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Italian Pages 60 [62] Year 2017
I
ITALO
MOSCATI
THE YOUNG SORRENTINO IL RAGAZZO VISSUTO SU UNA PANCHINA
C A S T E L V E C C H I
Italo Moscati
THE YOUNG SORRENTINO Il ragazzo vissuto su una panchina
AMERICA FIRST!
Maurizio Porro: «La dolce vita è una profezia. Questa, del tuo film, è un avverarsi…». Paolo Sorrentino: «Sono lusingato dall’accostamento, preferirei staccarmi. La dolce vita è un capolavoro, in un’Italia diversa, inventata anche in quel caso da Fellini. Non sono capace di fare analisi sociologiche e psicologiche. Non ho mai un punto di vista obiettivo, ho la tendenza a mescolare il bello con la mostruosità». Al cinema Anteo di Milano, maggio 2013 Porro intervista il regista di La grande bellezza
«America First!». L’urlo di guerra di Donald Trump nei giorni della sua campagna elettorale, novembre 2016, per la presidenza degli Stati Uniti, risuonava prepotente nei titoli di testa della stampa, dei mass media, e nei social. Di lì a pochi giorni, gennaio 2017, arrivava a New York sui cartelloni giganti di Times Square e sulle fiancate degli autobus di Manhattan l’annuncio della serie di dieci episodi scritta e diretta del regista Paolo Sorrentino, The Young Pope. Colpivano i cartelloni di pubblicità, promessa di glorificazione, usciti nel glamour del Natale e dell’Epifania. Il volto del giovane Papa, Jude Law, bello e serio. In cima, la grande foto con la scritta «Complaints of Conflicts», ovvero ‘Il catalogo dei conflitti’. Ovvero: “Io sono il portatore di divisioni”. «America First!». La pubblicità anima del commercio, primo comandamento dei dieci della Hollywood Enter7
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tainment, cioè il supermercato del cinema d’intrattenimento, spesso meraviglioso, dai musical di Gene Kelly ai western di John Ford, dai film di gangster di Humphrey Bogart alle love story, come Via col vento di Clark Gable e Vivien Leigh. L’immagine di Jude Law-Young Pope è in alto, sulla testa dei passanti, e scivola nella seduzione del grande cinema: quello della macchina dei sogni per tutti che presenta le sue carte, i mega avvisi, le costruzioni possenti davanti alle sale kitsch, i manifesti degli inizi del muto e del sonoro, l’aria secolare di Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone e Gabriele D’Annunzio, il muto italiano che sedusse la Hollywood delle origini e quella di The Day of the Locust (1975) di John Schlesinger, caricatura della Hollywood del romanzo di Nathanael West che piaceva a Francis Scott Fitzgerald. Raggi di riflettori che rimbalzano dal cielo. «America First!». Solenni sfacciate facciate delle sale di anteprime: copie di piramidi egizie e templi come il Chinese Theatre, sulla Hollywood Boulevard, la strada delle impronte delle mani dei divi sul marciapiedi: Walk of Fame, ‘la passeggiata della fama’. Paolo Sorrentino ha fatto le prove di fame nel 2014, anno in cui ha ricevuto l’Oscar per La grande bellezza; il vero momento in cui l’Italia ha scoperto il regista napoletano, mentre entrava nella grande schiera dei vincitori nella capitale del cinema: Vittorio De Sica, Federico Fellini, Pietro Germi, Bernardo Bertolucci, Elio Petri e Giuseppe Tornatore. Lo scopo di The Young Sorrentino è conoscere il regista quarantasettenne, in un momento cruciale che non lo riguarda solo personalmente: «Quando mi chiamano artista o maestro, io rimango scettico e me la rido un po’. Non ci 8
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credo mai fino in fondo», dice al giornalista Antonio D’Orrico di «Sette» del «Corriere della Sera». Nessuno come lui, da anni ormai, è riuscito a catalizzare attenzione, suscitare polemiche, controversie, rancori, interesse. Senza fare nulla per segnalarsi − non è ancora un “ragazzo prodigio” −, se non lavorare sodo, creare, cogliere le occasioni che gli si presentano. Sorrentino ha smosso qualcosa d’importante in un ambiente rassegnato; è accaduto per un’insolita forma di credibilità. Nel cinema di Erode, quello italiano, che appare come un’inesorabile macchina di strage degli innocenti. Un cinema che può garantire ai giovani di debuttare e di morire lì. In un circuito benpensante e micidiale, un ghetto fatto di piccoli sperduti festival, circoli, cine-club, sale sopravvissute, riviste specializzate che seminano gratificazioni e labili occasioni. Gli “innocenti” non possono, non riescono a sottrarsi. Fra loro s’incontrano talenti veri, smarriti; creativi, anche nel risolvere i nodi produttivi, la distribuzione; le idee nuove per non deludere chi cerca e ama il cinema. Il cammino è troppo breve. La fine è incerta. Quando si entra, spesso si sa già che si esce. Storie note. Vite solcate da bagliori, che subito di spengono. Ogni storia di un ragazzo che vuole fare cinema si somiglia. Poi accade qualcosa di straordinario, quasi mai si sa perché. La forza di un Pope La storia di Sorrentino, con le tappe della sua avventura, affiorerà dal racconto che comincia con l’esordio americano e abborda una minibiografia del regista in un tentativo di ricavare il tema di fondo, necessariamente in breve: 9
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cosa dice la sua carriera fatta di otto film, diversi documentari, alcune esperienze televisive e numerosi incontri in cui la racconta. L’attesa intorno a The Young Pope si è creata e dilaga. I risultati della prima serie, a cui seguirà una seconda, vivono non solo di lodi ma, per fortuna, anche di polemiche. I social ne sono pieni. In Italia sono diventati il nido di cecchini del cinema che lanciano invettive, proteste e insulti per il regista, il suo lavoro, la sua presunzione. Proiettili sistematici. Sorrentino li scaccia come fossero vespe, col silenzio e la pazienza. Il padre del Pope sorride di fronte alle caricature che vanno a fare catalogo in un altrove, compresa la parodia di Maurizio Crozza che fa di lui un astratto confusionario, un imbranato saccente che parla a singhiozzi, un improvvisatore senza cervello e anima: l’orsacchiotto sulla sedia da regista. Il padre del Pope, il sornione Sorrentino, ha la pazienza sconfinata di ogni Papa, lavora nel cinema che dietro le star, gli Oscar, i Golden Globe, i Leoni d’oro, gli Orsi berlinesi, i David, il glamour, nasconde gloriosi signori Nessuno che possono fare un discreto male, giocando con le parole, le battute, le punzecchiature. Api calunniose. Chi ha lavorato a Cinecittà, da Fellini a noi tutti che siamo entrati per mestiere, conosce il pericolo delle lingue multiforcute, gli sgambetti dei serpenti dei ciak, esercito mordace in ordine sparso. Troupe fantastiche. Fellini diceva, sapiente: «Va bene così, il cinema è un gioco supremo». Il padre del Pope è un pacifico maestro, giovane, che misura con cura quel che dice. Ha imparato presto la lezione del cinema così com’è. Nella scena di un backstage girato durante le riprese di The Young Pope è stata filmata una sequenza acquatica nel 10
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giardino del Vaticano, (anche se il luogo è stato ricostruito da un’altra parte): Sorrentino, eccolo, è comodamente a fianco della macchina da presa che sta filmando, con il cardinale Voiello (nome partenopeo, famoso per la nota ditta di pasta che finanzia programmi televisivi). Di fronte a lui c’è il cardinale, un ruolo affidato a Silvio Orlando, che nella serie si conferma un attore straordinario. Sta sotto una cascata d’acqua che scende fitta, a lungo. Lo stop del regista non arriva. Il volto del cardinale è sconcertato, gli occhi mandano lampi di allarme: “Ma quando finisce?”. Una pausa, poi all’improvviso l’acqua riprende per errore e si ricomincia. Orlando alza le mani, chiede aiuto, con l’espressione del fanciullone imbarazzato che non sa cosa fare. Pochi attimi. Il regista in ritardo sorride con tutti, compreso il cardinale Voiello, di una doccia fatta in abiti talari, gioco della finzione. Sorrentino intorno a sé ha seminato molto rigore, molta serietà, persino un certo sospetto di cattivo carattere che io però non ho mai notato; al contrario, mi è sembrato pudico, riservato, però… È un uomo con una notevole capacità di lavoro e di concentrazione. È uno di quei napoletani che non hanno nulla in comune con quegli altri napoletani, abituati, come scrive in L’armonia perduta Raffaele La Capria, a «una spettacolarizzazione di sé», a esibirsi sempre per proteggersi, sedurre, incantare. Sorrentino si protegge, ma con nulla del Pulcinella, ha piuttosto il rigore di un Eduardo De Filippo, genio che ho conosciuto bene e a cui ho dedicato un libro intitolato Eduardo De Filippo scavalcamontagne, cattivo, genio consapevole. Cattivo perché esigente. Sorrentino è esigente. The Young Pope doveva andare bene, il gioco era serio. Sky e i produttori, tra cui Nicola Giuliano, la Indigo e Lorenzo Mieli, avevano l’obiettivo di confermare i risultati eccellenti delle precedenti serie italiane: Romanzo crimina11
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le e Gomorra; inserite accanto a titoli come Game of Thrones, Fargo, House of Cards, The Walking Dead. Intrecci di talento concreto fra cinema e nuova narrazione televisiva. Storie fuori dagli schemi rigidi dello storytelling, ossia dalle regole che vogliono le sceneggiature come scheletri robusti, sebbene capiti spesso però di trovarsi di fronte a fiction talvolta rigide e prevedibili (anche se funzionano). Il bilancio è stato positivo. The Young Pope è sceso dalle insegne di New York, vecchio e solido stile, ed è salito negli ascolti in America, come in Italia. Una seconda serie è stata avviata. Sorrentino ha accettato di lavorare per non ripetersi, invogliato dal successo, non solo per la fedeltà al gruppo che lo ha portato all’Oscar e alla serie del giovane Papa un vicario di Dio, bello come un divo, pensoso come un filosofo, rivoluzionario: un rivoluzionario che verrà, che guarda in silenzio forse a Francesco, il Papa Vero. Uno Young Pope che non alza gli occhi al cielo, guarda dritto alla folla che s’incanta. Davanti a lui, il nuovo Papa, Pio XIII (inventato). Young Pope l’investitura la chiede a loro, la folla, la massa, al delirio della massa.
Forever Young L’investitura che non c’è del tutto, se non negli ascolti di Sky, la meta essenziale. Molto ha funzionato. Anche sul piano delle critiche, buone, cattive o perfide; queste ultime, poche, previste. Com’era, com’è nei voti della produzione che cerca interesse, scandalo, polemica, sempre acqua al mulino. 12
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Specie per chi lavora in vista di qualcosa ancora incerto: una fusione tra il cinema e la tv. Altre tappe per le scelte così come le praticano Sky e le grandi major; tra cartoni animati, lo zoo degli animali parlanti, la fantascienza del digitale e le tecnologie d’autore di Avatar di James Cameron (2009) − uno dei più alti incassi della Storia, il cui seguito, previsto per il 2018, è in preparazione. L’aspirazione del cinema (e delle tv) è essere forever young. Tutto serve. Il «New York Times» ha reagito con prudente consenso: La religione finisce per essere il pretesto di uno splendido horror. Young Pope è sublime dal punto di vista delle immagini, ma in quanto al resto è una storia horror un po’ ridicola, in cui il mostro è il pontefice stesso. Un “Vatican of Cards” pulp e disarticolato… Quando questo film è brutto, lo è in maniera epica. Fa eco a un fenomeno più ampio che va dall’elezione di Trump alla Brexit. Con Pio XIII simbolo della nuova esigenza di “insularità” dell’Occidente.
Una storia pulp, alla Quentin Tarantino, un regista che Sorrentino ricorda solo per come usa la musica. Una storia che il «Wall Street Journal» non ama: «Un sogno febbricitante di Dan Brown: un “bellissimo tedio”». E che «Entertainment Weekly» giudica così: «È una surreale commedia dark che destruttura in chiave pop la fede; un lamento irriverente sul silenzio di Dio, una sovversiva allegoria della crescita dell’ortodossia di estrema destra e una metafora dell’americanismo come religione mondiale». Osservazioni, giudizi spaesati e ironici che dimostrano una certa difficoltà a fornire spunti per una serie che verrà letta, in ogni Paese, come è avvenuto in Italia, secondo una visione particolare: quella adattata a situazioni geo13
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grafiche e storiche tipiche del supermercato audiovisivo di cui Sorrentino non ha tenuto conto, semplicemente facendo un film come gli pareva. Libero di sbagliare, sapendo ragionare su opportunità e correzioni intelligenti. La libertà di sbagliare è la scelta di Sorrentino: capire dove si trova e dove andare secondo un’impostazione narrativa personale, che respira nel cinema di ieri e di oggi, nella tv che chiama il cinema per plasmarlo secondo le sue esigenze. La sintesi tipica della Hbo, la super Hollywood delle produzioni per le library internazionali, ispiratrice di temi e di racconti. Ad esempio I Soprano (la serie sulla mafia italoamericana). Modelli made in Usa che travolgono e seducono le platee casalinghe e vendono i dvd, come Sex and the City o Desperate Housewives. Sorrentino prima di The Young Pope ha diretto Youth nel 2015, con Michael Caine e Harvey Keitel, terza età lodata e immersa nelle piscine da un tempo senza fine, con la necessaria stanchezza del vivere ravvivata dalle ombre del sesso, vasche dell’illusione longeva, voyeuristica, in mezzo a corpi lussuriosi e occhi fissi nel ricordo. La sottovalutazione del cinema di Sorrentino, specie in Italia, meno all’estero, è programmatica, in un cinema intossicato da ambienti e mentalità inariditi. Un cinema dove ogni film nasce nella paura di essere difettoso, colpito, vittima di handicap ormai incontenibili, inevitabili. Film di un dio minore. La paura dell’impossibilità di trovare sulla sua strada, in pieno “viale del tramonto”, evocato nel ricordo dello splendido film di Billy Wilder, i maestri che se ne sono andati. I nostri splendenti Visconti, Rossellini, Fellini, Antonioni e altri; generazioni che erano toniche di tenerezza, rabbia, voglia di ridere, piangere, scaldandosi sempre meno al caro e vecchio sol dell’avvenire. 14
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Una stagione di maestri, chiamate di nostalgia. Registi e sceneggiatori conosciuti e apprezzati da Sorrentino, irripetibili, dimenticati, sopraffatti: C’è stata un’audience ingenua che è scomparsa. C’è stato un pubblico candido che non esiste più, che si stupiva… Siamo diventati un popolo torvo e intellettualoide. Quando vado sui social vedo che ora anche gli ignoranti sentono la responsabilità di dover essere complicati. Bisogna essere intellettuali, per forza, così come si deve avere la patente.
Uno Young Pope può servire con stupore mascherato a scoprire la realtà nella fortezza del Vaticano penetrata dalla voglia di uscire, dal bisogno di verità.
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UNA STORIA DI ORFANI
La solitudine a me piace, l’ho sempre scelta. Non sono sociale. Con gli anni sono pure peggiorato. Ho i miei amici e tutto, però la condizione ideale è stare per conto mio. Stare da solo per me vuol dire stare con tutti questi personaggi che ho dentro e ai quali non sono obbligato a parlare. Per me stare in società è faticoso, sono molto lento, non ho mai la risposta pronta. In questo momento è diverso, si tratta di un’intervista, ma le risposte mi vengono ore dopo che la conversazione è finita. Intervista di Antonio D’Orrico a Sorrentino per «Sette» del «Corriere della Sera» Gigi Riva: «Il Papa come L’idiota di Dostoevskij?». Umberto Contarello: «Una specie di ingenuità e svuotamento interiore molto potente. Un lavoro che farà molto discutere e sarà molto visto». Riva: «Lei mi disse che il film è del regista. Sottoscriverebbe anche oggi?». Contarello: «Certo il film è del regista, confermo. E aggiungo: ciò che ho imparato nello scrivere film non me l’hanno insegnato i colleghi, ma i registi con cui ho lavorato». Intervista di Riva a Contarello, sceneggiatore di The Young Pope, «l’Espresso»
Sorrentino è un regista laico, si guarda bene dallo schierarsi nelle parti o partiti del potere, tiene dentro di sé le sue intime convinzioni religiose, che può avere o anche non avere, o far trapelare. Ha scelto uno Young Pope. Un’intuizione. La storia di un orfano, un trovatello fra trovatelli cresciuti solo con “madri” putative, in un istituto di suore, 19
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che lasciano poi per entrare in seminario. Vite colme di vuoti da riempire. Anche Paolo Sorrentino è un orfano. Prima lo nascondeva per pudore, poi ha imparato a dirlo, con fatica. Non dalla nascita: fu violenza scoperta da adolescente. Nei giorni del vuoto e delle domande. In The Young Pope non c’è solo un Pope orfano, ma anche un cardinale, un amico cresciuto nello stesso istituto. Ce ne sono altri, che non si svelano. Non lo ha sottolineato nessuno sulla stampa, tra i critici. Eppure il Vaticano, così come Sorrentino lo racconta, è un castello che nutre se stesso di solitudine, di traumi antichi. Non si sa nulla o quasi della popolazione di religiosi che lo occupa; le informazioni tra loro filtrano attraverso l’aspetto, la fisicità, le lingue e le cadenze. I silenzi sono più forti della voglia di comunicare. È questa la potenza del film, che racconta per lampi e scorci un’umanità che organizza la propria solitudine e che ha un vocabolario di atti e concetti dentro la volontà di rispettare il richiamo al sacro, a cui è stata educata o ha sentito e fatto proprio per uno struggente impeto di vedere la forza di esistere in un Dio che chiama in silenzio. La folla dei credenti, riuniti in Piazza San Pietro, è fatta di orfani che domandano e a cui il Papa si offre come padre; a Papa Francesco, oggi, tocca rispondere alla domanda. Duemila anni di Storia. Bisogna chiedersi se gli italiani e il miliardo di cattolici (la popolazione della Cina è salita a un miliardo e trecentomila abitanti) siano capaci di pensare e fare un film sui Papi e sulla Chiesa. In questi anni, Rai e Mediaset hanno prodotto documentari e fiction sui pontefici del Novecento. In particolare, Giovanni XXIII, papa Roncalli, “il buono”, che Ermanno Olmi raccontò in E venne un uomo, 1965; Giovanni Paolo, papa Luciani, che morì dopo solo due anni di pontificato tra gli interrogativi: 20
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decesso naturale o avvelenamento avvolto di misteri, come racconta Francis Ford Coppola in Il padrino. Parte III, 1990; infine, Giovanni Paolo II, il Papa polacco, che grazie al suo carisma è stato protagonista di diversi documentari e film, uno con Jon Voight nel 2005. Nanni Moretti presenta con tocchi intensi e leggeri in Habemus papam (2011), con Michel Piccoli, un pontefice in fuga dal Vaticano, inghiottito dalla folla; spaventato dallo stesso Moretti, uno psicoanalista che entra in scena partecipando a una partita di pallavolo con i prelati. Young Pope non ha paura, è un uomo che veste bene, come se dovesse partecipare alla sfilata di Roma di Fellini, 1972. Ha le sue convinzioni ed è molto serio nell’esporle. È circondato da belle donne che s’innamorano di lui, sognando o tentando approcci mentre tremano di emozione. Vive in un “cerchio magico” che sta perdendo il suo incanto, perché i personaggi che lo popolano si muovono fra lacerazioni e conflitti repressi che riemergono in gesti e dialoghi dalla tensione senza fine. La sceneggiatura è sorprendente e affascinante. Procede per quadri, inserti, tableaux vivants; i collegamenti sono fluidi come immagini controllate, la macchina da presa danza con morbidezza fin quando non irrompe nelle scene di sesso, arroventate dal peccato bevuto come una coppa di champagne, scene lontane da Young Pope, al secolo Lenny Belardo, che sa tutto e perdona. Il giovane Papa – nella magistrale interpretazione di Jude Law – ragiona in una complessa, anonima insolubile mediazione. Conosce tutto il peso della missione di cui si è fatto carico, della sua presenza da “dilettante” nella sede pontificia di Roma, città bellissima e corrotta, da sempre. Jude Law è circondato da attori scelti con cura, molto capaci, tra cui spicca Toni Bertorelli, un cardinale dal vol21
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to sottile e allucinato, dal carattere ascetico e le inclinazioni mediocri, rivolte alla conquista del potere, come un uomo fra tutti gli uomini. In un ruolo di rilievo compare Silvio Orlando, cardinale Voiello, il prelato sorridente e superpotente, sempre a fianco di Young Pope: è il potere ansioso, severo, pronto a qualsiasi gesto di scaltrezza per essere nei fatti lui il vero capo, l’anima seconda, incisiva, della possente tradizione cattolica: pragmatismo, preghiera, ipocrisia smascherata sono rifugio d’amore e sofferenza per un ragazzo rovinato dall’handicap. Due volti e molti tormenti, affrontati con la pazienza granitica e disperata. The show must go on Strategie nell’epoca dello spettacolo, che tra cinema, tv e ogni forma di distribuzione, mirano a creare lavori duttili, trasversali, capaci di veicolare con efficacia le narrazioni. Lo spettacolo che deve durare, una catena di montaggio invisibile che esige materia e materiali, forme e utilità immediati, senza potersi fermare. Sorrentino e i suoi produttori sono una factory avviata: hanno presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 2016 un film composto dai primi episodi della serie, poi la serie è comparsa su Sky, completando i dieci episodi previsti. Le copiose vendite alle tv mondiali hanno riavviato la macchina da presa per un bis, come accade in questi casi. Il film ha la cadenza e il sapore di un’anticipazione riuscita, il respiro di un racconto dalle intenzioni artistiche serie, efficaci, come accade sempre meno nel cinema italiano. Sorrentino ha capito molto bene che, rispetto al passato glorioso, non c’è speranza in questo cinema, dopo la fine del cinema d’autore (dai padri di ieri, Rossellini, Monicel22
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li, Risi e ai riluttanti padri di oggi, come Moretti); dopo lo smarrimento di un rapporto di stimoli reciproci tra produttori e autori, questi ultimi semplicemente abbandonati al destino che si prepara. Se n’è andato anche il cinema delle commedie sexy con Edwige Fenech e i voyeur Lino Banfi − che naviga nelle zattere delle tv in replica − e Alvaro Vitali − nato con Fellini e finito con Bombolo e altri, nelle camere a gas dei petomani. Mentre riviste underground celebrano i piccoli nudi di Carmen Villani e di Gloria Guida, tante “finte bionde” (da cui il titolo di un film coppia di Carlo ed Enrico Vanzina, figli di Steno, regista di film con Totò, Peppino De Filippo, Aldo Fabrizi), geniali protagoniste di famose commedie all’italiana. Mentre, sul versante del giallo, dell’horror, del thriller made in Italy, i pupilli di Quentin Tarantino lucidano incassi e medaglie di stagioni scomparse, glorie da opache campane di vetro. Il cinema combatte ogni sera ai botteghini la battaglia per vivere e non sopravvivere, speranze consegnate a verifiche (senza convinzione) delle sale. Un cinema prevalentemente di tentativi di comicità che finisce nelle programmazioni estive, in zone morte dei palinsesti. Finanziatori tv e produttori subordinati usano i film di qualità per segnalarsi e raccogliere premi ai festival. Una situazione distratta e poco preparata che fa del cinema una febbre da smaltire, una febbre che non se ne vuole andare. The Young Pope affiora in questo contesto con spavalderia e, finalmente, ambizione. Sorrentino si muove in un Vaticano finto, ricostruito: il Regno della Chiesa che respira nella Storia invisibile di Dio, unica speranza che salta verifiche e colpe che gli attribuiscono i suoi nemici, vive senza protestare come il mondo ha imparato a fare, nel coro del23
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le proteste e delle rivendicazioni di ogni tipo. Dio, protetto ed esaltato dall’indecifrabile potenza impossibile da intaccare. Il Regno della Chiesa, un insieme di sacre comunità sparse sotto il cielo. O una grande casamatta, un grande bunker a braccia e brecce spalancate, in cui trionfano la fede, le sofferenze, le esaltazioni di chi lo abita, circondato da attese che guardano con un infinito dono di fiducia alla Chiesa, ancora e per sempre considerata un regno di morti e di fantasmi che erano corpi, corpi pieni di vita, santi o creduti santi. Un’utopia alimentata da abitudini e riti da cui si sprigiona un contagio tenace, lungo un interminabile “viale del tramonto”, in cui sono coinvolti milioni di persone, davanti al grande schermo del futuro. La Chiesa di Sorrentino non è quella di papa Francesco; la sorpassa, senza sfidarla, la conduce vicino e lontano, fuori da una dimensione temporale, grazie a uno Young Pope americano. Fantafede. Inferni e paradisi da aggiornare, anzi rivoluzionare. Dal nome e cognome che sembrano presi dal passato, dal melodramma e dal cinema che ha usato il melodramma: Lenny Belardo ha un suono latino, un’origine mescolata nel melting pot; ricorda nomi di musicisti e autori scritturati da Hollywood, ad esempio David Belasco. Fusioni macerate nei secoli. La Chiesa di Sorrentino taglia con il passato remoto, subendone l’influenza, nella sala poco illuminata della realtà così come si presenta, in cui un orfano è chiamato a ricostruire una paternità che gli è estranea. Hippy, cani senza collare o semplicemente ragazzi abbandonati da genitori incapaci di accollarsi una vita dopo averla generata; storie evaporate d’amore.
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Voglia di Ingmar Bergman Nel film, il ragazzo orfano, narcisista e più filosofo che teologo cerca dentro se stesso quel che può dire e dare, se serve, imponendolo, in un palazzo del potere. Il Vaticano, da cui non può evadere (come fa il Papa in fuga di Habemus Papam), in cui circolano la disperazione e soprattutto un sogno, tra il Male e il Bene, cercando un “qualcosa” che sia degno e capace di amore o di un sapore d’amore. Una ricerca che viene dal giovane Pope americano scelto dai cardinali, nel nome dello Spirito Santo; un giovane che parla drammaticamente, con toni di sfida, senza promesse di orizzonti, di cui può solo sognare di essere ispiratore. La solitudine del Pope di Sorrentino è la solitudine di tanti personaggi dei film di Ingmar Bergman degli anni Cinquanta (Il settimo sigillo, La fontana della vergine, Il silenzio), un regista ateo che era inseguito, rifiutandolo, dal rovello di Dio, di Gesù Cristo, del contagio della religiosità cattolica con i suoi “spettacoli” di riti e celebrazioni. Il protestante senza fede, il geniale regista Bergman interpellava il Cristianesimo e in particolare le sue “invenzioni” d’arte nelle chiese e poi nei musei, affollati di affreschi meravigliosi e di solenni licenze dei potenti, come le superfici creative e gli affreschi del Signorelli nel Duomo di Orvieto, dove volano angeli e il diavolo in un traffico di peccatori; occhi, panoramiche, statue e quadri, finzioni travolgenti. Voli di fantasia congelati nelle atmosfere bergmaniane. Atmosfere di parole più che di immagini. I dialoghi di Sorrentino compiono scelte paradossali. Parole che si caricano di pathos e di ironia severa, cercando lo spessore del pensiero; siamo nel gelo del Vaticano che si scalda soltanto di peccati evitati, desiderati, poi alla fine commessi. 25
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Sorrentino, con i suoi dialoghi ricercati, vuole uscire dalla parodia o dal pizzico maligno di impertinenze che riversa nel luogo della sacralità. Sollecita in se stesso e nel pubblico una reazione drammatica. Il gioco deve essere tale da mescolarsi al pensiero. Ma la serie ha le sue esigenze e mescola a questa ricercatezza svolte che attingono al bacino di temi leggeri e maliziosi. Avviene in una puntata in cui si mostra la visita al Papa di un giovane politico che rassomiglia a un Matteo Renzi (interpretato da Stefano Accorsi) sicuro di sé, strafottente, spinto dal desiderio di conquistare il Pope. Questi prima lo lascia parlare e poi lo liquida con parole sferzanti, senza possibilità di replica. La politica in una finestra di satira sorridente, pungente, oasi da intrattenimento di lusso. Il susseguirsi di stimoli diversi rientra sia nel respiro della serie sia nella lunghezza delle puntate e nella necessità di variare toni e scenari tra le pareti del Regno. Lo scopo della logica in un intrattenimento denso, rischioso, d’autore. Il passo in avanti rispetto alle grandi fiction che attingono alla Storia, come è accaduto per I Tudors (2007): intrighi, mogli, lotte intestine ai tempi di Enrico VIII, re d’Inghilterra e d’Irlanda dal 1509 al 1547; I Borgia (2011): vita e regno di Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, e della sua famiglia ambiziosa e assetata di potere; I Medici, serie andata in onda sulla Rai con grandi ascolti, protagonista nel ruolo di Giovanni de’ Medici Dustin Hoffman («si capisce benissimo che non sa di cosa si sta parlando», malignano i giornali). Falsi d’autore, come nel cinema antico e nella Hollywood sul Tevere, un male minore evidentemente, se spiare amori e morti dal buco della serratura garantisce curiosità e milioni di spettatori. The Young Pope è tutt’altra cosa, per finezza e intelligen26
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za dei contenuti, per le immagini. Con un ritmo speciale, d’autore, calcolato e spontaneo, che avvince; vistoso seppure mascherato nel racconto che fila lento senza esserlo, grave, di spessore, che cattura. Un’esperienza unica nel nostro cinema, attratto dalla globalizzazione del mercato televisivo e delle attese di pubblici internazionalizzati. Nell’insieme generale delle fiction appiattite nella paura e dalle gaffe del sensazionalismo volgare; banalità, oggetti e non idee, roba, cose da rigattieri, senza ricerca e voglia di osare. Tutto questo è visto e scartato da Sorrentino, che propone divertimento, sarcasmo, tenerezza di sguardi. Con i classici del cinema di ieri e di oggi dietro la porta, in una scommessa di futuro. Ma le maratone possono nuocere, dieci episodi sono un rogo freddo e ardente di fatti e snodi, sono una montagna impervia. Conviene litigare sulla qualità del Pope Ci sono qualità che sfuggono quando scendono in campo le grosse produzioni cinetelevisive. L’occhio non vuole la sua parte. Le orecchie servono di più, e ancora di più conta il battage che ormai è spontaneo, anche se la preparazione del lancio è sempre più efficace, sia per la bravura dei finanziatori-imprenditori che per le batterie jazz di risonanza da loro guidate con astuzia. C’è attesa costante ormai per le serie, i serial, i kolossal cinetelevisivi. I giornali li celebrano e aizzano polemiche allo scopo di raggiungere il pubblico di cui sentono di perdere il consenso. Si tratta di fuochi di paglia, quasi sempre. Divampano e subito si spengono. La catena di montaggio della comunicazione archivia velocemente e guarda avanti, così è la 27
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sua logica, la sua “bellezza”, secondo una vecchia battuta di Humphrey Bogart sulla stampa, fin troppo citata. Sarebbe bello che si litigasse su The Young Pope, presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Ha avuto successo e ha diviso, cosa ottima in una situazione di morta gora, in cui l’adrenalina degli scontri si tramuta in rapide e mediocri risse tra gli addetti ai lavori. La rissa è chiusa con il “mi piace” o “non mi piace” come sullo schermo del computer, clic che si disperdono nell’immediato, nella pigra liquidità. Bauman banalizzato. Non reagisce più nessuno, le occasioni sono inghiottite dalla labilità dei giorni. Delusione diffusa. Per obbligo della funzione scrivono i critici televisivi, i più annoiati, anche se i critici di cinema rimpiangono gli anni d’oro, i Sessanta, anni dello scontro tra il cinema d’avanguardia e il «cinema di papà», definito così da Jean-Luc Godard e dalle nouvelles vagues circolanti. Aldo Grasso, sul «Corriere della Sera», indica in The Young Pope un azzeramento della trama per affidare il procedere del racconto ai soli dialoghi. Il che è vero, ma solo in parte. Confessa di essere in seria difficoltà, ricorre alla scappatoia del guilty pleasure, quella sorta di attrazione fatale che si prova davanti alle «opere sublimemente ridicole». E si chiede dove Sorrentino voglia «andare a parare». La serie parla chiaro. Vuole andare là non “dove porta il cuore” (come dicono il libro di successo di Susanna Tamaro e il film a esso ispirato), ma dove sta il segreto di una fascinazione abbagliante dell’atroce e trionfale storia di oltre duemila anni di Cristianesimo, della rivoluzione che ha guidato e della sua faticosa vicenda in tempi che voltano la testa da un’altra parte. La serie s’imbatte in una crisi che si stende nei secoli nuo28
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vi, affidati alle parole dei Papi e alle loro azioni in una Chiesa abbandonata, sempre più insistente nell’invito ad azioni verso chi ha bisogno e quei popoli che vagano come nomadi disperati senza traguardi, senza speranze. Grasso, l’unico che ha tentato un’analisi attraverso impressioni, sostiene che Sorrentino risulta «troppo compiaciuto». I dialoghi gli sembrano un divertissement del regista che propone «un universo linguistico dal tepore torbido e ossessivo dove i protagonisti affrontano i massimi sistemi (Dio, l’Anticristo, la teologia, l’eterodossia, la politica, il sesso, il tradimento…) come se fossero venditori ambulanti – logorroici, petulanti e sottilmente sadici – di aforismi o citazioni colte». Ma la serie è utile proprio perché non distilla, dispiega l’ambizione di un orfano, lo Young Pope, che parla a orfani a lui vicini e agli orfani nel mondo che si affollano non nelle chiese ma con le speranze dei paria sociali, alla ricerca di una guida, di un segnale, sapendo bene che le parole vitali come “speranza” hanno perso di senso e sono adoperate dai potenti nei loro inganni sistematici e illusori. Non c’è un mondo migliore In Sorrentino – nel suo cinema, teatro, letteratura, come nelle sue interviste in tv e in radio – prendono vita le storie smarrite, in un azzardo antropologico rischiato senza paura. Un teatro complessivo, in cui compaiono, ora inattesi ora prevedibili, animali innocenti, a noi legati da una lontana parentela, umanità dotata di “disperata vitalità” (non solo pasoliniana). La giraffa in La grande bellezza. Un’allusione che è uno schizzo di metafora. Meglio guardare dall’alto lo spettaco29
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lo della grande bellezza stretta nella morsa della grande bruttezza, piuttosto che cedere alla rassegnazione e ai rimedi suggeriti, improvvisati da un cinema e da una cultura che non sanno più procedere. Oppure guardare il canguro, che sfila nel giardino del Vaticano, sotto gli occhi del Pope giovane, veloce e diffidente, senza fermarsi a sentire parole morte in nome di un creato che non ha bisogno di nulla, solo di risolvere la propria sopravvivenza. Giraffa e canguro sono richiami, esclamativi, piccole e disarmanti fratture nel teatro complessivo: il Vaticano ricostruito per frammenti e ambienti, esterni al tempio del Regno della sovranità papale. Ecco allora che servono i costumisti! Carlo Poggioli, un’intensa carriera alle spalle, tra cinema e lirica, dalle esperienze creative che non concedono nulla alla platealità, sceglie abiti che riproducono divise di generali del Signore, tocchi capricciosi nel taglio e negli alati copricapi del Pope, non rassegnandosi all’ufficialità e alla solennità, lui, costumista cresciuto nel fashion del prêtà-porter, ovvero le divise degli adolescenti anonimi. Costumi che “parlano”. Ed ecco le lunghe vesti bianche, i paramenti semplificati, i tocchi e i ritocchi di sobrie eleganti tenute ecclesiali. La moda sacra è una tentazione che viene dall’oltre-santità. Servono gli scenografi Massimo Pauletto e Alex Santucci per ricostruire ambienti ed esterni, zone di azione e di meditazione, spazi di desolante funzionalità quotidianità. Costruzioni volutamente impoverite, essenziali, scheletri nel tempo in cui dormano i loro sonni eterni i Papi da secoli non più young. Costruzioni che caricano la tensione con una semplicità voluta che cerca di scalare gli ambienti freddi, gelati, provvisori dei secoli. Tutto è diverso in The Young Pope rispetto agli allestimenti delle fiction che nella maggioranza sembrano servirsi 30
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di deboli ambientazioni, prese dagli scantinati e dalle soffitte delle ditte affondate, com’era nell’uso, sgradito ai registi e ai loro collaboratori, da Visconti a Piero Tosi. Le immagini e il loro impatto nella serie cambiano in relazione all’idea di un Papa che di colpo scardina la tradizione di secoli e la avvicina in forme stilizzate, contemporanee, personalizzate. L’epoca, le mode, i modi. Che vivono nel provvisorio, nei capricci individuali, nel melting pot dei costumi, grazie a popoli in cammino. La scena complessiva del lungo film. Scena cornice immaginata/reale/allusiva. Qui ci si interroga in forma libera sull’identità non del Papa ma di un Papa nuovo, se ci potrà essere, in una ricerca che non si fermerà. Come avviene per tutte le figure che riassumono in se stesse, o dovrebbero, credibilità, autorità, purezza. Spogliando la figura del vicario di Cristo (un Papa che sceglie la pensione è un semplice uomo indifeso) da maschere antiche, corrose e consolatrici. Per continuare a cercare il vicario dell’uomo che soffre e vuole vivere una grande avventura. Un volto e un corpo nuovi, una persona che sappia presentarsi con un’immagine inedita, contraddicendo il corso degli eventi, tra il desiderio di infrangere gli specchi delle maschere e introdurre una diversa imprevedibilità dei Papi, oggi assediati dal mondo, dalle tv, dalla cultura “troppo” di massa, delle apparenze intonate alla contemporaneità, facendo intendere che non di maschera si tratta ma di un mistero, il compito per cui un giovane Papa prova lo spavento di capire cos’è la fede, cos’è la vita. Sorrentino lavora per aumentare ed estendere il suo lavoro. Una febbre pacata e un desiderio di smaltire domande. Ma chi è Sorrentino? Come, dove cominciano le sue storie? 31
LA PANCHINA E LA RIVOLUZIONE
«Passo dieci ore al giorno a scrivere sul computer, ma solo le prime due sono buone, e però vado avanti comunque…». Paolo Sorrentino, in Faccia a faccia su La7 «La musica è il mezzo più immediato per veicolare delle emozioni. Un film deve offrire prima di tutto un grande spettacolo… Come spettatore ed esecutore di cinema, trovo irritanti i “film punitivi” che negano allo spettatore delle soddisfazioni». In un incontro al Futura Film Festival 2014
La storia di Paolo Sorrentino comincia su una panchina a Napoli, la città dove è nato. Una panchina qualunque in una parte qualunque della Napoli in cui si sono ormai dissolte le tante visioni della città del Vesuvio, dei Borboni, dei Pulcinella. E altre sono subentrate. Dolorosa la Napoli di Curzio Malaparte in La pelle (1949), il romanzo più amato e odiato tra guerra e femminielli, tra canzoni e fame. Oggi la città è sempre viva, in continua trasformazione. Paura e festa. La bellezza antica e nuova che spunta tra i cantieri del centro, i grattacieli e il traffico in tensione, come una presenza nascosta, una minaccia che incombe brutale. Napoli è una città giovane. Paolo Sorrentino è uno di quei napoletani partiti per Roma. Roberto Saviano, più giovane di otto anni, gira il mondo; sappiamo molte cose su di lui, sul lavoro come giornalista e come scrittore. Romanzi che vanno a ruba. L’ultimo s’intitola La paranza dei 35
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bambini. Un racconto dedicato ai quindicenni dai soprannomi innocui – Maraja, Pesce Moscio, Dentino, Lollipop, Drone −, scarpe firmate, famiglie normali e il nome delle ragazze tatuato sulla pelle. La paranza, così si chiama, è un gruppo di fuoco legato alla camorra. Sorrentino ha una storia. La morte s’affacciò nella sua vita quando era giovanissimo. La perdita di entrambi i genitori, nella loro casa, nella notte. Rosso fuoco, incidente, dolore che si spegne adagio, se si spegne. La panchina fu lo stretto spazio in cui Paolo cercava qualcosa che non sapeva dire, non riusciva a pensare. Ne ha parlato lui stesso nel corso di una intervista alla televisione, con cautela, senza dare particolari, emozione frenata, e raccontava solo un amaro, veloce ricordo. La panchina era una piccola piazza, occupata dagli amici coetanei, nella città distratta, carica di troppi guai, povera di speranze. Ma fu lì, lo ha detto Paolo, che avvenne la svolta, l’incontro con una ragazza che ha sposato e con cui ha avuto due figli; gli studi di ragioneria, la facoltà di Economia abbandonata, l’approdo al cinema, la paziente ricostruzione di un filo di fiducia. L’amore che rivoluziona un’adolescenza sofferta, vissuta, svuotata. Il primo incontro con Sorrentino l’ho avuto alla Mostra del Cinema di Venezia, negli anni dei primi inviti a parteciparvi con un film per il suo debutto alla prestigiosa rassegna del Lido. La Mostra non è più quella mitologica del passato fascista (1932-1942); non è nemmeno quella del dopoguerra (riprese nel 1946), dimessa e timida, nel pudico tripudio dei successori alla sua direzione. Politici e amici dei politici; volenterose attrici che non osavano chiamarsi dive; l’élite veneziana e i loro ospiti spaesati ma felici della riapertura. 36
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La Mostra delle feste e dei registi neorealisti. Anche il duca Luchino Visconti, amico dei partigiani comunisti, militante nella Resistenza, che aveva presentato La terra trema, sui pescatori siciliani. Sorrentino nel 2001 era arrivato al Lido con L’uomo in più, in cui il calcio è un simbolico ambiente di perdenti. Aveva incuriosito e successivamente aveva preso premi che segnalavano un debutto più che promettente. Lo sfiorai in un’area della Mostra destinata alle paninerie, rifugi degli squattrinati. Era con i due figli, seduto, in mezzo al caldo e alla confusione, sorrideva dolcemente, forse accusava stanchezza ed era persino spaesato. C’eravamo già conosciuti, scambiammo un saluto. Mi ripromisi di incontrarlo, in altri momenti; i festival distruggono i rapporti, meglio una situazione meno confusa e più insignificante. Mi piacque la timida cordialità, muta, di Sorrentino che mi suggeriva un confronto. I giovani del cinema nei nostri giorni non assomigliano per nulla ai debuttanti del grande cinema italiano che arrivavano al set dopo una lunga gavetta o grazie alle relazioni e alle risorse della famiglia. Molti giovani sono spesso avviliti dalle lunghe attese dell’occasione buona. Erano felici gli anni Cinquanta e Sessanta, in una Cinecittà affollata di produzioni. I tempi di Totò e dei comici, delle soubrette come Delia Scala, delle maggiorate come Sophia, Gina, Silvana. Ma anche negli anni della contestazione tutto poteva sembrare più facile: per Paolo e Vittorio Taviani, Silvano Agosti, Liliana Cavani, Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci, Elio Petri. Venivano dal Centro Sperimentale di Cinematografia di Cinecittà, dalle rivolte e dalla frequentazione della sinistra nel cinema, soggiogati dalla protesta, dalla denuncia, da vaghe e profonde nostalgie per la rivoluzione (in 37
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astratto), per le imprese di Fidel Castro e soprattutto di Ernesto Che Guevara. I debuttanti negli anni Duemila sono random, vagano ma non divagano. Li insegue il nostro incerto sistema di produzione e di scelte, tra la ricerca degli incassi con i cascami del cinema di genere, commedie che vivono di luoghi comuni, e di “cinepanettoni”. Resiste un’astratta, generica ricerca di nuovi autori, di futuri maestri in grado di ripetere glorie oggi impossibili. Stagioni finite con Fellini e la scomparsa dei grandi, mordenti autori non della commedia all’italiana, ma della “commedia degli italiani”: Pietro Germi, Dino Risi, Mario Monicelli, registi che attraverso i film hanno smascherato i loro personaggi – affidati ad Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi – e con loro l’Italia delle corruzioni e degli intrecci d’affari che ritorna ancora, a distanza, ai nostri giorni. Rivoluzione senza rivoluzionari Il cinema oggi non usa più la parola “rivoluzione”. Non la usa perché rifiuta la genericità che l’ha fatta ammalare di abusi. Paolo Genovese in Perfetti sconosciuti (2016), davanti al pubblico, a una domanda sulla leggerezza del film, incentrato sul gioco della verità tra amici attraverso l’ascolto dei cellulari, ha risposto svincolandosi dalla domanda. Non si è giustificato, ha descritto la fine di un’epoca del cinema, un cinema intrecciato con gli entusiasmi e i sogni delle utopie. Parlava con franchezza rivelando un fatto: le generazioni oggi non hanno più utopie, cercano di capire chi sono e dove sono. Sorrentino, in questa situazione, è un caso speciale. La statuetta dell’Oscar 2014 per La grande bellezza, successo 38
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preparato nella ricerca, è un simbolo. Non solo un segno di vittoria, ma un’opportunità per quel che ha suscitato: elogi, pesanti critiche a non finire, polemiche e comunque una marea di spettatori. Di questi momenti e di lui, Sorrentino, “svelato” al mondo dalla festa a Hollywood e in Italia, tra discussioni che non si fermano, ho cercato di capire la storia. Raffaele La Capria, nel già citato libro L’armonia perduta, divide i napoletani in due grandi categorie: quelli della spettacolarizzazione di se stessi, per imporsi nella quotidianità, attori da rione; e quelli asciutti, seri, determinati come Totò, Eduardo De Filippo, il regista Francesco Rosi, uno dei preferiti di Sorrentino. Sorrentino è tra i secondi; non soltanto perché non spettacolarizza se stesso ma perché non assomiglia a nessuno, costituisce un caso a sé. Una carriera rapida e variegata. Un esordio con un cortometraggio, Un paradiso (1994), co-diretto con Stefano Russo; un’esperienza come ispettore di produzione che non si è più ripetuta per Il verificatore di Stefano Incerti; altre prove come aiuto-regista e sceneggiatore: scrive alcuni episodi della serie tv La squadra e per Michele Placido, con Umberto Contarello sviluppa altri progetti sul finire degli anni Novanta. Il primo film è del 2001 e s’intitola L’uomo in più, sull’ambiente del calcio. È una metafora che ha vitalità ed efficacia. Piace alla Mostra di Venezia dello stesso anno e cominciano i premi: il Nastro d’argento, il Ciak d’oro, la Grolla d’Oro. Toni Servillo, il protagonista, si aggiudica il David di Donatello. Successivamente con il vicino Servillo, che è casertano, gira nel 2004 Le conseguenze dell’amore, presentato a Cannes; anche in questo caso si aggiudica un gran numero di 39
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premi. Lo stile, il disegno delle scene, le interpretazioni sono sicure, attraenti. Nello stesso periodo, in tv, Sorrentino e Servillo realizzano Sabato, domenica e lunedì di Eduardo De Filippo. Più tardi, nel 2014, Paolo cura la regia televisiva di Le voci di dentro in cui Tony ha recitato con successo in teatro. Il grande schermo è lo spazio preferito. Il cinema sembra un gioco che scorre, appagante; la semplicità e le intenzioni, fuori dagli schemi angusti di tanti, troppi film italiani della contemporaneità, affiorano grazie all’attrazione per la letteratura. Sorrentino scrive Hanno tutti ragione e Tony Pagoda e i suoi amici, escono tra il 2010-2012, e piacciono. Provare la scrittura, provare il cinema, provare a stare davanti alla cinepresa. Sorrentino era comparso in Il caimano di Nanni Moretti (2006) in un cammeo. Ha diretto L’amico di famiglia (2006), con una bella colonna sonora, frutto delle sue conoscenze e dei suoi gusti. Fa pubblicità con Jeremy Irons. Tutto è utile, indispensabile. Realizza uno dei suoi film migliori, Il divo (2008), su cui tornerò. This Must Be the Place è in concorso al Festival di Cannes nel 2011, protagonista Sean Penn nel ruolo di una rock star, celebre negli anni Ottanta (leader del gruppo musicale Cheyenne & The Fellows). Il cantante si è ritirato e vive come in esilio nella sua grande casa di Dublino, finché decide di tornare in America per cercare il padre, umiliato da un ufficiale nazista, e compiere un viaggio per cercare di chiudere i conti col passato, finirla con la fuga dalla musica, liberarsi dalla vecchia maschera della rock star che lo fa soffrire. Il primo film in lingua inglese, un viaggio nella musica, in America, nel passato, e la voglia di uscire dall’esilio. È un’esperienza che giova. Sorrentino impara a muoversi sul set in una produzione e con attori che gli insegnano un’altra dimensione. 40
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Diventa meno timido, non misura le parole, parla e basta; come se avesse trovato una tranquilla dimestichezza con gli interlocutori. Nel 2015 realizza Youth – La giovinezza con due grandi attori più che divi, sempre Michael Caine e Harvey Keitel. Bagliori di temi fondamentali e di sensibilità alla prova nel tempo dei viali del tramonto, non soltanto del cinema. Il “segno” di Sorrentino è una sorta lievito madre per i racconti della vita; e non assomiglia a nessun altro. Sorrentino è un regista che piace agli attori internazionali. Dalla panchina dei giorni in cui un ragazzo viveva il suo smarrimento all’Oscar e a The Young Pope. Non è una fiaba, è una rivoluzione. La casa è dove voglio stare This Must Be the Place, ovvero, ‘la casa dove voglio stare’, una canzone dei Talking Heads, la sola canzone d’amore scritta da David Byrne. La parola “casa” nella traduzione può diventare semplicemente “posto”. Il posto che Sorrentino ha sempre cercato nei giorni da ragazzo su una panchina con gli amici, per allontanarsi dal dolore della morte dei genitori; e ha abbandonato per Daniela, sua moglie, per i suoi due figli. Alla moglie Paolo ha dedicato Il divo: «A Daniela che mi ha salvato». Le ha dedicato anche altre parole, che Daniela preferisce, sono in fondo al suo libro Hanno tutti ragione: «Ha scritto che ero io il motore e la guida della sua vita e che gli lasciavo “il lusso di crogiolarsi nel facile, impagabile ruolo del portapacchi che si gode il venticello sul tetto”». 41
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Quando ho conosciuto Paolo era un ragazzo malinconico, che amava stare sempre da solo. L’ho spinto io a diventare più sociale, a stare tra gli altri, a uscire dalla sua solitudine. Ci siamo incontrati quando i successi neanche li immaginavamo. Lavoravo a “la Repubblica” e nello stesso palazzo c’era la sede dei Teatri Uniti. Lì conobbi Paolo, Nicola Giuliano, il nostro produttore, e Toni Servillo: tutti siamo riusciti a fare quello che sognavamo, all’inizio sembrava impossibile. Siamo simili, presenti a noi stessi, realisti, con i piedi per terra. Non cambieremo neanche dopo che Martin Scorsese e Leonardo Di Caprio al premio Oscar ci hanno coccolati, circondati di affetto e complimenti.
Il giornalista di «Panorama» (a cui ha detto queste parole) le chiede, quesito obbligatorio: «È mai stata gelosa delle attrici?». Daniela ha risposto: Paolo non è un monaco buddista e qui le donne sono veramente belle, più belle ancora di come appaiono nei film. Cate Blanchett per me è l’anello di congiunzione tra Dio e l’essere umano e lo ha circondato di affetto, dicendogli di avere visto due volte La grande bellezza. Ma se la moglie del regista è gelosa, allora davvero è una donna perduta.
E infine: «Non è affatto vero che dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna. C’è soltanto una donna molto paziente». Sorrentino e la donna paziente. Significativi squarci di vita privata. Il lavoro nel cinema, per il regista di La grande bellezza e di The Young Pope, è un percorso riservato, da difendere, contro speculatori di ogni tipo, di fronte ai quali non nasconde prudenza e diffidenza, proteggendosi in ogni modo, protetto a sua volta dai suoi produttori e dagli amici 42
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che sono nel cinema, nella comunicazione, e sanno distinguere. Sorrentino seleziona e, quando gli chiedono qualcosa a bruciapelo, valuta la situazione e la convenienza. Il cinema vive male in Italia, in ogni senso, e alimenta legioni di parassiti che non hanno né la conoscenza, né il tatto, né il rispetto di giornalisti come Lello Bersani o Carlo Mazzarella, che sono nel paradiso del cinema e continuano a sognare; o di persone con la delicatezza e sensibilità di Fabrizio Corallo, un appassionato di cinema, fonte generosa di notizie e contatti. Caronte e le aberrazioni romane Il malinconico, riservato regista parla e smentisce nei fatti le malignità che il suo silenzio e la timidezza stimolano tra gli anonimi cecchini nei social e su YouTube: come in un lupa park, giudizi malevoli su tutti, specie se sono persone che fanno cinema oggi. «Imbecilli», ha detto Umberto Eco, suscitando polemiche perdute nella demenza. Ne ho visto uno, un breve montaggio, in cui il cecchino di turno ha costruito le pause, le incertezze, i gesti degli interventi di Sorrentino al Futura Film Festival di Civitanova Marche nel 2014. Indegno di essere chiamato anche per scherzo satira. Ero presente all’incontro, la piazza era piena di gente attenta, curiosa, plaudente. Una grande emozione per tutti; per la franchezza del regista, disponibile e preciso. Sul Premio Oscar a La grande bellezza e su come era nata l’idea della storia: Lo spunto mi si offrì tanti anni fa, in un bar vicino alla Rai, a Roma, dove un dirigente cercava di sedurre una ragazza del43
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l’Est promettendole un futuro in televisione. Io avevo diciotto anni e venivo da Napoli, per me Roma rappresentava un universo sconosciuto. Di fronte a quella scena ho pensato: “Questa è la prima cosa che vedo di Roma”… Ho raccolto tutti gli aneddoti… che mi sembravano peculiari di Roma… Ho trovato un personaggio napoletano che facesse da Caronte all’interno di certe aberrazioni romane che non sono solamente macabre e volgari, hanno anche loro un fascino inatteso. Il volgare, il corrotto e il decadente esercitano anche una certa seduzione. L’Italia è un Paese che vive di questo fascino. La raccomandazione, che è la prima forma di corruzione. Forma parte del carisma degli italiani e… inevitabilmente ci ammalia.
Caronte è Jep Gambardella, interpretato da Tony Servillo, il giornalista che va alle feste romane per farle fallire. Nelle parole del regista e in Caronte c’è il senso di una ricerca che non è soltanto in La grande bellezza ma si salda con The Young Pope, film più gli otto episodi. Sono inchieste narrative, ispezioni, analisi presentate in un concerto di immagini, personaggi, loro caratterizzazioni nel corso di una visita in Vaticano, che sbalordisce non solo per lo sfoggio creativo, ma per lo sgomento e il desiderio di mostrare umanità, soprassalti di sorprese e compassione, né punizione, né odio. L’amore, purché non sia un mito, ma anche sacrificio. L’album delle figure e delle figurine che non ci sono Le montagne di immagini che Sorrentino produce e inventa reinventando non sono immagini di favola ma di realtà, di cronaca di tutti i colori. Lo stesso regista lo ha dimostrato sempre più intensamente, con tutti i suoi perso44
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naggi, sia nel cinema che nella letteratura. Sono le retrovie degli affetti e dei pensieri, dei gusti intimi. È lui stesso che adesso, svezzato dalla timidezza grazie al successo, ne parla volentieri dilagando nei giornali e su YouTube. Dove compaiono sempre più numerose le sue testimonianze rese ai festival o alle lezioni di cinema, in cui non fa il professore, semplicemente riversa le ragioni delle sue scelte. In questi ultimi anni i discorsi sul cinema sono degenerati. Invece di entrare nei pozzi delle esperienze di vita e di sentimenti, da sempre al centro della creatività, c’è un dilagare di tecnicismi e tecnicabilità, bacchetta di maghi informativi e digitali. Sorrentino rifugge e spiega con sincerità e pazienza: Sinceramente non lo so, non ho mai fatto scuole di regia. Ho girato tante scene, ma non mi sono mai posto tante domande sul come. Ho una storia, un luogo e degli attori: mi pongo delle domande minime e poi decido di girare in un certo modo, ma non ho un ragionamento ben strutturato su come approcciare le scelte, perché le scene possono essere molto diverse tra di loro: alcune sono decisive, altre sono appuntamenti per lo spettatore, altre sono semplicemente di transizione. Non ho un metodo preciso, di volta in volta decido quello che devo fare.
Non ha studiato cinema, Sorrentino. Lo ha praticato, come è sempre accaduto. I maestri del passato, nell’Italia di Giovanni Pastrone di Cabiria, o nell’America di David Wark Griffith di Nascita di una nazione, o nell’Unione Sovietica di Sergej M. Ėjzenštejn di La corazzata Potëmkin, si sono fatti scuola da soli, hanno fatto scuola, non senza imparare studiando il lavoro di ignari, anonimi docenti che sono sul set. 45
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Sorrentino ha imparato da solo e non insegna, ma tutti glielo chiedono. Talvolta sono gli oziosi adepti della religione del cinema a essere, senza saperlo, i sacerdoti di una grande setta di fondamentalisti del ciak, di scarne parole perché si limitano a interrogare, spremere il guru, il regista che vive studiando semplicemente il rapporto tra sé e il pubblico, sperando di avere un produttore libero, cercando con lui un’intesa lucida di scambievole alleanza. Sorrentino possiede quello che io stesso, con le mie prove di regia e di sceneggiature, ho sperimentato. Si chiama, anzi l’ho chiamato, “ritmo interiore”. È una piccola trovata, forse. Il cinema, da quando è diventato industria − doveva capitare − ha cercato i ritmi del racconto e li ha progressivamente accelerati. Oggi il regista sa che bisogna andare il più veloci possibile. Se questo imperativo sta cercando di evitare il rischio più grosso – la noia –, ha richiesto, imponendoli, ritmi svuotati, ridotti al movimento degli effetti, e vi ha coinvolto attori e registi con la frusta in mano per accelerare. E in questa forzata accelerazione teorica e pratica il cinema si aggira come in una stanza buia e rischia di perdersi nei copioni e nei montaggi, nella postproduzione, dominati dalla fretta di “far vedere” (le velocità accecanti), “non dire” ma “drogare” il racconto. Il “ritmo interiore” è invece quello che nasce in rapporto allo sviluppo necessario del racconto. È il ritmo degli autori che cercano insieme di entrare nel racconto e di costruirlo. Regola non scritta elaborata da tutti i grandi autori. Un nome soltanto: Alfred Joseph Hitchcock. Adesso lo si capisce meglio. Gli autori lavorano nell’album delle figure e delle figurine. La vita del cinema ha vissuto in entrambe, puntan46
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do sulle figure e divertendosi molto con le figurine, gli stereotipi, alleati nella congiura migliore: conquistarci, sedurci. Da compari, da complici. L’uomo che amava le donne In uno dei suoi molti interventi (segno che le cose vanno bene), il regista di The Young Pope si rivela un cinefilo molto particolare, difficile che citi esoterismi o registi esoterici, va al sodo, il suo sodo. Ed eccolo citare un film (tra i suoi prediletti) dimenticato dai più, se non da tutti. È L’uomo che amava le donne, 1977, di François Truffaut, regista della Nouvelle Vague. Una storia forte e delicata. Al funerale del quarantenne Bertrand, racconta Truffaut, ci sono solo donne, tutte le donne che Bertrand, ingegnere, un uomo nella folla, ha amato nel corso della sua vita. I particolari dei vari incontri amorosi sono contenuti nel libro che ha appena scritto e terminato in ospedale. Un grande diario intimo. Le parole che più colpiscono sono didascalie delle relative immagini: «Le gambe delle donne sono dei compassi che misurano il mondo». Forse sono le parole ad aver suscitato le simpatie di Sorrentino, sono comunque lo squillo che tiene vivo il diario intimo del regista e dello scrittore. Lo conferma lui stesso nel suo ultimo libro Gli aspetti irrilevanti, una galleria di vite immaginarie ispirate alle foto di persone reali. Tra cui una signora che ha conosciuto Albert Einstein e che dice: «Se non sapete accavallare le gambe, statevene a casa. L’uomo resiste a tutto, ma non a una donna scosciata». Chissà se è vero, a me capita. Nell’album, come scrive Antonio D’Orrico su «Sette» 47
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del «Corriere della Sera», entrano ed escono figurine che diventano, crescendo, vere e proprie persone: Il commerciante truffaldino, Leggiadro Pazienza, che, dopo una vita di rigorosa osservanza omosessuale, scopre le gioie dell’eterosessualità con una donna a ore paraguayana. C’è lo spietato sicario della camorra Valerio Affabile, cantautore in segreto di struggenti melodie napoletane. C’è la viceportiera Donna Emma, la persona più cattiva del mondo che terrorizza un intero palazzo dove risiede il fior fiore della borghesia napoletana…
Sorrentino, nel libro, fa rivelazioni che lo avvicinano al suo bacino creativo che fermenta nella coppa del Vesuvio addormentato, e che lui risveglia scoprendosi. Una passione da ragazzo: Kim Novak, bella, bellissima diva di Hollywood, protagonista di La donna che visse due volte (Vertigo, 1957) di Hitchcock: Soffriva della Sindrome di Morris, aveva cioè il corredo genetico di un maschio cui però non era spuntato il pene. Tecnicamente era un maschio. Questo mi fa impazzire, lei che era la quintessenza della femminilità. E mi è venuto un dubbio: che quelle veramente belle siano maschi? Capisce che la cosa inquieta.
Le rivelazioni innescano non soltanto curiosità, ma interesse sul crogiolo della creatività che di solito i critici, i letterati, i distratti snobbano come sciocchezze degne del cestino. Invece sono perle preziose. Sorrentino ha svelato i segreti della sua formazione. Propone i suoi percorsi. Spiega che il suo stile l’ha appreso studiando ragioneria e materie affini, che considera una fortuna non aver fatto Lettere e be48
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nedice la famiglia piccolo borghese. Fa sapere che ai cugini, guide paterne per lui orfano, aveva chiesto un parere sull’intenzione di studiare Filosofia. Loro gli risposero: «Ma che cos’è?». Non avevano mai sentito quella parola, avevano una ditta di riscaldamenti. Cercò di spiegarsi. «Bofonchiai che la filosofia si occupava del significato della vita e loro: “Aaah, si tratta di quello? Allora fai economia”». Paolo lasciò perdere. Fece il cinema.
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LE MASCHERE SONO SEMPRE NUDE
«Andreotti, a differenza di molti politici odierni, era perfettamente consapevole della necessità di alimentare il mistero attorno alla propria persona per garantirsi successo e potere. Questo atteggiamento appartiene anche a Berlusconi, benché lui lo pratichi in modo più dozzinale, servendosi prevalentemente del denaro. Andreotti, invece, riusciva a creare mistero senza servirsi del denaro, lo faceva unicamente grazie alla sua intelligenza. Molto romana, allo stesso tempo tagliente e goffa». In un incontro al Futura Film Festival, 2014
Quando appresi la notizia che, per il film di Paolo Sorrentino Il divo – La spettacolare vita di Giulio Andreotti, Vittorio Sodano, a me ignoto, era candidato all’Oscar per il trucco, fui certo che la notizia rivelava qualcosa di importante. Chi è Vittorio? È un professionista di uno degli aspetti fondamentali nel cinema: il trucco e il “parrucco”, nel gergo il lavoro di raggiungere con ogni mezzo la realtà dei personaggi, sfuggente, imprendibile. È lo scopo a cui Sorrentino si sta dedicando da anni come pochi altri. Tutti i suoi film vivono di questa scommessa, che è la scommessa dei veri artisti. Vittorio ha lavorato con Aldo Signoretti, nome ben noto, stimato nel mondo del cinema per creare immagini, tra scena e retroscena. Lavori di pennelli e pennellino, forbici, forbicine, silicone, cerone, rossetti, fard, rimmel, gomme, matite, capelli vivi e capelli risorti, lacca. Vittorio ha collaborato con Sorrentino, dopo aver colla53
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borato con Mel Gibson nell’avventura della giungla di Apocalypto: vegetazione che parla di ecologia morente, parole morenti di indigeni. Truccare volti e corpi nudi era un’altra cosa difficile, ma forse più semplice rispetto ai trucchi nella giungla della politica romana dove ai corpi servono scafandri, abiti grigi o neri, simili a divise rivoltate, mentre i volti sono soprattutto maschere condivise. In Il divo Sorrentino presenta maschere che conosciamo bene, anzi benissimo; sono provvisorie, muoiono o moriranno con chi le indossa, ben salde. Franco Evangelisti, seguace di Andreotti, innamorato, è passato alla Storia per la frase: «A Fra’ che te serve?», che gli rivolse uno dei tanti sponsor della politica a pagamento, cash o a rate. Vittorio Sbardella, detto “lo Squalo”, procacciatore di voti, trecentomila, con un semplice gesto delle dita. Paolo Cirino Pomicino, detto “Geronimo”, da quando diventò giornalista dopo essere stato liquidato dalla politica grazie a Mani Pulite. Il liberale Francesco De Lorenzo, detto “il Medico mago”, un funambolo degli archivi delle tessere, ministro della Sanità nell’ultimo governo Andreotti, 1992, poi inquisito e uscito dalla politica. Tutti intorno al gran divo, Giulio, dai molti nickname: “il Pipistrello”, “Belzebù”, “la Volpe” destinata a finire in pellicceria (secondo Bettino Craxi), “il Gobbo”, più un lungo elenco di soprannomi, nomignoli, sfornati a getto continuo dalla stampa amica o nemica. La stampa ieri e oggi, in cerca di definizioni, epiteti, per sbrigarsi; parole provvisorie che diventano epigrafi ancor prima che cali la pietra sulle tombe. Craxi sarà per sempre “il Cinghialone” o il “Dux con gli 54
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stivali”, dopo il lancio di monetine davanti all’Hotel Raphaël di Roma e, anni dopo la morte in Tunisia, i recuperi onorifici di quella parte della sinistra o del centro o della destra che l’aveva incoronato come “il Delinquente di Stato”, nella sorda ala del Parlamento animata da silenziosi inquisiti. Gran quantità di carte e manette Il Cinghialone o Dux ricordava che tutti (o quasi) lì dentro sapevano del malaffare, lo avevano praticato e stavano lasciando solo lui, capro espiatorio. Fatevi avanti, coraggio, signori della legge. Guardando questo mondo, tra politica politicante, stampa che divulga epigrafi, trucchi e denti del pettine di Vittorio, la prospettiva cambia. Cambia la prospettiva suggerita dal regista Sorrentino. I denti diventano le grate delle celle chiuse e aperte in un vortice di processi, sentenze, condanne, assoluzioni, altre condanne, nuove assoluzioni, riduzioni di pena, rilanci di accuse. Gran quantità di carte e manette. Il cinema, grazie al film di Sorrentino, mostra impietosamente che Roma è ma non è, o vuole essere, capitale in un Paese che non la ama, se non come meta turistica, allo stesso modo dei ricchi pellegrini stranieri. L’Italia è un ideale scricchiolante nato dal patriottismo trionfalistico e dal nazionalismo cretino, come scriveva Indro Montanelli. È Italia che agisce nonostante la lotta al crimine, è appunto quella della criminalità organizzata. Non stava e non sta solo nel Regno borbonico perpetuo della mafia, della camorra, della ’ndrangheta, della Sacra Corona Unita. Agisce dentro la politica, in una simbiosi avvolgente. 55
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Il divo di Sorrentino si svolge nel globo globalizzato (il mafioso che parla, vivente all’estero, Tommaso Buscetta), in una spirale di delitti e di manovre, pianificazione di interessi e profitti. Roma, «l’impero del Male» come dice il Divo Giulio nel film, deve agire, muoversi, allo scopo di «perpetuare il Male per garantire il Bene». Lo scenario nel film è una Roma svuotata. Buia. Notturna. Brividi di paura. Sommesse preghiere nelle chiese chiuse, marmorizzate. Passi degli agenti di scorta che accompagnano il Divo nella passeggiata nelle ore dei sonni agitati degli italiani; sogni che non hanno mattino. Lungo Via del Corso. Di giorno, il Corso, che non vediamo, è un budello, un grande canyon di palazzi incartapecoriti del disinteresse, sporchi e gonfi di topi che compaiono di notte, felici, dalle cantine, dalle tane del Tevere. Di giorno, la strada è lasciata in buona parte dagli italiani al popolo del turismo, gleba; i sederi esplodono nei blue jeans, comprati l’altro ieri, ieri, domani, dopodomani. I negozi sono bandiere di stracci. Sorrentino propone un Corso deserto, in piena notte. Il Divo Giulio, finalmente solo con i suoi veri amanti (la nutrita scorta), in una strada illuminata a giorno. La macchia del cinema, con attrezzi e addetti, pare presenza astratta. L’asfalto è tirato a lucido. L’ora d’aria del potente uomo politico Il Divo cammina e respira – è la sua ora d’aria – le polveri sottili rimaste nell’aria. Buona aria romana che arriva dal Verano o dal Cimitero di Prima Porta, dalle tombe nelle basiliche e dalle reliquie. 56
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Il Divo cammina silenzioso, intabarrato, fasciato dalle stoffe, poi si ferma. È ieratico, solenne, sacralizzato, le orecchie a sventola, vampiresche, il sorriso inghiottito, dentro le labbra. La processione – Divo e scorta – arriva all’incrocio Via del Corso, Largo Goldoni, via Condotti. Intanto, nella jeans street, il corteo funereo incontra un camion, un camion-frigo. Spazio, quarti di bue che vengono scaricati; l’epoca della “mucca pazza” è finita, la bistecca si può rimangiare, il consumatore lo fa a suo rischio, nell’inconscio vuole morire. Vien da domandarsi: sono state archiviate le macellerie del Corso? Al loro posto, gioiellerie e vecchi gloriosi cinema chiusi. Nuovi mattatoi. Il Divo ha ai piedi ali di farfalla. Voltando a sinistra, un percorso obbligatorio, dopo largo Chigi, via del Tritone, via Barberini, poi piazza Barberini, a sinistra via Veneto. Il regno della Dolce vita felliniana. Non è più un regno, è uno scantinato, ostello dei ricordi della terza e quarta età; turisti confusi, increduli di una magia consumata. Fermenta e sembra avvicinarsi il ritratto di Sorrentino in La grande bellezza, Tony ha raggiunto il traguardo, quel traguardo che era la consapevole utopia privata e fallita di Marcello, aspirante scrittore chiuso nella vita di inutile glamour, cronista mondano, dongiovanni infelice come era lo stesso Fellini quando girava con la bellissima Anita, la “bambina” che tradiva Mastroianni con Gianni Agnelli nelle stanze reali del Grand Hotel, innocente e smarrita nella città della Fontana di Trevi. La mitica via Veneto. La processione con il Divo a via del Corso richiama una via Veneto diversa, senza glamour. Al numero 27 della via della Dolce Vita c’è la Cripta dei Cappuccini, all’interno della Chiesa di Santa Maria Immacolata. 57
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La Cripta, secolo XVIII, è “decorata” con le ossa di quattromila frati cappuccini: teschi, tibie, femori, scheletri a pezzi. Il corpo, secondo i frati, non era altro che il contenitore dell’anima e dopo la morte era solo una decorazione simbolica e sacra. A futura memoria Decorazione d’interni, la Cripta. Ossa a futura memoria. Il Divo cammina nella memoria di una storia di morti ammazzati che continua, senza sacralità. Le vittime della mafia e della criminalità. Il tritolo seminato sotto un’autostrada che uccise Falcone e Borsellino. Tanti corpi da commemorare. Nei giorni della memoria. Il Divo cammina in mezzo al funerale. Sorrentino lo pedina. Il Divo pensa, isolato, e prega. Esce dal Corso ed entra in una festa, nuova e frenetica dolce vita al chiuso, luci basse, ritmi veloci e forti. Le donne sono meno belle di Anita e più svestite, ignote, danzano tra politici calvi, appesantiti, bolsi, elettrici, devastati dall’euforia. Compare anche Aldo Moro nel film, non poteva mancare. Ma pare una figura laterale. L’aspetto è giovanile, mostrato nella parabola più alta del Divo, quella del governo di unità nazionale – con l’appoggio del Partito Comunista – il governo della fermezza nella trattativa con le Brigate Rosse. Moro è stato preso dalle Brigate Rosse e verrà ucciso. Abbandonato al suo destino di prigioniero e di vittima sacrificale, condannato per la sua politica di apertura verso i comunisti, avversata sia dalla destra che dalla sinistra estrema e dai servizi segreti americani, come si dirà senza posa in quei 58
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giorni, maggio 1978, e a lungo tra le polemiche mai finite, ormai fissate nella storia congelata della crisi politica italiana. Roma e tre vertici fra la Prima e la Seconda Repubblica. Via Veneto: il piacere e la mondanità, con i “poveri ma belli” ormai stinti del film di Dino Risi, i poeti Ungaretti e Cardarelli, i politici al Cafè de Paris, i giornalisti, i paparazzi, i maghi, gli astrologi, le soubrette; e poi, quando passano gli anni, i trans, i gay, la camorra che compra tutto, i pusher, le pizzerie, gli alberghi che sono hangar per turisti, senza le dive e i divi di Hollywood sul Tevere, senza le “maggiorate” che si sono sposate, sono partite o sono in paradiso. Via del Corso: i negozi cenciosi, i cinema chiusi uno a uno, i bar che stentano, il Plaza senza la crema di ministri, sottosegretari, portaborse; gli uffici, le banche, le sedi della Camera dei deputati e Palazzo Chigi, i grandi magazzini e, in fondo a tutto, dopo piazza Venezia, l’Altare della patria, dove i ceri sono fiamme di metano. Le vie verso il Tevere, il Vaticano, Castel Sant’Angelo. Grandi Papi, ma ancora senza The Young Pope, grandi bagni di folla, qualche volta ridotti, riti sacri e nascosti, da brivido. Ricordi e macerie degli affaristi in tonaca, i faccendieri, le rovinose tonache bancarie. Su tutto quanto, nella memoria del cinema, il Cristo nel cielo vuoto della Dolce Vita, con Marcello a bordo dell’elicottero, con la statua dalle braccia aperte, tra gli applausi sui tetti e le terrazze, signore in topless, inghiottite dagli anni, sostituite per strada e in locali underground da nugoli di veline e di escort come cavallette. Mentre le campane di San Pietro suonano rintocchi sovrumani. Il Triangolo di Roma, un Olimpo unico al mondo che Sorrentino filma con sicurezza, senza rabbia, in uno stile intenso e deciso, distribuendo personaggi generici, comparse, fi59
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guranti. Vicino al Divo che si guarda intorno con malinconia dolorosa, come un’unghia fastidiosa nella carne. Un Divo che, nei giorni meno plumbei di quel film a lui dedicato, riesce a sorridere e a far sorridere, maschera politica e televisiva. Porta a porta con l’Italia. Un Divo che prega, si pente, pecca (lo confessa), si pente e si riprende. Nella marcia funebre della politica senza ideali, senza orizzonti. L’Olimpo nei 154 minuti del film di Sorrentino è chiuso nelle segrete della politica. La politica come si è deformata, nella colpa non sentita, nelle trattative sottobanco. La politica delle correnti e la sfilza dei capi corrente, degli sponsor criminali, dei correntisti dei finanziamenti alle finanze statali. Il film di Sorrentino è un’inchiesta creativa, che fa lievitare la cronaca nella Storia, con il buio e i suoi trabocchetti. Il cronista inconsapevole è il Divo che si fa notizia e lettura della stessa. Il Divo artigliato dall’insonnia del potere. Altri camion di macelleria si fermano, scaricano, ripartono. La Dolce Vita è una crostata amara. L’Italia aspetta e non sa cosa. Smarrita. Truccata. Sorrentino racconta i trucchi della politica e del potere. C’è sofferenza e tragedia nelle immagini e nei corpi. La musica è alta, fatta di frustate, come alla festa in cui il Divo si affaccia. Ne è turbato. Tutto è compromesso. L’espiazione è visibile in un volto-maschera. La maschera di pelle Andreotti, protagonista di una grande commedia, di un grande dramma all’italiana, solenne e terribilmente affascinante, in cui c’è spazio per sorrisi recitati. Sorrentino ha detto che considera Il divo il suo film più riuscito. Può essere; lo vedo nella trilogia eloquente: Il divo, La grande bellezza, The Young Pope. Italy in the World. 60
Indice
America First! La forza di un Pope Forever Young
Una storia di orfani The show must go on Voglia di Ingmar Bergman Conviene litigare sulla qualità del Pope Non c’è un mondo migliore
La panchina e la rivoluzione Rivoluzione senza rivoluzionari La casa è dove voglio stare Caronte e le aberrazioni romane L’album delle figure e delle figurine che non ci sono L’uomo che amava le donne
Le maschere sono sempre nude Gran quantità di carte e manette L’ora d’aria del potente uomo politico A futura memoria
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Il successo di Paolo Sorrentino cresce a ogni film. Dal Premio Oscar per La grande bellezza fino ai più recenti Youth – La giovinezza (con Michael Caine e Harvey Keitel) e The Young Pope (realizzato per Sky e presentato alla Mostra del Cinema di Venezia), i suoi film richiamano l’attenzione e spesso dividono pubblico e critica. Già con Il divo (2008) era cominciata la nuova fase per un regista che è oggi tra i pochi autori italiani di rilevanza internazionale, dopo non solo i maestri Visconti e Fellini, ma anche dopo la generazione dei Bertolucci, Cavani, Taviani, Montaldo, Petri, Bellocchio. Italo Moscati ci restituisce in questo libro la storia, intensa e carica di spunti, della carriera di Sorrentino: le tappe, gli incontri e i dialoghi personali avuti in più occasioni con questo grande esponente del cinema italiano.
ITalO MOScaTI (Milano, 1937)
EURO 7,50
Scrittore, sceneggiatore e regista, ha collaborato con Liliana Cavani a Il portiere di notte e ad altri film di Luigi Comencini, Ugo Gregoretti, Giuliano Montaldo, Silvano Agosti. Ha pubblicato libri su Hitchcock, Fellini, Leone, Anna Magnani, Greta Garbo, Sophia Loren, Eduardo De Filippo, Pasolini, Luca Ronconi. Ha diretto diversi film, serial e documentari. Nominato più volte come Nastro d’Argento, ha vinto il Premio Leone di Pietra, il Premio Saint-Vincent come autore televisivo e ha ricevuto… numerosi altri riconoscimenti in Italia e all’estero. Castelvecchi ha pubblicato le sue conversazioni con Micaela Ramazzotti e Paolo Virzì in Drammi, sorrisi, bellezza e con Matteo Garrone in Le fiabe sono vere (2016).