Testimonianze di Peppe De Santis. Ricordi e considerazioni su uno scomodo neorealista di campagna. Nuova ediz. 8861561861, 9788861561861

Questo libro vuole descrivere l’immenso talento artistico di Giuseppe De Santis, analizzando il modo in cui egli concepi

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Italian Pages 156 [160] Year 2021

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Testimonianze di Peppe De Santis. Ricordi e considerazioni su uno scomodo neorealista di campagna. Nuova ediz.
 8861561861, 9788861561861

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Oltre ogni confine 03 (saggi)

Collana diretta da Antonio Carlo Vitti comitato scientifico Enrico Bernard, Antonio Nicasio, Vincenzo Marra, Domenico Palumbo, Daniela Privitera, Gino Tellini, Maria Rosaria Vitti-Alexander, Mimmo Calopresti, Giovanna Taviani

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© 2021 by Metauro Edizioni S.r.l. – Pesaro (Italy) www.metauroedizioni.it [email protected] ISBN 978-88-6156-186-1 È vietata la riproduzione, intera o parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

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ANTONIO CARLO VITTI

TESTIMONIANZE DI PEPPE DE SANTIS Ricordi e considerazioni su uno scomodo neorealista di campagna

metauro

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Dedicato a Giuseppe De Santis ed Edoardo Lebano

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Giuseppe De Santis un pioniere oltre il sistema

Scrivere o parlare di Peppe mi provoca sempre forti emozioni. Perché Peppe e il suo cinema hanno rappresentato e rappresentano ancora, una parte importante della mia vita. Il primo incontro con De Santis avvenne ormai tanti anni fa nella scuola che io mi accingevo a frequentare. Ricordo un uomo con una vistosa giacca color vino, capelli bianchi e un sorriso bellissimo che ti avvolgeva appena lo vedevi. A 18 anni decisi di lasciare il mio paese in provincia di Salerno per andare a Roma e cercare di capire un linguaggio, quello del cinema. Lessi che stava per aprire una scuola di cinema. La dirigevano Peppe e Pasqualino De Santis. Ricordo l’incontro alla sala del Nazareno, dove io ragazzo di provincia con mille dubbi e mille speranze incontrai questo signore minuto, con una vistosa giacca rossa e con i capelli bianchi. Mi affascinò subito. Avevo visto di sfuggita i suoi film. Riso amaro su tutti. Decisi che quella doveva essere la mia strada. Di lì a poco Pasqualino morì durante le riprese del film La tregua di Rosi. Ma Peppe decise comunque di continuare. Parlare di lui per me è fare un percorso a ritroso nella mia vita, nella mia formazione etica e professionale. Le lezioni si tenevano in una piccola aula con poche sedie. Eravamo pochi allievi. Le lezioni di regia erano la parte minoritaria dell’insegnamento di Peppe, ma quelle più importanti erano le lezioni di vita. Diceva sempre che prima di essere un regista o un attore o uno sceneggiatore bisognava essere un uomo, un cittadino. Veniva 7 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

dal dopoguerra, dalla Resistenza, insieme a un gruppo di altre grandi personalità che hanno contribuito alla costruzione di questo Paese. Carlo Lizzani, Mario Alicata, Pietro Ingrao, Libero de Libero, Domenico Purificato. Per me ragazzotto di provincia era l’incontro con un gigante, con qualcuno che ha cambiato verso alla mia vita. Senza quell’incontro forse non avrei fatto questo mestiere, forse sarei rimasto nel mio paese. Ma Peppe mi ha insegnato anche l’amore profondo per le radici, per il paese che ci ha generato. Lo ha dimostrato in tutta la sua vita con l’amore per Fondi in cui tornava spesso, in cui ha vissuto lunghi periodi della sua vita. Aveva anche un progetto che poi non ha mai realizzato Paese mio era il titolo che voleva realizzare col fratello Pasqualino. Non ha fatto in tempo a farlo. Ricordo le giornate trascorse in quella scuola, dove oltre a lui insegnavano Lizzani, Ugo Pirro, Franco Di Giacomo, Lino Capolicchio. Le lezioni di Peppe erano anche molto dure. Si arrabbiava spesso quando non capivamo certe cose che per lui erano semplici. Ma ricordo in modo particolare la sua dolcezza nell’approcciarsi agli altri, la sua caparbietà e anche il suo malessere nell’essere stato messo da parte per troppo tempo. Perché Peppe era coerente, era scomodo per molti. Per le sue idee, per la sua franchezza. Ho amato tantissimo i suoi film. Roma ore 11 per me è un capolavoro assoluto ed ancora attuale. Aveva un modo di girare che difficilmente si riscontra negli altri registi di quel periodo. Era per me il regista più “americano” che abbiamo avuto. Nell’approccio che aveva con la macchina da presa, nel montaggio, nella scelta degli attori. I suoi aneddoti erano straordinari e dimostravano come quel cinema era davvero capace di scuotere un Paese intero a differenza di quello di oggi. C’era nei suoi film la lezione dei grandi maestri del passato, del cinema americano del dopoguerra. Il modo di inquadrare 8 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

i volti, le storie, e la scelta degli attori era tutto frutto di una grande passione e di una grande passionalità. Ricordo il giorno in cui ci portò a visitare Cinecittà, gli studios, o meglio quello che rimaneva del cinema del passato. Si leggeva nei suoi occhi l’amarezza per un tipo di cinema che ormai era arrivato al capolinea. Per lui che da Fondi era riuscito ad insegnare il cinema nel mondo. L’insegnamento era diventato la sua grande passione. Amava stare con noi, non si stancava mai. Era giovane nella testa e nel cuore. È morto troppo presto. Mi sarebbe piaciuto stare ancora con lui. Quando ho girato il mio primo lungometraggio Due Euro l’ora ho pensato a lui ogni momento, alle sue idee, al suo modo di girare. Al fatto che mi diceva di non mollare mai e a quella frase che mi disse una volta: «se uno decide di andare a letto con il papa prima o poi ci riesce». Nei momenti brutti ho pensato sempre a quelle sue parole, alla sua caparbietà. Ma la sua lezione è stata importante anche nella mia vita, nella mia militanza politica. L’altra mia grande passione. La passione civile che Peppe aveva nelle vene. Quella di essere sempre al servizio degli altri. Chi come lui ha lottato per ricostruire un Paese come il nostro che usciva dalle macerie, sarà eterno e la sua lezione non finirà mai. Ho avuto la fortuna nella mia vita di conoscere gli ultimi maestri del cinema glorioso, di quel cinema che ancora esiste in tutte le rassegne del mondo. La grandezza del nostro cinema era in quei film, in quelle storie, in quelle parole cariche di etica e di coerenza. Oggi fare un film in Italia è davvero difficile, ci vogliono tempi biblici per film che a volte restano nelle sale per pochissimo tempo. Forse non parliamo più alla gente, forse serve una rivoluzione culturale anche li. Peppe ha combattuto il potere, quello vero, quello della Democrazia Cristiana e del laviamo i nostri panni nell’Arno. Non si è piegato a logiche di mercato che avrebbero voluto che girasse come tanti spaghetti western. È rimasto fede9 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

le alle sue idee, alla terra, al Paese, ai colori. La purezza dell’amore in Giorni d’amore è disarmante, o la descrizione dei sogni e delle speranze in Roma ore 11 è qualcosa che ti resta addosso. Era un comunista vero Peppe, di quelli che vorresti anche oggi in un’Italia allo sbando che non riesce a ritrovare il proprio futuro e guarda al passato in modo distorto. Sono stato di recente a Fondi, con Cesare, altro allievo di Peppe. Siamo stati sulla sua tomba al cimitero. Una tomba semplice come tutte le altre. Peppe era così, un uomo straordinario ma ammantato di normalità. Lo penso spesso, penso spesso a quei giorni e mi mancano. Forse è solo nostalgia, forse è assenza del tempo che passa, forse è la consapevolezza che uomini così non torneranno più. Quel che resta è la memoria, è l’amore che ti porti dietro per figure importanti che hanno segnato la tua strada per sempre. Non potremmo mai capire dove stiamo andando se non ci appropriamo di quello che abbiamo perso. Molti dei registi di oggi, non hanno molto probabilmente mai visto un film di Peppe o di Petri. E la carenza si vede. La forza di quel cinema era anche nel confronto, si scrivevano sceneggiature in tanti, ci si vedeva, si stava insieme per protestare contro le leggi che non piacevano. C’era un fermento culturale enorme perché c’erano grandi uomini. Una volta andai a Fondi a trovarlo. Fu un viaggio straordinario fatto di racconti, di aneddoti e una carrellata di volti e personaggi che denotavano la grande passione di Peppe per il suo paese. La terra se la portava dentro e nei film era l’elemento predominante. Raccontava storie di conflitti, di amore e di identità. La grandezza di quella Terra a metà tra Tommaso Landolfi e i quadri di Purificato. Oggi la lezione di De Santis servirebbe a tutti per capire che tipo di Italia vorremmo costruire. Ho incontrato nel corso della mia vita professionale altri registi e 10 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

personalità del cinema e tutti avevano una ammirazione incredibile per Peppe. Non aveva invidie, ma tanti amici. I suoi nemici erano la pochezza intellettuale e il degrado politico in cui versava il Paese. Vorrei incontrarlo ancora oggi in quelle stradine del centro di Roma per parlare dei miei progetti, delle mie idee, per fargli vedere le cose che ho fatto. In tutti i miei lavori c’è un po’ di lui, delle sue parole, dei suoi sguardi. Ogni tanto chiudo gli occhi e come al cinematografo mi sembra di vederlo entrare col suo borsello dalla porta dell’aula, col sorriso sempre stampato sul suo viso, ma quando riapro gli occhi lui non c’è ma ci sono i ricordi, quelli di un ragazzo di provincia che ha avuto la fortuna di incontrare sulla sua strada un gigante dallo sguardo attento verso i più deboli. Ora questo libro di Antonio Carlo Vitti rende omaggio e descrive in modo completo ed esaustivo il mondo del cinema di Peppe e del suo immenso talento. Raccontando come in un mosaico le sue grandi vittorie e le sue amare sconfitte. E facendo leggere tra mille rivoli anche storie dimenticate e progetti che Peppe aveva in cantiere e che non sono mai stati realizzati. Come quelli relativi ai Fatti di Andria o Il Permesso. Oggi questo volume, così come le numerose, ma sempre poche, iniziative che si realizzano per ricordare la memoria di Peppe, sono fondamentali per costruire il cinema del futuro. In modo che esso possa fondarsi su fondamenta durature e solide. Andrea D’Ambrosio

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Peppe che balla la tarantella con i suoi paesani

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Testimonianze di Peppe De Santis e considerazioni su uno scomodo neorealista di campagna Io penso che il cinema si faccia per il pubblico. Questo non significa però, diciamo così maliziosamente, strizzare l’occhio al pubblico. No, bisogna fare cinema per il pubblico, ma cercando di portare il pubblico sul terreno sul quale si vuole farlo riflettere. (Peppe De Santis, in Cinema e Storia di Pasquale Iaccio, Napoli, Liguori Editori, 2000, p. 284).

Lo scopo di questo studio è di far conoscere l’unicità del cinema di De Santis nel dopoguerra italiano e di ricollocarlo nel posto che gli spetta come protagonista nel promuovere la nascita del cinema italiano del dopoguerra, per poi analizzare le caratteristiche del suo cinema che lo distinguono dagli altri film del dopoguerra ed infine per capire come dopo un fulgido inizio di carriera, a partire dagli anni Sessanta diventò sempre più difficile per il regista ciociaro trovare finanziamenti per i suoi progetti fino a quasi sparire dal panorama del cinema nazionale italiano ed essere dimenticato e spesso escluso anche come regista neorealista. Questa ricerca sarà divisa in varie parti: si inizierà con il Curriculum Vitae del regista da lui redatto dopo aver accettato un invito a tenere due conferenze e presentare alcuni dei suoi film negli Stati Uniti. Seguiranno alcuni interventi e documenti scritti dal regista; mi servirò anche di un documento scritto dal regista ciociaro dopo l’ultima disillusione, quando stava per iniziare o meglio aveva creduto di poter girare per la televisione pubblica italiana uno sceneggiato sui fatti d’Andria, confermando il suo attaccamento ai problemi del Meridione, allo sfruttamento dei braccianti, al desiderio da parte delle masse dei braccianti meridionali di avere terra per poter lavo13 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

rare e non dovere emigrare. E ciò anche per denunciare la mancata democratizzazione dello stato italiano. Seguiranno uno studio sulla rappresentazione della Ciociaria nel cinema, e infine per concludere questa ricerca si finirà con un’analisi sull’attorialità secondo le pratiche del regista ciociaro, in modo da poter affrontare l’accusa rivolta dalla critica al regista di aver reintrodotto il divismo nel cinema del dopoguerra. Concluderò questo studio riportando parte di un documento scritto dal regista che, dopo essersi illuso di poter tornare a dirigere un filmato televisivo, riceve invece un’ennesima amara delusione. De Santis a Middlebury College Nell’estate del 1991, il Professore Edoardo Lebano1 invitò Giuseppe De Santis per tenere una serie di con1  Il 7 maggio 1991, Edoardo Lebano, dopo aver mandato un invito seguito da conversazione telefonica, scrive a Giuseppe De Santis. «Il tema della sua conversazione: “Il cinema neorealistico italiano: la sua nascita e la sua fine, viste da Giuseppe De Santis” va benissimo e il fatto che lei intenda parlare a braccio, […] mi rende estremamente felice e farà contenti tutti. Lo stesso vale anche per gli altri due argomenti proposti: “Influenza della letteratura e del cinema americano sul cinema neorealistico italiano” e “Cinema italiano ieri e oggi” che potrebbero essere trattati con la partecipazione dei colleghi durante una tavola che organizzeremo come si deve dopo il suo arrivo a Middlebury. […] La sua presenza sul “campus” di Middlebury, il poterla sentir parlare di cinema e l’opportunità di “vedere”, sotto la sua guida, le sue opere più significative, saranno per noi tutti un’esperienza culturale oltremodo eccitante e informativa». Lebano scrive a De Santis da Bloomington, Indiana. Ecco come Lebano ha raccontato l’evento: «Ho avuto la fortuna di fare la conoscenza del grande regista Giuseppe De Santis nell’autunno del 1989. La sua visita a Indiana University era stata resa possibile grazie all’entusiastico interessamento di due miei cari e stimati colleghi, Antonio Vitti e Ben Lawton, che erano riusciti a organizzare un ciclo di conferenze di De Santis nelle maggiori università degli Stati Uniti. A Bloomington l’eminente regista presentò il suo film più famoso (Riso amaro) a un pubblico di studenti e di docenti, illustrandone la storia e mettendone in risalto i punti più salienti. Quella sera stessa, dopo la proiezione del film, ebbi il piacere di invitare a casa mia per un pranzo

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Peppe De Santis durante una lezione a Middlebury College all’italiana il Maestro De Santis, sua moglie Gordana Miletic e vari colleghi, fra i quali Ben Lawton, nonché alcuni dei nostri studenti post-laurea. Quell’occasione mi offri, fra l’altro, la possibilità di ammirare e apprezzare le qualità veramente notevoli di De Santis, uomo e artista». «L’inizio della mia amicizia con Peppe, come lo chiamavano gli amici, risale appunto a quel suo breve soggiorno a Bloomington. Amicizia e stima che il passare degli anni contribuì a rafforzare e consolidare anche in seguito ai nostri successivi incontri sia negli Stati Uniti che in Italia. Durante il mio incarico di Direttore della Scuola Italiana del Middlebury College invitai De Santis a trascorrere l’estate del 1991 nel Vermont. La risposta del caro Peppe fu immediata e decisamente positiva e, con grande gioia, io andai ad accoglierlo all’aeroporto di Burlington dove arrivò in perfetto orario insieme alla sua adorabile consorte. Nel frattempo, io avevo riservato un piccolo appartamento nel campus e restai piacevolmente sorpreso dal fatto che, nonostante l’arredamento alquanto modesto, esso piacque subito ad entrambi. Nelle sei settimane nel Vermont, De Santis sviluppò un rapporto estremamente cordiale con tutti, studenti, docenti e abitanti del paese. Oltre a Riso amaro – nominato per un Oscar nel 1959 – e alla proiezione di film non facilmente reperibili nelle sale cinematografiche americane, come Roma, ore 11 (1952), La Strada lunga un anno (1958) e Italiani brava gente (1963), l’Artist in Residence fece varie conferenze sul cinema neorealista e sullo stato della produzione cinematografica in Italia. Lo straordinario successo generato dalla presenza di De Santis fra gli studenti e i docenti della Scuola mi indusse a

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ferenze, presentare alcuni suoi film e partecipare ad incontri con studenti e colleghi presso la Scuola italiana del Middlebury College nel Vermont. Nell’estate del 1993 ebbi il piacere e l’onore di collaborare con De Santis come aiuto regista per la realizzazione di un filmato tratto da una sceneggiatura scritta in collaborazione con gli studenti e girato nel campus del Middlebury College: Ciao, Ciao Middlebury, unico film diretto da Peppe negli Stati Uniti2. In quella occasione il regista mi diede una copia del suo curriculum che riporto per dare l’occasione ai giovani interessati alla storia del cinema italiano, oppure a chiunque lo leggerà, di conoscere e riconoscere l’importante ruolo avuto dal regista ciociaro come uno dei fondatori del nuovo cinema italiano che all’epoca il regista definiva neorealistico. Inoltre, il CV mostra il profondo legame che il regista sente con la culinvitarlo a tornare nuovamente a Middlebury nell’estate del 1993. Questa volta, sul suggerimento del professor Antonio Vitti, proposi a De Santis di offrire uno speciale workshop, o Directing Practicum. Tale corso aveva lo scopo di dare agli iscritti l’opportunità di collaborare sotto la guida del Maestro con l’assistenza di Vitti». 2  Anche in questa occasione il regista seguì il suo metodo di lavorazione nello sviluppo di tematiche a lui care. Seguendo e sviluppando una storia d’amore tra due studenti, raccontava la vita e i problemi degli studenti iscritti al programma di lingua che vivevano l’esperienza dell’immersione culturale totale e l’impegno di dover parlare sempre la lingua che stavano studiando. De Santis chiedeva all’operatore di seguire e pedinare gli studenti e di riprendere tutto quello che facevano anche durante le pause e alla mensa, durante le feste, ricevimenti e i balli. Li lasciava parlare liberamente e tutti erano liberi di seguire un suo spunto. Amava la compagnia dei giovani e non correggeva mai gli errori linguistici dando la massima libertà di interpretazione della scena che si girava. Anche in quell’occasione De Santis si poneva il problema di come cogliere il ritratto di una giovane donna americana iscritta ai corsi di lingua e voleva sempre sapere la provenienza di ogni studente. Inoltre, anche per questo film con gli studenti, era affascinato dalle biciclette che vedeva davanti alla biblioteca, la mensa e i dormitori e avrebbe voluto ad ogni costo inserire anche la bicicletta nel racconto. Si chiedeva e chiedeva spesso se le ragazze americane fossero vittime della bellezza. Era molto legato a certe tematiche e anche alle strutture narrative che le avrebbero sviluppate.

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tura della Ciociaria e il mondo contadino meridionale, tematiche e problematiche che saranno alla base del suo cinema fondato sull’ideale di portare il pubblico su un terreno adatto a farlo riflettere, per integrare le storie dei personaggi alle grandi battaglie civili per la crescita della democrazia italiana e il suo sviluppo. Curriculum Vitae inviato al Professore Lebano e poi donatomi dal regista nel 1993. Giuseppe De Santis è nato l’11 febbraio 1917 a Fondi, una antichissima e florida cittadina del basso Lazio, immersa in una pianura di aranci, di limoni e di olivi, a pochi chilometri dal mare Circeo, e compresa in una piccola regione, alle porte del meridione d’Italia chiamata Ciociaria, dall’uso che avevano i suoi abitanti contadini di portare ai piedi una sorta di rudimentali calzari di cuoio grezzo noti con il nome di ciocie. In questo universo solare e primitivo De Santis trascorre la sua giovinezza in una casa “patriarcale” affollata da nonni, da zii, da cugini, da fratelli, da cavalli, da cani, e da amici con i quali vive tutto il giorno sulle piazze, nei vicoli, negli orti, lungo i canali d’acqua, e tra battute di caccia a ogni preda da conquistare. Lasciato il paese in giovane età, De Santis si trasferisce al seguito della sua famiglia a Roma dove segue gli studi classici e si iscrive subito dopo alla Facoltà di Lettere e Filosofia, frequentando negli anni tra il ’30 e il ’40 gli ambienti artistici più in vista della città, poeti, pittori, giornalisti, scrittori, da Moravia a Guttuso, da Cardarelli a Flaiano, da Mafai a Cagli, tra i quali proprio a quel tempo comincia a circolare un’aria di fronda al regime fascista sino a divenire da lì a poco, allo scoppio della guerra civile di Spagna, una vera e propria avversione ideologica organizzata. 17 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Le cioce che hanno dato il nome alla regione del regista e poi utilizzate nel film: Non c’è pace tra gli ulivi (1950)

Mentre segue gli studi universitari, De Santis, coltiva la vocazione di poeta e di narratore, e alcuni suoi brevi racconti e componimenti poetici vengono pubblicati in riviste giovanili dell’epoca e in qualche settimanale letterario di maggiore importanza come «Il Selvaggio» diretto da Mino Maccari e «l’Italia Letteraria» di Massimo Bontempelli. Presto, però, all’inizio degli anni ’40, De Santis scopre il cinema come grande mezzo di comunicazione di massa, che gli dà l’illusione di poter interloquire con un pubblico più vasto di quanto non gli consenta la letteratura e la narrativa in generale, in una Italia che non legge, né libri né romanzi, chiusa, provinciale e semianalfabeta, dove si presta scarsa attenzione persino ai quotidiani di informazione, tra l’altro totalmente asserviti alla “veline” del fascismo. 18 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

De Santis si iscrive ai corsi di regia e di sceneggiatura al Centro Sperimentale di cinematografia e allo stesso tempo, accetta di esercitare il mestiere di critico cinematografico sulla rivista «Cinema», un quindicinale di studi e di analisi della settima arte tra i più prestigiosi, che si pubblica in quegli anni in Italia, diretto per un’ironia della sorte da Vittorio Mussolini, uno dei figli del Duce, contro cui andava schierandosi, sia pure clandestinamente, buona parte della giovane intellettualità italiana. De Santis si getta con passione culturale e politica nel suo nuovo ruolo e approfitta per ipotizzare, nei suoi articoli e nelle sue critiche cinematografiche, l’avvento di un nuovo cinema italiano che nasca dallo studio profondo della realtà umana e sociale del Paese e crei una strada diversa da quella solcata sino allora, salvo rare eccezioni, dal cinema di “regime”, privo di qualsiasi conflitto, asettico, e lontano da ogni identità nazionale. Lo affiancano in questa battaglia una serie di collaboratori della stessa rivista, tra i quali spiccano i nomi dei futuri registi Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti. È proprio da queste battaglie, che preludono, in qualche modo, alla nascita del cinema neorealistico italiano del dopoguerra, da questa comune volontà, da questo impegno di un “gruppo”, che viene dato alla luce il film Ossessione diretto, nel 1942, da Luchino Visconti alla sua prima prova da regista, e che vede tra i suoi sceneggiatori lo stesso De Santis. Ossessione è una pietra miliare nella storia del cinema italiano degli ultimi anni del fascismo. L’anno dopo, 1943, mentre l’Italia è ancora in guerra, Roberto Rossellini chiama De Santis in qualità di collaboratore per il film Scalo merci. Ma il precipitare degli eventi bellici impedisce che il film venga terminato. Il 25 luglio di quello stesso anno Mussolini viene deposto e l’8 settembre l’Italia esce dalla guerra e dalla alleanza 19 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

con la Germania di Hitler. Non è più tempo di pensare al cinema. Altri doveri si impongono. De Santis entra nelle file della Resistenza, insieme a decine e decine di altri intellettuali, per combattere contro l’occupazione nazi-fascista del suo Paese, a fianco degli Alleati. Poi, a Liberazione avvenuta, e quando la democrazia è finalmente conquistata, De Santis ritorna al suo lavoro di giornalista e di cineasta. Dalla svolta storica avvenuta in Italia con l’abbattimento del fascismo e la conquista di ogni libertà di espressione, può nascere finalmente un cinema libero e democratico quale avevano a lungo sognato i giovani redattori della rivista «Cinema». Rossellini crea Roma città aperta, De Sica Ladri di biciclette, Visconti la Terra trema, e anche De Santis può finalmente debuttare come regista con il primo film Caccia tragica nel 1947, dopo essere stato ancora una volta assistente e sceneggiatore di un altro importante film di quel periodo, Il sole sorge ancora, diretto dal regista Aldo Vergano nel 1946. Il mondo culturale internazionale comincia a guardare al cinema italiano come alla grande rivelazione artistica più significativa del dopoguerra e lo definisce neorealistico per la sua grande capacità di indagare con poesia e attenta sensibilità sociale nella realtà passata e presente della società italiana, di criticarne le arretratezze e di stimolare il rinnovamento. Il cinema neorealista partecipa così alle grandi battaglie civili per la crescita della democrazia in Italia e del suo sviluppo nel tempo. Tutti i più grandi registi italiani del momento sono impegnati in questo sforzo con sofferta partecipazione, e De Santis è in prima fila tra essi. Gira, oltre al già citato Caccia tragica, nel 1947, Riso amaro nel 1948-49, Non c’è pace tra gli ulivi nel 1950, Roma ore 11 nel 1952, Un marito per Anna Zaccheo nel 1953, Giorni d’amore nel 1954, Uomini e lupi nel 1956, La strada lunga un anno nel 1958, La Garçonnière nel 1960, Italiani brava gente nel 1963. 20 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Bruscamente, durante gli anni Sessanta3, dopo quest’ultimo film che aveva per tema la guerra combattuta dagli italiani sul fronte russo, la carriera cinematografica di De Santis subisce un arresto. Il regista non riesce a trovare uno sbocco presso i produttori, non solo italiani, con nessuno dei suoi tanti progetti già tradotti in sceneggiature vere e proprie; e anche quando si verifica il caso che qualcuna delle sue proposte sembri andare a buon fine, il film viene improvvisamente insabbiato ed emarginato, senza mai trasformarsi in immagini. Da allora, sono trascorsi ormai molti anni, De Santis è passato da una disavventura professionale all’altra. Nel 1971, pur di uscire da questa drammatica situazione di stallo, De Santis produce con capitali personali un film, Un apprezzato professionista di sicuro avvenire, che tuttavia non serve a sbloccare il vuoto creato attorno alla sua figura. Tanti film andati a monte si accavallano gli uni sugli altri o riempiendo i suoi cassetti, in attesa di trovare produttori e finanziamenti disponibili per tentare la strada dei teatri di posa. Ma è una speranza vana. Ed è per questo che De Santis si considera, parafrasando un famoso libro di Italo Calvino, un regista dimezzato. I suoi film hanno ottenuto premi nazionali e internazionali di grande spicco, tra i quali vale la pena di citare qui due nomination agli Oscar, una per Riso amaro, (1950) e l’altra per La strada lunga un anno nel 1959. Attualmen3  Sul cambiamento avvenuto nel Sessanta lo storico cinematografico Carlo Lizzani ha scritto che sebbene dal dopoguerra fino agli anni Sessanta i contenuti sociali cambino, i segni più profondi del neorealismo restano e che «Il vero cambiamento avviene negli Anni Sessanta quando nasce un cinema che, insieme a contenuti nuovi, suggerisce anche forme nuove, forme di racconto nuovo. Pasolini, Petri, Bertolucci, raccontano in maniera diversa, non danno più fiducia ai fatti, ne vedono il mistero, ne rovesciano le tensioni e così pure fanno i fratelli Taviani. Ecco che, negli Anni Sessanta, si verifica il distacco dal neorealismo». (Carlo Lizzani, in Cinema e Storia di Pasquale Iaccio, Napoli, Liguori Editori, 2000, p. 274).

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te De Santis è docente presso quel Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma che lo ebbe da giovane tra i suoi studenti.

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Un esempio della battaglia sostenuta dal giovane Peppe De Santis per promuovere un nuovo cinema da «Cinema», n. 155, 12 dicembre, 1944). Contesto storico

«Andiamo da tempo propugnando un risveglio delle coscienze a un indirizzo realistico, perché niente può offendere di più i nostri animi che una falsa interpretazione della vita e dei sentimenti di essa. Vorremmo che nelle opere di Kafka si sapessero scrutare gli illimitati orizzonti di una fantasia che non sa mai dimenticare lo stato sofferente dell’uomo sulla terra, le sue solitudini, le sue difficoltà d’evasione, e nell’evasione stessa la grandiosa potenza dei reciproci scambi umani. Liberamente le nostre simpatie sono state rivolte, sempre, verso un cinema che sapesse indagare nell’intima essenza della realtà e che delle sue esigenze sapesse intendere il valore storico, il suo cammino ansioso e incerto. Arte è reincarnazione della storia. Le ragioni che configurano un paese in un modo anziché in un altro, tutto questo è storia, imprescindibile da ogni opera d’arte». («Cinema», n. 155, 12 dicembre, 1944. Contesto storico)1. 1  Sulla nascita del neorealismo Carlo Lizzani ha scritto: «Rimane aperta la discussione sulle origini del neorealismo storico; se nasce con Ossessione o con Roma città aperta. È chiaro che Roma città aperta fece esplodere il fenomeno e lo rese famoso in tutto il mondo, ma con Visconti, in Ossessione, nel ’42 ’43, sono stati gettati alcuni semi importanti dell’immagine e dello stile neorealista. Città che non si erano mai viste, figure femminili, che pure non si erano mai viste, appaiono sullo schermo. È già l’inizio di un rimescolamento antropologico: appare il disoccupato e il vagabondo, appaiono le campagne desolate, appaiono già alcuni segni che caratterizzano il neorealismo». (In Cinema e Storia di Pasquale Iaccio, Napoli, Liguori Editori, 2000, p. 272).

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Lo storico cinematografico Carlo Lizzani ricordando il ruolo di De Santis come critico cinematografico e promotore di un nuovo cinema dagli anni Quaranta in poi ha scritto: «I suoi scritti su “Cinema” dal 1939 al 1943 erano severi ma lungimiranti. Non gli facevano velo le inclinazioni politiche che andavano maturando in quel gruppo di fonda antifascista diretta da Alicata e Ingrao che erano riusciti a coagulare all’interno della rivista diretta da Vittorio Mussolini. […] le sue critiche, insomma, non erano fondate soltanto su predilezioni di tipo tematico e contenutistico. […] De Santis, e tutta la sua generazione sarebbero giunti a privilegiare questo nuovo, drammatico universo di tipo sociale, senza tradire quel processo di lenta, paziente maturazione vissuta all’interno dei movimenti culturali, letterari, cinematografici degli anni Venti e Trenta. Gli anni dell’avanguardia, del realismo magico, gli anni della scoperta, in Italia, di Proust, Kafka, Joyce, Faulkner»2. «A rileggere le recensioni di De Santis e a ripensare al suo cinema, […] non si può rimanere indifferenti all’acutezza di un pensiero critico e alla proposta coraggiosa d’un modello cinematografico che per certi versi sentiamo ancora attuale». Su «La Stampa», l’11 maggio 1982 Gianni Rondolino ha scritto: «Non si tratta tanto di individuare pregi e limiti d’un’opera multiforme, o di entrare nel merito d’una valutazione critica di un gruppo di film indubbiamente interessanti […] quanto di rintracciare le origini d’un modo nuovo (almeno in Italia) di fare cinema nel vivo d’un dibattito ideologico e culturale che proprio negli scritti di De Santis trova una illuminante esemplificazione». 2  Senza di lui non ce l’avrei fatta a camminare da solo di Carlo Lizzani. «l’Unità», 18 maggio 1997.

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Cinema, Sud e memoria Qualche risposta ad alcune domande personali De Santis, Fiano Romano aprile-maggio 19811 Questi sono i miei fiumi Contati nell’Isonzo…. G. Ungaretti

Non amo fare bilanci. Come tutti gli indolenti, credo. In particolare, poi, quando questi riguardano il mio lavoro. È una resa dei conti che, in ogni caso, provoca un vago senso di paura; per ciò che non hai fatto e che circostanze di vario genere ti hanno impedito di fare. E per ciò che essendo già fatto non puoi più tornare indietro a fare meglio. Ma tant’è. Per buttare giù queste pagine, sia pure alla rinfusa, e rispondere solo a qualcuna delle tante domande, di natura del tutto personale, che tuttavia continuano ad assediarmi da quando una lunga fascia di terra del Sud d’Italia ha tremato, sono stato costretto ad entrare in un tunnel lungo almeno quanto è lunga la vita di chi come me ha sulle spalle, ormai, gli anni della Rivoluzione d’ottobre. Sono un ultrasessantenne, infatti, cui è accaduto, non so ancora bene se con profitto o con danno, di prendere coscienza, quasi d’improvviso o con qualche sgomento, d’essere non soltanto geograficamente nato, anch’io, in un popoloso paese del Sud, in quella breve fetta di Ciociaria della costa che affaccia sul mare di Circe e di Ulisse, ‒ proprio alle porte del Mezzogiorno d’Italia, come 1  Nel 1988 durante una delle mie visite di lavoro e incontri con De Santis mi diede questo documento e il permesso di usarlo per le mie ricerche e di pubblicarlo Ho lasciato il documento come me lo aveva donato De Santis, senza cambiare nulla, ho soltanto inserito le immagini e le note.

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per anticiparne con aspra dolcezza tutti i suoi misteri, insieme alle sue secolari miserie ‒, ma di avere continuato a sognarlo, quel mio paese del Sud, e a portarmelo appresso anche dopo l’inevitabile fuga giovanile, a viverci dentro, insomma, con il cuore e la fantasia: sempre e dovunque. E sempre e dovunque vuol dire anche quando, per esempio, a trent’anni, nel 1948, ero al Nord, e affondavo i piedi nelle risaie del vercellese, tra le cascine brulicanti di mondine di Venaria di proprietà dei conti Agnelli (gli unici, per la verità, tra i tanti padroni del riso, a concederci il benestare di girare), in continua, trepida, affannosa ricerca di immagini per mettere insieme, emozioni dopo emozioni, quell’incredibile, forse, appassionante film “meridionale” che a pensarci bene, oggi è per me Riso Amaro. Nessuno lo scrisse allora. Perché i denigratori di Destra si affrettarono a parlare di melodramma, di romanzesco, di erotismo, e di dannunzianesimo, ‒ dando la stura a quella serie di luoghi comuni che come litanie accompagneranno poi, sempre o quasi, tutti i giudizi sul mio lavoro cinematografico ‒, pur di evitare accuratamente, s’intende, di occuparsi dei reali problemi che tuttavia quegli appellativi, anche se meritati, in ogni caso ponevano. E non diversamente si comportarono i denigratori di Sinistra (ci furono anche quelli, e come!): investiti dai sacri fuochi del più cieco moralismo zdanovista, finirono per allinearsi, in pratica, a quelli di Destra, e se non fossero intervenuti ampi ed articolati dibattiti, sulla stampa democratica più attenta, a mitigarne le punte più aspre, avrebbero rischiato di gettare dalla finestra l’acqua con tutto il bambino. Eppure, non era così astruso. Cos’altro io, cittadino del Sud, avevo inteso raccontare e denunciare in quelle terre del Nord, pur tra ingenuità ed errori di ogni tipo, se non le ansie e la rabbia, lo stato di abbandono e di 26 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sfruttamento di un bracciantato agricolo femminile in tutto simile a quello che avevo imparato a conoscere nei paesi della mia infanzia meridionale, e della mia prima cultura sociale? La risaia come territorio emblematico di una condizione di lavoro tra le più miserabili: ecco cos’era nella sua più autentica sostanza quel film per chi onestamente sapeva e voleva leggervi in profondità, e non si arrestava o veniva costretto ad arrendersi alla comoda accusa di fumettismo. Io vi raccontavo storie di mondariso, ma sapevo di raccontare, allo stesso tempo, anche quelle di tante migliaia di raccoglitrici di olive, di gelsomini, di mietitrici, di coltivatrici di tabacco, o di chi, già vecchia o ancora adolescente, trasportava dalle cave su per le montagne massi di pietra sulla testa, dall’alba al tramonto, senza sosta, per quattro soldi di pane. Donne o ragazze della Lucania e della Puglia di Giustino Fortunato, della Calabria di Vincenzo Padula, della Sicilia di Pasquale Villari. E che io, ancora ragazzo m’ero trovato accanto, d’estate e d’inverno, accompagnando mio padre, geometra per conto del Genio Civile, nei suoi spericolati vagabondaggi sulle terre dei latifondi meridionali, alla ricerca delle usurpazioni subite attraverso i secoli dai Demani Comunali ad opera dei tanti agrari e notabili locali o addirittura di Congreghe religiose. Papà Oreste ricostruiva sulle mappe, con pazienza, fiducia e testardaggine tutta contadina, gli antichi confini, o riconquistava allo Stato e alle Comunalità ogni bene maltolto: boschi grandiosi dai nomi mitologici, lunghi corsi d’acqua, e pietrose fiumare, colline dopo colline, pascoli erbosi, intere contrade che improvvisati padroni avevano illegittimamente sottratto e occupato con violenza o arroganza, o con qualche santo in paradiso. E accadeva sotto i miei occhi qualcosa che aveva quasi a che fare con la magia: quell’ostinato geometra, piovuto da un oscuro paese della Ciociaria, con un solo 27 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tratto di pennino, bagnato appena nell’inchiostro di china, faceva sparire d’un colpo il rapace usurpatore o rendeva giustizia ai più poveri e ai diseredati del luogo, ripristinando a loro favore usi civici, benefici o costumanze d’antica data. Io mi guardavo attorno o non perdevo tempo: avevo raccolto arance con madri e giovanette negli orti di pianura; vendemmiato ad ottobre nelle vigne; spigolato a giugno nei campi di grano; e persino tagliato la macchia in dicembre su per i declivi montani. Così avevo ascoltato canti e pene di lavoro femminile, maledizioni e dolori di chi su quelle terre sapeva tutto perché ci aveva faticato per generazioni e generazioni, con la schiena curva o in silenzio tutto il giorno, sopportando ordini o sopraffazioni di altri usurpatori-padroni. Ma erano, purtroppo, usurpatori ch’io non potevo certo annullare (nonostante già lo desiderassi) con la stessa semplicità che la Legge consentiva, non senza qualche pericolo (la lupara usava anche allora!), al mio intraprendente genitore. Tuttavia, mi riempivo gli occhi per il futuro, quando avrei potuto, un giorno ancora lontano, trasformare ogni immagine cui m’era dato di assistere in centinaia di inquadrature. Ora, con un’infanzia e un’adolescenza vissuta vagabondando tra i lavori femminili d’ogni specie, si poteva quasi azzardare, già d’allora, che la risaia era il mio destino, e un film sulle mondariso il mio più naturale approdo. Fu un incontro predestinato, infatti, e a ricordarlo oggi capisco ancora meglio quanto sottili o misteriosi siano, il più delle volte, certi fili che, all’insaputa, vengono tessuti o intrecciati intorno alla nostra vita da anni, apparentemente sconosciuti, cui è affidato l’incarico di guidarti verso esiti in attesa di prendere corpo dentro di te: da tempo assai remoto. Ma giudichi chi legge. Una notte, verso i primi di maggio del ’47, ero sbarcato alla stazione di Milano venendo da Parigi, dove ero 28 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stato invitato a godermi l’inaspettato successo decretato al mio primo film Caccia tragica dai critici cinematografici francesi, tutti dediti, in quel momento, alla scoperta del neorealismo italiano, del quale del resto divennero, proprio in quegli anni, i primi sensibili sostenitori sino a organizzare il più appassionato e disinteressato lancio artistico e culturale in tutto il mondo. Gonfio di fiducia nel mio avvenire cinematografico (ahimè!), e in attesa del treno che mi avrebbe ricondotto a Roma, mi aggiravo sui marciapiedi deserti come un gattone felice e spensierato, fiutando ogni cosa. Credo che l’orologio segnasse le tre, e forse tra poco sarebbe spuntata l’alba. Intorno a me c’era solo quel poco di luce elettrica, fioca e offuscata, che un’imposta austerità da dopoguerra concedeva di accendere persino nelle grandi stazioni. Fu certo per questo che quasi non m’accorsi di alcune figure raccolte intorno a una fontanella che riempivano d’acqua fiaschi e borracce trascinandosi dietro tascapani, bisacce e qualche coperta sulle spalle. Non udivo le loro voci, sommerse dai fischi e dagli sbuffi delle locomotive, e sulle prime pensai che fossero soldati. Mi avvicinai preso, chissà perché, da una forte emozione, favorita dall’ora avanzata e insolita per certi incontri, ma percependo, a poco a poco, che si trattava di qualcosa che mi veniva da un mondo a me sconosciuto, ma da me non lontano, come per offrirsi alla mia immaginazione. Non era un gruppo, ma un esercito. Non di soldati, ma di donne. Di ogni tipo e di ogni età: giovani, mamme, vecchie, ragazze, adolescenti. Oltrepassato l’angolo dietro la fontanella le vidi d’improvviso, tutte insieme, e fui investito da una cascata di grida, di richiami, canti, lamenti, che scosse ben presto il cupo silenzio di tutta la stazione. Alcune pendevano affacciate ai finestrini di due lunghi treni, l’uno di fronte all’altro, composti 29 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di vagoni misti di terza classe e di merci, entrambi in stazione certamente non da molto ed ora in sosta, chissà per quante ore, prima di riprendere la strada verso le risaie sparse sulla pianura piemontese e lombarda. Altre, invece, avevano già invaso panche, spacci abbandonati, carrelli per il trasporto di bagaglio, e quasi tutto il lungo marciapiedi improvvisando spuntini, giuochi, e danze alla moda accompagnate dal suono di qualche grammofono portatile. Provai, sempre più emozionato dall’incontro, ad inoltrarmi tra esse nei pochi spazi ancora vuoti. Fui accolto appena avvistato dalle più giovani da lazzi, risate e sberleffi, ma anche da qualche promettente complimento. S’erano come per incanto invertiti i ruoli: io donna ed esse maschi. Una sensazione per molti versi gradevole: mi sentivo penetrato, divorato da mille occhi, ed ero come una ragazza cui tocchi di attraversare il cortile di una caserma durante l’ora di rancio, mi piaceva. Non capitava davvero tutti i giorni di sentirsi donna e allo stesso tempo di essere come uomo il centro di attrazione di centinaia di ragazze. Perciò non c’era altro da fare che compiacersi del nuovo ruolo e adattarsi. Sedere in mezzo a loro, parlare, interrogare, con simpatia e amicizia. Sapere chi fossero, dove andavano, da dove venivano. Cantare, accettare una fetta di pane, come avevo fatto in tante altre occasioni dalle mie parti accompagnando a piedi o sui carretti contadine dai diversi mestieri. Persi il treno per Roma. E così nacque Riso amaro. Eppure, quella notte trascorsa con le mondariso nella stazione di Milano mi ossessionò come un incubo quando si pose il problema della scelta dell’attrice che avrebbe dovuto interpretare il ruolo della giovane protagonista. Avevo vissuto con le loro facce dinnanzi agli occhi per tutto il periodo di lavoro della sceneggiatura, e ora che bisognava girare il film mi sembrava che nessun 30 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

volto di attrice italiana già affermata potesse esse giusto e credibile nelle vesti di una di quelle mondine. Non era un omaggio, come si potrebbe credere, alla moda del neorealismo più intransigente che teorizzava l’impiego come attori di fisionomie non compromesse con il cinema del regime fascista. Non era neppure l’o-

Renato Guttuso, Riso amaro, bozzetto

stinazione di lasciar interpretare da un operaio vero o da un pescatore autentico il ruolo di un operaio o di un pescatore nella finzione cinematografica come qualcuno dei miei colleghi aveva sperimentato, con ottimi risultati, per conferire maggiore freschezza alla realtà 31 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

da rappresentare. Se qualcosa io avevo teorizzato in merito a questo problema nell’ambito del neorealismo era, invece, che gli attori, tutti gli attori, vecchi e nuovi, non dovessero essere esclusi dalla benefica immersione nella vita quotidiana, dal bagno di verità che questa tendenza artistica progettava con i suoi film. Girare dal vero in un mercato, in una fabbrica, in un paese, o in un quartiere tra gente che in quei luoghi ci viveva e ci lavorava era, tra l’altro, un’esperienza di democrazia umana e sociale assai importante per una cultura che iniziava solo adesso il suo giusto sviluppo civile, e bisognava farla tutti, proprio per crescere insieme: sceneggiatori, registri, maestranze e tecnici. Ma, soprattutto, avevano necessità di farla gli attori che a questa esperienza, in definitiva, prestavano il loro volto e i loro atteggiamenti. Purtroppo, lo ripeto, per quanto mi guardassi intorno con estrema attenzione, l’immagine così precisa che m’ero costruita della mia protagonista non trovava alcun riscontro tre le tante attrici di professione, pur interessanti, che il cinema italiano potesse offrirmi. Mi avventurai, quindi, nella ricerca di una ragazza nuova che rispondesse all’immagine della mia fantasia. Ne vidi a decine e decine. Finché una mattina arrivò sino a me, negli uffici della Lux produttrice del film, confusa tra tante altre ragazze, anche una strana sconosciuta che aveva nelle vene una buona dose di sangue del più profondo Sud, la Sicilia, dove suo padre, di professione conduttore di vagoni letto, era nato: si chiamava Silvana Mangano. Era insieme con un’amica, più alta e più vistosa di lei, che era già assai vistosa. S’erano conciate per andare dal regista, ma in maniera tale che definirla indecente è già far loro un complimento. Quintali di rossetto sulla faccia, sulle labbra, intorno ai lobi delle orecchie, persino sul naso, credo per sfumarlo. Vestiti attillatissimi, capelli 32 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cotonati. Insomma, un vero disastro rispetto a quello che io cercavo: una presenza contadina, sana, dolce ma allo stesso tempo aggressiva, ingenua ma anche provocante, un po’ goffa come le adolescenti. Ricordo che la Mangano non era tanto interessata a piazzare sé stessa (è un tratto caratteristico del suo carattere generoso e pigro) quanto di mettere in evidenza la bellezza, le forme, la vivacità della sua amica che, invece, era senza dubbio più bella di lei all’apparenza, ma con l’aria un po’ tonta e di broccolona. Me ne liberai dicendo chiaramente che non facevano al mio caso. Intanto continuavo a vedere altre ragazze e a fare provini ad alcune di esse. Ne feci uno anche a Lucia Bosè, da poco eletta Miss Italia, e sulla quale avrei finito per orientarmi se non fosse accaduto che un giorno di pioggia, verso il mese di marzo del ’48, uscivo da un bar in Via Veneto. Ero solo, senza ombrello e senza cappello. Camminavo lungo i muri per non bagnarmi. A un incrocio (esattamente dov’è ora il negozio di calzature Sano) mi scontrai faccia a faccia con una ragazza. Restammo quasi incastrati l’uno dentro l’altro, perché io non mi decidevo a darle il passo e lei, giustamente, non voleva distaccarsi dal muro. Era Silvana: i capelli lunghi color miele sciolti sulle spalle, tutti bagnati dalla pioggia, il volto, purissimo, senza un filo di trucco, due occhi color nocciola di una dolcezza da cane bastonato, un povero impermeabile addosso, forse di un fratello, forse di una sorella, comunque chiaramente non suo, o, se suo, acquistato in qualche mercato di roba americana. E aveva in mano, chissà perché, (ho dimenticato di chiederglielo) una rosa, una sola rosa, una bellissima rosa rossa che teneva tra le dita infreddolite come non fosse una cosa sua: era come portano i fiori le ragazze che vanno spose nei quadri dei naïf. 33 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Silvana con il fiore in bocca durante una pausa delle riprese di Riso amaro.

Fu lei che mi riconobbe per prima, e partì il classico: “Dotto’,” è lei? Rimasi a lungo a guardarla e mentre lei timidamente mi spiegava chi era, e mi diceva che stava uscendo da una sartoria dove andava per ragioni di lavoro, io avevo già deciso che sarebbe stata l’attrice del mio film. Era, finalmente, di quella purezza popolana ma allo stesso tempo aristocratica di cui io avevo biso34 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

gno, di quel candore contadino che conservano sempre molti inurbati anche dopo tanti anni di vita in città, di quella prorompente disponibilità fisica che sentivo vibrare e agitarsi oltre quel misero impermeabile. Era, infine, tutto quello che io avevo cercato per mesi in centinaia di ragazze. Sotto quella pioggia, dove restammo, quasi incantati tutti e due (lei non so proprio di che), a parlare per tanto tempo incuranti di tutto, Silvana appariva ancora più bella di quanto non lo fosse già nella realtà. Era come un’evocazione, qualcosa che andava oltre la concretezza di quel momento, qualcosa di già trasfigurato: con l’acqua che continuava a colarle sulle mani, sul collo, sulle ciglia, da tutte le parti. Ed io dovetti certamente ricordarmi di quella immagine, più tardi nel film, quando la misi, più o meno, nella stessa situazione, sotto la pioggia in una delle scene più drammatiche di Riso amaro. Solo che di fronte, al mio posto, ebbe qualcosa di meglio: Vittorio Gassman! Che però, la frustava e la violentava, sempre sotto la pioggia …. . Ma c’è dell’altro. Di sangue siciliano la Mangano fu costretta a portarsi addosso nel film, a sua insaputa, non sono quello delle sue radici paterne. Un Sud si aggiungeva ad altro Sud: in che modo? Alla giovane protagonista del racconto, i miei collaboratori ‒ Corrado Alvaro, Carlo Lizzani, Carlo Musso, Ivo Perilli, Gianni Puccini – ed io, avevamo affidato il compito di esprimere, con il suo esuberante candore il suo travolgente desiderio di vivere, le inquietudini e i primi turbamenti che percorrono l’animo di chi avverte, sia pure nebulosamente, tutta l’ingiustizia della propria drammatica esistenza di sfruttata e tenta di uscirne ad ogni costo. Ma divenendo, purtroppo, facile preda dei furbeschi ammiccamenti lanciati, all’epoca, dai nascenti persuasori occulti e mass-media, in direzione degli strati sociali più poveri e più sprovveduti. Proprio con il 35 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

supporto di quei fumetti e di tante altre diavolerie che, ingiustamente e senza comprenderne la reale funzione, tanta critica cinematografica imputava a me di scimmiottare. La mondariso Silvana sceglieva l’avventura, e il colpo di fortuna che può decidere tutto in una volta del proprio destino, anziché preferire, come la maggioranza delle sue compagne, il terreno della lotta collettiva, più paziente e certo anche più aspra, ma connaturata alla sua classe, e in definitiva l’unica da battere per conquistare con la democrazia più elevati diritti salariali, e di conseguenza una migliore qualità di vita. Ora, potrà sembrare paradossale e persino bislacco quanto sto per scrivere, eppure concependo la struttura narrativa e i risvolti psicologici di quella particolare figura di ragazza, ancora una volta io inseguivo e ritrovavo la mia identità meridionale attraverso gli stimoli provenienti da un modello letterario ch’era stato il mio più grande amore giovanile, e la mia prima scoperta di verità e poesia nella narrativa del nostro Paese, perché congeniale alla mia esperienza, e alla mia sensibilità educata nel mezzo di un civiltà contadina. Intendo parlare de I Malavoglia di Giovanni Verga e del personaggio più emblematico di quel grande romanzo. Proprio così: 'Ntoni di Padron 'Ntoni aveva assunto nel mio film le sembianze di una inquietante e socialmente fragile ragazza di risaia, e indossato i vestiti di Silvana Mangano. «(…) le prime inquietudini per il benessere … la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio …» avvertiva Verga nella limpida premessa al suo libro. E ora, il discorso iniziato da lui, tanti anni addietro (ricorre proprio quest’anno il centenario della prima edizione de I Malavoglia), nelle più assolate terre del Mezzogiorno d’Italia, di fronte al mare di Scilla e di Cariddi, io ambiziosamente tentavo di prolungarlo nel Nord, e di proiettarlo sullo sfondo delle risaie del vercellese. 36 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Peccati di gioventù: ma quel discorso, sia pure in circostanze e situazioni assai diverse, e in condizioni storiche del tutto mutate, a me sembrava fosse più vivo e attuale che mai. E forse non ebbi tutti i torti se è vero che quel personaggio, benché volto al femminile, riscosse un enorme successo in tutto il mondo (non soltanto per la bellezza della Mangano), e non furono poche le giovani attrici, complici i loro registi (o viceversa) che tentarono di imitarlo, anche fuori d’Italia. Il Sud paterno della Mangano si era sommato a quello letterario di Verga. Ma era storia personale tutta da scoprire, e non si poteva chiedere a chi non si poneva neppure il problema, di indagare per portarla alla luce, e rivelare così qualcuna delle radici e dei significati più penetranti di quel film. La critica cinematografica (per mia sfortuna!) non aveva ancora il vezzo di penetrare il privato e il subconscio, né d’altra parte (sempre, credo, per mia sfortuna!) erano di moda in quegli anni le letture in chiave “onirica”. I critici, nella stragrande maggioranza dei casi, si arrestavano al primo stadio di lettura delle immagini, incapaci di comprendere quelle molteplici stratificazioni successive dentro cui si annidavano, come in un uovo in cova, le passioni, i retaggi, le esperienze, gli umori, le sollecitazioni più disparate, i volti, i paesaggi, i paesi che, di volta in volta, un autore si portava dietro affrontando il suo lavoro. Era accaduto lo stesso anche nel mio primo film Caccia tragica, girato nel ’47, appena un anno prima e poco più di Riso amaro, sempre nel Nord, tra la campagna che circondava Ravenna e le Valli di Comacchio. Era accaduto ch’io riempissi le inquadrature, con una cadenza quasi ossessiva, di decine e decine di biciclette inforcate da contadini avvolti in lunghi mantelli neri, non per puro gioco calligrafico o per il gusto di sottolineare più del necessario (come si scrisse accusandomi di barocchismo) usi, paesaggi e costumi dei luoghi dove il film 37 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

era ambientato, ma piuttosto perché la bicicletta, il mantello nero, insieme con i grandi traìni condotti da buoi, le valli, le anguille, i filari di pioppi, le chiatte che scendevano lungo i canali trasportando bestiame, avevano nutrito da sempre i miei occhi durante tutta quella lunga stagione della mia vita trascorsa tra il lago e la piana di Fondi, mio paese natale nel Sud. Un paese tanto simile, almeno in questi aspetti apparentemente esteriori, a quelle zone del Nord, dove, forse a caso, m’era piaciuto di collocare lo svolgimento della trama del film. Caccia tragica parlava di ricostituzione di cooperative agricole socialiste nell’immediato dopoguerra e delle dure lotte da esse sostenute per sopravvivere contro i mille inganni e tranelli tesi loro dagli agrari e dai fascisti che tentavano con ogni mezzo di distruggerle. Tema impossibile da svolgere dalle mie parti non essendovi tracce di tradizione cooperativistica che potesse somigliare a quella dell’Emilia-Romagna, e dove, quindi, considerata la sua storia con tutte le sue implicazione, era più che naturale e ambientare il film. Ma se per girare io ero a Ravenna e a Comacchio, per comporre immagini, il mio cuore (per dirla con Saroyan) ritornava a Fondi. Ancora una volta un fantomatico cordone ombelicale della mia vita quotidiana, sino a comporsi in una sorta di immaginario familiare che mi seguiva dovunque, come un campionario personale di materiale plastico cinematografico, fatto di simboli, atmosfere, oggetti e presenze, pronto a disporsi in bell’ordine e con naturalezza per essere utilizzato e messo in posa non appena se ne fosse presentata l’occasione. La bicicletta prima di tutto: un amore antico che mi ricorda ancora oggi i primi infantili sentimenti di possesso. Per quelli della mia generazione, infatti, la proprietà privata cominciava con un temperino conquistato chissà come e da custodire gelosamente, e proseguiva subito dopo, raggiungendo l’apice della gioia, con la pri38 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ma bicicletta avuta in regalo, magari dal nonno. Chi ha oggi dieci o anche venti anni appartiene purtroppo alla cultura (o sottocultura) dell’automobile, aggressiva e violenta; chi aveva, invece, come me, la stessa età nel ’27, può dirsi felice di averla vista e di appartenere alla cultura della bicicletta che, sia detto senza ombra di nostalgia, è stata, senza possibilità di confronto, più generosa e serena. Come si poteva, dunque, non esaltarla? Per questo, alla bicicletta io avevo persino dedicato, tra il ’39 e il ’40, quando ancora avevo in animo di fare lo scrittore e il cinema non mi aveva catturato completamente, un divertito racconto che qualche amico più intimo conosce, intitolato La bicicletta di Michele Peppe, un nome e un cognome dal suono buffo ma assai diffuso nel mio paese e in tutto il Sud. Era la storia (narrata volutamente con un piglio tra l’ironico e il magico) di un giovane bracciante, ingenuo e bonario, divenuto campione provinciale di ciclismo e che, un bel giorno, s’innamora di una esuberante ragazzona, contadina anch’essa, spinta ad interessarsi di lui non già per corrispondere al suo amore, ma solo per l’adorazione, morbosa e bizzarra, che nutre verso la sua scintillante, agile ed elegante bicicletta da corsa. Appena può averla tra le mani, infatti, la smonta, la spolvera, la ingrassa, la rimonta per inforcarla di notte, all’insaputa del giovane e nascosta agli occhi di tutti, compiendo, col favore della luna, volteggi, esibizioni e manovre degna di un acrobata da circo equestre. Quando il ragazzo, a lungo andare, comincia a nutrire dei sospetti e, per caso, la scopre, riprende immediatamente possesso della sua bicicletta e, in preda alla più desolata disperazione, fugge affondando i piedi a tutto spiano sui pedali, come se partecipasse al finale di una corsa. Muore, naturalmente, sul lavoro, come si conviene a un vero campione, sbattendo contro un carro che si para davanti, guarda caso, all’improvviso, e che egli, accecato dal dolore, non vede. Sul suo cadavere, s’inten39 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

de, apparirà la ragazza, ma solo per piangere sulla stregata bicicletta, oramai fatta a pezzi. Infine: ai funerali del giovane campione, dietro la bara, accanto ai parenti e ai suoi colleghi ciclisti in tenuta da corsa, sfilerà anche la ragazza, tenendo per mano l’ormai fatidica e inquietante bicicletta, lucida e snella, completamente rimessa in ordine dalle amorevoli cure della surreale proprietaria. A leggere in chiave psicanalitica questo strambo racconto – che si riallacciava, in una vena tutta paesana, al gusto del bontempelliano realismo magico, allora in voga presso un certo clan di giovani con ambizioni letterarie di avanguardia ‒, ci sarebbe ancora oggi, forse, da divertirsi o magari da restare sbigottiti. Comunque: l’avere assunto a protagonista di una storia una bicicletta, per giunta da corsa, non poteva certo essere privo di segni traslati e metaforici che avevano, senza alcun dubbio, una diretta relazione con il semplice dato materiale ch’io vivessi, del tutto felice, circondato da centinaia e centinaia di biciclette tutto il giorno, e che ne volessi, quindi, in tal modo esprimere e sottolineare, inconsciamente, tutto il suo valore di cultura gioiosa. Sino a farne con gli anni una vera e propria ossessione, a giudicare almeno da un aneddoto che riguarda proprio Caccia tragica. Ad un punto cardine della storia, infatti, il copione del film prevedeva un gran raduno di reduci di guerra, provenienti da ogni parte della Provincia, e che avrebbe dovuto concludersi con un gigantesco comizio. Tra l’immensa folla i due protagonisti maschili (interpretati da Andrea Checchi e Massimo Girotti), reduci anch’essi, un tempo durante la guerra grandi amici ed ora in tempo di pace feroci nemici, dovevano incontrarsi e dopo un inseguimento, sempre tra la folla, scazzottarsi all’ultimo sangue. Avrei avuto bisogno per questa scena, di capitale importanza per la serie di risvolti psicologici che determinava in seguito, di almeno mille comparse, e contavo sulla solidarietà delle cooperative agricole 40 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

emiliane e romagnole, sapendo che i produttori del film, l’Associazione Nazionale dei partigiani d’Italia (ANPI), si sarebbero rifiutati di pagarle. Ma mettere insieme un migliaio di comparse, spesa a parte, era inoltre un’impresa quasi impossibile in quei tempi, nonostante la disoccupazione bracciantile. Rischiavo di sopprimere la scena o di accontentarmi di un centinaio di persone che mai avrebbero potuto esprimere quel senso di grandiosità e allo stesso tempo, di eccezionale partecipazione ad una manifestazione che doveva denunciare con grande forza tutti i gravi ed urgenti problemi che si ponevano a quel tempo per i reduci. Per chi ha interesse per questo genere di aneddoti, e ama saperne un po’ di più, aggiungerò che vi furono coinvolti due tra i miei più affettuosi amici e compagni, Pietro Ingrao prima e Antonello Trombadori dopo, inviati dal PCI per dissuadermi dall’impresa e convincermi a tagliare la scena, o quanto meno a trovare una soluzione meno complessa e costosa. Ricordo che ebbi discussioni assai burrascose con i due (pur se improntate a rispetto e stima per quanto stavo facendo), investiti tra l’altro da responsabilità in qualche modo anche personali per aver sostenuto, al momento opportuno, la mia candidatura alla regia del film. Chi fa il mestiere di regista non per avventura, oppure occasionalmente, ma con severità di intenti, sa che niente (o quasi) può essere rimosso dalla mente di un autore quanto è ritenuto talmente indispensabile al disegno di un film da costituire ormai qualcosa di perfettamente incasellato nell’animo come si trattasse di inquadrature già girate, stampate e persino montate. Quindi, nonostante la riconoscenza e l’affetto per Ingrao e Trombadori, tenni con orgogliosa impennata il mio punto: la scena si doveva fare ad ogni costo, pena lo sfascio del film. Ma l’ANPI giunta all’estremo delle sue forze economiche (eravamo quasi alla fine delle riprese che avevano 41 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

richiesto più tempo del previsto) davvero non poteva sopportare la spesa, e c’era, d’altronde, la impossibilità oggettiva di reperire un così altro numero di comparse. Ero proprio disperato, quando, come ai bei tempi, mi venne in mente una vecchia amica: la bicicletta. Avevo avuto d’improvviso un’idea: usare al posto delle figure fisiche dei reduci, il loro mezzo di locomozione, tutte quelle decine e decine di biciclette con le quali s’immaginava che la maggioranza di essi giungessero all’appuntamento del comizio. Ne chiesi ed ottenni un migliaio. Di tutti i tipi. Arrugginite, zoppicanti, distorte, poco importava purché fossero biciclette, il cui costo naturalmente era nulla al confronto di quello delle comparse, e che in provincia di Ravenna (sarebbe successo lo stesso nella mia Fondi) non costituiva alcuna difficoltà di trovare e di radunare, essendo diffuse, allora, su quella pianura, come le mosche a Napoli. Le feci disporre a gruppi di cinque o sei – incastrate l’una nell’altra diritte in piedi come usavamo da ragazzi durante la pausa di una gita – su di un enorme spiazzo circondato da macerie e case semidistrutte dai bombardamenti. Una selva di biciclette, e nel silenzio che gravava su di esse feci cadere, grave e drammatica, la voce trasmessa da un altoparlante di chi svolgeva il comizio, fuori campo, a pochi metri di distanza. L’effetto era sorprendente: tutti i contenuti di una guerra combattuta inutilmente, di una disoccupazione contadina e operaia, di una ricostruzione da iniziare con urgenza, erano là tra quelle macerie e quelle biciclette momentaneamente abbandonate. Bastava immergervi i protagonisti del film (come infatti avvenne) per essere dentro il comizio con più evidenza e maggiore forza ideologica e ottenendo un risultato più suggestivo, più elevato di quanto avrei di certo raggiunto persino tuffandomi con la macchina da presa tra mille comparse. E, ciò che più mi premeva, 42 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

con un risultato cinematograficamente meno noto. Due uomini disperati, soli, l’uno di fronte all’altro, pronti ad uccidersi forse, tra un mare di manubri, telai, ruote, selle, raggi, pedali, – testimonianza incombente della loro comune condizione proletaria –, che dopo essersi violentemente scontrati, finiscono per rappacificarsi ritrovando l’antica amicizia: era una vittoria, anche della cultura della bicicletta.

Festa paesana in Ciociaria alla fine degli anni quaranta con le immancabili biciclette.

Chi conosce il film può giudicare meglio di me se ebbi torto o ragione a decidermi, sia pure per costrizione, ad adottare questa idea. Agli storici del cinema in cerca di curiosità (ammesso che qualcuno di essi voglia farmi l’onore di leggere queste note), vale la pena forse di 43 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ricordare che più tardi, molto più tardi, un altro regista, Jean Luc Godard, in un bellissimo brano del suo brutto film Week-end (brano del resto assai citato contrariamente a quanto avviene per quello di Caccia Tragica, ritenuto evidentemente non degno di memoria) esprimerà con lo stesso effetto di simbiosi, tra oggetto e persona, ma in una chiave totalmente rovesciata, come del resto si conveniva, in una chiave cioè di strage e di paradossale carneficina, il proprio disgusto per la macabra (sotto) cultura dell’automobile. Quanto a Ingrao e Trombadori, dopo tanti anni non ricordo a quale dei due la scena non piacque e mi rimproverò di averla trasformata a quel modo, senza le comparse, mollando e dandola vinta ai produttori! A me resta ancora oggi il conforto che quelle biciclette del Nord con la loro amorosa presenza fossero venute in aiuto di una ossessione maturata anni addietro nel mio lontano paese del Sud. Ecco perché Meridionali si nasce, ma è anche vero che ci si può diventare. A me, infatti, è successo l’una cosa e l’altra. Ci sono nato, ma essendo stato trasferito in città giovanissimo, senza mia diretta responsabilità, meridionale ci sono anche diventato quando, in seguito, per sfuggire al rischio di avvilire nel ruolo di emigrante grigio e senza umori, mi sono tuffato nella complessa ma necessaria ricerca di una chiara identità e di veri connotati, di radici certe e di valori identificabili sui quali contare: in ogni momento. Perché io ho citato sinora avvenimenti che riguardano alcuni dei miei film ambientati e pertanto girati nel Nord, ma cosa sarebbe avvenuto, invece, di un altro mio film: La strada lunga un anno, scaturito dalle viscere del Sud ma per causa di forza maggiore girato nel Nord, se non avessi potuto contare, appunto, su questa sorta di mia doppia meridionalità? Anche se il Nord, in questo caso, era la Jugoslavia, un Paese cioè popolato da Slavi che per essersi insediati 44 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

(non so più quanti secoli fa) su quelle terre dell’Illiria al Sud di altri Slavi, sono per questo denominati Slavi del Sud. Jug, infatti, come è noto, nella loro lingua vuol dire Sud. Ma Jug o non Jug per me era Nord. Un Nord più segreto e misterioso, più intricato e contradditorio di quanto non lo fosse già abbondantemente il mio Mezzogiorno che pure, proprio lui, condivideva con questi Slavi del Sud più di una disgrazia, e prima fra tutte quelle sanguinose occupazioni e truci scorribande guidate da Turchi e da pirati Saraceni tra costa e costa. Tuttavia, c’era da fare i conti con tre religioni diverse: la cattolica, l’ortodossa e la musulmana e con una pluralità di lingue che andavano dal serbo-croato al macedone, dal turco all’albanese, sino all’italiano parlato però in veneto. Non restava, dunque, che aggiustarsi e ritirarsi in quell’angolo del nostro idioma, ‒ del resto non proprio ristretto ed angusto ‒, dove almeno sarebbe stato possibile intendersi, sia pure parlando in un dialetto che non somigliava davvero a quella della mia Ciociaria. Ma qual era la causa di forza maggiore che mi aveva condotto dagli ulivi della mia pietrosa regione, dove avrei dovuto girare il film, al quercioso ed aspro retroterra della Dalmazia jugoslava? La strada lunga un anno è un film raro (ben inteso solo per la sua reperibilità) che in Italia conoscono solo pochi intimi essendo uscito qua e là in alcune città capozona, ma rapidamente tolto dalla circolazione dopo un paio di giorni di proiezioni, quasi temendo che diffondesse il colera: un colera politico, naturalmente. Eravamo nel ’58, ma il film era stato scritto – da Maurizio Ferrara, Tonino Guerra, Elio Petri, Gianni Puccini, Mario Socrate e dal sottoscritto – almeno tre anni prima, nel ’55. E si ispirava ad una delle più singolari ed estrose forme di lotta che il movimento operaio e contadino italiano abbia inventato e condotto durante gli anni cin45 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

quanta, in particolare nelle regioni del Sud, vale a dire quella esperienza passata alla storia col nome di sciopero a rovescio. Si trattava molto semplicemente ma altrettanto vigorosamente di coniugare alla rovescia il verbo scioperare. Anziché usare contro il padrone, o chi ne faceva eventualmente le veci, la tradizionale arma dello sciopero astenendosi dal lavoro e incrociando le braccia per obbligarlo a rispettare i propri impegni o ad assumerne degli altri, questa volta, con lo sciopero a rovescio, operai e contadini, di fronte alla minaccia di mesi e mesi di disoccupazione cui li costringeva il padrone sostenendo che il lavoro non c’era, rispondevano non solo trovandolo, e quindi dimostrando che quando si voleva il lavoro c’era, ma addirittura eseguendolo e iniziando le opere senza attendere alcuna autorizzazione e senza richiedere, almeno nel primo momento, alcun pagamento. Poi, lo Stato di agitazione permanente in cui veniva mantenuta la lotta da parte degli scioperanti a rovescio, faceva sì che, infine, fosse sistemata ogni cosa, anche per evitare scandali pubblici o rivalse ancora più gravi sia economiche che morali. I termini classici del rapporto produttivo proletario-padrone si trovavano così ad essere rovesciati da una pratica rivoluzionaria del tutto nuova e imprevedibile, e le braccia al posto di restare incrociate venivano adoperate per lavorare. Era una strategia astuta e vitale largamente pagante. Quasi una guerriglia del lavoro. E in quegli anni fu comunemente assunta soprattutto nei confronti di grandi agrari del Mezzogiorno, assenteisti sul mercato dell’occupazione, di complessi industriali che minacciavano di chiudere per esclusivo tornaconto personale, e, in modo ancora più massiccio, verso Enti di vario tipo, Consorzi di bonifica, Comuni pigri e passivi nell’impiego di mano d’opera e della spesa pubblica. Insomma: una vera e propria trovata, si sarebbe detto in gergo 46 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cinematografico. E allora perché non raccontare le storia di una di queste lotte in un film? Ma, se lo spirito che animava quel movimento di disoccupati poteva sollecitare la mia fantasia e quella dei miei collaboratori, l’idea di un film che evocasse quelle lotte non doveva certo piacere ai nostri governanti di allora. Correvano anni bui per la democrazia italiana. Con i suoi cosiddetti governi centristi, sorretti da liberali e socialdemocratici, la democrazia cristiana cominciava ad allargare con una voracità e rapidità sorprendente il proprio potere: ministeri, enti pubblici e privati, banche, grande stampa d’informazione, polizia, radio, servizi segreti, scuole, magistratura, tutto veniva piegato al suo volere, con la complicità manifesta della Chiesa e del Vaticano. Di null’altro ci si preoccupava in quei governi che di respingere e spezzare qualsiasi spinta venisse dalle forze popolari aggregate nei partiti della Sinistra, nei sindacati o in organismi di lotta per l’emancipazione dal bisogno o il rispetto delle libertà democratiche sancite dalla Costituzione. Correvano anni in cui le forze di polizia uccidevano, sparando sui contadini che occupavano le terre incolte dei latifondi meridionali; sparavano , uccidendo, sui dimostranti che manifestavano sulle piazze per il diritto al lavoro e per la conquista di migliori condizioni di vita nelle fabbriche, sui campi, negli uffici ministeriali e no; si attentava alla vita di grandi figure del sindacalismo e dei partiti operai; nascevano liste di proscrizione contro tutti gli intellettuali e artisti in odore di socialismo avanzato (ne ricordo una che riguardava espressamente solo registi e attori di cinema apparsa sulle colonne del «Messaggero»): si dava l’ostracismo, con imponenti campagne di stampa – cui non disdegnavano di partecipare, in nome della lotta al marxismo, ampi settori di forze laiche – a tutto ciò che poteva suonare sospetto di rinnovamento culturale a favore delle classi subalterne. 47 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Del resto, non era trascorso molto tempo da quando un oscuro Sottosegretario allo Spettacolo, un democristiano contro il cinema neorealistico italiano e i suoi autori più rappresentativi, ‒ impegnati a svelare con appassionato vigore e civile coraggio i mali antichi e nuovi, le assurde contraddizioni, le arretratezze e i nuovi ritardi che affliggevano l’Italia ‒, pronunciò quel famoso anatema destinato purtroppo ad avere grande successo: «I panni sporchi si lavano in famiglia». Era questa la parola d’ordine lanciata in quegli anni dal governo dal giovane onorevole Giulio Andreotti, ma si sa che, ad onta di tutto, di panni da lui ritenuti sporchi (che avrebbero dovuto costituire, invece, l’orgoglio intellettuale di una Nazione per l’enorme successo che seppero conquistare in tutto il mondo) il neorealismo italiano ne lavò parecchi, in ogni senso, se si considera il numero notevole di capolavori cinematografici che fu capace di produrre prima di essere costretto ad abbassare la testa. La strada lunga un anno, insieme con Rocco e i suoi fratelli di Visconti e Il bandito Giuliano di Rosi, fu forse uno degli ultimi tentativi compiuti dal cinema italiano, a cavallo degli anni sessanta, di opporre una netta e orgogliosa resistenza al disegno tutto politico e democristiano di colpire e distruggere il neorealismo cinematografico almeno nei suoi connotati più autentici e rivoluzionari di vera e propria creazione di una nuova cultura, sconosciuta sino allora all’insieme dell’arte moderna italiana, perché espressione, finalmente, non più di interessi e di gusti ristretti di ceti privilegiati, ma delle esigenze di intellettualità delle grandi masse popolari, e insieme profonda coscienza critica dell’intero Paese. Fare strage di questo grande avvenimento artistico che fu senza dubbio il più importante di tutto il nostro dopoguerra (e non solo del dopoguerra), significava, tra l’altro, interrompere una chiara e bella profezia di Anto48 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nio Gramsci secondo cui: «La premessa di una nuova letteratura non può non essere storica, politica, popolare: deve tendere ad elaborare ciò che già esiste, polemicamente o in altro modo non importa; ciò che importa è che essa affondi le sue radici nell’humus della cultura popolare così com’è, coi suoi gusti, le sue tendenza, ecc. ecc., col suo mondo morale e intellettuale, sia pure arretrato e convenzionale». Che era quanto gli autori del migliore cinema italiano avevano fatto e volevano continuare a fare, eleggendo a protagonista della loro letteratura tutto un humus rappresentato da operai, contadini, piccoli impiegati, partigiani, pescatori, pur senza avere mai letto, nella stragrande maggioranza dei casi, gli scritti di Gramsci, e provenendo ognuno di essi da indirizzi, culture, e posizioni politiche spesso diverse e contrastanti. E chissà, forse di fronte al loro esempio di grande compattezza ideologica nella non sospetta diversità, di fronte al forte spirito laico dei loro intenti artistici, lo stesso Gramsci, oggi, avrebbe potuto per lo meno sfumare i termini di un’altra sua pregnante annotazione: «I laici hanno fallito al loro compito storico di educatori ed elaboratori della intellettualità e della coscienza morale del popolo-nazione, non hanno saputo dare soddisfazione alle esigenze intellettuali del popolo: proprio per non aver rappresentato una cultura laica, per non aver saputo elaborare un moderno “umanesimo” capace di diffondersi fino agli strati più rozzi e incolti, come era necessario dal punto di vista nazionale, per essersi tenuti legati a un mondo antico, quanto meschino, astratto, troppo individualistico e di casta». Il neorealismo cinematografico e quel gruppo di cineasti raccolto intorno al suo movimento non avevano davvero fallito al loro compito storico: erano stati certamente tra i laici più conseguenti nell’elaborazione di un moderno “umanesimo”; e c’è da augurarsi che analisi e autocritiche nuove e approfondite portino, un giorno 49 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

non lontano, chiunque si adoperò per sconfiggerli alla presa di coscienza di essersi resi complici di un’operazione politica tra le più ciniche e turpi che le forze più retrive della democrazia cristiana abbiano condotto in Italia contro la cultura. Che sappia riconoscere di avere partecipato (e voglio anche credere che per qualcuno sia avvenuto in perfetta buona fede ideologica) al subdolo e oscurantistico piano di rigettare i laici – quel gruppo di cineasti laici – di nuovo nell’alveo del loro antico e tradizionale fallimento storico. Chiunque, allora, suggestionato dal sorgere di nuove tendenze (che, beninteso, avevano tutto il diritto di esistere ma non a condizione della morte di altre), e preoccupato soprattutto di essere giudicato fuori moda, scrisse e predicò, anche da Sinistra, da tutta la Sinistra salvo rarissime eccezioni, che il neorealismo cinematografico aveva compiuto la sua stagione, che il neorealismo moriva perché incapace di rinnovarsi, e non so più quante altre irragionevoli ragioni, dovrebbe saper riconoscere di aver dato, inconsapevolmente, un valido appoggio al compiersi di una strage contro l’arte, calcolata e voluta da un certo potere politico “costi quel che costi.” Il neorealismo era in quegli anni solo all’inizio del suo cammino. Ciò che aveva prodotto costituiva solo il primo taccuino d’appunti di un discorso che avrebbe dovuto – questo sì – allargarsi sempre più, essere approfondito sempre meglio, divenire sostanza cinematografica sempre più stimolante, sempre più critica, sempre più umana del mondo popolare. Ma non gliene fu dato il modo e il tempo. Si lottò contro. ***

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S’era cominciato a scrivere già dalla metà degli anni Cinquanta, abbagliati dai primi segnali di un deviante boom economico, che i personaggi al centro di tanti film neorealistici – brutti, sporchi e cattivi, come direbbe il mio amico Scola – non facevano più parte della realtà italiana, e che fossero divenuti ormai incredibili e privi di qualsiasi verità quando apparivano sugli schermi. Si descriveva, al confronto, un’Italia dove, tra il ’55 e il ’60, mancava poco che i ladri di biciclette, afflitti da troppo lavoro, se ne andassero in giro in Mercedes a controllare il lavoro di attacchinaggio di manifesti, operato ormai non più da uomini ma da macchine automatiche inviateci dagli USA; dove la terra in Sicilia non tremava più perché i pescatori possedevano vaporetti per gitanti e pescherie private; dove i paisà(ni), sparsi in ogni angolo del Sud, venivano invitati al Nord con prodigiose offerte di occupazione e si rifiutavano di emigrare perché già ricchi a sufficienza; dove a Roma non solo alle ore undici ma a tutte le ore del giorno le dattilografe venivano rincorse dai datori di lavoro per essere assunte; dove gli Umberto D,P,C,S raggiunte pensioni da alti funzionari, si prodigavano nelle elemosine a quei pochi sparuti disoccupati fermi ai cantoni delle strade perché non avevano alcuna voglia di lavorare. Spariti i suoi protagonisti, si diceva, sparivano le ragioni di fondo che avevano dato vita al neorealismo, e con la sua fine era naturale che svanisse del tutto anche la sua poetica. Ma, ironia a parte, pure ammettendo che in quegli anni alcuni dati potessero avere un indice di reale consistenza del resto registrato ampiamente, già allora, in alcuni casi con incisivo sapore grottesco, dalle prime manifestazione di commedia all’italiana, l’errore consisteva nel confondere la parte con il tutto: la formica con l’elefante. Intanto, ciò che cambiava non faceva che arrecare, quasi sempre, altri guasti. La sua immagine più visto51 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sa o illuminante erano i grandi centri urbani, presi d’assalto, con la volontà dei governi e delle amministrazioni democristiane, da governi e dalle amministrazioni democristiane rapaci filibustieri del cemento, e prendeva corpo nello stravolgimento delle grandi arterie di comunicazione al cui posto si apparecchiavano autostrade e superstrade secondo un disastroso piano di sviluppo economico, asservito solo agli interessi del capitale finanziario dei potenti monopoli dell’industria dell’auto e dei suoi affini. Ma era, appunto, la formica: in quegli anni! E il resto? Tutto il resto? L’Italia viveva nelle campagne, nei paesi, sui latifondi, nelle fabbriche grandi e piccole, sulle montagne, nelle squallide periferie di città, nella sua sterminata e buia provincia dove, invece, l’elefante, pur con il tanto decantato mutare dei tempi, camminava ancora con il passo lento e imperturbabile della conservazione, senza mai decidersi a imboccare la strada del suo cimitero. Nessuno negava la crescita civile di larghi strati di popolazione, il mutare delle coscienze alla democrazia, un certo diffuso benessere anche tra i ceti popolari, la conquista di migliori rapporti tra cittadino e lo Stato in tutti i suoi molteplici aspetti e in tutte le sue molteplici espressioni. Ma s’è visto, persino a distanza di più di vent’anni, s’è visto con le drammatiche immagini televisive del terremoto nella Basilicata e nell’Irpinia2, quanto mutato sia il volto emerso dalle macerie del contadino meridionale, che a me è sembrato venirmi incontro dal più profondo delle inquadrature di Non c’è pace tra gli ulivi, un mio film del 1949, s’è visto con i disoccupati e i senza tetto di Napoli come sia sparita la piaga della disoccupazione e della fame di case nel Mezzogiorno 2  Il terremoto dell’Irpinia del 1980 fu un sisma che si verificò il 23 novembre 1980 e che colpì la Campania centrale e la Basilicata centro-settentrionale.

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d’Italia; s’è visto con gli ultimi grandi scioperi alla Fiat di Torino quanto cambiati siano nei loro comportamenti sociali gli operai italiani. Altro che scioperi a rovescio! Menzogne sopra altre menzogne. Tutti quei personaggi perdevano ora, con la strage del neorealismo, il loro più grande, più disinteressato, più incisivo alleato culturale nella battaglia per i loro diritti, nella denuncia del loro stato umano, nello scavo delle loro virtù come dei loro difetti. Un alleato che non sarà più possibile riconquistare se non a condizione di una grande svolta di rinnovamento politico e di una nuova, geniale impennata di tutte le forze del cinema italiano. Fu, dunque, a causa degli effetti e delle conseguenze di questa strage (ancora sotto gli occhi di tutti nel cinema italiano, oggi forse più di ieri) che io mi trovavo in Jugoslavia, dopo avere tentato per circa tre anni di incontrare una casa cinematografica disposta a cimentarsi con i copioni de La strada lunga un anno. A dire il vero qualcuno interessato al progetto l’avevo incontrato, e per ben due volte (che era tanto per quei tempi), ma era stato regolarmente consigliato dai censori della Direzione Generale dello Spettacolo di tenersi alla larga dal film. I premurosi funzionari dell’epoca, Nicola De Pirro e il suo degno assistente Scicluna Sorge, che dopo aver servito fedelmente il fascismo in quella stessa sede servivano ora con immutata fedeltà il potere democristiano, evidentemente ritenevano che le lotte di migliaia di disoccupati per la conquista del lavoro e per sfuggire alla fame, non fossero argomento degno di essere portato sullo schermo. E a quei tempi chiunque avesse osato disubbidire ai loro paterni consigli si sarebbe sentito negare immediatamente il credito cinematografico istituito per legge presso la Banca Nazionale del Lavoro, indispensabile a qualsiasi persona volesse produrre un film, ieri come oggi. A meno di non essere in grado di affrontare da soli l’intero costo di un progetto, e affidarsi 53 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

poi alla buona sorte del libero mercato della distribuzione, nella speranza di un rientro dei capitali impiegati in seguito al successo del film. Ma produttori di questo tipo in Italia, ieri come oggi, non sono mai esistiti, e del resto, ammessa anche l’ipotesi della loro esistenza, i suddetti guardiani della salute pubblica e sociale del cinema italiano, sarebbero riusciti a far giungere i loro consigli persino alle case di distribuzione, e quand’anche non bastasse ai proprietari di cinema. Non c’era scampo, dunque. Ma io avevo deciso che La Strada lunga un anno, a qualsiasi costo, doveva esser fatto. Amavo molto quel film. Era la lunga odissea dei disoccupati di un intero paese di collina a cui manca una vera strada di comunicazione che possa condurli verso gli sbocchi commerciali e più civili della valle, e pertanto decidono da un giorno all’altro di costruirla anche contro la volontà di tutte le autorità comunali e provinciali. Insieme ai miei collaboratori avevo dedicato mesi di lavoro al copione, costruito sulla base di inchieste fatte sui luoghi dove si erano verificati episodi veri di scioperi a rovescio somiglianti alla nostra storia, interrogato protagonisti di quegli stessi episodi, vissuto con loro giornate e settimane intere che regolano lo stato di indigenza e di disoccupazione. Fame e miseria, storie personali dal sapore patetico, nodi di interessi spesso divergenti, si intrecciavano infatti quasi sempre con frustrazioni e malesseri di varia natura. Infine, si trattava per me di approfondire ancora meglio l’esperienza già fatta con un altro copione, Noi che facciamo crescere il grano, ispirato al movimento contadino per l’occupazione delle terre incolte in Calabria (scritto in collaborazione, tra gli altri, con Corrado Alvaro, Fortunato Seminara e Libero de Libero) e che, come al solito, interventi censori e governativi, sottobanco, mi avevano ogni volta impedito di realizzare. Ma, pur non avendo trovato un fortunato sbocco finale, in ogni 54 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

senso, era una tappa fondamentale per ciò che io consideravo la mia crescita come autore cinematografico. Dal breve racconto chiuso tra pochi sparuti personaggi, dal taglio da novella semplice e dai contorni piani sulla civiltà contadina del Sud, come erano stati i miei film: Non c’è pace tra gli ulivi (1949) e Giorni d’amore (1954), ora passavo a misurarmi con un impianto da romanzo più complesso, con una struttura da affresco più impetuosa, dove in un disegno narrativo dalle cadenze articolate secondo il mutare delle stagione nel corso di un anno (ma non è anche questa la struttura de L’albero degli zoccoli di Olmi?), erano presenti singole trame individuali esaltate però da problematiche sociali di ampio respiro collettivo. Era un salto di qualità indispensabile per andare avanti nella crescita che avviasse un rinnovamento nella sostanza e nel linguaggio del mio cinema, ed io, oramai, da troppo; ‒ Un marito per Anna Zaccheo (1953), Uomini e lupi (1955), ‒ languivo nell’attesa dell’occasione propizia per farlo. Ma, con tutta evidenza, non potevo chiedere al cinema italiano, e alla cultura del momento, ciò che né l’uno né l’altra, come avevo già sperimentato con il film sull’occupazione delle terre incolte, non potevano in alcun modo darmi, o non erano disposti a dare, in particolare, a me personalmente. L’emigrazione fu, quindi, quasi un dovere civile, proprio alla maniera di tanti nostri uomini politici durante gli infausti anni del fascismo. E ciò non credo che faccia onore a chi, in un modo o in un altro, ne fu responsabile in quel momento. Emigrare nel migliore dei Paesi possibili al mio cinema, andarmene a lavare i panni sporchi del mio Sud in Jugoslavia, dove tuttavia per la stima e l’affetto di chi fui circondato, per la libertà di lavoro e d’espressione che mi furono consentiti, per la somma elevata di esperienza umana e sociale che riuscii ad accumulare nel corso del55 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

la lunga lavorazione al film, fu per me, invece, a dispetto di tutti i miei censori, come andare a risciacquare i panni in Arno di buona memoria. Ancora una volta era comparso sulla scena (come in verità è accaduto spesso nei momenti più difficili della mia contorta avventura cinematografica), il mio vecchio amico e compagno Antonello Trombadori insieme con il giornalista jugoslavo Frane Bazhieri, anche attraverso la collaborazione culturale offerta dal mio film, un primo sostanziale riavvicinamento tra i Partiti comunisti dei due Paesi, in un momento assai delicato ma di interessanti aperture nella politica internazionale. Sicché potrei quasi dire, con una punta d’orgoglio e un pizzico di civetteria, che La strada lunga un anno fu, in qualche maniera, un po’ quello che più tardi, molto più tardi, sarà per cinesi e americani una modesta partita di ping-pong. Girai, come ho già detto, tutto il film in Dalmazia, e, nonostante avessi preso l’impegno con i miei produttori jugoslavi di premettere ai titoli di testa del film (come difatti avvenne) una diplomatica didascalia che spiegasse come i fatti narrati si svolgevano in un paese immaginario, mi adoperai in ogni modo, con testarda ostinazione e rabbia mai placata, per rinvenire strade, angoli, scorci, villaggi, colline, piante, case, volti, erbe, animali, tutto quanto insomma potesse somigliare nei più minuti dettagli alla mia Ciociaria, dove gli illustri ed eccellenti mandanti dei vari De Pirro e Scicluna Sorge mi avevano impedito di girare il film. Ora non potevano impedirmi, però, ad ogni proficuo avanzamento della lavorazione, di affacciarmi di tanto in tanto sulla sponda jugoslava dell’Adriatico e, guardando verso l’Italia, inviar loro un saluto di classico anche se beffardo ossequio, in voga particolarmente a Roma, e consistente nel protendere un braccio in avanti a mano chiusa per farlo vibrare, poi, fortemente nel vuoto, con rapide scosse, a più riprese. Chissà se l’hanno mai intercettato! … 56 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Tornato a casa (dopo un anno appena, dal ’57 al ’58 trovai l’Italia che era tutta un distributore di benzina!), quando si trattò di approntare l’edizione del film in lingua patria, doppiai tutti gli attori (compresi quelli italiani, Silvana Pampanini, Eleonora Rossi Drago e Massimo Girotti che affettuosamente e per un magro salario mi aveva seguito nell’impresa) con una stretta cadenza meridionale, cosicché potesse svanire definitivamente anche l’ultima idea di Paese immaginario. Mi auguro che miei produttori jugoslavi, dopo tanti anni, m’abbiamo ormai perdonato. Due cose mi restano ancora da dire su questo film al quale temo di avere dedicato troppe pagine, per affetto intramontabile forse; e me ne scuso. La prima: il film a distanza di oltre vent’anni non è mai più uscito in Italia, mentre negli Stati Uniti al suo primo apparire fu incoronato da una serie di premi ai quali i miei film non erano di certo abituati: a) Nomination per l’Oscar al miglior film in lingua straniera 1959; b) Globo d’oro della stampa cinematografica di Hollywood al miglior film straniero dell’anno 1959; c) Premio a Massimo Girotti per la migliore interpretazione maschile al Festival di San Francisco 1959. Pertanto, la cura particolare con cui si è evitata l’uscita de La strada lunga un anno sugli schermi italiani, nonostante le molte decorazioni ottenute sul campo nord-americano, dimostra ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, quanto infondata sia l’accusa rivolta sempre dalle forze di sinistra ai nostri governanti di essere politicamente e culturalmente, in ogni occasione, al servizio del loro potente alleato d’oltreoceano. Ecco un ultimo segno di disubbidienza: limpida, civile, energica e patriottica. Complimenti! La seconda: mi dicono che in Jugoslavia all’uscita del film l’entusiasmo e il successo furono tali da determinare, nonostante il Paese immaginario, in cui parecchie zone sono prive di strade, veri e propri casi di sciopero a 57 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

rovescio, alla maniera di quello da me raccontato. Ecco un ultimo segno, anche questo, che …. persino da quelle parti fiorisce la disubbidienza, e che ogni socialismo costruisce, secondo le sue scelte, le proprie strade. Complimenti, quindi, anche al mio Sud, ricostruito presso gli Slavi del Sud, dove tra l’altro, a giudicare dagli eventi, accadeva di toccare con mano che fare un film piuttosto che un altro può non essere del tutto inutile. Intanto, ora che di strade me ne intendevo, e avevo imparato a conoscere tutte quelle che conducevano nei Paesi del socialismo reale e no, mi toccò in sorte, qualche anno più tardi (1962-63), di emigrare ancora più a Nord, e di perdermi tra le distese di nevi e i campi di girasoli dell’Ucraina Sovietica nell’onesto, anche se troppo ambizioso tentativo di ricostruire nel film Italiani brava gente, in un affresco di spoglio impianto corale e con il massimo di umana pietà, la leggenda di altre migliaia e migliaia di contadini del Mezzogiorno d’Italia in veste di soldati, travolti insieme ad altri da quella funesta ritirata cui fu costretto un esercito, irresponsabilmente inviato dal fascismo ad uno dei più tragici massacri che la storia della seconda guerra mondiale ricordi. Un’altra fetta del Sud, questa volta la più angosciosa e umiliante da me raccontata in un Paese del Nord. Non andò tutto liscio, naturalmente. Denunciato per vilipendio dalle Forze Armate Italiane, me la cavai con un’assoluzione per non aver commesso il fatto. Ministro della Difesa era al quel tempo (chi si rivede!) l’onorevole Giulio Andreotti3. Ma sarebbe davvero troppo lungo 3  Ripensando ai commenti di De Santis e al Ministro Andreotti mi viene spontaneo citare I Viceré’ di Federico De Roberto: «In politica, Vostra Eccellenza ha serbato fede ai Borboni, e questo suo sentimento è certo rispettabilissimo, considerandoli come i sovrani legittimi… Ma la legittimità loro da che dipende? Dal fatto che sono stati sul trono per più di cento anni… Di qui a ottant’anni Vostra Eccellenza riconoscerebbe dunque come legittimi anche i Savoia… Certo, la monarchia assoluta tutela meglio gl’interessi della nostra casta; ma una forza superiore, una corrente irresistibile

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raccontare la storia dei miei eventi a proposito di questo film e … di tanti altri sulla civiltà contadina del Sud che ancora sognano di uscire dal buio dei miei cassetti. Se, per avventura, i miei cinque lettori avessero voglia di conoscerla, mi auguro che non mi si negherà lo spazio per farlo. Mi sia concesso, tuttavia, per amore di poesia ma con tutta umiltà, di parafrasare su questa estesa memoria alcuni di quei magici versi di Ungaretti appena accennati in epigrafe, e accomiatarmi dicendo: Questi sono i miei film / contati nel Sud / Questa è la mia nostalgia che in ognuno / mi traspare …» *** Oltre ai commenti di De Santis, potremmo aggiungere quelli di Ugo Pirro che alla domanda su quale immagine del Mezzogiorno sia stata rappresenta dal cinema italiano del dopoguerra, ha risposto: «Nel dopoguerra c’è stato un interesse del cinema per il Mezzogiorno. Ma questo interesse, a mio avviso, è stato determinato dal fatto che, come sempre, protagonisti sono stati i contadini e le masse del Mezzogiorno; è stata l’epoca delle lotte contadine e a questo vi è stata una risposta da parte del cinema. Voglio dire che il cinema ha bisogno di individuare dei protagonisti sociali per potersi esprimere. Ad esempio ci fu, allora, un documentario di Lizzani4. […] Ci fu il tentativo di De Santis di fare Il nostro pane quotidiano sull’occupazione delle terre. Io stesso sono entrato nel cinema con un soggetto ambientato in Puglia: una storia di due analfabeti che si chiamava Ti scrivo questa lettera. […]. Le lotte contadine, l’ha travolta… Dobbiamo farci mettere il piede sul collo anche noi? Il nostro dovere, invece di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servirsene!». I Viceré di Federico De Roberto, Pistoia, Informapress, maggio 2020, p. 636. 4  Si riferisce a Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato di Carlo Lizzani.

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quindi, divennero il tema di un certo cinema dell’epoca. Si può dire che man mano che le lotte contadine si affievolirono, sorsero altri protagonisti. Ci si occupò del Mezzogiorno prima come fatto di costume ‒ ricordiamo i film di Pietro Germi ‒ e poi come ricerca sociologica sulla vecchia mafia, ancora con altri film di Germi. È curioso poi il fatto che le tematiche del Mezzogiorno spesso siano state affrontate da registi che non sono del sud, Lizzani, Damiani, Petri. Penso addirittura che un regista come Damiani non esisterebbe se non avesse fatto film sul Meridione. Poi c’è tutta una storia sui progetti che non sono stati realizzati»5. Il cinema cerca protagonisti e i protagonisti sono i mafiosi. Ugo Pirro racconta i fatti ma non approfondisce i motivi e i risvolti politici. Il passaggio dal neorealismo ai film di genere quando era avvenuto? «Dal punto di vista del costume, credo che sia avvenuto con i film di Germi. Non vorrei essere troppo meccanicista, ma a me pare che, con i film di Germi, si abbia la scoperta di abitudini e di un costume arrestato che riguarda il Mezzogiorno. Ciò avviene dopo il fallimento della lotta contadina e dopo la riforma agraria. Ricordo che, con De Santis, dovevamo fare un film sulla riforma in Puglia. Si intitolava Pettotondo. Era ispirato ad un canto popolare pugliese. In quell’occasione andammo in Puglia a vedere gli effetti della riforma agraria, per constatare cosa era successo, e a noi sembrò un gran fallimento. La lotta, la spinta contadina era finita e l’interesse del cinema si era rivolto soprattutto alla piccola borghesia. La piccola borghesia cominciava ad essere protagonista della vita nazionale».

5  Pasquale Iaccio, Il Mezzogiorno tra cinema e storia. Ricordi e testimonianze. Napoli, Liguori Editori, 2002, p. 62.

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Alcune mie riflessioni sull’inattività di Peppe De Santis

Il destino di Giuseppe De Santis come regista è piuttosto insolito. All’inizio è stato lodato come critico cinematografico della rivista «Cinema», in particolare per le sue recensioni e per gli articoli che anticipano nuove tendenze nel cinema nazionale italiano; poi come aiuto regista di Visconti, Vergano e Rossellini ed infine per il suo debutto alla regia di Caccia tragica nel 1947. Il suo primo film fu caldamente accolto dai critici italiani, i quali apprezzarono il talento e la maestria tecnica del giovane regista. In Francia fu accolto come uno dei migliori esempi del nuovo cinema italiano; Georges Sadoul scrisse: «Caccia tragica è uno dei capolavori della scuola italiana, merita di essere accostato a Paisà, Sciuscià e i Il sole sorge ancora. La scuola italiana è, in questa parte dell’Europa, quella che guarda più spesso per la strada. Il suo messaggio ci giunge tanto meglio in quanto è in parte generato da Renoir e Feyder, e ci arriva in un’epoca in cui un ampio settore del nostro cinema rasenta la mediocrità o l’accademismo. La profonda sensazione provocata a Parigi dalla presentazione di Ladri di biciclette, capolavoro di De Sica e della giovane scuola italiana, dimostra che abbiamo molto da imparare da queste lezioni che oltrepassano di nuovo le Alpi, e ci ritornano. Forse non esiste, da dieci anni, un film che abbia meglio “guardato per la strada” di Ladri di biciclette»1. 1  Georges Sadoul in "Caccia tragica" un inizio strepitoso. «Quaderni dell’Associazione Giuseppe De Santis», Grafiche PD Fondi, p. 16.

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Umberto Barbaro scrisse: «[…] La storia è raccontata con grande chiarezza e speditezza. Per cui, salvo qualche incertezza di recitazione resa più evidente da un doppiaggio e una sincronizzazione infelice, e salvo qualche cadenza mal ritmata, il film può dirsi davvero eccellente e tale da fare onore non solo a un regista esordiente, [...] ma addirittura alla cinematografia italiana»2. Ma oltre agli apprezzamenti, già con il suo debutto sorsero i primi segnali di quello che sarebbe accaduto in futuro. Il suo film d’esordio del 1948 Caccia tagica fu escluso dalle principali sale cinematografiche e immediatamente attaccato dai critici di destra durante l’aspra campagna politica dell’aprile del 1948. Fra questi il critico Angelo Solmi, confondendo la politica con l’arte, tacciò il film di De Santis di propagandismo architettato per portare voti ai comunisti3. In seguito alla sconfitta elettorale del Fronte Popolare, il governo in un primo momento negò al film il permesso di essere ammesso al Festival di Cannes. Solamente in seguito a diverse pressioni da parte dei giornali di sinistra, Caccia tragica venne incluso fra i candidati e raccolse, come menzionato, consensi e recensioni favorevoli dalla stampa francese. L’impegno del governo di allora era di ricondurre il cinema italiano alla “normalità”, ad una rappresentazione della realtà italiana più vicina allo “spirito” politico dei governanti democristiani. Nel 1949 fu preparata da Andreotti una legge sul cinema, la n. 958, che rimandava ad un’altra legge, degli anni ‘20, che ribadiva il divieto di proiezioni filmiche in cui vi erano “scene, fatti e soggetti che incitino all’odio tra le varie classi sociali”. 2  Umberto Barbaro in «Quaderni dell’Associazione Giuseppe De Santis», Grafiche PD Fondi, p. 69. 3  Angelo Solmi, "Caccia tragica" non ha portato voti al Fronte Popolare, il film di De Santis doveva essere l’antidoto di "Ninotchka", maggio 1948, p. 21. Il titolo è molto significativo del clima culturale di quegli anni.

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Tutto questo è emblematico di quello che sarebbe stato il futuro da regista di Peppe De Santis. I suoi film nell’Italia del dopoguerra non furono mai accolti o recensiti soltanto per i loro meriti ma sempre alla luce dell’attivismo politico del regista. Di conseguenza il loro successo era legato alle fortune elettorali e ai vacillamenti nella politica culturale dell’allora PCI. Com’è ben noto, il regista fu spesso biasimato per le sue scelte, fossero queste di natura politica, artistica, morale, erotica o “neorealista.” I critici di destra consideravano De Santis il portavoce del PCI e si concentravano costantemente sui messaggi politici e sulle critiche sociali dei suoi film sorvolando completamente sugli aspetti stilistici e formali. I critici di sinistra recriminavano la sua esuberanza stilistica e la sua ossessione formalistica per i dettagli ripetitivi di sfondo, considerate entrambe degli ostacoli al messaggio politico dei film. Questi criticavano inoltre De Santis per la inabilità nel rappresentare la lotta di classe in uno specifico contesto storico e nella sua totalità. L’amore del regista per gli elaborati movimenti della MDP, per la messinscena teatrale e raffinata e per la descrizione della sessualità dei personaggi, secondo i critici di sinistra distoglieva l’attenzione dall’intento politico. Ironicamente perfino la rivalutazione dei film di De Santis, a cui hanno dato il via Martini e Melani negli anni Settanta, partiva da quelle che erano considerate le pecche di De Santis, che furono ulteriormente fraintese4. Le nuove generazioni compresero che i film di De Santis erano consapevoli del fatto che il cinema poteva essere utilizzato come uno strumento di comunicazione di massa, con la capacità di incantare e creare bisogni. 4  Si veda Andrea Martini e Marco Melani, De Santis, in Lino Miccichè (a cura di), Il Neorealismo cinematografico italiano. Atti del convegno della X Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Venezia, Marsilio, 1975 (II ed. 1978; III ed. 1999).

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Oggigiorno con l’omologazione culturale non è più necessario scavare a fondo per scoprire il significato politico e ideologico nel simbolismo dei film, mentre invece i film di De Santis contengono idee politiche e ideologiche che all’epoca erano considerate pericolose perché incitavano gli spettatori a cambiare il modo in cui la gente percepiva il proprio mondo e il proprio ruolo al suo interno. Pertanto, i suoi film hanno la potenzialità non soltanto di far riflettere sui problemi sociali e i conflitti politici come in tanti altri film neorealisti ma anche di aiutare gli spettatori a modificare i rapporti di classe in un modo democratico oppure rivoluzionario ribellandosi alle ingiustizie imposte dagli sfruttatori. Il cinema di De Santis offre soluzione ai problemi, non li mostra soltanto, inoltre il suo cinema è lo specchio del proprio paese in movimento: uno specchio che pensa, nella febbrile ricerca d’una sistemazione più umana, più aderente ai sentimenti popolari del paese. Per esempio, in Non c’è pace tra gli ulivi e in Roma ore 11 le ingiustizie sono legate a specifici fattori sociali e la solidarietà di classe, assieme alla collaborazione tra le vittime viene indicata come la soluzione dei problemi5. I film di De Santis si distinguono anche per lo stretto rapporto con il mondo agricolo e la campagna in anni in cui per lo più i film erano ambientati in città. Se si esa5  In una università americana (Wake Forest University nella North Carolina), nel programma del Master per affari, si mostra Ladri di biciclette agli studenti e dopo la proiezione gli studenti iscritti al Master devono cercare di risolvere i problemi posti da Antonio Ricci utilizzando i principi di insegnamento capitalista sulla creatività e intraprendenza. Tonino Valeri mi ha raccontato che a Roma alla prima di Ladri di biciclette, un operaio uscendo dal cinema vide il regista Vittorio De Sica e gli corse incontro gridandogli: «Dottò ridammi i soldi del biglietto» – Un sacerdote a Ponte Melfa in provincia di FR – usava lo stesso film per insegnare la fede in Dio e sfruttava anche la marca della bicicletta rubata ad Antonio. I film di De Santis erano visti dal popolo e venivano accusati, come faceva Andreotti, di fomentare l’odio di classe.

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mina il catalogo dei film italiani dal sonoro agli anni Settanta, quando De Santis non riesce più a girare le proprie sceneggiature, sotto il profilo del rapporto con il mondo contadino emergono chiaramente alcuni dati. I film principali da considerare sarebbero una cinquantina, quelli in cui il rapporto, per quanto labile e contraddittorio, fra film e campagna non si interrompe mai. Il dato emergente è che tale rapporto si accentua nel quinquennio 1975-80 fino quasi a costituire la spina dorsale della migliore produzione nazionale; ma bisogna aggiungere che a differenza dei progetti di De Santis, il quale voleva trattare i problemi dell’epoca dei contadini meridionali, i film che escono nel periodo menzionato non hanno la forza di proporre nuove soluzioni e nuove ipotesi sul tema della civiltà contadina e neppure propongono nuovi metodi per intraprendere l’esame, attraverso la macchina da presa, di un mondo che ormai non esiste quasi più. I titoli sono noti, li ricordiamo rapidamente. Del ’76 sono le due parti di Novecento di Bernardo Bertolucci, sterminato romanzo storico sullo sfondo delle lotte agrarie tra l’inizio del secolo e la fine della Seconda guerra mondiale nella campagna emiliana. Del ’77 Padre padrone dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani (Palma d’oro a Cannes), dal libro autobiografico del glottologo Gavino Ledda, vicenda autentica di un pastore analfabeta che diventa professore d’università, ambientata nei pascoli sardi degli anni ’50. Poi c’è L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi (Palma d’oro a Cannes). Del ’79 sono Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi (vincitore del Festiva di Mosca), e l’adattamento di Carlo Lizzani di Fontamara di Silone. Inoltre, Kezich fa notare6 che la scuola neorealista è stata prevalentemente urbana e che nei film dell’école italienne la campagna è presente soprattutto come pae6  Tullio Kezich, La civiltà contadina in mezzo secolo di cinema italiano in Cinema e mondo contadino a cura di Pepa Sparti, Venezia, Marsilio Editori, 1982.

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saggio, un tema che era già stato profondamente sentito e affrontato dalla critica giovanile degli anni ’40, con De Santis in testa: il quale ribadiva spesso, nelle recensioni sulla rivista «Cinema», la necessità di uscire dai teatri di posa per la conquista di un paesaggio italiano. Secondo chi scrive nei film di De Santis la campagna e i contadini occupano un posto importante, i suoi film non sono prevalentemente urbani come la maggior parte dei film neorealisti; inoltre a differenza degli altri registi De Santis non ha un’origine borghese e cittadina, come si è detto, e anche se inurbato a Roma ha sempre mantenuto i legami con Fondi, la Ciociaria e il Meridione. Olmi stesso è un inurbato della seconda generazione. Il cinema neorealista, a parte i progetti non realizzati di De Santis, Noi che facciamo crescere il pane7, I fatti di Andria, Pettoton7  Nel 1949, all’indomani dei fatti sanguinosi accaduti a Fragalà, il cinema italiano con il regista di Riso amaro Giuseppe De Santis ideò un film dal titolo Nostro pane quotidiano, in omaggio al regista americano King Vidor, che nel 1934 aveva realizzato l’omonimo film, e al suo invito per un ritorno alla terra per risolvere i problemi economici degli anni ‘30. De Santis, regista del neorealismo italiano, scrisse la sceneggiatura del film (primo titolo) Noi che facciamo crescere il grano insieme a Corrado Alvaro e Basilio Franchina, con la collaborazione di Fortunato Seminara, Libero de Libero e Rodolfo Sonego. La difficoltà di trovare dei produttori “impegnati”, la Lux si rifiutò di produrlo perché non era opportuno, e lo stop della censura governativa di quegli anni, con il sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti, fecero sì che il film non venisse mai realizzato. Nel 1953 la rivista «Cinema Nuovo» pubblica un articolo sui film bloccati e non realizzati, e in una nota De Santis scrive: «L’idea di un film del genere venne a me all’indomani dei fatti luttuosi verificatisi a Melissa. Era da tempo che stavo cercando di realizzare qualcosa che mi desse la possibilità di approfondire le mie ricerche, sul piano strutturale oltre che contenutistico, di un grande film a carattere corale sulle condizioni etico-politicosociali di una vasta categoria di lavoratori italiani». L’impegno del governo di allora era di ricondurre il cinema italiano alla “normalità”, ad una rappresentazione della realtà italiana più vicina allo “spirito” politico dei governanti Democristiani. Nel 1949, come già scritto, fu preparata da Andreotti una legge sul cinema, la n. 958, che rimandava ad un’altra legge, degli anni ‘20, che ribadiva il divieto di proiezioni filmi-

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do, non si è interessato del proletariato agricolo, mentre invece in Caccia tragica del ’47 e anche prima con Il sole sorge ancora del ’46, di cui De Santis è stato aiuto regista, abbiamo problematiche legate al mondo dei contadini, come anche in Non c’è pace tra gli ulivi del ’50. Riguardo ai contadini meridionali, come scrive Vincenzo Mauro: «La lotta di classe nelle campagne riesplode nel secondo dopoguerra con le occupazioni delle terre in tutto in Mezzogiorno. La protesta era cominciata a farsi sentire nel momento in cui la guerra richiedeva ed assorbe ingenti quantità di materiale bellico e costrinse la forza lavoro delle campagne e maggiormente la classe operaia delle grandi fabbriche del Nord a lavorare di più e mangiare di meno»8. Difatti De Santis, come mostrano le sceneggiature non realizzate, era interessato a mostrare le rivendicazioni delle masse contadine e anche a mostrare un’alternativa all’emigrazione di massa.

che in cui vi fossero «scene, fatti e soggetti che incitino all’odio tra le varie classi sociali». A distanza di cinquant’anni quella sceneggiatura è stata rivisitata dai registi Eugenio Attanasio e Giovanni Scarfò, in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Crotone e la cineteca della Calabria e prodotto da Kutronifilm production. Il film, o meglio il documentario, ha visto la partecipazione dell’attore Vittorio De Seta e della popolazione di Melissa. Tutt’ora questo documento filmico sta girando il mondo dei festival internazionali e sta avendo un buon successo. 8  Vincenzo Mauro, Lotte contadine e repressione nel Sud, Milano, Collettivo Editoriale, 1979, p. 5.

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Alcune foto scattate durante i sopraluoghi del 1949 per il film mai realizzato dal titolo Nostro pane quotidiano all’indomani dei fatti sanguinosi accaduti a Fragalà.

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Considerazioni sull’esclusione di Santis che non chiamerei lungo silenzio

I film di De Santis oltre ad occuparsi del mondo agricolo contengono idee politiche e ideologiche atte a cambiare il modo in cui la gente percepisce il proprio mondo e il proprio ruolo all’interno della struttura culturale dominante. Pertanto i messaggi dei suoi film hanno la potenzialità di spingere i propri personaggi a modificare i rapporti di potere e di controllo. Nella trilogia della terra, così come per esempio in Roma ore 11, le ingiustizie sono legate a specifici fattori sociali e ad abusi commessi da sfruttatori e opportunisti, la solidarietà, assieme alla collaborazione fra vittime e sfruttati sono presentate come possibili soluzioni agli abusi e alla sopraffazione. Tuttavia, tali considerazioni non forniscono una risposta alla domanda che sorge spontaneamente quando si studia l’iter del regista ciociaro: perché Peppe De Santis non ha più realizzato film ed è diventato il regista dimezzato del cinema italiano del dopoguerra? Perché non riuscì più a realizzare le tante sceneggiature scritte? Pongo questa domanda perché il regista non smise mai di scrivere sceneggiature e di cercare un modo per realizzarle in film. Vorrei avanzare alcune ipotesi che spesso sono usate come spiegazioni oppure giustificazioni per la sua esclusione: 1. I film di De Santis successivi a Riso amaro non hanno più avuto un successo commerciale. 2. La sua ispirazione creativa legata a un certo mondo e artisticamente al neorealismo non era più commerciabile. 71 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

3. Il suo modo di fare cinema era troppo legato a strutture narrative e a stili di recitazione, a tal punto che il regista non era riuscito ad adattarsi ai cambiamenti. La sua personale cultura cinematografica era limitata dal momento che si ispirava ad una struttura romanzata e letteraria in cui la conflittualità, sempre semplice ed elementare, si sviluppa in una tendenza lineare e manichea. 4. Il regista ciociaro era polemico, provocatorio, e ostinato, sempre pronto a discutere con critici e produttori. Era determinato a difendere i suoi film da qualsiasi modifica al montaggio da parte di produttori e censori e non era mai disposto a scendere a compromessi, anche se questo poteva mandare a monte un progetto. 5. A differenza di altri registi aveva un programma politico che prevedeva la realizzazione di film che riuscissero non solo a riflettere la società, ma che anche a cambiarla politicamente. I temi che sceglieva erano inadatti ad un’industria soggetta alle leggi del profitto in un’economia di mercato controllata da una egemonia ben diversa da quella promossa dal messaggio del film. 6. È stato vittima di un clima di politica internazionale: la guerra fredda, le cui ripercussioni erano percepite a livello nazionale e culturale. 7. Era vittima delle ambigue scelte politiche del proprio partito politico, a cui era stato legato fin dagli anni del Centro Sperimentale, e durante la collaborazione con la rivista «Cinema» di cui divenne uno dei maggiori rappresentanti tra i giovani. Non tutte le scelte artistiche e politiche di De Santis coincidevano con la linea imposta dal partito; gli scontri e le polemiche iniziarono dal primo film e arrivarono a far esplodere un vero caso culturale e politico con Riso amaro. Lo scontro si riaccese durante l’occupazione delle terre nel Meridione, quando De Santis scrisse una lettera polemica a Pietro Ingrao direttore de «l’Unità» che aveva chiesto agli scrittori ita72 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

liani di interessarsi ai problemi dei contadini meridionali, ignorando gli addetti al cinema. Nella lettera il regista inizia con il ricordare che i migliori film italiani del dopoguerra sono nati dall’impulso di creare delle inchieste sugli eventi contemporanei. Poi passa ad esprimere la sua sorpresa nell’aver letto l’editoriale in cui Ingrao dava notizia del grande successo ottenuto dalla sua propria iniziativa d’invitare la stampa di ogni corrente politica a far luce sui luttuosi avvenimenti in Calabria, e per aver allargato l’appello agli scrittori calabresi e non calabresi a interessarsi alle condizioni di miserie della masse contadine meridionali. Poi, dopo aver lodato gli scrittori che si sono già interessati alle problematiche del Meridione, De Santis esprime la sua sorpresa iscrivendo: «[…] perché non hai invitato anche il cinema italiano a portare le sue macchine da presa sui campi e sulle strade di Melissa, di Strongoli, di Borticello e di Cutro? È vero che tu, opportunamente, ti sei rivolto nel tuo appello a quegli scrittori calabresi e non calabresi che si sono più esplicitamente occupati dei problemi del Meridione, ma proprio a questo proposito tu, che sei sempre stato amico del cinema e ne hai sempre seguito attentamente le sue manifestazioni artistiche, avresti dovuto almeno ricordare». De Santis menziona cinque film che si sono interessati al Meridione e che lui definisce “inchieste” poi loda il cinema italiano che ha saputo arricchire l’arte e la cultura italiana di nuovi valori, attacca il governo che secondo lui farà del tutto per impedire la realizzazione di film sull’eccidio di Melissa. Chiude la lettera rivelando le sue intenzioni di realizzare un film sui sanguinosi eventi menzionati e ribadisce il suo ottimismo nel trovare i produttori pronti a finanziarlo9. 9  La lettera in mio possesso è una copia datami dal regista. Durante un mio incontro con Ingrao gli chiesi perché il partito comunista italiano non fece nulla per aiutare De Santis a realizzare questo suo progetto e lui mi rispose che il partito non si occupava della realizzazione di film.

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Sarebbe inoltre utile leggere le lettere di De Santis in cui esprime il proprio risentimento nei confronti di alcuni della sua stessa fede politica, in particolare quelle indirizzate ai critici francesi Marcel Oms e Georges Sadoul, (lettere inedite che ho consultato nello studio del regista a Fiano Romano. Quella a Oms è datata 5 giugno 1966 e a Sadoul è datata 30 novembre 1955). Bisognerebbe anche considerare che De Santis riteneva che il suo concetto di cinema popolare fosse molto vicino alle idee di Gramsci relative alla creazione di una nuova letteratura definita politica, popolare e radicata nella cultura popolare. Il regista non scelse di intraprendere una propria strada autonoma, perché si sentiva istintivamente legato ai temi, ai volti e ai problemi dei suoi personaggi del mondo agricolo e della classe operaia che pensava impegnati nella sua stessa battaglia. 8. All’inizio degli anni Settanta, con il fiorire di nuove problematiche, non c’era più spazio a causa della disintegrazione della coscienza sociale e civile. Da questa trasformazione culturale e sociale emerge una nuova generazione di registi che daranno vita al così detto “cinema civile”. L’intrattenimento popolare arrivò ad essere dominato dalla commedia all’italiana e dal nuovo genere storico, mitologico ed erotico. 9. Era svanito ogni tentativo di colmare il divario che esisteva tra i film neorealisti e quelli popolari e commerciali. 10. Al fine di valutare queste ipotesi, è necessario prendere in considerazione anche i progetti mai realizzati da De Santis. La meno verificabile fra tutte le possibilità potrebbe rivelarsi quella più utile alla comprensione della lunga inattività del regista. Dopo le prime tre pellicole, la filmografia di De Santis si sarebbe evoluta in maniera diversa se fosse riuscito a realizzare Nostro pane quotidiano all’indomani dei fatti sanguinosi accaduti a Fragalà, che a giudicare dalla sceneggiatura sarebbe stato uno splendi74 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

do film corale e con varie storie minori sul tema dell’occupazione della terra da parte dei contadini nel Sud. 11. I film di De Santis e i soggetti per i film mai realizzati si rivolgevano alle speranze popolari che erano molto vive all’epoca. Mostravano una sete per la giustizia riaccesasi dopo la caduta del fascismo. I progetti sull’occupazione della terra nel Mezzogiorno furono ostacolati dal governo che si servì delle leggi in vigore sulla produzione per non farli realizzare. Questa tesi è confermata anche dall’attore Raf Vallone che all’insistenza di Pasquale Iaccio che gli fece notare durante un’intervista che molti film sono stati fatti su quell’argomento rispose: «Ma non in quel momento. Eravamo nel 1948. C’erano tutti i migliori attori italiani disposti ad impegnarsi: Amedeo Nazzari, Massimo Girotti ecc. ecc. ma anche attrici, come la Varzi10. Il film [sui fatti di Melissa]11 non si fece neanche in seguito. Tutte le voci di 10 Il Mezzzogiorno tra cinema e storia, Pasquale Iaccio, Napoli, Liguori, 2002, p. 40. 11  «Nell’ottobre del 1949 i contadini calabresi, a cominciare dai braccianti del Marchesato, marciarono sui latifondi per chiedere con forza il rispetto dei provvedimenti emanati nel dopoguerra dal ministro dell’Agricoltura Fausto Gullo e la concessione di parte delle terre lasciate incolte dalla maggioranza dei proprietari terrieri. Interi paesi parteciparono a questa mobilitazione che vide circa 14 mila contadini dei comuni orientali delle province di Cosenza e Catanzaro scendere in pianura. Chi a piedi, chi a cavallo, con donne e bambini e gli attrezzi da lavoro, quando giunsero sui latifondi segnarono i confini della terra e la divisero, iniziando i lavori di preparazione della semina. Irritati per questa ondata di occupazioni alcuni parlamentari calabresi della Democrazia Cristiana si recarono a Roma per chiedere un intervento della polizia al Ministro dell’Interno Mario Scelba. I reparti della Celere si recarono quindi in Calabria e uno di loro si stabilì a Melissa (oggi provincia di Crotone) presso la proprietà del possidente del luogo, barone Luigi Berlingeri, del quale i contadini avevano occupato il fondo detto Fragalà. Questo fondo era stato assegnato dalla legislazione napoleonica del 1811 per metà al Comune, ma la famiglia Berlingeri, nel tempo, lo aveva occupato abusivamente per intero. La polizia aprì il fuoco sui manifestanti ad altezza d’uomo, dapprima con pallottole di legno e successivamente con proiettili. Tre persone furono uccise: Francesco Nigro, di 29 anni, Giovanni Zito, di 15 anni, e Angelina Mauro, di 23 anni, che morirà

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sinistra dovevano essere cancellate da parte della presidenza del Consiglio dei ministri». L’attore aggiunse che a causa della situazione politica dell’epoca se ne andò all’estero a fare teatro. Pettotondo è una sceneggiatura su una prostituta pugliese che vende il suo corpo non per profitto ma per sbarcare il lunario e soltanto quando ne ha bisogno per sopravvivere. Il titolo e l’idea di farne un film erano venuti a De Santis dopo che aveva ascoltato all’osteria Menghi il giovane cantante pugliese Matteo Salvatore, cantare di questo strano personaggio che ormai apparteneva alle canzoni popolari dei braccianti. Il regista ciociaro decise di scrivere un soggetto con Elio Petri e Ugo Pirro, che il produttore Amoroso avrebbe finanziato. I tre insieme fecero un viaggio in puglia per i sopralluoghi. Pirro racconta che la delusione causata dalla riforma agraria aveva portato un cambiamento visibile nel Tavoliere pugliese; tristi e distanti case coloniche a testimonianza di una sorta di esclusione sociale dei braccianti, lontani dai loro paesi e dalle loro abitudini. Dopo mesi di lavoro il film non si fece perché, sempre secondo Pirro: «[...] il contenuto polemico, la critica della riforma agraria, espressa per di più attraverso il personaggio della prostituta, avrebbe contribuito a determinare la crisi, urtava i benpensanti anche quella povera donna che alleviava le fatiche dei mietitori, che si concedeva sui covoni, sul grano spigolato, così generosamente di cuore e ti corpo». Un’altra sceneggiatura mai girata riguarda l’avventurosa e straordinaria vita di un contadino analfabeta di Cerignola, Giuseppe Nicassio, che finisce in galera, ma determinato a proseguire gli studi, riesce ad ottenere un diploma di scuola superiore e si dedica in seguito alla lotta sindacale sotto il nome di Giuseppe Di Vittorio. più tardi per le ferite riportate, oltre a 15 feriti colpiti alle spalle. La polizia uccise anche diversi animali, come forma di ritorsione nei confronti dei manifestanti». https://it.wikipedia.org/wiki/Strage_di_Melissa

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Negli anni Cinquanta De Santis scrisse Il cavallo di lui, una storia simbolica sul destino del cavallo di Mussolini dopo la fine del suo regime. Se questo film fosse stato realizzato, è evidente che il lascito cinematografico del regista ciociaro sarebbe piuttosto differente, sebbene le modalità rimangano una congettura. Sembra anche chiaro che questi progetti rappresentassero un punto di svolta per il regista. Fu il fallimento nel realizzarli che impedì a De Santis di trovare il percorso più congeniale verso la propria identità e maturità artistica. Si è scritto e ripetuto spesso che, ad eccezione di Riso amaro, i film di De Santis non riscossero mai un buon successo al botteghino. Tuttavia, i suoi film non furono un fallimento commerciale ed erano più che all’altezza delle sofisticate pellicole artistiche di quel periodo: in definitiva ebbero un discreto successo commerciale, soprattutto considerando i costi di produzione. Caccia tragica registrò un profitto di 80 milioni di lire nel 1947, nel momento in cui il vincitore d’incassi Come persi la guerra di Carlo Borghesio incassò 293 milioni di lire. In Italia Riso amaro incassò oltre 400 milioni di lire, mentre La sepolta viva di Guido Brigone guadagnò 530 milioni di lire. Non c’è pace tra gli ulivi superò i 400 milioni di lire mentre Gli ultimi giorni di Pompei di Paolo Maffa e Marcel L’Herbier realizzò 841 milioni di lire. Roma ore 11 registrò un incasso di 270 milioni di lire nello stesso periodo in cui Anna di Alberto Lattuada, il successo più grande del 1952, guadagnò 1 miliardo e 25 milioni di lire. L’insuccesso di Umberto D di De Sica e Zavattini nello stesso anno dovrebbe essere tenuto in considerazione. Un marito per Anna Zaccheo ricavò 350 milioni di lire mentre il miglior film dell’anno secondo gli incassi, Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini superò il miliardo di lire. Perfino i criticati Giorni d’amore e Uomini e lupi insieme realizzarono oltre 721 milioni di lire, mentre Ulisse di Mario Camerini, il maggior successo del 1954, 77 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

e Belli ma poveri di Dino Risi, il grande successo del 1956, riscossero rispettivamente 1 miliardo e 800 milioni di lire e 998 milioni di lire. L’ultimo film spettacolare di De Santis, Italiani brava gente, guadagnò oltre mezzo miliardo di lire soltanto in Italia, mentre Per un pugno di dollari di Sergio Leone e Più forte ragazzi di Giuseppe Colizzi, record d’incassi nel 1964 e ne 1972 guadagnarono rispettivamente 3 miliardi e 80 milioni di lire e 4 miliardi e 860 milioni di lire. Anche per La Garçonnière, va considerato che il regista ciociaro ha diretto questo film con costi di produzioni ben al di sotto rispetto a quelli dei film presi a paragone, realizzati da registi di primo ordine quali De Sica, Visconti e Rossellini. La produzione dei suoi film non rappresentava in nessun modo un rischio commerciale, come si è spesso sostenuto, inoltre, le cifre degli incassi non includono i ritorni economici internazionali, soprattutto dagli Stati Uniti, dal Sud America e dall’area sovietica, l’ultimo dei quali non era un mercato accessibile dalla maggior parte degli altri film menzionati, molti dei quali non furono nemmeno esportati. Infine, si dovrebbe anche prendere in considerazione che mentre i film di De Santis sono ancora studiati nei corsi di cinema nel mondo, la maggior parte dei film già menzionati sono per lo più dimenticati e non sono mai stati inclusi nei programmi dei corsi accademici universitari sul cinema internazionale oppure nazionale. Si diceva nell’industria del cinema italiano e ancora oggi si continua a scrivere e a ripetere che De Santis era un regista difficile, evitato dai produttori per le sue richieste assurde e per la sua estrema attenzione ad ogni dettaglio. Le mie ricerche e le interviste e conversazioni con il regista conducono a due conclusioni contrastanti. Durante la realizzazione di Caccia tragica, finanziato dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI), il giovane regista rifiutò di apportare modifiche alla sceneggiatura, richiese più tempo e più soldi per realizza78 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

re la scena del raduno elettorale e cercò di assumere il numero necessario di comparse per il comizio elettorale. Abbiamo già letto dalla testimonianza del regista come lui stesso risolve la impasse, ricorrendo all’uso delle biciclette ma senza scendere a compromessi. La trovata del regista è risultata più efficace politicamente e molto più artistica e creativa di quella che i portavoce del Partito Comunista gli chiedevano di fare. In Riso amaro il regista scelse, come abbiamo letto, la sconosciuta Silvana Mangano, l’attrice americana Doris Dowling ed inoltre anche lo sconosciuto Raf Vallone. Come ben noto scoppiò il primo grande caso cinematografico del dopoguerra italiano che andò ben oltre il contenuto del film e la scarsa documentazione sulla pratica della coltivazione del riso e sul lavoro delle mondine. Questo film inoltre gli costò l’accusa di aver reintrodotto il divismo nel cinema italiano e di aver tradito il neorealismo, argomenti che saranno trattati nel prossimo capitolo. Non c’è pace tra gli ulivi provocò una nuova discussione con i critici, in particolare con il direttore di «Cinema», Adriano Baracco, il quale accusò De Santis di dannunzianesimo, di estetismo e di aver creato uno stile barocco. De Santis reagì scrivendo lettere ai giornalisti di sinistra e a riviste di settore, accusando i critici di giudizi politici di parte e di scarso acume critico. Dopo il terzo film diventò sempre più difficile per il regista ciociaro trovare produttori. In seguito si fecero tesi i rapporti con la Lux Film, che aveva rifiutato di produrre alcuni suoi progetti, fra cui un adattamento moderno dei promessi sposi ambientato in Sicilia, un film sull’analfabetismo in Italia e un progetto su Portella della Ginestra. Nel 1952, nel mezzo della guerra fredda, con la collaborazione di Cesare Zavattini, De Santis riuscì a convincere Paul Graetz a finanziare Roma ore 11, per la Transcontinental Film, ma la realizzazione di questo 79 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

film finì per danneggiare ulteriormente la reputazione del regista. Al suo debutto i critici lo accolsero positivamente per il contenuto e la coerenza stilistica, tuttavia l’immagine di De Santis come regista politicamente coinvolto si attirò delle severe critiche sulla “commerciabilità’” del film, sulla sovrastruttura e sull’esplorazione tematica degli intrighi politici dell’ambiente culturale italiano. All’uscita del film i critici di destra intrapresero una campagna di diffamazione contro il regista che arrivò fino in parlamento, dove fu proposta un’indagine in merito alle presunte attività politiche del regista. Il regista fu accusato di aver utilizzato finanziamenti statali per la propaganda di partito, e di aver accettato finanziamenti sovietici, accusa assurda dal momento che il film ricevette sovvenzioni francesi e americane. L’immagine di De Santis fu ulteriormente scalfita dall’intensa battaglia legale tra il regista e la Transcontinental Film, che voleva il taglio della scena del ritorno a casa della prostituta, interpretata da Lea Padovani, poiché rappresentava una violazione del contratto. Pertanto, la casa di produzione ricorse alla testimonianza di Cesare Zavattini, il quale espresse i suoi dubbi riguardo al valore artistico e all’importanza della sequenza nel racconto stesso, e affermò che il regista aveva insistito ad includerla nonostante i consigli degli altri sceneggiatori, che la trovavano troppo lunga e costosa. Il regista vinse la causa, ma perse una possibile fonte di supporto finanziario. Inoltre, tutto questo strascico di eventi e conflitti contribuì a creare una ammagine di De Santis come regista scomodo, poco propenso a compromessi e spendaccione. Per comprendere meglio l’atmosfera di quel periodo è necessario ricordare che gli anni tra il 1947 e il 1954 coincisero con il culmine della Guerra Fredda. Negli Stati Uniti il Comitato per le attività antiamericane ave80 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

va intrapreso una caccia alle streghe nei confronti degli artisti di Hollywood sospettati di associazione comunista e di propaganda antiamericana. Una seconda ondata repressiva iniziò a partire dal 1951. Di tutti i registi italiani, De Santis era stato l’unico ad aver scritto un lungo articolo che biasimava la condanna a morte per tradimento di Julius e Ethel Rosemberg e a proporre addirittura una petizione contro la Sottocommissione Permanente del Senato sulle Indagini, presieduta dal senatore di Wisconsin Joseph R. McCarthy. L’isteria nei confronti dei registi comunisti è evidente nelle affermazioni di Ayn Rand, che considera Mission to Moscow, la versione cinematografica di un libro scritto dall’ambasciatore americano a Mosca e commissionato dall’allora presidente Roosevelt, una propaganda comunista. Forse ancora più illuminanti sono le dichiarazioni dell’attore Adolphe Menjou, che avvertiva i produttori di non affidare sceneggiature a registi o di assumere attori in grado di diffondere idee antiamericane con uno sguardo o una lieve flessione della voce. Secondo Adrian Scott in un articolo del 1955 intitolato Hollywood Review vennero iscritte nella lista nera un totale di 214 persone, fra cui 106 sceneggiatori, 36 attori e 11 registi. In Italia le ripercussioni di questi eventi si fecero sentire e gli anni Cinquanta sono ricordati come un periodo di autocensura durante il quale il nome di De Santis fu incluso nella lista accompagnato dal commento del Ministro Giulio Andreotti: «Il ciociaro non deve più fare film». La campagna scatenata contro il produttore Domenico Forges-Davanzati per aver consentito di affidare la regia di Un marito per Anna Zaccheo a De Santis, è una ulteriore prova dell’atmosfera che regnava in quel periodo. Il produttore si dovette difendere dall’accusa della stampa di destra di simpatizzare con il comunismo. Un’altra interessante questione concomitante all’uscita di questo film è la riposta de «l’Unità» che ostracizzò De Santis. Il 81 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

giornale ufficiale del PCI diretto da Pietro Ingrao, amico di lunga data del regista ciociaro, pubblicò una serie di lettere che accusavano il film di sessismo e fra queste si faceva notare una lettera redatta dalla scrittrice di sinistra Fausta Cialente. Come sempre il regista si difese e contrattaccò, definendo il film un’affermazione contro la mentalità del maschio italiano e una storia sulla difficoltà di essere belle e donne in una società in cui all’epoca il maschilismo era dilagante e la verginità un prerequisito per il matrimonio. Le critiche non lasciarono indifferente il regista, che si sentiva tradito e abbandonato dai propri compagni della lotta antifascista, ma la situazione non migliorò con i suoi film successivi. Giorni d’amore avrebbe dovuto avere una lunghezza di 3.300 metri, ma i produttori lo ridussero a 2.999; il film successivo, Uomini e lupi, in un primo momento immaginato dal regista come una lunga versione di 3,300 metri, fu tagliato dalla Titanus a meno di 2.800 metri. De Santis protestò per i tagli, abbandonò il progetto e lasciò che il montaggio venisse realizzato senza la sua collaborazione e prima dell’uscita del film il regista cercò invano di far rimuovere il suo nome dalla versione finale della pellicola. De Santis, perciò, divenne noto come un regista che faceva causa ai suoi collaboratori e che rendeva pubbliche le sue proteste. Secondo lui le sue azioni erano semplicemente atte a difendere il suo lavoro dall’indifferenza dei censori e dei produttori. Rimane il fatto che dovette attendere fino al 1966 per dirigere una nuova pellicola in Italia. Il suo film successivo, Cesta Duga Godinu Dana (La strada lunga un anno), fu girato in Jugoslavia e l’ambasciatore jugoslavo andò ad accettare il Golden Globe a nome di De Santis, dal momento che al regista fu di nuovo negato l’ingresso negli Stati Uniti. Per un ironico scherzo del destino, la sorella, moglie del viceconsole italiano a Los Angeles (Mario Tedeschi), era pre82 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sente alla cerimonia assieme al marito, che si era rifiutato di utilizzare la sua influenza per procurare un visto al cognato. La realizzazione di La Garçonnière fu resa possibile da una concessione da parte del produttore Roberto Amoroso, che aveva firmato un contratto con De Santis per Pettotondo. Quando la banca rifiutò il finanziamento per quest’ultimo, allarmata dal soggetto – la strana storia di una prostituta di campagna – il regista decise di cambiare il soggetto ed il risultato che ne derivò fu La Garçonnière. Un fatto simile era già accaduto in precedenza: il 9 agosto1955 l’«Arnaldo dello Spettacolo» si adoperò per sospendere un altro dei progetti non realizzati di De Santis, Case aperte: il ministro lo proibì dopo aver scoperto che il regista sarebbe stato De Santis. La Garçonnière si rivelò uno dei film meno costosi, ma anche il più duramente censurato, con un totale di 5000 metri di tagli. Le riprese durarono solo sette settimane e, a causa dei fondi limitati, il regista ingaggiò Raf Vallone e sua moglie Gordana Miletic. Italiani brava gente, l’ultimo film importante del regista, fu il risultato di una produzione russa con il sostegno finanziario americano. De Santis racconta la storia dei contadini italiani in guerra, in un ricco discorso cinematografico con riferimenti ed omaggi ai grandi maestri russi Eisenstein e Dovzenko. L’uscita del film fu rallentata dai censori che chiesero di cambiare il titolo12 mentre la stampa di destra, spinta da alcuni reduci di guerra, diede il via ad un’attiva campagna contro il regista, accusandolo di diffamazione dell’esercito e richiedendo un’inchiesta da parte del Ministro della Difesa Giulio Andreotti dalla quale il regista uscì assolto13. 12  Negli Stati Uniti il film ha due titoli: Attack and Retreat oppure Italiano Brava Gente. 13  Nel 2011 è stato pubblicato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna dalla casa editrice Casemate, Sacrifice on the Steppe – The Italian Alpine Corps

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Un apprezzato professionista di sicuro avvenire non ebbe un destino più roseo: fu censurato, denigrato e attaccato dal Vaticano. Così si conclude una carriera che era iniziata con grandi speranze e con una moltitudine di progetti, molti dei quali rimasti nei cassetti della scrivania del regista. La possibilità che le responsabilità siano da ricercare anche in qualcosa di intrinseco alla struttura e agli elementi tematici e stilistici del suo lavoro non può essere totalmente scartata, ma tuttavia, come si è detto, le leggi di mercato legate agli implacabili divieti ideologici devono essere incluse per spiegare il forzato silenzio di De Santis. Fin dai giorni della collaborazione con la rivista «Cinema», De Santis aveva maturato una visione che, nel periodo del dopoguerra, si concretizzò nella necessità di creare un’arte che contenesse tutte le ambiguità e le intuizioni dei problemi e delle questioni del tempo. La sua concezione cinematografica neorealista era adattata ad un pubblico composto dalle classi meno abbienti. Nel 1947 il regista la definì un’arte popolare, nel senso in the Stalingrad Campaign, 1942-1943 by Hope Hamilton. L’autrice oltre a raccontare l’eroismo degli Alpini, ha scritto «[….] Mussolini sent thousands of poorly equipped soldiers far from their homeland to a country few could have pointed to on a map, on a mission with unclear mandate to wage war against a people they didn’t consider their enemy. Raw courage and endurance blend with human suffering, desperation and altruism in the harrowing saga of the withdrawal from the Don lines across snowy steppe, the capture and imprisonment of thousands and survival of the few». (Mussolini inviò migliaia di soldati scarsamente equipaggiati lontano dalla loro patria in un paese che pochi avrebbero potuto indicare su una mappa, in una missione con un mandato poco chiaro per fare guerra a un popolo che non consideravano loro nemico. Puro coraggio e resistenza si fondono con la sofferenza umana, la disperazione e l’altruismo nella straziante saga del ritiro dalle linee del Don attraverso la steppa innevata, la cattura e l’incarcerazione di migliaia di persone e la sopravvivenza di pochi) – Malgrado le denunce dell’onorevole Andreotti mi sembra che anche il film di De Santis, a parte il suo orientamento politico, racconti queste stesse vicende. (La traduzione è mia).

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che aveva scelto come protagoniste delle sue opere le classi più basse con le loro speranze sofferenze, lotte e contraddizioni. De Santis aspirava a creare un cinema che fosse in grado di rielaborare strutture narrative e modalità provenienti dalla tradizione popolare, rispettando allo stesso tempo il gusto della gente comune; voleva fondere questi elementi tradizionali nella forma codificata dell’intrattenimento cinematografico, creando una mitologia collettiva che avrebbe aiutato a ricostruire e a creare una nuova coscienza democratica. L’idea di cinema di De Santis diventa più interessante se si considera che egli cercò di organizzare non solo il contenuto dei suoi film, ma anche il livello di consapevolezza e comprensione del suo pubblico. Collocando fermamente il contenuto dei suoi film nel contesto rurale della classe contadina del Sud, il mondo che gli era più familiare, egli sperava e progettava di creare un cinema con una forte tensione morale e civile che avrebbe avuto un forte impatto sulla realtà nazionale. Ecco come il regista ha definito il suo cinema rispetto a quello di molti altri registi dell’epoca: «[….] Vi ho detto che in generale i registi che ci interessano, si sono avvicinati al mondo della povera gente con uno stato d’animo strettamente sentimentale, raggiungendo tuttavia un’innegabile compiutezza artistica. Per me il problema era diverso. E voglio dichiararvi subito – perché non s’interpreti quanto sto per dire in modo erroneo – che non ritengo di aver realizzato artisticamente più o meglio di altri, ma soltanto di muovermi nell’ambito di una diversa visione del mondo. Per me il problema era diverso. Le mie esperienze umane e culturali m’avevano portato a conoscere la realtà italiana e le sue vicende, dentro cui la classe degli umiliati e degli offesi, crescendo, si muoveva non soltanto sulla base d’un conflitto di più vaste proporzioni. E tale conflitto va oltre il furto d’una bicicletta e la drammatica ricerca 85 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

che ne fa il povero derubato per riconquistare il proprio lavoro, ma si pone nella identificazione dei responsabili che lo costringono a tanto patire; è un conflitto che va oltre la identificazione d’uno stato di miseria, in cui vivono gli zolfatari siciliani, ma si pone nella identificazione di chi ne determina la disperata fuga all’estero. Poiché, come sempre avviene nella creazione artistica, è da una visione più concreta d’ogni aspetto della vita umana che l’artista può ricavare osservazione, suggerimenti, soluzioni d’interesse più ampio, meno limitato da un’indagine di natura esclusivamente psicologica. Perciò nel mio lavoro, io mi sono sempre sforzato di guardare non solo alle rinunce individuali della povera gente, ma alle sue capacità di lotta, lotta che è il motivo della sua stessa esistenza; m’interessavano cioè non gli individui isolati, semmai questi individui come rappresentanti d’una classe, cellule d’uno organismo: la comunità, il coro non il solista. Naturalmente per far ciò io dovevo cogliere di questa classe da una parte le sue caratteristiche psicologiche, economiche e sociali, dall’altra porre in evidenza gli elementi di quel conflitto con la realtà avversa»14. Per concludere, il lungo silenzio di De Santis dovrebbe far riflettere e aiutare a far luce su alcuni dei periodi bui della vita culturale e civile italiana, ancor più se le semplicistiche supposizioni sull’egemonia culturale del PCI, specialmente nel mondo del cinema, fossero interpretate alla luce della lunga inattività di De Santis. Se fosse realmente esistita tale egemonia culturale, perché 14  Copia regalatami dal regista della conferenza da lui tenuta al Gabinetto Vieusseux a Firenze nella primavera del 1951. Devo aggiungere che De Santis aveva scritto – (le date non sono il mio forte e non sono riuscito a rammentare quella precisa e il tema e l’argomento furono dettati, a me, come del resto ad altri conferenzieri di altre specialità, dal Gabinetto stesso).

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De Santis non fu in grado di realizzare le sue storie sui contadini meridionali negli anni Cinquanta? Chiaramente il suo progetto incompiuto di creare un cinema nazionale e popolare rimane uno strumento significativo e utile per condurre una ricerca più approfondita sugli intrighi politici che condizionarono la produzione cinematografica nell’Italia del dopoguerra. Il progetto del regista ciociaro rappresenta un compromesso tra l’esperienza artistica del neorealismo e la sua commerciabilità. Il primo cinema neorealista era una raffinata esperienza artistica che si rivolgeva a un determinato tipo di pubblico, principalmente costituito dagli intellettuali progressisti della borghesia. Era lo sviluppo di una ipotesi umanista e liberale attraverso cui il cinema sarebbe diventato una ricerca artistica e una lotta culturale e politica per la creazione di una società migliore. Questo implicava lo sconvolgimento della struttura alla base dell’industria cinematografica e sovrapponeva il concetto utopico ottocentesco di arte naturalistica, non tecnologica, sui complessi problemi emergenti dello spettacolo cinematografico e dei suoi mezzi di comunicazione. Il progetto di De Santis era dunque quello di creare un cinema artistico per il divertimento e l’emancipazione della masse, senza negare i modelli e i generi cinematografici stabiliti. A differenza degli altri registi italiani del dopoguerra, De Santis voleva che i suoi film indicassero una soluzione ai problemi sociali e di classe del tempo. A questo fine è utile rifarsi alla già citata conferenza che tenne a Firenze nel 1951. In quell’occasione il regista criticò la tendenza pessimista e sentimentale dei suoi colleghi registi prendendo ad esempio Ladri di biciclette di De Sica, e fece notare come il pietismo, il sentimentalismo fossero tendenze predominanti del neorealismo dell’epoca. De Santis rimproverò inoltre a Il cammino della speranza di Pietro Germi di non aver indicato una 87 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

soluzione ai problemi dei minatori siciliani. Secondo il regista ciociaro la rassegnazione nell’accettare le ingiustizie sociali e il fallimento nell’indicare una via d’uscita erano il risultato di un atteggiamento che gli altri registi avevano verso la realtà storica. A questo proposito affermò che i suoi colleghi non si erano preoccupati di raccogliere informazioni sulle cause all’origine dei problemi e avevano finito, senza nemmeno accorgersene, per supportare la tesi di quelle organizzazioni che avevano interessi a negare una soluzione politica a tali questioni. In tale dichiarazione emerge chiaramente l’obiettivo del regista di creare un tipo di cinema impegnato, che fosse in grado non solo di illustrare i problemi, ma di fornire delle soluzioni. Per questa stessa ragione voleva creare film a cui chiunque potesse accostarsi e non avrebbe mai potuto concepire un genere di cinema prettamente intellettuale oppure esoterico. Lo sceneggiatore Ugo Pirro ha scritto che De Santis era con lui a Cannes quando fu presentato L’avventura di Antonioni e il regista ciociaro capì subito le conseguenze che quel film avrebbe avuto sul cinema nazionale italiano, ma non negò la sconfitta del proprio cinema. Pirro conclude i suoi ricordi sull’evento scrivendo che De Santis non merita solo rispetto per la sua coerenza stilistica e politica ma anche riconoscenza, essendo stato una guida per una intera generazione di cineasti. Da un punto di vista critico forse quel giorno a Cannes De Santis aveva percepito che il pubblico dell’epoca era cambiato e che i protagonisti erano la nuova borghesia. Il suo cinema, anche non in modo sistematico, ha rappresentato un primo tentativo di applicare la teoria del discorso sull’egemonia al campo del cinema, paragonabile al discorso sull’egemonia di Gramsci. Mi riferisco alla questione intellettuale nel contesto dell’analisi gramsciana della cultura popolare e del rapporto tra cultura alta e cultura di massa, che comprende anche il discorso sull’esercizio dell’egemonia e del consenso. 88 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

In questo contesto il cinema desantisiano, espressione organica della sinistra progressista, dell’antifascismo, avrebbe dovuto circolare tra i diversi ceti sociali e attraverso una sintesi dialettica integrarsi con le classi sfruttate, solo a quel punto si sarebbe potuta affermare una nuova ideologia egemone che avrebbe anche garantito il consenso del complesso organismo sociale alla struttura di potere delle classi dominanti. De Santis restò fedele alle sue idee e al suo cinema unico, tuttavia è chiaro che un tale programma non avrebbe potuto sopravvivere come un prodotto culturale all’interno dei cicli di mercato di un’industria guidata da logiche di profitto. La sua ambizione artistica avrebbe voluto creare film con l’intento di gettare nuove basi, o di riallacciarsi a una tradizione dentro il giusto appello di Gramsci a una visione nazional-popolare dei contenuti, e del linguaggio con cui questi contenuti sarebbero stati espressi. Per cui è proprio in base a questa ambizione che bisognerebbe anche giudicare la sua cinematografia, cercando di non cadere nelle solite accuse di “spettacolarismo”, “erotismo”, “dannunzianesimo”, “cattivo gusto”, “formalismo” ed altri “ismi” del genere, che costituiscono soltanto pregiudizi critici e luoghi comuni sul suo cinema.

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Dipinto di Ernesto Treccani sulla strage.

Lotte contadine a Melissa

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La Ciociaria nel cinema italiano

Nei libri di geografia e anche amministrativamente la Ciociaria è identificata come il territorio che grosso modo corrisponde alla provincia di Frosinone. Un territorio che si estende nella parte sudest della regione Lazio, irrigato dai fiumi Sacco e Liri, ed è in buona parte delimitato dai monti Lepini, Ausoni e Aurunci a occidente, dal confine con l’Abruzzo a oriente e più a sudest, verso il Molise, dai monti della Meta e le Mainarde, montagne impervie il cui aspetto aspro è spesso paragonato al carattere forte, chiuso e scontroso dei Ciociari interni della regione. Nel mondo della celluloide invece la Ciociaria include Itri, Sperlonga e Fondi a testimoniare che nel mondo del cinema l’aria culturale ciociara include anche la parte costiera del Lazio meridionale. Prima di approfondire il rapporto tra cinema e Ciociaria bisogna tenere in considerazione che il mondo contadino italiano, come si è detto, non ha incontrato particolare fortuna nella cultura cinematografica italiana. A De Santis spetta il merito di essersi interessato al mondo agricolo e anche quando l’ha fatto senza impegno politico è riuscito a cogliere l’humus e la mentalità dei contadini con spirito allegro, ironico ma non quello macchiettistico della commedia paesana italiana. In questo capitolo, dopo una rapida panoramica dei film più importanti ambientati nella Ciociaria, inclusa quella dell’immaginario cinematografico o di quei film che hanno come personaggi principali i ciociari, mi sof91 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

fermerò su Giorni d’amore di Giuseppe De Santis per dimostrare che anche quando De Santis apparentemente gira film meno impegnati ideologicamente, si distacca dai film della tipica commedia italiana, in quanto in questo film riesce a rifarsi alla grande narrativa italiana da Boccaccio in poi, nel cogliere l’ottimismo e il realismo della situazione, la gentilezza e l’umorismo di Goldoni, lo spirito della poesia dialettale, la saggia tolleranza di Manzoni e l’ambientazione realistica ma senza il fatalismo verghiano1. Scritta nel 1954 con la collaborazione di Libero de Libero, Elio Petri e Gianni Puccini, questa storia d’amore contadina è stata girata con la consulenza del pittore Domenico Purificato e con Marcello Mastroianni nell’unica interpretazione della sua lunga carriera nei panni di un giovane ciociaro. Come sarà detto nella seconda parte del saggio, Giorni d’amore per una serie di motivi tecnici ed artistici ma soprattutto per realizzazione, originalità e creatività, rimane tutt’oggi il film più riuscito ambientato interamente nella regione. Nelle immagini che scorrono su tante pellicole italiane del dopoguerra, periodo in cui il cinema italiano riscopre le differenze linguistiche regionali, la Ciociaria è il Lazio povero, terra di lavoro, di analfabeti e di povertà, cause di tanta emigrazione. Numerosi sono i personaggi, per la maggior parte donne, che esprimendosi in dialetto o in un italiano scorretto e fortemente dialettale servivano a far ridere gli spettatori o a ricordare le condizioni di vita che le avevano spinte in città, per lo più a Roma, a fare lavori domestici, come la 1  Giuseppe De Santis, Gianni Puccini e Elio Petri, La parola agli autori del film "Giorni d’amore", «l’Unità», 19 dicembre 1954. De Santis scrisse anche una lunga lettera a Guido Aristarco per difendere il suo film; De Santis ci scrive a proposito di "Giorni d’amore", in «Cinema Nuovo», 49, 25 dicembre 1954. La difesa del regista fu seguita da un lungo articolo di Aristarco in cui si criticava l’interpretazione del regista del concetto gramsciano di cultura popolare. Aristarco, Giorni d’amore, «Cinema nuovo», 50, 10 gennaio 1955.

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servetta in Umberto D di Vittorio De Sica del 1952. La caratterizzazione dei ciociari prevale ancor oggi e appare spesso anche nel panorama cinematografico mondiale contemporaneo. Un buon esempio è la serie televisiva della PBS North of Naples, South of Rome tratta dal libro omonimo di Paolo Tullio che presenta la Valle Comino come il piccolo mondo della bassa padana di Giovanni Guareschi ma in formato meridionale e attuale, senza gli scontri politici della guerra fredda. I ciociari della Valle di Comino appaiono chiassosi, vivaci, buffi, malinconici, cupi, appassionati, caratteristiche ben espresse dalla poesia inclusa nel testo: La mia valle è di un solo colore, non conosce le mezze stagioni né il mezzo di nulla. La sua gente ha sempre il cuore troppo colmo, d’amore o di odio, non importa: basta una goccia a farlo traboccare […] La mia valle ha gli uomini pirata. La mia valle ha le donne dolci e matte non sanno dimenticare2. Nell’ambito del cinema italiano moderno la caratterizzazione citata è ancora presente nel bel film della romana Francesca Archibugi, Verso sera del 1990. In questa triste storia ambientata negli anni Settanta, Bruschi (Marcello Mastroianni), vecchio professore comunista, nel tentativo di proteggere la nipotina, si innamora della irrequieta e ribelle nuora e scopre che il modo di fare politica e di agire dei giovani di sinistra è molto diverso da quello della vecchia classe politica gramsciana. Purtroppo, nelle sue scoperte il professore non si accorge 2  Gerardo Vacana, Pit Pony/Cavallo di miniera, Cloghroe, Litho Press, 1993, p. 28.

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della fedele governante analfabeta che nella sua incapacità di esprimersi simboleggia il mondo degli umili per cui il professore avrebbe dovuto lottare. Ritornando agli anni del dopoguerra nel 1950 esce Non c ‘è pace tra gli ulivi il più controverso e conosciuto dei film ambientati in Ciociaria in cui, ricalcando il western americano, il melodramma e il teatro brechtiano, il regista ciociaro Giuseppe De Santis denuncia povertà e sopraffazione. Nel racconto filmico, Francesco Dominici (Raf Vallone) torna al paese dopo tre anni di guerra e altrettanti di prigionia per scoprire che il suo gregge è stato rubato dal pastore Agostino Bonfiglio (Folco Lulli) che si è arricchito con l’usura durante la guerra e sta anche progettando di sposare la giovane sorella del reduce. Nel farsi giustizia Dominici è arrestato e condannato. Il film fu accusato di astrattismo e il critico della rivista «Cinema», Adriano Baracco definì dannunzianesimo il modo in cui posano i pastori e l’uso della Pan focus allo scopo di mettere in risalto l’asprezza del paesaggio ciociaro. Nella sua accanita risposta il regista Giuseppe De Santis difese l’autenticità storica e sociale mostrata dichiarando: «Fedele a quella realtà della Ciociaria sono stato mostrando in quali condizioni di disagio economico ed ambientale vivano i pastori che abitano in vecchie catapecchie di pietra e per i quali quattro pecore possono significare la salvezza dalla fame. Il gioco, talvolta meschino, delle passioni che agitano gli animi di quella gente tenacemente attaccata alla loro “roba” eppure capace di generosi impulsi [...] ; fedelissimo alla realtà della mia terra è anche quell’oscuro groviglio di superstizioni e di fanatismi religiosi di colore quasi pagano nel visitare ogni anno gli antichi santuari: reale è lo stato di semi schiavitù in cui la donna è costretta a vivere, inerme strumento degli interessi familiari: vera e stori94 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ca, e ciò trascende i confini della Ciociaria per diventare una caratteristica universale, è l’esistenza dei soprusi e delle violenze da parte di individui che accentrando il potere economico, di esso si servono per continuare a padroneggiare ed arricchirsi sui più deboli»3. Dalle parole del regista si coglie la sua intenzione di rispettare la realtà sociale della regione ma allo stesso tempo mitizzarla e farla apparire come terra primitiva, visione molto vicina a quella poetica di Libero de Libero cantore della bellezza selvaggia, segreta, arcaica del luogo e della fierezza e irrequietezza degli abitanti come i seguenti amorevoli e scherzosi versi confermano: «La mamma del mio amore pozz’esse accisa lo va dicendo ch’è poca la dota gliu figlio non possede la cammisa»4. Nel cinema impegnato di De Santis i problemi della Ciociaria sono usati come denuncia sociale mentre nel cinema commerciale o più leggero i Ciociari a causa della loro bassa dimestichezza con l’italiano sono spesso usati come personaggi comici non protagonisti che servono per sdrammatizzare la situazione oppure come semplici macchiette. I film drammatici, oltre a quelli di Giuseppe De Santis in cui i Ciociari hanno un ruolo importante o sono protagonisti, sono pochi e fra i più conosciuti va ricordato; La ciociara del 1960 di Vittorio De Sica con Sophia Loren, Jean-Paul Belmondo, Raf Vallone e Renato Salvatori. Tratto dal romanzo omonimo di Alberto Moravia e sceneggiato da Cesare Zavattini il film tratta della fuga dai bombardamenti della commerciante Cesira con la figlia Rosetta da Trastevere a Sant’Eufemia, il paesello tra i monti della Ciociaria dove Cesira è nata. 3  Giuseppe De Santis, Lettera a Adriano Baracco, «Cinema», n. 50, 15 novembre 1950. Libero de Libero, Ciociaro come la Ciociaria, «Milano sera», 18 ottobre 1950. Nino Manfredi, Nudo d’attore, Milano, Mondadori, 1993, p. 9. 4  Libero de Libero, Ciociaro come la Ciociaria, cit.

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Benché vincitore dell’oscar come miglior film straniero, oppure come riconoscimento al divismo, La ciociara rappresenta un melodramma concepito secondo le esigenze del divismo e i criteri della grande spettacolarità della produzione hollywoodiana. L’ambientazione è meno importante del personaggio principale Cesira/Loren che spesso ancheggia ma che raggiunge un alto livello di intensità emotiva soltanto durante le scene più drammatiche dello stupro. Nell’insieme il film mantiene un’ambientazione naturalistica della Ciociaria ma mostra una caratterizzazione dei personaggi di fondo che rasenta il macchiettismo e in cui si salva soltanto il personaggio di Michele, interpretato da Belmondo, che appare estraneo al tipo e all’ambiente spocchioso degli egoistici commercianti rifugiati in montagna dove passano il proprio tempo cantando, accumulando cibo e abbuffandosi. Fra il cinema impegnato e sofisticato di De Santis e le semplici macchiette comiche bisogna collegare le interpretazioni di Nino, all’anagrafe Saturnino, Manfredi nato a Castro dei Volsci. Dopo un debutto cinematografico poco fortunato Manfredi è arrivato al successo negli anni Settanta grazie al successo nel ruolo di Geppetto per il film televisivo Le avventure di Pinocchio del 1972 di Luigi Comencini che lo elogiò definendolo l’unico attore italiano in grado di parlare con un pezzo di legno. Grazie alle sue origini e il suo esordio televisivo, nel bene e nel male, Nino Manfredi esemplifica il ciociaro nel panorama del cinema italiano e non solo nelle sue interpretazioni rustiche ma anche per la determinazione con cui è riuscito ad affermarsi nel mondo dello spettacolo negli anni in cui Totò la faceva da padrone e tra i nuovi attori Alberto Sordi era il comico più in vista. Tra gli attori che hanno interpretato personaggi ciociari di rilievo Manfredi è di certo l’attore italiano più autenticamente popolare. Sebbene oggi sia spesso identificato con la romanità popolana, grazie alle grandi interpre96 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tazioni nel ruolo di Pasquino in Nell’anno del Signore, 1968, oppure In nome del Papa Re, 1977, nella parte di don Colombo, entrambi di Luigi Magni e soprattutto dopo l’indimenticabile C’eravamo tanto amati (1975) di Ettore Scola in cui faceva la parte di Antonio, lo sfigato portantino di sinistra. Ma nessuno potrà mai dimenticare che è arrivato alla celebrità attraverso la televisione nella Canzonissima del 1959. Negli anni del boom economico il personaggio del polemico e controverso barista di Ceccano con la sua aggressività e spregiudicatezza mise in crisi la televisione di stato. La sua proverbiale espressione ciociara: «fusse che fusse la vorta bbona» è diventata sinonimo di ciociarismo e di frustrazione nazionale. Dopo il successo di Canzonissima, pur rifiutando le offerte di tanti produttori che volevano fargli interpretare un film con il titolo esplicito Fusse che fusse la vorta bbona, Manfredi in Straziami ma di baci saziami di Dino Risi, nel 1968, interpreta di nuovo il ruolo di un ciociaro nella parte di Marino, barbiere di Alatri, che insieme alla brava Pamela Tiffin, nella parte della sfortunata innamorata, parla un linguaggio ricalcato sulla lingua della subcultura popolare di fotoromanzi, canzoni ed espressioni della pubblicità. L’attore si ripete in Vedo nudo (1969) in cui interpreta un contadino violentatore di galline e in Questa volta parliamo di uomini (1965) di Lina Wertmüller nell’episodio “Un bravo uomo” in cui interpreta la parte di un contadino fannullone che la sera torna a casa ubriaco e rimprovera la moglie, che ha sgobbato tutto il giorno, di non somigliare a Sophia Loren. Tra i film interpretati o girati da Manfredi, Per grazia ricevuta del 1971 è l’opera che raccoglie pienamente la sua formazione culturale e l’indole ciociara. Il film sul rapporto tra uomo, religiosità e tabù sessuali è stato realizzato solamente grazie alla volontà dell’attore che per molto tempo non era riuscito a trovare un produttore 97 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

e che molti registi tra cui Luigi Magni, con cui Manfredi aveva girato due film, gli avevano consigliato di non realizzare. La determinazione e l’investimento finanziario rischiato nel progetto del film, diretto, scritto e interpretato da lui, furono ripagati dall’assegnazione del premio opera prima a Cannes, due nastri d’argento e tanti riconoscimenti minori tra cui quello del pubblico, incassando tre miliardi e ottocento novantatré milioni di lire sul mercato italiano. Per grazia ricevuta è la storia di Benedetto, bambino orfano e cresciuto male da una zia di facili costumi, in un paese remoto della Ciociaria, che attratto dal peccato si crede escluso dalla grazia di Dio per avere preso sacrilegamente la prima comunione. Dopo la fuga dalla chiesa e la caduta da un muraglione si rialza miracolato e vive smarrito per quindici anni in un convento senza godere la propria fortuna fino a quando, dopo aver salvato una donna morsa da una vipera, capisce che l’ora di entrare nel mondo è arrivata. Lasciato il convento diventa venditore ambulante di capi di vestiario e con l’aiuto di una donna scopre che il sesso non è peccato e inoltre, con il pentimento in punto di morte dell’ateo Oreste, scopre il potere misterioso di Dio e accetta il suo stato di miracolato. Benché il film svolga con intelligenza il tema del tabù religioso e il rapporto con la superstizione con un ritmo e una caratterizzazione abile e ben riuscita, in una recensione su «L’Europeo» è riassunto come la storia di uno sprovveduto, un umiliato e offeso nel Lazio povero. Invece di soffermarsi sulle qualità e novità del film la recensione si sofferma sull’ambientazione del film usando i soliti luoghi comuni. Sebbene la Ciociaria nel film di Manfredi appaia come una terra selvaggia, primitiva e piena di superstizioni, essa ha un ruolo primario per lo svolgimento del dramma umano di Benedetto nella sua lotta per reprimere il desiderio sessuale che prova per il 98 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

corpo femminile che una educazione religiosa sbagliata gli ha impresso durante l’infanzia. L’attore stesso ha scritto in merito: «Sono nato in un paese della Ciociaria, che si chiama Castro dei Volsci, in località Valle Fratta... Quando ero bambino, i miei compaesani erano ancora a livello di civiltà rurale non superiore a quella dei nostri progenitori. Se un bambino mostrava certe curiosità veniva preso a bacchettate sulle dita perché gli argomenti sessuali erano tabù. Ho affrontato questi temi in Per grazia ricevuta, anche perché ho covato per anni dei sentimenti che somigliavano alla ribellione e ho sentito il bisogno di esprimerli»5. Dopo questa rapida carrellata passiamo all’analisi di Giorni d’amore del 1954 di Giuseppe De Santis, film che va oltre le rappresentazioni della Ciociaria e dei ciociari già menzionate. Agli inizi degli anni Cinquanta la libertà d’espressione artistica si era molto ristretta. Il controllo statale dei fondi aveva spento molte iniziative. Il neorealismo concepito come movimento di protesta sociale e inchiesta civile sembrava aver esaurito il suo breve corso negli annali del cinema italiano. L’immaginazione del grosso pubblico era dominata da Catene e I figli di nessuno, film strappa lacrime di Raffaello Matarazzo con l’accoppiata Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson. A metà del decennio nasce il neorealismo rosa, nuovo genere formatosi seguendo il modello di Due soldi di speranza (1952) di Renato Castellani ed esploso con Pane amore e fantasia (1953) e Pane amore e gelosia (1954) di Luigi Comencini, Pane, amore e (1955) di Dino Risi, Pane amore e Andalusia (1958) di Javier Setò i cui incassi facevano contenti i produttori italiani occupando le proiezioni delle sale italiane sparse per la penisola. De Santis, incapace di trovare fondi per le sue sceneggiature sull’occupazio5 Nino Manfredi, Nudo d’attore, cit., p. 9.

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ne delle terre in Ciociaria e in Calabria6, cercò di creare nuove possibilità d’espressione senza tradire la propria idea di creare un cinema politico e nazionale realizzando Giorni d ‘amore il cui titolo riflette ironicamente anche le nuove restrizioni nel mondo del cinema italiano ai tempi della ricostruzione postbellica. Malgrado il titolo faccia pensare a una semplice commedia romantica, questa fiaba contadina è un film colto, che segna un netto distacco sia dal nuovo genere del neorealismo rosa, sia dallo stile drammatico dei film precedenti. Mentre le commedie romantiche paesane dell’epoca cercavano di imitare l’approccio realistico del neorealismo ambientando film in paesini del centro meridione, utilizzando un linguaggio folcloristico e utilizzando la religione e il modo di vestire dei personaggi alla maniera dei costumi in un dramma storico cinematografico, De Santis invece, si propone di cambiare le vecchie documentaristiche concezioni di realismo per raggiungere un tono e uno stile fantastico, poetico, libero e di trovare un legame con la tradizione nobile della narrativa italiana. Il legame è ricercato nel realismo boccaccesco, la gentilezza e l’apertura mentale delle commedie rustiche di Carlo Goldoni, l’ironia e scaltrezza di Alessandro Manzoni e il dolore di Giovanni Verga. La strategia desantisiana era di esaminare le dinamiche interne e le forze conflittuali nascoste nelle vecchie usanze popolari e metterle a nudo senza alienare o offendere il pubblico. In Giorni d’amore, vecchie usanze e pregiudizi, preservati dalla povertà e dall’ignoranza, sono presi di mira dagli autori del film. Per meglio portare a termine i propri progetti il regista prende come modello le Baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni, la farsa popolare, e i cantastorie meridionali. Gli 6 Negli anni Cinquanta, come già detto, De Santis aveva scritto una sceneggiatura intitolata Noi che facciamo crescere il grano, storia sull’occupazione delle terre in Calabria e insieme a Carlo Lizzani aveva ripreso l’occupazione delle terre in Ciociaria.

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amorosi vagabondaggi di Pasquale e Angela attraverso la campagna, tipici del genere romantico, sono legati, allacciati e contrapposti alle scene farsesche che hanno luogo nel centro del borgo ciociaro. Durante l’esposizione della zingaresca luna di miele della coppia il film sviluppa pienamente e approfondisce il carattere e la personalità dei due personaggi principali, qualcosa che il regista non aveva fatto nel suo altro film, Non c’è pace tra gli ulivi, nel quale i pastori erano rimasti tipi. Lo sviluppo dei personaggi in Giorni d’amore è anche parte della strategia del regista di concepire un nuovo modo per combattere e cambiare le vecchie documentariste concezioni del cinema realista. Lo scopo era quello di raggiungere un tono e uno stile più fantastico, poetico e libero trovando allo stesso tempo un legame con l’ambiente narrato e prendendo come modello la tradizione letteraria. Un attento esame del film ci darà modo di capire come tale strategia sia stata portata a termine. Giorni d’amore racconta la storia di come Pasquale (Marcello Mastroianni) ed Angela (Marina Vlady) si sono sposati. Pasquale è appena tornato dal servizio militare e vuole sposare Angela da tempo sua fidanzata. Angela sogna un bellissimo sposalizio con parenti e amici. Vorrebbe anche la mobilia per la stanza da letto e possibilmente un viaggio di nozze in treno per la luna di miele. Come molte ragazze degli anni Cinquanta Angela sogna un matrimonio memorabile. Sfortunatamente le rispettive famiglie sono povere e lo scarso raccolto stagionale ha reso la situazione economica più precaria. Angela e Pasquale decidono di risparmiare ma i loro sforzi sono vanificati dalle spese. Il matrimonio dei loro sogni verrebbe a costare cinquantamila lire in un epoca in cui la maggioranza delle famiglie, 6,5 su 10, vive in condizioni tali da non potersi permettere quasi nulla7. 7  Marta Boneschi, Poveri ma belli. I nostri anni Cinquanta, Milano, Mondatori, 1995, p. 296.

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Invece di rimandare ancora di un anno il matrimonio come vorrebbero i familiari, i giovani innamorati ricorrono ad un vecchio espediente. Per risparmiare e salvare la reputazione delle famiglie, Pasquale metterà in atto un falso rapimento della giovane; una volta consumato il matrimonio, Angela per salvare la propria reputazione dovrà sposarlo e le famiglie risparmieranno soldi e salveranno l’onore. Durante la loro fuga le due famiglie faranno finta di litigare per far credere al paese di non essere coinvolti nel rapimento. Sfortunatamente la falsa lite esplode in una vera. Il padre di Angela preso dalla foga degli insulti chiama i carabinieri e il parroco e invoca il loro aiuto nel ritrovamento della figlia rapita. L’intero paese partecipa alla ricerca, che per i giovani diventa una festa e per il regista un pretesto spiritoso per mettere in mostra i cambiamenti culturali avvenuti nel dopoguerra nel modo di vestire dei compaesani. Si vedono infatti giovani con variopinti vestiti americani e contadine con fazzoletti con lo stemma dell’aquila statunitense, regali dei tanti pacchi inviati dai parenti emigrati. Al ritorno Pasquale ed Angela sono accolti da famiglie in collera e risentite che non vogliono saperne del loro matrimonio. La storia prende un’altra svolta inaspettata quando i familiari di Angela, per vendicarsi, sequestrano Pasquale che Angela deve liberare per poi correre insieme dal parroco a sposarsi. Come altri film del neorealismo rosa, Giorni d’amore ha luogo in un piccolo paese meridionale, Fondi per l’appunto. I personaggi principali sono di estrazioni economiche modeste. Gli esterni del film sono stati per lo più girati nei luoghi descritti, la storia si ispira a fatti accaduti o probabili, i conflitti sono affrontati secondo la mentalità delle persone coinvolte e per lo più i protagonisti non sono attori professionisti, aspetti che farebbero sembrare il film di cui parliamo simile agli altri del genere neorealismo rosa di moda negli anni Cinquan102 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ta. Un’attenta analisi mostrerà che le caratteristiche ora ricordate sono soltanto aspetti periferici della concezione di fare cinema del regista ciociaro. Giorni d’amore non anticipa la satira politica degli anni Settanta o la commedia sociale che dominò a partire dagli anni Sessanta, ma è un’originale versione cinematografica di una farsa amorosa contadina. Il film è composto di due storie, la prima è narrata in una mescolanza di generi narrativi presi dal teatro popolare e racconta la storia degli intrighi tra le due famiglie. La seconda concerne le aspirazioni e le frustrazioni della giovane coppia e della loro fuga attraverso la campagna intorno a Fondi e al lago che sono mostrati come luoghi ameni: un topos del genere romantico sfruttato dal regista comicamente. Infatti, nel corso del loro vagabondaggio molte situazioni inaspettate accadono che mettono in risalto la disparità tra la realtà e i sogni dei due giovani. Nel presentare le difficoltà che una giovane coppia deve affrontare per poter portare a termine i propri sogni Giorni d ‘amore mette a nudo le differenze tra le vere condizioni economiche e le aspettative indotte dalla nascente pubblicità. Angela, infatti, passa il tempo libero a leggere riviste e pubblicità di abiti nuziali. La prima storia si svolge in un piccolo centro di un paese ciociaro ricreato con la collaborazione del pittore Domenico Purificato, conterraneo e amico d’infanzia del regista, che come scenografo ha contribuito a realizzare tutte le scene girate in interni, i colori dei vestiti, e l’applicazione dei colori. Per Purificato la collaborazione al film segna la messa in opera di principi sulla relazione tra cinema e pittura, riflessione intrapresa negli anni Trenta e poi approfondita negli anni Quaranta. Durante la collaborazione alla rivista «Cinema», Purificato aveva sviluppato le proprie teorie sull’applicazione del colore a un fotogramma cinematografico basandosi sui principi della composizione. In pratica Purificato aveva 103 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

studiato il movimento delle figure nello spazio di una inquadratura e aveva cercato di applicare le tonalità e le gradazioni dei vari colori negli spazi vuoti con lo scopo di trovare una correlazione tra la pittura e il linguaggio cinematografico. Siccome Giorni d ‘amore è il primo film a colori di Giuseppe De Santis, il ruolo di Purificato è stato determinante. Senza togliere nulla al bravissimo direttore della fotografia, Otello Martelli, il pittore ciociaro ha aggiunto dettagli significativi e speciali come, per esempio, l’uso della gelatina sulle lenti per dare alle immagini una patina speciale. Per mettere alla prova i suoi principi Purificato ha trasformato una rimessa in un laboratorio dove lavorava sugli effetti speciali dei colori e sui contrasti poi utilizzati per ricreare gli interni delle abitazioni delle due famiglie. Una delle maggiori preoccupazioni del pittore era di smorzare la luminosità del blu, che allora era l’inconveniente principale della pellicola Ferraniacolor usata da Otello Martelli. L’intenzione del pittore era: «[…] di ottenere colori costantemente scanditi, definiti, e organizzati in stretto rapporto pittorico con i colori vicini, colori che siano innanzitutto colori, il più possibile lontani da compromessi e incertezze chiaroscurali, e anzi qua e là rivolti ad impegni addirittura luministici»8. Per raggiungere lo scopo Purificato aveva anche ritoccato il colore degli alberi, dei vestiti degli attori, dando un equilibrio cromatico alle scene. Per esempio, nella sequenza in cui gli sposi arrivano alla capanna in campagna, Purificato nella ricerca di dare un equilibrio cromatico al nastro rosso nei capelli di Angela ha appeso una corona rossa di pomodori alla parete opposta. La sperimentazione sui colori aveva anche lo scopo di dare più teatralità al film, evidente anche nella ricostru8  Domenico Purificato citato in Antonio Parisi, Il cinema di Giuseppe De Santis. Tra passione e ideologia, Roma, Cadmo, 1983, p. 151.

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zione del vicolo in cui si trovano le abitazioni delle due famiglie. Nelle scene girate durante la lite le abitazioni di Pasquale ed Angela sono dirimpetto in una ricostruzione di un vicolo in teatro di posa, per accentuare lo spettacolo e vedere meglio la gestualità dei personaggi dopo la fuga dei giovani. Lo spettacolo del litigio è sfruttato al massimo dalla scenografia ideata da Purificato. La facciata di una abitazione è ricostruita con una curva modellata come l’oratorio di San Filippo di Francesco Borromini nella chiesa Nuova a Roma, il che permette di vedere le abitazioni prospicienti dalle due estremità del vicolo sia che si inquadrino da un lato sia dall’altro del vicolo. Per accentuare il calore dell’ambiente il paese è abbellito da colori forti; infatti alcune facciate sono rosa, altre ocra e sui balconi e sotto le finestre sono appesi utensili, peperoni, trecce di pomodori e agli, mazzi di cipolle e nastri con colori fiammanti e sfrontati. La voluta atmosfera da palcoscenico è accentuata dal fatto che le finestre delle rispettive case hanno tapparelle con dipinti sopra un ambiente marino per Pasquale e una sirena per Angela che richiamano il sipario di un teatro. Durante la lite i vari membri delle due famiglie si comportano come burattini. I loro gesti e corpi sono controllati e poco naturali. Le loro battute e gli insulti non sono spontanei e spesso sono intercalate da commenti maliziosi e sagaci da parte del pubblico composto dai divertiti compaesani che assumono il ruolo di un parterre. La spettacolarità della lite rientra nella strategia del regista di dare al racconto una messa in scena farsesca. I litiganti si divertono e si eccitano, si riscaldano mentre discutono dando vita a una rappresentazione da opera buffa. Prima di iniziare la lite i capifamiglia devono essere spronati dalle rispettive mogli. La loro esitazione è un espediente per far partecipare gli spettatori che li incitano. Appena la lite incomincia, come nella commedia dell’arte, gli 105 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

attori recitano le loro parti seguendo un canovaccio ma improvvisando le battute e cercando di superare il rivale mostrando prontezza e astuzia. In tal modo la lite si rifà alle tradizioni letterarie italiane ma contemporaneamente si ricollega all’usanza ciociara e meridionale nella quale i vicini sono spettatori e parte dello spettacolo da includere quando la famiglia deve mantenere e proteggere la propria reputazione. I paesani fanno finta di credere alla lite e stanno al gioco del falso rapimento per mantenere la convenzione sociale. La stessa cosa accade anche durante la ricerca dei due giovani amanti. La comitiva sembra una processione laica composta di tutti i personaggi buffi e comici del paese, dal prete grassoccio, al seminarista in vacanza, al maresciallo tracagnotto e bonario, e c’è anche un nano che accresce l’atmosfera da circo che permane. Addirittura, c’è anche un reporter in cerca di notizie sensazionali. Gli elementi menzionati arricchiscono lo spirito buffonesco del film e rendono Giorni d ‘amore una commedia romantica, piacevole e originale in cui il regista mostra il suo amore per la sua terra senza ridicolizzarla come spesso avviene nelle satire di costume. Per concludere, i ciociari hanno spesso ruoli comici o da macchiette nei film italiani e quelli ambientati in Ciociaria mostrano la bellezza e l’arretratezza culturale della regione. Tra le opere cinematografiche girate per intero in Ciociaria, Giorni d’amore oltre ad avere come autori un regista, un pittore, uno scrittore/poeta e un attore protagonista nativi della zona è il film più importante mai realizzato nel Lazio del sud, per aver saputo legare con amore, rispetto, intelligenza, e comicità le usanze, i pregiudizi, la religiosità e la teatralità dei ciociari. Avendo preso come modello la letteratura tradizionale, l’opera buffa, la commedia dell’arte, il teatro di Goldoni, Giorni d ‘amore è un film corale, popolare, attento all’attualità del tempo, al costume, alla realtà storica della regione e 106 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

senza essere mai paternalista riesce a dare sensazioni e divertimento evitando il bozzettismo.

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Attorialità e recitazione nel cinema di Giuseppe De Santis Il cinema deve essere lo specchio del proprio paese in movimento: uno specchio che pensa nella febbrile ricerca d’una sistemazione, d’una condizione più umana, la più aderente ai sentimenti base, popolari del paese. [Cesare Zavattini in Cinema e Resistenza]

Lo scopo di questa ricerca è di delineare la posizione neorealista in generale e in particolare del regista Giuseppe De Santis nei confronti dell’uso degli attori; in altre parole, il problema della recitazione e dell’attorialità nel cinema del dopoguerra italiano. Nei testi più diffusi presso le università statunitensi1 si sostiene con convinzione che il neorealismo ha elaborato la pratica dell’attore preso dalla strada2, una prassi, in realtà, dovuta più al caso e alle circostanze storiche che ad una 1  Si potrebbero citare tanti testi ma forse il più letto di tutti è quello di James Monaco, How to Read a Film (New York Oxford University Press, 1981) che a p. 253, afferma: «The Neorealists were working for a cinema intimately connected with the experience of living: nonprofessional actors, rough technique, political point, ideas rather then entertainment-all these elements went directly counter to the Hollywood esthetic of smooth, seamless professionalism». 2  Pratica usata anche nel cinema italiano degli anni Trenta da Blasetti e da Giovacchino Forzano che nel 1932 iniziò le riprese di Camicia Nera per celebrare la bonifica delle Paludi Pontine e l’inaugurazione della città di Littoria. In una lettera al segretario privato del Duce afferma: «La mattina alle 5 mi metto a girare in palude per trovare gli attori. Voglio fare tutto senza attori di mestiere. Ho delle sorprese insospettate; gente trovata per la strada, sullo schermo ti danno impressioni di naturalezza e verità sorprendenti... Il sistema oltre ai vantaggi artistici, mi risparmia la ridda delle femmine, le inimicizie dei relativi maschi con tutti gli annessi, i connessi e i consorzi artistici». In Italian Cinema in the Thirties: "Camicia nera" and other films by Giovacchino Forzano di C. E. J. Griffiths, «The Italianist», vol. 15, 1995, p. 302.

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vera teoria, tanto meno a un consenso generale, a tal riguardo, da parte dei registi del periodo3. Inoltre, nonostante i numerosi volumi scritti e le varie testimonianze degli stessi protagonisti, rimane un canone accademico soprattutto statunitense quello di identificare il neorealismo con la naturalezza e la spontaneità degli interpreti presi dalla strada che avrebbero assicurato la credibilità dell’insieme e garantito la rinuncia a certi bamboleggiamenti divistici. È pratica comune negli atenei americani, anche se non regola fondamentale, di pensare al neorealismo come una rappresentazione cinematografica lineare dei fatti, priva di sfarzosi movimenti di macchina e di velleitarie impennate di montaggio interno, che all’epoca veniva definito il montaggio russo4. Pratiche ritenute necessarie per mantenere un rigoroso stile, privo delle superfluità avanguardistiche, decadenti e formalistiche dell’epoca precedente e necessarie per avvicinarsi al vero. A queste idee bisogna aggiungere anche la pratica del più rigoroso divieto verso qualsiasi curio3  Basta citare tra tutte la testimonianza di Roberto Rossellini, ritenuto da molti padre del neorealismo che ha affermato: «Se il neorealismo si è rivelato in modo più impressionante al mondo attraverso Roma città aperta, sta agli altri giudicare. ... Io vedo la nascita del neorealismo più in là: si viene componendo attraverso le spontanee creazioni degli attori: di Anna Magnani e Aldo Fabrizi in particolare. Chi può negare che sono questi attori a incarnare, per primi, il neorealismo? Che le scene di varietà dei "forzuti" o delle "stornellate romane" giuocate su un tappeto o con l’aiuto di una sola chitarra, come erano state inventate dalla Magnani, o la figura disegnata sui palcoscenici rionali da Fabrizi, già non preludevano a momenti di taluni film dell’epoca neorealista? Il neorealismo nasce inconsciamente, come film dialettale; poi acquista coscienza nel vivo dei problemi umani, e sociali della guerra e del dopoguerra. E, in tema di film dialettale, non sarà male riferirsi, storicamente, ai nostri predecessori meno immediati: intendo dire Blasetti per il suo film con i "tipi", 1860 ed a Camerini per il film come Gli uomini, che mascalzoni». Roberto Rossellini. Il mio metodo, a cura di Adriano Arpà, Venezia, Marsilio, 1987, p. 85. 4  Mi riferisco al montaggio usato da Eisenstein che lo considerava il processo fondamentale di significazione cinematografica in opposizione al classico découpage tradizionale.

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sità pruriginosa di sapere cosa fanno le coppie quando rimangono sole5. Per poter arrivare a capire la posizione del regista ciociaro Giuseppe De Santis riguardo alle tematiche qui ricordate, dovremmo rivedere il ruolo svolto dalla rivista «Cinema» nel periodo precedente la seconda guerra mondiale e rivalutare l’influenza svolta dagli articoli e dalle lezioni del critico Umberto Barbaro tenute al Centro sperimentale dove si formarono le idee di molti dei giovani che poi, come vedremo in seguito, passarono dagli articoli su «Cinema» alla regia nel dopoguerra, dando impulso a quel periodo indimenticabile del cinema italiano oggi ricordato come neorealismo. Per iniziare bisogna considerare quali erano le teorie più conosciute, discusse e praticate nel dibattito intorno alla recitazione che avrebbero potuto influenzare i registi del dopoguerra. Poi esaminerò la campagna per il rinnovo del cinema italiano svolta da De Santis durante la sua collaborazione con la rivista «Cinema», e come questa pratica fu elaborata nel periodo neorealista, per constatare se esiste veramente una contraddizione tra teoria e pratica. Questo argomento accennerà a come nacque e si sviluppò il nuovo divismo degli anni Cinquanta, conosciuto da tutti come il divismo delle maggiorate. Questo ultimo aspetto ci porterà a riconsiderare la posizione e il ruolo avuto dal regista Giuseppe De Santis, ancora oggi ritenuto il responsabile della rinascita del divismo per il modo in cui viene utilizzata e ripresa Silvana Mangano in Riso amaro (1949), film considerato l’inizio del passaggio che segna il ritorno alle grandi dive e di conseguenza colpevole di tradimento nei confronti degli ideali dell’anti-attorialismo neorealista. Interessante riportare la risposta data dal regista alla domanda sul fatto che, 5 A tale pratica trasgredisce Giuseppe De Santis, il più sensuale regista dell’epoca che con Riso amaro scatenò il primo grande dibattito nazionale chiamando in causa anche il buon costume delle mondine italiane.

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benché partecipe del clima neorealista, il suo cinema giocasse in modo evidente la carta dell’attore: «Con la Mangano non ho mai pensato di creare una diva, l’ho scelta perché cercavo una Rita Hayworth italiana. Era l’epoca di Gilda. Il panorama delle attrici italiane non me la offriva. Bisognava cercarla altrove. […] Non ho mai appoggiato la tendenza e la moda del cinema di trovare l’attore per strada … Anzi io ho sempre desiderato, teorizzato persino, che l’esperienza che andavamo facendo noi registi la facessero parallelamente anche gli attori, soprattutto gli attori, che come noi dovevano imparare ad avvicinarsi alla realtà. La mia tendenza era di avere proprio un attore. Ma in questo caso non c’era; e quindi scelsi la Mangano che divenne diva dopo, per conto suo. Ho assistito a un fatto straordinario: ho visto nascere il divismo spontaneo, perché la Mangano in risaia fu amata e eletta diva dalle mondine che lei rappresentava. È in risaia che la Mangano diventò diva, spontaneamente, non creata artificiosamente dalla pubblicità. La Pampanini è un caso diverso. Quando io trovavo il modello del mio personaggio nel panorama degli attori, sceglievo l’attore. Anzi più l’attore era popolare commercialmente, più era un veicolo per trasferire su di lui i miei contenuti. Per i registi “impegnati”, la Pampanini non andava bene. La trovavano volgare, commerciale, non attrice. In realtà la Pampanini fece benissimo il suo ruolo di Anna Zaccheo. Io l’ho utilizzata anche per La strada lunga un anno. L’importante era fare ritrovare se stessa a un’attrice che aveva fatto ruoli che non significavano niente. Le incomprensioni nei miei confronti derivano anche dal fatto che io sono diventato un regista di grande successo popolare. E in Italia si diffida sempre di chi ha successo popolare…»6. 6  De Santis in «Cinema & Cinema», De Santis: l’avventura neorealista, Venezia, Marsilio Editori, 1982, n. 30, pp. 68-69.

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La nuova leva degli attori del dopoguerra, così come i registi7, si era formata al Centro sperimentale dove si erano svolte le discussioni intorno alle teorie e alla prassi della recitazione, soprattutto per merito dell’intellettuale Umberto Barbaro8, chiamato ad insegnare al Centro, fin dalla sua fondazione, dall’altro importante studioso dell’epoca: Luigi Chiarini. I dibattiti si erano svolti intorno ai testi di Vsevolod Pudovkin, soprattutto Film e fonofìlm9, tradotto da Barbaro, che inoltre aveva anche tradotto testi seminali di Béla Balázs e di Sergej Ejzenstejn. In merito Barbaro soleva ripetere: «Gli scritti di Pudovkin sono la via maestra per la quale il cinema è giunto alla piena coscienza del suo essere un’arte ed 7  Tra gli attori che si formarono al Centro sperimentale figurano: Alida Valli, Clara Calamai, Elli Parvo, Otello Toso, Elena Zareschi, Andrea Checchi, Mariella Lotti, Gianni Agus, Adriana Benetti, Carla Del Poggio, Michele Riccardini, Massimo Serato e Luisella Beghi. Tra i registi: De Santis, Germi, Zampa, Puccini, Antonioni, Chiari, Zeglio, Cerio, Scotese, Morelli, Pozzetti, Cottafavi. 8  Lo stesso Barbaro ricorda il Centro sperimentale in questi termini: «Fu quella scuola – e qui è il segreto di così splendidi risultati – dove la cultura non era considerata somma di cognizioni morte, ma come fattivo strumento che solo nella pratica e nell’azione può affermarsi come tale: fu una scuola dove cultura non era informazione ma formazione: e non solo per gli allievi, ma anche per i dirigenti e gli insegnanti: che, nello sforzo di inventare, sperimentare e applicare una didattica del cinema furono portati a costantemente vagliare e approfondire le loro capacità e attitudini, ad accrescerle e a metterle a fuoco, prodigandosi, non senza generosità, in un lavoro che richiedeva, oltre all’entusiasmo, anche una buona dose di abnegazione». In Che succede al Centro sperimentale di cinematografia? in Neorealismo e realismo, Voll. II, a cura di Gian Piero Brunetta, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 584-585, 588. 9  Ci sono molti studi sul ruolo svolto da Umberto Barbaro nella cultura italiana che a partire dagli anni Venti spazia dalla letteratura, al teatro, al cinema, all’arte figurativa, alla narrativa e all’insegnamento. Tra i più importanti si vedano lo studio di Eugenio Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 1974; Umberto Barbaro e l’idea di neorealismo, Padova, Liviana, 1969, e Intellettuali cinema e propaganda tra le due guerre, Bologna, Pàtron Editore, 1972, ambedue di Gian Piero Brunetta.

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io sono fiero di averla percorsa e di averla additata per primo in Italia10. In Italia, negli anni Venti e Trenta, tra i giovani che si erano avvicinati al cinema, il modello della scuola sovietica11 serviva da stimolo verso il nuovo, sebbene circolassero anche le idee del teorico tedesco Rudolf Arnheim12; infatti il suo libro; Il film come arte [Film als Kunst, Berlin, 1932] veniva letto durante i corsi da lui tenuti in Italia. Ma in un momento in cui la nazione si isolava dalle nuove avanguardie, primeggiava la vasta cultura di Barbaro13 che, mediante i suoi scritti e le sue traduzioni, mostrava il bisogno di aprire gli orizzonti. La sua influenza è confermata da Luigi Chiarini, che lo ricorda in questi termini: «Barbaro rappresentò un punto fermo; infatti, dalla nostra collaborazione nacque la rivista e quella collana sui diversi aspetti del film, che doveva in seguito avere tanta fortuna. Nacquero quelle antologie che compilammo insieme, Il film nei problemi dell’arte, L’attore, L’arte dell’attore, nelle quali raccogliemmo l’essenziale dei testi 10  Dello stesso teorico nel 1932, Barbaro aveva già tradotto Il soggetto cinematografico presso Le Edizioni d’Italia, Roma, la stessa casa che pubblicò la traduzione del testo menzionato nel 1935. 11  Molti dei film stranieri durante l’epoca fascista sono arrivati negli anni Trenta quando il fascismo, con lo scopo di dare al mondo un’immagine di tolleranza e di apertura, dà vita alla Mostra cinematografica di Venezia che diventa un porto franco per la cinematografia mondiale. Per un approfondimento si veda Storia del cinema italiano. Il cinema del regime 19291948 di Gian Piero Brunetta, Roma, Editori Riuniti, 2001. 12  Rudolf Arnheim aveva trovato ospitalità in Italia dalla Germania nel 1933 ma nel 1938 in seguito alle leggi razziali proclamate dal regime fascista dovette rifugiarsi negli Stati Uniti dove insegnò in varie università. 13  In un articolo ne «Il corriere della sera» del 31-12-1976 intitolato I registi con il fez e l‘orbace, Carlo Lizzani scrivendo del gruppo Cinema ha ricordato: «Profondamente influenzati da Umberto Barbaro — uno dei pochi intellettuali non provinciali dell’epoca — avevamo misurato, però, questi valori sulla scala reale: quella dei grandi maestri americani e sovietici, ... È assurdo continuare a dire e a scrivere ... che abbiamo difeso tutto il neorealismo senza distinguere gli autori più autentici dagli epigoni dello straccio colorato.

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più importanti sulla tecnica, l’estetica del cinema e sulla recitazione. Cominciarono così a circolare tra gli allievi le idee di Pudovkin, di Balázs, di Eisenstein, di Arnheim, di Stanislavski mentre si andavano raccogliendo i film classici e si progettavano film didattici di cui Barbaro realizzò quello sulla recitazione cinematografica»14. Chiarini è dell’opinione che l’autorevole ricerca di Barbaro lo avesse avvicinato al cinema15 per la passione che egli nutriva per le arti figurative e per l’amore spontaneo che lo legava alle masse e che lo portava a concepire la settima arte come il mezzo più adatto per il miglioramento e l’emancipazione del popolo. Il risultato delle ferventi attività ricordate da Chiarini diede agli allievi del centro e al dibattito in corso sul contenuto ideologico sullo specifico filmico, sulle tematiche, sulla collaborazione artistica, sul materiale plastico e sull’asincronismo, un’impostazione artistica e sociale che erano gli aspetti più sentiti dalla autorevole personalità di Barbaro. La sua ricerca lo portò alla conclusione che l’arte, quindi anche il cinema, non poteva che essere frutto di collaborazione, ed indagando quanto di comune vi era nelle arti giunse non solo ad affermare l’artisticità del film ma anche a negarne la meccanicità. Per Barbaro i mezzi tecnici e la cinepresa stessa erano soggetti alla volontà creatrice, umana affermazione che negava il naturalismo e il formalismo. Barbaro metteva sempre in evidenza l’importanza morale e sociale del film e condannava i film di evasione e quelli con lieto fine oppure i film che presentavano come “meraviglioso” i locali not14  Il film e il risarcimento marxista dell’arte, Umberto Barbaro, Roma, Editori Riuniti, 1974. 15  L’attenzione alla nuova arte si mostra già nel 1928 con la pubblicazione dell’articolo Moralità e immoralità del cinematografo, ma è con la pubblicazione dell’articolo Letteratura cinematografica del 1931 che Barbaro inizia a formulare idee teoriche sul cinema.

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turni, le donne facili e “altre porcherie”, come lui soleva dire. La ricerca di Barbaro si incentrava sul rifiuto della tesi del soggettista sceneggiatore come unico autore del film. Teoria che indirettamente promuoveva il cinema senza attori che Barbaro rifiutava anche se la riteneva una fase importantissima nel processo di ricerca di una valida estetica cinematografica. Pratica che secondo lui aveva anche dato stupefacenti risultati come in Tabù (1931) di Friedrich Wilhelm Murnau, in 1860 (1934) di Alessandro Blasetti e particolarmente nei film rivoluzionari del cineasta Sergej Ejzenstejn, come per esempio in Sciopero (1925) e Ottobre (1925) in cui le masse hanno un ruolo determinante e indispensabile. Barbaro considerava l’uso dei non professionisti un’eccezione indispensabile solo in casi estremi come nei documentari romanzati, o nella descrizione filmica di ambienti tali che esigano un’autenticità d’interpreti che gli attori professionisti non avrebbero potuto ottenere come, per esempio, nei film di ambienti tropicali o popolari, e nei film di particolari classi lavoratrici come i pescatori. Lo riteneva opportuno specialmente quando la storia narrata non s’impersonava in pochi protagonisti ma dava vita a una storia più generale o di massa; affermazioni, che a mio avviso, richiamano da vicino la pratica del cinema italiano del dopoguerra, cioè dei film classici del neorealismo girati nel momento in cui i registi sentono il bisogno di raccontare le miserie e gli orrori della guerra e il bisogno di riscatto. Inoltre, per Barbaro, i fautori del cinema senza attori erano serviti ad affermare la tesi dell’utilizzo del tipoattore professionista dai mille volti. Le asserzioni di Barbaro si rifacevano agli esperimenti di Pudovkin e di Kulešov che avevano già confermato la limitazione delle espressioni umane, il così detto montaggio della recitazione. Questa sua ricerca, per l’appunto, approderà alla riedizione, a scopo didattico, di Ballerine di Gustav 116 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Machaty, realizzata dallo stesso Barbaro con la collaborazione di Chiarini. Per Barbaro il vero attore cinematografico doveva avere una preparazione professionale basata sulla didattica della recitazione e nel tirocinio che ne è il naturale complemento. L’aspetto tecnico per Barbaro consiste nella padronanza del mezzo espressivo, del proprio corpo, e nella possibilità di controllarlo in qualsiasi momento, non piegandolo alle esigenze dei metodi specifici del cinematografo ma potenziandone la possibilità ed il valore, proprio con l’impiego di questi mezzi, che l’attore dello schermo deve dunque conoscere altrettanto quanto il regista16. Un altro aspetto importante consiste, per il nostro critico, nella capacità dell’attore di elaborare la materia in conformità alle esigenze dell’intera opera. Non deve rivivere della situazione da rappresentare, ma intendere e soddisfare la funzione assegnata alla parte nell’unità del futuro film; un equivoco psicologico, secondo Barbaro, in cui sono caduti i seguaci del teatro borghese, da evitare a suo avviso nel film, dove non c’è continuità di scena e l’attore deve essere capace di adattarsi alle continue interruzioni e alle diverse inquadrature di lavorazione come alla consonanza ritmica fra due scene lente e una rapida. Il teorico siciliano usava come esempio una sequenza in cui una moglie che si affretta a portare le prove dell’innocenza del marito potrebbe essere vista in modi diversi a seconda delle varie distanze e spostamenti della macchina che influenzano la percezione dello spettatore. Per queste ragioni tecniche l’attore deve avere la conoscenza dei mezzi specifici del cinema e la sua preparazione deve essere accompagnata dalla assoluta padronanza del pro16  Tutti i riferimenti alle idee di Barbaro sul ruolo e la formazione dell’attore vengono dal suo saggio L’attore cinematografico in Il film e il risarcimento marxista dell’arte, Umberto Barbaro, Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 13-43.

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prio corpo per il quale Barbaro suggerisce l’uso dello specchio, l’esercizio, la pratica del girare e lo studio dei pezzi già girati. A queste esigenze, secondo lo studioso, possono adempiere con facilità gli attori del varietà, del circo e le ballerine che sono più adatti degli attori teatrali. Essi hanno una maggiore conoscenza del duplice ritmo di tempo e spazio e sanno ubbidire meglio al ritmo della cinepresa. Si noti, allora, come i più bravi attori del primo neorealismo vengano proprio dal varietà e dalla danza; Aldo Fabrizi, Anna Magnani, Silvana Mangano e Walter Chiari per menzionare i casi i più noti. Per la trattazione del film, Barbaro accoglie la definizione di Eisenstein secondo cui tema di un film deve essere «la rappresentazione di un conflitto di un’idea,» apportandole una modifica che avrà una grande influenza su alcuni dei suoi allievi. Barbaro affermava che al protagonista che incarna l’idea, cioè l’eroe che commuove gli spettatori di tutto il mondo, egli preferiva, più modernamente, l’idea presentata dalla vita di un popolo, mentre l’individuo avrebbe dovuto rappresentare l’elemento di resistenza ‒ il conflitto ‒ evitando così di cadere nell’individualismo dell’arte borghese e nella retorica del protagonista romanzesco. A queste idee si riallaccia l’importanza dell’aspetto morale e sociale che tanto influenzerà i giovani registi italiani e in particolare i giovani studenti appartenenti alla corrente marxista come Giuseppe De Santis che cercheranno un modello nei racconti corali di Giovanni Verga. Riguardo all’attore cinematografico, le considerazioni di Barbaro derivano dalla sua concezione del film come opera collettiva e dalla sua distinzione fra l’attore teatrale e quello cinematografico. Mentre l’attore cinematografico è attore creatore, quello teatrale è interprete. Per Barbaro l’opera teatrale è un’opera poetica nella quale i personaggi sono completamente configurati, mentre la sceneggiatura di un film è una semplice trac118 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

cia, un momento della creazione dell’opera che sarà completata soltanto con le riprese e con la creatività dell’attore. Egli asserisce: «Di fronte all’attore non professionista, del film di cui sia unico autore il regista, e di fronte all’attore teatrale, all’avanzo di palcoscenico del film di cui sia autore il soggettista, può oggi stare, in piena giustificazione estetica, l’attore cinematografico che non interpreta un’opera d’arte preesistente e scritta, come i suoi colleghi della ribalta, né si pone come mera natura, tavolino o albero, di fronte al regista e all’operatore, ma che, in ideale accordo con gli altri collabori a creare una futura opera d’arte»17. L’ultimo aspetto della teoria della recitazione di Barbaro si rifà al concetto di Balázs di microfisionomia basata sull’importanza del viso, della scelta del tipo e sulla corrispondenza di esso al ruolo. I concetti e le idee principali di Barbaro, che abbiamo ricordato, erano serviti a far nascere e promuovere un’estetica cinematografica e a stimolare il dibattito teorico che sarebbe servito come base teorica al rinnovo del cinema italiano promosso dal gruppo di «Cinema». Il rinnovo del cinema italiano rispetto alle storie pseudo-storiche e agli ambienti perbene, a parte sporadici esempi nei primi anni Trenta da parte di Alessandro Blasetti [La tavola dei poveri (1932) e 1860 (1933)], può essere fissato con il dibattito promosso dalla rivista «Cinema» a partire dalla pubblicazione, nel 1939, del saggio di Umberto Barbaro su Sperduti nel buio (1914), di Nino Martoglio. Da quella data, infatti, nasce un nuovo e rinnovato interesse per la letteratura meridionale che all’inizio degli anni Quaranta, per merito di un gruppo di giovani frondisti, si focalizza sugli scritti di Giovanni 17  L’attore cinematografico ne Il film e il risarcimento marxista dell’arte, Umberto Barbaro, cit., p. 25

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Verga. Quell’innamoramento che secondo Gianni Puccini18 era stato il primo passo in avanti per una presa di coscienza, sia pure confusa, del mondo popolare italiano, diventerà il modello da seguire a tal punto che il critico Brunetta afferma: «Come per l’America immaginata da Pavese e Vittorini, anche la Sicilia pre-cinematografica immaginata da Visconti, De Santis, Alicata, Pietrangeli, si presenta come ponte e luogo che agisce da tessuto connettivo con la tradizione realistica»19. La sceneggiatura de L’amante di Gramigna, racconto dell’autore siciliano, da parte di Luchino Visconti e Giuseppe De Santis, bocciato dalla censura del regime fascista, dimostra l’ammirazione che questi giovani provavano per il mondo rustico, per gli offesi e per i sofferenti. Nel gruppo di battaglia della rivista «Cinema»20 degli anni precedenti all’otto settembre 1943, oltre a Luchino Visconti che nel 1941 aveva già pubblicato il famoso articolo I cadaveri al cimitero21 che era subito diventato una sorta di manifesto in cui si riconoscevano tutti i più giovani del gruppo, troviamo: Michelangelo Antonioni, Domenico Purificato, Dario e Massimo Puccini, Carlo Lizzani, Pietro Ingrao, Francesco Pasinetti, Antonio Pietrangeli, Giuseppe De Santis e Mario Alicata. Con Mario Alicata, Giuseppe De Santis inizia intorno a quegli anni 18  Si veda Il Venticinque luglio del cinema italiano di Gianni Puccini, «Filmcritica», n. 24, dicembre 1953, pp. 341-342. 19  Verga e la Sicilia di Visconti e De Santis, Gian Piero Brunetta in Verga e il Cinema a cura di Nino Genovese e Sebastiano Gesù, Catania, Giuseppe Maimone Editore, 1996, p. 42. 20  Per un approfondimento sulla nascita e il ruolo culturale della rivista «Cinema», si legga: I tempi dei «Cinema» di Gianni Puccini, «Filmcritica», n. 5 maggio 1951, pp. 151-55. 21 Nell’articolo Visconti invocava la nascita di un nuovo cinema in cui le forze nuove avrebbero una volta per sempre mandato i «cadaveri che si ostinavano a credersi vivi al cimitero».

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un sodalizio intellettuale22 dal quale nasceranno i testi più noti e importanti, fra la saggistica, per lo sviluppo del realismo nel cinema italiano. Mi riferisco a Verità e Poesia: Verga e il cinema italiano e Ancora di Verga e del cinema italiano,23 quest’ultimo concepito come risposta alle critiche mosse da Fausto Montesanti al primo articolo menzionato. Ritengo che si debba investigare di più sul sodalizio fra De Santis e Alicata per poter capire meglio la nascita della battaglia culturale per un cinema realista. In uno studio condotto da Sebastiano Martelli, Il crepuscolo dell’identità, Mario Alicata viene identificato come l’artefice principale della politica comunista verso il Mezzogiorno negli anni Cinquanta. Una politica attraverso cui maturano le scelte di modelli narrativi e, aggiungerei, cinematografici all’interno della politica culturale tracciata dal PCI per il Meridione. Così Martelli spiega: «Il ruolo di Alicata nell’elaborazione della politica culturale del PCI nel Mezzogiorno degli anni Cinquanta è stato determinante ed egemone, come del resto in qualche occasione ha ricordato lo stesso Salinari. Alicata influenza largamente la complessiva linea del PCI rispetto alla cultura meridionale, fornendo anche parametri critici di lettura ed analisi di quella cultura e della sua tradizione»24. 22  Interessante ricordare che De Santis era stato invitato da Gianni Puccini e da Francesco Pasinetti a scrivere critica cinematografica perché considerato scaltro, attento, ciociaro. All’invito, prima di accettare, lui aveva risposto: «non sono ne’ scaltro ne’ attento e come ciociaro a sentire Anton Giulio Bragaglia che di Ciociaria se ne intende, sono un ciociaro impuro, della costa, e perciò un mezzo sangue, un ciociaro impuro, un bastardo insomma, […] I ciociari, quelli veri sono figli di antichi guerrieri, sono alti, fieri, robusti, svelti di coltello, ruba terre e roditori di confini [...]». Ripensando ai tempi di «Cinema» prima serie, Giuseppe De Santis in Verso il Neorealismo. Un critico cinematografico degli anni quaranta, a cura di Callisto Cosulich, Roma, Bulzoni Editore, 1892, p. 33. 23  «Cinema», n. 130, 25-11-1941. 24  Il crepuscolo dell’identità, Sebastiano Martelli, Salerno, La Veglia Editore, 1988, p. 14.

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Concordo pienamente con le asserzioni di Martelli, ma porterei la data d’inizio dell’influenza alicatiana agli anni Quaranta e più precisamente agli anni della rivista «Cinema» su cui Alicata, forte della sua preparazione culturale ed intellettuale, fece sentire il proprio orientamento e giudizio. Gli altri del gruppo gli riconoscevano una acutezza che derivava dalla sua abilità nell’identificare le problematiche del momento. Questo particolare non è casuale se si considera che già dal giugno del 1940 Alicata era diventato assistente di Natalino Sapegno alla cattedra di Letteratura Italiana all’università di Roma e aveva già iniziato a collaborare a «Primato», la rivista diretta dall’allora ministro dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai. «Primato» rappresentava uno dei tentativi più singolari attuati dal Fascismo per assicurarsi la collaborazione dei migliori intellettuali dell’epoca; si veda per esempio la pubblicazione delle poesie di Pavese, Ungaretti e Montale. All’inizio degli anni Quaranta l’attenzione dedicata alla realtà aveva acquisito un discorso comune, anche se è chiaro che il senso di realtà ha referenti diversi e che soltanto fra alcuni dei giovani del gruppo di «Cinema» la nozione assume una poetica di gruppo. In un articolo di Alicata apparso il 10 febbraio del 1942 su «Cinema» si legge: «Quasi tutti i personaggi del nostro cinema non hanno storia, vivono dei luoghi comuni, dei residui più convenzionali e melodrammatici dei sentimenti e delle passioni, e vivono questa loro esistenza scialba in luoghi altrettanto muti e bigi, senza colore. A chi abbia come noi il gusto di girare per le strade della propria città a cogliere l’inesauribile poesia di ciò che naturalmente esiste, e abbia data alla propria fantasia la semplice ma fruttuosa legge che ogni uomo in cui ci si incontra è un personaggio, accade davvero di stupirsi di questa incapacità che i narratori del nostro cinema dimostrano di adeguarsi 122 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

alla realtà umana dell’ambiente nel quale convenzionalmente sono collocate a svolgervi le loro storie». La attenzione profonda verso il nuovo e il reale, insieme all’influenza di Mario Alicata sui giovani del gruppo, si colgono nella prossima citazione di un altro articolo firmato da De Santis e Alicata in cui si legge: «Fiducia nella verità e nella poesia della verità, fiducia nell’uomo e nella poesia dell’uomo, è dunque ciò che chiediamo al cinema italiano. È una affermazione semplice, un programma modesto: ma a questa semplice modestia sempre più ci sentiamo attaccati, ogni volta che dando uno sguardo alla storia del nostro cinema, vediamo racchiusa la sua parabola fra il dannunzianesimo retorico e archeologico di Cabiria e le evasioni negli inesistenti paradisi piccolo-borghesi dei tabarrini di Via Nazionale, dove si sfogano le casalinghe audacie delle nostre commedie sentimentali»25. E in un altro ancora: «Ma come altrimenti sarebbe possibile intendere e interpretare l’uomo, se lo si isola dagli elementi nei quali ogni giorno egli vive, con i quali ogni giorno comunica, siano essi ora le mura della sua casa – che dovranno recare i segni delle sue mani, del suo gusto, della sua natura in maniera inequivocabile –: ora le strade della città dove egli si incontra con gli altri uomini – e tale incontrarsi non dovrà essere occasionale...»26. Queste citazioni sono documenti più che sufficienti per mostrare che le critiche del gruppo di «Cinema» servivano a due scopi diversi: la divulgazione del cinema come arte e la denuncia dell’insoddisfazione verso lo stato attuale delle cose. Gli scritti alicatiani si mostravano più dialettici e teorici, quelli di De Santis erano più battaglieri, rabbiosi, personali, con i quali tutto il 25  Verità e poesia: Verga e il cinema italiano, «Cinema», 127, 10 ottobre 1941, p. 217. 26  Per un paesaggio italiano, «Cinema», 116, 25-4-1941.

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gruppo si identificava. I dibattiti e le aspirazioni del gruppo, com’è ben noto, si realizzarono parzialmente nella produzione del film Ossessione (1943) in cui tutti ebbero un ruolo. Anche durante la lavorazione del film, in una lettera inedita che ho trovato nell’Archivio De Santis presso la Wake Forest University27, del 30 giugno 1942, Alicata, scrivendo da Roma a Giuseppe De Santis che stava girando come aiuto regista in Emilia, loda l’aspetto “documentario” delle foto ricevute. Si lamenta del colore troppo roseo delle guance di Bragana, loda il vestito scelto per Massimo Girotti che interpreta il ruolo di Gino Costa, ritiene non indovinata, invece, la scelta del cappello che definisce “da facchino” e propone una “scoppoletta” al suo posto. Trova bello, invece, don Remigio e il poliziotto, ma soprattutto si raccomanda a De Santis di curare i “fondi” e in particolare il personaggio del caporale che nella versione finale del film sarà quello dello “Spagnolo”, figura che nella realizzazione finale ha perso la forza delle istanze politiche e ideologiche che avrebbe voluto Alicata, assumendo di più l’ambiguità omosessuale e vagabonda dell’immaginario viscontiano. Nel 1969, De Santis ricordando Cinema ha così precisato: «Tutto quanto io venivo scrivendo con le mie critiche era prima ancora che dentro di me, al di fuori di me; era nell’aria, nel clima che a mano a mano, come una macchia d’olio, aveva cominciato ad allargarsi conquistando l’animo e la coscienza del cinema italiano più insofferente dello stato di cose dentro il quale tutti vivevano. Nessuno mi chieda come potesse succedere tutto questo in pieno regime fascista, e come io riuscissi a sfuggire, ogni volta, alle maglie della censura. Posso 27 Dal 2020 l’Archivio Giuseppe De Santis non si trova più alla Wake Forest ma all'Indiana University.

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solo rispondere che niente mi avrebbe impedito di farlo. Lo volevo, e basta» 28. Per poter capire la profondità delle affermazioni desantisiane bisogna sapere ciò che la rivista era e rappresentava per tutti gli intellettuali del gruppo. «Cinema» era nata il 10 luglio 1936 a immagine e somiglianza di «Sapere» che all’epoca era il più grande successo editoriale. La rivista cinematografica era stata fondata dall’editore Ulrico Hoelpi con un programma genericamente divulgativo degli aspetti tecnici e artistici del cinema. La rivista era diretta dal famoso teorico tedesco Rudolf Arnheim e da Corrado Pavolini, assistiti da Domenico Mèccoli, Francesco Pasinetti e Gianni Puccini. Un anno dopo De Feo si staccò dalla casa editrice Hoepli per passare alla Rizzoli. La direzione della rivista cadde nelle mani del cinefilo figlio del Duce, Vittorio Mussolini. La mossa risultò geniale perché assicurò fondi alla rivista insieme ad una pubblicità assicurata che si accompagnavano ad una copertura politica. Con il cambio di redazione cambiò anche l’impostazione della rivista che in questo nuovo corso adottò uno schema più battagliero e aggressivo, tendenza che si delineò maggiormente quando Giuseppe De Santis ne divenne critico titolare. Il primo articolo che porta la firma del regista ciociaro esce nel numero di Natale del 1940 sotto il titolo L’ispirazione sensibile. Il tono del saggio è molto cauto e tratta di un argomento piuttosto fuori moda per l’epoca, la diffusione del cinema sonoro nei confronti del cinema muto. Il tono dell’articolo è lontano da quelli che lo imporranno come la personalità di spicco del gruppo e mostreranno il suo acume per lo spettacolo e le immagini plastiche insieme alle prime tracce battagliere per il realismo. Credo sia opportuno porsi delle domande, alle 28  Ripensando ai tempi di «Cinema» prima serie, Giuseppe De Santis in Verso il Neorealismo. Un critico cinematografico degli anni quaranta, cit. p. 35-36.

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quali è lecito cercare risposta, per poter capire meglio il compito e l’importanza del lavoro fatto da tutto il gruppo romano e da De Santis in particolare. Si tratta di capire come mai il fascismo lasciasse che questi giovani, tutti antifascisti, gestissero l’unica rivista italiana cinematografica a carattere divulgativo che a detta dello stesso De Santis aveva raggiunto una diffusione di dodicimila copie. L’altra rivista cinematografica del tempo «Bianco e Nero» diretta dal professor Chiarini era organo del Centro sperimentale e aveva una funzione tecnica e specializzata. D’altro canto «Cinema», come si può leggere dalle affermazioni29 di Gianni Puccini, aveva lo scopo di portare alla conoscenza del vasto pubblico i problemi cinematografici: «Servendosi della copertura di Vittorio Mussolini la rivista usufruì di un margine di tolleranza politica che permise ai redattori di allontanarsi dalle direttive del regime verso tendenze sempre più critiche. Queste libertà intellettuali mostravano, come afferma il critico Brunetta, che il pensiero cinematografico di quegli anni rivestiva una reale funzione di avanguardia che permetteva delle aperture e delle concessioni negate sempre più ad altri campi dell’attività artistica e culturale». Secondo De Santis questi margini di tolleranza erano dovuti a diversi fattori fra cui vorrei ricordare la disorganizzazione e l’inefficienza del regime, il grande tasso di analfabetismo esistente, ai quali si deve aggiungere la manchevolezza di non voler riconoscere all’arte cinematografica una capacità di incidere sulla formazione una coscienza politica nelle masse. De Santis, come anche il critico Brunetta, danno merito al Fascismo di aver riconosciuto nel cinema un forte carattere popolare e sociale, ma allo stesso tempo riconoscono i limiti della politica culturale del regime sulla forza di incidenza del 29  Per un approfondimento della posizione di Puccini nei riguardi della rivista si veda: I tempi di «Cinema», in «Filmcritica», n. 5, maggio 1951, pp. 152-155.

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cinema sul piano sociale o sulle strutture sociali. Principi culturali da non sottovalutare, che secondo Brunetta saranno poi sopravvalutati dal Neorealismo e dalla sinistra comunista italiana del dopoguerra. De Santis afferma anche che il grande merito, o meglio il demerito, del regime era proprio di aver anticipato le tecniche della tolleranza repressiva poi raffinata dalle società dei nostri giorni. Infatti, sempre secondo il regista, fu proprio questa politica che portò il regime a puntare sul cinema dei telefoni bianchi e non sui grandi film di propaganda politica30. Queste affermazione concordano con quelle di Brunetta che scrive: «La produzione Standard del fascismo preferiste assestarsi sui piani medi, a carattere interclassista, privi di stile unitario, che mescolino più temi e più modelli stilistici e narrativi e che, soprattutto, tentino la strada della propaganda indiretta più che quella esplicita e diretta del messaggio trasmesso da personaggi appositamente delegati a farlo. Si evita con cura di esaltare la linea “eroica”, si teme la retorica: è il complesso di inferiorità nei confronti del giudizio degli intellettuali, considerati ancora in parte sciolti da vincoli di subordinazione alle direttive del partito»31. Le concessioni e le aperture date alla rivista «Cinema» permisero a De Santis di criticare i film di quell’epoca dandogli la possibilità di sfogare l’insoddisfazione personale che provava verso quei film e allo stesso tempo di stimolare l’ambiente alla ricerca di qualcosa di nuovo, di più vero e rappresentativo della realtà storica italiana. Un’ analisi generale, attraverso un raggruppamento delle recensioni secondo il genere dei film discussi, proverebbe le mie asserzioni sul contributo desantisiano alla divulgazione di un cinema realista ed artistico. Nel 1942 30  Le idee di De Santis riportate nel testo son parafrasate dalle lunghe conversazioni avute con lui a partire dal 1988. 31  Cent’anni di cinema italiano, Gian Piero Brunetta, Bari, Laterza, 1991.

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il mercato italiano era dominato dal prodotto nazionale che era protetto dalla concorrenza internazionale dalle leggi fasciste. L’allora Ministro della Cultura Popolare, Alessandro Pavolini, aveva fissato la quota annua a 140 film che non sarà raggiunta. L’iniziativa governativa di produzione aveva dato spazio a molti nuovi registi e di conseguenza il livello medio della qualità tecnica ed artistica della produzione nazionale filmica era salito, ma in generale – con l’eccezione di casi isolati – la cinematografia italiana era mediocre. La produzione era legata a vecchi schemi tecnici e narrativi ai quali gli spettatori si legavano per mancanza d’altro e anche per soddisfare il crescente bisogno di evasione scaturito dalle difficoltà belliche che l’esercito italiano doveva affrontare su vari fronti. Secondo De Santis il cinema italiano dell’epoca poteva essere ripartito in generi abbastanza precisi: la commedia sentimentale, il comico-brillante, il comico tout court, il musicale, lo storico avventuroso (generalmente di cappa e spada), i rari film di esplicita propaganda politica e la corrente formalista di cui facevano parte Mario Soldati e Renato Castellani che, sempre secondo De Santis, altro non era che il tradizionale film in costume all’italiana per mezzo del quale si manteneva l’immagine dell’Italia, culla della cultura medioevale e rinascimentale. Citerò soltanto le recensioni più importanti scritte da De Santis per criticare i diversi generi del cinema dell’epoca. Per il critico ciociaro il genere comico-sentimentale è tutt’uno con quello dei telefoni bianchi, al quale attribuisce un linguaggio falso e la mancanza di un vero centro drammatico. De Santis paragona i film italiani del genere comico o comico-sentimentale a quelli di René Clair dello stesso tipo, trovando quelli italiani privi di una verità da dimostrare o di una poetica da sostenere che possa giustificare con forza creativa e con fantasia ogni schema moralistico senza di che il comico vive solo di meccaniche situazioni. Fra i film di 128 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

questo genere De Santis ha il merito di aver salvato dai critici il film di Vittorio De Sica, Un garibaldino al convento, e Quattro passi fra le nuvole di Alessandro Blasetti tratto da un soggetto e sceneggiatura di Cesare Zavattini, al quale il critico riconosce una grande abilità nel scrivere soggetti ricchi di sensi nascosti e verità che definisce in questi termini: «Il film narra la giornata di un uomo qualunque, un commesso viaggiatore. L’uomo è dipinto con una sottigliezza psicologica perfetta. Reca con sé una coerenza di gesti e di atteggiamenti che non lasciano dubbio fin dall’inizio sulla sua condizione sociale. Il soggetto è dovuto alla penna di Piero Tellini e di Cesare Zavattini. Vorremmo che più spesso il nostro cinema sapesse avvalersi di tali situazioni. Si badi bene, non è una preferenza di contenuto che noi avalliamo, ma piuttosto una linearità e semplicità di racconto: quel pacato e dolce essere anonimo di tutte le cose che si pongono avanti, senza la più piccola affettazione, ma come se le incontrassimo per la strada, allo stesso modo che accade nella vita vera, fa parte di una poetica che dà tanto noi desideriamo!»32 Ma è forse nel saggio Il jazz e le sue danze nel cinema che il futuro regista, partendo dal film Tutto il mondo ride di Grigori Alexandroff, mostra la sua insofferenza per il genere surrealista-grottesco e per la rivista musicale degli anni trenta, nata con scopi commerciali e spettacolari che non riuscivano a cogliere il vero valore sociale del jazz. Alla loro pacchiana e cartolinesca fotografia, De Santis paragona Un giorno alle corse (A Day at the Races), e il suo film favorito Allelujah! di King Vidor in cui Zeke accenna a ballare il tiptap sulle musiche di uno spiritual cogliendo il più profondo significato della musica jazz, la sua vera natura e il suo vero scopo. Fra i film di esplicita propaganda De Santis elogia Vecchia Guardia di Alessandro Blasetti. Nel film, il cri129 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tico, coglie la forte partecipazione emotiva impressavi del regista, e la forte carica di sincerità nel rappresentare le imprese squadriste che il fascismo stesso non aveva intenzione di mostrare. La critica più severa e più diretta il critico la rivolge al genere formalistico-intellettualepittorico sul quale, recensendo il film di Renato Castellani Un colpo di pistola, scrive: «quelle colonne d’avorio, quei candidi e composti candelabri altro non sono che la stessa ingigantita proiezione dei bianchi telefoni tanto a lungo commiserati nel clima borghese del nostro cinema […]. Si fortifichi ormai l’animo dei nostri lettori contro questa dichiarata aspirazione del nostro cinematografo»32. De Santis come tutto il gruppo di «Cinema» si scagliava contro la corrente formalista perché considerata l’ostacolo principale al loro progetto di cinema realista nel quale il paesaggio italiano doveva farne parte insieme ai contadini e agli operai. Questa nuova idea di fare cinema portava il critico a scrivere: «Anche noi, più di tutti gli altri, vogliamo portare la nostra macchina da presa nelle strade, nei campi, nei porti, nelle fabbriche del nostro paese: anche noi siamo convinti che un giorno creeremo il nostro film più bello seguendo il passo lento e stanco dell’operaio che torna alla sua casa, narrando l’essenziale poesia d’una vita nuova e pura che chiude in se stessa il segreto della sua aristocratica bellezza»33. Gli interventi settimanali di De Santis critico cinematografico mettono a fuoco come il regista ciociaro si sia servito della rubrica settimanale di «Cinema» per sviluppare un discorso continuo e coerente nel promuovere un nuovo tipo di cinema che avrebbe dovuto allar32  Ripensando ai tempi di «Cinema» prima serie, Giuseppe De Santis, op. cit., p. 144. 33  Ancora di Verga e del cinema italiano, Giuseppe De Santis e Mario Alicata, «Cinema», n. 130, 25-11-1941.

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gare e oltrepassare i confini dell’estetica dominante in Italia negli anni Quaranta, verso una direzione politica e sociale ben definita. Sul piano della fondazione di una nuova poetica – che si voglia chiamarla un’idea neorealista o di realismo – De Santis e tutto il gruppo dei giovani di «Cinema» assumono negli anni Quaranta una posizione d’avanguardia. Il fatto che nel dopoguerra, quando la tensione comune del gruppo si attenua e poi si esaurisce a causa del diverso momento storico e anche a causa del ruolo assunto dal nuovo governo nell’emarginare un certo tipo di produzione cinematografica, non toglie nulla al ruolo avuto dai giovani del gruppo romano per un cinema espurgato dall’artificiosità e banalità del calligrafismo nazionale. Il ruolo avuto da questo gruppo è ben spiegato da questa testimonianza di uno di loro: «i contatti personali sono un grande territorio di dibattito, un reticolo formativo del quale alle generazioni successive resta quasi niente. Nel nostro caso un patrimonio che non è stato consegnato a documenti scritti, ma che ha contato per Rossellini, come per De Sica e Visconti, enormemente. Io ricordo che noi più giovani avevamo una grandissima fiducia in questa guerriglia culturale condotta attraverso il dialogo e il dibattito privato. ... Non vorrei qui enfatizzare l’egemonia di “Cinema” ... sul cinema dei quarantenni di allora, ... È certo però che per quanto riguarda Rossellini si è esagerato nell’ignorarla. ... Si trattava di costruire una nuova casa ...»34. Durante il ventennio l’industria cinematografica italiana non era riuscita a far nascere un nuovo cinema e neanche a far rinascere un sistema divistico pari a quello americano o tanto meno a quello dei tempi del cinema muto italiano. Le ragioni di ciò possono essere tante ma forse le più plausibili sono da accreditare alla 34  Il cinema italiano, Carlo Lizzani, Roma, Editori Riuniti, 1979, p. 109.

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forte personalità del Duce che usava tutti i mezzi per creare il culto della propria persona. Altre cause possono essere additate alla mancanza di forti personalità e individualità, attributi fisici o doti carismatiche da parte degli attori del periodo o alla carenza di quadri formativi e di mobilità. In altre parole, il cinema del regime era dominato da tanti bravi caratteristi. Un’altra causa molto attendibile è la scarsa rappresentatività, nei film dell’epoca, degli autentici problemi degli italiani, il che costringeva gli attori del periodo ad interpretare ruoli poco identificabili o divistici. Con il sistema produttivo esistente e con la politica moralista, nazionalista, sessuofobica e dedita a presentare come eroina la figura della domestica, non si poteva neanche immaginare la creazione di una politica divistica di ampio respiro. Quello che presentava il cinema del periodo, se non fosse stato surrogato dal cinema americano, in campo nazionale non avrebbe potuto creare un ideale per il pubblico tanto forte da poter far nascere un distacco necessario per il transfert dal privato all’immaginario collettivo. Alla fine del regime, nel primo periodo dell’immediato dopoguerra, esisteva una situazione di totale sostituibilità degli attori per cui il neorealismo puntò sugli attori non compromessi, o almeno non troppo, con il regime, sugli attori della rivista e dell’avanspettacolo, modificandone completamente l’immagine e sulla eliminazione di ogni forma non di professionismo ma di divismo. Il cinema italiano nell’affrontare il problema dell’attore, nel periodo precedente alla ricostruzione industriale e finanziaria degli anni Cinquanta, trovò una situazione fluida proprio per il fatto che l’attore era il punto più debole della fase di transizione. Nei loro margini più ampi i film del dopoguerra puntavano a fare dello schermo il luogo della presenza e dell’identità e non della distanza e della diversità. Essi volevano creare la massima permeabilità fra scena e platea per far nascere un cor132 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

to circuito tra l’immagine e il pubblico: l’unificazione e l’identificazione. Lo scopo del cinema di quel periodo era di mostrare il nuovo italiano con i suoi ideali antimussoliniani, pronto al riscatto. In questo senso l’italiano nuovo era dappertutto: «gli attori sono pochi, mentre vi sono milioni di personaggi» soleva dire Vittorio De Sica. Da questo ultimo punto nasce la contraddizione che minerà l’atteggiamento del neorealismo nei confronti dell’attore. Se si voleva trasfondere il cinema negli uomini o si dovevano usare attori presi dalla strada e insegnare loro come muoversi e comportarsi davanti alla cinepresa oppure, per non utilizzare i volti compromessi, bisognava usare i nuovi volti formatisi al Centro sperimentale dove avevano studiato, sotto la direzione di Barbaro e Chiarini, le teorie che si richiamavano ai Russi, al naturalismo, alla piena identificazione nel personaggio con l’abolizione delle differenze tra finzione e realtà, la così detta autenticità. Bisogna chiedersi quale diventi la pratica corrente nei confronti dell’attore dopo la prima fase dell’immediato dopoguerra, periodo in cui sono nati film irripetibili dovuti anche a fortunate combinazioni e circostanze storiche. Rossellini utilizza attori professionisti, De Santis e Visconti utilizzano nuovi e vecchi attori. De Sica usa la sua esperienza attoriale per insegnare al non professionista come recitare in Ladri di biciclette e si permette di rifiutare Gary Grant ma per Stazione Termini è forzato a lavorare con Jennifer Jones e Montgomery Clift. Al massimo l’uomo della strada poteva interpretare se stesso. Ma questa era una strada senza ritorno, fine a se stessa. Una volta finito il film per lo più era anche finita la carriera del personaggio preso dalla strada. Con la ristrutturazione di un’industria e di produttori che investono per profitto, i vari registi devono percorrono strade diverse. Per la rinascente industria cinematografica era impensabile una produzione senza l’attore/attrice professionista. Al centro del prodot133 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

to industriale cinematografico è sempre esistito l’attore. La fase di riconquista dei produttori italiani, dopo il periodo preindustriale dell’improvvisazione, si basa sulla riconquista del pubblico che non aveva partecipato, con poche eccezioni, ai grandi momenti del cinema del dopoguerra. L’attore/attrice e per l’appunto il corpo diventa il punto di incontro dello sguardo del pubblico. Il neorealismo, peraltro, non si era mai prefisso di eliminare l’attore professionista. I cinematografari del tempo (come si chiamavano allora prima di diventare cineasti) al massimo volevano una ristrutturazione industriale del cinema secondo la tendenza comune di opporsi alla costruzione dell’attore divo o alla costruzione di un aura mitica del personaggio come avveniva a Hollywood. L’ipotesi di non usare attori professionisti era possibile soltanto fino a quando si sono girati film corali tipo Roma città aperta, Paisà, La terra trema, in cui come aveva predetto Barbaro gli interpreti erano la comunità e non il singolo personaggio. Questa ipotesi era anche resa possibile dalla staticità della cinepresa che permetteva una recitazione funzionale quasi anti-spettacolare. Con il ripristino della produzione industriale cinematografica avviene il tanto discusso passaggio dalla ricerca del non professionismo divistico al divismo paesano delle maggiorate degli anni Cinquanta, mi riferisco all’affermazione di Sophia Loren, Silvana Pampanini, Yvonne Sanson, Gina Lollobrigida e prima di loro, anche se solo per un breve ma intenso momento, la tanto amata Marisa Allasio la cui fugace carriera è ricordata dal film Marisa 1a civetta (1957) di Mauro Bolognini35. Come si può notare, non ho menzionato Silvana Mangano anche se all’uso che ha fatto di lei Giuseppe 35  Il film si svolge a Civitavecchia e Marisa amoreggia con tutti ma finisce con l’innamorarsi sul serio di un marinaio e si sposa, come poi l'attrice farà nella propria vita rinunciando al cinema. La sceneggiatura è di Pier Paolo Pasolini che a volte coglie molto bene le trasformazioni culturali.

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De Santis in Riso amaro, secondo tutti i critici, viene attribuita la nascita o rinascita del divismo. Il film del ciociaro segna il passaggio da una fase all’altra con la sua mescolanza dei codici di alta tradizione cinematografica e culturale con i codici bassi e popolari. Dopo il film Silvana diventa la più famosa e pagata star italiana. Tutti sapranno del manifesto francese sui muri di Parigi che la presenta con i seguenti attributi; «Anna Magnani con quindici anni di meno. Rita Hayworth con dieci chili di più, Ingrid Bergman col temperamento latino, e con più sex appeal di Mae West e Jane Russell insieme» – tutto questo per il mediocre film ormai dimenticato, Il lupo della Sila (1949) di Duilio Coletti36. Con Riso amaro De Santis voleva celebrare il trionfo della solidarietà socialista contro l’individualismo, l’egoismo e il tradimento della classe operaia. Nonostante tutti gli accorgimenti tecnici per mostrare un lento ma inesorabile isolamento dell’individuo secondo il metodo contadino di togliere la mela marcia per salvare il resto del raccolto37, Silvana esce protagonista e vincitrice dalla lotta fra il male, rappresentato dalla influenza corruttrice americana, e il bene rappresentato dalle laboriose mondine guidate dal buono e leale Sergente Marco. La corposità naturale di Silvana che da sola riesce a diventare il personaggio più importante del film non rappresenta l’inizio delle maggiorate e il ritorno al divismo come si è sempre ripetuto ma conferma ed esemplifica l’applicazione coe36  Oltre alla Mangano il film è interpretato da Amedeo Nazzari, Vittorio Gassman, Luisa Rossi e Jacques Sernas, girato sui monti calabresi, ottenne – anche grazie alla popolarità di Nazzari e all’accoppiata Gassman/ Mangano, freschi del successo ottenuto con Riso amaro – il terzo posto nella classifica degli incassi della stagione 1949-50. 37  A detta di Giuseppe De Santis il personaggio di Silvana interpretato da Silvana Mangano, rappresenta «il tipo di giovani incoscienti, incapaci di comprendere la propria condizione e di lottare accanto ai propri compagni, perché deviati verso una vita fittizia che li condanna all’annientamento». Come riportato nel secondo capitolo di questo volume.

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rente delle idee che De Santis aveva elaborato durante la collaborazione alla rivista «Cinema». Invero, rileggendo gli scritti più importanti pubblicati dalla rivista, si vede che la tensione che li percorre è tutta legata alla rinascita del cinema italiano, affidata alla riscoperta del paesaggio e dell’uomo che in esso vive; fra questi due termini in questione si stabilisce un legame dialettico nel quale si trasformano e si identificano le idee di rinnovamento. La loro trasmutazione si opera sul piano del visibile e ha per centro il corpo umano e il suo volto; il tipo. La tipologia per i giovani del gruppo era in verità ancora vuota di tratti particolari ed era sbilanciata verso l’esemplarità dei tratti fisici e somatici, aspetto che metteva in secondo ordine le attitudini interpretative del personaggio. Quando De Santis incontrò Silvana in una giornata di pioggia per le strade di Roma, come lui stesso amava raccontare38, fu subito fulminato dai suoi tratti fisici e somatici che dovevano rappresentare la nuova mondina stanca del faticoso lavoro nella risaia, che sogna una vita facile come nei nuovi fotoromanzi allora in voga. Nel suo schematismo il regista non si avvide che saranno proprio i nuovi fenomeni culturali che lui avrebbe voluto distruggere, cioè la modernità rappresentata dal modello americano, ad imporsi. Suo malgrado, la rappresentazione del male sociale escogitata con una elaborata messa in scena, sullo schermo si racchiude nel fascino animalesco e sfuggente di Silvana che vincerà, perché tutti loro rappresentavano la modernità e il nuovo che stava trionfando dappertutto in Italia. Ideologicamente il comportamento di Silvana doveva rappresentare ciò che vi è di marcio, ma davanti alla cinepresa il suo corpo sciolto e accattivante diventa l’incarnazione del nuovo, dell’avventura, della fuga dal quotidiano, la sensualità che il regime prima e la guerra 38  Si veda: Cinema, sud e memoria: Il regista Giuseppe De Santis racconta, in Cinema e Mezzogiorno a cura di Vincenzo Camerino, Lecce, Specimen Editore, 1987, p. 19. Come anche riportato a p. 33 di questo testo.

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dopo avevano represso. Silvana e Riso amaro raccolgono un grande successo mondiale per tutto questo. Riso amaro più che «deviazione» o «centralità decentrata» come l’ha definito Alberto Farassino39 rappresenta l’applicazione coerente delle premesse già presenti nei testi programmatici riguardo al rinnovamento artistico e tecnico che De Santis avevano elaborato collaborando alla rivista «Cinema» per la rinascita del cinema italiano, influenzato anche dagli insegnamenti di Umberto Barbaro. A mio avviso, una riprova di quanto affermato è nel fatto che nel 1969, Carlo Lizzani riesce finalmente a realizzare L’amante di Gramigna tratto dal racconto di Verga40, con l’interpretazione di Gian Maria Volonté e Stefania Sandrelli. In una intervista il regista afferma: «La Sandrelli porta nel suo sguardo e nel suo corpo qualcosa di moderno, di felino, di inafferrabile... non poteva rappresentare una donna passiva e soltanto soggetto di passione monocorde. Ripeto, anche la scelta di un attore è una scelta di narrazione. Nel saggio che ho scritto per Riso amaro ho affermato che la Mangano fa parte del paesaggio, riempie il fotogramma in un certo modo come non lo avrebbe riempito un altro tipo di fisico. Certi volti e certi sguardi sono già un racconto. A volte delle storie si costruiscono proprio su un volto»41. Ben altra cosa è il fenomeno nostrano delle maggiorate e delle attrici scelte dai registi del tempo dai concorsi di bellezza. Esso è il risultato delle previsioni e pro39  Si veda: Giuseppe De Santis, Alberto Farassino, Milano, Moizzi Editore, 1978. 40  Parlando di Verga, Lizzani ha dichiarato: «Verga è uno scrittore che è stato un mito per la nostra generazione [...] per il suo stile, per il suo occhio aperto sulla verità, sulla realtà della società italiana del Sud [...] per tutta una generazione». Carlo Lizzani in Verga e il Cinema a cura di Nino Genovese e Sebastiano Gesù, Catania, Giuseppe Maimone Editore, 1996, p. 201. 41  Intervista a Carlo Lizzani in Verga e il Cinema a cura di Nino Genovese e Sebastiano Gesù, cit., p. 201.

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grammazione dell’industria cinematografica italiana e dei produttori che si affidano ai miracoli fatti dalle tette delle maggiorate sui repressi e frustrati maschi italiani dell’epoca. In un importante studio, Lo star-system italiano degli anni Cinquanta, è ben dimostrato come il nuovo divismo italiano del dopoguerra punti sull’onesta ragazza tutta casa e lavoro nettamente ricomposta nell’ambito della tradizione e dell’ideologia cattolica42. Ripercorrendo nelle linee interne la storia del neorealismo italiano, più che parlare di certe parole d’ordine come “attori non professionisti”, “attori presi dalla strada”, quando non esistono né tesi elaborate o sommarie su queste idee, bisognerebbe riesaminare come la guerra, la lotta di liberazione e poi la guerra fredda hanno influenzato le varie posizioni sorte nel dibattito precedente alla discussione sulla recitazione e l’uso delle teorie apprese al Centro sperimentale e poi rielaborate attraverso le pagine della rivista «Cinema» che facevano appello a un nuovo cinema italiano. Lo scopo di questa ricerca era di delineare accuratamente lo sviluppo delle idee della nuova generazione che diede vita al rinnovo del cinema italiano, tra cui spiccava il regista ciociaro Giuseppe De Santis. La ricerca è divisa in due parti principali: nella prima si è discusso del ruolo avuto da Umberto Barbaro, nella seconda sono state riassunte le idee espresse da De Santis nel periodo frondista della rivista «Cinema», le quali sono precedute da una introduzione al ruolo avuto all’epoca dalla rivista. Per concludere si è fatta un’analisi del periodo del dopoguerra in cui il regista passa alla cinematografia mettendo in pratica le sue idee. Ci siamo serviti del film Riso amaro, seconda realizzazione di Giuseppe De Santis, per riaprire il dibattito sull’attorialità e 42  Lo star-system italiano degli anni cinquanta, Francesco Pinto in Sociologia della letteratura, Roma, Bulzoni, 1978, pp. 61-76.

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la recitazione nel cinema italiano del dopoguerra, il che ci ha permesso di rimettere in discutere l’ormai diffuso canone critico del tradimento desantisiano nei confronti della pratica dell’attore preso dalla strada. Si è dimostrato che per il regista ciociaro il rinnovo del cinema era ben altro che autenticità e immediatezza. Il problema, a mio parere, nell’interpretare il neorealismo e riguardo al ruolo avuto da De Santis nel cinema italiano del dopoguerra, è dovuto alla mancanza di un’analisi che tenga in considerazione le circostanze storiche, l’identificazione quasi totale del zavattinismo con il neorealismo e la scarsa importanza che si dà alla restaurazione degli anni Cinquanta con l’inizio della guerra fredda. Periodo che lo studioso Brunetta ha definito: «[…] una mobilitazione così massiccia, quale non si era vista neppure nel periodo fascista, a favore di un cinema di regime, si giustifica solo se si riconosce al cinema una qualche possibilità di incidenza sulla coscienza popolare e capacità di prospettare modelli alternativi di sviluppo della società italiana. Colpire il cinema italiano fin dall’inizio significa impedirne uno sviluppo di cui non si prevede esattamente la portata»43. Per molti del gruppo di «Cinema» e per De Santis in particolare il cinema rappresentava la traduzione del lavoro intellettuale in quello politico, una battaglia nata attraverso le pagine della rivista e continuata, pur con limiti ed equivoci, anche nel dopoguerra. La sua formazione, le sue idee e la militanza politica iniziata negli anni Quaranta hanno portato De Santis al sogno di creare un cinema popolare italiano in cui le masse non fossero soltanto di consumatori ma di protagonisti. Il suo cinema rappresentava un’ipotesi popolare al di sopra dell’immediatezza congiunturale del momento storico. 43  Introduzione di Gian Piero Brunetta a Umberto Barbaro, Neorealismo e realismo, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 17.

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Questo profondo desiderio del regista è sottolineato dallo studioso Carlo Lizzani: «De Santis vorrebbe girare dei film che avessero sullo sfondo, o addirittura come protagoniste, quelle lotte sociali che spesso, in altri paesi dove la censura dei produttori è più discreta, hanno dato vita a film potenti ed incisivi. I suoi ambienti potrebbero essere quelle stesse miniere dove Pabst ai tempi eroici del cinema tedesco muoveva le sue masse [...] le sue mondine o i suoi contadini sarebbero più reali e aggressivi se egli potesse ricondurre le psicologie e i movimenti ad una realtà più precisa e determinata, analogamente a quanto fanno certi registi americani che negli anni possono porre al centro del film un conflitto sindacale, uno sciopero un caso di corruzione politica»44.

44  Il cinema italiano. Dalle origini agli anni Ottanta, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 113-114.

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Altre ragioni per l’esclusione di De Santis, costretto a non fare più film malgrado le tante sceneggiature scritte e tante promesse

Le ragioni per l’improvviso arresto dell’attività di regista dal punto di vista di De Santis: «Le cose si rompono agli inizi degli anni ’60. Spariscono le tematiche e le problematiche del neorealismo, di quel cinema che mi piace definire come il cinema che somiglia alla gente. Il suo ultimo grande grido fu Rocco e i suoi fratelli di Visconti. In quello stesso anno, nel 1960, Fellini, geniale e straordinario, esce con La dolce vita. Improvvisamente il cinema italiano cambia volto, e la borghesia nostrana, che non era mai stata rappresentata con quella violenza e quella potenza in tutta la sua complessità, si afferma sullo schermo con questo film. In quell’anno si formò una specie di spartiacque. La cultura di sinistra, che fino allora era stata egemone con le sue tematiche sociali e i personaggi popolari, improvvisamente comincia a perdere colpi. Il cinema si orchestra tutto intorno alla borghesia. Arrivano quelli che io chiamo i “nipotini di Fellini”, Bellocchio, Bertolucci, Samperi. Forse era giusto così. Una colpa, se c’è stata, è stata quella di un completo ribaltamento. Per anni non si vedrà sullo schermo la faccia di un operaio o di un contadino»1. Carlo Lizzani sul cinema precedente agli anni Sessanta ha scritto: «Il neorealismo non è solo uscire per la strada e girare dal vero. Il punto in comune e qualificante, a mio parere, è dato dal linguaggio. In tutto il cinema 1 Conversazione registrata a Fiano Romano durante uno dei nostri incontri.

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neorealista c’è un’infinità di linguaggi e contemporaneamente una grande mescolanza di generi. Fino allora non si era mai visto il momento umoristico, la risata, addirittura, precedere la tragedia. Questo, invece, è presente in tutti i film neorealisti. Ci sono inoltre figure sociali diverse: i bambini, le donne, ecc. Le donne ora diventano protagoniste e assumono funzioni addirittura “maschili”; i bambini si comportano da adulti. C’è il rovesciamento delle funzioni sociali. Il rapporto tra l’uomo, il singolo, e il coro, la massa, è profondamente differente rispetto al passato. È sempre dialettico, non è mai gerarchico, come lo era nel cinema precedente. I segni caratterizzanti della figurazione del paesaggio sono le grandi periferie, le grandi pianure, orizzonti sconfinati, insicuri; mente prima la visione era raccolta entro confini che davano sicurezza se non erano addirittura claustrofobici, come nel cinema dei “telefoni bianchi”. Il neorealismo è riconoscibile da questi segni figurativi e linguistici profondi che il neorealismo letterario, in gran parte, non ha potuto lasciare»2. Oltre al mutamento menzionato nel mondo del cinema, De Santis dopo l'ultima delusione subita dal rifiuto della RAI di produrre un film sui fatti di Andria, scrive: «[...] Si dirà: il mondo è cambiato. Certo. Ma è solo in virtù del mutamento che ieri, oppure appena l'altro ieri, il cinema del nostro Paese, povero, con un cuore di stracci, raccoglieva, senza il sostegno finanziario di multinazionali, l'entusiasmo delle platee internazionali, e che oggi la televisione-cinema dello stesso Paese, ricco (anche di inflazione e di debito pubblico), sia costretta a darsi un gran da fare per racimolare capitali stranieri e produrre a rotazione ormai continua un Kolossal dietro l'altro, pur di procacciarsi uno spazio sugli schermi del 2  Carlo Lizzani in Cinema e Storia di Pasquale Iaccio, Napoli, Liguori Editori, 2000, p. 273.

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mondo intero? Non si rischia un (preoccupante?) salto all'indietro, un tuffo (pauroso?) nel passato, quando l’Italia era divenuta tristemente famosa per la produzione in serie di tanti Kolossal, contro cui, tra l'altro, almeno due generazioni di intellettuali del cinema ‒ critici, registi, scrittori ‒ hanno combattuto perché il nostro non fosse solo un “Paese” di poeti, di navigatori, e di Santi?»3. De Santis non credeva nel cinema per pochi: di quest’arte nuova, che a un certo punto aveva abbracciato scavalcando la primitiva vocazione letteraria, sosteneva che era fatta per parlare a tutti. Gli piaceva definirsi populista, amava i suoi film e non ebbe paura di difenderli quando i produttori pretendevano di metterci le mani. Mentre alle “Botteghe oscure” lo consideravano come un uomo da bruciare. Finché, senza troppi complimenti, fu messo da parte; e in taluni frangenti a tirarsi fuori dalla mischia fu lui, orgoglioso com’era. Per rientrare come regista aveva scelto un tema ingrato, il massacro di due vecchie contesse nel corso di una rivolta contadina tristemente famosa del ’47, coronata da un infame processo in cui i giornali si scatenarono contro un gruppo di innocenti etichettandoli come i “lupi di Andria”. Quando l’impresa cominciò a sprofondare nell’infido pelago della Rai, nessuno provvide a dare una mano. Neanche da sinistra. De Santis avrebbe potuto smuovere cielo e terra, ma preferì rinchiudersi nel suo pacato sdegno: non protestò, non inveì. Dal suo buon ritiro approfittò dell’occasione per insegnarci ancora un volta che, come dice il compagno Brecht, “un uomo è un uomo”. 3 Dal manoscritto originale datomi da De Santis che stava preparando dopo l’ultimo disappunto ‒ quanndo a metà degli anni Settanta aveva scritto una sceneggiatura sui fatti di Andria avvenuti in Puglia nel 1946, e Tullio Kezich aveva cercato di farglielo produrre per la RAI. Peppe considerava lo sceneggiato mai realizzato la sua corazzata Potemkin.

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Riguardo alla strana sorte subita dal regista ciociaro lo storico cinematografico Gian Piero Brunetta ha scritto: «Tra tutti i personaggi che possiamo idealmente far rientrare nella colonia dei padri fondatori del nuovo cinema del dopoguerra ‒ per ragioni diverse e mai del tutto chiarite fino in fondo ‒ con un’azione centripeta e schiacciante, il sistema produttivo, quello critico e il pubblico, ne decretano l’espulsione senza offrirgli alcuna possibilità di rientrare, condannando la sua forte e generosa voce al silenzio progressivo e all’afasia». La posizione assunta in merito dalla critica e dagli studiosi di cinema italiano potrebbe essere brevemente riassunta con le ragioni di cui parla Brunetta, se di ragioni si può parlare. Alcuni critici mettono in risalto un certo atteggiamento da parte di De Santis che non voleva mai compromettere le sue idee e i suoi progetti, un atteggiamento che alcuni di destra chiamano cocciutaggine, mentre altri di sinistra la definiscono coerenza, un posizione che potremmo definire di fedeltà nel voler trattare temi che col tempo, complici la leva dei nuovi registi e la stampa degli anni ‘50 e ‘60, venivano considerati sempre più fuori moda. Si dovrebbe aggiungere che i temi a cui il regista ciociaro teneva molto, come per esempio l’occupazione delle terre nel Meridione e gli scioperi al rovescio, quando egli propose di raccontarli non erano affatto fuori moda ma attualissimi. Ma per molti critici tutto ciò non è sufficiente per spiegare il boicottaggio subito dal regista ciociaro. Bisogna aggiungere la durevole incomprensione dei “puristi” verso un cineasta che, all’interno del movimento neorealista, otteneva strepitosi successi commerciali, come se si trattasse di una contraddizione in termini. A questo si aggiunga la mancanza di attenzione – questa ancor più grave – da parte della critica di sinistra e degli ambienti politici e culturali di quell’area, probabilmente perché De Santis, difendendo sempre la 144 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

propria libertà di espressione, avrebbe potuto rivelarsi un regista “scomodo” per la stessa sinistra. Il cinema di De Santis avrebbe potuto avere un ruolo importante ed unico nel panorama del cinema italiano in quanto andava oltre la separazione tra cinema colto e/oppure d’autore e prodotto commerciale scadente concepito per le masse e per far soldi, sottomesso al consumo di massa. Il cinema del regista ciociaro non rappresenta né la ricerca autoriale né un cinema melodrammatico, bozzettistico e di maniera, esso era veramente un tentativo unico nel panorama dell’epoca che venne stroncato dai critici, dai politici finché gli fu negato il sostegno produttivo. Ma la sua stroncata e negata funzione merita di essere riconsiderata in quanto nel suo cinema c’era un fortissimo desiderio di ricerca e di rinnovamento della forma e non soltanto dei contenuti.

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I fatti di Andria nel parcheggio Rai-TV. Come il regista ha reagito all’ultima esclusione dopo anni di sogni infranti e sceneggiature scritte e rimaste nei cassetti dello studio

Avevo compiuto da appena qualche mese i sessant’anni quando un radiosa mattina dell’aprile 1978 fui invitato negli uffici amministrativi della Seconda Rete televisiva, diretta allora dal socialista Massimo Fichera, a firmare una tanto atteso contratto di lavoro (le prime trattative erano cominciate, per merito dell’amico Tullio Kezich, intorno al settembre del ’77) per elaborare, con gli sceneggiatori Franco Reggiani e Gigi Vanzi, un romanzo a più puntate ispirato ad alcuni drammatici avvenimenti che avevano sconvolto, nella prima settimana di marzo del 1946, la popolosa cittadina di Andria, nel cuore della Puglia, ai confini del pietroso paesaggio delle Murge e della sconfinata pianura di quel Tavoliere da sempre grande granaio d’Italia e insieme enorme serbatoio di braccia da lavoro subalterno. Si trattava di una vera e propria jacquerie guidata in maggioranza da reduci disoccupati – di professione braccianti agricoli, operai edili, artigiani ridotti in miseria, piccoli agricoltori con poco più di un fazzoletto di terra – ed intesa ad ottenere dagli agrari ed imprenditori locali la piena applicazione di un decreto prefettizio (febbraio ’49) per un massimo impegno di mano d’opera, troppo spesso eluso con inganni e sotterfugi. La rivolta, durata quattro giorni, in seguito ad ulteriori provocazioni provenienti da più parti, si era trasformata, d’improvviso, in un terribile delitto di folla che aveva 147 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

portato al linciaggio di due anziane proprietarie terrieri, le sorelle Luisa e Carolina Porro, dando luogo a uno dei più famosi processi del dopoguerra, dibattuto nelle aule del tribunale di Trani, tra il ’48 e il ’53 , con circa 150 imputati (identificati immediatamente dalla stampa di destra, «Corriere della Sera» in testa, come “i lupi di Andria” prima ancora di attendere qualsiasi giudizio) 29 dei quali in gabbia ma tutti, meno uno, iscritti (guarda caso!) al partito comunista italiano. Ritenevo che la firma di quel contratto rappresentasse una conquista considerevole nella mia stentata carriera di cineasta, non solo perché sembrava por termine ad una drammatica ed angosciosa disoccupazione professionale durata, incredibilmente, quasi vent’anni, ma anche e soprattutto perché coronava uno dei tanti sogni cinematografici che mi aveva accompagnato fedelmente e fatto compagnia con la sua pressante memoria per oltre tre decenni di vita. Avevo tentato, in effetti, sin da quel lontano marzo del 1946, quando i fatti di Andria erano accaduti, di convincere più di un produttore ad affrontarli in un film di ampio respiro corale, senza mai riuscire nel mio intento, nonostante l’autorità di regista, nazionale e internazionale, che l’insperato, strepitoso successo commerciale nel mondo intero del mio secondo film Riso amaro mi aveva conferito e che vive proprio dalla fine degli anni quaranta. Ed ecco che ora, finalmente, dopo più di un trentennio, la RAI-TV, proprio un Ente di Stato, com’era più che giusto (mi sembrò) dato l’argomento ricco di insegnamenti, e che per merito della Riforma cominciava ad essere gestito, anche se faticosamente, secondo criteri di pluralismo politico, mi dava la possibilità di raccontare il romanzo di quei fatti, di tradurli in immagini, e di portarli a conoscenza di milioni e milioni di spettatori, con l’ambiziosa speranza di indurli a riflettere su uno dei tanti nodi storici del tortuoso, complesso, e spesso 148 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tragico viaggio del nostro Paese verso la conquista della democrazia, e, in particolare, sulla sostanza dei riflessi che quei fatti stessi potevano fornire per illuminare sempre meglio la tanto discussa e mai risolta questione Meridionale. Ero oltremodo felice e mi sentivo, almeno in parte, ripagato (considerando l’importanza del progetto e della destinazione) dei tanti umilianti rifiuti subiti, di volta in volta, dal cinema italiano con un’incidenza di anni invero troppo lunga e abnorme per essere imputabile soltanto al caso1.

1  Anche questo documento mi è stato donato da De Santis durante uno dei nostri incontri di lavoro a Fiano Romano, con il permesso di usarlo e pubblicarlo per le mie ricerche. In questo caso non ho copiato l’intero documento ma soltanto la parte inerente alla mia ricerca.

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Breve bibliografia su De Santis e opere consultate

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Lizzani, Carlo, «Riso amaro»: Un film diretto da Giuseppe De Santis, Roma, Officina Edizioni, 1978. Manfredi, Nino, Nudo d’attore, Milano, Mondadori, 1993. Masi, Stefano, Giuseppe De Santis, Firenze, Il Castoro cinema, La Nuova Italia, 1982. Micciché, Lino (a cura di), Il neorealismo cinematografico italiano, Venezia, Marsilio, 1999. Parisi, Antonio, Il cinema di Giuseppe De Santis. Tra passione e ideologia, Roma, Cadmo Editore, 1983. Sparti, Pepa (cura di), Cinema e mondo contadino, Venezia, Marsilio, 1982. Toffetti, Sergio (a cura di), Rosso fuoco. Il cinema di Giuseppe De Santis, Torino, Lindau, 1996. Verdone, Mario, Il cinema neorealista, Palermo, Celebes, 1977. Zavattini, Cesare, Neorealismo ecc., a cura di Mino Argentieri, Milano, Bombiani, 1979.

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Indice dei nomi

Agus Gianni, 113 n. Alexandrov Grigorij, 129 Alicata Mario, 8, 24, 120, 121, 122, 123, 124, 130 n. Allasio Marisa, 134 Alvaro Corrado, 35, 54, 66 n. Amoroso Roberto, 76, 83 Andreotti Giulio, 48, 58 e n., 62, 64 n., 66 n., 81, 83, 84 n. Antonioni Michelangelo, 19, 88, 113 n., 120 Archibugi Francesca, 93 Aristarco Guido, 92 n. Arnheim Rudolf, 114 e n., 115, 125 Arpà Adriano, 110 n. Attanasio Eugenio, 67 n. Balázs Béla, 113, 115, 119 Baracco Adriano, 79, 94 Barbaro Umberto, 62 e n., 111, 113-119, 133, 134, 137, 138, 139 n. Bazhieri Frane, 56 Beghi Luisella, 113 n. Bellocchio Marco, 141 Belmondo Jean-Paul, 95, 96 Benetti Adriana, 113 n. Bergman Ingrid, 135 Berlingeri Luigi, 75 n. Bertolucci Bernardo, 21 n., 65, 141 Blasetti Alessandro, 109 n., 110 n., 116, 119, 129 Boccaccio Giovanni, 92 Bolognini Mauro, 134 Boneschi Marta, 101 n.

Bontempelli Massimo, 18 Borghesio Carlo, 77 Borromini Francesco, 105 Bosè Lucia, 33 Bottai Giuseppe, 122 Bragaglia Anton Giulio, 121 n. Brecht Bertolt, 142 Brigone Guido, 77 Brunetta Gian Piero, 113 n., 114 n., 120 e n., 126, 127 e n., 139 e n., 143 Cagli Corrado, 17 Calamai Clara, 113 n. Calvino Italo, 21 Camerini Mario, 77, 110 n. Camerino Vincenzo, 136 n. Capolicchio Lino, 8 Cardarelli Vincenzo, 17 Castellani Renato, 99, 128, 130 Cerio Ferruccio, 113 n. Checchi Andrea, 40, 113 n. Chiari Mario, 113 n. Chiarini Luigi, 113, 114, 115, 117, 126, 133 Chiari Walter, 118 Cialente Fausta, 82 Clair René, 128 Clift Montgomery, 133 Coletti Duilio, 135 Colizzi Giuseppe, 78 Comencini Luigi, 77, 96, 99 Cosulich Callisto, 121 n. Cottafavi Vittorio, 113 n. Damiani Damiano, 60 De Feo Luciano, 125

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Libero Libero, 8, 54, 66 n., 92, 95 e n. Del Poggio Carla, 113 n. De Pirro Nicola, 53, 56 De Roberto Federico, 58 n., 59 n. De Santis Oreste, 27 De Santis Pasqualino, 7 De Seta Vittorio, 67 n. De Sica Vittorio, 20, 61, 64 n., 77, 78, 87, 93, 95, 129, 131, 133 Di Giacomo Franco, 8 Di Vittorio Giuseppe, 76 Dovženko Aleksandr Petrovič, 83 Dowling Doris, 79 Eisenstein Sergej, 83, 110 n., 113, 115, 116, 118 Fabrizi Aldo, 110 n., 118 Farassino Alberto, 137 e n. Faulkner William, 24 Fellini Federico, 141 Ferrara Maurizio, 45 Feyder Jacques, 61 Fichera Massimo, 147 Flaiano Ennio, 17 Forges-Davanzati Domenico, 81 Fortunato Giustino, 27 Forzano Giovacchino, 109 n. Franchina Basilio, 66 n. Garin Eugenio, 113 n. Gassman Vittorio, 35, 135 n. Genovese Nino, 120 n., 137 n. Germi Pietro, 60, 87, 113 n. Gesù Sebastiano, 120 n., 137 n. Girotti Massimo, 40, 57, 75, 124 Godard Jean-Luc, 44 Goldoni Carlo, 92, 100, 106 Graetz Paul, 79 Gramsci Antonio, 49, 74, 88, 89 Grant Gary, 133 Griffiths Clive Edward John, 109 n. de

Guareschi Giovanni, 93 Guerra Tonino, 45 Gullo Fausto, 75 n. Guttuso Renato, 17 Hamilton Hope, 83 n. Hayworth Rita, 112, 135 Iaccio Pasquale, 21 n., 23 n., 60 n., 75, 142 n. Ingrao Pietro, 8, 24, 41, 44, 72, 73 n. 81, 120 Jones Jennifer, 133 Joyce James, 24 Kafka Franz, 23, 24 Kezich Tullio, 65 e n., 142 n., 147 Kulešov Lev Vladimirovič, 116 Landolfi Tommaso, 10 Lattuada Alberto, 77 Lawton Ben, 14 n., 15 n. Lebano Edoardo, 14 e n., 17 Ledda Gavino, 65 Leone Sergio, 78 L’Herbier Marcel, 77 Lizzani Carlo, 8, 21-24, 35, 59 e n., 60, 65, 100 n., 114 n., 120, 131 n., 137 e n., 140, 141, 142 n. Lollobrigida Gina, 134 Loren Sophia, 95, 96, 97, 134 Lotti Mariella, 113 n. Lulli Folco, 94 Maccari Mino, 18 Machaty Gustav, 117 Mafai Mario, 17 Maffa Paolo, 77 Magnani Anna, 110n., 118, 135 Magni Luigi, 97, 98 Manfredi Nino, 95-99 Mangano Silvana, 32, 33, 35, 36, 37 n., 79, 111, 112, 118, 134137

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Manzoni Alessandro, 92, 100 Martelli Otello, 104 Martelli Sebastiano, 121 e n., 122 Martini Andrea, 63 e n. Martoglio Nino, 119 Mastroianni Marcello, 92, 93, 101 Matarazzo Raffaello, 99 Mauro Angelina, 75 n. Mauro Vincenzo, 67 n. McCarthy Joseph R., 81 Mèccoli Domenico, 125 Melani Marco, 63 e n. Menjou Adolphe, 81 Miccichè Lino, 63 n. Miletic Gordana, 15 n., 83 Monaco James, 109 n. Montale Eugenio, 122 Montesanti Fausto, 121 Moravia Alberto, 17, 95 Morelli Giampaolo, 113 n. Murnau Friedrich Wilhelm, 116 Musso Carlo, 35 Mussolini Benito, 19 Mussolini Vittorio, 19, 24, 125, 126 Nazzari Amedeo, 75, 99, 135 n. Nigro Francesco, 75 n. Olmi Ermanno, 55, 65, 66 Oms Marcel, 74 Pabst Georg Wilhelm, 140 Padovani Lea, 80 Padula Vincenzo, 27 Pampanini Silvana, 57, 112, 134 Parisi Antonio, 104 n. Parvo Elli, 113 n. Pasinetti Francesco, 120, 121 n., 125 Pasolini Pier Paolo, 21 n., 134 n. Pavese Cesare, 120, 122

Pavolini Alessandro, 128 Pavolini Corrado, 125 Perilli Ivo, 35 Petri Elio, 10, 21 n., 45, 60, 76, 92 e n. Pietrangeli Antonio 120 Pinto Francesco, 138 n. Pirro Ugo, 8, 59, 60, 76, 88 Porro Carolina, 148 Porro Luisa, 148 Pozzetti Alberto, 113 n. Proust Marcel, 24 Puccini Dario, 120 Puccini Gianni , 35, 45, 92 e n., 113 n., 120 e n., 121 n., 125, 126 e n. Puccini Massimo, 120 Pudovkin Vsevolod, 113, 115, 116 Purificato Domenico, 8, 10, 92, 103, 104 e n., 105, 120 Rand Ayn, 81 Reggiani Franco, 147 Renoir Jean, 61 Riccardini Michele, 113 n. Ricci Antonio, 64 n. Risi Dino, 77, 97, 99 Rondolino Gianni, 24 Roosevelt Franklin Delano, 81 Rosemberg Ethel, 81 Rosemberg Julius, 81 Rosi Francesco, 7, 48, 65 Rossellini Roberto, 19, 20, 61, 78, 110 n., 131, 133 Rossi Drago Eleonora, 57 Rossi Luisa, 135 n. Russell Jane, 135 Sadoul Georges, 74 Salinari Carlo, 121 Salvatore Matteo, 76 Salvatori Renato, 95 Samperi Salvatore, 141

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Sandrelli Stefania, 137 Sanson Yvonne, 99, 134 Sapegno Natalino, 122 Scarfò Giovanni, 67 n. Scelba Mario, 75 e n. Scicluna Sorge Annibale, 53, 56 Scola Ettore, 51, 97 Scotese Giuseppe Maria, 113 n. Scott Adrian, 81 Seminara Fortunato, 54, 66 n. Serato Massimo, 113 n. Sernas Jacques, 135 n. Setò Javier, 99 Silone Ignazio, 65 Socrate Mario, 45 Soldati Mario, 128 Solmi Angelo, 62 e n. Sonego Rodolfo, 66 Sordi Alberto, 96 Sparti Pepa, 65 n. Stanislavskij Konstantin Sergeevič, 115 Taviani F.lli, 21 n. Taviani Paolo, 65 Taviani Vittorio, 65 Tedeschi Mario, 82 Tellini Piero, 129 Tiffin Pamela, 97 Toso Otello, 113 n.

Totò (De Curtis Antonio), 96 Trombadori Antonello, 41, 44, 56 Tullio Paolo, 93 Ungaretti Giuseppe, 59, 122 Vacana Gerardo, 93 n. Valeri Tonino, 64 n. Valli Alida, 113 n. Vallone Raf, 75, 79, 83, 94, 95 Vanzi Gigi, 145 Varzi Elena, 75 Verga Giovanni, 36, 37, 100, 118, 120, 137 e n. Vergano Aldo, 20, 61 Vidor King, 66 n., 129 Villari Pasquale, 27 Visconti Luchino, 19, 20, 48, 61, 78, 120 e n., 131, 133, 141 Vitti Antonio Carlo, 11, 14 n., 16 n., Vittorini Elio, 120 Vlady Marina, 101 Volonté Gian Maria, 137 Wertmüller Lina, 97 West Mae, 135 Zampa Luigi, 113 n. Zareschi Elena, 113 n. Zavattini Cesare, 77, 79, 80, 95, 109, 129 Zeglio Primo, 113 n. Zito Giovanni, 75 n.

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Indice

Andrea D’Ambrosio Giuseppe De Santis un pioniere oltre il sistema Testimonianze di Peppe De Santis e considerazioni su uno scomodo neorealista di campagna

7 13

De Santis a Middlebury College

14

Curriculum Vitae inviato al Professore Lebano e poi donatomi dal regista nel 1993

17

Un esempio della battaglia sostenuta dal giovane Peppe De Santis per promuovere un nuovo cinema

23

Cinema, Sud e memoria. Qualche risposta ad alcune domande personali De Santis, Fiano Romano aprile-maggio 1981

25

Alcune mie riflessioni sull’inattività di Peppe De Santis

61

Considerazioni sull’esclusione di Santis che non chiamerei lungo silenzio

71

La Ciociaria nel cinema italiano

91

Attorialità e recitazione nel cinema di Giuseppe De Santis

109

Altre ragioni per l’esclusione di De Santis, costretto a non fare più film malgrado le tante sceneggiature scritte e tante promesse

141

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I fatti di Andria nel parcheggio Rai-TV Come il regista ha reagito all’ultima esclusione dopo anni di sogni infranti e sceneggiature scritte e rimaste nei cassetti dello studio.

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Breve bibliografia su De Santis e opere consultate

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Indice dei nomi

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© 2021 Metauro Edizioni S.r.l. Finito di stampare nel mese di giugno 2021 presso la Digital-Team (Fano - PU) Printed in Italy

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