Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale 8815251359, 9788815251350

Fra il 1914 e il 1918 la grande guerra produsse mutamenti profondi: sul piano politico, economico, sociale, culturale, c

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Italian Pages 312 [300] Year 1985

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Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale
 8815251359, 9788815251350

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Eric J. Leed

Terra di nessuno Esperienza bellica e identità personale nella prim a guerra m ondiale

In memoria di mia madre, Alice A. Le ed 1908-1972

Eric J. Leed

Terra di nessuno Esperienza bellica e identità personale nella prim a gu erra m ondiale

il Mulino

ISBN 88-15-00859-4 Edizione originale: No Man’s Land. Combat & Identity in World War I, Cambridge, Cambridge University Press, 1979. Copyright © 1979 by Cambridge University Press, Cambridge. Copyright © 1985 by Società editrice il Mulino, Bologna. Traduzione di Rinal­ do Falcioni. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didatti­ co, non autorizzata.

Prefazione

Ci sono molte cose che questo libro non è e non può pretendere di essere. Non è una storia militare, per q u an to io ab b ia tro v ato n elle sto rie militari il materiale necessario a farmi un’idea puntuale degli eventi della prima guerra mondiale. E non si tratta neppure di un’a­ nalisi della letteratura di guerra: per quanto abbia stu­ diato a fondo la memorialistica, l’ho fatto essenzialmente sperando di comprendere meglio esperienze che deborda­ no dai limiti della parola e del testo scritto. Infine, que­ sto libro non è una psicostoria della prima guerra mon­ diale. Potrebbe sembrare che il suo oggetto — la tra­ sformazione della personalità in guerra — rientri nel­ l’ambito di competenza della psicostoria ma, come ho tentato di spiegare nel primo capitolo, trasformazioni del carattere che appaiono fortemente soggettive sono invece sovente derivate da simboli tradizionali e convenzioni ben introiettate. Dunque in questo libro non tratto di psicostoria, bensì di quei repertori culturali significanti in base ai quali i partecipanti al conflitto trassero spiegazio­ ne dei mutamenti percepiti nel proprio essere. In questa ricerca l’«io» non appare come scopo ultimo d’analisi, ma come elemento fondamentale di quella rappresentazione immaginaria le cui figure servirono ai partecipanti al con­ flitto per definire la natura della loro esperienza. Ho concepito questo libro come analisi di un’espe­ rienza storica ben definita, e con lo scopo di individuare e precisare il modo in cui un evento storico di prima grandezza possa aver contribuito alla definizione peculiare del «moderno». La guerra intervenne sul carattere dell’e-/ poca alterando lo status, le aspettative, e la personalità dei partecipanti al conflitto. Anche adesso — dopo tutto' il tempo speso a studiare la guerra, pensarla, e talvolta 5

Prefazione

anche sognarla di notte — sono convinto che, a lungo andare, la guerra possa veramente continuare a interessa­ re soltanto un aficionado di cose militari oppure un membro della generazione di guerra. Dal punto di vista puramente militare la guerra è d ’interesse strettamente circoscritto; ma essa conquista, e in modo travolgente, qualora la si veda nell’ottica di mobilitazione, articolazio­ ne, e modificazione delle risorse significanti a disposizio­ ne degli individui che esperirono personalmente la sua inedita e terrificante realtà. L ’esperienza di guerra è la conferma definitiva della capacità umana di ascrivere si­ gnificato a un mondo, anche quando quel mondo paia impermeabile ad ogni significazione. La guerra mobilitò tutte le risorse culturali significanti a disposizione degli europei nei primi decenni del ventesimo secolo: essa ci permette di comprendere cos’erano esattamente quelle ri­ sorse, non tanto cioè un astratto sistema di pensiero, bensì qualcosa che permettesse di rendere coerente e comprensibile l’esperienza stessa. In senso stretto, questo libro tratta del modo in cui la guerja_m utò^li uomini che vi presero parte. Ciò mi Ha indotto a considerare soprattutto le testimonianze più introspettive e analitiche, e a preferire di soffermarmi sulle memorie di pochi combattenti anziché indulgere in una più ampia rassegna della letteratura di guerra. Non posso dunque pretendere di essere stato esaustivo nel­ l ’indagine sulla letteratura di guerra: per la maggior par­ te i miei esempi sono tratti da materiale tedesco, pur avendo usato opere francesi, americane e inglesi — non­ ché materiali espunti da altre guerre — come fonte di comparazione e contraddittorio. Dal momento poi che è arduo per qualsiasi storia della guerra «provare» che gli eventi bellici abbiano cambiato il carattere dei combat­ tenti, ho tentato di definire queste trasformazioni mu­ tuando da numerosi campi diversi dalla storia, in partico­ lare l ’antropologia culturale, la sociologia, e la psicologia. A volte ho preferito la strategia dell'«inquadramento» per casi singoli del fenomeno di trasformazione del carat­ tere, anziché attaccare questo fenomeno complessivamen­ 6

Prefazione

te. È questa strategia d ’aggiramento che, più di ogni altra cosa, si è evoluta nella struttura e nelle finalità di questo libro, nello sforzo di presentare una storia culturale. della prima guerra mondiale attraverso glTuomìni che vi presero_^rte,~ncòsfruèndo le lóro scoperte e disillusioni che — in tempi passati — avrebbero costituito il soggetto di un’opera tragica piuttosto che di un’analisi storica. La mia dimostrazione segue il modello canonico im­ plicante un inizio, un percorso, e una fine. Nell’analisi dell’inizio della guerra, mi sono preoccupato soprattutto di definire i modi in cui la guerra fu vista come soluzio­ ne di contraddizioni culturali di fondo. Nel bel mezzo della mia argomentazione — l’esperienza di guerra vera e propria — ho quindi prestato particolare attenzione alle forme in cui queste contraddizioni riapparvero sotto altre spoglie, tramite realtà inedite, e nelle fantasie, nei miti, nelle psicopatologie causate dalla guerra stessa. Ma con la fine della guerra finisce la mia dimostrazione, poiché la cessazione delle ostilità, lungi dal significare la fine del­ l’esperienza di guerra, segnò piuttosto l ’inizio di un pro­ cesso in cui quell’esperienza fu estesa, istituzionalizzata, ricevette un marchio ideologico, e rivisse nell’azione e nell’immaginario politici. Il capitolo finale non può quin­ di essere considerato una conclusione, quanto piuttosto un tentativo di spiegare perché l ’esperienza di guerra fu qualcosa che non potè essere risolto, reintegrato, o rias­ sorbito nei modi della convivenza civile. Questo studio prese le mosse qualche tempo fa da un desiderio, in parte latente, di ancorare uno sforzo intel­ lettuale personale alla concreta realtà degli eventi storici. Sono grato alle molte persone che mi hanno aiutato a tenere i piedi per terra, insegnandomi la differenza fra scrivere storia e studiarla, fra ciò che si può dire e ciò che si può solo pensare. In primo luogo, e soprattutto, ringrazio Lavina Leed, che ha lottato con questo mano­ scritto, lo ha curato, criticato, e spesso a spese del pro­ prio lavoro: il manoscritto ha acquistato chiarezza nei punti dove maggiormente ne aveva bisogno proprio gra7

Prefazione

zie alla sua intelligenza critica e alla sua capacità organiz­ zativa. Sidney Monas, della University of Texas, ha enormemente contribuito fin dall’inizio con la sua atten­ zione, la sua sensibilità per tutto ciò che ha a che fare con la complessità delle motivazioni umane. Ho anche il piacete di ringraziare Hayden White, della Wesleyan University, per il suo appoggio e la sua generosità intellet­ tu ale. I m iei collegh i presso lo H isto ry D ep artm en t d ella Florida International University hanno garantito il loro indefesso sostegno a questo progetto. Ho ampiamente beneficiato dell’esaustiva conoscenza in storia tedesca di Brian Peterson, e delle critiche di Howard Kaminsky su certi punti del lav o ro . T u tto q u an to di b u o n o p o ssa es­ serci in questo libro trae origine da conversazioni con Roger Abrahams, della University of Texas, e con Phin Capron, che mi hanno messo a conoscenza di ima messe di materiale di cui ignoravo l’esistenza. Sono molto grato ad entrambi.

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C apitolo prim o

La struttura dell’esperienza di guerra

Le discontinuità della guerra Sarebbe diffìcile trovare una guerra i cui partecipanti non abbiano sostenuto che la realtà del combattimento fosse responsabile di alterazioni riscontrate nei loro carat­ teri individuali. Ciò che sbalordisce riguardo alla prima guerra mondiale è la persistenza di questa constatazione, perfino nella disillusione generazionale e personale so­ pravvenuta. Nell’agosto del 1914 le aspettative di una ma­ turazione rapida e profonda indussero moltissimi giovani a presentarsi agli uffici di reclutamento. Di fatto, questa trasformazione del carattere fu citata in tante lettere dal fronte, come nel caso di un volontario tedesco che scri­ ve: «Nessuno uscirà da questa guerra senza essere diven­ tato una persona diversa» *; oppure, in un altro caso: «Sono convinto che, pur tornando a casa tutt’intero, chiunque sarà diverso sotto ogni aspetto»2. Alla fine del­ la guerra si svolsero innumerevoli dibattiti in merito al problema se i soldati fossero stati brutalizzati o nobilita­ ti, regrediti o maturati dall’esperienza di guerra; ma non ebbe luogo dibattito alcuno sul problema se si fosse veri­ ficata una profonda ed essenziale modificazione dell’iden­ tità personale. Questo cambiamento dell’identità nel corso dell’espe­ rienza di guerra — caratteristica dell’esperienza della prima guerra mondiale nelle sue varie fasi — è appunto l’oggetto del presente studio. Nei capitoli che seguono tenterò di definire i modi in cui l’esperienza del combat­ timento alterò lo status, la percezione di sé, le attitudini, l’immaginario dei partecipanti. In questo capitolo invece discuterò di alcuni problemi connessi al nostro soggetto in rapporto all’approccio di tipo storico scelto, ed esporrò 9

La struttura dell’esperienza di guerra

le ragioni che mi hanno indotto a scegliere certi criteri di analisi. La mia argomentazione seguirà un tema unico, precisamente ciò che definisco come struttura dell’espe­ rienza di guerra: una struttura che sottende a tutte le differenze di grado, nazionalità, carattere, che garantisce un’esperienza bellica analoga per tutti i combattenti, e che fissa, definendolo, il rapporto di questi ultimi con la loro società d ’origine. Nell'accostare il problema di fondo — di che natura fu il mutamento che i soldati sentirono dentro se stessi? __mi è parso evidente che si trattasse di un mutamento di identità, o personalità, da affrontare con gli stormenti della psicoanalisi. Ma in questo tentativo di esordio psicostorico sulla guerra mi sono imbattuto subito in ditticoltà concrete radicate sia nelle caratteristiche dell espe­ rienza di guerra in sé, sia nei limiti imposti da certi modelli del «cambiamento» soggettivo comunemente adottati. Ben pochi, o addirittura nessuno, fra i veterani considerarono la loro esperienza di guerra minimamente comparabile alla vita condotta prima e/o dopo la guerra stessa. La maggior parte di essi sostenne di avere abitato due mondi diversi, di avere vissuto dentro due persone completamente distinte: Stuart Cloete, un veterano ingle­ se, descrive in quali termini il combattente percepisse durante la guerra quella che era stata la sua vita civile: Difficile a crederlo? Impossibile! QueU’altra vita, così vicina nel tempo e nello spazio, era vissuta da uomini differenti. Due vite che non potevano avere tra loro nessuna relazione. Ecco ciò die sentivamo tutti, quasi senza eccezione3.

La personalità plasmata dalle vicissitudini belliche parve totalmente incommensurabile con l’individuo cre­ sciuto nella vita civile e dal quale ci si attendeva, una volta conclusa la guerra, riprendesse i propri status e occupazioni civili abituali. I problemi psichici causati dall’esperienza di guerra comportarono sovente una pro­ fonda dissociazione, una discontinuità vera e propria a livello individuale. Troviamo ovunque segnate «fra virgolette» l’espe10

La struttura dell’esperienza di guerra

rienza di guerra e l’identità da essa forgiata; David Jones percepì tanto intensamente la profonda distinzione fra la propria esperienza di guerra e quella di pace che intitolò le sue memorie di guerra In Parenthesis. Coloro che con­ tinuarono ad essere psichicamente disturbati dalla espe­ rienza di guerra personale, erano disturbati proprio dal­ l’ossessione di avere vissuto due vite distinte e dal fatto di sentirsi incapaci di risolvere le contraddizioni fra di esse. In particolare coloro che erano entrati in guerra prima dei vent’anni, e che avevano considerato la loro esperienza alla stregua di ima forma di educazione supe­ riore, si accorsero di avere appreso un mestiere che non poteva servire nella società civile. Essi avevano acquistato una sensibilità a pericoli che non esistevano in tempo di pace, come ebbe ad accorgersi sbigottito Robert Graves quando, nel 1919, non potè fare a meno di gettarsi den­ tro a un fosso spaventato dal rumore del tubo di scap­ pamento di un autocarro. Una delle più significative ri­ sposte a questo senso di estraneazione psicologica e socia­ le dalla vita civile è rappresentata dalla ritualizzazione e dalla memorizzazione dell’esperienza di guerra nell’ambi­ to delle associazioni di veterani, nelle loro riunioni pe­ riodiche per ricordare fra canti e libagioni i camerati ca­ duti e la peculiarità della loro comune identità. Quella di guerra altro non fu che un’esperienza di radicale discontinuità ad ogni livello della coscienza. Questa discontinuità fu la fonte dei più seri problemi psichici fra i combattenti, ed è la stessa che pose e pone serie difficoltà intellettuali a chiunque desideri compren­ dere gli effetti psichici della guerra adottando un modello analitico che invece presuma la continuità come caratte­ ristica essenziale dell’io e dell’identità. La continuità è sovente vista come condizione sine qua non dell’identità. Un’esperienza che incrini il massiccio «tessuto connetti­ vo» 4 che lega nell’io eventi distinti è più spesso vista come una perdita di identità. La concezione dell’identità modellata su di un processo di maturazione e di svilup­ po cognitivo spesso presume qualcosa che la guerra inve­ ce pone in discussione: la nozione che esistano un io 11

La struttura dell’esperienza di guerra

unico c indiviso e una sola sfera dell’esistenza individua­ le. Molti storici hanno trovato particolarmente utile, nel­ la stesura di approfondite biografie, teorie dello sviluppo dell’io come quella di Erik Erikson. È significativo che uno dei concetti-chiave di Erikson, precisamente quello d ’identità dell’io, fu proprio coniato in tempo di guer­ ra, osservando uomini provati dalla guerra. Erikson svi­ luppò questo concetto nel corso del trattamento di casi di «stress da combattimento» sul teatro operativo del Pacifico durante la seconda guerra mondiale. Sostanzial­ mente, l’identità dell’io è la descrizione di ciò che era venuto meno in questi uomini «fiaccati» dal combatti­ mento. Essi avevano la sensazione che le loro vite mancassero di unità e che non ne avrebbero più avuta. Si trattava di un distur­ bo centrale di quella che, da allora, cominciai a chiamare identità dell’io. A proposito della quale basti per ora dire che essa mette in grado di avere esperienza di se stessi come di un alcunché di dotato di continuità e di unità e della capacità di agire di conse­ guenza3.

In questo modo gli effetti della guerra sulla persona­ lità sono colti esclusivamente sotto l ’aspetto negativo del­ la disintegrazione di quella identità formatasi nel corso dei più cruciali e significativi rapporti con altri: genitori, amanti, figli. Erikson costruisce un modello dell’io in specifico rapporto con la guerra, vale a dire un modello die permetta di definire clinicamente ciò che gli uomini psichicamente feriti in guerra non sono più in grado di cogliere in se stessi — e precisamente proprio di essere «gli stessi». In ultima analisi dunque, qualsiasi trattazione dell’e­ sperienza di guerra deve tentare di individuare e definire le fonti di quella discontinuità intervenuta a sconvolgere il senso d’identità, generalmente considerato come base della vita psichica. In guerra gli uomini furono «estrania­ ti» dalle loro società, e in senso letterale: essi furono doè «resi» estranei rispetto alle persone e alle cose del 12

La struttura dell’esperienza di guerra

loro passato e anche rispetto a se stessi. Ecco le parole di Gorch Jachs, che cadde nell’offensiva del marzo 1918: Io, con i miei nervi d’acciaio, posso fissare immobile la morte negli occhi, posso stare ad udire senza venir meno camerati orrendamente feriti che gemono, e posso compiere azioni che non oso dire. Per tanti versi sono diventato un enigma nei confronti di me stesso; sovente mi faccio paura e sono terrorizzato da me stesso. E tuttavia, riesco ancora a sentire di possedere il cuore più buono e l ’anim o più nobile di questa terra*.

Un’analisi dell’esperienza di guerra deve confrontarsi direttamente con questo sentirsi «resi» estranei. Un esa­ me delle identità plasmate dalla guerra deve fare i conti con il fatto che queste identità furono plasmate al di là dei limiti della normale esperienza sociale: fu precisamente questa caratteristica di fondo che le rese tanto durature, tanto immuni all’erosione da parte delle con­ venzioni della vita economica e sociale post-bellica, e tan­ to difficili da aggredire con gli strumenti tradizionali del­ l’analisi sociologica e psicologica. I combattenti percepirono sempre più distintamente che i mutamenti osservati nel proprio io non avevano origine dall’esperienza di eventi bellici particolarmente terrificanti, bensì dal fatto di avere vissuto in due mondi assolutamente incommensurabili fra loro — quello di pa­ ce e quello di guerra. Il senso di diversità e di estranea­ zione che segnò i rapporti dei veterani con il loro mondo d ’origine derivò da una sorta di disgiunzione strutturale, ima frattura imprecisata fra forme distinte di esperienza sociale, qualcosa die instillò nel combattente una perce­ zione contraddittoria del proprio status e delle proprie capadtà. Così il problema di un «mutamento» del carat­ tere diventa necessariamente un problema di come la frattura fra esperienza di guerra ed esperienza civile fu definita, rappresentata, assimilata. Una delle difficoltà nel tentativo di definire cosa ac­ cadde agli uomini in guerra è data dal fatto che la mag­ gior parte dei modelli impiegati nello studio delle espe­ rienze di gruppo nasce dallo sforzo di comprendere iden­ tità acculturate e sviluppi sociali convenzionali. La parti13

La struttura dell’esperienza di guerra

colare coscienza di se e i limiti evanescenti generati da guerre, rivoluzioni, sommosse, carnevali, e feste di Capo­ danno, sono spesso invisibili storicamente: essi vengono forzatamente fatti rientrare nello stesso campo d’indagine riguardante lo sviluppo delle entità psichiche e sociali convenzionali. L analisi della guerra come esperienza so­ ciale e fenomeno umano non è mai stata considerata da­ gli storici come degna dell'«autonomia significante» da essi attribuita quasi per definizione solo ad eventi, per­ sone, e fatti che concorrano alla stabilizzazione o alla destabilizzazione di strutture sociali ben precise e defini­ te: generalmente si presume che la guerra abbia significa­ to solo in quanto contributo alla stabilità o instabilità di uomini e società che la fanno. Sarebbe sciocco sostenere che questa posizione non abbia un senso, e non sarò certamente io a farlo; voglio solo dire che insistendo tan­ to sui problemi della stabilità sociale, della struttura di classe e dei valori che assicurano la coesione sociale, inevi­ tabilmente influenziamo la nostra percezione di esperienze che invece hanno luogo al di là di istituzioni e strutture di classe stabili, normali. Alla fine queste esperienze diventa­ no riconoscibili e valutabili esclusivamente in termini di funzione della struttura sociale. Di fatto i due modelli abitualmente usati per definire il rapporto fra esperienza di guerra e normale vita sociale — il modello «scarica pulsionale» e il modello «continui­ tà culturale»7 — trovano entrambi origine nella convin­ zione e nell’assunzione del primato dell’ordinamento so­ ciale, per quanto definiscano in modo molto differente il rapporto fra guerra e normale vita sociale. Vale la pena soffermarsi un attimo su entrambi i modelli, poiché essi effettivamente informano la maggior parte delle nostre concezioni circa il rapporto fra guerra e pace e circa le nuove identità create dalla guerra; essi articolano un in­ sieme di ipotesi, profondamente radicate nella cultura eu­ ropea, riguardanti sia le aspettative sia le delusioni di coloro che combatterono nel corso della prima guerra mondiale; infine, la tesi che sviluppo in questo libro va precisamente contro questi due modelli. 14

La struttura dell’esperienza di guerra

Il modello «scarica pulsionale» è quello più comune­ mente impiegato nelle teorie psicoanalitiche della guer­ ra 8; esso è anche implicito nella concezione di Amo Mayer secondo cui una guerra o una rivoluzione liberano le tensioni accumulate nelle società in fase di modernizza­ zione9. Essenzialmente, questo modello ipotizza che le sfere di conflitto organizzato — guerra, rivoluzione, competizioni sportive violente ' — assolvano il molo di scaricare spinte pulsionali la cui espressione deve restare inibita nella vita sociale normale. La guerra, in un’imma­ gine che sembra figlia di una macchina a vapore, provve­ de una «valvola di sicurezza» per lo sfogo di aggressività, pulsioni, bisogni, che non possono rientrare nel normale meccanismo sociale; implicitamente, la distinzione fra pa­ ce e guerra è una distinzione fra necessità e libertà, re­ pressione e trasgressione, fra il blocco della forza vitale allignante fra individui e classi e l’«espressione» di quella stessa forza in atti normalmente tabù. Da qui ad una teoria «funzionale» del rapporto fra pace e guerra, il pas­ so è molto breve: se la guerra permette uno sfogo per un’aggressività repressa che non può essere scaricata sen­ za mettere a repentaglio la stabilità dell’intero assetto sociale, allora la guerra si presenta come un deplorevole ma necessario modo di conservazione di quella stessa stabilità sociale. A ll’interno di questo schema la guerra diventa un mondo di libertà istintuale in palese contrasto con il mondo sociale, contrassegnato dalla rinuncia e dallo spo­ stamento della gratificazione pulsionale. Ne segue che le personalità modellate in questo ambito trasgressivo deb­ bano necessariamente soffrire se costrette, con il metro del cosiddetto comportamento civile, ad accettare la frustrazione della propria istintualità. I combattenti sono stati «primitivizzati», sono regrediti, ovvero non hanno mai ricevuto l’opportunità adeguata per diventare esseri civili, per maturare: sia come sia, i combattenti sono manifestamente impreparati a quella rinuncia istintuale che è la caratteristica di ogni adulto civile. Il modello «scarica pulsionale» è qualcosa di più di 15

La struttura dell’esperienza di guerra

una spiega2Ìone della guerra e di ciò che la guerra com­ porta (o non comporta) per gli uomini: esso racchiude una caratteristica culturale profondamente radicata e in­ trinseca al senso di liberazione che tanti provarono in quell’agosto 1914. Infatti, uno dei problemi che mag­ giormente ricorrono nelle trattazioni dell’esperienza della prima guerra mondiale sta nella comprensione dell’inten­ so e in d iscu tib ilm en te spontaneo entusiasmo per la guer­ ra. È chiaro che la guerra mobilitò una visione romanti­ ca, tradizionalista, e irrazionale, di ciò che la guerra po­ tesse essere e significare. Nel secondo capitolo ho preso in esame le radici di questa immagine tradizionalista per capire come e quanto fosse riflessa nelle aspettative dei singoli individui; nel 1914, coloro che si avviarono alla guerra attinsero ad un immaginario collettivo che fissò il significato e permise la comprensione di un evento non ancora vissuto, e che fornì la giustificazione della cele­ brazione della guerra come «liberazione» dalle costrizioni e dalle limitazioni della vita civile. Le conferme e le vio­ lazioni in merito a questo copione prefissato furono alla base rispettivamente deU’«illuminazione» e della disillu­ sione dei combattenti. Nel modello «scarica pulsionale» rientrano pure le convinzioni di coloro che, alla fine della guerra, paventa­ rono il ritorno dei veterani come individui resi criminali, rivoluzionari, o comunque imbarbariti dalla propria espe­ rienza. Essendo vissuto tanto a lungo in un clima di co­ siddetta libertà istintuale, il soldato di linea avrebbe po­ tuto dimostrarsi incapace di riacquisire le abitudini e le regole della convivenza civile. Questo timore era espresso da molti degli stessi combattenti. Ludwig Lewinsohn, presidente del Consiglio dei Soldati della 4a armata du­ rante la ritirata del novembre 1918, era convinto che il ritorno in patria di una tribù di primitivi potesse solo aggravare i problemi della ricostruzione: egli temeva che la guerra avesse sfornato un tipo umano assolutamente incapace di adattarsi al lavoro produttivo e, nel migliore dei casi, un individuo «spoliticizzato». 16

La struttura d ell esperienza di guerra

Dopo quattro anni e mezzo di separazione dalla madrepatria, la maggior parte dei soldati era incapace di comprensione politica, nutrendo un unico desiderio: pace e lavoro. A fianco di questa stava poi la massa imbarbarita, formata da uomini ormai inetti a qualsiasi tipo di lavoro: in particolare i soldati più giovani, passa­ ti in prima linea direttamente dai banchi di scuola, o dai primis­ simi anni di apprendistato, e quindi impermeabili ad una sana concezione del lavoro, erano rovinati dai lunghi periodi di stolida inattività passata in divisa. Immagini fantastiche di un comuniSmo distorto ossessionavano le loro m enti10.

È chiaramente impossibile ignorare il modello «scari­ ca pulsionale», poiché prende le mosse da qualcosa di strettamente connesso alle aspettative in base alle quali milioni di uomini entrarono in guerra. L ’idea che la guerra rappresentasse l’occasione per una liberazione istintuale potrebbe benissimo essere accettata come una «causa» della guerra o dell’entusiasmo per la guerra: tan­ ti diedero il benvenuto al conflitto perché era comune­ mente diffusa la convinzione che esso permettesse l’e­ spressione di scariche altrimenti inibite e proibite nella vita sociale normale. Ora, il vero problema è perché gli europei vedessero la guerra sotto questa luce e, inoltre, come essi specificarono questa convinzione in termini di aspettative concrete. Del pari, con la fine della guerra, l’idea che il campo di battaglia fosse il luogo dell’insu­ bordinazione libidinale rappresentò la caratteristica fon­ damentale dei problemi che accompagnarono la figura del reduce combattente. La principale incongnienza di questo modello sta nel­ la sua irrealistica rappresentazione della guerra. Esso po­ stula la guerra esclusivamente come espressione di istinti aggressivi, e non è precisamente questa la guerra vissuta dall’uomo . . . infinitamente misero, saltellante — povero coniglio spaurito dall’esplosione delle granate, coi nervi a pezzi, attonito; l’uomo che striscia nel fango, con gli occhi sbarrati, sussurrando, «Oh, Dio!» 11. Piuttosto la guerra significò un nuovo e totale sistema repressione a cui milioni di uomini, per lunghi anni, fu17

ha struttura dell’esperienza di guerra

rono abituati. Ai regolamenti e alla disciplina tipici del­ l ’istituzione militare si aggiunsero le inedite e insormon­ tabili restrizioni del movimento imposte dalle realtà tec­ nologiche, realtà che fecero della guerra un conflitto es­ senzialmente difensivo. Il modello «scarica pulsionale» definisce la guerra alla stregua di un’attività aggressiva, offensiva, e in base a questo si possono spiegare, in ter­ mini di introiezione di «colpa», i numerosi collassi ner­ vosi sofferti nella guerra moderna da uomini che uccido­ no, violando così le regole che governano la concezione di se stessi in tempo di pace u. Ma con questo si ignora il fatto che durante la prima guerra mondiale almeno metà del pensiero tattico, e ben più della metà dell’atti­ vità militare effettiva, furono impegnati nel tentativo di frustrare l’aggressione del nemico: nel corso della prima guerra mondiale la difesa dominò incontrastata. La realtà della guerra costrinse a imbrigliare la spinta aggressiva, a ritualizzare la violenza, e a frustrare l’impulso ostile. L ’attuale guerra di trincea è, come la sentii definire un gior­ no, «così maledettamente impersonale» che l’individuo ben rara­ mente ha il privilegio di dare uno sfogo fisico alla sua rabbia . . . Non si possono odiare — almeno non odiare con soddisfazione — nemici che non si vedono, cannoni che bombardano da miglia e miglia di distanza13.

Secondo William M axwell14 fu la frustrazione del­ l’aggressività in guerra, dovuta alla scom parsa del nemico dalla visuale del soldato e alle necessità del trinceramen­ to, che spinse il combattente a rivolgere la sua ostilità su obiettivi «impropri»: gli ufficiali, lo stato maggiore, la «patria». Questa situazione, e non la fin troppo rara sca­ rica d’aggressività sul nemico, fu sovente responsabile di un profondo senso di colpa nel combattente: in guerra gli uomini si trovarono di fronte a istanze repressive a cui non erano stati preparati né dalla loro precedente esperienza sociale nella comunità civile, né dall’immagine della guerra che si erano fatti. È dunque nelle descrizioni delle nuove difese psichiche imposte dalla guerra e nella constatazione delle immobilizzanti, frustranti realtà del 18

La struttura dell’esperienza di guerra

combattimento, che si può scorgere la nascita di un nuovo «carattere» così come di un nuovo universo sociale. In alternativa all’idea della guerra come scarica di istinti aggressivi abbiamo il modello di «continuità cultu­ rale». Anche questo modello definisce l’esperienza di guerra come un’esperienza di aggressività; ma si tratta di una definizione molto più idonea a comprendere le diver­ sità culturali e la varietà di esperienze emotive riscontra­ bili in guerra. Il modello di continuità culturale sottoli­ nea qualcosa die dovrebbe essere evidente di per sé: e cioè che la repressione dell’aggressività acquisita nel pro­ cesso di socializzazione non è costituita da regole e inibi­ zioni puramente esteriori che possano essere smesse con gli abiti civili. Posto che la rimozione dell’aggressività sia un fatto realmente acquisito, diventa elemento costitutivo della personalità del dttadino-soldato; così, nel modello di continuità culturale l’aggressività individuale in guerra non è che una funzione dei valori e delle regole che governano l’aggressività nella vita civile. L ’individuo che va alla guerra — ammesso che sia un membro «normale» della società — paventa la propria aggressività tanto quella del nemico, per quanto possa allentare i freni delle inibizioni culturali che porta dentro di sé. Questo quadro delle caratteristiche morali e psichiche del cittadino-soldato divenne dottrina dell’esercito ameri­ cano dopo la seconda guerra mondiale grazie soprattutto al lavoro di S.L.A. Marshall, il quale intervistò migliaia di reduci dai teatri di guerra del Pacifico e d ’Europa. Marshall scoprì che anche i più duri e stagionati veterani delle formazioni d ’assalto — perfino nelle situazioni più critiche — ben di rado avevano sparato direttamente contro il nemico. Soltanto un quarto dei soldati di prima linea aveva effettivamente impiegato le armi individuali in combattimento. L ’esercito non può riplasmare l ’uomo occidentale . . . Bisogna rendersi ^conto del fatto che egli proviene da una civiltà in cui l ’aggressività, rivolta alla soppressione della vita, è respinta e proibita. L ’educazione e gli ideali impartiti da questa civiltà van­ no direttamente contro l ’omicidio, contro l’abuso. Il timore del-

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La struttura dell’esperienza di guerra

l’aggressività è stato così potentemente inculcato, così profonda­ mente e completamente assorbito — si può dire insieme al latte materno — che è parte costitutiva del corredo psichico ed emoti­ vo dell’uomo normale. E questo è il suo maggiore handicap quan­ do entra in combattimento: questo gli blocca il dito sul grilletto, magari nel momento meno opportuno 15.

L ’analisi di Marshall circa le motivazioni e il compor­ tamento dei combattenti della seconda guerra mondiale è valida pure per coloro che combatterono la prima guerra mondiale. È ben noto che gli attacchi nemici non veniva­ no spezzati da compagnie intere e neanche da squadre di soldati, bensì dai pochi sopravvissuti al fuoco di sbarra­ mento che riuscivano a sparare sugli attaccanti. La lette­ ratura di guerra contiene molti esempi di ufficiali rilut­ tanti a bersagliare un nemico inavvertitamente espostosi, preferendo comandare l ’incarico ad uno della truppa16. È semplicemente incontestabile che coloro che com­ batterono da entrambe le parti della Terra di nessuno altro non fossero, almeno inizialmente, che i prodotti del­ le loro rispettive culture; e che in trincea i valori cultu­ rali che normalmente inibiscono l’aggressività furono messi alla prova con una severità raramente riscontrabile in tempo di pace. Il modello di continuità culturale rap­ presenta un correttivo all’opposizione eccessivamente ra­ dicale fra guerra e pace asserita da coloro che vedono la guerra come momento di scarica dell’aggressività repres­ sa. Tuttavia, per definizione, il modello suddetto pone l’accento sulla continuità morale e culturale che sottende sia l’esperienza di pace sia l’esperienza di guerra: non è in grado di spiegare qualcosa che pure era molto eviden­ te ai veterani della prima guerra mondiale, precisamente che l’esperienza di guerra fosse radicalmente «differente» dalla vita sociale normale, e che di conseguenza anch’essi fossero diventati radicalmente «diversi». La teoria che considera alla base delle inibizioni del­ l’aggressività in guerra le normali forme sociali di repres­ sione istintuale, preserva all’esperienza di guerra una matrice sociale, salvo poi non essere in grado di spiegare le discontinuità che si manifestano ai combattenti. Le i20

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nibizioni culturali della violenza possono forse spiegare le azioni di quel settantacinque per cento dei soldati desti­ nato ad essere passivo in combattimento, ma non certo il comportamento del restante venticinque per cento su cui poggiavano i destini della battaglia. Questi ultimi po­ trebbero essere considerati solo alla stregua di individui dall’armatura psichica malriuscita, uomini insensibili alle convenzioni della civiltà. Eppure, sono proprio questi soldati che rappresentano la difficoltà maggiore per colo­ ro che si sforzano di vedere la vita di individui e gruppi come attuazione di norme sociali basate sull’ordine e sul­ l’inibizione istintuale: molti veterani della prima guerra mondiale riconobbero di essere attratti dal rischio, dallo spettacolo della distruzione, e dall’assoluto disordine che accompagnava la guerra. Per alcuni veterani tedeschi la guerra divenne fonte di un nichilismo grossolano, di ben scarso valore filosofico. Noi siamo soldati e il fucile è lo strumento che ci contraddi­ stingue. Uccidere è il nostro mestiere, ed è nostro vanto e dovere svolgere questo lavoro bene e accuratamente, a regola d ’arte . . . D i fatto ogni epoca si esprime non solo nella vita costruttiva, nell’amore, nella scienza e nelle arti, ma anche nell’orrore. Compi­ to del soldato deve essere la cura dell’orrore 17.

È fin troppa la tentazione di cogliere in questa cita­ zione da Ernst Jiinger — autore dei contributi più signi­ ficativi nell’ambito della letteratura di guerra tedesca — la prova di qualcos’altro: l’affermazione cioè di un’ag­ gressività liberata, il segno di una struttura psichica difet­ tosa, malriuscita. Ma furono molti gli uomini che, come Jiinger, sortirono dalla Grande Guerra celebrandone l’«orrore»; la loro identificazione con la violenza e il disordi­ ne deve essere vista come modalità culturale in senso stretto, come qualcosa radicato in una particolare struttu­ ra che si articola in convenzioni, regole, codici ben defi­ niti. Così come Roger Abrahams acutamente sottolinea nel suo studio sui rituali sociali, non tutti i rituali hanno per oggetto l ’attuazione delle regole e dell’ordinamento sociale convenzionali. Infatti questa attuazione è 21

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affiancata in ogni tipo di società da espressioni di disordine — che devono essere pienamente comprese tanto quanto quelle d ’or­ dine nella formazione dell 'ethos del gruppo sociale. Il rituale, da questo punto di vista, può benissimo comprendere la raffigurazio­ ne e la celebrazione sia dell’ordine sociale sia delle potenze del disordine residenti al centro della vita del gruppo stesso. Assegna­ re il primato a uno dei due motivi è fuorviarne, e in ultima analisi negativo per chi voglia pervenire ad una piena compren­ sione antropologica della vita reale18.

Sia il modello di scarica pulsionale sia quello di con­ tinuità culturale scontano le conseguenze del postulato secondo cui per operare con successo in una situazione di disordine, gli uomini debbono lasciarsi alle spalle la loro cultura, ovvero che la loro cultura — sotto forma di inibizioni e limitazioni — allenti la presa sul comporta­ mento e non riesca più a definire l’identità sociale del­ l ’attore. Ma gli uomini non cessano di attribuire signifi­ cato, di dare un senso a ciò che li circonda, anche dopo avere abbandonato i recinti della vita civile. Nell’agone della guerra sono proiettate le immagini di ciò che sta oltre, sopra, e sotto la norma; nella letteratura di guerra sono chiaramente distinguibili quei modelli che permet­ tono di classificare e comprendere il disordine circostan­ te, modelli che consentono al combattente di determinare esattamente ciò che è anomalo, inconsueto, strano, biz­ zarro, nell’universo di uomini e cose che si trova dinanzi. L ’esperienza di una guerra molto particolare come la prima guerra mondiale incrementa, incentiva, attualizza l’impatto emotivo rispetto a figure, azioni, situazioni che la società bolla come inaccettabili alternative allo status quo, come «cose che non possono essere fatte» o che «non devono ripetersi», per quanto vi si debba essere preparati. Comprendere perché gli uomini si precipitarono in guerra nel 1914, e come essi furono segnati dagli eventi della guerra, non può che essere utile al chiarimento del­ le alternative disponibili per gli uomini che vivono nella società industrializzata contemporanea. Se vogliamo vede­ re nella guerra il sintomo di qualcosa d ’altro — tensioni di classe, rottura di equilibri sociopolitici, o istintualità 22

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represse — dovremo in primo luogo rispondere alla se­ guente domanda: perché e in che modo la guerra viene essenzialmente vista come un’alternativa alla normale vita sociale? La liminarità della guerra A dispetto della manifesta stupidità della prima guer­ ra mondiale, della sua ihterminabilità, e del mostruoso numero di perdite umane, molti veterani insistettero a considerare la loro esperienza alla stregua di un’iniziazio­ ne. Charles Edmund Carrington scrive di se stesso e della propria generazione: «Rimaniamo una generazione di ini­ ziati, in possesso di un segreto che non può essere co­ municato» 19. In quanto esperienza d ’iniziazione, la guerra produsse uomini che avrebbero condiviso una nuova, co­ mune identità. Cinquantanni dopo la fine della guerra Carrington poteva scrivere: Uomini di mezza età, per quanto strenuamente possano sfor­ zarsi di negarlo, sono uniti da un vincolo segreto che li separa dai loro amici troppo anziani o troppo giovani per aver potuto com­ battere nella Grande Guerra. Particolarmente la generazione dei giovani che scesero in trincea prima che il loro carattere fosse ben formato, coloro che avevano meno di venticinque anni nel 1914, è consapevole di quella distinzione, poiché la guerra la plasmò così come è. In generale, questo esercito segreto presenta al mondo un fronte di silenzio e di amarezza che si usa definire disincanto20.

Carrington coglie la diversità e la coesione della sua generazione originate da un’esperienza che ad altro non è paragonabile se non ad u n ’iniziazione, a un rito d i p as­ saggio. A prima vista il termine «rituale di passaggio» potrebbe sembrare inappropriato per descrivere ciò che accade agli uomini nella guerra moderna; di fatto sarebbe necessario fare certi distinguo prima di potere adottare il rituale come categoria utile alla comprensione della guer­ ra d ’oggi. Comunque la comparazione fra l ’esperienza di guerra e il rituale di passaggio ci permette due cose: in primo luogo, di accantonare un attimo la nozione che la 23

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guerra sia esclusivamente aggressione e violenza, e in se­ condo luogo ci consente di vedere la natura convenziona­ le delle discon tin uità fra la v ita in tem po d i pace e la vita in tempo di guerra. Molti veterani della prima guerra mondiale vollero vedere nella loro vicenda una catena di esperienze as­ solutamente peculiari alle contingenze che avevano appe­ na vissuto. Tuttavia, nell’interessarci alle trasformazioni degli uomini in guerra ci imbattiamo in un tema assolu­ tamente tradizionale vecchio almeno tanto quanto la let­ teratura scritta. Q u an d o gli u o m in i ab b an d o n an o la v ita civile per prendere le armi contro altri uomini, essi evo­ cano tradizionalmente un mondo di simboli per rappre­ sentare la loro mutata condizione: gli uomini paiono trascendere le categorie puramente sociali, oppure spro­ fondare al di sotto di esse; essi si mescolano con figure sacre o animali, assumono sembianze divine o zoomorfe, indossando sovente teste di animali feroci, pelli di lupo, d'orso, e così via. In combattimento, il mutamento del loro essere è stato sempre tradizionalmente rappresentato alla stregua di un’alterazione febbrile, di un’ebbrezza e di una violenza di sapore orgiastico21: dopo il suo rientro in società, l ’uomo che ha ucciso in combattimento è so­ vente considerato pericoloso, contaminato, diverso, alme­ no fino a quando non si sottoponga a un processo rituale di purificazione22. Nella letteratura indo-europea il carattere del guerrie­ ro è anomalo, e questa anomalia è radicata nella natura stessa della sua funzione23. Allo scopo di difendere la sicurezza e la stabilità del gruppo, o di aumentarne la ricchezza, il guerriero deve essere in grado di violare re­ gole e norme dello stesso genere di quelle che stanno alla base della stabilità del gruppo: il maggior pericolo per una qualsiasi società sta proprio nella possibilità che il guerriero possa indirizzare contro «amici» e parenti le attività che da lui propriamente ci si attende solo contro nemici e stranieri. Questo pericolo, così come il carattere anomalo della battaglia, riceve un correttivo nella defini­ zione rituale del guerriero come uomo che venga momen24

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taneamente separato dalle sue radici sociali, e tuffato in­ sieme con il nemico, con lo straniero, in una sorta di intervallo, di vuoto della morale convenzionale. Al mo­ mento di rientrare nella quotidianità della vita sociale egli deve essere riadottato, proprio come viene adottato uno straniero in una famiglia o in un clan tribale. L ’uomo che va in guerra deve sottostare a rituali di passaggio, quei riti che per primo descrisse Arnold Van Gennep. Van Gennep divide i riti di passaggio in tre fasi: i riti di separazione (o riti preliminari) che trasfe­ riscono un individuo — o un gruppo di individui — dal suo, o dal loro, luogo di vita abituale; i riti di margine (o riti liminari) che simbolicamente fissano l’identità del «passeggero» come dimorante fra due stati, luoghi, con­ dizioni; e infine i riti di aggregazione (o riti post-liminari) con i quali l ’individuo è riaccolto nel gruppo di origi­ ne. I riti di separazione assegnano un’identità peculiare a un gruppo. I riti di separazione comprendono qui la dichiarazione di guerra, avvenga essa fra tribù o tra famiglie . . . La fazione incari­ cata dell’operazione si separa prima di tutto dalla società generale per acquisire una sua propria individualità e non vi rientra di nuovo se non dopo avere eseguito i riti che ne rimuovono la individualità temporanea e la reintegrino nella società generale . .. La cessazione della vendetta, proprio come quella della guerra (riti di pace) si conclude con riti identici a quelli dell’affratella­ mento, dell’adozione di gruppi prima estranei24.

L ’identità che connota C arrington e la sua generazio­ ne può essere vista come una funzione del passaggio dal­ la sicurezza della vita sociale alla guerra, e come defini­ zione di un tipo di vita condotto su di un limite: il più vivo ricordo della guerra, per Carrington e per molti al. tri, è proprio l’immagine del bordo, del confine, di ciò iche «sta fra» — l’immagine, cioè, della Terra di nesjsuno. In dnquant’anni non sono mai stato capace di liberarmi del­ l ’ossessione della Terra di nessuno e del mondo ignoto al di là di essa. Al di qua del reticolato ogni cosa è familiare, ogni uomo è

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un amico; al di là, oltre il reticolato c’è solo l’ignoto, il pertur­ bante 25.

Un numero incredibile di coloro che scrissero della propria esperienza di guerra designa la Terra di nessuno come l’immagine più incombente e ossessionante. Il ter­ mine «Terra di nessuno» riesce a catturare l ’essenza del­ l’esperienza di essere stati inviati oltre i limiti della vita sociale, posti fra il noto e l’ignoto, fra il familiare e il perturbante. L ’esperienza di guerra fu un’esperienza di margine, e il «mutamento d ’identità» vissuto dal com­ battente potrebbe essere adeguatamente definito proprio come marginalizzazione. I riti di passaggio, e in particolare le prime due fasi del passaggio — separazione e transizione (o «liminarità», dal latino lime», soglia) — forniscono una griglia per l’analisi dell’esperienza di guerra e in particolare di quei mutamenti che furono sia di carattere soggettivo sia di status sociale. Rimane comunque da vedere esattamen­ te cosa significhino «separazione» e «liminarità», e come questi concetti possano permetterci di far luce sulle di­ scontinuità che stanno al centro dell’esperienza di guerra. I riti di separazione funzionano, secondo Van Gennep, sia per segnare coloro che abbandonano il loro pre­ cedente stato, la loro condizione di normalità, sia per rendere meno brusco questo distacco dal noto, dal fami­ liare. Victor Tumer, che in modo molto brillante estende le implicazioni dell’opera di Van Gennep, rileva come i riti di separazione e i loro simboli peculiari possano esse­ re attuati per rappresentare il movimento di ima società intera da una condizione o stato precedenti. I riti stagio­ nali, ad esempio, segnano il momento di transizione da uno stato ormai abituale a una condizione «nuova». Per i membri di una società questi riti implicano la transizio­ ne collettiva da tutto d ò che è socialmente e culturalmente legato ad una stagione agricola, oppure da un periodo di pace ad uno di guerra, da una pestilenza al suo allontanamento, da un precedente stato sodo-culturale ad una nuova condizione26.

I momenti di transizione collettiva, come la mobilita­ 26

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zione di una nazione per la guerra, aprono nel tempo storico una lacuna nella quale l’immaginario collettivo coglie «potenziali novità». Nella mobilitazione per la guerra del 1914 si possono scorgere due processi di sepa­ razione distinti eppure chiaramente correlati; il primo al­ lontana la società nel suo complesso dalle abituali condi­ zioni di vita sociale; il secondo allontana il cittadino-sol­ dato dal suo normale stato civile. Nel secondo capitolo, relativo alle aspettative di guerra, ho tentato di precisare i modi con cui i contemporanei definirono questa rottura. In generale, e in particolare in Germania, molti insistet­ tero convinti che la dichiarazione di guerra avesse attua­ lizzato valori, se non proprio sacri, almeno venerabili: i valori della «comunità» opposti a quelli della «società», dell’unità nazionale opposti al conflitto di classe, dello altruismo opposti all’egoismo del puro interesse economi­ co. Molti insistettero convinti che la guerra significasse una trasformazione strutturale della società, l’abbandono di un vecchio ordine e la realizzazione di uno nuovo. Gertrude Bàumer, donna molto attiva nel movimento femminista tedesco nel 1914, scrisse che il primo anno di guerra aveva gettato la nazione . . . sotto la giurisdizione di un ordine altro da quello tecnico-ma­ terialistico del diciannovesimo secolo. Le coordinate di questo nuovo ordine non sarebbero state la produzione, il denaro, i profitti e le perdite, i costi e i guadagni, bensì la vita e la morte, il sangue e la potenza27.

Un secondo, più familiare, processo cerimoniale sepa­ ra quelli che vanno in guerra da chi rimane a casa. Inizia con il classico «due passi avanti» e procede con la vesti­ zione dell’uniforme, l’addestramento, la sottomissione alla disciplina, le «strigliate» da parte dei sergenti, e, infine, l ’effettiva partenza per il teatro di guerra. La sensazione di vivere una sconvolgente «rivoluzione morale» mutò l ’attitudine di moltissimi giovani nei confronti dell’eserci­ to: ciò che un tempo appariva come massima subordina­ zione e perdita d’identità personale, con la ristrutturazio­ ne collettiva della vita sociale diventò una liberazione e 27

La struttura dell’esperienza di guerra

addirittura un veicolo di auto-realizzazione. Cari Zuckm ayer, scrittore e commediografo tedesco che ha scritto uno fra i più acuti e onesti libri di memorie dell’esperienza di guerra, fu vivamente colpito dal modo in cui «la rivolu­ zione dell’agosto 1914» riuscì a cambiare la sua attitudi­ ne personale nei confronti del servizio militare. Diventare soldato, dover servire per un anno, era un’idea che mi aveva sempre terrorizzato per tutti gli anni del ginnasio. Il servizio militare mi appariva come sinonimo di ordini bruschi, disagi, obbedienza e subordinazione, in breve, di perdita della libertà personale. Ora invece mi appariva sotto luce opposta: come una liberazione. Liberazione dalla ristrettezza mentale e dal­ la mollezza borghesi, dall’istruzione forzata e nozionistica, dall ’ambagia connessa alla scelta di una professione, e soprattutto da ciò che noi tutti — consciamente o meno — percepivamo come saturazione, aria pesante, fossilizzazione del nostro mondo28.

Tanti, come Zuckmayer, pensarono che la guerra li avrebbe liberati dalle costrizioni della vita borghese, aprendo un arco di attività normalmente considerate in antitesi ai valori della vita economica e dello status socia­ le di pace. Il polo bellico avrebbe schiuso le porte a molti dei valori che la società capitalistica aveva relegato in un museo: nell’entrare in guerra Zuckmayer sentì di procedere verso questo «nuovo» sistema di comportamenti. Eppure, ad un esame ravvicinato, questo «nuovo» ordine appare come una sintesi di valori tradizionali. Sovente l’esperienza di guerra è vista come collasso delle aspettative iniziali, aspettative trasformate ben pre­ sto in delusioni. Ma certe aspettative non vennero mai meno: particolarmente l ’aspettativa secondo cui la guerra potesse modellare una profonda trasformazione personale e collettiva, continuò a caratterizzare il rapporto fra il combattente e le realtà concrete della guerra. Questa trasformazione fu oggettivata in fenomeni che — come il fuoco di sbarramento, il sistema di trincee, le necessità della guerra difensiva — non erano stati previsti dalla stragrande maggioranza di coloro che si presentarono vo­ lontari nel 1914. Il secondo stadio del passaggio iniziatico, quello della 28

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liminarità, definisce una situazione formale strettamente analoga a quella del soldato in guerra. I simboli che tra­ dizionalmente definiscono la condizione ambigua dell’in­ dividuo in fase di passaggio come persona che «sta fra» classificazioni e categorie culturali, appaiono con frequen­ za sbalorditiva in tutta la letteratura memorialistica di guerra. Un giovane che affronti l’iniziazione non è più quello che era, ma neppure quello che deve diventare: egli è «strutturalmente, se non fisicamente, “ invisibi­ le” » 29; di lui si parla come di un «morto» rispetto alle cose del suo passato, e può essere trattato proprio come la sua società abitualmente tratta un cadavere — può essere coperto di terra, oppure costretto a giacere immo­ bile in una fossa. L ’iniziando è identificato con la terra, con la decomposizione, la contaminazione. Ai neofiti viene spesso applicata la metafora del disfacimen­ to; possono andare sporchi e identificati con la terra, l ’elemento al quale ciascuno sarà restituito. La forma particolare qui diviene materia generale; spesso ad essi viene tolto anche il nome30.

I simboli di invisibilità, morte, sepoltura e contami­ nazione sono utilizzati particolarmente nella descrizione di individui in fase di transizione fra due categorie sociali — per esempio, dall’infanzia all’età adulta — o fra di­ verse aree di insediamento. In guerra questi non sono più simboli ma diventano esperienze ben più problemati­ che di qualsiasi «orrore» o privazione cerimoniali. Mary Douglas nel suo studio sul concetto di conta­ minazione nelle società primitive sottolinea che «sporco» è attributo di qualcosa fuori posto, e che «contaminazio­ ne» è il risultato di un qualsiasi contatto fra sostanze, luoghi, o categorie, che normalmente sono tenuti separati e distinti da regole e tabù. In breve, il comportamento che noi teniamo riguardo alla contaminazione consiste nella reazione che condanna ogni oggetto o idea che può confondere o contraddire le classificazioni a cui siamo legati31.

Le scarpe in se stesse non sono sporche, ma sulla 29

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tavola da pranzo sì; la terra del giardino non è «sporca», ma sulle lenzuola di un letto è generalmente considerata tale. Per la m aggior parte dei combattenti una delle ca­ ratteristiche più inedite dell’universo bellico fu la costan­ te trasgressione delle regole e delle distinzioni che pre­ servano l’ordine e la pulizia. Nelle trincee gli uomini vi­ vevano insieme a topi che ingrassavano nutrendosi di ca­ daveri umani e carogne animali; il tanfo della decomposi­ zione pervadeva il fronte intero, penetrando anche negli acquartieramenti più profondi e isolati. La letteratura di guerra trabocca d i incontri con cadaveri, d i lagnanze per

l ’impossibilità di mantenere puliti gli spazi personali, im­ pedendo allo sporco, al fango, ai parassiti, di invaderli; la contaminazione e il senso di non potere impedire che il proprio corpo fosse continuamente esposto a sostanze, animali, e al contatto con altri uomini furono causa prin­ cipale del «modo d’essere» tipico dei veterani della trin­ cea. «Si dice che i soldati soggetti per molto tempo a questa routine acquistino un’inconfondibile espressione, un misto di sarcasmo, disgusto e rassegnazione»32. Uno dei più eclatanti esempi della capacità contami­ nante della guerra, l’alterazione da parte di essa delle norme fondamentali, d è offerto da W .H.R. Rivers, imo psicologo e neurologo che fu direttore durante la guerra dello Craiglockart Hospital specializzato in casi di shock da esplosione. Uno dei suoi pazienti era stato violente­ mente sbalzato dall’esplosione di una granata cosicché, cadendo, si ritrovò con il volto immerso nelle interiora di un soldato tedesco morto da parecchi giorni. Il giovane ufficiale riconobbe, prima di svenire, «che la sostanza che gli riempiva la bocca producendo la più rivoltante sensa­ zione di disgusto era costituita dalle budella in decompo­ sizione di un nem ico»°. Sarebbe diffidle trovare ima più completa violazione di ciò che distingue la vita dalla morte, l ’amico dal nemico, il putrescente dal commestibi­ le, di questa esperienza che lasciò un indelebile marchio di contaminazione nel giovane ufficiale — tanto che Ri­ vers lo considerò pressoché incurabile. Ma la trasgressio­ ne di quei limiti fra la vita e la morte, l’umano e l’ani­ 30

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male, o l’uomo e la macchina, era così comune in guerra da divenire fonte tanto di ironia e humour noir quanto di orrore e disgusti^/ Al pari della contaminazione, l’invisibilità non era un simbolo in guerra, quanto piuttosto una realtà che molti consideravano insopportabile. Le caratteristiche della guerra di trincea imposero al soldato di cercare rifugio nella e sotto la terra, e questo trincerarsi significò la fine della guerra tradizionale. Robert Michaels, un capitano di cavalleria austriaco, scrisse a suo figlio che né la guerra né il combattente erano così come venivano raffigurati. Il combattimento moderno si svolge quasi interamente nell’invisibilità; i nuovi metodi bellici richiedono al soldato che egli s i . . . sottragga alla vista del nemico. Egli non può battersi espo­ sto sulla superficie della terra, bensì deve strisciare fra e sotto di essa; in mare egli combatte con maggior sicurezza se nascosto dalla superficie dell’acqua, e in cielo quando vola così alto da non costituire più un bersaglio utile34.

L ’invisibilità del nemico e il riparo delle truppe sot­ toterra distrussero la vecchia nozione di guerra come spettacolo di un’umanità duellante: il combattente poteva sentire il «pericolo, ma non c’era niente là fuori, nulla di visibile contro cui scagliarsi» 3S. L ’invisibilità del nemico esasperò l’importanza del senso acustico e ciò parve ren­ dere l ’esperienza di guerra particolarmente soggettiva e impalpabile: «Tutto si svolge interiormente, sottoterra, nell’uom o»36. La combinazione di fattori che portarono a ciò che i tedeschi chiamarono Menschenleere («vuoto di soldati») [letteralmente, «deserto». N .d.T.]. in riferimento al campo di battaglia, mutò profondamente i termini del­ l’esperienza di guerra: «La guerra ci appare innanzitutto come un’atroce rassegnazione, una rinuncia, un’umiliazio­ ne» 37. La guerra di trincea, il rintanarsi del combattente fra e sotto la terra, produsse un paesaggio dominato da una ambivalenza: la terra era al tempo stesso rifugio e mi­ naccia permanente. Il campo di battaglia era «vuoto di soldati» e nello stesso tempo saturo di soldati. 31

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I grigi parapetti delle trincee si innalzano tre o quattro piedi da terra. Tranne che per uno o due soldati — cecchini semi-na­ scosti — il paesaggio è deserto. Nessun segno di vita: una terra morta. Eppure sotto questa terra vivono nascosti migliaia di sol­ dati, come conigli38.

Fu precisamente il ricordo di aver vissuto tanto a lungo in una terra piena di uomini invisibili, e sovrastata da un’onnipotente tecnologia, che si impresse nel modo più vivido nella mente di tanti combattenti. L ’improvvisa apparizione del nemico da dietro il muro della violenza tecnologica generava la sensazione dello unheimlich (im­ ponderabile, perturbante). Emilio Lussu, tenente dell’e­ sercito italiano sull’Altipiano d’Asiago, ricorda l’enorme impressione che gli fece il riuscire finalmente a vedere quel nemico che combatteva da mesi. Una vita sconosciuta si mostrava improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, così viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con Tapparmi inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostrava­ no a noi, nella loro vera vita . . . Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci! . . . Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come n o i . . . 39.

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L ’invisibilità privò il nemico di ogni sembianza uma­ na, diffondendone la minacciosa imponderabilità attraver­ so tutta la superficie deserta e butterata del fronte. Imi battersi, faccia a faccia, in uomini che erano stati resi ] completamente estranei dalla propaganda e da reiterati e ' infruttuosi attacchi, e scoprire che «erano come noi», fu | un’esperienza sconvolgente, che rivelò a tanti ciò che avevano ormai dimenticato: la sostanziale somiglianza fra gli uomini. La rottura del diaframma che separava il noto dall’ignoto provocò il brivido dell’identificazione in chi la sperimento. Freud, nella sua analisi del perturbante, ri­ tiene che questa esperienza sia essenzialmente il ritorno di qualcosa di già noto e familiare (heimlich) che era divenuto estraneo (unheimlich) attraverso un processo di rimozione * In un certo senso Freud non fa che aggiun32

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gere il concetto di rimozione, come attività categoriale, alla nozione di Jentsch secondo cui l’esperienza di stupo­ re viene generalmente provocata dall’incontro con qualco­ sa che esula da categorie considerate definitive. Un uomo che ritorna alla vita dopo la morte, un uomo che si tra­ sformi in una macchina, un uomo in parte animale: quest’uomo è reputato impossibile nella misura in cui si considerino assolute le distinzioni fra vita e morte, uomo e macchina, umano ed animale. Quando invece tale im­ possibilità si esperisce, il risultato è la sensazione di stu­ pore, di sconvolgimento. Ebbene, l’esperienza di guerra non è nient'altro che la continua trasgressione di categorie. Nel congiungere i confini che normalmente separano il visibile dall’invisibi­ le, il noto dall’ignoto, l ’umano dal non-umano, la guerra offre tante occasioni per il rovesciamento di distinzioni centrali per il pensiero razionale, l ’esperienza comunicabi­ le e le normali relazioni umane. Molto dello smarrimen­ to, dello stupore, o del senso di crescente estraneazione che i combattenti provano, può essere attribuito a quelle realtà di guerra die infrangono d ò che Mary Douglas chiama «le classificazioni a cui siamo legati». Nulla evidenzia questa situazione meglio del tema che pervade la letteratura di guerra: quello della morte, del giacere, del vivere a fianco della morte. Il fronte è il luogo che dissolve la distinzione netta fra vita e morte. La morte, abitualmente considerata come passaggio velo­ ce fra vita e non-vita, diventò per tanti in guerra un’e­ sperienza continua che escludeva ogni altra possibilità d ’esperienza. Molti usarono la morte come metafora per descrivere la loro distanza da «uomini e cose del p assa­ to»; coloro che entrarono in guerra volontari nel 1914 sovente percepirono la loro «morte civile» come una li­ berazione, un allentamento delle costrizioni della vita ci­ vile. Ma la lunga permanenza al fronte trasformò quella che Franz Schauwecker ebbe a definire «una vacanza dal­ la vita» in un’estraneazione permanente. Gotthold von Rhoden, già studente, e volontario che cadde nel corso della guerra, percepì dopo un certo periodo di tempo di 33

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essersi impegnato in un processo di esclusione dal mon­ do, in una progressiva rottura dei legami con il noto, il familiare, che poteva avere termine solo con la sua pro­ pria estinzione fisica. Egli percepiva questa separazione dal suo passato alla stregua di liberazione fatale, esiziale. Mi sembra di fronteggiare il nemico come fossimo sciolti da qualsiasi legame che ci abbia vincolato in passato; siamo comple­ tamente liberi, la morte non incute più paura. Il nostro pensare e il nostro sentire sono del tutto trasformati; se non avessi timore di essere frainteso, potrei dire che ci sentiamo «staccati» da persone e cose della nostra vita passata41.

Von Rhoden parla qui di quella che Turner definisce «morte strutturale». Le persone e le cose del passato sono morte per il soldato così come lui lo è per loro. Molti riconobbero che i legami con casa si affievolivano progressivamente man mano la guerra continuava. Sieg­ fried Sassoon arrivò a convincersi che la sua patria fosse talmente cambiata a causa della guerra al punto da sem­ brargli che non esistesse più alcun luogo sicuro dove po­ tere ritornare: «Per quanto mi riguarda, mi ero abituato all’idea di dover morire; era un’idea che rendeva ogni cosa più facile, e nelle circostanze in cui mi trovavo mi pareva di non avere altra scelta» 42. F. C. Bartlett, nella sua analisi sugli effetti psicologici della guerra di trincea, osservò come ogni prolungata permanenza al fronte cau­ sasse nei combattenti l’associazione mentale fra patria e morte: e una volta che il desiderio di morte si fosse fissato nella mente del soldato, era imminente il suo col­ lasso nervoso. La morte divenne simbolo della discontinuità e della distanza che caratterizzavano il rapporto fra fronte e pa­ tria. Ma parimenti, la morte simboleggiava un’esperienza di impedimento, di impossibilità di movimento, il senso del finire chiusi e immobilizzati in uno spazio minimo. Il sogno più comune del soldato fu quello di rimanere se­ polto vivo in un rifugio a causa dell’esplosione di una granata. Zuckmayer ammette che questo sogno disturbò le sue notti per ben dieci anni dopo la conclusione della guer­ 34

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ra: il sogno di rimanere sepolto, di restare senza la pos­ sibilità di movimento a causa del peso della terra «men­ tre un obice pesante, dapprima con lentezza inesorabile poi con un sibilo terrificante, mi si schiantava addos­ so . . .» 43, non variava mai. L ’incubo tipicamente vittoriano dell’essere sepolto vi­ vo divenne fin troppo spesso realtà durante la guerra. Ernst Simmel verificò che «il rimanere sepolto a causa di un’esplosione con la perdita totale delle proprie facoltà sensoriali. . . [ fu ] . . . la causa più frequente delle nevro­ si di guerra» **. Si‘ trattò di un fenomeno così comune che durante la guerra la paralisi isterica risultante da se­ poltura forzata rientrò nella patologia come «nevrosi del sepolto vivo». Quello che è più significativo circa questa esperienza è che essa fu sovente vissuta come un’espe­ rienza di morte da cui la vittima lentamente ritornava alla vita. Un certo dr. P. Grasset descrisse la successione degli eventi quale più comunemente si verificava: La vittima perde coscienza, e al risveglio. . . si accorge di non poter vedere, sentire, né parlare. Egli è completamente isolato dal mondo esterno, assolutamente incapace di comunicare o ricevere impressioni. Il mio collega Foucault. . . sostiene che questi soldati verosimilmente pensano di essere m orti45.

In guerra la morte perde quel connotato chiaro e immediato, che normalmente la caratterizza, come brevis­ simo istante fra vita e non-vita. La morte cessa di essere un’astrazione per diventare un termine di definizione del­ la sempre crescente lontanarizàTcòn cui il combattente percepisce la sua patria. Così essa descrive il senso di toTàIe*Tsòlàmento dal «mondo esterno», un senso che viene esasperato precisamente nell’esperienza della sepol­ tura forzata. In generale, questo senso di morte comincia con la definizione di un arco di eventi che allontanano sempre maggiormente il soldato di linea dai valori, dalle certezze sensoriali, dalle gerarchie categoriali che un tem­ po rendevano non ambigua la sua esperienza e bene iden­ tificabile il suo «io». In guerra, la morte era esperita non solo da coloro che effettivamente morivano, ma anche da 35

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coloro che finivano costretti nel lasso temporale - anche molto lungo — compreso fra la scomparsa di ogni possi­ bilità di scelta, o di movimento, e la perdita della vita. L ’abitudine a prestare esclusiva attenzione a tutto ciò che poteva essere foriero di morte finiva per dilatare le cate­ gorie temporali di ognuno: così nel sogno di Zuckmayer le granate piovevano con «fatale lentezza», per altri, «dolcemente» o pigramente, come palloncini, o palle da football. L ’idea della morte era ormai diventata una fissazione: mi trovavo in questo stato mentale quando, nel pomeriggio del 27, piovvero due bombe. Vidi la prima die arrivava e urlai un avvertimento. Subito appresso vidi la seconda: entrambe scende­ vano piuttosto dolcemente, adagio. Da questo momento fino a quando avvenne l’esplosione pensai di essere perduto, pensai che sarei stato scaraventato lontano e fatto a pezzi46.

C’è una sbalorditiva attinenza fra i simboli della liminarità e le realtà effettive dell’esperienza di guerra, e questa attinenza non è casuale. Probabilmente nessun conflitto prima della Grande Guerra, o dopo, ha sfidato così radicalmente il significato e lo status del combatten­ te. La prima guerra mondiale eclissò ogni tipo di dignità je valore e precipitò il soldato in un mondo senza possibi­ li uscite che non fossero le ferite, la morte, o la nevrosi; abituarsi a quella guerra significò acquistare familiarità con un mondo definibile solo in termini di paradosso. Victor Tumer sostiene che i simboli che caratterizzano la situazione liminare iniziatica sono sovente quelli della sparizione e dell’ambiguità: gli iniziandi «sono spesso considerati oscurati, invisibili come un pianeta in eclis­ s i . . . ; essi vengono privati del nome e delle vesti, e cosparsi di terra per non essere distinguibili dagli animali q u a lsia si» 47.

Ma le ambiguità, i paradossi della guerra, e l’eclissi dell’io, rappresentarono solo una parte, e la più negativa, dell’esperienza di guerra. Molti veterani individuarono nella loro esperienza la presenza di elementi fortemente positivi e intrinsecamente compensatori: per esempio, il 36

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cameratismo, che cancellava barriere sociali «artificiali», il condividere un destino comune, e le condizioni egalita­ rie di vita, che trascendevano il rango e perfino l’ostilità nei confronti del nemico — sentimenti che in particolari settori del fronte riuscirono a valicare la stessa Terra di nessuno. Queste esperienze positive, tanto quanto i traumi da contaminazione e di perdita dell’io, dovettero molto alla lunga durata dell’esperienza di guerra. Il senso di cameratismo e di eguaglianza furono percepiti come qualcosa da preservare e istituzionalizzare; Simone de Beauvoir descrive l ’importanza dell’esperienza comunita­ ria di guerra per uno dei suoi insegnanti. A vent’anni, d disse, in trincea, aveva scoperto le gioie di un cameratismo che eliminava le barriere sodali; quando l ’armistizio l ’aveva restituito ai suoi studi, non aveva voluto rinundarvi; la segregazione che separa i giovani borghesi dai giovani operai, nella vita dvile, egli la sentiva come una mutilazione48.

John Kcegan aggiunge che l ’esperienza socializzante della guerra proseguì nell’Inghilterra post-bellica. In trin­ cea, giovani gentiluomini del West Country o della South Coast incontrarono minatori di Durham, operai metallur­ gici dello Yorkshire, o dei cantieri navali del Clydeside, e in questo processo di scoperta e sodalizzazione molti dei giovani aspiranti uffidali finirono per provare simpatia ed affetto per i camerati proletari, sentimenti dbe contribuirono a trasformare le attitudini della borghesia n d confronti dei non abbienti in quella che fu una delle fasi sodali più importanti della storia britannica del ventesimo secolo49.

Dopo la fine della guerra il vivo ricordo del camera­ tismo e della sorte comune fu tenuto ben distinto dagli orrori della guerra, e il fatto di privilegiare un aspetto a scapito dell’altro divise sovente i veterani in opposte fa­ zioni contendenti. La controversia che dilagò in Germa­ nia alla pubblicazione di Im Westeri Nichts Neues di Remarque, nel 1928, circa la natura dell’esperienza di guerra, mise in risalto due opposte concezioni: la prima, di stampo liberale, che vedeva nella guerra la perdita 37

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della giovinezza, la morte, l’orrore, la contaminazione, e la seconda, di stampo conservatore e reazionario, che po­ neva l’accento sull’esperienza di cameratismo e socializza­ zione. Un’adeguata comprensione dell’esperienza di guerra non sta tanto nell’accurato soppesare i suoi lati positivi e negativi, quanto nel dimostrare come sia gli aspetti posi­ tivi sia quelli negativi traggano origine dallo stesso fe­ nomeno: l’esperienza comunitaria della guerra, la sua Gemeinschaft, così come gli orrori della guerra, sono prodotti della fondamentale liminarità della guerra stessa. Certi gruppi di veterani tentarono di ritualizzare e preservare la condizione del soldato, del soldato come uomo vissuto al di là delle categorie sociali e delle di­ stinzioni di status. L ’esperienza dell’aver vissuto fuori da ogni classe, come un declassato o non-ancora-classificato, produce un senso di cameratismo in tutti coloro che con­ dividono quella situazione: e la mancanza di status del soldato di linea, analogamente alla vacanza di classifica­ zione per un gruppo iniziando in fase liminare, può ap­ parire sia come sconvolgente perdita di identità sia come positiva liberazione da quelle distinzioni sociali che nor­ malmente impediscono la formazione di solidi legami per­ sonali al di là della diversità di classe. Andando in guerra il soldato viene privato dei segni visibili del suo status — vestiti, abitazione, proprietà, titoli sociali — che abi­ tualmente connotano il suo posto nella società civile. Ma la vera potenza egalizzatrice dell’esercito non era il came­ ratismo, come ebbero a rendersi conto molti giovani vo­ lontari borghesi: il cameratismo veniva solo dopo che gli invisibili segni dello status individuale — comportamen­ to, istruzione, modi di fare e di parlare — furono cancel­ lati, sovente in maniera dolorosa, dalla «società degli sca­ ricatori di porto». Molti volontari parlano delle prove penose cui furono costretti a causa del loro eccessivo en­ tusiasmo per la guerra, della loro istruzione superiore, e dei loro modi raffinati. Abbandonare i confini della normale vita sociale non significò per il soldato entrare in un’arena di assoluta mancanza di freni; al contrario, egli si vide costretto ad 38

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adattarsi ad un peculiare tipo di struttura sociale analogo a quello in cui secondo Turner operano i gruppi di ini­ ziandi. Fra i neofiti e i loro istruttori. . . e fra un neofita e l ’altro, vige un insieme di relazioni che caratterizza una struttura sociale di tipo molto particolare. È una struttura molto semplice: fra istruttori e neofiti vigono in generale l ’autorità e la sottomissione più complete; e fra gli stessi neofiti vige la più completa egua­ glianza 50.

Il cameratismo tanto sacro alla memoria dei gruppi di veterani dopo la fine della guerra fu il prodotto dell’uni­ formità e della parificazione di condizioni a cui costrinse­ ro l’autorità e le realtà concrete della guerra. John Masters, che durante la guerra prestò servizio in un reggi­ mento di truppe indiane, racconta come egli continuamente proibisse ai soldati di indossare simboli di casta, salvo poi vederli riapparire non appena avesse allentato la sorveglianza51. La miglior descrizione del connubio fra eguaglianza ed autorità ci è data da T. E. Lawrence, che si arruolò nelle forze aeree britanniche come semplice recluta nel 1922. Egli era ormai stanco della notorietà che i suoi successi in Medio Oriente gli avevano procura­ to, ed agognava a quell’anonimato che sapeva di poter trovare nel fondo di una camerata immersa nel sonno. Qui d avvolgeva l ’immediato cameratismo di truppa — una simpatia che nasceva per metà dalla nostra comune impotenza nei confronti dell’autorità . . . e per metà dalla nostra eguaglianza di fatto; si, poiché tranne che sotto costrizione non esiste vera eguaglianza a questo mondo s2.

Al pari di Lawrence, F. H. Keeling — giornalista so­ cialista prima della guerra — si arruolò nell’esercito nel 1914 con aspettative monacali. La vestizione della divisa fu un rituale che egli celebrò come una sorta di religione civile, maggiormente apprezzabile proprio perché in anti­ tesi con il privato, con l’individualismo di una vita civile tutta incentrata sui valori della famiglia. L ’unità dell’e­ sercito di Kitchener in cui entrò era «comunistica, nel 39

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senso di tutto ciò che di buono e stimolante c’è nel co­ muniSmo» s , ed egli si chiedeva se avrebbe «mai potuto trovare in una famiglia un adeguato sostituto del reggi­ mento» L ’attenzione dei socialisti per il potenziale rivoluzio­ nario costituito dai reduci dal fronte nel 1919 teneva ben conto del fatto che l ’esperienza di vita ai margini della vita sociale avesse instillato nel soldato di linea un insieme di motivazioni politiche contraddittorie. L ’egua­ glianza della truppa, l ’uniformità di condizioni, la prole­ tarizzazione assoluta del soldato non nascevano certo da una presa di coscienza di classe, bensì dalla marginalità del soldato stesso e dalla sua totale impotenza nei con­ fronti dell’autorità e della tecnologia. Il cameratismo del fronte non era separabile da precise attitudini nei con­ fronti dell’autorità: «tranne che sotto costrizione non esiste vera eguaglianza a questo mondo». Per quanto estraniato dalla società borghese e dai valori connessi ad una stratificazione di classe fondata su un’ineguale distri­ buzione della ricchezza, il soldato di linea era marcato da un concetto dell’autorità essenzialmente tradizionale — se non addirittura «reazionario» in un’ottica liberal-democratica. L ’ufficiale aristocratico fu preso a modello dai giovani borghesi aspiranti ufficiali inglesi e tedeschi. Do­ nald Hankney, che cadde sulla Somme nell’ottobre del 1916, tratteggia l’ideale dell’ufficiale cristiano, epitome della caritas. Se si trattava di incidere una vescica purulenta, egli si offriva sempre per primo. . . C’era qualcosa di religioso in questa sua attenzione per i nostri piedi. Sembrava un gesto circonfuso dal­ l ’aureola del Cristo ss.

Nello sforzo di adempiere al proprio ruolo, più di un ufficiale riesumò vetusti concetti di paternalismo e desue­ te attitudini di deferenza: queste concezioni acquistarono in guerra una nuova importanza che avrebbe sortito con­ seguenze fatali nella società post-bellica. Molte descrizioni di questo tipo di rapporto fra truppa e ufficiali potrebbe­ ro tranquillamente valere per il rapporto fra un genti­ 40

La struttura dell’esperienza di guerra

luomo di campagna (squire) e il personale alle sue dipen­ denze, o fra un nuovo maestro e i suoi scolaretti: «Questo tipo di rapporto fu reso possibile solo per l’ar­ dente desiderio da parte dell’ufficiale di insegnare, di in­ coraggiare, e di essere accettato, e da parte della truppa di essere istruita e comandata»56. L ’eguaglianza nelle condizioni di vita che caratterizzava l’identità del grup­ po al fronte non aveva nulla a che fare con la libertà o la possibilità di scelta; al contrario, questa eguaglianza era una funzione, da un lato, della subordinazione milita­ re che — nel migliore dei casi — acquisiva una forza etica e morale, e, dall’altro, un prodotto della comune soggezione di tutti, soldati ed ufficiali, alla schiacciante potenza del fuoco. Ogni esperienza liminare è un’esperienza d’apprendi­ mento, e questo è implicito nell’affermazione di Carrington secondo cui in guerra la sua generazione apprese «un segreto che non può essere comunicato». Ma altret­ tanto implicito nella nozione di guerra come iniziazione è la consapevolezza che questo apprendimento sia qualitati­ vamente diverso da ogni altro acquisito presso «scuole» tradizionali. Di fatto, trattando dell’esperienza di guerra, è necessario comprendere il mito dell’esperienza stessa, e quanto il livello di conoscenza raggiunto nell’esperienza sia inseparabile dalla persona che apprende e incomuni­ cabile a coloro che non hanno condiviso l ’esperienza. Cari Zuckmayer definì la sua esperienza di guerra come «un pezzo di me stesso», come una parte del suo proprio corpo, una profonda cicatrice, un connotato organico. Ma questa esperienza non è comunicabile: Posso dire che . . . l’esperienza di guerra e del suo grande caos rigeneratore faccia parte di me stesso, per quanto senta che non sarò mai in grado di rappresentarla o parlarne in modo chiaro e comprensibile S7.

Il disordine, il caos, la frammentazione dei «più sicu­ ri schemi» e la sovrapposizione fra cose e modi di fare o sentire abitualmente separati, vengono sempre posti alla base sia della conoscenza che esperirono i soldati in 41

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guerra sia dell’incomunicabilità di questa stessa conoscen­ za. Gli uomini che escono dal nero baratro della guerra sono generalmente definiti «silenziosi», e questo silenzio potrebbe essere una maschera per nascondere amarezza, oppure «segreti». David Jones individua nella caratteri­ stica sovrapposizione dei contrari l’esperienza che più profondamente impressionò i soldati in guerra. Penso che il vivere quotidiano nella desolazione, l’improvvisa violenza e l ’estenuante silenzio, i bruschi contorni e i vuoti senza fine di quella misteriosa esistenza, colpissero profondamente l’im­ maginazione di coloro che li esperivano. Era come vivere un lungo incantesimo 58.

Ai soldati in guerra la realtà non viene insegnata, bensì mostrata: e viene appresa non tramite categorie convenzionali, ma attraverso la radicale sovrapposizione di violen za e q u iete, trem en da p au ra e in fin ita n oia. M a il vero problema è: Che cosa apprese, cosa imparò in guerra questa generazione? Ci torna ancora utile la de­ scrizione di Turner del processo educativo nei riti liminali. In questi riti, Il bizzarro diventa normale, e tramite l’allentamento delle connessioni fra elementi normalmente tenuti insieme secondo certe combinazioni, il loro rivolgimento e la loro ri-combinazione in forme mostruose, fantastiche e innaturali, i novizi sono costretti a riflettere (e a riflettere duramente) sulle esperienze culturali che essi avevano dato finora per scontate. I novizi apprendono dun­ que di non conoscere affatto ciò che pensavano di sapere: al di là della superficie dell’abitudine si apre una profonda struttura le cui regole devono essere imparate tramite paradosso e violente emozioni99.

Turner non ascrive tanto la prevalenza del mostruoso, del bizzarro e dello stupefacente nelle cerimonie d’inizia­ zione al desiderio di spaventare gli iniziandi, bensì a quello di insegnar loro a distinguere chiaramente le forze che connotano la realtà così come è concepita nella loro cultura. Nelle zone liminari il neofita è costretto a pensa­ re come l ’esistenza di esseri mostruosi dia senso ai co­ stumi convalidati e necessità alle leggi vigenti nella socie­ 42

La struttura dell’esperienza di guerra

tà; le tecniche che costringono al confronto con fattori culturali tanto familiari da essere diventati pressoché in­ consci sono, in primo luogo, la dissociazione degli ele­ menti culturali dalle loro relazioni normali, e quindi la loro ricombinazione «in fattezze fantastiche o mostruo­ se». Il processo di dissociazione e ricombinazione rivela ciò che soggiace all’edificio culturale e «insegna al neofita come pensare con un certo grado di astrazione al proprio ambiente culturale»; nello stesso tempo, la rivelazione delle forze che soggiacciono alla realtà culturale «ha il compito di mutare la natura del neofita, permettendogli di effettuare il passaggio previsto all’interno della scala culturale» 60. Ma c’è una chiara e ovvia differenza fra i riti di iniziazione nelle colture tradizionali, agrarie, premoderne, e questa esperienza della guerra moderna, per quanto al­ to possa essere il valore iniziatico della guerra stessa. Ciò che generalmente viene rivelato nei riti tradizionali è il fondamento sacro del gruppo; ciò che si rivela in guerra non ha nulla a che fare con il «sacro», per quanto possa assumere parvenza di forza demoniaca. Nella Grande Guerra il combattente imparò a riconoscere realtà che erano definibili piuttosto come «materiali», «tecnologi­ che», o «meccaniche»: «In generale la cosa più terribile di questa guerra è che tutto diventa macchinico: si po­ trebbe quasi definire la guerra come un’industria per il macello umano specializzato» 61. Ma la sorpresa dei combattenti nell’essere coinvolti in un evento rivelatore non del potere degli uomini ma del potere dei mezzi, è a sua volta sorprendente. Infatti il potere della moderna tecnologia non doveva essere poi così inedito e apparire totalmente inatteso ad uomini che erano cresciuti in una delle epoche tecnologicamente più fertili della storia — un’epoca che produsse, fra le altre co­ se, il telefono, l’automobile, l’aeroplano, che vide notevoli progressi nel settore chimico ed elettrico, e la scoperta del­ le radiazioni. La sorpresa con la quale molti combattenti si accorsero di trovarsi nel bel mezzo della prima guerra completamente industrializzata deve essere ascritta a due 43

La struttura dell’esperienza di guerra

fattori: le aspettative modellate su di un’immagine tradi­ zionale della guerra come attività gratuita, del tutto an­ ti-economica; e, fatto ancor più importante, quella che potrebbe essere definita una «sottovalutazione» della tec­ nologia, seguita dalla prepotente «reimposizione» della stessa. Molti accolsero la guerra come via d ’uscita dalla so­ cietà industriale: ma in guerra appresero che la tecnolo­ gia dominava l’organizzazione di soldati, macchine e armi proprio come in tempo di pace. Ernst Toller, un vetera­ no scampato grazie alla nevrosi, esprime nel miglior mo­ do possibile questa consapevolezza. Invece di essere riusciti a sottrarsi al disumano meccanismo della moderna società tecnologica, i soldati s’awidero che la tecno­ logia dominava in maniera ancor più tirannica d ie in tempo di pace. Uomini che avevano creduto di poter riscattare attraverso gesta cavalleresche la loro spiritualità dall’onnipotenza delle forze materiali e tecnologiche, scoprirono che nella moderna guerra di materiali il trionfo della macchina sull’individuo raggiunge la sua : forma assoluta62.

^ Le terrificanti dimensioni assunte dalla guerra, l’assolutamente inatteso volume di fuoco necessario sul campo di battaglia, ribadirono una incontestabile verità, una ve­ rità che tanti si accorsero di «conoscere già»: la guerra non avrebbe potuto essere vissuta e valutata come espe­ rienza personale bensì, attraverso il fuoco di sbarramento e i reticolati, avrebbe finito per apparire come creatura di potenze sovrapersonali e tecnologiche padrone delle azioni e dei sentimenti degli individui. Jean Galtier-Boissier descrive il suo primo impatto con la guerra di trin­ cea e con l ’attitudine di completa rassegnazione dei suoi camerati. Essi avevano l’aria di condannati che offrono la nuca al b o ia . . . Le salve d ’artiglieria, nella loro potenza e fragore inani, rivelavano la tremenda sproporzione fra gli strumenti di morte e il misero fante, il cui sistema nervoso non poteva essere all’altezza di così formidabili colpi63.

Ma ciò che realmente rendeva la tecnologia abnorme, 44

La struttura dell'esperienza di guerra

terrorizzante, demoniaca, era il suo distacco dalle associa­ zioni più abituali, più convenzionali. La tecnologia era rimossa da un contesto in cui poteva essere comprensibile come strumento di produzione e distribuzione — le fun­ zioni cioè che rendevano possibili e dominanti la vita e la cultura europea: essa fu dislocata da quel contesto e «reimposta» in un contesto di distruzione, lavoro, e ter­ rore, nell’ambito del quale rese inconcepibile la dignità umana e molto problematica la sopravvivenza. In questo processo di «reimposizione», la tecnologia perse la sua patina di neutralità, e certe caratteristiche — prima di allora insospettate — dei mezzi che la civiltà industriale aveva sviluppato per ottenere il controllo della natura e trascendere le limitazioni umane, apparvero in tutta la loro evidenza. La dissociazione della tecnologia dalle sue funzioni normali e la sua imposizione in un contesto di pura distruzione rese strano e mostruoso ciò che prima era familiare, oggetto d’orgoglio e strumento di progres­ so. David Jones rimase impressionato precisamente dal sinistro, per quanto «affascinante e coinvolgente», carat­ tere che la tecnologia assunse in guerra. Non è piacevole — per quanto possa essere spettacolare — subire un fuoco intenso di mortai da trincea sapendo poi che precede un lancio di gas e agenti chimici. . . [D obbiam o]. . . tenerci addestrati alle misure anti-gas, abituarci a nuove e bizzarre tecniche, essere sempre più veloci ed efficienti a rispondere alle crescenti esigenze tecnologiche: alcune affascinanti e coinvolgenti, altre estremamente lugubri; e tutte richiedenti una nuova e parti­ colare attitudine mentale, una nuova sensibilità, ad un costo altis­ simo M.

In guerra la tecnologia fu riconosciuta in tutta la sua autonoma concretezza: una realtà che dettava legge in maniera totale, e non soltanto per quanto riguardava ar­ mi e strumenti, ma anche nell’organizzazione di uomini e materiali. Questa organizzazione — svincolata da quel nesso di utilità e necessità che l’aveva resa ideologica­ mente accettabile, prima del 1914, come veicolo di pro­ gresso e sistema idoneo al miglioramento della condizione umana generale — assurse a livello di astrazione, di un 45

La struttura dell’esperienza di guerra

coeso e massiccio sistema di forza. Dopo la guerra gli uomini parlarono di tecnologia in un modo completamen­ te differente di quanto non facessero nelle discussioni relative alla meccanizzazione prima del 1914. Friedrich Dessauer, nello sforzo di rilevare questa differenza, sottolinea che prima della guerra La tecnologia non era ancora tema universale d ’attenzione e discussione. La consapevolezza che avremmo avuto a che fare con qualcosa di enorme, globale, con una potenza in grado di trasfi­ gurare il mondo, non faceva parte ancora della coscienza colletti­ v a . . . Si potevano scorgere solo particolari elementi, ma non tutto Tinsieme: era necessario un evento che indirizzasse l’attenzione dei più sulla tecnologia, e questo evento precipitò nel 1914, con la prima guerra mondiale65.

L ’esperienza di guerra costrinse il combattente ad os­ servare, da una posizione «scomoda», le realtà materiali che soggiacciono alla vita sociale. Solo in guerra queste realtà poterono assumere la loro forma più manifesta ed eclatante: strappata dai suoi fini produttivi, la tecnolo­ gia poteva essere vista solo come qualcosa di «enorme e totale», qualcosa che di fatto organizzava e modellava un mondo e gli uomini che lo abitavano, indipendentemente dalle loro volontà od esigenze. I simboli della « stru ttu ra so ciale» e il tip o di cono­ scenza che caratterizzano i riti liminari sono sorprenden­ temente congruenti all’esperienza della guerra moderna, e ciò solleva alcuni problemi essenziali. Come deve essere considerata questa congruenza? E cosa significa? Chiara­ mente la Grande Guerra non fu un evento rituale, bensì un evento storico. I rituali d ’iniziazione non uccidono gli iniziandi, per quanto molti simboli di morte possano es­ sere impiegati per significare la situazione anomala, e per quanto gli iniziandi possano essere segnati o mutilati nel­ le operazioni r^ ua^- Ma, anche ignorando queste ovvie differenze, sarebbe comunque impossibile vedere la guer­ ra aliai stregua di un’iniziazione. Il fine dell’iniziazione è la traduzione dell’iniziando in una nuova posizione nella scala sociale: senza i riti di riaggregazione, in cui l’ini­ 46

La struttura dell1esperienza ài guerra

ziando assume il suo nuovo posto all’interno della strut­ tura sociale, la fase liminare perderebbe ogni scopo, si­ gnificato, non sarebbe giustificata. E proprio nella fase finale dell’iniziazione che lo scopo del rito diviene emi­ nentemente chiaro: Nella terza fase, il passaggio viene consumato. Il soggetto del rito, individuo o_ gruppo, perviene di nuovo ad uno stato stabile, e in virtù di questo ha diritti e obblighi di tipo «strutturale» e chiaramente definito, e da lui ci si attende un comportamento in accordo con certe norme e principi etici66.

L ’iniziando è strappato al suo precedente stato e ri­ dotto a materia «generica» allo scopo di essere poi eleva­ to ad un nuovo status; egli non si pone, come il vetera­ no della prima guerra mondiale, di fronte alla sua società con un'«attitudine di silenzio e amarezza». Se l’esperienza della Grande Guerra fosse stata un’iniziazione, sarebbe p ro b lem atico stab ilire a qu ale condizione o sta tu s fu ini­ ziato il soldato: le sue relazioni con la società d ’origine rimasero fondamentalmente problematiche. I riti e i sim­ boli dei gruppi di veterani della Grande Guerra conti­ nuarono a celebrare in modo reiterato la liminarità, e l’esperienza di guerra altro non fu che una riduzione del­ l ’io che costrinse il veterano in una posizione difensiva nei confronti della società. Forse la natura di quella guerra e il carattere industriale della società impedirono la consumazione del passaggio, la riaggregazione del sol­ dato con il suo vecchio ambiente civile di provenienza. Se la natura del soldato di linea mutò, lo stesso fu per la società, e il veterano sovente si rese conto che non esi­ steva un «posto» in cui potesse tornare. Il veterano era un uomo bloccato nella fase di pas­ saggio, un individuo la cui caratteristica divenne l’«essere senza patria». La fortuna post-bellica del veterano sarà argomento del sesto capitolo, ma qui è importante sottolineare che nel rapporto fra il reduce dal fronte e la sua patria, la liminarità di guerra non fu risolta, bensì inces­ santemente riprodotta. Il fallimento di una qualsivoglia riaggregazione continuò a rendere problematica agli occhi 47

La struttura dell’esperienza di guerra

del veterano l’esperienza di guerra, e fece del reduce una figura ambigua e potenzialmente pericolosa per la società. Ma persiste H problema iniziale: come è possibile spiegare la stupefacente congruenza fra simboli liminari ed esperienza di guerra quando la realtà concreta, lo scopo, lo status della guerra e del rito sono tanto diffe­ renti fra loro? Questa congruenza non è certo casuale, e credo possa essere spiegata prestando una maggiore at­ tenzione al modo in cui i combattenti percepirono se stessi e il loro rapporto con gli eventi di cui divennero parte. L ’evento come testo Nell’affrontare la «letteratura di guerra» ci si accorge di avere a che fare con la testimonianza di uomini che ebbero un controllo scarso o nullo sugli eventi che mi­ nacciarono direttamente le loro esistenze: la prospettiva d el so ld ato d i linea, che non aveva nulla a che fare con le motivazioni e i piani degli stati maggiori, si dissolse molto presto in sconcerto e confusione. Ma ciò solleva il problema di come i partecipanti al conflitto si sforzassero di rendere le proprie azioni comprensibili a se stessi, e di come definissero il loro rapporto con una realtà concreta sulla quale non avevano nessun potere di controllo. Più di ogni altra cosa, il soldato semplice della prima guerra mondiale percepì quanto la guerra fosse sempre più distinta e lontana dai suoi propositi e motivazioni personali. La pur minima esperienza di combattimento era sufficiente a raffigurare la «guerra» come una se­ quenza di eventi di dimensioni talmente esorbitanti ri­ spetto agli esseri umani che vi partecipavano, da vanifica­ re immediatamente qualsiasi prospettiva personale. Molti fra i combattenti percepirono il distacco e la mancanza di significato delle proprie azioni come spogliazione per­ sonale, come una mutilazione. È precisamente questa au­ tonomia degli eventi bellici che sovente traspare dalle descrizioni della guerra come macchina, come automa. 48

La struttura dell’esperienza di guerra

Henri de Man, per esempio, descrive la guerra come un meccanismo che avanza «per inerzia e per la capacità del­ la massa posta in moto di perseverare in questo stato» 67. Egli crede che la guerra sia «infine diventata Fincubo segreto di coloro che l ’hanno creata» 66: come evento, la guerra pare dunque perfino sottrarsi alle volontà dei di­ retti responsabili della sua condotta. Questa sensazione di vivere un automa, un evento non voluto dai suoi attori umani, è altrettanto implicita nella descrizione che Ru­ dolf Binding dà della guerra come un ghiacciaio. Che altro è l ’umanità se non una morena sotto il peso di un mostruoso ghiacciaio? Questo ghiacciaio scivola lentamente verso valle, e nulla sembra in grado di alleggerirne il peso. Quando finalmente si scioglie, quando cessa la pressione sulla morena, rimane solo una vasta e desolata distesa di sassi, che non sanno proprio nulla del ghiacciaio. Tale è questa guerra. Sbaglia chi la paragona ad un’antica campagna in cui le volontà degli avversari si fronteggiavano apertamente: in questa guerra entrambi gli av­ versari giacciono sul terreno e solo la guerra ha una propria volontà 69.

'i- Molti combattenti compresero che le dimensioni della guerra — la sua inaudita violenza e Fincredibile numero di perdite — furono diretta funzione dell’industrializza­ zione e delle dimensioni raggiunte dalla organizzazione produttiva. Marx, nel considerare il fenomeno dell’Inghil­ terra industrializzata, si rese conto che da allora la spie­ gazione della vita sociale e delle relazioni economiche avrebbe dovuto essere qualitativamente differente da quel­ la relativa alla produzione pre-industriale, quando braccia, strum enti, m anufatti, erano im m ediatam ente percepibili

al senso comune. Con l’industrializzazione emerse un si­ stema produttivo che — al pari del sistema della natura nel diciottesimo secolo — richiese per essere descritto leggi scientifiche completamente nuove. La struttura pro­ duttiva che sta alla base della moderna vita sociale è un sistema senza centro né periferia che pone in crisi fin dall’inizio qualsiasi lettura centrata sull’individuo: «Solo nella grande industria l ’uom o im para a fare operare su

larga scala, come una forza naturale, gratuitamente, il 49

La struttura dell'esperienza di guerra

prodotto del suo lavoro passato e già oggettivato»70. Nel­ la produzione moderna, tecnologia, lavoro, e capitale, crearono un sistema manifestamente autonomo dai sin­ goli individui, il cui rendimento, le cui dimensioni, la cui potenza, non potevano essere comparati altro che alla natura. La guerra industrializzata fu vista esattamente sotto questo aspetto. Fu facile scorgere negli ottusi meccanismi di distruzione della guerra il lato oscuro del moderno IIIIIdo di produzione capitalistico descritto da Marx. Quivi alla singola macchina subentra un mostro meccanico, che riempie del suo corpo interi edifici di fabbriche, e la cui forza demoniaca, dapprima nascosta dal movimento quasi solennemente misurato delle sue membra gigantesche, esplode poi nella folle e febbrile danza turbinosa dei suoi innumerevoli organi di lavoro in senso proprio71.

Si può dire che proprio questa sensazione di parteci­ pare ad un evento senza singolo autore, eccetto forse una volontà divina, caratterizzi la coscienza dei partecipanti a qualsiasi fatto storico di primaria importanza e grandezza. Ma questa nozione dell’autonomia dell’evento, della man­ canza di un autore preciso, è il dato essenziale in base al quale il combattente della Grande Guerra sviluppò la vi­ sione di se stesso e del proprio rapporto con le realtà che lo circondavano. La consapevolezza che l’evento avesse ormai raggiun­ to una paurosa autonomia da qualsiasi ambito di autorità umana segna il punto preciso in cui l’evento stesso si trasformò nell’unico rilevante oggetto di riflessione per chi vi partecipava. Usando il termine di Paul Ricoeur, per chi vi ebbe a che fare l’evento divenne un «testo», la corretta lettura del quale era questione di vita o di mor­ te. Sostengo che l’azione di per sé, l’azione come significante, possa diventare oggetto di indagine scientifica . . . in virtù di ima sorta di oggettivazione simile a quella autonomia che verifichiamo nella scrittura. Grazie a questa oggettivazione, l’azione diventa qualcosa di diverso da una semplice operazione . . . Essa costitui-

50

La struttura d e ll esperienza di guerra

sce un modello ben definito che deve essere interpretato sulla base delle sue specifiche connessioni interne72.

Merita seguire questa analogia fra un testo che, una volta steso, acquista una certa autonomia dai moventi, dalle intenzioni, dai propositi di un autore, e un evento storico che, per i partecipanti, acquista un’autonomia e una dinamica distinta dalle intenzioni di coloro che vi concorrono. Anche qualora si siano pienamente comprese le motivazioni dell’autore di un libro, non significa che si sia pienamente compreso il significato del testo. Nel pro­ cesso di stesura, come scrittura, il testo crea un universo di connotazioni, associazioni, rimandi e traslazioni di cui l’autore può rimanere del tutto ignaro e inconsapevole. Parimenti, l’esperienza di guerra è composta di coerenze interne, quotidianità, e un’impressionante successione di fenomeni normalmente non correlati fra loro, e comun­ que ben lontani dalle intenzioni di qualsivoglia stato maggiore, alto comando, o compagine governativa. Non si può dire di essere riu sc iti a « le g g e r e » la g u e rra so lo p e r ­ ché si siano comprese le motivazioni dell’alto comando, non più di quanto si possa dire di essere riusciti a «leg­ gere» un testo solo perché si abbia pienamente risposto alle domande: quali erano i propositi dell’autore? Sono stati realizzati? Nello scrivere «Guerra» con la maiuscola e nel sentir­ la come una struttura oggettiva ben distinta da loro stes­ si, i combattenti vedevano nella guerra un m o n d o ch e li avvolgeva ormai completamente con la sua propria logica, le sue connessioni, le sue incongruenze. Il loro essere immersi in questo universo, il loro abituarvisi, li rendeva distinti, e distingueva la loro conoscenza e la loro identi­ tà da quelle di coloro che ne rimanevano al di fuori. Proprio come il significato di un testo può non collimare con i propositi dell’autore, bensì con l’immaginario di chi ne penetra la scrittura, il significato profondo della guer­ ra era percepito nell’auto-consapevolezza, nella coscienza, nelle paure e nelle fantasie che essa generava in coloro che erano costretti a vivere in un universo di inaudita violenza di cui non erano artefici. 51

La struttura dell’esperienza di guerra

Questa rappresentazione del proprio rapporto con la guerra dettava sempre più il senso di ciò che si acquisiva per esperienza personale: i combattenti riuscivano a ve­ dere sempre meno le proprie gesta come effettuazione di piani preordinati che avrebbero dovuto produrre precisi risultati. Le dimensioni assunte dalla guerra spiazzarono il contributo individuale del soldato dal nesso razionale di causa ed effetto. Vedere la guerra come una macchina autonoma vivente di moto proprio, e con il potere di dettare e imporre le azioni (o l ’immobilità) degli umani suoi partecipanti, significò che Pevento era ormai steso, fissato, e non nero su bianco, bensì nel carattere e nella personalità dei soldati. L ’autonomia dell’evento costrinse chi vi partecipava a leggere dentro di sé i segni distintivi dell’evento stesso: durante la guerra Pio si trasformò in strumento di registrazione, e la conoscenza acquisita nel­ l’esperienza venne codificata secondo i «tipi» di carattere che la guerra produceva. Si può quindi trovare nella letteratura di guerra una sequenza di tipi connotati dalla realtà bellica nelle sue varie fasi: il volontario del 1914, ovvero la quintessenza delle aspettative ideali; il chiuso, inavvicinabile soldato della fase difensiva, passivamente determinato dalla ti­ rannia della guerra di materiali: le truppe d’assalto (gli «arditi» italiani), attori dell’offensiva tecnologica. Ciascu­ no di questi tipi incarna un differente aspetto, un diffe­ rente carattere degli eventi bellici: il volontario è la per­ sonificazione della guerra come progetto nazionale e co­ munitario; l ’esausto, rassegnato attore della Materialkrieg è immediatamente identificabile come prodotto del modo di guerra industrializzato in tutte le sue dimensioni e la sua enorme potenza; le truppe d’assalto sono la personi­ ficazione di una realtà e di un desiderio d ’aggressione radicati nella massiccia frustrazione degli impulsi d’ag­ gressività vissuta nella quotidianità della guerra di trin­ cea. A questo punto, si possono chiaramente scorgere al­ meno tre livelli significativi nelle trasformazioni del ca­ rattere individuale citate dai combattenti e attestate da 52

La struttura dell’esperienza di guerra

coloro che ebbero ad osservare il comportamento dei sol­ dati reduci dalla guerra. Ad un primo livello, la differen­ za che segna ridentità del soldato di linea può e sse re vista come Ite ra z io n e più comune ed ovvia nelle vitti­ me della nevrosi di guerra, osservabile però anche in molti casi che non rientravano nell’ambito specifico dei traumi da esplosione. Ferenczi definì questo livello come un tipo di narcisismo incentivato dall’ambiente costantemente minaccioso della guerra: «La libido si ritira dal­ l’oggetto all’interno dell’io, stimola l’egoismo e riduce l’amore oggettuale fino al punto di indifferenza» 73. Ad un secondo livello le alterazioni nell’identità del soldato di linea possono essere viste come funzione della liminarità dell’esperienza di guerra, come il calco dell’al­ terazione nel rapporto fra il soldato e la sua società d’o­ rigine nonché le categorie che definiscono la struttura dell’esperienza e dello status sociali convenzionali. In una guerra che durò tanto a lungo, il soldato di linea divenne «enigmatico nei confronti di se stesso» e straniero ad «uomini e cose» della sua precedente esistenza; l’adatta­ mento a vivere nella Terra di nessuno, al di là delle categorie e dei valori consueti della vita sociale, familia­ rizzò il fante al disordine e alle potenze altre che si celano dietro la rispettabile esistenza civile. I timori di­ retti sul reduce dal fronte non furono di natura molto diversa da quelli diretti a qualsiasi figura proveniente dalla periferia della vita sociale; ma in questo caso il soldato era un cittadino del tutto estraniato a causa del­ l ’esperienza vissuta. Infine, il mutamento di identità nel soldato di linea appare come una chiave per interpretare l’esperienza di guerra, la chiave appropriata per coloro che si trovarono a vivere in un universo in cui la normale relazione fra attore ed azione era completamente rovesciata. La guerra era diventata un evento autonomo comprensibile solo nella misura in cui coloro che essa coinvolgeva non si rico­ n o sc e v a n o p iù , n e p p u re c o lle ttiv a m e n te , c o m e re sp o n sa b i-

li delle proprie azioni. Analogamente agli eventi rituali, la guerra assunse un’oggettività spettacolare, uno status 53

La struttura dell’esperienza di guerra

programmatico, attraverso i quali dettava il necessario comportamento ai partecipanti. Il soldato di linea rappre­ senta un tipo — di fatto, più tipi: resistenza di questi tipi testimonia del peso psicologico e sociale con cui la guerra gravò sulle spalle di coloro che la vissero. In sen­ so figurato, ma anche letterale, la guerra divenne un te­ sto: «La monotonia quotidiana della Stellungskrieg go­ verna tutto con le sue migliaia di regole che, generate dall’esperienza, riempiono ora cospicui tomi di regola­ menti di servizio» 74. L ’evento fu ben impresso nella personalità, e in que­ sto senso la guerra fu senza dubbio simile ad un’inizia­ zione e rappresentabile nei simboli della liminarità: gli effetti della guerra sui partecipanti non poterono essere rovesciati più di quanto non possa essere dissolta nelle sue componenti fondamentali l’identità assegnata agli ini­ ziati nei riti di passaggio. Non si può sottovalutare que­ sto rendersi autonomo dell’evento rispetto alle azioni e alle volontà dei partecipanti, soprattutto per le sue con­ seguenze: infatti questo processo alterò in maniera fon­ damentale il repertorio d ’identificazione per tutti coloro che lo vissero come qualcosa completamente al di fuori del proprio controllo. Il partecipante poteva esperire la nuova realtà in un duplice modo: egli poteva mettersi al servizio di queste forze ed energie che lo dominavano, acquisendo a sua volta, in cambio della propria sensibili­ tà, un maggior potere su uomini e cose; oppure poteva rimanere «il cuore più buono e l’animo più nobile di questa terra», il cui io, continuamente minacciato, finiva per rannicchiarsi sempre di più nella nevrosi.

Note 1 Ph. Witkop (a cura di), Kriegsbriefe gefallener Studenten, Miinchen, 1936, p. 3. 2 Ibidem, p. 88. 3 Citato in P. Fussell, The Great War and Modem Memory, Lon­ don, Oxford-New York, 1975, p. 64; trad. it., La Grande Guerra e

54

La struttura dell'esperienza di guerra la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 80. 4 H o m utuato questo termine da Jerom e Kagan, che con

la sua

opera sfida il dominio del concetto di «continuità» nella psicologia cognitiva: vedi il suo Emergent Tbem es in Hum an Development, in «American Sdentist», LXIV (1976), n. 2, pp. 186-196. 5 E. Erikson, ChHdhood and Society, London, 1967, p. 37; trad. it., Infanzia e società, Roma, Armando, 19725, p. 33. 6 Citato in L. Scholz, Seelenleben des Soldaten an der Front. Hinterlassene Aufzeichnungen des im Kriege gefallenen Nervenartzes, Tiibingen, 1920, p. 184. 7 Per un’esauriente descrizione, e una comparazione di questi due modelli, vedi R. Sipes, War, Sports and Aggressioni An Empirical Test of Rivai Tbeories, in «American Anthropologist», LXXV (1973), n. 1, pp. 64-86. 8 Vedi, per esempio, P. Loewenberg, Arno Mayer’s «Internai Causes and Purposes of War in Europe», an Inadequate Model of Human Behavior, National Conflict and Historical Change, in «Journal of Modem History», XLII (1970), pp. 628-636. Vedi anche F. Fomari, La psicoanalisi della guerra, Milano, Feltrinelli, 1966. 9 A. Mayer, Internai Causes and Purposes of War in Europe, 1870-1955: A Research Assignment, in «Journal of Modem History», XLI (1969), n. 3, p. 291. Anche M. Gordon, Domestic Conflict and thè Origin of thè First World War: The British and German Cases, in «Journal of Modem History», XLVI (1974), n. 2, p. 191. 10 L. Lewinsohn, Die Revolution an der Westfront, Charlottensburgh, 1919, p. 63. 11 L. Housman, War Letters of Falien Englishmen, London, 1930, p. 60. 12 Per uno sviluppo di questo tema, vedi R .J. Lifton, Home from thè War. Vietnam Veterans: Neither Victims nor Executioners, New York, 1972. Il difetto principale di quest’opera sta nell’insufficiente valutazione delToggettiva frustrazione dell’aggressività in guerra, e nella guerra di guerriglia in particolare. 13 C. L. Nichols, War and Civil Neuroses — a Comparison, in «Long Island Medicai Journal», X III (1919), p. 259. 14 W. M. Maxwell, A Psychological Retrospect of thè Great War, London, 1923, p. 85. 15 S. L. A. Marshall, Men Against Fire, New York, 1966, p. 78. 16 Vedi cap. I l i, La personalità difensiva. 17 E. Jiinger, Feuer und Blut, Magdeburg, 1925, p. 18. 18 R. Abrahams, R ituals in Culture, inedito, p. 19, Austin, Univer­

sity of Texas. 19 C. E. Carrington, Some Soldiers, in G. A. Panichas (a cura di), Promise of Greatness. The War of 1914-18, New York, 1968, p. 157. 20 C. Edmunds (speudonimo di C. E. Carrington), Soldiers from thè Wars Returning, London, 1965, p. 250. 21 M. Eliade, Rites and Symhols of Initiation, New York-EvanstonSan Francisco-London, 1958, cap. V: Heroic and Shamanic Initiations; 55

La struttura dell’esperienza di guerra

traci, it., Nascita mistica. Riti e simboli d1iniziazione, Brescia, Morcellia­ na, 19802, cap. V: Iniziazioni militari e iniziazioni sciamaniche. _ i 22 -S* Turney-High, Primitive War: Its Fradice and Concepts, Columbia (S.C.), 1949. 23 G. Dumézil, The Destiny of thè Warrior, Chicago-London, 1969, p. 40; trad. it., Ventura e sventura del guerriero, Torino, Rosemberg & Sellier, 1974, pp. 29-30. 34 A. Van Gennep, Les rites de passage, Paris, 1909; trad. it., I riti di passaggio, Torino, Boringhieri, 1981, pp. 33-34. 25 C. Edmunds (C. E. Carrington), Soldiers from thè Wars Returning, cit., p. 87. 26 V. Tumer, From Uminal to Liminoid in Play, Flow and Ritual: An Essay in Comparative Symbology, in The Anthropological Study of Human Play, «R ice University Studies», L X (1974), n. 31, p. 57. 27 G. Baumer, Lebensweg durch eine Zeitwende, Tùbingen, 1933, p. 280. 28 C. Zuckmayer, Als war ein Stùck von Mir, Wien, 1936, p. 221. 29 V. Tumer, Betwixt and Between: The Uminal Period in Rites de Passage, Warner Modular Publication, Reprint 772; vedi anche V. Turner, Forest of Symhols, Ithaca-London, 1973, cap. IV, p. 99; trad. it., La foresta dei simboli, Brescia, Morcelliana, 1976, p. 126. 30 Ibidem, p. 7; trad. it. dt., p. 127. 31 M. Douglas, Purity and Pianger. Art Analysis of Concepts of Pollution and Tahoo, New York-Washington, 1963, p. 36; trad. it., Purezza e pericolo, Bologna, Il Mulino, 1975, p. 66. 32 F. C. Bartlett, Psychology and thè Soldier, Cambridge, 1927, p. 176. 33 W .H. R. Rivers, The Repression of War Experience, in «Lancet», I (1918), n. 1, p. 173. 34 R. Michaels, Briefe eine Hauptmanns an seinen Sohn, Berlin, 1916, p. 69. 35 S. L. A. Marshall, op. cit., p. 45. 36 H. Massis, in G .A . Panichas, (a cura di), op. cit., p. 282. 37 Ibidem. 38 L. Housman (a cura di), op. cit., p. 60. 39 E. Lussu, Un anno sull’Altipiano, Torino, Einaudi, 1966, p. 157. 40 S. Freud, Il perturbante (1919), in Opere, voi. IX: 1917-1923. L ’io e l’es e altri scritti, Torino, Boringhieri, 1977, pp. 76-118. [Il termine tedesco unheimlich viene tradotto in inglese da Leed con uncanny. Noi abbiamo scelto la traduzione italiana adottata relativamente al celebre saggio di Freud nelle Opere edite da Boringhieri. Il termine perturbante non è certamente esaustivo, e riteniamo opportuno citare la constatazione dello stesso Freud secondo il quale, rispetto alla tradudbilità dal tedesco, «Pitaliano sembra accontentarsi di parole che definiremmo piuttosto circonlocuzioni», nonché la nota relativa a questo passo dell’editore italia­ no (ibidem, p. 83): «In effetti traducendo con perturbante l’aggettivo tedesco unheimlich d rendiamo conto che il termine italiano non corrisponde perfettamente a quello tedesco, in larga misura intraducibile

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La struttura dell'esperienza di guerra

nella nostra lingua. Unheimlich potrebbe essere reso volta a volta con inquietante, lugubre, sinistro, non confortevole, sospetto, ambiguo, infi­ do, e designa comunque ima sensazione di insicurezza, inquietudine, turbamento o disagio, suscitato da cose, eventi, situazioni o persone». N.d.T.l. 41 Ph. Witkop (a cura di), op. cit., p. 210. 42 S. Sassoon, Memoirs of George Sherston (contenente Memoirs of a Fox-Hunting Man, Memoirs of an Infantry Officer e Sherstoris Progress), New York, 1937, p. 373. 43 C. Zuckmayer, op. cit., p. 213. 44 E. Simmel, Kriegsneurosen und Psycbisches Trauma, Mùnchen, 1918, p. 10. 45 P. Grasset, The Psychoneuroses of War, in «Medicai Press and Circular», CL (1915), p. 562. 46 E. E. Southard, Shell-Shock and Other Neuro-Psychiatric Problems Presented in Five Hundred and Eighty-nine Case-Histories, Bo­ ston, 1919, p. 250. 47 V. Tumer, From Liminal to Liminoid. . dt., p. 57. 48 S. de Beauvoir, Mémoires d’une jeune fille rangée, Paris, 1958; trad. it., Memorie di una ragazza perbene, Torino, Einaudi, 19697, p. 186. 49 J. Keegan, The Face of thè Battle, New York, 1976, p. 221; trad. it., Il volto della battaglia, Milano, Mondadori, 1981. 50 V. Tumer, Betwixt and Between. dt., p. 9. 51 J. Masters, The Ravi Lancers, New York, 1973. 52 T. E. Lawrence, The Mint, New York, 1963, p. 32. 53 Citato in I. Willis, England's Holy War, New York, 1928, p. 145. 54 Ibidem, p. 148. 55 Citato in J. Keegan, op. cit., p. 276. 56 Ibidem, p. 221. 57 C. Zuckmayer, Pro Domo, Stockholm, 1938, p. 42. 58 D. Jones, In Parenthesis, New York, 1961, p. x. 59 V. Tumer, From Liminal to Liminoid . .. , dt., p. 73. 60 V. T u m er, Betwxit and Between . . d t., p. 17. 61 Ph. Witkop (a cura di), op. cit., p. 100. 62 Citato in H. Hafkesbrink, Unknown Germany. An Inner Chronicle of thè First World War Based on Letters and Diaries, New Haven, 1948, pp. 65-66. 63 Cfr. J.N . Cru, Temoins. Essai d’Analyse et de Critique des Souvenirs de Combattants Edités en Franqais de 1915 à 1928, Paris, 1928, p. 140. 64 D. Jones, op. cit., p. x. 65 F. Dessauer, Streit um der Technik, Frankfurt a/M., 1956 (rist.), p. 26; trad. it., La filosofia della tecnica, Brescia, Morcelliana, 1933, p. 53.

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La struttura dell’esperienza di guerra

66 V. Turner, Betwixt and Between. . . , dt., p. 5. 67 H. de Man, The Remaking of a Mind. A Soldier’s Thoughts on War and Reconstruction, London, 1919, p. 178. 68 Ibidem. 69 R. Bdnding, A Fatalist at War, Boston-New York, 1929, p. 61. 70 K. Marx, Das Kapital, Erstes Band, in K. Marx, F. Engels, Werke, Berlin, Dieta Verlag, 1956 ss., 44 voli., voi. XXIII; trad. it., Il capitale, Roma, Editori Riuniti, 1970, 3 voli., voi. I, p. 424. 71 Ibidem; trad it. dt., p. 402. 72 P. Ricoeur, The Model of thè Text: Meaningful Action Considered as a Text, in «New Literary History», V (1973), n. 1, p. 98. 73 S. Ferenczi, Vber zwei Typen der Kriegsneurosen, in «Int. Zeitschrift f. àrtztliche Psychoanalyse», IV (1916-1917), pp. 131-145. 74 W. Beumelberg, Sperrfeuer uber Deutschland, Oldenberg, 1929, p. 171.

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Capitolo secondo

La comunità d’agosto e la fuga dal m od ern o

La logica comunitaria nel 1914 Per tantissimi, l’agosto del 1914 rappresentò l ’ultima grande incarnazione del «popolo» come entità morale uni­ taria. I giorni d’agosto sarebbero stati universalmente ri­ c o rd a ti co m e q u e lli « v is s u t i p iù p ro fo n d a m e n te » n elle v i­

te individuali dei partecipanti alla guerra, e comunque della generazione di guerra: giorni che non sarebbero mai stati dimenticati, né che si sarebbero più ripetuti. Il senso comunitario che spinse le folle nelle strade delle città d ’Europa e legò gente fino allora completamente estranea con una sorta di magica coesione, ben di rado aveva un movente intellettuale. Per molti, come per Cari Zuckmayer, questa comunità era una presenza fisica e mora­ le nell’ambito della quale ogni individualità si trovava a confrontarsi con la propria appartenenza ad una moltitudine umana: «Io ho fatto esperienza di una tale condizione fisica e morale di euforia e luminosità due o tre volte da allora . . . Ma mai con la stessa intensità, o con uguale impressione» \ In modo incredibilmente unanime presso­ ché tutte le descrizioni dell’agosto 1914 cominciano con «Non potrò mai dimenticare . . . » e terminano con «non potrà mai più accadere . . .». Non potremo mai, noi, generazione che ha vissuto il 1914, dimenticare quegli ultimi giorni di lu g lio . . . Qualcuno potrà forse dimenticare ciò che avvenne in segu ito. . . ma quegli ultimi giorni e quelle ultime notti, la gioia sfrenata che traboccava dal succe­ dersi accelerato degli eventi, sono indimenticabili2.

Era difficile per i contemporanei scorgere la logica, i presupposti, e il sostrato culturale che stavano dietro a quell’entusiasmo per la guerra: l ’estrema intensità e Pu59

La comunità d'agosto e la fuga dal moderno

niversalità del sentimento parevano dissolvere qualsiasi possibilità di comprensione. Agosto fu una celebrazione della comunità, una festa, e non qualcosa da comprendersi razionalmente. E di fatto molti insistettero che agosto 1914 fosse essenzialmente un’esplosione di irrazionalità, una follia, o una illusione di massa. Magnus Hirschfeld scrisse: Fu un’esplosione di follia che infuriò per le strade, un’esplo­ sione che non era del tutto senza precedenti, ma che non era comunque mai divampata in dimensioni e violenza del genere3.

L ’unica logica che Hirschfeld colse nell’esplosione di entusiasmo per la guerra fu la logica della compressione e della liberazione istintuale: «Fu la scarica di tensioni ac­ cumulate per anni e anni. Ognuno soffriva sotto un in­ sopportabile fardello . . . di cui riuscì a sbarazzarsi allo scoppio della guerra» 4. Per quanto si mostri più benevo­ lo di Hirschfeld nei confronti dell’entusiasmo per la guer­ ra, W. M. Maxwell concorda che sarebbe futile cercare di spiegare l’entusiasmo degli inglesi in agosto: «Anche quando tentiamo di razionalizzare la questione, ci rimane l’impressione che il raziocinio abbia avuto ben poco a che fare con essa» 5. Gertrude Bàumer sentì che sia lei stessa sia la n azio n e eran o co m e trasfigurate dalla dichiarazione di guerra, e che questa trasfigurazione sfidava ogni possi­ bilità espressiva del linguaggio. Era insomma qualcosa che poteva essere sentito e vissuto ma non compreso o de­ scritto. Il truffo da un mondo noto in uno completamente diverso non può essere descritto. Semplicemente non esistono parole o imma­ gini adeguate a rappresentare la sensazione di avere debordato dal canale solcato per decenni, la coscienza di essere catapultati verso un destino imponderabile. Non esistono espressioni idonee a signi­ ficare questa pausa fra due ordinamenti diversi — lo sfumare di qualsiasi cosa importante fino a ieri, e l ’imporsi di nuove forze storiche. In quelle chiare notti d ’estate divenimmo «terreno di battaglia fra due epoche»6.

Ma è significativo che, pur nel negare qualsiasi razio­ 60

La comunità d'agosto e la fuga dal moderno

nalità o anche descrivibilità all’esperienza di agosto, sia Hirschfeld sia la Bàumer individuano il tema che diede coerenza a quei giorni: la guerra fu vista in opposizione assoluta alla vita sociale e come antipodo alla normale esistenza nella moderna società industriale. L ’assunzione di questa polarità fra guerra e pace permise ai contempo­ ranei di sentire la dichiarazione di guerra come il momen­ to di passaggio da una vita normale, familiare, ad un’esi­ stenza alternativa, differente in modo essenziale dalla so­ cietà borghese. In generale si percepiva che, con la di­ chiarazione di guerra, i popoli delle nazioni europee avrebbero lasciato alle spalle la civiltà industriale con i suoi problemi e conflitti per entrare in un universo d ’a­ zione dominato dall’autorità, dalla disciplina, dal camera­ tismo, e da fini comuni. Questa polarità fra guerra e vita sociale strutturò l ’esperienza d ’agosto, dando al passaggio fra pace e guerra il suo caratteristico significato: fu una polarità destinata ad influire nel modo più intenso sul sentimento di esperienza comunitaria, e attraverso la qua­ le si formò l’immagine di ciò che la guerra dovette essere e significare per i partecipanti. Non è esagerato affermare che questa polarità avesse profonde radici culturali nella stessa società moderna eu­ ropea. Molti antropologi europei constatarono con una certa sorpresa che l ’antitesi suddetta fra guerra e vita sociale non è universale nella cultura umana: l ’in tegrazione di guerra, commercio, e normale vita sociale nelle so­ cietà «primitive» era da tempo fonte di osservazione da parte degli europei, e in contrasto aperto con le loro idee i loro presupposti in proposito. Roger Caillois non fa che ricapitolare quello che era ormai un contrasto assodato, quando nota che le guerre nella società primitiva . . . mancano di eccezionalità e grandezza. Le guerre sono semplici intermezzi, spedizioni di caccia, razzia o vendetta. Esse rappresentano uno stato permanente strutturale: senza dubbio costituiscono un’occupazione pericolosa, ma la continuità le priva di qualsiasi connotato di eccezionalità7.

Endemica, la guerra primitiva, con il suo basso livello 61

La comunità d'agosto e la fuga dal moderno

di violenza, non poteva essere vista come un’attività al di fuori del normale. Sovente, le convenzioni che tramite il commercio e la guerra regolavano le relazioni fra gruppi sociali diversi apparivano intercambiabili, e talvolta iden­ tiche 8. L ’annoso assedio degli antichi russi su Costanti­ nopoli, forse la città meglio fortificata del mondo nei se c o li n o n o e d e c im o , n o n fe c e che c o n fe rm a re , n e i te r­

mini di pace, i privilegi russi nel commercio di pellicce, miele, e schiavi per l’economia bizantina. In questo caso le forme di guerra e tributo dissimulavano convenzional­ mente il fatto concreto dello scambio economico9. Que­ sta integrazione di guerra e scambio economico, di guerra e normale vita sociale nelle società pre-industriali, con­ trastava con il quadro che gli antropologi europei delinea­ rono della propria cultura, una cultura in cui l’antitesi fra guerra e vita sociale era sostanzialmente implicita. Questa antitesi fu alla base dei temi dominanti della esperienza d’agosto: l’esperienza della comunità e la fuga da tutto ciò che era connesso alla nozione di moderna società industriale. L ’esperienza comunitaria fu dominata dalla sensazione che la guerra alterasse le relazioni fra uomini e classi sociali; e, lo g ic a m e n te , n e ll’ac c a n to n a te il mondo sociale strutturato in base alla ricchezza, allo sta­ tus, alla professione, all’età, al sesso, si diede per scontato che anche i singoli individui fossero mutati. Come scrisse Walter Scheller, teologo ed umanista che partecipò di cuore all’entusiasmo generale per la guerra: «La mia pri­ ma impressione fu che la guerra cambiasse gli uomini, tanto quanto le relazioni fra di essi» 10. La folla che Stefa n Z w e ig o sse rv a v a n e lle str a d e d i V ie n n a n o n e ra p iù

una minacciosa «plebaglia» antisemita, né una non meglio identificata «massa» pronta a scaricare i propri irrazionali e violenti impulsi contro i «diversi», o gli «stranieri». Con la guerra la moltitudine era diventata una presenza morale, l’incarnazione della solidarietà nazionale. La spes­ so citata descrizione di Zweig delle folle mobilitate dalla guerra riunisce molti particolari del senso comunitario d e ll’a g o sto 1 9 1 4 .

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La comunità d'agosto e la fuga dal moderno C e n tin aia d i m ig liaia di persone sentivano allora come non mai quel che esse avrebbero dovuto sentire in pace, di appartene­ re cioè ad una grande unità. Una città di due milioni di abitanti, un paese di quasi cinquanta milioni, capirono in quell’ora di partecipare alla storia del mondo, di vivere un istante unico, nel quale ciascun individuo era chiamato a gettare nella grande massa ardente il suo io piccolo e meschino per purificarsi da ogni egoismo. Tutte le differenze di classe, di lingua, di religione erano in quel momento g ran d io so som m erse d alla gran d e corren te d e lla fraternità. Estranei si rivolgevano amichevolmente la parola per strada, gente che si era evitata per anni si porgeva la mano, dovunque non si vedevano che volti fe rv id am e n te animati. Cia­ scun individuo assisteva ad un ampliamento del proprio io, non era cioè più una persona isolata, ma si sapeva inserito in una massa, faceva parte del popolo, e la sua persona trascurabile aveva acquisito una ragion d ’essere11.

Due particolari della descrizione di Zweig meritano di essere sottolineati. Primo, tutte le «differenze di classe, di lingua, di religione», non furono né superate né abolite ma semplicemente messe a lato, poste momentaneamente in sottordine dal dirompente sentimento di fratellanza e dal dilagante nazionalismo. Nessuno, e tanto meno Stefan Zweig, credeva che la struttura di classe fosse in qualsiasi modo ridefinita grazie alla esplosione di sentimento che colpì gli abitanti di Vienna, permettendo loro di dimenti­ care i reciproci difetti e colpe e di stringersi la mano dopo anni di silenzio e indifferenza. Il povero non diven­ tava più ricco, né il ricco più povero, grazie alla dichiara­ zione di guerra, anche se il sentimento comunitario fu nondimeno reale: quella struttura di differenti posizioni di classe che normalmente avrebbe indotto qualsiasi os­ servatore ad interpretare il dilagare delle folle come una minaccia all’ordine costituito, o ad una determinata mino­ ranza, ora era semplicemente messa da parte. Secondo, il momentaneo accantonamento delle differenze di classe permette a Zweig di abbandonare le proprie difese, il proprio ego, e il senso di isolamento sociale; a Berlino Marianne Weber prova la stessa sensazione: «Non siamo più ciò che siamo stati per tanto tempo: individui so­ li» 12. È ovvio che il senso comunitario che Zweig esperì a Vienna e Marianne Weber constatò a Berlino non aveva 63

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nulla a che fare con una nuova solidarietà, con il rove­ sciamento dell’ordine stabilito, o con una ridefinizione di status: esso rappresentava piuttosto il prodotto dell’appa­ rente rimozione di distinzioni di classe e coscienza che si pensava avessero impedito fino allora la libera espressione di qualcosa di «naturale», di originario. La rigidità dello status e della collocazione sociale di ognuno, anche se non lo status in sé, parve sostituita da rapporti completamente diversi. Sarebbe erroneo sostenere che sostanzialmente la cosiddetta eguaglianza sociale dell’agosto 1914 fosse un’«impostura» e che nulla mutò realmente: la dichiara­ zione di guerra mutò l’angolo prospettico dal quale gli individui erano soliti guardarsi, e ciò produsse sentimenti d ’eguaglianza che è impossibile disconoscere. Binding in­ siste che nell’agosto gli uomini . .. erano eguali. Nessuno desiderava essere considerato più di un altro. Nelle strade e per i viali gli uomini si guardavano l’un l'altro negli occhi leggendovi il reciproco sentimento di comunitarietà. Il dottore, il giudice, l ’operaio, l ’artig ian o . . . co n d iv id ev an o gli stessi ob bligh i. . . Nessuno brontolava. Gli uomini più scostan­ ti erano diventati amichevoli e ben disposti. Nessuno si sentiva inutile o superfluo: era come nascere una seconda v o lta 13. La comunità d’agosto fu esperita come comunità nel senso che attribuisce Martin Buber ad una nuova, sponta­ nea relazione fra l’«io» e il «tu». È una questione di feeling piuttosto che una riorganizzazione di un nuovo orientamento delle istituzioni pubbliche, è il sentimento di vivere non più fianco a fianco (e, si potrebbe aggiungere, sopra e sotto) di una moltitudine di persone, ma Tessere Timo con l'altro. E questa moltitudine, pur muovendosi verso un obiettivo, tuttavia speri­ menta dappertutto un volgersi a, un dinamico star di fronte degli altri, un fluire dall'Io al Tu. L a comunità è là dove si fa evento la comunità 14.

La comunità di agosto può essere identificata con quel tipo di comunità che Victor Turner ha definito communi tas «esistenziale» o «spontanea», un tipo peculiare degli stati di transizione e di passaggio 15. -

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Le descrizioni deiregualitarismo che caratterizzarono le relazioni sociali durante le giornate d ’agosto rafforzarono Pimpressione che quella comunità fosse il prodotto di un movimento strutturale, un ampliarsi delPorizzonte delle aspettative, ma non un mutamento di condizioni psichiche o sociali. La comunità dell’agosto 1914 fu un prodotto secondario di sommovimenti nell’ambito degli ingranaggi istituzionali: e in questo sommovimento divennero perce­ pibili e si palesarono certe aspirazioni e desideri abitual­ mente soffocati nella monotonia della vita quotidiana. Soprattutto divenne manifesto un intenso malcontento di fondo — particolarmente in Germania — nei confronti delle istituzioni che organizzavano, incasellavano, frazio­ navano gli individui in classi e condizioni disparate. In tutti i paesi belligeranti venne generalmente perce­ pito che agosto ponesse termine ai conflitti sociali e can­ cellasse la repulsione morale alla promiscuità sociale, fra classi diverse. Edith Wharton parla con profondo sollievo del mescolarsi fra borghesia e «classi pericolose» a Parigi negli ultimi giorni di luglio 1914. Solo due giorni orsono i parigini stavano conducendo migliaia di esistenze diverse nella più completa indifferenza o in pieno antagonismo gli uni con gli altri, estranei tanto quanto nemici al di là della fron tiera. . . Ora si affollano abbracciandosi in un istintivo anelito di comunità nazionale 16.

La dichiarazione di guerra istituì un’unanimità di de­ stino e un’anonimità d’obbligazione in cui parve che le convenzioni di classe sociale non dovessero più identifica­ re i singoli individui. Era comunemente percepito che la guerra superasse i limiti dell’individualità e del privato rendendo così possibile una socievolezza più intensa e immediata. Un articolo che apparve sulla stampa unghere­ se metteva in guardia le donne di Budapest contro i peri­ coli dell’eccessiva socialità. Durante le settimane della grande eccitazione collettiva, e nei mesi seguenti, le donne sono precipitate in un febbrile entusiasmo passionale . . . come se il peso dei legami e delle responsabilità sociali ed economiche fosse improvvisamente rovesciato. . . In

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nessun’altra epoca le donne sono incorse in tanti errori e peccati quanto in questo autunno di febbre di massa 17.

Le minacce poste dalla guerra alla castità delle donne rispettabili e il potere d ’attrazione sessuale dell’uniforme furono temi affrontati e sfruttati in continuazione dalla stampa del tempo di guerra. L ’uniforme rendeva gli uo­ mini anonimi e pubblici, e si temeva che le donne nel cedere al loro fascino fossero convinte di adempiere ad un dovere patriottico, e comunque di non commettere il pec­ cato connesso al concedersi sessualmente ad un «indivi­ duo privato» 18. I servizi di infermeria, le possibilità d ’oc­ cupazione prima inconsuete che ora si aprivano alle don­ ne, le organizzazioni paramilitari di soccorso, e altre atti­ vità create dalle contingenze di guerra per le donne, per­ misero al sesso femminile una vasta gamma di vie d’uscita dalle limitazioni della vita familiare privata. Le donne, al pari degli uomini, esperirono con l’apertura delle ostilità il collasso delle collaudate e tradizionali distinzioni fra il mondo «economico» pubblico e il mondo privato dei sen­ timenti; la percezione di questo collasso permise un arco di contatti ed esperienze personali che sarebbe stato im­ pensabile nella loro precedente vita sociale dominata dalla rigida gerarchia di status. L ’analogia più calzante con l’agosto del 1914 non sta nel rovesciamento rivoluzionario dell’ordine costituito, bensì nel disordine o rovesciamento momentaneo di sta­ tus sociale che ha luogo nelle feste. Quando equipara la guerra moderna alle feste pre-moderne, Roger Caillois ha forse in mente proprio l’esperienza dell’agosto 1914. La festa sradica il singolo individuo dal «suo privato e dal suo mondo personale o familiare»; sia la guerra sia le antiche feste . . . inaugurano un periodo di vigorosa socializzazione, un periodo in cui strumenti di lavoro, risorse e poteri vengono messi in comune. Esse spezzano l’abituale divisione degli individui nei più svariati campi di occupazione . . . Per questa ragione, nella società moderna la guerra rappresenta un momento unico di concentra­ zione e di intenso assorbimento nel gruppo di qualsiasi cosa tenda ordinariamente ad assumere una sua specifica indipendenza19.

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Ci sono ovvie differenze fra l ’imprevedibile evento di una guerra e le feste periodiche, previste: eppure l’equi­ parazione di Caillois è basata sull’osservazione che sia la guerra sia le feste siano paradigmi d ’esperienza collettiva che si attua al di fuori, o fra, i distinti livelli di status sociale nei quali gli individui generalmente vivono. Sia la guerra sia le feste organizzano un consumo di risorse su scala «non-economica», entrambe sono «orge del dispen­ dio» che scavalcano i canali legali convenzionali tramite i quali i beni e gli affetti vengono distribuiti. Entrambe sono bene accolte come vie d ’uscita dal privato e possibi­ lità di tuffo in una sfera di rapporti umani non mediati. È facile cogliere le analogie fra l’entusiasmo dell’agosto 1914 e la festa degli indiani Holi, la «festa dell’amore» di cui fu spettatore il professor McKim Marriott. A questo punto i tanti e diversi costumi sessuali di villaggio

si confusero . . . debordando all’improvviso dai loro usuali e ben definiti limiti con un simultaneo incremento d'intensità. Senza limite alcuno, pratiche sessuali d ’ogni tipo presero il posto delle abituali compartimentazioni e differenze fra caste e famiglie sepa­ rate; una libido sfrenata inondò tutte le gerarchie consolidate per età, sesso, casta, ricchezza e potere20.

Molti descrissero l’inizio della guerra negli stessi ter­ mini, e molti assunsero un atteggiamento ambivalente nei confronti di questa «incomprensibile esplosione d’amore» che legava gente dapprima tanto estranea. Certo, si pote­ va esultare, se ne poteva godere, e tuttavia il debordare della intimità oltre le istituzioni conviviali, familiari, pri­ vate, appariva — alla seconda coscienza, che rimaneva «rispettabile» — una mancanza di buon gusto, una com­ promettente promiscuità. Zuckmayer ammise di riconosce­ re in questa epifania del sentimento comunitario qualcosa di «patologico, come in tutto ciò che caratterizza le più profonde crisi dell’anima o dell’esperienza, prime fra tutte quelle dell’amore e dell’arte» 21. Per quanto li consideri più alla stregua di patologie individuali che come revival di convenzioni tradizionali, Magnus Hirschfeld cita molti esempi dell’uso dell’unifor­ 67

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me come travestimento, come oggetto sessuale, come espediente per il rovesciamento dei ruoli22. Le donne che, cucitasi un’uniforme su misura, se ne partivano per il fronte comportandovisi valorosamente, rappresentarono un tema usuale per la stampa del tempo di guerra; Hirschfeld cita il caso di una donna di estrazione aristocratica che appariva regolarmente in pubblico in uniforme da ufficiale confezionata su misura. Le donne, in particolare, «reagirono all’esperienza di guerra con un potente incre­ mento della libido» a , per quanto questa libido si fissasse su simboli significanti l’uniformazione dei ruoli: le bande colorate sui pantaloni da ufficiale, le uniformi da marina, gli scarponi chiodati da marcia, bastoni, pistole, e così via. Hirschfeld riporta che alcune delle sue pazienti so­ stenevano come la loro passione per i mariti diminuisse bruscamente quando essi apparivano in abiti civili, di nuovo abbigliati cioè in quei panni che significavano il ripristino dei consueti ruoli domestici. William Maxwell riconosce che la celebrazione delPagosto ruppe gli argini dell’ordine: «C ’era una grande dose di follia in tutto ciò» 24. Ma sarebbe un errore considera­ re la celebrazione del disordine come un’esplosione di «sfrenata libido», dal momento che quella stessa celebra­ zione si fissò di fatto su rappresentazioni di Gleichgestaltung\ le uniformi, e altri simboli di un ordine assolutamente formale e convenzionale. Non si può quindi evitare la conclusione secondo cui l’entusiasmo per la guerra fu in gran parte alimentato dalla ricerca di vie d ’uscita dal privato; questo appare evidente dal resoconto di Zweig dei propri sentimenti, in quel suo percepire di non essere più «la persona isolata, sola, del passato», e in quella sua intensa gioia nel sentire di partecipare come «infinitesima parte» della grande massa. Ciò che spinse tanti nelle stra­ de e negli uffici di reclutamento, sulle piazze d ’armi e nei c o rtili d e lle c ase rm e , fu p re c isa m e n te il desiderio di sba­ razzarsi di una troppo angusta e soffocante identità. Per quanto dunque la trasfigurazione della società e degli individui risultasse effimera, per quanto velocemen­ te si dissolvessero le emozioni dell’agosto nella terrifican­ 68

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te normalità della guerra tecnologizzata, non si può dubi­ tare che agosto permise ai partecipanti di percepire se stessi, e gli uni rispetto agli altri, in un modo irripetibile. Nel tentare di spiegare questa esperienza inedita, i con­ temporanei attinsero a tutto un repertorio di opposizioni: tempo storico e temporalità astorica; società e comunità; esperienza differenziata, mediata, ed esperienza totale, di­ retta; vita «tecnologicizzata» e vita bucolica. Queste op­ posizioni erano profondamente tradizionali e convenziona­ li. In base ad esse pareva inopportuno e ingiusto misurare il significato dell’esperienza d ’agosto con il metro della durata storica, e così la guerra, al pari della rivoluzione, diventava un evento che proiettava i partecipanti al di là del tempo strutturato cronologicamente; nelle parole di Rilke, entrando in guerra i popoli delle nazioni europee erano usciti dal tempo e vivevano in un momento in cui «il passato rimane indietro, il futuro esita, il presente poggia sul nulla» 25. La sensazione di vivere un processo, di vivere in un interregnum senza una precisa struttura, anziché in un luo­ go definito, fu una costante dell’esperienza d’agosto. Proprio il carattere amorfo di questo momento intensificò aspettative e curiosità, così come permise contatti senza precedenti fra diversi livelli sociali e classi distinte. Nel dicembre del 1914, Thomas Mann scriveva all’amico Ri­ chard Dehmel che combatteva sul fronte orientale: «Ci si chiede cosa accadrà quando tutto sarà finito. L ’ansia e la curiosità sono tremende, eppure si tratta di un’eccitante curiosità, non è forse vero? È come percepire che tutto uscirà rinnovato da questa profonda, possente visitazio­ ne . . . » 2Ó. Mann dunque condivideva la pressoché univer­ sale convinzione che la guerra avrebbe portato enormi cambiamenti, che avrebbe generato qualcosa di «nuovo». Raramente veniva specificato questo cambiamento, e si può notare come ciò sia caratteristico dell’esperienza di occupazione cosciente di un momento di transizione, un periodo «liminare» fra un passato concreto e un futuro che ancora non si è rivelato in alcun particolare. Friedrich Meinecke, in un suo passo spesso citato, connette l’ef­ 69

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fimero del momento alle sperarne per un «mutamento» generalizzato. L ’entusiasmo dei giorni d ’agosto 1914 costituisce per tutti

coloro che li hanno vissuti un elemento di altissimo valore, degno di perenne ricordo, e ciò malgrado fosse cosa effim era. . . Oltre a

ciò si sentiva in ogni campo che non era più sufficiente quel tanto d ’unità che derivava aveva bisogno per la vita un rinnovamento interiore. già avesse avuto inizio e esperienza della guerra27.

da un’unione coatta, ma che invece si culturale e politica nel suo insieme di Da varie parti anzi si pensava che esso che sarebbe progredito nella comune

La percezione di stare vivendo un momento di transi­ zione prevale nell’anelito comunitario dell’agosto. Non sa­ rebbe corretto parlare della guerra come spartiacque di un subitaneo passaggio da uno stato, o condizione, di vita a un altro; come sottolineano Rilke, Mann, e altri, ciò che apparve talmente liberatorio e, in ultima analisi, paraliz­ zante, circa la guerra, fu la sensazione di «precarietà», la sensazione di vivere un momento indefinibile, uno stato indecifrabile. Con Papertura delle ostilità parve come se le strutture della vita sociale si dissolvessero, si fluidifi­ cassero: e questo permise la mescolanza di ruoli, carriere, esistenze distinte, una confusione che, prima della guerra, sarebbe stata considerata un’intollerabile promiscuità. Una metafora ricorrente, e significativa, nelle descri­ zioni dell’agosto è quella di fluidità e flusso. La Bàumer e altri parlano di «torrenzialità» degli eventi, di «corren­ ti» di sentimento, di «straripamento» dei canali istituzio­ nali e della «dissoluzione» nel comune processo di transi­ zio n e. « Q u a n d o la p re ssio n e d e l la v o ro p ra tic o , o rg a n iz za­

tivo diminuiva, ci rendevamo conto della grande corrente in cui noi — semplici gocce — confluivamo insieme» 28. Questa metafora idrodinamica viene impiegata con grande efficacia da Cari Zuckmayer nella descrizione del suo ar­ rivo in Germania dopo che la crisi di luglio ebbe interrot­ to le sue vacanze sulla costa olandese. Qui la corrente che unifica i più disparati frammenti d ’umanità — i viaggia­ tori nella stazione d i Colonia — è una vera e propria 70

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scarica elettrica che dissipa la paura di Zuckmayer per la guerra. Allora, sotto renorme stazione di Colonia rimbombante di canzoni, passi di marcia, grida dei viaggiatori accalcati nella fredda e tersa luce del mattino, fui attraversato da qualcosa, non proprio come un’alterazione, ma come rirradiazione di una corrente di elet­ tricità cosmica che dissipò quel vago senso di nausea che avevo in gola e nello stomaco, salì al cervello e comunicò bagliori accecanti dalla testa al cuore. Essa traspose tanto il mio corpo quanto la mia anima in uno stato di trance, intensificando enormemente il mio amore per la vita, in una gioia di partecipazione, di vivere-insieme-con, una sensazione addirittura di grazia29.

Treni e stazioni ferroviarie furono luogo di moltissime conversioni all’entusiasmo d ’agosto, conversioni invaria­ bilmente definite come una «resa» al flusso di sentimento quasi palpabile. Questo luogo, al pari delle strade, simbo­ leggiava per definizione la separazione dei viaggiatori, tut­ ti presi nella fretta delle loro ben diverse destinazioni; ma ora proprio i treni, le stazioni, le strade, rappresenta­ vano i canali del movimento di tante esistenze individuali separate verso un’unica, unificata direzione, verso la guer­ ra. La conversione di Ernst Glàser all’entusiasmo genera­ le fu subitanea quanto quella di Zuckmayer. Egli fu ini­ zialmente infastidito dalla minaccia di guerra, in quanto ciò lo c o strin se ad in te rro m p e re u n a v a ca n za in S v izze ra e un’interessante amicizia che stava germogliando con un ragazzo francese. Ma Glàser, ventenne nel 1914, si vide costretto ad aderire all’entusiasmo generale, abbandonan­ do ogni resistenza e partecipando a quella che Rilke chiamò l’improvvisa apertura di un «cuore universale»: «Fui stordito da questa incomprensibile ondata d ’amo­ re . . . Il mondo era trasfigurato. La guerra aveva reso tutto stupendo» 30. Il suo treno attraversò la frontiera entrando in Germania, e i passeggeri sperimentarono quell’intima coesione che faceva sembrare tutto «comple­ tamente nuovo». Questa sequenza di iniziale resistenza e successiva ca­ pitolazione nei confronti dello straripante flusso emotivo può essere rilevata in moltissime esperienze dell’agosto 71

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1914. Una descrizione particolarmente significativa di re­ sistenza e resa è quella di Conrad Haenisch — un so­ cialdemocratico che aveva modellato la propria identità in opposizione alla società capitalistica — per il costo emo­ tivo particolarmente elevato che comportò per lui. Hae­ nisch visse consapevolmente le tensioni fra «Pardente de­ siderio di tuffarsi nella possente corrente del nazionalismo montante» 31 e l’orrore di tradire la propria posizione eti­ ca contraria ad ogni compromesso con la classe dominan­ te. La minaccia di guerra sollevò questo tipo di conflitto in modo tormentoso; ma significativamente, la dichiara­ zione di guerra risolse la contraddizione fra cuore e cer­ vello relegando irrevocabilmente il dilemma morale della partecipazione nello «stato» che ci si era lasciati alle spal­ le. Improvvisamente — non potrò mai dimenticare quel giorno e quelTora — la terribile tensione fu risolta: finalmente si osava essere ciò che si era; finalmente — in barba a tutti i più fermi principi e legnose, rigide teorie — si poteva, per la prima volta in quasi un quarto di secolo, riunirsi di cuore, con la coscienza alleggerita e senza tema di passar per traditori, tutti insieme a cantare il travolgente e commovente inno: « Deutscbland, Deutschland, iiber alles» 32.

1 Nella sua resa alla corrente emotiva nazionalistica, Haenisch non pare molto consapevole di stare adeguando­ si a quello che era un fait accompli — la dichiarazione di guerra: il dilemma politico e morale fu si messo da parte, ma non per il fatto di abbandonare dei principi, bensì per lo stesso arrendersi ad una situazione in cui quei principi erano percepiti ormai come irrilevanti, come «legnose» teorie. Qualcosa di più del senso di innocenza 0 di colpevolezza permise a Haenisch di credere, votando 1 crediti di guerra con gli altri socialdemocratici, che la guerra avesse ormai accantonato la struttura di classe, identificabile nell’ineguaglianza, ingiustizia e sfruttamento sociali. Infatti ora l’interesse materiale — autentico mo­ tore del comportamento individuale nella società capitali­ stica — non parve più stare alla base delle motivazioni individuali, e i maggiori ostacoli alla resa dell’io furono 72

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vanificati, dissolti, dalla dichiarazione di comunità. Dalla conversione di Haenisch all’entusiasmo per la guerra si desume che, nonostante il suo cosciente antagonismo nei confronti della società borghese, egli condivideva uno degli essenziali presupposti di quel mondo: l ’antitesi fra guerra e vita sociale. Forse proprio il fatto che questo presupposto fosse condiviso da gruppi politici e sociali antagonisti rese possibile la mobilitazione della nazione, e fa sì che si possa parlare dell’Europa del 1914 come di una cultura. Con una diffusa ironia, ma in termini comunque analo­ ghi, Jules Romains descrive l’entusiasmo per la guerra in Francia. Uno dei personaggi dell’opera di Romains, Les hommes de bonne volonté, riconosce come la dichiarazio­ ne di guerra imponesse di cessare di prendere posizione contro la guerra in generale, e di arrendersi alla corrente emotiva che pervadeva le strade di Parigi, una resa che avrebbe risolto tutti i dubbi. Egli si sentiva partecipe della ebbrezza collettiva. La gioia febbrile della manifestazione pubblica, Tim prowisa straordinaria carica emotiva di tutti. Era così semplice: bastava non opporre resistenze; bastava dire sì; bastava sostituire la difficile riflessio­ ne sugli even ti. . . con la cieca accettazione dell’immediato fu­ turo . . . Che sollievo poter prendere a calci la coscienza!33

La resa all’«ebbrezza collettiva» non solo prometteva la liberazione dall’ansia di dover compiere delle scelte, ma anche dalla noia della quotidianità. La guerra sarebbe sta­ ta «vita infine! Nessuna minaccia di noia, neanche per un momento . . . Via, dietro alle mie spalle i giorni di tedio, il vuoto senza fine dell’ingloriosa pace. La storia comincia oggi» M. Non c’è da sorprendersi che molti sentissero l’im­ provvisa riunione di energie che erano state divise, fram­ mentate, e sovente poste l’una contro le altre nel corso dell’esistenza normale, alla stregua di un’euforica esplo­ sione di vitalità; era comune definire ciò come una «libe­ razione» nonché vedere questa liberazione piuttosto come causa che come funzione del movimento dalla pace alla 73

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guerra. Così, dall’angolo prospettico del 1941, Stefen Zweig vede la «liberazione di energie», che fu invece un effetto del movimento di transizione, come causa della guerra. Riflettendo sul passato, qualora ci si chieda perché l ’Europa sce­ se in guerra nel 1914, non si possono addurre né argomenti razionali né fattori di provocazione: non ebbe nulla a che fare con le idee e nemmeno con banali questioni di frontiera. La prima guerra mondiale non si può spiegare altrimenti che con un surplus di forza, una tragica conseguenza di dinamiche interne del Continen­ te le cui energie accumulate per quarantanni cercavano uno sboc­ co violento35.

Ma l’entusiasmo era prodotto dalla consapevolezza che una società altamente segmentata, funzionalmente struttu­ rata, e finalizzata alla soddisfazione di molteplici esigenze materiali veniva accantonata e rimpiazzata non da una serie di funzioni, status, ruoli, bensì da un progetto co­ m u n e o , co m e p re fe riv a n o d ire i c o n te m p o ra n e i, da u n comune «destino»: «Una grande fede pervase gli uomini, e perfino la madrepatria divenne oggetto di minor entu­ siasmo che non la fiducia in un comune destino, tale da trasfigurare gli uomini rendendoli tutti eguali» 36. Il pro­ getto della guerra permise, nelle parole di Rilke, a «un intero popolo di sintonizzare le proprie emozioni», e rea­ lizzò un’inedita armonia dal «concerto di centinaia di voci c o n tr a d d itto r ie » 37.

Mi sono soffermato parecchio sul linguaggio usato dai contemporanei nel descrivere la loro esperienza dell’a­ gosto 1914 perché le metafore più comunemente impiega­ te — flusso, movimento, incanalamento in una direzione comune, liberazione dalle contraddizioni e dai vincoli po­ litici, sociali, emotivi — suggeriscono che questa espe­ rienza, per quanto «mistica», primitiva, emotiva, si mani­ fe s tò co m e fu n z io n e d i u n in sie m e d i p o stu la ti c u ltu ra li ch e

definirono e fissarono il rapporto fra pace e guerra, pre­ figurando la valenza e il significato di questa ultima. Si è parlato fin troppo dell’innegabile intensità nonché della soggettività dei sentimenti che si liberarono in quell’ago­ sto, ma non abbastanza dei meccanismi, delle strutture, e 74

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dei modelli culturali che presiedettero a quella stessa libe­ razione. In questo modo, la «resa dell’io», così comunemente esperita in quell’agosto, può essere vista come predicato del postulato culturale secondo cui la guerra significasse la traduzione degli individui da uno stato definibile in ter­ mini di conflitto sociale, sessuale, politico, uno stato cioè in cui l’ego era un meccanismo essenziale di autodifesa, l ’agente mediatore fra esigenze e ruoli contraddittori; la «mobilitazione» avrebbe poi precipitato gli individui in una condizione di moto, di flusso, in cui classi, età, sessi normalmente mantenuti distinti, venivano riuniti, non da una «nuova condizione» ma da una comune direzione. La guerra venne prefigurata come una sfera d’azione in cui il comportamento collettivo organizzato non fosse più con­ traddittorio o conflittuale, presentando una serie di nuove esigenze che stornavano gli egoismi e la cura individuale per il proprio io. La dichiarazione di guerra annunciò il perseguimento di uno scopo che rendesse la vita collettiva coerente e unidirezionale. Ci sono molte esperienze che, pur non essendo stori­ camente collocabili, sono strettamente analoghe all’espe­ rienza d ’agosto e possono illuminare molti dei lineamenti centrali di quest’ultima. Nella sua analisi delle «esperien­ ze intrinsecamente compensatorie», musica, recitazione, giochi sportivi, Milhalyi Csikszentmihalyi nota che molti dei suoi campioni impiegano la metafora del flusso per cercare di spiegare cosa trovino di piacevole nell’escursio­ ne alpinistica, nel gioco degli scacchi, nella danza. Egli definisce queste esperienze «stati di fluttuazione» e ipo­ tizza che siano create da situazioni in cui . . . l ’azione segue all’azione secondo una logica interna che sembra non necessiti di intervento cosciente da parte dell’attore. Questi la esperisce come flusso unificato da un momento all’altro, in cui egli è sotto il controllo delle proprie azioni, in cui non c’è una chiara distinzione fra di lui e l’ambiente circostante, fra lo stimolo e la risposta, o fra passato, presente, e fu tu ro38.

Lo stato di fluttuazione è precipitato dall’ingresso in 75

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una situazione in cui decade Pimportanza della «logica» dell’agire, in cui non c’è necessità di riflessione. Viene esperito quando le capacità individuali si fondono armo­ niosamente con le specifiche condizioni per l’azione. A maggior ragione, uno «stato di fluttuazione» non è una liberazione da regole, procedure, o da un ordine: esso presume l’esistenza di una struttura, un «copione» che metta alla prova il potenziale attore e ne restringa l’arco di possibilità, rendendo nel contempo coerenti, non con­ traddittori, e perseguibili i suoi obiettivi. L ’esperienza della fluttuazione differisce dalla pratica cosciente della realtà quotidiana perché contiene regole ordinanti che ren­ dono automatiche, e perciò non problematiche, l’azione e la valu­ tazione della azione stessa. Quando ridiventano possibili azioni contraddittorie . . . l ’io riappare negoziando fra le definizioni con­ flittuali di ciò che deve essere fatto, e il flusso viene interrotto39.

Gli «stati di fluttuazione» nel gioco, ampiamente descritti come stati emotivi, mistici, e così via, sono il prodotto di sistemi di regole, codici di comportamento, o sequenze di fasi, tali da rendere l’azione, anziché contrad­ dittoria, non problematica, addirittura automatica. La ben nota definizione del gioco data da Johan Huizinga dice la stessa cosa in modo diverso. Le regole del gioco e il fatto del dilettantismo escludono le motivazioni egoistiche e materialistiche che incombono nella vita quotidiana, co­ stringendo l’ego a calcolare i guadagni e le perdite impli­ cite in ogni azione significativa. Per Huizinga il gioco è un’attività slegata «dall’ambito di interessi immediata­ mente materiali o di soddisfacimento individuale di bi­ sogni . . . Il gioco . . . si svolge entro certi limiti di tempo e di spazio. Ha uno svolgimento proprio e un senso in 40 se» . Per coloro che celebrarono lo scoppio della guerra era comune descrivere la propria esperienza nei termini più mistici, religiosi, ed elevati. Per Thomas Mann la guerra fu una «visitazione»; per Binding il «tocco di un dio»; per Zuckmayer la guerra induceva in uno stato di trance, uno stato di «grazia», una trasfigurazione personale e col­ /

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lettiva. In altre situazioni, il passaggio in uno stato di trance è un evento strettamente regolamentato. Morton Marks, per esempio, nella sua analisi delle strutture che presiedono al passaggio nello stato di trance nella musica afro-americana, sostiene che questi passaggi avvengano so­ lo in fasi musicali e ritmiche altamente complesse; il mo­ vimento dallo stato di normalità al trasporto è scandito da mutamenti velocemente recepibili a livello di codice culturale, mutamenti nella tonalità, nel volume, nel ritmo e nel tipo di strumenti musicali 41. Analogamente, l ’entu­ siasmo per la guerra non deve essere letto come l’appari­ zione di energie preesistenti, represse nella vita normale e liberate con la dichiarazione d ’emergenza, bensì come prodotto di una «variazione ritmica» fra modalità cultu­ rali ben definite e assolutamente tradizionali. La sensazione di trasfigurazione altro non è che il prodotto spettacolare dell’impressione di muoversi da un complesso familiare di istituzioni sovente caratterizzate come materialistiche, tecnologiche, e altamente differen­ ziate in termini di età, classe, sesso, e professione, verso un’ideale d’azione la cui specificità stia nell’offrire «regole che rendano l’azione . . . automatica e quindi non proble­ matica». La fuga dal privato fu la motivazione recondita per tanti che si tuffarono nelle istituzioni militari. La vita militare viene spesso esaltata precisamente negli stessi termini della comunità di agosto: essa fu bene accetta come esistenza rigidamente strutturata, standardizzata, che semplificasse sistematicamente la miriade di scelte con­ traddittorie di fronte alle quali l’individuo era costretto a misurarsi quotidianamente. Schauwecker fu uno dei tanti che celebrarono la perdita della paralizzante «libertà» ci­ vile. È finita la noiosa, insipida, inutile vita di pace. La vita è improvvisamente regredita ai suoi termini più semplici: ogni mo­ vimento è scrupolosamente preciso, ogni gesto è determinato, ogni azione è consapevolmente diretta al suo fine. Tutto segue una linea retta, tutto ha un chiaro, percepibile significato . . . La strut­ tura di questa nostra esistenza è trasparente e comprensibile anche

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al più semplice di noi. Noi vediamo un organismo che lavora velocemente e armonicamente, un corpo con tutti i vantaggi di una macchina: l ’esercito42.

L ’esercito forniva l’antidoto alle insoddisfazioni della vita civile: inazione, mancanza di scopi, solitudine. L ’eser­ cito veniva esaltato come luogo di rigida istituzionalizza­ zione di una comunità organizzata in modo tale da prov­ vedere un insieme di condizioni specifiche per l ’azione: la «noiosa, abulica» vita del tempo di pace venne rimpiazza­ ta da una vita dal significato bene evidente, dai chiari e precisi scopi, e i cui problemi non fossero conflittuali per l’individuo. I valori che i volontari tedeschi come Schauwecker trovarono nell’esercito furono analogamente esaltati in Inghilterra. F. H. Keeling arrivò a comparare i rituali ca­ merateschi ad una religione civile, ritenendo il proprio reggimento una comunità più soddisfacente dal punto di vista emotivo di qualsiasi famiglia privata. In questa co­ munità il senso dell’io come qualcosa che media fra la molteplicità di fini ed esigenze contraddittori è sostituito dal senso di ciò che T. E. Lawrence definì «eguaglianza sotto costrizione». Robert Graves, che nessuno potrebbe definire un militarista, difendeva i valori dell’addestramen­ to formale proprio con motivazioni del genere: secondo lui Paddestramento formale esprimeva in forma attiva e tangibile i valori comunitari inerenti all’esercito, per quanto egli stesso si rendesse conto di quanto ormai fosse superato dal punto di vista tattico. L ’addestramento formale come va fatto . . . è qualcosa di mera­ viglioso, specialmente quando la compagnia marcia all’unisono come un unico essere, ed ogni movimento non ha più nulla di indivi­ duale, ma è il movimento singolo di una grande creatura43.

Chiaramente, i vari Graves, Lawrence, Keeling e Schauwecker non apprezzano l’irrazionale, caotico dispen­ dio di sangue e ricchezza, oppure il caos e il pericolo connaturati alla guerra. Proprio il contrario: nel celebrare la vita militare essi intendono esaltare tutto ciò che in 78

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fatto di struttura, significanza e coesione vedevano man­ care nella vita civile. Si ha la sensazione che questi uomi­ ni — per usare un termine di Victor Turner — stiano «giocando al gioco della struttura». Infatti in questo caso la struttura assolve il compito di incorporare e significare certi valori e desideri, anziché fornire i mezzi concreti per realizzarli: Tesercito, essenzialmente uno strumento per il perseguimento di fini precisi, non è valutato sotto questo aspetto, bensì per la presunta capacità ad esso inerente di dare forma ai valori comunitari e di fornire una via d’u­ scita dal privato. Si potrebbe dire dei tanti che esaltarono la propria fuga dall’inazione del tempo di pace ciò che Victor Turner dice delle bande di adolescenti e delle as­ sociazioni motociclistiche: Questi gruppi fanno il gioco della struttura, invece di impe­ gnarsi seriamente e direttamente nella struttura socioeconomica. L a loro struttura è principalmente «espressiva», pur avendo degli

aspetti strumentali 44.

L ’euforia d’agosto si protrasse nelle piacevolezze del­ l ’addestramento pratico e formale e per il periodo della guerra di movimento, nella tarda estate-autunno 1914. La guerra fu bene accolta ed esaltata precisamente per i suoi lineamenti militaristici. A questo punto torna utile ricordare la distinzione operata da Alfred Vagts fra «militarismo» e «modo mili­ tare». Nel «modo militare» rientrano tutte le tecniche d’organizzazione, mobilitazione, e direzione — tutte le cose insomma che abitualmente gli eserciti fanno. Il modo militare consta semplicemente dello spirito razionale, efficientistico, tecnologico, traslato in termini militari: esso definisce il problema della guerra come perseguimento di scopi geografici, tattici, e strategici specifici sulla base del costo minimo in energia, sangue, materiale. Per contro, il «militarismo» è un sistema di immagini, simboli e rituali designato ad esprimere il personaggio del «guerriero» e il carattere della comunità di cui fa parte. Il m ilitarism o. . . offre una vasta panoramica di abitudini,

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interessi, prestigio, azione . . . correlati con gli eserciti e le guerre, eppure trascendenti il puro e semplice ambito militare. D i fatto, il militarismo è costituito in modo tale da potere addirittura vanifi­ care lo sforzo militare in sé, lo scopo del modo m ilitare. . . Mettendo in sottordine, fino a respingere, il carattere scientifico dello sforzo militare, il militarismo privilegia, esaltandole, le qua­ lità di casta, culto, autorità e fe d e 45.

Furono proprio queste qualità di «casta, culto, autori­ tà e fede», an2iché il «modo militare», che spronarono l’entusiasmo di tanta gente. Se le vicissitudini della vita vissuta in un ordinamento economico altamente differen­ ziato e frammentato provvide la spinta che catapultò tanti verso la guerra, i simboli e i valori che venivano associati alla vita militare fornirono la trazione finale. Questi sim­ boli non erano affatto arcaici o feudali come sostiene Vagts: per quanto buona parte dei simboli del militari­ smo e dell’ascetismo che definivano l’ufficiale aristocrati­ co potessero avere una matrice feudale, è impossibile ignorare la natura intrinsecamente moderna e borghese dei valori incorporati nel militarismo ed espressi attraverso la struttura della macchina militare. La guerra fu accolta nel 1914 come arena d ’azione e di movimento, come un pro­ cesso piuttosto che come un luogo o una posizione defini­ ti. La guerra era una comunità strutturata in maniera autoritaria anziché una società in cui lo status fosse as­ segnato in base a proprietà, famiglia, sesso, istruzione; essa era il luogo in cui l ’individuo poteva trovare anoni­ mato nell’uniforme, doveri comuni, e la via d’uscita dalla pressione costante della famiglia, un luogo di semplicità e povertà formale in stridente contrasto con l ’universo ple­ torico di oggetti privi di significato che «saturavano l’atmosfera» di casa.

La fuga dal moderno L ’entusiasmo per la guerra nel 1914 deve essere com­ preso all’interno del più ampio universo storico ed ideolo­ gico della critica della modernizzazione, e, in Germania, in 80

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termini di decennale reazione contro la società guglielmina. C ’è un rapporto evidente fra lo spirito del 1914 e i movi­ menti giovanili tedeschi in termini di anelito comunita­ rio, comuni ideali, e nemici comuni. Per Cari Zuckmayer la dichiarazione di guerra significò che l ’orientamento «verso la liberazione dalla scioccheria e dalla pochezza» della famiglia borghese, esigenza già espressa dai movi­ menti giovanili, non sarebbe più stata «confinata alle uscite e alle competizioni sportive domenicali»46. Infatti ora il grandioso sport della guerra avrebbe visto la parte­ cipazione della società intera — una società improvvisa­ mente trasformata in una comunità mobile. Nel progetto bellico le romantiche aspirazioni di gioventù erano diven­ tate . . . serie, di una serietà sacra e bagnata nel sangue, e noi non esitammo a riconoscere precisamente in questo e non tanto negli scopi di conquista il significato essenziale della guerra e del no­ stro entusiasmo per e ssa 47.

Particolarmente nei romanzi di guerra di Walter Flex, e ancor più precisamente in Wanderer zivischen beiden Welten, la guerra costituiva lo scenario per lo sviluppo dei temi che avevano caratterizzato il movimento del Wandervogel. L ’opera di Flex celebra la comunità maschi­ le di individui liberati dalla necessità economica, immersi in un bagno di purificazione collettiva, che vivono alter­ nando una luminosa esistenza bucolica con l’oscura realtà della guerra. I vincoli erotici che cementano la comunità maschile — l’incondizionata fedeltà al capo, l’esaltazione della vita bucolica, anti-urbana — dominano compietamente la visione della guerra di Walter Flex, proprio come dominano la poesia di Wilfred Owen48. Per molti intellettuali tedeschi la guerra significò una rottura asso­ luta con il mondo borghese degli agi, del profitto, della sicurezza. Nel loro sostegno allo sforzo bellico tedesco, Max Weber, Thomas Mann, e Georg Simmel mobilitaro­ no le stesse armi forgiate dai movimenti giovanili nella loro lotta contro la società guglielmina. Solo con la guerra la difesa della Germania divenne veramente una difesa 81

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contro la Bùrgerlichkeit — la parcellizzazione sociale, l’etica affaristica, la ragione analitica, e le relazioni sociali contrattuali e di sfruttamento — che caratterizzava l’In­ ghilterra. Il nemico — la società borghese — fu indivi­ duato e stigmatizzato nella perfida e mercantile Albione. La diffusa convinzione che la guerra avesse liberato la società intera dalla normalità borghese portò ad un’in­ tensa identificazione con la nazione. Nell’ambito dei mo­ vimenti giovanili, le escursioni festive, le manifestazioni sportive, e le riunioni di massa allentavano le costrizioni della vita domestica sulla gioventù borghese e picco­ lo-borghese: nel 1914 la guerra fu accolta come una libe­ razione totale, definitiva, dalla società moderna. Come nota chiunque commenti l’entusiasmo dell’agosto, la sen­ sazione di liberazione e di allentamento delle tensioni era dominante in quei giorni. Hannah Hafkesbrink sostiene che «ciò che impressionava all’inizio della guerra era il senso di liberazione ad essa connesso»49. Gertrude Bàumer parla di questo senso di liberazione come della chiave dei propri sentimenti in quell’agosto: «Ma fin dal­ l ’inizio ci fu quell’inedito senso di liberazione» 50. Rudolf Binding generalizza, trasponendo sulla nazione la propria personale sensazione di liberazione dalle limitazioni della quotidianità civile: «Era l’ora della Germania. Fu un gri­ do unico: un grido di sollievo e liberazione» 51. Zuckmayer, Schauwecker, Ernst Jùnger, e altri, appena usciti dai banchi di scuola e posti di fronte alle incertezze del loro ruolo futuro nella società borghese, videro questo loro futuro dissolversi improvvisamente sullo sfondo del tragi­ co scenario bellico. Zuckmayer aveva l’impressione che il mondo borghese gravasse di peso sulla sua testa, mentre l’esercito — già a suo tempo percepito come affine al mondo borghese, con la costrizione, la subordinazione, l’obbedienza caratteristiche sue proprie — « o r a sig n ific a ­ va precisamente l’opposto: liberazione» 52. Visto in una prospettiva appena un poco allargata, questo senso di li­ berazione personale spiega l’intera percezione della guer­ ra: nella guerra, una Germania giovane e straripante d ’entusiasmo metteva alla prova, contestandole, tutte le 82

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restrizioni convenzionali che la borghese e fatiscente In­ ghilterra le aveva imposto a livello internazionale. Zuckmayer, che non era certamente uno sciovinista, pure fu in grado di identificarsi anima e corpo con la Germania, che rifiutava di piegarsi «alle pressioni di un’opposizione mondiale tesa ad impedirle di spiegare liberamente le proprie energie»S3. Questa liberazione nazionale dalla «cospirazione del commercio», capeggiata dalla Gran Bre­ tagna, trovava le sue radici nel senso di liberazione per­ sonale dalle «pressanti incombenze del tempo e della vi­ ta» 54 provato da tanti giovani. È impossibile sottovalutare l ’intensità e la concretezza della percezione secondo cui l’intera società borghese ap­ partenesse ora al ciarpame «lasciato dietro alle spalle», a quel mondo di dilemmi e problemi di identità da cui la guerra aveva liberato gli individui. E queste emozioni erano più intense ancora nei gruppi più isolati e alienati nell’ambito della società guglielmina: ebrei, giovani, mar­ xisti, o intellettuali. Queste emozioni, questo senso di liberazione, furono il fondamento di un’identificazione estremamente solida e duratura con la nazione: una na­ zione che, in agosto, fu percepita come un’entità che avesse finalmente compiuto il primo passo della propria liberazione da ogni tipo di restrizione artificiale ed ester­ na. È chiaro che l’entusiasmo per la guerra nasceva so­ vente da dilemmi personali molto sofferti. Thomas Mann, cercando dopo la seconda guerra mondiale una giustifica­ zione per il suo patriottismo durante la prima, ammette che nel 1914 egli vedeva «nella Germania un paese che viveva in circostanze interne ed intemazionali molto seve­ re nei suoi confronti, un paese che soffriva di ristrettezze proprio come ne soffre un artista. Io mi identificai con quel paese, e ciò diede forma e contenuto al mio patriot­ tismo del tempo di guerra»55. Il 7 agosto 1914, in una lettera al fratello Heinrich, la nazione appariva ancora come enigmatica incarnazione dell’artista, un’identità che sarebbe divenuta chiara a se stessa con lo sviluppo della guerra: «Il mio primo sentimento è di tremenda curiosi­ tà e, lo ammetto, della più profonda simpatia nei con83

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fronti di questa esecrata, indecifrabile, fatale Germa­ nia» 56. La stretta affinità fra la liberazione d’agosto e l’aneli­ to alla liberazione dalla società urbana, moderna, nell’am­ bito dei movimenti giovanili del periodo pre-bellico, è ormai universalmente riconosciuta. Essa è spiegata da Chri­ stian Graf von Krockow in termini psicologici. Il mo­ vimento giovanile, che prese le mosse in primo luogo dai v a s ti a g g lo m e ra ti u rb a n i di B e rlin o ed Amburgo, nell’ambito sia della borghesia agiata sia della meno agiata e più instabile piccola borghesia, fu essenzialmente un momento particolare della storica «fuga da se stessa» della borghe­ sia tedesca. L ’entusiasmo per la guerra, e la propaganda bellica contro l’Inghilterra, furono «fondamentalmente un’espressione della fuga della borghesia da se stessa, la proiezione verso l’esterno di una frustrazione recondita m a tu ra ta verso se stessa» Dunque la guerra esternò il di­ lemma interiore, la schizofrenia ideologica che aveva impe­ dito alla borghesia tedesca di assumere quei ruoli, valori, e carattere politico, generalmente assunti dalla borghesia nelle società industriali avanzate. La guerra parve quindi poter risolvere quell’ambivalenza della borghesia nei con­ fronti di se stessa e del proprio ruolo di cui cercavano la soluzione i movimenti giovanili. Ma questa spiegazione presuppone come dato ciò che invece era maggiormente problematico per tanti giovani borghesi e intellettuali, i quali vedevano il moderno e la società borghese non tanto limitati in sé, quanto limitanti nei loro confronti. L ’entusiasmo dell’agosto sollevò per intera la questione della presa di posizione di individui classificabili, presumibilmente, come borghesi, proprio contro il loro ruolo e i valori politici e sociali che defini­ vano tradizionalmente la statura morale della borghesia. L ’«entusiasmo» di agosto ci permette di scorgere chiara­ mente ciò da cui tanti individui credettero di essere «li­ berati» grazie alla guerra; nel concetto negativo di ciò che si pensava lasciato alle spalle, si può leggere l’immagine positiva che rappresentò la guerra per milioni di volonta­ ri. 84

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Hannah Hafkesbrink sostiene che tanti della genera­ zione di guerra sentirono di essersi sbarazzati di un ordi­ ne di esistenza economico, materialistico e tecnologico: implicitamente essi marciarono alla guerra concependola come un campo d ’attività anti-economica per definizione. Fu questo che fece della guerra un progetto «morale», in diretto contrasto con l ’amoralità del mercato. Cresciuti in una società ad economia di mercato che forniva scarse opportunità per l’investimento creativo delle loro energie morali, essi salutarono con spontanea soddisfazione la prospettiva che la guerra, con la sua domanda di sacrificio incondizionato, avrebbe sostituito le leggi del profitto individuale, del vantaggio egoistico. E questo sollievo per la distruzione di un ordinamento economico di vita non era limitato alla generazione più giova­ ne 58.

La guerra fu dunque accolta e salutata come una libe­ razione perché si pensava significasse la distruzione di un ordinamento economico. Il presupposto che la guerra fos­ se essenzialmente un conflitto di tipo pre-economico e anti-economico informò le aspettative in maniera essenzia­ le. Molti si precipitarono negli uffici di reclutamento te­ mendo che la guerra terminasse prima che fossero potuti scendere in campo; questo timore fu fomentato dalla convinzione che la guerra non sarebbe potuta durare più di sei mesi, per Pimpossibilità supposta delle nazioni bel­ ligeranti di sostenere per un periodo più lungo il tre­ mendo sforzo in uomini e materiali richiesto dalla guerra moderna. Joseph Conrad, in Polonia allo scoppio delle ostilità, chiarisce ciò che sottendeva a questo timore: «La guerra sembrava materialmente impossibile, precisamente perché avrebbe rovinato ogni interesse materiale» 59. Nel 1914 ciò era ritenuto ovvio: la distruttività della guerra contrastava in maniera assoluta con la produttività della vita economica industrializzata. Ma molto più significativo e di maggior peso fu l’assunto che la guerra fosse di natura intrinsecamente anti-economica: poiché la guerra comportava la cessazione delle normali relazioni economi­ che, poteva anche essere bene accolta come soluzione dei conflitti endemici a quelle stesse relazioni. La dichiarazio85

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ne di guerra potè dunque essere salutata come l’elevazio­ ne del conflitto dalla sfera della vita economica, in cui risultava dannoso alla comunità, a livello di un contesto che implicava un’inedita solidarietà nazionale e, allo stesso tempo, forniva agli individui l’opportunità di svi­ lupparsi nell’ambito di una umanità virtuosa e morale, sv in c o la ta d a lle le g g i d i m e rca to . P r o p r io p e rc h è p a re v a

significare la distruzione di un preciso ordinamento eco­ nomico, la guerra divenne il punto collettore per ideali di un ordinamento puramente morale e per valori non utili­ taristici: il ridondante, manifesto idealismo della genera­ zione di guerra è diretta funzione di questo presupposto. Rappresentando un campo agonistico radicalmente distin­ to dall’interesse materiale, la guerra potè diventare vessil­ lo di tutto ciò che era maggiormente minacciato dalla massiccia industrializzazione e modernizzazione affrontate dalla società tedesca nei quarantanni precedenti. La guer­ ra fu bene accolta perché apparve come soluzione di real­ tà altrimenti ineludibili: essa rappresentò la possibilità di riattualizzare quei valori che la vita moderna rendeva sempre più anacronistici, e che pure erano generalmente sentiti come degni di essere ancora difesi e sostenuti. Nei resoconti dell’esperienza d’agosto si possono tro­ vare numerosissime variazioni sul tema dell’apertura delle ostilità come momento di rimozione delle più angosciose realtà della vita industriale. La guerra fu vista come la soluzione delle complessità dell’«era della macchina». Nella misura in cui la loro coscienza era asservita alle inedite possibilità di potere e benessere, la gente dell’età della macchina sentiva crescere la propria armatura interiore, nonché quelle co­ strizioni che l ’avrebbero sempre più strettamente vincolata fino a soffocare completamente l ’esperienza diretta di vita. In pochi in­ dividui, in certi circoli — particolarmente nel movimento giovani­ le — si fece avanti inconsciamente il desiderio, l’anelito di sot­ trarsi alla morsa dell’esperienza indiretta per ritornare all’organico, al naturale, passando dal sociale al fraterno, dal politico al legame di sangue, dal collegiale al cameratesco. Tutte queste tensioni confluirono nel diretto e dirompente sentimento di partecipare ad una nuova esistenza nazionale e com unitaria60.

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Per la Bàumer l ’età della macchina produce enormi «possibilità di potere», agio, e sicurezza, ma la tecnologia impermeabilizza gli uomini moderni nei confronti dell’e­ sperienza «diretta», separandoli gli uni dagli altri e confi­ nandoli entro ristretti confini percettivi. L ’anelito all’e­ sperienza diretta, non mediata a livello di comunicazione dalla tecnologia, fu un tema prebellico dominante nelle discussioni circa l ’impatto delle macchine sulla civiltà de­ gli uomini. Ne The Machine Stops di E. M. Forster si coglie precisamente lo stesso senso di perdita dell’espe­ rienza diretta in un mondo meccanizzato che si può rile­ vare nella descrizione della Bàumer dell’era della mac­ china: la tecnologia « d ha derubati del senso dello spa­ zio, del senso del tatto, ha inquinato ogni relazione uma­ na . . . ha paralizzato i nostri corpi e le nostre volontà» 61. La tecnologia, fonte del potere, è parimenti fonte di in­ sensibilità e indifferenza nei romanzi di H. G. Wells, do­ ve i marziani, per esempio, che ne The War of thè Worlds simboleggiano lo sviluppo futuro della razza umana, appaiono racchiusi in gusci corazzati mobili e so­ no «inumanamente» integrati ai loro veicoli meccanici. In pressoché tutte le descrizioni contemporanee del­ ibera della macchina» si può leggere lo stesso ripudio dellbordine economico e tecnologico» espresso dalla Bàumer nel suo entusiasmo per la guerra. Mentre con i tra­ sporti e le comunicazioni rendevano possibile godere di una varietà sempre crescente di contatti ed esperienze, la tec­ nologia erigeva nel contempo ostacoli sempre più concre­ ti alle possibilità di «esperienza diretta» dei singoli indi­ vidui. «Esperienza diretta» sta per «esperienza autenti­ ca»: l’insaziabile desiderio di autenticità, l’anelito al con­ fronto diretto delle volontà umane, dominarono l’entu­ siasmo per la guerra modellando le aspettative di coloro che si precipitarono a combattere nell’enorme appetito epocale per qualsiasi vestigia di vita autentica (cioè preindustriale), ovvero per qualsiasi cosa avesse le sem­ bianze di forme organiche, armoniose. Così furono in tanti nell’agosto del 1914 a pensare di essersi finalmente liberati dal «materiale», dal «materia87

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lismo». È facile considerare il materialismo in senso astratto come spirito dell’epoca; ma qualora si desideri comprendere le aspettative modellate in base alla presun­ ta polarità fra guerra e vita civile, è meglio considerare questo termine concretamente e in senso letterale. Il ma­ terialismo da cui Zuckmayer, la Bàumer, Binding e una folla di altri pensavano di stare fuggendo non era un’idea astratta, bensì un mondo di cose concrete divenuto estremamente problematico. Essi fuggivano verso una guerra concepita in senso assolutamente bucolico, una guerra che assumeva in sé tanto la semplicità quanto il disagio, l’insicurezza, l’avventura; la guerra era affrontata da tanti come un ritorno ad un disciplinato ordinamento di bisogni e costumi, un salubre tuffo nel passato. Nelle parole del violinista Fritz Kreisler, che servì sotto le ban­ diere austro-ungariche prima di essere ferito e rimanere invalido, Al fronte tutti i sintomi nevrotici sembrano sparire per incanto, e il sistema nervoso di ogni singolo individuo si carica di energia e vitalità. Forse questo è dovuto alla vita all'aria aperta con le sue abitudini semplificate, liberate da tutte le complesse esigenze delle leggi sociali, e non oberate da convenzioni62.

v Sono davvero stupefacenti la potenza e la ricchezza delle immagini bucoliche contenute nelle lettere dal fron­ te e nella letteratura di guerra63; e ciò che sosteneva queste immagini era la diffusa convinzione che la libera­ zione della guerra fosse liberazione da abitazioni civili affollate di cose ormai prive di funzione o significato. L ’agosto liberò tanta gioventù borghese da una quotidia­ nità fatta di noci di cocco intagliate, porcellane classi­ cheggiami, decorazioni floreali in gesso, stanze foderate con pesanti tappezzerie e drappi damascati, nonché ri­ colme di ninnoli sovraccarichi di polvere. L ’industrializzazione non fu nient’altro che una rivo­ luzione delle «cose». In Inghilterra, Francia, Spagna, e Germania, gli antimodernisti accusarono la soverchiante, infinita duplicazione degli oggetti, nell’ambito della pro­ duzione di massa, di svalutare il significato simbolico de­ 88

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gli oggetti stessi, un significato che questi invece posse­ devano nell’economia pre-industriale. Basta dare un’oc­ chiata a pitture di interni Biedermeier o edoardiani, op­ pure sfogliare le pagine di romanzi farciti di lunghi elen­ chi di oggetti preziosi — calici lavorati, tavoli intarsiati, sofisticate rilegature di libri, vetro soffiato in mille forme bizzarre, candelabri o calamai riccamente arabescati e/o dorati — per apprezzare lo sforzo che sottendeva la ricostruzione di un mondo domestico, «privato», fatto dei prodotti dell’artigianato pre-industriale. La sovrabbondan­ za di oggetti nell’era della macchina poteva essere bilan­ ciata solo riunendo il massimo numero di oggetti pre-industriali, pezzi unici, ostentatamente individualizzati; ep­ pure questo ammasso di oggetti del tempo che fu finì per svalutare il valore individuale dei pezzi, tanto quanto l ’uniformità della produzione industriale64. Se l’«oggetto» fu reso problematico dalla produzione industriale, lo fu a maggior ragione perché la stessa in­ dustrializzazione veniva percepita come un prodotto d’im­ portazione; Thorstein Veblen sostiene che l’importazione di tecnologia contribuì in modo determinante alla «crisi di valori» che accompagnò l’industrializzazione in Germa­ nia. Infatti, la tecnologia che permise alla capacità pro­ duttiva dell’economia tedesca di raggiungere livelli inauditi, . . . non fu prodotta in Germania ma fu mutuata, direttamente o in seconda istanza, dai popoli di lingua inglese . . . Si è insistito sopra il fatto che gli usi e costumi britannici in materie diverse da quelle tecniche non furono contemporaneamente assimilati dal­ la società tedesca; con il risultato che la Germania presenta, in confronto all’Inghilterra, un’anomalia, nel senso che essa mostra il funzionamento dello stadio moderno della tecnica, elaborato dagli inglesi, privo della gamma caratteristica di istituzioni e principi che si sono sviluppati fra i popoli di lingua inglese in concomi­ tanza di quello sviluppo . . . tó.

Secondo Veblen la crisi dei valori in Germania fu più intensa e più sofferta in virtù del fatto che l’industrializ­ zazione pretese di riunire tecnologia moderna e «modi di pensare pre-industriali». I tedeschi si dimostravano inca­ paci di rimuovere ciò che era necessario rimuovere nel 89

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processo di modernizzazione. E la produzione industriale di per sé era vista come meno problematica di ciò che Pindustrializzazione comportava: lotta di classe, oggetti d’uso replicati senza limite, nuovi livelli di consumo e nuovi valori. Il caso tedesco è senza precedenti tra le nazioni occidentali sia sotto l ’aspetto della subitaneità, compiutezza e ampiezza del suo impadronirsi della tecnica, sia sotto quello dell’arcaicità delle sue sovrastrutture culturali al momento dell’appropriazione66.

È risaputo che l ’industrializzazione produsse nuove classi sociali e conflitti fra di esse; ma produsse pure sulle classi benestanti, possidenti, pressioni che devono essere seriamente considerate alla base del diffuso disagio «morale». È da conflitti del genere che l’immagine anti-e­ conomica della guerra assunse una rilevanza incontrastata. Infatti, per quei gruppi che avevano fatto del lavoro, del commercio, del risparmio e del consumo inferiore al red­ dito l’etica a fondamento del proprio stile di vita, l’in­ dustrializzazione provocò una crisi in quelli che Veblen chiama «livelli morali di vita»; essi non erano più im­ pegnati nella lotta per strappare maggior valore possibile da un universo minimo di beni, bensì a consumare l’ecce­ denza generata dalPenorme crescita del potenziale produt­ tivo. Pur mantenendo la struttura sociale tradizionale, le famiglie benestanti dovettero sostituire all’etica del ri­ sparmio un’estetica del consumo; e fu proprio questo mondo materiale di merci, e non la tecnologia in se stes­ sa, a divenire fonte di disagio morale. In Germania fu il bottegaio e non l’industriale, lo Spiessbùrger e non lo Stadtsburger, a divenire rappresentante della moralità immorale del consumo. Ernst Jiinger godeva dell’ironia connessa all’entusiasmo popolare per la guerra. Infatti la guerra, l’incarnazione stessa delle virtù antibottegaie — l’onore, il coraggio, l’abnegazione, il sacrificio, tutti valori reputati preindustriali — fu acclamata proprio da coloro i quali garantivano la disponibilità delle merci e dei pro­ dotti che saturavano la vita quotidiana: i bottegai. 90

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Non era più un sogno, ci stavamo in mezzo: e non era qualcosa di cui i bottegai potessero farsi beffa. Era bensì un dovere necessario e un sommo onore: l’ardore eroico che l’era commerciale aveva relegato in un museo, era di nuovo vivo e divampava in tutta la sua lu ce *7.

Fu con un'immagine di questo genere — un'immagine della guerra come antitesi della comoda, materiale e tec­ nicizzata vita di ogni giorno — sostenuta anche e pro­ prio da coloro che incarnavano i valori «commerciali» dell'epoca, che numerosissimi figli della borghesia, cre­ sciuti nei movimenti giovanili, si precipitarono nella pri­ ma guerra completamente industrializzata. Ma l'immagine anti-economica della guerra, rafforzata­ si durante il periodo dell'industrializzazione, non trovò affatto riscontro nel conflitto che si inaugurò nel 1914. L'antitesi fra guerra e società, la polarità basilare delle aspettative d ’agosto, è presente come elemento intrinseco nell'opera divenuta dottrina classica per gli uomini del­ l'Ottocento, sia militari che civili: Della guerra di Clau­ sewitz. In quest’opera l'immagine romantica della guerra poggia sulla polarità fra guerra e vita politica ed econo­ mica, vero fulcro della celebre formula di Clausewitz: «La guerra non è che la prosecuzione della politica con altri mezzi». È la stessa «alterità» della guerra che le permette di assurgere a mezzo alternativo della politica e della diplomazia. Da Clausewitz in poi «guerra» divenne sinonimo di un universo libero da peculiari specificazioni: arte di governo, potenziale industriale, risorse naturali, popolazione, morale delle truppe, coesione nazionale — tutte variabili che definiscono al massimo le caratteristi­ che delle singole campagne, giammai l'essenza della guerra stessa. La guerra è un «secondo universo», un’«esistenza alternativa», un distinto mezzo d’azione, segnato, dilatato, solcato dalle realtà della vita sociale, politica ed economi­ ca, ma mai penetrato dalle stesse. Questa «alterità», essenziale nella visione di Clause­ witz così come nell’entusiasmo dell'agosto, modellò lo stereotipo di personalità che si presumeva emergesse e si sviluppasse con la guerra. Per Clausewitz la guerra è una 91

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«libera attività dello spirito umano», di tutte le branche dell’attività umana quella che «più assomiglia a una parti­ ta con le carte da giuoco» 68; la libertà d ’azione, l’imponderabilità, il caso, che fanno della guerra un gioco molto serio, la rendono anche sfera delPattività creativa di un tipo peculiare di «genio». Il genio della guerra è l’uomo che riesce a mantenere il proprio equilibrio e la propria capacità di scelta, di «coup d’oeil», nel bel mezzo della violenza, del caos, della mancanza di informazioni corrette. Nell’ambito di questo universo caotico, mutevole per defi­ nizione, egli è l’uomo in grado di «vedere» le caratteristi­ che della battaglia imminente, di formulare un piano, e di concretizzarlo nell’efficace disposizione delle truppe. La guerra come elemento mette alla prova e definisce il ca­ rattere morale di coloro che vi operano. Lo stesso ele­ mento garantisce che l’uomo di guerra operi non al servi­ zio di potenze distruttive, bensì creative: l’uomo di guer­ ra è una figura sufficientemente flessibile per alterare il proprio piano di fronte a un repentino mutare degli even­ ti, e sufficientemente coraggioso da resistere all’assalto dei dubbi fino a trasformare la propria visione in sto­ ria. È incontestabile che il «genio della g u e r r a » c lau se w itziano debba essere un ufficiale, un generale di taglio napoleonico. Eppure, tramite innumerevoli edizioni, sunti, d iv u lg a z io n i p o p o la r i, P im m ag in e ro m an tic a d e lla p e r s o n a ­

lità emergente dalla guerra fu democratizzata e generaliz­ zata alla nazione intera nel 1914. In questa profonda liberazione della nazione dalle sue morte convenzioni, questo catapultarci nell’ignoto, nel rischio inane, completamente indifferenti al fatto che ci avrebbe potuto inghiot­ tire, vedevamo il significato della guerra e la fonte del nostro entusiasm o69.

Ma è chiaro che ciò che liberò la gioventù del 1914 dalle «morte convenzioni» dell’esistenza borghese fu un’im­ magine della guerra altrettanto tradizionale e conven­ zionale — che a sua volta morì sui campi del fronte occidentale. 92

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È facile scorgere come Pidealismo di quella generazio­ ne, la peculiare innocenza con cui i volontari del 1914 si precipitarono in guerra, non fosse funzione d ’inesperien­ za, bensì una convinzione che attingeva all’arcaico: esi­ stevano due mondi di esperienza, e due livelli su cui la vita poteva essere vissuta. Agli stessi giovani, le aspetta­ tive iniziali parvero più tardi come caratteristiche di un mondo «perduto», un mondo che aveva permesso loro di coltivare l’idea di guerra come alternativa alla vita eco­ nomica e sociale «normale». L ’entusiasmo e il senso di liberazione dell’agosto poggiano su di una biforcazione completa di valori, a sua volta radicata nella polarizzazio­ ne fra pace e guerra. Fu questa polarità che prospettò culturalmente l’entrata in guerra come entrata in un’arena di libertà, di incertezza e rischio, un campo in cui sareb­ bero stati forgiati un carattere e un’identità antitetici a quelli dell’«uomo economico». Scorgere questi presupposti, fondanti l’entusiasmo per la guerra in agosto, significa cogliere immediatamente le loro radici nella cultura europea e nell’esperienza storica del diciannovesimo secolo — in particolare quell’espe­ rienza di industrializzazione che rivoluzionò le condizioni di vita economica e sociale. L ’immagine romantica della guerra rappresentava il contrappeso alle forze d e in d u ­ strializzazione e della modernizzazione. Naturalmente la potenza di questa immagine della guerra non stava nella sua attinenza con la realtà, bensì nel modo in cui articolò e preservò alternative presunte possibili alla vita e ai valori moderni. Ma se, come sostiene Ernst Gombrich, «I concetti, come le immagini, non possono essere veri o falsi; possono semplicemente essere più o meno utili alla formazione delle descrizioni»70 questa immagine della guerra fu tutt’altro che efficace nel contesto della Materialkrieg: sulla base di questa idea, l’esperienza di guerra sarebbe ben presto apparsa come «disillusione» in tutti coloro che vi avevano creduto come possibilità di fuga dal «meccanismo schiaccia-anima della moderna società tecno­ logica». Al contrario, in questa guerra essi avrebbero tro­ vato conferma, rassegnandovicisi, dell’ineluttabilità della 93

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realtà moderna. Anche in patria molti patirono la stessa disillusione. I più esagitati nell’acclamare la guerra come alternativa alT«era della macchina» ammisero con Ger­ trude Bàumer che: . . . i fatti ci misero di fronte alla contraddizione fondamentale della nostra situazione: la contraddizione cioè della sopravvivenza, e del progresso, di un’economia individualistica, capitalistica, fina­ lizzata al profitto, nel bel mezzo dell’incondizionata solidarietà generale della gen te71.

La guerra finì per esprimere con accuratezza letale precisamente quegli stessi problemi del moderno che tanti avevano creduto risolti in agosto. Conclusione: il persistere delle aspettative In questo capitolo ho sostenuto, implicitamente ed esplicitamente, degli argomenti contrari alla concezione che ha pervaso gli studi sulle cause della guerra in genera­ le, e sull’entusiasmo per la guerra nell’agosto del 1914 in particolare. Quest’ottica, sviluppata in maniera partico­ larmente sofisticata negli studi psicoanalitici delle cause della guerra, ma reperibile anche in lavori di storia eco­ nomica e sociale, individua le cause della guerra nelle tensioni endemiche inerenti alla società in fase di mo­ dernizzazione. E questo è corretto. Ma il considerare Pentusiasmo per la guerra come espressione della libe­ razione di pulsioni generate da strutture psichiche e sociali chiuse, altamente differenziate, e produttrici di conflitto, va a braccetto con un corollario latente, ine­ spresso: e cioè che la guerra sia di per sé un vacuum di valore, uno spazio libero per lo sfogo di energie primarie ingorgate nella vita sociale. È precisamente questo assun­ to che non regge ad uno stretto esame della logica con­ nessa all’entusiasmo di coloro che si tuffarono in guerra nel 1914: costoro possedevano un’immagine molto speci­ fica e concreta di ciò che poteva significare la guerra, una immagine profondamente radicata nel passato e nella loro 94

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cultura. Nella maggior parte dei casi, la guerra non era sentita come «spazio libero» per lo sfogo istintuale, bensì come elemento di violenza ben strutturato, tale da rendere Tazione, la vita in comune, e Pio, non problematici e restituiti alla loro «interezza». In quanto tale, la guerra potè essere acclamata come cura, sollievo, o liberazione dalle patologie dell’esperienza, dell’interagire umano, e dello squilibrio psichico, che erano visti come sempre più endemici nella società tecnologica moderna. Il modello «scarica pulsionale», che ha dominato il dibattito circa le cause «interiori», della guerra è forse uno strumento valido ed accurato nell’analisi di ciò da cui pensavano di sottrarsi coloro che acclamavano la guerra; ma senza un’analisi di ciò verso cui pensavano di fuggire coloro che si presentarono volontari nel 1914, non è pos­ sibile comprendere Pattrazione e il significato delPesperie n za di guerra. Risulta particolarmente difficile per chiunque non sia vissuto nel bel mezzo della realtà di guerra, o sia nato dopo il 1918, capire ciò che appariva tanto ovvio a chiunque nel 1914: l’entusiasmo per la guerra non era semplicemente la negazione della società moderna, con i suoi limiti e le sue costrizioni, ma signifi­ cò pure Paffermazione della guerra attraverso le sue par­ ticolari costrizioni. E questa affermazione non era centra­ ta sul potere distruttivo della guerra o sull’«insubordinazione libidinale» che essa prospettava, bensì proprio sui valori culturali e morali, nonché l’immagine della comuni­ tà e dell’identità individuale, che finirono per essere proiettati e investiti nella guerra. Nella mia analisi delle aspettative e dell’entusiasmo per la guerra ho inteso mettere in luce, come elemento fondamentale del 1914, la volontà d’affermazione di valo­ ri culturali sovente considerati anomali od obsoleti rispet­ to a ciò che siamo abituati a definire «mentalità euro­ pea», cultura borghese, o civiltà industriale. Il gioioso abbandono dell’individualismo, la ricerca di una via d’u­ scita dal privato, l’accettazione di una vita di obbedienza ed eguaglianza sotto comando e costrizione, non significa­ vano certo una fuga nella libertà, bensì dalla contraddi95

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zione. L ’attrattiva dell’immagine tradizionale della guerra stava nel prospettare la possibilità d’azione non contrad­ dittoria, che cioè non richiedesse un «io», e la possibilità di contatto non mediato, di contatto , fra volon­ tà umane. Un approccio strutturalista alla guerra ci consente di vedere con maggior chiarezza le polarità culturali che sot­ tesero l’entusiasmo dell’agosto, e che continuarono a go­ vernare l’esperienza di guerra anche una volta sopraggiun­ ta la d isillu sio n e . I n fa tti l ’e sp e rie n z a di fo n d o d e ll’a g o sto consistette nel vivere la transizione fra due modi di vita sociale generalmente reputati in antitesi fra di loro. La sensazione di vivere la transizione dalla «società» alla comunità generò, nel 1914, la più disparata gamma di aspettative di cambiamento, aspettative che permasero, continuando a definire la coscienza dei combattenti e dei veterani ben oltre la fine delle ostilità. Un’ultima giustificazione per guardare con tanta insi­ stenza alle aspettative di guerra sta nel fatto che esse non furono semplicemente la somma di immagini di alternati­ ve all’ordine economico — immagini derivate cultural­ mente — ma rappresentarono motivi di fondo, persistenti nell’esperienza di guerra. Le aspettative di mutamento, di comunità, di abbandono del privato, non furono scartate come «illusioni» di fronte alla tremenda realtà di guerra; si potrebbe dire che queste aspettative, in senso letterale e figurato, continuarono a circolare sottoterra. La comuni­ tà del fronte, o, come ebbe a definirla Ernst Jùnger, la collettività «tecnologica», viveva in un mondo costruito dal soldato non allo scopo di preservare valori, bensì per proteggere se stesso e i propri camerati dal minaccioso universo tecnologico che pareva trascendere le sue vittime umane. Si possono reperire, nella descrizione di soldati in un rifugio sotterraneo fatta da Jùnger, tutte le aspettati­ ve dell’agosto, materializzate e concretizzate. Questa co­ munità è tenuta insieme dalla stessa spaventosa potenza di fuoco diretta contro di essa: è un gruppo inseparabile dallo spazio strettamente delimitato, minimale, del rifu­ gio. 96

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Come era possibile respirare in questi buchi dalle pareti di legno fradicio, mangiate da fanghiglia giallastra, in cui poche candele emanavano luci asfittiche, illuminando pesanti cappotti invernali pendenti da grosse travi macilente? Era questo il ricove­ ro di uomini sporchi e accalcati, un buco saturo di umidità, miasmi, fumo e tabacco. A intervalli un soldato si alzava, impu­ gnava il fucile e spariva; subito dopo un altro scivolava dentro, esausto, instupidito dal turno di guardia, e occupava il posto libero — un cambiamento che raramente veniva notato. Le parole uscivano di bocca con lo stesso secco impatto delle granate che esplodevano di fuori, attaccate Luna alle altre in monotone con­ versazioni. I soldati erano talmente legati insieme, così aggrovi­ gliati nello stesso comune destino, che riuscivano a comprendersi anche senza parlare. Ciascuno di essi strisciava nello stesso pae­ saggio notturno; un gesto, una bestemmia, una battuta erano le deboli luci che per un attimo rischiaravano Poscurità del precipi­ z io 72.

Da questa descrizione risalta chiaramente come l’anti­ tesi fra il mondo tecnologico, differenziato, strutturato sulla base di esigenze materiali ed esteriori, e il mondo della comunità, acquisti una valenza completamente diver­ sa. Il «rifugio umano» dalla violenza tecnologica è ridotto a proporzioni microcosmiche, nell’informe materialità del­ la terra. Lo spazio interno è saturo di uomini, dei loro odori, delle loro esalazioni; sembra quasi come se questo spazio fosse aperto per iniezione di esseri umani nel cor­ po della terra. I soldati stessi sono interscambiabilmente «legati insieme», anonimi e silenziosi come le «grosse travi» che sostengono le pareti: essi sopravvivono in uno spazio minimale, ed estremamente precario, meramente caratterizzato dalla loro pura densità fisica umana contro la pressione del fuoco esterno. Questi uomini non sono legati da sentimenti — da molto tempo svaniti — bensì dai vincoli imposti dallo spazio che condividono e dalle esigenze di sopravvivenza e lavoro in un mondo oscuro, di distruzione. L ’integrazione formale dell’io nella massa, che fu celebrato nell’agosto del 1914, e nei centri di raccolta e d ’addestramento, è rimpiazzata dall’unione fun­ zionale degli individui, ciascuno dei quali dissimulato nel­ l’impermeabilità dell’uniforme e del silenzio. È forse vero, come sostiene Edmund Leach, che le 97

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polarità che una cultura edifica per mediare le proprie contraddizioni principali sono fatte per essere ridimensio­ nate dalPesperienza. Ma è anche vero che l’esperienza fornisce il materiale in cui le polarità culturali resuscitano e vengono ridefinite. Al fronte Pantitesi fra società e comunità si trasformò in antitesi fra «patria» e «fronte»; Pantitesi fra mondo tecnologico e mondo umano venne proiettata sull’orizzonte di guerra fino a definire la ten­ sione fra il mondo «esterno» di forze fisiche minacciose, e un mondo «interno» fatto di solidarietà e immagini immediate, automatiche.

Note 1 C. Zuckmayer, Pro Domo, Stockholm, 1938, p. 33. 2 G. Baumer, Lebensweg durch eine Zeitwende, Tubingen, 1933, p. 264. 3 M. Hirschfeld, A. Gaspar, Sittengeschichte des Ersten Weltkriegs, Hanau am Main, 1929, p. 30. 4 Ìbidem. 5 W. M. Maxwell, A Psychological Retrospect of thè Great War, London, 1923, p. 37. 6 G. Baumer, op. cit.f p. 2 6 3 . 7 R. CaiUois, L ’homme et le sacri, Paris, 1930; ed. ingl. Man and thè Sacred, Glencoe (N.Y.), 1930, p. i l i . 8 Per un’antologia di studi sul rapporto intercorrente fra guerra primitiva e valori sodali e politid in varie sodetà pre-modeme, si veda P. Bohannon (a cura d i), Lato and Warfare. Stadies in thè Anthropology of Conflict, Garden City, New York, 1969. Nonostante le sue lacune a livello teoretico, Primitive War di Tumey-High resta la monografia standard in inglese. ^9 Vedi M . M auss, Essai sur le don, in Sociologie et anthropologie, Paris, PUF, 1930; trad. it., Saggio sul dono, in M. Mauss, Teoria generale della magia ed altri saggi, Torino, Einaudi, 1963. Contiene un denso dibattito sul rapporto fra scambio e usanze di guerra. 10 W. Scheller, Als die Seele Starb, 1914-1918, Berlin, 1930, p. 2. 11 S. Zweig, Die Welt von gestern, Stockholm, 1942; trad. it., Il mondo di ieri, in S. Zweig, Opere scelte, a cura di L. Mazzucchetti, 2 voli., Milano, Mondadori, 1961, voi. II, p. 806. 12 Citato in H. Hafkesbrink, Unknown Germany. An Inner Chronicle of thè First World War Based on Letters and Diariesy New Haven, 1948, dt., p. 37.

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13 R. Binding, Erlebtes Leben, Frankfurt a/M., 1928, p. 237. 14 Qtato in V. Tumer, Ritual Process, Chicago, 1969, p. 126; trad. it., Il processo rituale, Brescia, Morcelliana, 1972, pp. 142-143. 15 Ìbidem ; trad. it. dt., p. 148. 16 In E. Loehrke (a cura di), Armageddon, The World War in Literature, New York, 1930, pp. 44-45. 17 Citato in M. Hirschfeld e A. Gaspar, op. cit., p. 57. 18 Vedi Hirschfeld. Sebbene i dati clinid di Hirschfeld siano inaffi­ dabili — pare che se li sia in parte inventati — il suo libro è una miniera di informazioni sulla stampa popolare nel corso della guerra. Vedi anche il «sogno dei servizi d’amore» riportato da Freud nella sua Introduzione alla psicoanalisi (1915-17), in S. Freud, Opere, a cura di C. L. Musatti, 11 voli., Torino, Boringhieri, 1967-1979, voi. V ili, 1976, p. 310. 19 R. Caillois, Uhomme et le sacré, dt.; ed. ingl. dt., p. 166. 20 M. Marriott, The Feasts of Love, in Krishna: Myths, Rites and Attitudes, a cura di M. Singer, Honolulu, 1966, p. 212. 21 C. Zuckmayer, Pro Domo, dt., p. 130. 22 Per un’analisi di questo tema nella letteratura e nelle feste popolari europee, vedi Natalie Z. Davis, Women on Top, in Society and Culture in Early Modern Trance, Stanford (Calif.), 1975, pp. 124-151; trad. it., Le culture del popolo. Sapere, rituali e resistenza nella Francia del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1980. 23 M. Hirschfeld e A. Gaspar, op. cit., p. 53. 24 W. M. Maxwell, op. cit., p. 57. 25 R. M. Rilke, Wartime Letters, 1914-21 , N ew Y ork, 1940, p. 22. 26 Richard & Clara Winston (a cura di), The Letters of Thomas Mann, 1889-1955, New York, 1975, p. 67 (in traduzione italiana si veda YEpistolarioy Milano, Mondadori, 1963). 27 F. Meinecke, Die deutsche Katastrophe: Betrachtungen und Erinnerungen, 3 voli., Wiesbaden, 1947; ed. it. ridotta, La catastrofe della Germania, Firenze, La Nuova Italia, 1948, p. 47. 28 G. Baumer, op. cit., p. 280. 29 C. Zuckmayer, Pro Domo, dt., pp. 34-35. 30 E. Glaser, Class of 1902, New York, 1929, p. 94. 31 Citato in C. Schorske, German Social Democracy, 1905-17, Cam­ bridge (Mass.), 1955, p. 390. 32 Ibidem. 33 J. Romains, Les hommes de bonne volontà, Paris, 1932-46, 27 voli.; ed. ingl., Men of Good Willy voi. V II: Death of a World, New York, 1938, p. 533. 34 Ibidem. 35 S. Zweig, Il mondo di ieri, dt., p. 806. 36 R. Binding, Erlebtes Leben, dt., p. 237. 37 R. M. Rilke, Wartime Letters, cit., p. 21. 38 M. Csikszentmihalyi, Beyond Boredom and Anxiety. The Expe-

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rience of Play, Work and Games, San Francisco, Washington-London, 1975, p. 36. 39 Ibidem, p. 47. 40 J. Huizinga, Homo Ludens. Das Spielelement der Kultur, Am­ sterdam, 1939; trad. it., Homo Ludens, Torino, Einaudi, 1973, p. 13. 41 M. Marcks, Ritual Structure in Afro-American Music, in Religious Movements in Contemporary Americay a cura di I .I . Zaretsky e M. P. Leone, Princeton (N. J.), 1974, pp. 60-134. Vedi anche K. Bùcher, Arbeit und Rhythmus, Leipzig, 1902, p. 397. 42 F. Schauwecker, The Fiery Way, London-Toronto, 1921, p. 29. 43 R. Graves, Goodbye to All That, London, 1929, p. 239. 44 V. Tumer, Il processo rituale, cit., p. 208. 45 A. Vagts, The History of Militarism, New York, 1959, p. 13. 46 C. Zuckmayer, Pro Domo, cit., p. 37. 47 Ibidem. 48 Su Wilfred Owen vedi P. Fussell, Soldier Boys, in Great War and Modem Memory, London, Oxford-New York, 1975, cap. V ili; trad. it., La G rande G uerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 345. 49 H. Hafkesbrink, op. cit., p. 43. 50 G. Baumer, op. cit., p. 280. 51 R. Binding, Erlebtes Leben, dt., p. 263. 52 C. Zuckmayer, Als war ein Stùck von Mir, Wien, 1966, p. 221. 53 Ibidem, p. 199. 54 C. Zuckmayer, Pro Domo, dt., p. 34. 55 Th. Mann, In My Defense, in «Atlantic Monthly», CLXXIV (1949), n. 4, p. 101. 56 R. & C. Winston (a cura di), op. cit., p. 67. 51 C. Graf von Krockow, Die Entscbeidung. Eine Untersuchung ùber Ernst Jùnger, Cari Schmitt, Martin Heidegger, Stuttgart, 1958, p. 42. 58 H. Hafkesbrink, op. cit., p. 43. 59 In E. Loehrke (a cura di), op. cit., p. 56. 60 G. Baumer, op. cit., p. 281. 61 E. M. Forster, The Machine Stops, in A .O . Lewis jr., Of Men and Machines, New York, 1963, p. 274. 62 F. Kreisler, Tour Weeks in thè Trenches, Boston-New York, 1915, p. 63. 63 Vedi P. Fussell, The Great War and Modem Memory, cit., cap. V II: Arcadian Recourses; trad. it., La Grande Guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 1984, cit., p. 297. 64 Per testi che trattino dell’impatto dell’industrializzazione sulla decorazione d’interni, la letteratura e lo stile* vedi: L. Litvak, A Dream of Arcadia. Anti-Industrialism in Spanish Literature, 1895-1905, Austin (Texas) e London, 1975; H. Sussman, Victorians and thè Machines,

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Cambridge (Mass.), 1975. Ancor più notevoli sono i lavori di Giedion, Mechanization Takes Command, e L. Mumford, Technics and Civilization} New York, 1934; trad. it., Tecnica e cultura, Milano, Il Saggiatore, 19683. 65 T. Veblen, Imperiai Germany and thè Industriai Revolution (1915), New York, 1946, p. 85; trad. it., La Germ ania imperiale e la rivoluzione industriale, in T. Veblen, Opere, a cura di F. De Domenico, Torino, U tet , 1969, pp. 419-420. Le opere standard che trattano dell’im­ patto dell’industrializzazione sulla Germania guglielmina riguardano cronologicamente il periodo immediatamente precedente il 1914, op­ pure lo scavalcano. Vedi a questo proposito: K. Barkin, The Controversy over German Industrialization, 1890-1902 , Chicago-London, 1970; R. Dahrendorf, Gesellschaft und Demokratie in Deutschland, Mùnchen, 1965; trad. it., Sociologia della Germania contemporanea, Milano, Il Saggiatore, 1968; e F. Stem, The Politics of Cultural Despair. A Study in thè Rise of thè German Ideology, Berkeley, 1961. L ’opera di Alexander Gerschenkron è inestimabile; vedi il suo Bread and Democracy in Germany, New York, 1966, e in particolare il suo Economie Backwardness in Historical Perspective, Cambridge (Mass.), 1962; trad. it., Il problema storico dell'arretratezza economica, Torino, Einaudi, 1965. 66 T. Veblen, La Germania imperiale, cit., p. 420. 67 E. Jùnger, Krieg als àusseres Erlebnis, in «Standarte» (supplemen­ to a «Der Stahlhelm»), I (1925), n. 1, 27 settembre. 68 C. von Clausewitz, Vom Kriege (1832), Bonn, 198019; trad. it., Della guerra, Milano, Mondadori, 1970, p. 35. 69 C. Zuckmayer, Als wàr ein Stiick von M.ir, cit., p. 199. 70 E. Gombrich, Art and Illusion, Washington (D. C.), 1959, p. 110; trad. it., Arte e illusione, Torino, Einaudi, 1965, p. 109. 71 G. Bàumer, op. cit., p. 281. 72 E. Tùnger, Der Kampf als inneres Erlebnis, Berlin, 1922, pp. 25-26.

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Capitolo terzo

Il labirinto della guerra e le sue realtà

Esperienza, rito, metafora Come riescono gli uomini ad acquisire conoscenza di­ rettamente dal loro ambiente fisico, e come traducono questa loro conoscenza in linguaggio? È questo il pro­ blema di cui d occuperemo nel presente capitolo. Forse il modo migliore di inquadrare il problema consiste nel tornare all’equazione convenzionale fra esperienza di guerra e rituali di passaggio. È comune reperire questa equazione nella maggior parte della letteratura di guerra, tanto comune che la sua assurdità quasi sfugge: infatti, come abbiamo già rilevato più sopra, i riti d’iniziazione non storpiano, gasano, uccidono, o distruggono fisicamen­ te i novizi. La guerra non è fatta per istruire i combat­ tenti o per fornire i segni distintivi della loro maturazio­ ne. I riti di iniziazione hanno lo scopo di inserire i singo­ li individui in caselle sociali ben definite: la guerra, e certamente la prima guerra mondiale, non rappresenta nulla di tutto ciò. Al contrario, coloro che tornarono dal fronte erano sovente terrorizzati al pensiero del reinseri­ mento nella loro società d ’origine, o addirittura erano convinti che non avrebbero mai più potuto trovare una collocazione sociale. A dispetto delle loro palesi differenze, guerre e riti di iniziazione sono stati equiparati spesso e volentieri. Cre­ do che questa equazione poggi sulle analogie della cono­ scenza acquisita nell’ambito di scenari pur tanto differen­ ti fra loro, così come sul contrasto fra questo tipo di conoscenza e le normali esperienze d’apprendimento. In guerra, così come nel rituale, gli individui non appren­ dono semplicemente attraverso lo strumento linguisti­ co bensì attraverso la loro immersione nella struttura 103

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drammatica dell’evento fisico; Pesperienza di guerra, al pari dell’esperienza iniziatica, è essenzialmente un’espe­ rienza d’apprendimento non verbale, concreta, molteplice, che non può assolutamente essere resa in meri termini linguistici. È questo che Rudolf Binding intendeva osser­ vando che «la guerra è una maestra silenziosa che inse­ gna a divenire silenziosi» \ In guerra all’individuo è ri­ chiesto di imparare a riconoscere le frequenze, i modelli, le probabilità degli eventi che lo minacciano: acquisire familiarità con la struttura degli eventi che determinano le probabilità di sopravvivenza è questione della massima importanza. Ma c’è un altro significativo parallelo fra il tipo di conoscenza acquisita nell’esperienza di guerra e quella acquisita nei rituali di passaggio. La conoscenza ottenuta in guerra raramente è ritenuta alienabile, qualcosa cioè che possa essere insegnato, uno strumento o un metodo: piuttosto era più sovente descritta come qualcosa di in­ tegrato al corpo del combattente, come una sostanza chi­ mica nelle vene, una tacca, una cicatrice, una parte dei riflessi, una parte della stessa capacità fisica dell’indivi­ duo. L ’analogia migliore della conoscenza acquisita in guerra è forse quella sessuale, una conoscenza che tra­ sforma il carattere e la condizione di un soggetto da una fase di innocenza a una fase di amministrazione delle proprie potenzialità. Questo solleva un’altra questione che deve essere esaminata alla luce delle realtà di guerra: e cioè come queste realtà diventino «io», come questa conoscenza acquisita per esperienza divenga elemento de­ finito della personalità. Questo problema sarà esaminato nella discussione circa la «personalità difensiva» originata dalla guerra di trincea. Per finire, la questione forse più importante: l’espe­ rienza d’apprendimento in guerra, al pari di quella d’ini­ ziazione, fornisce all’individuo un tipo di conoscenza che potrebbe essere definito «disgiuntivo», piuttosto che in­ tegrativo. Vale a dire che ciò che gli uomini apprendono in guerra li separa in maniera irrevocabile da tutti coloro che ne rimangono fuori: l’esperienza di guerra infatti i104

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stituisce confini generazionali ben precisi fra coloro che hanno combattuto e coloro che erano «troppo anziani o troppo giovani» per avere potuto combattere nella Gran­ de Guerra. Ma la conoscenza acquisita sul campo di bat­ taglia è disgiuntiva anche in un altro senso, e cioè nel suo segmentare la vita dei combattenti in un «prima» e in un «dopo». La conoscenza e l’identità acquisite in guerra potevano essere integrate solo con estrema diffi­ coltà in un «io» continuo; è significativo che in guerra i soldati apprendessero elementi non cumulativi, cose che non confermavano bensì invalidavano il loro precedente ba­ gaglio di conoscenze, cose che trasformavano le iniziali attitudini, verità e convinzioni, in menzogne, illusioni, falsità. Questo tipo di conoscenza è riflesso nell’immagine del veterano, convenzionalmente «cinico», sospettoso nei confronti di verità generali, restìo ad accettare termini impegnativi come «onore», «gloria», «verità», poiché la sua esperienza diretta gli ha insegnato il valore relativo di tutto ciò che un tempo reputava vero. Sottolineare la natura disgiuntiva della conoscenza acquisita in guerra significa nientemeno evidenziare come questa conoscenza sia il prodotto di un mutamento irre­ versibile, tanto irreversibile quanto il tracollo di un mondo amato, familiare, tanto irreversibile quanto una mutilazione. I temi di fondo in Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque — i temi della perdita della giovinezza, dell’invecchiamento pre­ coce, della disillusione — indicano come la conoscenza di guerra sia conoscenza viva, parte fisica del singolo indi­ viduo che impone un confine ben preciso fra il suo pre­ sente e il suo passato, fra se stesso e tutti gli altri. Chiunque esamini l’esperienza della prima guerra mondiale deve trattare della «disillusione». Nella tesi che segue sostengo che la disillusione fu nella maggior parte dei casi funzione dello status sociale del combattente o, più esattamente, del suo modo di percepire la contraddi­ zione sociale impostagli dal suo status. Senza eccezioni la disillusione del soldato istruito, proveniente dalla borghe­ sia medio-alta — spesso volontario — sopraggiunse con 105

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la constatazione del carattere industriale della guerra in atto. Coloro che si tuffarono in guerra attendendosi sol­ lievo dalle costrizioni e dai vincoli della società borghese si accorsero quanto fossero permeabili le membrane divi­ sorie fra pace e guerra: esse lasciavano filtrare le stesse realtà di fondo che caratterizzavano la vita civile. In guerra queste realtà tecnologiche definirono una struttura fisica — il sistema di trincea — che assunse le sembian­ ze di un mondo labirintico, in grado di dettare il com­ portamento, le relazioni sociali, la coscienza di sé del combattente. In altri termini, la disillusione patita da tanti volontari è identica alla sensazione di proletarizza­ zione da parte di chi, nella vita civile, non era né avreb­ be mai pensato di diventare proletario. La disillusione è un processo in base al quale gli individui si sentono spogliati dalle loro precedenti dignità, dignità che sovente ignoravano di possedere; inoltre, si tratta di un processo irreversibile, il cui risultato è un’interiorizzazione, un tentativo da parte del combattente di derivare la propria identità dalle realtà di guerra, dalle proprie relazioni con i camerati e con il nemico che diventa — in ultima ana­ lisi — più familiare e degno di rispetto di tutti coloro che, in patria, rimangono estranei alla struttura tragica della guerra. Un’analisi delle realtà di guerra, del modo in cui i soldati le interiorizzavano, e riuscivano a rappresentarle a se stessi e agli altri, può risultare illuminante a fini epi­ stemologici. Una volta affrontata seriamente questa pro­ blematica, si può cominciare ad avanzare una risposta al problema storico di come e perché l’esperienza di guerra divenne realtà paradigmatica per i combattenti, un mo­ dello che fu assunto anche in ambito civile dopo la fine della guerra. Paul Fussell ha mostrato come le metafore e il linguaggio di guerra venissero proiettati sulle realtà po­ litiche, sessuali, familiari e pedagogiche degli anni Venti. Sia che gli uomini vedessero o meno il loro mondo poli­ tico e sociale in un’ottica effettivamente diversa, il lin­ guaggio della contesa e della lotta divenne pressoché ob­ bligatorio per convincere della serietà di un argomento. 106

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A questo punto dobbiamo fare i conti con il problema di come le realtà di guerra venissero arrangiate in un orga­ nigramma comprendente le basi della metafora, una strut­ tura ermeneutica in grado di essere adattata a una grande varietà di scenari. Non è esagerato affermare che molti combattenti si abituarono a rapportarsi ad ogni cosa nei termini della loro esperienza di guerra; e poterono farlo perché l’espe­ rienza di guerra, attraverso le metafore derivate da essa, divenne qualcosa capace di comprendere tutto. È facile riportare esempi di come Pesperienza di guerra fu proiet­ tata in ambito politico, familiare, sessuale. Forse l’esem­ pio migliore è fornito ancora da Ernst Junger che, men­ tre era all’opera per la mobilitazione politica dei veterani nel 1925, scriveva: Per noi la politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi. Ma questa guerra politica è condotta sempre più sotto forma di guerra di trincea, in una situazione di confusione tattica nella quale le energie sono inibite dalla mancanza di uno spazio chiaro, libero, dove scatenarsi. Non c’è da meravigliarsi che il desiderio per la grande azione, e per la grande figura politica nazionale cresca con sempre maggior inquietudine ed intensi­ t à 2.

Si può qui notare tutta la caratteristica reversibilità delle metafore mutuate dall’esperienza di guerra. Da un lato la politica è equiparata alla guerra — un’equazione non inedita. Ma nella misura in cui il parallelo attinge alla realtà specifica della prima guerra mondiale, la guer­ ra di trincea, impone una visione politica peculiare: la politica è identificata come frustrante stasi, caos, costri­ zione e frammentazione delle energie; la situazione poli­ tica è, al pari della realtà della guerra di trincea, una situazione di contraddizioni profondamente interconnesse e irrisolvibili da coloro che vi sono immersi. D ’altro can­ to, qualsiasi situazione claustrofobica, politica, sessuale, o psichica che sia, può richiamare l ’immagine del sistema labirintico di trincea; attraverso questa immagine l ’excombattente ripiomba nella realtà bellica, ritorna all’e­ sperienza vissuta di profonda costrizione e frustrazione, 107

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alla memoria di ciò che sarebbe stato meglio dimenticare per sempre. Forse è questo il momento più appropriato per defi­ nire l'accezione del termine «metafora» che sto impie­ gando, e per prendere le distanze da una qualsiasi analisi letteraria dell'esperienza di guerra. Non mi interessa mol­ to in che misura l'esperienza di guerra fosse integrata, attraverso strutture culturali o letterarie pre-esistenti, con una tradizione; né sono particolarmente interessato alPambito da cui possano essere attinte le metafore che ordinano l'esperienza di guerra. Mi interessa molto di più come queste metafore vengano impiegate, verificate, in­ tegrate in un'esperienza storica, fino ad acquisire signifi­ cati che prima non possedevano. Quella che io considero metafora essenziale della guerra di trincea — quella del labirinto — ha una propria lunga e ricca storia risalente almeno al Palazzo di Minosse; ma una rassegna di questa storia non ci direbbe nulla su come l’immagine del labi­ rinto venne sincronizzata, attraverso l'esperienza vissuta dai combattenti, con le caratteristiche costanti del loro ambiente fisico. Nessuna delle immagini, convenzionalità, metafore che ridondano nella letteratura della prima guerra mondiale, è nuova: ma questo non ha importanza, e dimostrare con precisione che non si tratta di novità ci direbbe molto poco dell'esperienza di guerra o di ciò che questo instillò nei combattenti. È importante invece dimostrare come queste metafore divennero veicolo di spiegazione delle esperienze e dei sentimenti più profondi di uomini invischiati in un groviglio inestricabile di con­ traddizioni fisiche e psichiche, create e riprodotte dalla potenza della tecnologia industriale. Nell'unione fra mondo simbolico del linguaggio e mondo non simbolico dell'esperienza fisica le realtà di guerra diventano «fatti con cui pensare», con cui fanta­ sticare, da applicare all'azione anche nell'ambito di con­ testi politico-sociali. Ma questa unione è ben di rado una «libera» scelta, le metafore scelte ben raramente sono il prodotto di una decisione estetica. L'immagine del labi­ rinto appare tanto frequentemente nei resoconti dei com108

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battenti non per una sua intrinseca eleganza, bensì per la sua ovvietà. È una metafora idonea a simboleggiare la natura frammentata, disintegrata e disgiuntiva del pae­ saggio in cui erano inseriti i combattenti della guerra di trincea. Quando, muovendosi in trincea, si incontra un angolo ogni pochi metri, sembra proprio di vagare in un labirinto. È impossi­ bile mantenere il senso dell’orientamento ed ogni passo costa una fatica immensa. Quando poi il sistema di trincee è stato squassato dalla battaglia, la confusione raggiunge il suo grado massimo. Al posto di una linea di trincee parallele, ben definite, si è costretti a fare il miglior uso possibile dei tronconi che restano, e che possono condurre in qualsiasi direzione, magari opposta a quella che si desidererebbe: un vecchio e tormentato campo di battaglia, come quello della Somme, diventa infine un labirinto di trincea senza criterio alcuno3.

Qui Charles Carrington elenca tutte le proprietà del labirinto di trincee. Il soldato che si sposta avendo in mente una destinazione ben precisa, si trova dinanzi una sconcertante profusione di possibilità, tutte potenzialmen­ te fuorvianti, tutte impercettibilmente erronee. Il movi­ mento all’interno del sistema di trincea crea ansia circa la direzione corretta, ansia che culmina nella sensazione di essersi perduti. Carrington sottolinea gli effetti della «storicità» del complesso che sta illustrando: un sistema che, sebbene costruito inizialmente secondo un progetto, è stato sconvolto, riparato, di nuovo cancellato dal fuoco d ’artiglieria e ancora una volta ricostruito. Dopo un certo periodo di tempo, e dopo riparazioni senza fine, non esi­ ste più percorso alcuno diretto ad una determinata desti­ nazione, bensì solo una sequenza di tronconi disorientanti; l ’effetto finale della complessità e della storicità stratigra­ fiche del sistema è la sensazione di vivere in un’alluci­ nante precarietà che produce confusione ed esaurimento psichico. Franz Schauwecker impiega la metafora del labirinto in modo diverso: la guerra di trincea è un universo che non potrà mai essere conosciuto in maniera astratta o dall’esterno. Semplici spettatori non saranno mai in grado 109

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di comprendere una realtà che deve essere attraversata e vissuta di persona. Questo tipo di esistenza instilla in chi la vive una conoscenza difficile da spiegare o generalizza­ re: «La posizione diventa una sorta di labirinto attraver­ so il quale si possono destreggiare salvando la pelle solo coloro che ne hanno acquisito la massima familiarità» 4. Come nel caso di ogni altra metafora, quella del labi­ rinto utilizza il familiare per dipingere l’ineffabile. È dif­ ficile individuare il punto esatto in cui Pimmagine del labirinto cessa di essere una mera descrizione delle carat­ teristiche fisiche del sistema di trincea per divenire il simbolo del destino degli uomini in guerra. Comunque Pimmagine fu impiegata con insistenza per esprimere la sensazione che la guerra, iniziata per realizzare i destini delle nazioni coinvolte, fosse ormai divenuta un enigma, un mistero. La guerra era un nodo, un groviglio di dire­ zioni incrociate che esauriva le energie di coloro che vi incappavano. Il mistero di un destino individuale è del tutto connesso con la «misteriosità» della guerra; Henri Massis, tramite Pimmagine del labirinto, evoca il mistero rappresentato dalla guerra: Ecco infine la trincea che dobbiamo occupare: una banalissi­ ma postazione, resa però misteriosa dal suo sistema di cunicoli intersecantesi, un labirinto pieno di pericoli ed incognite5.

Ad un altro livello Pimmagine del labirinto rappre­ senta la sensazione — necessaria affinché un qualsiasi insieme di condizioni possa essere veramente definito una realtà — dell’ineluttabilità dell’universo di guerra. Nella misura in cui l’idea di una via d ’uscita diventa sempre più vaga e remota, il labirinto di trincee diviene sempre più sommatoria di qualsiasi cosa possa inibire il desiderio di liberazione da quella situazione. Carrington ha sottoli­ neato le caratteristiche del labirinto di trincee che pone­ vano di fronte ad una apparente libertà di scelta, in real­ tà paralizzante; ma, nella descrizione del labirinto resa da Henri Barbusse, anche l’illusione della scelta svanisce. Qui la totalità dell’universo-trincea è rafforzata dalla 110

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massiccia fisicità della terra e dall'assenza di mura ester­ ne: la trincea è un sistema privo d'esteriorità. Poco oltre, lungo la trincea vera e propria, si apre un lungo cunicolo . . . Penetrare in questo pozzo senza fine significa immer­ gersi nella oscura fisicità del sottosuolo, sentirsi tagliati fuori dal mondo e prossimi al terribile cuore di tutte le cose. Un angolo dopo Taltro, si procede lentamente strisciando lungo pareti rigon­ fie, prigionieri di coordinate geografiche, inscritti nell’antitesi sen­ za forma della terra; e il respiro stesso è strappato dalla pressio­ ne di queste p areti6.

Il labirinto di trincee annulla dunque ogni speranza di uscita. Nel sottolineare la totalità di questo universo, Barbusse attinge probabilmente al più profondo livello significante connesso all’immagine del labirinto. Nella sua descrizione infatti, il labirinto — un mondo compietamente chiuso, sotterraneo — appare come struttura ini­ ziatica che conduce il combattente in prossimità del «ter­ ribile cuore di tutte le cose». Per raggiungere questo centro, il combattente deve superare una serie di prove, la sopravvivenza alle quali apporta un mutamento irre­ versibile al suo status esistenziale. La metafora del labirinto opera su di una serie di livelli diversi. È una rappresentazione della realtà in cui si inquadra l’esperienza dei combattenti; ma è una rap­ presentazione che può essere impiegata per definire una guerra in cui Tintelligibilità dell’agire umano sia stata sconvolta o profondamente interiorizzata. Nello stesso tempo essa definisce la struttura in cui hanno luogo le trasformazioni psicologiche ed esistenziali che fanno dei soldati di linea «ciò che essi sono». Ma prima che le realtà di guerra e la personalità-tipo da queste modellata possano essere esaminate, è essenziale vedere come gli uomini furono strappati dalle loro condizioni precedenti per poi trovarsi nel bel mezzo di una guerra che violò le loro aspettative più importanti.

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Classe sociale e disillusione: il volontario e l'operaio Quello della disillusione è sempre stato un tema impor­ tante nelPambito della letteratura europea, ed è solo natu­ rale quindi che i combattenti più versatili dal punto di vi­ sta letterario abbiano impiegato questo tema per illustrare la sequenza dello scadimento delle loro attitudini e aspetta­ tive iniziali. Ma, almeno per la dottrina cristiana, la disil­ lusione è sempre stata considerata un’esperienza positiva, una dolorosa ma necessaria presa di coscienza, un risve­ glio dall incantesimo esercitato dalle realtà sensuali e ma­ teriali, un rifiuto del mondo delle mere apparenze. At­ traverso questo disinganno, coloro che seguono il sentiero del Cristo acquistano saggezza e fede nell’esistenza di un supremo bene, nella propria mortalità, e nel proprio po­ sto in un mondo creato e disposto secondo i fini im­ perscrutabili di Dio. Ma nella prima guerra mondiale di­ sillusione non sta per ravvedimento e ascesa verso la gra­ zia, bensì per avvilimento sociale e spirituale. È univer­ salmente noto che in questa guerra i soldati persero i loro ideali, il loro senso morale, i loro più nobili e alti propositi: essi si videro costretti a rassegnarsi alPonnipotenza di quelle realtà materiali che erano già note alla classe operaia industriale — realtà concrete che venivano descritte come «industriali» e «tecnologiche». In guerra disillusione significò perdita di status sociale ed esisten­ ziale ovvero, più precisamente, un processo di auto-ridefinizione attraverso realtà che possedevano una valenza morale ed esistenziale notevolmente inferiore alle aspetta­ tive iniziali. Nella descrizione data da Stefan Zweig della disillusione della sua generazione, la pratica di guerra as­ sume un aspetto piuttosto detestabile nei confronti della grandezza e della nobiltà degli ideali iniziali: «La guerra del 1914 . . . era staccata dalla realtà, serviva ancora un’il­ lusione, il sogno di un mondo migliore, più giusto e pacifico» 7. Coloro che si presentarono come volontari prove­ nendo da classi medio-alte trascorsero non più di un anno nei ranghi, quindi ebbero accesso alle scuole allievi 112

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ufficiali per tornare al livello della loro classe d ’origine. Nel loro incontro con le classi inferiori in uniforme, questi volontari appresero essenzialmente due cose: pri­ ma di tutto, che la loro attitudine verso la portata sociale della guerra, verso la nazione, verso il significato intrin­ seco del combattimento, ben di rado era condivisa dai portuali, contadini, operai, minatori, braccianti che com­ ponevano le loro compagnie. E, fatto ancor più impor­ tante, essi conclusero che la loro concezione della guerra come comunità di destino in cui si sarebbero dovute ri­ conoscere tutte le differenti classi sociali, altro non era che un’«illusione», una funzione del loro idealismo e in­ nocenza iniziali. Essi compresero che la prima guerra mondiale era un tipo molto peculiare di guerra in cui le realtà del combattimento rendevano le loro aspettative completamente assurde e vane, e invece del tutto realisti­ ci, efficaci, e addirittura esemplari, i comportamenti e le attitudini dei soldati semplici, degli «uomini». È importante capire come questo non sia un effetto necessario della guerra in generale, bensì del particolare tipo di guerra che si combatte fra il 1914 e il 1918. Fu questa una guerra in cui Don Chisciotte assunse le sem­ bianze di Sancho Panza, e non il contrario, come ci si sarebbe attesi. In una guerra di tipo opposto, in una guerra cioè in cui le ideologie dominanti della guerra fossero realmente riuscite ad integrare il soldato semplice nell’ambito di un progetto comunitario e nazionale, c’è da dubitare che il soldato semplice avrebbe avuto il pote­ re di incrinare a tal punto il comportamento e la coscien­ za di sé dei volontari delle classi borghesi medio-alte. Le tensioni di classe, l’antisemitismo, il razzismo, sono repe­ ribili in ogni esercito nazionale in guerra: ciò che di inedito si verifica nella prima guerra mondiale è lo scon­ tro di queste tensioni, un urto che fece crollare l’intero «significato» della guerra nella sua valenza ideologica. Questo fu particolarmente vero per l’esercito tedesco, dove la rottura fra il Kriegsfreiwilliger (il volontario) e il «soldato semplice» fu molto più traumatica che negli eserciti britannico, francese o americano. Nell’esercito te113

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desco anche il fenomeno della disillusione fu più accen­ tuato, poiché la guerra era stata concepita come possibili­ tà di sfogo per le tensioni accumulate nel processo di modernizzazione estremamente rapido. L ’immagine della guerra come impresa al di là di una valenza di classe ebbe molto più peso in Germania, e fu di conseguenza più vulnerabile alle realtà di una guerra che espresse, addirittura amplificandoli, gli odi di classe endemici nella società borghese. I tempi e i modi in cui fu acquisita coscienza di questa realtà nel contesto di guerra risaltano particolar­ mente nell’esperienza di Cari Zuckmayer e Franz Schau­ wecker. Entrambi entrarono volontari in una guerra che appariva loro come realizzazione del sogno di una comu­ nità naturale. Fu sulla base di questa aspettativa che en­ trambi furono costretti a confrontarsi, in guerra, con il retaggio della propria estrazione sociale. Zuckmayer indi­ viduò immediatamente il motivo degli scherzi «incredi­ bilmente volgari» di cui era fatto oggetto da parte dei camerati. Infatti, per grado d’istruzione e classe di pro­ venienza egli era uno Einjahriger, una categoria di volon­ tari che in virtù dello Abitar, corrispondente al diploma di maturità, potevano diventare ufficiali della riserva do­ po avere trascorso un anno nella truppa semplice. «I ci­ vili benestanti che formavano la riserva ufficiali erano odiati dai soldati. Noi eravamo destinati ad appartenere a quella categoria, e i soldati, cui ora stavamo in mezzo a pari grado, facevano di tutto per prendersi rivincite anzi­ tempo» 8. Dopo la fine della guerra, Zuckmayer divenne scrittore e drammaturgo, Schauwecker fervente naziona­ lista e uno dei principali «letterati d ’assalto» in Germa­ nia. È abbastanza paradossale che il nazionalismo post­ bellico di Schauwecker fosse imperniato sulla Gemeinschaft, la comunità del fronte di cui in realtà era stato bersaglio, vittima designata. Entrambi i letterati divenne­ ro dunque ben presto consci delle implicazioni del loro precedente status in una guerra che li denudava di tutte le dignità a quello connesse. Zuckmayer era figlio di un agiato fabbricante di tappi 114

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renano. Nel luglio del 1914 era stato spedito dal padre sulla riviera olandese allo scopo di allontanarlo dalla sua prima fiamma — una giovinetta di «buona» famiglia. In Olanda il ragazzo scrisse poesie, ingaggiando in versi «una lotta disperata contro le miserie dell’educazione re­ pressiva, non più a lungo tollerabile per le .. . [sue] . . . prorompenti energie intellettuali e morali»9, ed ebbe una tresca con una servetta. Quando la minaccia della guerra si fece più acuta, rientrò in Germania presentan­ dosi volontario. Egli andò contro i propri interessi per sottolineare in questo modo il significato della decisione volontaria di «andare»: fu la gratuità di questo atto che fissò la psicologia del volontario, assegnando alla guerra una dimensione morale ben oltre il semplice stato d’e­ mergenza. Era evidente di per sé, non c'erano dubbi, non più problemi: volevamo marciare insieme, tutti quanti, e senza secondi fini — posso assicurarlo. Non era come se qualcuno si unisse per tema di sfigurare di fronte agli altri: si può dire che fosse una sorta di ipnosi collettiva, una decisione di massa, ma senza pressioni, o riflessioni di coscienza 10.

Questa libera decisione di migliaia di uomini, presa senza pressioni, anche se ambiguamente vincolata ad una «ipnosi collettiva», fece della guerra nel suo complesso qualcosa di più di un atto di difesa della nazione, trasfor­ mandola in movimento popolare, nell’espressione sponta­ nea di un senso comunitario di sacrificio di sé. L ’atto del volontariato fece dell’entrata in guerra una scelta liberato­ ria, anziché una mera acquiescenza o una necessità imposta. Zuckmayer insiste sul fatto che questa decisione persona­ le e di tanti suoi contemporanei, condizionò tutta la sua esperienza di guerra, distinguendolo da coloro che giun­ sero al fronte anche solo un anno più tardi. Infatti per quelli della classe di Erich Maria Remarque, che indossa­ rono l’uniforme alla fine del 1915 dopo avere subito tut­ to lo sciovinismo dei propri insegnanti, e che si immerse­ ro direttamente in una guerra completamente immobiliz­ zata, il combattimento aveva significato solo come di115

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mostrazione della schiacciante superiorità dei mezzi sugli uomini11. Ma l’entrata volontaria in guerra, tanto importante per la comprensione dell’agosto 1914, fu pure un atto che aprì una durissima contrapposizione fra il volontario e il soldato semplice. Agli occhi di quest’ultimo, richia­ mato con la propria unità di riserva, il volontario rappre­ sentava «un giocatore, un irresponsabile, una personalità dubbia», preoccupato come era a sbarazzarsi della tran­ quillità e della sicurezza che erano i massimi beni della vita. La differenza di attitudine fra il volontario e il sol­ dato comune era sovente un riflesso di classe, e sovente sfociava nella vittimizzazione e nell’umiliazione del volon­ tario. Per questa «gente del popolo» che noi desideravamo arden­ temente conoscere e comprendere, la vita era il massimo bene. Chiunque avesse gratuitamente scelto di metterla a repentaglio, nel senso di essersi «volontariamente» tuffato nel pericolo, anziché esservi costretto, appariva loro, come minimo, alla stregua di un giocatore d’azzardo, un irresponsabile, una personalità dubbia . . . La nostra mentalità era loro estranea e incomprensibile tanto quanto per noi poteva esserlo, a quel tempo, quella di un minato­ re della Ruhr o di un bracciante polacco. E sebbene non vi fossero fra loro molti socialisti organizzati, essi provavano nei nostri confronti una sorta di istintiva ostilità di classe, o quanto­ meno una barriera di classe 12. Le differenze di classe sociale stavano dunque a signi­ ficare i diversi modi di accesso all’esperienza di guer­ ra, volontariato oppure coscrizione: ma questa diversità comportava pure differenze d’attitudine nei confronti del­ la guerra. Per il soldato-operaio la guerra significò un nuovo insieme di mansioni contrassegnate da fatica, sporco, costrizione; al soldato-giocatore invece, offriva una gamma di ruoli comprendente la possibilità di realiz­ zare virtù ormai obsolete nella moderna società industria­ le. La barriera di classe che divideva il volontario dal «popolo» appariva evidente sia agli «uomini» sia allo Einjahriger. Karl Jannack, figlio illegittimo di un ferroviere e membro della Spd di Brema prima dello scoppio della 116

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guerra, trovò molto familiare la struttura sociale della trincea. Bisogna capire che agli accantonamenti si presentavano due differenti gruppi di riservisti: i rimpiazzi di linea e gli aspiranti ufficiali. Della prima categoria c’è ben poco da dire: i suoi componenti sparivano nelle trincee con noi. Gli altri erano quasi tutti volontari, per la maggior parte licenziati delle scuole superio­ ri e figli di industriali, alti ufficiali, o senatori. Erano accompa­ gnati dai padri su grosse automobili sempre ricolme di pacchi e pacchetti n .

Ma in guerra, a differenza che in tempo di pace, gli «uomini» potevano colpire direttamente il «volontario», demolendone le aspettative. Il rude benvenuto riservato nelle trincee al «giocatore d’azzardo» non è privo di iro­ nia, comunque. Zuckmayer si rendeva conto che il so­ spetto e il risentimento diretti nei suoi confronti avevano come bersaglio i rappresentanti di una particolare condi­ zione di vita, ovvero quei giovani che beneficiavano di ricchezze, vantaggi e possibilità di consumo fuori della portata del soldato semplice: eppure erano precisamente queste cose che egli aveva voluto ripudiare all’atto d’ar­ ruolarsi volontario! Era la sensazione di venire punito per ciò che aveva ripudiato di propria spontanea volontà, e di essere ingiu­ riato per la leggerezza del proprio sacrificio volontario, che più di ogni altra cosa dava a Zuckmayer l’impressione di essere finito «in un mondo di nemici peggiori di quelli che dall’altra parte mi sparavano contro», individui che erano, ad eccezione del caporale, «tutti demoni sadi­ ci . . .» 14. Zuckmayer percepiva di essere umiliato per il suo status sociale di provenienza, e canzonato proprio per avere ripudiato quello status. Questa duplice condanna si manifestava in tutta evidenza nella posizione veramente insostenibile in cui Zuckmayer era indotto dalla valanga di pacchi che sua madre spediva senza tregua. Si trattava di ricordi concreti proprio di quel mondo «ammuffito, fossilizzato» che egli si era lasciato alle spalle. Se egli non avesse diviso il contenuto di quei pacchi-dono con la propria squadra sarebbe stato un cattivo camerata, ostra117

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rizzato, isolato; dividendoli, era considerato come un in­ dividuo privilegiato che accondiscendeva a spartire un poco della propria ricchezza, irritato comunque per que­ sto suo rapporto con il «popolo». Queste tensioni si ri­ solsero solo con l’accesso alla scuola ufficiali, dove final­ mente si trovò in mezzo a giovani della propria estrazio­ ne sociale. Zuckmayer si rendeva conto della penosa ironia con­ nessa alla sua breve permanenza fra il popolo: come vo­ lontario aveva visto nella guerra un sollievo, una libera­ zione, ma ciò fu recepito dai suoi camerati come una conferma della libertà dalla necessità goduta dalla gente della sua classe. Anche Franz Schauwecker si aspettava di trovare in guerra una comunità maschile legata da vincoli d’onore e disciplina, aliena da calcoli d’interesse materia­ le. E anch’egli divenne bersaglio dei suoi camerati preci­ samente per avere scelto di ripudiare i vantaggi della sua posizione, e venendo in ogni caso bollato come portatore di ciò che egli aveva inteso lasciarsi alle spalle all’atto dell’arruolamento volontario. Ma Schauwecker patì la Gemeinschaft delle trincee per tre anni e mezzo, un pe­ riodo di tempo veramente inconsueto per un individuo della sua estrazione sociale. Negli anni Venti e Trenta, Schauwecker fu uno di quei portavoce del nazionalismo dei veterani che tentaro­ no di tradurre l’esperienza di guerra in esperienza nazio­ nale. La fissazione quasi ossessiva sulla Gemeinschaft del fronte, così come la natura peculiare di quel tipo di co­ munità, induce a sospettare che il nazionalismo post-bel­ lico di Schauwecker fosse un tentativo di rimarginare le profonde ferite inferte dalla concreta realtà di guerra. I libri di Schauwecker insistono infatti sull’unità dell’uni­ verso maschile accalcato nelle trincee: i soldati sono uo­ mini isolati dalla patria, che sopportano l’indicibile, che rappresentano la speranza di una «Germania futura». Ma non appena si guardi con maggiore attenzione alla sua stessa esperienza di guerra, si scopre come nulla fosse più problematico di quel complesso di collaborazione, unità di volere, e superamento dell’io individuale, che si pen118

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sava caratterizzasse la Frontgemeinschaft. Schauwecker entrò in guerra all’età di ventiquattr'anni, laureato (Berlino, Monaco, Gottinga), e con una car­ riera accademica in prospettiva. Come figlio di un ufficia­ le daziario di Amburgo, trascorse una giovinezza in rigo­ roso isolamento dal «popolo». Nell’agosto del 1914 egli aggiunse lo svantaggio dell'arruolamento volontario ai già seri inconvenienti connessi al suo status di membro istruito, anche se insoddisfatto e inquieto, delPalta bor­ ghesia. La sua estrazione sociale, la sua istruzione, e il suo idealismo, lo resero bersaglio dell’odio espresso dagli scaricatori di porto che formavano la maggioranza della sua compagnia. * Il fuoco nemico, le ferite, i tormenti della guerra non erano risparmiati a nessuno; ma io trascorsi sei mesi interi sotto un ulteriore sconfortante giogo di disprezzo e umiliazione . . . Nel­ l’ambito della mia compagnia i miei stessi camerati — per la maggior parte portuali di Stettino — non perdevano l’occasione per giuocarmi scherzi con genuina perfidia, addirittura anche dopo la prima grossa battaglia cui prendemmo parte, poiché essi, uomi­ ni d'azione, vedevano in me un rachitico, inferiore fisicamente e, inoltre, lo stolido volontario di guerra, il bambino che intendeva giocare con la vita e la morte; e perché essi, operai socialisti, subodoravano in me l’individuo viziato, il privilegiato di buona famiglia, il laureato. Ero l’unico soldato con istruzione superiore nella mia compagnia . .. Ciò significa: stavo da solo, vale a dire, ero isolato, emarginato. Questa sensazione non mi abbandonava mai15.

Gli veniva rifiutato il rancio mentre tutti i suoi ca­ merati riempivano due volte la gavetta; il suo fucile me­ ticolosamente oliato e pulito veniva regolarmente sosti­ tuito con uno sporco poco prima di una ispezione. Dopo il battesimo del fuoco, che avrebbe dovuto rendere tutti eguali e solidali, gli furono rubate le razioni di riserva e, accusato di averle mangiate, fu punito: legato a un albe­ ro per tre lunghe ore sotto la sferza dell'inverno polacco, subì i frizzi e i lazzi dei camerati, compreso quello che aveva rubato e divorato le sue razioni. L'esperienza di Schauwecker della Gemeinschaft del fronte fu quella di una vittima. Le forme manifeste di 119

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persecuzione ebbero termine solo dopo una mischia in cui Schauwecker si guadagnò un certo rispetto nella cer­ chia degli «scaricatori di porto». Eppure, per tutto il periodo di tre anni e mezzo che trascorse nella truppa, Schauwecker continuò a patire un senso di emarginazione dovuto alla sua provenienza di classe. Lunghi anni trascorsi su di un’isola abitata ma arida, fra uomini che ti passano accanto velocemente, cui si parla per caso, con cui si ha a che fare per caso, cui si rivolge parola senza ottenere risposta, che stanno al sole senza fare ombra: tutto ciò non solo deprime e sconcerta, ma rende indifferenti e abulici16.

Si viene delineando sempre più nettamente il quadro dell’esclusione, dell’isolamento. Schauwecker apprese a starsene in disparte, silenzioso, ad ascoltare, e a difender­ si fisicamente contro i suoi stessi camerati; egli fu capace di reprimere la propria animosità verbale che gli guada­ gnava sospetto, ed acquisì invece la durezza e Pimpenetrabilità caratteristiche del veterano. Le fatiche, i dolori, le esperienze comuni cementarono un minimo di camera­ tismo nella sua compagnia, da cui egli non era escluso: ma non era certo questa la realizzazione delle sue aspet­ tative iniziali. È difficile non notare il calo d’entusiasmo nella sua descrizione della «trasformazione» operata dalla guerra nell’«anima» del soldato di linea. Pian piano, gradualmente, cominciava la trasformazione inte­ riore, nell’anima stessa: per l ’individuo istruito e sensibile, questo processo assumeva i toni di un’estenuante tortura, in una scuola dura fino alla crudeltà, che educava secondo i canoni di vita più primitivi, terribile proprio per la ragione che sviluppava e model­ lava solo ciò che di fisico e istintuale c’è nell’uomo 17.

Schauwecker riuscì ad instaurare un rapporto con gli «operai socialisti» della sua compagnia non tanto sul pia­ no etico della Gemeinschaft, come si era aspettato, quan­ to sul livello veramente minimale delle comuni fatiche e privazioni fisiche, rispetto alle quali la sua educazione non gli era che di ulteriore impaccio. L ’interdipendenza organica della comunità maschile, il superamento dell’in120

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dividuali tà, l ’abolizione delle differenze di classe — tutte le sue aspettative — non erano nulla di fronte a quella realtà schiacciante. La storia dell’umiliante apprendistato dei volontari è narrata da molti altri. Generalmente l’umiliazione aveva termine non con l’integrazione del volontario nel «popo­ lo», bensì con la sua promozione al grado consono alla sua classe d ’estrazione, o con il progressivo rimpiazzo dei «vecchi» con nuovi coscritti. Eppure, questo scontro ini­ ziale fra i volontari e gli uomini del «popolo» non fu questione di classe, quanto d’aspettative. Il volontario, secondo Schauwecker, era la «creatura più disprezzata e odiata dell’intero fronte»: la sua disillusione non veniva compresa perché era basata su aspettative completamente estranee alla maggior parte della truppa. «I soldati ride­ vano della sua disillusione, sghignazzavano delle sue gof­ faggini, schernivano la sua maldestra attitudine al servi­ zio e alle marce» 18; nel loro maggior senso pratico, nella ricerca di evitare i compiti più scomodi e pericolosi, di trarre maggior profitto personale dalle situazioni e, in particolare, in ciò che pensavano del sacrificio di sé, essi differivano in modo essenziale dalla maggior parte dei volontari. Per il «popolo» la guerra era qualcosa a cui bisogna­ va cercare di sopravvivere; per Schauwecker era una sin­ golare occasione per sottrarsi ad una carriera che non aveva scelto, era un’opportunità di auto-realizzazione nel corpo collettivo della nazione. Ma la differenza fondamentale fra lo «spirito ludico» del volontario e gli altri soldati, che invece consideravano la guerra alla stregua di lavoro forzato, stava nelle attitudini contrapposte riguar­ do la vita al fronte. Per il volontario la vita era qualcosa che acquistava valore tramite il sacrificio; per il lavorato­ re era qualcosa da preservare ad ogni costo. Questa atti­ tudine contribuì enormemente a caratterizzare il tipo di guerra in cui Schauwecker visse per tre anni. Il fronte era mantenuto dal tacito accordo fra «nemici» che tende­ vano a ridurre le ostilità a quel minimo che permettesse la sopravvivenza. 121

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Nei momenti di quiete viene fatto di tutto per mantenerla. Se si cannoneggiano i bunkers e i ricoveri degli avversari, questi fanno lo stesso, entrambe le parti restano senza ripari, ma nessu­ no v in ce. . . Per la stessa ragione gli ordini alle pattuglie di catturare prigionieri incontrano scarsa approvazione e ancor meno volontari. Le possibilità di successo sono troppo scarse, e la vita è considerata troppo preziosa per essere rischiata a questo modo. Ogni ostilità gratuita, ogni ricerca d ’ostilità fine a se stessa, appa­ re al soldato di linea come qualcosa di frivolo, un gioco immorale su quel sommo bene che è la vita; e un gioco del genere viene intrapreso solo per odio, ambizione, o desiderio di decorazio­ n i 19.

La lezione del fronte era abbastanza semplice: il sol­ dato di linea preferiva serbare la vita anziché sacrificarsi. Il volontario era odiato e disprezzato non solo perché sovente rappresentava una classe sociale più elevata, ma anche perché la sua etica del sacrificio e la sua abnega­ zione potevano scatenare reazioni che avrebbero messo in pericolo Pesile tre g u a su cui si b a sa v a la possibilità di sopravvivenza dei più. La realtà fisica e sociale della guerra vanificava Pideologia di cui il volontario era por­ tatore. A Schauwecker e ad altri parve che fosse proprio questo a privare la guerra di ogni significato, rendendola un macello insensato, un enorme «insaziabile ventre» alimentato con vite umane. * Nel 1929, dieci anni dopo la fine del conflitto, Schauwecker era ormai sufficientemente distante da que­ ste realtà agghiaccianti da potere sostenere di nuovo che la guerra fosse esperienza comunitaria e nazionale, co­ niando il motto del Soldatisches Nationalismus: «Nel 1914 il popolo tedesco si mise in marcia. Nel novembre del 1918, la nazione tedesca rientrò in patria. Fra le due date dimora la penetrazione del nazionalismo nella realtà politica»20. L ’indeterminatezza di quel «fra» diventa comprensibile tenendo presente Pidealizzazione della co­ munità del fronte. Schauwecker modellò il suo naziona­ lismo sulla propria devastante esperienza di guerra: la comunità del fronte altro non era infatti che la proiezio­ ne delP«isolamento», della «solitudine» di Schauwecker, della sua sensazione di essere tagliato fuori dalla vita. 122

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Così, egli proiettò questa sua sensazione di essere abban­ donato sul soldato di linea in generale, come caratteristi­ ca essenziale: «E dunque tornammo in patria senza ban­ diere spiegate al vento, senza fanfara, senza alone di glo­ ria, senz’altra ricompensa oltre a ciò che portavamo den­ tro noi stessi — abbandonati dal mondo intero»21. Il fronte era un mondo isolato, tagliato fuori, di uomini emarginati che avevano rovesciato e interiorizzato tutti i correlati della propria identità. Era questo fronte che ri­ vendicava quel titolo di «nazione» che il resto del pae­ se aveva ormai abbandonato: «Ci è stato martellato dentro per quattro anni con sangue, sudore e lacrime: noi non siamo soli, siamo un corpo compatto, completo, sia­ mo una nazione» 2 . Sembra dunque che nell’impatto di Zuckmayer e Schauwecker con il «popolo» in guerra, la loro attesa di un’esperienza nazionale e anti-classista si sia mostrata in tutta la sua illusorietà. Entrambi riconobbero di essere entrati in guerra con «leggerezza», come dilettanti che non potevano essere presi seriamente dai soldati comuni, i cui stivali erano incrostati di realismo. Le loro aspetta­ tive si erano formate nel sogno di un tempo passato, un tempo in cui sembrava ancora possibile costruire un’anti­ tesi etica al mondo borghese. Essi avevano creduto che la guerra fosse negazione dell’interesse materiale, e si ritro­ varono immersi nientemeno che nella Materialkrieg. In agosto avevano creduto che la guerra avrebbe scosso tut­ te le artificiali distinzioni sociali e fuso ogni frammento di coscienza nazionale in un tutt’uno cristallino. Si accor­ sero che poteva anche essere vero: ma questa unità del fronte si realizzò nell’abbandono di ideali e nobili scopi, e si concretizzò in proletarizzazione forzata, in una guerra che non era gioco, bensì lavoro. L ’accorgersi che la guerra fosse lavoro e che il came­ ratismo dei soldati poco avesse di diverso dalla comune soggezione quotidiana alle necessità del lavoro manuale, costituì l’essenza della disillusione del volontario. I parti­ colari della disillusione di Zuckmayer sono gli stessi re­ peribili nelle lettere e nei ricordi di tanti altri volontari. 123

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E fui sconvolto dalla disillusione. La durissima scuola di guerra era cominciata, ed era Finfemo — ma non perché piena di pericoli ed orrori. Tutto era completamente diverso da come Favevo immaginato, e soprattutto il «cameratismo»! Si trattava di imparare ad essere un «individuo qualsiasi», da cui nessuno si attendeva altro che non fosse il suo grigio, anonimo, sporco lavoro. Altro che «gesta eroiche»! Ci si doveva sottoporre alle prove più ardue, sempre più difficili da sopportare man mano passava il tempo: la noia mostruosa, lo sfinimento, la banale, meccanica quotidianità di una guerra in cui terrore, paura, e morte scandivano i tempi come in un processo industriale senza fine La guerra non era dunque il luogo dell'eroismo, l'e­ lemento di violetta che avrebbe favorito soldati di pron­ tezza e coraggio eccezionali. Il mutamento d'identità esperito in guerra è sinonimo di declassamento, delF«im­ parare a diventare uno qualsiasi». Il cameratismo nasce dal comune destino di proletarizzazione, di comune sog­ gezione alle fatiche di un lavoro fisico senza fine. In questa guerra i soldati non sono altro che compagni di sventura in un «processo industriale senza fine»; ma il peggio è che la guerra si rivelò una «noia mostruosa», segnata solo da paure e ansie improvvise. Rendendosi conto di ciò, Zuckmayer abbandonò l'aspettativa che sta­ va alla base del suo iniziale entusiasmo per la guerra, e che non trovò mai riscontro nella realtà concreta — e cioè che la guerra avrebbe permesso gratificazioni, piaceri e soddisfazioni che erano vietati o proscritti in una vita finalizzata all'adempimento dei doveri sociali. La guerra si era rivelata al volontario in tutta la sua mostruosità, ma questa mostruosità altro non era che una versione distorta e concentrata della «meccanica quotidianità» di una vita industrializzata: e, nella guerra industrializzata, la vita dell'operaio rappresentò il modello per quella del soldato. La disillusione di tanti volontari precipitò nell'accorgersi che la guerra era lavoro fisico, manuale. Come am­ mise Ernst Jùnger, un individuo la cui visione della guerra era quella di un universo di avventura ed eroi­ smo: «Cambiammo ben presto il mantello luminoso del124

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l’eroismo con la sporca tuta dell’operaio» 24. Questa guer­ ra era questione di tane, di cunicoli scavati nella terra, una guerra in cui si trovavano a loro agio contadini, mi­ natori, scavafossi. Il «guerriero eroico» era più alienato dalla realtà di questa guerra di quanto non fosse mai stato dalle realtà della vita civile nella Germania pre­ bellica. La romantica, mobile immagine della battaglia fu sostituita da quella di un lavoro monotono, pericoloso, che non concedeva soste, notte e giorno. L ’eroismo divenne un banale, cupo susse­ guirsi di turni di guardia, trinceramenti, corvées, fame e impoten­ te permanenza nel costante pericolo25.

Pochi volontari avevano avuto quello stesso forte in­ vestimento emotivo nella guerra come antitesi alla mo­ derna società industriale che contrassegnò le aspettative di Jiìnger e Zuckmayer. Altri volontari si accontentarono di descrivere il loro «lavoro di guerra» lamentandosene, in toni tristi o ironici: «Gli operai attendono la notte, il nemico attende la notte. Infatti egli ragiona: con il favo­ re delle tenebre potremo rafforzare i nostri capisaldi più avanzati. Così il senso della vita sta nell’oscurità» 26. La testimonianza di un altro volontario è particolarmente ironica riguardo al contrasto fra l’immagine della guerra prima dell’arruolamento e quello che essa si rivelò effet­ tivamente: «Ti scrivo che la pausa di mezzogiorno è pas­ sata e dobbiamo rimetterci al lavoro. Lavoro? Sì, dovre­ sti proprio vederci: siamo talpe perfette» 27. L ’ironia è implicita: quelli a casa potevano capire le realtà di guerra solo vedendole in termini di turni di notte, inconvenienti di cantiere, stacchi per colazione e caffè, esaurimento fisico e psichico degli uomini al termi­ ne del loro turno di otto-dieci ore di lavoro. Molti di coloro che patirono questa disillusione non vollero toglie­ re a quelli in patria un tipo di immagine che rendeva loro intellegibile l’attività di guerra. Proprio l’analogia fra guerra e produzione industriale, fra combattimento e manodopera, scavò un solco fra il fronte e il paese, gene­ rando quel distaccato silenzio che avrebbe caratterizzato 125

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coloro che non intendevano rivivere nelle parole e nei discorsi la loro umiliazione. Dietro le peculiari disillusioni dei volontari, si può cominciare a intravvedere il paradosso della guerra come esperienza sociale produttrice di una particolare specie di conoscenza sociale: essa fu esperienza di vita formalmen­ te «senza classi» in cui però le differenze e le tensioni di classe erano acutamente sentite da e fra gli individui. Non si può ignorare quanto il termine «cameratismo» cambiasse di significato nel contesto della guerra di trin­ cea: una cosa era l’entusiasmo dell’agosto, e un’altra il «processo industriale» senza fine che si rivelò essere la guerra. In agosto l’entusiasmo per la guerra poggiava sul­ l ’assunzione che la comunità fosse questione di volontà, impegno, sentimento, coscienza; una volta che la dichia­ razione dell’alternativa morale, la dichiarazione di guerra, avesse cancellato le basi materiali del sentimento di classe, più nulla avrebbe impedito il coagulo del sentimento d ’amicizia, qualcosa di naturale, organico, latente dietro la artificiosa impalcatura della vita economica e sociale. L ’esperienza di tanti volontari rivelò completamente illu­ sorio questo sentimento comunitario. Le loro stesse aspettative, il loro stesso entusiasmo, li segnarono, agli occhi dei portuali e dei muratori che riempivano i ranghi, come «loro», cioè come membri di una società che gode­ va di una peculiare libertà dalla necessità28: il volontario vedeva la guerra come funzione della sua libertà di scel­ ta, l ’«individuo qualsiasi» come imposizione di quelle ne­ cessità che lo vincolavano al lavoro. Il ruolo che le ne­ cessità materiali e fisiche — mangiare, bere, lavorare, defecare, bestemmiare, comportarsi in maniera dura e volgare — ebbero nella disillusione dei volontari è signi­ ficativo; infatti, mentre queste cose erano molto impor­ tanti e abituali per la maggior parte della truppa, per i volontari avevano sempre avuto un significato irrilevante. Il cameratismo che Zuckmayer, Schauwecker e molti altri volontari trovarono e furono costretti ad accettare non era il prodotto di un sentimento, bensì delle condi­ zioni materiali di vita nelle trincee — un cameratismo 126

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molto meno esaltante, luminoso e altruistico di quanto si fossero aspettati. Le verità della guerra erano luoghi co­ muni, anziché quelle rivelazioni inedite che ci si attende­ va dalla magia del campo di battaglia. Henry de Man, socialista belga prima della guerra, raggiunse il contingen­ te belga delle forze alleate, chiedendosi perché mai gli uomini continuassero a combattere dopo avere perso ideali, principi, fede negli scopi della guerra. Egli com­ prendeva la costrizione fisica che inchiodava i soldati nel­ le trincee — il fuoco del nemico di fronte, la pistola dell’ufficiale alle spalle — ma reputava che questi motivi non avessero nulla a che fare con l’«etica» e il senso del dovere da cui si trovava circondato: si trattava di un’eti­ ca che aveva ben poco in comune con l ’alto onore dell’agire in difesa della patria, essendo piuttosto radicata nel più comune «desiderio di non deludere chi si attende qualcosa da te. È questo istinto che rende normale sfor­ zarsi di fare bene il proprio lavoro, anche per il meno istruito degli operai» 29. I valori che cementavano l’eserci­ to erano identici all’«orgoglio dell’uomo sul suo lavoro», perché in questa guerra, come sottolinea de Man, com­ battere non era solo analogo al lavorare: «la maggior parte del dovere di un soldato è lavorare» 30. Questa era la base del cameratismo bellico, un cameratismo radicato in quelle minimali connessioni umane permesse, e anche richieste, in un universo in cui ciascuno era potenziale vittima dell’anonima forza dell’acciaio e degli agenti chi­ mici. La scoperta che la guerra era lavoro e il guerriero un operaio non rappresentava una disillusione per i sol­ dati della compagnia di Schauwecker, o per i minatori gallesi sotto il comando di Robert Graves. Essi continua­ vano, come in tempo di pace, a scavare pozzi e gallerie: il lavoro era simile, solo che i crolli e le esplosioni erano più frequenti, e i capisquadra indossavano uniformi. Ma questa guerra era deludente per coloro che si aspettavano di trovarvi una sfera morale d’azione, una comunità lega­ ta dai vincoli organici della nazionalità, un mondo che avrebbe dovuto assumere significato proprio in antitesi 127

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alla routine quotidiana del tempo di pace. In questa guerra, quei figli della borghesia inizialmente imbevuti di attese ideali si familiarizzarono con attività e rapporti umani che erano loro completamente sconosciuti, e che sarebbero rimasti tali se essi avessero seguito le loro normali carriere civili. È difficile vedere nella disillusione dei volontari qualcosa di diverso da una proletarizzazione militarizzata, un processo in cui essi persero un «io» sociale che igno­ ravano di possedere. Come sperimentarono Zuckmayer, Schauwecker, Robert Graves, Siegfried Sassoon e tanti altri, fu decisamente peggio essere privati di quei valori positivi, e del tutto interiorizzati, della cultura borghese — i valori di eguaglianza nella libertà dalla necessità, la visione di un'individualità collettiva, di una comunità fondata su di una volontà comune — di quanto non fosse stato abbandonare i caratteri negativi di quella stes­ sa cultura, codificati come «materialismo», «egoismo», «era della macchina», «conflitto di classe». Nella loro disillusione si può vedere la perdita di un sentimento positivo interiorizzato e idealizzato che sarebbe stato dif­ ficile rimpiazzare; nella loro reazione alla guerra-lavoro, nella rassegnazione alle occupazioni noiose, stupide, in­ terminabili e pericolose, molti borghesi in uniforme as­ sunsero quelPamarezza e quel risentimento che fino allora avevano contraddistinto gli appartenenti alle classi infe­ riori. L'amarezza fu diretta contro i managers della guer­ ra, lo stato maggiore, così come contro coloro che, a casa, godevano di «sicurezza e comodità» e non potevano

comprendere le sofferenze dei soldati al fronte. Questa traduzione in termini militari del risentimento sociale, del senso di essere vittime di un'ingiustizia, trovò seguito nei gruppi di veterani del dopoguerra. Ma forse l'aspetto più significativo dell'esperienza so­ ciale di guerra fu l'attenuarsi sia del senso di colpa sia del romanticismo con cui i figli della borghesia, etica­ mente insoddisfatti, avevano sempre considerato gli ap­ partenenti alle classi inferiori, ^ bruciante disillusione 128

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senso di colpa sociale da tempo accumulatosi; e anche la guerra in generale potrebbe essere considerata sotto que­ sto aspetto. Jiinger finì per vedere le proprie aspettative iniziali, che la guerra cioè potesse significare liberazione dal materialismo, con grande ironia alla luce di ciò che poi effettivamente accadde — una guerra in cui il solda­ to era vittima di «orgie di materiale», della liberazione sulla sua testa di milioni di ore di lavoro di operai in­ dustriali «oggettivate» in milioni di tonnellate di bombe. Jiinger vedeva la Materialkrieg come espiazione di peccati che, analogamente al peccato originale, i suoi penitenti non sapevano di avere commesso. La guerra industrializ­ zata puniva i figli per i peccati dei padri. Qui una generazione intera espia le colpe da tempo accumula­ te, qui essa esperisce dentro di sé il collasso di un’intera epoca e le sue prospettive. Certamente la maggioranza prova tutto ciò in modo animale, soffrendo senza sapere perché . . . Qui di fatto un'età che vide il proprio supremo ideale nella materia subisce un tremendo castigo dalla materia ste ssa31. Questa guerra non fu semplicemente lavoro, bensì la­ voro alienato, una guerra che invalidò Posservazione di Marx secondo cui la società capitalistica avrebbe compor­ tato la distruzione di uomini ai fini della produzione di merci: qui, nelle trincee, Punico scopo della guerra sembrava la distruzione di uomini e di merci. Nel con­ tempo, la realtà di guerra sollevò con intensità e concre­ tezza n u o v e i problemi che si erano creduti «risolti» con la sua dichiarazione: il rapporto fra classi sociali sfrutta­ trici e sfruttate, i rapporti degli uomini con i mezzi di produzione, che in guerra divennero mezzi di distruzione, il rapporto fra padroni, managers, e operai della guerra. Tutti questi problemi sono cristallizzati nella presa di coscienza della guerra come lavoro; di certo la realtà di guerra cancellò ogni residua illusione che potesse esserci un ordine di esistenza separato e distinto dalPordinamento economico di «produzione, salario e profitto». Se il volontario entrò in guerra come «giocatore», divenne ben presto un «uno qualsiasi», vincolato al proprio massa129

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orante lavoro. In modo inatteso, la guerra fu un’esperien­ za modernizzante per milioni di uomini, di tutte le classi sociali, che non avevano ancora conosciuto la totalità in­ dustriale. Essa annientò ogni convinzione che esistessero due distinte sfere di valori ed azioni, un mondo pre-industriale e uno industriale. L ’universo di guerra non si rivelò universo di libertà. Al soldato schiacciato dalla potenza dei materiali era ne­ gata ogni «libertà d’azione» eccetto che nella fantasia, e anche le sue fantasie furono comunque prodotto delle costrizioni, pressioni, e privazioni che caratterizzarono la sua sopravvivenza. Negli angusti spazi della trincea la guerra si rivelò lavoro, e non nel senso etico, bensì nella più antica accezione del termine. Essa non era una voca­ zione, non un processo in cui l ’individuo modellasse la propria identità e arricchisse il mondo con il valore del proprio prodotto: era lavoro come sofferenza necessaria, come continuo travaglio, e, al limite, come espiazione di una «colpa accumulata da tempo», come espiazione somministrata da un mondo di macchine che era diventato ribelle e nemico, alieno e onnipotente allo stesso tempo. La realtà tattica del caos Fra il 1914 e il 1918 molti milioni di uomini esperi­ rono sulla propria pelle la realtà dell’industrializzazione in termini militari. È importante capire cosa fossero queste realtà di guerra, e quanto fossero percepite come cristallizzazioni dello sviluppo economico e tecnologico; è importante capire anche come i combattenti percepissero l ’«ordine» sottostante a queste realtà. Questo ordine fu dapprima visto come quadro «tattico», ma lentamente la guerra di trincea trasformò l’esigenza tattica, imponendo una tipica mentalità difensiva. All’apice di queste condizioni di guerra stava la con­ statazione di quanto la potenza della tecnologia p a ra liz ­ zasse le possibilità di movimento umano: la superiorità della potenza di fuoco difensiva sulle truppe attaccanti 130

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era il primo, ovvio, indiscutibile dato di fatto della guer­ ra — sia per gli stati maggiori che per le truppe. Questa superiorità convinse Ernst Toller di essere partecipe di un mostruoso paradosso, in cui i combattenti erano co­ stretti ad apprendere «che la tirannia della tecnologia re­ gnava in modo ancor più onnipotente in guerra che in tem­ po di pace» 32. La confusione dei c o m a n d a n ti era g ra n d e tanto quanto la disillusione di quei soldati che erano scesi in campo con ima concezione «offensiva» del loro compito. Nel primo anno di guerra si fece lentamente strada la consapevolezza che la guerra di trincea altro non fosse se non il prodotto diretto di un secolo di sviluppo tecnolo­ gico. J. F. C. Fuller ricorda che il moschetto napoleonico aveva una portata di neanche cento metri. L ’invenzione del bossolo d’ottone migliorò la prestazione del fucile al punto che il soldato della guerra civile americana aveva la possibilità di colpire un bersaglio a mezzo chilometro; e nel 1900 i soldati europei disponevano ormai di fucili a ripetizione in grado di far centro a un paio di chilo­ metri. Questo incremento di venti volte nella portata di fuoco nell’arco di un secolo significò che le truppe attac­ canti subivano il fuoco difensivo molto più a lungo, in­ correndo in perdite molto più pesanti. Fuller calcolò che un fuciliere prono dietro un riparo in terra offrisse ri­ spetto all’attaccante semi-eretto solo un ottavo di superfi­ cie esposta; in termini di contabilità tattica, ciò significa che mille difensori proni che avessero aperto il fuoco su duemila assalitori potevano godere di un vantaggio di 7.500 colpi. Il significato tattico dell’incremento nella portata e nel volume di fuoco del fucile moderno risaltò nella guerra anglo-boera. Grazie alla rapidità di tiro fu possibi­ le «impiegare estensioni della linea difensiva inconcepibili nelle battaglie del passato, e di conseguenza vanificare ogni attacco frontale» 33. Nonostante la sua esilità, questa linea difensiva enormemente allungata resse e, con rag­ giunta di mitragliatrici e barriere di filo spinato, la sicu131

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rezza della linea di difesa e l’efficacia del difensore furo­ no ulteriormente accresciute. Ma fu lo sviluppo del pezzo d ’artiglieria a tiro rapido a dettare l’ultima parola sull’assetto definitivo del fronte. Il cannone a tiro rapido costrinse il nemico a trincerarsi, e il trinceramento costrinse l’artiglieria a posizionarsi fuori dal campo visivo, dietro la linea dell’orizzonte, e ad adottare il tiro indiretto. Il tiro indiretto complicò ulte­ riormente il sistema difensivo, che da allora necessitò di osservatori, comunicazioni telefoniche, segnali luminosi, staffette, e della specializzazione del fuoco d’artiglieria. Nel trarre le sue conclusioni dall’esperienza della guerra russo-giapponese, J. M. Homes, maggiore dell’e­ sercito britannico aggregato come osservatore presso lo stato maggiore giapponese, rimase acutamente impressio­ nato dalla preponderanza dell’artiglieria moderna: «H o capito che l’artiglieria è divenuta l’arma decisiva, e che tutte le altre sono ad essa s u b o r d in a t e » F u sempre nella guerra russo-giapponese che si ebbe un drastico in­ cremento nel numero di vittime di traumi psichici. R. L. R ic h a rd s

a ttrib u isc e

q u e sto

in cre m e n to

alle

co n d izio n i

specifiche della guerra moderna e, in particolare, alla schiacciante potenza dell’artiglieria. La tensione tremenda, fisica e mentale, richiesta per combat­ tere giorni e giorni su aree sempre più vaste, senza tregua, e gli allucinanti, distruttivi effetti del fuoco dell’artiglieria moderna, metteranno alla prova i soldati come non mai. Da questo punto di vista possiamo sicuramente aspettarci una maggiore percentuale di traumi psichici . . . in una prossima guerra35.

Anche I. S. Block trasse conclusioni in questo senso sulla base dello studio dello sviluppo economico pre-bellico. Nel 1895 predisse che «tutti si trincereranno nella prossima guerra. Sarà una grande guerra di trincea» 36. Eppure, queste previsioni e premonizioni non attenuaro­ no la sorpresa dei generali alleati quando l’esercito tede­ sco si trincerò in seguito alla ritirata della Marna, nel settembre del 1914: « I generali alleati rimasero comple­ tamente sconcertati dalla decisione dei tedeschi di trince132

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rarsi» 37. Nella misura in cui la «temporanea» stabilizza­ zione del fronte cominciò ad apparire sempre più perma­ nente, le alte sfere ammisero la propria frustrazione. Sembrava loro di combattere una guerra che non era il risultato di alcun piano strategico, o addirittura la vanifi­ cazione di ogni concezione strategica. Lord Kitchener confessava: «Non so più cosa fare, questa non è guer­ ra» 38. La frustrazione fu patita con maggiore intensità nel­ le trincee, poiché nelle trincee la posizione di stallo non era semplicemente un problema tattico, bensì un proble­ ma di mantenersi all'asciutto, di cibarsi, di sopravvivere. Ciò che allo stato maggiore appariva come uno sconcer­ tante problema tattico era una realtà quotidiana per il fante. Quando le regole della guerra di trincea cominciarono ad essere riassunte nei manuali di tattica, si diffuse la convinzione che rartiglieria fosse sia la causa sia la solu­ zione dello stallo sul campo. Con artiglieria sufficiente potevano essere sconvolte anche le posizioni difensive più forti; si pensò quindi che raddoppiando e triplicando il fuoco offensivo potessero essere spazzate la seconda e la terza linea di resistenza, e di conseguenza la penetrazione avrebbe potuto trasformarsi in sfondamento. Invariabil­ mente, il problema della immobilità sul campo fu affron­ tato in termini puramente quantitativi: si trattava di ammassare un sufficiente numero di cannoni, granate, as­ saltatori e riserve in punti prescelti lungo il fronte e quindi, scatenando gas e masse umane, soverchiare la tremenda efficacia del fuoco difensivo. Questa logica tro­ vò fedele applicazione nella terza battaglia di Ypres (Passchendaele) dove, dopo un fuoco di sbarramento di quattro milioni e mezzo di bombe sparate da tremila me­ di calibri e mille pesanti (un cannone ogni cinque metri e mezzo del fronte, quattro tonnellate e tre quarti di grana­ te tirate su ogni metro lineare del fronte), e al costo di 110.000.000 di dollari, un intero esercito britannico spa­ rì nelle paludi delle Fiandre. Questa battaglia, che causò agli inglesi circa 300.000 vittime, fu per R. C. Sherriff la prova di come lo stato maggiore dell'esercito avesse 133

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completamente perso contatto con le realtà di quella guerra che invece era supposto dirigere: «Non ho biso­ gno di sforzi particolari per ricordare la mostruosa di­ sgrazia di Passchendaele. Fu la prova, posto che ve ne fosse bisogno, che i generali avevano perso ogni contatto con la realtà» 39. Ma la disfatta di Passchendaele, al pari di analoghe, sanguinosissime e completamente futili battaglie sulla Somme, nella Champagne e sotto Arras e Mons, non di­ mostrò una differenza di opinione fra i soldati e lo stato maggiore circa la natura della realtà tattica della guerra, quanto piuttosto una differenza nel rapportarsi a quelle realtà. Infatti, per il soldato di linea la superiorità del fuoco difensivo dettava di per sé ciò che era possibile o meno fare in quell’universo; per lo stato maggiore inve­ ce, questa superiorità era un problema tattico che andava risolto prima di «cominciare con la guerra vera». Fu ben presto evidente che la soluzione avrebbe comportato un numero intollerabile di vite umane. In termini tattici è facile descrivere quello che si ri­ petè tante volte sul fronte occidentale. Generalmente gli attacchi si spegnevano sul filo spinato, sotto il fuoco di una mitragliatrice e di pochi fucilieri sopravvissuti al tiro preparatorio d ’artiglieria. Ma anche quando un attacco iniziale aveva successo, non era seguito da una offensiva generale: più pesante era il bombardamento impiegato per creare una breccia nelle linee avversarie, e più diffici­ le risultava muovere le masse di fanteria e gli equipag­ giamenti necessari allo sfondamento sul terreno sconvolto e pieno di crateri. Nello spianamento delle difese avver­ sarie l’artiglieria rendeva impercorribile il terreno, e nel te m p o in c u i v e n iv a n o a rra n g ia te stra d e per permettere ai rifornimenti, ai cannoni, e alle riserve di proseguire per consolidare il risultato ottenuto nell’attacco, il nemico era g ià riu sc ito a trin c e ra rsi su di una nuova linea difensiva. Ma anche qualora tutte queste difficoltà fossero state su­ perate, posto cioè che una penetrazione si trasformasse in rottura del fronte, si presentavano ulteriori limitazioni e impedimenti di carattere tecnico all’offensiva. Erich von 134

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Ludendorff apprese nel 1915 che un’offensiva non pote­ va generalmente superare i 150 chilometri, la distanza massima percorribile da soldati e carriaggi per spostare da un terminale ferroviario le enormi quantità di mate­ riali necessarie ad un esercito moderno. Questa guerra fu sovente considerata alla stregua di una guer­ ra d ’assedio. Ma in realtà differiva da un normale assedio perché nuove «m ura» potevano essere create più facilmente di quanto le vecchie potessero venire abbattute. Dietro ogni breccia praticata nel sistema difensivo in questa guerra di trincea potevano essere scavate e fortificate nuove linee, prima che la forza attaccante riuscisse a spostare in avanti la propria artiglieria su quel deserto di fango e rovine che essa stessa aveva creato 40.

Il fucile, il cannone, la mitragliatrice, il filo spinato e la vanga immobilizzarono il fronte. A meno di non tro­ vare nuovi mezzi meccanici che garantissero la mobilità — come più tardi avvenne con i primi carri armati — la tattica di avanzata e penetrazione era destinata ad essere un esercizio di futilità. Nelle trincee la guerra parve as­ sumere i caratteri non tanto di una lotta fra forze di difesa e forze offensive, quanto fra meccanismi implacabi­ li e zappatori. La macchina di guerra poteva stritolare il risultato di mesi di lavoro di scavo, ma «vanghe e zappe finivano per ristabilire l’equilibrio, e tutto ricominciava daccapo» 41. La contraddizione centrale della guerra di trincea, una contraddizione che permeò le reazioni emotive di coloro che vivevano all’interno del sistema difensivo, sorse da problemi inerenti la tecnologia di guerra. In questa guer­ ra i mezzi per ottenere specifici obiettivi militari appar­ vero non funzionali: causavano cioè più problemi di quanti non ne risolvessero. Non c’è da sorprendersi che il fuoco di sbarramento e di preparazione fosse sovente descritto in termini estetici, e apprezzato come uno spet­ tacolo, un’alba, un tramonto, una manifestazione di fuo­ chi artificiali: era infatti privo di qualsiasi utilità. Quale che fosse la quantità di bombe rovesciate sul fronte, non bastava mai a risolvere l ’immobilità della guerra. 135

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I soldati della Grande Guerra non erano comunque privi di una precisa concezione della guerra reale, concre­ ta. E, forse, la più adeguata concezione della realtà della guerra in sé rimaneva quella di Clausewitz. Seguendo il metodo kantiano, Clausewitz individua le realtà fisiche della guerra in tutto ciò che qualifica, distorce, frustra, minimizza il concetto astratto di guerra e il suo movi­ mento verso un estremo di violenza. Egli definisce la realtà di guerra come «attrito», qualcosa che non può essere raffigurato perché sta alla base di ogni raffigura­ zione della guerra: «Tutto è molto semplice, in guerra: ma ciò che è semplicissimo non è facile. Le difficoltà si accumulano e producono, nel loro complesso, un attrito che non ci si può raffigurare esattamente senza aver ve­ duto la guerra»42. Tutti questi attriti che frustrano la realizzazione di un piano — maltempo, incidenti, affati­ camento, insufficienza delle comunicazioni — sono defi­ nibili come «realtà» di guerra. Clausewitz si raffigura la guerra autentica come «movimento in un mezzo resisten­ te. Come non si è in grado di compiere nell'acqua con facilità e precisione anche il più semplice movimento, quale è lo spostarsi, tanto meno è possibile in guerra, disponendo di energie normali, mantenersi sia pure sulla linea della mediocrità» 43. Nella prima guerra mondiale il «mezzo resistente» non era tanto l'acqua quanto il fuoco. In una delle sue formule più suggestive, Jùnger descrive l'esistenza del soldato di linea come «attrazione gravitazionale nel regno del fuoco» 44. La matematica della guerra di trincea era calcolabile in termini di proporzione inversa fra l'intensi­ tà del fuoco e la mobilità della forza attaccante. Man mano che aumentava l'intensità del fuoco, decresceva la mobilità dell'attaccante; man mano che cresceva il vol­ taggio nel campo di forza del sistema di trincea, altret­ tanto era per la forza necessaria a spingere in avanti co­ loro che tentavano di sfondare le linee del fronte, fino al punto in cui gli sforzi umani più inauditi potevano riu­ scire a produrre sì e no uno o due passi in avanti. I termini impiegati da Jùnger danno l'idea di quanto 136

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il movimento umano fosse diventato un problema di fisi­ ca in cui il singolo soldato operava in condizioni estre­ mamente svantaggiose; dà pure Pidea di quanto fossero diventate soverchiami quelle forze ritardanti che Clause­ witz definiva come costitutive della realtà di guerra. In questa guerra la realtà era immobilità imposta dal domi­ nio tecnologico del fuoco difensivo; questo dato di fatto fu importantissimo per la ridefinizione dell’identità del soldato, il quale in questa guerra potè manifestare ben poco in comune con Pimmagine offensiva, aggressiva, che tradizionalmente definiva il suo ruolo. Le condizioni della guerra di trincea affrettarono una trasformazione nell'ambito della tattica difensiva. Fin dal­ l’inizio del periodo della guerra di trincea si pensò che difesa significasse tenere la prima linea di trincee; la se­ conda e la terza linea del sistema trincerato avrebbero funzionato come rifugio in cui i difensori battuti potesse­ ro ritirarsi, e come punto di concentramento delle riserve che avrebbero dovuto rimpiazzare le perdite subite. Questa enfasi posta sulla prima linea di difesa si rivelò irrazionale e omicida, come fu chiaramente dimostrato sulla Somme, dove battaglioni su battaglioni di truppe tedesche vennero concentrati sulla prima linea per essere disfatti dall’artiglieria britannica. La rigida concentrazione sulla prima linea si rivelò un macello in una guerra in cui l’ultima parola spettava sempre ai cannoni a lunga gittata posizionati in batteria al di là della visuale dei difensori. L ’ostinata fissazione sul mantenimento di una linea rigida e impenetrabile era incomprensibile in termini pu­ ramente tattici, ed è necessario cercare nei meandri della tradizione militare per spiegare la presa che il concetto ebbe sulla concezione tattica difensiva. La linea era la più chiara rappresentazione della posizione difensiva intatta, la perfetta rappresentazione di un confine, della delimita­ zione del proprio territorio. In un certo senso la linea riassumeva l’elemento agonale della guerra: la penetra­ zione della linea difensiva da parte del nemico e l’occu­ pazione dello spazio da essa delimitato significava la per137

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dita della battaglia. Anche dopo la rivoluzione napoleoni­ ca nell'arte della guerra, la vittoria o la sconfitta in un fatto d'armi potevano essere questione dell'integrità man­ tenuta dalla linea di schieramento, della conservazione del terreno che si era giurato di tenere ad ogni costo, ovvero della permanenza residua di forze difensive sul territorio occupato. Nel 1916, in alternativa al concentramento sulla pri­ ma linea difensiva nacque la «difesa elastica», un sistema difensivo che puntava su di una maggiore flessibilità del­ la guerra di trincea. La prima linea doveva essere tenuta con meno ostinazione, e abbandonata nel caso il nemico fosse riuscito a raggiungerla; la posizione sarebbe poi sta­ ta riconquistata mediante contrattacco di forze fresche dalla seconda e dalla terza linea di trincee. Ernst Jiinger paragonò la difesa elastica a un nerbo d'acciaio che si sarebbe teso all'indietro sotto l'urto dell'attacco nemico, per poi schioccare in avanti spazzando gli avversari — esausti ed impigliati nella difficoltà di ricevere riforni­ menti attraverso il terreno sconvolto dai loro stessi bom­ bardamenti — fuori dalle trincee occupate, fino alle loro originarie posizioni di partenza. La difesa elastica aveva l’ulteriore vantaggio di disperdere il fuoco d'artiglieria avversario che ora doveva concentrarsi non più su di una sola, bensì su due, tre, o addirittura quattro linee di resistenza. Ma questo vantaggio rimase solo fino a quan­ do i parchi d’artiglieria nemica non furono triplicati o quadruplicati. Jiinger, che nel 1921 contribuì alla stesura dei nuovi manuali di tattica tedeschi, trovava la difesa elastica tat­ ticamente ingegnosa ma psicologicamente debilitante. A parte l'effetto deleterio sul morale dei difensori causato dal ritirarsi dalle posizioni avanzate, lo «scansare» l'at­ tacco del nemico era profondamente contrario alla natura della guerra così come la concepiva Jiinger: «Lo “ scansa­ re” {Austueichung) come fu propriamente definito, non era consono alla mentalità del soldato tedesco: egli non sarebbe mai stato in grado di adeguarvisi» 4S. È nella na­ tura della guerra cercare «una decisione, e non scansare 138

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una decisione»; la guerra è forse l’unica attività umana che non possa tollerare compromesso di sorta: «essa tol­ lera solo l’incondizionato» 46. La difesa elastica, la molti­ plicazione delle linee di resistenza, il fare della prima linea un oggetto di contesa anziché uno spazio da tenere incondizionatamente, altro non erano che la combinazione di quella miriade di compromessi già connaturati alla pratica della guerra di trincea. Verso la fine della guerra cominciò a delinearsi una più adeguata concezione della difesa, la «difesa in pro­ fondità». È significativo come questa concezione rinunziasse ad ogni teorizzazione della linea, singola o multipla che fosse: difesa in profondità significava infatti la frammentazione della coerenza di qualsiasi struttura geo­ metrica, e la dissoluzione della compagnia in piccole squadre indipendenti di difensori. Data la realtà della guerra di trincea, la difesa poteva essere pensata solo come una rete, un labirinto che confondesse e intrappo­ lasse, disgregandola, la forza dell’attacco avversario. Dobbiamo rompere in modo irreversibile la concezione della linea, dalla quale, per ragioni storiche e disciplinari, non fummo mai veramente in grado di distaccarci nel corso della guerra intera. Per questo motivo, il paragone con il «nerbo d ’acciaio» che io proponevo è sbagliato: Timmagine corretta è piuttosto quella di una rete, in cui il nemico sia in grado di penetrare qui e là per poi essere immediatamente avvolto dalla resistenza delle maglie su tutti i la t i47.

Junger propose per le guerre future una difesa basata su di un sistema punteggiato di capisaldi distaccati, nidi di mitragliatrici, fortini e casamatte, un tipo di difesa che di fatto avrebbe istituzionalizzato la realtà della guerra di trincea. Werner Beumelberg nota come la difesa in pro­ fondità apparve per la prima volta — e accidentalmente — nel corso del doppio attacco alleato su Béthume e Arras nella Champagne, nel maggio del 1915. Dopo una preparazione d’artiglieria di mezzo milione di bombe, che a quel tempo parve come un’«orribile stravaganza», l’at­ tacco sprofondò nel mezzo di una moltitudine di punti di resistenza generatisi in seguito alla frammentazione della 139

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bombardatissima prima linea di trincee tedesche: «Da questi frammenti trassero origine quei “ signori della guerra difensiva” sui quali avrebbe poggiato tutta la tat­ tica più tardi, quando le battaglie difensive assunsero la loro grandiosa e terribile forma» 48. Questo quadro difensivo è osservabile in tutte le maggiori battaglie sul fronte occidentale. Per chi vi par­ tecipò, la battaglia di Verdun fu un’esperienza di caos assoluto. Si trattò, secondo un combattente francese, di «una battaglia di unità ridottissime, ciascuna con un proprio destino finché il fuoco nemico non le distruggeva completamente» 49. A Verdun il soldato combattè da un cratere di granata all’altro, in un terreno sfigurato dai bombardamenti, dove non esistevano più trincee e dove non era possibile distinguere i tedeschi dai francesi, poi­ ché tutti erano coperti di fango. Muoversi di giorno era fuori questione, di notte rischioso e terrificante: «Le unità smarrivano ogni direzione nota nel labirinto». In questo spazio non strutturato, anche il tempo perdeva la sua forma, la sua coerenza: «Il tempo si fermava per far correre la violenza, e i periodi di alternanza fra violenza e silenzio, fra bombardamenti furibondi e subitanea cal­ ma, contribuivano a rendere il tempo privo di dimensio­ ne, indistinto» 50. Da tutte le descrizioni delle maggiori battaglie della guerra emerge sempre la stessa percezione: la battaglia moderna è la frammentazione delle unità spaziali e tem­ porali; è un sistema senza centro né periferia in cui i soldati, sia gli attaccanti che i difensori, sono smarriti. Jiinger sovrappone a questa realtà del caos l’immagine del­ la rete, dei corridoi di un labirinto; Schauwecker deifica coloro che sopravvivono alle battaglie di materiali, ve­ d e n d o li, in te rm in i d a rw in ia n i, c o m e u o m in i p a s s a ti a t­

traverso la selezione della bufera d ’esplosivi e quindi su­ periori nella loro resistenza, nella loro impenetrabilità, ai caduti. «Questi soldati non erano più considerati “ carne da cannone,,) o guardati come bovini sul banco del ma­ cellaio» 51: la guerra di macchine parve rigenerare, attra­ verso la tecnologia della battaglia, la visione romantica 140

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della guerra, incarnandola in quegli individui che erano scampati al «mostruoso cozzo dei materiali»52. Furono questi individui a meritarsi il titolo di «signori della guerra difensiva». Dunque Terne di questa guerra non incarnava una personalità «offensiva», bensì «difensiva». Ciò impose la trasvalutazione radicale di tanti valori, tante aspettative e immagini della guerra: il sistema istituito dalla superiori­ tà del fuoco difensivo sulla mobilità delle truppe rimo­ d e llò , in m an ie ra fo n d a m e n ta le , P id e a d i v ir tù m ilita re , la

personalità del soldato, e il modo in cui il soldato di linea vedeva il suo nemico. Questo cambiamento nel ruo­ lo e nella concezione di sé del soldato fu la necessaria risposta al nuovo universo di guerra dominato dalle mac­ chine sfornate dall’industria tecnologica delle nazioni eu­ ropee. La personalità difensiva Nel suo studio sociologico sulla guerra di trincea, A. E. Ashworth sostiene che la guerra non sia necessa­ riamente un’esperienza «alienante». Se validamente pro­ pagandata dallo Stato, forte dell’appoggio della società, e diretta ad un oggetto — il nemico — che rimane estra­ neo ed odioso, la violenza è «in una certa misura una significativa espressione della personalità individuale; la sua esecuzione non comporta auto-estraneazione e non esiste disgiunzione fra sfera emotiva e attività pratica» 53. Il fine dell’addestramento è che il soldato si cali nella parte dell’aggressore e accetti questa identificazione; il fine della propaganda consta nel situare Patto di violenza all'interno di un orizzonte morale, tramite l’identificazio­ ne del nemico come ciò che sta fra l’umano e il disuma­ no, come qualcosa privo d ’«anima», e quindi oggetto idoneo a ricevere Patto ostile. Nella misura in cui adde­ stramento e propaganda ottengono successo, il soldato opera nell’ambito di una struttura etica e morale, e i suoi atti sono percepiti come conferma del suo identificarsi, 141

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della sua identità personale testé modellata. Come rileva il dottor Chaim Shatan nella sua analisi dei veterani del Viet Nam, lo sc o p o delPaddestramento consiste nel «mo­ dellare il soldato alla maniera dei suoi persecutori (gli ufficiali)»; in caso di successo, il procedimento indurrà la recluta ad una «regressione psicologica durante la quale il suo carattere viene ristrutturato in personalità offensi­ va» M. Il comportamento in guerra riflette l ’addestramento subito; Puffidale addestratore infatti tratta la recluta nel­ lo s te s s o modo in cu i e g li p re te n d e ch e il s o ld a to tr a tti il nemico in battaglia. Allo scopo di sottrarsi allo spiacevo­ le status d ’inferiorità connesso al ruolo di vittima, cioè di bersaglio dell’aggressione, viene assunto — con maggiore o minore senso di colpa — l’abito dell’aggressore: nella misura in cui questa identificazione con l’aggressore rie­ sce ed è mantenuta, la «personalità offensiva» si accorda alle modalità del combattere, vale a dire all’attività del so ld a to in g u e rra — sp a ra re , ferire, u c c id e re — e d è quindi percepita come morale, legittima, significativa. Ma l’erosione di queste identificazioni nella retorica esplosiva della battaglia, la perdita della percezione di sé come ese­ cutore della volontà nazionale contro un nemico semi­ umano, ha conseguenze incalcolabili per la concezione di sé del soldato, per la sua esperienza soggettiva della guerra, per il suo rapporto con il nemico, e per il suo g iu d iz io verso il p r o p r io p a e se e c o lo ro che a m m in istra n o la sua guerra. Ebbene, la guerra di trincea, forse più di qualsiasi altro tipo di guerra prima e dopo, erose le concezioni universalmente diffuse del soldato come aggressore: piut­ tosto, essa produsse un tipo di personalità, la personalità difensiva, modellata sull’identificazione con le vittime di una guerra dominata da aggressori «impersonali», come l’acciaio e i gas. Chiunque soggiornasse un certo periodo di tempo in trincea riconosceva immediatamente la diffe­ renza fra la sua attitudine nei confronti del nemico e la stessa che caratterizzava coloro che rimanevano a casa. Jean Norton Cru è in grado di distinguere, sulla base di questa differente attitudine verso il nemico, i testi di chi 142

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abbia realmente fatto esperienza di guerra da quelli di gente che si limitò a visitare le trincee o, peggio, scrisse della guerra direttamente dalle retrovie. Nel descrivere l’opera dell'abate Bessières, che prestò servizio come me­ dico al fronte per Pintera guerra, egli sottolinea l’imparzialità dell’abate, «imparzialità che era sempre molto rara fra coloro che non vissero direttamente nelle trincee» 55. Bessières attribuiva l ’odore particolare dei tedeschi al­ l ’impermeabilità delle loro uniformi, anziché alla loro in­ trinseca bestialità, come invece scrivevano i cronisti civili. F. H. Keeling era colpito e disgustato quando si imbatte­ va nella ferocia dei civili, specialmente delle donne: «In ­ contrai una dama — un’infermiera di guerra all’ospedale dove fui ricoverato dopo Hooge — la cui ferocia ferina nei confronti dei tedeschi e della Germania contribuì ad aggravare le mie condizioni di salute. Una buona razione di fuoco di sbarramento non avrebbe che potuto gio­ varle» 56. Keeling sentiva che la guerra lo aveva demilita­ rizzato, mettendolo di fronte a realtà al cospetto delle quali era impossibile conservare la tipica aggressività fo­ mentata dalla propaganda. Egli considerava sia il milita­ rismo che il pacifismo di «quelli a casa» come attitudini basate su di una visione della realtà falsa e deliberatamente sostenuta. Solo coloro che sapevano cosa signifi­ casse essere vittime del fuoco di sbarramento rappresen­ tavano la migliore speranza per un «effettivo pacifismo»: «Solo i soldati saranno buoni pacifisti» 57. In una guerra in cui tutti i combattenti erano vittime indiscriminate della violenza dei materiali, in cui la tec­ nologia industriale era Inautentico» aggressore, l’identi­ ficazione con il nemico e la sua motivazione dominante — la sopravvivenza — erano logiche, addirittura neces­ sarie. Basti solo citare i tanti casi di fraternizzazione, il tacito accordo fra nemici, ufficialmente tali, che stabili­ vano e mantenevano «settori tranquilli» lungo il fronte, per capire come questa fu una guerra che alterò dramma­ ticamente l’identità e la personalità dei combattenti. E sovente questa alterazione fu portata all’attenzione delle autorità, soprattutto quando assumeva forme patologiche: 143

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infatti, per quanto ammirevole e umana fosse l’«identificazione con il nemico», era anche fonte di un conflitto radicale, profondamente sentito, attraverso il quale il combattente arrivava a ripudiare la concezione di sé esal­ tata dalla società e spesso da egli stesso condivisa. Sicu­ ramente la rottura della «personalità offensiva» nella realtà della guerra difensiva fu una delle maggiori cause delle nevrosi di guerra: non a caso per le forme estreme di dissociazione dalle norme ufficiali era stata coniata una definizione patologica: «simpatia nevrotica con il nemi­ co». Un neurologo tedesco, il dottor R. Steiner, trattò per questa sindrome un sottufficiale ventiseienne — bot­ tegaio nella vita civile: il sergente aveva ordinato ai suoi uomini di non sparare sul nemico perché aveva visto in sogno che i soldati francesi erano esseri umani, uomini con moglie e figli58. Forse la migliore illustrazione del conflitto psichico generato dalla rottura dell’identificazio­ ne con l’aggressore è offerta da un caso di «identificazio­ ne nevrotica» trattato da Otto Biswanger. Sotto ipnosi il soldato gridava: «Vedete il nemico laggiù? Ha un padre e una madre? Ha una moglie? Io non l’uccido!»; nel contempo urlava forte e muoveva in continuazione il dito indice della mano destra come se premesse un grilletto 59. x Ma questi casi sono individuali, e forse la migliore indicazione di quanto fosse generalizzata l ’estraneazione dalle «norme offensive» del soldato in guerra sta nei tan­ tissimi taciti accordi che limitavano l’ostilità al fronte. Le restrizioni al comportamento ostile imposte al fronte, restrizioni che ritualizzarono la violenza, non nacquero da tradizioni umanitarie o da attitudini di rispetto profes­ sionale militare: nacquero piuttosto dalle stesse condizio­ ni di quella guerra. Lo «spirito offensivo», che era sup­ posto caratterizzare i rapporti fra belligeranti, risultava chiaramente suicida in una guerra in cui il contatto con il nemico rimaneva pressoché costante, e non per ore, ma per giorni e anni. La comune ostilità e l’odio aggressivo che avrebbero dovuto definire il carattere del soldato non potevano reggere in una situazione in cui la guerra difensiva era 144

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ormai diventata un modus vivendi. Un colpo di mortaio sparato sulle trincee opposte ne richiamava due o più ancora in risposta: le squadre mortai non erano dunque molto popolari fra i Frontschwein, i poilus, i tommies. Ogni raffica di mitragliatrice, ogni scarica di fucileria, sarebbe stata ripagata con gli interessi; queste erano le realtà di guerra, realtà che potevano saltuariamente sti­ molare uno spirito di vendetta, ma che più spesso indu­ cevano a ridurre l’ostilità e a prolungare la tranquillità nelle trincee. Gli accordi arrivavano, attraverso la limitazione del fuoco, a coprire molte necessità di vita quotidiana nei settori dove non erano in corso offensive. Era cortesia diffusa non interrompere il rancio nemico con un cecchinaggio indiscriminato; venivano regolarmente colpiti solo certi punti delle trincee, noti ad entrambe le parti; il cannoneggiamento mattutino era limitato a cinque o sei colpi cannonici, dopo di che riprendeva la normale vita di trincea. In certi settori si avevano accordi straordinari che riguardavano lo sgombero indisturbato dei feriti, la riparazione delle trincee e dei reticolati, la cura del sole fin dai primi giorni di primavera, e addirittura la fiena­ gione e la raccolta della frutta nella Terra di nessuno. Un caso di rottura di un accordo del genere è riportato da Weygand. Egli racconta di un soldato che sortì dalla trincea per raccogliere mele nella Terra di nessuno; ma quando cominciò a bersagliare le linee francesi con la frutta anziché — come consentito — raccoglierle per se stesso e i suoi camerati, gli fu sparato, e potè rientrare solo sotto intenso fuoco di copertura60. Quando Basii Liddell-Hart raggiunse il fronte, nel settembre del 1915, il suo battaglione occupò un settore dove i francesi ave­ vano precedentemente stabilito una coesistenza pacifica co n i te d e sc h i, a ta l p u n to ch e d iv id e v a n o il rip a ro o ffe r ­

to dalle case ancora in piedi nella Terra di nessuno, e un battaglione poteva schierarsi in piena vista del nemico senza essere fatto segno di colpi. L ’accordo fu rotto dalla politica inglese di «molestia permanente» 61. Anche durante le battaglie più grosse non erano rari 145

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gli accordi fra belligeranti ufficialmente nemici. A Ver­ dun, in uno dei settori meno infuocati di quella battaglia, un volontario riportò che «in questa posizione c’è stata c a lm a p e r p are c c h i g io rn i; i fra n c e si av e v a n o l ’o rd in e d i

bersagliarci di bombe a mano anche di notte, e di fatto le lanciavano ma, come da accordi presi con “ camerati tedeschi” , solo sulla destra e sulla sinistra della trin­ cea» 62.Quanto questa ritualizzazione e limitazione dell’at­ tività ostile fosse il prodotto non di un’etica pre-bellica, bensì della semplice prossimità con il nemico, è chiara­ mente dimostrato nella descrizione di Fritz Kreisler rela­ tiva al periodo di guerra di trincea che sopravvenne nel corso della ritirata austriaca del 1914. In questo breve periodo, l’indiscutibile ostilità manifestatasi negli scontri in aperta campagna si ridusse improvvisamente: «La ca­ ratteristica peculiare di questi tre giorni di combattimen­ to fu la straordinaria mancanza d’odio» M. La cessazione delle ostilità iniziò con l ’osservazione dell’andirivieni e dell’affaccendarsi dei «russi dalle barbe rosse» nelle trin­ cee opposte, e Kreisler riconobbe la trasformazione del «nemico» in «individui umani che potevano essere rico­ nosciuti come ta li» M. Dopo di ciò, la fraternizzazione progredì a passi da gigante finché soldati russi e austriaci non si trovarono a mangiare insieme nel bel mezzo della Terra di nessuno. Questi e altri esempi di identificazione con il nemico, di temporanea cessazione delle ostilità, di ritualizzazione della violenza, di limitazione sulla progressione della vio­ lenza, indicano il tipo di risposta data dal combattente alle realtà di guerra sulla base delle condizioni fisiche della propria vita di trincea. Una risposta del genere po­ trebbe essere considerata come un ammirevole esempio di solidarietà umana in una situazione pericolosa, ma può anche essere vista come base dell’alienazione, della perce­ zione di mancanza di scopo, di insignificanza della guerra, cioè dei sentimenti più generalizzati in trincea. Fatto an­ cor più importante, l’identificazione con il nemico può essere considerata come principale base della separazione fra coloro che marcivano nelle trincee e quelli che chie146

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devano ad ogni costo al soldato l’attività offensiva che da lui ci si aspettava per la consacrazione della sua immagi­ ne tradizionale — gli stati maggiori e la «patria». L ’abbassarsi della soglia ostile nella guerra di trincea ebbe per effetto l’intensificazione dell’odio delle truppe di linea per lo stato maggiore: «I soldati odiano lo stato maggiore e lo stato maggiore lo sa. Il principale punto d’attrito pare riguardi il modo in cui la vita di trincea modificherebbe la disciplina» 65. Qui per disciplina non si intende tanto il comportamento formale dei militari, quanto i rapporti con il nemico; in molti settori e unità infatti, «lo spirito nelle trincee era ampiamente difensi­ vo; non c’era intenzione alcuna di provocare i tedeschi oltre il loro normale livello d ’ostilità» 66. Ciononostante, gli stati maggiori continuavano a pretendere un compor­ tamento offensivo, pattuglie, cecchinaggio, incremento nel fuoco di disturbo, e altre misure designate ad alterare il delicato equilibrio che permetteva la sopravvivenza. Nella misura in cui le unità venivano maggiormente assorbite dalla routine della realtà di trincea, cresceva la loro di­ stanza dallo stato maggiore e dall’attitudine militarista che questo si sforzava di preservare. In termini ufficiali, il morale delle truppe diminuiva, e la loro disciplina si allentava. Se le realtà della guerra e le necessità della vita di trincea distanziavano le truppe combattenti dai dirigenti della guerra, frapponevano una distanza ancor maggiore fra il fronte e la «patria». Come sottolinea Ashworth, l’estraneazione dalle norme offensive di combattimento implica estraneazione dai valori e dalle convinzioni che dovrebbero sostenere una nazione in guerra: «Il risenti­ mento mostrato da tanti combattenti nei confronti del cosiddetto “ fronte interno” , propagandatore di un belli­ cismo radicale, può essere interpretato come sintomatico del d ista c c o degli stessi combattenti dagli scopi e dalle normali aspettative della società in guerra» 67. Infatti, la lagnanza più generalizzata al fronte era ch e la v io le n z a richiesta ai fanti non fosse espressione genuina del loro «io» bensì delle loro società, che parlavano con la voce 147

Il labirinto della guerra e le sue realtà

di una «macchina spietata, senza cuore». Il ritorno in patria era sovente come l ’arrivo in una terra straniera, mentre il ritorno al fronte poteva anche risultare un sol­ lievo. Come molti altri, Robert Graves ammise che «1 Inghilterra appariva estranea a noi provenienti dal fronte. Non riuscivamo a capire la follia bellicistica che correva ovunque, cercando sfoghi para-militari. I civili parlavano una lingua straniera, il linguaggio dei gior­ nali» 68. Ma Pestraneazione del militare dal ruolo e dall’imma­ gine del soldato-guerriero sortì un effetto importantissi­ mo soprattutto sullo stato psicologico delle truppe al fronte; infatti, con questa estraneazione il soldato smarrì g ra n p a r te d e lle fo n ti d i le g ittim a z io n e d e lla p r o p r ia a tti­

vità, e soprattutto della propria morte in battaglia. «Co­ raggio», «onore», «sacrificio di sé», «eroismo», apparte­ nevano ormai al mondo delle illusioni, distante, esterno al sistema di trincea. Wilhelm von Schramm sostiene che Pinvisibilità del nemico, la Menschenleere del campo di battaglia, e la quotidianità della guerra di trincea comple­ tarono la decadenza della virtù e dello stile militari inau­ g u r a ta si con la riv o lu z io n e fra n c e se e la c o sc riz io n e u n i­

versale: «In questa informità, in questa dispersione asso­ luta, ogni azione del capo, ogni arte connessa alla vittoria o alla sconfitta, ogni onore militare, finirono per essere visti come assurdità»69. Fu smarrita tutta la sgargiante messinscena che nei tempi passati aveva accompagnato il soldato in guerra. Anche Henri Massis si trovò a riflette­ re sul fatto che fossero ormai scomparse le esteriorità g ra tific a n ti, tra d iz io n a li in tu tti g li e se rc iti; tu tto c iò che

aveva a che fare con la guerra di trincea era dimesso, riguardava « l’interiorità della terra, del soldato» 70. La ri­ mozione di tutti i simboli esteriori del carattere offensi­ vo, con il rintanarsi nella terra, comportò una trasforma­ zione di base del soldato-tipo. Il soldato della guerra di trincea era umile, paziente, tenace, un individuo il cui fine era di sopravvivere ad una guerra vista come «tre­ menda rassegnazione, una privazione, un’umiliazione». Dato il carattere della guerra, la personalità del sol148

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dato fu necessariamente permeata dal suo ruolo di ogget­ to passivo, di succube dello strapotere dei materiali. Il sol­ dato non era più un agente della violenza, non era più psi­ cologicamente corazzato contro tutto ciò che potesse invali­ dare la sua percezione del bersaglio come oggetto d’offe­ sa: Henri Massis vede invece questa guerra come luogo di morte stocastica, un luogo che sviluppò nel soldato una virtù ben più banale, la capacità d ’attesa. Soldati privi del piacere di combattere, essi aspettano. Aspet­ tano cosa? Tutto e niente, poiché la morte può seppellirli in un qualsiasi momento senza che essi possano dar prova del loro valore contro di essa. Una morte casuale e stolida, che non pretende il loro coraggio . . . infatti, questa guerra richiede una virtù diversa: vuole che si impari ad attenderla, a qualsiasi ora, con pazienza. Non è affatto l’avventura di un solo eroico momen­ to, resaltante passaggio dell’eroe di qui all’eternità, la sublime vocazione del guerriero. È molto meno solenne: coglie chi vuole, quando vuole, nelle più umili pose, però sempre imponendosi con la sua presenza continua, richiedendoci di essere sempre pron­ t i 71.

Qui Massis vede, in termini cristiani, la stessa figura che Zuckmayer aveva definito «uno qualsiasi», cioè l’uo­ mo che aveva raggiunto la consapevolezza della propria assoluta sostituibilità all’interno di un processo industria­ le senza fine. In generale, la realtà di guerra abbassò radicalmente la percezione individuale delle capacità e del valore personali, richiedendo allo stesso tempo l’erezione di massicce difese contro un universo di fuoco ostile, indifferente, impersonale. Ma questo solleva il problema di come le realtà di guerra furono introiettate, consciamente e inconsciamen­ te. L ’io cosciente del soldato di linea potrebbe essere visto come interiorizzazione degli elementi del suo «lavo­ ro», un lavoro che gli testimonia direttamente del suo status immiserito. Nel penetrare il labirinto della guerra, il volontario s’accorse anzitutto, e spesso molto doloro­ samente, del carattere illusorio della concezione di sé e dei propri camerati come attori di una causa nazionale, difensori armati della comunità riunificata; nella sua di149

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sillusione iniziale, egli smarrì la concezione trascendente di se stesso e del proprio ruolo, e perse il contatto ideo­ logico che lo legava alla patria e a tutto ciò che questa rappresentava. Ma nel contesto della guerra di trincea ebbe luogo un’estraneazione ben più radicale. Il soldato di linea si sentì sempre più avulso da ogni fonte profes­ sionale, militare, della propria percezione di sé come sol­ dato; nelPerosione del «carattere offensivo» operata dalla realtà della guerra difensiva, il soldato di linea fu privato di tutti i simboli di «casta, fede e convinzione» che ce­ mentavano il «militarismo», permettendo di identificare il tipo e la comunità militari. Certo non si può sostenere che la concezione militarista del ruolo del soldato venisse ripudiata in massa: se così fosse stato, la guerra avrebbe ceduto il passo alla rivoluzione su tutti i fronti. Soprav­ venne piuttosto un’intensa e deleteria tensione fra la concezione ufficiale dell’essere soldato e la consapevolezza del soldato di linea di ciò che egli fosse di fatto, e di cosa gli fosse possibile essere e fare all'interno del siste­ ma difensivo. È nei meandri di questa tensione che dob­ biamo inquadrare la nevrosi di guerra come tentativo, tramite il sintomo nevrotico, di ripudiare un ruolo che, oggettivamente, era auto-distruttivo. Le terapie sommi­ nistrate a soldati che avevano ceduto psichicamente de­ vono essere inquadrate nel tentativo di reintegrare in lo­ ro la concezione, sostenuta ufficialmente, della personali­ tà aggressiva, rafforzando l’universo morale da cui quel tipo di personalità attingeva linfa vitale. Sostanzialmente, la superiorità assoluta del fuoco di­ fensivo instillò nel soldato di linea una serie di motiva­ zioni che non potevano essere riconosciute come legitti­ me, proprie, soprattutto da parte dei responsabili della conduzione di quella guerra. Il suo sforzo per ottenere un minimo di sicurezza in un mondo e sse n z ialm e n te m i­ naccioso e distruttivo portava ad un legame con il «ne­ mico», quegli «altri» abitanti-vittime della stessa tragica struttura bellica. Queste motivazioni portarono anche a legami con i camerati, coloro che condividevano con lui la realtà di trincea e sapevano che l’abbassamento della 150

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soglia d'ostilità rappresentava la loro unica possibilità di sopravvivenza. Questa estraneazione collettiva dal ruolo militarista, diede alle truppe del fronte la sensazione di possedere un io «clandestino», collettivo, che non poteva essere colto da coloro che stavano «fuori» dalla guerra: non Pavrebbero riconosciuto, né compreso. Questa sensa­ zione di possedere una personalità nascosta contribuì sen­ za dubbio alla vitalità e alla coesione dei gruppi di vete­ rani nel dopo-guerra. Pochi comunque si resero conto, come Charles Carrington, che il loro spirito cameratesco, la loro coscienza di veterani, erano radicati in una com­ plessa patologia: « L ’esperienza del 1916 mi aveva avvol­ to, bloccando la mia crescita mentale, cosicché anche die­ ci anni più tardi ero sempre un adolescente. Il camera­ tismo delle trincee mi perseguitava, ed era divenuto or­ mai un campo di concentramento mentale» 72. Se il carattere è, come lo ha definito Wilhelm Reich, la somma totale delle strategie che un individuo evolve per difendersi contro minacciose ridefinizioni della pro­ pria personalità da parte del mondo «esterno», da un lato, e contro paure ed ansie essenzialmente interne, dal­ l ’altro, allora bisogna riconoscere che il soldato di linea acquisì in guerra un carattere ben distinto. Per difendersi daU’imposizione di una definizione di sé come agente aggressivo, latore d’offesa, per conto di una volontà na­ zionale, il soldato si vide costretto ad assumere, interio­ rizzando in un senso decisamente sminuito il proprio sta­ tus bellico, l’abito di anonimo operaio in un mondo truce e minaccioso. Se la guerra di trincea altro non era che una serie di compromessi che assumevano forma fisi­ ca, materiale, la personalità del soldato di linea fu avvol­ ta in un ancor più cospicuo insieme di contraddizioni fra le motivazioni ufficiali, connesse al ruolo dei militari in guerra, e i motivi «ufficiosi», propri di uomini che cer­ cavano di salvare ad ogni costo la pelle. Ma la realtà di guerra non generò nel soldato soltan­ to una concezione cosciente di sé come proletario in uni­ forme: essa liberò anche un inconscio che si espresse in fantasie e sogni caratteristici, nonché in sintomi nevrotici. 151

I l labirinto della guerra e le sue realtà

Nei capitoli IV e V ci occuperemo dell’analisi di questo inconscio, ma qui è già possibile indicare le caratteristi­ che del nostro approccio. Il mutamento di carattere da molti atteso al momento dell'entrata in guerra poggiava su un’iniziale visione di se stessi come individui aggressi­ vi, ma giustificati nel proprio spirito offensivo, non-colpevoli: date le condizioni della guerra di trincea, queste aspettative iniziali divennero un sogno, una fantasia, ad­ dirittura un’ossessione per coloro che vi erano più coin­ volti. Infatti la guerra di trincea si rivelò un paradigma del compromesso, dell'inibizione di ogni energia aggressi­ va; per questo, l’idea d ’aggressione assunse un connotato particolare, che nella fantasia d ’offensiva di Junger è chiaramente d ’origine sessuale: «Sfonderemo la porta sbarrata e penetreremo con la forza nella terra proibita. E per noi che abbiamo atteso tanto a lungo su desolati terreni di crateri di bombe, l’idea di questa irruzione ha un fascino irresistibile» 73. Il sogno di violare con la forza un territorio vergine, di sfondare violentemente e pro­ fondamente uno «spazio non striato», il sogno di un 'élite di specialisti in penetrazione, corazzati sia contro la sof­ ferenza sia contro il piacere: sono questi i sogni nutriti nella realtà della difesa, nelle condizioni concrete di una guerra in cui ciascuno è un «uno qualsiasi». Nel contesto della realtà della guerra di trincea, le speranze, gli ideali abbandonati, le illusioni iniziali, assunsero un’energia imprevista e una forma fantastica: queste «illusioni» si trasformarono in sogno per tutti gli uomini «ammucchiati su terreni desolati di crateri di bombe», o sperduti nei meandri labirintici delle trincee. È in q u e sto c o n te sto ch e b iso g n a in q u a d ra re la d if f u ­

sissima convinzione post-bellica che la guerra fosse stata per milioni di uomini scuola nell’arte della violenza. Il timore proiettato sul reduce e il sospetto che i veterani fossero alla base dell’«ondata criminale» che spazzò l’Eu­ ropa post-bellica, erano prodotto di immagini preesistenti circa il tipo di personalità generabile al di fuori dei con­ fini della civiltà: ben pochi sospettarono che le realtà di q u e sta g u e rra a v e sse ro fr u str a to l'a g g r e ssiv ita al p u n to di

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Il labirinto della guerra e le sue realtà

trasformarla in ostilità interiorizzata. Le condizioni di guerra generarono nel soldato una repressione dell'io ag­ gressivo che spesso assunse forme fantastiche, forme che non poterono trovare sfogo nel contesto bellico: ma, do­ po la fine del conflitto, ebbero ben modo di manifestarsi nella relativa sicurezza della vita politica e sociale.

Note 1 R. Binding, A Fatalist at War, Boston-New York, 1929, p. 60. 2 E. Jùnger, Unsere Politiker, in «Standarte», I (1925). 3 C. Edmunds (C. E. Carrington), Subalterni War, London, 1929, pp. 217-218. 4 F. Schauwecker, So war der Krieg, Berlin, 1927, p. 17. 5 H. Massis, in G. A. Panichas (a cura di), Promise of Greatness. The War of 1914-1918 , New York, 1968, p. 277. 6 H. Barbusse, Paroles d'un combattant, Paris, 1920. 7 S. Zweig, Die Welt von gestern, Stockholm, 1942; trad. it., Il mondo di ieri, in Opere scelte, a cura di L. Mazzucchetti, 2 voli., Milano, Mondadori, 1961, voi. II, p. 808. 8 C. Zuckmayer, Als war ein Stùck von Mir, Wien, 1966, p. 21. 9 C. Zuckmayer, Pro Domo, Stockholm, 1938, p. 33. 10 C. Zuckmayer, Als war ein Stùck von Mir, cit., p. 195. 11 Ibidem, p. 207. 12 Ibidem, p. 221. 13 K. Jannack, Wir mit der roten Nelke, Boutzen, 1959, p. 57. 14 C. Zuckmayer, Als war ein Stùck von Mir, dt., p. 208. 15 F. Schauwecker, The Fiery Way, London-Toronto, 1921, p. 217. 16 F. Schauwecker, Im Todesrachen. Die Deutsche Seele im Weltkrieg, Halle, 1921, p. 22. 17 Ibidem, p. 4. 18 Ibidem , p. 39. 19 Ibidem, p. 264. 20 Questa formula fu ideata da F. Wilhelm Heinz. Vedi il suo Die Nation greift an. Geschichte und Kritik des soldatischen Nationalismus, Berlin, 1933, p. 16. 21 F. Schauwecker, The Fiery Way, dt., p. 152. 22 F. Schauwecker, Aufbruch der Nation, Berlin, 1930, p. 395. 23 C. Zuckmayer, Als war ein Stùck von Mir, cit., p. 217. 24 E. Jùnger, Werke, Stuttgart, 1965, voi. V, p. 38.

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25 E. Jiinger, Der Krieg als àusseres Erlebnis, in «Standarte», suppl. a «Der Stahlhelm», I (27 settembre 1925), n. 4. 26 P. Witkop (a cura di), Kriegsbriefe gefallener Studenten, dt., p. 3. 27 Ibidem, p. 12. 28 Questo punto è sottolineato in K. Jannack, op. cit., p. 59. 29 H. de Man, The Remaking of a Mind; A Soldie/s Thougbts on War and Peace, London, 1919, p. 161. 30 Ibidem, p. 162. 31 E. Jiinger, Der Krieg als ìnneres Erlebnis, in «Standarte», I (12 ottobre 1925), n. 6. 32 Citato in H. Hafkesbrink, Unknown Germany. A Inner Chronicle of thè First World War Based on Letters and Diaries, New Haven, 1948, p. 66. 33 J. F.C . Fuller, The Conduct of War, 1789-1961, New Brunswick (N .J.), 1961, p. 140. 34 Ibidem, p. 137. 35 R. L. Richards, Mental and Nervous Diseases During thè Rus­ so-]apanese War, in «Military Surgeon», XXVI (1910), pp. 178-179. 36 Citato in J .F .C . Fuller, The Conduct of Wary dt., p. 130. 37 D. Lloyd-George, War Memoirs, London, 1933, p. 365. 38 J .F .C . Fuller, The Conduct of War, dt., p. 161. 39 G .A . Panichas (a cura di), op. cit., p. 150. 40 F. Winteringham, The Story of Weapons, Boston, 1943, p. 164. 41 J.N . Cru, Temoins. Essai d’Analyse et de Critique des Souvenirs de Combattants Edités en Franqais de 1915 à 1928, Paris, 1928, p. 439. 42 C. von Clausewitz, Vom Kriege, (1832), Bonn, 198019; trad. it., Della guerra, Milano, Mondadori, 1970, p. 86. 43 Ibidem, p. 88. 44 E. Jiinger, Werke, dt., voi. I, p. 252. 45 E. Jiinger, Das Wàldchen 125. Etne Chronik aus den Graben Kampf 1918, Berlin, 1925, p. 21. 46 Ibidem. 47 Ibidem. 48 W. Beumelberg, Sperrfeuer ùber Deutschland, Oldenberg, 1929, p. 136. 49 J. Mayer, Verdun 1916, in G .A . Panichas (a cura di), op. cit., p. 58. 50 G .A . Panichas (a cura di), op cit., p. xxi. 51 F. Schauwecker, Im Todesrachen, dt., p. 275. 32 Ibidem. 53 A. E. Ashworth, The Sociology of Trench Warfare, in «British Journal of Sodology», XIX (1968), n. 4, p. 417. 54 C. F. Shatan, Through thè Membrane of Reality: «Impacted

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Grief» and P ereeptuoi Dissonanee in Vietnam Combat Veterans, in «Psychiatric Opinion», XI (1974), n. 6, p. 10. 55 J .N . Gru, Temoins, dt., p. 92. 56 I. Willis, Engfand’s Holy War, New York, 1928, p. 153. 57 Ibidem. 58 E. E. Southard. Sbell-Sbock and Otber Neuro-Psychiatric Problems Presented in Five Hundred and Eigbty-Nine Case-Histories, Boston, 1919, p. 211. 59 Ibidem, p. 319. 60 Ibidem, p. 224. 61 B. Liddell-Hart, Memoirs, London, 1962, voi. I, p. 13; trad. it., L'arte della guerra nel X X secolo, Milano, Mondadori, 1971, p. 20. 62 P. Witkop (a cura di), op. dt., p. 144. 63 F. Kreisler, Four Weeks in tbe Trencbes. The War Story of a Violinist, Boston e New York, 1915, p. 69. 64 Ibidem. 65 R. Graves, Goodbye to AH Tbat, London, 1929, p. 107. 66 Ibidem, p. 119. 67 A. E. Ashworth, The Sodology of Trencb Warfare, in «British Journal of Sodology», XIX (1968), n. 4, p. 418. 68 R. Graves, op. dt., p. 228. 69 W. von Schramm, In Krieg und Krieger, a cura di E. Jùnger, Berlin, 1930, p. 41. 70 H. Massis, in G. A. Panichas (a cura di), op. dt., p. 283. 71 Ibidem, p. 277. 72 C. Edmunds (C. E. Carrington), Soldiers from thè Wars Returning, London, 1965, p. 252. 73 E. Jiinger, Feuer und Blut. Ein kleiner Ausscbnitt aus einer grossen Schlacht, Magdeburg, 1925, pp. 46-47.

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C apitolo quarto

Mito e guerra moderna

Mito e realtà Nella sua ricca e autorevole analisi della letteratura inglese di guerra, Paul Fussell nota il paradosso fra la realtà di questa guerra e il tipo di coscienza che generò. Si trattò della prima guerra moderna, industrializ­ zata, tecnicizzata, eppure essa produsse miti, fantasie e leggende che sono riconducibili a mentalità più arcaiche: «Che un mondo così dominato dal mito potesse materia­ lizzarsi nel mezzo di una guerra che rappresentava il trionfo dell’industrializzazione moderna, del materialismo e della meccanica è un'anomalia degna di essere presa in considerazione» \ In questo capitolo ci occuperemo di tale anomalia. La produzione immaginaria dei combatten­ ti, i miti, le fantasie, e i rituali originati dalla guerra di trincea sembrano in stridente contrasto con la modernità della guerra stessa: eppure, ad un'analisi più puntuale, quei miti e fantasie appaiono come lineamenti caratteristi­ ci, addirittura necessarie emanazioni della guerra tecnolo­ gica. Spesso le fantasie e le leggende che furono generate al fronte sono citate apposta per essere poi accantonate: Jean Norton C ru2, per esempio, dedica il primo capitolo della sua rassegna sulla letteratura di guerra francese alla minimizzazione delle leggende propagatesi nelle trincee e dietro la linea del fronte. In realtà il folklore di guerra — inglese, francese, e tedesco — forniva materiale copio­ so per chi avesse desiderato porre sotto luce infamante il nemico, oppure proiettare le proprie ansie e speranze sul­ lo spazio liscio della Terra di nessuno. I miti e le leggen­ de di guerra sono spesso considerati falsità, o quantome­ no impressioni distorte che interferiscono con la com157

Mito e guerra moderna

prensione chiara e netta delPesperienza concreta. I reso­ conti dell’esistenza delT«ufficiale spia», del pastore che tradiva la posizione di una certa batteria disponendo ad arte le proprie pecore, dello spostamento delle trincee in un fiume rosso di sangue, di tedeschi, francesi e canadesi crocifissi, dell’angelo di Mons, delle opere difensive te­ desche «imbottite di cadaveri», e dell’esercito di disertori prosperante sulla Terra di nessuno, erano tutte descrizio­ ni, leggende, e im m ag in i p o p o la r i: m a n o n e ran o vere, e quindi si è potuto credere che servissero soltanto ad oscu­ rare le reali condizioni della guerra. Mentre da un lato è necessario rispettare la distinzio­ ne fra leggende sciocche e leggende significative propagate in guerra, ci sembra che, in generale, i miti e le fantasie di guerra non possano essere considerati come ricezioni false di realtà fenomeniche; piuttosto, furono la necessa­ r ia artic o la z io n e d i q u e lle re a ltà d a p a r te d e l c o m b a tte n te .

Nei miti più significativi si può infatti intrawedere una «lettura» delle costrizioni che immobilizzarono la vita dei fanti nelle trincee, una lettura che, a livello immaginario, spiegava lo stallo del fronte e la stasi del singolo indivi­ duo; le stesse condizioni tecnologiche che immobilizzava­ no il fronte suscitarono concezioni desuete della guerra e del combattente. I miti e le fantasie di guerra tentarono di far riv iv e re q u e ste c o n cezio n i in n u o v o o rd in e d i re a l­ tà: in sostanza, tentarono di colmare il gap fra le aspetta­ tive iniziali e la sconcertante realtà di fatto. Non ci può essere dubbio che, per esempio, il mito dell’esercito di disertori che si diceva abitasse la Terra di nessuno e vivesse nutrendosi di cadaveri, fosse un’imma­ ginazione. Ma coloro che propagarono e condivisero illu­ sioni del genere non cercavano una falsificazione della realtà, bensì una proiezione valida che ristrutturasse in qualche modo il caos di impressioni ed eventi del loro spazio vitale. I miti e le fantasie di guerra sono saldamen­ te ancorati alle realtà di guerra, per quanto essi possano coinvolgere temi, immagini, e formule tradizionali. È necessario vedere l’immaginazione in generale, e i miti e le fantasie in particolare, come un tentativo di 158

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dissolvere e risolvere le coazioni spaziali e ideali imposte

dalla realtà di guerra. Bisogna innanzitutto vedere cosa fossero queste coazioni. Viene abbondantemente citato, e lamentato, che la guerra imponesse al combattente una coscienza sensoriale ristretta e frammentata che gli rende­ va molto più difficile distinguere il vero dal falso, nonché ciò che fosse giusto temere. L ’impatto della guerra sul­ l ’apparato sensorio dei combattenti è il punto da cui è necessario prendere le mosse per comprendere la necessità dell’immaginazione, delle fantasie, del mito. L ’invisibilità rese l’udito dei combattenti più utile della loro vista nell’individuare le fonti di pericolo; l’immobilismo fece del movimento una potenzialità fantastica, magica, qualcosa cui dar forma in sogni, leggende, miti (l’ufficiale spia, per esempio, è essenzialmente ubiquo e «occhio di falco»). Le priorità della nostra analisi sono scandite da que­ sto rapporto fra realtà e fantasie di guerra. In primo luogo bisogna definire i modi in cui le condizioni di guer­ ra imposero un nuovo tipo di coscienza generale; solo così diventerà chiaro come le fantasie che appaiono nella letteratura di guerra altro non siano che costruzioni de­ signate a risolvere una realtà problematica. Raramente le fantasie di guerra sono presentate in maniera coerente; piuttosto risultano isolate, come frammenti dell’esperienza individuale. Per questa ragione è utile seguire la lettura lineare che Ernst Junger dà della propria esperienza inse­ rendo i vari spezzoni di vissuto in una visione coerente; ma prima di procedere in questa analisi bisogna chiarire l’anomalia notata da Paul Fussell e osservare più da vici­ no il rapporto fra realtà e fantasie di guerra. Fussell sostiene che la guerra costringesse i suoi partecipanti ad orientarsi «verso il mito, verso una rinascita del culto, del misticismo, del sacrificio, della profezia, della sacralità, e della significazione universale»3. Ma dunque è giusto dedurre, dal momento che i combattenti riesumarono pa­ role e immagini di una tradizione rituale e letteraria che pareva loro più adeguata a significare l’esperienza quoti­ diana, che la guerra effettuò un tipo di regressione verso una mentalità più arcaica? Molti psicologi l’hanno dedot159

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to, sebbene raramente i loro riferimenti siano letterari: la guerra «barbarizzò», «primitivizzò», o provocò «regres­ sioni infantili» nelle sue vittime. L ’assunto che sta alla base di molte teorie sulla pro­ duzione immaginaria di guerra è che credenze, miti, ritua­ li, e leggende, siano caratteristici di una fase particolare dello sviluppo psichico e culturale: quindi se gli indivi­ dui, in massa, si orientano in questa direzione, può solo significare una regressione ad una fase culturale e psichica anteriore, ampiamente superata dagli adulti civilizzati. Questa tesi cela un’ipotesi ben precisa sul rapporto fra realtà e mito. Secondo questa ipotesi, la guerra effettue­ rebbe una regressione psichica verso un luogo ove non operino realtà coattive; i miti e le fantasie di guerra sa­ rebbero così una fuga, una via d’uscita dalle realtà coatti­ ve moderne che in guerra sono tradotte in termini milita­ ri. Le condizioni di guerra, in definitiva, imporrebbero un movimento verso la fantasia e il mito i quali a loro volta sono collocabili culturalmente e fisicamente nel conti­ nuum che conduce dal primitivo al civilizzato, ovvero dal­ l’infantile all’adulto. Questo tentativo di assegnare un grado spazio-tempo­ rale alla produzione simbolica ha generato molta confu­ sione: è una semplificazione vedere le fantasie peculiari dei combattenti — anche la più ovvia fantasia di fuga, quella di volare — puramente e semplicemente come v o lo n tà d ’a llo n ta n a m e n to d a lle o p p r e ssiv e condizioni di vita della guerra di trincea. Forse, per evitare questo tipo di semplificazione è utile sbarazzarci immediatamente del termine «fantasia», che ha troppe connotazioni di fuga dal reale e dal problematico nell’irreale, per impiegare invece il termine «mito» — per quanto discutibile possa essere la sua accezione. Le ricerche sul mito, stimolate essenzialmente dagli strutturalisti francesi, si incentrano p re c isa m e n te su l rapporto intrattenuto dal mito con le realtà di un contesto sociale e culturale. Nel corso di queste ricerche il termine è stato modernizzato, e merita passare in rassegna il dibattito ad esso relativo per vedere alcune delle alternative al concetto «regressivo» di mito. 160

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Inizialmente il mito era visto nient’altro che come racconto sacro, una narrazione che definiva realtà sacre in termini di fenomeni percettibili4. Ciò rendeva però diffi­ cile parlare di mito nel contesto di società desacralizzate, secolari. Ma con Malinowski e la scuola funzionalista d ’antropologia, il mito fu visto come funzionale a certe esigenze caratteristiche di ogni società: i miti rappresen­ tano i «documenti anagrafici» delle istituzioni sociali e delle usanze religiose, documenti che spiegano da dove siano originate queste istituzioni e usanze e perché si debbano rispettare. Malinowski inquadrò i termini di ogni futuro dibattito sul rapporto fra mito e realtà sociale: si sarebbe ormai trattato di vedere come i miti funzionino in un contesto sociale e culturale. Il ruolo del mito viene poi sempre meno definito come «documento anagrafico» della realtà sociale, quanto piuttosto come mediazione di contraddizioni, tensioni, e conflitti inerenti al mondo rea­ le delle relazioni sociali. Ammesso che ci possa essere accordo su ciò che significhi il mito, esso sta nella con­ vinzione che il mito serva a mediare le contraddizioni culturali di fondo; ma il problema di come questa media­ zione abbia luogo è ancora oggetto di dibattito. Si possono cogliere i termini di questo dibattito nelle differenze fra Roland Barthes e Claude Lévi-Strauss nella precisa funzione della mediazione realizzata dal mito. Se­ condo Barthes, il mito allevia le contraddizioni fornendo un «meta-linguaggio» che sposta i segni nel contesto della significazione. Il mito svolge Poperazione di trasformazio­ ne del segno in simbolo, in un processo che vede lo spostamento del segno dal suo rapporto diretto con le contraddizioni che costituiscono la realtà storica: «Siamo di fronte al principio stesso del mito: il mito trasforma la storia in natura» 5. Il mito svolge la funzione di semplifi­ care le contraddizioni sociali perché è un tipo di linguag­ gio che sottrae alle forme (significanti) il loro contenuto originario (significato) e le ricombina in nuovi messaggi, immagini, rappresentazioni che permettono alluditorio di trarre piacere proprio da ciò che nella vita quotidiana risulta maggiormente problematico. 161

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Passando dalla storia alla natura, il mito fa un’economia: abolisce la complessità degli atti umani, dà loro la semplicità delle

essenze, sopprime ogni dialettica . . . organizza un mondo senza contraddizioni perché senza profondità, un mondo dispiegato nel­ l ’evidenza, istituisce una chiarezza felice: le cose sembrano signifi­ care da so le6. I l mito realizza, in questo caso linguisticamente, una fuga dalla contraddizione. Tuttavia, è difficile vedere nel­ l ’esposizione di Barthes differenze reali fra mito, fantasia, leggenda, melodramma, o romanzo: tutte queste forme realizzano una depoliticizzazione del reale, e sono tutte forme di falsa coscienza. La concezione del mito in Lévi-Strauss presenta certi lineamenti che risultano utili per Panalisi dell’esperienza di guerra. Egli non vede il mito né come documento anagrafico della realtà sociale né come fuga dalle contrad­ dizioni inerenti questa realtà; piuttosto, il mito è una «speculazione» inconscia che intrattiene una relazione complessa con la cultura che lo genera. Nel contesto della sua analisi delle gesta di Asdiwal, un mito degli indiani Tsimshian della costa nord-occidentale dell’America set­ tentrionale, Lévi-Strauss insiste che la rappresentazione d e i m o d i di residenza puramente patrilocali o matrilocali, che appaiono nella storia, debba essere letta con cautela nel contesto di una società che, in realtà, non manifesta nessuno dei suddetti modi di residenza nella loro forma pura. Le speculazioni mitiche intorno a modi di residenza integral­ mente patrilocali o matrilocali, non concernono dunque la realtà tsimshian, ma le possibilità inerenti alla sua struttura, le sue late n ti virtualità. Esse cercano, in ultima analisi, non di dipingere il reale, ma di giustificare la soluzione di compromesso in cui esso consiste, poiché le posizioni estreme sono in esso immaginate, solo per dimostrarle inaccettabili; tale procedimento tipico della rifles­ sione mitica, implica l ’ammissione (ma nel linguaggio dissimulato del mito) che la pratica sociale, così approfondita, è contaminata da un’insormontabile contraddizione. Contraddizione che la società tsimshian — come l ’eroe del mito — non può comprendere, e preferisce dim enticare7.

Qui il mito svolge la funzione di isolare, focalizzare, e 162

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inquadrare uno o più dei tanti aspetti del contesto sociale per mostrarne le «virtualità latenti», così come per rico­ noscere, d ’altro canto, l’impossibilità e l’irrealtà di quello stesso aspetto se spinto agli estremi. Nella descrizione di Lévi-Strauss, il pensiero mitico opera assumendo che la verità non stia in una meticolosa descrizione delle realtà qualificanti di status, autorità, lignaggio, festa, carestia, età, sesso, che caratterizzano l’edificio sociale, bensì che risieda nella selezione di certi elementi di quelle realtà e nella loro spinta agli estremi. I miti alleviano le contraddizioni ristrutturando gli elementi di conflitto della realtà. Nel farlo non cambiano nulla e «non spiegano nulla, si limitano a spostare la difficoltà, ma, con il far ciò, sembrano per lo meno atte­ nuarne lo scandalo logico» 8. Fra le concezioni del mito di Barthes e Lévi-Strauss dimora una differenza sottile ma reale, e precisamente fra 1’alleviamento delle contrad­ dizioni per mezzo di uno spostamento a livello linguistico, una sorta di Aufhebung linguistica da una parte, e l ’insi­ stenza sul potere speculativo, creativo e chiarificatore del mito dall’altra. Per Lévi-Strauss i miti presentano la struttura di un processo di selezione, categorizzazione e ricombinazione che rende effettivamente possibile inserire in un ordine discorsivo i fatti della vita economica, tecno­ logica, sociale. Gli elementi tratti dall’ambiente circostan­ te sono ristrutturati secondo un certo numero di schemi: lo schema geografico (nord/sud), cosmologico (cielo, ter­ ra, mondo del sottosuolo), o gustativo (commestibi­ le/ non-commestibile). Analogamente, nel contesto di guerra certi elementi dell’esperienza sono privilegiati nella significazione, non perché siano irreali, ma perché d ’importanza fondamenta­ le per l’esperienza umana della guerra. Si può leggere nella letteratura di guerra la ristrutturazione dei fenomeni bellici all’interno di una nuova topografia immaginaria; in particolare, le dimensioni d ’altezza e profondità sono se­ tacciate per porre in rilievo virtualità altrimenti inestrica­ bili, confuse nella realtà del labirinto-trincea. Il cielo e i suoi abitanti — gli aviatori — ricevettero qualificazioni 163

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di valore che solo gli abitanti delle trincee potevano at­ tribuire; il sottosuolo — teatro reale della guerra di mine e contromine che si svolse sotto il sistema di trincea — portò le realtà di guerra ad un estremo immaginario, fino a modellare un nuovo tipo d’eroe. In breve, le dimensioni aeree e sotterranee della guerra — aspetti dei fenomeni concreti di guerra — fornirono i particolari di uno sche­ ma che permise ai combattenti di selezionare la loro espe­ rienza, evidenziarne certi aspetti, e ricombinarle in se­ quenze in grado di effettuare la modificazione delle aspet­ tative imposta dalla guerra-lavoro, dairorganizzazione in­ dustriale del macello umano. Accanto allo schema verticale in cui si situano i pro­ blemi della mobilità, della visibilità, e dell’informazione, è presente l’articolazione orizzontale del fronte in zone di pericolo: una formula del tutto tradizionale, e basta ri­ cordare la celebre descrizione clausewitziana della batta­ glia per individuarne l’origine. Le retrovie, le trincee di riserva, la prima linea, la Terra di nessuno, la prima linea del nemico, le trincee di riserva del nemico, le retrovie del nemico: è questa descrizione di due sistemi contrap­ posti, faccia a faccia, che definisce le possibilità di vita e di movimento. Infatti il ritmo di tre o quattro giorni in prima linea, tre giorni nelle riserve, e quattro o più di riposo dietro il fronte fu osservato da tutti gli eserciti belligeranti, e produsse quella tipica oscillazione pendola­ re reperibile in ogni testimonianza dalle trincee. - In particolare, le retrovie fornivano numerosi spunti per lo sviluppo di temi bucolici, e le linee avanzate invece per revocazione del carattere demoniaco del mondo tec­ nologico. La letteratura di guerra trabocca di scene farci­ te di ornamenti floreali, delicate sfumature di colori, soste oziose e contemplative nei caldi giorni d ’estate, accanto a descrizioni di «alberi sradicati e uomini storpiati», campi butterati di crateri, un paesaggio lunare dominato dalla presenza disumana della tecnologia. Tenta molto vedere il contrasto fra temi tecnologici e bucolici in termini di opposizione fra tecnica e giardinaggio, come è ormai di­ venuta consuetudine nel dibattito su industrializzazione e 164

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miti — soprattutto nell’ambito storiografico culturale americano 9. Ma qui esaminerò piuttosto l’interazione fra le dimensioni tecnologiche e «naturali» della guerra ri­ guardo a ciò che era veramente diventata Possessione del­ le truppe, degli stati maggiori, di chiunque avesse in un modo o nell’altro a che fare con le realtà della guerra: il problema della mobilità. Focalizzare il problema della mobilità, e del modo in cui questo problema trovò solu­ zione mitica, cambia la valenza significante attribuita ge­ neralmente ai temi tecnologici e pastorali. Infatti, sia il mondo bucolico sia il mondo tecnologico forniscono stru­ menti idonei al passaggio mitologico, fissando differenti immagini della mobilità. Il soldato che trascorre il pro­ prio turno di riposo nelle retrovie si trova immerso in un universo non problematico, non resistente, che si offre lui solo attraverso il pittoresco; qui la mobilità del soldato è forzatamente oziosa e rappresenta un’occasione per riflet­ tere sulla propria esperienza; il paesaggio è d’aiuto alla contemplazione ed al ricordo. Il ritorno nell’universo do­ minato dalla tecnologia, anche sotto forma di fantasie, è un movimento diretto, propulsore, che può compiersi solo con un enorme investimento d ’energia; è un movimento che non evoca immagini bucoliche bensì incubi di penetrazione e violenza. Il movimento meccanico è un moto essenzialmente inevitabile, sovente visualizzato in termini d ’aggressione sadica nei confronti di un oggetto pas­ sivo. Se i motivi tecnologici e bucolici di guerra forniscono il contesto in cui è possibile la soluzione di ciò che è diventato troppo problematico, provvedono pure i termini per la riproposizione e l’articolazione del problema stesso. È necessario riconoscere che la relazione fra pastorale e tecnologico non è di antitesi pura e semplice. Nella lette­ ratura di guerra esiste un’immagine bucolica positiva e una negativa, proprio come esistono visioni positive e negative dell’universo tecnologico. I poli positivo e nega­ tivo nell’ambito del pastorale sono stati spesso oscurati dalla tendenza a vederlo come uno stato o un luogo coin­ cidente con il naturale, piuttosto che come uno scenario 165

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d ’azione. Infatti, l’eroe del bucolico non è il giardiniere legato alle fatiche del proprio mestiere, bensì il pastore che gode della propria vita nomade, semi-povera, senza fini assillanti: l’universo naturale che immobilizza, la ter­ ra, e le attività tipiche di quello scenario, zappare, scava­ re, rappresentano precisamente ciò da cui il soldato di linea desiderava essere liberato. Il soldato che marcisce nelle trincee vede se stesso ed è visto dagli altri in termi­ ni di visione bucolica negativa, come un bruto, un villico, un individuo instupidito dalla fatica del proprio lavoro. Analogamente, la «macchina» rappresenta un’immagi­ ne negativa nella misura in cui appare come fattore alie­ nante, immobilizzante, e positiva invece nella misura in cui accelera, rafforza il movimento, e rappresenta un si­ stema omogeneizzante. Sotto entrambi gli aspetti, sia cioè come autorità totale che detta le condizioni dell’immobili­ tà, sia come veicolo di mobilità, le possibilità inerenti alla realtà tecnologica sono spinte all’estremo. La macchina è un termine che acquista preminenza nella letteratura di guerra sia come descrizione del problema sia come veicolo della sua soluzione; la macchina è al contempo «forza legislativa» autonoma e articolazione delle potenzialità e delle energie umane. Entrambi i motivi, quello tecnologico e quello pasto­ rale, emergono nella letteratura di guerra come biforca­ zioni e ridefinizioni dei problemi che le realtà di guerra presentano ai combattenti: problemi di potenza, di mobi­ lità, e di visibilità. Ciò appare evidente qualora si affronti il tipo di coscienza generatosi dalla trincea. La frammentazione della coscienza visiva e la fantasia del volo Le condizioni di combattimento nell’ambito del siste­ ma di trincea produssero un profondo disorientamento nella maggior parte di coloro che vi presero parte. Questa vera e propria crisi d’orientamento generò a sua volta il bisogno di una visuale complessiva coerente, il tipo di 166

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visuale attribuito all’aviatore, al pilota che fruiva di una vasta prospettiva aerea. La sensazione di essere smarriti nel labirinto delle trincee — spesso in senso letterale — è anche una metafora per gli effetti che la guerra di trincea sortì sull’apparato sensoriale dei combattenti. La limitazione visiva, la perdita di ogni sicuro orientamento spazio-temporale, sono le strutture percettive che forniro­ no le basi per reminiscenze e sensazioni di déjà-vu come quelle riportate da J. R. Ackerley ad anni dalla fine del conflitto. Girovagando per le strade di una città d ’india, gli parve come di essere tornato in trincea: «Le strade si facevano sempre più strette, finché pensai di essere di nuovo in trincea . . . » 10. Le realtà di trincea posero seri problemi a coloro che avessero desiderato memorizzare la propria esperienza. In uno scritto di non più di sei mesi successivo al suo rien­ tro dal fronte orientale, Fritz Kreisler si scusa per l ’incoerenza della sua memoria. Egli si trovava incapace di orga­ nizzare il ricordo in un ordine sequenziale, dicendosi inoltre convinto di non essere l ’unico a soffrire di questa incapacità: infatti, quella «singolare indifferenza della memoria riguardo ai valori spazio-temporali» era «caratte­ ristica della maggior parte delle persone che io abbia in­ contrato in guerra . . . » 11. Si fin isce in u n o stran o sta to p sic o lo g ic o , q u a si ip n o tico , che verosimilmente impedisce di osservare e registrare le cose in modo normale 12. L ’invisibilità del nemico e la necessità di trovare ripa­ ro nella terra, l’intrico senza fine del sistema difensivo, lo squassante frastuono del fuoco di sbarramento, e la fatica degli spostamenti diuturni, concorsero a sconvolgere quel­ le strutture stabili che normalmente sono impiegate nella definizione della sequenzialità. L ’udito assunse molta più importanza della vista per distinguere il reale, e soprat­ tutto ciò che poteva rappresentare minaccia. Kreisler so­ stiene che la sua educazione musicale contribuì alla sua sopravvivenza, poiché egli si dimostrò capace, con il semplice udito, di valutare la traiettoria delle bombe in 167

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arrivo, il loro calibro, la loro velocità; racconta anche con un certo orgoglio che il suo orecchio bene addestrato fu pure impiegato come strumento bellico, quando egli aiutò la propria artiglieria a individuare la postazione di una batteria nemica perticolarmente fastidiosa. Molti ricordano che lo scenario fisico della guerra im­ pose una restrizione della coscienza visiva, una perdita del senso di superficie, una fissazione su di una stretta e insignificante striscia di terreno. Questa radicale decurta­ zione visuale rafforzò la capacità di proiezione. Nel visita­ re dieci anni circa dopo la conclusione della guerra una trincea a lui nota, Ernst Jiinger non ricorda alcuno speci­ fico fatto concreto, bensì una serie di proiezioni indotte dalPimpossibile angustia di quel luogo. Quante volte mi sono trovato come ora, in luoghi come questo! Davanti a me sta un breve tratto di trincea, una piccola parte deH’immenso fronte. Eppure questo nero buco d’entrata del ricovero, un occhio morto soffuso di penombre e segreti, questo posto di sentinella, questi tre o quattro fili di reticolato tesi sopra la mia testa che rigano il pallido cielo, sono ancora un universo intero che mi avvolge in maniera tanto semplice quanto significa­ tiva come lo scenario di un potente dramma 13. Molti veterani che ritornarono sui luoghi dove aveva­ no combattuto allo scopo di rinverdire i propri ricordi furono colti da una impressionante sensazione d’incon­ gruità spaziale: le trincee apparivano ora più piccole, strette, sacrificate, di quanto non fosse loro sembrato du­ rante la guerra. I veterani, al pari di coloro che rivisitano i luoghi della propria infanzia, furono impressionati dal­ l’abisso fra come le cose apparivano ora e come ne aveva­ no fatto esperienza un tempo. C ’era una significativa di­ scontinuità fra il campo visivo e lo spazio come era stato immaginato e vissuto; nell’efficace metafora di Jùnger, la differenza fra la vista delle trincee dopo la fine del con­ flitto e ciò che egli sentiva quando ci viveva dentro, era come la differenza fra vedere una carie in un dente e sentirla con la lingua. In guerra i ristretti spazi di vita erano stati ampliati dalla fantasia; ora invece erano visti da fuori, nelle loro dimensioni reali. 168

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La nuda superficie del paesaggio circostante rifletteva nella fantasia di ciascuno una serie di incubi che la coscienza si sforza­ va in continuazione di respingere come non credibili. A lungo andare questo era uno sforzo maggiore di quanto si possa crede­ re 14. È significativo, riguardo agli effetti duraturi dell’e­ sperienza di guerra, che ciò che veniva più sovente ricor­ dato non fosse un’impressione, uno stimolo concreto, bensì una prospettiva spaziale, una proiezione sovrapposta alla realtà di guerra. I frammenti d’esperienza che ap­ paiono sui memoriali, su riviste e giornali, possono essere riconosciuti dalla loro curvatura come cocci di un unico vaso, come schegge di una struttura conscia, cognitiva, nettamente contrastante con tutto ciò che era considerato normale prima e dopo la guerra. Nel tentativo di definire le differenze fra la visuale dei genitori e la sua, un volon­ tario scriveva a casa: «Dovete comprendere come possa restringersi un orizzonte individuale; non si può cogliere la situazione generale, e la si giudica interamente dal proprio punto di vista» 15. Il richiamo della guerra aveva evocato immagini un tempo servite a definire il luogo e la posizione del combattente nel suo campo d’esperienza, immagini che invece ora illuminavano la discontinuità di dimensioni e coscienza spaziali fra i luoghi abituali della vita civile e il campo d ’azione radicalmente delimitato dal combattente. Il decurtamento di questo campo incoraggiò la proiezione immaginaria sulla guerra, nonché la dilata­ zione dei sensi — soprattutto l’udito. In un’intervista con Leslie Smith, Robert Graves ha recentemente discusso della difficoltà attinente qualsiasi tentativo di descrizione dell’esperienza di guerra a gente che ne fosse rimasta estranea. Il problema deH’incomprensione doveva molto alle impressioni auricolari ricevu­ te dai combattenti, impressioni che non potevano essere rese in parole. graves: Il fatto più singolare è che, si ottenesse una licenza di sei settimane oppure di sei giorni, l’idea di trovarsi a casa spaventava perché si sarebbe piombati in mezzo a gente che non era in grado di capire quello che provavamo.

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Ma voi non tentavate di spiegarlo? Non era possibile: non si può comunicare un fra­ stuono, un frastuono che non cessa mai, neppure per un istan­ te 16. smith : graves:

Infatti, «le menti erano incrinate dal rombo conti­ nuo». La superiorità delle macchine sugli uomini era an­ nunciata con un «fragore di tuono» che squassava la terra e portava coloro che vi si erano rifugiati molto prossimi al collasso. I combattenti erano unanimamente d'accordo che le condizioni della nevrosi fossero poste non tanto da viste come quella, già terrificante, dell’e­ splosione di ordigni a gas, quanto dall’assordante rumore e dalle vibrazioni dei bombardamenti di preparazione, sotto cui i difensori erano costretti a rimanere per ore e anche per giorni interi. Nella sua analisi delle organizzazioni sensoriali che pare distinguano la cultura moderna da quella pre-moderna, J. C. Carothers sostiene che suono e magia siano pecu­ liarmente compatibili, così come vista, coscienza visiva, e demistificazione lo sono fra loro. Egli sostiene, con im­ magini reseci familiari da Marshall McLuhan e Walter Ong, che nelle culture alfabetizzate l’orecchio diventi or­ gano puramente secondario. Per vivere nel mondo occidentale contemporaneo è richiesto un senso ben sviluppato delle relazioni spazio-temporali e dei rapporti causali su basi meccanicistiche, e tutto ciò dipende essen­ zialmente dalla sintesi visiva, anziché da quella auricolare. Il mondo magico retto da potenze animistiche potè essere superato solo quando l’attenzione dell’uomo cominciò a focalizzarsi princi­ palmente sul mondo visibile, relativamente oggettivo 17. Per quanto si possa obiettare a questa definizione di culture sulla base del sensorio individuale, ci interessa l’ipotesi che lo sconvolgimento della possibilità di «sintesi visiva» crei quel clima di ansia e paura che introduce alla pratica magica. Molti reduci ricorderanno che, anche con­ tro il loro temperamento, divennero superstiziosi sotto il bombardamento continuo, e cominciarono a vedere il loro mondo e se stessi come vittime di forze malefiche che 170

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avrebbero potuto essere propiziate tramite formule e ri­ tuali magici. Robert Graves ammette «di essere diventato addirittura superstizioso: mi trovai a credere in segni del­ la più triviale natura» 18. Le circostanze di questa guerra, il dominio acustico, e l’impossibilità di una difesa attiva, efficace, produssero un concetto del rapporto fra indivi­ dui e forze che li sovrastavano molto più vicino allo spirito magico che a quello tecnologico. Charles Carrington descrive come le proprie facoltà intellettive si pie­ gassero sotto il peso del bombardamento. Il suo ricorso a formule scaramantiche, rituali, e fantasie, aveva lo scopo di permettergli un minimo di controllo, per quanto spu­ rio, sulle forze che lo dominavano. La giornata trascorreva in uno stato completamente nevroti­ co . .. Pensavi assurdi scongiuri per sviare la granata che sentivi sopraggiungere. Una coazione ormai potentemente interiorizzata portava a sedersi in un certo modo e non in un altro, a toccare oggetti particolari, a biascicare silenziosamente fra i denti ritornel­ li. Se questo rituale era completato, si era salvi. . . fino alla bomba successiva. Questa assurdità aveva assunto i toni oscuri del fatalismo: ci si accorgeva con orrore di essere scivolati nella superstizione, ovvero che i segni che tu stesso creavi ti si rivol­ gevano contro, e si finiva per attribuire alle granate in arrivo una deliberazione e un’accuratezza che di fatto non avevano. Così trascorrevi tutto il giorno, ascoltando, calcolando, sperando o di­ sperando, cercando compromessi con il destino e scommettendo con te stesso sulle possibilità di questi orrori vari19. Qui è evidenziata l’anomalia di cui parla Fussell. L ’impressionante scala di violenza tecnologica costrinse i combattenti ad una regressione verso forme di pensiero e di comportamento magiche, irrazionali, mitiche. Non è necessario arrivare al punto di sostenere, come hanno fat­ to molti ufficiali medici e psicoterapeuti, che questa regressione ripercorra all’indietro i gradi della moderniz­ zazione; anche facendo a meno dell’idea di regressione, si è al cospetto di abbondanti prove che il tipo di coscienza generatosi in trincea fosse in stridente contrasto con il modo di affrontare e risolvere problemi generalmente de­ finito razionale, scientifico, o tecnologico. Gli uomini divennero superstiziosi in guerra. Il loro 171

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uso di rituali scaramantici e formule propiziatorie pare l ’inevitabile risposta alla perdita totale del controllo indi­ viduale sulle condizioni di vita e di morte. La pratica magica riferita da Carrington non ha nulla di comunita­ rio: attività individuale e solitaria, è un comportamento che rientra in una situazione prossima a quell'impotenza tecnologica che Malinowski considera alla base della fede magica. La magia rappresenterebbe infatti la risorsa ap­ propriata in situazioni in cui le basi della sopravvivenza non possano essere garantite da alcuna delle tecnologie disponibili; la magia è comportamento funzionale nella misura in cui lo scongiuro riesce ad alleviare ansie che altrimenti paralizzerebbero qualsiasi capacità d’azione. L ’affidamento a difese di tipo magico e fantasie d ’invul­ nerabilità può dunque essere visto come risultato di quel profondo senso di impotenza individuale di fronte alla violenza governata dalla tecnologia che trapela da tutte le descrizioni di guerra. Carothers sostiene inoltre che la coscienza magica sia pure un risultato della preclusione di ogni sintesi visiva e dell’affidamento sempre crescente alla percezione auricolare. I suoni rivelavano movimenti peri­ colosi: il fruscio delPerba nella Terra di nessuno, il tin­ tinnio del reticolato, il fischio di una granata in arrivo, il tonfo sordo di un colpo di mortaio — tutti annunci di una morte potenziale contro cui le uniche difese erano la terra e il rituale. Vorrei avanzare l’ipotesi di un altro possibile legame fra i suoni di guerra e il mutamento della percezione cosciente dei combattenti. Graves, Carrington, e molti altri notarono che il frastuono terrificante dello sbarra­ mento d’artiglieria generava una sorta di condizione ipnotica che sconvolgeva ogni modello razionale di causa ed effetto, permettendo, e addirittura richiedendo, il ri­ corso alla pratica scaramantica. Questo stato fu sovente descritto in termini di perdita di coerenza logica e di scomparsa del senso di sequenzialità temporale; in questo modo venne a crearsi un terreno fertile per un pensiero irrazionale e per associazioni di tipo spontaneo. In tutta la storia della psicologia, gli studiosi dell’attività cognitiva 172

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hanno insistito sulla distinzione fra due diverse, e spesso dicotomiche, forme di organizzazione del pensiero. Queste dicotomie, chiamate in vario modo — come differenza fra irrazionale e razionale, processi primari e processi secon­ dari di pensiero, intuitivo e analitico, magico e scientifico — definiscono strutture diverse dell’organizzazione cogni­ tiva. Ulrich Neisser preferisce chiamare queste due forme organizzative «parallela» e «sequenziale». I processi se­ quenziali «operano soltanto quelle verifiche che risultano non contraddittorie alla luce dei risultati delle preceden­ ti» 20; ogni idea, ogni immagine, segue dalla precedente, necessaria idea o immagine. In contrasto con il procedi­ mento sequenziale, in cui le idee sono ordinate una per volta, il processo parallelo svolge «molte attività simul­ taneamente, o almeno indipendentemente l’una dall’al­ tra» 21; visti nel loro complesso, i processi paralleli manca­ no di qualsiasi sequenzialità coerente. Neisser suggerisce che «pandemonio» possa essere il termine più appropriato per i processi paralleli, così come per i «processi primari» di Freud: «Freud non avrebbe trovato nulla da obiettare di fronte a una descrizione dei processi primari come un’orda di demoni scatenati»22. Questa distinzione fra processi paralleli di pensiero, multilivello, diffusi, mani­ festamente caotici, e processi sequenziali, che si incentra­ no su un’ordinata, successiva soluzione di problemi, offre la griglia interpretativa del mutamento nella coscienza percettiva di coloro che furono succubi di bombardamenti senza tregua. Nell’anomalia sottolineata da Fussell — cioè nel con­ trasto fra la guerra industrializzata e il comportamento rituale, magico, generatosi in seno ad essa — è implicito che si tratti di contrasti fra mentalità diverse, fra uno spirito tecnologico e un insieme arcaico di credenze. La magia è qualcosa di più di una deficienza scientifica: essa infatti lavora sulla base di corrispondenze, analogie e as­ sociazioni che presumono un universo significante poliva­ lente. La tecnologia, così come è stata definita nel mondo occidentale, si incentra invece su di un rapporto verificabile fra mezzi e fini, fra causa ed effetto. Francesco Baco173

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ne distingueva la scienza dalla magia in base al fatto che la prima produce risultati che possono essere riconducibi­ li a cause necessarie rigorosamente delimitabili. Questi risultati possono poi essere descritti in un linguaggio scevro da «fantasie», immaginazioni, o pregiudizi cultura­ li. È anche significativo che le primissime definizioni di scienza moderna — quelle di Bacone, Galilei, e Cartesio — poggiassero, in misura inedita rispetto al passato, sulla metafora visiva e sulla nozione di osservazione oggettiva e induttiva. Il campo visuale d'osservazione sperimentale, lo spirito tecnologico, e i processi sequenziali di pensiero, nelTaccettare solo le prove conseguenti dal risultato di verifiche precedenti rimandano l’uno all’altro ratificando­ si reciprocamente: la sintesi visuale tronca la miriade di corrispondenze soggiacenti ad ogni pratica magica. Si può dire che il deteriorarsi del campo visivo patito da tanti nel corso della guerra di trincea inceppò quel codice che permette all’osservatore di distinguere la suc­ cessione degli eventi. Certe situazioni, analogamente a quella della guerra di trincea, sembrano molto idonee a disorganizzare il pensiero sequenziale e a disorientare il partecipante; nella cultura africana in particolare, il fra­ casso, oppure il rapido oscillare fra note musicali ordinate secondo una certa sequenza e ritmi sincopati e sfiancanti, sono impiegati per guidare lo stato di trance, la posses­ sione spiritica, o altri stati di alterazione della coscienza. Rodney Needham, per esempio, ipotizza che gli strumenti a percussione dominino gli scenari rituali per il loro forte effetto di disorientamento psico-fisico: come il tuono e la cannonata, i tamburi «sconvolgono la normalità ambienta­ le» 23. Il tamburo è la figura centrale della cerimonia Voodoo haitiana: «È il tamburo» sostiene Frances Hux­ ley, «che fa precipitare la dissociazione; chi lo batte è abilissimo nel cogliere il momento, e incrementando, alte­ rando, o spezzando il ritmo, accelera la crisi nei parteci­ panti al rito» 24. Morton Marks descrive con dovizia di particolari come la rottura fra ordine (parlare o suonare uno per volta) e la confusione (parlare tutti insieme) sia caratteristica centrale delle esibizioni rituali africane o a174

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fro-americane. L'oscillazione fra ordine e frammentazione dell'ordine conferma la plausibilità dell'interpretazione, in altri contesti, di certi tipi di comportamento generalmente associati agli stati di trance25. Questa digressione nei campi della psicologia cogniti­ va e dell'etnomusicologia suggerisce dunque, io credo, al­ cune possibili connessioni fra il frastuono del bombarda­ mento e l’alterazione del proprio stato di coscienza de­ scritta dai combattenti, ovvero la mentalità magica, miti­ ca, vista da Fussell come effetto della guerra. La limita­ zione visiva eliminò la maggior parte di quei segni che permettono agli individui di collazionare la loro esperien­ za in termini di problemi risolubili in una sequenza ra­ zionale. Il frastuono pazzesco che dominava il fronte sor­ tì effetti di disorientamento assoluto: il sottofondo di esplosioni continue limitava il tipo di informazione acqui­ sibile dall'ambiente, e costringeva i soldati ammassati nei rifugi sotterranei ad escogitare nuovi modelli per decifra­ re la diversa gamma di detonazioni sulle loro teste. Ebbe­ ne, questa decrittazione di universo caotico poggiò com­ pletamente sull’angolazione prospettica del singolo indivi­ duo, un angolo ristretto che forzò il riemergere di ansie profondamente rimosse, immagini animistiche, associazio­ ni spontanee e imprevedibili. La maggior parte degli europei che combatterono la Grande Guerra esperì il frastuono di guerra come caos puro e semplice: qualcosa che provocava paura, stordi­ mento, muta rassegnazione. Proprio perché non esisteva alcun paradigma convenzionale, culturale, che garantisse un'adeguata preservazione dell'«interiorità» del soldato nel corso del passaggio da uno stato d'ordine al frastor­ nante disordine di guerra, fu il fuoco di sbarramento, il tambureggiante fuoco d'immensi parchi d’artiglieria, che più sovente realizzò il passaggio alla nevrosi, nel collasso psichico, nell'alterazione mentale: la difesa ultima contro le brutalizzanti e omicide realtà di guerra stava in para­ dossi, proiezioni, fantasie lugubri e deprimenti, oppure nell'assunzione di sintomi nevrotici. La limitazione visiva non solo portò all'incidenza della 175

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nevrosi, ma contribuì pure alla «testualizzazione» degli eventi di guerra, testualizzazione di cui abbiamo parlato più sopra. La guerra assunse una terrificante autonomia dalle motivazioni e dai propositi degli uomini che vi par­ teciparono, venendo sempre più descritta in termini an­ tropomorfici, o come un automa — un organismo che attuava e autorizzava azioni non più attribuibili a scopi individuali. La razionalità, gli scopi, i fini della guerra, erano sempre più reconditi agli occhi dei combattenti; eppure, il loro ruolo, la loro stessa sicurezza, sembravano dipendere, in modo crescente, dalla corretta lettura delle misteriose intenzioni dell’organismo che dettava le condi­ zioni di vita e di morte. Merita di essere seguito il percorso attraverso cui la guerra divenne completamente priva di significato, agli occhi della maggior parte dei combattenti. Infatti, questo processo non comportò un semplice mutamento attitudi­ nale, ma rappresentò una funzione della trasformazione vera e propria imposta dalla guerra sulla prospettiva e la coscienza individuali. La prima vera impressione della guerra fu, per tanti, un riconoscimento della peculiare discrepanza fra il suo significato e la sua realtà di fatto. Lo spazio in cui fu combattuta era troppo limitato per poter apparire come recipiente di un significato stori­ co-mondiale: questa angustia dello scenario su cui si esi­ bivano i combattenti apriva un gap fra l’azione e il suo significato. Herbert Weisser, un volontario tedesco, fu sorpreso da questa incongruenza al momento del suo pri­ mo approccio con la guerra di trincea. Ieri giunsi in trincea, dove potei vedere per la prima volta la vera guerra. Tutto trova posto in una striscia di terra molto stretta (anche se, certamente, molto lunga) che appare davvero troppo stretta per il significato gigantesco di questa guerra26. L ’iniziale portata ideale della guerra mal s’accordava con le sue reali dimensioni spaziali. Una maggiore familia­ rità con le condizioni reali di questa guerra convinse Weisser come essa altro non fosse che uno spreco di uo­ mini e di energie assurdo, privo di significato, un’assoluta 176

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smentita della «spinta al rendimento». Gli rimase la spe­ ranza che la grandezza della guerra, così radicata nelle sue aspettative iniziali, potesse riapparire dopo la fine del conflitto — sotto forma di ricordo: «Credo che potrò riconoscere e apprezzare la grandezza di questi momenti solo fra qualche anno» 71. L ’effettiva esperienza di guerra non portò i combat­ tenti, come loro avevano sperato, più prossimi al suo significato. Al contrario, la maggior familiarità con quel tipo di combattimento distanziò l’individuo dal fine e dal senso del progetto in cui si era trovato coinvolto. Lo sforzo per riuscire ad inquadrare le proprie aspettative nelle reali condizioni della guerra, uno sforzo che termi­ nava nell’incapacità di comprendere e nello sviluppo di un particolare tipo di animismo, è bene illustrato nelle lettere di guerra del tenente Edward F. Graham, di Ro­ chester, New York. Come corrispondente del «Times» di Brooklin, Graham aveva sostenuto la proposta di pace di Henry Ford all’Europa nel 1916, ed era convinto di co­ noscere il segreto della guerra e di aver saldamente affer­ rato il suo significato ideologico. Il mondo è spaccato in due. La disperata contesa fra giustizia e tirannide ... è ai ferri corti. Dovreste essere orgogliosi che io partecipi alla lotta . .. come parte del muro umano innalzatosi contro il secondo medioevo28. Ma al fronte, la chiarezza del confronto fra le forze del bene e quelle del male fu progressivamente oscurata dalla spaventosa dimensione dell’evento. Vista dall’inter­ no, l’enormità di quella guerra sconvolse ogni prospettiva personale: quale che fosse il grado del singolo individuo, la sua autorità nella catena gerarchica del comando, qual­ siasi comprensione razionale dell’evento in termini di pia­ no, ordine, ed esecuzione dell’ordine, risultava impos­ sibile. Questo sforzo angoscioso, continuato, inchioda le facoltà e rimpicciolisce le aspettative. La realtà qui è talmente particola­ re. . . che i civili e il loro affaccendarsi ci appaiono come mero 177

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spettacolo cinematografico. Si tratta di uno sforzo talmente smisu­ ra to e c o m p licato che n essu n cervello è in g rad o d i co m p ren d erlo , né il fante che scaglia una bomba a mano contro un Boche, né il generale che manovra un intero esercito: il risultato c ’è, è concre­ to, ma in nessun caso permette all’attore di cogliere i sottili processi che lo sottendono29. La guerra era dunque ancora progetto umano, per quanto avesse superato la capacità di comprensione del singolo individuo, fantaccino o generale che fosse. Ma dal rendersi conto che la guerra non sia soggetta ad alcuna volontà individuale, alla convinzione che la stessa sia go­ vernata, retta, da una volontà sovrapersonale e disumana, il passo è breve. Si può cogliere il passaggio all’animismo nell’ultima lettera di Graham — in cui la guerra appare come una bestia gigantesca, incomprensibile, malefica, e in cui gli uomini appaiono rimpiccioliti, riconoscibili solo per la loro miseria e la loro abiezione. Il 21 agosto del 1918 — meno di tre mesi prima dell’armistizio — Graham fu ucciso da una granata d ’artiglieria che esplose davanti all’entrata del ricovero in cui egli e la sua squa­ dra avevano cercato scampo da un furibondo bombarda­ mento tedesco. La madre più tardi ricevette i suoi appun­ ti e il brogliaccio di una lettera datata 20 agosto. che

È questa ima guerra di miserabile infrattarsi — uomini-pigmei si

im b u can o

so tto te rra

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di

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di

maglio del gigante che scuote la terra con cieco furore30. Dunque la guerra conservò la sua magnitudine agli occhi di Graham, anche se evoluta da evento storico mo­ ralmente comprensibile, a sistema che dava scacco ad ogni interpretazione personale e, infine, ad automa caratteriz­ zato dall’indifferenza per le sofferenze umane che «esso» infliggeva. Graham conclude ponendosi la domanda che tanti si posero, una domanda appropriata al paradigma moderno della sofferenza di massa: perché uomini total­ mente sviliti dall’atroce realtà, le cui convinzioni si sono mostrate illusioni, e che hanno smarrito ogni senso di ciò che fanno, continuano a soffrire senza fine? Molti invece preferirono non porsi questa domanda, 178

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spostando lo scopo e il significato perduti ad una prospet­ tiva futura oppure attribuendoli ad una creatura fantasti­ ca collocata in qualche punto «sopra» il fronte e capace di cogliere il disegno del caos esperito dal soldato di linea. Franz Schauwecker fu uno di quelli che ascrissero la coerenza da loro persa ad un essere fantastico che aleg­ giava sulle trincee, sul labirinto del fronte. Tutti i raziocini dei soldati vagano senza coerenza, ognuno per conto proprio, ma dietro e sopra di essi sta, in qualche parte del fronte, un senso ordinatore dei milioni di passaggi, angoli e trabocchetti, in un tutto organico . .. E solo un occhio che possa godere di una prospettiva superiore può tenere tutto sotto con­ trollo 31. Per Schauwecker, e per tanti altri, la guerra era dive­ nuta un fato misterioso, un indecifrabile destino. Incapa­ ce di abbandonare una volta per tutte le possibilità di capire il perché della propria sofferenza, egli proiettò quel significato per lui ormai inattingibile in un luogo sovra­ stante il fronte: la capacità di prospettiva negata al solda­ to di linea, smarrito in mezzo ai «milioni di passaggi e trabocchetti» della sua quotidianità, fu delegata a un «oc­ chio» libero da impedimenti e limitazioni di sorta. Uno dei miti più significativi della guerra fu la pro­ spettiva aerea — quella che veniva attribuita all’aviatore. La necessità di questo mito risiede precisamente nella frammentazione delle percezioni e delle finalità del solda­ to di linea; il mito del volo, dell’avventura aerea come ultima sponda del comportamento cavalleresco, è chiara­ mente un concetto compensatorio. Esso serviva infatti a mantenere aperto in qualche modo lo spazio di significato e finalità attraverso il quale tanti erano entrati in guerra, essendo l’aviatore una figura reputata ancora in grado di destreggiarsi fra le aspettative annientate dalle condizioni della guerra di trincea: assumendo la prospettiva dell’a­ viatore, il fante avrebbe potuto distanziarsi psichicamente dalle schiaccianti condizioni di guerra. Una veduta aerea avrebbe ordinato gli angoli e le giravolte del labirinto di trincee in un tutto organico, e reinvestito delle aspettati179

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ve iniziali le condizioni concrete di guerra. Volare, in teoria e in pratica, teneva aperta la possibilità di fuga; e molti si avvantaggiarono di questa possibilità. Erich von Ludendorff consigliò ai suoi figli di raggiungere «Parma militarmente decisiva, la fanteria». Essi lo fecero ma, finì per lamentarsi Ludendorff, «come accadde a tanti nostri giovani, la libertà dei cieli li attrasse fuori dalle trin­ cee» e i suoi figli divennero piloti. La mistica delPaviazione e del volare fu uno dei con­ tributi più comuni della guerra alPimmaginario degli anni Venti e Trenta. L ’aviatore poteva impegnare un combat­ timento individuale, anziché necessariamente collettivo; era bene identificabile, anziché anonimo. L ’aviatore, al pari di eroi come T. E. Lawrence, combatteva una guerra pre-industriale con armi della tecnologia più moderna, ere­ ditando i valori — mobilità, onore, visibilità personale e capacità visiva complessiva — che caratterizzarono un tempo la cavalleria corazzata medievale, e che erano stati completamente smarriti dalla fanteria. Il più brillante poeta del volo, Saint-Exupéry, era troppo giovane per avere potuto combattere in guerra, eppure nei suoi rac­ conti egli ha sfruttato temi e immagini sviluppati origina­ riamente riguardo alla guerra aerea sui cieli del fronte. Le metafore di guerra risaltano nell’opera di Saint-Exupéry soprattutto quando egli riesuma il concetto di eroismo, che aveva ben presto perso ogni significato in fondo alle trincee: la felicità dell’eroe non sta nella sicurezza, ma nel rischio, nell’avventura e nella trascendenza di sé. In Voi de Nuit l’eroe nicciano di fondo è reincarnato in Rivière, il direttore di un servizio aereo di posta attraverso le Ande, che giustifica il licenziamento in tronco di un mec­ canico nei seguenti termini: «Perché si può comandare agli avvenimenti ed essi obbediscono; e si crea. E anche gli uomini poveri sono delle cose; e si creano anch’essi. Oppure si mettono da parte quando il male passa attra­ verso a loro» 33. In quella guerra la prospettiva di volare rappresenta­ va una liberazione. L ’esistenza d ’aviatore permetteva il recupero di quelle aspettative d ’avventura, distinzione 180

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personale, e liberazione, con cui molti erano entrati in guerra. Ernst Jùnger visitò un aerodromo dietro le linee nel marzo del 1918, e la sua descrizione dei piloti è l’occasione per il recupero di aspettative quasi del tutto abbandonate. Gli aviatori apparivano come antichi cava­ lieri che, attraverso il loro rapporto privilegiato con le macchine, avevano riguadagnato Tantico status elitario e la loro superiorità sulla massa pidocchiosa delle trincee. I piloti d’aeroplano erano al contempo reincarnazioni del­ l’antico spirito cavalleresco e iniziati ai segreti dell’acciaio e degli esplosivi ad alto potenziale. Le loro macchine li mettevano in grado di volare ad altezze da dove, final­ mente, la guerra tornava ad apparire come un progetto umano conchiuso: l’aviatore possedeva gli occhi di cui era stato privato il fante. Quando essi si librano a quelle altezze da cui il fronte appare come una rete sottile, lo stesso che il fante vede come groviglio di linee, si consumano nella loro rischiosa impresa le fiere nozze fra lo spirito dell’antica cavalleria e la fredda austerità dei prodot­ ti d ella nostra industria 34. Paul Fussell nota la predominanza del cielo nella let­ teratura di guerra britannica. È lo stesso motivo ricorren­ te della letteratura del diciannovesimo secolo in generale, e lo stesso che appare sovente in descrizioni di guerra — la più memorabile delle quali forse è quella di Guerra e pace di Tolstoi, quando Andrei, ferito sul campo di Austerlitz, contempla fissando il «cielo eterno» la propria condizione mortale. Dunque la guerra di trincea intensificò un già considerevole interesse nelle aperture di cielo, nel­ le albe, nei tramonti, e nei fenomeni atmosferici che era­ no divenuti in Ruskin temi preferiti di rappresentazione pittorica. Alcuni combattenti riuscivano perfettamente a spiegarsi l’appropriatezza del cielo come motivo dominan­ te della guerra industriale. Max Plowman si chiedeva: È stato Ruskin a dire che la metà superiore e più gloriosa dello spettacolo della natura viene ignorata dalla maggioranza del­ la gente? .. . Bene, le trincee hanno cambiato tutto. Escludendo il paesaggio, ci costringevano ad osservare il cielo; e quando esso è 181

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un baldacchino azzurro solcato da nuvole bianche . .. e quando la terra al di so tto è u n a d iste sa scon volta d a i p ro ie ttili, u n o gu ard a

beato verso Paltò, ricordando forse i giorni in cui, bambino, sdraiato sul prato del giardino contava le nuvole che passava­ no35. La metafora del cielo era spesso impiegata per sottolineare il grottesco implicito nell'avventura umana della guerra: «Per chi è stato in guerra la via convenzionale da seguire per conseguire effetti ironici è semplicemente quella di giustapporre un tramonto e un’alba agli sgrade­ voli particolari materiali della guerra vissuta» 36. Terra e cielo hanno sempre offerto un repertorio pressoché ine­ sauribile alla contrapposizione, ironica o patetica, fra agi­ tazione e impassibilità, condizione mortale e condizione eterna, materiale e ineffabile; e l'attenzione al cielo e ai suoi abitanti può solo risultare intensificata in un mondo terrestre in cui la morte è la prospettiva più immediata dei suoi viventi. F. C. Bartlett, nella sua analisi sugli ef­ fetti psicologici della guerra di trincea, s'accorse come la morte e il desiderio di morte, in qualità di «onorevole via d ’uscita dalla guerra», rappresentassero il chiodo fisso particolarmente per quei soldati che avevano un «alto senso ideale del dovere». Egli concordava con l’opinione di MacCurdy secondo cui il desiderio di morte era una fissazione ricorrente in tutti coloro che sarebbero poi an­ dati incontro a un collasso psichico al fronte. Si può capire come, nelle circostanze di guerra, qual­ cosa che era servito come metafora letteraria, cioè la contrapposizione fra cielo e terra, assumesse una valenza psichica. Nella sua analisi dei sogni, Freud interpreta il sogno di morte del sognatore come rappresentazione di una dissociazione della coscienza. Il sognatore osserva sempre la propria morte come uno spettacolo, sopravvi­ vendo come osservatore; e la stessa facoltà di immaginare una prospettiva esterna alla scena della propria morte agisce come garanzia di sopravvivenza, assicurando che la propria morte non è altro che un sogno. Le realtà di guerra imposero ai combattenti di assu­ mere un rapporto introspettivo nei confronti di se stessi. 182

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Questa facoltà generò un tipo di prospettiva che Jùnger denominò visuale «stereoscopica», una visuale che per­ metteva all’individuo, come persecutore, di osservare se stesso come vittima. Il cielo viene così caricato di un intenso significato: esso deve essere la residenza dell’os­ servatore che assiste alla propria lotta nell’incubo della guerra, perché solo in queste condizioni l’occhio può so­ pravvivere allo smembramento del corpo; e, dunque, la creatura fantastica che sovrasta il fronte ordinando i mi­ lioni di passaggi, angoli e trabocchetti in un coerente modello di senso e scopi, è un io ricostituito, un’identità proiettata, una persona mitica chiamata «la Guerra». Se esistesse una creatura in grado di poter abbracciare con un colpo d'occhio dalle Alpi al mare, tutta questa attività le appari­ rebbe nient’altro che una guerra di formiche, il martellio distante di un’intera fabbrica. Ma a noi, che ne viviamo una sola minusco­ la sezione, il nostro infimo destino pare schiacciarci e la morte ci appare sotto forma terribile. Noi possiamo soltanto supporre che tutto ciò che accade qui formi una parte di un ordine più ampio, e le fila che ci sforziamo di tirare e allineare, apparentemente senza scopo e tanto faticosamente, siano qualcosa tenuto insieme in una fabbrica di significato, l’unità della quale ci sfugge37. Le dimensioni rituali, religiose, mitiche, della guerra si svilupparono direttamente dallo scenario di «macello industrializzato» che fu la prima guerra mondiale. Così molti si convinsero dell'esistenza di un occhio semi-divino che superasse la loro limitatissima prospettiva, un leviata­ no che non soffrisse nulla di ciò che essi pativano, una creatura con volontà e scopi precisi in contrasto con la loro impotenza, con l’insensatezza delle loro azioni. Pur riconoscendo l’irrazionalità inerente all’atto di proiettare su una creatura fantastica tutto ciò che essi avevano per­ duto, la possibilità stessa della sua esistenza garantiva ai soldati proprio ciò che era divenuto più difficile e pro­ blematico per loro: la sopravvivenza e la continuità di significato.

183

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Guerra sottoterra Se la dimensione aerea della guerra forniva una possi­ bilità di auto-estraneazione, auto-trascendenza, e introspe­ zione, la guerra combattuta nel sottosuolo, la guerra di gallerie e di mine, rappresentò il condensato di quanto di più oppressivo offrisse la guerra di trincea. La guerra di trincea fu in generale guerra di scavo, ma il teatro di guerra dominato in maniera veramente esclusiva dal genio zappatori fu la guerra di mine e contro-mine sotto la Terra di nessuno. Il silenzio, il buio, la mancanza d’orien­ tamento, e la pressoché insopportabile tensione psichica sofferti dai soldati del genio, costituirono l’intensifica­ zione dell’esperienza ordinaria di guerra di trincea. Di fronte al lavoro di mina, il trinceramento — cioè la tatti­ ca difensiva che immobilizzava la guerra — divenne quasi un atto offensivo: il soldato del sottosuolo avanzava si­ lenziosamente fra terra, calcare, e argilla, che il sistema di trincee in superficie si era appena limitato a scalfire. Se la terra era prigione del Frontschwein, era pure l’elemento d’azione e combattimento del genio pionieri. È di gran lunga più semplice svolgere il rapporto fra superficie e spazio aereo, e vedere in che modo potesse rappresentare una dissociazione dall’esperienza, di quanto non sia definire le distinzioni fra dimensione di superficie e dimensione sotterranea. La fanteria di linea e il genio zappatori hanno in comune l’elemento «terra». Sono an­ che figure interscambiabili, poiché lo zappatore è un mi­ natore in divisa, un minatore armato, e il soldato di linea è un fante che è stato trasformato in uno zappatore. L ’unica distinzione chiara sta nei differenti termini usati dal fante e dallo zappatore per definire il loro rapporto con la terra, e per sviluppare le implicazioni dell’elemento terragno riguardo alla percezione di se stessi e del proprio status. I fanti definirono se stessi come moderni cavernicoli. L ’esperienza che era stata inizialmente acclamata come liberazione dalle convinzioni sociali e come inizio di una vita più semplice, più naturale, e più sana, era divenuta, 184

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con la guerra di trincea, un’esistenza in «una dimensione inedita di follia, una vita sotterranea vissuta in un regno di gnomi, in cui l’immobilità non aveva mai pace, e l’atti­ vità quasi mai era mobile» 38. L ’imbarbarimento cui tanti percepirono di sottostare in guerra è sempre posto in relazione all’ambiente-trincea, un ambiente descritto da Barbusse come «mondo di trogloditi». Le caverne, i caver­ nicoli, l’umidità e lo sporco della guerra, nonché la sensa­ zione di essere smarriti in una palude senza fine, davano ai combattenti l’impressione di vivere in un universo pre-civilizzato che aveva ben poco in comune con il mon­ do tecnologico, industrializzato. Henri Barbusse impiega il termine «troglodita» in tutti i suoi romanzi di guerra; e solo chi non abbia conosciuto questa guerra può stupirsi quando un poilus, nel romanzo II fuoco, scopre un’ascia dell’età della pietra mentre lavora ad una trincea di colle­ gamento, e la adotta come arma bianca supplementare. La clava infatti era un’arma molto più popolare della baio­ netta nelle trincee, e basta andarsi a vedere le terrificanti mazze chiodate esposte in un qualsiasi museo della Gran­ de Guerra per capire come fosse automatico, per coloro che scrissero delle proprie esperienze belliche, equiparare la guerra moderna al combattimento primitivo. Sulla superficie del sistema di trincea il concetto di barbarie, implicito nell’immagine del soldato come troglo­ dita, codificò la sensazione che la trincea rimpicciolisse gli uomini, li contaminasse, e li proiettasse fuori dai confini spazio-temporali della civiltà. Questo diviene esplicito nel­ le allusioni talvolta ironiche e talvolta patetiche, che tanti soldati indirizzavano nei confronti di se stessi, parago­ nandosi a vermi, topi, talpe, conigli: i «pigmei» ammas­ sati in piccole tane e caverne non sono certo gli uomini che camminano sulla faccia della terra, sotto il sole, bensì le creature che vivono nella terra e la scavano. Quali peccati dobbiamo dunque scontare, da essere trattati peggio di animali? Braccati da un buco all'altro, infreddoliti, inzuppati, coperti di stracci... finiamo schiacciati come vermi. Ma non la faranno mai, questa pace39? 185

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La caverna e i suoi abitanti fornirono le immagini di riferimento appropriate alla superficie della guerra di trincea. Ma sotto la superficie, proprio nel sottosuolo, erano sovente impiegate formule diverse; in questo caso infatti, l’elemento terregno rafforzava la statura umana e le virtù militari, anziché svilirle. H. D. Trounce, un te­ nente dei Royal Engineers, sosteneva che «in nessun tipo di guerra di superficie vengono richiesti tanto sangue freddo e lucidità mentale, combinati con un’energica ca­ pacità d ’azione e coraggio, come nella condotta di queste operazioni militari di scavo» 40. La tensione estrema con­ nessa al lavoro di mina sotto il fronte nemico, all’ascolto delle conversazioni del nemico attraverso sottili diaframmi di terra, deve essere assolutamente dominata. Lo scopo della guerra di mine consiste nel portarsi sotto al nemico, interrompere le gallerie che egli sta sviluppando contro Pavversario, e cercare di fare saltare le sue stesse trincee; la guerra sotterranea è guerra di piccole squadre — al riparo dall’inesorabile minaccia del bombardamento che regna sulla superficie — che avanzano attraverso terra e roccia sulle linee nemiche. Proprio come l’aviatore po­ teva sorvolare il regno del fuoco, lo zappatore poteva scivolarci sotto: questo fatto fece dello zappatore, analo­ gamente al pilota d ’aereo, una figura di alternativa imma­ ginaria per coloro che popolavano la superficie. La guerra sottoterra solleva un complesso di simboli convenzionali, antichi e moderni, che sono stati connessi ai concetti di cambiamento e trasformazione più come ricombinazione di elementi che come loro trascendenza. La funzione della mina, sia come simbolo che come realtà, è di annullare ogni speranza di fuga, liberazione, o trascen­ denza, attirando l’attenzione piuttosto sulle reazioni orga­ niche, chimiche, interiori. Il lavoro di miniera, al pari di quello di fucina o anche d’officina, è luogo di operazioni meccaniche e tecniche che conferiscono uno statuto socia­ le ambiguo a chi le pratica. La loro occupazione rende i minatori da un lato padroni di un universo materiale, e dall’altro li imbruttisce, li storpia, o comunque li segna come creature estranee alla superficie e alle sue maniere, 186

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consuetudini, e gerarchie sociali. Merita di essere brevemente passato in rassegna il complesso di simboli che definiscono Fattività e lo status dei lavoratori del sottosuolo, prima di passare all'esame delle narrazioni della guerra sotterranea. In uno dei po­ chissimi studi sui miti, i misteri, e i tabù che hanno accompagnato le fasi dello sviluppo della tecnologia, Mircea Eliade sottolinea come minatori, fabbri, fonditori, e alchimisti, siano sempre stati considerati praticanti profes­ sionisti delle trasformazioni della materia, attività viste come ambigue, potenzialmente pericolose, e in certi casi sconfinanti nell'eresia. Non si possono leggere i materiali raccolti da Eliade senza giungere alla conclusione che an­ che le primissime descrizioni del proprio lavoro, e parti­ colarmente quelle degli alchimisti, servissero tanto come difesa contro le ambiguità della loro posizione riguardo alle strutture ufficiali di autorità e fede, quanto come spiegazione dei processi che praticavano. Così i minatori vedono se stessi non come violatori della terra materna, bensì come assistenti delle trasformazioni materiali ogget­ tive: il minatore semplicemente collabora alla nascita dei metalli, ritirandosi periodicamente onde permettere ai giacimenti embrionali di rigenerarsi. Analogamente, i can­ ti, le formule e i rituali dei fonditori e dei fabbri, identi­ ficano la fornace come grembo artificiale che affretta con il suo fuoco la gestazione dei metalli puri. E gli alchimisti fanno un ulteriore passo avanti, vedendo nelle proprie operazioni il perfezionamento sia della materia che di se stessi. L’alchimia continua e consuma un antichissimo sogno delcollaborare al perfezionamento della materia e nello stesso tempo perseguire la propria perfezione . .. Assumendosi la responsabilità di cambiare la Natura, l’uomo si è sostituito al Tempo 41. Yhomo faber :

Eliade nota che i simboli di minatori e fonditori sono pagnano i riti di passaggio in te, di sessualità, di rinascita.

che accompagnano il lavoro uguali a quelli che accom­ generale — simboli di mor­ In realtà, sarebbe piuttosto 187

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il caso di sorprendersi se i procedimenti tecnologici non fossero compresi e giustificati nei termini di quegli stessi simboli che definiscono mutamenti di condizione, di posi­ zione, di status. Ma il punto che emerge con maggior chiarezza nello studio di Eliade è la posizione anomala del fabbro, del minatore, dell’alchimista, nell’ambito della so­ cietà d ’appartenenza: molto spesso cioè, sono accostati agli stregoni. Un proverbio Yakut identifica il primo fabbro, il primo vasaio, e il primo sciamano come fratelli di sangue; in Africa, i fabbri nomadi sono considerati alla stregua di paria dai Boris del Nilo Bianco, mentre i Bololo del Congo li vedono come eroi culturali. Nell'Africa settentrionale e orientale, nelle culture pastorizie camiti­ che, i fabbri sono una casta inferiore; nelle civilizzazioni africane del ferro, godono invece il prestigio di un’ari­ stocrazia. In entrambe le accezioni, chi pratica l ’arte della trasformazione dei metalli appartiene a una razza a parte, e la loro abilità professionale li dota di un potere enorme che è rispettato e temuto. I tecnici appartenevano tradizionalmente alla categoria degli individui classificati come stregoni precisamente perché venivano identificati con le stesse trasformazioni di cui erano artefici. Essi erano raggruppati come stregoni a fianco di altre professioni — barbieri, attori, becchini, pastori — che godevano di un analogo ambiguo statuto sociale42. Come sottolinea Marcel Mauss, la categoria de­ gli stregoni, ovvero di coloro a cui erano ascritti poteri magici, era sovente molto ampia: i membri delle religioni inglobate o delle razze conquistate erano spesso temuti come fattucchieri; nell’Europa occidentale gli ebrei erano generalmente reputati capaci di esercitare influssi malefici attraverso pratiche occulte, proprio come finnici e lapponi erano considerati stregoni dagli scandinavi. Nella sua ras­ segna della posizione sociale di coloro cui venivano attri­ buiti poteri magici, Mauss conclude che mago era chiun­ que godesse di uno status sociale superiore, inferiore, o esterno alla norma. Questa ambiguità di status, nonché l’attribuzione di poteri straordinari agli individui dediti alle trasformazioni 188

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della materia, non è scomparsa con l’industrializzazione. La mistica che circondava l’inventore di successo negli Stati Uniti del diciannovesimo secolo svela il suo status di eroe culturale; così, l’ambiguità di status, o l’inferiorità di status, dell’ingegnere in Europa fu un potente stimolo per l’auto-promozione degli ingegneri stessi. Friedrich Dessauer infatti, ingegnere lui stesso, divenne divulgatore di tecnologia nel 1906 perché sentiva che la sua professione era guardata dall’alto in basso, e snobbata, da uomini di cultura ed intelletto. Il tono della sua difesa e la sua asserzione del potere tecnologico richiamano gli argomenti più antichi sull’ambiguità connessa agli uomini che hanno a che fare con le trasformazioni della materia. Voi ci accusate di mancare di alti e nobili ideali, dei moti più sublimi dell’animo umano. Noi vi rispondiamo: — Voi ci disprez­ zate, molto bene: ma noi aiutiamo gli uomini molto più di voi, molto più delle epoche passate a cui voi siete attaccati e a cui solete appellarvi; noi li aiutiamo praticamente, non con voi, per­ ché voi non lo volete, ma nonostante voi43. La condizione tradizionale del fabbro così come la giustificazione ideologica dei procedimenti tecnologici fu­ rono generalizzate in maniera nuova con l’avvento della produzione industriale. Le scienze sperimentali e l’idea di progresso «recuperarono e fecero proprio — nonostante la sua radicale secolarizzazione — il sogno millenario del­ l’alchimista» * . Lewis Mumford indica la maniera e l’attività del mi­ natore molto prossime al contesto della guerra; e la mi­ niera è il simbolo perfetto dell’età «paleotecnica» dell’in­ dustrializzazione. Mumford impiega il termine «paleotec­ nica» come peggiorativo per descrivere il periodo di svi­ luppo delLindustria pesante, un’epoca che vide lo sfrut­ tamento di quantità, massa, e potenza, al di là di ogni proporzione funzionale. L ’orgoglio della seconda metà del diciannovesimo secolo risiede nella sua enorme produ­ zione d’acciaio, carbone, e kilowattore, e questo orgoglio si riflette negli edifici pubblici concepiti per dare l’im­ pressione di solidità, peso, e potere. La stessa materialità 189

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del luogo, l'artificialità dell'insieme, la sua poderosa complessità, fanno della miniera una realtà e un simbolo significativi. La miniera, per cominciare, è il primo ambiente completamen­ te inorganico creato e abitato daH’uomo . . . Nello scavare e nell’estrarre il contenuto della terra, il minatore non volge rocchio alla forma delle cose: quel che egli vede è materia bruta, che fino a quando non raggiunga il filone è solo un ostacolo che deve rompere ostinatamente. .. Se il minatore vede delle forme sulle pareti della caverna, mentre la luce della lanterna oscilla, esse sono solo le distorte e mostruose ombre del suo braccio e del suo piccone: immagini di terrore. Il giorno è stato abolito e il ritmo della natura infranto: il primo turno continuo di produzione, notte e giorno, è comparso qui. Il minatore deve lavorare con luce artificiale anche se fuori il sole risplende45. Ammessa l’analogia di questa descrizione con un am­ biente puramente tecnologico, si noti che l'enfasi scivola dal tradizionale potere di trasformazione attribuito al mi­ natore, e dal suo ruolo complementare ai processi natura­ li, all'evocazione del potere di trasformazione dell'ambien­ te sugli uomini stessi che lo creano. Non c'è dunque da sorprendersi che Mumford colga la relazione che intercor­ re fra lavoro di miniera e guerra di trincea: «Fra le occupazioni più dure e brutali dell'umanità, la sola che si può confrontare con il lavoro di miniera secondo i vecchi metodi, è la moderna guerra di trincea» 46. I paralleli sono abbastanza espliciti: infatti nelle trincee i lavori più pesanti vengono svolti di notte; di giorno si dorme o si monta di guardia, e molti soldati lamentano di essere costretti a vivere nell'oscurità. L'equipaggiamento di guerra spesso non è che una variante di quello di miniera. La più terrificante — anche se, oggettivamente, la più umana — arma di questa guerra è il gas asfissiante, così come è gas quello in cui i minatori hanno spesso la sfor­ tuna di imbattersi: la maschera anti-gas usata in guerra non è che una leggera variante delle maschere impiegate per le prime volte nei bacini carboniferi del Galles e della Ruhr. Quando Robert Graves raggiunse al fronte il 1° battaglione del Galles, si trovò in compagnia di minatori 190

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che non avevano faticato per nulla ad adattarsi alle condizioni della guerra di trincea. Il parallelo fra l’età paleotecnica e la guerra di trincea trova massima realizzazione nel caso della guerra di mine al di sotto delle trincee. Le descrizioni di questo tipo di guerra rievocano tutti i temi di proiezione, mancanza di spazio, e perdita d’orientamento richiamati da Mumford nella sua descrizione della miniera. Vignes Rouges, che combattè per un anno in un battaglione del genio zappa­ tori francese, descrive l’alterazione sensoriale causata dal­ l’ambiente del sottosuolo. L ’o sc u rità è u n a m a ssa sm isu ra ta ;

ti se m b ra d i m u o v erti in

una sostanza morbida. La vista è del tutto superflua: tutto il tuo essere è concentrato sulla facoltà auricolare47. È facile, ammette Rouges, provare in questa totalità materiale «immagini di terrore», di paure che sono per la maggior parte superstizioni profondamente arcaiche. A lla fine, q u a ra n ta metri più sotto, ci ritroviamo — piccoli esseri mobili sperduti nell’immensità della materia inerte — nella sezione superiore dello strato giurassico. Una vaga superstizione incrina anche le menti più scettiche. Cosa accadrebbe se questa materia il cui eterno silenzio stiamo violando, fosse vivente ...? La nostra presenza potrebbe forse infastidire forze misteriose qua so tto . . . È v e ro , le pareti della galleria sono ben rinforzate . . . ma quale miserabile baluardo contro queste masse possenti, che pre­ mono costantemente verso il centro della terra48!

La paura di stare violando un essere vivente, che la terra possa rivelarsi un corpo animato, una madre o un mostro, è stimolata dalla totale preclusione visiva e dal comprendere di trovarsi immersi nella «immensità della materia inerte». È un ambiente che rende difficile impe­ dire a coloro che vi lavorano di proiettare sulla loro con­ dizione i peggiori timori di violazione e contaminazio­ ne. Gaston Bachelard suggerisce un’altra impressione che incombe su minatori, zappatori, palombari, nonché sul «sognatore di cantina»: la natura essenzialmente interna 191

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del loro ambiente. La galleria, al pari della cantina, è uno spazio privo di esterno. Il sognatore di cantina sa che i muri della cantina sono muri interrati, muri ad una sola parete, muri che hanno tutta la terra dietro. Il dramma si accresce e la paura si esagera . .. La cantina è allora follia sotterrata, drammi murati49. In miniera, come in una cantina, la caratteristica es­ senziale dell’ambiente sconnette un elemento chiave della percezione: la distinzione fra il dentro e il fuori, fra forma e terreno. Questa caratteristica fa della miniera un sinonimo di chiusura totale che fa rimbalzare tutte le domande su chi le pone: ed è precisamente questa chiu­ sura totale e materiale dello spazio che fa della guerra di mine lo scenario perfetto delle trasformazioni interiori, della ristrutturazione della psiche e, infine, lo scenario del guerriero trasformato e perfezionato. Ernst Junger ha tratto il massimo dalle formule tradi­ zionalmente associate al lavoro di miniera e ai processi tecnologici di trasformazione. Egli, molto più di altri, fu coinvolto nelle aspettative dell’agosto, per cui la guerra avrebbe dovuto essere un’iniziazione, un «mutamento abissale» della personalità. Con la stasi del fronte e la vanificazione degli scopi offensivi, questi ideali finirono sottoterra. Infatti, i Frontschioein di superficie non . .. potrebbero mai trovare una soluzione, poiché il loro angolo prospettico è troppo problematico, ed essi cercano all’esterno ciò che è invece solo interiore. Di fatto per loro solo la superficie ha sig n ific ato . . . N o n ap p e n a cred on o d i av er tro v a to il filo che li possa guidare fuori dal labirinto della guerra, ovvero tagliare disperatamente il nodo gordiano che li sovrasta, essi hanno realiz­ zato il loro massimo desiderio50. Junger cerca invece una soluzione per la sua esperien­ za della guerra, e questa soluzione non sta né sulla super­ ficie del fronte, né nella sua trascendenza — la quasi mistica libertà dell’aviatore. La soluzione sta nel sottosuo­ lo. Il sottosuolo è un luogo fisico preciso — le miniere di carbone abbandonate sotto i trinceramenti di Lens — 192

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e uno spazio psichico — una dimensione di profondità, di interiorità, in cui quei pochi ancora capaci di una soluzio­ ne sarebbero riusciti a trovarla. È il luogo in cui si forgia un nuovo uomo, colui che sarebbe diventato il tipo rivo­ luzionario nella politica post-bellica — un personaggio che è già in se stesso «continuazione della guerra con altri mezzi». Il mito jungeriano della nuova Gestalt formata in guerra è una rappresentazione estremamente importante: importante non solo per Junger stesso, ma per tutti quei giovani che avevano combattuto la guerra, o anche ne erano stati ai margini, e comunque erano convinti che la guerra non fosse stata meramente un’orgia di distruzione priva di significato, bensì un evento creatore di personali­ tà, una rinascita, una rigenerazione della nazione. Il mito jungeriano del soldato fu fatto proprio e utilizzato in continuazione negli anni Venti da chiunque, per qualsiasi ragione, non fosse disposto ad accettare il fatto di essere stato strumentalizzato, sfruttato, mutilato, e sacrificato in guerra senza alcun fine nazionale o personale. Nel suo mito della personalità nuova forgiatasi nel sottosuolo, Junger modellò uno strumento essenziale che «risparmias­ se le apparenze» e razionalizzasse le delusioni di coloro che avevano trovato nel mondo post-bellico un «vuoto informe», un complesso di limitazioni immobilizzanti — qualcosa di più severo e confuso di quanto non fosse mai stata la guerra stessa. In Sturm e Wàldchen 125, Junger descrive questo carattere forgiato dalla guerra nel sottosuolo, una guerra in cui le condizioni caratteristiche della superficie vengo­ no di fatto intensificate, ingrandite, totalizzate. Il primo e peggiore romanzo di guerra di Junger, pubblicato a pun­ tate sullo «Hannoverscher Kurier» nel 1923, racconta la storia di un ufficiale del genio pionieri comandante, nel 1918, di una fetta del contesissimo saliente di Lens. Successivamente, nel 1925, Junger ampliò questo fram­ mento nel suo migliore romanzo di guerra, Wàldchen 125. Qui Junger descrive l’ufficiale del genio, più tardi chia­ mato Vorbeck, come esempio del soldato del fronte cre193

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sciuto e sviluppato sotto P«attrazione gravitazionale del fuoco» che preme uomini e cose «incessantemente verso il centro della terra». In Sturni, l’ufficiale del genio presenta le proprie credenziali: So cosa significhi un assalto, e conosco tutto della guerra di trincea: ma vi assicuro che è un gioco da ragazzi paragonata alla lotta nei pozzi carboniferi. Qui uno ha l’impressione di essere già nella tomba, o di stare arrostendo all’inferno. Le inani masse di terra che ci sovrastano danno la sensazione dell’isolamento totale e ti fanno pensare che se tu morissi qui nessuno veramente ti troverebbe più51. In Sturm, Jùnger sottolinea il sottrarsi del soldato, nel sottosuolo, a qualsiasi prospettiva trascendente, spro­ fondato nelPimmensità della materia inerte, nell incubo della solitudine e della morte fra pareti che sono già una «grande tomba»; ma in Wàldcheti 123, l’enfasi si sposta sul potere rigeneratore di questo ambiente totalmente repressivo e isolante. L ’autore descrive, nei particolari, la lotta nei «pozzi di carbone», e traccia i termini di con­ fronto: Paria, la superficie, e il sottosuolo. Nel raccontare la storia del pioniere in Minenkrieg, Jiinger espone final­ mente tutte le implicazioni psichiche di questo tipo di guerra. Il pioniere, ora di nome Vorbeck, è ancora il toll Daraufgànger della guerra di trincea, ma ora diventa mo­ dello delle truppe d’assalto — quei soldati che in virtù della loro concentrazione esclusiva sulle tattiche di penetrazione, detengono la chiave che sblocca la guerra di trincea. Vorbeck conosce il labirinto delle trincee dalle «Alpi al mare», ma con la minuta precisione di una son­ da: egli è infatti, esplicitamente, un uomo delle profondi­ tà. Nel suo racconto della guerra nel sottosuolo, egli tocca i temi plutonici e labirintici che diventano immagini por­ tanti della convalidazione jùngeriana della guerra. Fu a Lens che appresi a conoscere così bene la guerra di miniera: giorno e notte eravamo letteralmente su di un vulcano. Sotto la campagna si estendeva un intricatissimo labirinto di mi­ niere di carbone, lungo molti chilometri e che congiungeva en­ trambi i fronti molto al di sotto della superficie52. 194

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Per i tedeschi le miniere erano un autentico labirinto. I francesi, che le avevano scavate originariamente, ne possedevano mappe dettagliate, mappe a cui i tedeschi non avevano ovviamente accesso. La squadra del tenente Vorbeck era dunque costretta ad aprirsi pazientemente la strada nel groviglio sotterraneo di pozzi e gallerie, sco­ prendone le dimensioni ignote, e incontrando in continua­ zione il nemico lungo il percorso. Questi incontri faccia a faccia, queste imboscate mortali favorite dall’oscurità, continuarono per settimane, finché Vorbeck non fu colto dall’idea di liberare gas asfissianti nelle gallerie occupate dal nemico: «Li asfissiammo come topi, e avvelenammo l ’intero sistema di gallerie per m esi»53. Il gas rimase nelle gallerie in concentrazione talmente alta da rendere impossibile il lavoro anche con le maschere, e così le miniere furono abbandonate da ambo le parti. La storia di Vorbeck è raccontata in modo prosaico, la portata tremenda di questa esperienza accettata con disinvoltura; in compenso Jiinger esalta l’ambiente, così stolidamente avvelenato, come incubatrice dell’«uomo nuovo». Questo racconto contiene in embrione i più si­ gnificativi temi jungeriani: la concezione della guerra co­ me gioco mortale; l’ambiente totalmente delimitato in cui torna ad essere possibile prendere decisioni; e, ancor più importante, il perfezionamento dei sensi, in particolare l’udito, che contribuisce alla formazione del nuovo tipo di guerriero. La visuale limitata e confusa, e però ancora possibile in superficie, è del tutto vanificata nelle galle­ rie: è il sottosuolo che porta la materialità, la parziale cecità e la solitudine, caratteristiche della superficie, ai loro limiti estremi, ed è in questa esasperazione che si concentra la forza generatrice del nuovo tipo umano. La storia di Vorbeck . . . aveva reso coscienti del fatto che la volontà di combattere spingeva gli uomini gli uni contro gli altri non solo sulla terra, sopra o sotto il mare, e nei cieli, ma addirittura in profondità, negli abissi del sottosuolo. Ma non siamo forse noi in generale una specie plutonica — esclusa dalle gioie dell’esisten 2 a — che forgia il futuro in una fucina sotterranea? Ciò che noi creiamo e

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per che cosa noi stessi siamo creati diventerà evidente molto più tardi di quanto possiamo attenderci. E forse noi stessi saremo i più stupiti

* La guerra negli spazi sotterranei creati dalTuomo por­ ta a un mutamento in cui viene alla luce un uomo nuovo: ma questo uomo nuovo non ha scopo alcuno, né imme­ diato né futuro. Ciò che lo distingue è la durezza, l’invulnerabilità ai territori della sua immaginazione temprata nel sottosuolo. L ’uomo nuovo forgiatosi nel sottosuolo v iv e sp e ra n d o ch e p o s s a u n g io rn o m a n ife sta rsi u n o sc o p o

e un significato intrinseco di quel grande macello che è stata la guerra. Il sottosuolo non è solo il labirinto in cui si è persa un’intera generazione, ma anche la fucina in cui è temprata una nuova personalità; il terrore e la frustra­ zione connessi al deambulare senza fine in un mondo completamente materiale, immerso nell’oscurità, viene ora riqualificato sulla base del ruolo creativo svolto sotto la superficie del fronte, e sotto il piano dell’esperienza con­ scia. L ’importanza politica di questa figura apparve ovvia a Jiinger. Proprio come l’uomo nuovo venne generato dalla pressione della guerra sotto la superficie del fronte, così Vélite rivoluzionaria degli anni Venti trovava collocazione sotto la superficie della vita politica. La dinamite che avrebbe fatto saltare i miti liberali fu congegnata da Jùnger nella metà degli anni Venti; egli ne discusse per la prima volta nel 1927 con i membri . . . di quella cerchia ristretta, che io trovai pronti, e in mezzo ai quali mi capitava come al minatore che scorga il volto annerito di carbone del suo compagno che emerge dall’apertura del pozzo55.

La soluzione alle contraddizioni che immobilizzano la su p e rfic ie d e lla p o litic a risie d e n el so tto s u o lo d e lla p o liti­

ca, proprio come la spada che avrebbe potuto tagliare la rete di difficoltà tecniche che avvolgeva il soldato di linea venne temprata nella fonderia del labirinto sotterraneo. Uomo ossessionato dall’offensiva, Jiinger percepiva più intensamente queste contraddizioni, poiché attaccava196

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no direttamente le radici della sua concezione di se stesso. Il suo problematico nazionalismo estetico, viene intensifi­ cato dall’enigma dell’esperienza di guerra, un enigma ini­ zialmente tattico, ma che rapidamente assume toni pro­ fondamente personali — un problema di fiducia in se stesso, della funzione e dell’efficacia della repressione estrema del singolo, e della formulazione della relazione intercorrente fra l’individuo e i suoi strumenti alienati. La sua soluzione a questo enigma sta nella formazione di una personalità speciale e di un’élite speciale in grado di operare sia a livello militare sia, in un secondo tempo, a livello politico. È stato qui dimostrato che l’uomo può rafforzarsi più di quanto si potesse supporre, che egli cresce con i suoi strumenti, e che i suoi poteri di resistenza aumentano a livello esponenziale in questo contesto. Diventa anche più difficile avvicinarlo; ciò ri­ chiede un tipo di preparazione che confina con la magia. Si può dire che in questa arena, in cui gli eserciti nazionali di massa e le gigantesche concentrazioni d ’artiglieria bloccano il fronte, comincia a delinearsi una seconda e più alta forma di conduzione della guerra: la guerra di venti uomini che, soli fra le decine di migliaia, sono stati cambiati dalla spinta gravitazionale della terra e del fuoco, sono ancora capaci di far breccia nell’elementare e, in senso ancor più profondo, decisivo stratum in cui è possibile vedere il nemico negli occhi56.

A coloro che sono in grado di orientarsi nel campo gravitazionale del fronte, sia in guerra sia in tempo di pace, si scioglie l’enigmatico groviglio, l’incrocio di scopi: il soldato di linea penetra nel profondo dello spazio ostile in cui il confronto con il nemico e, forse, la vittoria, sono ancora possibili. L ’uscita consapevole dal labirinto delle trincee è concessa solo 2$ élite che ha riconquistato il potere di decisione; forti di questo potere, i membri della «ventina» hanno ancora la speranza di assemblare un’i­ dentità, di ritrovare se stessi, e di perseguire la propria direzione e i propri scopi con una libertà ignota alla mas­ sa. Per Jiinger, l’enigma del labirinto di trincea è risolto nelle profondità, a un tempo spaziali e psichiche — nel sottosuolo della miniera e nella mente — da quegli uo197

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mini che sono padroni della magia del movimento in un universo tecnologico. Ernst Jiinger e il mito della macchina P u ò g e n e ra re m o lta c o n fu sio n e cre d e re ch e q u a n d o si

parli della «macchina» o della «rappresentazione sim­ bolica della macchina», si voglia parlare di tecnologia. Il simbolismo della macchina, qualora non sia puramen­ te descrittivo, non si riferisce tanto alla tecnologia, quan­ to all'autonomia individuale e umana — come viene conquistata, perduta, limitata, e definita. La tecnolo­ gia vera e propria, si limita a fornire il materiale e l’occasione per la verifica di questioni impalpabili, ma altamente significative: in che misura cioè l’«uomo» stia guadagnando o perdendo controllo su se stesso, sul suo ambiente. È vero, l’uso abituale di prodotti tecnolo­ gici — automobili, televisori, elaboratori elettronici — come base di metafore per la descrizione del grado di autonomia individuale o collettiva, può ripercuotersi sul­ la n o stra comprensione degli oggetti concreti. Possiamo utilizzare questi oggetti come prova e dimostrazione del­ la misura in cui abbiamo perso controllo su noi stessi, guadagnandone nei confronti di tempo e spazio; qui l’im­ magine della macchina comincia a racchiudere gli oggetti concreti su cui è basata, impiegando questi stessi oggetti per «pensare», come modo di prevedere il destino ultimo dell’umanità nell’ambito della civiltà industriale. È difficile c o g lie re il significato culturale dell’idea di una tecnologia autonoma a meno di non riconoscerne le radici individuali. In fondo questa immagine è, ed è stata tradizionalmente, una proiezione e una rappresentazione delle strutture di regolamentazione pulsionale della psi­ che, strutture concepite come «interne» all’individuo. Nei secoli diciassettesimo e diciottesimo era comune conside­ rare l’animale uomo alla stregua di un automa, e già q u e sto c o n c e tto implicava positive connotazioni di «auto­ regolamentazione» e di «auto-determinazione»: l’uomo198

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automa, al pari della macchina celeste, era qualcosa di integrale e chiuso alle sanzioni dall’esterno, un sistema di auto-regolamentazione a pesi e contrappesi che — se libe­ ro da interferenze esterne — avrebbe teso all’equilibrio. È significativo che la definizione di macchina mutasse nel corso del diciannovesimo secolo secondo la nuova concet­ tualizzazione di uomo «civilizzato». Ora la macchina era vista come rapporto fra parti «opposte» arrangiate in modo da sfruttare l’energia pura trasformandola in lavoro e valore; qui l’immagine della macchina appare come la rappresentazione più oggettiva della concezione borghese della psiche come un sistema chiuso, integrale, di parti psichiche in conflitto bilanciato, operanti in modo da trasformare gli istinti «primitivi» in valori etici. La coin­ cidenza dell’immagine della macchina con le moderne concezioni dell’io è sufficiente per suggerire che si tratti di qualcosa di più di un’immagine fra le tante. Questa idea della macchina è privilegiata in quanto rappresenta­ zione di modi peculiarmente «moderni» di auto-regola­ mentazione, ma l ’ideale di auto-controllo totale, oggettivato nella figura del robot, contiene il messaggio che una tale perfezione sia fondamentalmente «inumana», di­ struttrice delle energie e dell’emotività tipicamente umane. L ’immagine di un meccanismo autonomo non è solo il modo in cui gli uomini moderni rappresentano l’«auto-controllo»; è anche un modo con cui essi mettono alla prova e spiegano il proprio «essere». È noto il rapporto di amore-odio che i figli delle società industrializzate intrattengono con le macchine. Tuttavia sarebbe un errore vedere questa ambivalenza pu­ ramente come conseguenza del fatto che la tecnologia ab­ bia distrutto culture tradizionali, pre-industriali. Vorrei dimostrare che proprio per il suo statuto di «oggetto», qualcosa cioè di esterno e impersonale, l’immagine del meccanismo autonomo fornisce gli strumenti basilari per l’espressione più diretta, e sovente più risentita, di quel­ l’ambivalenza che gli uomini moderni provano verso le strutture di inibizione, rimozione e auto-limitazione che sono condizione della loro autonomia e individualità so199

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ciali. C ’è un modo meno complicato per dire tutto ciò. L ’immagine della macchina è un elemento chiave del co­ dice che gli uomini delle culture industriali impiegano per parlare della loro regolamentazione interiore come se fos­ se una proprietà del mondo esterno. Una volta appreso questo codice, la loro auto-regolamentazione può essere concepita come qualcosa imposto su di essi dall’ambiente esterno, acquisendo tutta la forza di una «necessità». È così che l ’immagine della macchina può essere definita come autentico «mito», poiché diventa matrice di au­ to-regolamentazione individuale, l’ingrediente basilare del­ l’ordine sociale. Naturalmente l’immagine di meccanismo autonomo raramente è considerata un mito: piuttosto è vista come qualcosa cui si deve sottostare, o che deve essere vinto e superato in futuro. Forse proprio questo, più di ogni altra cosa, spiega la vitalità e la fortuna dell’immagine. Infatti tramite essa gli «uomini moderniz­ zati» possono indirizzare al mondo esterno domande sul loro stato interiore; essi possono vedere se stessi come prodotti legittimi di un mondo creato dagli uomini ma stranamente «inumano», che li tiranneggia o li «libera», sacrifica o estende i loro poteri individuali. Non crè dunque da sorprendersi constatando come l’immagine di meccanismo autonomo occupi un posto di rilievo nella letteratura della prima guerra mondiale. Nel­ la maggior parte dei casi questa immagine è impiegata per rappresentare le forze della repressione, quegli strumenti r e sp o n sa b ili d e lla m ise ria d e i fa n ta c c in i rin ta n a ti n el s i­

stema di trincea. Man mano gli uomini esperivano la guerra come estraneazione dal proprio «agire», come per­ dita di controllo, come svilimento delle loro potenzialità, la loro autonomia smarrita e le loro energie represse furo­ no investite in un’astrazione: «la Guerra», il meccanismo autonomo di macello. Ma alcuni combattenti, e in prima fila Ernst Jùnger, non poterono rassegnarsi allo statuto di in d iv id u i q u a lsia si, so ffe r e n ti p a ssiv i d e llo stra p o te re d e l

materiale. Essi tentarono dunque di recuperare la loro potenza perduta tramite un’identificazione proprio con quel meccanismo autonomo della «Guerra» che tiranneg200

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giava le «masse». Nel caso di Jiinger l ’identificazione per­ sonale con la tecnologia autonoma divenne fonte di pote­ re e autorità personali; tramite questa identificazione egli fu in grado di acquisire lo statuto di esecutore di un potere sovrapersonale, un potere che concedeva a coloro che si identificavano in esso una rinnovata, anche se «amorale», capacità d ’azione. È in quest’ottica che bisogna leggere Tafformazione di Jùnger secondo cui la prima guerra mondiale produsse una nuova Gestalt, un «uomo tecnologico» che era tanto «duro», «insensibile», e «im­ perturbabile» quanto la stessa macchina di guerra. In base a queste identificazioni la guerra in generale, e in particolare l’immagine della guerra come realtà in­ dustriale, «tecnologica», acquista sovente un profondo significato soggettivo. Nei libri di guerra di Jiinger è evi­ dente che la «macchina» assomma tutte le caratteristiche di ogni altra figura d ’«autorità» in grado di impartire sofferenze e punizioni, rimanendo ad esse impermeabile — la figura del padre, lo stato, la divinità. La posizione politica post-bellica di Jiinger, il suo «conservatorismo radicale», trae le mosse da un’esperienza di guerra in cui egli apprese, una volta di più, che l ’individuo non acqui­ sisce la sua capacità d ’azione e la sua autonomia tramite la ribellione contro quelle figure, bensì tramite l’identifi­ cazione con esse. Si può cominciare a capire la natura del significato personale che Pimmagine di «meccanismo autonomo» do­ veva assumere per Jùnger rileggendo attentamente il pas­ saggio pluri-citato in cui egli evoca l ’immagine della guer­ ra come padre suo e della sua generazione. Mai prima d ’ora una generazione è sortita alla luce da una porta buia e profonda come questa guerra. E non possiamo negar­ lo, per quanto desideriamo farlo: la guerra, padre di tutte le cose, è anche nostro padre. Essa ci ha battuto, forgiato e temprato in ciò che ora siamo. E sempre la guerra sarà l ’asse attorno al quale girerà la ruota della vita che è in noi57.

Le implicazioni di questo passaggio sono chiare. Nella misura in cui il combattente si identifica con i meccanismi 201

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della guerra, gli è concessa autonomia dalle sue origini naturali: è la guerra che ora fornisce un surrogato di progenitura, un grembo materno, e addirittura un patriar­ ca che «batte, forgia, e tempra» una generazione intera. Questa trasposizione d ’identità dai genitori naturali alla «Guerra» è gravida di implicazioni politiche, come risulta chiaro da un passaggio scritto nel 1925: «Noi siamo gli autentici, genuini, spietati nemici della borghesia . . . Noi non siamo borghesi, ma figli della guerra e della guerra civile»58. Jiinger non fu né il primo né Punico combattente a in­ sistere sul potere generatore, iniziatico, della guerra, ma la sua opera ci permette di vedere come questa vecchia concezione venga personalizzata, come acquisti forza sog­ gettiva e potere ermeneutico. Il suo impiego dell’immagi­ ne di tecnologia autonoma ci consente pure di vedere in che modo l ’esperienza di guerra assorbì e articolò, espan­ dendoli, conflitti pre-esistenti: l’esperienza di guerra in­ fatti, nell’immagine della macchina, assorbe tutta una va­ rietà di conflitti edipici. Attraverso l’immagine della mac­ china questi conflitti sono generalizzati: essi diventano strumenti di critica politica e sociale. Per Jiinger la guerra fu un’esperienza che liberò i figli della borghesia dalle loro origini sociali, rivoltandoli con­ tro i loro genitori borghesi. Non c’è da meravigliarsi che lo stesso Jiinger nascesse, nel 1895, in una solida famiglia borghese. Poco tempo dopo la sua nascita a Heidelberg, suo padre, il dottor Ernst Jiinger, trasferì la sua famiglia a Hannover, dove aprì un laboratorio di ricerca in pro­ dotti chimici commerciali. Nel 1901 aprì quindi una far­ macia a Schwarzenberg, in Sassonia, che vendette quattro anni dopo per fare ritorno in Bassa Sassonia. Dopo la guerra, fu con lo scienziato che il giovane Ernst si identi­ ficò, e non con il bottegaio — lo sciropposo e borghese Spiessbiirger. L ’infanzia descritta da Jiinger nella prima versione de Abenteuerliche Herz era occupata da dimo­ strazioni anatomiche e sogni d’eroismo; e il suo desiderio di fuga dalle comodità differisce poco dalle aspirazioni 202

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descritte da altri suoi coetanei della stessa estrazione so­ ciale. Era la condizione nota a tanti giovani cuori, privi di vera patria nel mezzo di un mondo stretto, artificialmente puntellato da educazione e abitudini borghesi. . . Non erano certo le soddi­ sfazioni materiali che mancavano nel seducente mondo dell’età liberale. Eppure qualcosa doveva essere desiderato, e questi desi­ deri, rimanendo troppo a lungo senza una precisa definizione, inconsciamente penetravano nel sangue, avvelenandolo59.

Jiinger, a differenza di molti suoi coetanei, seguì le proprie fantasie. Nel 1913, a diciassette anni d'età, scap­ pò da casa e si arruolò per un periodo di servizio quin­ quennale nella legione straniera francese a Verdun. Fu rimpatriato da Algeri per via ufficiale, dietro richiesta dei genitori; ma Pagosto 1914 lo liberò dall'impegno preso con il padre, l'accordo cioè di superare gli esami di matu­ rità prima di tornare per il mondo. r. Egli mancò la fase iniziale della guerra, quella di mo­ vimento, arrivando al fronte nel gennaio del 1915 dopo un periodo d ’addestramento. Passò solo un mese fra la truppa e quindi fu inviato alla scuola allievi ufficiali; qui trovò il cameratismo che si era aspettato inizialmente — «perché venivamo tutti dalla stessa classe sociale»60. L'esperienza di guerra di Jùnger è la parte meglio docu­ mentata della sua vita, ma i suoi diari di guerra, editi come In Stahlgewittern, non rendono tutto il dovuto al suo successo di soldato. Egli fu infatti decorato con la Pour le Ménte, la massima decorazione tedesca, e fu feri­ to quattordici volte — cinque volte da pallottole, due volte da schegge di granata, una da shrapnel, quattro da bombe a mano, e due volte da frammenti di pallottola. In quattro di queste occasioni rimase seriamente ferito, e alla fine della guerra poteva contarsi addosso ben ventun cicatrici. Egli fu uno dei pochi ufficiali non di carriera cui fu concesso di rimanere nella Reichswher, così drastica­ mente ridotta in base al trattato di Versailles. Jùnger lasciò l'esercito nel 1922, vi rientrò nel 1938 — con il grado di capitano — e, ad eccezione di un breve periodo 203

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sul fronte orientale, passò la seconda guerra mondiale come vice-comandante d’occupazione tedesca a Parigi. La disillusione di Junger riguardo alla prima guerra mondiale differì poco da quella che tanti altri patirono. Egli aveva portato in guerra due cose con sé: l’attesa di avventure, e un sottile block-notes da riempire con osser­ vazioni quotidiane. Junger riconosceva la sua inclinazione e il suo talento innati per l’osservazione: «Ho sempre avuto un’inclinazione naturale per l’osservazione. Fin dal­ l ’in fan z ia h o n u trito u n a p a ssio n e p e r te le sc o p i e m ic ro ­

scopi con cui è possibile osservare Timmenso e il minu­ scolo» 61. Suo fratello, Friedrich Georg Junger, descrisse Ernst come Augenmensch: «Egli vedeva con occhi di lince . . . dal più insignificante . . . egli traeva . . . conclusioni che mi lasciavano stupefatto»62. Ma la prima esperienza di guerra fu tale da confondere sia le aspettative sia il talen­ to d ’osservatore di Junger. Una granata piovve dal nulla esplodendo nel mezzo della sua compagnia e provocando un morto e numerosi feriti: questa non era un’esperienza d’avventura, bensì di macello amministrato da un nemico tecnicizzato e invisibile. Cos’era avvenuto? La guerra aveva mostrato gli artigli e get­ tato via di colpo la sua maschera di bonomia. Come era misterio­ so e irreale tutto ciò! Si pensava appena al nemico, a quell’essere enigmatico e malvagio in agguato da qualche parte, dietro l’oriz­ zonte. L ’episodio, del tutto inaspettato, ebbe un tale effetto su di noi da richiedere un certo sforzo per poterne afferrare l’esatto significato. Era stato come l ’apparizione di un fantasma in pieno mezzogiorno 63.

Al pari di tutti gli altri, Junger esperì la guerra au­ tentica come umiliazione, come tremenda rassegnazione; il nemico era scomparso dietro una maschera macchinica che impediva ogni confronto od osservazione. I successivi an­ ni di guerra avrebbero solo intensificato le contraddizioni implicite in questa esperienza iniziale: la guerra non era la prova delle capacità e delle volontà individuali, bensì la soppressione di ogni valore connesso all’individuo. 204

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In guerra, quando gli obici pesanti fischiano veloci verso i nostri corpi, noi sentiamo che nessun livello di intelligenza, capa­ cità, o coraggio, potrebbe permetterci di schivarli neppure di un millimetro. Man mano la minaccia s ’avvicina, l ’atroce senso della nostra impotenza ci schiaccia64.

Jùnger comprendeva perfettamente che «la guerra era un brutale urto di masse, un tremendo, sanguinoso spreco di produzione e materiali»65. Egli ripercorre passo per passo tutto ritinerario di Edward Graham e mille altri, un itinerario che condusse da una visione della guerra come progetto individuale, ideologicamente significante, alla convinzione che il mondo di guerra non potesse esse­ re altro che la creazione di una forza inumana, malefica, un gigante cieco, una potenza cosmica. Lo stesso paesag­ gio circostante, che si impose in modo indelebile nelle menti della generazione combattente come essenza della desolazione tecnologica, confermava come questa fosse una guerra «vuota di uomini». Non si poteva scorgere altro che gli effetti del lavoro macchinico. Per quanto spaziasse l ’occhio, si vedevano solo buche di granate, una accanto all’altra, e il soldato si trovava come immer­ so nel mare di crateri di una stella morta. E quando, senza tregua, come se ogni metro quadrato non fosse già stato sarchiato e sarchiato di nuovo, la cortina d ’acciaio calava ancora, allora questi eventi manifestavano i lineamenti di una forza cosmica, senz’anima, di fronte alla quale l’uomo pressoché scom pare66.

Ora la mobilità divenne una fantasia, l ’offensiva di­ venne un sogno, e la guerra assunse il suo carattere di interiorità. E qui le speranze di risoluzione acquistano una peculiare intensità sessuale che è molto evidente nei romanzi di Jùnger. Secondo Jùnger, il suo primo lavoro, Sturni, dovrebbe descrivere le immagini che si sviluppa­ no naturalmente nel rapporto fra l’individuo e l’ambiente circostante. Sturm ritrae cioè la contraddizione fra «la tensione al movimento (Bewegungsdrang) del singolo in­ dividuo e la limitazione di questo impulso dettata dalle forze che lo circondavano» 67. M a Feuer und Blut, u n ro m an z o e d ito n el 1 9 2 5 , è e sse n z ia lm e n te u n ’in d a g in e su l m o v im e n to , su lla m o b ilità ,

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in cui sono evidenziati i vari livelli di significato connessi al concetto di mobilità. Nella sua analisi di questo roman­ zo, Gerhard Loose, scopre cinque diversi tipi di movi­ mento che appaiono nella struttura dell'opera: il movi­ m e n to v e lo c e e d e sp lo siv o , l ’a ssu n z io n e d i u n m o v im e n to

psichico (regressione), la sospensione del movimento in meditazioni e fantasticherie filosofiche, la ripresa del mo­ vimento, Poffensiva. Ma Loose non fa menzione di qual­ cosa che appare molto chiaramente in questo lavoro: sia il movimento bucolico che quello macchinico sono raffi­ gurati come un’espansione dell’io da un centro a una pe­ riferia. C ’è ben poco movimento nell’accezione comune d e l te rm in e , n e l se n so c io è d e ll’a ttra v e rsa m e n to d i u n o

spazio fra due punti fissati: movimento qui significa l’at­ to di infrangere l’io difensivo, minimale, corazzato e de­ bordare in un «campo libero». L ’immobilità è ritratta come contrazione dell’io, come un ansioso processo d’in­ troiezione. Per tutta l ’opera sovviene in continuazione la definizione reichiana della sessualità come espansione, del­ l’ansietà come contrazione: «La sessualità e l’ansia appar­ tengono a un unico processo d'eccitazione, ma con segno opposto»68. Con questo concetto di sessualità, Wilhelm Reich definisce il masochismo e il sadismo. Il masochista non cerca il dolore ma è disposto a tollerarlo pur di liberarsi di un fondo di tensione sessuale che non riesce a scaricare altrimenti: egli «desidera l’orgasmo e immagina che la tortura possa permetterglielo. Solo in questo modo egli spera di trovare sollievo» 69. La fantasia più comune del masochista è quella di essere tormentato al punto di ottenere «una liberazione dall’esterno, provocata da qual­ cun altro» 70. Per contro, la fantasia del sadico è di tor­ mentare qualcun altro, ovvero di trovare soddisfazione nel ribadire la propria volontà su di un oggetto sessuale passivo. Nel quadro di movimento e mobilità offerto da Feuer und Blut, l’elemento sadico è particolarmente evidente. Il romanzo si apre su di una scena bucolica. Il protagonista, notando i primi segni della primavera, si incammina per una passeggiata in una foresta dietro il fronte. La passeg206

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giata nei boschi è motivata da un «desiderio di solitudine in cui a volte sprofonda chi sia stato legato per anni alla massa, al corpo dell’esercito» 71. Questo vagare senza meta n ei b o sc h i è l ’o c c asio n e p e r rio rd in a re le im p re ssio n i d i

guerra e tracciare paragoni fra paesaggio bucolico e pae­ saggio tecnologico; il rigoglio della primavera rende evi­ dente che «noi siamo come fiori che sbocciano e come frutti che maturano e cadono» 72. Qui J u n g e r a ttin g e allo stesso repertorio pastorale sottolineato da Paul Fussell ri­ guardo alla letteratura inglese di guerra. L ’equazione co­ mune fr a fio r i e fe r ite , fr a il r o sso d e i fio r i e il r o s s o d e l sangue, lentamente emerge dalla memoria delle battaglie; Junger ricorda che se la primavera significa il rinnovo della vita, è pure il tempo delle offensive, e ciò la riporta all’immagine dello stretto, sacrificato mondo delle trin­ cee. Talvolta noi meditiamo su noi stessi durante la snervante attesa dietro i parapetti e le massicce barriere di filo spinato: meglio un possente vortice, meglio trovarsi ancora in campo aper­ to, fosse pure il diavolo che ci aspetta là fuori; meglio mostrare Ì denti al nemico che . . . (rimanere) . . . qui nell’oscurità, vermi striscianti nelle loro nere tan e73.

L ’imponenza del fuoco di preparazione dice a Junger che questa volta non si tratta di un attacco locale ma del tentativo di un ampio sfondamento del fronte avversario. Questo desta la speranza di uno «sfondamento, che ci permetta di penetrare per chilometri le posizioni nemi­ che» 74; il concentramento di uomini e materiali dietro le linee, le frustrazioni di un inverno trascorso in trincea, destano immagini di «uno sfondamento decisivo e un movimento articolato nello spazio aperto, senza limi­ ti .. . » 75. Junger sviluppa in un paragrafo i particolari di questo sfondamento, di ciò che significa e di ciò che ci si deve aspettare da esso. Il nemico è ridotto a un puro concetto nella guerra di trincea, un’entità dissimulata nel sistema trincerato e nascosta dallo strapotere del fuoco. Ma noi ora strapperemo questo velo, anziché avvicinarci ad esso sollevandone un lembo guardinghi. Avanzeremo come con-

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quistatori, e, armati di tutto punto, forzeremo il catenaccio e penetreremo di slancio nella terra proibita. E per chi come noi sia stato costretto, così a lungo, a marcire in campi desolati e butterati da mille crateri di bombe, l ’idea di questo sfondamento in profondità assume un fascino irresistibile. Romperemo gli argi­ ni e dilagheremo come un fiume in piena nell’ampia, vergine regione: ogni giorno appariranno alla nostra vista nuove città e nuovi paesi, e ricche prede cadranno nelle nostre m an i76.

Qui l’offensiva è l ’atto che risolve tutte le inibizioni: essa permette a coloro che marciscono nelle trincee e nelle buche di granata di comportarsi finalmente come pirati e tagliaborse svincolati da ogni morale o coscienza. L ’immagine di violenza sistematica nei confronti di un paese pingue e pacifico in compagnia di altri «armati di tutto punto» è necessariamente legata allo strapotere ini­ bitore del fuoco d ’artiglieria, al sistema di trincea, alle condizioni di immobilismo della guerra: sono proprio queste realtà, queste condizioni che creano le condizioni immaginarie dello straripamento di una feroce soldatesca in territori vergini. In Sturm è svelata l’anima sociale di quella che sem­ brerebbe una fantasia puramente militaristica. Anche in questo romanzo si scatena una personalità d ’assalto, un individuo forgiato dalla guerra e armato di tutto punto: ma l’obiettivo del suo assalto è questa volta il borghese. Tronck, il personaggio di uno dei molti episodi che com­ pongono il romanzo, passa il suo tempo a vagabondare per le strade di una pacifica cittadina, aggredendo con il suo sguardo penetrante i tranquilli abitanti. L ’occhio, lo strumento di contemplazione, è ora diventato un’arma of­ fensiva: esso strappa il velo della rispettabilità che cir­ conda i cittadini e altera l’equilibrio della «tranquilli­ tà». I borghesi erano visibilmente e spiacevolmente colpiti, e cer­ cavano di mantenere l ’auto-controllo tastando il portafoglio o pensando al proprio conto in banca e ai titoli recentemente ac­ quistati 77.

Nei primi lavori di Junger si può chiaramente cogliere — nell’idea dell’assalto di tipo militare e sociale — la 208

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sovrapposizione fra mondo sociale e mondo militare. È evidente che Pesperienza di guerra non è, almeno non a livello mentale, un’esperienza discreta, creatrice di nuove strategie psichiche; piuttosto, con i materiali dell’espe­ rienza di guerra, Jiinger semplifica e intensifica un tipo di conflitto psichico prettamente tradizionale. Da un lato stanno tutte le realtà restrittive e inibitorie — la tecnolo­ gia, la borghesia, la figura del padre — che servono a proteggere e a difendere un territorio amico e pacifico; dall’altro stanno le creazioni della realtà e della fantasia — il pirata predone, le truppe d ’assalto, gli assassini se­ greti della coscienza borghese, giovani che erano a un tempo «costretti a sacrificare se stessi» e armati «dei massimi strumenti di potenza». Jiinger esplicitamente tratteggia il personaggio di Tronck come simbolo di una situazione ovvia in guerra ma caratteristica pure della realtà sociale. Noi siamo stati incorporati nel movimento di un grande e necessario evento. Spesso però il nostro personale movimento, ciò che chiamiamo libertà della personalità, sta in contraddizione con questi eventi grandiosi. E in Tronck ho voluto esprimere nel modo più limpido quello che ci agita su questa terra desolata — il libero esprimersi della personalità dentro i limiti più insupera­ bili che si riescano ad immaginare78.

La situazione vale anche per l’esperienza di vita socia­ le pre-bellica di Jiinger. In uno degli episodi di Sturm, la dimensione erotica di questa fantasia è sviluppata esplici­ tamente: il personaggio principale, il caporale Kiel, è un uomo con un’esperienza passata di guerra che conduce la ricerca di una prostituta per le strade di una metropoli come potrebbe farlo una pattuglia di polizia. Egli frappo­ ne alla ricerca dell’oggetto sessuale immagini di passate avventure nella Terra di nessuno. Proprio come, un tempo, queste ore d ’avventura lo avevano spinto oltre i reticolati neH’incognito della Terra di Nessuno, così pure, ora, l ’abitudine a quell’esperienza lo proiettava nella fra­ stornante notte della metropoli. Il suo sguardo acuto, abituato a cogliere l ’essenziale, squadrava i passanti, li penetrava, li disorien-

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tava come un colpo di pistola in risposta ad una dom anda79. Kiel è il soldato di professione, e la sua professionali­ tà è evidente nella freddezza e nella precisione con cui egli persegue il suo obiettivo. L'equipaggiamento che ac­ compagna costantemente la descrizione del personaggio jungeriano — elmetto d'acciaio, pistole, e bombe a mano — sono gli strumenti con cui questi frappone una distan­ za fra se stesso e il sentimento. Kiel sceglie una prostitu­ ta, la segue nella sua stanza, e nel bel mezzo della notte si sveglia per contemplare il volto di lei, il «volto di una maschera», segnato dal lenocinio. Contemporaneamente, egli ricorda la propria innocenza, i giorni dell'agosto 1914, e «una ragazza che egli aveva amato prima della guerra con un'intensità ora inconcepibile, per quanto, nel suo imbarazzo adolescenziale, egli non avesse mai scam­ biato una parola con lei» 80. In questa sovrapposizione di innocenza ed esperienza, una sola cosa non cambia: né con l'oggetto d'amore inno­ cente né con quello professionista viene scambiata una parola. Entrambi gli approcci non producono gratificazio­ ne alcuna, il primo per l'«imbarazzo adolescenziale», il secondo perché il veterano di guerra, addestrato alla scuo­ la della violenza, è divenuto incapace di qualsiasi espres­ sione di tenerezza. L'incontro con la prostituta è un in­ contro fra maschere che permette uno scambio sessuale senza piacere, colpa, né conoscenza dell'altro; ne deriva non un senso di gratificazione, bensì un senso di perdita, e il sospetto che l'oggetto della sua ricerca abbia eluso Kiel. Ma il motivo della sua «pattuglia notturna» non era il contatto; piuttosto, era la ricerca di una possibilità di scarica. Egli sentiva rimpellente desiderio di liberare le proprie ener­ gie ingorgate scaricandole in un ricettacolo di sorta, di infrangere le proprie onde montanti su una donna q ualsiasi81.

Caporale Kiel non è che uno dei tanti nomi che Jiinger dà al personaggio-tipo formatosi in guerra; in altri punti questo personaggio viene chiamato soldato di linea, 210

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ardito, operaio, lanzichenecco, o pirata. In questo perso­ naggio possono trovarsi impressi molti paradossi della guerra, poiché si tratta di un personaggio doppiamente corazzato: contro la sofferenza e, paradossalmente, contro la gratificazione. In campo sessuale, il caporale Kiel fa il paio con la prostituta: in qualità di professionista egli ottiene soddisfazione senza piacere e persegue il suo assal­ to sessual-militare senza alcuna autentica risoluzione del conflitto che lo induce a intraprenderlo. In campo politi­ co il soldato del fronte è caratterizzato da un rapporto di singolare impotenza nei confronti del potere: egli è defi­ nito per la sua prontezza (Bereitschaft), la sua durezza, la sua dimestichezza con le tecniche della violenza, ma anche per la sua incapacità di consumare uno scambio politico qualsiasi senza Pautorizzazione di un capo. In campo so­ ciale luomo che emerge dalla «porta oscura» della guerra è nemico acerrimo della borghesia. Eppure egli assale questa borghesia solo con lo sguardo, e la penetra solo con parole «come colpi di pistola»: egli non Pattacca fisicamente, né sfoga su di essa la sua rabbia. Tutte que­ ste situazioni mostrano la stessa struttura di energie compresse a tal punto che Pindividuo è pronto per la scarica: ma è una scarica che non si realizza mai di fatto — disperdendosi piuttosto sotto le mentite spoglie della fantasia. In tutti questi frangenti, il personaggio del soldato è contrassegnato da un’elevata tensione ormai abituale: in termini patologici, questo carattere è basato su di una stasi, un equilibrio teso, che fomenta in continuazione fantasie di scarica, di liberazione. Qualora si voglia rico­ struire il percorso che nell’opera di Jiinger lega l’espe­ rienza di guerra ad un’ideologia del tutto ambivalente, che combina totalitarismo e rivoluzione, si deve partire dalla situazione di fatto della guerra di trincea. Proprio da questa situazione in cui le scariche pulsionali e la mobilità dei singoli combattenti erano inibite dalla tecno­ logia, risultò una mostruosa stasi fisica; ma nel particola­ re caso di Jiinger, questa stasi assunse il carattere di una fissazione sulla tecnologia, approdando quest’ultima allo 211

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statuto di genitrice di una generazione intera. Questo punto segna il confine fra le condizioni di guerra e Pimmaginario ad esse improntato, le cui fantasie possono es­ sere riconosciute a un tempo sadiche come struttura e incestuose come contenuto. Assumendo Pabito della tec­ nologia repressiva e identificandola con il «padre di tutte le cose», individui selezionati divennero maestri nell’arte della penetrazione, liberi da inibizioni morali, conquistatori di un succoso e cospicuo territorio. A livello di fan­ tasia, almeno, la gratificazione è ottenuta nello sfonda­ mento offensivo e nella penetrazione di «posizioni per molti chilometri in profondità»; e l’ansia è ridotta pro­ prio nell’assumere la maschera di quelle stesse potenze che immobilizzano il singolo individuo. Il «miserabile succube» è così diventato amministratore di quello stesso destino di cui egli è, in realtà, la prima vittima.

Note 1 P. Fussell, The Great War and Modem Memory, London, Oxford e New York, 1975, p. 115; trad. it., La Grande Guerra e la memoria moderna , Bologna, Il Mulino, 1984, p. 146. 2 J. N. Cru, Temoins. Essai d’Analyse et de Critique des Souvenirs de Combattants Edités en Franqais de 1915 à 1928, Paris, 1928, p. 4. 3 P. Fussell, op. cit.y p. 131; trad. it. dt., p. 166. 4 R. Benedict, Mythy in Encyclopedia of thè Social Sciences, a cura di E. R. A. Seligman, voi. XI, New York, 1933, pp. 178-181. 5 R. Barthes, Mythologies, Paris, 1957; trad. it., Miti d'oggi, Torino, Einaudi, 1974, p. 210. 6 Ibidem, trad. it. dt., pp. 223-224. 7 C. Lévi-Strauss, La gesta di Asditoal, in C. Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, a cura di P. Caruso, Torino, Einaudi, 1967, p. 229. 8 C. Lévi-Strauss, Le cru et le cult, Paris, 1964; trad. it., Il crudo e il cotto (Mitologica I), Milano, Il Saggiatore, 1966, p. 18. 9 Vedi L. Marx, The Machine in thè Garden, New York, 1964; e H. Nash Smith, Virgin Land: The American West as Symbol and Mythy New York, 1950. 10 Citato in P. Fussell, op. cit.y p. 51; trad. it. dt., p. 63. 11 F. Kreisler, Tour Weeks in thè Trenches. The War Story of a Violinistf Boston e New York, 1915, p. 2.

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12 Ibidem, p. 12. 13 E. Jiinger, Werke, Stuttgart, 1965, voi. V, pp. 80-81. 14 Ibidemy voi. I, p. 302. 15 P. Witkop (a cura di), Kriegsbriefe gefallener Studenten, Miinchen, 1936, p. 34. 16 Cfr. The Great Years of Tbeir Lives, in «Listener», LXXXVI (1971), n. 2207, p. 74. 17 J. C. Carothers, Culture, Psychiatry and thè Written Word, in «Psychiatry», novembre 1964, p. 313. 18 R. Graves, Goodbye ot All Tbat, London, 1929, p. 160. 19 C. Edmunds (C. E. Carrington), A Subalterni War, London, 1929, p. 67. 20 U. Neisser, Cognitive Psychology, New York, 1967, p. 297; trad. it., Psicologia cognitivista, Firenze, Giunti-Barbera, 1975. 21 Ibidem. 22 Ibidem, p. 298. 23 R. Needbam, Percussion and Transition, in «Man», II (1967), n. 4, p. 606. 24 Citato ibidem, p. 608. 25 M. Marks, Ritual Structure in Afro-American Music, in Religious Movements in Contemporary America, a cura di 1.1. Zaretsky e M. P. Leone, Princeton (N. J.), 1947, p. 64. 26 P. Witkop, op. cit.9 p. 82. 27 Ibidem, p. 83. 28 E. F. Graham, in War Letters of Rochester's Veterans, voi. II, Rochester, New York, 1929, p. 241. 29 Ibidem, p. 243. 30 Ibidem, p. 245. 31 F. Schauwecker, Im Todesrachen. Die deutsche Seele im Weltkrieg, Halle (Salle), 1921, p. 148. 32 E. von Ludendorff, Der Totale Krieg, Miinchen, 1936, p. 52. 33 A. Saint-Exupéry, Voi de Nuit (1931); trad. it., Volo di notte, Milano, Mondadori, 1967, p. 53. 34 E. Jiinger, Werke, cit., voi. I, p. 368. 35 Citato in P. Fussell, op. cit., p. 54; trad. it. cit., p. 67. 36 Ibidem, p. 55; trad. it. cit., pp. 68-69. 37 E. Jiinger, Werke, cit., voi. I, p. 361. 38 A. Marwick, The Deluge, London, 1961, p. 84. 39 A. F. Wedd, German Studenti War Letters, London, 1965, p. 201. 40 H. D. Trounce, Fighting thè Foche Underground, New York, 1918, p. 2. 41 M. Eliade, Forgerons et alchimistes, Paris, 1977, p. 169; trad. it., Arti del metallo e alchimia, Torino, Boringhieri, 1980, p. 152.

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42 M. Mauss, Esquisse d’une théorie générale de la magie (1902-1903), in Sociologie et anthropologie, Paris, P uf , 1950; trad. it., Saggio di una teoria generale della magia, in Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965, pp. 20-90. 43 F. Dessaiier, Streit um der Technik, Frankfurt a/M., 1956, (rist.), p. 23; trad it., La filosofia della tecnica, Brescia, Morcelliana, 1933. Vedi anche H. Arendt, The Human Condition, Chicago, 1970 (in corso di pubblicazione presso II Mulino). 44 M. Eliade, Forgerons et alchimistes, cit.; trad. it. cit., p. 159. 45 L. Mumford, Technics and Civilization, New York, 1934, pp. 69-70; trad. it., Tecnica e cultura, Milano, Il Saggiatore, 19683, pp. 87-88. 46 Ib id em ; trad. it. cit., p. 87.

47 V. Rouges, Bourru, in E. Loehrke (a cura di), Armageddon: thè World War in Literature, New York, 1930, p. 399. 48 Ibidem, p. 398. 49 G. Bachelard, La poétique de Vespace, Paris, P uf , 1957; trad. it., La poetica dello spazio, Bari, Dedalo, 1975, pp. 47-48. 50 E. Jiinger, Werke, dt., voi. V, pp. 85-86. 51 E. Jiinger, Sturmy in «Hannoverscher Kurier», 11-27 aprile 1923, Installm ent 9. 52 E . Jiinger, Wàldchen 125. Eine Chronik aus den Grabenkampf

1918, Berlin, 1925, p. 58. 53 Ibidem, p. 60. 54 E . Jiinger, Werke, d t., voi. I , pp. 381-382. 55 E. Jiinger, Schlusswort zu einem Aufsatz, in «Widerstand», V (1930), n. 1, p. 10. 56 E. Jiinger, Werke, cit., voi. I, p. 352. 57 E. Jiinger, Kampf als inneres Erlebnis, ibidem, voi. V, p. 13 [Il sostantivo tedesco der Krieg ( = la guerra) è maschile. N.d.T.]. 58 E. Jiinger, Wesen des Frontsoldatentumsy in «Standarte», I (6 settembre 1925), n. 1. 59 E. Jiinger, Werke, cit., voi. V II, p. 51. 60 E . Jiinger, In Stahlgewittern, Berlin, 1920; trad. it., Tempeste d'acciaio, Roma, Ciarrapico, 1983. 61 A. Mohler (a cura di), Die Schleife: Dokumente zum Weg von Ernst Jiingers, Ziirich, 1955, p. 55. 62 F. G. Jiinger, Spiegel der Jahre. Erinnerungen, Miinchen, 1958, p. 11. 63 E. Jiinger, In Stahlgewittern, dt.; trad. it. cit., p. 13. 64 E. Jiinger, Sturmy dt., Installment 2. 65 Ibidem. 66 E. Jiinger, Materialschlacht, in «Standarte», I (4 settembre 1925), n. 5, 4 ott. 67 E. Jiinger, Sturmy dt., Installment 2.

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Mito e guerra moderna

68 W. Reich, Selected Writings, New York, 1961, p. 116. 69 Ibidem, pp. 117-118. 70 Ibidem, p. 105. 71 E. Jiinger, F^«er « « J Blut, dt., p. 11. 72 Ibidem, p. 33. 73 Ibidem, p. 18. 74 E. Jiinger, Werke, dt., voi. I, p. 470. 75 Ibidem. 76 E. Jiinger, B to , dt., pp. 46-47. 77 E. Jiinger, Sturm, dt., Installment 5. 78 Ib id em , Installment 6. 79 Ibidem, Installment 10. 80 Ibidem, Installment 11. 81 Ibidem.

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Capitolo quinto

Un’uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

Guerra industrializzata e nevrosi È più significativo vedere la nevrosi, nell’ambito della Grande Guerra, alla stregua di un complesso fenomeno psico-sociologico piuttosto che come un mero evento nel­ la storia della psicologia: infatti, oltre alla quantità, alla varietà, e all’insistenza dei sintomi nevrotici, le autorità mediche trovarono ben poco di nuovo o inedito nelle nevrosi di guerra. I sintomi dei traumi da esplosione erano precisamente gli stessi delle più comuni affezioni isteriche del tempo di pace, sebbene ora assumessero una nuova, drammatica terminologia: «nevrosi del sepolto vi­ vo», «nevrosi da gas», «il cuore del soldato», «simpatia isterica con il nemico». È vero, quelli che erano disturbi generalmente interessanti le donne prima della guerra, divennero caratteristici dei soldati in combattimento *; ma i medici in uniforme non tardarono ad accorgersi del­ l ’affinità fra i sintomi definiti nell’ambito del trauma da esplosione con le affezioni isteriche pre-belliche conse­ guenti a disastri ferroviari o industriali2. Perfino la di­ stribuzione sociale dei sintomi era in guerra la stessa del tempo di pace: la nevrastenia, una sindrome ansiosa ge­ neralizzata i cui affetti popolavano case di cura esclusive e stanze di cliniche private, era più comune fra gli uffi­ ciali; le nevrosi isteriche invece, con tutta l ’evidenza fisica dei sintomi di paralisi, spasmi, mutismo, cecità, e analoghi — i cui malati riempivano, prima della guerra, le corsie degli ospedali pubblici o dei manicomi — pre­ dominavano nella truppa3. In guerra, così come in pace, il fatto che la malattia psichica non si accompagnasse a traumi fisiologici, ma fosse semplicemente un’alterazione 217

Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

a livello comportamentale, fu appannaggio esclusivo delle classi sociali superiori. Neppure il flusso sempre crescente di ricoveri neu­ ro-psichiatrici nelle retrovie, a cominciare dall’inverno 1915, stimolò lo sviluppo di nuove teorie terapeutiche. La guerra fornì un illimitato terreno di prova e collaudo per principi teorici e ricette terapeutiche già pronti, e il consenso fra gli ufficiali medici dopo la guerra giustificò la soddisfazione di Freud secondo cui la guerra, se non altro, aveva offerto abbondante conferma della teoria psi­ coanalitica della nevrosi4: la nevrosi di guerra, al pari della nevrosi in tempo di pace, era la fuga, attraverso la malattia, da una realtà percepita come intollerabile e distruttiva. Ma se la nevrosi di guerra ha poche sorprese da of­ frire agli psichiatri, per tutta una serie di motivi non può che destare la più viva attenzione degli storici sociali e culturali. La nevrosi fu un effetto psichico non tanto del­ la guerra in generale, quanto della guerra industrializzata in particolare. Prima della completa meccanizzazione della guerra il più comune disagio psicologico era la cosiddetta nostalgia di casa, un’intensa forma ansiosa di separazio­ n e 5. L ’arco di sintomi isterici, manifestatosi su scala en o rm e n el c o rso d e lla p rim a g u e rra m o n d ia le , fu sen za

precedenti. Nel 1916, M. D. Eder, un neuropsichiatra inglese, sentenziò: «Dal punto di vista del combattente questa è stata definita guerra industriale; dal punto di vista medico potrebbe essere chiamata guerra dei ner­ v i » 6. Questa definizione era ampiamente condivisa: gli psichiatri nelle retrovie e le truppe al fronte avevano colto immediatamente il rapporto fra le caratteristiche industriali della guerra e l’incidenza della nevrosi. Il do­ minio assoluto dell’artiglieria a lunga portata, della mi­ tragliatrice e del filo spinato, aveva immobilizzato la guerra, e l’immobilità imponeva un atteggiamento passivo del soldato di fronte alle forze del massacro tecnicizzato. La causa della nevrosi stava nel dominio dei materiali sulle possibilità di movimento del soldato; concretamen­ te, le nevrosi di guerra furono un prodotto diretto del 218

Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

rapporto sempre più alienato del combattente rispetto ai mezzi di distruzione. Il rapporto fra l ’industrializzazione della guerra e le nevrosi di guerra era g ià sta to c o lto n e lla g u e rra r u s ­ so-giapponese da R. L. Richards, che rimase stupito dal­ l’alto numero di ricoveri per traumi psichici presso gli ospedali militari di Harbin. Egli attribuì la crescita delle nevrosi di guerra agli effetti delT«artiglieria a lunga git­ tata» e all’ampiamente del teatro bellico. Ma sarebbe un errore considerare Pincremento nell’incidenza delle nevro­ si soltanto come un effetto di realtà e condizioni pura­ mente tecnologiche. È vero, le tecnologie e gli sviluppi industriali immediatamente precedenti alla guerra produs­ sero un insieme di realtà tattiche nell’ambito delle quali i combattenti furono costretti ad erigere difese più spesse e più complesse contro la loro stessa paura. Eppure, Pincremento nell’incidenza della nevrosi non deve essere vista semplicemente come una risposta ai mutamenti nel­ la «struttura della guerra» bensì anche come risposta alle trasformazioni della «sovrastruttura», come risposta alle nuove tecniche di disciplina, controllo, dominio. La stessa accettazione della nevrosi come condizione «tipica» delle truppe combattenti rappresenta un problema. Infatti la maggior parte degli ufficiali opponeva resistenza al rico­ noscimento del trauma da esplosione come legittima feri­ ta di guerra: sembrava loro che un riconoscimento del genere avrebbe comportato un mutamento di fondo nei presupposti che informavano la disciplina militare, un mutamento nei valori e nell’immagine stereotipa della personalità militare, un mutamento nell’etica d ’aggressivi­ tà che sottendeva a q u e s t ’im m ag in e . Il numero enorme di ferite psichiche in questa guerra solleva il problema del perché la nevrosi fosse ufficialmente riconosciuta come una categoria di comportamento tipica del combattente: in che modo cioè la nevrosi non fu funzionale semplicemente alla fuga del combattente dalla guerra attraverso la malattia, bensì risultò tale pure agli sforzi delle autorità, il cui interesse era di mantenere il combattente in prima linea? Si può rispondere in parte a questa domanda os219

Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

servando più da vicino lo scenario terapeutico, perché, se la nevrosi divenne un’uscita «legittima» dalla guerra, fu in sede terapeutica che veniva giudicata la legittimità del sintomo. L ’uscita dalla guerra venne regolamentata ed amministrata in questa sede: in fase terapeutica il ruolo tradizionalmente «offensivo» del soldato venne chiarito e ric ic la to su c o lo ro che d isp e ra ta m e n te te n ta v a n o d i r ip u ­

diarlo. Nel peggiore dei casi, le terapie somministrate ai nevrotici di guerra furono atti di pura prevaricazione; nel migliore dei casi, fu momento di mediazione fra le ri­ chieste dell’autorità e i bisogni delle vittime della guerra. La politica della nevrosi La maggior parte degli ufficiali all’interno e all’ester­ no del corpo medico considerò il riconoscimento della nevrosi, come condizione propria del soldato in combat­ timento, alla stregua di una soluzione politica. Molti in­ sistettero che il concedere alla nevrosi lo statuto e i pri­ vilegi di «malattia» avrebbe aperto una breccia nelle maglie della disciplina che inchiodava i soldati in prima linea; essi pretendevano che la nevrosi non fosse conside­ rata come condizione particolare del soldato, quanto una ridefinizione del comportamento tradizionalmente scheda­ to sotto il titolo di «codardìa», di «mancanza di discipli­ na», oppure di disturbi neurologici di causa ignota. Nel 1922 alcuni testimoni deposero dinnanzi al War Office Commitee on Shell-Shock (Commissione del ministero della guerra sui traumi da esplosione) sottolineando che il riconoscimento ufficiale della nevrosi di guerra fu un vero disastro. Per P«opinione pubblica» qualsiasi patolo­ gia, uscita dalle trincee, fosse definibile come incapacità da parte dell’individuo di controllare il proprio compor­ tamento, cominciò ad essere descritta come «trauma da esplosione» 7; con il riconoscimento pubblico del termine «trauma da esplosione», alle vittime della nevrosi venne­ ro accordate la considerazione e la comprensione gene­ ralmente e legittimamente riservate ai mutilati e ai feriti fisici. 220

Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

I testi si lamentarono che, al fronte, quel termine avesse finito per creare un alone di presunta inadeguatez­ za psichica nei confronti dell’evento bellico, e che fossero in molti nella truppa a cercare di trarre vantaggio da ciò. Non poterono però non prendere atto che un grosso ca­ libro caduto particolarmente vicino, o un fuoco di sbar­ ramento prolungato, producessero trasformazioni miste­ riose nel sistema nervoso del soldato, tanto da danneg­ giare il suo auto-controllo: scatti improvvisi, pianti iste­ rici, il rifiuto di avanzare, l’incapacità di «udire» un or­ dine impartito potevano essere, e furono, ascritti agli ef­ fetti del bombardamento precedente. Stretti fra il rico­ noscimento della legittimità della nevrosi sia nelle retro­ vie sia al fronte, gli ufficiali di mentalità tradizionale che desideravano preservare le categorie morali di coraggio, onore, e dovere, sovente non ebbero altra scelta che ri­ co n o sce re e ssi ste ssi la n e v ro si co m e le g ittim a m a la ttia di guerra. Il tenente colonnello Scott-Jackson depose orgo­ gliosamente dinnanzi alla Commissione di non aver ripor­ tato un solo caso di trauma da esplosione nel suo batta­ glione per tutto il 1915: egli non l’avrebbe mai «per­ messo». Ma quando i segni e i sintomi del trauma da esplosione divennero ben noti anche alle truppe fresche di rincalzo, e quando le vittime psichiche della guerra ricevettero sostegno e comprensione una volta rientrate in patria, egli sentì di non essere più in grado di «resi­ stere» 8: un numero sempre maggiore dei suoi uomini finì negli smistamenti sanitari delle retrovie — ciechi, muti, sordi, con blocchi psicomotori e spasmi facciali e agli arti. Fu immediatamente chiaro che la nevrosi di guerra era un disturbo «funzionale» per i soldati: essa li toglie­ va dal fronte e proprio questo era lo «scopo» conscio o inconscio del sintomo. La base psicologica delle nevrosi di guerra (come delle nevro­ si in tempo di pace) è l ’elaborazione di variazioni infinite su di un unico tema centrale: fuggire da una situazione reale intollera­ bile ad una situazione resa tollerabile dalla nevrosi9.

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Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

Ma, continuando la guerra, fu sempre più evidente che le nevrosi erano funzionali alle autorità militari tanto quanto ai soldati. W. M. Maxwell osservò che, a dispetto dell’accanita propaganda dei sergenti nei centri d ’adde­ stramento, questa era una guerra in grado di offrire ben pochi sbocchi reali all’aggressività e all’ostilità delle trup­ pe combattenti. Le condizioni reali di questa guerra con­ tribuirono a decantare un enorme fondo di ostilità re­ pressa che era destinata a trovare sfogo su obiettivi im­ propri: le autorità, l ’«interno», lo «stato maggiore», i politici in «patria». «La rabbia che non poteva rovesciar­ si contro il nemico . . . era proiettata contro lo stato maggiore e le sue presunte colpe» 10. Molti, come Phillip Gibbs, corrispondente di guerra britannico, notava l’odio crescente nelle trincee verso l’ufficiale di stato maggiore: «I soldati desideravano la sua morte . . . Questo odio nei confronti dello stato maggiore era attizzato dal fuoco del­ la passione e della disperazione» 11. Anche in Germania la repressione indotta dalle condizioni di guerra produsse inevitabili ostilità nei confronti dell’autorità. Ernst Simmel ha insistito sul fatto che questo fondo di aggressività repressa trovasse espressione nel sintomo nevrotico, par­ ticolarmente nel sintomo di mutismo. Mutismo e disturbi vari del linguaggio furono i più comuni sintomi della nevrosi di guerra, e Simmel sostiene che fu così perché al soldato veniva imposto il silenzio e l’accettazione di ordini sovente suicidi, e perché gli era impedita severa­ mente qualsiasi espressione di ostilità nei confronti di coloro che lo mantenevano in una situazione di pericolo mortale n. Piuttosto quindi che offendere, colpire o ucci­ dere i suoi ufficiali, egli mutilava il proprio linguaggio o addirittura perdeva completamente la facoltà di parola. Questa tesi trovò sostegno, indipendentemente, in Frede­ rick W. Mott, capo-neurologo all’ospedale di retrovia di Maudsley durante la guerra. Mott osservava che «mentre il mutismo è comune fra soldati semplici e sottufficiali, è relativamente raro negli ufficiali» B. Era dunque pienamente riconosciuto il carattere di compromesso del sintomo nevrotico. Tramite il sintomo 222

U n ’uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

il soldato incapace di tollerare ulteriormente i disagi della guerra si spostava dalla sfera dell’obbedienza militare per passare alla sfera, più clemente, dell’obbedienza medi­ co-terapeutica. Riconoscere alla nevrosi il carattere di le­ gittima ferita di guerra significò riconoscere tacitamente la natura di compromesso implicita nel sintomo. Simmel infatti, al pari di molti altri psicoanalisti, sostenne che la nevrosi dovette essere riconosciuta, e per motivi profon­ damente politici, nel suo carattere di fuga dalla guerra: era meglio conservare il potere di gestire sintomi indivi­ duali piuttosto che trovarsi di fronte a casi di ammuti­ namento. Dietro il sintomo nevrotico stavano sicuramente possibilità ben più pericolose, vuoi una psicosi permanen­ te, vuoi la sfida diretta alla guerra e a chi voleva prose­ guirla. La nevrosi fu funzionale alle autorità precisamente perché rappresentava una categoria di comportamento fondamentalmente ambigua in termini etici e legali. Al­ l’interno di questa categoria, i desideri inconsci del solda­ to e gli imperativi del dovere poterono essere negoziati con minor rispetto per la statura morale del paziente e — fatto ancor più importante — senza rimettere in di­ scussione la legittimità della guerra. Georg Stertz, come tanti altri neuroioghi tedeschi, era perfettamente consa­ pevole del valore di questa ambigua categoria ai fini di rimozione di potenziali fonti di dissenso dalla prima li­ nea. Egli trattò numerosi casi di coloro che definiva «fa­ natici eccentrici», pazienti le cui eccentricità tendevano ad assumere forma politica. Un caso tipico fu quello di K.K., un sottufficiale e volontario del 1914, che scrisse una lettera al suo ufficiale comandante esprimendo sen­ timenti contrari alla guerra: il fatto gli valse una puni­ zione sul campo, che però fu revocata a causa della sua «debolezza di nervi». Così Stertz riassunse le lamentele di K. K.: «il subordinato è uno schiavo in Germania . . . ingiustizia senza fine . . . troppo stanco per odiare e cer­ care vendetta»14: Stertz sentenziò «tratti di fanatismo paranoico» e raccomandò un periodo di trattamento e congedo dall'esercito per cure. Potrebbe sembrare che qui 223

Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

Stertz tratti illegittimamente il «dissenso politico» come malattia mentale. Ma è meglio assumere un’ottica più ampia. La nevrosi era una categoria funzionale alle auto­ rità perché comprendeva un arco molto vasto di compor­ tamento deviante, i cui sintomi erano passibili di cura. Lo stesso respiro e le ambiguità della categoria (che po­ tenzialmente comprendeva indisciplina e ribellione tanto quanto disturbi psicosomatici) ne fecero un mezzo effica­ ce per la definizione di problemi morali e disciplinari, per Tisolamento del deviante, e per il suo trattamento su base individuale in un contesto medico anziché giudizia­ rio. C ’era la consapevolezza generale da parte degli uffi­ ciali medici che nelPamministrare le ambiguità della ne­ vrosi e nel giudicare la «legittimità» del sintomo, essi assumessero certe funzioni politiche e giudiziarie. Essi in­ somma non erano semplicemente dottori che curavano malattie, ma portavoce ed esecutori dell’autorità e della concezione militarista ufficialmente propagandata. Ciò non poteva non sollevare problemi di coscienza. William Bailey, uno psichiatra britannico, non fu il solo che, inca­ ricato dell’igiene mentale delle truppe, finisse per chie­ dersi se fosse giusto per un medico — votato all’allevia­ mento della sofferenza umana — tormentare un paziente fino a che questi non abbandonasse il sintomo e ritornas­ se al dovere. Egli rispose alla sua stessa domanda soste­ nendo che, nelle circostanze speciali di una guerra per la civiltà, il dottore aveva un simile diritto: «In molti pa­ zienti le misure di persuasione sono sufficienti. Ma quando queste falliscono, si rendono indispensabili misu­ re disciplinari» 15. E Bailey non fu l’unico psichiatra in uniforme che misurasse questa prescrizione con il metro della condizione sociale, riconoscendo, ad esempio, gli uf­ ficiali come soggetti non idonei ai trattamenti disciplinari o «elettrici» perché «il trattamento della nevrosi è gene­ ralmente più complesso nel caso di ufficiali» 16. L ’ambiguità morale della nevrosi rendeva necessaria­ mente ambiguo il ruolo del terapeuta. Egli doveva som­ ministrare una «cura» che, se fallimentare, diventava una 224

Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

«punizione». Inoltre, era riconosciuto che la cura della nevrosi fosse una questione ben differente dalla cura del­ le ferite fisiche: il compito del terapeuta era di indurre il paziente a recuperare il suo ruolo militare ufficiale, so­ cialmente ratificato, e la terapia poneva il paziente din­ nanzi alla concezione ufficiale di ciò che avrebbe dovuto tornare ad essere, imponendogli tremende sanzioni nel caso avesse rifiutato di accettare quella concezione. So­ vente le terapie non comprendevano alcuna parte pro­ priamente «medica»: Lortat-Jacobs riferì di avere ottenu­ to buoni risultati a Parigi con soldati portatori di trauma da esplosione semplicemente appellandosi «al senso indi­ viduale dell'onore e organizzando pubblicamente il giu­ ramento» 17. Ma c'era un alto grado di disaccordo su come il sol­ dato che avesse scelto la fuga nella nevrosi dovesse essere riacculturato in un ruolo che il buon senso, e l'esperienza delle condizioni di guerra, gli a v e v a n o im p o sto d i re sp in ­ gere. Nel trattamento delle nevrosi di guerra è possibile distinguere fra due scenari terapeutici, due differenti tec­ niche di dominio radicate in due diverse concezioni della natura umana. Nei trattamenti «disciplinari» la terapia serviva a drammatizzare e chiarire le questioni morali connesse al conflitto fra dovere pubblico e intenzioni private del paziente; i terapeuti disciplinari operavano con uno schema tradizionalmente morale — si potrebbe quasi dire «retorico» — delle motivazioni umane, basato sulle collaudate categorie di virtù e vizio. L ’inquadramento morale della nevrosi che caratteriz­ zava i trattamenti disciplinari contrasta nettamente con l'approccio «analitico», che pur non identificandovisi completamente, trova nel metodo psicoanalitico un suo punto di riferimento. Coloro che adottavano l'approccio analitico vedevano il terapeuta nel ruolo di «medium» dei conflitti inconsci manifestatisi nel sintomo. In que­ st’ottica, la mente si presenta come un meccanismo di parti opposte in cui sono vagliate — spesso al di sotto del livello cosciente — le esigenze dell'individuo, e in cui le stesse esigenze vengono conseguentemente adattate 225

Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

agli imperativi della realtà. Chiaramente il dibattito fra terapeuti analitici e disciplinari non cominciò né finì con la prima guerra mondiale; ma le circostanze di quella guerra so lle v a ro n o co n p a rtic o la re u rg en z a la q u e stio n e dell’adeguatezza, dell’efficacia, e anche della moralità del­ le varie tecniche tramite le quali gli uomini venivano riadattati a compiti che, oggettivamente, erano auto-di­ struttivi. In fase terapeutica gli analisti erano costretti a rapportare le esigenze individuali sul metro dei costi so­ ciali; in molti casi questa valutazione condusse ad una straziante coscienza dei costi umani della guerra. La terapia disciplinare e Vinquadramento morale della nevrosi I medici che privilegiarono le terapie disciplinari agi­ vano istituendo scenari terapeutici molto simili a situa­ zioni giudiziarie, processuali. «Moralisti», come André Leri furono particolarmente attenti nel mantenere la di­ stinzione fra le nevrosi che avessero una causa fisica, una caduta o l’esplosione di una granata (turbe commozionali) e quelle che avessero un fondamento puramente psichico (turbe emotive). Solo alle turbe commozionali erano ri­ servati i diritti e le prerogative della malattia: le turbe emotive avrebbero dovuto invece essere affrontate con il sistema disciplinare, in quanto radicate nella volontà del paziente piuttosto che nel suo soma. In seguito a un duro trauma emotivo, accompagnato o meno da commozione o ferite fisiche, il soldato più coraggioso diventa un codardo. Egli smarrisce il suo coraggio di guerriero; quando ode il cannone ha paura, trema, e non riesce a vincere né a nascondere la sua agitazione 18.

Al pari di tanti altri che prestavano servizio nei cen­ tri sanitari direttamente dietro il fronte, Leri considerava il nevrotico di guerra come un «invalido morale». In virtù di qualche tara ereditaria, o degenerazione persona­ le, manifestatesi in guerra, il nevrotico era divenuto in226

Uriuscita dal labirinto: guerra e nevrosi

capace di controllare la propria paura: egli «non può più validamente sopportare la tensione del campo di batta­ glia: è un invalido morale, difettoso in coraggio»19. Questa stessa concezione fu espressa dinnanzi alla com­ missione del Ministero della Guerra da E. MacPather, il quale testimoniò asserendo di non cogliere differenza al­ cuna fra trauma da esplosione e codardìa: «Per codardìa intendo Pagire sotto l’influsso della paura, e il tipo co­ mune di trauma da esplosione comporta, a mio modo di vedere, una cronica e persistente paura» 20. I terapeuti disciplinari annullarono ogni distinzione fra nevrosi legittima e simulazione. La legittimità della nevrosi doveva essere dimostrata in sede di terapia: qui il terapeuta avrebbe determinato il quantum di volontà che il paziente aveva messo a disposizione del proprio desiderio di sopravvivenza. Il compito del terapeuta con­ sisteva nel rendere angoscianti le conseguenze del sinto­ mo, e nel persuadere il paziente a recedere dal sintomo stesso e riacquisire il proprio ruolo maschile, ufficiale, di soldato. Inoltre, coloro che privilegiavano l’inquadramento morale della nevrosi di guerra erano inclini a leggere il sintomo alla stregua di degenerazione biologica o tara ereditaria. Il sintomo nevrotico, che la guerra si limitava a rendere manifesto, era insomma radicato in anomalie ere­ ditarie. Quest’ottica trovava una duplice funzione: mar­ cava il soldato nevrotico con un segno d ’inferiorità mora­ le; e permetteva di rimuovere il sintomo dal contesto della guerra, dal momento che ora questo contesto appa­ riva come una prova radicale che semplicemente faceva emergere anomalie già latenti. Questa impostazione si ac­ cordava bene con l’ideologia darwiniana dominante, se­ condo cui la guerra altro non era che la prova dell’«ido­ neità» alla sopravvivenza delle nazioni così come dei sin­ goli individui. Naturalmente, la tara «latente» era sempre scoperta dopo che si fosse manifestata nel sintomo nevro­ tico. Laurent notò la frequenza di «strani nomi di batte­ simo» in seno a famiglie degenerate; ma giunse a questa correlazione solo dopo che un soldato semplice, dal tanto 227

Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

straordinario nome di Agapito, era uscito allo scoperto e si era arreso ai tedeschi gridando: «Camerati, che diffe­ renza c'è ad essere francese o tedesco? I miei ufficiali sono imbecilli che bevono il sangue di noi miseri sfortu­ nati» 21. Rimpatriato e ospedalizzato il poveretto, fu pos­ sibile isolare e identificare la tara ereditaria che covava dietro il suo nome. Ma perfino i moralisti furono costretti a riconoscere che le condizioni di combattimento nella guerra industrializzata non tenevano conto degli adattamenti o disadat­ tamenti precedenti: soldati con una storia precedente di instabilità emotiva a volte si trovavano a loro agio in clima bellico, mentre quelli che non avevano alcun pre­ cedente di malattia o disturbi mentali collassavano, e col­ lassavano in gran numero. E anche quando poteva essere dimostrata una predisposizione ereditaria, le condizioni di guerra sembravano in ogni caso le cause veramente de­ terminanti della nevrosi. Southard riferisce il caso di un soldato nella cui famiglia scorreva una vena d'epilessia: ma ci vollero due anni di servizio attivo al fronte, quat­ tro ferite, la morte del padre e di cinque fratelli e, infi­ ne, l'esperienza di rimanere sepolto tre volte nello stesso giorno, perché la sua epilessia si manifestasse. Nell'unico studio su questo problema, Douglas Thom verificò che il retaggio ereditario fra le vittime dei traumi da esplosione era insignificante: «Non c'è una grande differenza di condizioni fra quelli che collassano e quelli che resisto­ no». Egli verificò che il 5% di un campione di vittime di traumi da esplosione aveva casi di nevrosi in famiglia, mentre dal tre al cinque per cento di un campione di soldati «normali» presentava un'analoga «eredità disgra­ ziata» 72. La differenza fra l'impostazione analitica e quella mo­ rale può essere colta più chiaramente in merito alla simu­ lazione. Dal punto di vista dei moralisti, la nevrosi non era altro che un'evasione dal dovere manifestantesi con sintomi fisici. Fondamentalmente non era qualcosa di dif­ ferente dal fingersi «malato», o dal tentare di circuire le commissioni mediche simulando i sintomi di affezioni ve228

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neree: la sola differenza fra il volgare simulatore e il nevrotico stava nella capacità di quest’ultimo di conser­ vare il proprio sintomo anche sotto il trattamento più duro e doloroso — in breve, una differenza nella forza di volontà che il «vero» nevrotico investiva nel progetto di fuggire la guerra. J. A. Secard distinse in pratica due tipi di simulatori: il simulateur de création che fingeva un sintomo per scampare alla morte, e il simulateur de fixation che assumeva e manteneva il sintomo nevrotico iniziale anche dopo che le condizioni di pericolo erano superate. Qualsiasi autentica vittima di trauma da esplo­ sione era dunque un simulateur de fixation potenziale che, se accolto con comprensione, attenzione, e ricono­ sciuto nel suo statuto di malato, sarebbe divenuto incu­ rabile 23. A. F. Hurst notava come la simulazione in senso stretto fosse molto rara fra i soldati, mentre la fissazione, l’esagerazione, e il prolungamento dei sintomi fossero molto comuni24. Nell’esercito britannico fu ben presto riconosciuto come un errore l’invio a casa di coloro che soffrivano di trauma da esplosione, poiché così il pericolo della fissazione dei sintomi sarebbe stato molto maggiore che se fossero rimasti in Francia. La linea di demarcazione fra simulazione e nevrosi, cioè il grado di simulazione connesso alla nevrosi, veniva di fatto determinato nel corso del trattamento disciplinare. I metodi della terapia disciplinare erano molti ed es­ senzialmente gli stessi in tutti gli eserciti belligeranti. La manière forte e il torpillage nell’esercito francese, la quick cure e la queen square in quello britannico, la tecnica Kaufmann in Austria, e la tecnica Xìberrumplung [cogliere di sorpresa] in Germania, erano tutte tecniche che utilizzavano principi derivati dall’addestramento degli animali: dolore somministrato generalmente con apparati elettrici, comandi urlati, isolamento, restrizioni alimentari con la promessa di un alleviamento della pena in cambio dell’abbandono del sintomo. Bellin e Vernet riferiscono del trattamento disciplinare inferto a un poilu colpito da sordità e afonia isteriche. Dopo la degenza in diversi ospedali fu tentata la «cura del fronte»: il paziente fu 229

Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

portato in un rifugio presso il fronte in un settore parti­ colarmente bombardato. Gli fu fatta un’iniezione sottocu­ tanea di etere: «Pazienti del genere erano sempre stati guariti, e una sostanza iniettata sotto la pelle — non pericolosa, ma estremamente dolorosa — li poteva aiuta­ re». Il paziente riacquistò l ’udito per perderlo di nuovo il giorno seguente. «Gli fu data mezz’ora per esercitare la voce e gli fu detto che sarebbe stato considerato un si­ mulatore se non fosse riuscito»25; dopo di che la sua sordità guarì, an ch e se n o n v ien e rife rito p e r q u a n to tempo. Il metodo Kaufmann, che fu trattato dalla stampa alleata come ulteriore dimostrazione della bestialità ger­ manica, era praticamente identico alla «cura rapida» im­ piegata da francesi e britannici. Esso combinava potenti scariche elettriche con comandi urlati per l’esecuzione di determinati esercizi. Kaufmann insisteva nel trattamento fin c h é il p a z ie n te n o n fo s s e g u a rito , an ch e se c iò p o te v a

comportare ore di applicazione con scariche elettriche sempre più intense. Così come nel caso di tutte le altre terapie disciplinari, il metodo Kaufmann ottenne moltis­ sime guarigioni, sebbene alcuni critici tedeschi insistesse­ ro sulla frequenza di ricadute, sul numero dei pazienti che si suicidavano dopo la cura, e sulla morte di due pazienti in sede di terapia, come prova della non validità d i q u e sti m e to d i.

Secondo Lewis Yealland, il più fervido propugnatore britannico di terapie disciplinari, « l’elettricità è la vera ancora di salvezza del trattamento in questi casi . . . » 26. Yealland andava fiero del fatto di essere riuscito a guari­ re casi di mutismo isterico che duravano da mesi nel giro di pochi minuti. Uno dei casi tipici di Yealland fu quello di un soldato semplice di ventiquattro anni che era ri­ m a sto c o m p le ta m e n te m u to p e r n o v e m e si. I l so ld a to aveva preso parte alla ritirata di Mons, alla battaglia della Marna, a quella dello Aisne, alla prima e seconda batta­ glia di Ypres; aveva anche combattuto a Quota 60, Neuve Chapelle, Loos, e Armentières. Inviato a Salonicco per partecipare alla spedizione su Gallipoli, fu stroncato dal 230

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caldo e divenne muto. La sua sindrome, particolarmente tenace, aveva resistito a molte terapie, compresa la se­ g u e n te : Egli veniva legato ad una sedia per periodi di venti minuti ricevendo una forte applicazione elettrica al collo e alla gola: nel contempo gli venivano applicate sulla punta della lingua mozzico­ ni di sigaretta accesi e molle arroventate27.

Yealland insisteva che queste tecniche avessero fallito per non essere state accompagnate da un atteggiamento propriamente autoritario da parte del terapeuta. Egli se­ gregò il soldato nel buio della camera elettrica, sbarrando le finestre e intimandogli che non gli avrebbe permesso di uscire finché non fosse tornato normale. Fu sommi­ nistrata elettricità per un’ora, al termine della quale il paziente emise un «ah». Dopo due ore il paziente tentò di scappare ma non vi riuscì: fece intendere che non sarebbe riuscito a sopportare ulteriori e più potenti scari­ che elettriche, al che Yealland rispose: «Non sono graditi suggerimenti da parte tua. Se deciderò per scariche più potenti, ti verranno somministrate, che ti piaccia o me­ no» 28. Quindi alzò il voltaggio a livelli molto alti, e con­ tinuò per mezz’ora finché gli spasmi del collo non scom­ parvero e il paziente non riuscì ad esprimersi con un filo di voce senza spasmi o balbettìi. Dopo avere guarito i sintomi primari, Yealland dava un po’ di tregua al pa­ ziente, come a quello cui disse: «Non sei ancora guarito; il tuo ghigno mi risulta offensivo; non mi piace per nien­ te e quindi . . . cerca di assumere un aspetto più raziona­ le». Lasciava la stanza per cinque minuti e ritornava tro­ vando il paziente «sobrio e razionale» 29. La somministrazione della terapia disciplinare non era inconsueta da parte di Yealland, né egli la considerava sproporzionatamente crudele30. In un’ottica moralista la scena terapeutica poteva solo essere un luogo di giudizio e di ordalia. L ’obiettivo della terapia non era tanto il sintomo in sé quanto la volontà che il paziente aveva investito nel presunto ripudio del suo ruolo pubblico. L ’apparato elettrico altro non era che lo strumento ido231

Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

neo a verificare il grado di fissità del sintomo e a deter­ minare in che misura il paziente fosse irrimediabilmente arroccato nella difesa della propria sopravvivenza: esso serviva a determinare se il paziente potesse tornare a p e r su a d e r si che la so p ra v v iv e n z a d e ll’in te re sse p u b b lic o ,

della nazione, fosse un’obbligazione prioritaria sulla so­ pravvivenza del proprio essere individuale. In questa te­ rapia il conflitto di base era concepito come conflitto morale fra Pio privato e Pio pubblico, conflitto su cui il terapeuta agiva come responsabile della totale e incondi­ zionata affermazione delle richieste del dovere. Il trattamento disciplinare era basato su di un’etica tradizionale dell’onore, del dovere, una concezione della personalità umana come direttrice di una volontà che po­ teva essere indifferentemente posta al servizio di fini mo­ rali o immorali. Questa concezione era generalizzata a livello culturale e permeava anche la pratica medica. C ’e­ rano molti tipi di trattamento disciplinare «non-medicali», e gli stessi neuropsichiatri riconoscevano che ci fosse m o lto di g iu d iz ia rio e p u n itiv o n ella lo ro p ra tic a ; m a q u i, ancora, le circostanze della guerra soverchiavano qualsiasi etica puramente professionale. Lo stesso successo delle terapie disciplinari offrì a molti neuropsichiatri professio­ nali l ’occasione per alcune riflessioni. Come ebbe a nota­ re il dottor Emil Redlich: Il successo terapeutico che abbiamo sovente ottenuto in casi del genere dà molto da pensare, perché può esser spiegato non tanto sulla base di sofisticate teorie quanto sulla base dell’ener­ gia, direi della spietatezza (le speciali circostanze di tempo e luogo lo imponevano) con cui fu perseguito31.

Il trattamento analitico La critica rivolta dagli analisti al trattamento discipli­ nare e ra c e n tra ta n o n ta n to s u ll’e ffic a c ia q u a n to su lla di­ sumanità dei suoi procedimenti. La guarigione conseguita dai moralisti sortiva un effetto distruttore sul paziente stesso. Ernst Simmel sosteneva che i dottori che ricorre232

Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

v a n o alle to r tu re p e r c o strin g e re il p a z ie n te a d ab b an d o -

nare il suo sintomo riconoscevano inconsciamente la vali­ dità della teoria freudiana: «Essi fanno del trattamento u n a to r tu ra allo sc o p o d i p e rm e tte re al p a z ie n te d i tro­ var sc a m p o nella salute» 32. Lo scopo centrale della terapia analitica, in guerra come in tempo di pace, consisteva nel rimuovere il sin­ tomo dall’ambito morale. La nevrosi non era il risultato di una decisione conscia presa dal paziente: al contrario, il soldato nevrotico era incapace di prendere decisioni, non era cioè più in grado di rinunciare né al suo deside­ rio di sopravvivenza né agli ideali e agli imperativi mora­ li che lo inchiodavano al fronte. Secondo Simmel, sia l’«eroe» sia il «lavativo» . . . sono personalità . . . profondamente coese generate dalla guer­ ra. Fra di loro sta la vittima della nevrosi di guerra, che possiede sia l’egocentrica valutazione della propria esistenza tipica del si­ mulatore, sia l ’altruistico senso del dovere tipico dell’eroe. Inca­ pace di accettare le con segu en ze di una presa di p o sizio n e per l ’una o l ’altra parte di sé, il soldato si «rifugia» nella malat­ t ia 33.

Dunque il nevrotico era colui che stava in mezzo, l’uomo comune. Dove i terapeuti disciplinari individua­ vano una debolezza nell’attaccamento al dovere del ne­ vrotico, gli analisti tendevano invece a sottolineare la forza di questo attaccamento, e l’intensità del conflitto che esso imponeva su chi desiderasse fuggire la guerra. Alcuni studi su veterani psiconevrotici tendono a soste­ nere la tesi analitica. Nel suo studio sull’estrazione sociale dei veterani de­ genti nel padiglione psichiatrico dello U.S. Public Health Hospital N. 38, Grace Massonneu fu colpita dal fatto che essi non avessero nulla in comune tranne una cosa: la stragrande maggioranza era composta da volontari2A. Ella trovò logico che fra i «feriti senza ferite» predominassero uomini di forte attaccamento all’onore nazionale e soven­ te caratterizzati da aspettative idealistiche rispetto alla guerra. 233

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Se la concezione morale della nevrosi annullava qual­ siasi distinzione fra simulazione e turbe emotive istituen­ do una situazione terapeutica fondamentalmente giudizia­ ria, l’ottica analitica rimuoveva il postulato che informava il trattamento disciplinare, vedendo cioè il sintomo non come espressione della volontà del paziente bensì come u n se g n o d i c o n flitti ch e rim a n e v a n o in co n sci. B e rn a rd

Glueck arrivò al punto di negare che la simulazione stes­ sa fosse una forma di condotta scelta coscientemente, as­ serendo che «nella maggior parte dei c as i . . . [la simula­ zione] . . . è interamente determinata da motivazioni in­ conscie, da forze istintuali, biologiche, sulle quali l’individuo ha poco o nessun controllo» 35. Nel sostenere che le motivazioni cristallizzate nel sintomo fossero inconsce, gli analisti eliminarono il fattore di scelta sul quale era basata la concezione giudiziaria della terapia. Il trattamento del sintomo come espressione di moti­ vazioni pulsionali ed esperienze fuori dal controllo del paziente, richiedeva necessariamente uno scenario tera­ peutico radicalmente diverso. Il sintomo era visto come il simbolo-chiave di un dramma interiore la cui storia pre­ c e d e v a g li e v e n ti p a rtic o la rm e n te tra u m a tic i d i g u e rra . I l

terapeuta non agiva come un protagonista sostenitore di quegli imperativi morali cui il paziente intendeva sottrar­ si, bensì come «operatore» di un paziente che era l’oracolo di se stesso. Nella terapia analitica l’ipnosi prendeva il posto del­ l ’apparato elettrico. È chiaro che nelle mani di terapeuti psicoanalitici come Ernst Simmel l’ipnosi assumeva certe «finalità» caratteristiche; essa era uno strumento di con­ trollo comportamentale tanto autoritario e irresistibile quanto i sistemi di tortura impiegati dai moralisti36. La finalità tipica dell’ipnosi stava nello stesso presupposto con cui veniva impiegata: permettere al paziente di «re­ gredire» sotto ipnosi fino all’evento o all’insieme di eventi che avevano fatto precipitare il sintomo. L ’evento sarebbe stato reinscenato alla presenza del terapeuta in tutta la potenza della scena originaria; questa ripetizione avrebbe chiarito al paziente quelle motivazioni che gli e234

Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

rano divenute inaccessibili attraverso la rimozione della sua esperienza. Questo tipo di terapia aveva lo scopo di individuare e rappresentare il movente conflittuale inerente al sinto­ mo, ed è illustrato nel migliore dei modi da due casi trattati da Ernst Simmel. Uno di questi casi era quello di uno Landsturmann [territoriale] affetto da tremori al braccio destro e da un tic pronunciato nella parte sinistra del volto. Sotto ipnosi Simmel lo «riportò» al fronte, chiedendogli se gli sarebbe piaciuto tornare a casa. Il Landsturmann rispose: «No, non sono un lavativo». Simmel quindi lo portò in battaglia chiedendogli se desi­ derasse ancora combattere. Un « s ì!» immediato. Allora io: «un corno, tu non puoi com­ battere. La tua mano destra trema troppo. Perché?». Con voce tormentata mi rispose: «M i piacerebbe salvare la pelle». Allora io dissi, «m a sei salvo, sei a casa, a casa». Il tremore e il tic scomparvero 37.

L ’inquadramento da parte di Simmel del sintomo co­ me simbolo di un evento, un evento del passato che era inconscio e quindi al di là di intenzioni morali o immora­ li, risalta bene nel suo trattamento del soldato B., affetto da tremori alle mani e da attacchi periodici di epilessia. I due sintomi sembravano del tutto distinti, e Simmel pen­ sò che potesse trattarsi di imitazioni di eventi e investi­ menti pulsionali differenti. Sotto ipnosi a B. fu chiesto di rivivere il fatto precipitatore del secondo sintomo, la completa rigidità dell’intero corpo. B. rievocò un attacco russo in seguito al quale egli rimase tagliato fuori. Il suo tenente era fuggito. Egli allora pensò: «Non può succe­ dermi nulla se mi fingo morto. I russi mi crederanno», e quindi assunse la tipica posizione rigida del morto. Quando gli venne chiesto di reinscenare l’evento del primo sintomo, il tremore alla mano destra, B. disse di vedere un dottore in un ospedale e di desiderare di ucci­ derlo. Simmel chiese, «Perché il tremore?», e B. replicò, «Perché io non possa farlo» 38. Gli analisti interpretavano il sintomo come un fram235

Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

mento mimetico, come limitazione di un’azione di grande significato emotivo per Fattore; ma esisteva tutta una gradualità d ’approccio per la localizzazione della realtà nascosta dal simbolo. Non era inconsueto impostare un’equazione semplice, biunivoca, fra il sintomo e la sua causa. Così un soldato che colpisce con la baionetta il nemico al viso sviluppa un tic isterico sui propri muscoli facciali; e contra­ zioni addominali sono riscontrabili in soldati che abbiano infilzato nemici all’addome; la cecità isterica segue la visione di spettacoli particolarmente orribili, così come la sordità isterica colpisce uo­ mini che abbiano udito i lamenti dei feriti non soccom bili; e i soldati estratti da rifugi crollati sviluppavano asm a39.

Ferenczi e altri obiettarono nei confronti di questo tipo di equazione semplificatrice fra sintomo ed evento, nei confronti della sua tendenza fondamentalmente natu­ ralistica: vedere il sintomo come cristallizzazione di un evento particolarmente traumatico significava non coglie­ re l’importanza della quotidianità della situazione bellica. Ferenczi insiste che raramente il sintomo possa essere ricondotto ad una singola istanza traumatica: esso è piut­ tosto la rappresentazione di un conflitto permanente ine­ rente alle condizioni di vita, alle condizioni ambientali del nevrotico. Così lo strascicare i piedi, un sintomo co­ mune della nevrosi di guerra, poteva non essere affatto interpretato come la rappresentazione di quando l’indivi­ duo fosse rimasto piantato nel fango o simili: era piut­ tosto la rappresentazione dello stato psichico fondamenta­ le del combattente che era incitato ad avanzare dal senso del dovere, dall’obbligo, o dalla paura di sanzioni da par­ te dell’autorità, e nello stesso tempo era inchiodato dalla difficilmente controllabile paura della morte40. Il passo claudicante era la rappresentazione fisica della situazione psichica delTincubo, la sensazione di essere «immobilizza­ to» da desideri opposti e contrastanti. Secondo Freud, le nevrosi d ’ansia appaiono sovente all’approssimarsi di si­ tuazioni in cui l’individuo esperisca stati ansiosi molto intensi; questi stati possono dunque essere formalizzati in 236

Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

fobie, oppure possono essere evitati semplicemente bloc­ cando il movimento o le funzioni di organi specifici. Erben racconta di pazienti impediti ad avanzare da violenti attacchi di tremito, ma che potevano eseguire il molto più impegnativo compito di camminare alTindietro con scarsa o nulla difficoltà. In fondo sia gli analisti che i moralisti tentarono, tramite la terapia, di riportare il soldato alla consapevo­ lezza delle sue responsabilità come cittadino e come mili­ tare, pur con l'impiego di metodi molto diversi. Sia gli uni che gli altri furono impegnati a rendere manifeste le aspettative, connesse al ruolo ufficiale del militare in guerra, che rimanevano latenti nei loro pazienti. I tera­ peuti, sia quelli di indirizzo analitico che disciplinare, impiegarono la coercizione per costringere il soldato a rendersi conto delle priorità fra desiderio individuale e imperativo pubblico. Lunica differenza — ed era fondamentale — fra disciplinari e analisti fu che questi ultimi impiegarono un approccio alla devianza scevro da impera­ tivi morali: così il problema morale cessava di essere l'elemento centrale in fase terapeutica, per essere proiet­ tato, in quanto tale, sul contesto di guerra in generale. Nella terapia analitica sia il paziente che il terapeuta era­ no indotti a riflettere sulle implicazioni morali e psichi­ che del massacro continuato; gli analisti erano dunque molto più consci dei costi umani della guerra e tendeva­ no a sollevare, implicitamente, la questione di chi sop­ portasse questi costi, la società o l'individuo. Dietro il trattamento della vittima psichica di guerra stava il problema della sopportabilità della guerra stessa: questa guerra industrializzata e il suo livello di violenza tecnologica dovevano essere considerate oltre ogni umana possibilità di resistenza? Se la risposta era «sì», allora la nevrosi era l'inevitabile, addirittura normale conseguenza dell'enorme, invisibile potenza che schiacciava gli uomini costretti nel sistema di trincea. Oppure questa guerra doveva essere considerata come qualsiasi altra, su scala più grande, e il soldato traumatizzato semplicemente co­ me un individuo che avesse fallito la prova superata in237

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vece dai suoi camerati e dai soldati delle guerre prece­ denti? La natura della guerra divenne dunque uno degli elementi-chiave nella valutazione della legittimità della nevrosi come uscita dal labirinto delle trincee. Immobilismo, nevrosi, regressione Furono in molti, sia fra i terapeuti che fra i soldati di linea, ad essere convinti che la guerra meccanizzata spingesse gli uomini oltre i limiti della loro resistenza. Diventava dunque difficile ritenere il paziente responsabi­ le della propria malattia: la nevrosi era, in breve, il logi­ co e necessario risultato delle inaudite condizioni di com­ battimento. Le difese psichiche dei combattenti erano quindi demolite essenzialmente dai livelli inediti di vio­ lenza impersonale, tecnologica. Ma altrettanto demolitrice era la consapevolezza che la guerra non fosse un feno­ meno «naturale», bensì una «creazione umana», e che erano uomini quelli che stavano dietro ai «meccanismi implacabili» che immobilizzavano il soldato, lo rendevano passivo e vulnerabile alPimpatto delle granate. La guerra era matrice di interazioni umane, nonostante l’apparenza delle cose: la morte del soldato, la sua mutilazione, il suo storpiamento, erano il risultato di questo interagire, e non della volontà divina o della natura. La casualità della morte al fronte, il carattere impersonale della vio­ lenza, erano accompagnate dal riconoscimento che ci fos­ sero uomini dietro queste macchine, uomini che avevano scatenato e continuavano questa guerra, uomini che per­ seguivano la morte dei soldati immobilizzati nelle trincee. Questa combinazione di casualità, impersonalità, e volon­ tà umana dietro la violenza tecnologizzata della guerra, rappresentava il fattore demolitore delle difese psichiche dei combattenti. Robert Graves sostenne che chiunque avesse trascorso più di tre mesi sotto il fuoco di prima linea poteva essere legittimamente considerato nevrasteni­ co. E i medici di professione sovente erano d ’accordo: un dottor Hurst, ufficiale medico durante la campagna di 238

Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

Gallipoli, asserì che «ogni soldato che rientrava dalla pe­ nisola era nevrastenico, sia che lo si continuasse a repu­ tare abile o meno . . . tutti erano in una condizione di profonda nevrastenia» 41. Un teste depose tranquillamente di fronte alla Commissione del ministero della guerra: «In condizioni analoghe a quelle che esistevano in Fran­ cia, è inevitabile che un soldato collassi, prima o poi» 42. La variabile più significativa nell’incidenza della ne­ vrosi non era dunque il carattere del soldato, bensì il carattere della guerra. Quando, con le offensive tedesche del 1918, la guerra tornò ad essere guerra di movimento, per quanto il fuoco fosse sempre intenso e soverchiante, l’incidenza della nevrosi di guerra crollò clamorosamente. Venne universalmente riconosciuto come la nevrosi fosse sorella della guerra di trincea e dei peculiari stati emotivi generati dalla guerra di posizione, d ’assedio; fu precisamente l’immobilismo della guerra ad essere assunto come realtà di base sottesa al sintomo nevrotico. L ’esperienza ha dimostrato che un alto grado di tensione nervosa è più comune fra i soldati che devono . . . rimanere inat­ tivi sotto un bombardamento. Per l ’uomo di auto-controllo medio questa diviene presto una situazione di forzata attesa della grana­ ta, del momento e del luogo in cui ogni granata cadrà esploden­ do; e dietro questo pensiero ne alligna un altro, e precisamente quanti secondi gli possano restare prima di essere fatto a pezzi. U n’ora o due di una tensione del genere è più di quanto la maggior parte degli uomini possa sopportare43.

Al pari della nevrosi che, se esaminata nei particolari, appariva come il risultato dell’immobilismo della guerra, venivano erette altre difese psichiche contro le realtà e condizioni specifiche della guerra industrializzata; l’immobilità della guerra era dunque causa non solo di pato­ logie manifeste, ma pure di una latente regressione psi­ chica osservabile anche nei soldati «normali». Le connes­ sioni fra l’immobilismo di una guerra che rappresentava il «trionfo dell’industrializzazione moderna», la nevrosi, e la regressione, sono illustrate nel migliore dei modi in uno studio di W. H. R. Rivers. Nell’esame dell’incidenza della nevrosi in aviazione, Rivers trovò che la maggior 239

U n ’uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

parte dei sintomi nevrotici non erano correlati all’intensi­ tà della battaglia, alla lunghezza del tempo di servizio del singolo individuo, o alla sua predisposizione emotiva, bensì al grado d ’immobilità della guerra. In aviazione, così come nelle trincee, la nevrosi era funzione della fis­ sità e non dell’intensità della battaglia. Ri ver s scoprì che i piloti, uomini che potevano gestire almeno in parte at­ tivamente il proprio destino, annoveravano il tasso mino­ re di crolli mentali. Ma gli osservatori erano molto più vulnerabili alla nevrosi: nel servizio sui palloni, appesi ai quali gli osservatori offrivano un eccellente bersaglio fis­ so all’artiglieria e agli aerei nemici, le ferite psichiche superavano di gran lunga le perdite fisiche. Questa era Tunica branca di servizio in cui ciò accadesse Rivers dimostra che l’antidoto più razionale agli stati ansiosi sta in un qualsiasi tipo di attività manipolatoria: è attraverso questa attività che l’uomo acquista il senso della propria autonomia in un mondo di mezzi meccanici. Questo senso della manipolabilità delle cose, lo «spirito tecnologico», e la «salute mentale» dell’individuo che ha la percezione di se stesso come autore dei propri atti, sono strettamente correlati; se la sua facoltà di interveni­ re sul mondo delle cose è ostacolata, il senso d’autonomia dell’individuo diminuisce radicalmente e «si ha la condi­ zione ottimale per Pincidenza della nevrosi sotto forma qualsiasi» 45. È un paradosso che proprio la «guerra tecnolo­ gica» creasse condizioni in cui gli uomini si trovarono di fatto privi delle difese più razionali e manipolatone contro la paura; e fu una perdita che comportò necessariamente una regressione nella magia, nell’animismo, nella nevrosi. Fatto ancor più significativo, in questa guerra la regres­ sione di cui sopra deve essere vista come un processo «normale» esperito da moltissimi combattenti, anche sen­ za che una nevrosi paralizzante li costringesse al ricovero in un padiglione ospedaliero. L ’immobilismo della Grande Guerra creò le condizio­ ni in cui i soldati furono costretti a fare i conti con le proprie paure. Come riconobbe la maggior parte degli analisti, alla radice del sintomo nevrotico stava la rimo240

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zione della paura: ma la nevrosi non era il mero riemer­ gere della paura semplice, «naturale», quel tipo di «co­ dardìa» trattato in terapia disciplinare, bensì di una pau­ ra modellata, «istruita» dalle condizioni di guerra. Forse la migliore descrizione, data da un civile, degli stadi evo­ lutivi dell’ansia dei combattenti è quella di J. F. C. Fuller. Deponendo di fronte alla Commissione del ministero della Guerra, Fuller disse di avere notato tre fasi succes­ sive della paura nei combattenti. H o avuto modo di notare che il soldato psichicamente sano proveniente dall’Inghilterra mostrava precisi segni di paura fisica al battesimo del fuoco. Questa paura scemava rapidamente ve­ nendo rimpiazzata da un’insensibilità che talvolta cresceva fino a che il soldato sentisse poco o per nulla la necessità di protegger­ si. H o notato in parecchi casi che una situazione del genere in stato avanzato rendeva il soldato suscettibile di collasso mentale, o lo esponeva a crisi nervose che possono essere meglio definite come terrore mentale, anziché come paura fisica. La successione che ho notato è la seguente: in primo luogo il soldato è nor­ malmente spaventato per ciò che gli accade intorno, poi diventa insensibile, e infine talvolta la paura riemerge sotto forma d ’os­ sessione 46.

Ma ciò che precipitava questo processo non era un trauma «improvviso», bensì «il pericolo prolungato in una posizione statica, da cui il soldato non avrebbe potuto far nulla per evitarlo» 47. Lo stesso processo venne indi­ viduato, in termini completamente diversi, da Sandor Ferenczi nel corso del suo lavoro su soldati psico-nevrotici presso l’ospedale della Caserma «Maria Valeria» di Bu­ dapest, nel 1915. Egli ipotizzò che l’incontro del combat­ tente con le sovrastanti forze tecnologiche della guerra provocasse un disastroso decremento dell’amor proprio del soldato. La risposta più normale all’indiscutibile su­ periorità delle forze dell’acciaio e dei gas, forze che im­ pedivano al soldato di linea qualsiasi difesa attiva, era la regressione e la ritirata psichica: «La libido regredisce dall’oggetto all’io, sovrainvestendo narcisisticamente, e riducendo l’investimento oggettuale al punto d’indifferen­ za» 48. L ’indifferenza nei confronti della propria incolumi­ tà che Fuller notava nei veterani della guerra di trincea, 241

Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

la «durezza» dei veterani in generale, Ferenczi la consta­ tò n e ll’im p o te n z a se ssu a le o n el fo r te ra lle n ta m e n to s e s ­ suale dei suoi pazienti. Quasi tutti i pazienti della sezio­ ne neuro del suo ospedale si lamentavano «della caduta, o del notevole rallentamento, della loro libido, della loro potenza sessuale»49. Altrove, sul fronte occidentale, Lissman ebbe modo di constatare lo stesso fenomeno. La guerra, con la sua combinazione di terrore ed astinenza, la sua disciplina industriale non mitigata da svaghi o da re g o la re a ttiv ità se ssu a le , p ro d u c e v a su la rg a sc a la im p o ­

tenza, anche nei soldati normali: «Non erano certo pochi gli ufficiali e i soldati dai nervi generalmente saldi che nei primi tempi del congedo lamentarono o l’assenza o la riduzione estrema di erezioni» 50. Ferenczi considerò que­ sta impotenza, che in alcuni casi perdurò nel dopoguerra, come il segno più evidente del fatto che la guerra co­ stringesse il ritiro della libido dal mondo oggettuale, la «interiorizzazione» dell’io, e P in c rem en to in «libido nar­ cisistica». La durezza del veterano, la sua «indifferenza», parve­ ro a molti tipiche delle patologie acquisite in guerra, patologie riconosciute dai combattenti stessi. Esse sono descritte da Ernst Simmel come una «limitazione e una soppressione della coscienza», cioè preliminari alla nevro­ si di guerra. Simmel considera la soppressione delle fun­ zioni consce, Peliminazione dei legami libidinali con il mondo, come un’inevitabile risposta alle condizioni di guerra; ma l’effetto di questa regressione è di rendere l ’ambiente di guerra «irreale» e magico, popolato da for­ ze che non possono essere manipolate e gestite ma solo propiziate per mezzo di «formule e scongiuri», gli stessi che impiegava Carrington. La perdita del senso di ciò che sia corretto temere, la perdita di ciò che Platone definiva «il coraggio», portò all’ingrandimento e alla proiezione generalizzata delle paure sul fronte come universo magi­ co. È un errore considerare la decantata «durezza» del veterano come invulnerabilità alla paura: essa deve es­ sere invece compresa come la descrivono Fuller e Fe­ renczi, come uno stadio nel processo di traslazione del242

Un'uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

la paura «razionale» in terrore totale, senza fine, iden­ tificabile solo in quel malefico «gigante che scuote la terra con cieco furore». Il legame fra la durezza, o indif­ ferenza, nei confronti del mondo e l’incremento dell’egoismo, ovvero del narcisismo, è sintetizzato nella descri­ zione che Gorch Jachs dà di se stesso come di una com­ binazione di «nervi d ’acciaio» e del «cuore più buono e Tanimo più nobile di questa terra». William Maxwell riassume le sue conclusioni sugli effetti psichici della guerra in termini che ricordano quelli impiegati da Fuller e Ferenczi. Una coscienza di sé negativa. . . era lo stato emotivo più comune in circostanze che rendevano il soldato conscio della propria impotenza personale e della propria irrilevanza come in­ dividuo singolo. N ell’uomo in cui venisse pecepito come «incapa­ cità di reazione», tale sentimento non si organizza in una religio­ ne . . . bensì in un fatalismo che tende alla completa indiffe­ renza 51.

L ’incremento narcisistico, l’espansione dell’egoismo, che Ferenczi notò nelle vittime psichiche di guerra e con­ siderò come risultato della ritirata dal minaccioso univer­ so tecnologico, comportò uno dei più forti e «positivi» vincoli che la guerra lasciò in retaggio, il vincolo del singo­ lo individuo con gli uomini della sua unità. Così, questa re­ gressione produsse uomini con un enorme bisogno di at­ tenzioni e sicurezza, un bisogno combinato alla rabbia e al­ l’ostilità verso la società che li aveva posti nel ruolo di vittime. Questa combinazione spiegò a molti osservatori il fatto più sorprendente delle nevrosi di guerra: la loro longevità. Dal 1916 al 1920 il quattro per cento del 1.043.653 di vittime britanniche fu costituito da casi psi­ chiatrici52; a poco più di dieci anni dalla fine della guer­ ra, nel 1932, un buon trentasei per cento dei veterani che ricevettero la pensione d’invalidità dal governo ingle­ se fu iscritto come caso psichiatrico di guerra53. È piut­ tosto paradossale che la nevrosi di «guerra» incidesse an­ cor più in «pace» che in guerra. Un fenomeno analogo fu notato in altri paesi già belligeranti. Nel 1942, venti243

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quattro anni dopo la fine della Grande Guerra, Douglas Thom notava che il cinquantotto per cento di tutti i degenti negli ospedali per veterani degli Stati Uniti (68.000) era rappresentato da vittime neuropsichiatriche della prima guerra mondiale54. Critici malevoli osserva­ ro n o ch e, u n a v o lta c o n se g u ito il su o

sc o p o p rim a rio ,

sottrarre il soldato alla guerra, la nevrosi ne perseguiva un altro — che la rendeva «funzionale» anche in tempo di pace: la ricerca di attenzioni e compensazioni affetti­ ve. Alcuni critici più obiettivi riconobbero invece che il «disadattamento» nella guerra industriale potesse molto facilmente divenire «disadattamento» degli individui nella società industriale. Le nevrosi di guerra contengono numerose lezioni per gli psichiatri. I terapeuti d’orientamento psicoanalitico furono costretti ad abbandonare, temporaneamente, molti dei loro più cari postulati e riconoscere che le condizioni esclusive di guerra potessero scavalcare le predisposizioni dell’infanzia, che la rimozione della paura potesse costi­ tuire per la nevrosi uno strumento più potente che non la rimozione della sessualità. Ma forse la più significativa delle lezioni inerenti allo studio delle nevrosi di guerra fu che queste non apparvero come esclusive dell’ambiente di guerra, né apparvero come «espressione» di pulsioni individuali: al contrario, le più tenaci fra le patologie di guerra furono quelle che mostrarono le conseguenze ri­ sultanti dalla perdita, da parte dell’individuo, della co­ scienza di sé come attore autonomo in un mondo mani­ p o la b ile .

La nevrosi di guerra nella società post-bellica Durante la guerra i terapeuti giunsero alla conclusio­ ne che la nevrosi di guerra fosse una nevrosi funzionale con uno scopo «limitato» — l ’allontanamento del soldato d a u n a re a ltà in to lle ra b ile . A v o lte i te ra p e u ti an a litic i

diagnosticarono che il paziente soffrisse «esclusivamente di guerra», sostenendo che con la fine delle ostilità il 244

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sintomo sarebbe scomparso poiché il suo scopo esplicito non sarebbe più stato funzionale. Kurt Singer, un diret­ tore del reparto neuropsichiatrico di un ospedale di Ber­ lino, vide le sue corsie svuotarsi nel novembre del 1918. Quando, nel 1920, gli fu chiesto dagli ufficiali sanitari di Berlino perché le guarigioni dalla nevrosi di guerra fosse­ ro diminuite cosi radicalmente, Singer rispose che le gua­ rig io n i « s o n o m en o fre q u e n ti, e non molto riuscite, per­ ché non ci sono più nevrotici» 55. Esagerava, ma solo in parte: allo scoppio della rivoluzione venti pazienti ab­ bandonarono il reparto senza permesso, sei fecero richie­ sta di essere dimessi immediatamente, e i restanti dieci rimasero, ma, sospettò Singer, solo perché aspettavano la primavera. La rivoluzione aveva manifestamente elimina­ to quelle condizioni in cui le turbe psichiche risultavano funzionali. La rivoluzione in se stessa vanificò l ’esigenza del complesso nevrotico come protesta da parte dell’inferiore, del subordinato, precisamente da parte della classe che infoltiva il contingente dei nevrotici — il proletariato in divisa. Quelle compensazioni per il senso di inferiorità, le difese contro i responsi medici, la fuga nella malattia . . . improvvisamente non furono più necessarie, dal momento che i rapporti di potere furono così radicalmente tra­ sformati 56.

Il passaggio dalla guerra alla rivoluzione comportò due cose. In primo luogo, privò il medico dei suoi straordinari poteri, dell’autorità tramite la quale era riu­ scito a volte a rendere la malattia più dolorosa della mi­ naccia di morte in trincea: «La terapia attiva era di fatto una forma malcelata di impartizione di ordini ed esecu­ zione di ordini» 57. In secondo luogo, la fine della guerra p o s e te rm in e an ch e alle condizioni in cui il compromesso della nevrosi era necessario e funzionale. Nella rivoluzio­ ne, il nevrotico poteva impugnare le armi contro coloro che lo avevano schiacciato in guerra: adesso non era più il soldato ad essere vulnerabile, bensì l’apparato di co­ mando che aveva precipitato il conflitto fra il desiderio di sopravvivenza del soldato e l’adempimento dei suoi obblighi morali. Nel 1921 Freud enunciò di nuovo la 245

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convinzione diffusa: «Con la cessazione delle condizioni determinate dalla guerra scomparve anche la maggior par­ te dei disturbi nevrotici che la guerra aveva provoca­ to» 58. Ma nei successivi otto anni le autorità mediche s’ac­ corsero d'essere state troppo frettolose nel dichiarare la fine delle nevrosi di guerra. Le turbe psiconevrotiche di guerra si dimostrarono ben più tenaci, e di ben più diffi­ cile e costoso trattamento, che non i disturbi fisici. Le patologie generate dalla guerra continuarono a riempire le corsie degli ospedali per veterani; ma ben più spesso queste patologie non apparivano nelle statistiche mediche e per il motivo che allignavano sui posti di lavoro, nelle case, nelle osterie, e in campo politico. Phillip Gibbs, che aveva sperato che i reduci dal fronte potessero gui­ dare un movimento di rinascita nazionale in Inghilter­ ra, fu costretto a riconoscere che la caratteristica inclina­ zione alla violenza del veterano era fondamentalmente sipolitica, qualcosa che traeva la propria origine in una ferita psichica molto profonda. C e ra qualcosa di storto. Essi vestivano di nuovo abiti civili e guardavano le loro madri e le loro spose più o meno allo stesso modo dei giovani che uscivano per andare al lavoro nei giorni di pace precedenti Pagosto del 1914. Ma non erano più gli stessi uomini: qualcosa s’era alterato in loro. Essi erano soggetti ad attitudini e scatti bizzarri, a momenti di profonda depressione alternati a uno smodato desiderio di divertimento. Molti erano facilmente spinti dalla passione fino a perdere il controllo di se stessi, molti erano a9pri nei loro discorsi, violenti nei loro ragio­ namenti, tanto da spaventare59.

Robert Graves fu molto più esplicito. Ciò che soffocò la minaccia rivoluzionaria costituita dalle «forze combat­ tenti» nel 1919 non fu né la repressione governativa né la cooptazione politica, bensì l’«instabilità di nervi» sof­ ferta da chiunque avesse trascorso più di sei mesi in prima linea: «Nella maggior parte dei casi l ’alterazione durava per quattro o cinque anni ancora; e furono nume­ rosi i casi di soldati che, sforzatisi per evitare il collasso nervoso durante la guerra, cedettero malamente nel 1921 246

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o 1922» 60. Mentre la rabbia, l ’amarezza, la coscienza di essere stato una vittima, e la familiarità con le armi face­ vano delTex-soldato una figura dal destino politico appa­ rentemente irresistibile, la sua nevrosi caratteristica lo rendeva di fatto — come intuì Graves — un rivoluzio­ nario molto scadente. Era chiaro che il retaggio di aber­ razioni del tempo di guerra avrebbe continuato a lavorare in tempo di pace, spesso in maniera invisibile, al di fuori della sfera pubblica. Howland era convinto che l ’aggressività compressa in guerra avrebbe inevitabilmente trova­ to altri bersagli: «Non penso che sarà necessario ricorda­ re al reduce che ‘a forza di tirare, il tappo salta: piutto­ sto farà saltare anche la bottiglia’» 61. Di fatto, tramite il retaggio d ’aggressività, la nevrosi di guerra potè essere trasmessa di padre in figlio, come scoprì Lidz quando apprese che uno dei suoi pazienti nei Mari del Sud, nel 1943, aveva un padre che era stato traumatizzato da esplosione durante la prima guerra mondiale. Il padre in questione era tornato dal fronte «violento e lavativo», un individuo che teneva in costante subbuglio la casa e che era, a tratti, «completamente fuori di testa» 62. Era prevedibile che i sintomi nevrotici originatisi nel­ le trincee potessero «conservarsi» anche in tempo di pa­ ce; ma fu del tutto inaspettato che numerosi soldati mai ricoverati durante la guerra crollassero dopo la fine delle ostilità. Un americano, Roy Grinker, scriveva dei vetera­ ni psiconevrotici della prima guerra mondiale: Con nostro stupore, la maggioranza dei nevrotici ricoverati oggi è rappresentata da persone che hanno sviluppato i primi segni della nevrosi al ritorno nel loro paese, oppure che hanno peggiorato le proprie condizioni una volta toccata la madrepa­ tria La nevrosi di guerra che si manifestava in tempo di pace era qualcosa di più che non una trasposizione di scopi, dalla ricerca cioè di un’uscita dalla realtà di guerra alla ricerca di compensazione affettiva e sicurezza. L ’im­ patto iniziale con l’ambiente in patria fu spesso deluden­ te per uomini che avevano partecipato alla guerra, e 247

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questa disillusione poteva precipitare turbe nervose anche gravi. In guerra il soldato aveva sovente idealizzato la patria: questa patria ideale costituiva una difesa impor­ tante contro le dissonanze e le umiliazioni di guerra. Come ebbe a notare Franz Schauwecker, la sentimentalizzazione della patria era un p r o c e sso in e v ita b ile n elle trin ­ cee: «Il Fronte e la Patria: fra di essi si stendeva l’arco­ baleno del desiderio, un arco che assorbiva ogni altra cosa e tollerava solo pensieri, non parole» 64. L ’idealizza­ zione delle «persone e cose del passato», quei fatti e quelle persone che sembravano ancor più distanti nelle trincee, permisero al soldato di mantenere il senso di una possibile continuità, qualche speranza di un’identità non frammentata. Queste idealizzazioni a volte crollarono al­ l’impatto della smobilitazione, della disoccupazione, della povertà, e dell’estraneità assoluta di tutto ciò che un tempo era familiare. Quest’ultima delusione sovente sca­ tenava stati ansiosi tenuti sotto controllo durante la guerra stessa, infrangendo il serbatoio di amarezza e rab­ bia represse e accumulate durante i lunghi anni trascorsi nel siste m a di trincea. Con il crollo dell’ideale di patria non se ne andava soltanto una visione piacevole, bensì l’immagine stessa di un io sicuro e di un’identità solida: se la patria rappresentava il rifugio di fantasie di sicurez­ za e stima di sé, una difesa contro le condizioni di guerra e contro il senso d’inferiorità, la degradazione, e l’impo­ tenza imposte da quelle condizioni, allora il crollo del­ l’immagine di patria significava la rimozione dell’ultima difesa contro la dolorosa consapevolezza di ciò che in realtà era stato il soldato in quella guerra. La disillusione nei confronti dell’ambiente di casa potè produrre quella «fissazione da 1916» che Charles Carrington notò in se stesso: l’impatto con l’ambiente in patria potè condurre, abbastanza paradossalmente, ad una contro-idealizzazione della guerra che si era appena finito di combattere, ad un’idealizzazione del «cameratismo», della vita militare, della «semplificazione» della realtà in guerra. Un problema del tutto diverso fu sollevato dal fatto che fra i veterani le psicosi incrementassero in termini 248

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assoluti per tutti gli anni Venti. Il governo inglese con­ cesse più pensioni per turbe psichiche nel 1929 che nei quattro anni immediatamente successivi alla fine delle ostilità65. Ad eccezione delle patologie cardiache, questa fu Tunica categoria di malattia per cause di guerra che subì un aumento iperbolico per tutto il decennio. Nel corso della guerra Simmel ebbe modo di constatare che la ne­ vrosi non solo forniva una via d ’uscita dalla realtà di trincea, ma proteggeva il soldato da forme di psicosi permanenti. La nevrosi era un’area di parcheggio lungo la strada di una rottura ben più radicale con la realtà. Mentre la guerra era in corso, apparve chiaro come al gran numero di nevrosi facesse riscontro un numero sorpredentemente scarso di psicosi di guerra: ma nel do­ poguerra la proporzione si invertì. Il rientro a casa poteva causare il crollo dell’ultima àncora di salvezza. C i sono numerosi esempi di reduci tornati «normali», o con leggeri segni d’isteria, che sa­ rebbero finiti, quattro anni più tardi, schizofrenici. Wal­ ter Riese trattò il caso di un ex-caporale dell’esercito te­ desco che aveva combattuto per tutti e quattro gli anni di guerra ed era tornato a casa nel 1918 con una lieve, generalizzata condizione nervosa. Nei tre anni su c c e ssiv i le condizioni del caporale L. peggiorarono e il soggetto fu ricoverato, diventando il terrore dei medici e dei pa­ zienti del suo ospedale. I suoi sintomi fisici spaziavano da una parziale paralisi del braccio sinistro a difficoltà linguistiche e concettuali, mancanza di spontaneità ed ini­ ziativa, irrigidimento della persona, uno spasmodico di­ grignare dei denti, ed improvvise esplosioni d’aggressività — tutti i segni della schizofrenia. Riese non fu in grado di rintracciare alcun segno di instabilità nervosa in L. prima della sua esperienza di guerra e concluse che la guerra stessa fosse responsabile della sua malattia, per quanto il paziente non avesse esperito nulla di partico­ larmente traumatico al fronte66. Anche P. Reichardt si convinse che la guerra fosse il fattore più significativo nello sviluppo, subito dopo l’armistizio, di numerosi casi di schizofrenia; le sue conclusioni, come quelle di Riese, 249

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erano basate sulla pratica clinica personale. Ma la rottura definitiva con la realtà non fu la nor­ male risposta di coloro che avevano visto scosso in guer­ ra il senso della propria identità: molto più comune fu infatti la ricerca di forme di compensazione, o il puro e semplice ripudio delPesperienza di guerra. Coloro che rinnegarono la propria esperienza di guerra seguirono il consiglio più comunemente impartito ai reduci, e cioè che cercassero di «dimenticare». Questa fu la reazione di Pierre Yan Paassen: Avevo la percezione . . . di essere stato la vittima di un co­ lossale non-senso. Desideravo dimenticare l ’incubo, bruciare l’uni­ forme non appena mi fossi congedato, gettare lo zaino e tutto quanto nel lago Ontario, e cancellare ogni traccia della mia ver­ gogna e della mia umiliazione67.

Questa fu anche la reazione di Siegfried Sassoon e di molti altri le cui «menti e ran o an c o ra allu cin ate e i c u i pensieri più profondi tentavano disordinatamente di riti­ rarsi dalla mugghiarne oscurità e dagli uomini sepolti nei crateri delle granate» 68. W. H. R. Rivers si convinse che i più penosi e resistenti sintomi della nevrosi di guerra non fossero necessariamente il risultato di traumi partico­ larmente pesanti, quanto piuttosto dei tentativi di «can­ cellare dalla mente» i più dolorosi ricordi di guerra. Di fatto la rimozione delPesperienza di guerra procrastinò il ricordo della guerra stessa, conservandone tutto il peso, e garantendo che i veterani, molto dopo che i cannoni avessero smesso di tuonare, fossero costantemente occupa­ ti dallo sforzo di non «udirli» 69. La paura di ricordare fissò le menti dei veterani sulla guerra, e fece sì che Pesperienza di guerra venisse mantenuta come realtà sog­ gettiva anche dopo che alle trincee si furono sostituiti i campi di casa. Siegfried Sassoon era ben consapevole che il tentativo di ripudiare ad ogni costo Pesperienza di guerra avrebbe finito per trasformare quella stessa espe­ rienza in un'ossessione. È brutto pensare alla guerra / Quando i pensieri che hai cercato di reprimere tutto il giorno tornano a tormentarti; / Ed

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è noto che i soldati non diventano pazzi / Finché non perdono il controllo di quei pensieri / Che li portano a borbottare da s o li70.

Ma Sassoon comprese anche che ben presto la guerra sarebbe stata assimilata, ideologicamente integrata, e mascherata sotto luoghi comuni che ne lenissero il ricor­ do: Presto essi Tremebonda / loro sogni, che guerra gloriosa

dimenticheranno le loro notti d ’orrore; la loro / Soggezione ai fantasmi degli amici caduti, — / I grondavano morte; e saranno / Fieri / di quella che ha schiacciato tutto il loro valore . . . 71

I segni della rimozione dell’esperienza di guerra sono riscontrabili nella fortuna della letteratura di guerra. Ne­ gli anni Venti furono pubblicati pochissimi libri sulla guerra: questo periodo fu considerato da Wilhelm Karl Pfeiler come un «periodo di latenza» in cui un’esperienza troppo distruttrice a livello di io individuale e collettivo viene «dimenticata» per poi riemergere sotto forma più «accettabile»: «Durante i primi dieci anni della Repub­ blica, la guerra venne cancellata dalla coscienza della so­ cietà tedesca, e il trattato di Versailles ne prese il po­ sto» 71. La letteratura di guerra, pubblicata con il conta­ gocce nel primo decennio dopo la fine del conflitto di­ venne, a partire dal 1929, un diluvio che continuò per tutti gli anni Trenta. Negli anni della Depressione i me­ moriali, i romanzi, i carteggi, i diari che avevano a che fare con ^esperienza di guerra divennero un genere estremamente popolare. Charles Carrington pensò di avere capito perché la rimozione dell’esperienza di guerra e il «silenzio» dei veterani fossero giunti a un termine. La Depressione aveva colmato fra il civile e il reduce un divario che era sembrato insuperabile per tutti gli anni Venti: adesso la popolazione nel suo complesso era vit­ tima, ridotta a un livello di abiezione e miseria con cui Tex-soldato poteva immediatamente identificarsi. D ’altra parte, nel rapportare i particolari della propria «vergogna e umiliazione» a una condizione civile, il reduce non fa­ ceva che ritornare a quelluniverso di guerra industriale 251

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che aveva ridotto gli uomini a proporzioni microscopiche, ad un livello inimmaginabile nella vita civile, seppure in condizioni di collasso economico73; rimmagine del mas­ sacro meccanizzato era dunque una consolazione, ma an­ che un avvertimento per i civili testé disillusi da un mondo industriale apparentemente sicuro.

Note 1 C. L. Nichols, War and Civil Neurosis — A Comparison, in «Long Island Medicai Journal», X III (1919), n. 8, pp. 257-268. 2 F. X. Dercum, So-Called «Shell-Shock»: The Rernedy, in «Archives of Neurology and Psychiatry», I (1979), p. 66. 3 Ibidemy p. 68; e cfr. anche C. L. Nichols, op. cit.y p. 259. 4 S. Freud, Einleitung (1919) al libro di K. Abraham, E. Jones, S. Ferenczi, Zur Psychoanalyse der Kriegsneurosen; trad. it., Introduzione al libro «Psicoanalisi delle nevrosi di guerra», in S. Freud, Opere, Milano, Boringhieri, 1977, voi. IX, p. 72. 5 G. Rosen, Nostalgia, a Forgotten Psychological Disorder, in «Psychological Medicine», V (1974), n. 4, pp. 340-354. 6 M. D. Eder, Psychopathology of thè War Neurosis, in «Lancet», 12 agosto 1916, p. 2. 7 Great Britain Army, Report of thè War Office Committee of Enquiry into «Shell-Shock», London, 1922, p. 6. (D’ora in poi War Office). Questo e i resoconti bibliografici pubblicati in Germania durante la guerra da K. Bimbaum nella «Zeitschrift fiir die gesamte Neurologie und Psychiatrie, Referate und Ergebnisse» (1914-19), sono le due princi­ pali fonti sulla nevrosi di guerra. 8 Ibidem, p. 38. 9 T. W. Salmon, The Care and Treatment of Mental Diseases and War Neuroses («Shell-Shock») in thè British Army, New York, 1917, p. 30. Sullo stesso argomento vedi S. Schwab, The Mechanism of thè War Neuroses, in «Journal of Abnormal Psychology», XIV (1919), p. 1. 10 W.M. Maxwell, A Psychological Retrospect of thè Great War, London, 1923, p. 85. 11 Ph. Gibbs, Noto it Can Be Toldy New York, 1920, p. 4. 12 E. Simmel, in Zur Psychoanalyses der Kriegsneurosen, cit.; ed. ingl., Psychoanalysis and thè War Neuroses, London-Wien-New York, 1921, p. 95.

95.

13 F. W. Mott, War Neuroses and Shell-Shocky London, 1919, p.

14 G. Stertz, Verschrobene Fanatiker, in «Berliner Klinische Wochenschrift», LVI (1919), p. 586.

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15 W. Bailey, War Neurosis, Shell-Sbock, and Nervousness in Soldiers, in «Journal of thè American Medicai Assorìation», LXXI (1918), p. 215. 16 Ibidem. 17 F. X. Dercum, op. cit., p. 75. 18 A. Leri, Shell-Sbock, Commotional and Emotional Aspects, Lon­ don, 1919, p. 118. 19 Ibidem. 20 War Office, cit., p. 28. 21 E. E. Southard (a cura di), Shell-Sbock and Other Neuro-Psychiatric Problems Presented in Pive Hundred and Eighty-Nine Case-Histories, Boston, 1919, p. 60. 22 D. Thom, War Neurosis. Experiences of 1914-1918, in «Journal of Laboratory and Clinical Medicine», XXVIII (1943), p. 499. 25 War Office, dt., p. 24. 24 Ibidem, p. 26. 25 E. E. Southard (a cura di), op. cit., p. 781. 26 L. Yealland, Hysterical Dtsorders of Warfare, London, 1918, p. 12. 27 Ibidem, pp. 8-9. 28 Ibidem, p. 23. 29 Ibidem, p. 22. 30 Vedi Southard per terapie identiche. 31 E. Redlich, Einzige allgemeine Bemerkungen ùber den Krieg und unser Nervensystem, in «Medizinische Klinik», XI (1915), n. 17, p. 472. 32 E. Simmel, in Psychoanalysis and thè War Neuroses, cit., p. 43. 33 E. Simmel, Kriegsneurosen und psychisches Trauma, Miinchen, 1918, p. 33. 34 G. Massonneau, A Social Analysis of a Group of Psycboneurotic Ex-servicemen, in «Mental Hygiene», VI (1922), p. 575-591. 35 B. Glueck, The Malingerer: A Clinical Study, in «International dinics», III (1915), p. 201. 36 Sulla storia dell'ipnosi vedi le note di J. Jaynes nel suo The Origins of Consciousness and thè Breakdown of thè Bicameral Mind, Boston, 1977; trad. it., Il crollo della mente bicamerale e Vorigine della coscienza, Milano, Adelphi, 1984. Parecchi medici impiegarono l’ipnosi con gli stessi presupposti di Simmel. In Gran Bretagna i successi più notevoli furono ottenuti da W. Brown che nel suo Hypnosis, Suggestion, and Dissociation, in «British Medicai Journal», I (1919), pp. 734-736, riporta la guarigione di centoventotto casi di mutismo in sedici mesi: tutti questi pazienti «ritrovarono la parola una volta costretti a rivivere le loro esperienze». 37 E. Simmel, Kriegsneurosen und psychisches Trauma, cit., p. 30. 38 Ibidem, p. 35. 39 T. W. Salmon, op. cit., p. 30.

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40 S. Ferenczi, Uber zivei Typen der Kriegsneurosen, cit., p. 135. 41 War Office, dt., p. 25. 42 Ibidem, p. 5. 43 W. M. Maxwell, op. cit., p. 66. 44 War Office, cit., p. 57. 45 Ibidem, p. 58. 46 Ibidem, p. 29. 47 Ibidem. 48 S. Ferenczi, tl&er der Kriegsneurosen, dt., p. 140. 49 Ibidem, p. 137. 50 Citato in H. Hirschfeld e A. Gaspar, Sittengescbichte der Ersten Weltkriegs, 2 voli., Hanau a/M., 1929, p. 168. Vedi anche I. Block, Uber Traumatische Impotenz, in «Zeitschrift fiir Sexualwissenschaft», V (1918-19), pp. 135-141; F. Pick, Uber Sexulstòrungen im Kriege, in «Wiener Klinische Wochenschrift», X X X (1917), n. 45, pp. 1418-1425; e H. FehHnger, Krieg und Geschlecbtsleben, in «Zeitschrift fiir Sexualwis­ senschaft», III-IV (1916-18), pp. 124-127. 51 W. M. Maxwell, op. cit., p. 100. 52 Maggiore T .J . Mitchell, Officiai History of thè War. Medicai Services, Casualties and Medicai Statistics, London, 1931, p. 255. 53 E. Miller (a cura di), The Neurosis in War, New York, 1942, p. 212 . 54 D. Thom, op. cit., p. 497. 55 K. Singer, Was ist’s mit dem Neurotiker vom lahre 1920?, in «Medizinische KHnik», XVI (1920), n. 2, p. 951. 56 K. Singer, Das Kriegsende und die Neurosenfrage, in «Neurologisches Zentralblatt», XXXVIII (1919), p. 331. 57 K. Singer, Was ist’s mit dem Neurotiker vom Jahre 1920?, cit., p. 951. 58 S. Freud, Introduzione al libro «Psicoanalisi delle nevrosi di guerra», trad. it. dt., voi. IX, p. 71. 59 Ph. Gibbs, op. cit., pp. 547-548. 60 R. Graves, A. Hodge, The Long Weekend: A Social History of Great Britain 1919-1939, New York, 1963, p. 27. 61 G. W. Howland, Neuroses of Returned Soldiers, in «American Medicine», XII (1917), p. 315. 62 T. Lidz, Nightmares and thè Combat Neuroses, in «Psychiatry», IX (1946), p. 44. 63 R. Grinker, The Medicai, Psychiatric and Social Problems of War Neuroses, in «Cincinnati Journal of Medicine», XXVI (1945), p. 245. 64 F. Schauwecker, Im Todesrachen. Die deutsche Seele im Weltkrieg, Halle (Salle), 1921. 65 T. V. Mitchell, Officiai History of thè Great War. Medicai Services. Casualties and Medicai Statistics, London, 1931: vedi la tavola a fronte di p. 328. 66 W. Riese, Krieg und Schizophrenie, in «Allgemeine Àrtzliche

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Zeitschrift f. Psychotherapie und Psychologische Hygiene», II (1929), pp. 741-752. 67 P. Van Paassen, Days of our Years, New York, 1934, p. 91. 68 S. Sassoon, Memoirs of George Sherston, New York, 1937, p. 233. 69 W.H. R. Rivers, The Repression of War Experiencey in «Lancet», n. 1 (1918), p. 173. 70 S. Sassoon, Repression of War Experience, in Counter-Attack and Other Foems, New York, 1919, p. 51. 71 S. Sasson, Survivorsy ibidem , p. 55. 72 W. K. Pfeiler, War and thè German Mindy New York, 1941, p. 16. 73 C. Edmunds (C. E. Carrington), Soldiers from thè Wars Returningy London, 1965, p. 252.

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Capitolo sesto

Il veterano tra fronte e patria

Cameratismo e violenza Nel corso di tutto il mio studio ho trattato della prima guerra mondiale come di un’esperienza della condi­ zione moderna, un’esperienza in cui uomini, che già sa­ pevano di vivere in «epoca industriale», appresero cosa ciò significasse in termini militari. Se la guerra fu un’e­ sperienza modernizzante lo fu perché alterò in modo fondamentale le tradizionali fonti di identità, le vecchie concezioni della guerra e degli uomini in guerra: la Grande Guerra fu un punto nodale nella storia della ci­ viltà industriale perché essa fuse realtà materiali e menta­ lità «tradizionali» in un modo del tutto imprevisto e spiazzante. Da un lato, la guerra merita il titolo di prima guerra veramente moderna perché in essa e tramite essa la natura e le dimensioni dell’industria moderna furono ribadite nei termini più violenti e inappellabili; d ’altro canto, fu una guerra che mobilitò una logica profonda­ mente radicata nella cultura europea, una logica che asse­ riva P«alterità» sociale ed esistenziale della guerra come, appunto, alternativa benefica alla vita nella società civile. La convinzione della polarità fra pace e guerra fu, nel ; 1914, il principale ingrediente della diffusa acclamazione della guerra come mezzo per trascendere le contraddizioni sociali ed economiche. Ma la disillusione che accompagnò l’accorgersi dell’intima analogia fra le società industriali e le guerre che queste conducono — qualcosa che è ormai un luogo comune per noi — contorse, inaridì, e confuse la logica su cui erano basati il significato morale della guerra e la figura del guerriero. La «guerra totale» altro non fu che la negazione dell’esistenza di due realtà diver­ se, due diversi insiemi di regole, due diversi livelli su cui 257

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la vita potesse essere vissuta ed esperita: in guerra i combattenti appresero che esiste soltanto un mondo in­ dustriale, la realtà del quale plasmava il loro essere in guerra molto più che in tempo di pace. Nelle trincee i soldati appresero che la distruzione tecnologica e la pro­ duzione industriale sono immagini speculari l’una del­ l’altra. Questo scontro fra le tradizionali concezioni della guerra e le condizioni reali di guerra continuò nel carat­ tere e nel comportamento dei veterani della prima guerra mondiale. Il veterano è una figura tradizionale, un per­ sonaggio antico almeno tanto quanto la letteratura scrit­ ta; convenzionalmente egli è un iniziato che porta in sé la conoscenza, esperita personalmente, della fragilità propria e dell’umanità in generale. La figura del veterano è una sotto-categoria di quello che potrebbe essere defini­ to il «tipo liminare»: egli deriva le sue caratteristiche dal fatto di avere attraversato il confine fra due mondi socia­ li disgiuntivi, fra pace e guerra, ed essere riuscito a ri­ tornare. Egli ha assunto un nuovo carattere nel corso di questo viaggio ai margini della civiltà, un viaggio in cui ha incontrato meraviglie, bizzarrie, e mostri — tutte cose che possono solo essere immaginate da quelli rimasti a casa. Tutte queste caratteristiche possono essere lette nella descrizione che Ernst von Salomon offre delle truppe te­ desche reduci, una descrizione che — con tutti i suoi tratti gotici — potrebbe essere assunta come ritratto di qualsiasi truppa reduce, sconfitta, dai campi di batta­ glia. G li occhi nascosti sotto l’elmetto, infossati in orbite grige, scavate; occhi che non guardavano né a destra né a sinistra. Sempre inchiodati in avanti, come a fissare un obiettivo trem en ­ do, come spaziassero dall’angolo di un rifugio o di ima trincea su di un terreno sconvolto. E non aprivano bocca . . . I volti emaciati, privi d ’espressione sotto gli elmetti d ’ac­ ciaio, le membra ossute, le uniformi sporche e stracciate! Marcia­ vano al passo e attorno ad essi si creava un vuoto infinito. Sì, era come se essi tracciassero attorno a se stessi un cerchio magico

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all’interno del quale aleggiassero — invisibili ai non iniziati

esseri segreti, potenze pericolose 1.

Salomon, giovane cadetto navale, non fece in tempo a conoscere la battaglia. Egli non patì disillusioni e fu in grado di attingere a piene mani a tutte le fonti di misti­ ficazione che circondano la figura del veterano, l’iniziato alla morte, l’uomo dagli straordinari poteri. Il veterano è un uomo definito e rifinito dalla guerra, privato di tutto il superfluo sociale, ridotto all’essenza. Queste qualità non ineriscono esclusivamente alla fi­ gura del veterano. I lineamenti che definiscono tradizio­ nalmente la persona del veterano sono gli stessi ascritti, nella memoria popolare di tutto il mondo, a tutti i pro­ fessionisti nomadi: l’attore itinerante, il fabbro ambulan­ te, il prestigiatore e il saltimbanco, il mercante, il predi­ catore, il mendicante. Sono tutte figure che vivono negli spazi di giunzione delle società, figure che praticano tra­ sformazioni su se stesse, su ruoli, metalli, valori, stati spirituali e fisici: la gente teme il potere generato in queste trasformazioni, e nello stesso tempo desidera at­ tingervi per beneficiarne. Il «tipo liminare» ha sempre fornito il terreno su cui la gente comune proietta la propria ambivalenza nei confronti dell’ordine sociale in cui vive: la paura del disordine e la paura della fossiliz­ zazione. Il veterano, al pari delle altre figure liminari formatesi ai margini della vita sociale, incorpora le ansie, si carica delle colpe, e attenua la noia generate dalla quo­ tidianità nella gente comune. In sostanza la figura del veterano è tradizionalmente derivata da tutto ciò che si presume stia «al di là» dei limiti dell’esistenza civile. Ciò che si pensa stia «al di là» è generalmente funzione di come la gente esperisce la struttura sociale in cui vive. Le diverse concezioni del veterano e delle sue intenzioni politiche, successivamente al 1919, non riflettevano vedute differenti della guerra, bensì diverse concezioni dell’ordine sociale; coloro, socia­ listi o conservatori che fossero, che concepivano la socie­ tà moderna in termini di alienazione, privatizzazione, e259

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goismo, e conflitto di classe, vedevano nel veterano un compagno, un camerata, un uomo comunitario. Egli in­ fatti si era formato nell’agone della solidarietà «naturale» che soggiace alle artificiali divisioni di classe e status, rappresentando così la migliore speranza per una soluzio­ ne delle tensioni caratterizzanti la società capitalista. D ’altra parte, quelli che concepivano la società in termini di «civiltà», intesa come un insieme di limitazioni etiche indispensabili, inibizioni, e coercizioni sugli istinti asociali «primitivi», vedevano la guerra come arena di liberazione istintuale. Quindi, la figura educata nell’ambito di questa esperienza di guerra era necessariamente un individuo primitivizzato, barbarizzato, regredito, arretrato sulla sca­ la di valori che definiscono e misurano lo stadio adulto civilizzato. Il veterano, con i suoi pericolosi poteri e la sua inclinazione alla violenza, costituiva una minaccia per la società d ’origine: era qualcuno che doveva essere rein­ tegrato, riacculturato, rieducato. Gli ex-soldati reduci dal fronte sfruttarono pienamen­ te queste tradizionali definizioni del veterano: ma le sfruttarono non per acquisire di nuovo una dignità posi­ tiva nell’ambito sociale, bensì come modo per compensa­ re se stessi del proprio sfruttamento, del proprio ruolo di vittime, del declassamento dallo statuto di «eroi» a quel­ lo di individui assolutamente superflui e strumentalizzati dalla guerra industrializzata. Entrambe le immagini — quella del camerata, del­ l’uomo comunitario, e quella dell’uomo violento — erano funzionali. I reduci potevano usare l’immagine dell’uomo comunitario per asserire la loro superiorità nei confronti dei politici civili, i quali agivano come se gli ingranaggi della vita collettiva fossero semplici mezzi per il perse­ guimento degli interessi di classe. Il veterano poteva ri­ vendicare di essere il miglior rappresentante della nazione nel suo complesso, dal momento che egli si era «sacrifi­ cato» per la sopravvivenza della collettività; come indivi­ duo che aveva vissuto per anni nella Terra di nessuno, egli conosceva la nazione e le sue patologie da un punto di vista esterno. Il reduce poteva anche assumere l’im260

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magine di uomo violento, l’immagine dell’individuo intol­ lerante nei confronti di qualsiasi restrizione sociale. Egli poteva usare, e di fatto usò, questa immagine per estor­ cere attenzioni, stima, e appoggio normalmente tributati a chi abbia sacrificato il proprio interesse personale, il proprio io in difesa della collettività. Generalmente, queste alternative furono spiegate da civili e veterani come «effetti» che la guerra aveva sortito sui combatten­ ti, come modi in cui l ’esperienza di guerra avesse cambia­ to il carattere del soldato; in realtà è meglio vedere queste immagini tradizionali del tipo liminare come mezzi di comunicazione e di mediazione fra i civili e gli uomini che erano stati socialmente, psicologicamente, e fisicamente calpestati e che, nel corso di questo processo, era­ no divenuti estranei a se stessi tanto quanto agli altri. Nella descrizione di Ernst H. Posse di quei soldati reduci che si unirono al Kampfbunde politico in Germania, è possibile cogliere entrambe queste concezioni del veterano. Come uomo sganciato dal suo passato sociale, come individuo di una classe o ceto particolare, che era divenuto un camerata, il soldato di linea costituiva un fenomeno sociologico unico. La sua ideologia lo rendeva incline al concetto di armonia di classe piuttosto che a quello di appartenenza a una classe . . . Ma egli aveva alle spalle anni di lotte e battaglie che lo spingevano all’azione e alla gratificazione dei suoi desideri... Una parte dei reduci dal fronte era incline a congiungersi a qualsiasi movimento che permettesse agli ex-soldati di continuare l’awenturosità della loro vita precedente, vuoi per ragioni soggettive, vuoi per Firnpossibilità del reduce di tornare a dedicarsi ad un’attività costrut­ tiva 2. Al pari di altri che erano interessati al ruolo politico dei soldati reduci dal fronte, Posse trovava difficoltà a comprendere le loro reali motivazioni politiche. Essi era­ no «camerati», uomini comunitari, e quindi inclini alla «pace di classe»: per questo ci si poteva attendere che svolgessero un ruolo conservatore nella ricostruzione del­ la Germania. D ’altra parte essi erano abituati alla violen­ za e alla «gratificazione dei loro desideri», e quindi po­ tenzialmente arruolabili in qualsiasi tipo di avventura po­ 261

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litica, rivoluzionaria o reazionaria che fosse. Un’altra ver­ sione del veterano come «compagno» stava nella convin­ zione che i reduci dal fronte costituissero un «nuovo pro­ letariato» di socialisti «istintivi». Phillip Gibbs li vedeva sotto questa luce: con la guerra i soldati di linea avevano divorziato dalla società civile, mentre la smobilitazione li aveva restituiti al fondo della stessa società. Rappresen­ tavano un gruppo il cui malcontento assumeva valore universale poiché le sue sofferenze erano state inimmagi­ nabili; si trattava di uomini che non godevano più di un sicuro statuto civile e le cui convinzioni erano assolutamente opposte a quelle degli statisti che li avevano getta­ ti nelle fauci della guerra. La guerra rappresentava, per il reduce, una rottura fondamentale con il passato. Morì qualcos’altro al fronte oltre al fiore della gioventù e degli uomini tedeschi: morì il vecchio ordine del mondo, poiché gli individui che uscirono vivi da quel conflitto erano cambiati e votati a non tollerare un sistema di pensiero che aveva condotto a un tale mostmoso massacro di vite umane, di esseri umani che pure pregavano lo stesso Dio, amavano le stesse cose nella vita, e non nutrivano odio alcuno gli uni per altri, eccetto quando que­ sto fu attizzato dai loro governanti3. A differenza del proletariato tradizionale la truppa reduce era «altamente organizzata, disciplinata. . . ad­ destrata a combattere»4. I reduci avevano perfino con­ servato le loro armi, almeno in Germania: Moritz Liepmann, nel suo studio sul rapporto fra le statistiche cri­ minali di guerra e post-belliche, notò con preoccupazione che Pesercito in ritirata aveva «perduto» 1.895.052 fuci­ li, 8.452 mitragliatrici, e 4.000 mortai da trincea5. Era piuttosto comune imbattersi nella convinzione che il soldato proletarizzato, legato ai suoi camerati ed alienato nei confronti della società borghese, fosse un so­ cialista «istintivo». Secondo Hans Zehrer il soldato di linea era socialista «non perché capisca Marx, ma perché . . . sente più profondamente l’ingiustizia sociale e può così comprendere la giustificazione del rancore sociale che alligna nella classe operaia» 6. La truppa aveva appreso il 262

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socialismo non dai libri, ma dalla tragica struttura della guerra. La natura pratica della loro esperienza sociale da­ va all’opposizione dei soldati reduci nei confronti degli ordinamenti politici costituiti un peso morale ben diverso dalla critica degli intellettuali. Emilio Lussu, un socialista italiano e veterano di guerra, espresse questo giudizio verso i soldati italiani reduci: «I veterani erano filo-so­ cialisti non perché avessero familiarità con i classici del socialismo, ma per il loro profondo internazionalismo e la loro fame di terra»7. Anche Otto Braun, studente vo­ lontario, e poi allievo ufficiale, che cadde al fronte nel 1918, era convinto che gli uomini in trincea fossero di­ ventati socialisti. Ma egli — correttamente, penso — sottolineò la natura negativa, «reazionaria», di questo so­ cialismo. Qualsiasi inclinazione possa avere il soldato verso il sociali­ smo è, in ultima analisi, essenzialmente negativa. Egli è furibon­ do nei confronti della marcia società borghese, furibondo nei confronti degli imboscati, di fatto furibondo con tutto ciò che rimane in patria, dietro il fronte. Francamente non vedo alcun segno di idee politiche costruttive . . . [Quando i soldati ritorne­ ranno] . .. porteranno con sé una grande carica di conoscenza e consapevolezza di potere. Per guidare queste masse sui sentieri dell’attività produttiva, sarà necessario conoscere ed essere in grado di guidare la gigantesca massa di energia che li accompa­ gna 8. Braun apporta importanti chiarimenti alla caratteriz­ zazione della truppa reduce come nuovo proletariato di socialisti istintivi. È vero, la guerra aveva radicalmente separato il soldato dalla sua società d ’origine, generando in lui un profondo senso di rancore; questo rancore, questa rabbia, questa violenza, nascevano dal senso di essere vittima di una profonda ingiustizia. Ma l’esperien­ za di guerra non fornì a chi vi prese parte una nuova visione della comunità, sulla base della quale potere tra­ sformare positivamente gli assetti politici e sociali esi­ stenti. Per molti versi l’«esperienza del cameratismo» era identica all’atteggiamento anti-borghese del proletariato; ma la guerra, una «maestra silenziosa», non aveva dato ai 263

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combattenti un’ideologia che fornisse loro un terreno comune, una base che fosse in grado d ’attrarre gruppi sociali diversi. Il soldato di linea era privo di ideologie e ciò lo rendeva «silenzioso», uomo d ’azione e non di paro­ le. Se, come sostiene Braun, la guerra aveva fornito al soldato una consapevolezza del proprio potere, bisogna riconoscere che questa consapevolezza aveva poco in co­ mune con un potere politico: al contrario, era la consa­ pevolezza adeguata agli esecutori, agli strumenti del co­ mando, a uomini sopravvissuti come oggetti passivi e sofferenti della «volontà della guerra». Nel 1926 Ernst Jiinger fu tra coloro che esortarono i veterani ad as­ sumere parte attiva in politica. Ma quando si cerca di descrivere questo attivismo, esso appare poco più di una trasposizione del ruolo del soldato in guerra: in pace, così come in guerra, il soldato non era altro che lo stru­ mento di un destino misterioso, non specificato. Il concetto di potere può essere oggettivato solo nell’idea di un capo. Ma il grande leader non è ancora apparso. La sua apparizione equivale ad un evento di natura: non può essere data per scontata né influenzata da espediente alcuno. Preparare la strada a questo evento è, comunque, il compito preciso dei vete­ rani. Il compito consiste nel rimuovere i nostri dissensi, nel chiarire il nostro pensiero . .. e nel consolidarci in disciplinato strumento di potere con cui si possa lavorare9. Qui l’attivismo politico dei reduci è una sorta di in­ cantesimo politico, consistente in un processo di «au­ to-definizione» necessaria per attendere l’arrivo del re­ dentore. Il reduce dal fronte è un iniziato in un campo di forza che non ha, manifestamente, nessun’altra esigen­ za che di essere impiegato come strumento di qualche destino futuro: qui «potere» è un attributo d ’identità, e non la capacità di manipolare altri nell’arena politica per il perseguimento di un progetto preciso. Questa, insisteva Leopold Schwarzschild, direttore del giornale socialdemo­ cratico «Das Tagebuch» non era politica nel normale senso del termine. È chiaro che le concezioni marxiste sia del proletaria264

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to sia del socialismo dovettero essere distorte all’invero­ simile per abbracciare l ’arco di attitudini manifestate dai veterani reduci. Coloro che speravano che i soldati di linea sarebbero stati 1 avanguardia di un movimento rivo­ luzionario post-bellico si accorsero ben presto che la vita condotta dal soldato ai margini della società gli aveva impresso un insieme contraddittorio di motivazioni poli­ tiche. Le caratteristiche «socialistiche» convenzionali del­ l ’esperienza di guerra — l ’eguaglianza della truppa, il cameratismo, la proletarizzazione del soldato, l’uniformità delle condizioni di vita — furono prodotto dell’impoten­ za assoluta di fronte all’autorità e alla tecnologia. Il ca­ meratismo del fronte non era districabile dalla formula coniata da T. E. Lawrence: «Tranne che sotto costrizione non ci può essere eguaglianza fra gli uomini». Il soldato era un uomo che aveva vissuto per un periodo apparentemente senza fine al di là delle categorie sociali civili, al di là di qualsiasi distinzione di status che non fosse puramente formale e meccanica. L ’esperienza di vivere al di là delle classi, ma nella truppa, produsse un innegabile senso di cameratismo in coloro che la condivi­ sero; ma produsse anche l’incapacità di collegare l’espe­ rienza sociale della guerra con i problemi sociali e le questioni politiche della società post-bellica. Non c’è da sorprendersi che coloro che desideravano fare dell’espe­ rienza di guerra la base per un attacco contro l ’ordina­ mento borghese, liberale, ricorressero alle definizioni più contraddittorie: «nazionalismo rivoluzionario», «radicalconservatorismo», «nazional-socialismo». Queste auto-iden­ tificazioni non dovettero sembrare eccessivamente contrad­ dittorie ad uomini le cui identità erano state rimodellate da un’esperienza che, pur dando nuovo rilievo a con­ cezioni formalistiche e arcaiche dell’autorità, potè anche essere vissuta come una sorta di proletarizzazione milita­ rizzata, in cui gli uomini furono ridotti al ruolo di anonimi esecutori di meccanismi impersonali di distruzione. Ma il soldato di linea, subito dopo la fine della guer­ ra, si distinse molto di più nel ruolo di «uomo di violen­ za» che in quello di «camerata» e uomo comunitario. 265

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Come ebbe a osservare Gibbs, molti ex-soldati erano «aspri nei discorsi, violenti nei loro ragionamenti, tanto da spaventare». Willard Waller si trovò a parlare con alcuni reduci per le strade di Chicago nel 1919: egli rimase sconvolto dalT«intensità del loro rancore. Essi nutrivano rabbia verso qualcosa, anche se non era chiaro che cosa . . . Tuttavia non era possibile sbagliarsi: essi odiavano qualcuno per qualcosa» 10. Theodore Bartram, che tentò di organizzare i reduci in un partito politico, scoprì che ciò che essi avevano maggiormente in comune non era un’ideologia politica, ma un odio viscerale per i civili, un odio che egli condivideva: «Ti imbatti in came­ rati mutilati che mendicano sul Kurfurstendamm, e devi sforzarti per ricacciarti in gola la rabbia che provi per non potere rompere il muso al primo playboy che vedi» 11. Molti consideravano «irrazionali» la rabbia, il ranco­ re, e la violenza dei veterani: era evidente che la guerra avesse forzato una regressione dai livelli comportamentali civili. Alcuni veterani concordarono con questa conside­ razione, e riconobbero che in guerra essi e i loro camera­ ti erano stati decivilizzati e disacculturali. Henri de Man scrisse: La pura verità è che se io dovessi ubbidire al mio istinto animale — e c’era ben poco oltre a questo nelle trincee — mi arruolerei di nuovo in qualsiasi guerra futura, oppure prenderei parte a qualunque sorta di combattimento, semplicemente per provare ancora la brutale voluttà connessa al potere di privare della vita altri esseri umani che tentano di fare lo stesso nei tuoi confronti. Ciò che fu innanzitutto accettato come un dovere divenne un’abitudine, e Tabitudine . . . divenne una necessitàn. Non c’era alcun dubbio che i veterani rientrassero in patria violenti. Non è materia opinabile, congettura, o idea personale, bensì dato di fatto: dal 6 al 10 gennaio 1919, si ebbero manifestazioni, tafferugli e incidenti di massa che coinvolsero 10.000 reduci a Fokestone Camp, nel Surrey, mentre altri duemila soldati furono coinvolti in incidenti analoghi a Dover, e 8-9.000 a Bromley. Disor­ dini simili, sebbene meno gravi, si ebbero a Osterly e all’ae­ 266

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roporto di Ilford. Ancora in gennaio, 2.000 soldati — scaglioni dei reggimenti scelti della guardia — si ammu­ tinarono a Shoreham Camp; e nello stesso periodo Lord Byng fu inviato dal Ministero della Guerra per trattare con un «soviet» costituitosi fra i reparti d’artiglieria e circa 2.000 soldati di fanteria delle unità stanziate a Calais. Dal 7 al 10 marzo le truppe canadesi del Kinmel Camp a Ryl si ribellarono contro i loro ufficiali. Cinque uomini furono uccisi, ventitré feriti, e buona parte del­ l ’installazione incendiata: un ufficiale inviato dal Mini­ stero della Guerra per verificare la situazione si vide costretto a ricordare alle truppe, appena rientrate dalle Fiandre, una distinzione essenziale, e cioè che «è un omi­ cidio per canadesi uccidere canadesi» n. Il Times londine­ se definì gli scontri «i peggiori che si siano verificati in Inghilterra», insinuando che non doveva sorprendere un comportamento del genere da parte dei canadesi, che avevano goduto di cattiva reputazione per tutta la guer­ ra 14. Durante la cerimonia ufficiale del rientro delle trup­ pe canadesi a Montreal, la rabbia dei soldati si scaricò sui civili. Così Pierre Van Paassen descrive quegli avve­ nimenti: Rotte le righe . .. Migliaia di soldati si riversarono per la dttà, distruggendo tutti i cartelli o le insegne in lingua francese

che in co n trav an o , re q u ise n d o e d e v ian d o i tram . I cittad in i b lo c ­

cati su mezzi propri furono sbattuti fuori e costretti a cedere gli stessi mezzi ai veterani. I bastoni da passeggio, dono delle asso­ ciazioni civili patriottiche del Quebec, furono usati per sfasciare le vetrine dei negozi15. Nel giugno del 1919, i «disordini kaki» raggiunsero il loro apice in Inghilterra. Nel corso di quel mese 1.500 soldati del corpo di Allenby si ammutinarono a Plymou­ th; soldati canadesi spararono ancora sui loro ufficiali di Kinmel Camp; da quattro a cinquecento soldati canadesi incendiarono la stazione di polizia a Epsom, uccidendo un poliziotto. Nel Surrey, a Sutton Camp, si ribellarono tre reggimenti e fu necessario l’invio di due battaglioni e una compagnia di mitraglieri per riportare l’ordine. In 267

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quest’ultimo caso furono arrestati 400 rivoltosi, e 1.800 furono aggregati ad altri depositi. La maggior parte di questi disordini e ammutinamenti fu causata dall’impa­ zienza delle truppe di ottenere il congedo, un’impazienza frustrata dalla politica governativa inglese di congedare subito solo quei soldati che avessero sicure offerte d’im­ piego 16. Nell’inverno del 1919 questo progetto fu abban­ donato; ma in primavera e in estate la violenza dei vete­ rani si rovesciò sempre maggiormente su bersagli civili. Carrington descrive la battaglia fra civili e soldati che si svolse, quale spiacevole fuori programma, nel corso delle parate del Giorno della Vittoria (19 luglio) a Glasgow, Coventry, Epsom, e Lutton. A Lutton i reduci appicca­ rono fuoco al municipio, e dalle nove di sera fino all’alba combatterono contro polizia e vigili del fuoco che tenta­ vano di spegnere l ’incendio: il Giorno della Vittoria co­ stò cento vittime a Lutton, e questi disordini rappresen­ tarono «una delle rotture più pericolose della storia in­ glese moderna, sebbene siano passati sotto silenzio» 17. Al processo dei capi della rivolta, il pubblico ministero pas­ sò sotto silenzio nella sua arringa i quattro anni di guer­ ra, ascrivendo i disordini al «Bolscevismo, all’anarchia, alla ubriachezza e all’animalità» 18. Anche gli Stati Uniti, il paese meno colpito dalla guerra, non furono immuni dalla violenza dei veterani: questi attaccarono comizi so­ cialisti a New York e furono in prima fila nei disordini razziali di St. Louis nel 1919. Il 6 aprile del 1919 un soviet di reduci affiliato all’I.W.W. si batté contro la polizia per le strade di Tacoma, Washington, e pochi giorni dopo incidenti analoghi scoppiarono a Seattle. A cominciare dal 28 maggio, i veterani percorsero in «pat­ tuglie» il campus di Yale, ferendo un centinaio di stu­ denti e danneggiando pressoché tutti gli edifici; i disor­ dini, iniziati dopo che gli studenti ebbero dileggiato i veterani che sfilavano davanti ai loro dormitori, termina­ rono solo con l’arrivo del 102° fanteria e della guardia nazionale. La violenza del veterano era comunemente considera­ ta come «espressione» della sua estraneazione dalle nor268

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me sociali, e della sua abitudine alla pratica della violen­ za: era cioè diretta conseguenza dell’avere vissuto in un ambiente in cui assumevano valore soltanto «gli istinti animali originari». Oppure, questa inclinazione alla vio­ lenza poteva essere vista in termini faustiani, e il vetera­ no veniva considerato un uomo d’«azione» più che di parole; come insisteva Schauwecker, «chiunque ritorni dal fronte è silenzioso. Egli passa da un universo domi­ nato dall’azione ad un universo in cui la parola è tut­ to» 19. In questo contesto la violenza del veterano potè essere vista come ripudio della politica borghese effemi­ nata, e dell’«aria fritta» in cui la politica era normalmen­ te condotta. Di fatto, la tendenza generale fu di conside­ rare la violenza dei veterani come «espressione» di se stessi ovvero come «manifestazione» di aggressività re­ pressa. Ma è meglio dare uno sguardo ai termini in cui gli stessi veterani definivano le proprie azioni. Molti di loro erano convinti di essere stati, come gruppo, vittime di un’ingiustizia, e che con la loro violenza essi si «ven­ dicassero» contro la società civile per l’ingiustizia patita. I governi e i civili avevano trasgredito le «regole non scritte» che garantivano lo status del soldato in guerra e mantenevano il suo ruolo sociale. La violenza dei vetera­ ni deve essere compresa nel contesto di questa mutualità del sacrificio che definisce i rapporti fra il fronte e l’am­ biente civile in patria: fu l’infrazione di questa mutualità che più di ogni altra cosa diede ai veterani la coscienza di se stessi come gruppo sfruttato e umiliato. L'economia del sacrificio e il suo collasso Il cittadino-soldato è sempre stato una figura centrale in quella che potrebbe essere chiamata un’«economia del­ la colpa sociale» e del sacrificio pubblico. Egli è creditore di un «debito di sangue» nei confronti della società che ha difeso, e può legittimamente chiedere il saldo sia per i il «sacrificio di se stesso» sia per quello dei suoi camerati caduti. Oggettivamente la guerra può essere vista alla 269

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maniera di Gaston Bouthoul — un modo per risolvere problemi demografici generati dall’eccedenza di giovani — e tuttavia questo non spiega, chiaramente, perché i giovani vadano in guerra. Anche lo scambio dei ruoli richiesto al cittadino-soldato è comunemente compreso nel linguaggio del sacrificio; qui il sacrificio è essenzial­ mente lo scambio, forse il paradigma stesso dello scam­ bio. Nell’ambito delle ideologie nazionali che dominavano nel 1914, il civile scambiava il suo io privato e il proprio interesse personale per un’identità pubblica e comunitaria rappresentata dall’uniforme; per questa temporanea per­ dita della propria identità, il soldato poteva chiedere un compenso sotto forma di onori, prestigio, o ricompense monetarie. È facile vedere come il linguaggio che impone l ’onere del «sacrificio di sé» a carico dei figli, in nome della salvezza della patria, sia in sintonia con il normale esito della situazione edipica, in cui il bambino è costret­ to ad accettare il fallimento delle proprie ambizioni ses­ suali allo scopo di mantenere la struttura della fami­ glia. Ma non è tanto l’economia del sacrificio quanto la sua infrazione che crea la rabbia, il senso d ’ingiustizia, e l ’ambiguità di status che caratterizzarono i veterani della prima guerra mondiale. L ’infrazione fu esperita come la frammentazione del nesso morale fra fronte e patria, il nesso che rendeva la sofferenza e la morte al fronte comprensibili in termini di preservazione di un’entità su­ periore, la «nazione», la patria. L ’«estraneazione» fra fronte e patria fu il fattore più significativo nell’intensificarsi dell’identificazione con il «fronte» da parte del sol­ dato, nell’effettuazione del passaggio dal «cameratismo» del fronte a quel campo d ’«internamento mentale» da cui uomini come Charles Carrington non poterono sortire fi­ no agli anni Trenta. Nel 1914, l ’ideologia nazionalistica fornì il paradigma che fece dello scambio del ruolo privato con quello pub­ blico qualcosa di intelligibile in termini di «liberazione» dalle contraddizioni sociali. Nell’agosto 1914 era convin­ zione comune che la «società» — un coacervo di interes270

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si in competizione — fosse divenuta una «comunità» in grado di unificare i differenti interessi privati in un de­ stino comune. Il volontario era colui che impersonificava questa trasformazione, poiché era Pindividuo che fondeva volontariamente il proprio io privato nella persona collet­ tiva nazionale. Nel linguaggio d'epoca il volontario era motivato dal suo Opferbereitschaft, il suo spirito di sa­ crificio per la realizzazione del destino immediato, comu­ nitario, della nazione. Questo era più che un semplice modo di dire: furono in molti ad esperire l’inizio della guerra come dissoluzione della propria identità personale, come trascendenza del privato, come rottura delle barrie­ re che preservavano il loro egoismo sociale. In agosto, la morte civile del soldato, la sua «estra­ neazione» dalla società, furono suffragate dal senso che la società e il mercato dei ruoli fossero rimpiazzati dai valo­ ri della comunità. Ma Patteggiamento del soldato verso la nazione e verso il proprio status pubblico mutò significa­ tivamente dopo che egli fu penetrato nel labirinto delle trincee: qui la liberazione dalla società borghese cominciò ad essere vista come morte, abbandono, come un distacco dalla vita. Gotthold von Roden, un giovane volontario tedesco, sentiva che egli e i suoi camerati erano come estraniati dalla «gente e dalle cose del passato», e che questa estraneazione creava una situazione in cui «la morte non era più vista come doloroso distacco dal no­ stro passato»: ciò che all'inizio fu provato come libera­ zione dall'ambiente domestico, cominciava ad essere espe­ rita come perdita dei legami con la patria. Ma il fattore più significativo che concorse alla rab­ bia e all'amarezza dei veterani, fu l'accorgersi che in quattro anni di guerra la «nazione» del 1914 era tornata ad essere un mercato di ruoli e status. La patria, ove si conducevano «affari come al solito», non era più una comunità: con questa percezione — data a molti soldati in licenza o in convalescenza per ferite — l'esperienza di guerra finì per essere comprensibile solo nei termini clas­ sici di ingiustizia sociale. Quelli a casa non mancavano di perseguire «ogni piacere possibile», giustificando le loro 271

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comodità e la loro sicurezza sulla base della loro indi­ spensabilità economica o sociale. Questo poteva solo si­ gnificare che gli «eroi al fronte» fossero fondamental­ mente superflui in patria, e il declassamento del loro sta­ to era regolarmente confermato dalle condizioni effettive di quella guerra — gli assalti inutili, senza fine, la co­ stante attesa di una morte casuale e priva di significato. Ma più sovente era l ’incontro con il «pescecane» che recideva in maniera definitiva il legame morale fra fronte e patria, facendo crollare quell’economia del sacrificio che avrebbe dovuto definire il rapporto fra combattente e non-combattente. Il pescecane era il simbolo di coloro che incrementavano il mezzo di scambio — il sangue — per il loro personale profitto. Ma, fatto ancor più impor­ tante, era una figura che grazie alla guerra saliva pure di status: e questa ascesa rendeva impossibile per il soldato al fronte ignorare la possibilità che il proprio «auto-sacri­ ficio» fosse una reale, forse irrecuperabile, perdita sociale ed economica. Franz Schauwecker incontrò un pescecane in un ristorante, nel corso della sua ultima licenza prima della fine della guerra. Egli descrive l’arricchito come un uomo dal «volto grossolano e dall’espressione indifferente senza segno alcuno d’attività mentale, la carnagione flac­ cida, le mani grassocce» e indossante vestiti alla moda, nonché gioielli. Dopo avere individuato il tipo, Schau­ wecker coglie molti dei «ricchi di guerra» che dirigono le loro attenzioni su «giovani donne raffinate», e in tono estremamente laconico conclude: «Ci si sente estranei al proprio paese. Meglio andarsene. Andarsene, vale a dire, tornare al fronte» 20. Anche Siegfried Sassoon incontra il pescecane in un ristorante; lo incontra a Liverpool anzi­ ché a Berlino, ma l’impressione che ne riporta è presso­ ché identica a quella di Schauwecker: «Nella sala da pranzo cominciai ad osservare alcuni non-combattenti che sembravano usciti molto bene dalla guerra. Era gente il cui volto mancava di nobiltà, benché ordinasse aragoste e sigari colossali» 21. Sia per Sassoon che per Schauwecker, il primo membro della gentry inglese, il secondo figlio di un alto272

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locato funzionario dell’amministrazione imperiale tedesca, rincontro con il pescecane genera la scansione della loro esperienza di guerra in una nuova ottica morale ed ideo­ logica. Non solo la guerra al fronte ingrassa chi sta a casa, non solo il combattente soffre di una verticale di­ minuzione di status da «rappresentante armato della na­ zione» a «manovale della morte», ma può anche succede­ re che non esista più alcuna collocazione in cui il soldato possa essere reinserito una volta terminata la guerra. Inequivocabilmente il pescecane testimonia della conver­ sione delPeconomia del sacrificio a un mercato in cui lo status sociale viene negoziato insieme con le cambiali. Questo incontro precipita la protesta di Sassoon contro la guerra, una protesta che, di fatto, è contro l’ambiente civile, contro la patria. A nome di tutti coloro che in questo momento stanno sof­ frendo, elevo questa protesta contro l’inganno ordito nei loro confronti; inoltre, io penso di poter così concorrere a distruggere la stolida compiacenza con cui la maggior parte della gente in patria guarda al proseguimento di questa agonia cui non parteci­ pa, e di cui non riesce a immaginare neppure lontanamente l’a­ trocità 22. Dopo quattro anni di guerra era divenuto abbondan­ temente chiaro che, nello scendere in campo, il soldato non si era sottratto alle contraddizioni della società capi­ talistica. Al fronte, e anche a casa, molti si resero conto che la guerra sintetizzava la contraddizione di un’«economia individualistica, finalizzata al profitto», che sussi­ steva, pur nell’ambito dell’«incondizionata solidarietà del­ la gente». La società capitalistica non aveva cessato di essere tale per virtù della guerra, nonostante l’iniziale soverchiarne senso comunitario che l ’accompagnò: fu questa la massima delusione per tanti che avevano credu­ to che la guerra potesse condurre ad una trasformazione spirituale collettiva. Nelle trincee, e nelle numerose occa­ sioni d ’incontro con l’ambiente di casa, apparve evidente come l’economia di sacrificio e di sangue fosse stata as­ sorbita nel mercato di merci, capitali, e lavoro. 273

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L ’avventura del soldato oltre i confini della sua pa­ tria portava a un luogo dove le contraddizioni della so­ cietà capitalistica, industriale, erano maggiormente con­ centrate. Era l’avventura nel luogo dove le ineguaglianze di ricchezza e status si trasformavano in ineguaglianze di sacrificio e sofferenza. Nel corso dei lunghi anni di guer­ ra la differenza fra fronte e patria divenne la differenza fra coloro che continuavano a vivere, e a vivere bene, e coloro che quotidianamente vivevano la condizione di og­ getti di una morte casuale e priva di significato. Le dure sofferenze dei civili, particolarmente in Germania durante l’«inverno delle rape», non poterono cancellare l’immagi­ ne del pescecane, del playboy, di coloro che non avevano sacrificato nulla. Non c’è dunque da sorprendersi che dopo la fine del­ la guerra i gruppi di veterani si organizzassero attorno a richieste di risarcimento, e che la violenza dei veterani fosse uno degli argomenti più convincenti perché la so­ cietà si decidesse a ricompensare il soldato delle sue per­ dite. Sulla prima copia del Bulletin della «Federazione nazionale marinai e soldati congedati e smobilitati», le ingiustizie sociali della guerra apparivano tradotte nei classici termini di sfruttamento. Il reduce guarda la Gran Bretagna, il paese che egli ha «salvato», . . . e vi trova molto che non merita di essere salvato... La ricchezza è ancora sottratta ad ogni controllo . . . Così, egli pensa, se la mia pelle fu coscritta per salvare questa ricchezza, perché non dovrebbe essere coscritta di nuovo per salvare la mia vita e quella dei familiari di coloro che sono caduti per salvarla? Natu­ ralmente questo è molto rivoluzionario. Suona indelicato alle orecchie di chi non ha perso nulla in questa guerra: e così questa gente cerca di imbonire il reduce — in questo caso, spendendo un milione di sterline in circoli, ciambelle e biliardi23. Le organizzazioni post-belliche dei veterani tentarono di coniugare la consapevolezza dell’ingiustizia subita con richieste d’ordine politico ed economico: la richiesta di ricompensa fu il terreno su cui gli ex-soldati e i civili negoziarono le loro differenze. E comunque ciò non ba­ stava a coprire la profondità e la soggettività dell’ingiu274

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stizia che tanti patirono in guerra, e che si manifestava anche nelle più innocenti richieste dei reduci. Così Ralph Perry, un veterano americano, giustificava la richiesta del premio di servizio nei termini più soggettivi: questo premio non era richiesto perché il veterano se lo fosse «guadagnato», ma perché era innanzitutto una «rivalsa» contro la patria, e quindi una «prova» dell’amore e delPaffetto della patria per coloro che erano usciti umiliati dalla guerra. È importante tenere presente che agli occhi del veterano il premio di servizio è un riconoscimento per l’ingiustizia patita. Il veterano considera il premio come una questione morale, un ban­ co di prova per determinare il sentimento della nazione nei con­ fronti di coloro che abbandonarono le loro occupazioni private per accorrere all’emergenza nazionale24. La questione del premio di servizio rappresentò per la società la scappatoia per risolvere le ambiguità sociali e psicologiche della figura del reduce nella realtà post­ bellica. Questo senso di ambiguità di status può essere visto anche in quella che venne considerata come la ca­ ratteristica dominante del veterano della prima guerra mondiale: il silenzio. Walter Benjamin osservò: «Non è degno di nota che alla fine della guerra i soldati tornas­ sero dai campi di battaglia in silenzio — non arricchiti, ma impoveriti nella facoltà di comunicare l ’esperienza vissuta? Ciò che dieci anni più tardi sarebbe apparso in fiumi di libri sulla guerra non era nient’altro che espe­ rienza che si tentava di comunicare» 25. Benjamin attri­ buiva il silenzio del veterano alla contraddittorietà della sua esperienza, perché «mai esperienza fu contraddetta più completamente di quanto sia stata la pratica strategi­ ca dalla guerra di posizione . . . o la mobilità fisica dalla guerra di materiali»26. Hemingway riconobbe che l’espe­ rienza di guerra aveva vanificato tutti i termini che ave­ vano fino allora definito lo statuto superiore del soldato. Forse il significato più doloroso era assunto ora dal ter­ mine «sacrificio». 275

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Da un pezzo ormai... non avevo più visto niente di sacro, e le cose gloriose non avevano gloria e i sacrifici erano come i macelli a Chicago se con la carne non si faceva altro che seppel­ lirla. C'erano molte parole che non si riusciva ad ascoltare e si finiva che soltanto i nomi dei luoghi avevano dignità27. Particolarmente sulle labbra dei civili, parole come «onore», «sacrificio», «dovere», divennero insopportabili conferme del fatto che nulla fosse cambiato. Queste paro­ le illuminavano di luce fin troppo vivida la condizione di vittime di quelli al fronte: e un amaro silenzio fu Punico espediente per uomini che non desideravano ratificare la propria mortificazione, né sollevare quelli in patria dalla loro colpa putativa. Il carattere tradizionale del guerriero come uomo che abbia vissuto ai margini della società, come essere ex­ tra-sociale, mezzo uomo, mezza bestia, ha un preciso si­ gnificato nelle società tradizionali dove lo status è fissato da legge, consuetudine, e rituale; ma la marginalizzazione «temporanea» di milioni di uomini significa tutt’altra co­ sa nelle società industriali dove lo status non è fisso, ma è premio per il successo conseguito nella competizione per la ricchezza. In una società in cui ciascuno conduce «affari, come al solito» coloro che sono esterni al merca­ to dello status patiscono una perdita netta del loro po­ sto: diventa quindi impossibile per il soldato reintegrare se stesso in società senza esperire quotidianamente la realtà della perdita subita. Ho sostenuto nel corso di tutto questo studio resi­ stenza di una particolare struttura per mezzo della quale gli europei lessero il rapporto fra pace e guerra. Questa struttura, che si manifesta nelle ideologie della guerra nazionale, possiede anche un livello soggettivo, nel senso che fornisce ai combattenti una particolare concezione di se stessi e un senso specifico del valore della loro soffe­ renza e della loro morte. Possiamo vedere questa struttu­ ra con massima chiarezza nel suo collasso sul fronte occi­ dentale, e possiamo considerarne la realtà soggettiva nelle conseguenze psichiche di questo collasso. 276

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L ’interiorizzazione della guerra L ’«alterità» della guerra si estinse nelle battaglie di materiali, e con essa tutto ciò che fino allora aveva defi­ nito il significato del sacrificio di sé del soldato. Ora la guerra poteva essere esperita solo come proletarizzazione, Tunico valore positivo della quale era il «cameratismo»: ma nella maggior parte dei casi questo cameratismo altro non era che il senso di dover condividere, in comune, lo status di vittime impotenti. Gli effetti psichici del crollo dell’economia del sacrificio possono essere visti nei tenta­ tivi dei soldati di sviluppare un’identità dalla guerra stes­ sa e di trovare una «patria» al fronte. Questa fu la risposta di Franz Schauwecker. Era me­ glio «tornarsene là», nel mondo isolato, abbandonato, tagliato fuori: al fronte. Dopo avere inoltrato la sua pro­ testa contro l’ambiente civile in patria, dopo avere tra­ scorso un periodo di terapia presso il Craiglockhart Ho­ spital per vittime di traumi da esplosione, ed avere di nuovo raggiunto la propria unità, Sassoon prese a cercare in questa, con sempre maggiore intensità, il proprio so­ stegno affettivo. Deluso dalla «stolida compiacenza» della maggior parte dei civili in patria, il battaglione divenne l’unico luogo dove potesse trovare un valido riscontro morale. Eppure questo rivolgersi al fronte e ai propri camera­ ti in sostituzione della patria perduta doveva avere con­ seguenze psicologiche disastrose. L ’unità era un’entità instabile, continuamente decimata dal fuoco; le vecchie facce familiari erano rimpiazzate in continuazione da nuove, estranee. Identificarsi con il battaglione in guerra e con la ristretta cerchia dei propri camerati doveva apri­ re un’ampia e vertiginosa spirale emotiva, e cominciare ad assumere le sembianze di un lutto senza fine. Sassoon trascorse il suo ultimo anno di guerra nello sforzo di mantenere legami costantemente spezzati con amici e ca­ merati. Avevo perso la mia fede nella guerra... e non restava altro 277

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che credere nello «spirito di battaglione». Spirito di battaglione significava vivere trovandosi a proprio agio con ufficiali e sottuf­ ficiali . . . Ma nei meandri della guerra ebbi modo di scoprire la labilità di questi legami. Una sera potevamo trovarci tutti insieme a far baldoria a Corbie. .. e nel giro di una settimana una sola mitragliatrice o qualche granata potevano avere spazzato via del tutto questo quadretto . .. E ora, una cortina d’acciaio scendeva fra aprile e maggio; una volta dissipatasi, se mi fosse andata fatta bene, mi sarei incontrato con i soprawissud, e avremmo ricominciato a unire le nostre misere umanità ancora una vol­ ta28. In guerra sono ovvi i rischi psichici connessi all’iden­ tificazione con gli uomini della propria unità, eppure era questa una reazione pressoché necessaria data la cesura effettiva rispetto alPambiente in patria. Questa identifi­ cazione permetteva di leggere la morte di ogni camerata come perdita di una parte di se stessi. La morte di un amico non poteva più essere giustificata con la consola­ zione che questa perdita preservasse la vita della società intera: ogni scomparsa poteva essere compensata ormai solo dall’intensificazione dei legami con chi rimaneva, e ciò assicurava che la successiva, inevitabile perdita avreb­ be significato un'ancor più dura, ancor meno sopportabi­ le estinzione di se stessi. Alla fine di questo processo la propria stessa morte poteva essere bene accolta come so­ luzione di un intollerabile, continuo stato di perdita lut­ tuosa. Come sottolineava Freud nell'analisi del lutto che stese durante la guerra: «Il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata o di un’astra­ zione che ne ha preso il posto, la patria ad esempio, o la libertà, o un ideale o così via» 29. La perdita della patria fu la perdita di uno di tali «sostituti» d’amore, e indusse alla ricerca di un rimpiazzo fra le «labili individualità» del fronte. Come insisteva Schauwecker, «il fronte è di­ ventato la nostra patria», e nel 1918 ciò era vero in due sensi. Il fronte era l'unico rifugio disponibile per uomini costantemente al cospetto delle conseguenze della loro perdita di status: e questa patria psichica, defraudata na­ zione di vittime, si trovava ora di fronte a una Germania che, con la rivoluzione, aveva pagato per il proprio tra278

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dimento morale nei confronti dei soldati. L ’interiorizzazione della guerra comincia con la perdi­ ta dell’astrazione che «ha preso il posto» dell’oggetto d ’amore. Il sostituto di questa astrazione, la «patria», la «nazione», divenne il fronte, divennero i propri camerati. Ma questa reazione narcisistica alla perdita della patria, una reazione che consistette nell’assumere a livello dell’io la ristretta cerchia dei propri camerati, causò immanca­ bilmente una «fissazione» sul morto e il vivente, un in­ sieme di identificazioni che perdurarono in tempo di pa­ ce. Il cordoglio dei soldati per i morti, la «timorosa sog­ gezione» dei sopravvissuti nei confronti dei fantasmi dei «camerati caduti», fu ribadito e rafforzato nelle parate, nelle commemorazioni, nelle cerimonie, e nelle canzoni delle associazioni dei veterani. La funzione non meno importante di questi gruppi era quella di associazione fu­ nebre che organizzava sia la celebrazione dei morti sia il movimento di rivendicazione nei confronti della patria. Le vittime di guerra divennero le figure centrali del culto della sofferenza e del sacrificio di sé. I morti divennero simbolo obbligato per i sopravvissuti, un simbolo che rappresentava perfettamente quella che già era stata la situazione di totale insicurezza e vulnerabilità del soldato 30. Questo cordoglio organizzato, al pari della rimozione della esperienza di guerra, rappresentò il modo più co­ mune in cui la guerra continuò a definire l’identità dei combattenti. Molto più pericolosa fu la reazione di coloro che aderirono alle leghe combattentistiche di destra in Germania, Italia, e Francia: era dunque possibile per il veterano prendere atto dell’offesa psichica e morale rice­ vuta, accettarla come segno distintivo, affermare la pro­ pria precarietà sociale come stato permanente, e organiz­ zare questa ambiguità di status in un gioco di estorsione politica e sociale. Questa era la reazione che più spaven­ tava Erich Weniger, il quale disperava di coloro che «rimangono ancora, seppure giovani, come veterani, dal­ l’altra parte della vita quotidiana»31. Molti reduci ritua­ lizzarono il loro status liminare, la loro posizione a metà fra il fronte e la patria. Nel Anderson trovò un gran 279

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numero di veterani fra i «senza-patria» di Chicago, uo­ mini che «sfruttavano» la propria esperienza di guerra per mantenersi alla periferia della società. Friedrich Sieburg — uno dei molti giovani ufficiali che lasciarono l ’esercito per unirsi al corpo di irregolari che combatteva nelle regioni baltiche — ammise di avere abbracciato il proprio status di individuo marginalizzato per sfruttare le libertà che questo gli permetteva. Non voglio più tornare a casa; mi piacerebbe vivere la vita lungo questa strada, scrutando il cielo, misurando il mondo per coordinate geometriche e settori di combattimento divisionali, va­ lutando le ore del giorno sull’intensità del fuoco d’artiglieria . . . La mia Germania comincia dove balenano le fiamme deila batta­ glia e termina al capolinea del treno per Colonia. Non posso tornare a casa e riprendere la vecchia vita32. La prima guerra mondiale fu il primo olocausto, de­ stinato a ripetersi ancora nel corso del ventesimo secolo, ancora su scala di massa, ancora senza scopo o significato evidenti. Coloro che avevano interiorizzato la guerra, la sua peculiare relazione fra vittima e carnefice, la liminarità che essa imponeva ai combattenti, furono destinati a svolgere un ruolo importante in questa sua ripetizione. Furono infatti tanti quelli che non riuscirono a risolvere Fambiguità connessa alla loro identità di guerra, né a riprendere il loro posto nella società civile senza ricono­ scere nel contempo il proprio statuto di vittime. Friedri­ ch Wilhelm Heinz, un veterano che sarebbe poi divenuto Gruppenfuhrer delle S. A., sosteneva che la guerra non fosse terminata nel 1918. Quella gente ci raccontava che la guerra era finita. Ci scap­ pava da ridere. Noi stessi siamo la guerra: la sua fiamma arde forte in noi. Essa avviluppa tutto il nostro essere e ci affascina con l’impellente richiamo alla distruzione. Noi obbedimmo ... e prendemmo a marciare sui campi di battaglia del mondo post-bel­ lico proprio come eravamo scesi in battaglia sul fronte occidenta­ le33. La comunità del fronte era formata da questi indivi­ dui, sradicati dalla loro matrice sociale per servire come 280

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strumenti nella difesa dell’ordine stabilito. Nel corso di questa difesa molti scoprirono la non difendibilità di quest’ordine: nell’esperienza di guerra la «patria» diven­ ne più estranea di qualsiasi nemico, e l’ipocrisia di coloro che strumentalizzarono il soldato si manifestò ripetutamente, durante e dopo l’adempimento del proprio dovere da parte di quest’ultimo. Nessun «rito di riaggregazione» potè cancellare la memoria della totale impotenza di fronte all’autorità e alla tecnologia; nessuna conclusione cerimoniale della guerra potè restaurare le continuità cui essa aveva posto fine, o ridare vita a quegli «ideali» che erano andati smarriti nel labirinto di trincee.

Note 1 E . von Salomon, Heimkebr, in Die Front kehrt Heim. Das Reich im Werden, voi. V, Frankfurt a/M., 1933, p. 34. 2 E. H. Posse, Die politiscbe Kampfbunde Deutschlands, nella col­ lana Fachschriften zur Politik und Staatsbùrgerlichen Erziehung, a cura di E. von Hippel, Berlin, 1931, p. 5. 3 Ph. Gibbs, Now It Can Be Told, New York, 1920, p. 44. 4 Ibidem, p. 515. 5 M. Liepmann, Krieg und Kriminalitàt in Deutschland, voi. V: Wirtscbafts- und Soziaigeschichte des Weltkrieges. Deutsche Serie. Camegie Foundation for World Peace, a cura di J. Shottwell, Stuttgart, 1930, p. 38. 6 Gtato in H.-P. Schwarz, Der Konservative Anarchisty Frieburg-im-Breisgau, 1962, p. 77. 7 Gtato in M. A. Ledeen, Italy: War as a Style of Life, in The War Generation, a cura di S. Ward, Port Washington, New YorkLondon, 1975, p. 108. 8 O. Braun, Diaryy a cura di J. Braun, London, 1924, p. 171. 9 E. Jiinger, Wesen des Frontsoldatentums, in «Standarte». 10 W. Waller, The Veteran Comes Back, New York, 1944, p. 95. 11 Th. Bartram, Der Frontsoldat. Ein Deutsches Kultur und Lebensideal, Berlin-Tempelhof, 1934, pp. 5-6. Si tratta di una ristampa di discorsi tenuti nel 1919. 12 H. de Man, European Unrest and thè Returned Soldier, in «Scribners Magazine», LXVI (1919), p. 437. 13 «Times» (London), 8 marzo 1919, p. llb . 14 Ibidem.

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15 P. Van Paassen, Days of Our Years, New York, 1934, p. 98. 16 Vedi Ministry of Reconstruction. Committee on thè Demobilization of thè Army, lst and 2nd Interim Reporty London, 1917. 17 C. Edmunds (C. E. Carrington), Soldiers from thè War Returning, London, 1965, p. 276. 18 «Times» (London), 31 luglio 1919, p. llb . 19 F. Schauwecker, Im Todesrache. Die deutsche Seele in Weltkrieg, Halle (Salle), 1921, p. 52. 20 Ibidem, p. 123. 21 S. Sassoon, Memoirs of George Sherston, New York, 1937, p. 150. 22 Citato in R. Graves, Goodbye to All That, London, 1929, p. 260. 23 National Federation of Discharged and Demobilized Sailors and Soldiers, Leaflet Series, n. 1. 24 R. R. Perry, The Bonus. A Veterani Opinion, in «Outlook» CXXVIII (1921), pp. 512-513. 25 W. Benjamin, Illuminatonen, Frankfurt a/M., 1961, p. 410. 26 Ibidem. 27 E. Hemingway, A Farewell to Armsy New York, 1929; trad. it., Addio alle armi, Milano, Mondadori, p. 195. 28 S. Sassoon, Memoirs of George Sherston, dt., pp. 195-196. 29 S. Freud, Trauer und Melancholie (1917); trad. it., Lutto e melanconia, in S. Freud, Opere, voi. V ili, Milano, Boringhieri, 1976, pp. 102-103. 30 Per un’eccellente analisi delle cerimonie commemorative in Franda, vedi A. Prost, Les Anciens Combattants et la Société Frangaise, 1914-1939, voi. I l i: Mentalités et Ideologies, Paris, 1977, capp. I e IL 31 E. Weniger, Das Bild des Krieges. Erlebnis, Erinnerungen, Uberlieferung, in «Die Erziehung. Monatschrift fiir den Zusammenhang von Kultur u. Erziehung», V (1929), n. 1, p. 5. 32 Citato in H. Schulze, Freikorps und Republik, Boppard-am-Rhein, 1969, p. 56. 33 Citato in R.D.L. Waite, Vanguard of Nazism, Cambridge (Mass.), 1952, p. 41.

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Tbe

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301

Indice

Indice

Prefazione I.

La struttura dell'esperienza di guerra

p

5 9

Le discontinuità della guerra. - La liminarità della guerra. - L'evento come testo. IL

La comunità d'agosto e la fuga dal moderno

59

La logica comunitaria nel 1914. - La fuga dal mo­ derno. - Conclusione: il persistere delle aspettative. III. Il labirinto della guerra e le sue realtà

103

e disil­ lusione: il volontario e l'operaio. - La realtà tat­ tica del caos. - La personalità difensiva.

Esperienza, rito, metafora. - Classe sociale

IV. Mito e guerra moderna

157

Mito e realtà. - La frammentazione della coscienza visiva e la fantasia del volo. - Guerra sottoterra. Ernst Jiinger e il mito della macchina. V.

Un’uscita dal labirinto: guerra e nevrosi

217

Guerra industrializzata e nevrosi. - La politica della nevrosi. - La terapia disciplinare e l'inqua­ dramento morale della nevrosi. - Il trattamento ana­ litico. - Immobilismo, nevrosi, regressione. - La nevrosi di guerra nella società post-bellica. VI. Il veterano tra fronte e patria

257

Cameratismo e violenza. - L'economia del sacrificio e il suo collasso. - L'interiorizzazione della guerra. Bibliografia

285 305

Finito di stampare nel giugno 1985 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali S.r.l., Urbino

Fra il 1914 e il 1918 la «grande guerra» ha prodotto mutamenti profondi su ogni piano: politico, economico, sociale, culturale, il mondo è uscito dalla grande guerra profondamente mutato, il mondo, e la gente: a cominciare da chi ha vissuto più direttamente l’esperienza bellica. li soldato della grande guerra, costret­ to per la prima volta del predominio della tecnologia a una guerra prolungata e statica, ch'uso in opposte trincee divise da quella che proprio al'ora inizia ao essere chiamata «Terra di nessuno», vede frantumarsi l’identità del proprio io nelle ombre di un imma­ ginario destinato ad avere pesanti ripercussioni mi dopoguerra. All’interno cella premia personalità si viene a formare un vuote, una sorta di «Terra di nessuno» psicologica e le urighe ore tra­ scorse in tr’ncea fanno nascere nevrosi, sentimenti di claustrofo­ bia e fantasie di «voto» che ridanno forza al mito di Icaro: per il soldato recluso nei sottosuolo l’aviatore diviene proprio colui che può dominare il teatro di guerra, facendosene spettatore privile­ giato. !l volume di Leed oropone una storia diversa deiia grande guerra, studiata attra' orso gli uomini che vi presero parte; a tale scopo fautore si è servito degli apporti dell’antropologia, della sociologia e della psicologia, accentrando l’attenzione suile testi­ monianze più introspettive e analitiche, sulle memorie dei com ­ battenti. Viene così a costituirsi una sorte di contrappunto ai vo­ lume di Fussoll «La grande guerra e .a memoria moderna», che iì Mulino ha pubblicato di recente. S e si era pensato alla guerra come risolutrice di contraddizioni, secondo Leed queste ultime continuarono invece a sopravvivere in altre feerie rei miti, nelle fantasie, nella psicologia del combattente, e in una misura tale da influenzare la storia europea degli anni Venti e Trenta. Eric J. Leed è docente di storia nella Florida International University. .

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