori dalla comparazione delle varianti il Papini mostra attitudine all’analisi formale. Osservazioni come quel-

le a II, 38, 6 («Getta le mani: stende le mani; ma c’è di più

l’idea della rapidità e del movimento dall’alto al basso») e a V, 92, 8 ([«se grata vi sarà l’istoria udire»]: «grata: grato. È

un fenomeno d’attrazione del complemento che produce l’illusione di un soggetto»); e l’attenzione con cui è seguito il vario valore della congiunzione e, usata dall’Ariosto anche in funzione di altre congiunzioni, con effetti di stile che non sfuggono al commentatore (XV, 104, 8: «E le più volte: Nota la finezza di quella congiunzione, che viene a dire...»): sono esempi di ricognizione semantica stilisticamente pregnan-

te. Di finezza, del resto, e persino di eleganza e di magnificenza il Papini parla altre volte nel commento, abbandonando l’impassibilità di prammatica: a proposito del duello fra Rodomonte e Ruggiero, che supera «in finezza e maestria» quelli di Enea con Turno e di Argante con Tancredi (XLVI, 140, 8); del castello di Alcina, che «riprende e svolge magnificamente» i «brevi cenni» dell’Inzazzorato (VI, 35, 4); del sostantivo azimzanti di VIII, 79, 1, che suona «latinismo ele-

gante». Ma a giudizi cosî generici solo una organica base di accertamenti, solo una tastiera e una prospettiva di valori stilematici bene assodate potevano dare un significato; cosî come avrebbero dato al fattore personalissimo del gusto quella oggettività che l’oggettivista Papini sentiva pericolare nell'avventura di una stilistica (fosse o no di varianti) estetica.

Ora, ad una oggettivazione dell’analisi formale e dello stesso giudizio di valore, ad una stilistica non meno estetica che positivistica egli sarebbe potuto giungere per una via meno diretta e vertiginosa, più consona all’esperienza del positivismo, e che i migliori allievi della scuola storica avevano già imboccato: la via della diacronia assoluta, della storia della lingua letteraria, in quanto individuazione delle principali isostile, cioè delle tradizioni stilistiche che hanno costituito 6 Cfr. l’indice delle varianti fra l'edizione del 1532 e quella del Morali seguita dal Papini, in fondo al volume, pp. 701 sg.

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i punti di coagulo e le linee di sviluppo della nostra letteratura. Tant'è: la ricognizione linguistica del commento papiniano non adombra, neppure per pregnanza, una stilistica storica. I riscontri linguistici con testi anteriori, i «precedenti», cosî come li adduce il Papini, sono più spesso esempi lessicografici, tratti dalla Crusca e da altri vocabolari, che condizioni o fonti della forma ariostesca; sono insomma più spesso ausilio a spianare e autenticare una lettera difficile che prova delle letture e preferenze dell’Ariosto. Ed anche quando di fonti si tratta, cercate con tale inerzia, guardando all’indietro e non al fuoco in cui convergono, esse rimangono fuori da ogni prospettiva dinamica della formazione di uno stile. La «lingua fresca e spontanea», lo «stile tutto nuovo e individuale» che l’Ariosto creava dalla memoria di disparati elementi restano dunque un assunto non dimostrato. E il Papini letterato «geniale», «di molto gusto» — come lo disse il Canevazzi — resta anch’esso, entoma in difetto, chiuso nel bozzolo della sua diligenza dichiarativa e del suo oggettivismo documentario. Che è il suo modo di essere positivista; un modo intermedio tra la piena filologia di alcuni dei suoi grandi maestri o coetanei e il prolisso antiquariato di certi discepoli. Con una media, appunto, degli estremi egli trasse dalla nuova filologia scientificamente fondata il concetto dell’opera d’arte come oggetto storico e l'emancipazione dall’incombenza ipostatica del genere letterario; ma, per contrappasso, perse il vivo senso strutturale e il gusto esercitato, seppur rettorico, dei puristi. Che differenza tra l’abito suo neutrale e la gustosa partecipazione di quel Raffaello Fornaciari, epigono della critica puristica, ai cui trattati linguistici egli si affida cosî volentieri! Ma quella neutralità, che neppur l’estro carducciano valse a rompere, non fu soltanto effetto di un partito; fu anche un caso di assenza. Assenza dal magistero di lettura poetica, a parole lodato, del Carducci; dai contemporanei tentativi europei (Groeber, Vossler ecc.) nonché italiani (le discussioni, attorno al fulcro dell’Estetica crocia-

na, sul concetto di stile e sulla concepibilità di una stilistica) di rifondare la grammatica e la rettorica su basi psicologiche, estetiche, storiche; dal superamento della grammatica storica in storia della lingua letteraria, che andava mirabilmente attuando il Parodi proprio nel campo dell’italiano; da quel

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clima insomma in cui maturava l’opera modesta, ma ben altrimenti significante, di un Trabalza e di un Lisio. Il quale, definendo il commento papiniano buono nel rispetto storico, filologico ed ermeneutico (perché colmava molte lacune, soddisfaceva non poche esigenze, riepilogava e concludeva i commenti precedenti), dava, sebbene con larghezza lusinghiera, nel giusto; ma, accusandolo di non penetrare «nel vivo della interpretazione estetica», chiedeva al suo autore una prestazione impossibile. Come avrebbe osato il Papini, ancoratissimo ad una filologia reale, abbandonarsi a quei «pericoli del subbiettivismo» che il Lisio affronterà come la necessaria contropartita di rischio della sua stilistica delle varianti? «Senza dubbio il critico — premetterà questi al testo comparato dei due primi canti del Furioso (Milano 1909) — erra qui [cioè nel motivare le correzioni dell’Ariosto] nel campo del probabile: senza dubbio tale ricerca egli intorbiderà sempre di troppi elementi subbiettivi. Ma, se il critico vuol toccare l’ardua cima, se vuole sorprendere, per dir cosî, il segreto della bellezza formale e i molti segreti della storia di quella composizione — e di qui levarsi allo studio positivo dell’arte ariostesca in cui culmina l’arte del Rinascimento — bisogna pure che egli arditamente penetri nel campo del probabile e affronti tutti i pericoli del subbiettivismo. Le difficoltà di tale ricerca possono tuttavia essere scemate con l’uso discreto della scienza filologica e di quello strumento delicato che è l’analisi psicologica». Ma ciò che al Lisio teorico e pratico era mezzo, al Papini pratico era fine. Ed è entro questo accorciato orizzonte che dobbiamo cercare il contributo e il pregio del commento papiniano. Pregio, anzitutto, di misura — cioè di rispettosa proporzione e di soggezione alla poesia — dell’apparato erudito, in gran parte attinto ai commenti precedenti ma, salvo qual-

che eccesso di enciclopedismo (cfr. la nota a capidogli di VI, 36, 3), messo in funzione diretta della comprensione letterale; che per un testo difficile, e allora non del tutto decifrato, non è poco. Pregio, inoltre, di acume esplicativo: accanto a note pedanti per passi non proprio impervi, o ingenuamente

oziose (cfr. X, 69, 4), ce ne sono che soppesano da ogni lato reali difficoltà e le dichiarano in modo cosî sensato e perspicuo che il recentissimo commento del Caretti o le riporta testualmente (cfr. XLIII, 112, 3-4) o ne riprende l’interpreta-

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zione come un dato acquisito (cfr. XLIII, 149, 2 e XLIV, 51,

3). L’assenza, poi, di impressionismo psicologico e di variazioni emotive — che sarebbero stati la parte più caduca del commento — è anch’essa un pregio, sia pur negativo. Chi ne dubitasse, guardi quel colmo di santa semplicità in chiave liberty che è la nota a suave fior di VII, 29, 5: «il bacio, che

è fiore dello spirito perché ne è la prima e la più bella manifestazione»; che, a parte il fraintendimento di spirto (qui «alito»), stride ridicolmente con la sensualità dell’ottava e

con l’oscena malizia della sua chiusa. Il vero contributo del Papini all’esegesi ariostesca sta nelle annotazioni di lingua. Ciò che abbiamo detto sulla filologia papiniana ci dispensa dal chiarire perché usiamo, intenzionalmente, questa formula arcaizzante; non dall’esemplificare.

Orbene: non è certo da chi abbia raggiunto una dimensione storico-linguistica e storico-stilistica definire la concordanza per attrazione «vezzo» 0 «bizzarria» degli antichi (V, 18, 7; VI, 34, 5); battezzare popolari, poetiche, arcaiche, rare in

assoluto forme che dovrebbero essere valutate relativamente alla lingua letteraria contemporanea al Furioso e al sentimento linguistico dell’Ariosto; né individuare questo o quello stilema senza ricondurlo al fuoco ariostesco, cioè senza

trarne alcun partito per la caratterizzazione stilistica del poema. Troppo di rado il traguardo dell’interprete è quello del poeta e troppo spesso è quello dello sprovveduto lettore odierno, cui si deve spianare la via. Comunque, malgrado

cioè ogni riserva metodologica, l'indice delle annotazioni di lingua (propriamente «dei vocaboli e dei modi illustrati nel commento») ci mostra quanto il Papini abbia scrutato e analizzato la lingua del Furioso, quanta diligenza, per ripetere la sua lode al Romizi, egli abbia portato sulla parola e sulla frase. E direi che l’indice stesso, raccogliendo alfabeticamente e in raggruppamenti categoriali un materiale che, qua e là disseminato, nessuna utilità porgerebbe oltre la puntuale esegesi, costituisce il lascito più positivo del commentatore. Lemmi come «accumulamento d’aggettivi», «anacoluto», «articolo omesso», «costrutti popolari», «endiadi», «fusione di più costrutti», «gerundio», «inversioni forzate», «modi e loro usi notevoli», «preposizioni omesse per evitare ripetizioni», «proposizione incidente coordinata inserita nella principale», «proposizione principale inserita nella dipen-

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dente», «ripetizioni enfatiche», «sconcordanze dell’aggettivo predicativo col soggetto», «tmesi», «zeugma» ecc. sono un’offerta che, accolta entro una prospettiva ed una problematica di vera interpretazione formale, può divenire feconda. Indigesta ma genuina, la materia prima del Papini fornisce punti di riferimento e di appoggio, isole di certezza nel mare tutt'altro che arato della lingua del Cinquecento e del Furioso. Non sarebbe l’unico caso di una metodologia che la stessa accelerazione del suo progresso costringe ad operare su elementi apprestati in fasi superate. Se, giunti al termine del nostro discorso, volessimo stringerlo in una metafora, paragoneremmo il commento papinia-

no — nonostante le ambigue promesse della prefazione — ad un baedeker: alla guida che ti conduce davanti all’oggetto storico, ti fornisce mille opportune notizie, ma li ti lascia,

senza introdurti in nessun aspetto, né formale né sostanziale, della sua storicità. Della quale il Papini non dà alcuna chiave, né psicologica né sociologica né stilistica; e il gran monumento, in cui una società e una civiltà si specchiano, resta, al com-

mentatore non meno che al lettore, segreto. Esemplare riduzione all’assurdo di un metodo che si disse storico (e di un genere letterario attissimo ad esserne strumento) ad opera di un archivista non privo, inconditamente, di affetto e di gusto.

Trompeo lettore vagabondo *

Chi legge le due pagine che Francesco De Sanctis dedicò a Daniello Bartoli nella Storia della letteratura italiana ha il senso di leggere la motivazione di una sentenza. «Retore e moralista astratto... La natura e l’uomo non è per lui altro che stimolo e occasione a cavargli fuori tutta la sua erudizione e frasario... Estraneo al movimento della cultura europea... Stagnato in un classicismo e in un cattolicismo di seconda mano... Tratta la lingua italiana... come lingua morta... Ama starsi nel minuto... Non c’è senso di arte né di natura...»; e cosi fino alla condanna, in coppia col Segneri, reo anche lui di non avere «altra serietà che letteraria». Giudizio sommario e rivoluzionario, da un Robespierre della critica letteraria, per il quale un «fabbro di periodi e di frasi» come il Bartoli «non ha neppur senso d’uomo». Ed è perciò che del «Marino della prosa» vediamo cadere la testa già prima di averne intravisto il volto. Si potrebbe ritorcere al magnanimo e umanissimo De Sanctis la terribile accusa con cui liquidò il padre Segneri: «Non ama gli uomini»; concedendogli, al più, di amare, se non le sole idee, l’uomo ideale. E mal si eccepirebbe a suo favore l’amzor in praesentia per il marchese Puoti, tenace oltre i limiti del giudizio; ché l’amore mediato dalla pagina è, nel caso nostro, l’unico in questione ed è tanto più difficile quanto più il lettore chiede alla pagina. C'era più amore degli uomini nella critica indubbiamente

meno mentalistica di quel Carducci che denunciava la superbia del De Sanctis? C’era più biografia, contingente sî, ma * Dal volume Studi sulla letteratura dell’Ottocento in onore di Pietro Paolo Trompeo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1959, pp. 55-84.

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umanisticamente atteggiata; quella biografia che nel De Sanctis e nel Croce, fattasi trascendentale ', si spersonava in una tematica dell’opera d’arte o della letteratura nazionale, o si rimordeva la coda per insufficienza catartica e pedagogica. La critica egagée, sia l'impegno ideale o vitale, è sempre esattoria. Apriamo la Giovinezza: «Io non era buono a parlare di altro che di studi». Chi alla letteratura dà tutto, le chiede tutto e non sempre per sé. E dietro il rigore della cri-

tica di Renato Serra, che Luigi Russo con tutta l’intenzione possibile ha detto «umana», non c’è forse la partecipazione missionaria ad un «ideale critico nuovo», a quella «revisione dei valori» che appariva come «una esperienza morale della vita moderna»? e non c’è anche, in una sede più intima, quasi confessionale, la richiesta di ciò che «ognuno di noi cerca veramente attraverso ai mucchi di carta sporca e ambiziosa, quando è solo con tutta la noia della sua vita e l’inquietudine del suo cuore...»: forza e consolazione? *. A fortiori se l’impegno è ideologico e la mira, di conseguenza, prammatica. Ma si dà anche un impegno — ci si passi l’ossimoro — sostanzialmente formale, cioè una coscienza dell’esercizio letterario, che dal moderno pluralismo etico ha ottenuto il corso ne-

gatole dal De Sanctis («Non ha altra serietà che letteraria»!) e ha trovato la sua contropartita di moralità critica nella «Ronda» e nell’ermetismo. Finché, nelle regioni afeliche della stilistica strutturale, dove la psicologia stessa s’incorpora nelle strutture, ogni riferimento, non dirò antropocentrico, ma antropologico, sia pur negativo, non ha più ragione di essere. La critica di Trompeo ama gli uomini come individui e come tali li cerca. Perciò non è esigente ma curiosa: fruga il documento non meno dell’opera letteraria e li traguarda entrambi, come se il loro fuoco fosse — e per lei è — al di là. Essa conserta il figurante psicologismo del maestro remoto SainteBeuve e un fedele affetto per le cose e gli eventi nella loro identità di cose e di eventi, per i «fatti» insomma che grandi o piccoli, «storici» o no, ordiscono il destino dell’individuo e, mulinati dall’astrazione, è necessario ritrovare e ricompor1 Cfr. 1. Russo, La critica letteraria contemporanea, Bari 1942-43, I,

PP. 154 588.

2 R, SERRA, Le lettere, Roma 1914, pp. 152 Sg., 36.

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re per ritrovare e ricomporre quel destino. (Affetto che l’allievo di due tradizioni ha appreso dall’erudizione francese e dalla nostra «scuola storica», distillandone un miele pit dolce del suo stesso maestro immediato Cesare De Lollis)°. Si

veda il ricupero di Daniello Bartoli, con cui il Lettore vagabondo* comincia il suo cammino: il fatto che il descrittore di terre lontane e maravigliose non si sia mosso dalla sua cella italiana, costretto dalla disciplina della sua regola a rinunciare alla vocazione missionaria (contrariamente a ciò che cre-

deva il De Sanctis: «È stato in ogni angolo quasi della terra... : non si vede mai che la vista di tante cose nuove gli abbia rinfrescate le impressioni») consente a Trompeo di liberare la sua arte dall’impasse rettorica in cui il De Sanctis l’aveva mortificata e di ricondurla a una situazione interiore. E fatti sono anche — sebbene di un ordine pit alto — sia il parallelo virtuosismo dei pittori scultori architetti barocchi, che neppur esso, neanche a volere, può esser ridotto ad artificio e ad ornato, sia lo stato del sentimento e costume reli-

gioso al tempo e nell’ambiente del Bartoli, accertato il quale è lecito valutare la religiosità del gesuita secentesco, e non prima, saggiandola, come i suoi critici dell’Ottocento, coi reattivi del misticismo primitivo, dell’ardore savonaroliano o dell’austerità giansenistica”. Ma si osserverà che questi fatti di ordine culturale sono in fondo, se non vogliamo nasconderci dietro le parole, idee; e che la storia delle idee finisce

col restare, anche per questa via, padrona del campo. Orbene: l’individuo trompeiano non è un pitecantropo ed è, secondo l’habitat francese, uomo fra uomini; ma le idee che

porta e che portano coloro tra cui vive restano saldamente legate, potrei dire incarnate nei loro portatori ed hanno perciò quasi sempre un nome di persona. Nell’elogio bartoliano si chiamano sant’Ignazio, san Francesco Saverio, fratel Poz-

zo, Lorenzo Bernini, Luca Giordano e soprattutto Daniello Bartoli. Scarso è infatti nei saggi di Trompeo il ricorrere di concetti come tali, avulsi dalla loro investitura personale (nel * Come ci perdonerà un genealogismo cosî sommario un genealogista fino come Trompeo? Ne chiediamo venia a lui e al maggior genealogista SainteBeuve. 4 Roma 1942, pp. 9 sgg. ° Ibid, pp. 13 sgg:

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Lettore vagabondo, ad esempio, non solo le acquisite, inevitabili categorie di «romanticismo», «classicismo», «natutalismo», «decadentismo» e simili fanno intervento discretis-

simo [per non parlare degli îs7i in parata comica nella biblioteca paterna di Quaregna: «L’odorino di muffa che si respira a rimovere quei volumi è come una sintesi di civismo risorgimentale, di lealismo monarchico, d’idealismo romantico e di ottimismo georgico», p. 206], ma manca quella elaborazione di sottocategorie e di formule, quel lavorio di specificazione e demoltiplicazione concettuale ad infinitum che affanna la critica contemporanea; e perfino i luoghi comuni dell’estetica corrente — la «poesia profondamente umana e perciò eterna», il «particolare che si fa universale nella luce della poesia» [pp. 210 sg.] — fanno apparizioni meteoriche); cos scarso che, non potendo imputare di carestia il mercato, con-

viene pensare ad un’astensione connaturata al metodo. La concettizzazione, si applichi alla storia letteraria o a quella culturale o politica, è un’espropriazione dell’individuo e si risolve per lo più in opposizioni ed esclusioni dilemmatiche, da cui la tenera e complicata cellula individuale esce infranta insieme con la equità del giudizio; e un interprete non per via di concetti ma di gusto, un lettore di anime affinato sugli esemplari non solo francesi ma cristiani, sa troppo bene che la storia dell’individuo non è mai cosî netta come vogliono renderla i «grossolani semplificatori della storia, i quali si compiacciono delle facili e comode antitesi» (p. 184), che non è mai, malgrado le intenzioni dei suoi stessi protagonisti, tutta di qua o di là da una barriera. Gran parte del lavoro di Trompeo è appunto rivolta a restaurare il guasto chirurgico dell’interpretazione 4 zz4iori, sostituendo la sfumatura alla crudezza, la linea fratta o sinuosa alla dritta, la pazienza dell’analisi all’impazienza della sintesi. Si pensi, per la partita letteraria, ai suoi studi sulle consonanze del Carducci con la lirica francese (i saggi Marmo pario e Carducci e Baudelaire‘, che hanno ammorbidito il dagherrotipo carducciano) e, per la partita psicologica, i suoi scavi sul Tommaseo maledico e non malevolo, dispettoso e generoso, sacro e profano, su quel Tommaseo ai cui chiaroscuri Trompeo torna cosi volentieri da far sospettare che lo scandaglio in altrui coincida 6 Nel volume Carducci e D'Annunzio, Roma 1943.

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in parte con un esame di coscienza in proprio: troppe volte abbiamo l’impressione che le arguzie in cui s’affila il sorriso del nostro scrittore siano delle malignità mortificate (come quando, proprio dissertando del Tommaseo, dopo aver fatto appello ad una diversità di generi letterari — ode o canzone ed epigramma —, la corregge in una diversità di «stati d’animo» — lirico e satirico — «per non incorrere in scomuniche

critiche» [Il lettore vagabondo, p. 131]). Da un allineamento più che cautelare sull’estetica crociana la critica individuante di Trompeo rifuggiva per natura; ma un ammicco, di tanto in tanto, alla teoresi imperante le era utile ad avvertire che — come don Ferrante della filosofia antica — ne sapeva quanto poteva bastare, soprattutto a rendersi conto che la poesia non è cosa tanto chiara quanto si potrebbe credere. E d’altronde un disimpegno teorico che, senza impedire certe dissimulate imbastiture di una meditazione in proprio sulla poesia (quale, a proposito di una stroncatura della zoliana Bére bumaine per mano di Anatole France, «a cui manca soltanto un poco più di simpatia perché possa accettarsi come un ragionamento del tutto persuasivo» [p. 227], l’accenno al problema del fondamento psicologico dell’interpretazione; o quelli al valore delle «fonti» di un poeta: «Si avverte un non so che dello spleez baudelairiano quasi ogni volta che nella poesia del Carducci s’abbuia la illusoria serenità ellenica, o almeno l’avverte chi ha il sen-

so degli stati d’animo e alle “fonti” dà importanza solo se confermino il buon orientamento d’un’indagine spirituale»; «Smettiamola, ahimè, con queste investigazioni, che quando vogliono documentare un’ipotetica priorità richiamano troppo certi tristi esami d’impronte digitali! Rileggiamo invece il testo carducciano, e vedremo che l’ispirazione, nonostante alcune apparenze, è in realtà tutt'altra» [Carducci e D’Annunzio, pp. 55 € 158]); un disimpegno teorico che strappava

il critico alle estetiche e ai salomonici giudizi di valore, accostandolo alle poetiche e inducendolo a ricondurre l’opera di poesia nell’humus della sua «occasione», nonché a sperimentare su di essa un gusto risolventesi in una concreta analisi di struttura, diveniva un fattore della storicità delle sue indivi-

duazioni e garantiva l’alto tenore della sua empiria. La nominatività della tastiera conoscitiva trompeiana si

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affida, come a strumento principe, all’analogia, che soppianta la definizione. Il cattolicismo di Mistral, più pagano che cristiano, è «contento d’una sua saggezza meglio ancora esiodea che virgiliana» (I/ lettore vagabondo, p. 211); le ragazze di Marivaux, un po’ cerebrali nella loro grazia sopraffina, sono

«quasi a mezza strada tra i salotti delle seconde preziose e i boschetti incantati di Watteau» (p. 144), nei quali, come nel mondo mussettiano di A quoi révent les jeunes filles, «tutto è facile e possibile» (p. 153); l’insurrezione dell’umanesimo di Anatole France contro le pretensioni scientifiche di Zola «è la “querelle des anciens et des modernes” che rinasce dopo due secoli. È Boileau che rimprovera a Perrault e a Fontenelle di fare una deplorevole confusione tra scienza e poesia. È Racine col suo orrore pei termini tecnici che dai vocabolari d’arti e mestieri vengono ad offuscare il nitido specchio della forma poetica» (p. 228); Sainte-Beuve è «un Voltaire che ha attraversato il romanticismo cristiano e nel più profondo e sia pur poco visitato santuario del proprio cuore... non ha mai soffiato... sul lumicino acceso al Deus absconditus» (p. 185); e, pet centrare i toni di una satira del padre Mauro Ricci, si scomodano Aristofane e san Giovanni: «Dietro la maschera aristofanesca s’indovina un che di profetico e di apocalittico. Eravamo quasi ad Atene, ed eccoci quasi a Patmo» (p. 222): dove il «quasi», che attraverso l’ironia fa lecito il parva magnis componere, è segno di quella graduazione assidua e sottile cui l’analogia trompeiana deve il suo alto valore conoscitivo. Il rapporto non cambia invertendosi l’ordine delle grandezze: come nel Bartoli ribattezzato «Giulio Verne cristiano» (p. 11) e nel Pascarella vir-

tuosistico e manierato di Storia nostra, che spesso «si lascia vincere da Petrolini» (p. 266). Ma non sempre l’ironia del

nostro scrittore ha funzione di aggiustamento; talvolta ha la mira ultrice di alzare gli umili e di abbassare i superbi, se non ribaltando, evangelicamente, le gerarchie, almeno mostrando che i minori partecipano, con intensità diversa, della stessa umanità dei grandi e agli uni e agli altri l’imparziale monotonia della vita impone gli stessi temi. Ecco Trilussa, Pascoli

e Goethe allineati senza sforzo di fronte alla tragedia della maternità violata (pp. 254 sgg.); ecco Pascoli e La Fontaine misurarsi sulla favola della cicala e della formica (pp. 247 sgg.); ecco infine Pinocchio e l'Odissea (e di scorcio anche la

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Commedia e il Furioso) accostati con sfumato e goduto paradosso (pp. 237 sgg.). Lievita nella critica trompeiana l’istanza caritativa di un cristiano che non ha scisso la cultura dalla religione e neppure gliel’ha umiliata, dimostrando come l’unità antica può durare in spirito moderno. A quell’istanza dobbiamo, a maggior ragione, anche il Trompeo più «vagabondo», saggista de minimis, poeta dell’erudizione vindice di ciò che fu consunto senza residuo nel gran cerchio d’ombra della storia; di quel Trompeo che un lettore sordo sbagliò per antiquario e aneddotico e un collega accademico degradò a «menestrello di Roma». Qualcuno insinuerà che Trompeo è scrittore non solo cristiano, ma cattolico. Verissimo, e il suo professato cattolicesimo assurge talvolta a fattore del giudizio; non però nel senso di un limite tendenzioso, bensî di una esperienza e di una simpatia necessarie a penetrare un mondo che non di rado viene aggredito, con tendenziosità di segno negativo, da chi ne ignora la vita profonda. A prova di quanto liberi restino il giudizio e il cuore di Trompeo si possono addurre la sua

affettuosa frequentazione di spiriti diversissimi tra loro e da lui e tutt’altro che sospetti di confessionalismo, quali Voltaire, Stendhal, Belli, Foscolo, Carducci, D'Annunzio, e, în

partibus fidelium, la sua resistenza all’apologetica e all’edificazione nei casi in cui il soggetto pareva imporle: nei saggi

sull’amico santo Giulio Salvadori, dove si fa argine all’aprioristica agiografia ufficiosa non meno che all’amicizia, e in quelli stessi di soggetto «papalino», dove la distinzione tra costume e pietà, tra pietà e poesia è sempre netta, fondata com'è sulla vissuta cognizione di quelle distinte realtà e sul possesso delle loro tecniche (esemplare, a questo riguardo, il saggio Romanzi di preti, in «Quaderni di Roma», 1, 1947, pp. 111 sgg.). L’ironia ultrice, il favore per i piccoli uomini e le piccole cose, il liberale cattolicismo non sono mai confusione di valori per chi sopra tutto pone la «cattolicità» del vero. Anche se, trattando di temi cattolici, egli opera necessariamente dall’interno del sistema, lo stesso amore di verità che gli fa rivendicare la schietta religiosità del Bartoli, del Tommaseo e del Belli lo arresta ai limiti della certezza e gli fa lasciare

ad altri la cura delle ipotesi soteriche’. Si ammirano la pro* «Diceva il Salvadori che quando porse la mano al Carducci per aiutarlo

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bità con cui parla di Goethe apologista di san Filippo Neri e il calore con cui consente nell’avversione del «pagano ed olimpico» poeta per le «smorfie ridicole con cui la gente presuntuosa commette a suo modo offesa contro l’oggetto» (I/ lettore vagabondo, pp. 99 sgg.). L’analogismo trompeiano non procede solo per nomi propri; e tuttavia, anche nel campo delle sostanze, la tendenza al

concreto si afferma con un puntiglio che procura quasi sistematicamente la sostituzione del concetto con una situazione storicamente individuata e scontata. Cosî il dramma mussettiano La coupe et les lèvres è «quasi un “mistero” medievale» e due suoi personaggi «due figure allegoriche di vetrata gotica» (p. 151); la scena della incantata commedia A quoi révent les jeunes filles potrebbe esser collocata «in una minuscola corte tedesca da operetta» (p. 154); certi versi di Musset sono «il suo Odi et arz0, il suo Video meliora proboque, deteriora sequor» (p. 151); alle antologie di tipo rettorico-puristico si contrappongono, nell’Italia della prima metà dell’Ottocento, quelle che «si direbbero ispirate dal classico adagio rem tene, verba sequentur» (p. 243). Pit spesso che

un valore emblematico il riferimento ha lo scopo di creare prospettive entro cui il soggetto possa mettersi a fuoco quasi spontaneamente. Perciò la gallina anticruscante dell’ Allegra filologia del padre Mauro Ricci si precisa nel «pollaio ideale» abitato anche dal gallo dei Plaideurs raciniani e da quello vetusto delle Vespe aristofanee (pp. 213 sgg.); e nel confronto tra i gatti cantati dal Tasso e quelli cantati da Baudelaire emerge, sull’apparente identità del tema e di certi particolari, l’eterogeneità delle due poetiche (pp. 194 sg.). Si giunge talvolta fino a un giuoco di prospettiva illusionistica, a tutte spese delle dimensioni cronologiche; come quando si scongiura Boileau a giudicare il Parzasse («Si può giurare che Boileau, se lo chiamassimo a giudicare il gusto parnassiano, a scendere dalla barca, notò che aveva il polso gracile. Chi abbia presente la mentalità mistica del Salvadori ben comprende che di quella gracilità egli non avrebbe conservato cosî preciso ricordo se non ci avesse ripensato come a un segno di gracilità spirituale nell'uomo che non aveva potuto, o voluto, rimover gli ostacoli precludentigli la via del ritorno alla fede»; « Fermiamoci a questo punto, senza voler troppo vedere inquei versetti e in queste parole [del Carducci] un’aspirazione alla fede, che richiederebbe, per esser registrata, confessioni e testimonianze precise, ma che non si può negare a priori» (Carducci e D’Annunzio cit., pp. 19 Sg., 31 Sg.).

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si approprierebbe senza mutarne sillaba quel che ne disse Maurras in alcune sostanziali pagine di Barbarie et poéste...» [pp. 33 sg.]), o Richelieu e Napoleone a risolvere il caso scot-

tante della Grammaire de l’Académie per Abel Hermant («Ma che farebbe Richelieu, il fondatore dell'Académie? che farebbe Napoleone, il restauratore? » [p. 56]; con ciò che segue e che ci tenterebbe a trasferire a Trompeo quanto egli dice di De Musset: «Aveva pronto e impertinente il senso dell’ironia e si sarebbe dannato per un paradosso»). Un adepto della stilistica ginevrina parlerebbe, a questo punto, di linguaggio evocativo. In effetti nello strumento trompeiano l’evocazione prevale sulla definizione nella misura in cui le presenze prevalgono sulle formule; e si guardi il modo di caratterizzare, per attributi, per apposizioni, per confronti più che per predicati, quasi a rappresentare: il «sottile e armonioso Fénelon» (p. 119), «il nostro delizioso Algarotti, raffinato dilettante» (p. 66), il «giocondo Presidente De Brosses» (p. 70), «un tecnico del libretto come il

Metastasio» (p. 67), «Stendhal — un erede del secolo XVIII» (p. 71), «il secco e tinnulo riso di Monsieur de Voltaire» (p.

57), «un romanziere a grandi tirature come Zola... col suo metodo da professore d’università popolare» (pp. 229, 231); e in via comparativa: «Il nevrotico Baudelaire situava il paese del suo sogno nelle regioni tropicali, luminose e lussureggianti, per un istinto che direi di compenso, cioè per trovare o illudersi di trovare in una natura pletorica quel che sentiva mancare al suo essere gracile, al suo spirito tormentato: l’opulenza, la forza spontanea, la fecondità inesausta. Mentre il Carducci, uomo elementare, spirito sano, non ha bisogno di stimoli violenti: a lui basta, per salpare nel mondo dei so-

gni, una carezzevole voce di donna»; «Direi che il mago Chateaubriand gli ha insegnato [a Carducci] ad ascoltare i colloqui tra la luna e i venerandi testimoni del tempo che passa... Direi che la fraternità tra la donna pensosa e la luna pensosa gliel'ha insegnata, ancora una volta, il mago Baudelaire... Ma quel non so che di alto, di austero, di antico che si sente nella malinconia del Carducci ha un’origine tutta italiana. Ho nominato il Foscolo, e alla poesia di Ugo, agli ultimi versi delle

Grazie, vien fatto qui di ripensare»; «Guardiamoci tuttavia dal fare di Giosuè poeta un ribelle sullo stampo di Gian Gia-

como, in perpetuo contrasto con la società e la cultura. Il

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Carducci può bene inveire contro il “tarlo del pensiero”..., può ben anelare a sprofondarsi col temporale tra i colli e il mare del paese che lo vide fanciullo; ma i ricordi e i fantasmi della sua cultura umanistica vengono a visitarlo... anche in quelle sue nostalgie di ribelle» (Carducci e D'Annunzio, pp. 47,67 sg., 80). Anche qui, come sempre, «dal cerchio al centro»; anche qui, come sempre, accessorium sequitur princi-

pale, e il principale, il centro è l’individuo. Ma per ciò stesso l'individuo non resta un puro nome: tutte le risorse della evocazione e dell’allusione sono impiegate a suggerirne, direi a materializzarne quell’ineffabile che sfugge alla presa frontale della definizione. Gli stilemi a ciò più assidui sono la metafora e la citazione. Giovanni Rosini «parrucca eloquente»

(Il lettore vagabondo, p. 114), i «muscolosi alessandrini di Molière» (p. 149), la contessa de Boigne «portinaia [grazie ai suoi commérages] del gran mondo» (p. 198), le trazches de vie della Béte bumaine che «si allineano nel romanzo in tanti capitoli simmetrici, come altrettante bistecche dello stesso taglio e dello stesso peso sul marmo bianco d’una macelleria» (p. 232), le simmetriche sorelle Ninon e Ninette di A quoi révent les jeunes filles, distinte solo dal nome «come una mamma... distingue i suoi gemelli appena nati, tanto si somigliano, con un nastro rosa e un nastro celeste» (p. 155)

sono modiche audacie appetto alla maliziosa astronomia del cielo romantico, gremito di «stelle avventurose»: Madame de Staél «stella di prima grandezza, luce vibrante se altra ve ne fu mai»; Madame Récamier «luce candida»; Cristina di

Belgioioso «luce rubescente»; George Sand «luce cangiante» ecc.; variazione e fuga sopra un motivo offerto dalla corrispondenza tra Giuseppe Mazzini e Daniel Stern. La citazione, ora spiccante, ora dissolta nel testo («una “indifferente” [Séverine della Bére bumaine], per quel suo pigro lasciarsi vivere, anche quando spinge l’amante ad assassinare il marito» [p. 234]; «ora mi bacia in fronte l’aura di paradiso delle supreme altezze» [p. 206; come non risentirci la frej'aura e il ven de paradis di Bernart de Ventadorn, tanto più essendo sull’alpe piemontese, cosî vicini alla Provenza?]), quando non è aulica carezzatura («la fatal noia» [p. 151]; «la dolce guida e cara» [p. 245]; «se è vero che diverse voci fanno dolci note» [p. 246]), ha proprio il compito di tessere una rete di associazioni congeniali. A ciò tende anche la citazione per

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occasione metaforica quando, mediante la ripresa e lo svolgimento della metafora, si ha passaggio dall’estrinseco all’intrinseco: «L’inverosimile innesto della commedia molieriana sulla shakespeariana doveva tentare un poeta come Musset... Che cosa borghese, al confronto, ed ereditata in ultima analisi dai nonni del Settecento, la fusione nel dramma del-

l’elemento tragico e del comico! Nec longum tempus, et ingens Extit ad coelum ramis felicibus arbos Miraturque novas

frondes et non sua poma. Un mandorlo, piuttosto, tutto stellato de’ suoi gracili fiori. Tale ci appare, dopo un secolo né più né meno, A quoi révent les jeunes filles» (pp. 147 sg.). A volte lo svolgimento della metafora prescinde dalla citazione: «[Le ragazze di Musset hanno] un non so che d’ingenuo anche quando son maliziose, quasi il velluto d’un frutto colto allora allora: frutti d’un giardino pariginissimo, ma cullati e dorati dall’alito tiepido della più bella primavera romantica» (p. 144);

«Avviciniamo un poco il lume, ed ecco che

certe ombre si allungano e le figurine comiche [della già ricordata satira del padre Ricci] assumono aspetti inquietanti» (p. 221); «Si pensa a quel che vi è d’intimamente musicale nella lirica leopardiana: agli allegretti del Sabato del villaggio e della Quiete dopo la tempesta, agli adagi della canzone A Silvia, delle Ricordanze, della Sera del di di festa» (p. 79);

«Nel quartetto del 1660 [Molière, Racine, Boileau e La Fontaine] è difficile dire quale parte gli spetti [a Boileau]. Non certamente quella del primo violino: forse, quella del violoncello, grave, sentenzioso e pince-sans-rire» (p. 42).

Profumi, sapori, suoni; e colori, d’arte («un verso rubensiano» [p. 32]), di costume («Se Irus [in A guoî révent les

jeunes filles] nell’abbigliarsi esita tra un vestito grigio e un vestito verde che ci fanno pensare a belle stoffe di seta Luigi XV o Luigi XVI, Silvio potrebbe vestire da menestrello romantico e sarebbe perfettamente in carattere» [p. 157]), essenze di natura e di tavolozza («Natura e società sono qui [nella stessa commedia] riconciliate, e in questa luce leggera e danzante il poeta si serve d’una gamma di colori chiari, gentilmente armonizzati, e lascia da parte i toni foschi e i bianchi abbaglianti che aveva adoperato per rappresentare i simboli della Coupe» [p. 1531): si pongono col poeta o col personaggio in un rapporto di sinestesi non impressionistica,

non astratta, ma storico-culturale e critica, come ben vede chi

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consideri questi diapason non nella loro inerzia di congegni, in cui potrebbero apparire sordi o arbitrari, ma nell’orditura contrappuntistica in cui vibra il loro sapiente cromatismo: «Con le Féres galantes di Verlaine venticinquenne (1869) la Francia ebbe una sfumatura di colore (“couleur charmeresse”, direbbe Verlaine) che ancora mancava alla sua poesia.

Era un chiaro di luna ironico e impertinente, soffiato in minuscoli vetri di Murano di cosî preziosa fragilità da far venire in mente il detto di quell’antico sulla fortuna: tum cum splendet frangitur. Diavoletti cosi adorabili nella loro malinconia lunare non s’eran più visti dal tempo di Heine»; «Ci son cadenze che definiscono un tempo (o l’idea che ci siam

fatti di quel tempo nella consapevole fantasia). “L’anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma”. Quando rileggo nell’edizione Treves [si noti la puntualità ambientale di questo tocco] queste prime linee del Piacere ritrovo intatta la voluttà di quando le lessi ragazzo, lettura proibita, con la complicità d’un compagno di ginnasio. La stessa trasparenza d’oro è nell’aria che avvolge i pini e i lecci del Pincio e nei vetri dei cupé che portano a segreti convegni le Elene Muti e le Marie Ferres. Ed è attraverso quel velo d’oro, attraverso quei “tièdes carreaux d’or”, che ci piace rievocare la Roma bizantina e sommarughiana, vera insieme e favolosa, come vera insieme e favolosa era la

rievocazione che della Francia di Maria Antonietta poteva fare un francese dei tempi di Luigi Filippo. Ma della “douceur de vivre” settecentesca restano come documenti le delicate architetture del piccolo Trianon e di Bagatelle. Dove andremo noi a cercare i documenti della “douceur de vivre” dannunziana? Sotto le invetriate della galleria Sciarra o tra le pitture e specchiere di quello ch’è ora il cinema Orfeo? Sarebbe un imborghesire Elena Muti e Maria Ferres. Delle costruzioni loro contemporanee nessuna ce n’è che valga ad ambientare la loro bellezza. Quell’eleganza squisitamente datata, in cappellino chiuso e sellino, non si può immaginarla che in qualche scenario romano che sfidi i secoli (palazzo Barbe-

rini, il tempietto Zuccari, la terrazza di Villa Medici) ovvero sull’efimero sfondo di un bric-d-brac umbertino» (Carducci e D'Annunzio, pp. 266 e 173 sg.).

A chi negasse a tutto ciò valore conoscitivo col dire che

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FRA GRAMMATICA E RETORICA

si tratta di un procedimento per equivalenze, tautologico, non staremmo a rispondere che tutto il linguaggio, col suo connaturato metaforismo, è tautologia; preciseremmo piuttosto che l’interpretazione per equivalenza, non meno legittima di altre, è surrogazione di uno ad altro artista, è traduzione stilistica, e obbietteremmo che il surrogare non è certo in chiave con la vocazione critica di Trompeo e col suo stesso temperamento, geloso dell’identità altrui come della propria. Il suo linguaggio, mai mimetico od emulativo, e parafrastico solo a fini d’iconografia («Il paesaggio alpino, rivelatosi tardi a Giosue, lo innamorò a tal segno ch'egli non seppe più staccarsene. A partire dal 188.5 o giti di If... non più la Maremma con le maligne crete ombreggiate dal bosco rado, coi cavalli errabondi nelle ardenti pianure, cogli aridi caprifichi ondeggianti sui grandi massi quadrati delle mura etrusche, con le colline irte tra i veli della nebbia e le selvette di ginepri “lungo il patrio, selvaggio, urlante mare”; non più la pianura emiliana e romagnola da cui emergono come isole le ville e le città, rigata dai suoi filari di pioppi polverosi, co’ suoi scopeti e i suoi canapai, con le sue nostalgiche romanelle che sembrano prolungare all’infinito la linearità della bassa landa» [p. 2171), il suo linguaggio, anche dove è più evocatore e più allusivo, conserva quel gioco prospettico e dialettico che è lo spazio vitale dell’intelligenza; e perfino dove sembra fare partitura autonoma, quadro, la correlazione critica è sempre avvertibile in un fermento pungente. Il paesaggio provenzale con cui si apre l’elogio di Mirella e di Mistral non è una diversione letteraria o un’evasione poetica, come certi paesaggi che pausano le dissertazioni carducciane, né, come quelli di Serra, una «necessità spirituale, un riposo dell’anima malata, un respiro e uno scioglimento del cruccio quotidiano» *, né, infine, una emulazione virtuosistica all’Adolfo Venturi; ma la entratura, l’intonazione ad una poesia che a quel paesaggio è

legata istituzionalmente. Intonazione e non puro autobiografismo è anche il paesaggio che accoglie il Pascoli di Lyra («Io mi rivedo legger la Lyra lungo la spiaggia del mare, in primavera. Risento le scabre voci dei fauni e vati del Latiuzz antiquissimum...» [Il lettore vagabondo, p. 2441); un paesaggio laziale e adolescenziale, perfettamente consono al «fanciulli* russo, La critica letteraria contemporanea cit., III, p. 33.

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no» archeologico-sentimentale di quell’antologia pseudoclassica. E ciò che si è detto del quadro vale per il ritratto, estrema ambizione di un critico essenzialmente porzraitiste. Nella «prosopopea» del Tommaseo «maledico... con voluttà, come solo può esserlo un filologo esperto di tutti i segreti della parola» («Eccolo lf, al suo tavolino: scruta i vocaboli, li palpa,

li fiuta: sceglie quelli più velenosi, ne estrae i succhi che lascino sulla pelle il più irritante bruciore» [p. 130]); nella gustosa controtagliatura delle ombre prelatizie di Talleyrand e del Consalvi al Congresso di Vienna (pp. 81 sgg.); nello schizzo di un Lamartine «poeta di moda, ricercato e corteggiato dalle signore,... brillante segretario di legazione che nei salotti aristocratici di Parigi e di Firenze ostenta come un fiore all’occhiello il suo liberalismo profumato d’indefinibile religiosità» (p.111): la linea, cosî caratterizzante, è una linea d’intelligenza. L’impegno a un tempo caritativo e conoscitivo di Trom-

peo fa sî che il suo saggio, critico od erudito, non sia un divertimento, un «solitario». Le digressioni o le entrature sintatticamente esorbitanti, come quella su piazza Navona e le chiese barocche romane nelle scintillanti pagine dedicate alla Grammaire de l’Académie francaise per Abel Hermant® o quella di un Incontro a Monterosi", dove la descrizione del borgo laziale e della sua fortuna storica e letteraria ha un legame solo fortuito con l’oggetto proprio del saggio, cioè col problema dell’incontro letterario fra D’Annunzio e Stendhal; le impennate della fantasia tenera e galante («Noi vorremmo avere le poesie di Lamartine coi segni in margine tracciati dalla piccola unghia della marchesa [di Barolo]: cento o dugento segni per altrettanti più forti battiti di cuore. Avremmo forse, in questo campo del romanticismo cristiano, un bello schema di critica estetica» [I/ lettore vagabondo, p. 125]): quei giri, finte, rabeschi, tanto più grati al lettore quanto pit gratuiti, gravano, sintatticamente presi, la sola partita dell’estro; ma la loro morfologia non differisce da quella del saggio cui, saggi satelliti, accedono, è sempre in funzione di una

realtà oggettiva da conoscere in modo valido per tutti, anche se per le vie più soggettive. E quando la natura dell’indagine ° Il lettore vagabondo, pp. 43 sgg. 10 Carducci e D'Annunzio cit., pp. I9I1 Sgg.

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impone, oltre i procedimenti analogici e allusivi, l’aggressione diretta, anatomica di un testo o di una situazione mediante

la tecnica filologica, non sappiamo se pit lodare la destrezza con cui Trompeo padroneggia quella tecnica o il modo con cui, spogliandola della sua presunzione accademica, la sensibilizza, l’alleggerisce, l’assimila al proprio linguaggio. Comunque, si tratti di cogliere, nel confronto tra due grandi voci poetiche, le più dissimulate spie di consonanze sotto la dissonanza apparente, o di smentire somiglianze illusorie, o di calibrare le differenze e motivarle con pari rigore di documento e di gusto (come nel saggio su Carducci e Baudelaire, che, saldo e stringente in una squisitezza quasi soffiata, esemplifica la distinzione di Serra tra il conoscere e il penetrare le cose della poesia); si tratti di isolare nel coro di una scuola

una voce gracile ma distinta, inseguendo il suo lungo cercarsi e trovarsi (come nel medaglione di Domenico Gnoli, sveltamente tessuto con le difficili fila di dosature tonali e di «ragioni metriche») ‘: la filologia è sempre il freno, non il motore della critica di Trompeo, è la garanzia di un legittimo connubio fra critica ed estro. Perché Trompeo è, come egli stesso defini D'Annunzio lettore, un lettore-poeta. Se, come tutti sanno, l’invenzione

— qualunque sia la sua natura — sorge da una folgorazione intuitiva, da una (possiamo dire) ispirazione, quella di Trompeo non è soltanto critica. Nel suo penetrante incontro con un poeta o con un personaggio egli assolve a un tempo quel bisogno di comunione e conversazione ch’egli ha comune col suo Sainte-Beuve e coi colleghi di una letteratura sociale come la francese (e che lo distingue dalla tetraggine solipsistica o giudiziaria di certa critica nostrana), la sua vocazione intellettiva e, non ultima, quella di artista in proprio; vocazioni

solidali ma non contaminate, in un rispettoso equilibrio che una consapevolezza e un dominio tecnico unilaterali non avrebbero permesso. Ma - si dirà — per grande che sia l’equilibrio, questo complicato lettore un lettore puro non è: ergagé sul piano umano e artistico, avrà la sua poetica, i suoi miti, i suoi pretesti

autobiografici, e li agiterà a spese altrui. Ebbene, no. Se ciò che distacca il saggio trompeiano da quello dei professori di !! Ibid., pp. 227 sgg.

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critica o di erudizione è che Trompeo non scrive come noi professori, ciò che lo distacca dal saggio letterario o attistico che dir si voglia è il suo ancoraggio a un rigore filologico che l’obbliga a servire, che piega l’estto nelle spire del giudizio o dell’erudizione. Evidentemente Trompeo è un artista a spunto esogeno di specie culturale, come altri ce ne sono; ma la singolarità sua sta nel rapporto di estrema discrezione fra la sua casta Musa e il reale, che riesce a costituirne, oltre

lo spunto, il centro e il fine. La sua poetica è dunque tutt’una con la sua critica e con la sua erudizione; il suo stile di scrittore in proprio è tutt’uno col suo stile di saggista in altrui. Date le premesse, non può concludersi diversamente; e in

effetti l’analisi che siam venuti facendo degli stilemi del saggio trompeiano, i quali pertengono e al critico e all’artista, ce li ha mostrati come preordinati ad una funzione d’intelligenza. D'altronde, anche troppo palese (e direi sospetta per un «cuore di papalino») è la simpatia, non solo pregiudiziale, esegetica, con cui Trompeo frequenta autori tanto remoti

dalle sue convinzioni religiose e morali; senza dire ch'egli è troppo smaliziato storicista per non storicizzare i miti (e ab-

biamo visto come il suo cattolicesimo, che per lui non è un mito, rientri anch’esso, in sede critica, nell’ordine storico),

salvo uno, a cui non sa rinunciare come vi rinuncia la civiltà contemporanea: il mito — se cosî deve chiamarsi — dell’individuo. Quanto ad autobiografismo, bisogna intendersi. Un lettore-poeta, e per di più in traccia dell’individuo, non può non scoprirsi uomo e individuo lui stesso; e già ci siamo imbattuti, nel corso delle nostre citazioni, in casi eloquenti. L’io 0 il noi che appaiono nella pagina di Trompeo non sono, come spesso nei critici accademici, un ingranaggio grammaticale,

ma una persona che, educata sul monologo cristiano e sul dialogo classico-umanistico filtrati dalla colloquialità francese, conversa con se stessa, con l’«altro» e col lettore. E non si

tratta di autobiografismo trasposto; il rispetto dell’individuo, quando è autentico, quando è attento — come in Trompeo — al segno, alla reliquia più effimeri (arrivando, con pace di chi grida agli scartafacci, fino alla fotografia, al fermacarte, al ventaglio), non ha senso unico. Si tratta di un autobiografismo aperto, denunciato a ogni passo dalla tendenza allocutrice, interiettiva, dialogica. Eccoci al tutto-tondo della cti-

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tica trompeiana: critica d’individui ad opera di un individuo. La celiosa o dotta civetteria («il mio cuore di romanesco e di

papalino» [I/ lettore vagabondo, p. 209]; «I nostri vecchi, formatisi sugli Esezzpi di bello scrivere del Fornaciati, avrebbero subito pensato [leggendo una lettera di Boileau a Maucroix del 19 aprile 1695]... alla lettera di Marcantonio Flamini a Galeazzo Florimonte...» [p. 351); il monologo («Guarda, guarda; e noi che credevamo inventati da Baudelaire i gatti poetici!» [p. 1941); la battuta sbarazzina al lettore e l’affettuoso abbraccio all’autore, tanto più affettuoso quanto più domestica e magari polemica la simpatia («Lasciatemi dunque leggere il mio Zumaglini con animo gozzaniano» [p. 206]; «Eppure, io riapro il mio vecchio e sempre giovane Fornaciari... e provo la stessa letizia che mi dànno certi grandi affreschi del Seicento su per le volte delle nostre chiese romane» [pp. 12 sg.]); l'appello invece della citazione o del riferimento raziocinato («Bach, Handel, udite, udite! E tu Novalis, e tu, Wackenroder, e tu, Leopardi! L’autonomia

della musica era finalmente riconosciuta, e proprio dai monopolizzatori della cultura del secolo [D'Alembert e Diderot], ma a quale prezzo!» [p. 731); la deduzione logica mutata, con stilemi interiettivi, in una situazione animata, in un mon-

taggio cineplastico («Il volgo e la critica messi alla pari! La marchesa di Barolo, a cui qualche anno prima Lamartine negava il senso della segreta armonia dei versi, messa tanto pit su della critica da affidare a lei sola il compito di sceverar ne’ suoi versi le pagliuzze d’oro della poesia pura! Lamartine, dunque, ha proprio prevenuto l’abate Bremond quanto al binomio “preghiera e poesia”? » [p. 125]); la pantomima sotto

specie ironica di danza figurata («Hermant è l’Umanesimo 0, meglio, il Purismo; Brunot la Storia» [p. 551); il vero e proprio contrappunto scenico, attuato, mediante incastri, per brusche variazioni dei piani stilistici, per carrellate prospet-

tiche («Mi sembra” che da un certo tempo in qua voi vi orientiate troppo verso la vita devota... Lo zelo è terribile, brucia tutto, non è per voi, era buono per Mosè e san Paolo. [Parole che devono aver fatto corrugare la fronte della Marchesa]. Noi siamo arrivati in fatto di cristianesimo all’era di 12 È la voce di Lamartine scrivente alla marchesa di Barolo, p. 123. Gl’'incastri fra parentesi quadre sono di Trompeo.

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carità, questa soltanto mantiene o converte: il resto spaventa e respinge. [A questi sintomi d’eresia la fronte della Marchesa si corruga sempre pit]. Voi mi citerete qualche testo di ferro e di fuoco! ma io vi citerò il genere umano [Lamennais! Lamennais!] che aspira a una legge d’amore, legge d’amore che è Vangelo ben compreso... ma io vi voglio molto bene, ecco perché vorrei conservarvi perfetta [il pupillo, come si vede, diviene tutore]; ho visto tante volte la devozione mutarsi in zelo amaro»); e, finalmente, la voce stessa, la battuta messa in bocca al personaggio («Oh, se un po’ della candida fede di Xavier, doveva certo pensar la Marchesa, fosse potu-

ta passare nell’impaziente e inquieta anima di Lamartine!» [p. 124]) costituiscono, a vario titolo, modi autobiografici in funzione non egocentrica, come di chi non sa trovare l’altro che attraverso sé, e sé che attraverso l’altro; in funzione, dun-

que, di evocazione interpretativa. E se la voce di questo critico immette nella serena conversazione del suo salon una vena di risentimento che abbiamo testé avvertita, è proprio contro i nemici del colloquio universale e paritario, contro gli idolatri del presente, i maniaci del superamento, i mistici del progresso tecnico.

Un lettore siffatto non può essere che «vagabondo»: la scelta dell'argomento non può essere affidata che all’occasione, l’occasione che sta all’insegna della grazia; la linea del saggio non può esser tracciata che da quell’empiria che coincide, tutto sommato, con l’estro. Il programma, il sistema, lo zelo, e la petulanza che spesso li accompagna, esulano dal suo orizzonte; egli esercita spontaneamente e irresistibilmente la propria vocazione come chi partisce agli altri un dono ricevuto, di cui non va superbo. Il punto di mossa del suo discorso è perciò imprevedibile, il che non importa che sia, come in qualche cultore del saggio letterario, capriccioso. Nella

maggior parte dei casi esso è un approccio, il più redditizio, con l’individuo di cui va in traccia; un approccio, in genere, parziale, come parziale è quasi sempre il fronte del saggio, tanto più limitato quanto più grande sia l’individuo. Trom-

peo sa benissimo che l’individuo è inesauribile, che stringer-

lo nella sua totalità è impossibile e che perciò qualsiasi punto prospettico è utile a coglierne un aspetto; e sa non meno bene che l'ampiezza dell’angolo visuale è spesso in ragione inversa della intensità e precisione della veduta. Ma, prese le

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mosse, che cautela poi, che discrezione nel procedere! a piccoli passi, soppesando l’oro e la ganga, il petalo e la festuca, il poco che avanza del molto perduto. Sî, perché quando la posta non sono le cose, i fatti, le idee, ciò che si suol chia-

mare realtà, ma la realtà della realtà stessa, il molto è sempre perduto. Non per altro il geloso, ostinato recupero trompeiano s’intride talvolta di malinconia: «Di lei [della marchesa Francesca Riccardi] nulla so, tranne quel che dice l’iscrizione sepolcrale... Ma che cosa importano lo stato civile e la storia? La Marchesa ha la bellezza dell’eterno femminino, è una pura forma ideale, e di quanto è contingente le basta l’aria del tempo, la grazia appena un poco teatrale con cui l’ha ritratta lo scultore barocco». Non è una protesta di scetticismo; è una dichiarazione, quasi rancorosa, d’impotenza e un abbandono a quella metafisica umana che è la poesia, un cedat historia poési detto da chi, nel suo sforzo supremo, punta tuttavia più al contingente che all’eterno: «Sta lî [la marchesa Riccardi] con le braccia nude sin quasi al gomito, e codeste braccia, che vengon fuori da cumuli di trine, sono maravigliosamente tornite; le mani premono lievemente il seno, un poco pienotte come le voleva il Firenzuola, e ha le dita lunghe e affusolate; la gola scoperta par che palpiti alla fontanella come il collo d’una palomba; e la bella testa, non d’altro adorna che di un velo rigettato indietro, da quel palchetto di primo ordine par che saluti gli astanti con la rallegratura del placido volto. Qui la Marchesa m’interrompe per dirmi che questi non sono discorsi da fare in chiesa. E poi — conclude — son tutte cose che è inutile ripetermi: le so già da un pezzo. Credete proprio che non avessi uno specchio? » ”. Un inventario degli stilemi non può bastare a dare il senso concreto della delicata e ardita riconquista trompeiana. Biso-

gna vederli in movimento, goderne la sintassi, il ritmo. Si ha l'impressione magica e insieme naturale di note che si dispongono da sé sul pentagramma, di un’armonia che si concerta strada facendo, di cadenza in cadenza, per transizioni felicissime. Nell’arte della transizione sta appunto la chiave del ritmo trompeiano; parlava quasi di se medesimo, Trompeo, quando diceva che il mirabile ritmo di Pirocchio è in gran parte dovuto al modo magistrale di andare a capo. Ogni «a !® La scala del sole, Roma 1945, pp. 89 sg.

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capo» di Trompeo è infatti un passo avanti non nel sillogizzare, ma nel figurare; è un colpo di pollice in più, un’invenzione connessa alla precedente o rampollante da essa per associazione congrua ma graziosa; una sorpresa, sempre, pet

chi legge. Torniamo all’Elogio di Daniello Bartoli, saggio dall’architettura quasi scolastica. Precede la riabilitazione una storia della fortuna critica in compendio; ma si veda com'è narrata. Posto come suo centro di gravità l’acerbo giudizio del De Sanctis, e postolo con piglio mimico («Metto le mani avanti... Che cosa dice insomma il De Sanctis? » [I/ let tore vagabondo, pp. 9 sg.]), gli altri sono via via presentati, con procedimenti interiettivi e allocutivi, dai loro stessi autori fattisi personaggi («Se il Leopardi giovane, nella biblioteca del gelido palazzo di Recanati, resta “attonito e spaventato” dinanzi alla maestria dello stilista gesuita...; se, quasi

nello stesso tempo, sull’altra sponda dell’Adriatico, il Tommaseo ragazzo ritrova un vecchio volume del Bartoli tra i libri lasciati da un suo zio prete e se ne innamora...; ecco il Monti... temperare il suo elogio... Traete da questo giudizio le conseguenze...»); col risultato — anche se a volte l’inten-

zione di variatio si fa troppo sentire — di evitare un elenco di formule e di sostituire un coro di figure a un rosario di predicati. Ed è in una figura, sia pur emblematica, che si condensa il negativo dei giudizi e, insieme, la sua sterile amarezza: «Una mummia, dunque [il Bartoli], inverniciata e imbellettata, che si sfarina al primo contatto con l’aria libera. Un curioso specizzen, tutt’al più, da collocare nel museo dei mostri accessibile ai soli adulti» (p. 12). Ma un’improvvisa cal-

da ascesa tonale ci porta in un’aura riparatrice: «Eppure, io riapro il mio vecchio e sempre giovane Fornaciari, rileggo tra le “descrizioni” quella della moglie indiana che si getta sul rogo per sacrificarsi al marito morto e provo la stessa letizia che mi dànno certi grandi affreschi del Seicento su per le volte delle nostre chiese romane... O non è questa una delle maestose figure femminili che fratel Pozzo ha messo nel maraviglioso trionfo di sant’Ignazio a simboleggiare le quattro parti del mondo? La stessa gioia del colore, lo stesso senso della linea, lo stesso grandioso esotismo». Ecco che il Bartoli non giace pit, squallido e solo, sotto le accuse del giansenismo cattolico e laico, ma è tratto al sole dell’ottimismo gesuitico e nella luce congeniale dei suoi compagni d’arte. La sim-

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patia, il gusto, la dottrina han già posto le coordinate della resurrezione. Basterà un altro «a capo», la paradossale citazione di un verso di Baudelaire («La langoureuse Asie et la bràùlante Afrique...» [p. 13]) per introdurre quell’ironia che, collocando il Bartoli in una prospettiva proporzionante, ne darà le dimensioni concrete per via di aggiustamento. Tanto il ritmo maggiore della partitura, scandito dagli «a capo», che quello minore della singola battuta; tanto la tessitura sintattica che quella lessicale sono classici. Il discorso trompeiano è spiegato, legato, dichiarante, privo di convulsioni, di vortici, di appelli all’esterno; autosufficiente per una compiutezza e definitezza strutturale che relega l’allusione nel piano semantico, per un’equa bilanciatura sui fulcri canonici del verbo, sostantivo, aggettivo. Esperto di troppi sapori per non distinguere una droga da un aroma schietto, vivente del miele del passato come le Muse del nettare castalio, cosî libero nell’ortodossia cattolica da sentirsi non meno libero in quella grammaticale, Trompeo ha preferito affidarsi alla materna prigionia della tradizione, assicurarsi in una tecnica consacrata, anziché ritrarsi sulla «montagna» dell’anticlassicismo impressionistico o espressionistico o tentare un

nuovo demone. Ho detto «affidarsi» non come segno di passività, sf di fiducia nell’industre perennità di un costume. Ma la classicità attivamente partecipata da Trompeo, aliena dal conformismo soffocante come dall’isolante evasione, porta (se vogliamo passare dal genere alla specie) in un’asciutta ma saporita attillatura l'accento di un atticismo manzonianamente addolcito. Un atticismo di linea toscana — quella stessa che, filtrando la vivezza natia nella disciplina letteraria, da Gino Capponi si assottigliò in Ferdinando Martini "“—, riscaldato dal colore carducciano e appena arricciato in esattezze o squisitezze da vocabulista o in ammiccature etrusco-laziali («un cavaliere seguito da un cavalcante» [Carducci e D’ Annunzio,

p. 15]; «le delizie dell’amor puro»

[I/ lettore vagabondo, p.

152]; «deliquescente» [p. 177]; «risica» [p. 61]; «inuzzolirlo» [p. 177]; «lo sdrucciolo del Pascoli» [p. 246]; «... son

l’ultime sperate di sole in questo carteggio» [p. 124]; «tetta“ Cfr., a proposito di Ferdinando Martini, SERRA, Le lettere cit., p. 159; e lo stesso tRompEO, Via Cupa, Bologna 1958, p. 71: «Il miglior prosatore che l’Ottocento ci abbia dato nella via aperta dal Manzoni verso uno sctivere spontaneo ed elegante a un tempo».

TROMPEO

LETTORE

VAGABONDO

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relli» [p. 220]; «Povera Mariettina di Roma nostra» [p. 257]; «squarquoio» [Via Cupa, p. 95]). Il timbro della scrittura trompeiana, cristallina ma non imbalsamata, non è dun-

que un’ascesi di principio, una tensione per difetto, è la temperanza, la misura che si adegua alla situazione. E la sua grana, malgrado l’immersione del suo autore nella lingua madre dell’essayiszze, è nostra, fornita dai fondachi italiani, come

un lettore esperto subito avverte ed una ricognizione anagrafica potrebbe dimostrare. Ma non c’è bisogno di tanto. Basta dire che la normale astinenza dall’artificio non nega, a tempo e luogo, l’accesso ai congegni rettorici ad effetto, putché incrinati, secondo un modo inaugurato dal Manzoni dei Promessi sposi, da una vena di parodia («Ognuno viaggia come può. Dante viaggiò da esule, l’Ariosto da funzionario, il Machiavelli da diplomatico, il Tasso da maniaco, il Baretti da giornalista, l’Algarotti da gentiluomo, il Monti da cortigiano, Gabriele D'Annunzio da venturiero e da condottiero.

Ebbene, il Carducci viaggiò da professore, mandato dal superiore Ministero qua e là per ispezioni o commissioni d’esami» [Carducci e D'Annunzio, p. 216]; «Né era uno stoico

che avesse per breviario il manuale di Epitteto, né un giansenista lettore di Arnauld o di Pascal, né, tanto meno, un

uomo di costumi spartani, bensi un libertino nei due significati della parola, cioè un ostentatore di elegante incredulità e un buongustaio di quanti piaceri la vita può offrire, era l’allegro Saint-Evremond, l’amico di signore esemplari quali la Duchessa di Mazzarino e Ninon de Lenclos, che condannava

a questo modo la musica del suo tempo come cosa frivola e indegna di attirare l’attenzione degli uomini colti» [I lettore vagabondo, p. 621). La ragione dello stile di Trompeo è la stessa della ricreante letizia che infonde nel suo lettore: un’offerta di colloquio alto ma senza sfide o enigmi, di comunicazione aristocratica ma senza arroganza o riserva; un’offer-

ta fondata sulla fiducia di un’antica e presente comunione di storia, di gusto, di linguaggio. Donde quel contatto pulito, privo di alone e di gioco, della parola alla cosa, quel coraggio della semplicità anche nel difficile, quel tenersi fermo, con disperata speranza, al contraddittorio principio della teologia: per rationabilia ad irrationabile, per effabilia ad ineffabile. Anche per tutto ciò la pagina di Trompeo non è volontà, esercizio di stile, è stile; anche per ciò la sua scrittura si di-

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stacca dalla contemporanea prosa d’arte. Diciamo «anche», perché non faremo proprio a Trompeo l’affronto di dimenticare che egli è un individuo, e come tale, per quanto ci avviciniamo, non riusciremo mai a coglierlo intero.

Abbiamo ricordato tangenzialmente il Manzoni, imprescindibile, come paradigma evangelico, anche allo scrivere

trompeiano; ma non ci sentiremmo di propotre, per quello

scrivere, una più diretta componente lombarda: non scapigliata, ovviamente, per il suo anticlassicismo violento, mar-

chiano, ma neppure manzoniana, per il suo anticlassicismo pacato sî, e talvolta dissimulato, ma inesorabile. L'equilibrio e la misura del Manzoni sono il frutto di una ecpirosi rivoluzionaria che ha incenerito il passato; quelli di Trompeo sono il segno di un’armonia con esso, di una nostalgia per esso. L’eroico Manzoni guarda i fini supremi, cerca l’eterno nell’effimero; il mite Trompeo cerca l’effimero nella «griffe effroyable de Dieu» e s’adopra a sottrarglielo con soddisfazione palese. Mite, Trompeo, non molle; e mite della divina mitezza

del saggio. Come la miniatura più alta, la sua dilezione per l’effimero dei piccoli e dei grandi si esplica senza compiacimenti dolciastri, entro una gerarchia intatta dei valori, entro

prospettive reali, in vista e in funzione dell’essenziale dei piccoli e del grande dei grandi. Che tratti gli argomenti maggiori, come nel mirabile Carducci e Baudelaire, o i minimi, la

sua mano disegna ferma e sicura e talvolta incide come un artiglio. Chi lo legge non prova mai l’angoscia della deformazione speculare, ma la gioia della realtà reintegrata. E tuttavia — c'è chi domanda — quel saggio erudito, quel saggio de minimis che Trompeo sembra quasi anteporre agli altri suoi, che mai apporta alla sete di cognizioni importanti, al bilancio sempre passivo della nostra cultura? Che significa, in essa, più in là di un gioco, di quel «giuoco di società» o «delizioso rompicapo» in cui lo stesso Trompeo vede il punto d’arrivo di ogni classicismo attardato? ”. La domanda non si porrebbe e non si pone riguardo all’opera d’arte; ma siccome i saggi di Trompeo hanno anche un’altra faccia, siamo tenuti a rispondere: più precisamente, abbiamo già risposto nel corso di questo scritto. Qui vogliamo aggiungere una co5 Il lettore vagabondo cit., p. 37.

TROMPEO

LETTORE

VAGABONDO

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sa: che l’amore dell’individuo che Trompeo sente e pratica scrivendo, come supera l’antiquarismo ed il «gusto», cosi elude lo storicismo degli accademici contemporanei. Guardate la Roma dei suoi saggi di «romanista». Non è un oggetto, né storico né storiografico; non è una personificazione rettorica; è una persona.

«Laudabunt alii claram Rhodon aut Mytilenen Aut Epheson...» Trompeo è poeta di Roma. Son vari i modi d’esser poeti di Roma. Si può cantare la sua missione storica o il sedimento della storia nell'anima del suo popolo vivo; nell’un caso e nell’altro si dimentica la città sensibile, si abbandona-

no le sue mura, le sue piazze, i suoi cieli per ciò che sta al di là e al di sopra di essi. La Roma di Dante e del Carducci non è che l’«idea», in termini di gloria escatologica o immanente, della città verde e sanguigna, smozzicata e superba che s’imprime negli occhi carnali; come la Roma del Belli, di quella epopea della trivialità umana che fu definita la poesia del Belli, non è (ben fu osservato) che la crassa amarezza di tutti

i fallimenti storici dell’Urbe. Ma per esprimere, per rappresentare ciò che sta al di là e al di sopra, occorre un’ispirazione intensa, possente; cosî intensa e possente da vincere l’incan-

to della presenza di Roma. L’ispirazione di Trompeo ha invece il sigillo della tenerezza, della concretezza. Come potrebbe egli abbandonare la creatura che gli sta nel sangue e nel cuore? ch'egli scruta ogni giorno in ogni piega? Come non raccogliere quell’ansia di racconto e di confessione cui il destino ha negato la parola? Le piazze nobili e rustiche, le scalee erte e agiate, le dimore plebee e fastose stan lî, ai nostri occhi sensibili ma ignari, cariche di tempo, di senso, d’anima, eppur mute: come non rompere il sortilegio? E i morti due volte sepolti, nella vita e nella storia, nella vita ombrosa e nella storia maiuscola, come non sostare sulle loro tombe a decifrarne i nomi, a chiamarli per nome e, sia pure un istante, farli rivivere tra gl’'immemori

eredi? Trompeo ha sostato nella presenza di Roma; e di ogni fatto, di ogni cosa, di ogni ombra ha sentito l’infungibile individualità, il prezioso unico sapore. Il suo mondo di erudito poeta è, come quello del critico, un mondo aristotelico, in cui

i più piccoli frammenti della realtà si fanno monadi e si accendono di un’anima. Per dar vita a questo minuto, gremito mondo non bastava

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FRA GRAMMATICA

E RETORICA

esser poeta. Occorreva la pazienza che si traduce in indagine scrupolosa e poi in fedeltà discreta, a che quelle immagini non fossero sopraffatte dall’evocatore, non costituissero un pretesto al suo arabescare, ma rivivessero per sé. Si veda ap-

punto come Trompeo cita e allega, parco, opportuno, leggero: una dottrina gemmea ma sottomessa, come una tessera musiva.

Una pazienza o, che è lo stesso, una carità siffatta è esercitata in indulgenza. Indulgenza non morale, non critica; metafisica; quasi pel timore di sorprendere in contraddizione il Creatore e il creato. È l’anima stessa di Roma, naturaliter an-

tigiansenistica, o l’affetto del cantore per l’oggetto del suo canto a produrre questa consolante armonia? L’una e l’altra cosa certo; ed è questa nota alta che distingue Trompeo dagli altri «romanisti». Canti egli piazza Margana o via de’ Burrò, ridesti l’arpa di Mariannina Cugnoni o la marchesa Riccardi in San Giovanni de’ Fiorentini, susciti le pallide ombre dell’umanista Massi e dell'avvocato Ciabatta o, con gli scarni ma prodigiosi tocchi delle note alle cronache del Duca Minimo, le sontuose dame della Roma fine-di-secolo, la provin-

cia del genere, l’insidia della maniera, la frivolezza del «gusto» sono sempre trascese, bruciate in quel sorriso di conciliazione che media la letizia francescana e la contentatura di Orazio. Nobile e caro Poeta, il migliore augurio ch’io sappia fare

a questo mondo organizzato e utilitario, è ch’esso abbia ancora tanta indifferenza per le cose superflue che ti lasci salire a tuo piacere, sul passo gracile e la mazza d’avorio, la dorata scala d’Aracoeli, la tua «scala del sole», a incontrarvi qualche ignoto e inutile fratello estemporaneo e la tomba dell’amico santo eil più largo cielo di Roma e la polla segreta della tua poesia”. !* Queste parole, che purtroppo non hanno più ragione di essere, io scrivevo nell'inverno 1958. Poco dopo l’amico, a cui il mio augurio era tornato vano, saliva tutt’altra scala. Le lascio immutate, come a fermare la speranza con cui le scrissi e a trattenere lui ancora un poco fra noi.

Il Vasari scrittore manierista? *

In un suo libro recente un giovane storico della letteratura italiana, Riccardo Scrivano, ha tentato di trapiantare in campo letterario la categoria figurativa del manierismo, facendone il denominatore di una età — il secondo Cinquecento — iniziata dal Vasari scrittore e conclusa dal Tasso; età nella quale le certezze rinascimentali si incrinano e non sono ancora maturati i caratteri del barocco *. Un tale tentativo, che

non è senza più modesti o più timidi precedenti, appare subito rischioso, e per la complessità del concetto di manierismo e per il fascino che esercitano certi paralleli fra arti diverse; ma nel caso del Vasari, egualmente partecipe della tecnica figurativa e di quella letteraria — anzi, che è ben pil, traduttore della propria esperienza figurativa in termini letterari — prevale la speranza di cogliere in atto quella reversibilità accarezzata dal diffuso sinestesismo delle poetiche moderne. Purtroppo le poche pagine che lo Scrivano dedica al Vasari, se bastano a porre il problema e a delibarne qualche aspetto essenziale, restano però quasi sempre nei confini delle idee vasariane, del contenuto. Noi accetteremo il suo invito

critico, spostandoci però nel campo dello stile letterario e movendoci dal particolare al generale, cioè sperimentando i fatti stilistici minori, fino a risalire al maggiore, che è la stessa struttura della biografia vasariana; non senza lo scru-

polo di verificare se il Vasari scrittore — e scrittore, non c’è * 1961. Dal volume «Atti e Memorie della Accademia Petrarca di lettere, arti e scienze», nuova serie, vol. XXXVII, anni 1958-64, Arezzo 1965, pp. 260-83.

! R. SCRIVANO, I/ Manierismo nella letteratura del Cinquecento, Padova 1959.

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dubbio, a pieno titolo — rientri tutto nella formula proposta. Un Vasari manierista — direi anzi il Vasari più manierista — lo troviamo ancor prima delle Vite, nella lettera che il 12 febbraio 1547 egli scrisse a Benedetto Varchi circa il primato delle arti. Non indugio qui sulla ben nota occasione della celebre responsiva, cioè sull’inchiesta promossa dal Varchi, attorno a quel tema, nei primi mesi del 1547 e conclusa con la lezione da lui tenuta all'Accademia fiorentina il 13 marzo di quell’anno. Cedo invece, più utilmente, la parola a Giorgio Vasari: «L’arte nostra [cioè la pittura, della quale lo scrivente è gran sostenitore] non la può far nessuno che non abbia disegno grandissimo et un giudizio perfetto, atteso che si fa in un braccio di luogo scortat una figura di sei, e parer viva tonda in un campo pianissimo, ch’è grandissima cosa; e la scoltura è tonda perfettamente in sé, e quel ch’è la pare. E per questo disegno et architettura nella idea [l’arte nostra] esprime il valor dello intelletto in elle carte che si fanno; et in i muri e tavole di colore e disegno ci fa vedere gli spiriti e sensi in elle figure e le vivezze di quelle, oltre contraffà perfettamente i fiati, i fiumi, i venti, le tempeste, le pioggie, i nuvoli, le grandini, le nevi, i ghiacci, i baleni, i lampi, l’oscu-

ra notte, i sereni, il lucer della luna, il lampeggiar delle stelle, il chiaro giorno, il sole e lo splendor di quello. Formasi la stultizia e la saviezza in elle teste di pittura, et in esse si fa le mortezze e vivezze di quelle; variasi il color delle carni, cangiansi i panni, fassi vivere e morire, e di ferite coi sangui si fa veder i morti, secondo che vole la dotta mano e la memoria

d’un buono artefice. Ma dove lascio i fuochi che si dipingano, Ula] limpidezza delle acque? Et in oltre veggiamo dare anima vivente di colore alla immagine de’ pesci, e vive vive le piume degli uccelli apparire. Che dirò io della piumosità de’ capegli e della morbidezza delle barbe, i color loro sf vivamente sti-

lati e lustri, che più vivi che la vivezza somigliano? Dove qui lo scultore [nel] duro sasso pelo sopra pelo non può formare. Oimè, M. Benedetto mio, dove m’avete voi fatto entrare? In

un pelago di cose che non ne uscitò domane, comprendendosi sotto questa arte tutto quello che la natura fa potersi d’animo e di colore imitare. Dove lascio la prospettiva divinissima? che, quando considero, è da noi operata non solo in elle linee de’ casamenti, colonne, mazzocchi, palle a settantadue

faccie; et i paesi coi monti e coi fiumi, per via di prospettiva

IL VASARI

SCRITTORE

MANIERISTA?

ZI

figurandoli, a tanta delettazione reca gli occhi di quegli che si dilettano e non si dilettano, che non è casa di ciavattino che paesi todeschi non siano, tirati dalla vaghezza e prospettiva di quegli: che i lontani de’ monti e le nuvole della aria la scoltura non fa se non con duro magisterio. Dove mi sarà mai da lor figurato una terribilità di vento, che sfrondando un albero le foglie, la saetta il perquota, le accenda il fuoco, dove si vegga la fiamma, il fumo, il vento e le faville di quello? Figuratemi in scoltura una figura che, mangiando, in su’n un cucchiaio abbia un boccon caldo: il fummo di quello et il soffiar del fiato che esca di bocca di quell’altro per freddarlo non faranno mai torcere il fumo della caldezza dal soffio freddo in alcuna parte. Ma lasciamo star questo» ‘. Il concetto su cui s’impernia questo passo — il passo cen-

trale e culminante della lettera — è la «contraffazione della materia»; concetto che s’inquadra sf in quello aristotelico ed umanistico della imitazione, ma con un risentimento agonistico che impugna la superiorità della inerte natura in nome della studiosa virtù dell’artista. Ci si batte sulla natura e contro la natura, ma con sensi tutt’altro che naturalistici; s’insegue il fenomeno, lo si cattura, ma subito lo si converte in

qualcosa di nuovo e di strano, sî che non il fenomeno di per sé, in definitiva, né la fedeltà della sua resa, è ciò che preme, ma il magico effetto della conversione. Eppure una pittura sentita cosi non resta meno fenomenica, meno episodica: cambia il carattere, non l’importanza della fenomenologia. E il discorso vasatiano, in quell’ansia di accumulare e di sciorinare, in quell’impeto elencativo e quantitativo, in quel crollare a cascata, a valanga, per gracili e arbitrarie strutture sintattiche, verso un finale stupefacente, incarna linguisticamen-

te l’ideale figurativo del suo autore. Bastava un minore entusiasmo, perché il tutto si raggelasse in una accademia rettorica (come vediamo nella responsiva del Bronzino alla stessa inchiesta del Varchi), o si tramutasse in una esposizione più

critica, più riflessa, magari più acuta, ma didattica, come è quella del maturo rappresentante del primo manierismo, Iacopo Pontormo, dove il carattere non naturalistico della ? Traggo questo passo, come i seguenti del Pontormo e del Dolce, dal volume Trattati d’arte del Cinquecento. Fra Manierismo e Controriforma, a cura di P. Barocchi, I, Bari 1960, volume al cui apparato interpretativo sono debitore dei concetti figurativi applicati in questo discorso.

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«contraffazione della materia» è chiaramente enunciato: «El pittore è el contrario [dello scultore], male disposto del corpo per le fatiche dell’arte, più tosto fastidi di mente che aumento di vita, troppo ardito, volonteroso di imitare tutte le cose che ha fatto la natura co’ colori, perché le paino esse, e ancora migliorarle, per fare i sua lavori ricchi e pieni di cose varie, faccendo dove accade, come dire?, splendori, notte con fuochi e altri lumi simili, aria, nugoli, paesi lontani e da presso, casamenti con tante varie osservanze di prospettiva, animali di tante sorti, di tanti vari colori, e tante altre cose, che è possibile che in una storia che facci vi s’intervenga ciò che fe” mai la natura, oltre a, come io dissi di sopra, migliorarle, e co l’arte dare loro grazia, e accommodarle e comporle dove le stanno meglio».

Un confronto stilistico fuori dei confini dell’inchiesta varchiana ci sarà anche più utile: «Tale arte — scrive Leonardo a proposito della pittura, confrontandola, al solito, con la

scultura — abbraccia e restringe in sé tutte le cose visibili, il che far non può la povertà della scultura, cioè i colori di tutte le cose e loro diminuzioni. Questa figura le cose trasparenti, e lo scultore ti mostrerà le naturali senza suo artifizio; il pittore ti mostrerà varie distanze con variamento del colore dell’aria interposta fra gli obiettivi e l’occhio; egli le nebbie, per le quali con difficoltà penetrano le specie degli obietti; egli le pioggie che mostrano dopo sé i nuvoli con monti e valli; egli la polvere che mostrano in sé e dopo sé i combattenti di essa motori; egli i fumi più o men densi; questo ti mostrerà i pesci scherzanti infra la superficie delle acque e il fondo loro; egli le pulite ghiaie con vari colori posarsi sopra le lavate arene del fondo de’ fiumi circondati delle verdeggianti erbe dentro alla superficie dell’acqua; egli le stelle in diverse altezze sopra di noi, e cosî altri innumerabili effetti, ai quali la scultura non aggiunge... La pittura è di maggior discorso mentale che la scultura, e di maggiore artificio...» *. Sf, di maggiore artificio; ma l’artificio di Leonardo è quello procurato dalla scienza, da un’arte concepita come una scienza spetimentale, tutt’altra cosa dei precetti pratici e del tono artigianale che caratterizzano i trattati teorici del Vasari premessi ° Trattato della pittura, a cura di A. Borzelli, Lanciano 1913, I, pp. 41 sg.

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alle Vite; e la natura è oggetto dell’arte solo in quanto è prima oggetto di tale scienza; e la resa figurativa è sf resa emu-

la, ma sostitutiva. Il naturalismo scientifico di Leonardo si ri-

specchia superbamente nel suo stile di prosatore, privo della violenza ritmica e del capriccio sintattico di quello vasatiano: nel passo che abbiamo letto il periodo procede come un oc-

chio limpido, che si posa successivamente sulle cose, le con-

templa ed esperisce nella loro presenza obiettiva ed individua, nella loro sensoria ma anche razionabile realtà; e le ri-

spetta entro uno stupore lirico che è il frutto d’arte di quella contemplazione. Ancora diversa è la temperie del Castiglione, che nel Cortegiano svolge il paragone tra pittura e scultura con notevole anticipo sul Varchi: «A questo [cioè al pittore, egli scrive nel libro primo] bisogna un altro artificio maggiore in far quelle membra che scortano e diminuiscono a proporzion della vista con ragion di prospettiva; la qual per forza di linee misurate, di colori, di lumi e d’ombre vi mostra anco in una superficie di muro dritto il piano e il lontano, più o meno come gli piace. Parvi poi che di poco momento sia la imitazione dei colori naturali in contrafar le carni, i panni e tutte l’altre cose colorate? Questo far non po già il marmorario, né meno esprimer la graziosa vista degli occhi neri e azzurri, col splendor di que’ raggi amorosi. Non po mostrare il color de’ capegli flavi, nol splendore dell’arme, non una oscura notte, non una tem-

pesta di mare, non que’ lampi e saette, non lo incendio d’una città, no’l nascere dell’aurora di color di rose, con que’ raggi d’oro e di porpora; non po in summa mostrare cielo, mare, terra, monti, selve, prati, giardini, fiumi, città né case; il che

tutto fa il pittore» ‘. Non insensibile al fatto figurativo, l’amico di Raffaello lo cala in una architettura periodica armoniosamente classica e lo avvolge di dorature letterarie, inibendogli a un tempo ogni crudezza fenomenica ed ogni realtà sperimentabile. Se il classicismo del Castiglione è superamento del dato, idealizzazione del concreto, lo è come assunzione del dato, del concreto

in un cosmo di rapporti aurei, di tipi assoluti, di accordi pitagorici, non come una astrazione eccentrica, una trasposizione 4 pp. 126 sg. dell’edizione a cura di V. Cian, Firenze 1947.

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ambigua del particolare, quale appunto è la idealizzazione perpetrata dal manierismo. Il suo meglio di scrittore il Vasari ce lo dà — sappiamo bene — non nelle trattazioni teoriche, ma nelle Vite. Egli non è,

ossia non è per essenza e per vocazione, un trattatista, ma uno storico dell’arte, che della storia, nel r0vum genus che egli va creando, ha un concetto chiaro e alto. Perciò mira — come è stato più volte rilevato — al concreto, centrando, attraverso le opere e le vicende, la personalità dell’artista. Il dato biografico, l’aneddoto sono anch'essi rivolti, dove non subentrino moventi eterogenei, all’intelligenza figurativa. Ed è l’opera d’arte, la singola opera d’arte, pit che il ciclo vitale dell’artista, a costituire, nell’incontro con lo scrittore, la cellula gametica figurativa. La fecondazione, o meglio, per abbandonare la metafora biologica, l’ispirazione scrittoria del Vasari è di tipo culturale, vale a dire che l’invenzione linguistica è condizionata in lui da quella plastica, pittorica, architettonica, secondo un processo, poeticamente inteso, di traduzione. La «descrizione» dell’opera d’arte costituisce infatti l’elemento nucleare della biografia vasariana, il genere letterario minore su cui il maggiore si fonda; genere che mal si accosterebbe all’esercizio rettorico dell’antica ecfrasi. La traduzione verbale del Vasari, al pari di ogni vera traduzione, è

una creatura d’arte, che a fondamento della propria validità assume l’intuizione di una ragion poetica figurativa. E giacché si è mostrato un Vasari teorico d’arte manierista, vediamo con quale congenialità egli «descrive», e con ciò stesso definisce, le opere di alcuni campioni del manierismo. Anzitutto, prendendole a volte non di fronte, ma di scorcio, attraverso, per intenderci, un particolare sottolinea-

to o addirittura enucleato: 1) come le «arie» della Pala degli Innocenti, dipinta dal Rosso Fiorentino: «Fecegli far lo spedalingo di S. M. Nuova una tavola, la quale vedendola abbozzata, gli parvero... tutti quei santi, diavoli; avendo il Rosso

costume nelle sue bozze a olio di fare certe arie crudeli e disperate...» (Le vite, ed. Milanesi, V, p. 157), dove è notevole l’aggettivazione qualificante, cosî nuova, per sostanza e per tono, da quella della tradizione classicistica; 2) come gli «oggetti» della Visitazione di Piero di Cosimo: «... una Visi-

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SCRITTORE

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tazione di Nostra Donna con S. Niccolò e un Sant'Antonio che legge con un pat d’occhiali al naso, che è molto pronto. Quivi contrafece uno libro di cartapecora un pò vecchio, che par vero; e cosi certe palle a quel San Niccolò, con certi lustri, ribattendo i barlumi e riflessi l’una nell’altra, che si conosceva infino allora la stranezza del suo cervello, ed il cer-

care che e’ faceva delle cose difficili» (IV, p. 133); 3) o come il gioco di scorci nella parmigianinesca Madonna con san Girolamo, ora nella Galleria nazionale di Londra: «Fece in essa

[tavola] Francesco una Nostra Donna in aria che legge, ed ha un fanciullo fra le gambe; ed in terra con straordinaria e bella attitudine ginocchioni con un piè fece un S. Giovanni, che torcendo il torso accenna al Cristo fanciullo, ed in terra a giacere in iscorto è un S. Girolamo in penitenza che dorme» pp. 224 Sg.).

(V,

Un’interpretazione che fa leva su un solo elemento, e per ciò stesso lo esalta, genera una tensione centrifuga, che nel

Vasari per lo più approda, date le sue inclinazioni di gusto, ad un risultato manieristico non solo in senso interpretativo. Se ci indugiamo un istante sulla struttura sintattica dell’ultimo passo citato, la descrizione della Madonna del Parmigianino, vediamo come l’organica articolazione a scorci e torsioni del dipinto è immediatamente tradotta in un’unica, densa compagine periodica, scarsa di aggettivi qualificanti, centrata sulle azioni dei verbi e sulle posizioni dei sostantivi, e girante su un ritorto andamento a spirale. Ma le descrizioni di opere manieristiche restano tali, nel nostro scrittore, anche quando mettono a fuoco più d’un elemento compositivo. Nella pontormesca Resurrezione di Lazzaro («Oltre che le teste erano bellissime, la figura di Laz-

zaro, il quale ritornando in vita ripigliava gli spiriti della carne morta, non poteva essere più maravigliosa, avendo anco

il fradiciccio intorno agli occhi e le carni morte affatto nell’estremità de’ piedi e delle mani, laddove non era ancora lo spirito arrivato», VI, p. 274) lo spericolato senso fenomenico si coniuga alla «contraffazione» più virtuosa, agli affetti più stupefacenti e alla percezione acuta del colore, in una compenetrazione cosî rapida e cosî fusa che la complessità del tutto passa inavvertita.

E si prenda, per uscire dal mondo toscano ed emiliano e per portarsi più avanti nel tempo, la descrizione del Giudi-

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zio universale tintorettiano a Santa Maria dell’Orto: «... Nell’altra [tela] è il Giudizio universale del novissimo giorno, con una stravagante invenzione, che ha veramente dello spaventevole e del terribile per la diversità delle figure che vi sono di ogni età e di ogni sesso, con strafori e lontani d’anime beate e dannate. Vi si vede anco la barca di Caronte, ma d’una maniera tanto diversa dall’altre, che è cosa bella e strana...» (VI, p. 591). Dove la varietà, l'horror vacui, l’inefta-

bile capriccio, la lacerata desultorietà di certe imprese tintorettiane sono resi con una folgorante intuizione, che un tepido estimatore del grande manierista veneziano potrebbe preferire all’originale pittorico. In questo consiste l'immediato ma difficile incanto della descrizione vasariana: nella sua poeticità, e quindi autonomia, e nella sua, a un tempo, penetrante adeguazione al fatto figurativo per cui nasce. Un atto complesso, direbbe un giurista, come del resto è tutta la critica che assurga, in se stessa,

a dignità letteraria. Quanto all’adeguazione, si osservi come diverse siano le descrizioni di opere del cosiddetto secondo manierismo; ad es. quella del Cartone che Perin del Vaga disegnò per la Compagnia dei Martiri di Firenze: « Aveva Perino disegnato questo cartone in sul foglio bianco sfumato e tratteggiato, lasciando i lumi della propria carta, e condotto con una diligenza mirabile, nella quale erano i due imperadori nel tribunale che sentenziano alla croce tutti i prigioni, i quali erano volti verso il tribunale, chi ginocchioni, chi ritto ed altro chinato, tutti ignudi, legati per diverse vie, in attitudini varie, storcendosi con atti di pietà, e conoscendosi il tre-

mar delle membra per aversi a disgiugner l’anima nella passione e tormento della crocifissione; oltre che vi era accen-

nato in quelle teste la costanza della fede ne’ vecchi, il timore della morte ne’ giovani, in altri il dolore delle torture, nello

stringerli le legature il dorso e le braccia. Vedevasi appresso il gonfiar de’ muscoli, e fino il sudor freddo della morte accennato in quel disegno. Appresso si vedeva ne’ soldati che li guidavano una fierezza terribile, empissima e crudele nel presentargli al tribunale per la sentenza e nel guidargli alle croci. Avevano indosso gl’imperadori e soldati corazze all’antica ed abbigliamenti molto ornati e bizzarti, ed i calzari, le scarpe,

le celate, le targhe e l’altre armadure fatte con tutta quella copia di bellissimi ornamenti che più si possa fare ed imitare

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ed aggiugnere all’antico, disegnate con quell’amore ed artifizio che può far tutti gli estremi dell’arte» (V, pp. 606 sg.). In questo lento, pedante inventario, gratificato dagli espedienti del descrittivismo oratorio (elencazioni, bilanciamenti ternari, parallelismi, ecc.), tanto più monotono quanto pit copioso, tanto più inerte quanto più agitato, è tutta la frammentarietà, la staticità, l’enciclopedismo, l’antiquariato dell’accademia manieristica. Manca l’esotismo, che possiamo reperire senza fatica in una autodescrizione; in quella, ad esempio, dell’Adorazione dei Magi, dipinta dallo stesso Vasari a Rimini, «imitando... gli uomini delle corti di tre re mescolati insieme, ma in modo però che si conosce all’arie dei volti di che regione, e soggetto a qual re sia ciascuno. Conciossiaché

alcuni hanno le carnagioni bianche; i secondi bigie ed altri nere; oltre che la diversità degli abiti e varie portature fa vaghezza e distinzione» (VII, p. 684).

Ho mostrato un Vasari che ad un’accademia figurativa risponde con una accademia letteraria; dunque su un piano di sintonia critica, di intelligenza individuante. Si guardi, per rendersi meglio conto di ciò, in altro autore una descrizione meramente letteraria, cioè condotta senza la minima penetrazione di quel fatto figurativo che pur sembra il suo spunto genetico. «La Sagrestia di S. Lorenzo nostro — scriveva il Doni a Michelangelo il 12 gennaio 1543 — non pure fa meravigliare gli spiriti, ma rubba l’anime di coloro che la mirano, e di più quella Aurora fa lasciare delle più belle e più divine donne che si vedesser mai, per abbracciare e baciar lei, et io per me soavità maggiore ho trovato in lei, che in infinite altre di quelle che la Natura ci ha dato per nostra consolazione. Ho visto poi in quella Notte il più saporoso sonno che si gustasse giamai o leggiadramente vedessi dormire a creatura vivente; e pur l’ho trovata pietra, se ben mille volte io mi son messo, come per una Dea che dormisse formata in paradiso, a destarla... E certo io vi tengo per uno Iddio... perché, sf come Domenedio ebbe fatto Adam di terra, soffiò lo spirito della vita in esso, cosî voi, volendo, col potere di quello che v’ha fatto virtuoso infondereste l’anima in quei figuroni morbidi e muscolosi con ogni intelligenzia in atto mosso con tanta maestria, che chi più gli intende, più si fa simile a loro: trasformasi in marmo, non spira, non si muove... Che dirò io di quei Capitani, manoni di Dio, teste, busti, braccia, gambe,

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stinchi, piedi, con e’ sguardi che cavano il core e quel posarsi sopra pensiero? In vero gli è meglio ch’io taccia; perché, se io venissi a quella Nostra Donna, non ardirei parlarne di quanta arte, in che bel modo cavaste di quel picciol marmo una figura si grande...» °. Nullo — come ben si sente — è il contatto critico con le varie opere della Sagrestia Nuova, tutte messe sullo stesso piano e aggirate da un gioco di invenzioni verbali (metafore, arricciature, interiezioni, filastrocche) che

non ha, come potrebbe sembrare a prima vista, mire ironiche o denigratorie, ma si afferma come una scapigliatura letteraria ad esponente linguistico, conclusa e reclusa in se stessa.

Conviene domandarci a questo punto se il Vasari, indubbiamente manierista, lo è anche esclusivamente; se insomma gli è interdetto l’accesso critico ad una concezione figurativa

non manieristica, e quindi le sue traduzioni linguistiche sono, in tal caso, deformazioni pro domo sua, magari letterariamente apprezzabili, ma prive di intelligenza adeguata. Ora, non si può certo negare che la vocazione fondamentale del Vasari gli prenda talvolta la mano, inducendolo a sottolineare manieristicamente gli aspetti di questa o quella opera che a ciò si prestino, anche se il tutto contraddice a tale accentuazione. Né si può a priori respingere il caso di interpretazioni del tutto erronee, anche se i moderni studi sul Vasari critico

d’arte ne pongono sempre più in luce la storicità e l’acutezza — a volte ben consapevoli, a volte affatto intuitive — del giudizio qualificante. Ovviamente non siamo qui per rilevare i difetti del nostro autore o per scagionarlo, come non possiamo esaurire, in sf breve discorso, tutti gli aspetti — positivi e negativi — di un’opera monumentale. Ci preme indicare la linea maestra del genio vasariano, nella quale i più validi conseguimenti letterari coincidono con i più validi conseguimenti storico-critici.

Chi (per restare in quella linea) nel leggere la descrizione della celebre Medusa di Leonardo si lasciasse dalla nota del mostruoso fuorviare a ritenerla manieristica, la rimediti in

tutti i suoi elementi: «Portò dunque Lionardo per questo In E. STEINMANN e R. WITTKOWER, Michelangelo Bibliographie 15r01926, Leipzig 1927, p. 416.

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effetto [cioè per rappresentare sulla rotella di legno di fico una testa di Medusa] ad una sua stanza, dove non entrava se non egli solo, lucertole, ramarri, grilli, serpe, farfalle, locuste, nottole ed altre strane spezie di simili animali; dalla moltitudine de’ quali variamente adattata insieme cavò un animalaccio molto orribile e spaventoso, il quale avvelenava con l’alito e faceva l’aria di fuoco; e quello fece uscire d’una pietra scura e spezzata, buffando veleno dalla gola aperta, fuoco dagli occhi e fumo dal naso sf stranamente, che pareva monstruosa ed orribile cosa affatto; e penò tanto a farla, che in quella stanza era il morbo degli animali morti troppo crudele, ma non sentito da Lionardo per il grande amore che portava all’arte» (IV, p. 24). Nonostante l’argomento meduseo, manca al mostruoso di questo passo, anche stilisticamente, il potenziale demonico, l’allucinata tensione del mostruoso ma-

nieristico. Confrontate la «Storia delle serpi di Mosè» nella volta Sistina: «In lei si vede la strage che fa de’ morti il piovere, il pungere ed il mordere delle serpi...; nella quale storia vivamente si conosce la diversità delle morti che fanno coloro che privi sono d’ogni speranza per il morso di quelle: dove si vede il veleno atrocissimo far di spasmo e paura morire infiniti, senza il legare le gambe ed avvolgere alle braccia coloro che, rimasti in quella attitudine ch’egli erano, non si possono muovere; senza le bellissime teste che gridano ed arrovesciate si disperano» (VII, pp. 184 sg.). No: il mostruoso della Medusa, scomposto accuratamente nei suoi ingredienti e colto nella sua realtà di laboratorio, fluttua tra il chimerico e

l’empirico, nel limbo ambiguo del bestiario leonardesco; e la curiosità espedientistica del descrittore, cosî presente nel cospetto dei capricci manieristici, cede qui, adeguandosi, alla curiosità sperimentale del Vinci. Sulla pietra di Raffaello possiamo paragonare l’aureo classicismo di cui è capace la musa vasariana. Prendo quell’opera che «mostrò quanto la grazia nelle delicatissime mani di Raffaello potesse insieme con l’arte», cioè la Santa Cecilia: «Èvvi una Santa Cecilia che, da un coro in cielo d’angeli abbagliata, sta a udire il suono, tutta data in preda all’armonia:

e’ si vede nella sua testa quella astrazione che si vede nel viso di coloro che sono in estasi; oltra che sono sparsi per terra instrumenti musici, che non dipinti, ma vivi e veri si cono-

scono; e similmente alcuni suoi veli e vestimenti di drappi

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d’oro e di seta, e sotto quelli un cilicio maraviglioso. E in un San Paulo, che ha posato il braccio destro in su la spada ignuda e la testa appoggiata alla mano, si vede non meno espressa la considerazione della sua scienzia, che l'aspetto della sua fierezza conversa in gravità; questi è vestito d’un panno rosso

semplice per mantello, e d’una tonica verde sotto quello, all’apostolica, e scalzo. Evvi poi Santa Maria Maddalena, che tiene in mano un vaso di pietra finissima, in un posar leggiadrissimo, e svoltando la testa par tutta allegra della sua conversione; che certo in quel genere penso che meglio non si potesse fare; e cosî sono anco bellissime le teste di Santo Agostino e di San Giovanni Evangelista» (IV, pp. 349 sg.). L’adeguamento dello scrittorio al figurativo è in verità perfetto. Il senso della composizione, sovrano nel Sanzio, si

è comunicato al descrittore, che ricrea magistralmente lo spazio raffaellesco. Nessuno dei particolari è omesso, anzi è illuminato e scrutato, ma come elemento di una compagine entro cui viene mantenuto, senza esaltazioni o pressioni deformanti; e del pari sono trattati i particolari del particolare, col risultato di far sentire insieme la possente unità compositiva e la complessità dei suoi fattori. E quanto rapido, stringente, scheggiante, era stato il tempo dell’osservazione di opere manieristiche, altrettanto lento e avvolgente è qui, dove l’armonia è fatta di calma pienezza. Si guardino poi la sintassi, l’impasto lessicale: un prevalere dei sostantivi e delle frasi nominali (a base di è, si vede, si conoscono, pare), che rende la pre-

senza di una realtà assoluta, e uno snodarsi riposato di enunciati entro un’architettura periodica che li pausa, li gradua tonalmente e ritmicamente, li conserta.

Il classicismo vasariano può reggere anche quando la descrizione svolge una nota sola. Si prenda il ritratto raffaellesco di Leone X: «Fece in Roma un quadro di buona grandezza, nel quale ritrasse papa Leone, il cardinale Giulio de’ Medici e il cardinale de’ Rossi; nel quale si veggono non finte, ma di rilievo tonde le figure: quivi è il velluto che ha il pelo; il damasco addosso a quel papa, che suona e lustra; le pelli della fodera morbide e vive; e gli ori e le sete contraffatti sî, che non colori, ma oto e seta paiono: vi è un libro di cartapecora miniato, che più vivo si mostra che la vivacità, e un campanello d’argento lavorato, che non si può dire quanto è bello. Ma fra l’altre cose vi è una palla della seggiola, brunita

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e d’oro, nella quale a guisa di specchio si ribattono (tanta è la sua chiarezza) i lumi delle finestre, le spalle del papa ed il rigirare delle stanze: e sono tutte queste cose condotte con tanta diligenza, che credasi pure e sicuramente che maestro nessuno di questo meglio non faccia né abbia a fare» (IV, p. 352). A prima lettura pare che il gusto della «contraffazione» della materia celebri qui la sua orgia manieristica a tutte spese del Sanzio. Ma si torni un istante alla Visitazione di Piero di Cosimo, tutta spericolata, per il descrittore, sul «Sant’An-

tonio che legge con un par d’occhiali al naso... molto pronto», sul «libro di cartapecora un po’ vecchio che par vero» e su «certe palle... con certi lustri, ribattendo i barlumi e riflessi l’una nell’altra, che si conosceva infino allora la stranez-

za del suo cervello ed il cercare che e’ faceva delle cose difficili» (IV, p.133); o si corra al Palazzo del Te, Sala di Psiche, nel cospetto della famosa «credenza» di Giulio Romano, «ricoperta di festoni di verzure e fiori, e tutta piena di viti cariche di grappoli d’uve e di pampini, sotto i quali sono tre ordini di vasi bizzarri, bacini, boccali, tazze, coppe ed altri cosî fatti, con diverse forme e modi fantastici, e tanto lustranti che paiono di vero argento e d’oro, essendo contraffatti con

un semplice colore di giallo e d’altro cosî bene, che mostrano l’ingegno, la virtù e l’arte di Giulio» (V, p. 538), dove il ma-

nierismo classicistico si presenta sotto la specie, oltre che della emulazione vittoriosa, della sontuosa profusione. Profusione, ovviamente, anche linguistica, nella forma sintattica

del cumulo e dell’elencazione seriale, risultante ad un effetto di conglomerato, d’indistinto. Ma la materia contraffatta del ritratto di Leone X si articola, si dispone, crea da sola lo spazio raffaellesco; uno spazio di colore, ma scandito in forme

chiuse, in oggetti distinti, in rapporti sereni, riflessi in quella palla «brunita e d’oro», abile a racchiudere in nuce l’equilibrio del tutto, come le lustranti sfere della Visitazione di Piero di Cosimo sono a mostrare la stranezza e il difficile di quel precursore del manierismo. Ma si badi a non fraintendere: classicismo non può significare, per la prosa del Vasari, la stessa cosa che per quella del Castiglione o per quella (se si vuol cercare uno scrittore direttamente esperto di cose figurative) di Leon Battista Al-

berti. Alle fonti del suo scrivere non c’è un’esperienza umanistica, e gli elementi specificamente classicistici che qua e là

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spiccano nel suo contesto appaiono intarsi tanto eterogenei, che della loro autenticità è stato perfin dubitato (e non per

nulla si è raggiunta, per gli stanchi e tardi Ragionamenti sopra la decorazione di Palazzo Vecchio, la prova della interpolazione di passi forniti al Vasari dagli amici umanisti). Alla collaborante amicizia dei dotti Cosimo Bartoli e Vincenzo Borghini, largamente documentata dal carteggio vasariano, per non parlare di Annibal Caro e di Giovambattista Adriani, può certo andare la responsabilità di alcuno degli orpelli greco-latini che qua e là appesantiscono la prosa vasariana. Ma alla base di questa non c’è neppure, chi ben guardi, quell’esperienza umanistica di secondo grado, filtrata e trasfusa, che va sotto il nome di umanesimo volgare: invano cercheremmo nelle Vite la superba, sapiente economia di costruzione, di

ritmo, d’impasto che fa del periodo castiglionesco una forma pura, godente di sé e di per sé godibile. No. Lo scrivere del Vasari non è tecnica riflessa, il suo stile non è fine a se stesso,

e, come la sua occasione o «ispirazione», resta fuori della cultura letteraria tradizionale; e vorrei anche dire che non è neppure condizionato da quella dei trattatisti d’arte, satura di elementi aulicamente tecnici o rigorosamente scientifici. Il linguaggio del Vasari, nonostante la sua infarinatura istituzionale vitruviana, albertiana, ghibertiana, esce dalle botteghe artigiane, traendone il sapore attuoso e la freschezza cordiale. È un linguaggio che non si pone come schermo intellettivo tra il critico e l’opera, che non si fa di essa pretesto ad una oziosa affabulazione, ma — uso la parola nella sua ormai acclarata accezione vasariana — la traduce. Non certo traduzione in questo senso è la descrizione di un disegno di Raffaello che un letterato che pur si picca di intelligenza figurativa, Ludovico Dolce, distilla compiaciuto attraverso un costume (per non dire mestiere) di codificato

classicismo. Nella «carta di Rosana — egli scrive nel suo Di4logo della pittura, intitolato l’Aretino — ... rappresentò Raffaello in disegno di acquarella, tocco ne’ chiari con biacca, la incoronazione di Rosana, la quale essendo bellissima femina fu amata grandemente da Alessandro Magno. È adunque in

questa carta disegnato il detto Alessandro, il quale stando inanzi a Rosana le porge la corona; et ella siede accanto un letto con attitudine timida e riverente; et è tutta ignuda fuorché, per cagione di serbar la onestà, un morbidetto pannicino

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le nasconde le parti che debbono tenersi nascose. Né si può imaginar né la più dolce aria, né il più delicato corpo, con una pienezza di carne convenevole, e con istatura che non eccede in lunghezza, ma è svelta convenevolmente. Èvvi un fanciullo ignudo con l’ali, che le scalcia i piedi; et un altro dal diso-

pra, che le ordina i capegli. V’è anco alquanto più lontano un giovanetto pur nudo, raffigurato per Imeneo, dio delle nozze, che dimostra col dito ad Alessandro la medesima Rosana, come invitandolo al trastullo di Venere o di Giunone, et un

uomo che porta la face. Èvvi più oltre un groppo di fanciulli, de’ quali alcuni ne portano uno sopra lo scudo di Alessandro, dimostrando fatica e vivacità conveniente agli anni, et un altro porta la sua lancia. Ce n’è uno che, essendosi vestito la sua corazza, non potendo reggere il peso è caduto in terra e par che pianga. E sono tutti di aria e di attitudini diverse, e bellissimi. In questo componimento Rafaello ha servito alla istoria, alla convenevolezza et all’onesto». Componimento, dice il Dolce; ma nel suo inventario iconografico, nella sua rassegna di temi, dopo un primo conato il senso della composizione va perduto; e l’episodico, il lezioso, il mitologico prendono il sopravvento sull’insieme. Né basta: benché non manchino le categorie comuni alle poetiche figurative del tempo — arie, attitudini, convenienza, verosimiglianza ecc. —

esse non si fanno predicati di un vero giudizio figurativo, non penetrano insomma nella ragione artistica del disegno raffaellesco. La descrizione del Dolce è un mero esercizio di ecfrasi. Anche dell’aneddoto vasariano, cosî dissipato dagli antologisti, non capiremo il significato, se ci ostineremo ad allinearlo alla secolare tradizione novellistica, che ha pur divertito e nutrito il nostro autore. La parte più propriamente bio-

grafica delle Vite è anch’essa — come abbiamo già detto — in funzione della storia di individualità figurative, e solo quando tale rapporto si allenta per scarsezza o mancanza di riferimenti concreti (come nella vita di Buffalmacco, artista quasi favoloso, e, parzialmente, in quella di Giotto, vite che del resto denunciano le proprie fonti narrative), rientra nei ter-

mini criticamente oziosi della novellistica, dalla quale attinge modi, cadenze e, a volte, episodi già confezionati. Non sto a ricordare, tra gli aneddoti altamente qualificanti, quelli scontatissimi su Paolo Uccello, Piero di Cosimo, il Rosso e tanti

altri artisti del Quattrocento e del primo Cinquecento fioren-

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tino. Voglio piuttosto sottolineare quelli meno noti ma non meno considerevoli attorno a compagni di lavoro ed amici dello stesso Vasari, dove la resa letteraria e insieme la significanza potevano venir compromesse dalla fluida prossimità della materia. Ne leggo dalla vita di Cristofano Gherardi da Borgo San Sepolcro, aiuto dell’Aretino nelle decorazioni della Certosa di Bologna e di Palazzo Vecchio: «... una mattina, comparendo a buon’ora in sull’opera, dove il signor Duca e la signora Duchessa si stavano guardando ed apparecchiandosi d’andare a caccia, mentre le dame e gli altri si mettevano a ordine, s’avvidero che Cristofano, al suo solito, aveva la

cappa a rovescio ed il cappuccio di dentro; perché, ridendo ambidue, disse il Duca: “Cristofano, che vuol dir questo portar sempre la cappa a rovescio?” Rispose Cristofano: “Signor, io nol so, ma voglio un dî trovare una foggia di cappe che non abbiano né dritto né rovescio, e siano da ogni banda a un modo; perché non mi basta l’animo di portarla altrimenti, vestendomi ed uscendo di casa la mattina le più volte al buio; senza che io ho un occhio in modo impedito, che non

ne veggio punto. Ma guardi Vostra Eccellenza a quel che io dipingo, e non a come io vesto”. Non rispose altro il signor Duca; ma di lf a pochi giorni gli fece fare una cappa di panno finissimo, e cucire e rimendare i pezzi in modo che non si vedeva né ritto né rovescio; ed il collare da capo era lavorato di passamani nel medesimo modo dentro che di fuori, e cost il fornimento che aveva intorno. E quella finita, la mandò per uno staffieri a Cristofano, imponendo che gliela desse da sua parte. Avendo dunque una mattina a buon’ora ricevuta costui la cappa, senza entrare in altre cerimonie, provata che se la fu, disse allo staffieri: “Il Duca ha ingegno: digli che la sta bene”. E perché era Cristofano della persona sua trascurato, e non aveva alcuna cosa più in odio che avere a mettersi pan-

ni nuovi o andare troppo stringato e stretto; il Vasari, che conosceva quell’umore, quando conosceva che egli aveva d’alcuna sorte di panni bisogno, glieli facea fare di nascosto, e poi una mattina di buon’ora porglieli in camera e levare i vecchi; e cosî era forzato Cristofano a vestirsi quelli che vi trovava. Ma era un sollazzo meraviglioso starlo ad udire, mentre era in collera e si vestiva i panni nuovi. “Guarda, diceva egli, che assassinamenti son questi: non si può in questo

mondo vivere a suo modo. Può fare il diavolo che questi ni-

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mici delle commodità si dieno tanti pensieri? ...” Piacevagli il ragionar poco ed amava che altri, in favellando, fusse breve; in tanto che, non che altro, arebbe voluto i nomi propri degli uomini brevissimi, come quello d’uno schiavo che aveva messere Sforza, il quale si chiamava M. “Oh questi, diceva Cristofano, son be’ nomi, e non Giovan Francesco e Giovan-

n’Antonio, che si pena un’ora a pronunziarli!” E perché era grazioso di natura e diceva queste cose in quel suo linguaggio borghese, arebbe fatto ridere il pianto» (VI, pp. 241 sgg.). È raro leggere, in questo genere, qualcosa di pit felice: l’intelligenza dell’umanità estrosa del Gherardi, quale sembra rivelarsi anche nella sua tuttora non bene individuata maniera, si afferma senza velleità o soprastrutture narrative. Bisogna tener sempre a mente che il Vasari costruisce storia,

non favola; e se qualcuna delle sue biografie può apparire idealizzata, nessuna lo è al modo astratto ed araldico di certi

elogia umanistici. Gli aneddoti sul Gherardi inseguono una persona vera e perciò suonano, nel pelago dell’accademica e stereotipa aneddotica rinascimentale, cosî autentici; come autentici, letterariamente parlando, suonano quelli sul Sodoma, per la sincera, appassionata antipatia con cui mordono una persona sentita, al negativo e a maggior distanza, non meno vera.

Il discorso stesso ci ha condotti al punto finale di questa rapida indagine: alla biografia vasariana nella sua interezza, avendo già considerato i rzemzbra disiecta. A parte le vite con cedimenti novellistici (tipo cui abbiamo accennato or ora),

esistono, nella numerosa serie, biografie di spirito e struttura umanistici, dove il personaggio, sempre dentro la sua determinazione storico-critica, grandeggia idealizzato ed esemplare. Sono, per citare le più cospicue, le vite di Leonardo, di Raffaello, di Michelangiolo: precedute da un proemio moraleggiante, chiuse da un ritratto fisico e di carattere cui può accompagnarsi un florilegio di motti e di aneddoti edificanti, secondo uno stampo di tradizione classica che aveva, nella stessa Firenze cinquecentesca, fornito l’insigne prodotto della Vita di Castruccio. Ma le biografie che ci paiono meno conformi a schemi o modi tradizionali, pit libere, cioè più aderenti alle vicende reali della singola personalità e alla linea

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interpretativa del Vasari, sono quelle degli artisti che formano la grande cultura figurativa fiorentina tra la metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinque: personaggi non troppo remoti da non ricuperarli ancor vivi nell'ambiente che fu di loro, e non tanto contemporanei da sentire il bisogno di una riguardosa reticenza; artisti di cui il Vasari si è nutrito ancor prima di diventare storico dell’arte e che ha sentito rievocare nelle botteghe come maestri, come uomini, come

«tipi». Sî, come «tipi», ma non eroici, non paradigmatici, anche se molti insegnamenti possono venire da loro, bensî colti nei limiti, nei pericoli, nella contraddizione della loro

umanità, eppur sempre nella loro vocazione d’arte, nel clima e nella società d’arte che li ha espressi. Tipi dunque, se mi si concede il bisticcio, non tipicizzati, e quindi individui inconfondibili, indimenticabili, prediletti certo al biografo se pit affini alle sue inclinazioni sociali ed estetiche, ma non mai fal-

sati da un intenzionale esercizio di novellatore o di caratterista. Scrittore autentico sî, il Vasari, e, quando occorre, an-

che scrittore manierista, ma impegnato in un genere che, se per certi aspetti o spunti poteva essere tributario di altre correnti letterarie, nella sua essenziale natura e destinazione si

accostava piuttosto alla fatica interpretativa di un Machiavelli e di un Guicciardini, non certo traditi, nel loro compito,

dalla dignità stilistica delle loro pagine. Che se proprio si cerca e si vuole un Vasari in vacanza, di tutto riposo, si legga la vita di Madonna Properzia de’ Rossi, scultrice bolognese, capolavoro di divertimento letterario: proemiata da un elogio della donna intellettuale, zeppo di mutuate citazioni classiche e non meno solenne che dotto, ma poi risolta, come il

proverbiale parto della montagna, nella incorrisposta e plasticamente sublimata passione della bella intagliatrice di noccioli di pesca; il tutto espresso con un garbo gentile ed affettuoso, che oggettiva l’ironia. Non possiamo qui entrare in particolari circa la struttura

delle biografie; e neppure, che sarebbe di grande interesse, considerare quanto l’architettura dell’intera opera rifletta la concezione storico-critica dell’autore. Preferiamo tornare al

punto di partenza e concludere, sulla base dei nostri rapidi e parziali esperimenti, circa la formula critica proposta da Riccardo Scrivano e a noi presentatasi come un problema: se il Vasari sia uno scrittore manierista, anzi l’iniziatore del ma-

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nierismo letterario. Possiamo subito affermare che, mentre il Vasari pittore appartiene al cosiddetto secondo manierismo, o manierismo classicistico e accademico, lo scrittore è capace di sentire e di tradurre stilisticamente anche il primo manierismo, anticlassico ed antiaccademico, sf che la sconcertante poliedricità del manierismo figurativo si ripercuote sul volto letterario del nostro autore, togliendo alla proposta formula gran parte della sua certezza definitoria. E se non c’è dubbio che il Vasari è ormai fuori dei confini aurei del Rina-

scimento, è anche vero che egli riesce a comprenderne e tradurne scrittoriamente — indipendentemente da una saputa tecnica classicistica — la classicità. D’altronde, nello stesso tentativo dello Scrivano il concetto di manierismo assume tale latitudine, tale «possibilismo», da renderlo, come cate-

goria critica, scarsamente individuante. Né vanno sottovalutati l'equivoco e il pericolo insiti in quella dibattuta parola, di accomunare il gran testo dell’Aretino alla pirotecnia verbale di un Doni o al gusto delle antitesi astratte e delle metafore concettose, in cui Georg Weise coglie un aspetto fondamentale del manierismo letterario ‘. Io penso che in tanta incertezza occorra ancorarsi ad un fatto su cui ho fin troppo insistito: che l’ispirazione del Vasari scrittore è una ispirazione riflessa, cioè condizionata da una realtà culturale su cui reagisce e da un complesso di categorie storico-critiche, che razionalizzano quella realtà. La determinazione, da un lato, di questi predicati (in modo più completo e preciso di quanto non sia stato fatto sinora) e, dall’altro, la loro resa stilistica concretamente verificata saranno la via necessaria per giungere ad una soddisfacente definizione letteraria del Vasari; la cui impresa, affine — come

ho detto — alle quasi coeve imprese del Machiavelli e del Guicciardini, e che — bisogna notarlo — nessun parallelo ha invece, fin oltre il Cinquecento, nella storia letteraria, creando un genere nella sua più genuina sostanza privo di tradizione si presenta per più aspetti nuova e quindi mal riconducibile, se non per tratti parziali, a moduli precedenti. Ecco perché le Vite ci appaiono cosf poco legate alla tradizione letteraria, soprattutto aulica, cosî impegnate, semmai, in filoni 6 G. WEISE, Manierismo e letteratura, in « Rivista di letterature moderne e comparate», XIII, 1960, Pp. 5 Sg8.

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di gusto e di linguaggio marginali o estranei alla consuetudine dei letterati. Che a questa libertà, che alla versatilità e criticità dell’esperienza vasariana — e in definitiva alla stessa costituzione del genere — abbia contribuito la satura, riflessa, tormentata spiritualità del tardo Rinascimento, cioè dell’età dei manierismi, mi pare innegabile; sarebbe altrimenti come dire che l’Aretino non apparteneva al suo proprio tempo. Ma chiudere la sua opera, incomparabilmente più nuova e pi complessa di quanto non sia finora apparsa agli storici della letteratura, entro una formula non so se più vaga o limitante, mi sembra precludersi la via ad una ricerca spregiudicata. L’insufficienza delle valutazioni che la nostra storia letteraria ha finora avanzato per le Vife vasariane si deve appunto alla esorbitanza di quell’opera dai generi accreditati; generi su cui la critica ha formato e insieme limitato se stessa. Ma tempi migliori sono maturi anche per il nostro scrittore, e, a ben guardare, lo stesso tentativo dello Scrivano è un modo di uscire dai canoni letterari consueti, trasferendosi nel campo specifico dei concetti ed interessi dello scrittore. Eppure sembra ieri che il Vasari veniva considerato una fonte di notizie per gli storici dell’arte, o un serbatoio di sapidi aneddoti e bozzetti, o il cantore dell’epopea artistica del Rinascimento; sembrano di ieri i tentativi di spegnere o di mortificare nel segno di esperienze erudite o rettoriche un’alta originalità di pensiero e di stile.

La lingua di Michelangelo *

Il tema di collaborazione a questa miscellanea che ci è stato proposto sembra fatto apposta per stimolare uno spirito di contraddizione. Non è esso infatti un invito, dopo una secolare interpretazione di Michelangelo in chiave titanica, a considerarlo in una prospettiva centripeta, sociologica, trasferendolo dal polo dell’eccezione a quello della norma? Linguisticamente, s’intende, cioè dentro il cerchio del nostro interesse e competenza, e pur senza l’intento castigatore di un Marinoni, a buon dritto volto a sfatare il mito di un Leonardo, oltre tutto, grammatico e lessicografo e a restituirci gli

esercizi grammaticali e lessicali di un artista «illetterato»; giacché, a dir vero, l’universalismo e il titanesimo della critica michelangiolesca si sono tenuti entro limiti più avveduti e soprattutto non hanno mai forzato le propotzioni di Michelangelo poeta. Del poeta in versi non vogliamo però occuparci qui, anche se non è certo fuot di proposito cercare in essi l’adesione a

una norma o costume; come già è stato fatto da valenti let-

tori di poesia, che hanno messo variamente in evidenza la più o meno attiva partecipazione di Michelangelo al linguaggio del petrarchismo, a quello (ante litteram) bernesco e a quello dantescamente «petroso». Ma è noto che in campo letterario la norma ha carattere cosi elettivo, che una indagine propriamente linguistica non darebbe frutti rilevanti. Potrebbe tutt’al più condurre a constatare la persistenza, entro una misce* Dall’opera miscellanea Michelangelo artista, pensatore, scrittore, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1965, II, pp. 569-76. Questo saggio precede l’edizione critica del Carteggio e dei Ricordi di Michelangelo patrocinata dall'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, e perciò si fonda sopra uno stato filologico dei testi ora in parte superato. 4

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la variamente nobilitata, di elementi del fiorentino corrente

nei settori meno fungibili del sistema linguistico. Ci rivolgiamo dunque alle lettere dell’artista, il carattere corsivo della maggior parte delle quali è stato anche ultimamente indicato, con acconce parole, da Pier Luigi De Vecchi nei suoi Studi sulla poesia di Michelangelo'; corsività che le contrappone vantaggiosamente, per il lettore moderno, a molti epistolari cinquecenteschi, scritti in vista della pubblicazione. Senza contare che il fatto di essere in prosa le sottrae alle alterazioni sintattiche e fonosintattiche imposte dal metro e dalla tradizione di un gusto poetico. Ora, anche l’elemento pit esterno e meno connaturato ad una lingua, la scrittura, ci dà orientamenti importanti. Lucil-

la Ciulich, una giovanissima studiosa che ha fatto oggetto di attente indagini la grafia di Michelangelo, vi ha potuto cogliere i limiti della sua cultura, scarsa di fondamenti umanistici e di ciò sinceramente consapevole. Il cauto uso di forme etimologiche o pseudoetimologiche, l’adozione di soluzioni pratiche (ct, ad esempio, per la doppia # anche nel raddoppiamento fonosintattico), la sovrabbondante giunzione delle parole, la frequenza dell’aferesi e dell’apocope giusta il tempo del parlato, l’assenza delle principali innovazioni grafiche proposte dai grammatici nel corso del Cinquecento e la modestia del pur innegabile perfezionamento di Michelangelo nel contatto con amici letterariamente colti: tutto ciò ha indotto la Ciulich a definire la sua scrittura come spontanea, pratica e spesso approssimativa, perciò bisognosa del collaborante intuito del lettore, anche se non priva di ripensamenti volti a cercare soluzioni relativamente costanti. E precisa a più riprese la Ciulich che la maggiore intensità o compresenza dei suddetti grafismi, ovviamente comuni anche agli autografi delle Rime, pertiene alle lettere dirette ai familiari, cioè a quelle più corsive. È cosa nota che nel corso del Quattrocento Firenze e il resto d’Italia seguivano, linguisticamente, due rotte divergenti: mentre i vari centri di cultura italiani si orientavano e mo1 ? zione gelo, parso

«GSLI », CxL, 1963, pp. 63 sgg. Il suo ampio saggio Sulla grafia di Michelangelo, in corso di pubblica negli Atti del Congresso per il IV Centenario della morte di MichelanFirenze-Caprese-Roma 1964, è stato preceduto da un riassunto comin « Lingua nostra» (xxV, 1964, pp. 74-78).

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dellavano sul fiorentino trecentesco dei tre massimi autori,

sdialettizzandosi a misura che su quei modelli si costituiva una unità nazionale, Firenze, nel lassismo grammaticale e retorico provocato dall’indifferenza o dalla reazione dei suoi umanisti a quei modelli e sotto la pressione di forti correnti immigratorie del contado, modificava rapidamente molti caratteri del proprio idioma, non solo i più precari e mutuabili, ma anche quelli inerenti alle strutture fonologiche e morfologiche, sf che Cesare Segre ha ben potuto parlare di una trasformazione del sistema linguistico. Trasformazione che nella prospettiva nazionale assumeva un valore competitivo destinato a concludersi con la sconfitta del fiorentino vivo, cioè

con la sua ridialettizzazione. Uno dei fenomeni pit ricorrenti nelle scritture fiorentine a cavallo del Cinquecento, anche di prose e di rime non popolari (ma siamo in un centro dove lo scarto fra lingua parlata e lingua letteraria gioca all’interno di una tradizione unitaria, e siamo in una età in cui Firenze unisce ancora il gusto della lingua viva alla convinzione di poterla fare strumento della letteratura in volgare), è la tendenza sintetica al conguaglio fonologico nel caso della enclisi pronominale agli infiniti dei verbi e a forme verbali o avverbi uscenti in 77 0 7, e della proclisi di preposizioni, dell’articolo, ecc. Ebbene, fin dalle prime lettere di Michelangelo (1496-97, pp. 3-5, 375 Sgg.)° troviamo avello (averlo), accordalla, tenello, dagli (dargli), no’ mi, no’ gli, noll’ò, gra’ maestri, i modo; come troviamo,

contestualmente, dargli, acattargli, non gli e, a dimostrare i limiti del fenomeno, z0x vi, non si. Nelle lettere [del 1508]

al padre Lodovico sul cattivo portamento del fratello Giovan Simone (pp. 13 sgg.) e a questo stesso (pp. 150 sgg.), che sono fra le più corsive e impetuose dell’intero epistolario, si colgono esempi di ?° zz4n0, w minimo, i mentre che, nel qua-

le ultimo è da notare lo svolgimento dell’avverbio in locuzione avverbiale, tipico della lingua parlata quasi come il cumulo prefissale. La Ciulich segnala la contiguità di «comperallo e pagarlo» in una lettera del 1550 al nipote Leonardo (dove il Milanesi, p. 265, legge «corzperarlo e pagarlo») e il ? Ci riferiamo alle pagine della celebre edizione di G. Milanesi, Le lettere di Michelangelo Buonarroti, Firenze 1875, linguisticamente quasi sempre fededegna.

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pentimento, segnato con una r sopra le geminate di maravi-

gliassi (maravigliarsi) e ritornalla, in una lettera [del 1533] a Bartolommeo Angiolini (dove Milanesi, p. 469, legge 724-

ravigliarsi e ritornalla). Segnala anche ’2parentassi (lettera a Leonardo del 1549, p. 237), parvo’gli (p. 225), e casi diversi, ma dello stesso ordine, come fogga (tolga, 1548 € 1556, pp. 230 e 321), zz4rinconico (1556, p. 319); ai quali potrei

aggiungere 722’ (mal) gliludicare (1512 ?, p. 43), w' mal segnio (lettera al fratello Buonarroto dell’11 agosto 1515 [Milanesi, p. 121, nonlo registra]), 70° guardassi (1549, p. 237), no’ prestar (1556, p. 316), noi sia’ certi (1549, p. 245), ©

banbino accanto a el banbino nella lettera a Lorenzo di Pier Francesco de’ Medici in data 2 luglio 1496 (non registrato dal Milanesi), e loro (el loro, 1521 c.) nel foglio 1859-6-2 5543 del British Museum, ?’ libretto (il libretto, in una lettera al nipote Leonardo del 1551, p. 273). Ma il valore di questi fatti può esserci chiaro solo in un quadro di correlazioni, cioè considerando che essi mancano ai Ricordi del Guicciardini ‘,

che nelle lettere di Michelangelo hanno scarsa frequenza a confronto della scrizione analitica, e che invece spesseggiano nelle lettere di un incolto suo discepolo, Antonio Mini: 70° si, ridesene (ridersene), co’ vostr[e], no’ vo, no’ sono, e’ re (el re, 4 volte), zo-Ilo (3 volte), ro’ rielm]pie, 2° Rosso (al Rosso), soci (sonci), i’ luogho (in luogo), no’ vole, i’ voi (2 volte), 4’ re (al re, 2 volte), no’ maravilglia, e? suo (el suo),

co’ Betuccio, no-ssa (riprova dell’assimilazione), co? Michelagniolo, no’ sia, no’ meritava, vederllo, i’ sere (in sere), x0° sapete, e’ male (el male), de’ Beni (del Beni), ro’ rispondevo

costituiscono lo spoglio di una sola lettera (a Francesco Tedaldi [1532])", dove pur non mancano forme non assimilate (el vero, spregiarla, non vi, songli, el mio, con taln]ti, avermi

ecc.). Interessante sarebbe accertare liamo compaiano anche nelle lettere te a personaggi illustri o, comunque, ne sono prive quelle, impreziosite,

se i fenomeni di cui parmichelangiolesche diretpit elaborate. In effetti a Tommaso Cavalieri e

‘ Per idati linguistici del Guicciardini (Ricordi) e del Machiavelli (Principe) attingiamo agli spogli di R. Spongano nella sua nota edizione dei Ricordi, Firenze 1951, e di F. CHIAPPELLI nei suoi Studi sul linguaggio del Machiavelli, Firenze 1952. Mi attengo al testo procurato da G. CHIARINI per il volume Michelangelo. Mostra di disegni, manoscritti e documenti, Firenze 1964, pp. 144 Sgg.

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quelle a Clemente VII, a Francesco I e a Cosimo I; ma ne contengono di altro genere, forse più essenzialmente inerenti al sistema e quindi meno censurabili dallo scrivente, come più avanti vedremo. Nell’opposto campo della dissimilazione, e in quello della metatesi e dell’attrazione paretimologica, troviamo pochi ma tipici episodi. Domina propio, ma drieto, adrieto, drento (costanti nel Machiavelli e nel Guicciardini) non pare prevalgano, stando allo spoglio della Ciulich, su dietro e dentro, né albitrio su arbitrio. Singolare, anche lessicalmente, a/berinto (labirinto, p. 54). Qui possiamo annettere, se non il costante obrigo (sempre obligo nel Guicciardini; e trovo prenaria in una lettera di Buonarroto a Michelangelo del dicembre 1515; e incontro sezzpice proprio in Michelangelo, p. 247, evidente reazione, come i casi precedenti, ad un mal tollerato nesso cons. + /), il non meno costante scarpellino, e il reallissimo (lealissimo) di una lettera al Vasari del 23 gennaio 1556‘; ed anche l’a/turità di una lettera al fratello Buonartoto (p. 134; ma pure di una a Clemente VII, p. 424) e l’araudo alternante con 4r4ldo, e l’utimo di una lettera del ’63 alnipote Leonardo (p. 369) contro il prevalere di 4/tizz0, come segno dell’incrociarsi di tendenze popolari e ipercorrettive attorno ad una crisi del gruppo / + cons., ben più largamente docu-

mentata nelle lettere dei corrispondenti di Michelangelo, colti ed incolti: trovo autra, aultare, accanto ad altra e altare, in

quelle dell’ecclesiastico Giovan Francesco Fattucci (cfr. altentico in Cellini, Vita, p. 830 dell’ed. Cordié), vota (volta), otre (oltre), atro (altro), ischutore (iscultore) in quelle di Pie-

ro Roselli e di Tommaso di Balduccio, utiz0 in quelle di Lodovico e Buonarroto Buonarroti, Bernardo Niccolini ecc. ”.

Ma non sono da trascurare due sintomatiche spie michelangiolesche, non registrate dal Milanesi (pp. 14 e 70), un’anltra nella lettera del 6 marzo 1507 al fratello Buonatroto e l’arltra in una lettera al padre del [giugno-luglio 1509]. Su altri fatti, come l’epentesi in Pagolo, pagonazzo, strasordinario (e d’altra parte le riduzioni 4operato, p. 366, i 6 In x. FREY, Der literarische Nachlass Giorgio Vasaris, I, Miinchen 1923, D. 43 . pra PA lettere dei corrispondenti di Michelangelo attingo anche alla

Sammlung ausgewiblter Briefe an Michelagniolo Buonarroti, procurata da K. Frey, Berlin 1899.

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beo, p. 245 ecc.), 0 l’epitesi in zone (il solo caso che io abbia

incontrato; ma il fenomeno, assente nei Ricordi guicciardinia-

ni, ha scarsa applicazione anche nei corrispondenti incolti) d

o la costante eliminazione dell’elemento labiale nelle labiove-

lari di chiunque, dunque, ovunque (chiunche, dunche, ovunche sono esclusivi anche nel Guicciardini e accolti, a Firenze,

dai letterati aperti al gusto della lingua viva, come il Varchi), non indugeremo. È piuttosto da porre in rilievo il fermento di uno dei settori più mobili e inquieti del sistema consonantico, quello delle palatali. La schiacciata gr — prevalente e tuttavia alternante con rg nel Machiavelli, esclusiva nel Guicciardini — nelle lettere di Michelangelo è costante in parole dell'importanza di dipignere e nello stesso nome Michelagniolo, in altre oscilla non solo con rg, ma con gl in griene pet gliele, forma demotica cui nei corrispondenti dell’artista si affianca gni per gli; il plurale dei nomi in -ello esce per lo più in -egli (modegli, anegli, sempre frategli e begli, ecc.; Ciulich); l'articolo e pronome accusativo plurale /i si presenta quasi sempre come gli (lavorargli, ve gli manderò, no’ gli avete, quegli disegni, gli à fatti ecc.; situazione analoga è nel

Guicciardini); si manifestano le notissime spie del campo palato-sibilante (risucitare, laciarla, nutri[s]ce, stracinare, vicitare [Ciulich]; ma anche riscievuta, e[s]cie, u[s]ci, discie ecc.

nei corrispondenti di Michelangelo), oppure la tendenza del nesso consonantico intaccato schj ad occludersi in stj (arristiare, stiavo, mastio; cosi nel Machiavelli, ma nel Guicciardini schiavo, maschio): fenomeni che già nel Quattrocento

distinguono il fiorentino d’uso da quello letterariamente affermato nel Trecento e alla successiva codificazione grammaticale appariranno come caratteri popolari. Nello stesso ambito è notevole la conservazione di mugg[hliato (1549, p. 242) e Fegg[bline (1561, p. 360) quando si era andato affermando il tipo mugliare, Figline come «reazione alla pronuncia contadinesca del tipo migghia per miglia» ®. Presa di posizione a favore della domestica parlata materna o mera conseguenza dell’isolamento del vecchio artista dal suo nativo centro linguistico, abbandonato definitivamente nel .3 Trovo, ad es., sue, òne, piue, ène, àne nella lettera di Piero Roselli a Michelangelo in data 10 maggio 1506. ° B. MIGLIORINI, Storia della lingua italiana, Firenze 1960, p. 387.

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1534? Una presa di posizione, ma antivernacolare, sembra essere nella risposta ad un biglietto di ser Marcantonio del Cartolaio, cancelliere ai Nove durante l’assedio di Firenze (1529), replicando Michelangelo con la voce mia a la boce

vostra del cancelliere. Però nella lettera al nipote Leonardo del 7 aprile 1548 egli scrive bozo per voto (p. 222). Converrà lasciare le consonanti per le vocali, non fosse che per rilevare l’assenza di fatti assimilatorî e dissimilatorî di grado demotico (quali uchupatissimo, achupato [occupato], ugnuno, utolità ecc., reperibili in Bernardo Niccolini, in

Lodovico Buonarroti, nel Cellini ecc.), la presenza di forme non dittongate, quali ozz0, vole, vòi, pòi, foco, core, loco, scafaioli, renaiolo, gioco, alternanti (salvo nel caso di voto e

dei tre ultimi; Ciulich) con le forme dittongate, e la preponderanza di prego e breve su priego e brieve, ma, d’altro canto, quella di #ruovo e pruovo su trovo e provo (Ciulich). Mentre per la prima serie — a parte il caso della riduzione dopo la consonante v, dove può intervenire un fattore grafico, come dimostra una correzione d’autore” — Michelangelo concorda con una tendenza già documentabile in prosatori non aulici del Quattrocento (ad es. Vespasiano da Bistic-

ci, dove non è raro incontrare boro ecc.) e quindi propria dell’uso parlato, per la seconda partecipa di una condizione di crisi che tocca anche i maggiori scrittori fiorentini del Cinquecento “. Un caso di chiaro cedimento al parlato si ha nelle forme quante, quande, indubbiamente documentate, a prescindere dai casi analizzabili e perciò ambigui (come quante gli altri [Milanesi, p. 8, quant'è gli altri], quande nulla avenissi [Milanesi, p. 9, quand’e’ nulla avenissi], quande si truovassi [Milanesi, p. 275, quand’e’ si truovassi] ecc.), in nessi come quande ciò avenissi (p. 43), quante puoi (p.125), quande bene, quande tu truovi (p. 237), fa tanto quante conosci (p. 257), quante l’uomo (p. 293) ecc. Forme certo meno fre-

quenti delle normali, ma perduranti fin nella tarda età dell’artista e ben presenti, almeno quante, anche nelle Rime. Ha rilevato acutamente la Ciulich che i vari modi di giunzione fonetica nella catena sintattica, quali l’aferesi, l’apocope, l’elisione, spesseggiano nelle lettere di Michelangelo ai !° Cosî, giustamente, la Ciulich. 1! MIGLIORINI, Storia della lingua italiana cit., p. 385.

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familiari e agli amici più intimi, dove lo scrivente «può abbandonarsi al tono confidenziale..., usando l’andamento discorsivo della lingua parlata»; tono e andamento che, come la stessa Ciulich ha sottolineato, rispondono a un tempo di discorso più rapido e ad esigenze ritmiche di particolare espressività. Noi aggiungiamo che il fatto è tanto più interessante in un dialetto dal tempo notoriamente lento, quale è il fiorentino, e per di più in un autore che, stando sempre agli accertamenti della Ciulich, nella prosa preferisce le forme piene alle sincopate (offerire, comperare, anderai, diriza, me-

desimo, opera ecc.) e fa largo uso della prostesi (per isti4vo, per iscusato, in ispesa, grande ispesa, voglio iscrivere, sei

iscudi ecc.). Se poi l’aferesi si presenta in modi comuni ai testi letterari (lo ’ntesi, a ’mparare, la redità ecc.), l’apocope — stando agli spogli della Ciulich — assume intensità e vastità particolari: î0, eî, roi, poi, mai, fui, sei, assai, oltre alle pre-

posizioni articolate, sono spesso privi della vocale finale; cosî i futuri, i condizionali e i passati remoti nelle forme enclitiche dara’ gli, portera gli, vedra'lo, manda’ ne, portale, lascia”vi, fare’la; e anche fuori di enclisi: sare’ (sarei), sare’ (sarebbe, p. 467), sare’ (sarete, p. 67: se sare’ savi), simil cose (p.

56), per non parlare degli infiniti tronchi e di casi come sor, sien, siàn, par, vien, tien, vadin, sarebon, eron, guaston ecc., che costituiscono una serie imponente e tuttavia non esclu-

siva né dominante, giacché nelle lettere più confidenziali e più concitate troviamo sempre la compresenza delle forme apocopate e delle piene. Ma è nella morfologia che si compie, fra la seconda metà del Quattro e la prima del Cinquecento, il più importante mutamento di struttura del fiorentino; più precisamente, nel-

la flessione del verbo e del nome, dove l’analogia finisce col prevalere su molte delle forme etimologiche o di quelle fissate da una fase analogica precedente. È la ripresa di un processo di natura indubbiamente popolare, che, iniziatosi nel latino volgare e sviluppatosi in età postromanza, ha subito un temporaneo arresto durante l’affermazione letteraria del fiorentino due e trecentesco e ha poi preso nuovo slancio, in rapporto ormai dialettico con le strutture «letterarie», durante l’età dell’umanesimo e dell’inurbamento. Le forme analogiche del tipo ero, stizzavo (anziché era, stimava), venissino

(dalla ormai predominante terza persona verissi; non più ve-

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nisseno o venissono), rispondino, sappino, venghino (dalla prevalente terza persona sappi, facci, abbi e dalla propagginazione di azzino, pensino ecc.), andorono, lavororono (p. 141), e anche l/asciorno, presentorno (pp. 398, 493) e spesso furno, vennono, feciono, leverebbono (e non più feceno, le-

verebbeno), consigliono, gittono, erono, piacevono (e vice-

versa vogliano per vogliono, p. 249), le prime plurali sidro, facciàno, andereno, i futuri e condizionali analogici scriverrò, troverrei, sono tutte forme che — esclusive o alternanti

con quelle letterarie, comunque nel loro insieme dominanti — allineano le lettere di Michelangelo ad un uso fiorentino corrente, parlato, con tocchi vernacolari (esclusi però certi estremi, come le aplologie del tipo avazz0, avate, presenti in Buonarroto, i possevo e i savate di Domenico Boninsegni, ecc.).

Uso a cui non restano estranei autori linguisticamente colti e consapevoli, come il Machiavelli e il Guicciardini, salvo che

in essi l’assimilazione e quindi la presenza della tradizione letteraria produce una posologia diversa, che attesta una maggiore complessità culturale. In Michelangelo si ha piuttosto la tendenza ad evitare i tratti plebei che a cercare quelli aulici. Se, ad es., accanto ai comuni e costanti arò, arei, arranno ecc. troviamo l’arcaismo dve in un ricordo del 3 aprile 1524 (ve facto, Archivio Buonarroti, I, 38, 93), le antiche forme corte del participio senza suffisso sono quasi del tutto limitate ai casi di coincidenza con le forme aggettivali (io gli ebbi scarichi, p. 6; io ò conto, p.155, avete aconcio, p.176, la m’à

straco, p. 290, è stato guasto, p. 545); sono normali le seconde persone plurali in veste di singolare (voi dovevi, desideravi, facessi), già invalse nel Quattrocento col favore della fungibilità delle finali -e/-i (2vesse/avessi, scriveste/scrivesti), ma, accanto a casi di strenua analogia, come siate (per siete)

e sendo, emergono casi isolati ed eterocliti come dolfe e dolfono, e casi di scelta non popolare, come il costante stato in-

vece di suto (che è assente anche nel Guicciardini, mentre è frequente nel Machiavelli); e rara è l’attestazione del condizionale in -ia ([o] renderia, p. 375, reggierieno, p. 403), as-

sai più rara che nella Vita del Cellini e nella prosa del Vasari. Una conferma di quanto abbiamo detto si ha nel campo dei numerali, dove du4 prevale grandemente, in qualsiasi combinazione e posizione, su due, secondo l’uso fiorentino

comune ai grandi scrittori del primo Cinquecento (Machia-

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velli, Guicciardini) ‘, mentre non ho incontrato il più demotico duoi (di largo uso parlato per testimonianza del Caro e reperibile, per rimanere a Firenze, nelle lettere e nelle Vite del Vasari, nelle lettere di Vincenzo Borghini, nel Cellini ecc.), né duo, dui, doi. Nel campo dei possessivi, invece, è da notare la fedeltà alla serie allotropa, già trecentesca, 7256, #40, suo per entrambi i generi e i numeri (la tuo lettera, p. 162, e tuo bisogni, p. 157, e’ mie panni, p. 157, un mie pari nella lettera a Francesco I, p. 519, ecc.), ma non più in posizione

tonica, dove compaiono invece 2, tua, sua per il plurale dei due generi (e’ fatti mia, p. 3, e’ mia, p. 108, accanto a e’ mia marmi, p. 7, le mia lettere, p. 261, per le tua ultime,

p. 132, delle sua cose sempre nella lettera al re di Francia, p. 519). Non mancano, naturalmente, le normali forme decli-

nate, ma sono in grande minoranza, specie quelle plurali (cogli ochi tuoi, p. 286), che fanno rarissime apparizioni. S’afferma cosî quella situazione cinquecentesca che si continua, con qualche modificazione, nel vernacolo fiorentino

odierno. Nell’articolo il fatto più rilevante è che mancano le forme preposizionali analitiche del tipo ir ello, a il ecc., presenti nel corrispondente Domenico Boninsegni, nel Cellini e in scrittori immersi nel dialetto (forme preludenti alla odierna situazione vernacolare), e prosegue d’altro canto l’antica alternan-

za fra ele il, e’ e i. Sembrerebbe di poter affermare che nelle lettere più tarde e nelle più studiate la seconda forma si fa più frequente: in una lettera al nipote Leonardo del 29 marzo 1544 (p. 173) si succedono, ad es., i zzarzzi, il frutto, e’ danari, il podere, il papa; ma anche in una lettera [dell’agosto 1508] al padre si aveva la successione i casi, il tempo, el

contrario, il fargli, il di, el podere, e’ danari, il meglio, il vostro, el piato (pp. 13 sgg.). E se nella elaborata lettera a Tommaso Cavalieri [del 1° gennaio 1533] abbiamo #/ tempo, il passato, il cuore (p. 462), in quella a Cosimo I del 1° novembre 1559 (p. 551) abbiamo èFiorentini, e’ quali, isopradetti, el quale, el pit onorevole, el quale. Certo è che la presenza, anzi la frequenza di el, e — ignorati o condannati dai gram-

matici e sempre più rari negli scrittori " — costituisce nell’im12 Ibid., p. 390.

4 Ibid., p. 389.

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pasto michelangiolesco un tratto conservativo, comune al Machiavelli e al Guicciardini. Tratti conservativi presenta d’altronde anche la morfologia del sostantivo: opizione e orazione sono maschili (ur altro openione, p. 128, l’openione mio, p. 225, gli orazioni,

p. 88, agli orazioni, p. 248), ben vivo è il plurale in -e (molte cagione, p. 4, le leggie, p. 145, delle possessione, p. 189, le

parte buone alternante con le parti buone nella stessa breve lettera del 17 ottobre 1551 al nipote Leonardo, p. 276, troppe grande, notevole anche per la concordanza, p. 84, ecc.), presenti i plurali in -a (quante staiora, p. 143, e anche le vista, p. 10, e forse z/e scusa)". Il settore dei pronomi personali è invece innovativo; ché, se conserva fatti antichi, penetrati sporadicamente anche nell’uso letterario (ad es. gli per «le, a lei» [cfr. però che io le facci, p. 15], ma non per «a loro» [cfr. presti loro, p. 65, scrivere loro, p. 86, dar loro, p. 388, diciate loro, p. 389, ne sa

loro male, p. 393, ecc.]), mostra nell’insieme l’assetto del secondo Quattrocento, che si è consolidato nel secolo seguente e trasmesso al dialetto odierno. Colpisce anzitutto il fatto della quantità, cioè della frequenza. Se non mancano sequenze di proposizioni col soggetto ellittico (Gli scarpellini che vennono qua non iscontorono niente. Lavororono solamente...; poi s'andorono con Dio... Sandro s'è partito ancora lui di qua. È stato qua parechi mesi... atteso a pescare e a vaghegiare. Ammi buttato via cento

ducati. À lasciato qua una certa quantità di marmi...,p.141), spesso l’ellissi del sostantivo o del suo equivalente nominale è scongiurata dal pronome di terza persona, soprattutto nelle sue forme brevi e’, gli, la, le, pertinentissime al ritmo del parlato, anzi scaturite da esso: perché e? (egli) ron si crucci meco, p. 6, quando e’ (essi) si dolfono di me, p. 8 (cfr. in modo

che egli sperassino, p. 13), duolmi che gli (egli) abbi di mio sette ducati, p. 9, quanto gli (essi) erano stati con meco, p.

8, s’egli è vero che gli (essa) abbi st grande bisognio, p. 15, la mi donò, p. 272, di che sorte le sono, p. 267. Casi particolari e significativi di questa frequenza pronominale sono la prolessi e il ribadimento pleonastico, per cui la forma e’ ha valore, se non esclusivo, plurivalente: se e’ vi bisognia da4 FREY, Der literarische Nachlass Giorgio Vasaris cit., I, p. 433.

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E RETORICA

nari, p. 11, e’ non è si gran faccenda che..., p. 12, quando e’ non ci fia da spendere, p. 12, se e’ non venissi la state, p. 13 (cfr. egli è dua mesi che..., p.70), che e’ no’ ne vadi male una minima carta, p. 6, io e’ so che..., p. 395, e’ me n'era uscito la voglia, p. 237, le non sono le terre che..., p. 143, le son quelle di sopra, p. 143; e’ quali io te gli mando, p. 109, 4

l’Ammannati vorrei che gli dicessi, p. 348, gli puoî involtargli, p. 263, a lui digli, p. 161, duolmi a me, p. 551, come la cosa e’ va, p. 138, in qualche altra cosa che e’ Ia] abbi fantasia, p.296, con quello che io vi darò io, p. 13. Notevole anche l’uso di lui, leî, loro come soggetti, uso

affermatosi nel Quattrocento e invano ostracizzato dai grammatici ” (lui mi raguagliò, p. 4, se lui cava di casa, p. 13, lui te la leggerà, p. 168, loro... n’ànno eletto uno, p. 551, ecc.); e, a suo modo, anche l’arcaismo 070 col valore dell’indefi-

nito si: imanzi che l’uomo comperi, p. 42, abiate cura comprare da giente che a un bisognio l’uomo possa combattere con esso lui, p. 105, parmi sia da ringraziarne Idio... quante l’uomo sa e può, p. 293. Dovremmo fermarci sul lessico, additando elementi arcai-

ci e insieme popolari, come piova (p. 267), fornarsi nel senso di «prendere alloggio» (p. 5), e di rigoglio quattrocentesco, come francioso (p. 75; comune alle facezie del Piovano Arlotto [p. 174 ed. Folena], al Pulci e poi al Cellini), glie, già del Trecento“, imburiassare «ammaestrare, imbeccare, subornare» (i2buriassato, p. 187), di ambito e tono familiare nei secoli xv e xvi (cfr. Vocabolario della Crusca, 5° ed.,s.v.)

e citato come tipica parola fiorentina anche dal Varchi nell’Ercolano (p. 85 ed. Dal Rio); locuzioni immaginose e talvolta crudamente plebee, di evidente stampo proverbiale (far lo scoppio e il baleno, p. 61, lasciar cotesto tristo col culo in mano, p. 14, questa merda seca di questo fanciullo, p. 27); o alternanze formali che denunciano la compresenza di piani stilistici diversi (confessore e confessoro nella stessa lettera,

p. 321); 0 l’estesa polisemia, propria del parlato, di parole frequentatissime (dire, fare, avere, dare, ecc.); senza contare

quella terminologia artigianale che fioriva nelle botteghe e, 15 16

MIGLIORINI, Storia della lingua italiana cit., pp. 288, 390. FREY, Der literarische Nachlass Giorgio Vasaris cit., I, p. 420.

LA LINGUA

DI MICHELANGELO

IOI

a differenza dell’odierno tecnicismo, aveva tanta radice nel-

l’inventività metaforica. Ma passeremo alla sintassi, che più evidentemente mostra i limiti del rapporto fra l'individuo e l’istituzione. Quanto ai costrutti particolari, conviene dare la precedenza, nella serie topologica, ad uno degli istituti sintattici me-

glio definiti, la cosiddetta legge Tobler-Mussafia, per dire che, se essa non è più osservata come «legge», si conserva

come predilezione dell’enclisi nelle antiche giaciture, specie dopo la congiunzione e, e come sfondo tradizionale al maggiore spicco delle innovazioni espressive. La lettera al padre Lodovico del 31 gennaio 1507 entro la successione di poche righe mostra le seguenti alternanze: Pregovi che voi pigliate... Vi prego che vo’ gniene rammentiate, e ancora prego voi

che..., pp. 6 sgg.; alternanze indicative di libertà sintattica giocata sul registro della mobilità affettiva. In un’altra lettera dell’8 febbraio dello stesso anno, assai pit concitata, fat-

ti analoghi: Io gli risposi e dissigli che... Mi rispose:...,p.10. L’oscillazione è a volte all’interno di uno stesso periodo: Se mi trovassi danari, m’informerei se si potessi..., e bisognie-

rebemi fare..., p. 11; e va da sé che l’enclisi si conserva maggiormente, per inerzia, in formule fossilizzate come Avvisovi, Parmi, Piaceravvi (in un ordine di pagamento, p. 521).

Un fatto che scalza e riduce l'applicazione dell’enclisi è senza dubbio la frequentissima esplicitazione del soggetto pronominale, dovuta ad istanze psicologiche non diverse da quelle che consigliano la proclisi: sf che, dove potremmo incontrare Pregovi, Racomandovi, Mandovi, Sonmi resoluto, Parebbemi ecc., ttoviamo assai spesso Io vi prego, Io vi racomando,

Io vi mando, Io mi son resoluto, E’ mi parebbe ecc.; ma a volte la scelta fra le due soluzioni appare del tutto arbitraria (Ti scrissi de’ dua brevi, p. 264; Scrissiti ultimamente d’una serva, p. 265). Tutto sommato, la prosa di Michelangelo non si discosta, per questo fenomeno, dall’uso contemporaneo;

e neppure per la giustapposizione anessuale di proposizioni solitamente collegate dal che dichiarativo o relativo non accessorio, praticata specialmente nelle completive col congiuntivo rette dai verbi pregare, chiedere, volere e simili, e dopo i dimostrativi (quello mi chiederete, p. 5, quello n’avete a fare, p. 10, non so quello s'arà fatto, p. 7, prego lo scriviate, p. 7, credo gli abbiate ricievuti, p. 19, dei servizii m'avete

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FRA GRAMMATICA

E RETORICA

fatti e delle noie avete ricevute, io lo so..., p. 399, poi [poiché] avete avuta tanta pazienza..., p. 399, ma anche di quello che lui mi domanda, p. 61, io prego che voi andiate, p. 9, ecc.), e tuttavia nell’insieme in regresso sull’uso quattrocen-

tesco. Tutt'altro che assente è la ripresa del che dichiarativo (ringraziate Idio che, poi che questa tribulazione aveva a ve-

nire, che la sia venuta in un tempo..., p. 32, ditegli che, se si rià questi dua poderi, che la potrà tenere una serva, p. 155, penso che, ancora nel servire e’ matti, che rare volte si potrebe trovare qualche dolceza, p. 413, e dico che, se maggiore iudicio et difficultà, impedimento et fatica non fa maggiore nobiltà, che la pittura et scultura è una medesima cosa, p. 522); ripresa tuttavia più frequente in altri testi, ad esempio nei corrispondenti di Michelangelo e nelle lettere del Vasari. È presente anche il che relativo anacolutico, plurivalente (aresti domandato di quello che e’ si dolevano, p. 8, in qualche luogo che voi stiate bene, p. 14, in qualche altra cosa che e’ l’abbi fantasia, p. 296, ti scrissi sabato passato..., che ne attendo risposta, p. 186, io gli darei e’ danari che la togliessi,

p. 10); e quel che non nettamente dichiarativo o causale o consecutivo o relativo nella scrittura, ma determinato dal-

l’intonazione, cioè morfema tonalmente disponibile, proprio quindi del parlato e tutt’oggi sussistente nel dialetto fiorentino: non v'è da dire altro per ora, perché non sono ancora risoluto di cosa nessuna che io vi possa avisare, p. 15, man-

cavami faccienda oltre quella che i? òè avuta poi che io tornai! che ho avuto el mio garzone... amalato..., p. 27, già sono stato cost circa di quindici anni, che mai ebbi un'ora di bene, p. 47, e non correte a furia, che noi non fussimo gabati, p. 105, fallo tanto che io sia costà, che stimo tornare infra quindici o venti di, p.142, ora fo conto fare per via del Cardinale, che cosi sono consigliato da Baldassarre Balducci, p. 376. Né manca un altro contrassegno dell’uso colloquiale, particolarmente ma non esclusivamente toscano, il che introduttivo di interrogazione diretta (Che è’ tu paura che io non mi penta...?, p. 187), attestato nella nostra prosa fin dal Trecento. Manca invece il che pseudoipotattico, in apparenza congiunzionale, in realtà transitivo ed insieme anaforico, punto di appoggio e di ripresa di una serie enunciativa semanticamente legata, formalmente paratattica. Ne traggo un esempio dalla lettera di Francesco da Sangallo al Varchi sulla questione del-

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DI MICHELANGELO

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la «maggioranza delle arti»: «Questo è quello che ha confortato assaissimi pittori; con questa speranza, non che una volta, ma molte hanno fatto e rifatto le loro opere infino che a loro sono sadisfatti; e cosî vivano opere onorate che laldevole, solo causate da questa benigna proprietà e benignità di natura di essa arte, del potere disfare e in brieve potere rifare. Che ancora hanno un altro diletto, quale non è piccolo...» ”. Il periodare di Michelangelo è frutto di una mente troppo chiara e conseguente per cedere a cosî tipiche istanze di agglutinazione e indistinzione; e ciò a prescindere da ogni preparazione culturale o riflessione linguistica. Il rarissimo impiego dell’oggettiva infinitivale pur nel caso di più comune occorrenza, cioè in dipendenza dai verba dicendi (udendo di-

re dal detto capitano, voi essere unico al mondo e cost essere tenuto in Roma, p. 446), il largo uso nominale dell’infinito, familiare tanto alla prosa dimessa che a quella umanistica del Quattrocento (i0 n0r ò pecato nessuno... se non del fare più

che mi si conviene, p. 8, nel ricever della vostra lettera... sonmi molto allegrato, per venire da voi, p. 472, per rispondere allo scrivere di me, ibid., il vostro non voler capitare a Roma, ibid., per conto del veder la pittura, ibid.), l'elasticità della concordanza nel numero e nel genere (gli era stato tolto la

cappa, p. 3, mè dato buone parole, p. 25, e’ viene costà certi scarpellini, p. 412, quando si trovassi che le fussi cose sicure,

p.189, se non v'era cose o lettere che importassino, non è da pensarvi più; e se v’erano..., p. 171; fenomeno presente an-

che nel sorvegliato e coerentissimo Guicciardini), questi ed altri fatti prima ricordati sono indubbiamente prove di affidamento ad una tradizione inveterata e di minima partecipazione al nuovo legiferante logicismo grammaticale; ma contro di essi stanno altri fatti che sono il portato non già di simmetrie precettizie o di sovrapposizioni culturali più o meno assimilate, ma di un ordine interno, di un discorso che si snoda attraverso operazioni non desultorie, raramente interiettive pur nel premere del sentimento, per lo pit strettamente organizzate e gerarchizzate. Gli strumenti elementari di questo ordine interno si presentano col segno negativo o col segno positivo. Alla prima In Trattati d’arte del Cinquecento. Fra Manierismo e Controriforma, a cura di P. Barocchi, I, Bari 1960, p. 72.

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FRA GRAMMATICA

E RETORICA

categoria si può anzitutto ascrivere la rarità dell’anacoluto grave, quale si può incontrare in qualche corrispondente di Michelangelo (ad es. Topolino o Antonio Mini). Salvi i casi

raggruppabili attorno al che relativo polivalente (alcuni dei quali sono stati accolti anche nell’uso letterario), l’anacoluto di Michelangelo piuttosto che come disartria sintattica si presenta come anticipazione per segmentazione di frase, cioè come tipico procedimento espressivo: E/ salario, gli darò quello mi scrivesti, p. 26, Il cacio che tu m’ài mandato, io ò avuto

la lettera, ma non ò già avuto il cacio, p. 236, E mille ducati

overo scudi che io ò mandati..., tu comprerrai più presto la possessione, p. 188. Ma si guardi la rigorosa concatenazione

di un periodo proteso linearmente alla meta, senza incisioni o riflussi: «Io vi scrissi che voi domandassi Bonifazio a chi e’ faceva pagare a Luc[c]a quegli cinquanta ducati che io mando a Carrara a Matteo di Cucherello, e che voi iscrivessi el nome

di colui che gli à a pagare in sulla lettera che io vi mandai aperta, e che voi la mandassi a Carrara al detto Matteo, acciò

che e’ sapessi a chi egli aveva a andare in Luc[c]a per e’ detti danari» (p. 7). Tale speditezza consequenziaria ha la data del 1507, precedente alla stagionatura culta di Michelangelo nell’ambiente letterario romano; e si mantiene immutata fino

agli ultimi anni: «Intendo per la tua come èi ricevuti i cento scudi che io ti ò mandati, e come ài inteso per la mia quello che tu n’ài a fare, cioè a mandarmi dicianove palmi di rascia pagonazza scura, e del resto farne limosine dove e come pare a te, e darmene aviso» (1555, p. 303). La stessa paratassi è tutt'altro che elencativa; i suoi vuoti articolatorî non sono carenze, ma silenzi semanticamente ed

espressivamente densissimi: «Sandro si è partito ancora lui di qua. È stato qua parechi mesi con un mulo e con un muletto in sulle pompe, atteso a pescare e a vaghegiare. Ammi buttato via cento ducati. À lasciato qua una certa quantità di marmi, con testimoni che io pigli quegli che fanno per me. Io non ve ne trovo tanti per me che vaglino venti cinque ducati...» (p. 141). Difficile trovare un procedere paratattico più consequenziario di questo, dove l’ergo scaturisce via via da una pressione di ironia e di giudizio morale. L’artista che si dichiarava «scorretto in gramatica» si compiaceva poi di giochi verbali che rivelano la sua attenzione alle risorse ritmiche e plastiche della lingua (Del fare o del

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non fare le cose che s’ànno a fare, che voi dite che ànno a soprastare, è meglio lasciarle fare a chi l’ è fare..., p. 449; Scrivetegniene e ditegniene e dategniene e racomandatemi a lui,

p. 504), ed era capace di contrappesare una faticosa esposizione di espedienti e cautele domestiche contro lo scioperato fratello Giovan Simone con l’indimenticabile uscita: e lasciar cotesto tristo col culo i? mano (p. 14).

Ma gli effetti più complessi della prosa michelangiolesca sono ottenuti dalla sottomissione delle strutture ipotattiche ad una intavolatura melodica, che conferisce dimensioni di

profondità e di durata al traliccio dell’operazione logica. Si prenda il poscritto della rampogna al fratello Giovan Simone Îluglio 1508]: «Io non posso fare che io non ti scriva ancora dua versi; e questo è che io son ito da dodici anni in qua tapinando per tutta Italia, sopportato ogni vergognia, patito ogni

stento, lacerato il corpo mio in ogni fatica, messa la vita propria a mille pericoli, solo per aiutar la casa mia; e ora che io ò cominciato a rilevarla un poco, tu solo voglia esser quello che scompigli e rovini in una ora quel che i’ ò fatto in tanti anni e con tante fatiche: al corpo di Cristo che non sarà vero! ché io sono per iscompigliare diecimila tua pari, quando e’ bisognierà. Ora sia savio, e non tentare chi à altra passione» (p. 151); dove risentiamo l’eco di un celebre accorato passo del Convivio dantesco [I, I1I, 3-6] e ammiriamo una inventi-

vità sintattica che, giunta a metà del proprio corso, lo inverte, movendo a ritroso dal retto al reggente e come cercando la propria sorgente, con passo difficile ma assicurato da una salda trama melodica. E si veda un biglietto [del 1545] a Vittoria Colonna, assai più studiato, ma non meno inventivo,

dove sono giustapposti tre brevi periodi, ognuno dominato da un tempo verbale diverso (imperfetto, presente, futuro)

e tutti e tre fusi in un procedere frenato e come sospeso da frasi incidentali, più gravi e insieme pit futili delle principali; «Volevo, Signora, prima che io pigliassi le cose che vostra Signoria m’à più volte volute dare, per riceverle manco indegnamente che io potevo, far qualche cosa a quella di mia mano. Dipoi, riconosciuto e visto che la grazia di Iddio non si può comperare, e ch’el tenerla a disagio è peccato grandissimo, dico mia colpa e volentieri dette cose accetto. E quando

l’arò, non per averle in casa, ma pet essere io in casa loro, mi

parrà essere in paradiso; di che ne resterò più obrigato, se più

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posso essere di quel ch’i’ sono, a vostra Signoria» (p. 514). La tecnica appartiene alla epistolografia più corretta e direi più accademica, ma lo straordinario effetto di profondità è dovuto ad un orecchio poeticamente esercitato. Un culmine della fantasia sintattica del Buonarroti si ha

nella lettera al Vasari sul progetto della scala della Libreria Laurenziana, o meglio sul ricordo di quel progetto, fatto trenta anni prima e mai attuato. Posta l'esposizione sul piano di una anamnesi che sorge da un passato remotissimo e quindi si muove incerta e vaga («Mi torna bene nella mente come un sogno una certa scala, ma non credo che sia appunto quella che io pensai allora, perché mi torna cosa goffa; pure la scriverò qui: ...»), la descrizione, prima sfumata e come diffidata dai congiuntivi imperfetti, si fa via via cosî precisa e perentoria da assumere, precettivamente, il presente dello stesso modo; e si snoda attraverso una nomenclatura tecnica che,

presentandosi secondo un rigoroso disegno logico-sintattico, assume, attraverso la sua concretezza, il valore di una materia

plastica che prende forza e forma di modello: «... pure la scriverò qui: Cioè, che i’ togliessi una quantità di scatole aovate, di fondo d’un palmo luna, ma non d’una lunghezza e larghezza; et la maggiore et prima ponessi in sul pavimento, lontana dal muro della porta tanto quanto volete che la scala sia dolce o cruda; e un’altra ne mettessi sopra questa, che fussi tanto minore per ogni verso, che in sulla prima disotto avanzassi tanto piano quanto vuole il piè per salire, diminuendole et ritirandole verso la porta fra l’una et l’altra, sempre per salire; et che la diminutione dell’ultimo grado sia quant'è ’1 vano della porta; et detta parte di scala aovata habbi come dua ale, una di qua et una di là, che vi seguitino i medesimi gradi et non aovati. Di queste serva il mezzo per il signore dal mezzo in su di detta scala, et [le] rivolte di dette alie ritornino al muro. Dal mezzo in giù insino in sul pavimento si discostino con tutta la scala dal muro circa tre palmi, in modo che l’imbasamento del ricetto non sia occupato in luogo nessuno, et resti libera ogni faccia. Io scrivo cosa da ridere; ma so ben che voi troverrete cosa al proposito» ". Chi ha definito, parlando delle Rime, il lessico di Miche-

langelo un lessico di «sostanze», potrebbe convenire che ! FREY, Der literarische Nachlass Giorgio Vasaris cit., I, pp. 419 sgg.

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quella sostanzialità è, in altro senso, confermata da una sintassi la quale, non vanificando mai, neppure nei momenti melodici, il nerbo semantico della parola, fa di questa una essenza ponderale e tattile, un dato insomma figurativo. Ma qui siamo ormai fuori della norma, del costume, fuori cioè della lingua come realtà sociologica; qui siamo nell’eccezione, nella sfera della lingua più individuale di Michelangelo. Vi siamo giunti per la via regia della sintassi, che in Michelangelo — cosî schietto ma anche casto e illuminato fruitore del fiorentino vivo a cavallo dei due secoli — manca tanto delle diffrazioni e dei fatti di mistione che caratterizzano il livello demotico, quanto degli sforzi architettonici che tradiscono il modello retorico; e invece risponde ad una costruttività che è incondizionata e impellente vocazione di stile.

Dante e la retorica *

1. Chi favoleggiò di un viaggio di Dante ad Oxford potrebbe ripagarsi dei sufficienti silenzi e delle facili smentite con la lettura dell’Ars poetica del retore inglese Gervasio di Melkley, di cui Edmond Faral sottovalutò l’originale sistemazione della consunta materia, l'impegno teorico, la personale sensibilità per i valori della forma e per l’interrelazione dei campi semantici (advocatio)', l'affermazione del ius inveniendi dello scrittore («Consulat... unusquisque discretionem suam, et vel nullam novam inveniat dictionem vel, quod melius est, inveniat» 7; «In verbis inveniendis — dirà invece Giovanni di Garlandia — debemus esse cauti, quod raro licet nova verba invenire» °). Alla prima lettura colpisce qualche rispondenza terminologica, non incontrata in altre poetrie: ad es. quell’usus zzodernus che richiama irresistibilmente il verso 113 del canto XXVI del Purgatorio. Ma ecco fatti meno precari: l’additamento di Lucano, Stazio, Virgilio, Ovidio a modelli da studiare, benché antiguiores rispetto a quelli in cui «nova cotidie surrepit inventio modernorum» ‘ (additamento che non ha certo la coscienza classicistica di quello del De vulgari eloquentia, II; vi, 7, ma sorprende con la sua stessa presenza, mancando tanto nel più maturo Garlandia che nei maestri bolognesi); e l'esempio di fransuzzptio del nome * 1966. Dal volume miscellaneo Dante e Bologna nei tempi di Dante, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1967, pp. 91-112. ! GERVAIS VON MELKLEY, Ars poetica. Kritische Ausgabe von HansJirgen Grabener, Forschungen zur Romanischen Philologie herausgegeben von Heinrich Lausberg, Heft 17, Miinster Westfalen 1965, pp. 126 sgg. “al bid. Paioz. * Poetria magistri Johannis Anglici de arte prosayca, metrica et rithmica, a cura di G. Mari, in « Romanische Forschungen», xIMI, 1901, p. 896. ‘ VON MELKLEY, Ars poetica cit., pp. 3-4.

DANTE

E LA RETORICA

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proprio, costruito sullo spunto di un distico delle Epistole pseudovidiane: Tres sumus imbelles numero: sine viribus uxor, Lahertesque senex, Telemachusque puer.

(I, 97 sg.)

«Si vellem admovere — spiega Gervasio — aliquem ut rediret domum, quia ipse habet uxorem et patrem et filium, dicerem ornatissime: Ut redeas tua Penelope ferventius instat. Sunt tibi Lahertes Telemacusque domi»

*.

È il modulo ternario che Dante incarnerà, senza transunzione, con ordine inverso: né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né il debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta.

(Inf., XXIV, 94-96)

Ma il punto su cui la discretio di Gervasio e quella di Dante paiono convergere maggiormente è il rapporto tra la lunghezza delle parole e la loro venustas, nel primo considerata in funzione della struttura dell’esametro, nell’altro dell’endecasillabo. Giovanni di Garlandia fa, a questo proposito, qualche cenno‘, e della lunghezza delle parole nella prosa dettatoria tengono conto Boncompagno da Signa nella Rbetorica antiqua’, Bene da Firenze nella Surzzza e nel Candelabrum (dove è vietata la posizione terminale ai monosillabi e alle parole più che quadrisillabe) ‘,Guido Fava, proclive a collocare le parole più belle al principio e alla fine ed a precludere questa seconda collocazione alle parole «nimia longitudine vel brevitate deformes»; ed è da aggiungere che ai trisillabi è data una particolare attenzione per il loro frequente ricorrere nelle combinazioni clausolari. Ma Gervasio si attarda in una casistica più minuta: si eviti anzitutto, nel verso, l’eccesso di parole monosillabiche («In versibus... monosillabarum dic5 Ibid., p. 114, cfr. p. 41. i a du $ Poetria cit., p. 924. ? Precisamente nel capitolo De artificiosa ordinatione dictionum del libro I, pubblicato da P. RAJNA, Per il «cursus» medievale e per Dante, in «Studi di filologia italiana», III, 1932, pp. 77-84. 8 Si veda il citato scritto del RAJNA, Per il «cursus» medievale e per Dante, p. 58.

|

sila

° Guidonis Fabe Summa dictaminis, a cura di A. Gaudenzi, in «Il Propugnatore», nuova serie, III, 1890, parte II, p. 347.

IIO

FRA GRAMMATICA

E RETORICA

tionum nimietas precavenda», p. 205), il monosillabo in fine ecc., ed anche le multisillabe dictiones, a meno che non abbiano una iocunda sonoritas, quella, ad es., dei pentasillabi comincianti con un dattilo, che, collocati al principio dell’e-

sametro, lo rendono pit venusto (pp. 209-10). «Quidam, admirantes huiusmodi magnas dictiones — Gervasio aggiunge —, inutiliter et turpissime versum clauserunt sub duobus dictionibus vel tribus. Unde quidam ait: Versificabantur Constantinopolitani; alius: Plenus honorificabilitudinitatibus esto» (p. 210). E qui la convergenza diviene coincidenza: «Posset adhuc inveniri plurium sillabarum [cioè più di 11] vocabulum sive verbum — dirà Dante, De vulgari eloquentia, II, vit, 6 —; sed quia capacitatem omnium nostrorum carmi-

num superexcedit, rationi presenti non videtur obnoxium, sicut est illud bororificabilitudinitate, quod duodena perficitur sillaba in vulgari, et in gramatica tredena perficitur in duobus obliquis». Indipendentemente dall’orientamento più topologico di Gervasio e più assoluto di Dante, che non pare si preoccupi della lunghezza delle parole in relazione alla loro giacitura nel verso, l’incontro su questo problema e soprattutto sulla parola sesquipedale che non ho trovata nelle altre poetiche e retoriche medievali pubblicate, ma che, attestata nel contemporaneo di Dante Albertino Mussato (De gestis Henrici VII, lib. III, rubr. 8 apud Murator. tom. ro col.

376; Du Cange) e in una prova di penna di un trecentesco codice pavese”, riaffiora nell’Inghilterra cinquecentesca e spicca nel testo shakespeariano di Love’s Labour's Lost (atto V, scena 1), dove seguita a figurare come proverbiale esempio di longissima dictio; questo incontro, ripeto, potrebbe farci arrischiare un Dante retoricamente anglico, potremmo dire oxoniense; se la longissima dictio, già presente in Pietro da Pisa, grammatico di Carlomagno, non fosse offerta anche dalle Derivationes di Uguccione, in un esametro diverso da quello di Gervasio di Melkley. Entro una rielaborazione personale degli istituti della retorica medievale Dante si concedeva di inserire un trito luogo comuie, una ritornellante curiosità della scuola. !° Pubblicato e illustrato da 6. conTINI, Poesie francesi dalla Pavia Viscontea, in «Studi in onore di Carlo Pellegrini», Torino 1963, II, pp. 66-67.

DANTE

E LA RETORICA

III

2. Comunque, senza troppo tirare la corda del paradosso, possiamo constatare la non provincialità della informazione di Dante in questo campo. I riscontri del Marigo, di altri studiosi e nostri mostrano che egli conosceva probabilmente l’Ars versificatoria di Matteo di Vendòme, da cui può aver tratto, oltre che dall’industria laniera della propria città, le

metafore tessili applicate alla qualificazione dei vocabula urbana, e la Poetria nova di Goffredo di Vinsalvo, largamente nota in Italia e a Bologna, e utilizzata anche da Brunetto nel suo Tresor; indubbiamente la Poetria di Giovanni di Garlandia, in cui trovava la classificazione dei tre stili come tragico,

comico ed elegiaco, l'appellativo curigle dato al dictamen, V’estensione del concetto di eloquenza tanto alla prosa che alla poesia, l’attenzione prestata alla metrica; per non parlare del Laborinthus di Everardo Alemanno e non insistere su Gervasio di Melkley. La componente meramente italiana è data dalle artes dictandi, separabili in due gruppi: quello che fa capo all’Università di Bologna anche se alcuni suoi maestri provengono dalla Toscana, e quello che opera in Firenze, rappresentato da Brunetto Latini. Ma non è col saltuario riscontro di singole coincidenze in opere immediatamente precedenti che si può stabilire il valore di queste come fonti del pensiero e dello stile di Dante, cioè come condizioni e limiti di originalità. Occorre approfondirsi nel tempo a allargarsi nell’ambito culturale, come ha di recente fatto Franz Quadlbauer', il quale nel ritessere la storia dell’antica teoria dei genera dicendi è giunto a conclusioni che vanno al di là del pur centrale fenomeno da lui preso in esame e diradano non poco l’intrico della retorica medievale, sceverando chiaramente in essa tre indirizzi o, per

dir meglio, tradizioni. L’agostiniana di ascendenza ciceroniana, anzitutto, che, se distingue tre officia del vir eloquens — docere, delectare, flectere, e rispettivamente submisse, tem-

perate, granditer dicere —, respinge ogni gerarchizzazione 0ggettiva degli argomenti e dei relativi stili nel discorso dell’oratore sacro, sempre fisso, in definitiva, al tema supremo del! Die antike Theorie der genera dicendi im lateinischen Mittelalter, Gsterreichische Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-historische Klasse, Wien 1962.

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la rivelazione e della salvezza spirituale: «Et tamen, cum doctor iste debeat rerum dictor esse magnarum, non semper eas debet granditer dicere, sed summisse cum aliquid docetur, temperate cum aliquid vituperatur sive laudatur. Cum vero aliquid agendum est et ad eos loquimur qui hoc agere debent nec tamen volunt, tunc ea quae magna sunt, dicenda sunt granditer et ad flectendos animos congruenter» (De doctrina christiana, Vindobonae 1963, IV, xIx, 38, 104). Altra tradizione è la virgiliana, che fa capo a Donato e a Servio e fonda la distinzione fra stilus bumilis, medius e grandiloquus sulla gerarchizzazione delle opere di Virgilio — Bucoliche, Georgiche ed Eneide — in relazione alla dignità sociale dei loro petsonaggi (pastori, agricoltori, principi) e, nel campo epistolo-

grafico, al rango dei destinatari. È una gerarchizzazione di carattere referenziale, quindi oggettivo, di contro a quella ciceroniano-agostiniana, di carattere prevalentemente elocutivo. La terza tradizione risale all’Ars poetica di Orazio e la integra con la Rbetorica ad Herennium, illuminando l’essenza dei tre stili con la dottrina dei vitia collateralia e attraverso questa favorendo una configurazione non netta, ma contaminata, di alcuno di quelli (in particolare la «commedia»). Anche in questa tradizione, che spesso si intreccia con la virgiliana, il grado dello stile si materializza nella qualità delle cose e delle persone; e tuttavia il concetto di orzatus e l’inventario dei colores rbetorici largito dal trattato pseudociceroniano consentono un patziale ricupero dei caratteri formali. Lasciamo da parte il filone agostiniano e il problema della sua presenza in Dante, che del resto mostra di conoscere direttamente il De doctrina christiana, citandolo nel terzo libro

del Monarchia. Quanto ai due filoni non agostiniani, il virgiliano e l’oraziano-pseudociceroniano, non v’è dubbio che ad essi attinga largamente la teoresi retorica di Dante, sia nella trattazione sistematica del De vulgari eloquentia, sia negli

sparsi accenni delle altre opere. La distinzione dei tre stili nei generi tragico, comico ed elegiaco, l’ammissibile ambivalenza del comico, i diversi modi e gradi di corstructio esemplificati con l’impiego dell’orratus e del cursus, la classificazione dei vocabula, l'abbinamento, in sede precettistica, della poesia e della prosa (fino all’estremo, eccezionale nelle poetrie e con-

traddetto dalla priorità esemplare che lo stesso Dante dà alla

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poesia [De vulgari eloquentia, II, 1, 1], di porgere in prosa

gli esempi della pit eccellente corstructio richiesta dal volgare illustre e dalla canzone) °,e molti concetti accessori e tuttavia importanti, che si rivelano attraverso una terminologia tradita e tecnicizzata, sono elementi che possiamo rintracciare, in tutto o in parte, nei trattati dei secoli XII e XII e nei loro precedenti. Ma — secondo quanto ha giustamente osservato il Quadlbauer® — gli elementi recepiti sono da Dante connessi ad altri che, come dimostrano le stesse innovazioni terminologiche, appartengono al pensiero di Dante, e soprattutto inseriti in una concezione dello stile non pi oggettiva né

sociologica, bensî prevalentemente formale («Er kehrt im stilus tragicus zu klassischerer Auffassung zuriick», pp.156-57), come non solo prova l’acutissimo accento posto sulla superbia carminum, la constructionis elatio e l’excellentia vocabu-

lorum dello stile tragico, ma riprova lo stesso requisito della gravitas sententiae nei suoi contenuti di salus, amor, virtus,

rispetto ai quali il De vulgari eloquentia rovescia lo scolastico criterio di «convenienza» ponendo non già il volgare illustre conveniente e quindi necessario a quei contenuti, ma que-

sti convenienti e quindi necessari al volgare illustre: «Unde cum hoc quod dicimus “illustre” sit optimum aliorum vulgarium, consequens est ut sola optima digna sint ipso tractati», II, 11, 5; «Hiis proinde visis, que canenda sint vulgari altissimo innotescunt», II, 11, 10;

«Nunc autem quomodo ea coar-

tare debemus, que tanto sunt digna vulgari, sollicite vestigare conemur», II, I1I, 1} e si confronti Giovanni di Garlandia: «Sequitur de arte inveniendi nomina substantiva et adiectiva et verba, habita et excogitata materia. Excogitanda sunt omnia nomina illa que pertinent ad talem materiam, ut, si materia sit de pastore, excogitanda sunt huiusmodi nomina: pascua, grex, ovis, aries, lupus... Sic patet que sint cognata verba et propria materie» *. Dal De vulgari eloquentia il meccanismo della Rota Vergili, col suo trito campionario di temi e con la subordinazione ad essi del mezzo espressivo, è scomparso. E, a ben guardare, anche nel punto in cui il manierismo ornamentale — l’aspetto più medievale del gusto reto2 Vedi l’interessante interpretazione che di ciò dà c. GRAYSON, Dante e la prosa volgare, in «Il Verri», n. 9, ottobre 1963, pp. 9 sgg. dell’estratto. ? Op. cit., pp. 150 sgg., specialmente pp. 156-57. ' Poetria cit., p. 894.

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rico — sembra maggiormente affermarsi, cioè negli exemzpla dei più alti gradi di corstructio, Dante, come ha ben visto l’Auerbach, supera l’esteriorità e la gracilità dell’orzazus in salde strutture sintattiche che incarnano temi appassionatamente vissuti e li intonano in dense articolazioni armoniche e melodiche’. Siamo lontani dai gelidi imparaticci dei dettatori.

Siamo anche lontani dalla loro modestia speculativa, la quale raramente oltrepassa un ordinamento di classificazione scolastica della materia, mentre Dante arrischia escursioni

nella teologia (affrontando, nel De vulgari e nella Commedia, il problema dell’origine ed evoluzione del linguaggio, o distinguendo, nel Convivio, i quattro sensi delle scritture) e tenta individuazioni areali e comparative che preludono embrionalmente alla moderna dialettologia romanza; senza parlare del nuovo, possente disegno di tutto il De vulgari, pari alla possente novità del suo fine, la quale archivia l’ornamentale eleganza delle poetrie del VendOme e del Vinsalvo e il disordine centonario di quella del Garlandia. Né, nonostante le bizzarre trovate del prologo, le personali premesse sul cursus e i pittoreschi riferimenti all'ambiente universitario di Bologna, ai costumi e agli eventi contemporanei, la Rbetorica antiqua di Boncompagno ci appare diversa da un inesauribile formulario e un immenso copialettere, più rivolto a un mondo di fervidi negoziati giuridici e cancellereschi che di esperienze letterarie. Professionalmente pragmatica è anche la Summa dictaminis di Guido Fava, benché di assetto più canonico ed accademico nella tripartita esposizione dei vizi4, del perfectum dictamen (inclusovi l'inventario dei colores rbetorici secondo l’Ad Herennium) e di assaporati esempi epistolari. Solo la Rbetorica novissima vede il singolare ingegno di Boncompagno impegnato in problemi teorici, quali l’origine del diritto, della persuasione, della causa criminale

e civile e della transumzptio (nella soluzione dei quali ha gran parte la teologia), e il fondamento umorale della memoria naturalis coi suoi difetti e rimedi, per non dire della «visione» della machina mundialis, composta di undici rote e cin° Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, trad. it. di F. Codino, Milano 1960, pp. 201-2.

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que rotelle, e di altre fantasiose escogitazioni esposte in un

sapido estroso latino. E tuttavia, a ben guardare, nulla è, in

ciò, di aperto verso prospettive realmente nuove del pensiero retorico e linguistico; semmai del gusto, in quella vocazione polemica, ora diretta contro la scuola di Orléans, ora contro l’ambiente accademico e il suo eccessivo artificio dettatorio,

ora contro Aristotele e Cicerone, accusati di essere grandi oratori più i habitu che in actu (giacché «dividere, subdividere, diffinire vel describere, dare precepta et semper iubere nihil aliud est quam emittere tonitrua, et pluviam non largiri») °; in quella volontà di indipendenza dalle somme auctoritates, i cui nomi appaiono di rado e le cui opinioni sono spesso combattute (« Antiquorum auctoritatibus et doctrinis non disposui temere contravenire; sed veritatis clipeo premunitus et de motu veracissime rationis confisus, assero...»)”; in quel tendere, infine, ad uno stile rapido e schietto, indub-

biamente orientato verso il volgare. Alcune suggestive convergenze concettuali o terminologiche (ad es. il far capo, per il problema delle origini, al profoplastus Adamo nel Paradiso terrestre [pp. 2534, 2542, 281]; il ripetuto ricorrere alla parola velamen per definire la transumptio [pp. 281a e sgg.; cfr. «sotto il velame delli versi strani», Inf., IX, 63]; l’uso del biblico mzagralia [p. 286a] ecc.) non possono impedire che Dante e Boncompagno si trovino, nella comunanza stessa di istituti tipicamente medievali, su due versanti opposti: il cui discrimine è l’assenza, nel retore bolognese, di ogni classicismo. Ed egual cosa può ripetersi per tutti i compilatori di poetrie e di artes dictaminis, dall’oraziano Matteo di Vendéme all’aristotelico Bene da Firenze e all’arengario Guido Fava®. Quando essi chiamano in causa Orazio, Cicerone, Ovi-

dio, Stazio e altri autori antichi, è per trarne o canoni e schemi, o exerzpla autbentica di essi, e specialmente nei dettatori

bolognesi del primo Duecento l’indirizzo pratico imposto dalle fervide esigenze negoziali sommerge quegli spunti classicistici che riemergeranno alla fine del secolo e al principio 6 Rbetorica novissima, a cura di A. Gaudenzi, in «Bibliotheca Juridica Medii Aevi», II, 1892, p. 2524. ? Ibid., p. 2552.

8 Sulla cultura e il carattere dei dettatori bolognesi si vedano le compe-

tenti osservazioni di 6. veccHI, Il magistero delle «artes» latine a Bologna

nel Medioevo, Bologna 1958, specie alle pp. 14 Sgg.

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del Trecento”; quando invece Dante raccomanda, per l’apprendimento della corstructio suprema, la lettura dei poeti e prosatori «regolati» (Virgilio, Ovidio, Stazio, Lucano, Livio, Plinio, Frontino, Orosio, De vulgari eloquentia, II, vI,

7; tutti «regolati», perché tutti classici — tanto Virgilio che Orosio — per i lettori del Medioevo), li addita come auctoritates nel tutto della loro esperienza stilistica, facendo un passo avanti su se stesso, che poco prima (II, Iv, 3), pur sempre

proponendoli all’imitazione dei poeti in volgare, li aveva presi in considerazione come fonti di poetrie «regolate». Nello stesso senso plenario e non precettistico proclama, all’inizio della Commedia, Virgilio proprio «maestro» e «autore»; e il «Taccia Lucano... Taccia... Ovidio» del canto delle metamorfosi serpentine, benché faccia leva nella sola inverzio, è pur sempre un confronto sul libero campo della fantasia poetica, al di fuori di ogni canone. 3. Si può pensare che Dante «retore» sia debitore del suo classicismo ad un’altra scuola retorica, a quella di cui egli fu discepolo confesso e che s’impersona in Brunetto Latini. È stato già messo in rilievo l’autentico ciceronianismo di Brunetto, che nella Rettorica si applica al De inventione e di questo fa il principale fondamento alla prima parte del libro III del suo Tresor; ciceronianismo che ben cospira con l’Oczlus pastoralis e soprattutto col De regimzine civitatum di Giovanni da Viterbo (fonti della seconda parte dello stesso libro III)

a quell’«orientamento pratico e morale vòlto a subordinare nettamente la retorica alla politica..., 4! “bello viver di cittadini” che si configura come il fine ultimo di tutta la sapienza terrena». Cosî, molto bene, il Folena '; ed io batterei l’accento più sul «morale» — e direi meglio «etico» — che sul «pratico», perché, pur non disconoscendo la vasta area di applicazione dell’oratoria politica (il genere del parlamento o diceria

podestarile, anche se usciva dalle scuole e dai formulari dettatorii, era diffuso nell’Italia settentrionale e centrale), darei ._* Cfr. P. 0. KRISTELLER, Un’«ars dictaminis» di Giovanni del Virgilio, in «Italia medioevale e umanistica», Iv, 1961, p. 189.

! «Parlamenti» podestarili di Giovanni da Viterbo, in «Lingua nostra», XX, 1959, D. 99.

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a Firenze un posto speciale per l’alta consapevolezza del viver politico e delle sue implicazioni religiose ed etiche, quale appunto si rivela nelle opere di Brunetto e di Dante. Se, infatti, il Latini mostra affinità con Boncompagno — la nota descrizione, ed es., del contegno dell’oratore che sul cavallo incita

al combattimento, tracciata dallo «sponitore» della Reftorica’, può essere ricondotta a quella presentataci dal capitolo De moribus contionatorum del libro XIII della Rbetorica novissima’ —, basta considerare il denigrante contesto in cui la descrizione di Boncompagno è inserita e l’accademico disdegno con cui egli definisce l’ufficio dell’arringatore municipale («Officium contionatotris est adulari, interponere mendacia

palliata et uti persuasionibus deceptivis»)‘ per renderci conto di come seria e intensa fosse la partecipazione di Brunetto alla politica cittadina e quanto stretto, anzi essenziale, fosse per lui il legame tra insegnamento retorico e vita pubblica. Sul piano dello stile il dettatore fiorentino, pur applicando abilmente, nelle lettere latine scritte per il Comune della sua città, le regole del dictazzen, porta avanti nel volgare quell’«ideale di chiarezza, di proporzione, di armonia che nella Toscana del Duecento, e non solo in letteratura, si stava af-

fermando» e di cui troviamo già traccia negli stessi teorici della retorica, quali Guido Fava, Guidotto e soprattutto il ribelle Boncompagno °. Siffatto ideale informa tanto il volgarizzamento del De inventione, quanto le chiose dello «sponitore»: conseguendo nell’uno e nelle altre una perspicuità e sostenutezza delle strutture periodiche che è sf favorita dal modello latino ma non ne resta sopraffatta, anzi predilige i costrutti di origine latina più assimilati dal volgare, e dei moduli retorici si serve per ottenere un assetto di chiaro ordine espositivo ‘. Ma a questo classicismo col segno negativo, in quanto negazione del manierismo retorico, se ne affianca un altro col segno positivo: quello del volgarizzamento, primo nella Ro2 Fdizione a cura di F. Maggini, Firenze 1915, p. 55. 3 Ed. cit., p. 2972; e vedi c. sEGRE, La «Rettorica» di Brunetto Latini, in Lingua, stile e società, Milano 1963, pp. 176, 177 e nota 120, 178 e nota

I2I. 4 Rbetorica novissima cit., p. 2964. 5 sEGRE, La « Rettorica» cit., pp. 177-78. 6 Ibid., pp. 178-79, 182 Sgg., 190 Sgg.

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mania, di tre orazioni di Cicerone, dove il volgare assume una

dignità più intonata all’«alto latino e forte», abbandonando l’analisi scolastica e inevitabilmente adeguandosi a un’orditura oratoria di stampo classico ”. Qui il discrimine tra i due mondi del latino letterario medievale e del volgare aspirante alla letteratura si complica con una terza dimensione: quella del latino classico sentito come modello poziore. Se confrontiamo i parlamenti e le epistole in volgare di Guido Fava con le loro versioni latine, vediamo che al non ancora regolato ma concreto efficace volgare si oppone un regolato ma astratto esangue latino: a un organismo vivo, che cerca faticosamente se stesso, un centone di formule uscite dal limbo con-

venzionale dei repertori. L’avvenire si apre ormai al volgare, col reagente latino: ma dei due possibili reagenti latini — quello della precettistica retorica e dei formulari, e quello dei sommi poeti e scrittori classici (tali, ripeto, per gli uomini del medioevo, e quindi Orosio come Ovidio e Virgilio) presi come auctoritates nella loro integrale esperienza stilistica — il primo conduce nell’impasse municipale o intermunicipale di Guido Fava, di Giovanni da Viterbo e dello stesso Guittone, il secondo porta alla suprema «gloria della lingua» di Dante. Sciogliendo i dubbi del Marigo, Domenico De Robertis ha dimostrato in pagine recentissime* che Dante conosceva direttamente la Retorica di Brunetto, il cui procedimento e linguaggio espositivo riecheggia con sorprendente puntualità nelle parti espositive della Vita 740v4; e, oltrepassando le visibili differenze (la assorbente accezione etico-politica della retorica in Brunetto di contro ai vivi interessi linguistici di Dante; la propensione del primo per la prosa oratoria ed epistolare, del secondo per la poesia; la venerazione di quello per Cicerone «il miglior parladore del mondo», taciuto invece nel De vulgari eloquentia fra coloro «qui usi sunt altissimas prosas» [II, vi, 7]) e le palesi coincidenze (l’affermata

analogia tra lettera e canzone in Brunetto [Rez#., ed. Maggini, p.101; Tresor, ed. Carmody, lib. III, x, p. 327], e in Dante la canzone chiamata dictamen magnum [De vulgari eloquen? Cfr. secrE, in La prosa del Duecento, a cura di C. Segre e M. Marti, Milano-Napoli 1959, pp. 131-32; e Volgarizzamenti del Due e Trecento, To-

rino 1953, pp. 32-33.

* Nascita della coscienza letteraria italiana, in «L’Approdo letterario», n. 3I, giugno-settembre 1965, pp. 19 sgg. dell’estratto.

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tia, II, xt, 7]; il convincimento di entrambi che a compor-

re altamente non basti la disposizione naturale, ma occorra scienza ed esercizio dell’arte [Brunetto, Tresor, ed. cit., lib. III, 1, p. 318; Dante, De valgari eloquentia, II, 1, 8 e IV,

10]; la comune opinione che prima della costruzione della torre di Babele tutti gli uomini parlassero l’ebraico [Brunetto, Tresor, lib. III, 1, 3, p. 317; Dante, De valgari eloquentia, 1, vi, 4-7]; la comune, soprattutto, esigenza di un impianto speculativo che sussuma la trita precettistica); oltrepassando, dicevo, tutto ciò, il De Robertis scorge nel maestro e nel

discepolo la stessa vocazione di fede nella parola illuminata dalla sapienza ed impegnata nella fondazione delle istituzioni civili o, che non è molto diverso, nell’affermazione dei 74gnalia, cioè dei fini supremi dell’uomo. Di un profondo consentire è testimonianza il canto xv dell'Inferno; che tuttavia non può impedirci di vedere quanto il discepolo si sia dilungato nella via indicatagli dal maestro. Se è vero che in Brunetto sorge a Firenze una chiara istanza di classicismo (Francesco Maggini ha detto che Cicerone fu per Brunetto quello che Virgilio fu per Dante), potremmo agevolmente dimostrare quanto più consapevole, matura, complessa fosse tale istanza in Dante. Preferiamo cogliere il divario in un terreno meno tentato: quello del volgarizzamento. Se Brunetto fu un volgarizzatore egregio, Dante

lo fu parco ma insigne; e le sue mirabili versioni non vanno disgiunte da una intransigente riflessione sulla difficoltà e i limiti del tradurre, la quale induce a censurare gravemente l’ippocratista Taddeo che fece parere «laido» il volgare nella sua versione dell’Ezica a Nicomaco, e ad affermare, sulle or-

me di san Girolamo, l’intraducibilità della poesia (Conv., I, x, IO; VII, 14-15). Prova evidente di quanto il suo senso dei valori formali si esaltasse ad un apprezzamento assoluto, risalendo tutto il medioevo e ricollegandosi direttamente ad un tardo ma legittimo erede della cultura classica e ciceroniana, quale san Girolamo era.

4. Come ad altri istituti della retorica, cosî Dante aderisce a quello principalissimo dell’orzatus. Nel capitolo 1 del ° Ibid., pp. 23-24.

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libro II del De vulgari eloquentia egli infatti asserisce in via di massima che «omnis qui versificatur, suos versus exornare debet in quantum potest», ma poi specifica che il volgare illustre, e con ciò stesso la constructio excellentissima e l’orna-

tus difficilis che gli sono intrinseci, non possono convenirsi ad ogni poeta e ad ogni poesia, ma, essendo la lingua strumento necessario del nostro concetto, l’optimzuz vulgare si converrà a quelli che versificano con talento e con dottrina; giacché, costituendo l’ornamento aggiunta di alcunché di conveniente, che rimane distinto da ciò cui si aggiunge, come il pensiero del poeta non si fonde con le parole, il mescolare cose superiori con le inferiori sarà causa di deturpamento e di ridicolo (II, 1,2€ 9-10).

Il concetto di orzatus come additio è perfettamente in chiave con l’ortodossia retorica, e anche quello di convenientia; ma c’è un passo del Convivio in cui Dante, sospinto dal suo possente senso della forma, supera la dicotomia tradizionale e trae la bellezza dalla congruentia partium, applicando al contesto linguistico ciò che Cicerone, sant'Agostino e san Tommaso dicono del corpo umano: «Quella cosa dice l’uomo essere bella cui le parti debitamente si rispondono, per che da la loro armonia risulta piacimento. Onde pare l’uomo essere bello, quando le sue membra debitamente si rispondono; e dicemo bello lo canto, quando le voci di quello, secondo debito de l’arte, sono intra sé rispondenti. Dunque quello sermone è più bello ne lo quale più debitamente si rispondono [le parole; e più debitamente si rispondono] in latino che in volgare, però che lo volgare séguita uso e lo latino arte» (I, v, 13-14); dove, sia che si voglia intendere l’«arte»

seguita dal latino come semplice grammatica o come grammatica abbellita dal cursus, resta il fatto di una enunciazione

strutturale della bellezza asserita non contro, ma indipendentemente dal contenuto. E c’è un altro passo del Convivio in cui Dante avverte chiaramente il limite e dimostra insofferenza del concetto di orzatus: quando scrive non potersi «la gran bontade del volgare di sî... manifestare... ne le cose rimate [core nella prosa], per le accidentali adornezze che quivi sono connesse, cioè la rima e lo ri[tim]o e lo numero regolato; sf come non si può bene manifestare la bellezza d’una donna, quando li adornamenti de l’azzimare e de le vestimenta la fanno più ammirare che essa medesima. Onde chi vuole

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ben giudicare d’una donna, guardi quella quando solo sua na-

turale bellezza si sta con lei, da tutto accidentale adornamento discompagnata: sf come sarà questo comento, nel quale si

vedrà l’agevolezza de le sue sillabe, le proprietadi de le sue col[stru]zioni e le soavi orazioni che di lui si fanno»

(I, x,

12-13). Può sembrare strano che Dante faccia passare sotto il concetto di orzatus gli stessi essenziali caratteri della poesia, che la rendono fictio rbetorica musicaque poita, cioè poesia; mentre già nella Vita nuova, XXV, 7, riconoscendo

che «a li poete [cioè ai poeti latini] è conceduta maggiore licenza di parlare che a li prosaici dittatori», e ammettendo doversi concedere ai «rimatori», che sono «poete volgari», «alcuna figura o colore rettorico» concessi ai poeti latini, aveva distinto tra la poesia qua talis e l’additio dell’ornatus. Ma nel libro I del Convivio si sviluppa e corregge, per la parte della prosa, il discorso cominciato in De vulgari eloquentia, II, 1,

I e subito intermesso col rinviare ad un secondo momento la trattazione del volgare illustre in prosa, giacché i prosatori lo ricevono da quelli che lo usano in poesia e — ciò che è più grave — il volgare dei poeti resta modello ai prosatori («quod avietum est prosaycantibus permanere videtur exemplar, et non e converso»). Questa impegnatissima asserzione imponeva, almeno in teoria, la constructio excellentissima, e quindi l’ornatus difficilis dello stile tragico, anche alla prosa; la

quale pareva destinata a svolgersi su un piano non dirò guittoniano, ma certamente epidittico. Dante invece mirava ad una prosa apodittica, oggi diremmo scientifica; ed era deciso a non perpetrare il gran rifiuto del proprio maestro, il quale, al momento di stendere in volgare la sua massima opera, di natura eminentemente dottrinale, si sottrasse alla responsabilità fabbrile che gli avrebbe imposto il volgare di sf, per affidarsi alla consolidata tradizione del volgare d’ozl. Nel Convivio confluiscono, col latino della scolastica, l’esperienza dei volgarizzamenti della prosa classica, contribuendo ad un irrobustimento sintattico che contempera il gusto medievale delle simmetrie e dei tropi con un’organica e duttile costruttività dimostrativa. In questo senso si può asserire, sulle or-

me del Segre', che l’apporto della prosa classica al volgare è assai più diretto e costitutivo che non quello della poesia, 1 Volgarizzamenti del Due e Trecento cit., p. 38.

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operando, anziché negli «elementi singoli, dagli ornamenti della parola all’intonazione della poesia», sulle strutture portanti e quindi sulla stessa articolazione del pensiero. Ecco perché all’autore del commento conviviale la prosa non appare più un succedaneo della poesia, un «sermo sententiosus ornate sine metro compositus, distinctus clausularum debitis intervallis», come appariva a Giovanni di Garlandia*, ma qualcosa che, differenziandosene per argomentante funzionalità, le si contrappone nella struttura e nel fine. «È chiaro che solo ora, con la prosa del Convivio — ha scritto Cecil Grayson® — Dante crede di dimostrare il vero valore del volgare, non coll’imporgli dal di fuori qualcosa di suo, ma coll’estrar di dentro le qualità essenziali: “... e questa grandezza do io a questo amico, in quanto quello elli di bontade avea in podere e occulto, io lo fo avere in atto e palese ne la sua propria operazione” (I, x, 9)... Nel Convivio... la sua difesa del volgare e della sua prosa è fondata sulla consapevole distinzione, anzi quasi sull’opposizione, tra poesia e prosa, e sulla sfida lanciata non contro il latino degli antichi poeti, ma contro quello dei moderni scolastici... Nel Corvivio la prosa dantesca si libera dal giogo poetico sia nel conte-

nuto sia nella forma. Benché qualificata come serva della poesia, essa acquista una vita indipendente e una predominanza sulla poesia... Il suo ideale è la naturale bellezza, scevra degli ornamenti della poesia: una prosa realizzata con le virtà proprie della lingua per insegnare la virti agli uomini». 5. Nonè difficile cogliere, a fil di logica, Dante in contraddizione con se medesimo. Abbiamo infatti da fare non con un pacato sistematico, ma con uno strenuo sperimentatore che cerca di volta in volta un ubi consistam dottrinale e, spostando la mira, lo pone di continuo in crisi, come dimostra lo sta-

to provvisorio e incompiuto di due opere centrali, quali il De vulgari e il Convivio. E poi non bisogna dimenticare che Dante si trova preso fra tradizioni ed esperienze complementari ma insieme diverse: quella secolare e prestigiosa del comporre latino, e quella 2 Poetria cit., p. 886. * Dante e la prosa volgare cit., pp. 18-19 dell’estratto.

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acerba ma vitale del comporre volgare; entrambe incombenti. Il trasferimento dall’una all’altra di istanze, metodi, tec-

niche non vale a colmare il solco, a pareggiare i due campi, a consentire possibilità eguali, un eguale rapporto fra regola e libertà. Quando scrive in latino, quali che siano i suoi principî e propositi teoricamente enunciati, Dante è molto più

sotto l’impero della regola e il peso della disciplina retorica, di quanto non sia nello scrivere volgare; il suo margine di ribellione, di innovazione è incomparabilmente minore della zona di accettazione, di passività. Perfino nei suoi latini più schietti e dolenti (lascio apposta da parte certe epistole politiche, vissute certo intensamente ma attraverso un solenne

apparato di tradizione biblica ed ecclesiastica, e penso alla lettera all’ Amico fiorentino, penso agli esempi di constructio fondati sulla propria amarezza di esule) troviamo un ordo eminentemente artificialis, condito di cursus e di colores. È chiaro che in quel latino, non ancora studiato nei suoi caratteri più danteschi ma evidentemente segnato da impronte personalissime, si manifesta una tecnica superbamente assimilata — babituata, per dirla con Dante —, in cui la vischio-

sità della Traditionssprache è riscattata da un eccezionale istinto linguistico e dalla straordinaria intensità dei yzagnalia che vi si esprimono. Ma, tutto sommato, il latino di Dante porta in sé, non frangibile, il sigillo di una esperienza conclusa; mon est hec via, potremmo ripetere con l’Esule: non questa era la via per soddisfare appieno le istanze innovative che in lui cimentavano, a un tempo, la teorica adesione al codice retorico e la prassi del «dettare»; l’istanza, soprattutto, di

quel suo classicismo che fortunatamente ignorava le vie retrorse dell’umanesimo e, guardando ai grandi autori «regolati», puntava in avanti. Da quanto abbiamo detto discende che non si può chiudere un pur breve, schematico discorso sulla retorica di Dante senza instaurare un confronto tra i principî da lui formulati e le sue pagine di prosa e di poesia: potremmo anzi dire che, per conoscere il pensiero di Dante sulla retorica, è necessaria e sufficiente l’analisi della sua tessitura stilistica. Sta bene: ma bisogna guardarsi da un facile equivoco. Chi volesse ritrovare nei testi volgari di Dante tutti gli istituti della retorica medievale, o, in altre parole, volesse ricondurre gli stilemi danteschi a canoni retorici, non fallirebbe nell’inten-

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to. Basti un caso macroscopico: tutti gli episodi in cui si articola narrativamente la Comedia perché non ritenerli exezzpla tratti in parte dalla tradizione letteraria e in parte — come volle di proposito fare il maestro di Erennio (cfr. Rbet. ad Her., IV, 1) e come, seguendo lui, fecero le artes dictaminis

medievali — fabbricati dall’autore di sulla pit scottante realtà contemporanea, fosse storia politica o cronaca nera?

Cosî procedendo commetteremmo la stessa prevaricazione di coloro che qualificassero latinismo tutto ciò che, nella sintassi italiana, supera lo schema tipico della frase romanza. Ma quello schema è una rudimentale astrazione scolastica, giacché nel concreto fino dai primi documenti i volgari italiani si presentano assai più complessi, e il travaglio di modellazione sul parallelo uso del latino, acceleratosi nel passaggio dal parlato allo scritto, è la stessa vita storica di quei volgari. Perciò i linguisti romanzi vanno assottigliando i loro criteri di classificazione, per distinguere tra l'accrescimento organico del volgare nel suo progressivo partecipare al mondo della cultura dominato dal latino, e i dotti innesti a corso forzoso

e ad effetto immediatamente lacerante. Un inventario non discreto degli stilemi di Dante sarebbe utile a individuare le preferenze sintagmatiche e il contrappunto semantico di un vasto complesso contestuale, e quindi del fiorentino letterario in quella sua affermazione grandiosa, ma non produrrebbe accertamenti differenziali sulle effettive opzioni di Dante. Fino a che punto infatti certi suoi stilemi sono, anziché colores, anziché exornationes ottenute attraverso una deliberata

amplificatio, modi istituzionalizzati di un volgare che ha dilatato i propri registri, scelte normali di una sua più ricca articolazione semantica e sintattica? Fino a che punto certi re-

toremi sono frutto della precettistica medievale, oppure di una diretta sintonica meditazione dei testi classici? Fino a che punto la loro densità o combinazione, il delicato rapporto fra polarità formale e polarità semantica possono significare aderenza o ribellione ad un costume? A rendersi conto di ciò non basta un inerte inventario; occorre entrare nella dinami-

ca del contesto: vedere insomma, entro serie di fatti particolarmente indicativi, come Dante lavorava sulle parole.

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6. Già il Marigo aveva notato nel latino di Dante, che, co-

me si è detto, costituisce naturalmente il suo punto di massima adesione all’uso retorico, l'applicazione della conversio, istituto molto bene esposto da Goffredo di Vinsalvo nella Poetria nova e nel Documentum de arte versificandi: cioè l’arte, utile tanto all’orzatus facilis che al difficilis, di sosti-

tuire la parte del discorso o il costrutto (preposizione, verbo, aggettivo, caso) che si presentano più ovvi e spediti (più «na-

turali», possiamo dire) con altra parte o costrutto più «artificiali», e questi a lor volta con altri, se si perseguono risultati sempre pit elaborati e dilatati. La corversio è fino ad un certo punto, come l’ordo partium orationis, un avviamento

allo scrivere latino; oltre quel limite è un virtuosismo fecondo, nella prosa, di cadenze clausolari. In De vulgari eloquentia, II, VII, 1 «successiva nostre progressionis presentia luci-

dari expostulat», che col Marigo si può tradurre «ciò che si presenta successivamente alla nostra progressiva trattazione richiede che si mettano in luce...», lo stesso Marigo ravvisa la figura dell’astratto per il concreto e la conversione del verbo in sostantivo, «secondo lo stile dettatorio e poetico» '; altro caso sarebbe il II, 111, 4 «quod nunquam sine vetusta provisione processit», che il Marigo traduce «il quale non s’è certo continuato ad usare se non per un provvedere vetu-

sto». A questo si può aggiungere l’I, xII, 1 «inter ea que remanserunt in cribro comparationem facientes», dove la soluzione del verbo in una locuzione verbale produce un cursus trispondaicus (la preoccupazione del cursus era presente anche nei casi osservati dal Marigo). Ma è spesso, più che difficile, illusorio risalire alla base convertita. Il concetto di conversione è insomma le più volte il tentativo di spiegare logicamente l’oltranza metaforica e certe baroccheggianti «argutezze» cui il Dante latino si abbandona; come quella, ad es., con cui egli chiude, sempre nel De valgari (I, vi, 3), la dolorosa motivazione dell’iniquo esilio: «rationi magis quam sensui spatulas nostri iudicii podiamus». Questo è un Dante ancora vicino, suo malgrado, al dispregiato ma beneficamente 1 De vulgari eloquentia, a cura di A. Marigo, Firenze 1957), p. 225 noa 2. 2 Ibid., p. 183 nota 15.

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revulsivo Guittone, perché come lui opera sulla singola cellula semantica dall’esterno, diffrangendola con un procedimento amplificatorio e additivo che dà un risultato isolato dal contesto e quindi gratuito. Quando invece — per restare nella stessa sfera semantica dell’ultimo esempio — Dante scrive «lo illicito e ’1 non ragionevole lo coltello del mio giudicio purga in questa forma» (Corv., I, 11, 2), l’amplificante gioco metaforico che spazia tra la figura del coltello e quella del purgare trova una radice e una motivazione nel contesto, cioè nella preordinata cornice transuntiva del «bene ordinato convivio» in cui «sogliono li sergenti prendere lo pane apposito, e quello purgare da ogni macula» (I, 11, 1). E quando, finalmente, in Purg., VI, 37-39 Virgilio dice che «cima di giudicio non s’avvalla |perché foco d’amor compia in un punto | ciò che de’ sodisfar chi qui si stalla», il cumulo delle figure scaturisce dalla condensazione semantica, cioè dalla necessità

di racchiudere molti contenuti logici in pochi segni analogici, ed è quindi il risultato di una abbreviatio (termine e concetto che nei trattati di retorica sono troppo mortificati) ottenuta per vie interne e la cui stessa intensità costituisce motiva-

zione. Intensità, densità, rapidità sono il demone uno e trino di Dante. Da esso nascono molte delle forzature, delle riesuma-

zioni, delle neoformazioni dantesche. Il s’interna di Par., XXVIII, 120, col senso di «si fa terno, triplice», il s'învera di Par., XXVIII, 39, il concolori di Par., XII, 11, la plenitudine volante di Par., XXXI, 20, per non dire dell’imzzziarsi, intuarsi, incinquarsi, immillarsi ecc., sono frutto di abbreviazioni cui hanno cospirato di volta in volta vari fattori (il metro, la rima difficile, l’incalzante tempo del verso dantesco) e che contraggono il testo in scorci potenti. Alla stessa vocazione intensa e sintetica l’Auerbach attribuisce la rapida essenzialità delle descrizioni dantesche, cosî diverse dalla trita prolissità di quelle esemplificate dai retori,

specialmente di formazione francese, ad es. da Matteo di Vendòme nella sua Ars versificatoria, e di quelle dei congeneri poemi cortesi; i quali potevano anche imitare Virgilio È Sul valore della metafora in Dante si vedano per ultimo le acute osservazioni di B. TERRACINI, Il lessico del «Convivio », in Pagine e appunti di linguistica storica, Firenze 1957, pp. 288 sgg.

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ed Ovidio, ma nel particolare, nell’aneddoto, senza afferrare l’economia e il livello del tutto. La descrizione del messo celeste nel canto IX dell’Ixferzo, suggestivamente confrontata con quella di Posidone incedente dell'Iliade nella contaminata citazione fattane dallo Pseudo-Longino, sembra all’ Auerbach una rigenerazione, in chiave più partecipata, più drammatica, del sublime classico. «Dante — scrive il critico berli-

nese — ha ridestato in una lingua popolare europea la concezione antica del sublime; ha creato una poesia di tono elevato che sta all’altezza dei grandi modelli antichi. Prima di lui ciò non sarebbe stato possibile; né in latino, perché il latino mancava di un grande tema attuale e di un pubblico reale, in quanto le scuole da sole non possono mai formare un pubblico, e anche perché la tradizione scolastica col suo eccesso di retorica aveva distrutto il concetto del sublime; né nelle

lingue volgari, perché prima di Dante esse non possedevano sufficiente libertà e ricchezza di espressione...» ‘. Libertà e ricchezza: ecco due caratteri che in Dante riescono a coesistere, integrarsi; non nel goticismo di Guittone, dove i congegni espressivi si incalzavano a ondate, accumulandosi per imbricazione, entro un’orditura e un tono prevalentemente interiettivi. Lo «stile legato» — come l’ha acutamente definito Benvenuto Terracini° — della Vita nuova è tutt’altra cosa: in esso «il disinteresse dei grammatici e dei retori medievali per la costruzione del periodo» ‘ è superato, e ancor più nel Convivio (come attente analisi hanno dimostrato '), dove una tensione dialettica ed una costruttività

noetica di più specifico impegno dittico saldamente architettato E se in alcune parti sopravvive metrie e dei parallelismi, gusto

puntano ad un discorso apoe sottilmente gerarchizzato. il gusto medievale delle simnon sempre o non del tutto

* Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo cit., pp. 21I-12.

5 In Pagine e appunti di linguistica storica cit., pp. 247 Sgg6 SEGRE, Lingua, stile e società cit., p. 107. ? Dal Segre (La sintassi del periodo nei primi prosatori italiani [Guittone, Brunetto, Dante] [1952], rist. in Lingua, stile e società cit., pp. 227-70) si può risalire ad A. Schiaffini (Tradizione e poesia nella prosa d’arte italiana dalla latinità medievale a G. Boccaccio, Roma 1943, pp. 113-26), ad E. G. Parodi (L’arte del periodo nelle opere volgari di Dante [1902], rist. in Lingua e letteratura, Venezia 1957, pp. 324-27) e allo stesso G. Lisio (L’arte del periodo nelle opere volgari di Dante Alighieri e del sec. x1m1, Bologna 1902), recensito dal Parodi.

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razionale anche se geometrico (la cui negativa influenza sulla funzione noetica poteva essere non inferiore a quella dell’armonia clausolare, già denunciata fino dalla tarda antichità per mano di sant'Agostino: «Sed cavendum est ne divinis gravibusque sententiis, dum additur numerus, pondus detrahatur» [De doctr. christ. cit., IV, xx, 41, 116]), bisogna distin-

guere tra le simmetrie a effetto puramente descrittivo o emotivo (basta ricordare il parallelismo rimato della costruzione della torre di Babele in De vulgari eloquentia, I, vii, 6, 0

quello, scandito dall’anafora, della lettera all’Amico fiorentino) e le simmetrie, e perfino i retoremi che le sottolineano

(ad es. la repetitio), rivolti — come ha bene osservato il Segre — a conferire calore alla dimostrazione logica o a riprodurre quasi materialmente corrispondenze, contrapposizioni, suddistinzioni di idee *. Né va d’altra parte dimenticato che la «vocazione» di Dante resta sempre, quali che siano gli oggetti e i fini contingenti, artistica, ed artistico, in via più o meno mediata, il suo sperimentare: sicché, come è vero che «il colorito retorico... ha sempre in lui un intento polemico o segna un momento etico», cioè non si chiude mai in edonismo formale o in vittuosismo tecnico, è altrettanto vero che

«la carriera di Dante è segnata chiaramente dalla interferenza tra poesia e prosa, come fenomeni non separati ma invaria-

bilmente legati insieme» ”. Ne discende una delle idee pit illuminanti e più feconde della recente critica dantesca: che la prosa del Convivio non costituisca una parentesi filosofica dentro l’ifer poetico, ma una tappa di quello e sia ponte e scala alla poesia della Comedia, cioè ad una forma che abbracci e comunichi tutto il sentire e il pensare di Dante". 7. Non paia dunque strano se ci siamo mossi e ci movia-

mo, nell’esemplificare, tra il Convivio e la Commedia; e se non ci attardiamo a segnalare simmetrie e in genere retoremi

delle due categorie sopra distinte, rinviando semplicemente ai molti casi individuati dal Segre nel testo del Convivio e a quelli che il Parodi e lo stesso Segre hanno additato nella * sEGRE, Lingua, stile e società cit., pp. 249 sgg. ° TERRACINI, La forma interna del «Convivio», in Pagine e appunti di linguistica storica cit., p. 277. !° GraYsoN, Dante e la prosa volgare cit., p. 26 dell’estratto. ll Ibid., pp. 23 sgg.

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Commedia: dalla monotonia degli esempi di superbia punita nel canto X del Purgatorio alla solennità imperiale del canto VI del Paradiso, servita da riprese e anafore '. Voglio però aggiungere una terzina che è un mirabile esempio di epiploche: Noi siamo usciti fuore del maggior corpo al ciel ch’è pura luce: luce intellettual, piena d’amore; amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogni dolzore;

(Par., XXX, 38-42)

dove l’incatenatura attua una gradatio a spirale in cui si svolge e s’innalza la lucida ebbrezza di una definizione che è insieme rivelazione e conquista. E desidero segnalare una serie di terzine del canto XX del Paradiso, quelle dove l’Aquila presenta a Dante le anime dei giusti e pii che formano il suo occhio: sei personaggi, ognuno presentato in due terzine, la prima delle quali indica i limiti e le pecche della sua confusa esperienza terrena, la seconda il chiaro giudizio che di essa ha fatto Dio. L’attacco della prima terzina varia leggermente di volta in volta, fisso rimane quello della seconda «ora conosce...», come un martellante ribadimento ad intervalli regolari, che esce dagli schemi scolastici della retorica eppure attinge creativamente ai suoi principî.

Non c’è dubbio che nei due casi ora proposti, diversamente che nelle simmetrie e ripetizioni degli esempi di superbia punita e del canto di Giustiniano, il modulo retorico ha perduto la sua cartilaginea insolubilità e si è quasi fuso nel pathos e nell’intonazione, tanto da rendersi inavvertito, come tale, a lettori non scaltriti. E tuttavia oserei dire che queste prove di forza su una tecnica indurita non ci dànno la piena misura del rapporto conclusivo tra essa e il poeta maturo. Quella piena misura la troviamo nella sintassi della Comzzedia, ma fuori degli stilemi formulari, che fanno aggio sulla sostanza. Nella forma, non nella formula; nella forma, che è struttura linguistica reale, non nella formula, che è struttu-

ra simbolica. Mi si consenta un assaggio. Dante usa di frequente costruzioni prolettiche, in particolare interrogative indirette e dichiarative prolettiche°; è un giro sintattico di origine la1 Cfr. SEGRE, Lingua, stile e società cit., pp. 265-66 e note 174, 176, 177, nonché i suoi rinvii al Parodi. Ibid... p. 252.

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tina, utile al collegamento con ciò che precede o all’annuncio di ciò che segue o alla messa in rilievo espositiva, quando non affettiva, e genera un’enfasi data dall’inversione: «Lo qual movimento, se esso è da intelletto alcuno o se esso è da la rapina del Primo Mobile, Dio lo sa». Cosî in Convivio, II,

v, 17; e cosî nella Commedia, Purg., XXXI, 89 sg.: «e quale allora femmi, |salsi colei che la cagion mi porse»; e Purg., XXI, 79: «Ora chi fosti, piacciati ch'io sappia»; ma nella stessa Commedia, rinunciando alla prolessi e seguendo l’ordo naturalis, con tutta semplicità: «Iddio si sa qual poi mia vita fusi» (Par., III, 108), e non diversamente in altri almeno diciotto casi. Accanto al periodo discendente — dell’ordo naturalis secondo i retori —, che cioè si apre col soggetto e il suo verbo e si chiude coi complementi del verbo e con la determinazione delle proposizioni dipendenti (struttura frequentemente variata da proposizioni incidentali, ma nel complesso procedente dal meno al più determinato, dall’enunciato al citcostanziato e motivato), Dante usa, già nella Vita

nuova e più nel Convivio e nella Commedia, il periodo ascendente, che si muove dalle dipendenti circostanzianti e motivanti, sale alla principale e si distende nei complementi o sviluppi di questa. È una struttura caldeggiata dai retori, che nel suo assetto prolettico assaporavano l’ordo artificialis (ad es. da Giovanni di Garlandia, che tra i vari modi di esordire — ol-

tre l’exemzplum, il proverbio, la similitudine e l’ablativo assoluto — segnala la proposizione condizionale e quella introdotta dal cuzz e dal dum)°; ma anche propria degli scrittori classici, che la alternavano all’altra con una sapiente distribuzione di riconnessioni e di effetti logico-psicologici, come si può constatare ad apertura di libro; e non certo ignota al dialettico latino della scolastica e perfino a quello schiettamente narrativo dell’agiografia francescana. Questa struttura è già presente in Guittone, che se ne serve ad accentuare il legame tra proposizione principale e dipendente ‘, e in Brunetto; ma in Dante diviene un organo che permette — come ha ben mostrato il Segre per il Convivio * — di graduare e gerarchizzare sottilmente i momenti del processo dimostrativo 3 ‘ ° $

Poetria cit., pp. 907 Sgg. sEGRE, Lingua, stile e società cit., p. 106. Ibid., pp. 184, 195, 257 nota 171. Ibid., pp. 251 sgg.

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o espositivo, offrendosi a sviluppi articolatissimi e a duttili raccordi col testo che segue e precede, o aprendo complesse prospettive e partiture ritmico-tonali. Un esempio conviviale

di queste ultime (tanto per uscire dalla ricca e convincente casistica del Segre) mi piace additarlo in quel celebre passo del capitolo n del libro I «Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza...»,

che a me sembra il riscontro volgare dell’esempio latino di constructio excellentissima dato in De vulgari eloquentia, II,

VI, 5. Orbene, questa struttura che nel Convivio assume talvolta dimensioni cosî vaste e trame cosî complicate da affaticare il lettore; che non sempre trova un ritmo ed un’intonazione che al lettore forniscano una pronta chiave di lettura; che a volte troppo si adagia nella tentazione del parallelismo

e delle simmetrie: nella Comzzedia consegue agilità e sicurezza supreme, snodantisi sul filo di una portante ineccepibile intonazione. Il primo lungo periodo del racconto di Ulisse (Inf., XXVI, 90-102), l’«orazion picciola» (ibid., 112-20),

il racconto del ritorno di san Francesco dall’Oriente e del suo ritiro sulla Verna (Par., XI, 100-8), la descrizione della «for-

tunata Calaroga» (Par., XII, 46-54), la terza domanda di Dante a Cacciaguida (Par., XVII, 13-27) ne sono mirabili applicazioni di vario tipo. Ma a questo punto l’origine del costrutto più non interessa: giacché la formularità impressagli dai retori medievali e conservatasi nei loro discepoli si è dissolta in una libertà e in una forza struttiva che sono frutto

di una coscienza nuova della forma d’arte e della lingua viva e del loro rapporto, cioè della loro identificazione. Una puntuale analisi della lingua della Comedia confermerebbe su un vastissimo fronte l'emancipazione di Dante dalla retorica: che è come dire l’eliminazione del manierismo medievale come tale o la promozione dei suoi elementi ad istituti linguistici, non deprimendo, anzi esaltando, con le possibilità del sistema, l’intensità denotativa e connotativa. Si tratta di una operazione grandiosa, antiretorica e non-umanistica, condotta con una esclusiva fede nella vitalità del volgare, sole nuovo che al vecchio sole tocca nutrire. Operazione da cui usci un nuovo strumento letterario pieno di futuro.

Agnizioni di lettura *

Dicesi che un insigne musicista italiano, proverbiale per ben altri estri, facesse continui cenni di saluto nell’ascoltare

le note di un modesto compositore: come ravvisandovi vecchie conoscenze. Lo stesso accade spesso a noi lettori, non solo leggendo scritti di autori mediocri, incapaci di farsi un registro proprio e quindi condannati ad inserirsi nell’altrui come in una nicchia; e non solo con senso di fastidio o di commiserazione. Confesso che provai uno schietto godimento quando, già in grige chiome, mi accorsi — come per illuminazione improvvisa — che un passo di Pirocchio che mi aveva irrelatamente deliziato da piccolo era la trasposizione di uno dei Promessi sposi. Siamo nel capitolo primo, al punto in cui maestro Ciliegia, dato il primo colpo d’ascia al famoso pezzo di legno da catasta, sente la misteriosa vocina: «Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai poteva essere uscita quella vocina, e non vide nessuno. Guardò sotto il banco, e nessuno; guardò dentro un armadio che stava sempre chiuso, e nessuno; guardò nel corbello dei trucioli e della segatura, e nessuno; aprî l’uscio di bottega per dare

un'occhiata anche sulla strada, e nessuno!» Una ricerca dello stesso tipo, a gradatio eliminatoria, aveva fatto don Abbondio vedendo i bravi che gli si avviavano incontro: «Doman-

dò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse

qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s’avvicinavano, guardan* Da «Strumenti critici», n. 2, 1967, pp. 191-98.

AGNIZIONI E LETTURA

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dolo fisso. Mise l’indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intor-

no al collo, volgeva intanto la faccia all’indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell’occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Die-

de un’occhiata, al di sopra del muricciolo, ne’ campi: nessuno; un’altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuotché i bravi» !. Come si vede, il largo avvio della sequenza manzoniana e il suo stringere verso l’impasse irriducibile vengono dal Collodi pareggiati e ridotti all’incidenza ritmica, goduta come stilema (tanto che è ripetuta, a frequenza più alta, poco più avanti: «Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci minuti, e nulla! »). Ma il nuovo prodotto sta egualmente all’attivo della ricca partita di trovate ritmiche che è in Pinocchio, benissimo prestandosi al magro, lesto, scoccante filo narrativo. Mi sono più volte domandato la ragione del mio godimento. Essa va, ovviamente, oltre l'immediato compiacersi del-

l’agnizione* e ha radice nel confronto tra i valori dei due contesti. Il che può implicare più cose. Il passaggio da una lettura unicontestuale ad una, anche a tratti, bicontestuale non

solo porta con sé e di per sé, quasi automaticamente, il paragone frontale, estimativo, delle due (mi si lasci dirlo in termini linguistici) sincronie, e non solo apre fra di esse un iato diacronico, colmabile con una storia di contenuti, ma, quando la situazione lo consente, sollecita per la parte formale l’incrocio di una dimensione sistematica, quindi statica, con

una dimensione generativa. Il riferimento manzoniano, ad esempio, mette in grado l’analista del Pizocchio di passare da un modello meramente strutturale ad un modello trasformazionale, in cui il brano dei Prozzessi sposi, costituente la figura stilematica sottostante, ed una o più regole di trasformazione, deducibili dal confronto dei due testi, rendono ragione dello stilema terminale. L’agnizione quindi, insieme con la possibilità o con la speranza di ricostruire un corso genetico, dà il piacere di una conoscenza più profonda, per cau1 Il passo è sostanzialmente identico, ai nostri effetti, nella prima edizione e persino nell’abbozzo. ,4 c f ? Dati il modo gratuito con cui questi incontri-riconoscimenti avvengono e l'emozione da cui sono accompagnati, trovo giusto battezzarli con un termine scenico.

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sas. Va da sé che ad una ricerca metodica un testo frutterebbe agnizioni assai pit frequenti e sottili di quelle, tanto rare quanto vistose, che sorprendono e commuovono il lettore; perché un testo, per quanto ricco di originalità, è sempre dentro una «tradizione», come si usa dire con parola passiva e confusa: confusa, potendo indicare vagamente tanto una singola isostila quanto un fascio o una intera trama di esse; passiva, puntando piuttosto sull’aspetto ricettivo e quindi retrospettivo, che su quello irradiante e quindi prospettivo, del fenomeno. Si hanno invero, nello stile come nella lingua, fatti a struttura inerte e fatti a struttura inquieta, potremmo dire radioattivi. Se gli storici della nostra lingua, ad esempio, c’insegnano che la paraipotassi ha presto ceduto all’affermarsi durevole di una struttura del periodo più consequenziatia; che le costruzioni regressive e inclusive hanno lasciato il campo a quelle progressive ed esclusive di stampo neolatino (l’inversione sopravvivendo in scala limitata); e che nella sintassi contemporanea è in corso un deciso rotare della gerarchizzazione ipotattica verso l’enunciato nominale, come prova il contrarsi dell’uso del congiuntivo e il conseguente rilassarsi del rapporto di dipendenza, sî da ridurre la proposizione subordinata a complemento diretto o indiretto della reggente, quasi a un sintagma sostantivale; gli storici dello stile possono, parallelamente, mostrarci il contributo delle voghe stilistiche all’imporsi o desuescere di alcuni dei suddetti istituti grammaticali (la responsabilità di scrittori a rigoroso impianto periodico nel declino della paraipotassi; la parte dei retori, dei volgarizzatori, degli umanisti nel sostenere il gusto della inversione, o dei prosatori contemporanei nel regresso del congiuntivo e della stretta subordinazione), oppure seguire il corso di fenomeni che, pur senza grammaticalizzarsi, sono tuttavia assurti ad istituti stilistici più o meno caratterizzati e vitali (individuando, ad esempio, lo stilema allocutivo della narrativa Oderisi...»,

«comica» dantesca: «Oh, diss’io lui, non se’ tu «Oh, rispuos’egli, a piè del Casentino...», o deli-

neando la saltuaria fortuna dell’omoteleutia intenzionale — «prosa rimata» — o, fra i grandi stampi prosodici, illustrando la scarsa produttività della terzina di Dante o della metrica «barbara» e la secolare fecondità dell’ottava narrativa del Boccaccio o del sonetto). Da quando è stato ammesso che anche i valori connotativi, oltre ai denotativi, costituiscono

AGNIZIONI E LETTURA

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invarianti‘, ed è stato avanzato il concetto di una langue poetica (e, per conseguenza, di una grammatica della poesia)‘,

una fenomenologia stilistica, comunque descritta — secondo moduli tassonomici o trasformazionali — non farà più difficoltà di principio. La gradatio eliminatoria del Manzoni era proprio un fatto radioattivo. Impostata sopra uno schema bifocale a due proposizioni coordinate, di cui la seconda costituente risposta (negativa) alla prima e perciò stesso attraente su di sé la spin-

ta ritmica e semantica, convertiva, nel progresso dell’iterazione, la seconda da sindetica espositiva in asindetica interiettiva, concorrendo alla maggiore intensità anche l’abbreviazione. Siamo fuori del parallelismo o dell’iterazione tradizionali, fondati sul bilanciamento o sull’accumulazione e ri-

solventi per lo più il crescendo o diminuendo in termini di scalatura semantica. Qui si hanno effetti dinamici attraverso

il contrasto di strutture ottenuto col ricorso a mezzi del parlato; e fu certamente il deciso volgersi a tali mezzi che forni esca e lievito ad uno scrittore proteso ai ressorzs del parlato, com’era appunto il Collodi. Altri ravvisamenti manzoniani, anche col solo aiuto della

memoria, si possono fare in Pinocchio, spiegabili, oltre che con la frequentazione dell’ammirato capolavoro, con l’adesione alla sua concezione linguistica. Direi anzi che, data tale premessa, quei riflessi non potevano mancare.

Inatteso invece, inattesissimo — e quindi l’agnizione stupefatta e interrogativa — torna l’incontro col Decazzeron nei versi del Pascoli. Si tratta del madrigale Nozze di Myricae, che il poeta pubblicò la prima volta, in forma assai diversa, nella raccoltina di « Apologhi» dedicata alle nozze dell’amico Giulio Vita (1887). È un componimento musivo, fatto per

gran parte di tessere tratte da fonti antiche — classiche e romanze —, le più cospicue denunciate dall’autore stesso quando lo inserf e commentò nell’antologia Fior da fiore (1901): 3 Cfr. s. JoHANSEN, La notion de signe dans la glossématique et dans l’esthétigue, in «Travaux du Cercle linguistique de Copenhague», vol. V: Recherches structurales, Copenaghen 1949, pp. 288 sgg. * Come posizione di massima apertura della linguistica verso la poesia addito sempre quella del grande Roman Jakobson.

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non alludo ai termini suoro «parole che si cantano col suono», brolo, cobbola, che egli defini «arcaismi non disdicevoli qui, in tale istoria dove gli animali parlano», ma al pensiero «Le campagne addolci quel tintinnfo» e ai tre ben noti versi onomatopeici in veste greca, presi l’uno e gli altri dagli Uccelli di Aristofane, e all’offerta di compenso all’Usignolo musicante, «discorsino — dichiara evasivamente il commen-

to — imitato dal Boccaccio» °: quando la Rana chiede, quanto deve: se quattro chioccioline, o qualche foglia d’appio, o voglia un mazzuolo di serpillo, o voglia un paio di bachi, o ciò che voglia.

Ebbene: visitiamo la novella 11 della giornata vIII, e più in particolare quel prete di Varlungo che, «per potere pit avere la dimestichezza di monna Belcolore, a otta a otta la presentava, e quando le mandava un mazzuol d’agli freschi... e quando un canestruccio di baccelli, e talora un mazzuolo di cipolle maligie o di scalogni»; e che, nello stringere dell’assedio, inviterà la «piacevole e fresca foresozza» alla scelta tra doni diversi: «Allora il prete disse: “Io non so, chiedi pur tu: o vuogli un paio di scarpette, o vuogli un frenello, o vuogli una bella fetta di stame, o ciò che tu vuogli” ». Evidentemente quell’elencazione alternativa col verbo volere — costrutto già quasi stereotipo al tempo del Boccaccio °— s’impresse nel Pascoli, ed anche gli piacque quello sgranarsi di parole antiche, che tuttavia non convenivano all’usignolo e furono infatti sostituite da altre, tra le quali #24zz4olo è senza dubbio tratto da questa novella. Si nota di passaggio che nella stesura precedente, pubblicata dal periodico livornese «Cronaca minima» del settembre 1887, al posto di «un mazzuolo di serpillo» figurava. un «mazzuol di sermollino» ”. Co° Cito dalla 6° ed. Sandron, pp. 48 sg. ? Non sono purtroppo in grado (almeno per orta) di documentare ciò che affermo, stante la deplorevole parsimonia con cui i nostri maggiori vocabolari registrano i fatti sintagmatici. Mi soccorre alla memoria un esempio di molto posteriore, nel Libro dell’arte o trattato della pittura di Cennino Cennini: «Poi, o vuoi bianco vestire, o vuoi rosso, o vuoi giallo o verde, o come tu vuoi, abbi tre vasellini» (cap. LxxI, ed. di Gaetano e Carlo Milanesi, Firenze 1859, p. 5I). ” Cito da A. DI PIETRO, La poesia giovanile di Giovanni Pascoli, Malta 1958, p. 118, dove appunto si trova per intero il testo ripubblicato nel periodico livornese dopo essere apparso, in stesura ancora diversa, appena due set-

AGNIZIONI E LETTURA

È37

munque, a parte il serzzollino, che può richiamarci alla notissima caccia di Franco Sacchetti, anche per l’appio e il serpillo, nonostante l’aspetto classico, non occorre cercare lontano: ce li porge lo stesso Boccaccio in un passo dell’Azzeto che al Pascoli, se lo ha conosciuto, dev'essere stato caro: «Quivi si ve-

de la calda salvia con copioso cesto in palida fronda, e èvvi in più alto ramo con istrette foglie il ramerino utile a mille cose; e più innanzi vi si truova copiosa quantità di brettonica, pie-

na di molte virtà, e l’odorifera maiorana con picciole foglie tiene convenevoli spazii insieme con la menta; e in un canto

si troverebbe molta della frigida ruta e d’alta senape, del naso nimica e utile a purgarsi la testa. Quivi ancora abonda il serpillo, occupante la terra con sottilissime braccia, e il crespo bassilico, ne’ suoi tempi imitante i garofani col suo odore, e i

copiosi appi co’ quali Ercule per adietro solea coprire i suoi capelli» °. La risposta dell’Usignolo, declinante con fermezza le ghiotte offerte, comincia proprio con lo stilema allocutivo di Dante («Oh! rispos’egli»; nella stesura precedente «Deh! rispos’egli») che abbiamo addotto da principio come esempio. Ma non dilunghiamoci dal Boccaccio, la cui memorizzazione e utilizzazione da parte del Pascoli non ha ancora cessato di stupirci. Il nome del sommo novelliere non compare infatti quasi mai negli scritti del nostro poeta: se non erro, e per tutt’altro fine, soltanto nei saggi danteschi. Delle due antologie scolastiche italiane compilate dal Pascoli, Sul limitare (1899) e Fior da fiore, solo la prima reca una novella del Boc-

caccio, quella di Griselda’, e benché in una delle poesie giovanili, Ghino di Tacco (1878) ”, l'argomento appaia dantesco e boccaccesco, nulla di tale vi è nel linguaggio, nello stile: timane prima nell’opuscolo per nozze dedicato al Vita; cfr. F. FELCINI, Premesse a una rilettura del Pascoli, in Studi per il centenario della nascita di Giovanni Pascoli, III, Bologna 1962, pp. 264 sg. hash 8 XXVI, 13-14. Cito dall’edizione critica di Antonio Enzo Quaglio, Firenze 1963, pp. 92 Sg.

Cfr. v. LUGLI, I/ poeta inatteso, in Studi per il centenario della nascita di Giovanni Pascoli cit., II, p. 4: «Dopo il Duecento e l’Alighieri, Pascoli nel suo cuore, col suo amore vero, senz'altro passa all'Ottocento, a Manzoni e Leopardi. A prova ripensiamo l’antologia Sul limitare, in cui paiono un riguardo alle necessità scolastiche i pochi saggi — brevissimi i più — dal Petrarca, dal Boccaccio, dal Poliziano...» !0 Ripubblicata da Maria Pascoli in Poesie varie.

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FRA GRAMMATICA E RETORICA

quell’argomento, come è stato osservato, arriva alla sensibilità pascoliana attraverso la carducciana Faida di comune. Né chi ha studiato la formazione del Pascoli, principalmente Giorgio Petrocchi e Antonio Di Pietro", ha fatto il nome

del Boccaccio, verso il quale d’altronde non dovrebbe aver avuto preclusioni di principio un poeta giovane sî, ma imbe-

vuto di letture e reminiscenze classiche romanze rinascimentali ecc., al punto da citare con onore e compiacimento, nella Colascionata prima a Severino Ferrari (c. 1878-82), accanto

alle stanze dell’Ariosto quelle di Lorenzo Lippi. In verità il saggio del Petrocchi si appunta sulle «fonti» recenti del primo Pascoli, evidentemente considerando le antiche non già inesistenti, ma indirette, filtrate nella vena letterata e trecenteggiante del Carducci e del Ferrari “; e il saggio del Di Pietro fa i nomi del Petrarca, del Poliziano, del Tasso, del Parini, del Leopardi, del Manzoni, del Berchet, ma non del Boccaccio. Lo fa invece Gianfranco Contini, notando incidental-

mente l’ascendenza boccaccesca del «famigerato ron so che di tradizione tardo-cinquecentesca», significativo fattore di indeterminatezza nel linguaggio pascoliano ‘, e lo fa poi, con quelli dell’Ariosto, del Foscolo e del Parini, Angelo Stella — in una sua ricerca che s’inserisce fruttuosamente nella corrente stilistica della critica pascoliana — per comprovare la aulicità e tradizionalità di due attributi, arguto e vocale, che il Pascoli «sperimentatore» ha saputo rendere espressionistici‘. Il madrigale Nozze ha dunque il Boccaccio a fonte diretta; fonte, modestamente, di qualche vocabolo e di uno schema sintagmatico alternativo, che, per l’età e per la novella da cui provenivano, dovettero parere al poeta un equo incrocio !! Mi riferisco, per il primo,‘aLa formazione letteraria di Giovanni Pascoli, Firenze 1953; per il secondo a La poesia giovanile di Giovanni Pascoli, già citato. ! Sul rapporto Ferrari-Pascoli, che la critica più recente tende a rovesciare, dando al Pascoli, almeno in parte, funzione di guida, si veda per ultimo Furio Felcini, nella introduzione alla sua edizione di Tutte le poesie di S. FERRARI, Bologna 1966, pp. 29 sgg. ! Il linguaggio di Pascoli, nel volume miscellaneo Studi pascoliani, Faenza 1958, p. 49. 4 Sperimentalismo del primo Pascoli, in « Paragone», n. 148, 1962, p. 9. Non sarà fuor di luogo aggiungere alla lista dei grandi nomi citati dallo Stella l’Alfieri, al quale sembra risalire (e non oltre, stando ai nostri malcerti lessici) la parola colascionata usata dal Pascoli nel titolo della epistola a Ridiverde: cfr. Felcini, in FERRARI, Tutte le poesie cit., p. 55 nota 90.

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tra l’arcaico, il dotto e il popolaresco. All’altezza del 1887

egli partecipava ancora al clima della cultura carducciana e studentesca di Bologna; o piuttosto sembra partecipare: si legga la lettera dedicatoria degli «Apologhi» a Giulio Vita («... Tu, ingegnoso giovine, potresti imaginare che io li avessi tratti da qualche codice obliato; e allora ben sai che sarebbero opportuni... E i dotti e gli studiosi mi farebbero della loro schiera onorata»), dalla quale emerge che la partecipazione è illusoria. La tarsia di Nozze è, in realtà, lontanissima da una adesione sentimentale, di tipo carducciano 0, 4 minori, severiniano, ai «brevi dî che l’Italia |Fu tutta un maggio, che tutto il popolo |Era cavaliere»; e financo da una adesione formale, la quale comporterebbe un’archeologia linguistica omogenea, mentre qui volutamente contrastano, per salti di colore, tessere nuove, dotate di un’acuta intensità (il «picchierellar trito di stelle», il «tintinnire» del cielo, i «boschi fumiganti d’oro», l’«albor di neve», l’«inno come uno

zampillo»), tessere greche e in veste greca, che addirittura lacerano lo schema prosodico della prima quartina, conservando solo effetti di assonanza”, e tessere medieveggianti,

parte auliche e parte domestiche. Chiusosi nel citcolo inaccessibile, il «mago» ha chiamato forze antiche e nuove, classiche e anticlassiche, a comporre strutture di fuga dai valori convenzionali della /azgue sia sociale sia poetica. Il criterio interpretativo proposto dal Contini nel suo già citato contributo alla critica pascoliana è dunque valido anche per questo madrigale, a prima lettura cosî determinato, cosî gemmeo, a 15 Il Felcini ha ben rilevato il graduale affinarsi, intensificarsi, trasfigurarsi delle immagini e delle parole dalla prima alla definitiva redazione di questa poesia (Prezzesse a una rilettura del Pascoli cit., pp. 264 sgg.). Si tratta, a volte, di una vera e propria trasvalutazione, come quando dalla sudata onomatopea italiana, ligia all’acustica e alla metrica «Non so che miele addolci tutto in giro, |l’acque e i giuncheti nell’ombria tranquilli: |Zi zizi ziro ziro ziro ziro | zullullullullullullullillillilli », si passa alla gratuita e libera onomatopea greca, che alla suggestione della pregrammaticalità somma l’incanto di una grammaticalità preclusa (o fra Fazio!): «Le campagne addolcî quel tintinnfo | e i neri boschi fumiganti d’oro. | TLÒ TIÒ TIÒ TLÒ TLÒ TLÒ TIÒ Tuò. | topotopotOpoTOROTIE. | TOPOTOPOTOPOTOPO MAME ». È difficile dire quanto il novissimo Pascoli debba ai suoi maestri greci e latini. Contini ha ben individuato uno dei suoi virtuosismi onomatopeici, lo scivolare dalla pura onomatopea verso la parola grammaticale o viceversa: «vide... vide... videvitt»; «finch... finché non vedo»; «anch'io chio chio chio chio» (op. cit., pp. 33, 37); ebbene, esso non è invenzione del Pascoli, ma di Aristofane: «Torororororo où ll’ de EXkETE; TITLTLTLTLTLTL tiva XbY0v...;» (Uccelli, vv. 310 sgg. ed. Coulon).

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FRA GRAMMATICA

E RETORICA

meglio guardare cosî ricco di tensioni, rotture, elusioni, dove tutto è trasposto, tutto è translinguistico. Siamo in presenza di un prodotto espressionistico assurdamente e quasi vendi-

cativamente ottenuto entro una forma metrica chiusa ed arcaica e con elementi in buona parte classici ed eletti; puntando sui pieni anziché sui vuoti, sulle note anziché sui silenzi della partitura”. L’agnizione del Boccaccio nei versi del Pascoli svela dunque un fenomeno di tutt’altra natura che non l’agnizione dei Promessi sposi dentro Pinocchio. Il breve intervallo di tempo fra il Manzoni e il Collodi e l’essere le idee e l'esempio del primo tuttora operanti nella società letteraria in cui il secondo scriveva, ci hanno condotto a sentire il rapporto come istituzionale e progressivo, quale affermazione delle vitali esigenze linguistiche bandite dal Manzoni e proiezione del suo mondo stilistico. Tra il Pascoli e il Boccaccio il rapporto non è che occasionale e regressivo, quindi non dinamico; un rapporto fuori, anzi contro l’una e l’altra langue, simbolico. Il riaffacciarsi del certaldese non può dunque valere come una ultima testimonianza del suo secolare contrastato magistero nella storia della lingua e dello stile italiani; magistero di cui sarebbe prezioso accertare la fine, giacché con esso sono finite e cominciate molte altre cose. !* Che il momento parnassiano del Pascoli sia qui del tutto superato mi pare evidente. Su quel parnassianismo è totnato per ultimo C. PELLEGRINI nell’articolo Esercizi poetici in lingua francese di Giovanni Pascoli (in Studi in onore di Italo Siciliano, Firenze 1966, pp. 963-73), assai notevole anche per il fatto che, pubblicando quattro inedite poesie francesi del Pascoli, ha confermato la tendenza del poeta ad evadere, con qualsiasi mezzo e per qualsiasi via, dalla lingua (poetica o strumentale) di tutti; tendenza che Contini ha elevato, con feconda intuizione critica, a vocazione.

L’Orlando innamorato rifatto da Francesco Berni, col commento di Severino Ferrari *

Alexandro Ronconi sexag. natalem celebranti

Quali fossero i moventi psicologici del Rifacimento bernesco (di gara con l’avverso Pietro Aretino, cui pure «fu di

pensiero lo emendare l’Innamoramento del Conte», o addirittura con l’Ariosto, notoriamente applicato dopo il 1521 all’ultima revisione del Furioso) lo ha divinato con fin troppa passione Antonio Virgili nel suo d’altronde ricco e generoso saggio del 1881'. Ma quali ne fossero i moventi culturali, ben altrimenti certi e positivi, l’ha dichiarato con eleganza puristica Ezio Chiorboli nella sua edizione critica delle poesie e delle prose del Berni: «... avendo con le Prose della volgar lingua fino dal 1525 segnato il Bembo fuori di Toscana e fermato e imposto in diritto quello che già era in fatto, il trionfo del volgar fiorentino, tutto ciò che dalla fiorentina levigatezza d’eloquio si straniava era fastidito;... l’interiore arte dell’invenzione non s’aveva più arte se non si disposava felicemente all’arte esteriore dell’espressione; e l’espressione in arte non si nobilitava e riluceva se intesta di lane ispide a fogge di contado anzi che di sete signorili in be’ modi variate di drappi molli e delicati velluti in cittadine costumanze. Il poema del Boiardo sentivano avere il primo de’ due pregi, si rammaricavano anche non avesse il secondo, entro opera d’arte senza dubbio, fuori senza dubbio ingrata sordidezza. Il 1516 apparve l’Orlando furioso, riapparve il 1521; e piacque, e ridestò il desiderio del Boiardo; e sapevasi l’Ariosto vi rilavorava attorno di pomice in una insoddisfatta solleci* Presentazione della ristampa anastatica dell’edizione Sansoni nella «Biblioteca Carducciana», Firenze 1911, procurata dallo stesso editore nel 1970, pp. VII-XXIV. 1 Francesco Berni per A. V. Con documenti inediti, Le Monnier, Firenze 188I.

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FRA GRAMMATICA

E RETORICA

tudine di perfezione: oh se anche l’altra parte, il principio del racconto bello, fosse riapparsa innanzi tersa e polita! Conciatori e riconciatori, in quelle un po’ dappertutto dispute della lingua, non mancavano; Dolci e Ruscelli c'erano a bizzeffe, e sconciavano l’alma poesia e la prosa maestrevole,

fin il Boccaccio. Stava per tirarsi su le maniche alla magna impresa l’Aretino, se le tirò su per davvero il Dolce, e il Domenichi ebbe favore; solo, e meritatamente, riportò la palma il

Berni». Oggi tuttavia possiamo fare di quei moventi, e dei loro frutti, un inventario assai più ricco, senza restringerli a mero

edonismo (cui approdasse, sulle rive della lingua, il platonismo umanistico) e senza disconoscere la legittimità di un esercizio di poesia sulla poesia; genere, questo, coltivato nel corso di tutta la nostra letteratura, nella specie della traduzione o della imitazione o della conversione, qualunque ne fossero modi e ragioni caso per caso. Nulla vieta di collocare sullo stesso fronte del Rifacimento bernesco la traduzione fiorentina dei Promessi sposi, la traduzione in versi italiani della prosa dei canti di Ossian e di quella degli Idilli di Gessner, e perfino gli adattamenti scenici o filmici di opere narrative, o l’«aggiornamento» di antiche opere teatrali, autorizzato da un competente come Pirandello: «Il Teatro non è archeologia. Il non rimettere le mani nelle opere antiche per aggiornarle e renderle adatte a nuovo spettacolo, significa incuria, non già scrupolo degno di rispetto. Il Teatro vuole questi rimaneggiamenti, e se n’è giovato incessantemente, in tutte le epoche ch'era più vivo... Perché l’opera d’arte, in teatro, non è più il lavoro di uno scrittore,... ma un atto di vita da creare, momento per momento, sulla scena, col concorso del pubblico...» °. Né è da credere che la disponibilità dell’opera d’arte sia il risultato di una poetica oggettiva e sociologica, antitetica a quella che riconosce il diritto di rimaneggiamento al solo autore. Nella stessa età, o quasi, del Berni vediamo da

un lato il Sannazaro rielaborare la propria Arcadia e l’Ariosto

il proprio poema, dall’altro il Castiglione lasciare che Giovan ? FRANCESCO BERNI, Poesie e Prose, criticamente curate da E. Chiorboli, «Biblioteca dell’“Archivum Romanicum” », vol. XX, Ginevra-Firenze 1934, p. XXVI. dati PIRANDELLO, I ntroduzione al teatro italiano, in Storia del teatro italiano, a cura di S. D’Amico, Bompiani, Milano 1936, pp. 25 sg.

L’«ORLANDO INNAMORATO»

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Francesco Valerio toscaneggi alla bembesca il Cortegiaro in vista della stampa‘. La vasta operazione di adeguamento che ferve presso gli scrittori, i grammatici e le officine tipografiche, e che produce una cospicua serie di edizioni vulgate, a cominciare dalle aldine curate dal Bembo, è la conclusione di un orientamento più che secolare, di una decisione irrevocata della società colta italiana; decisione in cui entrano e agiscono, di età in età, di

ambiente in ambiente, di scrittore in scrittore, fattori diversi — estetici o pratici, individuali o sociali — e di cui l’unificazione linguistica è piuttosto l’effetto che lo scopo. Onde la necessità, da parte nostra, di studiare e documentare il grande fenomeno con una filologia non già repressiva e rivendicante (quale per reazione si affacciò fin dalla seconda metà del secolo con Vincenzio Borghini), ma comparante e prospettiva, che cioè inverta l’ordine canonico dell’apparato puntando sulla lezione rimaneggiata. Una storia letteraria troppo estetizzante, troppo attenta

agli individui e d’altro canto intesa a livellare sotto il generico denominatore di una fiorentinità trionfante la varietà regionale della cultura italiana non dispone di mezzi adeguati a valutare il Rifacimento del Berni; neppure, oserei dire, co-

me documento del prestigio fiorentino: giacché nella stessa Firenze l’autorità del Bembo instaurava la consapevolezza di un’opposizione, e quindi di una scelta possibile, tra una tradizione linguistica continua, vivente e saldante l’antico al moderno, lo scritto al parlato, e un modello di lingua fiorentina

sf, ma sottratta al tempo e allo spazio e divenuta idolo. Ne sorse una perplessità che, ignota al Machiavelli, indusse il fiorentinissimo Guicciardini a porsi, in riferimento alle regole bembiane, quesiti sulla scelta tra forme concorrenti’, e inquietò grammatici come il Varchi e il Borghini fra l’ossequio al Bembo e il gusto della lingua parlata; e ne usci col tempo una scissione della stessa tradizione letteraria, con più decisa opposizione di livelli, toni e generi. Ma nemmeno l’affermar+ Cfr. 6. GHINASSI, L'ultimo revisore del « Cortegiano », in «Studi di filologia italiana», XXI, 1963, pp. 217 Sgg. 5 G. NENCIONI, Fra grammatica e retorica. Un caso di polimorfia della lingua letteraria dal secolo x111 al xvi, in «Atti dell’Accademia toscana di scienze e lettere “La Colombaria”», XVIII, 1953, € XIX, 1954, pp. 123 sgg. dell’estratto.

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FRA GRAMMATICA

E RETORICA

si di una considerazione geografica e l’integrarsi del giudizio estetico nell’ambientamento storico-culturale hanno tolto il Rifacimento da un’attenzione isolata ed episodica; anzi, la rivalutazione critica del Boiardo ha accentuato lo sbrigativo fastidio dei lettori moderni‘. Indubbiamente ha pesato sul Berni l'aggravante che non poteva farsi pesare su Luigi Pulci nei confronti dell’anonimo Orlando: di aver manomesso un poeta ben maggiore di lui. A Severino Ferrari, convinto, col suo maestro Carducci,

della grandezza poetica del Boiardo, pareva — secondo la testimonianza di Giuseppe Albini, curatore della scelta e del commento lasciati incompiuti dall’amico alla sua morte nel 1905 — che, «come a maggior ragione l’originale, anche il rifacimento, pur con in margine notati i richiami a quello, avesse a studiarsi da sé e per sé; come opera che, incomparabilmente minore, per la virtii creativa e il certo carattere epico,

di quelle del Boiardo e dell’Ariosto, riman sempre... rilevante e attraente» (Pref., pp. Iv sg.). Ma in verità sia il testo che il commento dell’antologia del Ferrari sono informati ad un criterio comparativo. La presentazione tipografica del testo, intanto, è stratigrafica: a differenza della precedente antologia del Virgili, che recava affrontati i testi del Boiardo e del Berni”, in quella del Ferrari il più o meno superstite strato boiardesco è isolato e quasi stereoscopicamente rilevato da apici all’interno dell’ottava bernesca. Ma l’espediente, benché ingegnoso, è rigido e quindi approssimativo: gli manca — che non è poco difetto — la possibilità d’indicare gl’interventi minori e minimi del Berni, che vengono però denunciati dal commento e che sono tutt’altro che trascurabili. Se infatti talvolta ad una forma ferrarese è stata sostituita la fiorentina («Ma bisogna che tutti m’aiutiate» invece di «... m’a° Peri giudizi più recenti — alcuni assai acuti nella loro brevità — si vedano L. russo, Storia della letteratura italiana, Sansoni, I, Firenze 1957, pp. 524-26; M. MARTI, Francesco Berni, in AA.vv., Letteratura italiana. I Minori, Matzorati, Milano 1961, pp. 1103, 1107 (poi nel volume dello stesso Marti, Dal certo al vero, Ateneo, Roma 1962); E. BONORA, in AA.vv., Storia della letteratura italiana. Il Cinquecento, Garzanti, Milano 1966, pp. 290 Sgg., 503 Sg.; G. BARBERI SQUAROTTI, in F. BERNI, Rizze, Einaudi, Torino 1969, p. XXX.

" MATTEO MARIA BOIARDO, Orlando Innamorato, stanze scelte, ordinate e annotate ad uso delle scuole... per cura di Antonio Virgili, col testo a fronte del Rifacimento di Francesco Berni e coi proemi del Berni medesimo nei singoli canti, Sansoni, Firenze 1892.

L’KORLANDO

INNAMORATO»

I45

iutati», II, 16, 25)°, ad un singolare un plurale («le disîate cose ad ottenere» invece di «la disiata cosa...», I, I, 8),

ad un asindeto un costrutto sindetico («Cento e cinquanta mila cavalieri» invece di «Cento cinquanta mila...», I, 1, 10)

e simili, più di frequente è stato invertito l’ordine delle parole e modificato il ritmo del verso, o addirittura rinnovato il lessico: per es. «Io fui e ancor son tua mentre son viva» invece di «Io fui e son tua ancor mentre son viva», I, 12, 54;

«Valenza arsa è, e disfatta Aragona» invece di «Arsa è Valenza...», I, 4, 12; «sentir cantar d'Orlando innamorato» invece di «odir cantar...», I, 1, 5; «ché per te son io buono in ogni lato» invece di «ché a te son io bastante...», I, 3, 66;

«giunse l’Alfrera quell’altro arrabbiato» invece di «... Al frera quell’ismisurato», I, 4, 55; «di quella graziosa creatura» invece di «di quella mansueta...», I, 8, 37, e cosî via.

Ognun vede quanta escursione di varianza abbiano i versi indicati dall’apicatura come pertinenti allo strato originario e quanto poco giovi ad una lettura goduta un ingombro siffatto, che divide il lettore tra il desiderio del testo vecchio e la sopraffazione del nuovo, insinuandogli a priori la convinzio-

ne di un incrocio bastardo. Non bisogna infatti dimenticare che i poemi cavallereschi come i loro parenti poveri, i cantari, erano prodotti ad alto quoziente comunicativo e quindi volti, almeno virtualmente, all’intrattenimento di gruppi più che di individui, come dimostrano i proemi, i congedi e gl’incisi allocutivi di tutti, incluso, nonostante la dedica personale, il Furioso. Non meno del lettore o ascoltatore antico, che per circa tre secoli ha negletto il testo originale, il moderno avrebbe diritto di godersi il testo andante del Berni, come si gode quello della terza edizione del Furioso o quello — per restare nella linea del «romanzo» — dei Promessi sposi 1840. Ma nell’aura della «scuola storica» bolognese il carducciano gusto della lettura di poesia doveva passare attraverso lo studio delle fonti e la illustrazione filologico-erudita; tanto più dopo il precedente degli studi berneschi del Virgili e del suo insistito raffronto, sia critico che editoriale, tra i due Inzamorati. Nella stessa aura e sullo stesso fondamento comparatistico si costituf la specifica bibliografia critica di quegli anni, * Cito dall’apparato del Ferrari. Il confronto con l’edizione dello Zottoli, anch’essa provvisoria, mostra che il testo boiardesco su cui quell’apparato si fonda è già, rispetto all’originale, una vulgata toscaneggiante.

FRA GRAMMATICA E RETORICA

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dal Mazzoni al Micheli alla Belsani al Nediani e all’Azzolina”; e comparativa, in aure diverse, è la parca attenzione che la critica letteraria ha rivolto più recentemente al Rifacimento,

fino alla «vivace e stimolante pagina» (come ben la segnala il Marti) che Luigi Russo gli ha dedicato nella sua Storia della letteratura italiana". Viene quindi da porsi la domanda se tale debba essere la chiave di lettura di un’opera come questa, e, nel caso affermativo, per quale ragione. Imboccata la via della comparazione, il commento del Ferrari accompagna i rilievi filologici con apprezzamenti di gusto e di valore. A volte la preferenza è più o meno implicita, come nella nota a I, 1, 38 «Vivissimo il Boiardo [segue la citazione dell’ottava sostituita dal Berni]», a I, 1, 24, 5-8 «Diversamente e con molta freschezza il Boiardo...» e a1, 15,29,

3-5 « “quivi era quel bel viso al quale il latte |senza l’ostro e rubin solo è rimaso |per la paura”: Vuol dire, con troppo artifizio, che Angelica è diventata bianca per paura. Il Boiardo: “Angelica ben presso gli è davante, |che trema come foglia la meschina” ». A volte si tratta di una differenziazione del modo: «Il Berni ha aggiunto di suo... per compiere, al solito, la pittura della cosa o del personaggio», I, 1, 74; «Queste stro-

fe mostrano bene i modi del rifacimento del Berni coll’aggiungere e riordinare di suo e col preferire il discorso diretto all’indiretto per accrescimento di vivacità», I, 4, 67-69; a

volte di un giudizio esplicito: I, 9, 55 «ed a piè converratti cavalcare»: «Il Boiardo è meno arguto: “E converratti a piedi camminare” »; II, 28, 35: «la bocca sollevàr dal fiero pasto, |crollando i crini i lioni e la testa»: «Il distico del Boiardo è più franco e senza l’abuso del verso dantesco: “tutte le fiere abbandonaro il pasto, |squassando i crini ed alzando la testa” »; II, 29, 1:

«Proemio del Berni, su la difficoltà e con-

venienza a un tempo che i potenti odano dirsi la verità... Bello: ma il principio del Boiardo... era d’intonazione epica»; II, 31, 30, 7-8: «Pit semplice il Boiardo...»; II, 31, 35, I:

«Pit bello il principio del Boiardo...»; II, 31, 49, 1-2: «Più bello e franco che il testo [originale]»; II, 31, 50, 1:

«Dan-

zavan quelle belle donne intorno»: «Qui invece non è dubbio che la musica del testo intonava meglio, con pit bell’on° Vedila in CHIORBOLI, op. cif., p. 396. !° Vedi i rinvii nella nota 6.

L’ «ORLANDO INNAMORATO»

147

da: “Le vaghe dame danzavano intotno”»; II, 31, 53, 7-8 «Boiardo: “Addio, amanti e dame peregrine: |a vostro onor de questo libro è il fine”. Pit semplice e cordiale. Elegantissimo il Berni, che qui ebbe a mente senza dubbio il virgiliano a te principium, tibi desinet, Buc., VIII, 11»; III, 1, 1: «Proemio del Berni, con più eleganza o eguaglianza ma meno spirito epico di quello del Boiardo»; III, 1, 48: «... Non pare che venga opportuna questa interruzione del tono epico. Giova ricordare la stanza del Boiardo, piena al solito di efficacia: ...»; III, 2, 61, 5-6: «Pi semplice e vivace [il Boiardo]. Ma il Berni è molto fino, e migliora il verso seguente...»; III, 5,1, 8: «Vero e ben detto; ma ci senti pit il Berni dei capitoli che il tono dell’Orlando Innamorato»; III, 5, 36, 5: «Boiardo: “Si pose disperata a la marina”. Ch’è fors’anche

più bello: ma ognur più bello, com'essi dicevano [cfr. III, 5, 30, 4]» ecc.

Curioso è, per noi, che il Ferrari presenti talvolta gl’interventi del Berni come «emendamenti»: ad es. III, 5, 33, 6 «con tanta gente armata in nave, in sella» dal Berni «bene emendato» «con tanti armati in nave e ne la sella»; III, 5, 33, 7-8 «distese le sue insegne insin in Puglia, |e tutta Italia scompiglia e ’ngarbuglia» in luogo di «coperse sî di gente insino in Puglia, |che al vuoto non capea punto di aguglia», «emendato anche qui bene»; o III, 7, 62, 4 «e gli altri agli

altri dui ch’eran nel coro» in luogo di «... senza dimoro» («Felice l'emendamento, tanto più che coro è opportunissimo per gente che danza e canta»). Altrove il Ferrari parla della opportuna eliminazione di «rime licenziose» o «licenze scorrette», per es. in II, 31, 47,7-8e in III, 3, 58, 2; o loda il Berni per avere aggirato un arcaismo rendendo «cuoio bisillabo, che per la pronuncia moderna è più giusto» (III, 2, 27, 3). Pit addentro nella poetica del Berni penetra il commentatore quando rileva in III, 1, 13, 1 l’espunzione della rima sdrucciola. In realtà il Berni, che nei capitoli e nei sonetti, cioè nella sua produzione più personale, evita tanto la rima sdrucciola quanto la tronca, coerentemente le sopprime nell’Orlando innamorato, dove il Boiardo le usava — per citare due casi esemplari — con effetti più che descrittivi espressionistici, come nella danza donnesca di III, 2, 30-31: Voltosse, e vidde a sé più dame intrare che a copia ne venian menando un ballo,

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FRA GRAMMATICA E RETORICA

vestite a nova gala e strane zacare, suonando dietro a lor zuffoli e gnacare. Lor, scambiettando ad ogni lato, sguinceno, con salti dritti se innalciano a l’aria; cosî danzando, una canzon comincieno di nota arguta, consonante e varia; e con le voci, ch’e stormenti vinceno, fan rintonar la tomba solitaria...;

o nelle provocazioni amebee dei suoi equites gloriosi, come in LIL 7245: Diceva il conte: — Che bufonchie, che? Prima che quindi te possi dividere, tante te ne darò che guai a te, e insegnarotti in altro modo a ridere. — Rispose a lui Gradasso: — Per mia fé! Se omo del mondo me avesse a conquidere, esser potrebbe che fusti colui; ma in verità né te stimo né altrui. —

Il Ferrari nota (p. 341) che questa, con altre ottave, è addirittura saltata nel Rifacimento, forse perché il Berni «ormai s’era stanco e voleva finire» "; noi, a scongiurare il sospetto dell’insufficienza dell’artifex additus, possiamo elencare in via di esempio altri passi in cui il livellamento sul numero parossitono è stato effettuato: Boiardo, II, 10, 27; 11, 15;

12, 38; 13, 55; 15, 62; III, 3, 40; 3, 56-57; 6, 20; 6, 48; e rispettivamente Berni, II, 10, 28; 11, 17; 12, 40; 13, 57;

15, 64; III, 3, 42; 3, 59-60; 6, 24; 6, 53. È da presumere che tale livellamento sia stato cosciente e sistematico e con esso il fiorentino Berni abbia inteso ripudiare uno stilema cui nel Quattrocento avevano fatto largo ricorso il Pulci e il Poliziano. E va notato che il ripudio è non solo diretto, ma anche indiretto, cioè sono state eliminate quasi tutte le rime ossitone mascherate da vocale paragogica (anch’esse largamente presenti nel Morgante), ad es. nei casi di III, 2, 20; 7,27 € 28 (rispettivamente Berni, III, 2, 25; 7,33 € 34); ecid è sta-

to ottenuto, nei casi di maggior fedeltà al contesto originario, alterando l’ordine delle parole o sostituendo le forme verbali epitetiche con forme prolungate dall’enclisi della particella !! Un altro salto è quello dell’ottava 53 di II, 18, i cui primi sei versi sono a rima ossitona. Ed è notevole che in II, 20, 25 l’eliminazione della rima ossitona comporti anche l’eliminazione della battuta provocatoria (cfr. Berni, II, 20, 28).

L’«ORLANDO INNAMORATO»

149

pronominale (ad es. calossi, dileguossi, trovossi invece di se

atuffoe, si dileguoe, si trovoe in III, 7, 28 [Berni, III, 7, 34]); espediente, quest’ultimo, che è servito anche alla eliminazione delle nude rime tronche (ad es. spezzossi, tornossi,

puossi invece di se spezzò, abandonò, può in III, 3,45 (Berni, III, 3, 48]). Ed è lecito supporre — a mostrare la plurivalenza ell’operazione bernesca — che l’espunzione delle parole con vocale paragogica, se indirettamente procurava la scomparsa delle rime tronche, più direttamente rimovesse forme sentite insieme troppo demotiche ed arcaiche, per di più adombrate dal Bembo come «licenze» verso cui si deve essere guardinghi sia in poesia che in prosa ‘. Importa però non dimenticare che nel ripudio dello stilema della rima non patossitona il Berni aveva avuto un predecessore e un modello: l’Ariosto. La rara comparizione nel Furioso (che pur accoglie l’artificio della rima composta: ad es. suor ze di XXXVII, 26, rimante

con donne e gonne) di rime sdrucciole e tronche costituisce un’eccezione di alto valore informativo: si pensi al caso di I, 56 («Forse era ver, ma non però credibile...»), dove il du-

plice ribadimento dell’ambiguo suffisso -ibile spiccante in rima su un contesto dominato dalla norma parossitona diviene l’esponente semantico-ritmico dell’ironia. Ma, per non dilungarci dal Ferrari, dobbiamo riconoscere al suo commento un altro merito, che probabilmente sarebbe stato messo in luce dalla prefazione che all’autore fosse stato concesso di scrivere. Tocca invece a noi dire che le frequenti indicazioni delle certe o possibili fonti linguistiche e stilistiche del Berni, a chi le sottragga alla dispersione delle note e le stringa in una considerazione organica, offrono un illuminante aiuto per l’interpretazione del Rifacimento. Ecco delle costanti significative: alle reminiscenze petrarchesche del Boiardo si aggiungono, più abbondanti e più precise, quelle del Berni; le tessere dantesche si accrescono di molto, talora con la cruda citazione d’interi versi; sentito è anche il modello dell’Ariosto, con cui pare s’instauri, talvolta, una gara a dispetto (ad es. in I, 27, 8, dove in una ottava nuova di zecca

il Berni gira al furbesco la celebre similitudine del Furioso, II, 5 «Come soglion talor duo can mordenti...»); e il Pulci 1? PIETRO BEMBO, Prose della volgar lingua, a cura di C. Dionisotti, Utet, Torino 1931, p. 145.

I50

FRA GRAMMATICA

E RETORICA

ammicca di quando in quando da un comune sfondo umoresco e linguaiolo, a cui risalgono le locuzioni, i modi proverbiali e i paragoni idiomatici («attaccare un mercato», I, 2,

57; «il soccorso di Pisa», I, 2, 68; «infilzare com’un tordo o com’un ranocchio», I, 3, 5; 1,4, 77; «accorgersi della ragia», I, 13, 29; «fare il messere», I, 7, 53; «mandare alla morte carta bianca», I, 9, 13; «avere sulle corna», I, 20, 53 ecc.)

che trapungono il testo e che il Ferrari si cura di segnalare come innovazioni del Berni. Né bisogna sottovalutare due osservazioni episodiche ma capitali del Ferrari: quella che rileva, nonostante l’assunto toscanizzante, la conservazione in

rima dell’emilianismo pazza, «mantenuto in rima, e quasi per celia, pur da un altro toscano, il Forteguerri (Ricciardetto): “la malizia e l'ignoranza |stanno nel largo a grattarsi la panza” » (p.14,aI, 2, 3); e quella a daron drudo di I, 2, 48,

4 (p. 19), che ribatte l’appunto del Virgili, essere i baroni del Boiardo drudi, arguti, adorni, soprani, pregiati ecc. per tirannia di rima, con la modesta ma pregnante risposta: «Credo piuttosto che fossero aggettivi convenzionali»; pregnante nel senso che centra la questione dell’epiteto formulare epico, appannaggio del «genere» e come tale, a malgrado della castità epitetica del Furioso, conservato dal Berni in ragione del suo destreggiarsi tra il sublime ariostesco e il canterino del Pulci e del Boiardo. Il commento del Ferrari ci svela cosî alcune delle pedine del gioco bernesco nello scacchiere linguistico-retorico. Gioco «fiorentino», ma di una Firenze cinquecentesca e sensibile alle sollecitazioni del Bembo. Quindi un più diretto e paradigmatico contatto col Petrarca, e al tempo stesso una incombente memoria di Dante; lo scrostamento del colore emiliano, non senza conservare, secondo un antico costume fioren-

tino di allusione idiomatica, qualche emilianismo a contrasto con un fiorentino sentito consapevolmente come una tradizione unitaria e continua, cioè fondente con l’eredità delle tre

Corone la vivezza del parlato; un parlato però assunto in un manieristico compiacimento e quindi divaricato fra gli estremi del motteggiare popolaresco e della trovata verbale. Ov-

viamente, trattandosi di un’operazione relativa a un «genere», il Berni si è rifatto a due modelli recenti: al Furioso, che costituiva il superamento cinquecentesco e progressivamente

bembiano, in una corte cavalleresca, della sfrenata epicità del

L’ «ORLANDO

INNAMORATO»

I5I

Boiardo, e al Pulci che voltando in una corte borghese in canzonatura la popolarità canterina forniva a distanza il mezzo di tendere intellettualmente la corda bassa della cetra scandianese. Elementi lessicali come badalone e ragazzone di I, 3, 8, mignone di I, 7, 69, 3, locuzioni come fare sciarra di I, 5,44, 1, spennacchiato «confuso, sbigottito» di I, 29, 53, 3, sono dati presenti nel Morgante dallo stesso Ferrari; ma

il rinvio potrebbe essere esteso. Resterebbe però deluso chi si aspettasse una sostituzione dell’elemento emiliano col fiorentino (o di adozione fiorentina) 44 verbum. Non si tratta

quasi mai di ciò: se, ad es., il citato fare sciarra «attaccar lite» ripara una situazione rimica non accettabile in fiorentino (Boiardo, I, 5, 39: «... s'appara |... sbara |... simitara»), badalone e spennacchiato sostituiscono gigante e smemorato (Boiardo, I, 3, 6, 1 e I, 29, 52, 3); il quale ultimo, che il Berni conserva in I, 9, 77, 6, dove indica coloro che, per aver

passato il fiume dell’oblio, sono in senso proprio smemorati, ha ceduto più facilmente il passo sotto la pressione di un intero verso pulciano («Rimase Orlando tutto spennacchiato» di I, 29, 53, 3 è infatti identico in Morgante, XVI, 57, 1 [l’edizione Ageno legge «spennecchiato»], e ricopre il gemello Boiardo, I, 29, 52, 3 «Rimase il conte tutto smemorato»

[cfr. il commento del Ferrari a p. 177]); pressione, quindi, non linguistica ma poetica e coincidente col gusto di drogare la limpidità boiardesca. Non di una traduzione dunque, ma di un rifacimento si tratta, come lo stesso Berni dichiarò al

doge di Venezia nella richiesta di privilegio editoriale del 1531, e ripeterono i frontespizi delle prime stampe; e come doveva essere il lavoro di un poeta sul testo di un altro. Dal che discende che sarebbe insensato pensare ad una equivalenza, sia pure intenzionale, tra il sugo emiliano del Boiardo e il sugo fiorentino del Berni: diversi, con la materia linguistica, i toni e i sensi, e diversa la distribuzione delle poussées inventive del Berni, di quelle «vivezze» o «fioriture» o «rifrondimenti » (come li chiama il Ferrari) con cui egli nel serio

e nel faceto ha voluto lasciare un segno tutto suo. Prendiamo un altro caso, minimo: «Archiloro il Negro» di Boiardo, I, 16, 28, 4 diviene in Berni, I, 16, 27, 4 «un Archiloro ghez-

zo», sui precedenti diretti del Morgante e del Ciriffo, ma anche su una vivace tradizione indigena per cui ghezzo, presente tutt'oggi nell’onomastica, oltre al colore della pelle («mo-

152

FRA GRAMMATICA

E RETORICA

ro») in senso anche specificamente etnico, aveva diffusione

rustica nella lingua degli agricoltori e nella botanica e fauna popolari della Toscana (cfr. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, s.v.). Più variamente motivabile è la sostituzione di perso a blavo, pet cui il verso boiardesco «porta nel blavo la luna de argento» di I, 2, 37 diviene «... porta in perso una luna d’argento» nel Berni (I, 2, 39), che tuttavia conserva blava (addomesticato in biava) nella rima di II, 29, 14, 6 «e Pulian nella bandiera biava», da «e Puliano alla bandiera blava» di Boiardo, II, 29, 10, 6. Ora, perso, a giudicare anche dalle attestazioni, doveva essere termine tradi-

zionale alla tintoria fiorentina, e comunque sentito più indigeno di biavo; e d’altro canto, avendo l’aggio del prestigio dantesco, consentiva al Berni, insieme con altri elementi con-

generi, di mantenere aperte le polarità e le escursioni della sua prospettiva idiomatica. Il «popolare» del Berni non avrebbe mai potuto intonarsi a quello del Boiardo. Fosse una diversa struttura sociale o una più democratica distribuzione della cultura, fatto sta che nella Firenze del Quattro e del Cinquecento, come temi e modi della poesia culta discesero in forme popolari, cosî la poesia popolare o popolareggiante ascese spesso a forme cultissime e gli esperimenti espressionistici furono assunti in am-

bito accademico . Se nelle Rime il «metapopolare» del Berni centrifugava la passività propria del popolare col buratto dell’inventiva verbale, qualcosa di simile, nonostante l’impaccio del testo primitivo, doveva avvenire per il poema. È cosf che si può spiegare la rarefazione, nel Rifacimento, di quegli epiteti epici che per la loro incalzante frequenza, specie in rima, costituiscono una delle passività tipiche del linguaggio canterino: adorno, adatto, gagliardo, franco, drudo, soprano, audace, pregiato, altiero, possente ecc. "; epiteti che dovevano essere, in questo uso specifico, già logori al tempo di Dante, se proprio Dante sembra parodizzare il modo canCfr. G. CONTINI, in Colloquio su Firenze e la lingua italiana, nel volume miscellaneo Studi fiorentini della Libera cattedra di storia della civiltà fiorentina, Sansoni, Firenze 1963, p. 412. ! Su tale argomento si veda, per ultimo, il lavoro di R. ALHAIQUE PETTINELLI, L’Orlando Innamorato e la tradizione cavalleresca in ottave, II: Raffronti di lessico e di stile, in «La rassegna della letteratura italiana», 1969,

PP. 395 Sgg.

L’ «ORLANDO

INNAMORATO»

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terino in Ixf., XVII, 71 («gridando: Vegna il cavalier sovrano...»). Ma ecco l'ambiguità del Berni «epico»: mentre ac-

cusa il fastidio dell’inerzia e quindi rozzezza di quell’epitetica, egli ne considera il valore rituale, emblematico, e perciò decide di sublimarne qualche traccia: cosî, ad es., mantiene il baron drudo di Boiardo, I, 2, 46, 4 (Berni, I, 2, 48, 4), in grazia fors’anche del suo carattere ormai peregrino; risolve in predicato di proposizione relativa l’epiteto di Boiardo, I, I, 33, 3 «ma Ferraguto, il giovenetto ardito» (Berni, I, 1,

38, 3 «Ferrat, che degli altri era più ardito»), ma lo conserva in I, 2, 43, 8 «un basalisco porta per cimero | di sopra a l’elmo lo ardito guerrero» (cfr. Berni, I, 2, 45, 8 «di sopra

l’elmo l’ardito guerriero»), e nella stessa strofa rispetta, salvo l’inserimento del dittongo, il verso originale «Era la insegna del guerrero adatto»; e si fa persino promotore di un adatto in rima (I, 18, 41, 5 «quanto ti veggo più gagliardo e adatto») sostituendo una consacrata dittologia canterina all’equivalente ma diversa del Boiardo (I, 18, 36, 3 «Quando sei — disse — più franco e soprano»), o addirittura inaugura 4dorno (I, 1,73,5 «Montaa cavallo il giovinetto adorno») dove

nel Boiardo mancava ogni epiteto per essere diverso l’argomento (I, 1, 68, 5 «ogni animal che quivi era d’intorno»), comparendo invece un frazco nell’ottava seguente (69, 1

«L’elmo affatato il giovanetto franco...»); cioè giunge persino a riplasmare le ottave del Boiardo con materiali di spoglio. Anche per istituti sintattici tradizionali alla narrativa in versi il Berni procede allo stesso modo, con soluzione di compromesso. È il caso del trapassato remoto in proposizione principale, con valore a volte aspettuale, a volte di alternativa al passato remoto per maggiore facilità rimica; fenomeno certo grammaticale, ma anche stilisticamente contrassegnato, per aver preso piede in testi di livello medio o demotico e soprattutto nella narrativa metrica popolareggiante °. Ora, i trapassati remoti in proposizione principale nei quali mi sono imbattuto scorrendo il testo originale, nel Rifacimento sono in genere stati soppressi: ad es. quelli di Boiardo, II, 15 Cfr. R. AMBROSINI, L’uso dei tempi storici nell’italiano antico, in «L’Italia dialettale», xxIv, 1960-61, pp. 13 sgg. Il Bembo, nel terzo libro delle Prose, aveva notato l’uso sempre relativo di tale tempo, anche se in proposizione principale; Prose della volgar lingua, a cura di C. Dionisotti, Utet, Torino 1931, pp. 129 Sg. 6

154

FRA GRAMMATICA E RETORICA

13, 50, 3 «... Dudone una mattina ebbe chiamati»; 14, 65, 3 «... il scudo de Dudone ebbe spezzato»; 15, 19, 5 «Il caval de Dudone ebbe pigliato...»; 18, 60, 1 «Onde fo presto al suo destrier salito...»; III, 2, 22, 5 «... addosso al cavallier se fu lanciato» (cfr. Berni, II, 13, 52, 3 «una mattina Dudone ha chiamati...»; 14, 70, 3 «ha già lo scudo a Dudone spezzato»; 15, 21, 5 «sopr’al caval di Dudone è montato»; 18, 58, 1 «Là onde tosto in sul destrier salito...»; III, 2, 27,

5 «a dosso a Mandricardo s’è gettato»). Ma c’è la volta che il Berni, sentendo il costrutto come arcaico e trito e tuttavia

del «genere» e assumendolo nel suo «metapopolare», lo introduce là dove non era: come nel suo attacco di ottava «Entrò nel gran steccato quel campione |e ’ntorno tutto l’ebbe passeggiato» (I, 2, 38), che corrisponde a Boiardo, I, 2, 36

«Cosî prese l’arengo quel campione, |e poi che l’ebbe intorno passeggiato...»

Tutti sanno che il prezzo della freschezza incondita del Boiardo è una crudezza innocente che giunge al turpiloquio ma non si arrotonda nel buftonesco. Il Berni castiga le parolacce dei cavalieri smargiassi, ma non resiste alla tentazione di pulceggiare in tono minore qualche episodio che si presta: quello ad es. del duello fra Grandonio e Astolfo di I, 3, 1-6, che nel Rifacimento (I, 3, 4-8) condensa le provocazioni ver-

bali e l’urto dei duellanti, per amplificare con paragoni grotteschi la fragorosa caduta del Saracino. Brani, poi, squisitamente acerbi come, nello stesso canto, l’arrivo di Rinaldo e di Angelica alle fontane dell’odio e dell’amore (I, 3, 32-42; Berni, I, 3, 35-49) vengono cincischiati con pedanti precisazioni

(«Un pino, un faggio, un ulivo sopr’essa |a chi sotto lor sta fanno ombra spessa», 41 [cfr. Boiardo «E facean ombra sopra a quella riva |un faggio, un pino et una verde oliva», 37]; «Rinaldo, che bevuto avea di quella, |lasciò star questa, ancor che fusse bella», 42; «fortuna gli manda |quel che non

cerca e quel che non domanda. |Come sempre intervien, che chi vuol lei |ella lo fugge, e vuol chi non la vuole», 43-44) e in trascinate antinomie inesistenti nell’originale: «Quei belli occhi seren non son più belli, |l’aria di quel bel viso è fatta oscura; |non son più d’oro i bei biondi capelli, |e brutta è la leggiadra portatura» ecc., 40; «Con questa intenzion (non

L’«ORLANDO INNAMORATO»

155

so se fiera | o umana mi dica, o dolce o dura)...», 41. Se nel Boiardo c’è una sosta meditativa, il Berni la ristucca con un

belletto devozionale e catechistico che preannuncia la crociata controriformistica. Ecco il mirabile episodio del dialogo notturno tra Orlando e Agricane, nell’originale: E ragionando insieme tuttavia di cose degne e condecente a loro, guardava il conte il celo e poi dicia: — Questo che or vediamo è un bel lavoro, che fece la divina monarchia; e la luna de argento, e stelle d’oro, e la luce del giorno, e il sol lucente, Dio tutto ha fatto per la umana gente. —

(I, 18, 41)

e nella versione bernesca: E l’un con l’altro insieme ragionando di cose belle e ben degne di loro, con gli occhi volti al ciel diceva Orlando: — Questo è certo un bellissimo lavoro,

mediante il quale Iddio ci va chiamando a contemplare e goder quel tesoro ch’è di questo più bel tanto e maggiore quanto questa è fattura e quel fattore. —

(I, 18, 46)

Impossibile non sentire la calda fluenza del Boiardo rassegarsi in quei deittici che sono gli esponenti ossessivi della tendenza a disquisire e del cattedratico distingue frequenter che aduggiano la poesia del Berni. Ma torniamo al Boiardo, in particolare alla voce del selvaggio Agricane che s’intona perfettamente con quella del semplice Orlando: E cosî spesi la mia fanciullezza in caccie, in giochi de arme e in cavalcare; né mi par che convenga a gentilezza star tutto il giorno ne’ libri a pensare; ma la forza del corpo e la destrezza conviense al cavalliero esercitare. Dottrina al prete et al dottor sta bene: io saccio tanto quanto mi conviene.

(43)

Ed eccola trasferita dal tono della professione personale a quello della sentenziosità generica, futilizzata da una dittologia epitetica e da un condimento fraseologico («stillarsi il cervello»): Là onde spesi la mia fanciullezza in cacce, in questo gioco d’arme e quello:

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FRA GRAMMATICA E RETORICA

né pare a me che sia gran gentilezza stare in su i libri a stillarsi il cervello,

ma la forza del corpo e la destrezza conviene a cavalier nobile e bello: ad un dottor la dottrina sta bene,

basta agli altri saper quanto conviene.

(48)

Tutto ciò, apparentemente, per evitare la rima facile dei tre infiniti in -re. Ma portiamoci al punto culminante: Perse la vista et ha la faccia bianca,

come colui ch’è già gionto alla morte; e benché il spirto e l’anima li manca, chiamava Orlando, e con parole scorte sospirando diceva in bassa voce: — Io credo nel tuo Dio, che morî in croce. Batteggiame, barone, alla fontana prima ch’io perda in tutto la favella; e se mia vita è stata iniqua e strana, non sia la morte almen de Dio ribella. Lui, che venne a salvar la gente umana, l’anima mia ricoglia tapinella! Ben me confesso che molto peccai, ma sua misericordia è grande assai. —

(I, 19, 12-13)

E il Berni: Fugge la vista, e la faccia s’imbianca, ché già venuta è l’ora della morte; con la voce impedita afflitta e stanca, e quanto più parlar poteva forte, chiese al Conte battesimo, e perdono a Dio col core umiliato e buono, dicendo: — Io credo la fede di Cristo, e la maestà sua divotamente

prego che, s’io son stato al mondo tristo per ignoranzia e non malignamente, si degni farmi far del cielo ‘acquisto, e cambiar seco la vita presente; e prega tu, ché ’l tuo pregar gradito fia verisimilmente, e più esaudito. —

(I, 19, 15-16)

L’intellettualismo meticoloso gioca qui al Berni il suo più grosso tiro, velandogli persino le intoccabili ragioni della distribuzione degli extremza verba di Agricane fra le due ottave e, nella seconda ottava, per distici. Ma il più sorprendente è vedere il Rifacimento protendersi a formule devozionali che l’originale neppur suggeriva. È come l’aborto dell’o-

L’ «ORLANDO INNAMORATO»

657

perazione che riuscirà grandiosamente al Tasso nel duello fra Clorinda e Tancredi. Si guardi infine, per chiudere il nostro rapido esame dell’episodio (che meriterebbe rilievi e confronti più sottili), ad un elemento di macrostruttura: la cerniera che separa i due canti su cui l’episodio si accampa, cioè l’ultima ottava del canto XVIII: Sî come il mar tempesta a gran fortuna, cominciarno lo assalto i cavallieri;

nel verde prato, per la notte bruna, con sproni urtarno addosso e buon destrieri; e se scorgiano a lume della luna dandosi colpi dispietati e fieri, ch’era ciascun di lor forte et ardito. Ma più non dico: il canto è qui finito.

(55)

Il notturno si dissolve o meglio si sospende in un moto continuo da teatro delle ombre; e il Boiardo, a prolungare la durata dello spettacolo, resa aspettivamente con l’imperfetto e col gerundio, riduce al minimo — cioè ad un verso, l’ultimo — quel sipario che in altri canti occupa pit versi ed è meno neutro, contenendo uno spunto di motivazione, un’allocuzione agli ascoltatori, un’arguzia. Il Berni strozza la scena e ne sopprime fin l’effetto durativo, spendendo ben tre versi in una stridente facezia che qui pit che altrove era da evitare: Come in mar la tempesta e la fortuna, cominciaro l’assalto i cavalieri;

nel verde prato per la notte bruna uttansi a dosso l’un l’altro i destrieri, e si scorgon al lume della luna.

Ma s’egli han tanta fretta e son sf fieri, che sendo notte non voglian dormire, cosî non vo’ far io, ma vo’ finire.

(60)

Si potrebbe dire che gran prezzo è costata la sostituzione dei boiardeschi cominciarno, urtarno, scorgiano con comin-

ciaro, urtansi e scorgon, forme più ligie al fiorentino bembesco; e che molto meno spese Lodovico Domenichi, che «riformò» l’Innamorato con mano più discreta, rispettando la struttura e il tono di questo episodio, come di quello delle due fontane: Si come il mar tempesta gran fortuna incominciar l’assalto i cavalieri nel verde prato per la notte bruna, —— con sproni urtaro addosso i buon destrieri.

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FRA GRAMMATICA E RETORICA

E si scorgeano al lume de la luna dandosi colpi dispietati e fieri, ch’era ciascun di lor forte et ardito. Ma più non dico, il canto è qui finito ‘.

Ma sarebbe un discorso semplicistico. Un discorso meno avventato direbbe che il Berni non credeva più, non sentiva più l’epicità cavalleresca del Boiardo, che doveva apparirgli dissolta, oltre tutto, dall’ironia dell’Ariosto; della quale tuttavia né lui né i suoi contemporanei furono in grado di comprendere il valore — cioè che non era essenzialmente diretta al bersaglio degl’ideali e degli eroi della cavalleria, — cosî come non si accorsero che il Furioso non era un poema cavalleresco. Rifrangere l’Inzamorato attraverso il prisma del Furioso significava operare con termini sperequati e fino ad un certo punto irrelati. L’intervento del Berni risulta sempre tangenziale al cerchio poetico del Boiardo: tanto nelle manipolazioni della materia originale quanto, e pit, nelle giunte tutte nuove. Donde continui salti di tono tra la tangente e il cerchio e, cosa ben

più importante, un effetto d’insieme non persuasivo e un malessere, un dissesto nell’intimo dello stesso artifex additus. Insieme col burlesco (fino al colmo dell’«andava combat-

tendo ed era morto» di II, 24, 60) s’insinua e si affianca una tetraggine amata e puritana che nel poeta dei capitoli e dei sonetti o non compariva o si mostrava in forme non morti-

ficate. La castigazione di episodi erotici in cui si espande la vitalità gioiosa del Boiardo (quello ad es. dell’idillio tra Fiordelisa e Brandimarte, I, 19, 57-64); la monotona premissione ai singoli canti di ambigue moralità proemiali, sul male imi-

tato modello dei proemi ariosteschi ma con uno sfoggio di auctoritates classiche e sacre che, nonostante il tono voluta-

mente divagato, mettono al Berni quella giornea da cui parrebbe rifuggire di proposito (I, 4, 3); l’eliminazione dei con-

gedi e ouvertures allocutivi alla «bella brigata» degli ascoltatori; la trasformazione della corte, presentata dal Boiardo co. 9 Orlando Innamorato del signor Mateo Maria Boiardo conte di Scandiano, insieme coi tre libri di Nicolò degli Agostini, nuovamente riformato

per messer Lodovico Domenichi, in Vinegia per Comin da Trino, 1553,

p. 70.

L’KORLANDO

INNAMORATO»

159

me un luogo di dilettosa conversazione e di splendido vivere (cfr. II, 19, 1-3), in un covo di ribaldi e di cannibali (Berni, II, 19, 1-6); l’irrompere nella festosa favola di accenti tragici e devoti (come il ricordo del sacco di Roma, I, 14, 23-28) 0

di umoresche esibizioni dell’io (come la descrizione del Berni prigioniero delle Naiadi nel fiume del riso, III, 7, 36-56): tutto ciò contraddice il mondo del Boiardo e vorrei dire il mondo quattrocentesco in un giro più ampio della corte ferrarese. D'altra parte i continui intarsi di proverbi e di motti che, tuttora popolari nella bocca del popolo di Firenze, nella penna di un fiorentino bembeggiante erano ormai posologia deliberata, contribuivano a spostare il genere dal piano della favolazione, dov’era col Boiardo, al piano della stilizzazione,

inaridendo i succhi generosi dell’epos boiardesco, pur sempre avvenato alla popolarità dei cantari e ad una reale società di gustatori, e avviandolo, coi congiunti buoni uffici del classicismo e del fiorentinismo, al limbo degl’idoli letterari. Non per nulla, mentre il Boiardo si appellava ad una corte effettiva, immersa nei miti cavallereschi, il Berni, petrarchista

malgré lui, dichiarava di narrare per un astratto pubblico di anime petrarchescamente elette ed innamorate (si confronti

la protasi del Boiardo con la bernesca). Il successo plurisecolare del Rifacimento nei rispetti del dimenticato originale non è un argomento a favore della sua validità artistica, ma piuttosto una prova della sua maggiore comunicabilità dentro un nuovo orientamento linguistico e culturale. Guardando a due modelli disparati, il Furioso e il Morgante, da un lato il Berni infrangeva l’unità che era stata del Boiardo ed ancor più dell’Ariosto, puntando verso quel genere misto che tanto favore avrebbe goduto fra il tardo Cinquecento e il Seicento; dall’altro superava la fiorentinità del Pulci per instaurare quel fiorentinismo che avrebbe costituito per secoli un vero e proprio registro letterario non privo d’interferenze col registro di lingua nobile. Il luogo comune della maggiore fluenza dell’ottava del Berni rispetto a quella del Boiardo è il prodotto di un corso avviato dal Berni; ed è stata verità tranquilla per quei vecchi lettori che, condizionati da una letteratura di tradizione esclusivamente fiorentina e magari fiorentinesca, convertivano in impaccio oggettivo l’impaccio soggettivo provocato dalle forme emiliane e da uno stadio arcaico del genere, e perciò non si accorgevano

FRA GRAMMATICA

160

E RETORICA

come i lamentati squilibri del contesto originario si perpetuassero, in termini nuovi, sotto la levigatura cinquecentesca

del Rifacimento. Ha scritto Maria Corti che un genere letterario può entrare in crisi in due modi: o per l’azione di un grande autore,

che «lo trasforma dall’interno portandolo ad un alto grado di perfezione», cioè lo rinnova reinterpretandolo (come 1°Ariosto fece del poema cavalleresco legatogli dal Boiardo), o per uno scarto rivoluzionario, dirompente, come il Cervantes fece del romanzo cavalleresco ”. Il Berni non era da tanto, e

neppure da cimentare l’epica cavalleresca con l’acrobatico virtuosismo con cui aveva cimentati la sonettessa e il capitolo in terza rima “; perciò seguf una terza via, quella dello sfaldare, eterogeneizzare, contaminare, cioè della diffrazione del codice in una pluralità di codici, a loro volta proiettati verso nuove polarizzazioni. Rispondiamo cosi alla domanda che ci siamo posti all’inizio di questo discorso; rispondiamo che è certamente lecito gustare il Rifacimento del Berni sic et simpliciter, ma che a comprenderlo criticamente è necessaria un’analisi comparativa con l’originale; necessaria ma non sufficiente, perché la comparazione dovrà estendersi a tradizioni e modelli più o meno remoti, che hanno influito e confluito nel testo del Berni, ed anche ai generi ch’egli non vide maturare ma che preparò con alcune sue innovazioni e rotture. Tutto ciò, vogliamo precisare, a fine di una comprensione critica che non s’identifica con la motivazione storica, ma con una motivazione strutturale che accoglie dalla prima gli opportuni strumenti. Un’analisi siffatta, staccandosi dalle valutazioni emulative, che sempre conducono a deplorare nel Rifacimento un Orlando assiderato, ci mostrerebbe, se potessimo condurla a fondo, l’importanza del Berni per la vicenda ulteriore del poema narrativo in ottava rima; ce lo mostrerebbe non tanto come epigono e liquidatore di un fenomeno esaurito, quanto come intercettatore ed interprete, da più fonti e per più vie, di stimoli volti a mettere in crisi le strutture letterarie del presente e a predisporre quelle del futuro. ! M. CORTI, Questioni di metodo nella critica italiana contemporanea, in

La critica, forma caratteristica della civiltà moderna, a cura di V. Branca, Quaderni di San Giorgio, 33, Sansoni, Firenze 1970, pp. 109 sg. !* Cfr. MARTI, OP. cif., pp. 1100 Sg.

Antropologia poetica? *

1. L'applicazione, antichissima, dell’analisi retorica al contesto poetico (avverto qui, una volta per tutte, che con

poetico e poesia indico non categorie filosofiche, ma storicoempiriche, come tali accettate dalla nostra esperienza culturale) ha promosso una concezione di quel contesto linguisticamente scismatica, culminata nelle moderne definizioni dello stile come scarto, straniamento. Dico culminata, perché

all’intensissima riflessione sulla tecnica artistica si è accompagnato come non mai un estremo formalismo sul piano della composizione, fino a raggiungere, come meta consapevole, la asemanticità del contesto. Il messaggio (se cosî vogliamo continuare a chiamarlo) poetico si è dunque posto agli antipodi del messaggio pragmatico e l’arte ha fatto divorzio da quella comunicazione su cui non può non puntare una linguistica sociologica, quale è e diviene sempre di più la linguistica odierna. Si deve senza dubbio imputare anche a questo divorzio l’insorgere di reazioni contenutistiche e funzionalistiche nel campo della produzione e della critica, e l’esser giunti persino a redigere l’atto di morte dell’arte in nome dell’antiarte. Ma può questo stesso divorzio essere imputato ai lingui-

sti? Se è lecito prendere come loro campione chi, raccogliendo in sé una immensa esperienza della linguistica moderna e l’eredità del formalismo russo, ha meditato con duplice competenza il problema del linguaggio artistico e ottenuto larga risonanza alle proprie soluzioni, cioè Roman Jakobson, vediamo che nel suo schema delle funzioni della lingua la funzione poetica, riconosciutavi come una delle sei fonda* Da «Strumenti critici», n. 19, 1972, pp. 243-58.

162

FRA GRAMMATICA E RETORICA

mentali, non è esclusiva delle altre: «Le particolarità dei diversi generi poetici implicano, accanto alla funzione poetica dominante, la partecipazione delle altre funzioni verbali in un ordine gerarchico variabile. La poesia epica, incentrata sulla terza persona, involge in massimo grado la funzione referenziale del linguaggio; la lirica, orientata verso la prima persona, è intimamente legata alla funzione emotiva; la poesia della seconda persona è contrassegnata dalla funzione conativa...» !. E se il messaggio concentrato su se stesso, autoriflesso, quale è quello poetico, ha come carattere intrinseco inalienabile, come corollario, l'ambiguità, questa non annul-

la il riferimento: ad un messaggio ambiguo, ad esempio disemico, corrisponderanno un mittente sdoppiato, un destinatario sdoppiato, un riferimento sdoppiato. D'altronde, di contro alla tendenza — fra gli altri, dello stesso Jakobson — a considerare il processo metaforico come tipico del linguaggio poetico, sta la ripetuta osservazione che quel processo è essenziale, come quello metonimico, ad ogni specie di discorso, a cominciare dal parlato comune. Si deve però far carico alla linguistica di non aver approfondito quanto occorreva il problema della comunicazione; di non aver cioè posto al centro dei modelli teorici dell’atto linguistico la comunicazione come tale, ossia la ragione sociale di ogni messaggio, qualunque sia la sua funzione specifica, dominante (e di non aver quindi affrontato la subordinata questione della possibilità di un messaggio non comunicativo, o comunicativo a diverso titolo). Solo di recente la

comunicazione, prima confusa con la semantica o isolata in una millenaria dottrina dell’interpretazione, coi rami più importanti della quale — l’esegesi giuridica e l’esegesi biblica — i linguisti non hanno mai preso stretto contatto, è divenuta un nodo teoretico che si è beneficamente riflesso sulla tanto più antica problematica dell’interpretazione e della traduzione. Però, cosa in apparenza strana, la teoresi della comuni-

cazione non è sorta dalla linguistica, ma vi è approdata per vie traverse. Essa è nata, in accezione del tutto asemantica, precisamente quantitativa, dalla matematica applicata alla ! Linguistica e poetica, in R. JAKOBSON, Saggi di linguistica generale, Milano 1966, p. I9I. 2 Ibid., p. 209.

ANTROPOLOGIA POETICA?

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tecnologia delle telecomunicazioni (conseguendo poi ampi sviluppi operativi e accampando analogie psicofisiologiche nel campo della cibernetica); e ciò sebbene non mancassero — come osservò acutamente Jakobson — nelle teorie linguistiche e logiche del linguaggio gli elementi di una fenomenologia della comunicazione, a partire dalla famosa dicotomia langue-parole del De Saussure. Che, del resto, l’esigenza di una sua formulazione in campo linguistico fosse ormai matura sta a dimostrarlo la pronta accoglienza fatta dai linguisti ai concetti essenziali e alla stessa terminologia tecnica dei teorici della comunicazione’, sebbene tale ricezione abbia radicalmente trasformato quei concetti e quei termini, ad esempio — che è il fatto più importante — semantizzando il concetto di comunicazione e dando rilievo ai soggetti del rapporto comunicativo. Ma, a guardar meglio, l’utilizzazione di cui

stiamo parlando non è tanto merito dei linguisti, cultori di una disciplina che si è formata sui testi scritti o trascritti, cioè su concrezioni della facultas loquendi analizzate come oggetti autonomi e poste semmai in relazione più col destinatore che col destinatario, il quale nel caso di testi letterari o di ardua decifrazione veniva a coincidere, pet uno slittamento inconsapevole, col linguista analizzatore. È piuttosto merito di quella semiotica che, come teoria generale dei segni, ha fatto del problema della comunicazione e dell’articolazione del rapporto comunicativo in ogni suo aspetto il proprio tema cen-

trale, giovandosi dell’esperienza della linguistica strutturale, da essa largamente recepita, e delle estrapolazioni dalla teoria della comunicazione e dell’informazione, ma superando lo strutturalismo statico e formalistico e riproponendosi la integrale funzionalità dell’atto segnico, quindi il ruolo dei due soggetti di esso e il contenuto della comunicazione. Al ricupero della equa partecipazione dei due soggetti e dello stesso contenuto ha certo contribuito e contribuisce, lateralmente ma efficacemente, la comzpetence chomskiana. È da augurare che la semiotica possa attuare quella unitaria teoresi della comunicazione che Colin Cherry, nella seconda edizione del suo noto volume ‘, dichiarava ancora divisa tra varie di-

scipline. ® Cfr. ., Antropologi e linguisti e Linguistica e teoria della comunica zione, in Saggi di linguistica generale cit., pp. 5 sgg., 65 sg8. 4 On Human Communication, Cambridge (Mass.) 1968, p. 2.

164

FRA GRAMMATICA E RETORICA

2. Al ricupero del contenuto, quale può, si badi, competere legittimamente ad una semiotica che non la pretenda a pansemiotica (ricupero cioè della forma del contenuto di con-

tro al prevalso sviluppo della forma dell’espressione — per dirla in termini hjelmsleviani — lasciando il contenuto come tale, la mera «sostanza», al dominio delle scienze pertinenti),

non mi pare però che provvedano adeguatamente tutte le scuole della disciplina: non quella, ad esempio, francese di ascendenza russa, che si applica all’analisi del racconto operando solo sopra una parte della forma del contenuto, cosa del resto lecita se tale analisi non fosse presentata come semiologica o strutturale tout court. Fa le spese di questo metodo Vladimir Propp, che prescindendo dalla linguistica elaborò con originale autonomia una interpretazione strutturalfunzionale della fiaba folclorica russa, dimostrandola imperniata, nel suo nucleo invariante, sopra una vicenda arcaica di

tipo tabuistico, che può ancor oggi — con motivi in parte diversi per riferimenti a riti o miti in parte diversi — essere con-

siderata un possibile schema dell’azione umana. Il campione per noi italiani più diretto (e direi estremo) di questa semiotica francese è l’Analyse structurelle de «Pinocchio» di Gérard Genot', condotta, nel solco di Tzvetan Todorov, su un modello di macrosequenze e microsequenze funzionali, dove gli attori (siano occasionali o costanti, siano umani o animali o intermedi) si caratterizzano come positivi, negativi, neutri

e, per il loro ruolo (d’altronde cangiante), come aiutanti od opponenti. Il celebre episodio del consulto dei tre medici, ad esempio, è inserito in una macrosequenza cosî articolata in

microsequenze: al Disegno di portare il denaro a Geppetto si oppone l’Ostacolo dell’incontro col Gatto e la Volpe e, attraverso altre microsequenze che qui è superfluo elencate, sopraggiunge la Salvezza per opera del Falco inviato dalla Fata, salvezza però pagata, prima di farsi definitiva nella Guarigione, con la Prova del consulto e della sgradevole medicina. Dei medici, il Corvo e la Civetta sono attori occasionali neu-

tri, il Grillo parlante è attore costante positivo. Orbene, come potremo appagarci di una cosi stecchita e, nella continua 1

1970.

«Quaderni della Fondazione Nazionale Carlo Collodi», n. 5, Firenze

ANTROPOLOGIA POETICA?

165

ricorsività, monotona applicazione del metodo proppiano a Pinocchio? e non perché nelle avventure del burattino non si sottenda un processo funzionale tabuistico-moralistico, ma perché un’interpretazione siffatta, benché presentata come «strutturale», riduce la struttura ad una piccola parte della forma del contenuto (al «mécanisme général, relationnel et

dynamique de l’eeuvre»), dando al messaggio come significante rilievo solo per alcuni aspetti (descrizioni, dialoghi, ecc.) considerati espansioni delle sequenze, cioè coefficienti delle funzioni precedentemente e indipendentemente definite; senza insomma porre il problema se in un racconto letterario per la definizione della «struttura» non possa essere primario, o almeno coessenziale alla successione delle azioni paradigmatiche, al «récit comme histoire», il «récit comme discours». A chi, senza trascurare la trama narrativa ma prendendo il testo nella sua totalità, rilegga l’episodio del consulto dei tre medici, non può sfuggire la sua singolare articolazione formale con l’episodio precedente, quello del salvataggio del burattino impiccato; articolazione che si risolve in un salto isotopico: il salvataggio, infatti, si svolge sul piano della fiaba, il consulto invece sul piano della favola, intendo della favola esopica (distinzione ben nota ai folcloristi). Evidente-

mente il registro troppo ludico della fiaba non si prestava a reggere il peso della pungente moralité del consulto. E dalla diversità del registro, dalla diversità dello stampo o «genere» (non fiaba ma favola) in cui si collocano, gli attori acqui-

stano voce diversa, partecipando di un codice più complesso che consente messaggi plurivoci e pluridirezionali, sf che o il loro intervento nella predeterminata funzione (Prova) appare ridondante, o la funzione stessa va determinata su quell’intervento preso nella sua interezza, e quindi sarà più ricca e comunque non meramente processuale e unidirezionale come la propone il Genot. In termini generali, le «funzioni» del racconto (se con esse si vuole identificare la «struttura», esponendosi al pericolo di abbandonare quasi totalmente la forma o di renderla accessoria e marginale) non sono definibili indipendentemente dal modo in cui vengono significate, cioè sono quello che sono soltanto nella pienezza della loro estrinsecazione segnica. Il salto di genere che si è attuato nell'episodio del consulto non risale probabilmente ad una scelta consapevole del Collodi, ma è in ogni caso l’indizio e l’ef-

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FRA GRAMMATICA E RETORICA

fetto della plurimità e della conseguente tensione contestuale da cui incalza il flusso scattante e metabolico del racconto di Pinocchio. Dobbiamo insomma guardarci dal considerare la forma come qualcosa di semplice o di accessorio. Quella che sembrava ormai presentare una superficie unitaria e coerente,

perché sottoposta da gran tempo ad una intensa analisi sistematizzante, la forma del sistema fonologico, ad un esame spettrografico mostra la precarietà e la accontentatura di quella coesione; tanto più la forma che resta a tutt'oggi la meno «strutturabile», quella del contenuto, la inzere Sprachform in cui si concreta il rapporto tra l’esperienza umana in tutti i suoi aspetti e la sua rappresentazione segnica: forma resi-

stente all’analisi già nella sua molecola, la parola, oltre che nei costrutti e nella frase nucleare, cioè nella sua sintassi ele-

mentare. È inutile ricordare le varie chiavi forgiate per la serratura semantica e ripercorrere i tentativi di sistemazione, dagli ideari sociointellettuali alle più recenti analisi componenziali, dalla sintassi logica a quella psicologica. Giacché il ricupero della sostanza insiste pur sempre, per tali vie, su strutture linguistiche elementari, come se al di sopra della frase non ci fossero architetture più vaste, solo in parte riconducibili ad una rigorosa derivazione da regole e ad una /argue monolitica, e come, soprattutto, se non ci fossero contenuti più

complessi e stratificati di quelli elementarmente logici e psicologici che è solita individuare la semasiologia dei linguisti. Ma grande è la difficoltà, in ogni ramo del sapere, della discesa alle Madri. Fortunatamente oggi alle scaturigini del significato s'incontrano, coindaganti, pit discipline, con la linguistica la psicologia, la filosofia e la cibernetica nelle loro varie specializzazioni, la semiotica, quest’ultima col vantaggio (se

non lo abdichi sconsideratamente) di occuparsi non tanto del «significato del significato», ma dell’atto di comunicazione e quindi del concetto di codice, che va profondamente modificando e articolando quello di langue, e dei processi di codificazione e decodificazione, fondamentali per la definizione di quel concetto e per la costruzione dei suoi modelli teorici. Proprio per questo io credo che la semiotica sia in grado di trattare le strutture che di solito esorbitano dalla mira e dalla presa del linguista e costituiscono forme del contenuto parti-

ANTROPOLOGIA POETICA?

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colarmente dense, pregnanti; forme che non vorrei perciò chiamare linguistiche, e neppure semantiche per non confonderle con quel tradizionale semplicismo semasiologico cui ho accennato sopra, ma, provvisoriamente e polemicamente,

iperlinguistiche e antropologiche. La fiaba e la favola esopica, di cui abbiamo toccato a proposito di Pizocchio, sono appunto due di queste strutture.

3. Non pretendiamo, naturalmente, di riscoprire i generi più o meno letterari. Vorremmo però attirarli dentro la linguistica (da cui sono come esiliati) coi buoni uffici di quella

semiotica che, dobbiamo riconoscerlo, si è rivolta ad alcuni di essi con molto impegno, ma anche con qualche improntitudine, per non avere sempre messo a frutto l’esperienza mutuata dalla linguistica. Per saldarli alla linguistica bisogna però partire dal concetto che i «generi» non sono soltanto gli stampi letterari che ben conosciamo: sono tutte le combinazioni sintattiche paradigmatiche che si concretano nel messaggio e che garantiscono, se condivise dal destinatario, la comunicazione. Ogni

lingua è azche un codice di «generi», minimi e massimi, l’uno inserito nell’altro come in un gioco di scatole cinesi, l’uno affiancato all’altro, secondo rapporti e tensioni tanto più complicati ed eterogenei quanto più profondo e travagliato è lo spessore della tradizione. Molto prima dei linguisti moderni gli antichi cultori dell’ermeneutica avevano compreso che l’interpretazione, cioè la sua possibilità, si fondava sull’esistenza, la costanza e la comunione di siffatti generi o stampi o matrici che dir si vogliano. Nel suo vasto trattato di Teoria generale della interpretazione, dove ha ripercorso storicamente i più importanti filoni speculativi, il giurista Emilio Betti, occupandosi in particolare dei canoni che garantiscono l’esito epistemologico della interpretazione, ha messo in risalto, tra quelli attinenti all’oggetto, l'autonomia o immanenza e la totalità o coerenza del criterio ermeneutico. Per il primo «la forma rappresentativa dev'essere intesa nella sua autonomia, alla stregua della propria legge di formazione, secondo una sua interiore necessità, coerenza e razionalità»;

per l’altro viene osservata «la correlazione che intercede fra le parti costitutive del discorso, come di ogni oggettivazione

168

FRA GRAMMATICA E RETORICA

del pensiero, e il loro riferimento al tutto di cui fanno parte o a cui si concatenano: correlazione e riferimento che rendono possibile la reciproca illuminazione di significato fra il tutto e gli elementi costitutivi» !. Più di recente E. D. Hirsch, nel suo Validity in Interpretation*, ha ripreso e approfondito tali concetti, distinguendo il «genere estrinseco», cioè paradigmatico, utile come provvisorio e iniziale orientamento alla interpretazione, e il «genere intrinseco», lo stampo cioè calato nel contesto e perciò fornente all’interprete quel senso dell’intero che permette di precisare il valore di ogni parte‘. Generi sono anzitutto i costrutti e le frasi nucleari nei loro tipi illustrati da ogni teoria dell’enunciazione; ma sono a maggior titolo quelle forme dei riti liturgici o giuridici e infine dei generi letterari, che i linguisti non hanno mai considerato né nella parole né nella langue, ma abbandonato all’esegesi giuridica o sacrale e alla retorica, più di recente creando per gli ultimi il limbo della stilistica. La pluridimensionalità formale e semantica delle strutture iperlinguistiche e antropologiche si rivela nella traduzione: se è infatti facile, entro un ambito di culture relativamente affini, travasare le strutture

linguistiche elementari con semplici operazioni di comparazione e di conguaglio analogico (per non ricorrere al deus ex machina degli «universali»), cioè con operazioni di ricalco consentite dall’essere esse divenute schemi comunicativi largamente generalizzati e quindi livellati su un minimum pragmatico in cui una parte dell’umanità si riconosce, le strutture iperlinguistiche offrono una resistenza (anche in ambiti culturalmente omogenei) ben maggiore, che sorge non solo dalla ampiezza e complicanza delle strutture ma dal grande spessore etnologico del loro contenuto. Era un tempo in loro, e seguita talvolta a persistervi, la pienezza dell’ethos, corradicata ad una forma altamente specifica, costituitasi per lento amalgama, irriducibili l’una e l’altra ad una banale media logica o psicologica come quella proposta dalle tradizionali analisi dell’enunciato. Senza dubbio la moderna separazione tra filologia e linguistica, la concezione di una linguistica immanente e quindi ! Milano 1955, I, pp. 304 Sgg., 307 sg.

2 New Haven 1967, pp. 68 sgg. * Validity in Interpretation cit., p. 86.

ANTROPOLOGIA POETICA?

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preoccupata di non invischiarsi nella sostanza fisica o antropologica, il prevalente studio delle unità di seconda articolazione, hanno impedito alla stessa linguistica strutturale di rendersi conto della estrema articolazione e fermentazione della sincronia significante, non tanto per le interferenze alloglotte quanto per la laboriosa gestazione di una diacronia in parte fossile in parte funzionale, dovuta alla accumulazione e intersecazione di più livelli semantici. Cosî la tentazione degli universali e l’insistenza sugli otovyeia, che in età romantica e poi positivistica fu un’istanza storica e genetica, ed è per la linguistica odierna una volontà di riqualificarsi come scienza, allineandosi a metodologie e discipline estranee all’empiria umanistica, porta, almeno pet il momento, all’impasse di una autolimitazione per la quale strutture istituzionalizzate e funzionalmente inserite nella sincronia, ricche di storia e di senso, vengono sottratte al codice linguistico e affidate alle cure, per citare il campo che pit c’interessa, di una fenomenologia della forma poetica, disciplina di dubbia collocazione e motivazione, ancor più dubbia, nella presenza

della moderna linguistica, di quanto non fosse l’antica retorica, e orientata — per il suo distacco dal fuoco della comunicazione — in senso quasi esclusivamente formalistico ed estetico.

4. Se ogni lingua — come abbiamo detto — funziona per «generi», per strutture sintattiche paradigmatiche, minime e massime, non dobbiamo credere che quelle che abbiamo chiamate iperlinguistiche e antropologiche appartengano necessariamente al gruppo delle massime. Ce ne sono, contraddittoriamente, di medie e anche di minime, che spesso non superano o addirittura non raggiungono la misura delle unità di cui si occupa la teoria dell’enunciato; e tuttavia sfuggono all’attenzione della linguistica e della stessa stilistica (e in questo senso possiamo continuare a chiamarle polemicamente iperlinguistiche), perché la modestia e banalità formale trae in inganno sullo spessore antropologico, inversamente proporzionale ad essa. La loro pluridimensionalità è concentrata nel significato, per cui esse ineriscono alla sincronia come strutture diacroniche ma insieme funzionali; ed è spesso dovuta al gioco delle scatole cinesi, per cui quelle strutture,

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FRA GRAMMATICA

E RETORICA

linguisticamente minime, si continuano in altre che le ricomprendono e le collocano in una prospettiva eccezionale. Potrei esemplificare, un po’ al modo degli analisti oxoniensi, mostrando la polivalenza e la pluridimensionalità di certe parole che possono impostarsi su piani antropologicamente pit o meno profondi del codice, e quindi esplicare non tanto una funzione enunciativamente diversa (esecutiva o constatati-

va), ma impegnare in modo diverso l’ethos dell’emittente. Sarebbe il caso del verbo giurare, la cui accezione profonda (rituale) e quella superficiale (sinonimica) convivono, come

bivalenza virtuale, nel nostro codice pragmatico. Preferisco, nella linea di questo scritto, addurre campioni poetici. Prendiamo dunque il «dialogo con l’assente». Possiamo esemplificarlo col sagace alternarsi del dialogo ir praesentia e del dialogo in absentia nella Signorina Felicita di Gozzano; congegno che consente lo sdoppiamento e di Felicita e del poeta, con contenuti e pronominazione diversi (i absentia il poeta tratta col #4 la Signorina e le dice cose che non dice e non oserebbe dirle ir praesertia). Siamo anche su due piani linguistici e temporali diversi: quello dell’enunciazione e quello dell’enunciato; e diversa è la prossemica dei due tipi di colloquio, giacché a una presenza e distanza date come reali si alternano una presenza e distanza di memoria. Tutt’altra cosa è il colloquio epistolare, anch’esso apparentemente ir absentia, ma in verità solo a distanza e pet tempi differiti,

perché è inserito in una situazione reale e fortemente condizionato da essa, come dimostrano, ad esempio, l’effettivo

sforzo di adeguamento al presunto o noto codice del destinatario e la conseguente compromissorietà semantica e stilistica, nonché la ridondanza volta ad assicurare la comunicazione: cose che mancano al colloquio poetico in absentia, a meno che non si tratti di corrispondenza metricizzata. Il vero colloquio în absentia, cosî frequente e cosî (pos-

siamo dirlo) naturale nella poesia anche moderna, sarebbe assurdo nella realtà quotidiana appunto perché non è un atto di comunicazione previsto dal sistema della lingua parlata, non è un atto costitutivo di rapporto sociale. Ben sappiamo che la norma linguistica non consente di emettere un messaggio, cioè avviare un discorso, gratuitamente: un atto segnico coinvolge uno o più destinatari e quindi impegna anzitutto la responsabilità dell'emittente; ed è soggetto a sua volta, come

ANTROPOLOGIA POETICA?

ryx

spunto abruptivo, ad un condizionamento situazionale speci-

fico, affatto diverso da quello da cui è condizionata la risposta. Orbene, il rivolgere la parola ad un assente non è autorizzato dalle regole colloquiali né è previsto dalla trattatistica corrente, la quale anzi si sforza di dimostrare che il monologo del vecchio teatro è in realtà un dialogo del personaggio sdoppiato o una indiretta allocuzione al pubblico degli spettatori; manifestazioni anch'esse più della patologia che della fisiologia della comunicazione. Eppure, a meglio considerare, il parlare ad un assente che non può rispondere sussiste tuttora in situazioni non fittizie, cioè non poetiche, ma reali, sociali:

quali il congedo rituale od oratorio dal cadavere presente, la lamentazione funebre, quelle iscrizioni sepolcrali in cui si attarda l’uso dell’alloqui cinerem, e la preghiera pubblica e privata. Nella stessa poesia, del resto, troviamo l’appello alla divinità, ben oltre l’ode di Saffo ad Afrodite o le sollecitazioni

ipponattee ad Ermete, nella protasi dell’Ilizde e dell’Odissea, in funzione non solo propiziatoria, ma produttiva del discorso epico, cioè necessariamente esordiale. «L’ira carta,

o Dea, del Pelide Achille», che nell’Odissea si soggettivizza in «L’uomo cartami,

o Musa», era evidentemente una invo-

cazione sacrale, socialmente indispensabile a che il cantore (ab Jove principium) avviasse il suo racconto. Ma nell’Eneide l’« Arma virumque cazzo» ci avverte che il «Musa, mihi causas memora» di pochi versi dopo, e le altre invocazioni alle divinità di Parnaso, sono ormai dissacrate, divenute in-

somma formule poetiche; e che, soprattutto, il poeta epico non ha più bisogno, come mossa esordiale, di una comunicazione rituale con la divinità, ma una nuova norma gli consente di dirigersi in prima persona ad un pubblico che, guarda caso, non è più, come quello degli aedi, presente. La protasi dell’Ezeide, come sarà poi per ricalco quella dell’Orlando furioso o della Gerusalemme liberata, è dunque un colloquio in absentia previsto dal codice poetico 0, che è lo stesso, dal livello poetico del codice, mentre la protasi dell'Iliade era un colloquio ir absentia previsto dal codice sacrale e perciò, in una società che recepiva profondamente il sacro, realmente comunicativo. Che la protasi dell’Ezzeide non sia un atto socialmente comunicativo, ma una formula poetica, lo si vede

anche dal fatto che nel parlare comune non è possibile avviare il discorso ex abrupto dicendo «io canto», perché non

172

FRA GRAMMATICA

E RETORICA

è ammissibile una frase constatativa abruptiva in prima persona, non riuscendo essa ad assolvere la funzione primaria del discorso, la comunicazione. Diverrà possibile in una situazione non abruptiva, ad esempio responsiva, o con una

modalità non constatativa, ad esempio ingiuntiva, appellativa, avvertitrice, in qualche grado conativa o fatica. E difatti il poeta mantovano, scrivendo caz0, aveva un suo pubblico cui intendeva rivolgersi, come l’Ariosto quando scriveva «io canto»: sarebbe inconcepibile che il celebratore del conditor Romanae gentis o il tessitore di favole cavalleresche fossero privi di una intentio communicandi. Comunicarono dunque,

ad un pubblico assente, contemporaneo e futuro, ma attraverso una forma che ciò poteva consentire, attraverso una

forma che il codice poetico toglieva dall’impasse constatativa e restituiva alla comunicazione, benché non pragmatica, esulante dalla sua competenza. Il codice poetico dispone dunque di strutture proprie, che possono coincidere esteriormente con quelle del codice comune, ma hanno una funzione diversa; e la diversità della funzione può essere dovuta alla conservazione di un contenuto arcaico ormai rifiutato dalla norma comune, o alla assunzione di contenuti arcaici da forme perente: che è il caso dell’esempio fatto sopra. Abbiamo ricordato una forma particolare di dialogo ir absentia, quello coi defunti, oggi autorizzato dal codice comune in rare situazioni. Ebbene, anche di esso esiste una forma

poetica: basta pensare al saluto fraterno di Catullo, a Leopardi che interroga Silvia, a Montale che parla al padre, alla madre, alla moglie defunti. Si prenda A Silvia: il poeta esordisce con una domanda, ma non con una di quelle che si dicono retoriche perché interrogano se stesse e immediatamente si rispondono. Qui la domanda è vera, anche se il poeta non attende risposta; è vera come è vero tutto il resto del colloquio con quella Silvia a cui viva il poeta non avrà forse mai parlato e a cui forse non avrebbe dato del #4. Non vero invece, ma metaforico, è il colloquio con l’altra defunta (meta-

forica), la Speranza. I due colloqui, pur cosî paralleli, pur «poetici» entrambi, hanno una radice diversa: antropologica il primo, eidogenetica il secondo. Impressionante la geminazione delle defunte, la proiezione l’una dall’altra: la simbolica dalla reale; impressionante, per far qui onore alla fine analisi di Stefano Agosti — che si è messo, con la sua denomi-

ANTROPOLOGIA POETICA?

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nazione, su un piano di positivismo acronico — il ripetersi dall’uno all’altro degli effetti fonici della libido vocativa'. Se non temessi di dare più scandalo dell’Agosti, io vorrei invece mettermi su un piano di positivismo diacronico, cioè di etnologismo evolutivo, per spiegare appunto il radicale dislivello dei due colloqui paralleli: chiamando in causa, nientemeno, il rito negromantico. Si, l’evocazione dei morti, prima di divenire un genere poetico, fu un rito arcaico, un atto di effettiva, riconosciuta comunicazione con l’aldilà, che i poeti antichi, Omero come Eschilo, hanno finto nel racconto o nell’azione

scenica senza però alterarne il valore; il quale si è in gran parte mutato col ritrarsi dell’antichissimo rito nel codice poetico, ma non tanto da non separare, con un residuo di carica antropologica, il primo nostro colloquio dal secondo, dandogli un suggello di verità che significa conservazione o recupero, a diverso titolo, della comunicazione. Col defunto, in termini di prossemica, la distanza è all’in-

finito e quindi le forme del colloquio îr absentia possono essere diverse da quelle col vivo. Abbiamo già notato il #4 di Leopardi a Silvia; possiamo retrocedere al Petrarca, rilevando che a Laura viva egli si rivolge quasi sempre col voi (il famoso «a cui io dissi: Tu sola mi piaci» di CCV, 8 è la proiezione allocutiva di una determinazione profonda; un caso di metafora sintattica), ma a Laura morta sempre col #4, e Laura

morta dà del #4 a lui in sogno. Il voi a Laura viva, come il voi dei poeti provenzali e siciliani alle loro dame, implica, nell’artificio del dialogo ir absentia, pur sempre un riferimento sociale, come il voi che Dante, în praesentia (presenza oltremondana ma pet lui come reale) dà ad alcuni grandi defunti, anche a Beatrice, che egli tueggia solo nell’ultimo saluto (ma dietro quel #4 e quel saluto c’è il modulo della preghiera alla Vergine, come dietro il #4 che egli dà, sempre in quella singolare presenza, a tutti i beati — eccetto il revenziale voi al nobile trisavolo Cacciaguida — e agli stessi apostoli, sta il #4 della preghiera, che è anch’esso indice di un rapporto a distanza infinita e diacronicamente risalirà allo stampo scritturale, senza escludere, come sempre concomitante, quello classico).

Sono, queste alternanze, la prova dell’interferenza tra il livel1 s. AGOSTI, I messaggi formali della poesia, in « Strumenti critici», n. 14, 1971, PP. 31 S88.

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FRA GRAMMATICA E RETORICA

lo poetico e quello pragmatico, tra il codice poetico e quello referenziale: interferenza sempre possibile. A partire però da un certo punto, che andrebbe precisato, si avverte che, pur mantenendosi in assoluto la possibilità di una pronominazione socialmente condizionata, referenziale, si istituzionalizza un #4 del colloquio poetico ir absentia, senza distin-

zione di morti e di vivi o di gradi sociali, con una distanza, prossemicamente, all’infinito. Il #4 con cui il Parini del Messaggio si rivolge all’«inclita Nice» non è il segno di una reale confidenza con la contessa di Castelbarco, ma è il #4 di un amore e longinquo autorizzato da una pronominazione poetica. Il vigore paradigmatico di siffatta pronominazione ad un

livello aulico ce lo prova, ad esempio, la Passeggiata dannunziana, dove il voî attira tutto il componimento al tono di una missiva galante. 5. Nei paradigmi delle nostre grammatiche bisognerà dunque, allargando il quadro della pronominazione, introdurre la pronominazione poetica; perché essa è una forma convenzionalizzata, cioè assunta in una certa zona e livello del no-

stro codice, dove assolve una particolare funzione comunicativa. Ed eccoci al punto: le forme del codice poetico, le piccole come le grandi — il poema epico e il dramma come il colloquio ir absentia e la pronominazione ad esso relativa — sono tutte riconducibili a remote forme di comunicazione sociale; e se ciò non è una scoperta, perché molti sono ormai

gli studi sul rapporto originario tra le forme poetiche e il rituale magico o religioso, dovrebbe tuttavia essere tenuto pit presente di quanto di solito non si faccia, al fine di considerare se, insediandosi la poesia di continuo nelle forme offerte dalla vita, anzi sorgendo da esse, convenga, per rendersi conto della sua fenomenologia, insistere sul concetto di scarto,

cioè separarla formalisticamente dalla linguistica creando per essa il limbo della stilistica, o non piuttosto ricondurla alle strutture linguistiche e antropologiche da cui è sorta e vedere come, resesi esse più o meno disponibili dal contenuto e dalla funzione primitivi, ne abbiano assunti di parzialmente o totalmente diversi, costituendo nuovi tipi e livelli di comunicazione, non più pragmatici, ma pur sempre antropologici, di

ANTROPOLOGIA POETICA?

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una antropologia che, in attesa di una definizione migliore, dobbiamo chiamare poetica. Con ciò non rifiutiamo il concetto di scarto o straniamento, su cui da tanto e da tanti è stato fondato il concetto di sti-

le, né proponiamo — giova ripeterlo — di assorbire senza residui il messaggio poetico nella comunicazione, cioè il codice poetico nel codice pragmatico, anch’esso, dal canto suo, stratificato e poliedrico e non inertemente composito. Dichiariamo semplicemente e modestamente la nostra perplessità sul fatto che l’analisi della forma letteraria batta oggi due vie estreme e divaricate: o la via dell’analisi stilistica, tutta puntata sulla sostanza del significante (sulla fonetica anziché sulla fonologia) e sui valori connotativi della forma del contenuto, mettendo in crisi il sinolo saussuriano o salvandolo con

l’elevazione a potenza della semiotica (da semiotica a metasemiotica); o la via del funzionalismo semiotico, altra forma

di messa in crisi dello stesso sinolo e contrappasso del formalismo totale. E ciò quando la stessa linguistica, di cui abbiamo notato i limiti e le remore, viene sollecitata a farsi socio-lin-

guistica, e di conseguenza la semantica è sempre più attratta verso i grandi spessori dell’antropologia; quando concorrono dunque le condizioni perché le strutture poetiche vengano — con una inversione di rotta — considerate come elementi tendenti di continuo, salvo casi o periodi eccezionali, a rein-

tegrarsi nell’integrum societatis, articolando e moltiplicando i modi della comunicazione, piuttosto che a esiliarsi in aloni solipsistici.

Pirandello dialettologo *

È noto, e ce l’ha detto lui stesso ', che Luigi Pirandello, iscrittosi nel 1886 alla Facoltà di lettere di Palermo, dove

frequentò i corsi di Fraccaroli, Mestica e Pais, si trasferi l’anno seguente alla Facoltà di lettere di Roma, dove si orientò verso la filologia romanza, incoraggiato dall’insigne maestro di quella materia Ernesto Monaci. Venuto però a contrasto col professor Onorato Occioni, docente di latino e preside della Facoltà, fu consigliato dal Monaci (che «mi aveva preso

a ben volere» e «aveva compreso il mio carattere tenace per quanto possa parer bizzarro») di terminare gli studi in Germania. «Mi decisi pertanto di recarmi nella dotta Germania e scelsi la università di Bonn, nella quale città e nel qual centro di studi trovai un ambiente molto adatto al mio temperamento e alle mie ricerche letterarie e filosofiche. Presi nel marzo del 1891 la laurea di dottore in filologia romanza con grande soddisfazione dell’indimenticabile mio maestro romano Ernesto Monaci ed il seguente anno scolastico restai ancora a Bonn in qualità di /ector di lingua italiana nell’università».

La scelta di Bonn, per la quale devono essere stati decisivi il consiglio e i buoni uffici del Monaci, non era senza motivo. Di li si era irradiata per decenni l’opera del fondatore della * Presentazione della ristampa anastatica della tesi di dottorato di Luigi Pirandello Laute und Lautentwickelung der Mundart von Girgenti (Halle a. S. 1891), Edizioni Marlin, Pisa 1973, pp. V-xx. 1 Sia nel curriculum vitae pubblicato in calce alla dissertazione dottorale (p. 50), sia nel [Framzzzzento d’autobiografia] dettato all'amico Pio Spezi nel 1893 (ora in L. PIRANDELLO, Saggi, poeste, scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Milano 1965, pp. 1281-83, dove una nota del curatore avverte della discussa autenticità del brano).

PIRANDELLO

DIALETTOLOGO

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linguistica e filologia romanze Friedrich Diez; li, quando vi giunse il giovane Pirandello, ne continuava l’insegnamento Wendelin Férster, studioso di fonetica storica, etimologista

e dialettologo, oltre che editore di antichi testi francesi e italiani. La grande fioritura di indirizzi, di cattedre, di riviste,

che tra la prima e la seconda metà del secolo aveva fatto del mondo germanico il crogiuolo degli studi neolatini, aveva sostituito in Germania (e di riflesso in Francia) la fase roman-

tica e pionieristica di quegli studi (rappresentata da un August Wilhelm Schlegel, un Claude Fauriel e un Frangois Raynouard) con una metodologia più rigorosa e positiva: lo storicismo si era fatto microscopico, la filologia documentaria e lachmanniana, la categorizzazione dei fatti comparativa e sistematica. Le pagine che Gustav Gròber dedica alla storia della linguistica e filologia romanze nel primo volume del celebre Grundriss der romanischen Philologie (Strassburg 1888) fanno magistralmente il punto di queste discipline all’arrivo di Pirandello nella loro culla universitaria, immedia-

tamente prima della pubblicazione della Gramzzatik der romanischen Sprachen di Wilhelm Meyer-Liibke (1890-1902), che costituî il culmine della sintesi neogrammatica in campo neolatino, e durante l’incubazione della geografia linguistica. Questa la linea alta della romanistica; ma la linea bassa

era passata per l’Italia, dove Graziadio Isaia Ascoli coi Saggi ladini (1873) aveva proposto un modello d’indagine e di descrizione dialettologica che s’impose a tutte le monografie dialettali. Esso, spogliando fonti antiche e moderne, confermate e integrate da inchieste di campo, puntava (pur senza escludere, almeno programmaticamente, i fatti morfologici, sintattici e lessicali) ° sui fatti fonetici, presentandoli nei quadri del vocalismo tonico e atono, del consonantismo e degli «accidenti generali» e comparando la fase romana di partenza con la fase romanza di arrivo, nell’intento «non... solo di

studiare o comparare... singoli idiomi o singole fasi di favelle più o meno prominenti e disformi, ma... principalmente di ricomporre, nello spazio e nel tempo, una delle grandi unità ? Il programma di estendere i Saggi ladini oltre i confini della fonetica l’Ascoli lo attuò in parte nel volume VII (1880-83) dell’« Archivio glottologico italiano » col Saggio di morfologia e lessicologia soprasilvana (pp. 406602).

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FRA GRAMMATICA E RETORICA

del mondo romano», quella unità che «si rifrange in mirabile guisa anche per entro a un singolo dialetto» °. A Bonn Pirandello seguî per tre semestri (dal semestre invernale 1889-90 al semestre invernale 1890-91) i corsi di Biicheler e di Forster; e questi lo ammise al suo seminario filologico, di cui fu per due semestri sodalis ordinarius. Donde la tesi di dottorato, dedicata al maestro tedesco, che da tempo coltivava con particolare interesse i dialetti della Sicilia e della Sardegna ed aveva indotto un suo discepolo, Matthias Hiillen, a trarre dai testi scritti reperibili in Germania «die erste — afferma Pirandello — wissenschaftliche Bearbeitung des Sicilianischen»: cioè la monografia Vokalismus des Alt und Neu-Sicilianischen, pubblicata a Bonn nel 1884. In verità il lavoro di Hiillen era stato preceduto, in Germania, da quello di Fr. Wentrup, Beitràge zur Kenntniss der Sicilianischen Mundart (1859), che, nonostante le gravi imperfezioni, fu davvero il primo tentativo di descrizione del dialetto siciliano, tanto che ebbe l’onore di essere tradotto e integrato dal Pitré nel 1875. Ma solo con la «Bonner Dissertation» di Hiillen cominciò l’analisi minuta e sistematica del fonetismo siciliano sulla base di larghi spogli antichi e moderni, questi ultimi dalle raccolte del Pitrè, del Salomone-Marino e dell’Avolio; analisi tuttavia inficiata — rilevò il Mussafia’ — dalla mancanza di ciò che è condizione essenziale alla sicura descrizione di un dialetto moderno: la presenza di testi esattamente «uditi» ed esattamente fissati in scrittura fonetica. AI difetto del Hiillen volle ovviare uno scolaro del Gréber, Heinrich Schneegans, come si ricava dal titolo del suo stesso saggio: Laute und Lautentwickelung des Sicilianischen Dialectes nebst einer Mundartenkarte und aus dem Volksmunde gesammelten Sprachproben (Strassburg 1888); opera che per la prima volta affronta tutto il fonetismo siciliano, lo compara con quello di altri dialetti dell’Italia meridionale, e traccia anche cartograficamente i confini tra i gruppi subdialettali della Sicilia. Lo spoglio dai testi scritti, antichi e moderni, è ancora più vasto di quello di Hiillen; ma.è notevole * «Archivio glottologico italiano», 1, 1873, pp. 537 e 2. 4 Cfr. e. PIcCITTO, Schizzo di storia della dialettologia siciliana, in «Bollettino storico catanese», v, 1940, pp. 43-65. ° In «Literaturblatt fir germanische und romanische Philologie», vI, 1886, pp. 238 sgg.

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il fatto che dei moderni l’autore tiene in particolare conside-

razione quelli scritti in grafia foneticamente accurata, si preoccupa di chiarire i suoi dubbi sulle parlate locali consultan-

do persone residenti, e infine raccoglie lui stesso, a Messina, dalla viva voce canti e racconti popolati, li trascrive con segni diacritici e su di essi fonda principalmente i suoi rilievi («Auf dieser oralen Grundlage baut sich meine Arbeit zunéchst auf», p. 4). Ai sicilianisti i partibus si erano andati correlando i sicilianisti indigeni, da Corrado Avolio a Giacomo De Gregorio, privilegiati sui primi dalla conoscenza nativa del dialetto (da una effettiva «competence», chomskianamente parlando), in-

feriori ad essi per preparazione linguistica. E come, del resto, lo Schneegans, conoscitore diretto del solo messinese, peccava nella trattazione degli altri sottodialetti, non bene delimitando i loro confini e le loro isoglosse e confondendo livelli sociali e stilistici diversi, cosî il De Gregorio, polemico con lo Schneegans che dei suoi Appunti di fonologia siciliana (1886) aveva dato un giudizio non privo di riserve, nel più ampio Saggio di fonetica siciliana (1890) fondava la sua trattazione sul palermitano, trascurando (secondo il competente giudizio del Piccitto)° gli altri dialetti, specie i sudorientali. «La maggior debolezza dei due lavori [quello dello Schneegans e quello del De Gregorio] — scrive appunto il Piccitto — consisteva specialmente nella confusione ingenerata dalla mescolanza di elementi disparati di vari dialetti; e ad evitare questa confusione si abbandonano da questo momento i lavori di indole generale che si erano avuti dalla seconda monografia del Wentrup” in poi, e si ritorna in fondo al tentativo dell’Avolio nell’introduzione dei Canti popolari di Noto, prendendo in esame un singolo dialetto. Il primo e forse il migliore in senso assoluto di questi lavori è quello del Pirandello». Le fonti dichiarate da Pirandello nella prefazione sono i saggi specifici di Hiillen e di Schneegans, la già classica Grammatik der romanischen Sprachen del Diez, uscita in terza edizione a Bonn tra il 1870 e il 1872 (tutta puntata sulle grandi lingue nazionali e parchissima verso i dialetti), il pri6 Nell’articolo prima citato. | i ? Beitrige zur Kenntniss des Sicilianischen Dialectes, Halle 1880.

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FRA GRAMMATICA

E RETORICA

mo volume della Gramzzatik der romanischen Sprachen (I. Lautlebre, Leipzig 1890) del Meyer-Libke, tanto aperta ai fatti dialettali da includere negli specchi comparativi i dialetti (appunto il siciliano) al medesimo livello delle lingue nazionali, e la Italienische Grammatik dello stesso autore

(Leipzig 1890), che nella prefazione la dichiarava «in gewissem Sinne eine Erginzung fir die italienischen Theilen der romanischen», e tale era in effetti, perché i dialetti italiani attingeva da un più largo numero di testi (per il siciliano da L'Italia dialettale dell’Ascoli, dall’Introduzione allo studio del dialetto siciliano dell’Avolio, Noto 1882, dall’Ueder die

Sprachformen der iltesten sicilianischen Chroniken del Pariselle, Halle 1883, dal Hiillen, dagli Appunti di fonologia siciliana del De Gregorio, e dallo Schneegans; oltre il vocabolario del Traina). Pirandello fa inoltre riferimento alle brevi raccolte folcloriche di Gaetano Di Giovanni, che, per quanto

non scritte in grafia fonetica, gli fornivano testi agrigentini e gli davano affidamento per essere il diligente autore nativo di Casteltermini, cioè della provincia di Girgenti. Nel corso della trattazione emergono, da citazioni puntuali, altri nomi: Flechia, Caix, Mussafia, Forster, D’Ovidio, i

vocabolari del Diez e del Traina, e in appendice* il Saggio (indicato erroneamente come Appunti) di fonetica siciliana del De Gregorio, giunto a Bonn troppo tardi perché Pirandello potesse fare qualcosa di più che rilevare in extremis alcune coincidenze o dissensi. Ma se l’ignoranza del Saggio del De Gregorio (come osserva il Piccitto) non gli nocque gran che, la sua comparsa lo indusse a rallegrarsi di vedere «meine siisse Muttersprache» fatta segno di ricerche tanto approfondite e persistenti che le grandi linee del fonetismo siciliano ne uscivano ormai definite, mentre per una descrizione più completa, che seguisse la screziata varietà degli sviluppi locali, occorreva ancora un gran numero di ricerche particolari, condotte — possibilmente da siciliani — «iiber die laut* Veramente l’esemplare ufficiale della tesi si chiude, alle pp. 50-52, col curriculum vitae del candidato, scritto in latino, e con gli argomenti di di-

scussione (These) per il rito della Inauguraldissertation. Altri esemplari,

evidentemente non ufficiali e tirati successivamente, presentano un fronte-

spizio semplificato e, nelle stesse pp. 50-52, in luogo del curriculum e delle Thesen, del tutto assenti, un’appendice sul Saggio di fonetica siciliana di

Giacomo De Gregorio. Nella presente riproduzione abbiamo voluto che, per completezza, comparissero le pp. 50-52 di entrambe le redazioni.

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lich irgend wichtigeren Punkte unserer herrlichen Insel» (pp. 50 sg.); ricerche di cui la sua poteva costituire un esem- * pio, fondata com'era, oltre e prima che su fonti specifiche e su una più generale preparazione linguistica, sulla indigenità dell’autore, da lui stesso dichiarata la sua fonte più sicura: «Sehr viel aber hat es mir auch geholfen, dass ich aus der Provinz Girgenti gebiirtig bin und in mir selbst die beste Grundlage meiner Arbeit gefunden habe» (p. 2). L'allievo del Monaci e del Forster, ammiratore dell'Ascoli e del MeyerLiibke”, parco estimatore dei sicilianisti autoctoni e paladino

i

di una filologia romanza di livello scientifico («Io studio, con vivo amore e con assidua cura, filologia romanza, e l’opinione

di cui son seguace è quella della scienza a cui mi son dato») ‘; il sicilianista siciliano si trovava dunque sollecitato dalle ragioni di una dialettologia indigena, la cui esigenza prima — di una testimonianza autentica che fermasse sul terreno le singole isoglosse (l’esigenza che indurrà Clemente Merlo a servirsi, nella monografia sul dialetto della Cervara per la collezione «I dialetti di Roma e del Lazio» ispirata ad Ernesto Monaci, di un informatore quasi-locale, il rorzazo de Roma Amerindo Camilli) ‘“ — era sentita e condivisa dagli stessi cultori della dialettologia esogena: «Monographien ùber einzelne lebende Mundarten — osservava il Meyer-Liibke recensendo molto favorevolmente la monografia pirandelliana — thun der romanischen Sprachwissenschaft jetzt am meisten Noth. Die Grundzige der Entwicklung sind fast iberall klar gelegt, die Begrenzung der Lauterscheinungen aber ist das nothwendige Bedingniss fur die Lòsung weiterer Fragen. Dass die Eingebornen dabei vor uns Auslandern einen bedeutenden Vorsprung haben, ist selbstverstndlich und wir selber werden uns iiber Unterstiitzung von ihnen am aller? «Io l'ho letto [il Proezzio dell’Ascoli all’ “Archivio glottologico italiano”] non so più quante volte, perché quelle xLI pagine son cosî dense di pensieri, che alla nostra mente non più usata a lunghe e severe riflessioni non riesce facile di tener loro dietro in una volta sola... Ciò che io intendo per lingua italiana, lo dico... con le parole del Meyer-Liibke, nella Prefazione alla sua Ifalienische Grammatik..., libro che se non va esente di difetti, è pur magistrale e degno di tutta considerazione», da Per la solita quistione della lingua (1890), in PIRANDELLO, Saggi, poesia, scritti varii cit.,

pp. 10884PIRANDELLO, 56.

mi

dligos

dagel

0119

Saggi, poesia, scritti varii cit., p. 884. !! c. MERLO, Fonologia del dialetto della Cervara, Roma 1922, p. 1.

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meisten freuen, namentlich wenn sie in so bescheidener und * zugleich so befriedigender Form geschieht wie in der vorliegenden Arbeit» *. Proprio in forza di una dialettologia bifocale Pirandello era stato in grado di integrare e rettificare i dati del Meyer-Liibke e dello stesso Schneegans, che egli considerava il proprio immediato predecessore; e appunto in quelle aggiunte e rettificazioni lo Schneegans vide il pregio del saggio pirandelliano, non nella descrizione dei caratteri principali del dialetto di Girgenti, definiti secondo lui già da tempo e quindi inutilmente ripetuti: «Die Haupteigentimlichkeiten der Mundart von Girgenti waren schon festgestellt. So bestand eigentlich Pirandello’s Aufgabe nur in der Erginzung oder Richtigstellung des bisher gelieferten... Von Wert ist alsdann die Arbeit insofern man sie als Erzeugnis eines Einheimischen zur Kontrolle der Angaben Fremder uber den Dialekt benutzen kann». Ma l’Einzelnuntersuchung che Pirandello si proponeva, per quanto modesta e ristretta al settore fonetico, non poteva mortificarsi nella forma di un «addenda et corrigenda» delle opere precedenti; troppo presente e attivo era in lui il senso della unità individua, oggi diremmo struttura, del suo parlare materno, per rinunciare a presentarla intera a se medesimo e agli altri. Senza uguali fondamenti, e appunto garanzie, egli si sarebbe mosso nel versante ecdotico della filologia romanza, se avesse realizzato quella edizione critica dei sonetti di Cecco Angiolieri progettata prima del 1896 “, della quale può darci una idea la recensione a quella di A. F. Massèra (Bologna 1906)”.

«Qual è — egli si domanda — o quale dovrebbe essere l’ideale d’una edizione critica? Ricostituire il testo sui mss. diligentemente esaminati in ordine all’età, all’autorità, al contenuto

e vagliati e raffrontati ecc., per modo che esso s’accosti in tutto e per tutto, quanto più sia possibile, all’originale perduto... Che cosa fanno, invece, in genere, i compilatori di edizioni cosî dette critiche? Riconoscono tutti la abituale tendenza 2 «Literaturblatt

1891, p. 375.

fiir germanische

und romanische

Philologie»,

xI,

* «Zeitschrift fir romanische Philologie», xv, 1891, p. 571. !* Come lui stesso confessa nello scritto Un preteso poeta umorista del secolo xIII (1896), in PIRANDELLO, Saggi, poesie, scritti varii cit., p. 258. ! I sonetti di Cecco Angiolieri (1908), in PIRANDELLO, Saggi, poesie, scritti varii cit., pp. 263 sgg.

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negli antichi amanuensi a rivestire delle particolarità fonetiche e morfologiche del loro dialetto i testi da essi copiati che fossero stati composti originariamente in altro dialetto; riconoscono che i mss. sono spessissimo irti di scorrezioni d’ogni sorta, per ignoranza o per negligenza dei menanti...; e poi?

poi, tranne qualche correzioncina, timida anche nei casi pit ovvii, non sanno discostarsene d’un punto; riproducono rigorosamente quei mss., seguono, e se ne vantano, fedelissimamente quegli amanuensi anche nelle loro incostanti abitudini ortografiche; e, quando il materiale si trovi diffuso in pit codici, tolgono come niente ai loro testi “criticamente” ricostituiti (!) l’unità fonetica e morfologica, e non tentano di ripri-

stinare il perduto color vernacolo dell’autore neppure nella misura consentita dalle tracce evidenti che di esso per avventura fossero rimaste nei codici» “. Pirandello tocca uno dei più gravi problemi e limiti della ecdotica lachmanniana e lo risolve, o per dir meglio lo scavalca, con un temerario interventismo: «Se noi sappiamo che i sonetti di Cecco furono composti nel dialetto senese, se noi sappiamo che quei dati suoni e quelle date forme sono senesi, tanto che in virti di essi ha acquistato agli occhi nostri maggiore autorità il cd. che li contiene, non dobbiamo poi valercene per cercare almeno di accostare il nostro testo alla forma che dobbiamo presumere originaria, o se non tale effettivamente, certo più vicina ad essa?» L’aver Cecco scritto indubbiamente in dialetto doveva facilitare il compito dell’editore, perché «in tutti i dialetti in genere son di gran lunga minori le allotropie che per tante ragioni si stabiliscono in una lingua» e perché «l’insieme... crea il particolare. E dunque, innanzi tutto, bisogna aver l’insieme; il che, nel caso nostro, vuol dire lo spi-

rito del poeta, il sentimento delle sue forme, nel tempo in cui visse, nelle condizioni che gli furono proprie. E ciò... anche e principalmente per tutto ciò che riferisce alla forma, alla lingua» ”. Lo spoglio fonetico, morfologico e grafico che Pirandello trae dall’edizione del Massèra — avendo cura di mettere in esponente le forme senesi, spesso rispettate dal codice chigiano, rilevandole sulle varianti dello stesso o di altri codici tollerate dal Massèra — ci dimostra che l’insiezze di cui 4 Ibid., pp. 284 Sg. " Ibid., pp. 287, 298, 284 Sg.

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FRA GRAMMATICA E RETORICA

il recensore parla è, per quanto concerne la lingua, la sua unità strutturale, perseguita nell’insidioso campo degli antichi dialetti letterari con la stessa convinzione con cui era sentita nella sincronia dei dialetti viventi. L’apprezzamento più caldo della monografia di Pirandello viene da un moderno dialettologo conterraneo, il Piccitto ”, che la giudica uno schizzo preciso e sicuro del dialetto della zona di Girgenti, particolarmente felice nella intuizione dei dittonghi metafonetici, meno nella descrizione del vocalismo atono. La lode del Piccitto è, naturalmente, relativa al tempo

in cui il lavoro fu concepito, ben prima delle sperimentazioni fonetiche del rousselottiano Millardet e del tentativo di sintesi fonetica del Ducibella ”, che neanch’essi, malgrado il più moderno impegno, assolsero i grossi compiti della dialettologia siciliana. L’affermazione di Franz Rauhut, che il lavoro di Pirandello non è originale ”, deve correggersi in quella che esso segue lo schema categoriale e descrittivo dell’ Ascoli, già adottato dal Hillen e dallo Schneegans, con più stretta aderenza alla trattazione di quest’ultimo, al quale spesso rinvia o addirittura ne prende (cfr. p. 29) quadri ed esempi. Schema, possiamo aggiungere, che sopravvisse a lungo in una tra-

dizione di studi utile ed onorevole, anche quando si affermarono modi nuovi di analizzare e presentare le unità idiomatiche; i quali non sarebbero comunque mossi dall’indirizzo sa Forster né dal bescheidenes Scherflein (p. 51) di Piranello. L’intensa, ma non esclusiva (non esclusiva degli studi filo-

sofici e dell’attività letteraria), applicazione di Pirandello alla linguistica romanza cessò col rimpatrio dalla Germania; ma già prima egli poteva vedersi, uno e plurimo, nello specchio pIccITTO, Schizzo di storia della dialettologia siciliana cit., pp. 56 sg. ! G. MILLARDET, Etudes siciliennes: recherches expérimentelles et bistoriques sur les articulations linguales du sicilien, in «Homenaje a Menéndez Pidal», 1925, I, pp. 713-57; J. W. DUCIBELLA, The Phonology of the Sicilian Dialects, Catholic University of America, Washington 1934, che tuttavia giudicò la monografia pirandelliana «a fairly scientific analysis of the phonology of the province of Girgenti» (p. IV). °° F. RAUHUT, Pirandello und die Mundart seiner Heimat Girgenti (Agri-

gento), in «Archiv fiir das Studium der neueren Sprachen», 178, 1941,

p. 93.

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dissociante dell’ironia, e credere e insieme dubitare dell’«altro sé», Sprachforscher in Bonn: L’altro, eccolo in Germania, a Bonn sul Reno, sotto un cappello di castoro, enorme: magro egro smunto: non mangia, non dorme; studia sul serio (o cosî crede almeno)

del linguaggio le origini e le forme *,

Comunque, se lasciò le ricerche tecniche, conservò vivissima la coscienza della lingua come nodo problematico e la tenne al centro della sua teoresi letteraria e artistica. Più di un critico ha giustamente rilevato quanta tradizione letteraria condizioni e alimenti lo scrivere pirandelliano, specie nelle poesie e nelle novelle, e quanto Pirandello artista sia legato a Pirandello «filologo» ”. È come dire che a lui il problema della lingua, presente ad ogni scrittore, si poneva in forma particolarmente riflessa e culta, come, in fondo, a quella tria-

de poetica del secondo Ottocento che potremmo, per questo rispetto, chiamare dei poeti-filologi, non per nulla accomunati dal diletto della filologia romanza, il più giovane di essi devoto professo del Monaci. Eppure, riflettendo sull’eterna «questione della lingua» in Italia, Pirandello aveva fin dal 1890 denunciato il peso e il freno della tradizione letteraria: «Se letteratura, o meglio, tradizione letteraria ha mai fatto

impedimento al libero sviluppo d’una lingua, questa più d’ogni altra è l’italiana. Dirò di più, la lingua nostra, che a volerla cercare, non si saprebbe dove trovarla, in realtà non esiste

che nell’opera scritta soltanto... I letterati non conoscono altra lingua che quella dei libri; mentre gl’illetterati continuano a parlar quella a cui sono abituati, la provinciale: ossia i varii dialetti natali». Un circolo, dunque, e ben vizioso: la letteratura contro la lingua, e la lingua contro la letteratura.

Infatti «ciascuno intende la lingua a suo modo, non per sentimento naturale, ma per lo studio che ha fatto su questi o 2! Da Convegno (1891), in Fuori chiave (PIRANDELLO, Saggi, poesie, scritti varii cit., p. 673).

2 Di «eterogeneità di fonti e ricerca assidua» parla A. PAGLIARO in Teoria e prassi linguistica di Luigi Pirandello («Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani», 10, 1969, p. 258), il più esauriente studio sull’argomento, specie per quanto concerne l’espressività del Pirandello narratore; alla quale come motrice di innovazione e mistione linguistica accenna anche c. continI nella sua Letteratura dell’Italia unita (1861-1968), Firenze 1968, p. 609. 7

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quegli autori d’epoche differenti... Ne nasce quindi un difetto di stile, una mancanza d’individualità, di carattere proprio, e una deficienza assoluta di colore storico in una pagina di prosa... un’opera insomma di mostruosa contaminazione... Mancando cost la sicurezza della lingua, che debba mancare anche la tecnicità della parola e debba prodursi l’elasticità del senso della parola stessa, vien di conseguenza. Questo difetto poi genera anche in gran parte la preoccupazione della forma, soffoca in noi quell’afflato creatore, quell’empito interno che dà anima, vita e moto alle parole; non ci fa vivere, insomma, se mi è lecito dir cosî, l’opera nostra, ma ce la fa con pena studiare» ”. Nelle grandi città — continua Pirandello, facendo il punto della situazione italiana attorno al 1890 — si parla il dialetto; quale sarà dunque la lingua di conversazione tra due persone colte, appartenenti a due diverse aree dialettali? «Sentiranno il bisogno di appigliarsi a una favella comune, alla nazionale... Ma dove trovarla, dove si parla questa benedetta lingua italiana?... E il siciliano e il piemontese messi insieme a parlare, non faranno altro che arrotondare alla meglio i loro dialetti, lasciando a ciascuno il proprio stampo sintattico, e fiorettando qua e là questa che vuol essere la lingua italiana parlata in Italia delle reminiscenze di questo o di quel libro letto. Da un pezzo, molti tra i novellieri e iromanzieri moderni, in cerca d’una prosa viva e spontanea, non

scrivono diversamente l’italiano. E il tentativo, fino a un certo segno, meriterebbe lode, ove fosse attuato con pit senno,

con più coscienza del valore che dovrebbe e potrebbe avere l’opera propria, ove insomma i nostri scrittori non fossero

cosî digiuni, come spesso sono, della disciplina filologica. Poiché la gran faccenda dovrebbe esser quella di fermare questo immenso ondeggiamento della forma, del significato della parola, del valore delle espressioni; di promuovere l’unità della lingua» *. Pirandello esponeva questa sua deontologia dopo aver letto — si noti — il Mastro-don Gesualdo di Verga; segno di quanto in lui l’istanza letteraria fosse allora inseparabile da un problema nazionale da risolvere, che egli soffriva come scrittore e come linguista. Ma l’ascoliano, e ® Prosa moderna (Dopo la lettura del « Mastro-don Gesualdo» del Verga) [1890], in PIRANDELLO, Saggi, poesie, scritti varii cit., pp. 879 sgg. % Ibid., pp. 880 sg.

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quindi antimanzoniano, sofferente non disponeva di una panacea, non poteva dare una risposta risolutiva alla gran «questione» °; e non la dà neppure nella replica alla protesta del fiorentino fiorentinista Pietro Mastri, dove gli sfugge l’esplicita esemplificazione verghiana: «un siciliano e un piemontese messi insieme a parlare, parleranno... proprio come par-

lano, mio Dio! Il siciliano press’a poco come il Verga scrive i suoi romanzi; pel piemontese mi manca il termine del paragone» *. L’unità linguistica sarebbe venuta all’Italia dall’«energia della progredita cultura, del ridesto sentimento nazionale», accoppiata «a una operosità infinita», come secondo l’Ascoli era già venuta alla Germania; 0, con altre parole, da una maggiore densità della cultura, da una più intensa attività civile, da una minore preoccupazione della forma”. Intanto, nel cercare la lingua per il proprio stile, Pirandello — che anticrocianamente teneva alla distinzione dei due concetti” — non seguiva la via dell’«arrotondamento» del dialetto siciliano, la via che secondo lui aveva seguito il Verga dei « Vinti». E qui bisogna fermarsi un istante a chiarire. Quando Pirandello parlava di dialetto siciliano (0 piemontese o lombardo ecc.), non intendeva questo o quel parlare

locale, nella sua genuinità o rustica o paesana o provinciale, % Col Manzoni Pirandello polemizza indirettamente ma chiaramente: sia, per esempio, quando scrive: «Che il fiorentino sia poi l'italiano, lo dice ora il signor Mastri, perché veramente gli altri si eran per l’addietro contentati di dire che dovrebbe essere; un pio desiderio, una ricetta infallibile: i sognatori e i medici non mancano mai»; o quando aggiunge che non «tutti i fiorentini possono farsi maestri elementari e andar di paese in paese insegnando l’italiano » (Per la solita quistione della lingua [1890], in PIRANDELLo, Saggi, poeste, scritti varii cit., pp. 883, 886). % Ibid., p. 883. © Che a tale problematica pirandelliana in fatto di lingua abbiano contribuito, oltre l’Ascoli, gli studi compiuti in Germania ha affermato il Pagliaro (Teoria e prassi linguistica di Luigi Pirandello cit., pp. 253 sg.). Quegli studi avrebbero aiutato il giovane Pirandello «a rendersi conto che il formarsi di una lingua comune, la quale rifletta l’uso parlato e a esso pienamente risponda,... non poteva aversi con il semplice riferimento a modelli,... bensf esigeva una complessa, e necessariamente lenta, osmosi tra i dialetti e la lingua, tra il parlato e lo scritto, guidata e illuminata da una vigile coscienza linguistica». Ma «la difficoltà dell’intercambio fra lingua comune dell’uso scritto e dialetto come forma preminente dell’uso parlato, ai fini di una lingua comune parimente idonea alla scrittura e al discorso» si sarebbe svelata a Pirandello in tutta la sua misura «quando egli si trovò a dover ridurre in italiano lavori teatrali composti in dialetto». ® Cfr. Per le ragioni estetiche della parola (1908), in PIRANDELLO, Saggi, poesie, scritti varii cit., pp. 923 Sgg.

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ma il sopradialetto regionale, il «cosî detto dialetto borghese — preciserà nell’Avvertenza della prima edizione di Liolà ®— ..che, con qualche goffaggine, appena appena arrotondato, diventa lingua italiana, cioè quella certa lingua italiana parlata comunemente, e forse non soltanto dagl’incolti, in Italia»; il «gewéhnliches Sicilianisch..., das von jedem Gebilde-

ten in Sicilien gesprochen wird», del quale nella dissertazione dottorale (p. 8) aveva messo in rilievo la cura di evitare le

forme locali e perciò popolari, ad esempio la dittongazione. Quel «siciliano generale» che al tempo del Ducibella (1934) e secondo la sua testimonianza era più compreso che parlato in tutta la Sicilia, perché veniva sostituito, specie nei grandi centri, dall’italiano regionale ”. Oggi la situazione linguistica siciliana è maturata in questo senso e noi dobbiamo mental. mente ripristinare quella di fine Ottocento, se vogliamo renderci esatto conto della problematica pirandelliana. Orbene, Pirandello, che cercava laboriosamente e poligeneticamente la propria lingua (e perciò non la cercava dentro il dialetto) ”, appunto per questo pregiava il dialetto genuino, st che, scrivendo in dialetto la commedia «campestre» Liolà, la scrisse di proposito «nella parlata di Girgenti che, tra le non poche altre del dialetto siciliano, è incontestabilmente la più pura, la più dolce, la più ricca di suoni, per certe sue particolarità fonetiche, che forse più di ogni altra l’avvicinano alla lingua italiana» *, e la volle recitata, come fu scritta, «in pretto vernacolo, quale si conveniva a personaggi tutti conta-

dini della campagna agrigentina». Perciò gli spettatori del teatro Argentina di Roma, abituati al siciliano borghese, stentarono a comprenderla*. Il testo di Liolà per la fedeltà al vernacolo agrigentino (non solo nelle forme e nel lessico ° Formiggini, Roma 1917, pp. VII sg. ° RAUHUT, Pirandello cit., p. 93. 3! Sulla componente dialettale della lingua pirandelliana si vedano F. PuULISI, Il dialetto siciliano nella lingua di Pirandello, in «Atti del Congresso internazionale di studi pirandelliani », Firenze 1967, pp. 713 sgg.; e PAGLIARO, Teoria e prassi linguistica di Luigi Pirandello cit., pp. 254 sgg., 282 sgg. ® «La frase, che può sembrare da orecchiante, ha un fondamento nell’assenza di metafonesi e nello sviluppo a / palatale di / + j»; cosi G. GIACOMELLI, Dal dialetto alla lingua: le traduzioni pirandelliane de «A Giarra» e di «Liolà», in Mille. I dibattiti del Circolo linguistico fiorentino 1945-

1970, Firenze 1970, p. 90. * Cito sempre dall’Avvertenza, loc. cit. La prima rappresentazione di Liolà avvenne, ad opera della compagnia siciliana di Angelo Musco, il 4 novembre 1916.

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DIALETTOLOGO

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ma anche nella resa grafica) e per la compatta aderenza a quel costume rustico (cosî compatta da imporre gravi difficoltà e aporie all’autotraduzione) * può dirsi un estremo frutto dell’antica scienza dialettologica appresa a Bonn, ma non di essa soltanto; anche di una filologia che aveva criticamente esplorata la complessa condizione linguistica, culturale e sociale italiana e perciò distinte le ragioni della lingua nazionale dalle ragioni del dialetto. Quattro anni dopo la stesura di Liol/à, rimeditando il Verga per onorarlo nella sua Catania (1920), Pirandello riconobbe le ragioni del fertiurz genus verghiano, dandogli un posto legittimo, come agli altri due, nella condizione italiana.

«Guardate bene — disse — a queste due discendenze, o famiglie, o categorie di scrittori, per ciò che riguarda la famosa, eterna questione della lingua, veduta come s’è vista sempre, esteriormente e non come creazione. Negli uni è la lingua, come vive scritta: “letteraria”. Negli altri tutti, un sapore idiotico, dialettale, a cominciar da Dante, che nei dialetti appunto, e non in questo o in quello, vedeva risiedere il volgare. E tutta la pompa pit doviziosa della lingua è in D'Annunzio; e dialettale è il Verga. Dialettale? Sf. Ma come è proprio, vo* «Il dialetto si offre — ha osservato Antonino Pagliaro — con una disponibilità di gran lunga superiore a quella della lingua comune o letteraria, specialmente quando questa, come la nostra, è vincolata ai canoni di una lunga e illustre tradizione... Se Pirandello si è, in primo luogo, volto al teatro dialettale, ciò è certo dovuto al fatto che il personaggio gli si formava nella fantasia come vivente in quel particolare linguaggio, capace... di rappresentare realisticamente un certo mito umano cosî come si “stoticizza” in un ambiente. Una riprova di ciò si ha nel fatto che le sue traduzioni in italiano del testo dialettale risultano povere e come spente, nei confronti della veracità e vitalità della forma nativa. Proprio di Liolà si hanno successive edizioni in cui è stata apportata una fitta serie di correzioni al testo della traduzione italiana, mentre la versione siciliana è stata lasciata intatta... I personaggi erano “nati” dentro il dialetto» (in ’U Ciclopu, dramma satiresco di Euripide ridotto in siciliano da Luigi Piandello, a cura di A. Pagliaro, Fi. renze 1967, pp. XIII, XVII sg.). Ad una attenuazione o contaminazione del dialetto Pirandello addivenne, a scopo soprattutto di caratterizzazione stilistica dei personaggi, in ’U Ciclopu, come ha notato lo stesso Pagliaro (ibi4., pp. XXVIII sgg.), e si volse alla parlata catanese, allora dominante nel teatro siciliano, nei lavori fatti in collaborazione con Nino Marttoglio (cfr. F. RAUHUT, Pirandello e il dialetto siciliano, in «Lingua nostra», xxVII, 1966,

p. 49), e anche nella riduzione scenica della Giara, rappresentata al Teatro

nazionale di Roma il 9 luglio 1917 (cfr. Giorgio Piccitto, in L. PIRANDELLO, "A giarra, a cura e con note di G. P., Milano 1963, p. 14). Sulle autotraduzioni di Liolà si veda anche A. varvaRO, « Liolà» di Luigi Pirandello fra il dialetto e la lingua, in «Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani», 5, 1957, PD. 346 S88.

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E RETORICA

lendo fare arte e non letteratura, che si sia dialettali in una

nazione che vive soltanto, propriamente, della varia vita, e dunque nel vario linguaggio delle sue molte regioni. Questa “dialettalità” del Verga è una vera creazione di forma, da non considerare perciò al modo usato, cioè come “questione di lingua”, notandone lo stampo sintattico, spesso prettamente siciliano, e tutti gli idiotismi. Qui idiotico vuol dire “proprio”. La vita d’una regione nella realtà che il Verga le diede, cioè com’egli la senti, come la vide, come in lui si atteggiò e si mosse, vale a dire come su lui si volle, non poteva esprimersi altrimenti: quella lingua è la sua stessa creazione. E non è colpa degli scrittori italiani, né povertà, ma anzi ricchezza per la loro letteratura, se essi “creano la regione”. Nazione da noi vuol dire o volgarità meccanica e stereotipata di stile burocratico e scolastico, o astratta verbosità di lingua letteraria e retorica» ®. Le due opposte discendenze di scrittori, cioè i due diversi e opposti stili della storia letteraria italiana sono stati — aveva premesso — uno stile di cose e uno stile di parole: nel primo la parola non vale che per esprimere la cosa, nel secondo la cosa vale soprattutto per come è detta. Pit che sul piano della lingua il Pirandello del discorso di Catania si muove sul piano dello stile (che «è creazione di forma»), allentando una connessione che un tempo — vista, ora ammette, «este-

riormente» — gli appariva strettissima. Siamo lontani, insomma, dal Pirandello di Bonn, che imputava alla mancanza di si-

curezza della nostra lingua tanto il difetto di stile dei suoi scrittori che il formalismo letterario e allo scrittore chiedeva una disciplina filologica atta a promuovere l’unità della lingua; come siamo lontani dal Pirandello che vedeva la dialettalità come struttura di superficie. È caduto per via quanto di accademico e di normativo era nel suo modo di vedere la questione della lingua, ma è rimasto il senso ascoliano del rapporto necessario tra la lingua e la realtà culturale e sociale della nazione. Con gli occhi amaramente aperti su questa realtà l'artista sa però che gli è concesso interpretarla, e oggettivarla in una forma «propria» all’interpretazione, perché «creata» per essa, e quindi affine, per ciò che concerne il condizionamento linguistico, più alla libertà che alla liberazione. PIRANDELLO, Saggi, poesie, scritti varii cit., p. 417. % Ibid., p. 927.

35

Forme e formule nelle lettere del Manzoni *

L’accuratissima e, fin dove è stato possibile, completa rac-

colta delle lettere del Manzoni — purtroppo senza quelle dei corrispondenti — ad opera di Cesare Arieti («I Classici Mondadori», 3 voll., Milano 1970, pp. 3197, lettere 1816) c’illude di seguire per settant'anni — dal 1803 al 1873 — la storia dell’uomo, del pensatore, dell’artista sullo sfondo della storia italiana ed europea; storie ognuna a suo modo grosse e indubbiamente intrecciate. C’illude senza sua colpa, per il pregiudizio con cui quasi sempre ci accostiamo ad un episto-

lario: che esso sia un’opera preordinata, quasi un genere letterario, come il romanzo epistolare, dal quale appunto esigiamo unità e completezza di svolgimento, mentre invece un epistolario non è che la raccolta di ciò che sopravvive ad una vasta dispersione e che, salvo il caso di corrispondenza tematica, reca l’impronta del motivo occasionale. Si aggiunge il fatto che il conversare a distanza, con persone talvolta malnote o di particolare riguardo, e spesso per dovere responsivo, impone un prudente riserbo o un cortese adeguamento al destinatario, una certa — insomma — compromissorietà se-

mantica o stilistica, la quale trova riparo nelle formule di etichetta. Finalmente, un conversare insimultaneo sia per tempo che per situazione rende, oltre tutto, malsicura la comunicazione; donde la allusività o, per contrario, la ridondanza dei messaggi. Ma chi si avvicina alle lettere del Manzoni con la consapevolezza di tutto ciò e con la disposizione, in più, a sacrificare il proprio questionario, non resta deluso. Leggerà con intelligenza e con cultura: si renderà conto delle condizioni * Da «Paragone/Letteratura», n. 286, dicembre 1973, pp. 28-46.

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storiche in cui alcune di quelle lettere sono state scritte, e perciò dei silenzi su molti eventi politici (ma non su tutti),

della sfiducia nel servizio postale (ossia timore della censura), del rifiuto di onorificenze, del negarsi ad associazioni letterarie; giustificherà il silenzio sull’elaborazione dei Promzessi sposi pensando all’immenso sforzo richiesto dalla rapida composizione di tanta opera; scruterà certe lettere in filigrana, a cogliere tra le righe o nel balenante sorriso o nella formula cortese quel che non può avere in chiare parole; colmerà le lacune con quanto conosce del Manzoni dalle sue opere o da altri documenti; capirà, soprattutto, che un uomo dedicato ad un’attività di creazione unica per l’impegno stilistico, morale e civile, avrà sentito come suo dovere e diritto proteggerla da ogni turbamento esterno, tenerla fuori della mischia quotidiana. Di tale dovere e diritto molte lettere sembrano testimonianza, e ad esso si riconnettono più o meno direttamente

alcuni motivi che ricorrono lungo l’intero epistolario: la salute malferma e la balbuzie, il rifiuto di leggere le «gazzette» e le recensioni delle proprie opere, il rifiuto di dar giudizi sulle opere altrui. Perché, a compenso delle lacune tematiche — quelle relative ai temi che il lettore moderno include spontaneamente nel proprio questionario —, ci sono le grandi costanti della personalità morale, religiosa, letteraria del Manzoni. Chi legge di seguito sente, al di là dei temi più o meno importanti od occasionali, una unità che essenzializza, un

«fuoco» che raccentra; è la presenza inesorabile della mente manzoniana, che informa, col tema, il tono e lo stile, nulla lasciando all’approssimazione, all’inerzia. Ovviamente, il man-

zonista adusato a rilevare le ragioni e i modi di quella presenza nei grandi testi, ad esempio nelle lettere-trattato, amerà talvolta cercarli, come a sfida, nelle lettere pratiche, proprio dove parrebbe che la modestia del tema opponesse il pit opaco schermo alla saisie dell’autore. Il giardinaggio e l’agricoltura sono un leitmotiv dell’epistolario del Manzoni, che alla tenuta di Brusuglio dedicò cure appassionate ed esperte, non per hobby, ma per trarne il profitto necessario al sostentamento della numerosa famiglia, soffrendo quindi direttamente delle crisi delle colture, in particolare di certe colture a cavallo tra l’agricoltura e l’industria, come quella del baco da seta. Molte sono le sue richie-

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E FORMULE

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ste, al Fauriel e ad altri, di libri tecnici e di piante (è da supporre che nella biblioteca di casa Manzoni ci sia un ricco corpo di trattati georgici, non solo italiani, interessanti, se italiani, oltre che per la storia di questa tecnica, per la sua lingua, geograficamente — com’è naturale — molto differenziata,

quindi largamente dialettale e perciò fonte per il Manzoni, cosî all’erta in questa materia, di problemi linguistici); e lui

stesso, trovandosi a Parigi, spediva di là innesti di alberi da frutto, come dimostra la sua lettera del 1° marzo 1820 (n. 130) al fattore di Brusuglio, seguita da una lista dei «peri», «pomi», «pruni», «albicocchi» e «ciliegi» spediti. Orbene, il 5 ottobre 1819, sempre da Parigi (lettera 125), dà suggerimenti allo zio marchese Giulio Beccaria, suo procuratore in assenza, su una nuova piantagione di gelsi a Brusuglio, dopo

che lo stesso Beccaria pochi giorni prima, scrivendo il 25 settembre alla sorella Giulia, ne aveva lamentata la mancanza: Sono stato a Brusuglio e feci sottoscrivere al fattore gli inventarj dei mobili ivi esistenti, previa verificazione della Nota che mi hai lasciata. Ho quindi fatta una lunga passeggiata in tutti i fondi e a dirti il vero sono restato alquanto mortificato di trovarli tanto sprovveduti di Gelsi, di Viti e di Legnami. Ciò fa scemare alquanto in me l’affezione per tale possedimento, ma vedo nonostante quanto sarà difficile il privarsene con vantaggio. Fino ad ora non ho alcuna proposizione per la di lui vendita e nulla ho in vista su tale particolare... Se siete veramente decisi di vendere Brusuglio, datemi le vostre ulteriori istruzioni e saranno eseguite il meglio che saprò. Solo mi dispiace che sul dubbio della vendita non si possono fare delle piantagioni di Gelsi, delle quali tanto urgentemente abbisognano quei fondi. Se non volete venderli, vi farei spendere un poco di danaro per siffatto oggetto, ma sarebbe un danaro ben speso massime per chi ha dei figlj (I, pp. 795 sg.).

Risponde il Manzoni: Quanto alle piantagioni di gelsi a me sembra cosa ottima il farle in principio d’inverno: anche ritenendo, come facciamo sempre, il progetto di vendere; perché daranno certo un migliore aspetto ai fondi. È vero che il ricavo non comincia nei primi anni, ma è certo; ed è cosa aggradevole per un compratore il trovare delle piantagioni ben fatte che renderanno fra quattro o cinque anni, senza pensieri e con pochissime spese ulteriori. Nel cosî detto vignolo di Brusuglio abbiamo un vivajo di circa 800 gelsi innestati che possono benissimo essere piantati: questi si possono collocare nei fondi più sprovveduti a viali larghi braccia 30 e colla distanza di 6 a 15 da un gelso all’altro sulla lunghezza, come è nel viale della vigna fuori del giardino. C'è una bella provvisione di cojacci per

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concimarli. Essendo i gelsi innestati potranno fare una bella figura già in primavera. Io seguo il metodo di Verri: piantare poco profondo; lasciare circa 4 braccia d’aste; allevare tre soli rami nel primo anno, e tenerli netti ec. ec. La sola cosa in cui farei diversamen-

te da lui è nel governo delle radici; egli ne lascia poche, ed io vorrei conservare tutto quello che si può... V’è poi un altro vivajo già innestato di circa altri 800 che possono servire a piantagioni ulteriori, se non si può eseguire la vendita, e a darsi come una bella scorta al compratore nel caso diverso. Questa primavera poi si potrà eseguire l'innesto del gran vivajo che è nel viale della vigna. Quanto al legname ti prego di far fare qualche piantagione di castagni nei ritagli: anche queste serviranno al doppio oggetto, o di migliorare il fondo se ci resta, o di dargli un migliore aspetto per la vendita.

I due brani hanno il medesimo argomento — in quanto il secondo, «rispondendo»

al primo, ne accetta il tema, il tono

e anche alcuni elementi lessicali —, ma organismi affatto differenti. Il primo rappresenta la mancanza di gelsi e altre piante nei fondi, pone tale mancanza in relazione con l’apprezzamento dei fondi stessi (meno incresciosa ma anche meno proficua la loro eventuale vendita) e chiede «ulteriori» (= nuove

e definitive) istruzioni circa la vendita, giacché l’incertezza di essa preclude le piantagioni, mentre la rinuncia le consiglia come spesa previdente. Il secondo brano, partendo dalla medesima premessa, dà soluzione diversa: il progetto di vendere non ha importanza decisiva per le piantagioni, che è bene fare in ogni modo e subito, perché nel caso di vendita daranno migliore aspetto ai fondi e certezza di raccolto futuro, anche se non immediato, al compratore (nel caso poi di non vendita miglioreranno i fondi). Seguono istruzioni precise sulle piantagioni di gelsi da farsi subito, cioè nell’inverno, su quelle «ulteriori» (= «successive»), apprezzabili anche dall'eventuale compratore, e su quelle da preparare in primavera mediante nuovi innesti; nonché, alla fine, sulla piantagione di legname (castagni), vista anch’essa nel suo doppio aspetto di miglioramento oggettivo del fondo e delle condizioni di vendita. Il ragionamento del Beccaria è informato dalla ofelimità del prudente amministratore, che, fatti i suoi calcoli, consi-

dera irrecuperabili nella vendita le spese d’impianto, e perciò eleva la vendita, anzi la decisione della vendita, a condizione risolutiva dell’operazione; il ragionamento del Manzoni a nulla subordina l’imperativo categorico del buon agricoltore

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E FORMULE

NELLE

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(«Sostituisci le piante che vengono a mancare»), motivan-

done, sî, l'esecuzione, ma sussidiariamente, e con argomenti

di utilità piuttosto che di ofelimità, a loro volta posposti a quelli tecnici sulla possibilità della esecuzione immediata. Nel testo del Beccaria precedono infatti le considerazioni economiche, restando del tutto implicite quelle tecniche, che si deducono indirettamente dalla risposta del Manzoni (suo zio evidentemente non riteneva l’autunno la stagione pit adatta alla piantagione); la quale risposta, invece, comincia col risolvere la questione tecnica, dando per implicitamente superate le considerazioni economiche, che intervengono, a tranquillizzare il saggio amministratore, solo in un secondo momento, ma in costrutti successivi e autoconfutanti, quasi a

dissipare un’ombra importuna, per lasciare, come dopo un inciso, riemergere il discorso principale, cioè le istruzioni pratiche per la piantagione, in strutture linguistiche essenziali, inequivoche e aderenti al reale ritmo operativo. È chiaro infatti che l’istruzione esecutiva — sia per la confezione di un cibo o per la costruzione di un apparecchio o per l’applicazione di un procedimento — ha da superare due pericoli: quello dell’ambiguità (lessicale e sintattica) e quello della ridondanza, che, nell’intento di ridurre il primo, spesso lo ac-

cresce. Il miglior modo di superarli entrambi è di creare una corrispondenza tra lo schema dell’azione e lo schema linguistico, insomma fra due strutture logiche; e il grado della corrispondenza sarà tanto maggiore quanto pit il processo dell’azione sarà razionalizzato, cioè condotto a quella condizione di equivalenza che rende la traduzione, e quindi la comunicazione, perfetta. È questo infatti uno dei casi in cui la funzione espressiva della lingua è ridotta al minimo, in cui cioè il modello linguistico cessa di essere primario per divenire secondario e quindi subordinato ad un modello preesistente. Ebbene, si consideri l’istruzione del Manzoni, bipartita a dittico: «Quanto alle piantagioni dei gelsi... Quanto al legname». Comincia col dare il tempo ottimo della piantagione («in principio d’inverno»), poi, portandosi concretamente

sui fondi, nomina il vivaio donde vanno tratte le nuove piante e il loro numero, poi indica il dove e il come della loro collocazione (e il riferimento esemplare); infine il modo e il mez-

zo pet la concimazione. Una breve incursione prospettica sul sicuro rigoglio primaverile; ma, subito, una precisazione sul-

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FRA GRAMMATICA E RETORICA

la tecnica del piantare e dell’allevare, secondo il metodo di Carlo Verri, con una variante personale. Poi altre fonti (cioè vivai) immediate e mediate per le piantagioni future. A conclusione, poche ma sufficienti indicazioni (numero scarso ad libitum, luogo) per la minor parte del dittico, la piantagione dei castagni. Il tutto detto con consequenziarità ineccepibile e con nessuna ridondanza: mancano dittologie sinonimiche, catene attributive, aggettivi esornanti o assiologici: «cosa ottima», «bella provvisione», «cojacci», «bella figura», «bella scorta», sono, indubbiamente, sintagmi valutativi, ma in

accezione cosf utilitaria o quantificante da apparire ruralmente tecnificata. E le parole riprese al Beccaria sono ricondotte al loro senso proprio, perdendo ogni approssimazione e ambiguità: «ulteriore», ad esempio, in «spese ulteriori», «piantagioni ulteriori» significa, propriamente e univocamente, «successivo». Non manca però il gusto compiaciuto dell’agricoltore intellettuale, che s'impersona nell’oggetto o via via lo soppesa. Serve a ciò, di contro alla equivalenza del lessico e della organizzazione sintattica per nuclei operativi, la modulazione predicativa, determinativa, modale, deittica: «... a

me sembra cosa ottima il farle... Nel cosi detto vignolo... abbiamo un vivajo di circa 800 gelsi che possono benissimo essere piantati: questi si possono collocare... a viali... e colla distanza... come è nel viale della vigna fuori del giardino. C'è una bella provvisione di... Essendo i gelsi innestati potranno fare... Io seguo il metodo di Verti: piantare... lasciare... allevare... La sola cosa in cui farei diversamente è nel governo delle radici: egli ne lascia poche, ed io vorrei conservare tutto quello che si può... V’è poi un altro vivajo... di circa altri 800 che possono servire... Questa primavera si potrà esegui-

re l’innesto nel gran vivajo che è nel viale della vigna... Ti prego di far fare... [finalmente richiamandosi in modo esplicito al destinatario e procuratore, coinvolto però implicitamente in tutta la serie modale] ». Non sarebbe difficile andar oltre nello smontaggio del congegno contestuale per dimostrare appunto quanto delle sue strutture coincide col modello operativo e quanto appartiene ad aspetti altri ed autonomi del modello linguistico (cioè pettinenti alla situazione comunicativa ed espressiva), intercalati sf nel primo ma senza produrre ambiguità e ridondanza. Per non tediare il lettore, o per non dispensarlo dalla piace-

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vole fatica di reperire le ragioni della superiorità del brano responsivo, dovuta ad una eccezionale capacità di elaborazione mentale e linguistica, preferiamo presentargli una testimonianza omologa e in certo senso complementare, ma in altro senso diversa, del Manzoni agricoltore, nella lettera da Milano a Tommaso Grossi in Treviglio del 9 novembre 1830 (lettera 359). Si ricorderà il lettore che Giulio Beccaria aveva lamentato la sprovvedutezza, nei fondi di Brusuglio, di tre specie di colture: il gelso, la vite, il legname, e che il nipote gli aveva risposto dando istruzioni solo per due, tacendo cioè per la vite. Orbene, la lettera di undici anni dopo ci mostra un Manzoni tutto enotecnico e dotato di una passione e di una competenza in materia da parere sprecate anche ai suoi più stretti am-

miratori. Anche qui dobbiamo premettere il brano di una lettera del Grossi a cui Manzoni risponde: Ti mando i maglioli — scriveva il Grossi il 4 novembre 1830 — (non m'hai tu detto che roi dichiamo ravigioli, fagioli senza l’u?) Sono stati tagliati da un mio omo martedî, il primo obblato del paese; e tagliati non qui, ma a Boltiere, una terricciuola su quel di Bergamo rinomata da noi pei buoni vini; sono d’uva ucellina, oselina, come dicono a Treviglio, e la descrizione fattami dall’obblato suddetto corrisponde esattamente a quella che mi desti tu stesso a Brusuglio sul viale del tuo giardino. Mi vien detto di raccomandatti di farli piantar presto, il più presto che potrai; io ti riferisco da ignorante quello che mi dicono, a rischio forse che tu ti rida e dei consiglieri e del relatore, ché tu sei quel dotto che sei, che hai logorati gli occhi e lo stomaco, sciupati mesi e denari, fatto arrabbiare parenti e amici a furia di comperare, di leggere, di meditare, di ruminare, e di digerire trattati e trattati sulle viti e sui vini... (I,

p. 978). E anche qui, rispondendo, il Manzoni accetta, col tema, altri elementi del codice di emissione: elementi lessicali, ma

soprattutto l’impostazione tonale: burlesca. La quale nella lettera appunto del Grossi si manifesta su due piani: sul piano del contenuto, divenendo scherzoso rimprovero dell’enomania manzoniana, e sul piano della lingua, facendosi ammiccamento al codice. Ma questo secondo manifestarsi costituisce un’operazione metalinguistica non già puntuale e quindi funzionale al modello comunicativo, bensi tanto tenuta e

martellante da dominarlo e divenire il tema primario della lettera. Rinvio al codice, che è poi, in realtà, rinvio ai codici, i quali — come i capponi di Renzo — si cozzavano e confron-

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tavano nella coscienza linguistica dei due amici lombardi, allora immersi nella questione della lingua e quindi tirati dai poli del dialetto natio, del superdialetto toscano (e meglio fiorentino) e della lingua letteraria. Il gioco metalinguistico comincia proprio ir lizzine, corrodendo, anziché glossando, la tecnicità del primo lessema nomenclatore «maglioli» mediante il richiamo diasistematico alla presenza/assenza del dittongo in campioni eterogenei e quindi centrifughi (ravigioli fagioli - omo - terricciuola - buoni); prosegue nel più centripeto confronto «ucellina - oseliza» e termina in un virtuosistico arpeggio di stretta osservanza toscana, retoricamente

impennato ma affatto estraneo al modello comunicativo («hai logorati gli occhi e lo stomaco, sciupati mesi e denari, fatto arrabbiare parenti e amici a furia di comperare, di leggere, di meditare, di ruminare, e di digerire trattati e trattati sulle viti e sui vini»).

Manzoni risponde a tono: Se tu credessi mai che, in punto di maglioli, non ti resti altro da fare che ricacciarmi in gola i ringraziamenti, con un che mi burli? o per amor del cielo! o simili, vivi miseramente ingannato. Imperocché, tu hai a sapere, 1°. che per la piantagione che ho disegnato di far quest'anno, io aveva fatto conto sulla vigna dalla quale ho avuto l’anno scorso una abbondante provvisione di maglioli di vite pignola: 2°. che, sia per cagion di nebbia, o di gragnola, o del freddo, o del secco, o per che altro malanno si sia, quella vigna non ha messo, quest'anno, se non tralciuzzi buoni da nulla. Di modo che io rimango in secco, come tu vedi; eppur la mia vignola ha a esser dilatata, e il terreno è già bell’e disposto e misurato, e la stagion

de’ fiori non ha a venir prima che in quel terreno sien piantati de’ buoni maglioli di scelta qualità; e questo è diciotto di vino.

In questa prima parte della lettera il tema, che è: «Non credere, in fatto di maglioli, di sottrarti a nuove commissioni, perché dalla mia vigna, che mi doveva fornire, come l’anno scorso, molti maglioli per una nuova piantagione, non ho avuto nulla, mentre il terreno dove devono essere piantati è già pronto», viene infatti incastonato tra due locuzioni colloquiali toscane: che mi burli? per amor del cielo! all’inizio, diciotto di vino

«cosa ben ferma»

in chiusa, e condito di vez-

zi e salti isotopici («vivi ingannato; imperocché; gragnola; tralciuzzi; bell’e disposto; la stagion de’ fiori», senza parlare delle divertite enumerazioni e giri sintattici), con l’effetto di separare il modello comunicativo da quello enunciativo, non

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già per l’inadeguatezza del mezzo linguistico (come spesso accade) ma per la sua volontaria esaltazione attraverso un’operazione metalinguistica. Lo sdoppiamento viene perseguito ad oltranza. L’autobiezione e la supposizione, che nella lettera al Beccaria servivano, ma come in inciso, a superate i

realistici calcoli del troppo ofelimico zio, qui, al centro di questa lettera, divengono un intermezzo giocoso, quasi un balletto di tropi e di topi, di antonimi e di riprese, di tecnicismi e di costrutti, nel quadro di una farsa dell’argomentazione: Non mi dire che, per averli della qualità che si vuole, bisogna pensarci a tempo, visitar le viti prima della vendemmia, riconoscerle all’uve, segnarle: cadresti troppo in contradizione, andresti contro il tuo principio medesimo; giacché questa tua riflessione verrebbe ella a tempo? Quando la strada dritta è chiusa, bisogna andar per la storta; quando è tolto il modo facile, in mancanza di fatti, si lavora sulle ipotesi. a Boltiere la vite uccellina sia comune assai, delle vigne intere; di modo che, senza tante

si ricorre al difficile, e, Suppongo dunque che che ve ne sia de’ filari, disamine, se ne possa

aver maglioli quanto un vuole, ed esser certi che sieno di quella qualità. Che se questo supposto fosse troppo ardito, suppongo che alle foglie si possa riconoscere agevolmente e sicuramente, e che le foglie non sien del tutto cadute. Se m’ingannassi in questo, suppongo che si possa riconoscere al colore, alla grossezza de’ tralci, alla spessezza de’ nodi, a quel complesso di circostanze, che i botanici chiamano abito. Suppongo poi per soprappitù, ad abbondanza che a Boltiere vi sia molta buona fede. Suppongo, e con buon fondamento, che, dove mai mancasse un pochin di buona fede negli altri,

supplirebbe l’intelligenza, e l’oculatezza del tuo Obblato.

Come si vede, le istruzioni tecniche ci sono, e in termini

propri, ma ridotte all’assurdo, in quanto o inserite nel periodo ipotetico della irrealtà (se avessimo fatto le cose a tempo, avremmo dovuto...), o dirette alla molto ipotetica competenza del Grossi, solo per burla promosso obiettore («Non mi dire che...»). Sf che la pseudo-argomentazione finisce ir unguem, 0 in murem, come la montagna partoriente: «Affidati a quelli del luogo». E la sua conclusione, non logica ma reale, è quella che dichiara il Manzoni stesso, uscendo total-

mente dal doppio registro: La conclusione è, che mi bisognano almeno dodici mila maglioli di vite uccellina e non altra, ben condizionati, sani, col loro pez-

zetto di tralcio vecchio, insomma come quei che mi hai mandati. Il prezzo che qui si fa è, secondo la mia poca esperienza, di tre, quattro lire al migliaio; ma, volendo roba scelta, non si ha a guar-

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dar tanto nel sottile: lasciam fare all’Obblato, al quale penserai tu a dare una giusta ricompensa.

Ma, subito dopo, quasi a ristabilire un equilibrio perduto, si ribadisce il castone metalinguistico: Ho parlato chiaro: alla prova si conoscon gli amici. L’andò, la stette, son parole che si trovano, è vero, nella Crusca; ma non so se siano nell’uso vivente.

Ovviamente, sarebbe semplicistico, e addirittura improprio, parlare qui di ridondanza e di ambiguità: il messaggio pratico, nella sua pochezza, è chiarissimo, anche se volutamente contornato, attraversato, cimentato da un altro tipo

di messaggio, che ne travalica o inghiotte le strutture, ne forza la modalità e l’intonazione. Se a tutto ciò la comunicatività del messaggio pratico resiste, si deve alla consapevolezza e destrezza dell'emittente ma anche, e soprattutto, alla sua sintonia col ricevente. Giacché, più che «rispondere» al Grossi e a tal fine adeguare il proprio codice e quindi il proprio testo a quello dell’amico, come vorrebbe una troppo meccanica spiegazione semiologica, il Manzoni collabora ad una contestualità reciprocamente convenuta, ad una — po-

tremmo dire — intertestualità scaturente dal fervoroso discutere sulla lingua e le sue opposte polarità, e quindi alternante il livello metasemiotico al semiotico. Il piglio burlesco contribuisce poi ad accentuare il carattere pluridimensionale del messaggio e dar sapore di linguaiolismo all’autentica speculazione linguistica del Manzoni; ma, a parte ciò, egli è già sulla via che lo condurrà al mimetismo delle lettere del ’45 e del ’46 a Giuseppe Giusti o a firmare come «babbo» quelle che scriverà ai figli. In tema, almeno, di comunicazione agricola sarà ben lecito, anche ad un fiorentino, preferire la sobria lettera del 1819 a Giulio Beccaria.

Un recensore della preziosa edizione che stiamo sfogliando osservava che l’epistolario manzoniano è pieno di formule di cortesia, e che esse sono segno di una convenzionale urbanità e di un vigilato riserbo propri, evidentemente, non solo dell’uomo ma anche della sua classe. Il che è ineccepibile, in quanto attiene alla lettera come strumento di comunicazione sociale.

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Ecco, fra molti, un esempio di chiusa; la chiusa della lettera del 5 dicembre 1827 al padre Cesari (n. 273 bis), piena di reticenze e di sorvoli, di dissenso sostanziale dissimulato sotto un reverente consenso parziale, lettera che sostituisce

quella (n. 273) non meno reverente ma assai più dissenziente, non finita né spedita. Ora, la chiusa che qui trascriviamo è, nel suo carattere di garbato ghirigoro, ciò che meglio poteva risolvere l’ossequioso equivoco di tutto il testo: Farò fine pregandola ch’Ella si degni mantenermi il prezioso e invidiabile dono della sua benevolenza. Che se la tema di non usarne troppo a fidanza mi rattiene dal prender con Lei il titolo d’amico, m'è almeno gran ventura il potermi riverentemente e cordialmente dire, quel che io era da gran tempo nell’animo, Suo Devotissimo Obb.mo Servitore Alessandro Manzoni.

Dove è facile rilevare — come in tutta la lettera, dall’impasto sintatticamente e lessicalmente arcaizzante — un adeguamento al neoprimitivismo del Cesari. Non sempre, però, la formula ha lo scopo risolutorio o assolutorio di un compromesso epistolare, o serve a schermare una comunicazione ingrata, come nel fermo ma rigiratissimo rifiuto a Luigi Pellico di esprimere un giudizio sulla sua commedia in versi La crisi del matrimonio: Non so in che termini rispondere alla cortesissima lettera colla quale Ella vuol pure far meco scusa di cosa per la quale io Le debbo ringraziamenti. Anticiparmi la lettura d’una sua nuova commedia era dalla parte sua una degnazione e un favore: l’essermene privato è stato per me un sagrificio. Ma Ella mi aveva imposta una condizione impossibile, ch’io avessi a portare un giudizio; al che, per buona sorte mia e d’altrui, la mia ripugnanza è pari alla incapacità... Mi lasci Ella dunque il piacere di gustare le sue composizioni in istampa, netto dall’obbligo di allacciarmi una giornea che non mi saprei manco mettere in dosso; e diffalcando, come è giusto, dall’eccedente buon concetto ch’Ella si degna manifestarmi di me, voglia però mantenermi la preziosa benevolenza che v'è unita, e che, sebbene non meritata, posso pure più ragionevolmente desiderare (lettera 193, del 9 novembre 1823).

Si dà il caso in cui il rapporto tra formula e tema s’inverte, e la prima diviene struttura di un contenuto molto impegnativo, degno — sembrerebbe — di una struttura originale. Prendiamo la stupenda lettera del 26 agosto 1859 a Camillo di Cavour (n. 1247), gettata dentro lo stampo di una correntissima formula di cortesia, il cui schema è: «Mi permetta

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di ringraziarla... E colgo l’occasione di dirle anche... Ma non abuserò del Suo tempo prezioso col ripetere...»; uno schema ternario, fondato sulla figura dell’insinuazione (non certo

ignorata da chi ammetteva, a tempo e luogo, quella «rettorica discreta, fine, di buon gusto» di cui nel romanzo aveva fatto l’uso migliore). La prima parte dello schema contiene il motivo primario della lettera: il ringraziamento, non strettamente dovuto ma sentito, di quanto il Cavour aveva fatto per promuovere l’assegnazione al Manzoni di una pensione statale: Signor Conte, mi deve permettere che attesti anche a Lei la mia viva riconoscenza, all’occasione della troppo onorevole liberalità che mi volle usare il Re finalmente nostro in fatto, come lo era già ne’ nostri affetti e nelle nostre speranze; poiché, quantunque io sappia d’esserne debitore a una spontanea e indulgentissima bontà e degnazione del Re medesimo, non ho potuto ignorare che uno stesso disegno, mosso ugualmente da una troppo indulgente benevolenza, era nelle di Lei intenzioni, e già n’era preparata la pro-

posta.

La parola «occasione», emersa in questa prima parte, è il nucleo che genera la seconda, dove infatti ricompare; solo che il rettorico discreto e fine (più discreto e fine che nella lettera al Grossi) sente il bisogno, ad evitare la durezza di una duplicazione esatta, di variare l'intonazione, mutandola da ingiuntiva in interrogativa: Ma come potrebbe un Italiano avere un’occasione, un titolo qualunque, di rivolgersi a Lei, senza valersene premurosamente, per accennarle almeno, se non esprimerle, que’ sentimenti d’ammirazione e di calda riconoscenza, di cui sono stati e sono animati i nostri pensieri, e che hanno occupata e occupano tanta parte de’ nostri discorsi, per tutto ciò ch’Ella ha voluto e saputo fare e avviare in benefizio di questa comune patria?

Ed ecco che dallo stesso nucleo, ripropagginato («Fortunato però d’aver trovato una tale occasione...»), si svolge, con intonazione ancora diversa, la terza parte («... io non sono per abusarne col ripeterle ciò che le è venuto e le viene da tante e tante parti, e rubar troppo de’ suoi preziosi momenti...»), ma suddivisa a sua volta in due: la prima, or ora citata, col suo dimesso carattere di ridondanza e di locus communis, dopo l’impennata precedente, assume la funzione di transitio a quella che costituisce la vibrata conclusione del messaggio e scocca proprio dal punto di massima depressione

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della precedente, dal centone «rubar troppo de’ suoi preziosi momenti»: «giacché, cosa vuole? noi siamo fissi a non credere ch’Ella sia disoccupata, né che, a cose non finite, il suo

animo possa volere un riposo che l’Italia non vorrebbe». Si potrebbe sostenere che, sotto la pressione di tanto contenuto, la formula è scoppiata ed è un atto di necroforia il pretendere di ritrovarla. Eppure no: il recensore che ha visto l’epistolario del Manzoni pieno di formule di cortesia e di un tono di convenzionale urbanità, ha visto giusto, purché però distingua tra impiego e impiego di quelle formule e comprenda che esse non erano in contraddizione con lo scrittore fortemente «impegnato» e quindi desideroso di pubblico che il Manzoni era. Determinato fin dall’abbozzo del romanzo a sostituire ad un insieme di scelte stilistiche — quale si poteva allora definire l’italiano letterario — una vera lingua, egli fu un instancabile raccoglitore e verificatore di tutte le forme tràdite (lessicali, fraseologiche, sintattiche, retoriche, sociali)

intuendo, da grande linguista, il loro alto valore comunicativo. Fautore di una concezione non individualistica né estetica, ma sociologica, della lingua, egli non si esaurî, come da

troppi si è creduto e si crede, nella elezione di un dialetto (o superdialetto, com'era in realtà quello fiorentino) a lingua nazionale, ma perseguî, attraverso tre stesure dello stesso romanzo, una sincronia per quanto possibile fondata e accertata sulle viventi corrispondenze tra le parlate italiane di cui era o poteva venire a conoscenza, cardine la fiorentina non vernacolare, una sincronia non già popolaresca (come i suoi seguaci generalmente intesero), ma popolare nella integrale accezione da lui data al concetto di popolo. La sincronia da lui conseguita fu, come non poteva non essere il conseguimento di uno scrittore, una nuova lingua letteraria; letteraria si, ma talmente sincronica da poter diventare, nella speranza, lingua comune degli italiani; e nuova sî, ma conservante le associazioni, i coaguli, gli stampi che costituiscono la forma formata e formante di una lingua viva, forma che insieme assicura e modula la comunicazione. La spinta innovatrice, e possiamo arrischiare, dato il secolare conservatorismo linguistico italiano, rivoluzionaria che anima la proposta del Manzoni (certo la più importante proposta linguistica che gli italiani abbiano ricevuto dopo quella di Dante) non deve farci dimenticare il sociologismo del proponente, cioè la sua

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straordinaria attenzione ai zz0res, acutamente analizzati ne-

gli aspetti più elevati e più umili e rigorosamente valutati. Del costume faceva parte, e quanta, la lingua, che per molti riguardi lo esprimeva, lo condizionava; e nessuno prima del Manzoni senti cosî intensamente l’inerenza del rapporto tra lingua e costume, non solo come romantica equazione tra unità etnica e unità linguistica, ma come mezzo di unificazione democratica. Orbene, il sociologismo del Manzoni, applicandosi alla lingua, si è trasformato in uno strutturalismo avant-la-lettre: e come nei dialoghi dei Promessi sposi possiamo vedere in gran quantità forme e formule linguistiche perfettamente adeguate al livello sociale, alla cultura e allo

stato d’animo dei personaggi (evidente effetto di una accurata tesaurizzazione), cosî nell’epistolario, genere in cui le necessità comunicative prevalgono e lo stato sociale degli interlocutori è fattore esternamente condizionante, le formule di convenienza e gli stampi allocutivi e delocutivi sono o presenti in quanto condizionati (nel caso di scarsa o nulla conoscenza dell’interlocutore essi offrono, come tutte le norme di comportamento, la convenuta garanzia di un contatto morbido), o ristilizzati con eleganza, o alzati come diaframma tra sé e l’interlocutore, o sfotzati a farsi, nonostante la loro atrofia semantica, paradossali veicoli di molta informazione. Tutto ciò che è uscito dalla penna del Manzoni, anche i

moduli dove più alto è di solito il tasso d’inerzia e di passività linguistica, è frutto di vigile e governante consapevolezza; e l’epistolario, a chi lo legga in questa chiave, proprio per la sua estensione cronologica e per il molteplice condizionamento referenziale, appare un variatissimo esercizio di lingua e di stile presieduto da una costante preoccupazione metalinguistica. Non basta però, naturalmente, la preoccupazione metalinguistica, né basta l’osservanza delle forme sociolinguistiche della comunicazione, a spiegare quel tono librato che spesso sembra isolare il Manzoni dal suo interlocutore. Se, ad esempio, si scorre la poca corrispondenza del Manzoni col Monti (undici lettere in tutto), si resta colpiti dal diverso tono, ammirante sf, ma insieme confidenziale, delle otto lettere fino al 1810 (scritte col «tu», salvo la prima, e

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tra esse più calde e vivaci, come era da attendersi, quelle del Manzoni giovanissimo tra il 1803 e il 1805), reverente invece nella ripresa epistolare del ’27, tre lettere scritte col «voi»,

nelle quali l’impeto del giovane è scomparso, ma l’affetto e la devozione, per chi non si ferma alle apparenze, sono divenuti ben più profondi. Due biglietti, piuttosto che lettere, chiudono il primo ciclo e aprono il secondo; è bene confrontarli: C. A. Fui più volte a Milano — scriveva il Manzoni da Brusuglio nel luglio 1810 —, e non ebbi mai un momento libero per l’amicizia. Non sapendo quando sia per tornarvi, ti mando il libro del Biagioli, che ti prego d’accogliere con lieto viso. Ho finalmente potuto carpire la tua Iliade, e me la sto leggendo con quel diletto ed ammirazione, che mi nasce dall’opere tue. Addio: mia madre e mia moglie ti fanno i loro complimenti, ed io sono sempre il tuo Manzoni.

E il 2 febbraio 1827: Ricevo, mio illustre amico, la desiderata lettera del nostro Fauriel; e mi fo sollecito di trasmettervi copia dell’articolo che risguarda la vostra domanda. Intorno alla risposta da fare al comune amico, attenderò i vostri ordini, 0, potendo, verrò presto a prenderli. Intanto vogliate mandarmi a voce buone nuove della vostra salute, e gradire le proteste d’una antica amicizia e d’una più antica ammirazione. Il v.ro A. Manzoni.

Tra l’uno e l’altro biglietto c'è non solo molto tempo ma anche molta storia: il distacco del Manzoni dal gusto montiano, l’intensissima sua esperienza religiosa e creativa, il declino e finalmente la grave infermità dell’antico maestro, colpito da apoplessia; ci sono anche la lettera al Fauriel del 20 novembre 1826 (n. 250), che dà all’amico francese premurose e commosse notizie sulle migliorate condizioni del Monti e le testimonianze delle visite sue e dei suoi familiari all’infermo (cfr. anche le lettere 256 e 257). Il 17 settembre 1827, scrivendo da Firenze al Grossi (lettera 265), in un concitato poscritto il Manzoni chiedeva notizie della salute del Monti: Non ho mai avuto novelle di Monti e le desidero ardentemente. Se tu lo vedi mi faresti gran piacere a dirgli da parte mia che Niccolini lo risaluta con affetto pari alla riverenza, e che chi gli ha scritto animandolo a venire a Firenze e assicurandolo che qui sarebbe accolto come è trattato in Milano gli ha detto la cosa comella sta. Veramente sarebbe accolto a braccia aperte e a capi chinati. Il suo nome è su tutte le imposte de’ librai e in tutte le bocche. Diglielo, e che spero di rivederlo presto, e di trovarlo ancor più rinforzato che

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non lo lasciai; e con questi miei augurii presentagli quelli di tutta la mia famiglia.

Basterebbero queste righe, cosî vibrate, a rivelare quanto autentici e radicati fossero nel Manzoni l’affetto e la devozione per il Monti'. Eppure, quando pochi giorni dopo egli scrive all’amico prossimo a sparire la lettera che resterà l’ultima, per dirgli direttamente le cose accennate nel poscritto al Grossi, lo stile s’innalza mediante una sostituzione di re-

gistro lessicale e sintattico e nell’innalzarsi dà al messaggio diretto un tono come specularmente riflesso; un tono che un giudice malevolo o superficiale potrebbe definire officioso. Mio caro ed illustre amico — scrive il Manzoni il 13 ottobre 1827, poco dopo il suo ritorno da Firenze, al Monti soggiornante a Caraverio in Brianza — ho trovata qui l’amorevolissima vostra, la quale non venne a tempo d’essermi spedita a Firenze: ma i saluti di cui in essa m’incaricavate, e che sarei stato ben lieto di riferire a viva voce, gli ho subito trasmessi per lettera; e del resto, io ve ne porto il contraccambio nei più vivi termini d’affetto e d’onore, come convien che sia da tali a tale. Non Vi ridirò quanto di simile mi sia stato detto di Voi da tanti che non Vi conoscono di persona: Vi basti che il consenso in questo è generale, come dev'essere: e se, alla novella corsa colà, già è qualche tempo, che Voi poteste farvi una gita, tutta la colta Firenze si commosse; pensate che sarebbe, se vi compariste davvero.

È chiaro che, mentre nel poscritto al Grossi le strutture sintattiche sono regolate da quelle semantiche, semplici e intense, nel brano sopra trascritto si estendono al di qua e al di là del nucleo essenziale, quali anse di avvio, di precisazione, di approfondimento: «... come convien che sia da tali a tale... Non Vi ridirò quanto... Vi basti che... come dev'essere... pensate che sarebbe», sî che finiscono col signoreggiare tutto il passo, dandogli quel rigore di rapporti interni cui le espressioni astratte o allusive («il consenso è generale»; «pensate che sarebbe, se vi compariste») chiamate a ottundere il mordente di certe locuzioni impiegate col Grossi («sarebbe accolto a braccia aperte e a capi chinati»; «il suo nome è su ! C'è chi si stupisce non tanto del sentimento, quanto della ribadita ammirazione del Manzoni maturo per il Monti, assurta a forme iperboliche nei versi per la sua morte: «Salve, o divino, a cui largî natura | Il cor di Dante, e del suo duca il canto! » (1828); mentre il Leopardi pi equamente giudicava il Monti « poeta... dell’orecchio e dell’immaginazione, del cuore in nessun modo » (Zibaldone). Ma non si può dubitare che i versi del Manzoni fossero scritti seriamente.

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tutte le imposte de’ librai e in tutte le bocche») aggiungono la vaghezza del sublime senza togliere la certezza dei valori. Potete immaginarvi — prosegue il Manzoni riducendo il tono — quanto mi dolga l’intendere dalla vostra lettera che l’aria della Brianza non v’abbia portato quel giovamento che Vi pareva di poterne aspettare. Ma mi conforta che la lettera è scritta pochi giorni dopo il vostro arrivo; e spero dal progresso del tempo quel profitto che forse non si poteva ottener cosî alla prima; spero di rivedervi più vigoroso, in Milano o costf, dove troverò certamente modo di fare una corsa, se il vostro soggiorno vi si prolunga.

Ho detto «riducendo il tono», non già allineandolo a quello del poscritto al Grossi; si resta infatti ben al di fuori del piglio assaettato di quell’imbasciata: «Diglielo, e che spero di rivederlo presto, e di trovarlo ancor più rinforzato che non lo lasciai; e con questi miei augurii presentagli quelli di tutta la mia famiglia». Ecco infatti che gli «augurii» diventano «voti ardentissimi»: Mia madre, mia moglie e la mia e vostra Giulietta vogliono ch’io Vi parli dei loro voti ardentissimi pel miglioramento della Vostra salute, e che Vi attesti i loro sentimenti di tenero ossequio. Per me non credo che faccia mestieri di espressa dichiarazione, e m’assicuro che, a ricordarvi tutto quanto si può esprimere d’ammirazione e d’affetto, basti il dirmi il vostro Alessandro Manzoni.

Ma non ci verrà in mente di dire che la chiusa di questa lettera è un ghirigoro come quella della lettera al Cesari: l’inequivocabile condotta del Manzoni verso il Monti, e la situazione, ci autorizzano, anzi costringono a dare alle sue due

ultime lettere un’interpretazione non riduttiva, cioè a prenderne il graduato registro lessicale, che va dall’ammirazione all’onore, dall’affetto alla tenerezza e che in entrambe le lettere raccoglie attorno al vecchio poeta infermo tutta la famiglia del Manzoni, come un registro di valori che l’orditura stessa di quei testi dimostra non tanto di tornare a spendere quanto di confermare definitivamente in una suprema testimonianza o, per chiamarla più veramente, in un congedo. C'è una lettera del Leopardi al Monti che potremmo dire omologa a quella manzoniana e per tempo e, almeno parzialmente, per tema. Pregiatissimo Signor Cavaliere — scriveva il Leopardi al Monti da Pisa il 23 novembre 1827 —. Mi scrive il sig. Stella che essendo stato a visitarla questi di passati, Ella gli commise di salutarmi a

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suo nome con espressioni di molto affetto. Questa dimostrazione della Sua bontà mi ha cagionato quel contento che Ella può pensare, e mi ha commosso talmente, che io non mi sono potuto astenere dal renderne a Lei per lettera quelle maggiori e quelle più vive, cordiali ed umili grazie che io posso. Ancora, vorrei che la presente fosse una nuova testimonianza della venerazione che io le porto; non che io tema che Ella ne dubiti; ma desidero sommamen-

te che Ella se ne ricordi. E con tutto l’animo mi offerisco per quanto posso e voglio, a servirla in questa Toscana, che è tutta e sempre piena di affetto e di riverenza sincera e profonda al Suo nome. Mi conservi la sua preziosissima e carissima benevolenza, e mi creda fermamente Suo devotissimo e gratissimo servitore Giacomo Leopardi (lettera 564 dell’epistolario a cura di Francesco Flora, «I Classici Mondadori», Milano 1963, p. 803).

È evidente che la scrittura di Leopardi traduce nei termini che offriva il linguaggio di convenienza del tempo un sentimento di grata e affettuosa devozione; un sentimento sincero e commosso, cui non fa schermo o filtro una storia di

rapporti complicati, una situazione particolare, una sociologia religiosa. Ché quest’ultimo è il punto: Leopardi ha una filosofia dell’uomo e un ordine di valori, ma non li sussume in un sistema teologico; quindi il suo rapporto con l’uomo è umanistico, potremmo semplicemente dire umano, cioè di-

retto e sguernito, condizionato soltanto da ciò che attiene alla presenza dell’uomo. L’epistolario del Leopardi è pieno di contatti nudi, inermi, straziati col suo prossimo. Qualcosa

di simile s’intravede anche nel Manzoni giovanissimo; ma dopo la conversione, e precisamente — nell’epistolario — a partire dalla corrispondenza con monsignor Luigi Tosi, in cui comincia il suo linguaggio devoto, comincia anche un riassetto, una messa a fuoco di tutti i rapporti e di tutti i valori nel rigore di un meditato e vissuto sistema teologico. Si avverte benissimo, leggendo l’epistolario, che ogni evento, ogni problema, ogni individuo è giudicato sotto quell’alta luce fissa, è «collocato», come «collocati» sono tutti i personaggi e gli eventi dei Prozzessi sposi. E non che nel capolavoro manzoniano, come nell’epistolario, non ci sia posto per molte forme e sostanze della vita, anche le pit lievi e giocose, ma tutte sono implicitamente o esplicitamente inserite in una prospet-

tiva giudicante, che è il riflesso di una cosmologia teologica. Questo fa sî che il rapporto tra il Manzoni e le persone dei suoi corrispondenti risulti come indiretto, come passante, appunto, attraverso Dio; e che il lettore avvezzo ad un rappor-

FORME

E FORMULE

NELLE

LETTERE

DEL MANZONI

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to umanistico senta talvolta nel suo tono, come in quello di certi santi, qualcosa di preclusivo e disumano. Ma, benché

privo di santità registrata, il Manzoni a Dio credeva veramente; e chi si renda conto di tutto ciò che il credere in Dio im-

portasse in una mente e coscienza come quelle del Manzoni, non potrà, considerando lo stile di molte sue lettere, non tenerlo tra i fattori determinanti. Il librato, il sublime delle ultime lettere al Monti è tutt’altro che accademia che rivesta il nulla affettivo, o cerimoniale solennità compiacente ad una «fama tanto cara»; è la «collocazione» di un grande della vita letteraria e sociale, segno di contrari giudizi e passioni e fortune, ridotto dall’infermità agli affetti e verità essenziali, sentito nella preziosità della sua estrema presenza. Non è la prima volta che il Manzoni s’inchina ad una fama, cara o non cara, certa o non certa che essa gli sia, e la sublima nel segno provvidenziale della sventura e della morte. Il Monti delle due lettere del 15 giugno e del 13 ottobre 1827 è una delle figure più delicate e complesse della fantasia manzoniana.

L’interiezione

nel dialogo teatrale di Pirandello *

1. In uno scritto recente' ho cercato di qualificare il parlato teatrale (del dramma «borghese», naturalisticamente re-

citato) come un parlato sui generis: un parlato programmato dall’autore, quindi privo della spontaneità del parlato in situazione reale, e perciò irrealmente calzante e «pulito», la cui persistente anche se limitata letterarietà è appunto da attribuirsi, più che alla qualità del lessico, all’assenza di ridondanza e di spreco e soprattutto di quei conati che, se linguisticamente abortiscono, hanno tuttavia potere d’informazione. Il parlato recitato — aggiungevo — è una specie del genere «parlato» soltanto in virtii di quella spontaneità provocata cui l’attore perviene incarnandosi nella sua parte, viverdo, come ben si dice, il suo personaggio; spontaneità non quanto all’invenzione delle frasi, che restano quelle scritte dall’autore, ma quanto ai fattori paralinguistici e cinesici, che l’autore non ha potuto affidare alla scrittura. «Perciò — concludevo — l’autoplasto che è ogni vero attore, sarà autorizzato a considerare le battute scritte nel copione come un suggeri-

mento e un’imbastitura di parlato, da trasformare in parlato effettivo e il più possibile pieno vivendo il proprio personaggio e le situazioni dialogiche con gli altri personaggi; e se in tale trasformazione gli sarà necessario o gli accadrà di scandire melodicamente il testo in modo diverso da quello previsto dall’autore, e diromperlo sintatticamente per eseguire interferenze dialogiche (accavallamenti per cambio di turno, fenomeni di controcanale ecc.), “sporcarne” insomma l’ecces* Da «Studi di grammatica italiana», VI, 1977, pp. 227-63. ! Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato, in «Strumenti critici», x, 1976, n. 29, pp. I sgg.; e specialmente pp. 48 sgg.

L’INTERIEZIONE

NEL DIALOGO

DI PIRANDELLO

2II

siva lindura per fornirlo di tutti i caratteri indiziali degli stati emotivi da lui assunti nella sua incarnazione del personaggio, userà del diritto che gli concede la necessità di essere spontaneo». Ovviamente, come ci sono drammaturghi che, anche scrivendo per il teatro «borghese», e quindi rendendosi conto della sua esigenza di farsi a suo modo «parlato», si attengono ad una forma sintattica, se non stilizzata, neppure molto diversa da quella della lingua scritta (salvo a fornire suggerimenti paralinguistici nelle didascalie e affidarsi per il resto alla iniziativa dell’attore), cosî ci sono drammaturghi che cercano di precisare nella stessa scrittura le modulazioni melodiche, le ridondanze, le reticenze, le interruzioni, i pentimenti,

i conati, prevedendo il «parlato-recitato» più adatto, secondo loro, ai propri personaggi. Uno di questi autori (indipendentemente dalla etichetta che si voglia apporre al suo teatro) è Luigi Pirandello, che mentre autorizza, sul piano della teoria, la rimanipolazione indefinita del testo drammatico al fine di assicurare in ogni tempo e luogo la perfetta concelebrazione del rito teatrale, conia tuttavia per i suoi drammi una lingua il più possibile «parlata» già nella scrittura. E non alludo alle perentorie didascalie, che stagliano le maschere dei personaggi e ne governano la gestualità e la modalità, ma alla sapiente resa dei fenomeni del parlato nella stessa rappresentazione grafica. Risulta ad esempio (procedendo dai grafemi minimi) evidente che l’interpunzione, di solito approssimativa e spesso negletta dagli scrittori come dai lettori, è invece nel testo pirandelliano un coscienzioso strumento di articolazione sintagmatica in senso non tanto grammaticale quanto melodico:

essa cioè mira, insieme con altri elementi di

cui diremo, a suddividere il testo in unità o gruppi melodici e a fornirgli, attraverso la maggiore o minore frequenza di tale scansione, un ritmo e un tempo. E se l’effetto scansivo e metronomico è ben superiore a quello che parrebbe consentire un codice interpuntivo che resta convenzionale (rifiutando anche quelle iterazioni o complicazioni di segni che alcuni profondono per suggerire i toni misti o le poussées emotive; salvo ad adottare il carattere spaziato per la messa in rilievo e, col passare degli anni, far uso più fitto, e direi eccessivo, della lineetta sia per collegare segmenti di una unità sintattica distribuiti in battute diverse, sia come segno di segmen-

212

FRA GRAMMATICA

E RETORICA

tazione melodica e di pausazione), tanta efficacia è da attribuire all’applicazione perspicace e rigorosa che ne fa Pirandello. L’interpunzione, si sa, è cosa servile. Essa attende a incidere la catena sintagmatica, la cui orditura può essere più o meno disposta all’articolazione del parlato. Ora, se è lecito supporre che l’interpunzione, quando è applicata al testo scritto, segni piuttosto l’articolazione sintattica che quella melodica, lo è ancor di più supporre che la sintassi di un testo scritto rifletta necessariamente, nonostante le diverse in-

tenzioni dell’autore, la sintassi propria della «lingua scritta», la quale non è, ovviamente, un parlato trascritto, ma l’auto-

noma forma di una lunga disciplina culturale. Anche su questo piano, tuttavia, il dialogo teatrale pirandelliano riproduce, nei limiti del normale (cioè privo di proposte nuove) co-

dice grafico, i fenomeni del parlato. Se Leo Spitzer per il suo geniale Italienische Umgangssprache avesse potuto attingere ai drammi di Pirandello, la sua analisi ne sarebbe stata note-

volmente arricchita in tutti i fenomeni da lui rilevati e raccolti, ma.soprattutto in quelli, meno presenti di altri, del-

l’«Ineinandergreifen von Rede und Gegenrede» °. È effettivamente l’alternarsi e intrecciarsi delle voci, reso da una sin-

tassi concertante, che costituisce il carattere più originale e più maturo della tecnica dialogica pirandelliana. Un costrutto lanciato da un personaggio, e interrotto da un altro, può essere raccolto e proseguito da un terzo e concluso da un quarto, cosî da passare mnemonicamente e formalmente integro, ma non monotono, attraverso più bocche, come una struttura

che, una volta impostata, persegue ostinatamente, sopra ogni intoppo, il proprio sviluppo. Viceversa la stessa voce, svolgendo un unico tema e magari un unico costrutto, può modu-

larlo e variarlo sî da appatire plurima. Ciò è prova di quanto salda e duttile e scaltra sia la sintassi pirandelliana, acquisita attraverso un lungo esercizio letterario e reinventata per il teatro; cioè adeguata al parlato; non però al parlato-parlato ma al parlato-recitato. Se infatti la tecnica dialogica di Pirandello dimostra la sua attenta osservazione e comprensione della fenomenologia del parlato, dimostra anche che quella fenomenologia fu filtrata da una concezione letteraria domi? Italienische Umgangssprache, Bonn-Leipzig 1922, pp. 175-90.

L’INTERIEZIONE

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DI PIRANDELLO

203

nata dall’idea della distinzione fra «le azioni umane quali veramente sono, nella realtà schietta e eterna che la fantasia

dei poeti crea» e «la vita naturale cotidiana e confusa» ’,cioè, linguisticamente guardando, fra il parlato in situazione reale e il parlato in situazione fittizia. Attraverso quel filtro stilistico passarono deliberatamente nella fabula agenda pirandelliana non solo i fenomeni di parlato ammessi dal codice grafico (il che sarebbe stato una limitazione eccessiva ed af-

fatto estrinseca), ma tutti quelli che la fabula acta, quale Pirandello la proponeva, avrebbe potuto recepire nella specificità del suo parlato. I motori della sintassi pirandelliana sono la segmentazione, l'inversione e la variazione, spesso provocate da apposite esche, quali l’interiezione, la vocazione, l’inciso fatico, e favorite da una ricca esplicitazione della deissi; tutti fattori, a

loro volta, di escursione tonale e di intensificata gestualità. Basta dir questo per dire anche che la segmentazione e la variazione sono duplici, cioè sintattiche e melodiche. Ma concorso non significa necessariamente coincidenza. Si pone anche qui il problema, cosî pensosamente impostatoci da Emanuela Cresti, del rapporto (in tutte le possibili accezioni di questa parola) tra i piani sintattico, intonazionale e seman-

tico del parlato; uno dei più grossi e dei più attuali problemi della linguistica ‘. Le nostre osservazioni, finora di una empiria intuitiva, c'inducono ad affermare che l’articolazione sintattica e la scansione intonazionale non sempre coincidono; e che la seconda può essere mutata mantenendo la prima, come suole avvenire nelle diverse interpretazioni recitative, con notevoli spostamenti della distribuzione e peso dell’informazione, e della forza illocutoria, lungo la catena sintagmatica; segno — parrebbe — del predominio della melodia sulla sintassi, della musica sulla grammatica. Del problema erano già ben consapevoli Sergio Karcevski e Charles Bally, quando distinguevano fra unità grammaticale e unità melodica e attribuivano alla sola intonazione la capacità di sempre (cioè anche quando gli elementi grammaticali siano insufficienti) costituire in frase una sequenza sintagmatica dotandola di autono3 PIRANDELLO, Introduzione al teatro, in s. D'AMICO (a cura di), Storia MOLTA del teatro italiano, Bompiani, Milano 1936, p.8. 4 Cfr. E. CRESTI, Frase e intonazione, in «Studi di grammatica italiana», VI, 1977, PP. 45 S88-

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FRA GRAMMATICA

E RETORICA

mia e modalità o, altrimenti detto, facendone una funzione

del dialogo °. Negli ultimi decenni il rinnovato interesse per l’analisi sperimentale, con più affinati strumenti, dei fatti fonetici, lo sviluppo della fonetica percettiva e il contemporaneo rigoglio degli studi sintattici hanno riproposto il problema in termini troppo complessi e dibattuti per richiamarli in questa breve comunicazione. Ci contentiamo di rinviare a due brevi ma importanti scritti di John Laver, The Production of Speech, e di M. A. K. Halliday, Language Structure and Language Function*. Questo studioso, superando una concezione formalmente grammaticale della lingua, ne considera l’unità basica non già la parola né la frase, ina il «testo», in cui la proposizione è organizzata come messaggio ed ha perciò una struttura tematica, articolata in tema-rema, a sua

volta collegata ad una struttura d’informazione constante delle funzioni «dato» e «nuovo» ed espressa dall’intonazione, che divide il discorso in gruppi tonali: e «ciascun gruppo tonale rappresenta ciò che il parlante decide di fondere in una unità di informazione», la lunghezza della quale non sempre coincide con quella della proposizione. Cioè corrisponde a quanto Laver afferma a proposito della produzione del discorso: che «la preparazione e l’articolazione di un programma linguistico non è effettuata secondo una successione di singoli suoni o nemmeno di singole parole. È molto più probabile che elementi neurali corrispondenti a strisce molto più lunghe di discorso siano riuniti in anticipo e poi ammessi ad essere articolati come unico programma continuo». Perciò

«in inglese, l’unità linguistica che sembra avere la maggiore probabilità di essere considerata come striscia preriunita di discorso» sarebbe il gruppo tonale, che è l’unità principale portante modelli d’intonazione e confini non sempre coinci® Cfr. s. KARCEVSKI, Sur la phonologie de la phrase, in TCLP, IV, 1931, pp. 188 sgg., ristampato in J. VACHEK (a cura di), A Prague School Reader in Linguistics, Indiana University Press, Bloomington-London 1967, pp. 206 sgg.; Introduction à l’étude de l’interjection, in «Cahiers F. de Saussure», I, 194I, pp. 68 sgg.; e C. BALLY, Traité de stylistique francaise, Paris-Genève 1951°, I, pp. 267 sgg., 309 sgg.; Linguistique générale et linguistigue frangaise, Berne 1944’, $$ 50, 70, 82-83, 104, 149, I9I n. 3, 203, 232, 260, 261, 2754, 333; Intonation et syntaxe, in «Cahiers F. de Saussure», 1, 194I, pp.

33 Sg.

° J. Lyons (a cura di), New Horizons in Linguistics, Penguin Books, 1970, PP. 53 Sgg., 140 sgg. (trad. it. Nuovi orizzonti della linguistica, Einaudi, Torino 1975).

L’INTERIEZIONE

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denti con quelli della proposizione sintattica; e la prova che il gruppo tonale è «l’unità usuale della pre-preparazione neurolinguistica, viene dal fatto che le scelte d’intonazione e, talvolta, quelle sintattiche nella prima parte del gruppo tonale possono dipendere da scelte fatte nell’ultima parte, e devono quindi anticipare logicamente le scelte susseguenti». D’altronde, l’osservazione dei lapsus, sempre connessi alla «parola tonica», cioè culminativa, dimostrerebbe che «il gruppo tonale viene trattato nel sistema nervoso centrale come atto comportamentale unitario». Ancorandoci al nostro oggetto pirandelliano, l’attenta ponderazione e la lettura ad alta voce dei dialoghi drammatici dello scrittore siciliano già ci consentono di sostenere che in essi il corso melodico non ha minore importanza di quello sintattico ed anzi talvolta lo sormonta e lo condiziona. Riservandoci di dare una parziale dimostrazione di ciò, adduciamo intanto l’autorevole testimonianza di un esecutore scenico di quelle partiture, l’autore Arnaldo Ninchi. Quando gli manifestai il dubbio che il dialogo pirandelliano, per la complessità della concertazione e della tessitura sintattica, fosse ese-

guibile soltanto con un impegno vigile e riflesso, egli negò per diretta esperienza la mia accezione intellettualistica della interpretabilità pirandelliana. Avendo replicato per circa cento volte l’Ezrico IV nella compagnia di Salvo Randone, e avendo ripreso lui stesso, più recentemente, il Nor si sa come

nel ruolo del protagonista, poteva asserire che le parti dei singoli personaggi sono cosî rigorosamente «intonate» dall’autore, che l’attore, una volta assunto il proprio registto, viene «portato» dall’onda del testo. E aggiunse di aver constatato che Randone, nella parte di Enrico IV, per non meccanizzare

le molte repliche mutava dall’una all’altra l’impostazione del registro, ma, assunta un’impostazione all’inizio dello spettacolo, vi si manteneva fino in fondo con l’abbandono di chi

canta una partitura lirica. Prova, tutto ciò, di come il naturale di natura sia assurto in Pirandello a naturale d’arte. 2. Un cosî esperto autore di teatro e, dobbiamo notare,

regista, oltre che inventore di un nuovo parlato teatrale, quale fu Pirandello, dovette certo ammettere la necessità e insie-

me l’opportunità che l’attore contamini, nella vissuta esecu-

216

FRA GRAMMATICA E RETORICA

zione della parte, la lindura che per più ragioni sussiste nel testo scritto. Contaminazione, ovviamente, tanto più lecita

quanto meno operante sul livello lessicale e sintattico e più su quello fonetico, in particolare sulla scansione melodica, sul ritmo e tempo del discorso e sugli elementi ad alto quoziente intonazionale. Uno di questi è il vocativo; ed è anche uno di quelli ad effetto visibilmente più calcolato dal nostro autore. Basterà citare alcuni brevi passi per rendersene conto: dal Piacere dell'onestà, 1, 600': «BALDOVINO. Le chiedo, prima di tutto, una grazia. FABIO. Dica, dica... BALD. Signor marchese, che mi parli aperto», dove il vocativo mediano (non essendo la battuta di Fabio che un fatto di sottocanale) costituisce la

base per l’involo sintatticamente legato ma intonazionalmente spiccato della essenziale richiesta. Nella stessa scena, 1,

607: «BALD. [...] La consiglio di rifletter bene, signor marchese! », dove il vocativo finale impedisce la chiusura brusca dell’enunciato esortativo, prolungandone l’intonazione e l’efficacia. Si potrebbero fare utili osservazioni sull’uso di un allocutivo che nei dialoghi pirandelliani spesseggia assai più che nella conversazione italiana: quel sigrore/signora/signori che a causa della diffrazione sociale e regionale dell’Italia non ha l’uso generale del mzorsieur/madame]messieurs fran-

cese, ma appunto perciò si presta ad effetti meno convenzionali. Quando la Figliastra dei Sei personaggi si rivolge «sorridente e lusingatrice» al Capocomico con «Creda che siamo veramente sei personaggi, signore, interessantissimi! Quan-

tunque, sperduti», si vede bene che la forte predicatività, quasi monorematica, dell’attributo esclamato è consentita dall’inciso fatico, cui al tempo stesso si deve il mantenimento dell’autonomia predicativa della parte precedente e senza del quale si avrebbe un corso assai diverso: o intonazionalmente più costretto e impennato, se si mantenesse la pausa dopo personaggi, o più fluido, ma con la totale subordinazione del tutto all’ultimo elemento, se la si abolisse. Ricordiamo che

secondo Karcevski l’inciso ha una intonazione neutra, la quale mette in rilievo i segmenti adiacenti, provocando un anda! Da qui in avanti citeremo i testi teatrali di Pirandello rinviando al volume e alla pagina dell'edizione Maschere nude, Mondadoti, Milano 1975.

Le due opere più citate — I piacere dell'onestà e Il berretto a sonagli — saranno indicate con le sigle PO e BS.

L’INTERIEZIONE

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mento intonazionale di tipo asimmetrico ?. Ed ecco un breve passo del Piacere dell’onestà, 1, 644, che nel suo stesso giro ci porge il destro a confronti differenziali: «BALD. [...] Il pericolo vero era per voi, signora: che le accettaste voi [le conseguenze] sino alla fine! e le avete accettate, difatti, avete potuto accettarle, voi, perché disgraziatamente in voi, per forza, con la maternità, l’amante doveva morire. — Ecco, voi non

siete più altro che madre. — Ma io, io non sono il padre del vostro bambino, signora! — Capite bene ciò che vuol dir questo?» Il passo ci consente in primo luogo di notare l’intenso uso non solo sintattico dell’interpunzione, anzi soprattutto intonazionale, che forma unità melodiche e tempi diversi indipendentemente dai rapporti grammaticali. Basta considerare il trattamento del ripetuto deittico voî, cui una segmentazione scaltrissima dà rilievo e timbro via via cangiante. Ma si noti anche il sigrora, che apre e chiude l’argomentazione culminante di Baldovino: la apre creando un interrompimento che isola ed esalta, nonostante il legame sintattico, una compatta unità melodica fulcrata sul voi, la quale poi si propaggina rifranta e commentata nei suoi elementi,

che divengono tante unità melodiche a sé; e la chiude sostenendo e prolungando l’intonazione della contrapposta non meno compatta unità melodica che si polarizza attorno al diametrale deittico î0 e che insorge dopo l’esaurimento della prima e la depressione del ponte «Ecco, voi non siete più altro che madre». Ma non seguiterò a produrmi in osservazioni cosî spiccio-

le e intuitive, che servono soltanto a porre l’esigenza di una campionatura vasta e sperimentalmente verificata, non fosse che con la registrazione e il confronto di interpretazioni diverse. Credo però che, in attesa di ciò, l’esperienza dei colti

e consapevoli attori di cui oggi si onora il nostro teatro possa già darci al riguardo indicazioni illuminanti. Lo stesso attore che ho prima citato mi ha confermato ex informata conscientia l’importanza del vocativo, in particolare di signore, per l’articolazione melodica del testo pirandelliano; ha inoltre consentito nel riconoscere la grande efficacia intonazionale delle interiezioni indicate dal drammaturgo, non meno che la delicata difficoltà della loro esecuzione. Ed è a queste, come 2 Sur la phonologie de la phrase cit., p. 228.

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ad oggetto limitato e specifico, che ora intendo circoscrivere il mio discorso. 3. È risaputo lo scarso interesse che i grammatici e i lessicografi hanno sempre portato alle interiezioni. I primi hanno spesso dubitato di inserirle a pieno titolo nella eletta schiera delle «parti del discorso», i secondi le hanno lemmatizzate e definite raramente e scarsamente, tanto che di quelle antiche abbiamo notizia insufficientissima. Non poche volte mi è accaduto, leggendo testi dei nostri antichi comici o novellieri, di domandarmi invano la giusta accentuazione e il timbro (non dirò l’intonazione!) nonché il preciso significato delle preziose tracce grafiche che degli elementi interiettivi i manoscritti ci hanno trasmesso. Già lo Spitzer del resto, all’inizio del primo capitolo (dedicato all’apertura del colloquio) del già ricordato Italienische Umgangssprache, dopo avere immaginosamente paragonato le interiezioni a squilli di tromba (mentre i vocativi sono «pistole puntate al petto dell’ascoltatore», p. 9) che destano l’attenzione dell’ascoltatore e lo informano dello Stimzzungstenor del parlante, preannunciandogli il carattere connotativo del discorso imminente, dichiara le difficoltà che ha incontrato nella interpretazione delle interiezioni di testi italiani moderni a causa soprattutto della negligenza dei vocabolari verso questa classe di elementi e delle loro «ganze vage Ùbersetzungen und Definitionen», anche del Novo dizionario di Policarpo Petrocchi, che, come

vocabolario manzoniano, avrebbe dovuto curare questo settore più di quanto abbia fatto (e di cui Spitzer gli riconosce

il merito citandolo quasi esclusivamente) '. Data tale lacuna, e la mancanza di una trattazione specifica delle interiezioni italiane, Spitzer abbozza lui stesso una loro fenomenologia, partendo dal definirle come «absolute Musik, da sie keinen (gesprochenen) Text besitzen,... Lieder ohne Worte,... rein

musikalische Stimmungselemente», ma al tempo stesso osservando che, come tutti gli altri elementi lessicali di una lingua, esse hanno significati convenzionali e tradizionali e ! In tempi più recenti il Dizionario enciclopedico italiano e i vocabolati cui esso ha fatto da modello hanno dedicato più attenzione alle interiezioni, ma non quanta la loro natura richiede.

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perciò possono anche da sole equivalere ad una comunicazione (per lo più di uno stato d’animo soggettivo). Toccati di passaggio alcuni problemi meno attinenti al suo lavoro (come quello dell’etimologia e del prestito, e quello della nazionalità o generalità — se non universalità — delle interiezioni),

per l’aspetto del loro impiego egli rileva — sulla base dei propri spogli — che non sempre le interiezioni servono ad aprire il colloquio, ma anche incidono il discorso per metterne in rilievo la particolare affettività o per anticipare quella delle parole seguenti. Per quanto concerne la forma, a parte alcune osservazioni sulla incostante e infedele resa grafica, egli nota la tendenza all’iterazione specie trisillabica e a strutture fonetiche eccezionali rispetto a quelle delle altre parole della lingua; e giunge ad individuare nell’-i una «formante» delle interiezioni italiane (46 — abi, oh — obi, eb— ehi, ub — ubi). Na-

turalmente viene in campo anche il problema più difficile, quello del significato dell’interiezione, complicato dalla polisemia di segni omografi e solo apparentemente omofoni e dal ritenere le interiezioni plurisillabe mere iterazioni delle monosillabe, mentre probabilmente sono strutture autonome ed etimologicamente (per quanto in questo settore sia possibile fare dell’etimologia) diverse. La diversità di interiezioni ritenute identiche a causa di un falso conguaglio grafico e di un’analisi orientata alla confusione piuttosto che alla distinzione è dimostrabile, secondo Spitzer, anche dalla loro diversa posizione abituale nel discorso. D’altra parte contro il proposito di distinguere si potrebbe muovere l’obiezione che le interiezioni non hanno un contenuto semantico proprio, ma

acquistano il loro preciso significato «per contagio» dal contenuto connotativo della frase; e tuttavia contro i casi di in-

differenza semantica e quindi di commutabilità delle interiezioni ne stanno altri di una loro fissa e non commutabile delimitazione.

Se ho qui riassunto le nove pagine che lo Spitzer dedica all’interiezione italiana nell’inizio della sua opera, è stato pet ricordarne e segnalarne le acute, anche se frammentarie, in-

tuizioni e proposte teoriche; alcune delle quali non potevano conseguire conferma o sviluppo se non da analisi non solo sistematiche ma sperimentali, essendo basate su quel fattore intonazionale che per l’interiezione è determinante ma che nelle fonti lessicografiche tradizionali e nello stesso Spitzer

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FRA GRAMMATICA

E RETORICA

è oggetto di rilievi sporadici e soggettivi. Neppure Karcevski, del resto, cui si deve, venti anni dopo, l’eccellente contributo alla problematica dell’interiezione che già abbiamo citato (e

che resta, per quanto ci consta, il punto di arrivo sull’argomento)”, prospetta la necessità di un’indagine strumentale del fattore «intonazione», benché ne esalti l’importanza e su di esso si fondi per l’inquadramento teorico del fenomeno: e in ciò non è senza influenza il fatto che la sua fonetica fosse lo strutturalismo fonologico di Praga. Lo studio di Karcevski è in effetti un felice tentativo di inserire l’interiezione nella teoria saussuriana e strutturalistica del segno. Il «piano semiologico interiezionale» è secondo lui il piano del segno motivato per eccellenza, con forti intromissioni della fonologia (dominio del segno arbitrario per definizione) nella fonetica, della omonimia e sinonimia

nel significato, e quindi della convenzione nella natura. E come per i loro caratteri costitutivi (originalità fonetica nei confronti del sistema della lingua, costante tonicità, assenza del

valore concettuale) le interiezioni si differenziano dai segni immotivati, cosi, conseguentemente, per le funzioni:

i se-

gni immotivati deromzinano, quantificano, indicano, le interiezioni, movendosi su un piano non-concettuale del linguaggio, che perciò si oppone a tutti gli altri piani semiologici, segnalano una presenza. Ma le interiezioni non sono di per sé indifferenziate: Karcevski ne distingue due classi: 1) l’oromatopea, motivata, non-esclamativa, che può essere citata,

cioè inserita nel discorso diretto, non può passare nel discorso indiretto e può costituire una frase; 2) l’esclazzazione, scarsamente motivata, grido umano intenzionale (erede del

primitivo segno sincretico di voce + mimica + gesto e tuttora accompagnato dai due fattori visivi), parola-frase, però non concettuale, quindi frase-segnale, quando è autonoma, e quando non è autonoma, anche congiunzione. Interessante, ma di portata meno generale, è il quadro sistematico delle

principali esclamazioni russe adoperate dal protagonista B del dialogo A (allocutore) — B (allocutario), che Karcevski co-

struisce coi criteri dell’opposizione fonologica e della funzio? Mi è stato pini di recente segnalato lo scritto di L. TESNIÈRE, Sur la classification des interjections, in «Mélanges P. M. HaSkovec», Brno 1936, PP. 343-52; opera che non ho potuto consultare.

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ne dialogica, introducendo fra le marche differenziali, oltre ai tratti fonematici, anche il tono, psicologicamente definito; più importante, invece l’assunzione dell’intonazione a fattore principale non solo dell’emotiva esclamazione, ma della frase come funzione del dialogo. È appunto a Karcevski che va il merito, riconosciutogli dallo stesso Bally, d’aver introdotto l’intonazione nella definizione della frase’: la frase è infatti,

per lui, fonction du dialogue, e precisamente unité d’échange dans le dialogue, e come tale una entité phonique diversa dalla proposizione, in quanto «les indices d’ordre non-phonique sont nettement insuffisants pour la faire considérer comme entité grammaticale ou lexicale» *. Ma qui le cose si complicano, perché Karcevski distingue fra intonazione e tono: l’intonazione è necessaria e sufficiente a distinguere, indipendentemente dagl’indici grammaticali, la frase interrogativa dall’enunciativa, e perciò essa e queste due frasi appartengono al dominio della langue; invece le frasi volitive e quelle esclamative sono caratterizzate dal tono espressivo («phénomène naturel, susceptible, il est vrai, d’étre manié intentionnel-

lement, mais qui est ignoré de la phonologie»), e pertanto si

collocano fuori della langue. «Ce qui fait l’exclamation, c'est le for, tout comme l’intonation fait la phrase. C’est pourquoi la valeur expressive des timbres vocaliques peut à tout instant étre totalement modifiée par le ton. Certaines oppositions deviennent alors supprimables». Evidentemente Karcevski, preso nella morsa paradigmatica dello strutturalismo, separava il ben tipificato contorno melodico dell’asserzione e dell’interrogazione dalla eruttività e sfumabilità inflessiva dell’esclamazione, da un lato sottraen-

do questa all’obbiettività della langue per consegnarla alla soggettività della parole, dall’altro cercando di sistemare il tono nel paradigma opposizionale in concorrenza coi tratti fonematici. Il suo tentativo solleva certo più difficoltà e propone più problemi di quanti non ne risolva: ma per ciò stesso mostra le gravi lacune della trattazione vecchia e le angustie della trattazione nuova dei fatti linguistici, paradossalmente servendosi del più piccolo e più trascurato di essi — l’interie3 BALLY, Intonation et syntaxe cit., p. 41 nota 4.



A

de l'interjection cit., pp. 68 sg.; e * KARCEVSKI, Introduction à l’étude cfr. n., Sur la phonologie de la phrase cit., pp. 207 sg.

FRA GRAMMATICA

222

E RETORICA

zione — per additarci un inesplorato ma imprescindibile settore della fenomenologia fonetica. Se oggi sulla intonazione e sul tono si tenta di sapere o si sa qualcosa di pi di ciò che intuitivamente affermava Karcevski, lo dobbiamo al sorgere di una nuova tecnologia acustica legata ad interessi operativi che hanno coinvolto la collaborazione dei linguisti e li hanno indotti, oltre che ad un più completo studio della fonetica, al reinserimento dei fatti d’intonazione e in genere di enfasi nel quadro funzionale e descrittivo della lingua. Per l’italiano, come è noto, siamo ancora ai primi passi tanto sul piano teo-

rico che su quello sperimentale, e più sul secondo che sul primo. Perciò trattando dell’interiezione nel dialogo di Pirandello io mi affiderò ancora una volta alla mia singola comzpetence di lettore-parlante, e alle mie approssimative nozioni di fonetica, augurando tuttavia che in futuro le mie supposizioni siano confermate o smentite dalle verifiche strumentali e pluralmente percettive; e mi ci affiderò tanto più motivatamente per il fatto che prendo le mosse da un testo scritto, il quale — si sa— anche se dialogico, non «parla». 4. Ci occuperemo dell’interiezione in senso stretto, cioè

del grido istituzionalizzato, escludendo le esclamazioni di parole concettuali

o semanticamente determinate, ma tenen-

do conto delle invocazioni più o meno desemantizzate (tipo Dio!, perdio!, Madre di Dio!, diavolo!) che spesso si uniscono all’interiezione, come a potenziarla. Non prenderemo a priori posizione su questioni pur importanti, come quella se le interiezioni possono avere un significato proprio oppure lo

acquistano solo e sempre dal contesto (cioè dal testo e dalla situazione). La nostra ignoranza della materia è per ora tale, che riteniamo doveroso limitartci alla esposizione ordinata dei dati raccolti nello spoglio integrale di due drammi — I/ piacere dell’onestà (1917) e Il berretto a sonagli (1917) —, quasi integrale del Cost è (se vi pare) (1917), e saltuario di altri. Una prima constatazione è relativa alla frequenza: le pagine dei drammi pirandelliani sono trapunte di interiezioni, invocazioni, vocazioni, incisi fatici, cioè di elementi o escla-

mativi o a forte quoziente tonale; segno, l’abbiamo già detto, di una scrittura disposta al parlato. E appunto per questo pos-

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siamo dubitare non della presenza ma della identità grafica delle oltre 120 interiezioni del Piacere dell’onestà e delle oltre 80 del Berretto a sonagli: possiamo infatti chiederci — e ne siamo autorizzati da ciò che abbiamo accennato sul dialogo scritto per la recitazione — se, ammessa nel drammaturgo in genere, e tanto più in uno come Pirandello, la implicita licenza all’attore di contaminare, nell’esecuzione della parte, la lindura fonetica del testo scritto, non si debba ritenere tale licenza addirittura illimitata per elementi, quali le interiezioni, la cui resa grafica è notoriamente sommaria e omografica; sf che, come una medesima grafia può ricoprire più interie-

zioni di valore diverso, cosi qualsiasi grafema interiettivo equivalga a un compendio e vorrei dire a un segno musicale di «corona», che autorizzi l’interprete a prolungare o a modulare liberamente una propria «cadenza». È tuttavia ovvio che, ammesso questo presupposto, noi non abbiamo altra scelta che classificare i dati cosî come ci si presentano nella pagina.

Ebbene, giudicando secundum alligata, dobbiamo fare per l’interiezione del teatro pirandelliano la stessa sorprendente constatazione che abbiamo fatto per l’interpunzione: la sua tipologia non solo è conforme a quella convenzionale, ma ne è anche più povera. Dominano i tipi 4h, eb, oh, uh; eccezionali, e solo per 4h e ob, le iterazioni; rara la presenza di 7245 e uh, isolate le apparizioni di abi, ohè, auff, ufff, pst — non rientrando nel novero le onomatopee come rénfete (BS, 2,

372), paf (Il giuoco delle parti, 1, 532), e nemmeno gli ab! ah! ab! o ab! ah! ab! ab! che indicano, secondo la quasi immancabile didascalia, forte e lunga risata e quindi, anche se si ritengano vincolanti quanto al timbro vocalico, sono piuttosto indici di un comportamento che non onomatopee o esclamazioni. Indici siffatti potrebbero considerarsi anche i due ah! che nel Berretto a sonagli vengono semantizzati dal testo contiguo (e in un caso anche dalla didascalia) come «respiro

di sollievo»:

«AssunTA. Che ti figuri d’aver guadagnato

[...]? BEATRICE. Che? Ma questo! Ecco! (tira un gran respiro di sollievo) Ah! — che posso rifiatare — cosî!» (2, 386); «ciamPA. Ah che respiro!» (2, 402). Ma l'effettiva forte

espirazione non deve fuorviarci: essa è uno dei tratti articolatori che insieme col tono costituiscono il quadro fonetico proprio dell’interiezione ed è facile accertare che questa interie-

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FRA GRAMMATICA

E RETORICA

zione del sollievo o della compiacenza è una delle pit codificate. D’altronde il «grido finale» della Madre dei Sei personaggi nella scena della saletta di Madama Pace e il «gran grido» di Silia alla fine del Giuoco delle parti non sono lasciati alla natura: il primo è incanalato in un 70! (1, 100), il secon-

do in un semplice 46! (1, 579), entrambi, ovviamente, con la «corona». Ho potuto fare un confronto tra le proposte scritte dell’autore (inclusive della supposta licenza) e l'esecuzione, consen-

tendomelo la registrazione del Giuoco delle parti nella interpretazione di Romolo Valli e Rossella Falk. Il confronto ha confermato l’ipotesi, cui la cultura e l’intelligenza degli interpreti hanno conferito una particolare validità. Rispettatissima è la tessitura lessicale, qualche taglio o spostamento viene fatto in quella sintattica al fine o di eliminare ridondanze tipiche del testo scritto o di provocare accelerazioni nelle situazioni più concitate; più svincolata dalle indicazioni interpuntive è la scansione melodica, che introduce pause anche là dove l’autore non le segna e dove la legatura sintattica non le consentirebbe, sicché l’unità melodica scavalca o incide quella sintattica più di quanto non prevedano la grammatica e la scrittura; vengono anche introdotti effetti di sovrapposizione e interferenza di voci. Ma la vocazione e soprattutto l’interiezione sono i punti di massima libertà esecutiva: se i vocativi sono spostati o soppressi o inseriti, e ciò in connessione col tempo e col corso melodico, la durata e il timbro, e talvolta

la stessa presenza, delle interiezioni sono ad libitum dell’attore, il quale si permette di cambiarne o turbarne il chiaro vocalismo scritto, e di trascinarle, iterarle, modularle. Il

«gran grido» di Silia nella catastrofe non solo è spostato di collocazione, in modo da chiudere la parte del personaggio, ma non è l’esecuzione della schietta proposta 45/ dell’autore. Il che è comprensibilmente dovuto a due motivi: da un lato all’essere l’interiezione, nella scala delle manifestazioni lin-

guistiche, quella più immediatamente connessa alla condizione emotiva dell’attore-personaggio, e quindi rispondente a impulsi di una certo limitata, però insopprimibile spontaneità, dall’altro all’aver gli attori, soprattutto il protagonista, represso il proprio registro, conformandolo intelligentemente alla più gelata delle partiture pirandelliane. Ho potuto anche seguire col testo stampato la registrazio-

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ne del Pensaci, Giacomino! nella esecuzione della compagnia della Radio di Torino, con Sergio Tofano; dove, o per la grave età dell’attore, o per la sua recitazione asciutta e smorzata (il suo celebre understatement recitativo), le impennate to-

nali delle interiezioni sono state soppresse o attenuate e comunque trattate, anche per i timbri vocalici, con molta liber-

tà; e con pari libertà sono trattati la scansione melodica e il gioco dell’enfasi, mentre il lessico e la sintassi, salve certe ab-

breviature, sono per lo pit rispettati. Poiché dunque il vocalismo, il consonantismo, la durata e

il tono delle interiezioni sono abnormi rispetto alla fonetica della lingua, per ciò stesso esse sono rappresentate dalla scrittura più infedelmente di tutte le altre parole, secondo una convenzione che di tanto ne coarta e riduce la tipologia di quanto ne disfrena l’esecuzione. E questo resta vero anche se ammettiamo che nel parlato tutte le parole vengano, per enfasi o per varie inflessioni emotive, distorte dal loro modello neutralmente previsto dalla lazgue e per cosî dire interiettivizzate (senza poi ricitare la scontata approssimatività, sia fonetica che fonologica, della scrittura tradizionale); resta

vero perché, per le interiezioni, la crisi d’identità e di normalità investe lo stesso modello. Constatazioni siffatte non incoraggerebbero lo studio dell’interiezione nei testi scritti, anzi lo sconsiglierebbero, se essa fosse un fenomeno del tutto isolato dal sistema della lingua 0, come si suol dire, agrammaticale. Ma poiché è un fenomeno che spesso ha luogo nella catena sintagmatica, siamo tenuti, almeno come ipotesi di la-

voro, a supporre che abbia effetti su tale catena anche nei testi scritti. Possiamo perciò assumere che il segno grafico d’interiezione costituisce un indice di quegli effetti, qualunque essi siano, e che in vista di essi merita di essere studiato, anche se sul versante melodico dovremo limitarci a qualche proposta, rinviando la conferma ai sussidi strumentali. Sul versante sintattico invece la stessa catena grafica potrà fornirci materia per osservazioni più fondate.

5. Completiamo intanto l’esposizione delle forme interiettive schedate nei due drammi di Pirandello da noi spogliati ad hoc. Della schiettezza e parsimonia dei timbri vocalici abbiamo già detto; dei casi di enfasi espiratoria anche;

226

FRA GRAMMATICA E RETORICA

l’% poscritta, che uniformemente accompagna le interiezioni (ob, mah, abi, ohé), non si sa se indichi aspirazione o non

piuttosto elevazione e tenuta del tono, o entrambe le cose; la nasalizzazione è indicata due volte per 477 (BS, 2, 367 e 387); l’iterazione o il prolungamento, toltine i casi di risata, solo una volta per 46 in ababah, no! di BS, 2, 378 (cfr. oh!

oh! in Cost è (se vi pare), 1, 1018), poche volte per le invocazioni (ob Dio! ob Dio!, PO, 1, 596; Dio mio! ... Dio mio!, PO, 1, 639), una per le combinazioni con monoremi (0% che bellezza! Oh che bellezza! [...] Ob che bellezza!, BS, 2, 402);

e cfr. ohè ohè in Cost è (se vi pare), 1, 1017, e eh già! ch già!, ibid., 1063. Non si può vedere una iterazione semplice, ma con modulazione per salita tonale, e quindi una interiezione diversa da ob, in «0 ob, che diavolo dite? » e «o ob, insomma la finite? » di BS, 2, 361 e 364, con valore arresta-

tivo-ultimativo, come la stessa grafia e il testo adiacente rivelano. Pochissimi sono i casi di interiezione indiretta, cioè ci-

tata: «[...] per l’amore di una donna che gli tiene il cuore stretto come in una morsa, ma che intanto non gli fa dire: — ahi! — che subito glielo spegne in bocca con un bacio», BS, 2, 399; «gli vado innanzi con cera sorridente, la mano protesa: “Oh quanto m’è grato vedervi, caro il mio signor Fifi!” », ibid., 370; «e avrei detto a mia moglie: “Pst! Fagot-

to, e via!” », i2id., 400. Sorprende l’assenza di quella iterazione triplice che Leo Spitzer ha proposto di elevare a tipo per eh, magari considerandola «ein dreisilbiges Wort», non necessariamente formato con la triplicazione di un eb di tutt’altro tipo (op. cif., pp. 3-4). Questa parsimonia iterativa

non deve però essere generalizzata a tutti gli elementi del dialogo pirandelliano, ché anzi sembra, con le debite eccezioni, limitata alle interiezioni stricto sensu e, dopo ciò che abbiamo detto sulla loro approssimatezza grafica e sulla sottintesa licenza accordata all’attore, non priva di sue ragioni. Esclamazioni semanticamente pi determinate, come il sf e il 70, o ingiuntive ed esortative (s4/, via!, fuori!, per carità!), o fatiche (vedi), o vocative, o deittiche (soprattutto ecco e i pro-

nomi di persona), sono spesso ripetute; per non dire delle continue riprese, assertive o interrogative, di singole parole, di sintagmi, di intere frasi, che costellano, ad apertura di pagina, il testo pirandelliano in forza di una segmentazione che impedisce la marcia rettilinea del discorso facendolo tornare

L’INTERIEZIONE

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22%

di continuo su se stesso. Dobbiamo aggiungere che finora non abbiamo messo nel conto l’iterazione non contigua, a distanza, 0 propagginazione, di cui diremo più avanti, la quale ovviamente incide sul corso sintagmatico. La semplicità vocalica dell’interiezione (anche se la schiet-

tezza dei timbri è — in forza del sistema grafico italiano — soltanto grafica e se le vocali nasalizzate si riducono nell’esecuzione a mere sonanti) è talvolta complicata dall’appoggio ad una invocazione, che generalmente è Dio ma può essere anche Signore, e che nei casi di minor desemantizzazione originaria può assumere forme antropologicamente motivate (oh

Madre di Dio! sulla bocca della timorata vecchia serva Fana in BS, 2, 362 e 385; ribattuta subito, nel primo caso, dalla spregiudicata Saracena: «Ma che Madre di Dio!»; e la sola invocazione Madre di Dio! sulla bocca della stessa Fana in BS, 2, 386 e 394; e l’appello ah Signore, ajutaci!, sempre sulla bocca di Fana in BS, 2, 393). La combinazione ob Dio! compare 12 volte nel Piacere dell’onestà, e 4 volte quella Dio mio!, mentre nel Berretto a sonagli si ha 4 volte ob Dio! e 2 volte ob Dio mio! (In altri drammi la combinazione compare con altro vocalismo: si vedano ad es. gli 2h Dio! dell’ultima scena dell’ Azzica delle mogli, di tragica e stupefatta constatazione, uno addirittura interpretato dal testo contiguo: «Ah Dio, che tragedia! », 2, 156 sg.; e l’ab Dio! del secondo atto

di Lazzaro, ben diversamente orientato dalla didascalia: « SARA. [...] quello che più m’inferociva di lui, quando mi s’accostava, era quella mollezza della sua timidità... Tronca con un’esclamazione e un atto di schifo — ah Dio! —», 2, 1198). Vale la pena di fermarsi un momento ad osservare la risemantizzazione di questa per noi spontanea e frequente, e non più impegnata ideologicamente, formula interiettiva. Il valore più attestato è quello di sfogo di un’angoscia (« MADDALENA. [...] non mi lasciate sola in questo momento, per carità! FABIO. Oh Dio! Oh Dio!», PO, 1, 596; e con posticipazione «AGATA (balzando in piedi e afferrandosi alla madre) Via, via, mamma! Oh Dio! », ibid., 599); o di sorpresa, e magari scoperta, con riprovazione («AssunTA. Oh Dio! — E come,

figlia? con una donnaccia di quella specie ti sei messa? », BS, 2, 387), o con spavento («mauRIZIO. Manca il danaro dalla

cassa? MADDALENA. Oh Dio!», PO, I, 639; «FABIO (s70rendo e accostandosi trepidante a Baldovino) Lo prenderò? —

228

FRA GRAMMATICA

E RETORICA

Ma dunque... — oh Dio! — avete lasciato... avete lasciato in altre mani le chiavi della cassa? », ibid.;

«BALDOVINO. E che

volete che importi a me del bambino? MADD. (atterrita; ma riprendendosi) Oh Dio, è vero. — Ma vi richiamo a quanto voi stesso diceste [...]», ibid., 635). Affettivamente deitticizzata, può annunciare un perplesso e penoso imbarazzo: « BEATRICE. Oh Dio mio! E come si fa, dunque? », B$, 2, 380, cui

potrebbe rispondere un oh Dio! solo parzialmente risolutivo, quale: «sPAanò. Oh Dio, ma per la denunzia, non ci vuol niente... È il servizio, signora! Si figura che sia una cosa facile? », ibid., 379, parafrasabile con «Comprendo il Suo imbarazzo, ma pet questo aspetto non è molto giustificato» (ed in effetti la battuta di Spanò risponde ad una di Beatrice che termina con la domanda «Come si fa? »). Ma ecco un ob Dio

mio non troppo esclamato perché ammiccante e sfatante: «BEATR. [...] Scusate, non vi sto dicendo anzi...? CIAMPA. Oh Dio mio, non sono le parole, signora! [...] Lei vuol farmi

intendere sotto le parole qualche cosa che la parola non dice», BS, 2, 370, parafrasabile con

«Ma cosa mi viene a dire,

quando Lei sa benissimo che...» Si veda ora un Dio r2i0, che non è una esplosione di trasecolato raccapriccio, come quello della signora Maddalena al sentire dal parroco agiografo i gran peccati del Santo onomastico del neonato Sigismondo («PARROCO. ...il più atroce dei delitti... sul proprio figliuolo... MADD. Dio mio! Sul proprio figliuolo? E che gli fece? », PO, 1, 620), ma una ben più densa e complessa brachilogia: «BALD. (scoprendo i due abbracciati, subito si fermerà, sor-

preso) Oh! — Chiedo scusa... Poî con severità attenuata da un sorriso di finissima arguzia: Dio mio, signori: sono entrato io, e non è niente; ma pensate, poteva entrare il camerie-

re», PO, I, 626 sg.; da parafrasare con «Non ne faccio un casus belli, ma cosî esagerate: abbiate almeno un po’ di discrezione e cautela». Finalmente un ob Dio commutatore,

che cioè traspone il discorso sul piano metalinguistico, sia per ritegno («mADp. [...] Una parola fuor di tono, senza quella certa... Tocca appena le parole con la voce, quasi che, a proferirle, se ne senta ferire... quella certa... oh Dio, non so proprio come esprimermi...», PO, 1, 588), sia per commentare

il già detto, limitando o chiarendo («MADD. Spiegato tutto, chiaramente? [...] (esitazze) Ma... chiaramente — come?

MAUR. Oh Dio, gli ho detto... gli ho detto la cosa, com'è»,

L’INTERIEZIONE

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DI PIRANDELLO

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PO, 1, 587; «map. [...] Ma com’è? Ditemi almeno com'è? MAUR. Ma... un bell’uomo. Oh Dio, non dico mica un Adone», ibid., 587 sg.; «MAUR. [...] Vedrai che saprà subito entrare in confidenza — FABIO. — cioè, cioè? — MAUR. — oh Dio,

in quel tanto che vorrete accordargliene! », ibid., 595 sg.) '. 6. Pur esaminando finora l’interiezione (scritta) in se stes-

sa, non abbiamo potuto fare a meno, per individuarne il valore, di considerarla nel testo e di tentarne la parafrasi; due fatti che evidenziano da un lato la sua scarsissima autonomia semantica e quindi il suo imprescindibile condizionamento sintagmatico, dall’altro la sua alta densità brachilogica, per cui la parafrasi ne risulta spesso assai ampia e difficile, come ancor prima della nostra esperienza ci hanno mostrato gli acuti saggi che ne ha dato lo Spitzer nelle sue pagine citate. Ma il condizionamento sintagmatico, se implica un aspetto passivo dell’interiezione, non ne esclude uno attivo, cioè di azione

sulla sintassi; ed è a questo aspetto che ora dedicheremo un po’ di attenzione. Già lo Spitzer aveva notato che le interiezioni, quando aprono il colloquio, non solo annunciano l'imminente discorso, ma hanno effetto anche di per se stesse, perché il parlante,

scaricando in esse la piena del suo momentaneo stato d’animo, ne informa l’ascoltatore e lo orienta sul contenuto per lo meno connotativo di ciò che sta per dire (pp. 1-3). Il che si può affermare anche per l’interiezione collocata all’interno di 1 Casistica non molto diversa offre il Cosf è (se vi pare); ne diamo uno spoglio: «AMALIA (cor sgorzento) Oh Dio, e adesso? », I, 103I; «PONZA [...] La signora Frola è pazza. TUTTI (con un sussulto) Pazza? [...]. SIGNORA SIRELLI (cor ur grido) Oh Dio, ma non pare affatto! », 1, 1028; « SIGNORA FROLA Oh Dio, signori, loro credono di rassicurare me, mentre vorrei io, al contrario, rassicurar loro sul conto di lui! », 1, 1032; «AGAZZI Ma no, signora, non s’affligga cosî! [...]. sienorA FROLA Dio mio, come vuole che non mi affligga nel vederlo costretto a dare a tutti una spiegazione assurda, via! e anche orribile! », 1, 1033; «AMALIA E saremo ricevute? AGAZZI Oh Dio, direi! », 1, 1041 sg., dove ob Dio è parafrasabile con «Ma naturalmente, non ci mancherebbe altro! »; «LAUDISI (acceso da un subito pensiero) Oh Dio, signori! Avete sentito? Ma eccolo trovato il bandolo! Dio mio! L’uovo di Colombo! », 1, 1063, dove il primo oh Dio è analogo a quello di « CIAMPA ([...] assorto in una idea che gli balena lt per li, raggiante) Oh Dio! Oh che bellezza! », BS 2, 402, e il successivo Dio wmi0! ridimensiona il contenuto della folgorazione, come a dire: «Non è poi una gran trovata, non ci voleva un genio».

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FRA GRAMMATICA

E RETORICA

un discorso già avviato, dove essa con la sua impennata tonale desta e attira l’attenzione dell’ascoltatore. Che poi l’attesa in lui creatasi non vada generalmente delusa è conseguenza della normale coerenza di sviluppo della catena sintagmatica, la greimasiana isotopia, per cui anche tra l’interiezione «intonante» e il successivo testo «intonato»

c’è nor-

malmente un rapporto di omogeneità. Una spia di questo fatto è la stessa tendenza a esplicitare semanticamente l’interiezione con elementi lessicali immediatamente seguenti, che ne costituiscono una espansione determinativa. Penso che tale modo sia più frequente, e pour cause, nel parlato-scritto che nel parlato-parlato; certo è che lo troviamo ben esemplificato nei drammi di Pirandello, a cominciare da interiezioni copulate con lessemi fortemente interiettivizzati (ah già!, ab no!,

ab no no!, ab st!, ah st st!, ab st?; eb già!, eh st!, eb via!; oh no!, ob no no!, oh bella!; ub già!) fino a combinazioni più sfumate (ab bene, bene!, ab benissimo!, ab certo!, ah certo certo!, ab finalmente!, ab no davvero!; ob certo!, oh senza dubbio!) o di contenuto più specifico (4h che respiro!, ab che tremore!; ob che bellezza!, ob poverino!). Benché la pausa tra l’interiezione e la sua espansione, spesso segnata dalla virgola, divida tali sintagmi in due unità melodiche, queste s’inscrivono in un’unica cornice intonazionale, che è appunto quella impostata dall’interiezione. Non cosî quando l’interiezione è seguita da un vocativo, il quale ha una sua propria intonazione d’inciso anche se — come ha finemente rilevato lo Spitzer (pp. 9 sgg.) — può assumere, «contagiato» dalla situazione, intonazioni ingiuntive, esortative, proibitive, deplorative ecc. conferentigli un forte valore comunicativo. Come in «Oh Setti, la mia figliuola ne morrà! » di PO, 1, 589 l’ob della signora Maddalena non è vocativale, ma si oppone all’ottimistico buonsenso della battuta precedente per intonare la previsione catastrofica, cosî in «Oh Fiff... insomma, io ho da parlare con Ciampa» di BS, 2, 369 l’ob di Beatrice è una brusca sollecitazione del fratello perché la lasci sola; e in «Oh, reverendissimo signor Parroco, onoratissimo della sua visita» di PO, 1, 621 l’ob di Baldovino, entrante premuroso (co-

me dice la didascalia), è un convenzionale grido di accoglienza e di gradimento, scisso dal seguente vocativo. Ancora più evidentemente l’ah di Baldovino in «... se io divento uomo davanti a lei... io... 0... non potrei più...— ah, signora... m’av-

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23I

verrebbe la cosa pit trista che si possa dare», PO, 1, 629,

non si lega affatto al seguente sigrorz, ma chiude la precedente reticenza e apre affettivamente e totalmente la via della cocente dichiarazione, mentre il vocativo è l’ultimo appello

alla comprensione e l’ultima soglia alla confessione. Ci sono, abbiamo accennato, dei casi in cui l'espansione semantizzante dell’elemento interiettivo non è a contatto, ma

a distanza: si ha, per cosî dire, una esclamazione propagginata o intermittente: per es. «MADD. Ah, l’onestà, che scherno [...1!», PO, 1, 589; «PARROCO. Oh, certo! nessuna! », ibid., 624; «FABIO. Ma, oh! senz’impegno, bada! », ibid.,

596; «SPANÒ. Ah, privo di Dio ',che bella cosa, signore mie, la santa pace domestica! », BS, 2, 393; «sPANÒ. Ahahah, no! scusi: questo poi no», ibid., 378; «BEATR. Uh, ma guarda, di sotto l’uscio! che bella combinazione! », ibid., 391; «BEATR. Oh, se è lui: mi raccomando!», ibid., 365; «BEATR. Le mani... uh, già!... le mani!», ibid., 391; «SPANÒ. Per Dio santo, già! c'è anche lui!», idid., 393. Anche questi casi dimostrano che l’interiezione costituisce il diapason del discotso seguente e che l’intonazione può essere dal parlante tanto sentita e memorizzata da protrarsi oltre variazioni e intermit-

tenze. Al suo perdurare contribuirà ovviamente il perdurare di un certo contenuto, come il ritardo o il crescendo dell’e-

spansione potrà dipendere dalla distribuzione dell’informazione: in «PARROCO. Ah, certo! non c’è dubbio!» di PO, 1, 622 vi è un crescendo; in «MADD. Ah, l’onestà, che scherno

[...]!» di PO, 1, 589 vi è una segmentazione che evidenzia il tema ma concentra l’enfasi sul rema; in

«AGATA. Ah, no! Io

non posso, io non voglio ammetterla! » di PO, 1, 630 da una negazione sintetica e immotivata si sviluppa una negazione

analitica e motivata che porta al suo colmo la situazione; in «Mia moglie? Ah, no! Mai, signor Prefetto!» del Cosi è (se

vi pare), 1, 1071, Ponza compie un’operazione analoga, dando dimensione temporale e irrevocabilità alla negazione indistinta.

® Privo di Dio!, mi comunica cortesemente la sicilianista Gabriella Alfieri, è una forma asseverativa (tuttora ben viva nel dialetto siciliano), associata in genere ad una minaccia: ad es. «Privu di Diu, ca vi fazzu perdiri! » Essa conserva comunque la forza del giuramento assai più che non i toscani (e anche siciliani) «com’è vero Dio », « non sarei io se non...», « non mi chia-

mo... se non...»

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FRA GRAMMATICA

E RETORICA

Pit rara dell’interiezione di apertura è l’interiezione che chiude il discorso. E qui sento il bisogno di scusarmi di questo termine molto vago: «discorso». Se per discorso s’intende l’emissione della catena sintagmatica senza determinazione di limite, l’affermare che l’interiezione può aprire o chiudere un segmento qualsiasi di quella catena non va soggetto a obiezione. Altra cosa sarebbe se prendessimo «discorso» nel senso di una unità testuale ampia e complessa, per la quale il concetto stesso dell’aprire o chiudere si vanificherebbe. Che senso può avere, infatti, per l’intero dramma come unità testuale, come macrodiscorso, che esso cominci con una inte-

riezione? È il caso di Cost è (se vi pare), che si apre con la battuta di Laudisi: «Ah, dunque è andato a ricorrere al Prefetto?»; dove l’4h non può avere altro valore che topico e in particolare anaforico, parafrasabile con: «Se ho ben capito quello che mi hai detto, e che certo non mi aspettavo...» e serve a creare un arretramento e quindi un’entrata in 77e-

dias res. Parleremo dunque di interiezione posticipata ad un segmento di discorso, ad una unità sintattica

o melodica (che

possono o meno coincidere), cercando di distinguere i diversi tipi d'impiego. C'è, anzitutto, l’esclamazione che, sorgendo su quanto lo stesso emittente ha finito di dire, esprime la sua autoreazione emotiva (interiezione reattiva, anziché incitativa, la chiama infatti Karcevski)®: «ASSUNTA. [...] lo hanno

arrestato! FANA. Il padrone? Madre di Dio!», BS, 2, 386; «SPANÒ. E allora le dico che lei non conosce sua sorella! Privo di Dio!», ibid., 388-89; «AGATA. Via, via, mamma! Oh Dio!», PO, 1, 599. E c’è l’esclamazione che, attraendo a sé

un’asserzione o un’ingiunzione, la tende e le impedisce di affievolirsi:

«BALD. Mi lascino lavorare, perbacco», PO, 1,

616; «FABIO. Ah, non avete in tasca anche me, perdio!», ibid., 639; dove l’interiezione costituisce appunto un culmine tonale e un arresto previsti, e quindi configura il caso dell’enfasi riverberata o retroflessa, con un effetto riepilogativo analogo a quello delle interrogazioni echeggianti o caudate. Si cumula anche spesso il fenomeno della distribuzione inver? Il quale nella citata Introduction à l’étude de l’interjection, p. 72, chiama appunto reaztive le interiezioni non dirette a nessuno, che sfuggono al parlante nel « dialogo di grado zeto», come reazione a un incitamento esterno o all’effetto delle stesse parole da lui pronunciate.

L’INTERIEZIONE

NEL DIALOGO

DI PIRANDELLO

233

tita dell’informazione, per cui mentre per lo pi si procede dall’interiezione verso un chiarimento e delimitazione successivi (sf che a ragione Heinz Zimmermann ha parlato di una informazione ritardata e retrograda dell’ascoltatore)’, qui si procede dalla dichiarazione semanticamente piena e spiegata verso l’interiezione, che ne riassomma l’orientamento mo-

dale: «BEATR. Ma non cosî con le buone, ah no!», BS, 2,

378. Un tipo a sé anche per la costanza del simbolo interiettivo è la proposizione con intonazione interrogativa dell’eb: «MAUR. Ora bisogna che il sentimento ‘sia contenuto, si ritragga, per dar posto alla ragione, eh? MADD. Si, si», PO, I, 591, dove si vede che l’eb? equivale ad un «Non è vero? ditemi che è vero e che farete cosî». Gli altri esempi non si discostano molto da questo: «MAUR. Ci rivedremo più tardi all’albergo, noi, eh?», ibid., 599, dove eh? è parafrasabile con «Siamo intesi, vero? »; «BALD. Si lamentano, eh? », ibid., 613, dove eb? equivale a «Non è cosî? »; «BALD. A un one-

st'uomo vestito cosî — eh? — non mancano proprio che le cento lire domandate in prestito a un proverbiale amico d’infanzia, per andarsene via decentemente», ibid., 637, dove però l’eb?, mentre chiude la precedente unità esaltando il valore deittico del contiguo cost, costituisce la cerniera tra la prima unità e la seconda. L’eb è l’interiezione su cui più si è soffermato lo Spitzer (forse perché è la più grammaticalizzata), mostrandone la diversità dei valori in relazione ai diversi toni e ai modi di articolazione; c’è poi la questione, che si pone anche per l’ob, dell’apertura vocalica, non verificabile nella scrittura e certamente non uniforme per l’intera penisola. Si pensi, a questo proposito, alla negazione secca e spallucciante del toscano chè! 0, ripetuto, checchè! (dove anche

la prima vocale è aperta) ‘, per convincersi che, come e pit di 3 Nella sua dissertazione di Basilea Zu einer Typologie des spontanen Gesprichs (Syntaktische Studien zur Baseldeutschen Umgangssprache), Francke, Bern 1965. 4 Tutt’altra cosa quindi dal checché «qualunque cosa». L’interiezione è registrata dal Fanfani, Vocabolario dell’uso toscano, nella sola forma semplice, con l’esempio « Vuoi venire alla parata delle Cascine? — Chè, ho altro per il capo» (ma l’accento grave in un testo ottocentesco non ha valore distintivo); dal Petrocchi anche nella forma raddoppiata. Anche Pirandello ha un che! negativo, che è forse la versione semplice del mz4cché!: «MAUR. Ma... è duro, in casa? aspro? MADD. Che! Peggio... Garbatissimo! », PO, 1, 618; «AGATA. Voi le restituirete, e ce n’andremo. sALD. Che! Fossi matto! Non le restituisco, signora! », ibid., 1, 645; «DIRETTORE. No, che! Dio me ne

234

FRA GRAMMATICA

E RETORICA

altre parole italiane, le interiezioni hanno una distribuzione areale tuttora non accertata e, nella loro stessa area, una fonetica spesso «irregolare». Dei due ob! posticipati della «terribile» Saracena, uno si rivolge all’interlocutrice Fana: «[...] ma non si ponga in mente [la signora Beatrice] — e neanche voi [Fana], oh! — che qua debba nascere per forza una tragedia. Neanche per sogno! », BS, 2, 365, e suona come uno scrollone di spregioso incoraggiamento alla timorata Fana; l’altro, diretto anch'esso alla Fana («La chiama coscienza, oh! Questo, al mio paese, si chiama nascondere il sole con la rete», ibid., 362), è invece una riprovazione e insieme un appello all’opinione comune, come dimostrano il passaggio dalla deissi del voi a quella del costei nell’enunciato metalinguistico e il successivo riferimento alla cormpetence compaesana. Occorrono anche interiezioni intercalate, all’effetto (spesso commisto a un fattore reattivo) di esaltare, mediante l’interruzione del contorno intonazionale e l’intensificazione emotiva e articolatoria che ne derivano, lo spicco e la modalità dell’enunciato su cui s'intende attirare l’ascoltatore: «SPANÒ. [...] con questo caldo che io — privo di Dio — sono tutto in un bagno di sudore...», BS, 2, 391; «SPANÒ. [...] signora Assunta mia... che io venero, privo di Dio, come una madre», ibid., 389; «FIFÎ. [...] o io non so, per Cristo, che cosa faccio! », ibid., 387; «FIFÎ. Sta bene, ma mi dica intanto, in nome di Dio, come fu! », ibid., 390; «LA SARACENA. E per esser cosî, qua, tutte le donne, gli uomini, oh!, toppe da scarpe ne fanno di noi!», ibid., 362. E di intercalazione si può parlare in senso proprio negli esempi citati, perché di fatto l'elemento interiettivo incide un segmento che costituisce una regolare unità sintattica e che, malgrado l’interiezione e la suddivisione in unità melodiche che essa produce, conserva il suo contorno intonazionale. Ma, in senso lato, si può so-

stenere che l’interiezione è sempre «intercalata», anche quando rompe il corso sintattico o interviene tra due unità diverse dello stesso parlante e persino tra due battute di parlanti diversi; come del resto dice il suo stesso nome. Solo che, mentre l’interjicere o l’intercalare dei grammatici antichi e mosai », Pensaci, Giacomino! , 2, 277; ecc. Ma se ne ignora l’apertura dele.

L’INTERIEZIONE

NEL DIALOGO

DI PIRANDELLO

235

derni era e continua ad essere giudicato, piuttosto che un atto grammaticale, un fenomeno meteorico nel limpido cielo della sintassi e, fuor di metafora, un atto pregrammaticale o agrammaticale, sciolto da ogni legame sintattico, noi, vedendone la normale ricorrenza nel parlato, torniamo a domandarci se,

proprio per il fatto d’intervenire nella catena sintagmatica, esso non sia sintatticamente rilevante e, anche sotto questo

aspetto, grammaticalizzato.

7. Una volta che un costrutto (o un lessema) è lanciato,

tende a compiere la sua parabola ed ogni suo elemento rezionale o semico proietta in avanti la propria efficacia finché essa non si esaurisca o non venga arginata o cancellata da un elemento successivo. E se si tratta di un costrutto prolettico, o

invertito che dir si voglia, il processo sarà retrogrado, cioè teso a esplicitare il proprio principio, ma sempre dotato di quella energia che lo sospinge al suo pieno sviluppo e alla sua coerenza isotopica. Di ciò è testimonianza non solo la com-

plessa e spesso ipertrofica architettura della lingua scritta, ma la stessa concertazione del parlato, dove il costrutto lanciato da una voce può, sf, essere troncato da un’altra, ma può anche venire rubato e, nel cambio del turno, ripreso, modu-

lato, protratto. Ne abbiamo esempi cospicui in Pirandello, anche se alcuni di essi appaiono studiati. Eccone due dal Cost è (se vi pare), tipici esempi di aggiunzione costruttiva: «CENTURI. [...] ma se di là il signor Laudisi ha detto loro — AGAZZI. — che lei ci reca notizie certe! — SIRELLI. — dati precisi! — LAUDISI. — non molti, sî, ma precisi! Di gente che s'è potuta rintracciare! », 1, 1061; «SIRELLI. Se è la figlia della signora, come sembra a noi di dover credere — AGAZZI. — 0 una seconda moglie che si presta a rappresentare la parte della figlia, come vorrebbe far credere il signor Ponza — IL PREFETTO. — e come io credo senz'altro! — Ma sî! Pare l’unica anche a me», 1, 1068. Eccone altri dove la forza del costrutto scavalca l’interruzione contestante o giunge a sopportare dentro il dialogo primario sottodialoghi che lo incidono e contrastano: «VENZI. So, che è molto grave — MARTA. — questo male che io farei? — vENZI. — questo male che lei fa. Sf. Molto grave», L’amica delle mogli, 2,133;

«ELENA. Io capisco — sa

che cosa? [...] — una cosa che mi fa ribrezzo, orrore — VENZI.

2 36

FRA GRAMMATICA

E RETORICA

- ah, dunque se n’è accorta? — ELENA. — sî — e lei se ne dovrebbe, non solo vergognare, ma fare un rimorso — VENZI. — i0? — ELENA. sf — un grande, grande rimorso — nello stato in cui mi trovo — tanto più ch’è un’infamia — vENZI. — ah, un’infamia? — ELENA. — che lei voglia farmi sospettare di mio marito e di Marta; sî!», ibid., 123; «ELENA. E questa è la crudeltà sua — VENZI. — mia? — ELENA. — sf, sf, sua — vera crudeltà, feroce, verso di me — far vedere anche a me, come possibile, che una tal cosa avvenga — vENZI. — perché quasi è — è — ELENA. — ma senza che loro ne sappiano nulla! », ibid., 124. Ora, a rompere o deviare la vitale propulsione di un costrutto, tanto il parlante che l’ascoltatore dispongono di vari mezzi che qui, non trattando la fenomenologia del dialogo, ci asteniamo dall’esporre. Ma non possiamo disinteressarci di uno di essi, quale parrebbe dover essere, per la sua stessa natura irruttiva, l’interiezione; e perciò siamo tenuti alla verifica della facile supposizione attraverso il materiale schedato. Scotriamo anzitutto i casi di interiezione endogena (che cioè incide il discorso ad opera dello stesso parlante) nelle due commedie spogliate. Alcuni li abbiamo già esaminati ad altro titolo, ma non possiamo esimerci dal riconsiderarli sotto questo nuovo importante aspetto. «BALD. [...] — E non temete, oh! che ponga a effetto la minaccia fatta balenare solo per tenere in rispetto il signor marchese [...]1», PO, 1, 638; «MADD. [...] Si tace un pezzo; si ascolta la ragione, si soffoca

lo strazio — MAUR. — e alla fine viene il momento — MADD. — viene! ah, viene insidiosamente! — È una serata deliziosa di maggio [...1», idid., 591; nel primo caso l’interiezione non rompe minimamente il corso sintattico, e nemmeno nel secondo, dove, nonostante che Maurizio Setti abbia «rubato» il discorso alla signora Maddalena, e questa a sua volta lo rubi

a lui, il medesimo costrutto passa indenne attraverso più voci; non cosî, evidentemente, il corso melodico, che sia nel

passaggio di battuta, sia all’interno della battuta singola, si scandisce, anche ad opeta dell’interiezione, in più unità, però

conservando il contorno intonazionale tipico. Propongo cosf di distinguere tra un contorno intonazionale tipico dei fondamentali modelli illocutori e sintattici (asserzione, interrogazione, ingiunzione, esclamazione; coordinazione, subordinazione ecc.) e una scansione melodica di tipo tematico, in-

formazionale, che può essere inscritta nella prima e sottesa ad

L’INTERIEZIONE

NEL DIALOGO

DI PIRANDELLO

237

essa senza alterare la funzione dell’enunciato. Di questa distinzione si trova già un autorevole spunto in Karcevski, quando separa il paradigma intonazionale della lazgue dalla intonazione della parole. Ancora: «BALD. [...]- A un onest’uomo vestito cosî — eh? — non mancano proprio che le cento lire domandate in prestito a un proverbiale amico d’infanzia, per andarsene via decentemente», PO, 1, 637; «PARROCO. [...] una perfida che, per infami istigazioni, gli fece commettere... eh, sî... il più atroce dei delitti...», i9id., 620; «BALD. [...] E il padre... eh, il padre nell’interesse di lui, del signor marchese, dev'essere per forza onesto! », ibid., 615; «FABIO. Ma dunque... — oh Dio! — avete lasciato... avete lasciato in altre mani le chiavi della cassa? », i2id., 639; «BEATR. [...] vi sanno [certe donne] lisciare... cosî (passa a Ciampa una mano sulla guancia) e que-

ste, eh! queste stanno sopra a tutte, anche se vengono dalla strada», BS, 2, 368; «SAR. [...] E per esser cosî, qua, tutte

le donne, gli uomini, oh! toppe da scarpe se ne fanno di noi! », ibid., 362;

«SPANÒ. [...] in questa stagione, con que-

sto caldo, che io — privo di Dio — sono tutto in un bagno di sudore...», idid., 391; che io venero, privo di «FIFf. Sta bene, ma mi fu!», ibid., 390; «FIFI.

«SPANÒ. [...] signora Assunta mia... Dio, come una madre», ibid., 389; dica intanto, in nome di Dio, come [...] o io non so, per Cristo, che cosa

faccio!», ibid., 387; «FIFi. [...] Non gli sarà parso vero di metter le mani addosso a uno, quando gli tocca far tanto di cappello a tutti quei... (s'interrorzpe, turandosi la bocca e mugolando): — uhm, lo stavo per dire! — che lo ajutano a vivere in pace con sua moglie! », ibid., nel quale ultimo esempio l’interiezione e la sua espansione frasale non solo non interrompono il costrutto sintattico, ma lo integrano, prendendo il posto del sostantivo taciuto e addirittura richiamandolo con un pronome anaforico. Qualcosa di simile avviene in PO, 1, 629: «BALD. [...] Ma ora penso che se avete potuto ricorrere a codesto mezzo, di denunziarmi come ladro, per vincere

il ritegno di lei (indicherà Agata) senza neppur considerare che questa vergogna di cacciarmi di qua come un ladro, di fronte a cinque estranei, si sarebbe rovesciata sul bambino appena nato... — eh, penso che dev'essere ben altro il piacere, 1 Introduction à l’étude de l’interjection cit., p. 70.

238

FRA GRAMMATICA E RETORICA

per me, dell’onestà!»; dove però l’e ha valore riepilogativoconclusivo e con tale valore introduce la ripresa del perso iniziale. Non mancano tuttavia casi in cui l’interiezione serve a

modificare il corso sintattico: «PARROCO. [...] Perché il signor Baldovino ha fatto osservare — e giustamente, bisogna riconoscerlo! con un senso di rispetto che gli fa molto onore — ha fatto osservare che il battesimo certamente avrebbe maggior solennità celebrato in chiesa nella sua sede degna; anche per non offendere... — ah! ha detto una parola veramente bella! — “senz’alcun privilegio” ha detto “che offenderebbe l’atto stesso che si fa compiere al bambino”.— Come principio!... Come principio!...», PO, 1, 624, dove l’a5! anamnetico e

autocorrettivo serve ad arrestare, se non a cancellare, un avvio sintattico che al parlante improvvisamente appare meno fedele e pit banale della citazione; «FABIO. [...] Voi avete intascato trecento mila lire! BALD. (calmzissizzo, sorridente)

No, più, signor marchese! Eh, sono più! sono cinquecentosessantatremilasettecentonovantotto e sessanta centesimi! Più di mezzo milioncino, signor marchese», ibid., 627, do-

ve Baldovino, dopo aver accettato ironicamente l’asserzione e insieme il costrutto del marchese Fabio (negando solo la quantità della cifra), sente il bisogno di mutare costrutto, passando la somma rubata dalla funzione grammaticale e logica di oggetto a quella di soggetto attraverso la commutatrice impennata dell’eb. Nel già citato PO, 1, 629 «BALD. Ma perché... se io divento uomo davanti a lei... io... io... non potrei più... — ah, signora... m’avverrebbe la cosa più trista che si possa dare: quella di non potere più alzar gli occhi a sostener lo sguardo degli altri...» l’interiezione lascia immutata l’impalcatura ipotetica, ma arresta il corso dell’apodosi sostituendola con altra in cui la prima torna come frase completiva; e ciò con effetto di prospezione, di flash verso il futuro. Invece in PO, 1, 588 «MADD. [...] Una parola fuor di tono, senza quella certa... quella certa... oh Dio, non so proprio come esprimermi...» l’interiezione e il conseguente cambiamento di costrutto sono l’esplicitazione intransitiva dell’impasse. A cavallo di due battute è pit facile che l’interiezione abbia effetto di rottura o di arresto sintattici, specialmente in caso di opposizione diametrale o di dissenso: «FIFf. Lascia-

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tela dire! Dice cosî, perché tutte le donne, secondo lei... BEATR. Ah, non tutte, no: certe donne! Perché cert’altre poi ce n’è, che sanno prendervi con le buone [...]», BS, 2, 368;

«AGATA. No! no! questo no! E il bambino? BALD. Ma è una necessità, signora... AGATA. Ah, no! Io non posso, io non voglio ammetterla!», PO, 1,

630; «BEATR. [...] Scusate, non vi

sto dicendo anzi...? ciampPa. Oh Dio mio, non sono le parole, signora! Non siamo ragazzini! », BS, 2, 370. Ma anche in caso di consenso o di risposta anticipata: «MAUR. [...] Co-

desto nome che vorresti imporgli... BALD. Eh, lo so! MAUR. Ma scusa... — ti pare? BALD. Lo so, povero piccino; è un nome troppo grosso! Rischia quasi di restarne schiacciato», PO, 1, 616; «MADD. Sa parlare? Sa parlare... dico... MAUR. Oh, a Macerata, signora, in tutte le Marche, creda, si parla benissimo. MADD. No, dico, se sa parlare a modo! », ibid., 588. A volte, invece, l’interruzione è proseguente: «MADD. Ma deve, deve per forza: bisogna che voglia... MAUR. Eh già, e che si faccia una ragione! », PO, 1, 589; «MAUR. [...] Vedrai che saprà subito entrare in confidenza — FABIO. — cioè, cioè? — MAUR. — oh, Dio, in quel tanto che vorrete accordargliene!», ibid., 595 sg.; «BALD. [...] Non rubo... Sai, per le mani, centinaja di migliaja. Poterle considerare come carta straccia; non sentirne più bisogno, minimamente — MAUR.

— eh, per te dev'essere un gran piacere — BALD. — divino! », ibid., 613. Non rari sono l’interruzione o arresto commentanti, che cioè reagiscono ad una parola, la riprendono e incastonano metalinguisticamente:

«MADD. [...] E... accettato?

senza difficoltà? mauR. Senza difficoltà, stia tranquilla! mapp. Ah! — Tranquilla, amico mio? Come potrei star tranquilla?»,PO, 1, 587; «PARROCO. [...] gli fece commettere... eh, sf... il più atroce dei delitti... sul proprio figliuolo... MADD. Dio mio! Sul proprio figliuolo? E che gli fece? », ibid., 620; «MAUR. [...] avete fatto troppa parte al sentimento. Map. Ah, troppa, sf, troppa! », ibid., 591; «MADD. [...] ce

n’è pure qualcuna [delle donne] che sa rispondere all’amore con l’amore e apprezzare la fortuna che quell’altra ha calpestato. MAUR. Eh, si! Calpestato, povero Fabio! Dice bene, signora. Non se lo meritava», ibid., 591; «PARROCO. [...] Come principio!... Come principio!... AGATA. Ebbene, se lei approva... PARR. Ah, come principio, signora, non posso non

approvare! », ibid., 624; «CIAMPA. [...] dovere mio, qua, da

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umile servitore. BEATR. Eh, via! Servitore, voi? Padroni tutti siamo qua», BS, 2, 368; «SPANÒ. Sempre a servirla, signor Fifi! rIrf. Ah, si, un bel servizio davvero ha reso lei alla famiglia, se ne può vantare! », ibid., 388; «FIFÎ. [...] e poi mi saprai dire dove andrai a finire! BEATR. Ah lo so bene dove andrò a finire», ibid., 366; «FIFÎ. [...] e credete, caro Ciampa,

che n’è pentita, pentitissima! È vero? spAnò. Diavolo! Piange. CIAMPA. Ah, piange...», ibid., 396; «SPANÒ. [...] certi piccoli... piccoli peccati veniali... BEATR. Veniali? ah lei li chiama...», ibid., 379, dove l’interiezione segue, ritardata, alla modulata ripresa del termine. L’interiezione rompe veramente il corso sintattico quando serve da commutatore di situazione. Soprattutto qui dobbiamo fare uso di questa parola che Goethe, citato da Spitzer, definiva «ein albernes Wort, weil nichts steht und alles beweglich ist». Situazione — scriveva lo Spitzer, p.191 — è l’insieme di tutte quelle circostanze esterne, ma anche lo stesso discorso, che agiscono nell’istante in cui si parla. Recentemente il concetto di situazione è stato approfondito sotto più aspetti, anche da parte dei linguisti. Tra quelli che se ne sono di più interessati, specialmente in relazione alla deissi e all’anafora, citerò la studiosa russa Elena M. Vol’f: «Si può considerare la situazione — essa scrive — come un segmento di realtà riflesso nella lingua, e sono possibili varie interpretazioni dei limiti di tale segmento... La situazione può essere trattata, nel senso pit lato, come un segmento della realtà dai limiti “sfumati”, che ha praticamente un numero illimitato di elementi e di loro correlazioni. In senso pit ristretto, si può considerare la situazione come denotata dal predicato, con tutti gli elementi dipendenti ad esso riferiti, cioè gli attanti (situazione semplice), oppure come due o più situazioni

semplici legate tra loro... È evidente che il concetto di situazione nel primo senso è più generale e comprende anche il secondo. In tal modo la situazione nelle sue diverse accezioni è il referente di denominazioni linguistiche di diversa estensione: è il referente dell’enunciato o di una parte dell’enunciato o di una serie di enunciati (frammento di testo). Un testo coerente descrive una ininterrotta serie di situazioni, suddividendole in frammenti, i quali passano l’uno nell’altro, come

i quadri di un film realizzano un insieme dinamico; inoltre il grado di connessione tra gli elementi del testo può essere

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DI PIRANDELLO

24I

il più vario». Esistono, aggiunge la stessa autrice, anche altre interpretazioni del concetto di situazione, fondate su un diverso approccio ai fatti linguistici e ai vari compiti della ricerca linguistica; il termine «situazione» è però utilizzato soprattutto in due accezioni: «situazione dell’atto verbale, cioè la situazione pragmatica che permette di identificare l’indicazione deittica..., e situazione come referente di una struttura attanziale-predicativa o di una serie di tali strutture, sulla comunanza delle quali è basata l’indicazione anaforica»?.Un altro importante linguista russo citato dalla Vol’f, Vladimir Gak, ha giustamente rilevato che la scelta degli elementi e dei rapporti con cui si descrive la situazione, e le forme dei loro legami reciproci, dipendono anche dalla struttura della lingua. Nel testo poi «gli stessi elementi di una situazione, via via che si sviluppa l’esposizione, vengono denominati in maniera diversa, oppure ne vengono introdotti altri, ancora non nominati, in diverse combinazioni; si ottiene cost il passaggio di una situazione in un’altra. La possibilità di dare forma alle denominazioni come se fossero collegate l’una con l’altra, in molti casi è determinata dal fatto che esse vengono riferite ad una stessa situazione identificata intuitivamente,

o a situazioni tra loro legate, la comunanza delle quali è sentita come comunanza di frammenti del testo legati per significato». Gran parte delle interiezioni fin qui analizzate, ed altre ancora, sono anaforiche, acquisendo il sema anaforico per lo più dal contorno testuale, cioè per conguaglio classemico e quindi per forza isotopica; anzitutto le constative: «sPANÒ. Sempre a servirla, signor Fifi! FIFÎ. Ah, sî, un bel servizio davvero ha reso lei alla famiglia, se ne può vantare!», BS, 2, 388; «BEATR. Ah, dunque voi lo sapete che io ho ragione, e che avevo ragione di far questo? », i2id., 404; «SPANÒ. [...] 2? E. M. voL'F, Grammatica i semantika mestoimenij (Grammatica e semantica dei pronomi), Nauka, Mosca 1974, trad. it. parziale di $. Garzonio in «Studi di grammatica italiana», Vv, 1976, p. 296. 3 Ibid., pp. 296 sg. Per l’elaborazione occidentale, soprattutto inglese, del concetto di situazione si veda la rassegna di C. GERMAIN, Origine et évolution de la notion de «situation» de l’Ecole Linguistigque de Londres: de Malinowski è Lyons, in «La linguistique », 8, 1972/2, pp. 117 sgg.; e anche D. TERENCE LANGENDOEN, The London School of Linguistics: A Study of the Linguistic Theories of B. Malinowski and J. R. Firth, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1968.

242

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Piange. cramPa. Ah, piange...», ibid., 396; «BEATR. [...] sî,

è proprio cosf. crampa. Ah! E allora, a uno che — poniamo — è guercio, lei gli appende un cartellino alle spalle: — Popolo! È guercio! —?», ibid., 398; «SPANÒ. [...] Perquisito tutto [...] anche la giacca che il cavaliere s’era levata... BEATR. Ah, anche la giacca?», ibid., 392; «BALD. (guarda appena verso l’uscio a destra) Forse non ce ne sarà bisogno [di riferire alla signorina], perché... FABIO (cor ira) Che cosa crede? BALD. Oh... sarebbe in fondo naturalissimo», PO, 1, 607; «MAUR. [...] Ha qualche debito. FABIO. Quanti? Molti? Oh,

me l’immagino! », ibid., 593, dove l’oh (= «Non può essere altrimenti, dopo quanto mi hai detto e considerata l’azione che si presta a compiere») si riferisce e alle notizie che Maurizio ha dato di Baldovino e all’opinione che Fabio se n’è fatta anche per proprio conto;

«BALD. Ma è una necessità, signo-

ra... AGATA. Ah, no! Io non posso, io non voglio ammetterla!», ibid., 630, dove al valore anaforico dell’a5 conferisce

fortemente il zo che segue; e torneremo a citare l’interiezione con cui comincia il Costi è (se vi pare), «LAUDISI. Ah, dunque è andato a ricorrere al Prefetto? », 1, 1011, dove l’elemento interiettivo, classemizzato dal consuntivo dunque, pone una istanza di arretramento verso una situazione ignota e

per tale richiamo non pit ignorabile. È il caso della anafora prepostera, frequente nel teatro, nel racconto e anche nella conversazione, allorché si vuol suscitare nell’ascoltatore o lettore l’attesa di una informazione ritardata, la quale accentua il corso retrogrado della comprensione connaturato ad ogni enunciazione. Si pensi a quante volte ci saremo lasciati

sfuggire ex abrupto un deplorante e irritato «L’avevo detto!», che nell’interlocutore sorpreso provoca la domanda «Che cosa?» 1,1 Anche l’interiezione eh è spesso anaforizzata da elementi contermini: come negli «eh, lo so!» ripetuti sulla bocca di Baldovino (PO, 1, 613, 614, 616), e in PO, 1, 619 «MADD. [...] Capirà, è tutta del suo piccino. PARROCO. Eh, me l’imma-

gino! », o in PO, 1, 594 «MAUR. [...] e mi parlò di Descartes. FABIO (stordito) Di chi? MAUR. Di Cartesio. — Eh, perché è anche — vedrai — d’una cultura, specialmente filosofica, formidabile». Del pari anaforico è l’eb cumulato con una parola ad alto quoziente tonale, ma semanticamente determinata e orientata, come s7, già: «MADD. [...] Voi aprite le braccia?

L’INTERIEZIONE

NEL DIALOGO

DI PIRANDELLO

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— Eh sî, non resta più, difatti, che aprire le braccia, chiudere gli occhi e lasciare che la vergogna entri», PO, 1, 589;

«MADD. [...] bisogna che voglia... MAUR. Eh già, e che si faccia una ragione!», ibid., 589; «SPANÒ. [...] Un po’ scollata camicia... braccia di fuori... camicia da donna, si sa... BEATR.

Eh già! basta che non li abbiano trovati nudi tutt’e due! », BS, 2, 391, dove l’eb già! di Beatrice è anche cataforico, fun-

gendo da cerniera tra la descrizione ridimensionante di Spanò e le deluse deduzioni della gelosia. Un sema cataforico è ovviamente presente nell’interiezione che apre una situazione in tutto o in parte nuova: «CAMERIERE. Il signor Parroco di Santa Marta. mapD. Ah, fate entrare», PO, 1, 618; «AGATA (entrando) Oh, il signor Parroco», ibid., 623; «BALD. (entrando e scoprendo i due abbracciati) Oh! — Chiedo scusa...», ibid., 626; «BALD. (entrando) Oh, reverendissimo signor Parroco, onotatissimo della sua visita», ibid., 621} «FANA

(udendo una scampanellata) Oh Madre di Dio, e chi sarà? », BS, 2, 385; «FIFI (a Spanò che entra) Ah, è lei, signor Delegato?», ibid., 388; «LA SARACENA. [...] Oh, suonano! BEA-

TR. Aspettate. Forse è mio fratello», ibid., 365; «FANA (balzando con spavento alla violenta scampanellata) Ah Signore, ajutaci! Quest’è lui! Ciampa! FIFf. Uh, già! E chi ci pensava più, a Ciampa?», ibid., 393, dove l’ub già! fa da cerniera tra la vecchia e la nuova situazione. Ora alcuni esempi con l’elemento deittico presentativo ecco: «MAUR. Dunque... — Ah, ecco Fabio», PO, 1, 591; «MADD. (sentendo picchiare all’uscio) Ah, eccolo... — sarà lui...», ibid., 599; «MAUR. (en-

trando) Ah, ecco... — Fabio, ti presento il mio amico Angelo Baldovino», ibid., 599; «SPANÒ. [...] Mi minacciò che l’avrebbe portata lei direttamente al signor Commissario, la denunzia, dichiarandogli che io... ah, eccola qua, eccola qua... (Rientrano Assunta e Beatrice)», BS, 2, 389; «(Sopravviene

Beatrice tutta alterata in viso). BEATR. Ah, eccomi qua... eccomi qua... FIFf. Oh... e che t’è accaduto? », ibid., 375. Questi mutamenti di situazione sono anche, spesso, pas-

saggi di scena, cioè la situazione vi è intesa nell’accezione teatralmente più ampia, di una specifica ed organica condizione dialogica. Altri però ce ne sono, che avvengono all’interno di tali maggiori situazioni, operando mediante vari commutatori sui frammenti di esse, cioè promovendo lo svolgimento dell’azione e della relativa isotopia testuale. Uno di quei commu-

244

FRA GRAMMATICA E RETORICA

tatori è appunto l’interiezione, usata come catalizzatore della vischiosità sintagmatica. Ci sono casi in cui l’incastro interiettivo agita la superficie dialogica senza modificare il tema: «AGATA. Dunque si faccia come vuol lui. mApD. Ah! Come? Approvi anche tu? », PO, 1, 624; «BALD. [...] se l’avessi avuto — di mio — forse non l’avrei chiamato cosî.... MAUR. Ah,

vedi? vedi? sALD. Che vedo? — Questo anzi deve dirti che non posso, ora, derogare a questo nome! », ibid., 616; «AGATA. E allora? Non so su che cosa debba decidere io. PARROCO.

Ah, ecco... Perché il signor Baldovino ha fatto osservare — [...1», ‘2id., 624; «BALD. [...] Ebbene, l’ho in tasca! FABIO. Ah, ma non avete in tasca anche me, perdio!», ibid., 639; «FIFf. [...] ma mi dica intanto, in nome di Dio, come fu! sPANÒ. Ah, ecco. Fu cosî», BS, 2, 390; «SPANÒ. [...] il cava-

liere [...] fece per entrare nella sala del banco... BEATR. (c07 un grido di trionfo) Ah ecco! Vedete? Dunque era lf nelle stanze del Ciampa! », idid., 390; «LA SARACENA. [...] — Oh, alle corte. Siete venuta voi, si o no, a chiamarmi fino a casa? », ibid., 362. Altre volte, invece, l’interiezione è una cerniera tematica: «BEATR. È vero, sf. CIAMPA (ferito, tentennando il capo) Ah, signora. — Io ora parlo... non per me... parlo in generale...», ibid., 399; «BEATR. [...] Vi voglio appunto parlare seriamente. ciaMPA. Ah, e sta bene, allora. Eccomi qua», idid., 371; «BALD. [...] Ma io, io non sono il padre del vostro bambino, signora! — Capite bene ciò

che vuol dir questo? AGATA. Ah, è per il bambino? che non è vostro? », PO, I, 644, dove la sorpresa deduttiva, fulcrata sul bambino anziché sulla paternità di Baldovino, apre l’avvio alla catastrofe; «AGATA. Non c’è pit bisogno di parole. Mi bastò fin dal primo giorno ciò che diceste. Dovevo entrat subito a porgervi la mano. BALD. Ah, se l’aveste fatto, signora! Vi giuro che sperai... sperai per un momento che lo faceste... dico, che foste entrata... [...]. Sarebbe tutto finito fin d’allora! », ibid., 643, dove l’esplodere del rammarico di Bal-

dovino rompe l’attualità temporale per aprire un flash-back dell’irrealtà. Constatazioni analoghe ci sono consentite da interiezioni più semantizzate: di rottura negatrice, come «AGATA. Voi le restituirete, e ce n’andremo. BALD. Che! Fossi matto! Non le restituisco, signora! », in PO, 1, 645;

«MAUR. Ma no, non

dica cosî, signora! Se si sta provvedendo... mADD. No... voi,

L’INTERIEZIONE

NEL DIALOGO

DI PIRANDELLO

245

voi non dite cosî, per carità!», ibid., 589; oppure di prosecuzione del corso sintattico, anche nel caso di dissenso: «MAUR. [...] mi ringrazierà un po’ meglio, almeno, di come stai facendo tu! FABIO. Sî! Ti ringrazierà... Se la sentissi!», ibid., 595; «MAUR. Ma... è duro, in casa? aspro? MADD. Che! Peggio... Garbatissimo!», ibid., 618; «BALD. [...] Perché avrebbe messo su, altrimenti, questa Società anonima? Mapp. Perché? — Io penso per... per darvi da fare... BALD. Già, e allontanarmi da casa! », ibîd., 635; «FIFf. Mi pare che cominciate voi adesso, caro Ciampa, a parlare stonato. BEATR. Già, pare da un pezzo anche a me...», BS, 2, 371; «FIFÎ. E

non sai che una signora per bene non può riceverla senza pericolo di compromettersi? BEATR. Già! Perché sa tutte le vergogne e le infamie di voi maschiacci, e avete paura che le mogli o le mamme vengano a conoscerle! », ibid., 366; «FANA. [...] tira sé la spranga e la mette alla porta della sua stanza accanto! LA SARACENA. Già! e il padrone la leva. FANA. Ma se ci mette anche il catenaccio! sar. Già! e il padrone ha la chiave», ibid., 364, dove il rimbecco per struttura coordinata

muove dal già! confermativo e insieme ironico, quindi anaforico insieme e cataforico. Se ci applicassimo a parafrasare le interiezioni che più fungono da promotrici della situazione, vedremmo (e già ne abbiamo visti più casi) che esse corrispondono, sul piano emotivo, a quegli elementi di transizione, per lo più consequenziari, che la grammatica annovera tra le congiunzioni o tra gli avverbi modali. Si potrebbe dunque sostenere che l’interiezione pura, come il gesto, è una struttura vicaria delle vere e proprie strutture linguistiche, appartenente ad una grammatica non linguistica, ma traducibile, come tanti altri codici,

dalla clavis universalis della lingua, e per di più in naturale suppletivismo con essa. Ma troppi sono i caratteri che l’interiezione ha in comune con la lingua, per farne, come della gestualità, un codice a parte. Tutto sommato, sul piano dell’empiria intuitiva in cui ci siamo mossi risulta che l’interiezione non ha necessariamente influenza sulla consequenziarità sintattica e neppure modifica necessariamente, pur incidendolo, il contorno intonazio-

nale dei fondamentali modelli illocutori e sintattici; agisce sempre, invece, sulla modalità, sulla distribuzione dell’informazione e sulla connessa struttura tematica, attraverso la seg-

246

FRA GRAMMATICA E RETORICA

mentazione della catena sintagmatica in unità o gruppi melodici. Ciò significa che, benché l’interiezione sia uno strumento sintattico (basterebbero, a farlo tale, la sua funzione ana-

forica e cataforica, e quella congiunzionale), essa è più legata al contenuto che alla forma, alla parola che alla sintassi. Le ragioni e i limiti della diversa influenza e connessione resteranno incerti finché non saranno chiariti i rapporti e i confini tra quei diversi ordini di fenomeni. 8. Viene da domandarsi a questo punto se all’interiezione possa applicarsi il reattivo della distinzione fra tema e rema (o proposito), fra dato e nuovo 0, anglicamente, fopic e corz-

ment; distinzione che si è mostrata utile a superare i falsi rigori della vecchia «analisi logica» (compromessa tra la forma grammaticale e la struttura del giudizio) e a sceverare dal piano grammaticale, riferito alla forma, e dal piano semantico, riferito al denotato (e non implicante la predicazione), il piano comunicativo (e informativo), implicante la predicazione

e la modalità. È su questo piano, secondo la formulazione di Tatiana Alisova, che s'impone e si rende utilissima la distinzione fra tema e rema (0 proposito) ‘. Non par dubbio che le esclamazioni a forte quoziente semantico, come i cosiddetti monoremi, costituiscano vere frasi, per lo più autonome (Orribile!, Maledizione!, Figuriamoci!, Magari!, Fuoco!, Aiuto!, Coraggio! ecc.)*, talvolta anche dipendenti («Benché aiuto! aiuto! aiuto!, nessuno accorreva»), dove la predicatività è dovuta all’intonazione, cioè all’intenzione comunicativa che si manifesta in essa. (Dichiaro

per inciso di rendermi conto che i concetti che qui accampo sono degli igres; ma poiché è pur necessario incedere, dico a me stesso incedamus). La stessa cosa si può asserire per le interiezioni in senso stretto, e lo hanno asserito Bally e Karcevski, il quale (come si è visto) le considera parole-frasi, in-

tendendo però frase nel senso di frase-segnale, limitantesi cioè a segnalare la presenza e l’atteggiamento del parlante, mentre l’esplicitazione concettuale (il riempimento semanti! T. ALISOVA, Strutture semantiche e sintattiche della proposizione semplice in italiano, Firenze 1972, pp. 15 sgg. 1 ° Cfr. BALLY, Linguistique générale et linguistigue frangaise cit., $ 49.

L’INTERIEZIONE

NEL DIALOGO

DI PIRANDELLO

247

co, diremmo noi) di tale atteggiamento è demandata alla fra-

se-concettuale che spesso segue l’interiezione *. Per esempio, quando la signora Maddalena, nella prima scena del Piacere

dell’onestà (2, 589), dopo aver pronunciato la scottante parola onestà, prorompe: «Ah, l’onestà, che scherno, caro Setti, in certi momenti!», la sua enunciazione si compone di cin-

que successive unità melodiche, che tuttavia sono interconnesse semanticamente e sintatticamente. La seconda è il te-

ma della terza, che ne costituisce il proposito, a cui l’intonazione esclamativa conferisce la predicatività; l’inciso vocativale è un appello fatico, che con la sua asimmetria intonazionale, per dirla con Karcevski, serve a dar risalto informativo ai due segmenti che separa, il secondo dei quali è una determinazione del proposito, sicché tutta la frase, ballyianamente intesa, può rappresentarsi come una segmentazione

del tipo AZz. L’interiezione, che per esplicitarsi semanticamente ha bisogno delle parole che seguono, ma però già con l’altezza, l’intensità e l’inflessione della voce (per non dire della mimica) svela l'amarezza desolata della parlante e prepara l’ascoltatore a più precise informazioni in tal senso, costituisce indubbiamente un elemento olofrastico, tanto che

potrebbe, in diverso contesto, chiudere il discorso o addirittura fare battuta a sé. Qui invece con la sua altezza e inten-

sità avvia e impenna i segmenti che seguono, cui probabilmente comunica anche parte della inflessione o colore della voce. Auguro che queste intuizioni possano esser suffragate dall’analisi strumentale, ma il rilievo che la linguistica contemporanea è tornata a dare, per influsso di certi rami della biologia, alla percezione, c’incoraggia a non ripudiare come affatto invalide le intuizioni che ci vengono dalla nostra empiria percettiva.

L’4h dell'esempio citato è seguito da una pausa dopo la quale il discorso prosegue con linea intonazionale montante; è perciò pronunciato con un tono ed una energia che annun3 KARCEVSRI, Op. cit., pp. 63, 71 sg. È opportuno chiarire che Karcevski distingue nettamente la frase dalla proposizione: questa è una unità grammaticale, quindi appartenente alla argue, e precisamente un sintagma binario determinativo e predicativo, mentre la frase è una unità di comunicazione attualizzata, che non ha struttura grammaticale propria, ma soltanto una struttura intonazionale, la quale appunto le conferisce il valore comunicativo; cfr. Sur la phonologie de la phrase cit., pp. 206 sgg.

248

FRA GRAMMATICA E RETORICA

ciano il proseguimento di una intonazione tesa e costituiscono, secondo la terminologia di Karcevski (op. cit., pp. 218

sg.), un’anticadenza. Se l’interiezione fosse amalgamata con un altro elemento esclamativo (oh Dio!, oh Dio mio!, oh Madre di Dio!), in modo da realizzare con esso una unità melo-

dica, il quadro tracciato sopra non cambierebbe; e neppure nel caso di interiezioni dotate di un certo quoziente di semanticità, quali 2245! af! ohè! abi! Diverso è il caso della interiezione seguita da altra interiezione più o meno semantizzata, come ah già! eh già! ub già! eh via! eh st! oh no! ab no!, binomi che spesso in Pirandello si presentano divisi dalla virgola, quindi articolati in due unità melodiche. Ora, se entrambe queste unità melodiche sono unità di senso con valore predicativo, non c’è dubbio che esse realizzino due frasi,

costituenti due propositi; e si potrebbe, semmai, pensare alla segmentazione di un unico proposito, non certo ad una oppo-

sizione tema-rema; la stessa soluzione proporrei per le espansioni esclamative, che dànno all’interiezione un contenuto referenziale: tipo «Oh che bellezza! » (BS, 2, 402), «Ah, che

tremore per tutte le vene!» (idid., 393). Qui il tema va cercato in ciò che segue o precede e nella situazione. Anche nel caso di PO, 1, 591 «MAUR. [...] avete fatto troppa parte al sentimento. MADD. Ah, troppa, troppa, sf, troppa!» lab di concessiva e compunta ammissione e la ripresa, con forza di proposito, dell’attributo #roppa rinviano anaforicamente, come a proprio tema, alla battuta precedente. 9. Quanto al contenuto puramente emotivo delle interiezioni, riconfermato da ottime grammatiche recenti («Inte-

rjections are purely emotive words which have no referential content» affermano Randolph Quirk, Sidney Greenbaum,

Geoffrey Leech e Jan Svartvik nella loro elegantissima Grazzmar of Contemporary English)', non possiamo consentire, anche perché, secondo noi, il «contenuto referenziale» non

s’identifica con ogni effetto di senso. A parte infatti l’equivoco di includere nella categoria interiettiva elementi meramente affermativi o negativi come il sf e il 70, quando non abbiano alcuna tonicità (tanto che lo stesso Karcevski, che ! Longman, London 1974, p. 413.

L’INTERIEZIONE

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pur ve li include, li definisce contraddittoriamente «exclazzations au degré zéro se passant de tout ton expressif» e quindi «cas-limite de l’exclamation»)”, non mancano elementi con

forte tonicità e quindi indubbio valore emotivo i quali hanno altresi una indicità semantica che supera la vaghezza dello «stato d'animo». Adduco puab!, sss!, ebbene!, già!, mah! o bab!, abi!, ohi!, ohi ohi!, ohè!, att! o aiffa! (anche uf!, uffa!), chè!, macché!, magari!, e altri ne potrei citare, i quali sono semanticamente integrabili e modulabili da enunciati successivi, ma tuttavia già di per sé non costituiscono dei recipienti disposti a qualsiasi riempimento. Invece 44/, stando al Dizionario della lingua e della civiltà italiana contemporanea

di Emidio De Felice e Aldo Duro’, «può esprimere, a seconda del diverso tono con cui è pronunciata, piacere o dolore, meraviglia o rimprovero, soddisfazione o disappunto», ed oh! «esprime e sottolinea vari sentimenti e atteggiamenti soggettivi, precisandosi spesso per mezzo della diversa intonazione della pronuncia, più o meno prolungata, e della qualità del timbro vocalico, più o meno aperto o anche chiuso, e della possibilità di essere ripetuta, una o due volte. Significazioni più frequenti: dolore, rincrescimento, repulsione, no-

ia...; piacere, soddisfazione, desiderio...; meraviglia, incredulità, sdegno...» Anche la ridottissima e spesso malcerta resa grafica incide più negativamente, per l’informazione semantica, su questa serie che non sulla precedente; eppure, nonostante ciò, sarebbe impossibile rendere assolutamente intercambiabili interiezioni come 4h, ob, eb, ih, ub, il che equivale a dire che sarebbe possibile attribuire ad ognuna di

esse dei semi specifici, salva l’annessione di altri ad opera dei classemi contestuali: ne è riprova il testo di Pirandello, dove prevale in frequenza 4h, che raramente si mostra sinonimo di ob e di eh e raramente, o con diverso significato, si alterna ad essi nelle copulazioni con altri elementi esclamativi: sempre oh Dio, ob bella, ah ecco; e, con differente accezione, ah st / eb st, ab no | ob no, ah già | eh già | ub già, ab che... | ob che... Ciò dico restringendomi alla tastiera offerta da due commedie 2 Introduction è l’étude de l’interjection cit., p. 75. Per la stessa ragione dovremmo includere tra le interiezioni parole come certo, certamente, probabilmente, forse, e locuzioni come senza dubbio, per niente ecc., se usate

olofrasticamente. 3 Palumbo, 1974.

FRA GRAMMATICA

250

E RETORICA

di Pirandello, ed è ovviamente possibile che altri testi dello stesso autore, e il mio stesso uso personale, presentino alternative più ampie.

Ci si pone a questo punto il problema se si possa tentare per l’italiano un paradigma delle interiezioni quale Karcevski ha proposto per quelle russe adoperate, nel rapporto dialogico A-B, dal protagonista B *. Io credo che, a prescindere dalla opportunità di costruire un sistema di opposizioni trubetzkoiane, lo si possa anzi lo si debba tentare, ma a certe condi-

zioni. Alla condizione, anzitutto, di non limitarsi allo spoglio di testi scritti, nonostante quanto abbiamo detto nel nostro precedente lavoro sulla utilità del parlato-scritto per lo studio della fenomenologia del parlato’, e nonostante che lo stesso Karcevski fin dal 1931 abbia considerato legittimo condurre analisi dell’intonazione su testi di prosa letteraria. L’essenziale tonicità dell’interiezione, complicata dai fattori di durata, di timbro, d’inflessione e d’intensità, la scarsa au-

tosufficienza semantica fuori del contesto e la rudimentale e confusiva riproduzione grafica, come dànno ampia libertà di esecuzione all’attore, cosi impongono al linguista desideroso di classificazioni rigorose il ricorso a registrazioni sonore del parlato-parlato. La seconda condizione è poi quella di non restringersi alle interiezioni propriamente dialogiche, ma di includervi quelle che Karcevski chiama reattive, contrapponendole alle incitative. È ciò che, nei nostri limiti, abbiamo

fatto anche noi considerando le interiezioni posticipate o intercalate, le quali anche nel dialogo sono spesso almeno parzialmente reattive. Quando Arnaldo Ninchi mi confessava la difficoltà di interpretazione e quindi di esecuzione delle frequenti, anche se tipologicamente non molto varie, interiezioni di Pirandello, alludeva senza dubbio al salto traspositivo che l’attore deve fare, soprattutto per questo elemento linguistico, dalla convenzione grafica alla modulazione vissuta; che è, sul piano dell’esecuzione, la stessa difficoltà che il linguista incontra

sul piano della descrizione. Difficoltà confermata sul piano della lettura ad alta voce, dove manca l’internamento del let* Introduction è l’étude de l’interjection.cit., pp. 73-75. ° Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato cit., pp. 51 sg. * Sur la phonologie de la phrase cit., p. 232.

L’INTERIEZIONE

NEL DIALOGO

DI PIRANDELLO

25I

tore nella parte e quindi la spontaneità provocata che è propria della recitazione. Nella lettura ad alta voce, infatti, l’in-

teriezione è sempre l’elemento meno «eseguito»; viene realizzato con una esecuzione riduttiva, che tende, per la sua maggiore passività, ad attenersi più fedelmente allo schema grafico, e si può in qualche modo paragonare al parlare afono o al cantare sottovoce. C’è un punto, tuttavia, anche a favo-

re dell’interiezione scritta: ed è l’autosufficienza linguistica del testo parlato-scritto rispetto alla riduttività linguistica del parlato-parlato, che la registrazione meramente sonora priva dell’elemento visivo e cinesico. Può darsi talvolta il caso limite che dall’imbottitura lessicale del testo scritto si traggano, per la semantizzazione del grafema interiettivo, più fattori che non possa fornirne la pura voce. Si è parlato di frequenza relativa delle interiezioni; si può anche parlare di frequenza assoluta, e già lo si è fatto quando si è accennato alla pirandelliana disseminazione di elementi interiettivi che, insieme coi molti fattori deittici, esaltano la

gesticolazione linguistica e mimica dei personaggi. Quello che evidentemente premeva all’autore era indicare la necessità, in certi punti del testo, di impennate tonali e di mutamenti melodici, affidandoli, salvo precise didascalie, alla personale esecuzione dell’attore. Ci possiamo ancora domandare, restando nello stesso ambito problematico, se ci sono parti del testo drammatico in cui le interiezioni sono presenti o assenti; se, cioè, vi è una loro distribuzione a seconda della situa-

zione e della materia dei dialoghi. Non è facile rispondere. Una lunga familiarità con l’autore, piuttosto che uno spoglio accurato, ci dice che l’interiezione è più frequente nel concertato colloquiale, dove le battute s’incrociano come lame e perciò si susseguono e s’incalzano i cambi del turno, più spesso imposti che concessi, e quindi le interruzioni, le interfe-

renze, gli accavallamenti. Dove al contrario il dialogo è quasi una vicenda monologica, per cui il personaggio scava in se stesso e presenta all’interlocutore il risultato della propria interiore esperienza (tutti ricordano le «tirate» monologiche dei Sei personaggi, della Vita che ti diedi, del Non si sa come ecc.), allora le rotture e impennate interiettive si diradano,

s’infittisce invece, rallentando il tempo, la segmentazione e scansione melodica, e aumenta quella che Karcevski chiama intonazione asimmetrica, cioè la messa in rilievo di unità to-

ZIA

FRA GRAMMATICA

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nali mediante, anziché la brusca elevazione del tono, l’inserimento di unità tonalmente pit basse o neutre: la tecnica insomma dell’inciso, la quale conferisce al discorso una Sti7zmung d’introversione. Tutto ciò sta a dimostrare ancora una

volta quanto acutamente Pirandello abbia intuito i fenomeni peculiari del parlato e ne abbia suggerito agli attori i tratti salienti, riuscendo a contemperare con essi, soprattutto con la segmentazione melodica, una pienezza sintattica che ad essi usualmente non pertiene. La compresenza della parola come gruppo melodico, dominante nel parlato, e della sintassi come coerenza grammaticale, dominante nello scritto, è appunto il motivo dell’otiginale tensione che caratterizza la prosa drammatica di Pirandello.

10. Si sa come le novelle di Pirandello siano ricche di parti dialogate (di parlato-scritto, come abbiamo proposto di chiamarlo) '. Non c’è quindi da meravigliarsi, anche per la spiccata teatricità di alcune di quelle novelle, poi effettivamente trasposte in dramma, che gli elementi interiettivi vi spesseggino come nei drammi e, dato l’alto numero delle situazioni e quindi dei personaggi, vi siano ancor più variati tipologicamente. Anche l’interpretazione è spesso disambiguata dalle uncinature delle battute alla cornice narrativa, le quali adempiono l’ufficio delle didascalie dei drammi e sono più numerose e diffuse. Non c’è bisogno di addurre esempi, tanti il lettore può trovarne ad apertura di libro. È invece opportuno segnalare la presenza delle interiezioni nel discorso indiretto libero, che in Pirandello è frequente e vivace e che ad opera delle interiezioni accorcia la distanza dal discorso diretto. Ecco un esempio tratto dalla novella La vita nuda: «Epuisé s'era dichiarato il commendator Seralli delle cure, dei pensieri, delle noje che gli eran diluviati da quella sciagura; noje, cure, pensieri, aggravati dal caratterino un po?... emporté, voilà, della signorina Consalvi, la quale, si, poverina, meritava veramente compatimento; ma pareva, buon Dio, si compiacesse troppo nel rendersi più grave la pena. Oh, uno choc orribile, chi diceva di no? un vero fulmine a ! Si veda Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato recitato cit., pp. 1 sgg.

L’INTERIEZIONE

NEL DIALOGO

DI PIRANDELLO

253

ciel sereno! E tanto buono lui, il Sorini, poveretto! Anche un bel giovane, sf. E innamoratissimo! » ?. Ma è tempo di concludere. Quanto ho scritto finora è qualcosa di simile ad una dimostrazione per assurdo: la dimostrazione dell’importanza dell’interiezione nel parlato tentata attraverso la lingua scritta, il campo per ogni verso più sterile al manifestarsi in pienezza di tale fenomeno. Ogni botte — dice la saggezza contadina — dà il vino che ha. Valgano piuttosto queste mie assurde pagine a richiamare i giovani linguisti allo studio diretto della lingua parlata, oggi che esso può esser condotto con una più fondata conoscenza biologica delle operazioni percettive e con nuovi strumenti di analisi e di sintesi (senza dire della nuova teoresi sulla comunicazione

e sui suoi presupposti logici, psicologici e pragmatici). Quella lingua parlata che Saussure ha rivendicato come oggetto primo della linguistica, ma che la linguistica, specie per le grandi lingue di cultura, ha solo recentemente degnato di attenzione specifica. Si potrebbe eccepire che queste mie pagine sono assurde anche sotto un altro aspetto: per il fatto che nell’affermarsi di nuovissime concezioni grammaticali io mi tengo ancora alla categoria dell’interiezione, ereditata da una grammatica millenaria. Rispondo che, a parte le impressionanti coincidenze nucleari con la grammatica millenaria, le nuovissime teorie grammaticali paiono, come quella, fare per il momento poco posto ai fenomeni del tono e in genere dell’enfasi, mentre alcune correnti fonetiche modernissime tendono a dissociare sempre più la struttura melodica dalla struttura grammaticale del discorso. Stando cosi le cose, l’antico vocabolo

di interjectio sembra potersi utilmente adeguare, almeno per il momento, alla entità monadica e ai fenomeni fonetici di cui finora abbiamo discorso. Noi siamo comunque ben consapevoli che non sempre vocabula sunt consequentia rebus e che le osservazioni qui presentate sono, per la loro tenuità e pet

la precarietà dei fondamenti, non dissimili da quelle sfere iridescenti che si dicono bolle di sapone. 2 In Novelle per un anno, Mondadori, Milano 1973, 1, p. 255.

Postille versiliane *

In quella parte del libro della mia memoria dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere si trova un’immagine di Giacomo Puccini; ma pallida ed evanescente come una delle «postille» di volti umani che Dante vide nel cielo della Luna. Doveva essere l’estate del 1922. Io, bambino, facevo le

mie vacanze marine a Viareggio, ospite della bella pensione «Margherita al mare», situata nella zona estrema e più elegante della città di allora, detta «al Marco Polo». La pensione, che da tempo ha cessato di esistere, era già, e fu poi

sempre più, frequentata da scrittori di grido, quali Amalia Guglielminetti, Rosso di San Secondo, Leonida Repaci; e vi

si respirava aria di antifascismo. Ma dei letterati e della politica io non facevo nessun conto. Mi attraeva unicamente, nel-

le ore non dedicate alla spiaggia, un garage privato, contiguo alla pensione, nel quale si custodiva più di un’automobile e dove uno chauffeur (questa era la parola) con perizia di meccanico smontava, aggiustava, rimontava, sotto i miei occhi

avidissimi, gli espliciti motori di allora. Un banco da lavoro, che si appoggiava alla parete sinistra carico di morse, chiavi, martelli, pompe, oliatori, costituiva il pascolo della mia cu-

riosità, che affliggeva di domande, oltre che della mia presenza, quel paziente valent’uomo. Il garage e la bella casa in mattoni cui era annesso appartenevano a Giacomo Puccini, che li aveva costruiti quando

aveva deciso di abbandonare la residenza di Torre del Lago.

Felicemente posta sull’angolo del viale che corre lungo la grande pineta incastonata dentro la città, la casa godeva sui * Da «Rassegna di cultura e vita scolastica», n. 10-11, ottobre-novembre

1980.

POSTILLE

VERSILIANE

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lati esterni di un giardino, in un angolo del quale, il più vicino al garage, era un chiosco rustico, oggi scomparso. In quel chiosco, che ricordo rivestito di canne e di frasche e quasi impenetrabile alla vista, si ritirava Puccini insieme con un signore; sentivo dire che lavorava con lui ad una nuova opera e che quel signore era l’autore del libretto. Penso ora che la nuova opera fosse la Turandot e il collaboratore uno degli autori del libretto, Renato Simoni o Giuseppe Adami. I fatti, volendo, si potrebbero precisare con una filologia elementarissima, ma si rischierebbe di ripetere ciò che inevitabilmente è avvenuto col volto del Maestro: all'immagine viva, depositata nella memoria del bambino, si è sovrapposta quella dell’iconografia fotografica e l’ha cancellata. Puccini veniva di frequente nel garage per seguire la messa a punto di una grossa macchina aperta. Capii che stava per mettersi in un lungo viaggio e perciò raddoppiai la mia assiduità, in modo che nessuno dei preparativi mi sfuggisse; tanto che mia madre, preoccupata della mia somma indiscrezione e abituata a intrattenersi coi pensionanti intellettuali, non esitò a entrare nel garage in un momento in cui insieme con

me c’era anche il Maestro; chiedendogli scusa e intimandomi di uscire. Ma il Maestro la tranquillizzò sorridendo: «Lo lasci stare, signora. Il bambino non dà nessuna noia». Devo confessare che quel sorriso e quelle parole non li ricordo per memoria diretta, ma attraverso il racconto di mia madre, che

non poté dimenticarli. Il garage custodiva anche una macchina strana, che raramente usciva in pubblico. Era un’automobile elettrica, ad accumulatori, sagomata in forma di parallelepipedo rettangolo o, si direbbe oggi, di «contenitore». Marciava a piccola velocità, emettendo un ronzio soffocato. Era un capriccio del Maestro, notoriamente patito di automobilismo, che se ne serviva per modesti percorsi in pianura o — dicevano i pettegoli — per esibirsi sulla passeggiata a mare. Un bel giorno avvenne l’attesa partenza: rivedo Puccini

seduto nella grande macchina aperta e protetto da una grigia spolverina e dagli occhialoni gommati sotto un largo cappello. Era la tenuta da viaggio imposta dalle strade sterrate di allora, coperte di un manto di polvere.

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Un’altra e ben più importante «postilla» versiliana sorge non dalla mia memoria, ma da una cartolina postale fortemente impallidita per una lunga esposizione alla luce; cartolina già posseduta dal maestro Giulio Razzi e cortesemente affidatami dai suoi eredi per la pubblicazione. Fu scritta da Giovanni Pascoli a Giacomo Puccini. È una cartolina illustrata con una fotografia della Bicocca di Caprona (Castelvecchio di Barga) e datata 2 marzo 1903, da Borgo a Mozzano in provincia di Lucca. Il maestro Giulio Razzi, che molti ricordano per la lunga attività di direttore dei programmi culturali della Radio italiana e come direttore o consigliere artistico di alcuni dei principali nostri teatri lirici, era parente di Puccini per parte di madre, precisamente figlio della sorella della signora Elvira. Come tale, nell’adolescenza e nella prima giovinezza poté godere e profittare di una consuetudine di rapporti col grande zio, che lo avviò agli studi di direzione orchestrale e di composizione. È a quella consuetudine che la famiglia Razzi deve una collezione di ricordi o per meglio dire di cimeli, tra i quali la cartolina di Pascoli non è certo il meno importante. L’interesse del poeta per la musica ci è noto attraverso le sue opere e le sue lettere, le testimonianze della sorella e altri documenti e notizie di cui Augusto Vicinelli nelle sue note e integrazioni alle memorie di Mariù, Lungo la vita di Giovanni Pascoli (Mondadori, Milano 1961), ci dà relazione dili-

gente. A differenza del suo maestro Carducci, che era dm4sos, «Giovannino — racconta la sorella — ... aveva un orecchio molto buono, ed era appassionatissimo per la musica e per il canto», e fino dagli anni del suo studentato bolognese frequentava il teatro d’opera. Il suo bisogno di melodia arrivò al punto di fargli acquistare, nel 1906, un «piano melodico» (oggi diremmo meccanico o automatico), che rompesse i silenzi di Castelvecchio; i «cartoni» di cui era dotato, e che il Vicinelli elenca (p. 826), ci dimostrano quale genere di musica Pascoli preferisse: oltre a «divini pezzi del Rossini», come egli stesso scriveva a Ermenegildo Pistelli invitandolo a Castelvecchio, c'erano pezzi di Bellini, Donizetti, Verdi, Bi-

zet, Wagner, Massenet, e poi Chopin, Gounod, Schubert, Liszt, ecc. Ma il suo rapporto con la musica ebbe aspetti più intrinseci: dalla sorella sappiamo che una sua poesia giova-

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nile fu musicata da Leoncavallo, frequentatore dell'ambiente carducciano (p. 87); e furono composti per essere musicati, trail

1900 eil 1901,ipoemetti Ritorzo di Odisseo e Il sogno

di Rosetta. Il primo fu in effetti musicato da Riccardo Zandonai — anziché da Puccini, come l’autore desiderava —, il quale

accettò la proposta di Pascoli di far interpretare le parti narrative dall’orchestra (vedi la nota in appendice al volume Odi e Inni); il secondo dal maestro cieco Carlo Mussinelli della

Spezia, e fu eseguito a Barga nell’agosto del 1901 (e in altre parti della Toscana) dentro un programma di Feste musicali ideato e organizzato dallo stesso Pascoli insieme con l’amico Alfredo Caselli, il droghiere letterato di Lucca (p. 677). Del 1903 — l’anno del trasferimento dall'Università di Messina a quella di Pisa; anno fecondissimo per la poesia — è, secondo lettere al Pietrobono e al Caselli, il proposito di un libretto d’opera per Mascagni e di versi per Puccini (p. 702); ma nel 1908, dopo il vano progetto di un grande coro patriottico da musicarsi dal maestro Enrico Bossi e da cantarsi in quella Milano cui dedicava la Canzone del Carroccio, Pascoli rinunciava alla stesura di un libretto che gli era stato richiesto per un giovane musicista, motivando cos al Caselli la propria rinuncia: «Il regno della musica per me comincia dove finisce la realtà pensabile e si apre la misteriosa regione dell’ultra-poesia... Soggetti di drammi musicali, a parer mio, non si trovano che o nella poesia primitiva epica, dove li trovò, per la maggior parte, Wagner, o nell’eterna poesia popolare della fiaba e della novellina, dove li trova, credo, Debussy, o in

qualche altra landa elisia illuminata da un suo sole e da sue stelle più grandi e più vere delle nostre... Ebbene, né io mi sono creduto da tanto da viaggiare questo paese che è al di là delle solite conoscenze, né mai ho creduto che il pubblico d’Italia fosse per accettare da un maestro italiano, specialmente ai suoi inizi, una tal musica, una tal poesia» (pp. 879, 880).

Ma un tentativo, purtroppo deluso, di viaggiare quel paese Pascoli lo aveva fatto nell’anno 1902 col dramma musicale Nell’anno mille (poi Il ritorno del giullare), dramma che do-

veva esser musicato dal maestro Renzo Bossi, figlio del già nominato Enrico. Esso si legge, con abbozzi o tracce di altri drammi, alcuni per musica, pubblicati da Maria, nel volume intitolato «Nell’anno mille» e schemi di altri drammi (Zani-

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chelli, Bologna 1924), e insieme con le lettere al giovane musicista che lo affiancano ci illumina sui concetti musicologici di Pascoli assai più delle allusioni contenute in altre poesie e prose e dello stesso poemetto Rossizi. Intanto Nell’anno mille supera la misura dell’inno e del poemetto epico-lirico, come lo stesso autore chiamò il Riforzo di Odisseo, proponendo anche l’appellativo di episodio o cantata (cfr. le note al volume Odi e Inni); costituisce quindi un vero libretto di

melodramma. Interessante è certamente lo scambio di osservazioni e proposte corso tra il poeta e il musicista, donde emergono le esigenze e le ragioni di due arti e anche di due poetiche, le reciproche concessioni, il concetto di teatralità in relazione alle attese del pubblico di allora, e, in qualche suggerimento musicale di Pascoli, come quelli di un «preludio sinfonico con voci», di squilli di trombe apocalittici, del «sacro suono dell’organo», i compiti che il poeta assegnava al musicista e gli effetti che ne sollecitava. Ma ben più interessante è il problema della simbiosi dei due linguaggi, bene avvertito da un metricista della sensibilità e perizia di Pascoli, inventore di metri nuovi e risuscitatore di antichi, di quei metri classici che si fondavano sulla durata sillabica e si appoggiavano, con una specie di «recitar cantando», all’accompagnamento musicale. Il rapporto tra musica e poesia è — dice un competente del problema (Marcello Pagnini, Lingua e musica, Il Mulino, Bologna 1974) — un fatto di strutturazione complessa, bimodale, per cui «il complesso strutturato musica-lingua consiste da un lato nell’esaltazione delle possibilità musicali del Significante linguistico al di là della convenzione linguistica, attuata mediante l’uso della voce umana come strumento musicale; dall’altro lato nella concettualizzazione del Significante musicale, attuata mediante la sovrapposizione della semantica propria della lingua alla musicalità». Perciò «il testo letterario per musica non si deve in genere valutare come un prodotto autonomo di poesia, bensi si deve considerare nella sua musicale potenzialità, vale a dire nella sua disponibilità a farsi adempiere dalla struttura sonora» (pp. 9I sg., 94). Ciò premesso, se vi siano, nella nostra metrica, versi e

strutture strofiche più disponibili di altri alla musica è questione opinabile e sentita — credo — diversamente dai vari musicisti nel concreto del loro comporre, cioè del loro incontro

POSTILLE VERSILIANE

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con la tessitura linguistica. Ci inducono a ritenere cosî non solo molti aneddoti di musicisti che hanno chiesto al librettista ritocchi o radicali mutamenti della compagine metrica, ma l’osservare che i libretti d’opera ottocenteschi e primonovecenteschi contengono la più ricca varietà di metri, dall’alessandrino all’endecasillabo sciolto, alle strofe e strofette di versi rimati; i migliori libretti, ad es., di Arrigo Boito,

quelli per Giuseppe Verdi, sono delle vere mostre di virtuosismi metrici e rimici. Certo, se si guarda ai due poemetti pa-

scoliani musicati, si può notare, nelle parti non narrative, oltre ad una distribuzione amebea a due o pit voci, tra cui quella del coro, l’uso del verso composto, cesurato nel mezzo e quindi fortemente cadenzato, che sembra disposto a una particolare cantabilità; ma questi caratteri metrici e ritmici compaiono anche in poesie non destinate alla musica. È forse meglio considerare alcune esplicite osservazioni dello stesso autore sul metro del libretto millenaristico: «In generale ho adoperato il novenario, corrispondente all’ottasillabo francese, con molta varietà d’accentazione... Tutto ciò per ottenere una grande snellezza a pro’ del musicista, e... una grande facilità di mutamento. La ragione poi filosofica... pertinente all’arte mia, in questo metro quasi embrionale, è questa: che nell’“Anno mille” suppongo i versi ancora in formazione. Cotesti versi s’avviano a essere endecasillabi senza essere ancora tali... All’ultimo l’endecasillabo trionfa nel canto dell’alba. Cosî ho adoperato l’assonanza... con quest’avvertenza, che dove è l’assonanza, c’è dialogo o recitativo; dove è la ri-

ma si fa strada l’impeto lirico e siamo in piena melodia, poetica s'intende» (pp. 61 sg.). E più avanti domanda al musicista: «Non so se l’albata le piaccia in quel metro. Ricordi però che è il metro d’un’alba provenzale. E che per le mie viste dovrebbe essere in endecasillabi» (p. 65). Infine, in un altro abbozzo di libretto, Un'ora d’amzore, annotava: «Que-

sti sono novenari, verso a mio parere più semplice ed elegante: si possono peraltro ridurre a endecasillabi, volendo, con poca fatica» (p. 117). Ciò basta a dimostrarci che Pascoli si eta posto esplicitamente il problema del rapporto tra il metro e la musica; ma se lo era posto anche implicitamente, costruendo nei libretti versi per lo più non autonomi, cioè predisposti all'integrazione, all'adempimento — per dirla col Pagnini — della struttura musicale. Il lettore avverte benissimo

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la differenza di modo e di grado tra i versi «disponibili» del libretto e i versi assoluti usciti dal medesimo poeta. Comunque, tra i libretti di Pascoli e quelli di una fase più moderna,

ad es. La favola del figlio cambiato di Pirandello, per la musica di Malipiero, c’è un distacco netto: il distacco fra il verso tradizionale «disponibile» e il verso libero. Ma lasciamo questo discorso ai competenti, fra i quali includo i musicologi, e torniamo alla nostra «postilla» pucciniana. Nel 1903, la notte sul 26 febbraio, tornando in automobile da una visita lucchese all’amico Alfredo Caselli (l’amico anche di Pascoli), Puccini usci di strada e si fratturò la ti-

bia destra. L’incidente — ci racconta Leonardo Pinzauti nel suo libro Puccini: una vita (Vallecchi, Firenze 1974), pp. 88

sgg.— risuonò nei giornali, e perfino il re Vittorio Emanuele spedi al Maestro un telegramma di augurio. La convalescenza fu lunga e penosa; tra i molti che la seguirono ci fu anche Giovanni Pascoli. Ecco il testo della sua cartolina: Caro e grande Maestro, vengano nella penombra e nel silenzio della vostra camera le creature a cui avete dato la vita e il canto: vi vengano a consolare, a rallegrare, a ispirare, a guarire. Assai felice, nella vostra disgrazia, che avete in voi, composto da voi, il farmaco pet la noia e il dolore. Ne avete fornito tanto agli altri; ma certo ve n’è rimasto per voi. Coraggio e allegria. Il vostro aff. ammiratore Giovanni Pascoli.

Questa cartolina ci rende ancor pit acuto il desiderio di conoscere il contenuto del colloquio che si svolse tra Puccini e Pascoli nell’estate del 1911 proprio a Castelvecchio, dove il Maestro era salito con l’amico comune Caselli. Ciò che fa sorridere un poco il nostro rammarico dell’ignorare è l’immaginare il grande musicista a fronte del «piano melodico».

Giacomo Leopardi lessicologo e lessicografo *

1. Fin dalle prime pagine dello Zibaldone di pensieri Leopardi dimostra interesse per la lessicologia e la lessicografia. Infatti, già alla p. 32 dello scartafaccio 'incontriamo l’etimologia di festa e, subito dopo, sottili osservazioni sulla lingua di Celso, dove comincia quel rilevamento di «italianismi» nel latino dei classici (Fedro, Svetonio ecc.) che è un modo tutto leopardiano di constatare le congruenze tra l’italiano e le spie del latino parlato entro i testi classici; quel latino parlato che, secondo lo stesso Leopardi, è ricostruibile, mancando testimonianze antiche, attraverso le lingue romanze?. Comincia anche la registrazione di parole italiane presenti nell’uso ma assenti nei dizionari: è il caso di blitri o blittri «inezia» (1,

65 sg.), che sarà seguito a distanza dalla locuzione diventar di stoppa, familiare per «stupire» (1, 447), dal popolare bobò «baubau, spautacchio» (2, 53), dalla congiunzione marchigiana causando che col valore di «attesoché, poiché» (2, 105), dal verbo svistare denominale da svista, d’uso italiano (2, 846), dal costrutto fra giorzo (2, 1118)°. Ma le osserva-

zioni puntuali più frequenti concernono, nel campo dell’ita* Comunicazione al Convegno nazionale sui lessici tecnici del Sei e Settecento (Pisa, dicembre 1980), pubblicata negli atti del convegno, Scuola Normale Superiore, Pisa 1981, e ripubblicata con ritocchi e ampliamenti in «Studi di lessicografia italiana», II, 1981, pp. 67-96. 1 Questo è il numero della pagina del manoscritto; ma da qui in avanti citeremo le pagine del primo e del secondo volume dell’edizione a cura di Francesco Flora, Zibaldone di pensieri, Mondadori, Milano 1937-38, o sole o precedute dalla abbreviazione Zib. ? Cfr. Zib. 1, 874 Sgg. 3 Non va d’altra parte dimenticato il bel saggio antipuristico Sopra due voci italiane (il participio reso e il verbo sortire per uscire), pubblicato nello «Spettatore» del 1° novembre 1817, cioè poco dopo le prime annotazioni dello Zibaldone.

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liano (oltre che, inevitabilmente, nel campo del latino e del greco), parole che Leopardi incontra in testi letterari e ritiene notabili per qualche aspetto formale o semantico. Esse vengono paragonate sul Vocabolario della Crusca (col rinforzo, quando occorre, del Forcellini), o meglio il Vocabolario della Crusca viene paragonato su di esse, in modo da costringerlo a rivelare i suoi pieni e i suoi vuoti documentari. Dico documentari, perché Leopardi si rifiuta più volte, sia nello Zibaldone che fuori di esso, di riconoscere autorità normativa al vocabolario. Già in un pensiero del 17 luglio 1821 (1, 899),

sotto l’influenza della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca di Vincenzo Monti, affermava che la convenienza di una parola con le proprietà della lingua «non si può giudicare col Vocabolario, ma coll’orecchio formato dalla lunga ed assidua lettura e studio non del Vocabolario ma de’ Classici». E circa un anno dopo, il 29 marzo 1822, annotava: «Il Vocabolario della Crusca non ha interi due terzi delle voci, o significati e vari usi loro, e né

pure un decimo dei modi di quegli stessi autori e libri che registra nell’indice. E questi non sono appena una terza o quarta parte di quegli autori e libri italiani de’ buoni secoli che secondo ogni ragione vanno considerati e sono autentici nella lingua, anche nella pura lingua antica. Aggiungeteci ora i libri moderni bene scritti, e le voci e modi che, usati o non usati ancora da buoni scrittori, sono necessarissimi a chi vuole scriver, com'è dovere, delle cose presenti, e a’ presenti o

futuri, massime le spettanti alle scienze immateriali o materiali, e che tutti mancano al Vocabolario; si può far ragione che questo non contenga più d’una quarantesima parte della lingua italiana in genere (a dir molto); e non pit d’una trentesima dell’antica in particolare, ossia di quella che s’ha per classica... Del resto — ammetteva poi Leopardi — nessuna lingua viva ha, né può avere un vocabolario che la contenga tutta, massime quanto ai modi, che son sempre (finch’ella vive) all’arbitrio dello scrittore. E ciò tanto pit nell’italiana (per indole sua). La quale molto meno può essere compresa in un vocabolario, quanto ch’ella è più vasta di tutte le viventi...» (1, 1443 sg.). E coerentemente deduceva: «Or non è cosa ridicolissima che mentre nessun’altra nazione stima che la sua lingua sia determinata e prescritta dal suo vocabolario...; noi, la cui lingua è impossibile che vi si possa comprendere, che

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di più abbiamo un vocabolario inesattissimo nelle cose stesse che porta, molto pit inferiore alla ricchezza della nostra lingua di quello che le convenga o se le debba perdonare di essere, fatto sopra un piano sopra cui nessun altro è fatto, cioè sopra il piano dell’antico, mentre noi siamo moderni, e della

pura autorità quando la lingua è viva; noi dico vogliamo che un vocabolario cosî ridondante d’imperfezioni, e poco proprio della lingua nostra (e d’ogni lingua viva), abbia su di questa una virtù, un’autorità e un dominio, che i più perfetti vocabolari delle altre nazioni... né si arrogano, né sognano,

né pensano che sia menomamente proprio dell’essenza loro, né compatibile colla natura delle lingue vive, e che nessuno s'immagina mai di riconoscere in essi» (1, 1444 Sg.).

Ma qualche anno pitù tardi, il 17 dicembre 1827, in Pisa, passava dalla considerazione dell’insufficienza del vocabolario a quella della memoria umana, trascrivendo ciò che D’Alembert, nel «Discours préliminaire» dell’Ewcyclopédie, aveva scritto a proposito della immensa fatica spesa nel raccogliere la nomenclatura delle arti e dei mestieri: «C’est ainsi que nous nous sommes convaincus de l’ignorance dans laquelle on est sur la plupart des objets de la vie, et de la difficulté de sortir de cette ignorance. C’est ainsi que nous nous sommes

mis en état de démontrer que /’homzze de Lettres qui sait le plus sa Langue, ne connoît pas la vingtiòme partie des mots...» (2, 1133 sg.; la sottolineatura è di Leopardi). E tuttavia, come per molti altri autori italiani, anche per Leopardi il colloquio col Vocabolario della Crusca durò tutta la vita, o almeno fino al giugno 1829, in cui troviamo la nota «Sentito per sensibile, vivo; 0 per sensato. Vedi Crusca»

(2,

1327; la quale Crusca, per l’accezione «sensato», questa volta gli dava soddisfazione). Un colloquio, dobbiamo precisare, diffidente o, per usare un sinonimo che Leopardi trovava nella Crusca e appuntava nello Zibaldone il 24 ottobre 1824 (2, 945), sfidato; sfidato e insieme affascinato, come con un oracolo insieme fasto e nefasto, comunque inevitabile, del nostro rito letterario. La testimonianza pit eloquente di ciò sono le Annotazioni alle dieci canzoni stampate in Bologna nel 1824, dove il Vocabolario della Crusca è citato ad ogni piè sospinto come un’arma da schivare e da rilanciare contro i moltissimi che, non sapendo scrivere, «non lasciano che si scriva» e, «non sapendo niente, vogliono che la favella non

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si possa stendere più là di quel niente» *. In queste annotazioni, però, l’uso della Crusca come arma di difesa è limitatissimo, anzi Leopardi mette spietatamente in evidenza le sue gravi lacune di voci, di accezioni e di costrutti, rinfacciandole con amplissime citazioni da autori maggiori e minori, magari del suo stesso canone, e giungendo a dichiarare che «molte parole, e molte significazioni di parole, o molte forme di favellare adoperate in queste Canzoni, furono tratte, non dal Vocabolario della Crusca, ma da quell’altro Vocabolario dal quale tutti gli scrittori classici italiani..., dal padre Dante fino agli stessi compilatori del Vocabolario della Crusca, incessantemente e liberamente derivarono tutto quello che parve loro convenevole e che fece ai loro bisogni o comodi, non curandosi che quanto essi pigliavano prudentemente dal latino fosse, o non fosse stato usato da’ più vecchi di loro»°. Però, mentre la dissociazione di Leopardi atriva fino al rigetto della norma e alla metafora spregiosa («Questa locuzione al mio palato è molto elegante; ma quelli che non mangiano se non Crusca, sappiano che questa non è Crusca, e però la sputino» °), la irrecusabile solidarietà storica trasforma le denun-

ciate lacune in offerte d’integrazione, per mano dello stesso cruscante lettore: «L’aggettivo scezzo negli esempi che la Crusca ne riferisce è detto assolutamente, e non regge caso. Dunque segnerai nel margine del tuo Vocabolario questi altri quattro esempi: l’uno ch'è dell’Ariosto... L’altro del Casa... Il terzo dello Speroni... L'ultimo dello stesso...» ”. Ma un rapido riscontro col Vocabolario della lingua italiana di Giuseppe Manuzzi (1833-42), che è la quarta impressione della Crusca riveduta e integrata con le giunte della lessicografia di oltre mezzo secolo, ci dimostra che le offerte leopardiane (sal-

vo forse per quella concernente il costrutto scarzpare da, presente nel «Dizionario della Minerva» [Padova 1827 sgg.] con due degli esempi di Leopardi)® non furono accolte. Ne furono accolte, invece, dalla quinta impressione della Crusca, non fosse che perché essa includeva nel canone le poesie di ' Cito dall’edizione de Le poesie e le prose di G. LEOPARDI, a cura di F. Flora, I, Mondadori, Milano 1965, p. 153. 5 Ibid., p. 160. ° Ibid., p. 180. ? Ibid., p. 165. * Ibid., p. 164, € cfr. MANUZZI, s. v. «scampare».

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Leopardi; ma con cautela, escludendo quelle, specialmente di costrutti, che apparivano eterodosse. Vi compare anche la «ferrata necessità» del Bruto minore, 3, 1, dove il trasposto ferrato per ferreo, dato dalla quinta Crusca come poetico, su-

bisce una ulteriore trasposizione in senso figurato. Vi è forse, dietro questo accoglimento, e dietro l'abbondanza di esempi dei due paragrafi, il vero e proprio saggio lessicologico delle Annotazioni, inteso a dimostrare la legittimità, su avallo della stessa poesia latina, dell’uso epitetico del participio passato (ibid., pp. 168-72), uso ritenuto da Leopardi «una dell’eleganze della nostra lingua» (idid., p. 172) e da lui amato al punto da registrare nello Zibaldone le attestazioni incontrate nelle sue letture: quali, ad es., esperizzentato per perito (2, 848), diasimato per biasimevole (2,945), provveduto per provvido (2, 945), spasimato per spasimante (2, 966), inna-

morato per «che innamora» (2, 966), infamato per infame (2,972), adombrato per «che adombra» (2, 977), trasognato per «che trasogna» (2, 977), pesato per circospetto (2,985), implacato per implacabile, inconcusso per inconcutibile, inaccesso per inaccessibile, vituperato per vituperevole (2, 999),

inviolato per inviolabile (2,1089). Siamo, cronologicamente,

tra il gennaio del 1824 e il marzo del 1827, cioè nel periodo in cui nello Ziba/done si addensano le annotazioni sul lessico italiano, prima più rare e meno impegnative di quelle sul lessico delle lingue classiche. È anche il periodo in cui gli studi filologici di Leopardi vanno ormai cedendo il passo all’attività creativa in lingua italiana. Si ha, tutto sommato, l’im-

pressione che il duello tra Leopardi e il Vocabolario della Crusca fosse una lotta con l’angelo: il Vocabolario, cosi com'’era, gli era necessario a dimostrare a se stesso, ancor prima

che agli altri, la novità, la ricchezza, la forza della propria lingua poetica e del proprio sentimento della lingua. 2. Che Leopardi fosse un lessicologo capace di sollevarsi al di sopra dello spicilegio lessicale per affrontare questioni categoriali lo dimostra uno dei temi conduttori della speculazione semantica e grammaticale dello Zibaldone: la distinzione tra verbi frequentativi e verbi continuativi, che anticipa i moderni approfondimenti della nozione di Aktionsart (0, italianamente, processo verbale) connessa e spesso confu-

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sa con la nozione di aspetto del tempo verbale. Leopardi scopre che dai verbi positivi latini si sono formati, nello stesso latino, frequentativi ma anche continuativi, categoria, questa seconda, che Leopardi, innovando la tradizione grammaticale, distingue sia semanticamente che formalmente (1, 747 sgg.). Sono, ad es., continuativi in latino versare da vertere, acceptare da accipere, ostentare da ostendere ecc.; e iactare da iacere, contro il frequentativo iactitare, a proposito del quale Leopardi mostra la rilevanza della distinzione sul piano stilistico, commentando finissimamente il verso 459 del libro II dell’Exeide, che descrive la disperata difesa dei Troiani invano saettanti dalle mura: tela manu miseri iactabant irrita Teucri

e traducendolo «lanciavano assiduamente e a distesa, senza veruna intermissione» (1,768).

Ma la più forte e più complessa speculazione lessicologica di Leopardi verte sul concetto di europeiszzo, termine da lui stesso proposto. È un concetto che evidentemente investe, oltre la lessicografia, la famosa «questione della lingua» nelle sue soluzioni puristiche e lassiste e il rapporto tra la lingua, la società e la cultura‘. Già Melchiorre Cesarotti nel celebre Saggio sulla filosofia delle lingue aveva osservato che il secolo xviti rendeva «l’inalterabilità delle lingue moderne pressoché fisicamente impossibile», dato che in esso «il commercio e la comunicazione universale da un popolo all’altro, la propagazione dei lumi per mezzo della stampa, le conoscenze enciclopediche diffuse nella massa delle nazioni... atterrarono tutte le barriere che separavano anticamente una nazione dall’altra e confusero in ciascheduna le tracce del loro carattere originario». Anche le lingue, osservava il Cesarotti, avevano, in tale stato di cose, una tale

«tendenza insensibile a ravvi-

cinarsi e a profittare delle altrui ricchezze, grammaticale, da cui solo si forma la linea montabile fra l’una e l’altra, diverrebbero sola»°.Siffatta convergenza si attua, per

che senza il genio di divisione insora poco a poco una il Cesarotti, attra-

1 Il tema dell’europeismo secondo Leopardi fu da me trattato molti anni fa nello scritto «Quicquid nostri predecessores...» Per una più piena valutazione della linguistica preascoliana, in «Atti e Memorie dell'Arcadia», serie III, vol. II, 1950. Di quello scritto riprendo qui spunti e trascrivo brani. ? Cito dalle Opere scelte di MELCHIORRE CESAROTTI, edite a cura di G, Ortolani, I, Le Monnier, Firenze 1945, pp. 110 sg.

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verso il prestito lessicale, nella sua prevalente specie del francesismo, e nell’adeguamento del periodare italiano, gerarchico e architettonico, all’agile, paratattico periodare francese. Ma se su questo piano — il piano dello stile — il Cesarotti si solleva alla esplicita e nettamente formulata nozione di europeità, nel campo del lessico tale nozione rimane implicita e come impigliata in quella di prestito. Qui infatti egli si muove con cautela, preso com'è tra i due fuochi del lassismo illuministico e del purismo conservatore. Ritiene legittimo il prestito quando sia «autorizzato dal bisogno e non rifiutato dal gusto», dovendosi riconoscere che nella immiserita cultura italiana «il fondo nazionale non basta sempre all’aumento e alla dilatazion delle idee». Prestito, anzitutto, nel dominio delle scienze e dalla lingua di quella nazione che ha rinnovato la cultura europea; prestito che, specialmente se costituito dal franco-latinismo, non apparirà neppure straniero’. Atroccato nella sua solitudine recanatese, Leopardi non ha bisogno, come l’uomo di mondo, di soluzioni compromissorie. Egli svolge rigorosamente il filo del proprio pensiero. Fin dal giugno 1820 egli afferma un nesso necessario tra cultura e lingua: «Dovunque si formano le scienze o le arti o qualunque disciplina, quivi se ne creano i vocaboli. Se noi italiani non volevamo usar parole straniere nella filosofia moderna, dovevamo formarla noi. Quelle discipline che noi abbiamo formate (per esempio l’architettura) hanno i nostri vo-

caboli anche presso le altre nazioni» (1, 141). Ma è un anno più tardi, il 26 giugno 1821, che s'impegna sul tema del lessico comune europeo: «Da qualche tempo tutte le lingue colte di Europa hanno un buon numero di voci comuni, massime in politica e in filosofia... Non parlo poi delle voci pertinenti alle scienze, dove quasi tutta l'Europa conviene. Ma una grandissima parte di quelle parole — gli fa aggiungere il suo acuto senso della lingua — che esprimono cose pit sottili, e dirò cosî, più spirituali di quelle che potevano arrivare ad esprimere le lingue antiche e le nostre medesime ne’ passati secoli; ovvero esprimono le stesse cose espresse in dette lingue, ma più sottilmente e finamente, secondo il progresso e la raffinatezza delle cognizioni e della metafisica e della scien3 Vedi, più ampiamente, il rinvio ai testi del Cesarotti e alla letteratura sull’argomento nel mio citato saggio (pp. 21 sgg. dell’estratto).

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za dell’uomo in questi ultimi tempi; e insomma tutte o quasi tutte quelle parole che esprimono precisazzente un’idea al tempo stesso sottile, e chiara o almeno perfetta ed intera; grandissima parte, dico, di queste voci sono le stesse in tutte le lingue colte d’Europa... Cosî che vengono a formare una specie di piccola lingua, o un vocabolario strettamente universale. E dico strettamente universale, cioè non come è universale la lingua francese, ch’è lingua secondaria di tutto

il mondo civile. Ma questo vocabolario ch’io dico è parte della lingua primaria e propria di tutte le nazioni, e serve all’uso cotidiano di tutte le lingue, ed agli scrittori e parlatori di tutta l’Europa colta» (1, 817 sg.). Ognun vede che qui la categoria «europeismo» si è emancipata dalla categoria «prestito» e l’idea di una realtà interidiomatica, di una superlingua, è chiaramente enunciata. E non manca l’avvio alla motivazione del fenomeno: motivazione non solo di ordine culturale ma, come vedremo, sema-

siologico. L’interessante è che a tale motivazione Leopardi arriva attraverso le forche caudine del dilemma puristico, senza smarritsi nel labirinto della questione della lingua e dissiparvi le fila del nuovo originale concetto; perché l’importanza e l'autonomia di quel concetto, cosî chiaramente avvertite, gl’impediscono di accedere alla soluzione di compromesso accettata dal Cesarotti. «Tutto il mondo civile facendo oggi — egli scrive — quasi una sola nazione, è naturale che le voci più importanti ed esprimenti le cose che appartengono all’intima natura universale, sieno comuni ed uniformi da per tutto... E siccome le scienze sono state sempre uguali dappertutto (a differenza della letteratura), perciò la repubblica scientifica diffusa per tutta l'Europa ha sempre avuto una nomenclatura universale ed uniforme nelle lingue le più difformi, ed intesa da per tutto egualmente... Si condannino... e si chiamino barbari i gallicismi, ma non (se cosî posso dire) gli europeismi, ché non fu mai barbaro quello che fu proprio di tutto il mondo civile, e proprio per ragione appunto della civiltà, come l’uso di queste voci che deriva dalla stessa civiltà e dalla stessa scienza d’Europa» (1, 818 sg.). Ed eccoci all’argomentazione semasiologica: «Aggiungo che quando anche potessimo ritrovare nel nostro vocabolario o nella nostra lingua, o formare da essa lingua altre parole che esprimessero le stesse idee, bene spesso faremmo male ad

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usarle perché non saremmo intesi né dagli stranieri, né dagli stessi italiani, e quell’idea che desteremmo non sarebbe né potrebbe mai esser precisa; e non otterremmo l’effetto dovuto e preciso di tali parole, che è quanto dire, le useremmo invano, o quasi come puri suoni» (1, 820). Per Leopardi l’insostituibilità sinonimica, cioè l’assoluta monosemia, costitui-

va l’ideale di una lingua propria e quindi veramente ricca, mentre l’abbondanza sinonimica era prodotto e produttrice di confusione e di povertà (ma anche di poesia), come sosterrà nello Zibaldone poco più avanti, sotto la data 10-13 agosto dello stesso anno, cioè dentro un unico coerente ambito di

teoresi linguistica (1, 978 sgg.). Orbene: proprio nel campo delle scienze, secondo Leopardi, vige la monosemia e la lingua è nomenclatura; cioè nel campo, si badi bene, del lin-

guaggio della politica, della filosofia, della chimica, non dei mestieri o, come allora si diceva, delle arti meccaniche, della

cui lingua già gli enciclopedisti avevano notato (e Leopardi

ha trascritto le loro osservazioni nello Zibaldone, 2, 1133)

l’imperfezione e lo stentato uso da parte degli stessi artigiani. D'altronde Leopardi sapeva certamente anche per proprio conto che la terminologia artigiana è in gran parte di origine popolare e di ambito locale, estranea quindi al concetto di europeismo. Tutt'altro che tecnicismi di officina sono infatti gli esempi leopardiani di quelle voci comuni «che tutto il mondo intende, tutto il mondo adopera in una stessa e precisa significazione»: «genio, sentimentale, dispotismo, analisi, analizzare, demagogo, fanatismo, originalità ecc.» (I;

819 sg.). «Tutte le scienze — approfondisce Leopardi — giunte ad un certo grado di formazione e di stabilità, hanno sempre avuto i loro termini, ossia la loro propria nomenclatura, e cosî propria che, volendola cambiare, si sarebbe cambiato faccia a quella tale scienza... E la nomenclatura di qualunque scienza è stata sempre cosî legata con lei, che dovunque ell’è entrata, v’è anche entrata quella stessa nomenclatura, comun-

que e dovunque formata, e comunque pur fosse inesatta nell’etimologie ec. purché fosse esatta nell’intendimento e nel senso che le si attribuiva. La Chimica ha nuova nomenclatura, perch’è scienza nuova e diversa dall’antica. E cosî accade alle altre scienze quando si rinnuovano o in tutto o in parte. Perdono l’antica nomenclatura, e ne acquistano altra, che diviene però universale come la prima. E quando fra diverse e

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lontane nazioni poco note o strette fra loro, trovate differenza di nomenclatura in una medesima scienza, certo è che quella scienza è diversa notabilmente nelle rispettive nazioni e lingue. Quindi — conclude Leopardi — i termini di tutte le scienze, esatte o no, ma alquanto stabilite sono stati sempre

universali, né sarebbe mai possibile nel trattarle, l’adoperare altri termini da quelli universalmente conosciuti, intesi e adoperati, senza nuocere sommamente alla chiarezza, e toglier

via la precisione» (1, 821 sg.). Alla base di questo martellato nominalismo lessicologico stanno, più che l’argomento della convenzione o assuefazione, subito dopo introdotto, le distinzioni che la psicolinguistica di Cesare Beccaria, di fonte sensistica, aveva fatto tra

idee principali e idee accessorie, idee espresse e idee suggerite, in funzione di una concezione psicologica dello stile. Le Ricerche intorno alla natura dello stile del Beccaria, apparse nel 1770, figurano infatti citate nello Zibaldone all’altezza dell’aprile 1820 (1, 135) e vengono polarizzate da Leopardi su quella opposizione tra ferzzize e parola che, già impostata dal Beccaria‘, egli raffina e pone a fondamento della sua lessicologia e anche della sua poetica: da un lato i terzini, che 4 Nel capitolo Degli aggiunti delle sue Ricerche il Beccaria, trattando delle «composizioni non... naturali, di cui perenne, costante ed immutabile ne sia il modello, ma artificiali, dagli uomini solamente in certi tempi ed in certi usi variamente combinate», dichiara: «Tali sono i termini delle arti e i termini tecnici tutti, che per voce universale di tutt’ conoscitori debbono sfuggirsi da chi scrive per dilettare e per persuadere vivamente l’animo; perché troppo lontane, per cosi dire, sono dalla parola le idee, né queste senza il corteggio di molte altre parole vengono dietro al nome che le deve rappresentare. Le lingue sono state formate gradatamente prima dai bisogni, dalle passioni, dalle impressioni originali che largamente sono spatse nella natura, costanti e comuni a tutt’i tempi ed a tutt’i luoghi; poi dalle circostanze locali, dalle volubili ed artificiali combinazioni dei complicati sentimenti degli uomini colti. Quest'ultima classe di parole dovrà essere usata con sobrietà...» Il Cesarotti, com’è noto, dichiarandosi contrario all’eccessivo grecheggiare a causa della opacità del grecismo in seno alla lingua italiana, considerò i termini tecnici in relazione non tanto al sapere scientifico quanto all’« intelligenza comune», auspicandone l’uso patsimonioso e anche la sostituzione, in modo da liberare la lingua da «un gergo vano e ributtante, il quale non può tornare a profitto se non dell’impostura e dell’ignoranza », pur conservando

«i termini già domati dall’uso e fatti cittadini di tutte le lingue» (Opere scelte cit., I, pp. 93 sgg.). Comunque, l’opposizione terminologica fermzire/ parola credo sia dovuta a Leopardi, secondo cui le voci scientifiche sono da chiamare terzini «perché determinano e definiscono la cosa da tutte le par— (1, D 5 sg.). Prima di lui nel Beccaria e nel Cesarotti ferzzize è sinonimo i parola.

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«presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto», «un’idea quanto più si possa scompagnata, solitaria e circo-

scritta», ai quali pertiene la precisione; dall’altro le parole, che «esprimono un’idea composta di molte parti e legata con molte idee concomitanti», che sono insomma «pit vaghe, ed esprimenti idee più incerte, o un maggior numero d’idee», e perciò pertiene loro non la precisione ma la proprietà (1,135 sg., 832 sg.)°. E anche questo concetto, banalmente canonizzato dai grammatici, assume in Leopardi, allievo del Cesarotti, una particolare forza teoretica: proprietà di una lingua è per lui appunto la sua originalità, il suo distinguersi «nelle sue forme, ne’ suoi modi, nelle sue facoltà... dalle forme, modi, facoltà della grammatica generale e del discorso umano regolato dalla dialettica»; il suo ardito scostarsi dalla geometricità e razionalità di un linguaggio idealmente universale, il suo più esser «figurata, composta, contorta» e aver tan-

to più «di arbitrario, di particolare e proprio suo, o de’ suoi scrittori ec., non della natura comune delle cose», il che la fa tanto più atta alla scienza (1, 566, 1459); la forma, insomma,

naturale della lingua o, per dirla col Cesarotti, il suo «genio». Ora, poiché «l’analisi delle cose è la morte della bellezza o 5 Val la pena, su questo punto, citare una pit diffusa nota dello Zibaldone, in data 15 settembre 1821: «Le idee concomitanti che ho detto esser destate dalle parole anche le più proprie, a differenza dei termini, sono: 1) Le infinite idee ricordanze ec. annesse a dette parole, derivanti dal loro uso giornaliero, e indipendenti affatto dalla loro particolare natura, ma legate all’assuefazione, e alle diversissime circostanze in cui quella parola si è udita o usata... 2) Le idee contenute nelle metafore... Certo e notabilissimo

si è che tutte le parole di qualunque origine e genere sieno, alle quali noi siamo abituati da fanciulli, ci destano sempre una folla d’idee concomitanti, derivate dalla vivacità delle impressioni che accompagnavano quelle parole in quella età, e dalla fecondità dell’immaginazione fanciullesca; i cui effetti, e le cui concezioni si legano a dette parole in modo che durano più o meno vive e numerose, ma per tutta la vita. Quindi è certo che le dette idee concomitanti intorno ad una stessa parola, ed alle menome parti del suo stesso significato, variano secondo gl’individui: e quindi non c’è forse un uomo a cui una parola medesima (dico fra le sopraddette) produca una concezione precisamente identica a quella di un altro: come non c’è nazione le cui parole esprimenti il più identico oggetto, non abbiano qualche menoma diversità di significato da quelle delle altre nazioni. Il detto effetto delle prime concezioni fanciullesche intorno alle parole a cui sono abituati i fanciulli, si stende anche ai diversi e nuovi usi delle stesse parole, che ne fanno gli scrittori o i poeti, alle parole analoghe in qualsivoglia modo... a quelle a cui da fanciulli ci abituammo, ec. ec. e quindi influisce su quasi tutta la propria lingua, anche la più ricca, e la meno capace di esser ben conosciuta da’ fanciulli» (1, 1100 Sgg.).

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della grandezza loto, e la morte della poesia. Cost l’analisi delle idee, il risolverle nelle loro parti ed elementi, e il presentare nude e isolate e senza veruno accompagnamento d’idee concomitanti, le dette parti o elementi d’idee»; laddove «la bellezza del discorso e della poesia consiste nel destarci gruppi d’idee, e nel fare errare la nostra mente nella moltitudine delle concezioni, e nel loro vago, confuso, indeterminato, incircoscritto» (1, 832 sg.): le parole, con la loro proprietà e con la loro — diremmo in modo moderno — connotatività, saranno voce della poesia, mentre i ferzzini, portatori, con la

loro precisione, di quella «nudità e secchezza distruttrice e incompatibile colla poesia, e proporzionatamente, colla bella letteratura», saranno voce della scienza. Sono quindi i fermini che, nella loro rigorosa denotatività e monosemia, e fin quando la conservino, costituiscono l’entità superidiomatica (o superlingua, o interlingua) europea. La compattezza dell’argomentazione leopardiana è tale che, dopo qualche riserva dovuta all’influenza del Cesarotti,

egli finisce con l’ammettere pienamente il grecismo scientifico (1, 73 Sgg., 1173 sg.); proprio perché, constatato che le parole nuove, moderne, sono quasi tutte termini e che gran parte di esse nella cultura europea è di fattura greca, l’Italia non s’isoli dal concerto della civiltà europea. Ma va ben oltre: il 28 giugno 1821 concede la franchigia anche ai «nomi appartenenti al commercio, alle arti, alle manifatture, agli oggetti di lusso ec. ec. che da qualunque lingua e nazione abbiano ricevuto il nome», i quali «lo conservano in gran patte per tutte le lingue e nazioni, e cosî è sempre accaduto» (1, 831). E

come, dunque, risolve il problema della purità della lingua, che inevitabilmente gli si pone? In verità egli lo considera seriamente, perché, se in astratto afferma che «conservare la

purità della lingua è una immaginazione, un sogno, un’ipotesi astratta, un’idea non mai riducibile ad atto, se non solamente nel caso di una nazione che, sia riguardo alla letteratura e alle dottrine, sia riguardo alla vita non abbia ricevuto nulla da alcuna nazione straniera» (2, 1236); in concreto, come il Ce-

sarotti, egli ammette il concetto di purezza come fedeltà della lingua alla propria indole primitiva (1, 1220, cfr. 557) e ritiene corrompimento e degenerazione quelle innovazioni che alterano «la sua proprietà, la sua natura, il suo carattere, la sua essenziale struttura e forma ec.» (1, 524). Ma l’europei-

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smo, ecco il punto, per la sua stessa collocazione ad un diver-

so livello e per il suo appartenere a quelle voci che il Meillet chiamerà «mots techniques et de civilisation», mentre è difficile che surroghi ed espella dall’uso un vocabolo patrio già esistente e ancor valido, resta comunque al di fuori o ai margini della lingua letteraria, di quella lingua appunto che per il Leopardi, come per il Cesarotti, il Foscolo, il Monti, precipuamente costituisce la lingua italiana; lingua le cui sorti, e lo stesso suo imbarbarimento, dipendono dalle sorti e dall’imbarbarimento della letteratura (1, 734 sg.; cfr. U. Foscolo, Sulla lingua italiana. Discorsi sei, in Opere edite e postume di U. F., Prose letterarie, IV, Firenze 1939, p. 112). Degli europeismi, tesoro universale del mondo civile, Leopardi auspicava un vocabolario: «... un Vocabolario universale europeo — scriveva il 26 giugno 1821 — che comprendesse quelle parole significanti precisamente un’idea chiara, sottile, e precisa, che sono comuni a tutte o alla maggior parte

delle moderne lingue colte», affermando: «Sarebbe opera degna di questo secolo, ed utilissima alle lingue non meno che alla filosofia»; giacché, soggiungeva con una discriminazione interessante, il Vocabolario europeo dovrebbe comprendere «massimamente quelle parole che appartengono a tutto quello che oggi s'intende sotto il nome di filosofia, e a tutte le cognizioni ch’ella abbraccia»; perciò un vasto campo della riflessione intellettuale e morale del tempo. Invece — continuava — «le scienze materiali, o le scienze esatte non

hanno tanto bisogno di questo servigio, essendo bastante-

mente riconosciute e fisse le loro nomenclature, e le idee che queste significano non essendo cosî facili o a sfuggire, o ad oscurarsi e confondersi e divenire incerte e indeterminate,

come quelle della filosofia» (1, 825). Leopardi viene cosî a distinguere due sottocategorie di europeismi, appartenenti a due diversi campi della operosità mentale: quello dei tecnicismi scientifici in senso stretto, che oggi chiameremmo nomenclatura, e quello che, pur essendo di elevata e raffinata intellettualità, era allora tanta parte non solo delle scritture ma anche della conversazione colta, atteso l’ancor limitato grado di tecnificazione e di formalizzazione di quel sapere «filosofico» che lo stesso Leopardi chiamava scienza dell’uomo. Ecco dunque un altro dei contributi semasiologici di Leopardi all’articolazione del concetto di tecnicismo in diver-

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si modi e livelli, distinti per grado di naturalità, di convenzionalità, di monosemia e per ambito di circolazione: dal tecnicismo degli artigiani, tratto assai spesso dalla lingua popolare, ricco di formazioni metaforiche e localmente circoscrit-

to, al tecnicismo culturale, speso nella conversazione e nel dibattito ideologico internazionale e quindi semanticamente sollecitato ed attrito, al tecnicismo diciamo nomenclatorio, in

cui l’altissima convenzionalità può coincidere con la totale artificialità, come nei termini fabbricati ad hoc, pseudolatini,

pseudogreci o con fattori apolidi. Dobbiamo rilevare, a disdoro della linguistica er titre, che lo studio teorico ed etimologico del tecnicismo non ha fatto, a tutt'oggi, quei progressi e quelle applicazioni che il dilettante Leopardi segnava di lontano. Vediamo finalmente come, a detta di Leopardi, dovrebbe comportarsi il lessicografo coi singoli termini: «Dovrebbe... definire e circoscrivere colla possibile diligenza il significato preciso di tali parole o termini, e recarne dalle diverse lingue, dov’elle sono in uso, esempi giudiziosamente scelti di scrittori veramente accurati e filosofi, e massime quegli esempi dov’è contenuta una definizione filosofica dell’idea significata dalla parola... Se il compilatore di tal Dizionario fosse italiano, ci renderebbe anche gran servigio, ponendovi gli esempi de’ migliori italiani che hanno trattato simili materie; e in caso che si trovassero voci italiane perfettamente corrispondenti sia nel vocabolario nostro sia ne’ nostri buoni scrittori qualunque, sia nell’uso, farebbe utilissima cosa, ponendole a fronte ec., con che verrebbe a fare un vocabolario italiano filosofico... Questo Vocabolario — conclude — che sarebbe utilissimo a tutta l’Europa, lo sarebbe massimamente all’Italia, la quale dovrebbe vedere quanta copia di parole che tutta l’Europa pronuncia e scrive, e riconosce per necessarie, ella

disprezzi e proscriva, senza averne alcuna da surrogar loro» (1,825 Sg.).

Cosî lo stilista affinatissimo, che amava la parola «pellegrina» e sapeva distinguere il numero o suono del periodo dei trecentisti dal numero o suono del periodo dei cinquecentisti (2, 865), conviveva col «filosofo» che nello Zibaldone

usava strumentalmente termini come dereonautica, macrobiotato, brachibiotato e altri congeneri, ed osava perfino esporsi al ridicolo usando precisazione quando la Crusca non

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registrava neppure precisare (1, 851). Ma stilista e «filoso-

fo» concorrevano a costituire un linguista che proponeva di rifondare la lessicografia generale e speciale sopra più rigorose concezioni lessicologiche, illuminate, nel settore italiano, da una acutissima coscienza della questione della lingua. 3. Eccoci dunque tornati a bomba, all’odiosamato Vocabolario. Il quale non è necessario soltanto come antagonista necessario, come purching ball, ma come strumento filologico: «Sto attendendo — scriveva Leopardi il 9 ottobre 1825 a Luigi Stella, figlio dell’editore milanese — la spedizione di libri che il Papà mi promise, nella quale deve essere il Dizionario di Cesari [la cosiddetta Crusca Veronese], senza il cui

aiuto non posso continuare la interpretazione del Petrarca» !. Ma quasi un anno dopo, il 26 agosto 1826, scrivendo all’editore Antonio Fortunato Stella, accennava all’intenzione di

farsi autore di un dizionario: precisamente di un «dizionario filosofico e filologico, il quale godo assai che le vada a genio, come è ancora di mia grande inclinazione» °. L’autore italiano del Dizionario filosofico auspicato nel 1821 era dunque lui stesso, che però, in una lettera del 13 settembre 1826 al-

lo stesso editore, gettava acqua sul fuoco: «Quanto al Dizionario filosofico, le scrissi che io aveva pronti i materiali, co-

m'è vero; ma lo stile, ch’è la cosa pit faticosa, ci manca affat-

to, giacché sono gittati sulla carta con parole e frasi appena intelleggibili, se non a me solo. E di più sono sparsi in più migliaia di pagine, contenenti i miei pensieri; e per poterne estrarre quelli che appartenessero a un dato articolo, bisognerebbe che io rileggessi tutte quelle migliaia di pagine, segnassi i pensieri che farebbero al caso, li disponessi, gli ordinassi ec., tutte cose che io farò quando a Lei parrà bene che io mi dia di proposito a stendere questo Dizionario...» *; tuttavia il successivo 19 settembre tornava positivamente sull’arsomento: «Incoraggito dalle Sue parole relative al mio Dizionario, mi son dato ad estrarre, a porre in ordine ec. i materiali che ho per quest'opera, la quale dovrebbe anche 1 dori, 2? 3

Cito dal volume Le lettere di 6. LEOPARDI, a cura di F. Flora, MondaMilano 1963, lettera 362, p. 570. Ibid., lettera 472, p. 704. Ibid., lettera 478, p. 714.

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contenere un buon numero di articoli o trattatelli relativi a cose di lingua, che siano di un interesse generale, filosofico o filologico; i quali articoli si potranno pubblicare appartatamente» ‘. Ma dopo un poco promettente accenno del 20 settembre 1827 da Firenze, sempre all’editore («Io travaglio al mio dizionario quanto mi permette la mia salute...»)”, l’opera non viene più ricordata. Parallelamente però l’editore aveva richiesto a Leopardi di curare una ristampa, o meglio di rifondere le Osservazioni della lingua italiana di Marcantonio Mambelli detto il Cinonio, opera, pet la quantità degli esempi d’autore, grammaticale e lessicografica ad un tempo. Dopo qualche prova il 3 settembre 1826 Leopardi aveva confessato da Bologna allo Stella: «Il voler... fare un’opera regolare e completa sopra questo genere, voglio dire un regolare e completo Cinonio, importa il fare un completo vocabolario italiano, un vocabolario, col quale alla mano, poco bisogno si avrebbe del vocabolario della Crusca, e di altri vocabolari italiani qualunque. Le confesso... che mi sono talmente spaventato, che non posso a meno di protestarmele incapace dell’impresa tra noi progettata. In tanta imperfezione del vocabolario italiano; in tanto immensa quantità di materiali, parte già raccolta, parte da raccogliersi, e tutti da aggiungersi al vocabolario; finalmente in tanta estensione e vastità del vocabolario stesso, ancorché

imperfetto; l’impresa di fare una nuova, regolare e compiuta redazione di una massima parte del vocabolario, supera assolutamente le mie forze, e credo che supererà sempre le forze di un solo» °. Ciò considerato, Leopardi consigliava una semplice ristampa del sempre utile Cinonio. E tuttavia la tentazione lessicografica risorgeva imperiosa: nello stesso anno, il 22 novembre, Leopardi vantava allo Stella: «Di voci e modi mancanti nel Vocabolario della Crusca io ho quell’immenso volume manoscritto, o scartafaccio, che mi ricordo di averle mostrato

a Milano. Sopra di questo io mi proponeva di comporre,

quando che sia, un volume intitolato: Vocaboli e modi di dire non segnati nel Vocabolario della Crusca, trattida scritto4 Ibid., lettera 479, p. 717. 3 Ibid., lettera 547, p. 787. * Ibid., lettera 474, p. 706.

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ri classici antichi; e nuovi esempi di voci e di locuzioni poste nel Vocabolario. Se Ella cosi amasse, io sospenderei il lavoro dell’Antologia... per darmi a quest’altra opera» ”; ma si dichiara anche disposto ad offrire i suoi spogli («quel mio smisurato manoscritto») a chi, per conto dell’editore, si accingesse a compilare analoghe giunte. Ebbene: fu e non fu quest’ultimo — come vedremo — lo sbocco di una tentazione lessicografica cosî forte da ridurre il monumentale Zibaldone, agli occhi del suo stesso autore, ad un elenco di giunte del Vocabolario della Crusca.

4. In quei primi decenni dell’Ottocento l’Italia era colma di fervore lessicografico. Bruno Migliorini e Paolo Zolli ci hanno enumerati, da competenti, i molti dizionari di varia mole e ambizione compilati allora in pit parti della penisola: dal Gran dizionario della lingua italiana di Cardinali e Costa a Bologna (1819-28) al Dizionario universale della lingua italiana del Vanzon a Livorno (1827) al Vocabolario universale

italiano della Società Tramater di Napoli, autore principale Liberatore (1829-40) ecc. ecc.; per non parlare dei dizionari specializzati (alfabetici o metodici) segnalati dallo Zolli e del

Nuovo dizionario de’ sinonimi della lingua italiana del Tommaseo (Firenze 1830). Una particolare vena di tanta operosità lessicografica era costituita dalla revisione del Vocabolario della Crusca, intesa sia a denunciarne acremente gli errori e le lacune, sia a fornire benevolmente rettificazioni e giunte: dalla Crusca Veronese del padre Cesari (1806-11) alla Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca di Vincenzo Monti e collaboratori (Milano 18171826), ben nota a Leopardi, che certo ne senti l’appello a favore del linguaggio scientifico. In questa vena si collocano, spesso sine ira et studio, parte delle note lessicologiche sparse nello Zibaldone, non cosî numerose tuttavia da formare un volume. Ho contato, è vero, citati o glossati oltre ottocento

fra parole, locuzioni, costrutti, forme, suffissi dell’italiano, ? Ibid., lettera 492, p. 731. ! Vedi B. MIGLIORINI, Che cos'è un vocabolario?, Le Monnier, Firenze 1951; e P. ZOLLI, Bibliografia dei dizionari specializzati italiani del x1x secolo, Olschki, Firenze 1973.

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ma non pit di cento sono quelli riferiti o utilmente riferibili, stante la sua natura, al Vocabolario della Crusca. Ci sono comunque segnalazioni di lacune e di errori del Vocabolario, ma anche rinvii per conferma, e gli stessi elementi che dimostrano la lacuna possono valere, o essere interpretati, come

contributi integrativi, offerta di giunte. È il caso delle lacune assolute o parziali — denunciate esplicitamente o implicitamente — di az4ricare, apparuto, commercio in accezione mo-

derna, dirittamente nel senso di subito, fra giorno, inviolato per inviolabile, svista, torvamente, o della confusione etimo-

logica tra insetare «innestare» da INSERERE e insetare «fasciare di seta» da seta. Riporto a mo’ d’esempio due di questi casi significativamente commentati: «Da forvo, parola italianissima e di Crusca, il Caro nell’Ezeide (lib. II, dove parla

del simulacro di Pallade) fece forvamzente, parola che non si trova nel Vocabolario. Ci può esser voce più chiara, più naturale, e ad un tempo pit italiana di questa? Ma perché non istà scritta nella Crusca, e perché a quegli accademici non piacque di porre la famosissima Ereide del Caro fra i testi, avendoci messo tanti libracci, però quella voce non si potrà usare? » (1, 539). E qui nella protesta entra certamente un risentimen-

to regionale, se si legga tra le ripetute lodi che del Caro sono sparse nello Zibaldone quella iperbolica del 29 giugno 1822: «Sempre scrisse [il Caro] nella propria lingua del suo secolo, non del trecento, e della sua nazione, non di sola Firenze. Or

vedasi nell’esempio del Caro, non fiorentino, come era bella e graziosa questa lingua razionale del cinquecento, ch’allora si disprezzava, e diceva il Salviati che bisognava scordarsene e lavarsene gli orecchi, né più né meno di quello che ci dicano oggi della nostra moderna. Certo è che nessun fiorentino né del trecento né del cinquecento né d’altro secolo scrisse mai cosî leggiadramente e perfettamente come scrisse il Caro, marchegiano e di piccola terra, tanto le cose studiate, quanto le non istudiate; vero apice della prosa italiana, e che anche

oggidî, letto o bene imitato, è fresco e lontanissimo dall’affettazione la più menoma, come s’oggi appunto scrivesse» (1, 1510). Ecco invece, nello stesso anno 18271, una lacuna par-

ziale rilevata più pacatamente e che ci riporta nell’ambito degli europeismi: «Figuriamoci la parola corzzzercio in quel senso preciso, e al tempo stesso vastissimo, nel quale tutto il mondo l’adopra oggidî, nel quale tanto se ne scrive, nel qua-

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le tutti i filosofi considerano e trattano questo soggetto. La Crusca non porta esempio di questa parola in questo senso, e veramente ella in tal senso non è classica. Noi abbiamo la voce classica, mzercatura, che secondo l’etimologia ec. vale presso a poco lo stesso. Or dunque sarebb’egli ben detto, le forze, gli effetti, la scienza della mercatura, invece del commercio? Produrremmo noi quell’idea precisa ec. che produce questa seconda voce? l’idea di quella cosa che (si può dire) nel passato secolo si è ridotta a scienza...? Signor no...» (1,

949).

Non si può pensare che queste e molte altre giunte offerte dallo Zibaldone al Vocabolario della Crusca (e più in genere alla lessicografia italiana del tempo) potessero essere accolte, sepolte com’erano, e come restarono sino alla fine del secolo, nello scartafaccio. Si potrebbe però supporre che Leopardi, non avendo avuto voglia o modo di pubblicarle lui stesso, le avesse consegnate — come ne aveva manifestata l’intenzione

all’editore Stella — a qualcuno dei molti lessicografi contemporanei. E il pensiero ci corre subito a Giuseppe Manuzzi, non solo perché il suo Vocabolario della lingua italiana, già da noi ricordato, è la ristampa della quarta impressione della Crusca (e alla Crusca erano principalmente dirette le offerte leopardiane), e non solo perché le integrazioni manuzziane includono le giunte della lessicografia precedente, ma perché all’opera del Manuzzi, uscita a Firenze tra il 1833 e il 1842, Leopardi collaborò effettivamente. Ciò risulta in modo indiretto dalle sue due lettere al Manuzzi, del 17 maggio e del 18 luglio 1833, dove si accenna ad un «noto manoscritto» e al relativo compenso dell’editore Passigli, cose da riferire entrambe al vocabolario, di cui il Passigli aveva assunto la stampa?. Leopardi allora si trovava a Firenze, dove comunicava per scritto col Manuzzi ed era in procinto di partire per Roma. Già nel 1829 gli aveva mandato una lettera da Recanati’, ringraziandolo della pubblicazione di un opuscolo del padre Cesari e lodandone evasivamente la prefazione; e nelle lettere prima citate, ed anche in una al Vieusseux del 1829*, dimostra di apprezzare lo stile delle sue epigrafi e dei suoi 2 LEOPARDI, Le lettere cit., lettere 890 e 894, pp. 1084, 1086. 3 Ibid., lettera 686, p. 923. à ‘ Ibid., lettera 693, per mano di Paolina, p. 929.

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articoli come di «cultore veramente felice della lingua nativa e del buono stile». La cordialità con cui Leopardi trattava il purista Manuzzi, che del resto godeva anche dell’amicizia del Giordani, si spiega certamente col candore di quell’atleta della lessicografia e con l’aiuto da lui procurato alla sussistenza fiorentina del poeta mediante il lavoro lessicografico. L’affettuosità di quel rapporto, approfondita dal rimpianto e dall'ammirazione, riecheggia nella prefazione del Manuzzi al suo vocabolario, stesa dopo la morte di Leopardi anche se premessa alla parte prima del tomo primo, comparso con la data 1833; nella quale il Manuzzi dichiara di aver arricchito «questa nuova impressione del sacro deposito di nostra favella» non solo con le proprie giunte e correzioni, ma con una «assai abbondevole messe di giunte inedite avute dalla cortesia di varii letterati viventi... o trapassati di poco con danno notabilissimo delle lettere, cioè da Gaetano Maiocchi, e dal conte Giacomo Leopardi, da quel Leopardi che Pietro Giordani chiamò “filologo ammirato fuori d’Italia, scrittore di filosofia e di poesie altissimo da paragonare solamente coi Greci” » (pp. XIII sg.); e aggiunge in nota: «Le nuove voci, o i nuovi

significati delle voci raccolte da questo illustre Letterato, ed innestate in questi volumi, ciascuna delle quali porta in fine la sua iniziale, sono state presso che tutte dichiarate da me; conciossiaché egli non avesse che notate le voci, o gli esempi, che gli parvero degni d’essere registrati nel Vocabolario: sicché a me, non a lui, debbono ascriversi que’ falli, che fossero per avventura ritrovati nelle definizioni, o spiegazioni delle medesime» (p. x1v). È cosa ammirevole che queste commosse parole, in cui è incastonata la parte culminante della famosa epigrafe del Giordani, siano fedelmente mantenute nella seconda edizione, Firenze 1859-67, da un autore che non era meno talarmente pio che linguisticamente purista. Orbene: nella Tavola delle giunte e correzioni o miglioramenti alla quarta impressione del Vocabolario della Crusca (1729-38), con cui il Manuzzi chiude la prefazione alla sua prima edizione, figurano 87 104 giunte, di cui 35 448 inedite, e 116 799 correzioni o miglioramenti, di cui 21 426 inediti. Tra le giunte, quelle offerte da Leopardi, tratte da suoi spogli inediti, ammontano a 758 e sono contrassegnate

da una L in parentesi tonde. Io ho scorso pazientemente le tI 523 colonne della prima edizione e ho rintracciato 671

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giunte leopardiane, cioè ne ho perdute lungo il cammino 87: troppe in assoluto, poche in relazione ai miei occhi stanchi e alla scarsa evidenza della stampa di quel vocabolario. Il numero delle giunte reperite è tuttavia sufficiente a farsi un’idea delle fonti e del carattere degli spogli leopardiani. Poniamoci una prima domanda, che non solo è ovvia ma è anche quella cui è pit facile rispondere. Passò Leopardi al Manuzzi le note lessicologiche e gli spogli dello Zibaldone? Basta verificare. Non staremo a distinguere le voci dotate di esempio d’autore da quelle nude, perché spettava al Leopardi corredare la voce di esempi, non al Manuzzi, che certamente non aveva accesso diretto allo Zibaldone. È presente nel Manuzzi la serie dei participi passati epitetici cari a Leopardi, quali inaccesso per inaccessibile, adombrato per «che adombra», infamato per infame, innamorato per «che innamora», spasimato per spasimante, provveduto per provvido, esperimentato per perito, trasognato per

«che trasogna»; ma non

vi appare nessun contributo leopardiano. Inviolato, poi, pet inviolabile resta lacuna, come biasimato per biasimevole. Mancano apparuto, che Leopardi traeva dal Machiavelli ma dubitando della lezione (2, 838), l’infinito amaricare; c'è invece 4 dirittura nel senso di «subito», ma senza traccia di contributo leopardiano, cosi come sopra col senso di «contro», pesato nel senso di «circospetto», mascere per «accadere», nonostante che per quest’ultimo Leopardi citi esempi di Machiavelli e di Guicciardini (2, 849, 857, 913). L’esempio guicciardiniano di le mulina (2, 919) non giunge al Manuzzi, né gli giungono quelli, guicciardiniani e no, relativi ad altro col valore di «nulla, nessuno» o di semplice ridondanza, che è una delle osservazioni lessicali più insistite e più felici dello Zibaldone e avrebbe potuto suggerire al Manuzzi un paragrafo a sé dell’articolo altro (2, 535, 841, 844, 849,

857, 872 sg., 928, 946 sg., 952, 967, 971, 985, 1055, 1960

sg., 1067, 1073, 1120, 1134; la mancata trasmissione degli esempi guicciardiniani è tanto più sorprendente per ciò che

diremo fra poco). Nulla poi delle fini osservazioni sugli usi modali di volere (2, 169 sgg.) passa al Manuzzi, e il suo articolo insetare non beneficia della obiezione etimologica di Leopardi (2, 512). Nel Manuzzi è invece inserito il nuovo

articolo svista, lacuna assoluta della Crusca, suggerito da Leopardi (2, 846) e ricevuto dal Manuzzi senza esempi d’au10

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tore; vi figura, come nuovo articolo, torvamzente, fondato sull’esempio del Caro addotto anche da Leopardi, ma il Manuzzi trae il tutto dal Dizionario di Bologna (1819-28), come trae

dal Tramater l’accezione «accusare, accagionare» di causare fondata su quello stesso esempio machiavellico della Vita di Castruccio citato nello Zibaldone (2,752) a documento dell’accezione medesima. La locuzione fra giorno «di giorno, nel giorno, dentro giorno», appuntata da Leopardi (2, 1118), non figura né nella Crusca né nel Manuzzi, mentre però è presente, sotto l’esponente fra, un contributo di Leopardi come giunta al paragrafo relativo all’accezione di interiorità di luogo: fra terra, fra mare «entro terra, entro il mare». Sono più indicativi altri casi: alle osservazioni sulle varianti diminutive positivate di sedia, seggia, seggio (2, 836) risponde nel Manuzzi una giunta di Leopardi all’accezione tecnica di «sedia (apostolica), cioè vescovado (di Roma)», fondata su

esempi del Guicciardini; la voce corzzzercio del Manuzzi reca due schede leopardiane dallo stesso autore, l’una sotto l’esponente (e dopo un esempio dal Diftazzondo) nell'accezione di «libera facultà di trafficare e trattare insieme fra diverse nazioni» (che è quella stessa della quarta Crusca, ma prolungata in «e ’l traffico stesso, e ’l trattare insieme nella società civile»), l’altra come paragrafo aggiunto nell’accezione di «compagnia, conversazione, società»; la voce sperimentato

«perito, che ha fatto esperienza» presenta sotto l’esponente un esempio del Guicciardini («soldati sperimentati alla guerra»), autore cui rinvia la corrispondente scheda dello Zibaldone (2, 848); la scheda causa per cosa in locuzioni come la causa pubblica, in causa propria, giovava alla sua causa, che Leopardi afferma frequenti nel Guicciardini (2, 916), si ri-

percuote sotto la voce causa del Manuzzi in ben quattro paragrafi fondati su esempi guicciardiniani forniti da Leopardi, due dei quali coincidono con le suddette locuzioni dello Zibaldone; e la scheda dirittamente «subito» (2, 834) è presente

nel Manuzzi come direttamente, con esempio del Guicciardini sempre fornito da Leopardi. Che vogliamo o meglio possiamo dedurre? Che Leopardi non passò al Manuzzi tutte le possibili giunte contenute nello Zibaldone, ma solo alcune, probabilmente munite di esempi

d’autore, come si conveniva più al carattere del compilatore del Vocabolario che a quello del Vocabolario stesso (giacché

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il compilatore, inserendo senza esempio d’autore il nuovo articolo svista, senti il bisogno di rinviare al sinonimo scappuccio, avallato dal Varchi). E dovette, Leopardi, di preferenza passare schede guicciardiniane, per lo più compilate nell’anno 1824, anno in cui risultano più fitti i riferimenti non soltanto linguistici alla Storia d’Italia del Guicciardini. 5. Ma le altre centinaia di schede, il «noto manoscritto»

alluso nelle lettere al Manuzzi, quando sono stati compilati? Nello Zibaldone, che giunge al 4 dicembre 1832, non ce n'è traccia. Fu un lavoro compiuto dopo quella data, o anche parallelamente, negli ultimi soggiorni toscani? La mia sorpresa è stata che quasi tutte le schede leopardiane fornite al Manuzzi sono tratte dalla Storia d’Italia del Guicciardini; pochissime da altri autori cinquecenteschi (Alamanni, Ariosto, Bembo, Machiavelli, Rucellai, Speroni, Varchi), ancor meno

da autori più antichi. L’ultima citazione del Guicciardini risale nello Zibaldone al 9 settembre 1828 e nelle lettere al 12 maggio 1820 (lettera 151 dell’edizione citata, a Pietro Giordani). La Crestomazia italiana dedicata alla prosa, uscita nel 1827, trasceglie dalla Storia d’Italia dieci brani come esempi di narrazione, di eloquenza e di relazione. Si sa tuttavia dallo stesso Zibaldone che Leopardi considerava la lingua del Cinquecento assai migliore di quella del Trecento e quasi perfetta: «Il secolo del cinquecento è il vero e solo secolo aureo e della nostra lingua e della nostra letteratura» (1, 494); aureo, ma ancora in gran parte sconosciuto, se si eccet-

tuino gli scrittori toscani registrati dalla Crusca, mentre «tutta l’Italia scriveva correttamente e leggiadramente» in tutte le materie. Anche lo stile infatti, oltre la lingua, aveva acquistato tanta nobiltà e dignità, che quasi era giunto a perfezione, salvo «una certa oscurità ed intralciamento, derivante in

gran parte dalla troppa lunghezza de’ periodi e dalla troppa copia delle figure di dizione, e dall’eccessivo ed eccessivamente continuato concatenamento delle sentenze» (ibid.); per

cui lo stesso periodare del Guicciardini peccava di quella «oscurità e confusione che deriva dall’abuso della potenza che avea la nostra lingua di abbracciare con un solo periodo un'infinità di sentenze, di concatenare insieme mille pensieri; di chiudere un ragionamento, un discorso intero, un intero

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sistema o circuito d’idee, in un solo periodo» (1, 1295 sg.).

Il Manuzzi dovette accogliere e trattare le schede leopatdiane con riguardo grande, talora eccessivo: lo si vede dal fatto che sui loro esempi egli fonda talvolta dei nuovi paragrafi che mal si distinguono, per la loro accezione, dall’accezione di altri paragrafi; quasi avesse cercato, autonomizzando l’esempio leopardiano, di dargli uno spicco particolare. Ma a che cosa mirava Leopardi fornendo le giunte? e quali effetti esse avevano sull’economia del Vocabolario? Intanto, da un testo ampio e ricco come quello della Storia d’Italia, di cui aveva apprezzato come antologista la varia tipologia retorica, egli traeva non solo parole isolate, ma iurcturae, locuzioni, costrutti, con molto riguardo alla sintassi, la grande negletta del Vocabolario della Crusca. Puntava senza dubbio sulle parole nuove, cioè non registrate dalla Crusca, proponendo articoli nuovi; ma anche accezioni nuove di voci già registrate, e quindi nuovi paragrafi entro gli articoli già presenti. Faremo, per una dimostrazione concreta, qualche esempio. Ecco, anzitutto, alcuni casi in cui il rilievo dato al contri-

buto leopardiano appare eccessivo: l’aver fatto di comze sezzpre («Come, seguito da Sempre col verbo Essere sottinteso») un nuovo paragrafo dell’articolo corze (Manuzzi, I, 697, 3); e cosî di industria nel senso di «sagacità, ingegno», quando l’esponente portava l’analoga definizione «diligenza ingegnosa» (ibid., I, 1693, 1), di querela come «dolore», e di opinione col valore di «risoluzione» (i2id., II, 300, 3), che in

verità è forzatamente indotto da un contesto guicciardiniano in cui emerge il verbo risolvere («Mutata la prima opinione di voler essere a Bologna..., aveva risoluto che...»). Anche il fatto che l’esempio guicciardiniano fornito da Leopardi («Essere il Viceré andato a trionfare d’una vittoria, nella quale era notissimo... ch’esso non aveva avuto parte alcuna») abbia indotto il Manuzzi a inserire nell’articolo avere parte un paragrafo con l’accezione «aver merito» distinta dall’accezione «avere mano in checchessia, coopetarvi», ci sembra una ipetsemantizzazione non necessaria. Quest'ultimo caso ci richia-

ma al modo di registrare le locuzioni nominali, verbali e avverbiali, che nel Vocabolario della Crusca non è coerente, petché quelle locuzioni talvolta compaiono sotto l’esponente del nome, del verbo o dell’avverbio, talvolta costituiscono esse

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stesse, con o senza rinvio, esponente di articolo nell’ordine alfabetico. Già la prefazione della prima Crusca confessa tale incoerenza, la quale si accresce nelle impressioni posteriori, producendo quell’eccesso di paragrafazione e quell’ingombro

di ripetizioni che il Manuzzi lamenta nella sua prefazione (pp. xI sg.), chiedendosi: «Non è ella una mera superfluità l’intavolar sotto a’ nomi, in separati paragrafi, certe maniere di parlare formate dall’accozzamento d’un nome e d’un verbo, come Muover pietà, sdegno, ira ec.? Prender conforto... ec.? Portare amore... ec.?» Evidentemente il Manuzzi consi-

derava quelle combinazioni come libere e intendeva affidarle agli esempi di autore citati e alla «competenza» naturale di chi consultasse il vocabolario. Ma non si accorgeva che tra la combinazione veramente libera e quella bloccata ci sono vari gradi di coalescenza dei componenti, i quali hanno riflessi diversi sul piano dell’articolazione semantica. Mentre dunque sfuggiva al Manuzzi la complessità del fenomeno della associazione lessicale (e i limiti assai ristretti della libertà combi-

natoria), gli antichi accademici l’avevano implicitamente avvertita nel dare autonomia lessicografica a certe locuzioni. Del resto il Manuzzi non osò intervenire cosî a fondo come riteneva utile nella struttura del venerando Vocabolario, anzi la rispettò e la seguî nelle proprie giunte; lo dimostra il fatto che quasi tutti i nuovi articoli costituiti con esempi forniti da Leopardi sono locuzioni verbali o nominali. Ecco infatti, in esponente, a rile torti «a gran torto», ir vita «durante la vita», iz una volta «nello stesso tempo»; e andare tardo «procedere con lentezza», avere ammirazione «maravigliarsi», avere il cospetto d’alcuno «essere ammesso al cospetto d’alcuno», avere origine «aver principio», avere osservanza alla religione «osservarne i precetti», qvere perfezione «essere finito o compito», avere similitudine di «somigliare a», mzeftere in armi «armare», mettere in guardia «presso i militari vale Guarnire», mettere in potestà «consegnare», mettersi di cammino «marciare, mettersi nella marcia», venire in discussione «doversi discutere»: locuzioni in cui Leopardi doveva avvertire, secondo le sue premesse teotiche, non tanto il fisso o formulare quanto il proprio della

lingua italiana, quella ricchezza e varietà cui essa non ha mai rinunciato e che, pur lasciando cadere i vieti arcaismi, deve conservare. Ché se molte di quelle ricchezze di parole e modi,

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per lo scemato studio dei classici, sono andate o tendono ad andare in disuso, esse «tuttavia son fresche e vegete, ancotché di fatto antichissime: e siccome si possono usare senza scrupolo, cosî di tratto in tratto, qua e là, questa o quella si vien pure adoperando da qualcuno in modo che tutti le intendono, e nessuno nega o può negare di riconoscerle e sentirle per italiane. E finattanto che la nostra lingua conserverà il suo spirito ed indole propria..., il capitale di tali ricchezze le durerà sempre» (1, 1195 Sgg.). Dalle pagine dello Zibaldone tornando a quelle del Manuzzi, è di secondaria importanza il fatto che la locuzione pigliar deliberazione «risolversi», suggerita da Leopardi, non costituisca esponente di un nuovo articolo, ma un nuovo pa-

ragrafo dell’articolo pigliare, precisamente il paragrafo LXXVI (II, 506, 3), la ragione del diverso trattamento risalendo ancora una volta all’assetto della quarta Crusca, non sempre coerente né chiaramente motivato. Sono piuttosto da notare i nuovi articoli di consultato «add. da consultare», dell’uso preposizionale di riscontro «di rimpetto» («riscontro alla fortezza di Stampace», Guicciardini), e le varianti in pole-

mica con la Crusca: congetturare contro conghietturare, benefizio e benefiziale contro beneficio e beneficiale, in articoli separati. Più numerosi sono i paragrafi nuovi corrispondenti a nuo-

ve accezioni di locuzioni o voci già registrate; paragrafi che rispecchiano anche «l’immensa facoltà delle metafore, proprissima, anzi essenziale della lingua italiana..., e naturale a

spiriti cosî vivaci ed immaginosi come i nostri nazionali» (1, 898); la quale però nei pochi esempi che qui citeremo non potrà essere adeguatamente rappresentata e verrà data come presupposta. Anzitutto locuzioni, quali: avere luogo «succedere, seguire» (sotto avere luogo), contrarre matrimonio, sposalizio ecc. (sotto contrarre), dar causa di una cosa ad uno «attribuirgliela» (sotto causa), essere in animo di... «avere

intenzione» (sotto 47720, nelle Giunte e Correzioni, II, 1833, 3), zettere a esecuzione nel semplice senso di «fare» (sotto mettere a esecuzione), pigliar campo «acquistar van-

taggio, fare progressi» (sotto capo), prender forma «acconciarsi» («le difficoltà», Guicciardini; sotto forzz4, diversa-

mente dal prender forma di checchessia «trasformarsi in esso», sotto prendere), ricevere in grazia una cosa «pigliarla in

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buona parte» (sotto ricevere), rizzaner concorde che... «convenire»

(sotto rizzanere),rimaner su ‘periore «vincere»

(ibid.),

rimettersi alla discrezione d’alcuno «in termine militare, vale Arrendersegli a discrezione» (sotto rizzettere), ripetere colla memoria «richiamare alla memoria» (sotto ripetere), ritenere titolo di checchessia «vale Averlo, esserne fregiato» (sotto

ritenere), ritornare all’unione di checchessia «riunirsi di nuovo a checchessia»

(sotto riformare), star sotto ad uno «stare

sotto al suo dominio»

(sotto stare sotto), stillar negli orecchi

alcuna cosa ad uno «figuratamente vale Suggerirgliela» (sotto stillare), tirar gii «vale anche Buttat gii, demolire» (sotto tirare, accezione nuova senza nuovo paragrafo), venire innan-

zi «vale anche Succedere, accadere» (sotto venire innanzi); a mia, a tua satisfazione «a mio, a tuo modo» (sotto satisfa-

zione; sotto soddisfazione non c’è niente di simile), cor buona grazia d’alcuno «con la sua approvazione» (sotto grazia,

nel nuovo paragrafo grazia «per Approvazione, Soddisfazione», esclusivamente leopardiano), di propria autorità «spontaneamente» (sotto autorità), nel colmo di alcuna cosa «nel

forte, nel bello, nel mezzo di quella cosa» (sotto colzz0). E poi voci singole, di cui Leopardi avverte un significato più

moderno, o pit intenso e pregnante, o più specifico, o più tecnico di quello definito dalla Crusca. Esempi: abbondante nel senso di «traboccante, soverchiante», appartenere «giovare, importare», assegnato

«moderato», atforniare «girare attor-

no», 4vanzare «scampare, restar salvo» («ritenendo prigionieri quegli che avanzarono alla loro crudeltà», Guicciardini), cognome «soprannome», concordare «fat patto ed alleanza», conservarsi «durare, continuare in uno stesso essere», costa «il confine della terra col mare», dichiararsi «manifestarsi, scoprirsi», disdetta «tempo da disdire», distratto

«parlandosi di fazioni vale Diviso», forma «formula» («la forma dell’accordo», Guicciardini), forzzarsi

«concepire, im-

maginarsi», godere qualcosa «averne la rendita», grandezza «grado o dignità» («la prima grandezza ecclesiastica», Guicciardini), grosso detto di naviglio «grande di mole», industria «arte», insulto «assalto» in senso militare, 24/0 «debole» («mala resistenza», Guicciardini), zz4azcare «estinguersi, di una famiglia», zz4areggiare «negoziare», mano «ordine» («tre mane di trincee con tre mane di cavalieri», Guicciardini), mutato «deposto» («mutata la diffidenza», Guicciar-

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dini), rappresentare «dimostrare, dare a divedere», reintegrarsi

«rappattumarsi» (anche sotto rintegrarsi un significato

analogo, con esempio del Caro, tratto dal Tramater), relassazione «cessione», repugnanza «disavvantaggio», riassumere «ripigliare», ricadere a... «pervenire», ricognizione «omag-

gio, vassallaggio, dipendenza», ricomperarsi «liberarsi con danaro da un danno» («r. dalle prede e dai sacchi», Guicciardini), rinfrescare una fortezza «mettervi nuove vettovaglie e munizioni»

(sotto rinfrescare), riparazione «fortifica-

zione, difesa», ripetere «cominciar da principio, ripigliar la cosa dalla sua origine» («ripetere più da alto», Guicciardini), ripugnare «impedire» (una analoga giunta manuzziana sotto repugnare «ostare, contradiare, opporsi»), rivedere «visitare una cosa per conoscere in che grado si trova», per es. un muro, saccheggiato «portato via nel dare il sacco», segretissimzo detto di «uomo che tiene in sé le cose che sa», sîr tanto che, sino a tanto che «vale lo stesso che Sin che» (sotto sirz0),

sopraffare «sovrastare», sotto alcuno «vale Sotto il comando di alcuno»

(sotto sotto), spargersi «spargersi voce» («comin-

ciatosi a spargere nel popolo...», brachilogia guicciardiniana), spedizione «ambasciata» e «ordine, facoltà», stabilire «disporre», successivamente «quindi, di poi», successione «av-

venimento al trono», suffocare «allagare» (cfr. soffogare «affondare, sommergere» detto di navi), supplicato «chiesto, invocato», supplire «bastare, provvedere», fezzerario «casuale, fortuito» (Varchi), ferzerità «caso» (Varchi), tirare «voltare, volgere» detto di muri, tollerare «reggere, sostenere», framzezzare «passare in mezzo», tribunale «luogo ele-

vato donde altri arringa al popolo», udire «dar retta, obbedire», uomo

«agente»,

utile «atto

a servire»,

vanamente

«stoltamente», varietà «volubilità, incostanza», vi4 «parti-

to», virti «coraggio, valore, fortezza d’animo». Alcune di queste accezioni divengono ovviamente, nel contesto degli esempi, più chiare e meno ambigue di quanto non siano nell'isolamento dell’elenco ora fornito; in quelle poi relative ai settori giuridico, politico, diplomatico e militare il mio lettore intuirà facilmente la fonte guicciardiniana e il suo contributo alla costituzione di lessici specifici. È alla stessa fonte che dobbiamo l’accezione statuale o professionale di bastorze «comando dell’esercito» («aveva in mano il bastone dei Ve-

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neziani»), bocca d'artiglieria «pezzo d’artiglieria» (sotto bocca), governo «la forma, l’ordine, il modo del governare», irsegna «per la compagnia intera de’ soldati retti sotto la medesima insegna», levar genti, milizie «far soldati per condurli a guerreggiare» (sotto levare), frutto «rendita di uno stato», lettera per «lettera di cambio», rimzetter la pena «vale Condonarla» (sotto rimettere). Si tratta di tecnicismi, ma ben

lontani dai ferzzini dell’Europa illuministica. Va anche rilevato che nuovi paragrafi per nuove accezioni sono anche costituiti sulla base, oltre che della scheda leopardiana, di schede concorrenti, sicché è difficile dire, quando la concorrenza viene dal Manuzzi (indicato dalla sigla C [Compilatorel]),

quale sia il punto di partenza della giunta, mentre è facilissimo quando la concorrenza viene da fonti lessicografiche ben databili, ad esempio la Crusca Veronese. Cito qualche caso: esser lento a fare una cosa «vale Indugiare, non esser pronto a eseguirla»

(sotto lento; L più C); liberarsi «affrancarsi, esi-

mersi da un aggravio» (C più L); licenziare «presso i militari vale Accomiatar le soldatesche, disfar l’esercito» (C più L); mancare della promessa o nella promessa «non attenere ciò che si è promesso» (sotto marcare; C più L; e si confronti mancare nel senso di «fallare, non avvenire», il cui nuovo paragrafo è costituito da V [Crusca Veronese] più L); privazione «deposizione, l’azione dello spogliare alcuno d’una dignità» (C più L); qualità «condizione, stato di fortuna, grado o professione nella società civile» (C più L); resarcire «re-

staurare, rabberciare» (C più L; articolo nuovo, che però si rispecchia nell’analogo risarcire); ricercare «esigere, richiedere» (L più C); ricompenso «compensazione» (C più L);

ritardare parlare o del come o privata

«impedire» (C più L); scoprirsi «darsi a conoscere, procedere in modo che altri s’accorga con chi tieni, la pensi» (C più L); scrittura, o scrittura pubblica «atto contenente una promessa, un patto tra due 0

più persone» (sotto scrittura; C più L); sedia «vescovado

o sua giurisdizione, e per lo pit si dice del vescovado di Roma...» (C più L); ferzpo per «spazio, intervallo di tempo» (C più L); titubazione «figuratamente, Perplessità» (C più

L). Tutto ciò che si può dire a proposito della diversa successione delle sigle nei casi elencati sopra è che l’ordine delle schede non segue sempre la cronologia degli esempi citati en-

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tro il paragrafo, come pur dichiarava di aver fatto il Manuzzi a miglioramento della quarta Crusca. L’interesse di Leopardi non si restringeva al lessico, benché ad esso richiamasse il carattere eminentemente lessicale dei nostri vocabolari e della stessa «questione della lingua». Due cospicui passi dello Zibaldore, che motivano la ricchezza della lingua italiana, si appuntano infatti tanto sul lessico e sulla sua straordinaria produttività attraverso la derivazione suffissale, quanto sulla sintassi latamente intesa. «Una delle principali, vere ed insite cagioni della vera e propria ricchezza e varietà della lingua italiana, è la sua immensa facoltà dei derivati, che mette a larghissimo frutto le sue radici. Osserviamo solamente le diverse formazioni che dalle sue radici ella può fare de’ verbi frequentativi o diminutivi..., senza

contare i sopraffrequentativi, o sopraddiminutivi... ovvero diminutivi de’ frequentativi o viceversa. E queste e le altre formazioni sono di significato certo, determinato, riconosciuto, convenuto e costante, in modo che vedendo una tal for-

mazione, e conoscendo il significato della voce originaria, s'intende subito la modificazione che detta parola formata esprime, dell’idea espressa dalla parola materna» (1, 836 sg.). «Altra gran fonte della ricchezza e varietà della lingua italiana — aggiunge Leopardi neppure un mese più tardi, il 17 luglio 1821 — si è quella sua immensa facoltà di dare ad una stessa parola, diverse forme, costruzioni, modi ec. e va-

riarne al bisogno il significato, mediante detta variazione di forme, o di uso, o di collocazione ec. che alle volte cambiano

aftatto il senso della voce, alle volte gli danno una piccola inflessione che serve a dinotare una piccola differenza della cosa primitivamente significata. Non considero qui l'immensa facoltà delle metafore, proprissima, anzi essenziale della lingua italiana... Parlo solamente del potere usare, per esempio, uno stesso verbo in senso attivo, passivo, neutro, neutro pas-

sivo; con tale o tal caso, e questo coll’articolo o senza; con uno o più nomi alla volta, e anche con diversi casi in uno stesso luogo; con uno o pit infiniti di altri verbi, governati da questa o da quella preposizione, da questo o da quel segnacaso, 0 liberi da ogni preposizione o segnacaso; co’ gerundi; con questo o quell’avverbio, o particella (che, se, quanto ec.)

2

! Nella sua Prefazione, p. xxV.

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e cosî discorrendo» (1, 897 sg.). Orbene: mentre per le derivazioni e alterazioni lessicali le schede leopardiane vanno rintracciate nello Zibaldone, che ne abbonda (ce n’è un mucchietto proprio nel primo passo ora citato (1, 836 sg.), per

la sintassi ne emergono anche alla superficie del Vocabolario. Concernono per lo pit non tanto la sintassi di frase quanto di locuzione, notificando reggenze e costrutti che sono altrettante lacune del Vocabolario, in tal materia avarissimo all’utente. È il caso di alieno a... «avverso, contrario», alieno da... «diverso», comune di... e comune tra..., concorde con..., dove si segnalano accezioni e costrutti non registrati, oppure co-

strutti nuovi per accezioni note; è anche il caso di circonstante (circostante) «che sta intorno» e di circonvenuto «aggitato, insidiato», articoli dove gli unici esempi di costrutto (circostante a..., oppure di...; circonvenuto con..., oppure da...)

sono quelli leopardiani. Tipi nuovi di reggenze segnalati da Leopardi sono:

corzzzosso

contro... «irritato, sdegnato»,

commosso da... «afflitto, oppresso», dove sono nuove anche le accezioni, conforme con..., desistere di..., dispensare a... «derogare» («dispensando... alla disposizione della legge», Guicciardini), inizzicato da... «odiato», instare di... «fare istanza», interrompere che... «vietare, impedire», irresoluto

di..., toccare a... detto di navi «approdare». Attentissimo è Leopardi a registrare gli usi delle preposizioni e delle congiunzioni, specie se anomali o notabili: 4 in luogo di per («a qual cagion...?»), circa col complemento diretto, appresso a... col valore di «in» («appresso ai quali risedeva l’autorità», Guicciardini), di per «verso, alla volta» («il cammino di

Spagna», Guicciardini), per più l’infinito a indicare attitudine, capacità, opportunità (« Ferentino... era luogo per proi-

bire che gli nemici venissero più innanzi», Guicciardini), ir grado che «in tale stato che» (sotto grado), lo invece di nello,

cioè l’assenza di preposizione, nei complementi temporali («il giorno, l’altro giorno», sotto lo, I, 1890, 1; ma il fenomeno era già dichiarato sotto // nella quarta Crusca), costringere più l’infinito senza preposizione, cozze col congiuntivo anziché con l’indicativo in correlazioni quali «Sono cosf nocivi i timori vani, come sia nociva la troppa confidenza» (Guicciatdini; sotto cozze, I, 698, 1). Va infine rilevata la sensibilità

di Leopardi per l’uso assoluto o relativo, intransitivo o pronominale del verbo, e per il mutare del suo significato a se-

292

FRA GRAMMATICA

E RETORICA

conda del costrutto di reggenza: corzporsi ma anche comporre nel senso di «accordarsi, aggiustarsi, restar d'accordo, convenire», consigliare una cosa «tenerne consulta» e in senso

non dissimile consigliarsi con..., consigliarsi quello si avesse a fare (Guicciardini; sotto consigliare), discorrere ad uno una cosa «tenergliene discorso» (sotto discorrere), rimediare «impedire» («rimediare non la saccheggiassero», Guicciardini), soccorrere usato assolutamente «porgere aiuto», trattare di...

«praticare o adoperarsi per conchiudere... qualche negozio» («t. delle cose di Pisa», Guicciardini).

Di fronte a molte altre schede leopardiane c’è da restare perplessi. Che scopo infatti ha l’aggiunta di esempi contenenti voci come comandamento «comando», compromettere «rimettere le sue differenze in altrui con piena facultà di deciderle», condizione «stato di fortuna, grado, stato o professione nella società civile», confidente «amico», confortare, congregato, conversare, cospirazione, dannabile «biasimevo-

le», differenza «lite, dissensione», disdire «essere sconvenevole», esattore, francamente «arditamente», indegnazione, indizio, inonesto, lentamente, levata «partita..., per lo più

dei militari dal campo», lontano, luogo «legnaggio», mandato «procura», maritarsi, prendere «arrestare», principale

«che è il primo, che è il più notabile nel suo genere», residenza, riformare, ritornare, ritornata, rotta, scorrere «dare

il guasto», scusazione «scusa», significare «fare intendere, mandare a dire, avvisare», smzisurato «eccessivo», sollecitare, sopravvenire, stabile, stato «signoria», subitamente «senza indugio», succedere, successore «erede», sufficienza «abilità, idoneità, capacità», testizzoniare «far fede», tirare (con armi), torcersi «voltarsi», trattare «t. bene o male e simili», trattato «congiura» e «negoziazione», uzirsi «congiugnersi», unità «qualità di ciò che è uno», urtare «spignere incontro con impeto e violenza», vacazione, verificare «dimostrar vero», vinto «indebolito, spossato», violare «offendere, far contro», volgarmente «comunalmente», e molte altre? esem-

pi che non fanno che confermare accezioni già registrate e quindi possono apparire un arricchimento del Vocabolario solo quantitativo. Ebbene, gli esempi citati dalla quarta Crusca sotto gli esponenti ora elencati, e sotto altri congeneri, generalmente non superano i confini del Trecento: Giovanni Villani, Dante, Petrarca e Boccaccio sono le loro fonti privi-

LEOPARDI

LESSICOLOGO

E LESSICOGRAFO

293

legiate. Gli esempi forniti da Leopardi spostano il fronte delle attestazioni, e quindi dello stato della lingua, portandolo circa due secoli più avanti, a quel Cinquecento che, ripetiamo con lo stesso Leopardi, «è il vero e solo secolo aureo e della nostra lingua e della nostra letteratura», perché « quasi tutti gli scrittori del cinquecento, toscani o non toscani, hanno bene e convenientemente adoperata la nostra lingua... e questo in ogni sorta di soggetti e di stili... e anche in quelle cose che si scrivevano e si scrivono correntemente e senza

studio, come lettere e cose tali, dove il cinquecento è sempre quasi perfetto modello della buona lingua italiana a tutti i secoli» — però solo nella prosa, perché una vera lingua poetica non si è formata in Italia prima del Parini e del Monti, e si è formata ancorandosi a quella purità e antichità, a quel peregrino in cui consiste l’eleganza e da cui si allontana sempre più, necessariamente, la lingua della buona prosa (1, 494 Sgg., I154 Sg.; 2, 218 sgg., 436 sgg.). E d’altra parte, poiché noi abbiamo una lingua «ricchissima, vastissima, bellissima, potentissima», ma antica, «ed essendo antica non basta, né si adatta, tal quale ella è, a chi vuole scriver cose moderne in maniera moderna»; «è necessario, evidente e certo, che volendo dare alla moderna Italia una moderna letteratura, con-

viene non già mutare la sua antica lingua, né disfarla, né rinnovarla, ma, salvi i suoi fondamenti, l’indole e proprietà sua, e tutti i suoi pregi secondo le loro speciali e proprie qualità, rimodernarla, e fare in modo che la lingua moderna italiana illustre sia propriamente una continuazione, una derivazione dell’antica, anzi la medesima antica lingua continuata». Ma

per conseguire ciò lo scrittore italiano ha da studiare nei classici una lingua non ricevuta dalla balia e assimilarla al punto da «poter sulle fondamenta, sull’ordine, sul disegno dell’antica lingua fabbricare come una continuazione d’edificio la moderna... per modo che nulla appaia la commissura» (2, 387 sgg.); cosa ardua ma agevolata dal fatto che la lingua italiana, per non aver mai rinunciato alle ricchezze di una tradizione continuata ben cinque secoli e per possedere un'infinità di parole e di modi e la capacità di riprodurli illimitatamente come un vecchio tronco coperto di germogli, ci mette in grado di «usarli... e crearli nuovamente, e nondimeno con sapore e natura tutta antica: anzi non la moderna, ma la sola an-

tica lingua italiana possiede ed è capace di questa fecondità»

294

FRA GRAMMATICA

E RETORICA

(1, 1437 sg.). Ecco, ci sembra, la complessa ragione delle giunte leopardiane al Vocabolario della Crusca e in quanto prosastiche e in quanto cinquecentesche.

6. Vien fatto di domandarsi se le giunte leopardiane alla quarta Crusca siano passate nella quinta. Varrebbe la pena di verificare, anche per precisare i rapporti tra l’opera del Manuzzi e il reimpianto capponiano. Basti anticipare, a titolo indiziario, che l’osservazione sull’uso del mero articolo nei complementi temporali invece della preposizione articolata è

passata nella quinta Crusca sotto lo stesso esponente /o e con lo stesso esempio guicciardiniano. Ma è ora di concludere. Il vocabolario degli europeismi, pur ristretto a vocabolario filosofico, è rimasto nell’elenco delle opere da fare di Leopardi; un mero proposito, se non un sogno come la fantasticata Enciclopedia delle cognizioni inutili (e quindi veramente utili), e delle cose che non si sanno. E fuori delle effet-

tive giunte leopardiane sono rimaste le proposte che egli avrebbe saputo fare dalla lingua di altri scrittori dello stesso Cinquecento, da lui apprezzatissimi, e magari da «libri moderni bene scritti», di cui ammetteva l’esistenza (1, 1444). Qualunque sia stata la causa del suo limitarsi al Guicciardini,

del resto il massimo prosatore del Cinquecento per forza di lingua ardita e libera, com’era e doveva essere secondo Leopardi ogni lingua bella (1, 1453 sgg.), e per forza di contenuti, da grande conoscitore della natura umana (Pensieri, LI)

e uomo nato a operare più e più gran cose degli altri (quindi capace di grandezza anche nella filosofia e nelle lettere, secondo lo stesso Leopardi [1, 14741); qualunque sia stata, dicevo, la causa del suo limitarsi alla prosa del Guicciardini, certo è che ne ha tratto, col suo sovrano senso della lingua, ciò che più sentiva mancare alla vecchia Crusca: l’aggiornamento su un fronte di lingua più avanzato e maturo, la conferma della proseguente vitalità di una tradizione illustre. A chi poi ci confessi la sua delusione nel vedere Leopardi rinchiudersi, dopo tanta moderna apertura all’europeismo e dopo nette dichiarazioni di antipurismo, nel culto, perché no? puristico dell’aureo Cinquecento e di un unico suo modello, ci sentiamo di rispondere: la teoria linguistica di Leopardi è un registro a partita doppia. Qui siamo nella partita dell’ita-

LEOPARDI

LESSICOLOGO

E LESSICOGRAFO

295

liano non come lingua di terzini né di pratica comunicazione, ma come lingua di parole (quindi di letteratura e di poesia). Entrambe le partite provengono da un’unica concezione lessicologica, la quale come apriva all’europeismo nei suoi vari aspetti, cosi chiudeva le porte dell’italiano alla razionalizzazione e geometrizzazione che, secondo Leopardi, aveva tolto al francese il suo gerzio, cioè la sua proprietà. Interprete e assertore della originaria naturale libertà dell’italiano felicemente preservata, auspicando un vocabolario dei termini separato dal vocabolario delle parole e consentendo di lavorare al miglioramento di quel vocabolario delle parole che per lui era la Crusca, Leopardi, più moderno ma anche più antico del Cesarotti e del Monti, accettava lucidamente la storia e

il destino della nostra lingua letteraria. ! Ho accennato all’inizio che la lessicologia di Leopardi non si limita all’italiano; perciò il titolo di questo mio scritto, che invece all’italiano si limita, è in parte eccessivo. Per il settore greco-latino basterà rinviare il lettore alle fondamentali opere: s. TIMPANARO, La filologia di Giacomo Leopardi, Le Monnier, Firenze 1955; e G. LEOPARDI, Scritti filologici (1817-1832), a cura di G. Pacella e S. Timpanaro, Le Monnier, Firenze 1969, nonché all’indimenticabile saggio di B. TERRACINI, Leopardi filologo, in « Cursos y Conferencias», Buenos Aires, vol. XXIII, 1943, pp. 125-51. Notevole è anche lo scritto di G. BOLOGNESI, Giacomo Leopardi recensore e critico di testi armeni, in «Atti del II Convegno internazionale leopardiano. Recanati 1-4 ottobre 1967». Per una rassegna generale delle teorie linguistiche di Leopardi va citato T. BOLELLI, Leopardi linguista, in «Studi e saggi linguistici», XVI, 1976, pp. 1-23; per il purismo è da rinviare al saggio di F. TATEO, Da Cesari a Leopardi. Note intorno al significato del purismo nel primo Ottocento, in AA.vv., La cultura letteraria dell'Ottocento, De Donato, Bari 1976. E non sarà impertinente segnalare, ai fini della stessa lessicologia italiana di Leopardi, i noti commenti di Emilio Peruzzi ad alcuni dei più celebri Canti, commenti che, pur esaminando le parole poetiche di Leopardi nel contesto stilistico, le pongono spesso in relazione con le idee, le conoscenze e il gusto del poeta in materia di lingue classiche e romanze. Parrà invece superfluo avvertire, quanto ai testi delle citazioni lessicografiche dello Zibaldone e del vocabolario manuzziano, che io ho proceduto juxta alligata, cioè li ho accettati sic et simpliciter, avendo il mio scritto altro fine che la verifica della filologia di Leopardi e del Manuzzi.

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Indice analitico

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Achillini, Claudio, 25. Adami, Giuseppe, 255. Adamo, 115. Adriani, Giovambattista, 82. Afrodite, 171. Ageno Brambilla, Franca, 151. Agosti, Stefano, 172, 173. Agostini, Nicolò degli, 158. Agostino, Aurelio, santo, III, II2, 120, 128.

Alamanni, Luigi, 283. Alberti, Leon Battista, 81. Albini, Giuseppe, 144. Alderotti, Taddeo, 119. Alembert, Jean-Baptiste Le Rond d’, 60, 263. Alessandro Magno, 82, 83. Alfieri, Gabriella, 231. Algarotti, Francesco, 52, 65. Alhaîque Pettinelli, R., 152. Alisova, Tatiana, 246. Ambrosini, Riccardo, 153. Angiolieri, Cecco, 182, 183. Angiolini, Bartolommeo, 92. Aretino, Pietro, 141. Arieti, Cesare, 191. Ariosto, Ludovico, 28-43, 50, 65,

138, I4I, 142, 144, 145, 149-51,

158-60, 171, 172, 264, 283.

Aristofane, 49, 51, 136, 139. Aristotele, 115, 119. Arlotto, Piovano, Arlotto Mainardi, detto, 100. Atnauld, Antoine, 65. Ascoli, Graziadio Isaia, 10, 177, 178, 180, 181, 187.

Atene, 49. Auerbach, Erich, 114, 126, 127. Avolio, Corrado, 178-80.

Azzolina, Liborio, 146.

Babele, 119, 128. Bach, Johann Sebastian, 60. Bacone, Francesco, 30. Bagatelle, 55. Bally, Charles, 5, 213, 214, 221, 246, 247. Barberi Squarotti, Giorgio, 144. Barbi, Michele, 3, 4. Baretti, Giuseppe, 65. Barga, 257. Barocchi, Paola, 71. Barolo, Giulia Colbert Falletti, marchesa di, 57, 60, 61. Bartoli, Adolfo, 29. Bartoli, Cosimo, 82. Bartoli, Daniello, 44, 46, 49, 50, 63, 64. uno Charles, 48, 51, 52, 64. Beatrice, 173. Beccaria, Cesare, 270. Beccaria, Giulia, 193, 207. Beccaria, Giulio, 193-96, 199, 200. Belgioioso, Cristina rivulzio diEsa Belli, Giuseppe Gioacchino, 50, 67. Bellini, Vincenzo, 256. Belsani, Maria, 146. Bembo, Pietro, 14I, 143, 149, 153, 283.

Bene da Firenze, 109, 115. Bernart de Ventadorn, 53. Berchet, Giovanni, 138. Bergamo, 197. Berni, Francesco, 141-60.

Bernini, Lorenzo, 46. Bertoldi, Alfonso, 28, 33. Betti, Emilio, 167, 168. Biagioli, Niccolò Giosafatte, 205. Biblioteca Ambrosiana, VIII. Bicocca di Caprona, 256. Binni, Walter, 31.

300 Bizet, Georges, 256. voi Giovanni, 36, 134-38, 40, 292. n e Maria, 33-35, 39, 141-60 Boigne, Charlotte de Osmond, contessa di, 53. Boileau-Despréaux, Nicolas, 49, 51,

54, 60.

Boito, Arrigo, 259. Bolelli, Tristano, 295. Bologna, 29, 33, 84, III, II4, 263, 27012773202. Bolognesi, Giancarlo, 295. Boltiere, 197, 199. Boncompagno da Signa, 109, II4, IL5}.117} Boninsegni, Domenico, 97, 98. Bonn, 176, 178-80, 185, 189, 190. Bonora, Ettore, 144. rghini, Vincenzo, 82, 98, 143. Borgo a Mozzano, 256. Borgo Sansepolcro, 84. Bossi, Enrico, 257. Bossi, Renzo, 257, 259. Bremond, Henri, 60. Brianza, 206.

Bronzino, Angiolo, 71. Brosses, Charles de, 52. Brunot, Ferdinand, 60. Brusuglio, 192, 193, 197, 205. Bicheler, Franz, 178. Buffalmacco, 83. Buonarroti, Buonarroto, 92, 93, 97. Buonarroti, Giovan Simone, 9I, 105. Buonarroti, Leonardo, 92, 93, 95,

98, 99.

Buonatroti, Lodovico, 93, 95, 1OI. Cacciaguida, 131, 173. Caix, Napoleone, 10, 26, 37, 180. Camilli, Amerindo, 181. Canevazzi, Giovanni, 28, 35, 40. Cantù, Cesare, 4. Capponi, Gino, 64, 294. Caraverio, 206. Cardinali, F., 277, 282.

Carducci, Giosue, 33, 34, 40, 44, 47, 48, 50-53, 56, 64, 65, 67, 138, 139, 144, 145, 256.

Caretti, Lanfranco, 27, 3I, 4I. Carlomagno, Ito. Caro, Annibale, 82,98, 278, 282, 288. Carrara, 104.

Casanova Della Valle, Alfonso, marchese, 6, 7.

INDICE ANALITICO

Caselli, Alfredo, 257, 260. Casini, Tommaso, 33) Castelbarco, Maria, contessa di, 174. Casteltermini, 180. Castelvecchio di Barga, 256, 260. Castiglione, Baldassarre, 73, 81, 142, 143. Catania, 189, 190. Catullo, 172. Cavalieri, Tommaso, 92, 98. Cavour, Camillo Benso, conte di, 201-3. Cellini, Benvenuto, 93, 95, 97; 98, 100. Celso, 261.

Cennini, Cennino, 136. Cervantes Saavedra, Miguel de, 160. Cervara, 181. Cesari, Antonio, 5, 201, 207, 275;

277, 279, 289.

Cesarotti, cn

271-73,2

ei 9, 266-68,

ia Frangois-AugusteRené de, 52. Cherry, Colîn, 163. Cherubini, Francesco, 27. Chiappelli, Fredi, 92. Chiari, Alberto, 3, 13, 27. Chiarini, Giorgio, 92.

Chiorboli, Enzo, 141, 142, 146. Chopin, Fryderyk, 256. Ciabatta, avvocato, 68. Cicerone, Marco Tullio, 111, 112, II5-20. Cinonio, Marcantonio Mambelli, detto il, 276. Ciulich, Lucilla, 90, 9I, 93-96. Clemente VII, papa, 93. Collodi, 49, 62, 132, 133, 135; 140, 164-67. Colonna, Vittoria, 105. Comparetti, Domenico, 29. Comte, Auguste, 30. Consalvi, Ercole, cardinale, 57. Contini, Gianfranco, 110, 138-40, T52, 185% Cornificio, Rbetorica ad Herennium, 25ini3 Idi Corti, Maria, 160. Costa, P., 2770282 Cresti, Emanuela, 205, Croce, Benedetto, 18, 40, 45, 187. Crusca, accademia e vocabolario della, 10, 40, 200, 262-65, 274-87,

289-92, 294, 295.

Cugnoni, Marianna, 68.

30I

INDICE ANALITICO

D'Annunzio, Gabriele, 50, 55, 57,

58, 65, 174, 189.

Dante Alighieri, 33, 50, 65, 67, 105,

108-3I, 134, 137, I50, 152, 173, 189, 203, 206, 254, 264, 292.

Debussy, Claude, sito pad De Felice, Emidio, 249. De Gregorio, Giacomo, 179, 180. Della Casa, Giovanni, 264. De De De De

Lollis, Cesare, 46.

Robertis, Domenico, 118, 119. Robertis, Giuseppe, 10. Sanctis, Francesco, 18, 33, 34,

Anneo, 13, to

De Vecchi, Pier Luigi, 90. Diderot, Denis, 60. Diez, Friedrich, 178-80. Di Giovanni, Gaetano, 180. Di Pietro, Antonio, 136, 138. Dolce, Ludovico, 71, 82, 83, 142. Domenichi, Lodovico, 142, 157, 158. Donato 112. Doni, Antonfrancesco, 77, 87. Donizetti, Gaetano, 256. D’Ovidio, Francesco, 4, 10, 180. Ducibella, J. W., 184, 188. Duro, Aldo, 249. Epitteto, 65. Ermete, 171. Euripide, 189. Europa, 267, 268, 274, 289. Everardo Alemanno, IrI.

Falk, Rossella, 224. Fanfani, Pietro, 233. Faral, Edmond, 108. Fattucci, Giovan Francesco, 93. Fauriel, Claude, 3, 177, 193, 205. Fava, Guido, 109, 114, 115, 117, 118.

Fedro, 261. Felcini, Furio, 137-39. Fénelon, Frangois de Salignac de la Mothe, 52. Ferrara, 35. Ferrari, Severino, 138, 139, I4I, 144-5I.__ Ferrario, Vincenzo, 3. Filippo Neri, santo, 51. Fiorentino, Francesco, 30.

Firenze, 29, 33, 57, 76, 91, 117, 150,

152, 159, 205, 206, 276, 278-80. Firenzuola, Agnolo, 62. Flamini, Marcantonio, 60. Flechia, "Giovanni, 180.

Flora, Francesco, 261, 264, 275. Florimonte, Galeazzo, 60 Folena, Gianfranco, 116. Fontenelle, Bernard le Bovier de,

49.

Forcellini, Egidio, 262. Fornaciari, Luigi, 60, 63. Fornaciari, Raffaello, 40. Forster, Wendelin, 177, 178, 180, 181, 184.

Forteguerri, Niccolò, 150. Foscolo, Ugo, 9, 50, 52, 138, 273. Fraccaroli, Giuseppe, 176. France, Anatole, 48, 49. Francesco I, re di Francia, 93, 98. Francesco da Sangallo, 102, 103. Francesco d’Assisi, santo, 131. Francesco Saverio, santo, 46, 61. Francia, 55, 177. Frey, Karl, 93, 99, 100, 106. Frontino, 116. Gak, Vladimir, 241. Galgario, Fra, 19. Galilei, Galileo, 30. Garin, Eugenio, 30. Gaudenzi, Augusto, 109. Gelmetti, Luigi, 4. Genot, Gérard, 164, 165. Germain, G., 241. Germania, 176-78, 184, 185, 187. Gervasio di Melkley, 108-11. Gessner, Salomon, 142. Gherardi, Cristofano, 84, 85. Ghinassi, Ghino, 143. Ghisalberti, Fausto, 3, 13, 27. Giacomelli, Gabriella, 188. Giordani, Pietro, 280, 283. Giordano, Luca, 46. Giotto di Bondone, 83. Giovanni da Viterbo, 116, 118. Giovanni di Garlandia, 108, III, nrg;in14\122}130î Giovanni evangelista, santo, 49. Girgenti, 180-82, 188. Girolamo, santo, 119. Giulio Romano, 81. Giusti, Giuseppe, 200. Giustiniano, 129. Gnoli, Domenico, 58. Goethe, Johann Wolfgang von, 49, I, 240.

Gifftedo di Vinsalvo, 111, 114, 125. Gounod, Charles-Frangois, 256. Gozzano, Guido, 170. Gràbener, Hans-Jiirgen, 108.

302

INDICE ANALITICO

Grayson, Cecil, 113, 122, 128. Greenbaum, Sidney, 248. Gréber, Gustav, 40, 177, 178. Grossi, Tommaso, 197, 199, 200,

202, 205-7. Guglielminetti, Amalia, 254. Guicciardini, Francesco, 30, 86, 87, 92-94,

97-99,

103,

143,

286-88, 291, 292, 294.

281-84,

Guidotto da Bologna, 117. Guittone d’Arezzo, 118, 125-27, 130. Halliday, M. A. K., 214. Handel, Georg Friedrich, 60. Heine, Heinrich, 55. Hermant, Abel, 52, 57, 60. Hirsch, E. D., 168. Hillen, Matthias, 178-80, 184.

Ignazio di Loyola, santo, 46. Ipponatte, 171. Italia, 116, 185-87, 283.

Jakobson, Roman, 135, 161-63. Johansen, S., 135. Karcevski, Sergio, 213, 214, 216, 217, 220-22, 232, 237, 246-52. Kristeller, Paul Oskar, 116.

La Fontaine, Jean de, 49, 54. Lamartine, Alphonse de, 57, 60, 61. Lamennais, Félicité-Robert de, 61. Langendoen, D. Terence, 241. Latini, Brunetto, 36, 111, 116-19, 130. Laura, 173. Laver, Jo ar4, ads: Lazio, 181. Leech, Geoffrey, 248. Le Monnier, Felice, 3. Lenclos, Ninon de, 65. Leonardo da Vinci, 72, 73, 78, 85, 89.

Leoncavallo, Ruggero, 257. Leone X, papa, 80, 81. Leopardi, Giacomo, 9, 54, 60, 63, 137, 138, 172, 173, 206-8, 261-095. Leopardi, Paolina, 279. Lesca, Giuseppe, 3. Liberatore, Raffaele, 277, 288. Lippi, Lorenzo, 138. Lisio, Giuseppe, 28, 31, 37, 4I, 127. Liszt, Franz, 256. Livio, Tito, 116. Livorno, 277.

Londra, 75. Lo Vecchio Musti, Manlio, 176. Lucano, 108, 116. Lucca, 104, 256, 257. Lugli, Vittorio, 137. Luigi Filippo, re dei francesi, 55. Lyons, John, 214.

Machiavelli, Niccolò, 30, 65, 85-87,

93, 94, 97-99; 143, 281, 283.

Maggini, Francesco, 117, I19. Maiocchi, Gaetano, 280. Malipiero, Gian Francesco, 260. Mantova, 81. Manuzzi, Giuseppe, 264, 279-92,

294, 295.

Manzoni, Alessandro, VII, VIII, 3-27, 64-66,

132,

133,

135,

137,

140, 142, 145, 187, 191-209.

138,

Manzoni, Giulia, 207. Marcantonio del Cartolaio, 95. Maremma, 56. Mari, Giovanni, 108. Maria Antonietta, regina di Francia,

55.

Marigo, Aristide, 111, 118, 125. Marino, Giambattista, 44. Marinoni, Augusto, 89. Marivaux, Pierre Carlet de Chamblain de, 49. Marti, Mario, 144, 146, 160. Martini, Ferdinando, 64. Martini, Ferruccio, 37. Martoglio, Nino, 189. Mascagni, Pietro, 257. Massenet, Jules, 256. Massera, A. F., 182, 183. Massi, Francesco, 68. Mastri, Pietro, 187. Matteo di Cucherello, 104. Matteo di Vendòme, rII,II4, 115, 126.

Mattioli, Raffaele, viI, VII. Mauctoix, Frangois de, 60. Maurras, Charles, 52. Mazzarino, duchessa di, 65. Mazzini, Giuseppe, 53. Mazzoni, Guido, 146. Medici, Cosimo I de’, granduca di Toscana, 84, 85, 93, 98. Medici, Lorenzo di Pier Francesco de’, 92. Mengaldo, Pier Vincenzo, VII. Merlo, Clemente, 181. Messina, 257. Mestica, Giovanni, 176.

INDICE

ANALITICO

Metastasio, Pietro Trapassi, detto, 52. Meyer-Liibke, Wilhelm, 177, 180182.

Michelangelo Buonarroti, 77, 79, 85, 89-107. Micheli, Pietro, 146. Migliorini, Bruno, 4 98, 100, 277. Milanesi, Carlo, 136. Milanesi, Gaetano, 9I-93, 95. Milano, VII, 205, 207, 257; 276; palazzo Spinola, VIII. Millardet, G., 184. Mini, Antonio, 92, IO4. Mistral, Frédéric, 49, 56. Modena, 28, 29, 33, 34. Molière, Jean-Baptiste Poquelin,

detto, 53, 54.

Monaci, Ernesto, 176, 181, 185. Montale, Eugenio, 172. Monti, Vincenzo, 9, 63, 65, 204-9,

262, 273, 277; 293, 295.

Morali, Ottavio, 37, 39. Mosè,60.

Murano, 55. Muratori, Ludovico Antonio, 9. Musco, Angelo, 188. Mussafia, Adolfo, 101, 178, 180. Mussato, Albertino, 110. Musset, Alfred de, 49, 51-54. Mussinelli, Carlo, 257.

Naiadi, 159. Napoleone I Bonaparte, imperatore dei francesi, 52. Napoli, 277. Nediani, Paolo, 146. Niccolini, Bernardo, 93, 95. Ninchi, Arnaldo, 215, 217, 250. Novalis, pseudonimo di Friedrich Leopold von Hardenberg, 60. Occioni, Onorato, 176. Omero, 33, 127, I7I, 205. Orazio Flacco, Quinto, 67, 68, 112,

IIS. Orléans, 115. Orosio, 116, 118. Ossian, 142. Ovidio Nasone, Publio, 108, 115, 116, 118, 127. Oxford, 108, 170. Pacella, Giuseppe, 295. Pagliaro, Antonino, 185, 187-89. Pagnini, Marcello, 258.

303 Pais, Ettore, 176. Palermo, 176. Panizzi, Antonio, 37. Paolo, santo, 60. Paolo Uccello, 83. Papini, Pietro, 28-43.

Parigi, 57, 193.

Parini, Giuseppe, 138, 174, 293. Pariselle, 180.

Parmigianino, 75. Parnaso, 171. Parodi, Ernesto Giacomo, 40, 127129. Pascal, Blaise, 65. Pascoli, Giovanni, 49, 56, 57, 64, 135-40, 256-60. Pascoli, Maria, 256, 257. Passigli, David, 279. Patmo, 49. Pavia, IIO. Pellegrini, Carlo, 140. Pellico, Luigi, 201. Perino del Vaga, 76. Perrault, Charles, 49. Peruzzi, Emilio, 295. Petrarca, Francesco, 137, 138, 150,

173, 275, 292.

Petrocchi, Giorgio, 138.

Petrocchi, Policarpo, 4, 26, 218. Petrolini, Ettore, 49. Piccitto, Giorgio, 178-80, 184, 189. Piero di Cosimo, 74, 81, 83. Pietrobono, Luigi, 257. Pietro da Pisa, 110. Pincio, 55. Pinzauti, Leonardo, 260. Pirandello, Luigi, 142, 176-90, 210253, 260. Pisa, 29, 207, 257, 263. Pistelli, Ermenegildo, 256. Pitré, Giuseppe, 178. Plinio, 116. Poliziano, Angelo, 36, 137,138, 148. Pontormo, Iacopo, 71, 75. Posidone, 127. Pozzo, Andrea, 46, 63. Propp, Vladimir, 164. Provenza, 53. Pseudo-Longino, 127. Puccini, Elvira, 256. Puccini, Giacomo, 254-57, 260. Puglisi, Filippo, 188. Pulci, Luca, 151. Pulci, Luigi, 100, 144, 148, 150, ISI, I59. Puoti, Basilio, 44.

304

INDICE ANALITICO

Quadlbauer, Franz, 111-13. Quaglio, resp Enzo, 137. Quaregn Quirk, Rabiuist 248.

Racine, Jean, 49, 51, 54.

Raffaello Sanzio, 73, 79-82, 85. Rajna, Pio, 29, 31, 32, 109. Ramat, Raffaello, 31. Randone, Salvo, 215. Rauhut, Franz, 184, 188. Raynouard, Frangois, 177. Razzi, Giulio, 256. Récamier, Juliette, 53. Recanati, 63, 267, 279. Repaci, Leonida, 254. Riccardi, Francesca, marchesa, 62, 68.

Ricci, Mauro, 49, 51, 54. Richeli eu, Armand- Jean du Plessis de, cardinale, 52, Rigutini, Giuseppe, 4.

Rittal, Robespierre,

77:

Maximilien de, 44

Roma, 55, 67, 68, 159, 176, 181,

188, 279. Romizi, Augusto, 28, 31-33, 35, 42. Ronconi, Alessandro, 14I. Roselli, Piero, 93, 94. Rosini, Giovanni, 53. Rossi, Giorgio, 38. Rossi, Properzia de’, 86. Rossi, Vittorio, 28. Rossini, Gioacchino, 132, 256. Rosso di San Secondo, Pier Maria, 254. Rosso Fiorentino, 74, 83. Rousseau, Jean-Jacques, 52. Rucellai, Giovanni, 283. Russo, Luigi, 45, 56, 144, 146.

Sacchetti, Franco, 137. affo, 171. Salato Lear.e -Augustin de,

45, 46, 49, 58.

Gioi Charles de, 65. Salomone Marino, Salvatore, 178. Salvadori, Giulio, 50, 51, 68, Salviati, Leonardo, 278. San Casciano, 29. Sand, George, 53. Sannazaro, Iacopo, 36, 142. Sardegna, 178. Saussure, Ferdinand de, 163, 253. Schiaffini, Alfredo, 127. Schlegel, "August Wilhelm, 1774

Schneegans, Heinrich, 178-80, 182, 184.

Schubert, Franz, 256. Scrivano, Riccardo, 69, 86, 87. Segneri, Paolo, 44 Segre, Cesare, 9I, 117, II8, I2I,

127-31.

Serra, Renato, 45, 56, 58, 64. Servio, 112. Settembrini, Luigi, 11. Sforza, Giovanni, 3ì Shakespeare, William, 110. Sicilia, 178, 181, 188. Siena, 29. Simoni, Renato, 255. Spaventa, Silvio, 30. Speroni, Sperone, 264, 283. Spezi, Pio, 176. Spezia, La, 257. Spinola, palazzo, vedi Milano. Spitzer, Leo, 212, 218-20, 226, 229, 230, 233, 240. Spongano, Raffaele, 92. Staél-Holstein, Anne-Louise-Germaine Necker, detta Madame

de, 53.

Stazio, Publio Papinio, 108, 115, 116.

Stella, Angelo, 138.

Stella, Antonio Fortunato, 207, 275; 276, 279. Stella, Luigi, 275. Stendhal, pseudonimo di Henti

Beyle, 50, 52, 57.

Stern, Daniel, 53. Straccali, Alfredo, 28. Svartvik, Jan, 248. Svetonio, Gaio Tranquillo, 261.

Talleyrand, Charles-Maurice de, 57. Tasso, Torquato, 51, 65, 69, 138,

157, 171.

Tassoni, Alessandro, 29, 36, 38. Tateo, Francesco, 295. Tedaldi, Francesco, 92. Terracini, Benvenuto, 126-28, 295. Tesnière, Lucien, 220. Timpanaro, Sebastiano, 295. Tintoretto, 75, 76. Tobler, Adolf, IOI. Todorov, Tzvetan, 164. Tofano, Sergio, 225) Tommaseo, Niccolò, 10, II, 47, 48,

50, 57, 63, 277.

Tommaso d’Aquino, santo, 120. Tommaso di Balduccio, 93.

INDICE ANALITICO

Topolino, 104. Torre del Lago, 254. Toscana, III, 117, 141, 152, 257. Tosi, Luigi, 208. Trabalza, Ciro, 41. Traina, Antonino, 180. Tramater, società e vocabolario, 277, 288.

Treviglio, 197. Trezza, Gaetano, 29, 32. Trianon, 55. Trilussa, pseudonimo di Carlo Alberto Salustri, 49. Trompeo, Pietro Paolo, vit, 44-68. Uberti, Fazio degli, 282. Uguccione da Pisa, 110. Ulisse, 131. Valerio, Giovan Francesco, 143. Valli, Romolo, 224. Vanzon, C. A., 277. Varchi, Benedetto, 70, 71, 73, 94, 100, 102, 143, 283, 288.

Varlungo, 136. Varvaro, Alberto, 189. Vasari, Giorgio, 69-88, 93, 97, 102, 106.

Vecchi, G., 115. Venezia, 76.

Venturi, Adolfo, 56. Verdi, Giuseppe, 256, 259. Verga, Giovanni, 186, 187, 189, 190. Verlaine, Paul, 55. Verna, monte della, 131. Verne, Jules, 49. Verri, Carlo, 194, 196. Vespasiano da Bisticci, 95. Viareggio, 254. Vicinelli, Augusto, 256, 257. Vico, Giambattista, 30. Vienna, 57. Vieusseux, Giovan Pietro, 279. Villani, Giovanni, 292. Villari, Pasquale, 29, 30. Virgili, Antonio, 141, 144, 145, 150. Virgilio Marone, Publio, 108, 112, TI6N118, (£20, 171, 0.172;0 200, 278. Visconti, Ermes, 3. Vita, Giulio, 135, 139. Vitelli, Girolamo, 29. Vittorio Emanuele III, re d’Italia, 260.

Vol’'f, Elena M., 240, 241.

305

Voltaire, Frangois-Marie Arouet, detto, 49, 50, 52. Vossler, Karl, 40. Wackenroder, Wilhelm Heinrich, 60. Wagner, Richard, 256, 257. Watteau, Antoine, 49. Weise, Georg, 87. Wentrup, C. F., 178, 179. Zandonai, Riccardo, 257. Zimmermann, Heinz, 233. —Zola, Emile, 48, 49, 52, 53. Zolli, Paolo, 277. Zottoli, Angelandrea, 145. Zumaglini, Antonio Maurizio, 60.

Finito di stampare il 5 febbraio 1983 per conto della Giulio Einaudi editore s. p.a. presso l’Officina Grafica Artigiana U. Panelli, Torino C.L. 5530-I

Einaudi Paperbacks

I. 2.

Vernon Louis Parrington, Storia della cultura americana (tre volumi) C. S. Lewis, L’allegotia d’amore Saggio sulla tradizione medievale

> Edward Sapir, Il linguaggio Introduzione alla linguistica

4. Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche Come mutano le idee della scienza

5. Michel Foucault, Nascita della clinica Il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane

6. Alfred Métraux, Gli Incas Profilo storico-antropologico di una civiltà

Da Max Horkheimer, Eclisse della ragione Critica della ragione strumentale

8. Rudolf Arnheim, Verso una psicologia dell’arte Espressione visiva, simboli e interpretazione

9. Herbert Marcuse, Cultura e società Saggi di teoria critica 1933-1965

10. Cesare Segre, I segni e la critica Fra strutturalismo e semiologia

II. Barrington Moore jr, Le origini sociali della dittatura e della democrazia Proprietari e contadini nella formazione del mondo moderno 12.

Friedrich Pollock, Automazione Conseguenze economiche e sociali

T3° Claude Lévi-Strauss, La vita familiare e sociale degli Indiani Nambikwara

-Un modello di ricerca antropologica

I4. Karl R. Popper, Logica della scoperta scientifica Il carattere autocotrettivo della scienza

15. Fred Hoyle, Galassie, nuclei e quasar Per una nuova teoria cosmologica

16. Federico Zeri, Pittura e Controriforma L’«arte senza tempo » di Scipione da Gaeta

17

TI concetto di cultura, 4 cura di Pietto Rossi

I fondamenti teorici della scienza antropologica

18. Roland Barthes, Sistema della Moda

La Moda nei giornali femminili: una analisi strutturale

19. R. D. Laing e A. Esterson, Normalità e follia nella famiglia Undici storie di donne

i

20.

Kenneth Clark, Il Revival gotico Un capitolo di storia del gusto

21.

Georges Friedmann, Problemi umani del macchinismo industriale

22.

Eugène Minkowski, Il tempo vissuto

Il progresso tecnico e l’uomo contemporaneo Fenomenologia e psicopatologia

233 Delio Cantimori, Storici e storia Metodo, caratteristiche e significato del lavoro stotiografico

24

Norberto Bobbio, Una filosofia militante Studi su Carlo Cattaneo

25: Erving Goffman, Il compottamento in pubblico L’iterazione sociale nei luoghi di riunione

26

Frangois Jacob, La logica del vivente Storia dell’ereditarietà

Sy Dennis Chapman, Lo stereotipo del criminale Componenti ideologiche e di classe nella definizione del crimine

28. Alfred Métraux, Il vodu haitiano Una religione tra leggenda sanguinaria e realtà etnologica

29 Kenneth Keniston, Giovani all’opposizione Mutamento, benessere, violenza

30. Th. W. Adorno, K. R. Popper, R. Dahrendotf, J. Habermas, H. Albert, H. Pilot, Dialettica e positivismo in sociologia Dieci interventi nella discussione

31: W.G. Runciman, Ineguaglianza e coscienza sociale L’idea di giustizia sociale nelle classi lavoratrici

32 Theodor W. Adorno, Prismi Saggi sulla critica della cultura

33» Edward Sapir, Cultura, linguaggio e personalità. Linguistica e antropologia

34 L’antropologia economica, 4 cura di Edoardo Grendi 35 Piero Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci Premesse a una critica della teoria economica

36 Lucien Sève, Martxismo e teoria della personalità Proposte per una psicologia concreta

37 Frangoise Choay, La città. Utopie e realtà (due volumi) 38. Aaron Esterson, Foglie di primavera Un’indagine sulla dialettica della follia

39 Il tomanzo tedesco del Novecento Dai Buddenbrook alle nuove forme sperimentali

40. Walter Benjamin, Avanguardia e rivoluzione Saggi sulla letteratura

4I. Agricoltura e sviluppo economico, a cura di E. L. Jones e S. J. Woolf Gli aspetti storici 42

Giorgio Melchiori, L'uomo e il potere Indagine sulle strutture profonde dei Soretti di Shakespeare

43.

Tan Mukarovsky, Il significato dell’estetica

44.

Albert Einstein - Hedwig e Max Born, La scienza e la vita

La funzione estetica in rapporto alla realtà sociale, alle scienze, all’atte Lettere 1916-1955

45. Vittorio Lanternati, Antropologia e imperialismo, e altri saggi 46. Karl Polanyi, La-grande trasformazione Le origini economiche è politiche della nostra epoca

47. Rudolf Arnheim, Il pensiero visivo La percezione visiva come attività conoscitiva

48. La polemica sul lusso nel Settecento francese, 4 cura di Carlo Borghero 49. Ezio Raimondi, Il romanzo senza idillio Saggio sui Promessi Sposi

50. Linguaggio e sistemi formali, 4 cura di Armando De Palma Teorie e metodi della linguistica matematica da Carnap'a Chomsky

51. Cesare Segre, Le strutture e il tempo Narrazione, poesia, modelli

52. Jacques Lacan, Scritti (due volumi)

53. Max Horkheimer, Teoria critica (due volumi) Scritti 1932-1941

54. Jean Starobinski, L’occhio vivente Studi su Corneille, Racine, Rousseau, Stendhal, Freud

55. La condizione dello schiavo, 4 cura di Bruno Armellin Autobiografie degli schiavi neri negli Stati Uniti

56. Marcel Detienne, I Giardini di Adone I miti della seduzione erotica

57 I puritani, 4 cura di Ugo Bonanate I soldati della Bibbia

58. Nuovi orizzonti della linguistica, 4 cura di John Lyons 59. I profeti dell'impero americano, 4 cura di Piero Bairati Dal periodo coloniaie ai nostri giorni

60. Robert Klein, La forma e l’intelligibile Scritti sul Rinascimento e l’arte moderna

61. Robert Castel, Lo psicanalismo Psicanalisi e potere

62. Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo Capitalismo e schizofrenia

63. L’Asia degli americani, a cura di Edward Friedman e Mark Selden L’occupazione del Giappone, la guerra di Corea, l’intervento ‘nel Vietnam e nel Laos, rapporti con la Cina

64. Aldo Gargani, Il sapere senza fondamenti La condotta intellettuale come strutturazione dell’espetienza comune

65. Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi Il cosmo di un mugnaio del ’500

66. E. H. Norman, La nascita del Giappone moderno Il ruolo dello stato nella transizione dal feudalesimo al capitalismo

67. Theodor W. Adorno, Scritti sociologici 68. America indiana, 4 cura di Ruggiero Romano Storia cultura situazione degli indios

69. Alexander Gerschenkron, La continuità storica Teoria e storia economica

7o. Alberto Mario Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe Note su Verga, Deledda, Scotellaro, Gramsci

va, Salomon Resnik, Persona e psicosi Il linguaggio del corpo

72 Geotges Duby, L’Anno Mille Storia religiosa e psicologia collettiva

73» Lanfranco Caretti, Antichi e moderni Studi di letteratura italiana

74.

Jean-Pierre Vernant e Pietre Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia La tragedia come fenomeno sociale, estetico e psicologico

75 Frances A. Yates, L’Illuminismo dei Rosa-Croce Uno stile di pensiero nell'Europa del Seicento

76 D Il sistema delle relazioni internazionali, a cura di Luigi Bonanate Il metodo e i contenuti di una nuova «scienza politica»

77: Michel Foucault, Sorvegliare e punire Nascita della prigione

78 Jacques Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante E altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo

79 André Letoi-Gourhan, Il gesto e la parola I. Tecnica e linguaggio mr. La memoria e i ritmi

80. Studi sulla teoria dell’imperialismo; 4 cura di Roger Owen e Bob Sut-

cliffe Dall’analisi marxista alle questioni dell’imperialismo contemporaneo

8I. Maurice Blanchot, L’infinito intrattenimento Scritti sull’«insensato gioco di scrivere»

82. La donna in una società sessista, 4 cura di Vivian Gornick e Barbara K.

Motan Potere e dipendenza

83. Gian Enrico Rusconi, La crisi di Weimar Crisi di sistema e sconfitta operaia

84. Nathan Wachtel, La visione dei vinti Gli indios del Peri di fronte alla conquista spagnola

85 . Josef Ludvîk Fischer, La crisi della democrazia Rischi mortali e alternative possibili

86 Walter Benjamin, Lettere 1913-1940 87 Max Horkheimer, Gli inizi della filosofia borghese della storia Da Machiavelli a Hegel

88. Ludwig Wittgenstein, Della Certezza L’analisi filosofica del senso comune

89 Lucien Febvre, Il problema dell’incredulità nel secolo xVI La religione di Rabelais

90. Maria Corti, Il viaggio testuale Le ideologie e le strutture semiotiche 9I

.

Jacques Lacan, Il seminario Libro 1. Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954)

92. David S. Landes, Prometeo liberato Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell'Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri

93. Gianfranco Contini, Altri esercizî (1942-1971)

94.

Fabio Ceccarelli, Il tabu dell’incesto I fondamenti biologici del linguaggio e della cultura

95. Karl Polanyi, Conrad M. Arensberg e Harry W. Pearson, Traffici e mercati negli antichi imperi Le economie nella storia e nella teoria

96. Gianfranco Contini, Varianti e altra linguistica Una raccolta di saggi (1938-1968)

97. La famiglia nella storia, 4 cura di Charles E. Rosenberg Comportamenti sociali e ideali domestici

98. Jerzy Topolski, La nascita del capitalismo in Europa Crisi economica e accumulazione originaria fra XIV e XVII secolo

99. Walter Benjamin, Critiche e recensioni Tra avanguardie e letteratura di consumo

100. Cesare Segre, Semiotica filologica Testo e modelli culturali

IOI. Pierangelo Garegnani, Valore e domanda effettiva Keynes, la ripresa della teoria classica e la critica ai marginalisti

102. Theodor W. Adorno, Note per la letteratura 1943-1961

103. Theodor W. Adorno, Note per la letteratura 1961-1968

104. Max Horkheimer, La società di transizione Individuo e organizzazione nel mondo attuale

105. Jacques Lacan, Il seminario Libro x1. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964)

106. A. Gargani, C. Ginzburg, G. Lepschy, F. Orlando, F. Rella, V. Strada,

R. Bodei, N. Badaloni, S. Veca, C. A. Viano, Crisi della ragione

Nuovi modelli nel rapporto fra sapere arcività umane’

107. Michail Bachtin, Estetica e romanzo Teoria e storia del discorso narrativo

108. Bronistaw Baczko, L’utopia Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell’età dell’illuminismo

109.

Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale

IIO. Carlo Boffito, Efficienza e rapporti sociali di produzione Contributo alla critica della concezione tradizionale dell’economia comunista

TILL, Tirgen Habermas, Cultura e critica Riflessioni sul concetto di partecipazione politica e altri saggi

12) Karl Polanyi, Economie primitive, arcaiche e moderne Ricerca storica e antropologia economica

13, Carlo Dionisotti, Machiavellerie Storia e fortuna di Machiavelli

II4. Marino Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione 115 Charles Sanders Peirce, Semiotica I fondamenti della semiotica cognitiva

116. Natalie Zemon Davis, Le culture del popolo’ Sapere, rituali e resistenze nella Francia del Cinquecento

vu Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo Frammenti filosofici

118. La stregoneria, 4 cura di Mary Douglas Confessioni e accuse, nell’analisi di storici e antropologi

II19 John V. Murra, Formazioni economiche e politiche nel mondo andino Saggi di etnostoria

Jacques Lacan, Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità seguito da Primi scritti sulla paranoia

120.

I2I

Norberto Bobbio, Studi hegeliani

.

Diritto, società civile, stato

Emilio Sereni, Terra nuova e buoi rossi

122.

E altri saggi per una storia dell’agricoltura europea

123. Pierangelo Garegnani, Marx e gli economisti classici Valore e distribuzione nelle teorie del sovrappit

124. Max Horkheimer, Studi di filosofia della società Ideologia e potere

125. Noam Chomsky, Riflessioni sul linguaggio Grammatica e filosofia

126. Christopher Hill, Il mondo alla rovescia Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del Seicento

1274 P. Garegnani, J. Eatwell, S. Vicarelli, B. Miconi, D. M. Nuti, M. Cini, R. Panizza, Valori e prezzi nella teoria di Marx Sulla validità analitica delle categorie marxiane

128-29. Franco Basaglia, Scritti I.

1953-1968. Dalla psichiatria fenomenologica all’esperienza di Gorizia

II. 1968-1980. Dall’apertura del manicomio alla nuova legge sull’assistenza psichiatrica

130. Karel Teige, Arte e ideologia 1922-1933

30% Karel Teige, Surrealismo, Realismo socialista, Irrealismo 1934-1951 132. Ludwig Wittgenstein, Osservazioni sui colori Una grammatica del vedere

133. Georges Dumézil, Mito e epopea La terra alleviata

134. J-P. Vernant, L. Vandermeersch, J. Gernet, J. Bottéro, R. Crahay, L. Brisson, J. Carlier, D. Grodzynski, A. Retel-Laurentin, Divinazione e razionalità I procedimenti mentali e gli influssi della scienza divinatoria

135. Goran Therborn, Scienza, classi e società La fondazione della sociologia e il materialismo storico

136. A. N. Veselovskij, A. A. Potebnja, N. S. Trubeckoj, M. M. Bachtin,

D. S. Lichatév, Ju. M. Lotman, B. A. Uspenskij, VI. N. Toporov, Viat. Vs. Ivanov, E. M. Meletinskij, La cultura nella tradizione russa del XIX e xx secolo, 4 cura di D'Arco Silvio Avalle

137

.

Gianfranco Contini, Esercizî di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei. Edizione aumentata di «Un anno di letteratura »

138. Emmanuel Le Roy Ladurie, Tempo di festa, tempo di carestia Storia del clima dall’anno mille

139. Gianfranco Folena, L’italiano in Europa Esperienze linguistiche del Settecento

140. Alexandre Koyré, Studi newtoniani 141. Giovanni Nencioni, Tra grammatica e retorica Da Dante a Pirandello

sg. Prigione “angy?!doesrmsreda tia.

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