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Italian Pages 294 Year 2017
A Marta, la mia spalla… su cui ridere
INDICE
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Premessa 1. Visione introduttiva d’insieme 1. Traducibilità delle lingue: la diatriba tra universalisti e relativisti 2. Il concetto di “traduzione” e di “retrovertibilità” 3. Teoria della traduzione: la nascita di un campo di ricerca 4. Denominazioni, campi d’indagine e lacune epistemologiche 5. Verso il dialogo scientiico 5.1. Problemi epistemologici 5.2. Dalla pseudo-terminologia al metodo funzionale 5.3. Traduzione “orientata” o traduzione “totale” 6. Le legittime “pretese” della teoria 6.1. Dopo Babele 6.2. L’errore di Cartesio 7. La tendenza alle opposizioni binarie 7.1. Traduzione e interpretazione 7.2. Le tipologie testuali
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La rilessione sulla traduzione: un approccio storico-critico Il dominio del pensiero binario: la “bi-teoria” Filologia e traduzione I testi “sacri” e la ‘parola di Dio’ 3.1. Testo biblico e traduzione nell’ebraismo 3.2. La Bibbia e la sua traduzione nel cristianesimo 3.3. Il Corano come testo sacro e la sua intraducibilità 3.4. Il dialogo scientiico e la dinamica linguo-testuale 3.5. La traduzione tra ideologia e religione 7
4. Metaisica, estetismo, irrazionalismo: il retaggio storico da superare pag. 89 4.1. Il culto dell’“originale” e lo “spirito dell’Autore” » 89 4.2. Il modello francese delle “belles inidèles” » 93 4.3. Il romanticismo tedesco e il ritorno allo “spirito dell’originale” » 96 4.4. La deriva irrazionalista postmoderna » 102 5. Contro la formalizzazione: i Translation Studies » 109 3. La traduttologia scientiica: interdisciplinarità e formalizzazione 1. Il ‘sogno’ meccanico 2. La traduttologia linguistica 2.1. Tra Est e Ovest 2.2. Eugene Nida, il traduttologo americano 2.3. La traduttologia sovietica 2.4. La traduttologia tedesca 2.5. La traduttologia in Francia, Inghilterra, Italia 3. Algoritmi ed euristiche: le strategie del “problem solving” 3.1. La metafora computer/cervello 3.2. Algoritmi ed euristiche: deinizioni 3.3. I pattern della traduzione 3.4. I cluster del signiicato 4. Memetica, linguaggio e traduzione 4.1. Formulaicità e stereotipia 4.2. I “memi” e il dibattito epistemologico sulla “memetica” 4.3. Lingua, memi e traduzione 4. Il bilinguismo, la mente interlinguistica e i processi traduttivi umani 1. La prospettiva neurolinguistica 1.1. La lateralizzazione del linguaggio 1.2. I circuiti della memoria e l’apprendimento 1.3. Acquisizione e apprendimento della lingua 1.4. Il cervello bilingue: apprendimento e acquisizione della L2 2. Proposta teorica sui processi traduttivi umani (PTT) 2.1. L’ipotesi del Translation Device 2.2. Generalità 2.3. Sull’inquietante concetto di “equivalenza” (tra matematica e lingua naturale) 2.4. Invariante, variante 2.5. L’orecchio interno 2.6. Marcatezza funzionale e f-equivalenza 2.7. Esempliicazione 8
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5. Il progetto, le strategie, le tecniche 1. Il progetto 1.1. Rilessione, gerarchia decisionale, automatismo 1.2. Attualizzazione e storicizzazione 1.3. Omologazione, straniamento, estraniamento 1.4. Ibridazione ed effetto estetico 2. Le tecniche di traduzione 2.1. Esplicitazione 2.2. Condensazione 2.3. Compensazione 2.4. Spostamento 3. Il progetto e il cult text 4. Gli strumenti 4.1. I dizionari 4.2. I corpora
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6. La professione e il mercato 1. Una visione d’insieme 1.1. Il ‘panorama’ professionale 1.2. Le associazioni e la regolamentazione della professione 2. I paradossi della traduzione editoriale 2.1. Il caso e la necessità 2.2. La valutazione delle traduzioni in prospettiva 3. La traduzione specializzata 4. L’interpretazione 5. La traduzione per lo spettacolo 5.1. La traduzione dei testi audiovisivi 5.2. La traduzione dei testi teatrali 5.3. La traduzione dei testi cantati 6. Etica e deontologia
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Riferimenti bibliograici
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Indice dei nomi
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PREMESSA
Il presente volume ripropone solo in parte i contenuti dell’ormai esaurito manuale Teoria della Traduzione. Storia, scienza, professione, pubblicato a partire dal 2003 (con molte ristampe) dall’Editore Antonio Vallardi: molto è stato aggiunto, qualcosa è stato tolto e gli argomenti comuni sono stati interamente riscritti in modo più chiaro e aggiornato. Si tratta, quindi, di un libro nuovo, diverso e più ‘maturo’. In effetti, quando nel 2003 era uscito il volume precedente, avevo alle spalle un solo biennio di esperienza didattica al corso di “Teoria della Traduzione”. Quel corso, di cui sono ancora titolare (con grande soddisfazione), mi era stato afidato nel 2001 dall’allora Facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne dell’Università di Genova; era, in assoluto, il primo insegnamento uficiale nella storia dell’Università italiana dedicato esclusivamente alla teoria generale della traduzione e mi ero trovata a insegnare una materia che nessuno aveva mai insegnato a me. Questo, in parte, spiegava il tono un po’ provocatorio, a tratti impacciato, a tratti persino altero, del ‘manuale Vallardi’: non era facile scrivere un libro senza prototipi, né precedenti. Oggi, dopo quindici anni di insegnamento, di intense ricerche e di ulteriori importanti esperienze traduttive, ho cercato di presentare ogni argomento alla luce di un modello teorico unitario: si tratta di una proposta teorica sui processi traduttivi umani (PTT), cioè di un modello teorico generale sulla traduzione, che ha costituito il perno attorno a cui sono state distribuite le informazioni di carattere storico e professionale. Questo modello non è un semplice “valore aggiunto”, ma costituisce un costante riferimento argomentativo che, a prescindere dagli inevitabili difetti, ha consentito, almeno spero, che il nuovo libro risultasse più coeso e coerente. L’esperienza accumulata in questi anni mi ha reso più cauta a livello espressivo, ma più coraggiosa nella sostanza: in tanti anni di insegnamento, di studio e di traduzioni, mi sono più chiare sia le distinzioni tra conoscenze storico-culturali e conoscenze tecniche, sia i nessi che collegano le une alle altre. Sempre più convintamente 11
guardo alla teoria della traduzione non solo come a un’analisi ragionata del pensiero di ilosoi-traduttori accumulato nei secoli, ma anche come a una convinta rivalutazione del processo traduttivo. Purtroppo il limite temporale imposto da fattori oggettivi (didattica, ricerca, impegni istituzionali e altre scadenze editoriali) e la necessità che il volume fosse pronto per il nuovo anno accademico alle porte, mi ha costretto a lavorare con una certa celerità. Del resto, si sa, viviamo in un’epoca particolarmente “frettolosa”, tutti involontariamente vittime di un gravoso multitasking che impone più “prodotti” che rilessioni, più “dati” che idee, più risposte che domande. Spero, tuttavia, che questo libro contenga un po’ di tutto questo – dati, idee, rilessioni, domande e risposte – e che possa quindi soddisfare, almeno in parte, le esigenze di lettori diversi. *** Negli auspici, il manuale dovrebbe fornire le basi per intraprendere l’addestramento necessario alla professione di traduttore durante i corsi universitari. Per prima cosa, ho cercato di presentare in generale l’àmbito disciplinare della teoria della traduzione (capitolo primo), per poi affrontare in chiave critica la storia del pensiero umanistico, partendo da San Gerolamo e arrivando ino ai nostri giorni (capitolo secondo). Sono poi passata alla traduttologia scientiica, al dibattito sulla traduzione computazionale, al rapporto tra traduzione e linguistica, e allo studio dei processi traduttivi (capitolo terzo). Segue una sintesi sul funzionamento della memoria e sulla psicolinguistica della traduzione, nonché una versione sintetica del modello teorico sui processi traduttivi umani (capitolo quattro). Un capitolo (il quinto) è dedicato al progetto traduttivo e all’insieme delle strategie e tecniche di traduzione e il volume si conclude (capitolo sesto) con un excursus critico sugli aspetti fondamentali della professione e sulle differenti specializzazioni (traduzione editoriale, tecnico-commerciale, interpretazione, traduzione per lo spettacolo), compresa una rilessione sulla differenza tra deontologia ed etica individuale. Per affrontare i suddetti problemi, per lo più strettamente connessi al funzionamento della mente umana, ho proposto un contesto teorico-scientiico ‘ibrido’, situato all’incrocio tra scienze ‘umane’ e scienze ‘formali’. Coerentemente a questo approccio interdisciplinare, i riferimenti bibliograici rimandano a testi che, in parte, esulano dalla tradizionale, imponente letteratura sulla traduzione. Di quest’ultima, secondo criteri variabili, sono stati selezionati solo alcuni autori e alcuni titoli: oltre ai pensatori e studiosi che, per il ruolo svolto, rappresentano un riferimento irrinunciabile per chiunque si occupi di traduzione (da San Gerolamo a Eugene Nida), in alcuni casi ho scelto di dar voce ad autori meno noti e accessibili, soprattutto ad alcuni portavoce della fondamentale, ma quasi misconosciuta traduttologia slava. 12
Nel complesso, come la maggior parte dei traduttologi, mi sono orientata soprattutto alla ricerca occidentale; tuttavia, essendo slavista e avendo accesso all’immenso patrimonio scientiico della traduttologia slava, il mio approccio si è giovato della forte connotazione formale che, nei Paesi occidentali, è comparsa solo di recente. Dal secondo dopoguerra ino a gli anni Ottanta, infatti, nelle diverse lingue slave sono state scritte opere cruciali sulla traduzione che rilettevano una febbrile ricerca teorica, didattica e professionale e che spaziavano dalla traduzione della poesia alla programmazione di macchine per tradurre, dalla psicolinguistica alla semiotica della traduzione1. Si pensi che la più nota ‘scuola’ occidentale di ricerca sulla traduzione, il movimento deinito “Translation Studies”, di cui oggi è massima rappresentante Susan Bassnett, si è uficialmente costituita in occasione di uno storico convegno internazionale, svoltosi a Bratislava nel 1968 (dal titolo Translation as an Art), organizzato dal grande teorico slovacco Anton Popović2, con il cui aiuto, assieme a Frans De Haan, James S. Holmes avrebbe curato la raccolta degli Atti (in inglese, 1970), inaugurando il primo numero della storica collana “Approach to Translation Studies”. Nell’ultimo trentennio si sono accumulate in lingue diverse centinaia di volumi e migliaia di articoli che riguardano in modo più o meno diretto la traduzione. Tra questi vi sono testi molto simili, talvolta ripetitivi, e altri così diversi, per argomento, metodologia e approccio critico, da creare una sostanziale autarchia all’interno della disciplina: si va da opere di tipo ilologico a testi propriamente storico-letterari, spesso dedicati alle traduzioni di un singolo autore; da indagini di tipo contrastivo, dedicate alle corrispondenze lessicali o sintattiche tra due lingue, a studi prescrittivi, che abbondano di classiicazioni e tabelle, di deinizioni, esempi e istruzioni; da analisi terminologiche sulle lingue settoriali, a glossari e memorie di traduzione. Come avviene per qualsiasi disciplina esordiente, ma, in generale, come avviene in tutte le discipline in questa prolifera modernità, la quantità di pubblicazioni non è proporzionale alla loro qualità e selezionare in modo ‘asettico’ è impossibile. Certamente, a voler compilare un repertorio comprensivo di tutte le pubblicazioni dell’ultimo trentennio, servirebbe almeno un decennale lavoro parallelo di numerose équipe di ricerca in tutto il mondo (alcune sono già al lavoro). Per concludere, la bibliograia di riferimento potrà in parte assolvere questo volume dal ‘centralismo occidentale’ che le barriere linguistiche (e la presunzione culturale) hanno imposto alla maggior parte delle monograie euro-americane. Certamente, mancheranno fonti che qualcuno reputa molto 1. Per una visione generale sulla teoria della traduzione nei Paesi slavi, cfr. Ceccherelli et al. (a cura di) 2015. 2. L’opera principale di A. Popović, La scienza della traduzione, pubblicata nel 1975 in slovacco a Bratislava, è stata proposta al pubblico italiano da Hoepli nel 2006.
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importanti, ma una selezione era inevitabile ed è stata inalizzata a coniugare le conoscenze storiche con un approccio teorico applicabile alla professione. *** Dovrei ringraziare moltissime, troppe persone che hanno contribuito a diverso titolo, magari indirettamente, a questo libro, compresi coloro che mi avevano aiutato nella stesura del manuale precedente. Per brevità, mi limito qui a citare solo coloro che in modo diretto mi hanno sostenuto in questo secondo e nuovo progetto: in primo luogo, i miei allievi Marta Albertella e Domenico Lovascio, oggi docenti e ini traduttori, che hanno interamente letto e revisionato la prima bozza del libro, fornendomi suggerimenti e utilissime critiche; Guido Borghi, che dal 2002 condivide con me l’onere degli esami di Teoria della Traduzione, che mi supporta e mi sopporta; gli amici Lucyna Gebert, Oscar Meo, Mara Morelli, Micaela Rossi, Leonardo Paganelli e Giorgio Ziffer per le loro consulenze settoriali; i co-Direttori di questa Collana, Anna Cardinaletti e Giuliana Garzone, per il sostegno, la iducia e per essere state sempre, in lunghi anni, due interlocutori umanamente e professionalmente insostituibili; l’Editore FrancoAngeli, nelle persone di Isabella Francisci e Tommaso Gorni, i cui consigli concreti e il cui costante incoraggiamento mi hanno aiutato a concludere il progetto; inine, ma soprattutto, ringrazio i numerosi, straordinari studenti che mi hanno educato e trasformato in un’insegnante migliore, tenendo miracolosamente in vita la mia grande passione per la didattica e la ricerca in un momento storico in cui, nell’università italiana, domina una profonda e motivata frustrazione.
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1. VISIONE INTRODUTTIVA D’INSIEME
1. Traducibilità delle lingue: la diatriba tra universalisti e relativisti Nel percorso diacronico che verrà affrontato nei diversi capitoli del libro, si vedrà come il concetto di traduzione sia stato interpretato in modi diversissimi e persino opposti: come azione paradossale e impossibile o, viceversa, come procedimento algoritmico riducibile a linguaggio logico-formale per programmare calcolatori elettronici. All’origine di queste due posizioni estreme si trovano anche motivazioni ideologico-ilosoiche estranee alla linguistica, ma la diatriba sulla traducibilità delle lingue umane è legata a doppio ilo al più agguerrito dibattito che, da circa settant’anni, divide i linguisti in universalisti e relativisti. Esporre in sintesi i postulati dell’universalismo e del relativismo linguistico è un compito arduo, ma indispensabile. Questa annosa diatriba, infatti, ha un rapporto diretto con il postulato ontologico della traduzione, ovvero con l’idea stessa che la traduzione possa esistere in quanto tale. La questione, quindi, è indispensabile per poter, inalmente, “smetterla di interrogarci sull’oggetto della traduttologia”, come recita il provocatorio titolo di un articolo di Hans Vermeer (cfr. 2005). A prescindere dalla propria posizione, si può convenire che la traduzione tra lingue diverse può esistere se e solo se: -
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la diversità tra le lingue, pur vistosa a livello ‘di supericie’, è compensata da un funzionamento universale, dovuto a facoltà cognitive e psico-emozionali comuni a tutta la specie umana (che siano o non siano geneticamente codiicate, che siano o non siano parte di un “dispositivo mentale” dedicato al linguaggio, come afferma Chomsky); la speciicità supericiale delle lingue intacca in modo non rilevante le differenze nel modo in cui parlanti lingue diverse pensano, concettualizzano la realtà e comunicano; le speciicità culturali rilesse da una singola lingua possono essere espresse, trasmesse, comprese e apprese da umani che appartengono a un’altra linguocultura1. 1. Il termine linguocultura, nato peraltro in ambito relativista, può essere usato utilmen-
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Al contrario, se essere nativi di una lingua particolare rendesse a priori i parlanti “diversi” nel loro modo di concepire la realtà e di reagire agli input esterni, la traduzione risulterebbe impossibile per deinizione; il bilinguismo, infatti, sarebbe una condizione schizofrenica: cambiando lingua, uno stesso parlante bilingue modiicherebbe la propria visione del mondo e, secondo il relativismo estremo, anche alcune capacità cognitive, sarebbe ‘un’altra persona’. Secondo questa ipotesi, non ci sarebbe alcuna reale possibilità di trasmettere a nativi di lingue diverse uno stesso messaggio. Un cospicuo numero di linguisti, facendo riferimento in modo più o meno esteso alle idee di Noam Chomsky (il più celebre linguista vivente), ritiene che le lingue siano molto diverse a livello supericiale, ma accomunate da una struttura profonda, detta anche grammatica universale, che le rende paritariamente in grado di esprimere, con strumenti diversi, i pensieri, i sentimenti, le esperienze che, potenzialmente, possono condividere esseri umani di tutto il pianeta. Costoro vengono deiniti universalisti, cui si oppongono numerosi sostenitori della teoria del relativismo linguistico, che è stata sviluppata attorno alla metà del Novecento da due studiosi americani, Edward Sapir e Benjamin Whorf, e che è pertanto nota come “ipotesi Sapir-Whorf”. Secondo questo assunto relativista “classico”, le modalità e i limiti del pensiero umano sono, certo non del tutto, ma a qualche signiicativo livello, condizionati dalla lingua nativa2. Questa posizione emergeva, nella sua versione più nota, dagli studi che Whorf aveva compiuto sulla lingua hopi, parlata da una esigua popolazione indigena nord-americana e profondamente diversa dalle lingue europee non solo per le sue strutture, ma per il modo di catalogare lo spazio e il tempo (cfr. Whorf 1970). L’idea di base era che tanto le parole (soprattutto il modo di denominare numeri, colori e posizione degli oggetti nello spazio), quanto i vincoli grammaticali inluissero sulla “visione del mondo” degli indiani hopi. Non si trattava semplicemente di rimarcare l’innegabile e inscindibile rapporto tra lingua e cultura, affermando che la cultura hopi aveva (ovviamente) dei rilessi sulla lingua hopi, ma si ipotizzava che la lingua hopi condizionasse i nativi hopi a parlare di certe cose, prete anche da chi postuli un sostanziale universalismo nel rapporto tra lingua e cognizione. Gli ideatori del termine sono i due studiosi russi E.M. Vereščagin e V.G. Kastomarov (1980), che una quarantina di anni fa hanno pubblicato un volume che argomentava una relazione inscindibile tra la cultura di un parlante e la sua lingua nativa. Questa relazione, come vedremo, è innegabile, ma non implicava affatto che la diversa mentalità di un gruppo culturale dovesse essere condizionata dalla lingua, bensì che la lingua fosse in parte condizionata dalla cultura (le due cose sono nettamente diverse). Certamente, se la cultura ha un diretto rapporto con l’ambiente, è chiaro che la lingua rispecchia le speciicità geograiche, gastronomiche, rituali e storiche del popolo che la usa. Gli umani, infatti, parlano di ciò che conoscono e di ciò che è per loro più rilevante. 2. Come osserva McWhorter (2014, 144-145, 152), già Wilhelm von Humboldt, all’inizio del XIX secolo, concepiva che lingue meno lessive di quelle europee, come ad esempio il cinese, fossero a uno stadio anteriore, cioè meno capaci di veicolare il pensiero. Il più alto livello del raziocinio e del progresso sarebbe stato consentito solo dalle lingue europee.
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stando più o meno attenzione cognitiva a certi elementi della realtà rispetto, per esempio, ai nativi della lingua inglese. Non solo l’ambiente e la cultura si riletterebbero sulla lingua, ma la lingua modiicherebbe il modo di vedere la realtà circostante e il pensiero astratto dei parlanti. In sintesi, il principio relativista-whoriano assume che “gli utenti di lingue diverse usano differenti rappresentazioni concettuali” (Gumperz, Levinson 1996, 25), quello anti-whoriano implica che “utenti di lingue diverse usano lo stesso identico sistema di rappresentazione concettuale” (ivi). In tempi piuttosto recenti, si sono diffuse versioni del relativismo che sono completamente estranee al dialogo scientiico (cfr. Gebert 2012, McWhorter 2014). Vi sono studiosi che, restando nell’ambito del dibattito accademico, utilizzano un approccio più polemico che argomentativo (cfr., ad esempio, Evans 2014): riiutando l’idea che la lingua funzioni in modo cognitivamente analogo per tutti gli umani, sostengono il mito del relativismo percettivo. Secondo questa concezione, i popoli che hanno più parole per le gradazioni dei colori, li distinguono meglio di chi non ha parole speciiche; ad esempio, chi ha parole per le gradazioni del blu (come il “celeste” e l’“azzurro”), vede meglio l’azzurro3. Alcuni studiosi, tuttavia, hanno proposto una rivisitazione molto seria e interessante delle idee di Sapir e Whorf, andando in direzione di una posizione intermedia che, a partire dalla psicologia, consenta di studiare le differenze socio-culturali senza tuttavia rinnegare la sostanziale universalità del funzionamento della psiche umana (cfr. Gumperz, Levinson 1996, 3). Si può, ad esempio, immaginare che esista sia un pensiero pre-linguistico (mentalese), universale per tutti, sia un pensiero cosciente, concettuale, che necessiti per esprimersi di una lingua naturale secondo un rapporto inter-relazionale (cfr. Carruthers 1998, 99)4. L’idea che chi è stato plasmato da una lingua non possa recepire ino in fondo la realtà concettuale di chi è nativo di un’altra lingua equivale, come si è detto, a negare la possibilità di essere realmente bilingui e, quindi, di poter tradurre da una lingua all’altra5. Se assumiamo in modo rigido l’idea di Dan Slobin (1996, 76), secondo cui, “acquisendo una lingua nativa, un bambino impara modi particolari di pensare per parlare [thinking for speaking]”, chi 3. Gli esperimenti sulla ricezione dei colori si basano su differenze minime nei tempi di riconoscimento dei colori, ma non tengono conto di dati che potrebbero molto interferire. I russi, ad esempio, usano la parola “goluboj” (azzurro) per indicare un omosessuale e questo potrebbe rendere i soggetti più sensibili al riconoscimento della parola. 4. Per “lingue naturali” si intendono tutte le lingue parlate dagli umani spontaneamente e non create artiicialmente, comprese le lingue dei sordi, ovvero le lingue dei segni, che hanno le stesse capacità comunicative delle lingue vocali, lo stesso grado di complessità, ricorsività e produttività, pur utilizzando il canale visivo invece dell’udito. Le lingue dei segni sono diffuse nella “comunità linguistica sorda” (Russo Cardona, Volterra 2007, 38-41), sono diverse nei vari Paesi, ma in modo indipendente dalle lingue parlate nei Paese stessi (ivi, 31-35). 5. Con il complesso termine bilingue, si intende qui, per ora, qualunque persona possa condurre una vita, piena in tutti i suoi aspetti, in due lingue diverse senza rilevanti differenze, a prescindere che il bilinguismo sia precoce o tardivo.
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non è nativo della stessa linguocultura di quel bambino non può per principio accedere alla sua comprensione del mondo in modalità native-like. Una sintesi aggiornata di questa diatriba (e dei rischi che si corrono nel dare valutazioni frettolose, basate sul senso comune e non su ricerche approfondite) è offerta dal libro di John McWhorter The Language Hoax (2014). L’autore, esperto di diversissimi ceppi linguistici, illustra con parole particolarmente eficaci e pacate, e con esempi semplici e comprensibili, due cose molto importanti: 1) sempre più spesso, anche dalla stampa, vengono diffusi dati non attendibili e leggende pseudo-scientiiche che fanno scalpore, ma sono falsi; 2) esistono un relativismo e un universalismo molto seri, in grado di stimolarsi a vicenda, cioè di partire dagli aspetti condivisi da tutti gli umani e da tutte le lingue per poi studiarne le differenze. McWhorter (ivi, 71) è esplicito nell’assumere una posizione moderata, priva di pregiudizi ideologici e attenta ai dati. Infatti, pur smascherando le contraddizioni e ragioni manifeste e nascoste dell’estremismo relativista – in primis l’insofferenza per la supposta “egemonia accademica” degli universalisti chomskiani – mostra anche la necessità che gli studi accademici non cadano nel radicalismo universalista: I hope to have made it clear that I, like most investigators of language, feel that an academic culture that treated language entirely apart from the cultures of the people that speak them would be not only arid but empirically hopeless […] language, as a fundamental social phenomenon, cannot be treated as if it were simply a computer software program (ivi, 89, 70).
Per quanto riguarda il relativismo, McWhorter (ivi, 136-146) sottolinea la drastica differenza tra “whorismo popolare” e “neo-whorismo accademico”. Mentre il primo non è scientiico, il secondo è nutrito da un reale interesse scientiico per la comprensione della mente umana. Entrambe le posizioni, in modo più o meno consapevole, vorrebbero opporsi all’idea che vi siano culture “superiori” (le nostre) rispetto ad altre “inferiori” (di popoli meno “sviluppati”), mostrando che la diversità delle linguoculture è un baluardo contro l’egemonia culturale e la globalizzazione d’impronta occidentale. Secondo questa visione comune, gli universalisti sarebbero ostili all’egualitarismo e, pertanto, attaccherebbero le posizioni relativiste (ivi, 148). Di conseguenza, evidenziare le differenze tra le lingue implicherebbe fare autocritica, mostrando quanto le culture ritenute inferiori dal mondo euroamericano siano invece “migliori di noi”, capaci di pensare in modo meno individualista, sessista, aggressivo ecc. I relativisti “popolari” arrivano a sostenere che il fatto che una lingua abbia o non abbia certe forme grammaticali rivelerebbe uno speciico modo dei parlanti di rapportarsi agli altri o all’ambiente circostante: the dominant impulse of popular Whorianism is to show ways in which other groups are Westerners’ superiors: more aware of kinds of knowing, less caught up in obsessing
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about the future, more aware of their topography, more sensitive to sources of information (ivi, 145).
Questa visione ha portato a conclusioni supericiali e palesemente controargomentabili (per esempio, a ritenere che i cinesi risparmino meno perché la lingua cinese non ha la marca grammaticale del futuro; ivi, 95-101). In realtà, il mito della diversità, ben più dell’universalismo, può rivelare una sorta di malcelato elitarismo: anche dicendo che “loro” sono meglio di “noi” perché non sono “come noi”, si inisce per sottolineare proprio il fatto che chi non appartiene alla nostra cultura è un “diverso”, sottintendendo che i “diversi” sono migliori in quanto sono più “primitivi”, più lontani dal nostro (criticabile) imperialismo occidentale (ivi, 147-148). In questo c’è una contraddizione fortissima: se una lingua inluenza la cultura, come possono lingue antiche, secolari, aver inluenzato il (recente) capitalismo globalizzato contemporaneo? Non solo: moltissime lingue sono state imposte a popoli che prima ne parlavano altre, facendo sì che culture del tutto distanti condividano oggi (con poche differenze) la stessa lingua, lo stesso lessico e la stessa grammatica. Se mai una lingua dovesse inluire sulla cognizione umana, si chiede giustamente McWhorter (ivi, 122), in quale stadio della lingua avverrebbe questo condizionamento? E quali sarebbero, di preciso, i pensieri che cambierebbero per parlanti di lingue diverse? In sostanza, le parole di una lingua certamente sono inluenzate e talvolta direttamente dettate dalla cultura in cui nascono e vengono usate (ivi, 59), ma la lingua, pur rilettendo la cultura, non la crea (ivi, 160). Viceversa, il relativismo diffuso in forme iper-sempliicate afferma che la lingua favorisce alcuni pensieri rispetto ad altri (ivi, 125), cosa non argomentabile scientiicamente, poiché le strutture linguistiche e la cultura non hanno punti in comune, né li hanno la grammatica e la struttura del pensiero umano (ivi, 150). Questa diatriba, fondamentale nell’ambito della linguistica teorica e delle scienze cognitive, costituisce, come si è detto, il fulcro teorico della discussione sulla traducibilità. Tuttavia, cambiando ottica e invertendo il problema, si può partire dal dato empirico che la traduzione esiste proprio per suffragare un moderato assunto universalista. Infatti, se esiste al mondo anche una sola traduzione che rispecchia 1) una sostanziale retroversibilità (cioè, che permette di ri-convertire la traduzione in un testo analogo a quello di partenza) e 2) un bilinguismo del traduttore suficiente a recepire il Testo di Partenza (TP) alla stregua di un lettore di partenza, esiste anche un’universale capacità di ogni lingua naturale di adattarsi a esprimere qualsiasi cosa un umano abbia espresso in un’altra lingua. L’universalità non riguarda né le strutture, né le parole, né la loro posizione nella frase, bensì il fatto che – a prescindere dalle vistose differenze di supericie – ogni lingua, con i suoi strumenti, può veicolare qualsiasi messaggio venga in mente a un umano: No language’s words can mark every single nuance of living and thus every language happens to divide conception up differently. The differences are neat, but the idea that
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they indicate different takes on life is valid only to the extent that we can accept it about languages close to home (ivi, 151).
Non è un caso che proprio la traducibilità interlinguistica abbia indotto alcuni studiosi a dubitare del relativismo estremo (cfr. Brown 1991, 12); infatti, anche se una lingua non ha singoli termini per chiamare qualcosa, trova sempre il suo modo per farlo (ivi, 133). L’italiano ha la parola “suocera”; l’inglese contemporaneo sopperisce alla mancanza di un’unica parola mettendone insieme tre: “mother-in-law”; il russo non ha un lessema per “suocera”, bensì due, cioè distingue tra “suocera da parte di marito” (“svekrov’”) e “suocera da parte di moglie” (“tëšča”). Chi parla le tre lingue, italiano, russo e inglese, magari neppure nota queste differenze lessicali, perché quel che non fa la lingua, lo fa il contesto. Il contesto è quasi sempre suficiente a dare informazioni (salvo deliberata ambiguità del messaggio). Un milanese che “va a Berlino” di sicuro non ci “va” a piedi, anche se di sicuro “va” a piedi “in salotto”; il berlinese che “va” a Milano in italiano, in tedesco dovrà per forza speciicare se prende un mezzo terrestre o l’aereo: in tedesco, infatti, non c’è un generico verbo “andare” che (come in italiano) vada bene per piedi, macchina e aereo6. Gli universali riguardano, a livello antropologico, il funzionamento della lingua in generale, il fatto che tutti gli umani possono parlare di suocere, di viaggi, di gioia e di dolore (e, una volta importati, anche di kiwi e fusilli). A livello linguistico, si possono distinguere gli universali assoluti (che possono essere implicazionali, quando un tratto linguistico ne implica un altro, o non implicazionali, quando un tratto è comune a tutte le lingue) e le tendenze universali (cfr. Comrie 1989, 19-23 passim). Dunque, la diversità non è l’unica cosa interessante da studiare e, comunque, studiandola, si coglie “il grado di omogeneità in cui si manifesta” (2014, 162). McWhorter (ivi, 168) conclude il suo libro con queste parole: Our differences are variations on being the same. Many would consider that something to celebrate.
2. Il concetto di ‘traduzione’ e di “retrovertibilità” Il termine traduzione, in senso lato, indica il processo di ri-codiicazione di qualsiasi sistema di segni in un altro sistema di segni, tale per cui i segni convertiti dal primo sistema nel secondo sistema possano, a loro volta, essere ri-convertiti nel primo sistema. Per esempio, si possono “tradurre” le note musicali in segni sullo spartito, i quali segni possono essere ri-convertiti in 6. Se pensassimo che i tedeschi, per via dei verbi, sono più attenti degli italiani agli spostamenti, potremmo anche sospettarli di discriminazione della donna, visto che non hanno un pronome plurale femminile che corrisponda a “esse”, ma solo il collettivo “sie”.
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note; si possono “tradurre” i grafemi di un alfabeto in quelli di un altro (ad esempio, dall’alfabeto greco a quello latino) oppure le lettere di un alfabeto linguistico in un alfabeto di segni alternati, come quello “Morse”. Tuttavia, in questi casi speciici, esistono altri termini meno generici, come conversione, codiica, traslitterazione: le note si trascrivono sullo spartito e si eseguono con strumenti o con la voce. Nelle lingue indeuropee contemporanee, il termine traduzione (translation, Übersetzung, traduction, traduccion, perevod, tłumaczenie ecc.) si usa per eccellenza e per default a indicare due oggetti/concetti: a) il processo di ri-codiicazione di un testo (o enunciato, o messaggio) in lingua naturale (“parlata” dagli udenti o “segnata” dai non udenti) in un testo in una lingua naturale diversa7; b) il prodotto di questo processo, cioè il testo tradotto ovvero un testo secondario (o meta-testo) trasformato in altra lingua da un testo primario. Se applicato ai segni linguistici, il concetto di ‘traduzione’ può essere riferito, secondo la ‘classica’ tripartizione di Roman Jakobson (2008, 57), a: - traduzione endolinguistica, o intralinguistica o riformulazione, ovvero la conversione dei segni di una lingua naturale in segni diversi della stessa lingua; si dice la ‘stessa cosa’ con parole diverse; - traduzione interlinguistica, o traduzione vera e propria, ovvero conversione dei segni di una lingua naturale nei segni di un’altra lingua naturale; - traduzione intersemiotica, o trasmutazione o trasposizione, ovvero il passaggio da un codice linguistico a un altro, ad esempio, il passaggio dal testo scritto a quello cinematograico. Qui, però, Jakobson limita troppo il campo, dimenticando che lo stesso passaggio può avvenire tra due codici non linguistci: dall’immagine alla musica, dalla formula algebrica al disegno geometrico ecc. Come vedremo in seguito, quella che Jakobson deinisce “traduzione intralinguistica” – per esempio, la conversione di un enunciato come “obliterare il titolo di viaggio” nell’enunciato “timbrare il biglietto” – è una quasitraduzione; nei due enunciati, infatti, non tutte le informazioni sono le stesse. Le riformulazioni nella stessa lingua danno sempre informazioni diverse: ad esempio, indicano una differente relazione o distanza tra emittente e destinatario, oppure una diversa modalità d’uso nel contesto (un ragazzo che in autobus dica a un altro di “obliterare il titolo di viaggio” sta parlando in modo anomalo o sta facendo una parodia di un linguaggio non suo). Questa particolare discrepanza riguarda il registro linguistico della comunicazione. In 7. Il processo si potrebbe chiamare “il tradurre” (in inglese “translating”), sottolineando così la differenza rispetto al prodotto.
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senso stretto, dunque, un cambio di registro è una riformulazione e non una traduzione; in senso lato, invece, si può chiedere di “tradurre” nella stessa lingua un discorso tecnico (o vago) che non si è compreso. Anche per quanto riguarda la “traduzione intersemiotica” di Jakobson, non si può parlare propriamente di “traduzione”, mancando del tutto la possibilità di retroversione: se, per esempio, convertiamo un romanzo in un ilm, è da escludere la possibilità di ri-convertire quel ilm nel testo del romanzo iniziale (salvo alcune parti dei dialoghi del ilm che lo sceneggiatore abbia direttamente esportato dal romanzo). Per deinire e valutare la traduzione, il criterio della potenziale retroversione (ri-conversione) è fondamentale. Il processo di ri-codiicazione interlinguistica è potenzialmente binario, certamente molto più di qualsiasi operazione aritmetica. Dire EXIT = USCITA consente non solo di dire che USCITA = EXIT, ma anche di sapere quale sarà X sia nel caso X = EXIT, sia nel caso USCITA = X. Quando invece si eseguono operazioni aritmetiche, a ogni passaggio, si perdono le tracce dell’enunciato di partenza e la ri-conversione del risultato inale è impossibile. Se scrivo 5 + 4 = 9, posso scrivere certamente che 9 = 5 + 4, ma, nel caso X = 9, vi è un numero ininito di potenziali enunciati di partenza che danno come risultato 9. Il principio della traduzione interlinguistica è invece chiaro: dato un enunciato di partenza, la sua traduzione in altra lingua è tale se può essere riconvertita nell’enunciato di partenza8. Se la retroversione non funziona, si tratta quasi sempre di traduzioni carenti sul piano professionale o di ‘false traduzioni’ (per esempio, la trasformazione di uno slogan pubblicitario per vendere un prodotto commerciale in un altro Paese) o di traduzioni estremamente ‘creative’. Ma anche in quest’ultimo caso, per esempio nella traduzione della poesia, la riconoscibilità dei testi, dei singoli versi, deve essere garantita al lettore bilingue. Leggendo Dante in russo, ad esempio, devo poter individuare il verso dantesco cui si riferisce la traduzione: Amor che a nullo amato amar perdona = Ljubov’, ljubit’ veljaščaja ljubimym (Inf., V, 103)9.
Quando traduciamo un enunciato stereotipico da una Lingua di Partenza (LP) in una Lingua di Arrivo (LA), supponiamo dall’inglese “How old are you?” in “Quanti anni hai?”, la probabilità di ripristinare l’enunciato di partenza da quello di arrivo è tanto più alta, quanto più il traduttore riconosce la stereotipia e sa come valutare il contesto per scegliere tra le tre opzioni
8. Chiaramente, come si vedrà nel corso del libro, queste veriiche possono farle solo traduttori professionisti: un non-traduttore potrebbe trascurare le numerose informazioni contenute nella forma dell’enunciato. 9. Trad. di Michail Lozinskij.
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dell’italiano (you = tu/voi/Lei)10. Questo è un esempio ‘facile’, perché questo tipo di enunciati presenta di solito una o due opzioni traduttive. In altri casi, però, dato un enunciato di partenza, il traduttore deve scegliere tra tre o quattro opzioni diverse e non può farlo se non conosce i criteri per scegliere e le tecniche per trasformare registri e informazioni in sistemi linguistici diversi. In un certo senso, tradurre signiica saper a) scegliere quale tra le opzioni possibili sia la soluzione traducente e b) creare un’opzione ex novo quando non sembra esisterne una ‘già pronta’. Se traduttori diversi danno varianti diverse, questo in via ipotetica potrebbe signiicare tre cose: 1) la traduzione che garantisce retroversione è impossibile per principio; 2) l’enunciato tradotto diversamente contiene informazioni più generiche, dettagliate o ambigue rispetto agli strumenti di cui dispone l’altra lingua; 3) gli esecutori dell’operazione di traduzione non hanno lo stesso livello di competenze e si sono veriicate da parte di alcuni più o meno rilevanti imperizie nella selezione tra le opzioni esistenti11. Per quanto riguarda il punto 1, se fosse dimostrabile, dovremmo negare che chi ha letto in qualsiasi traduzione qualsivoglia libro di ilosoia, sociologia, psicologia, politica, storia ecc. abbia davvero letto quel libro e quell’autore: tutti i sovietici avrebbero citato per decenni Marx senza in realtà averlo mai letto; tutti gli psicologi che citano Vygotskij dalla traduzione inglese non dovrebbero farlo, né dovrebbero usare le sue opere per fare ricerca, ecc. Comunque sia, se esiste anche una sola traduzione che dimostri un alto grado di retrovertibilità, il punto 1 è invalidato (se è riuscita anche una sola scalata dell’Everest, non si può più dire che l’Everest “è una montagna non scalabile”). Il punto 2 e il punto 3 sono quelli su cui si concentra il dibattito teorico. Entrambi considerano la retrovertibilità un livello dificilmente raggiungibile, quasi impossibile in alcuni casi. Ma ‘quasi impossibile’ non signiica ‘impossibile’ e, se si selezionano traduzioni estremamente professionali di testi estremamente dificili, si resterà stupiti dall’inatteso elevatissimo grado di retrovertibilità che si può trovare. Le traduzioni ad alta retrovertibilità esistono e suscitano immensa ammirazione, dimostrano che, migliorando le competenze e le abilità, come in ogni attività umana, si potrà sempre migliorare il risultato. Lo scoglio non è l’impossibilità, è la dificoltà. 10. In italiano contemporaneo, a differenza dell’inglese, non si usa una sola generale forma plurale (you/voi), ma si deve optare per uno dei tre differenti pronomi allocutivi previsti dall’italiano: due singolari (tu/Lei) e uno plurale (voi). L’informazione su chi pronuncia quella domanda, rivolgendosi a chi, è indispensabile per l’operazione: se è data, è prevedibile che traduttori professionisti producano la stessa traduzione italiana dell’enunciato e che altrettanti traduttori anglofoni possano riconvertire il messaggio tradotto in “How old are you?”. 11. L’ultimo caso può paragonarsi a quello che accade quando nelle gare culinarie i concorrenti devono riprodurre un piatto altrui in modo preciso: qualcuno non ci riesce per mancanza di conoscenze e/o abilità acquisite.
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La complessità dei dati che ogni enunciato linguistico esprime grazie alla variabilità di combinazioni di parole che sono state selezionate tra tutte le varianti possibili di una invariante costituisce, di fatto, la complessità della traduzione interlinguistica. Un traduttore professionista che disponga del contesto in cui sono espressi enunciati di partenza sceglierà l’opzione che corrisponda alla variante di registro, alla distanza tra i parlanti, al luogo ecc. Ad esempio, sentirà la differenza tra “Fuori di qui!”, “Se ne vada!”, “Togliti dai piedi!”, “Lasci questa stanza!” (e varianti più scurrili), mentre un traduttore inesperto si concentrerà solo sull’informazione invariante del testo. In altre parole, il traduttore inesperto non presterà attenzione a come l’invariante (=voglio che l’interlocutore se ne vada) viene espressa e all’informazione che quella speciica variante esprime sul contesto e sugli interlocutori (per esempio, quanta rabbia è espressa). Il come viene formulata la stessa invariante riguarda lo stato emotivo del parlante e la relazione tra il parlante e l’interlocutore (se sono amici, o uno è il superiore, se uno dei due è una donna, se è un iglio ecc.). Si tratta di una complessità enorme. Infatti, se la facoltà del linguaggio naturale è considerata una prerogativa esclusiva della specie umana, probabilmente geneticamente determinata; e se, come molti pensano, è la facoltà più soisticata sul piano combinatorio, ricorsivo e pragmatico del cervello umano; e se il nostro cervello è davvero l’oggetto più complesso dell’universo noto, allora la traduzione da una lingua naturale all’altra è una delle operazioni più complesse dell’universo. Di conseguenza, anche la sua credibile emulazione da parte dell’intelligenza artiiciale sarà un compito estremamente dificile. Ma dificile non vuol dire impossibile. 3. Teoria della traduzione: la nascita di un campo di ricerca Per secoli, nei luoghi più diversi, i cultori della scienza, dell’arte, delle lettere, della ilosoia si sono interrogati sulle dificoltà della traduzione interlinguistica e sulle reali possibilità di trovare norme basate su presupposti (e pregiudizi) diversi. Dall’antichità e per secoli, ino al Novecento, queste rilessioni sono state qualitativamente e quantitativamente ridotte, ma soprattutto isolate tra loro, salvo rare eccezioni, estranee a un dialogo condiviso da tutti. Le ritroviamo racchiuse per lo più in saggi, epistole, o sotto forma di digressioni in libri su altri argomenti. La teoria della traduzione nasce, lo vedremo, alle soglie del medioevo in stretta connessione con la traduzione della Bibbia, ma la sua organizzazione come disciplina che regola la professione è connessa all’immenso ruolo sociale del multilinguismo/multiculturalismo in un Paese multietnico come l’URSS. Una disciplina autonoma deinibile come “teoria della traduzione” nasce in Unione Sovietica assieme al giovane Stato socialista che comprendeva un territorio immenso, costituito da popolazioni che parlavano decine 24
di lingue diverse, alcune delle quali ancora non disponevano di un sistema di scrittura. Nel 1918, il noto scrittore russo Maksim Gor’kij aveva avviato un progetto di straordinaria ambizione interculturale, mirato a portare a tutti i popoli dell’URSS il patrimonio della letteratura di tutto il mondo, partendo, ovviamente, dalle traduzioni in russo. Il progetto era denominato per l’appunto “Letteratura mondiale” (e si avvaleva per le pubblicazioni dell’omonima casa editrice). Un centinaio di letterati e traduttori erano stati chiamati a farne parte, incaricati non solo di catalogare e rivedere tutte le traduzioni russe dei capolavori della letteratura mondiale, ma anche di estendere il concetto stesso di “letteratura mondiale” alle numerose lingue e culture dei diversissimi gruppi etnici che popolavano le neonate Repubbliche Sovietiche: si andava alla scoperta dei capolavori dei popoli estranei alla dominante cultura occidentale (cfr. Fëdorov 1983, 111-21; 155-60). Il progetto implicava anche e soprattutto di organizzare e uniformare il lavoro di decine di traduttori, dando loro un punto di riferimento teorico-pratico. Nel 1919, pertanto, era stata pubblicata una dispensa di istruzioni (Principi della traduzione letteraria), curata dallo scrittore e traduttore Kornej Čukovskij: si pretendeva che io fornissi una teoria sintetica e rigorosa, capace di comprendere l’intero problema. Di creare una siffatta teoria non ero in grado, ma potevo elaborare pragmaticamente alcune regole elementari che indicassero ai traduttori un corretto modo di lavorare (Čukovskij 2011, 8).
Quella brochure sarebbe stata il primo nucleo di un celebre, intramontabile manuale, che lo stesso Čukovskij avrebbe pubblicato nel 1964: Un’arte eccelsa. Principi della traduzione letteraria. Tuttavia, la prima monograia universitaria di cui si abbia notizia, dal titolo esplicito Teoria e pratica della traduzione, venne pubblicata dieci anni dopo, nel 1929 in Ucraina (sempre in URSS) da Oleksander Moiseevič Finkel’, professore dell’Università di Char’kiv, linguista e noto traduttore. Non è un caso che questo primo tentativo di formulare la materia secondo i dettami di un manuale venisse da un linguista che era anche un traduttore esperto di testi letterari di massima complessità (ad esempio, i sonetti di Shakespeare). Ancora oggi, del resto, è auspicabile che i teorici della traduzione uniscano alle competenze letterarie e linguistiche una considerevole esperienza diretta come traduttori12. 12. Come retaggio della centralità della traduzione nella politica culturale sovietica, anche nella Russia odierna i traduttori e la traduzione godono di un prestigio senza confronti. Non solo le opere letterarie tradotte (testi secondari) vengono trattate con pari dignità rispetto ai testi primari, ma i traduttori letterari sono membri a pieno titolo di una sezione speciica dell’Unione degli Scrittori. Per quanto riguarda gli interpreti, invece, la situazione è simile a quella degli altri Paesi occidentali, Italia compresa: guadagnano molto più dei traduttori letterari, ma godono di un minore prestigio culturale a causa del loro sostanziale anonimato.
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La teoria della traduzione, evidentemente, è uno dei campi (come la chirurgia e l’avvocatura, ma anche lo sport) che prevedono di convertire conoscenze esplicite (dichiarative) in abilità implicite (procedurali); qualsiasi regola e istruzione ‘dall’alto’ (top down) è ben poco utile se non è accompagnata da strategie ‘dal basso’ (bottom up), cioè apprese mediante esperienza. Nella realtà operativa dell’esperienza, infatti, le regole astratte vengono testate, riviste, integrate, ampliate o ridotte. Soprattutto, la componente umana, soggettiva, consente alle istruzioni oggettive di realizzarsi in modalità impreviste e questo consente all’allievo di superare il maestro. In tutte le professioni basate sul binomio conoscenza/abilità, funziona la cooperazione tra intuizione e deduzione, fra know how e know how to do. Per tradurre servono competenze, ma anche addestramento, applicazione delle nozioni apprese: lavorando sui testi si impara a misurare lo scarto tra teoria (astrazione) e applicazione (realtà del lavoro). L’esperienza del tradurre, afiancata alla rilessione e formalizzazione delle operazioni che conducono ai risultati migliori nel minor tempo possibile, costituisce il punto d’incontro di ipotesi teoriche e lavoro concreto. Per riuscire a ottimizzare una coesione di teoria ed esperienza, di approccio dall’alto e dal basso, si può solo auspicare di superare, con la prossima generazione, la scissione tra scuola linguistica e scuola letteraria, senza dimenticare che linguisti e letterati, se non sono traduttori, parlano della traduzione solo dal punto di vista di storici e privilegiati lettori/fruitori13. Questo spiega perché la disciplina sia nata proprio in un luogo e in un’epoca che richiedeva di riordinare conoscenza ed esperienza in un percorso parallelo, coerente, sintetico e condiviso. Spiega perché proprio l’Unione Sovietica sia stata lo scenario ideale per sviluppare le pionieristiche ricerche sulla traduzione ‘meccanica’, che avrebbero interessato, un decennio più tardi, anche gli Stati Uniti. All’inizio degli anni Trenta, ancor prima che il mondo conoscesse il computer, cioè l’intelligenza elettronica artiiciale, un ingegnere sovietico aveva progettato e brevettato una macchina (a schede perforate) per eseguire contemporaneamente traduzioni in più coppie di lingue. Costui, lo vedremo nel terzo capitolo, era un ingegnere russo, Petr Trojanskij, con straordinarie intuizioni linguistiche. Pur cadute nell’oblio, le sue intuizioni restano oggi il primo documento storico di un progetto di traduzione supportato da una macchina e anche la prima teoria sulla “grammatica universale” illustrata vent’anni prima di Chomsky e della sua scuola. Durante l’epoca sovietica, in Russia e nei Paesi dell’Est europeo, con un picco negli anni Ottanta del secolo scorso, si è avuta un’esponenziale pro13. Certamente un paziente ha un importante punto di vista su un intervento chirurgico, così come può averlo uno studioso di storia della chirurgia, ma è sensato aspettarsi che la responsabilità dell’intervento spetti a un chirurgo che applica le tecniche operatorie e sa selezionarle, in base a dati noti, tra quelle disponibili. L’ideale è quando tutti collaborano e chi ha esperienza è ascoltato.
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duzione di studi sulla traduzione nell’ambito di due correnti parallele: una è d’impianto più letterario e storiograico, oggi propriamente deinita “teoria della traduzione”14, l’altra speciicamente mirata agli studi linguistico-formali, oggi deinita “traduttologia”15. Come importante branca teorica, egualmente legata a entrambe le correnti, a partire dagli anni Cinquanta, si è sviluppata la “teoria dell’interpretazione”, oggi nota per lo più con il termine inglese: Interpreting Studies. 4. Denominazioni, campi d’indagine e lacune epistemologiche In generale, la questione del nome da attribuire a una disciplina è spesso dibattuta, talvolta anche assai aspramente. A seconda dei punti di vista, qualsiasi scelta può essere infatti considerata riduttiva, tendenziosa, artiiciosa o pretenziosa. In effetti, i termini diversi che ancora oggi vengono usati per indicare i campi di ricerca sulla traduzione alludono realmente a una diversa posizione ideologica degli studiosi, talvolta a oggetti di ricerca differenti e, quasi sempre, a diversi scopi. Per citare sole le denominazioni più diffuse, uno “studioso di traduzione” può deinirsi: a) b) c) d) e)
teorico della traduzione, storico della teoria, teorico dell’interpretazione, traduttologo, esponente dei ‘Translation Studies’ (di cui si è detto nella Premessa e che in seguito verranno indicati con l’acronimo TS), f) terminologo, g) specialista della traduzione assistita. Ognuna di queste diverse ‘etichette’ rivela una posizione a) neutra e ampia; b) puramente storica; c) orientata alla traduzione orale; d) orientata alla linguistica e ai processi traduttivi; e) orientata agli studi culturali, cioè ai prodotti (testi) della traduzione (e disinteressata alla linguistica); f) orientata allo studio della terminologia, cioè dell’insieme dei termini impiegati nelle varie lingue settoriali (o microlingue), g) orientata all’uso e allo sviluppo di applicazioni elettroniche di supporto per i traduttori. In ogni lingua in cui si svolga un dibattito sulla traduzione, si possono trovare i corrispettivi di queste differenti denominazioni16.
14. Translation theory, teorie de la traduction, Übersetzungswissenschaft, teoría de la traducción, teorija perevoda ecc. 15. Translatology, traductologie, Translatologie, traductología, perevodovedenie ecc. 16. Si noti che l’etichetta inglese, inizialmente neutra, translation studies indica oggi,
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Le denominazioni possono poi diventare più speciiche (e riduttive) aggiungendo termini qualiicativi: traduttologia applicata, teoria dell’interpretazione, literary Translation Studies ecc.. In sostanza, l’espressione ‘teoria della traduzione’ resta in uso come iperonimo, ovvero è l’etichetta più ampia e neutra, che non implica esclusioni o predilezioni: infatti, include persino gli studi che esprimano idee contrarie alla teorizzazione della traduzione (è sorprendente, ma ne esistono ancora). Le altre denominazioni funzionano invece come iponimi17. Nella sua concezione più generale e generica, la teoria della traduzione è una disciplina estremamente vasta che raggruppa numerosi sotto-settori specialistici, suddivisi in due macro-aree distinte rispetto all’oggetto primario di studio. Dal punto di vista dell’oggetto di studio: la prima si interessa ai prodotti della traduzione, l’altra ai processi. L’area che studia i prodotti della traduzione comprende settori prettamente umanistici: - la storia delle traduzioni (intese come testi scritti); - la storia del pensiero sulla traduzione (inclusa la storia dell’interpretazione); - gli studi socio-culturali sulla traduzione (che costituiscono i Translation Studies). L’area che studia i processi comprende i settori più prossimi all’àmbito delle scienze formali, sperimentali e applicate: - la linguistica teorica e applicata, con i suoi sotto-settori (neurolinguistica, psicolinguistica, sociolinguistica, linguistica computazionale ecc.); - le scienze cognitive, comprese le neuroscienze; - la traduzione automatica (linguistica applicata all’informatica); - la traduzione assistita (l’uso di banche dati elettroniche e di applicazioni speciali di supporto a un traduttore umano). Le due differenti macro-aree con i loro diversi sotto-settori non possono che giovarsi sia dell’interazione reciproca, sia di un approccio interdisciplinare. Nel loro insieme, tutte le competenze si rivelano altrettanto utili (talvolta indispensabili) per comprendere i meccanismi della comunicazione e come termine internazionale e con la sigla TS, gli studi letterario-culturali in campo umanistico; al contrario, translatology indica interessi speciici per la linguistica (soprattutto computazionale) ed entrambi i campi sono sotto-settori del settore generale translation theory (o theory of translation) che, effettivamente, mantiene una certa neutralità, ma è usato meno degli altri due. 17. Iperonimo è il termine che indica il nome generale di una categoria di oggetti, al cui interno si trovano sotto-categorie di oggetti speciici, indicate da iponimi. ‘Cane’ è un iperonimo rispetto a ‘bassotto’ (che è, quindi, un iponimo di ‘cane’, come ‘amaro’ è un iponimo di ‘liquore’ e ‘cena’ un iponimo di ‘pasto’). Questo concetto è fondamentale in ‘tecnica della traduzione’.
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della trasmissione tra linguoculture differenti. Alcuni importanti sotto-settori della teoria della traduzione nascono proprio dall’interazione delle ricerche sui prodotti e sui processi, e non possono prescindere da una programmatica interdisciplinarità. Si tratta, ad esempio, della didattica della traduzione, della critica della traduzione, della terminologia. In questi ambiti, agli studiosi sono richieste competenze speciiche sia nell’àmbito degli studi storicoumanistici, sia in quello delle scienze formali e sperimentali. Tuttavia, per lo più ancora oggi, le premesse, gli strumenti, i metodi, le inalità dei diversi sotto-settori disciplinari che si occupano di traduzione sono spesso ‘autarchici’ e non dialogici. Non esiste ancora una base comune cui tutti si riferiscano per costruire un dialogo scientiico. Questa situazione è tipica delle “discipline giovani”: da un lato, c’è un’eccessiva messe di intenti e prospettive, dall’altro, permane una sostanziale incomunicabilità tra gli studiosi, dettata da interesse di “scuola” che spesso si traduce in disinteresse per posizioni diverse dalle proprie18. 5. Verso il dialogo scientiico 5.1. Problemi epistemologici In quanto disciplina accademica giovanissima, la teoria della traduzione non ha mai affrontato in modo compatto e trasversale il dibattito epistemologico, cioè la discussione relativa alla natura e ‘studiabilità’ del proprio oggetto di ricerca, alle proprie inalità e alla condivisione delle premesse e dei termini utilizzati19. Paradossalmente, le fondamenta epistemologiche si rivelano sempre più lacunose a mano a mano che le pubblicazioni si moltiplicano. Infatti, negli studi sui prodotti e in quelli sui processi, negli studi descrittivi e in quelli prescrittivi, nella rilessione ilosoica e in quella logico-algoritmica, spesso si omette di rendere chiari i postulati di partenza e le procedure che, dai postulati, conducono in modo consequenziale ai modelli teorici. Come in altre discipline umanistiche, spesso si ignora o si trascura l’importanza di un modello teorico unitario, oppure, se si riconosce quest’importanza, si ignorano o si trascurano i vincoli che renderebbero il modello “scientiico”, cioè sia condivisibile, sia applicabile. 18. Le prospettive, in tal senso, sono incerte a causa delle nuove modalità di produzione e di accessibilità alle ricerche scientiiche: viene pubblicata una quantità crescente di lavori, diffusa a velocità inarrestabile; questo si ripercuote sulla reale possibilità e volontà di allargare i propri orizzonti integrando i traguardi raggiunti nel proprio àmbito con quelli raggiunti negli altri àmbiti. 19. In Italia, la “teoria della traduzione” è stata inserita come campo di studio nelle declaratorie ministeriali alla ine degli anni Novanta del secolo scorso, ma l’istituzione del primo insegnamento universitario uficiale di Teoria della Traduzione risale al 2001, a Genova.
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Nel suo libro Consilience, scritto alla ine del secolo scorso, l’entomologo e teorico della biologia E.O. Wilson lanciava un appello agli umanisti, invitandoli a perseguire nel loro lavoro accademico i criteri che potrebbero rendere più agevole il processo di ri-uniicazione del sapere, mettendo ine alla infruttuosa contrapposizione tra le scienze cosiddette ‘umane’ e quelle ‘formali’, ‘sperimentali’ e ‘naturali’ (che sono altrettanto ‘umane’). Secondo Wilson (2001, 227-28), le quattro qualità che universalmente conferiscono a qualsiasi teoria il carattere di ‘scientiicità’ sono: - la parsimonia o economicità, cioè lo sforzo di ridurre al minimo il contenuto della teoria; - la generalità, che prevede che la teoria sia valida per tutti gli elementi che rientrano nell’ambito dello studio (una teoria sulla gravitazione non deve prevedere eccezioni tra i gravi, così come una teoria sulla traduzione non deve prevedere eccezioni tra tipologie e formati testuali, né tra coppie di lingue); - la coincidenza o coerenza interdisciplinare (quanto afferma una teoria in un campo del sapere non può contraddire quanto afferma una teoria invalsa in un’altra disciplina, sempre che non si argomentino le ragioni della discrepanza); - la capacità di previsione sperimentale, ovvero la capacità della teoria di prevedere di essere sottoposta a prove sperimentali di falsiicazione. Questi quattro princìpi sono fondamentali, nessuno escluso: sono prerogative necessarie e suficienti a rendere “scientiico” (condivisibile e applicabile) qualsiasi modello teorico, dunque anche un modello teorico sulla traduzione. “Scientiico”, beninteso, non signiica affatto vero o corretto. Non importa se un modello è giusto o sbagliato: per essere “scientiico”, basta che sia comprensibile alla comunità scientiica e sottoponibile al controllo, cioè applicabile (principio di falsiicabilità di una teoria). Un modello teorico che affermi che chi mangia un mango alla settimana non contrae il virus del raffreddore è (immagino) scorretto e facilmente falsiicabile, è “scientiico” solo se si basa su dati che non sono contraddetti da altri studi sul mango e sul raffreddore: è economico, generale e può essere controllato dalla comunità che si occupa di modelli epidemiologici. Viceversa, una teoria che non sia falsiicabile – ad esempio, “chi ha la grazia divina ha diritto di godere di maggiori privilegi sociali” – non prevede alcun esperimento atto a invalidarla perché la “grazia divina”, ammesso che esista, non possiamo misurarla. Quindi, questa ipotesi teorica non è scientiica anche se potrebbe essere vera. Nel caso della traduzione, un modello teorico deve rendere più semplice (economico) il nostro modo di descrivere il processo traduttivo per quanto sia realmente complesso. “Ridurre” la complessità della descrizione non signiica affatto negarla o trascurarla, signiica offrire a qualsiasi studioso la possibilità di affrontarla, di capirla e di tentare di invalidarla (eventualmente di corroborarla, continuando a sottoporla senza successo a falsiicazione). 30
Per fare questo, la prima tappa indispensabile è formulare un insieme chiaro di concetti, di oggetti e di termini per indicare oggetti e concetti. I concetti e gli oggetti devono essere descrivibili mediante termini condivisi dalla comunità dei ricercatori. In realtà, almeno e soprattutto nella ricerca teorica, chiarire i concetti di partenza e le interrelazioni tra loro signiica ediicare un terreno di discussione per chiunque voglia contribuire a perfezionare quegli stessi concetti che, inizialmente, possono essere rozzi e altamente imperfetti. Illustrare i concetti e i termini che li deiniscono è un modo per allargare la discussione a nuovi potenziali interlocutori che li studieranno per partecipare alla discussione e saranno in grado di proporre revisioni, modiiche e, forse, nuovi concetti20. Solo individuando una base epistemologica che deinisca postulati e inalità, e che applichi metodologie condivisibili da parte dei ricercatori, la teoria della traduzione potrà inserirsi in quella “terza cultura” (cfr. Brockman 1999) che non oppone barriere al dialogo tra le scienze e si ribella alla settaria separazione del sapere in due culture: umanistica e scientiica. In particolare, come osserva Paolo Balboni (2002, 22), nel caso delle attività applicate come la traduzione, la consueta distinzione epistemologica tra scienze teoriche (mirate alla conoscenza) e scienze pratiche (mirate alla soluzione di problemi) può risultare semplicistica. La teoria che non si confronta con le sue applicazioni rischia di diventare autoreferenziale e ine a se stessa. Viceversa, “le scienze pratiche sono tendenzialmente scienze interdisciplinari” perché “si fondano su più scienze teoriche e su altre scienze pratiche e ne traggono le implicazioni utili per la soluzione dei problemi” (ivi). Avere la percezione della contingenza, soggettività, instabilità e interpretabilità dei concetti, delle deinizioni e dei termini impiegati è un passo in direzione del dialogo scientiico, un modo per ottenere interlocutori che potranno mettere alla prova la teoria al comune scopo di migliorarla sempre di più. La coerenza epistemologica, dunque, non esige identità di opinioni e di dati, ma la ricerca di un accordo preliminare proprio per discutere opinioni e dati divergenti, e individuare un punto di riferimento basato su deinizioni comuni21. Il fatto di utilizzare termini condivisi è l’unica condizione per non dover ogni volta ricominciare la discussione da zero. In queste prime pagine del libro, i termini speciici della teoria della traduzione e delle altre discipline cui si riferisce sono stati presentati in corsivo. Questa è una prassi invalsa per indicare parole la cui accezione e deinizione 20. Come osserva Alberto Peruzzi (1997, 13), infatti: “Quando ci si trova di fronte a una deinizione, c’è qualcuno che l’ha formulata e qualcun altro a cui è destinata. L’impiego di una deinizione può essere altamente informativo per il secondo anche se per il primo è banale”. 21. È anche importante abolire i concetti che non sono indispensabili a modellizzare le conoscenze o che ostacolano la comunicazione scientiica. Meno concetti sono coinvolti in una teoria, più chiari e condivisi sono, più è proicuo il dibattito scientiico. Uno dei termini più polisemici e inutili nella teoria della comunicazione è quello di “senso” che, se si cerca di formalizzarlo, si rivela refrattario a qualsiasi deinizione rigorosa.
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all’interno del settore disciplinare è più ristretta e precisa rispetto al contesto della lingua standard, non specialistica. Le parole speciiche, convenzionali, di un settore scientiico o professionale vengono proprio chiamate termini. Nessun termine, tuttavia, può essere considerato deinitivo e, tanto meno, “corretto” o “scorretto” al di fuori della discussione scientiica. Come afferma lo psicobiologo Henry Plotkin (2000, 73), l’importanza delle deinizioni è inversamente proporzionale al livello di avanzamento di una scienza. Quando le cose sono assodate e ormai chiare a tutti i partecipanti al dibattito scientiico, i termini sono meno importanti poiché sono ben chiari i concetti cui fanno riferimento. Quando invece si ha a che fare con fenomeni ancora poco studiati, poco compresi o particolarmente complessi e incerti, le deinizioni hanno un ruolo fondamentale, sono una parte irrinunciabile dell’impostazione teorica. Le cose si complicano ancor più nel caso di discipline ‘ibride’ (come la teoria della traduzione), che attingono ad almeno una decina di altri settori disciplinari, in primis la linguistica (generale e applicata). In questo caso, la comunicazione spesso fallisce tra studiosi che usano termini diversi poiché considerano temi e problemi da punti di vista differenti (ivi). Per questo, è fondamentale che i termini utilizzati siano sempre associati a deinizioni esplicite e che l’introduzione di nuovi termini, alternativi a quelli in uso, sia motivata da una modiica del concetto cui si riferiscono. Nella teoria della traduzione l’uso scientiico dei termini è recentissimo. Sebbene tra i testi “classici” pre-scientiici si rinvengano alcuni evidenti tentativi di classiicazione e deinizione dei concetti (cfr. Schleiermacher 1993), la maggior parte degli autori, nei secoli, ha fatto ricorso non a deinizioni, bensì a formule tautologiche: si dice, ad esempio, che una cosa è “scorretta” in quanto “è infedele”, senza deinire in modo chiaro e condivisibile cosa sarebbe “infedele” a cosa22. 5.2. Dalla pseudo-terminologia al metodo funzionale Come in altre discipline, numerosi termini utilizzati nella teoria della traduzione sono in realtà parole della lingua standard che non rispondono a deinizioni chiare, ma ai postulati ideologico-metaisici che hanno connotato la genesi della disciplina. “Fedeltà”, “originale”, “libertà”, “arte”, “talento”, “spirito”, “ispirazione”, “poesia”, “poeta”, “verità”, “senso”, per fare solo alcuni esempi, sono pseudo-termini, utilizzati di continuo come se fossero termini chiari e univoci, utilizzabili nella comunicazione scientiica; in realtà, non lo sono e non possono esserlo perché la loro caratteristica è proprio 22. Questo atteggiamento, purtroppo diffuso anche nella didattica della traduzione, crea una grande confusione negli studenti che si trovano con pseudo-termini non deiniti o con termini diversi per intendere concetti simili o identici.
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quella di non essere ‘deinibili’, cioè circoscrivibili a un concetto chiaro e condivisibile. La maggior parte degli pseudo-termini usati nel corso dei secoli per parlare di traduzione debordano contemporaneamente in categorie contraddittorie e sono basati su concetti metaisici, non utilizzabili in un dibattito scientiico23. A differenza di un termine, uno pseudo-termine si basa su ciò che il neuroilosofo Daniel Dennett (1997, 93-94) ha chiamato “ganci appesi al cielo”, cioè a idee prive di supporto nella realtà nota (ovviamente, l’unicorno può essere pensato e anche deinito, può essere considerato un ‘termine’ della mitologia, ma non della zoologia). L’uso di parole e concetti “appesi al cielo” ha contribuito a creare grande confusione: la traduttologia si è gradualmente costruita su segni ambigui privi di effettiva referenzialità all’effettiva attività traduttiva. Un esempio plateale è dato dall’insensato pseudo-termine “originale”, che pur raramente è ancora usato oggi (affronteremo la questione nel capitolo successivo, ripercorrendo le tappe iniziali della teoria della traduzione, preoccupata di salvaguardare l’integrità di “originali” che non esistevano e non esistono oggi). Il termine “fedele”, mutuato dalla religione, è altrettanto contraddittorio. Infatti, un testo non può essere “fedele” a qualcosa senza essere “infedele” a qualcos’altro: se è fedele agli etimi e ai morfemi, non lo è alla sintassi, se è fedele al genere, alle lettere, al numero delle parole, non è fedele alla pragmatica. Con l’ingenuo termine “fedeltà”, in realtà, spesso si vuole intendere il calco (che è invece un termine utilizzabile, perché chiaro e non ambiguo), cioè l’atto di riprodurre una struttura morfologica o sintattica, un signiicato dizionaristico o un etimo, una serie di suoni o la lunghezza di un verso ecc. Calco è un buon termine perché implica la speciicazione: può essere morfologico, etimologico, sintattico, pragmatico ecc.24 Se si calca una cosa, molto probabilmente non si calca l’altra. La locuzione interrogativa inglese What’s your name? a che cosa sarebbe fedele? A Qual è il tuo nome?, a Come ti chiami? Beh, se volessimo un calco semantico-sintattico, dovrebbe essere Cos’è tuo ∨ Suo ∨ vostro nome? Infatti, il pronome inglese ha tre possibili traducenti e, per selezionare quello corrispondente (uno e uno solo), servono i dati contestuali25. 23. Il termine metaisica e il relativo aggettivo qui e in seguito è da intendersi non solo come “non contingente” (extra-storico), ma propriamente come “estraneo alle leggi della isica”. La teoria della traduzione, infatti, ha mutuato dalla religione e dalla ilosoia irrazionalistica la maggior parte dei suoi pseudo-termini. 24. Il calco più noto è quello etimo-lessicale: si traduce una parola del TP con quella quasi identica della lingua di arrivo, sebbene le due parole siano semanticamente o pragmaticamente diverse (asimmetriche): in ‘gergo tecnico’ si chiamano “falsi amici” e hanno creato tanti problemi e relativi aneddoti (ad esempio, la frase pronunciata da Vittorio Emanuele Orlando al Trattato di Versailles: “L’Italie c’est une grande potence”, calcava l’italiano “potenza”, ma in francese “potence” signiica “forca”, mentre “potenza” è, di solito, “puissance”). 25. Il simbolo ∨ indica il connettore logico aut, ovvero la congiunzione ‘o’ esclusiva. Suo maiuscolo indica la forma italiana di cortesia (terza persona singolare femminile).
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E se si deve tradurre in italiano l’espressione fraseologica inglese “Out of sight, out of mind”, quale sarebbe la traduzione “fedele”?: 1) “Fuori dalla vista, fuori dalla mente?” 2) “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore?” 3) “Occhio non vede, cuore non duole?” Qualcuno approverebbe il calco n. 1? Cioè la traduzione che è ritenuta da qualcuno più “fedele”? Secondo la logica comunicativa, potremmo dire che quel calco è in realtà così “libero” (e astruso) che lo capirebbe solo chi conosce l’inglese: chi usa il calco n. 1 si prende la “libertà”, di fatto, di non tradurre, ma di convertire meccanicamente le parole come farebbe un programma elettronico piuttosto antiquato. In un noto, vecchio aneddoto, che risale agli esordi della traduzione elettronica, a un computer viene dato da tradurre in cinese proprio la frase “out of sight, out of mind” e si ottiene una stringa di ideogrammi cinesi. Per veriicare che abbia eseguito bene l’operazione, viene chiesta alla macchina la retroversione in inglese degli ideogrammi cinesi. Il prodotto è “invisible mad”. Il computer non è stato “fedele”, ma molto “infedele”: non ha tradotto l’enunciato, ma le sue due singole parti staccate, ignorando l’elemento fraseologico che rendeva l’enunciato indivisibile26. E se poi il fraseologismo inglese fosse stato il verso di una poesia in cui mind fa rima con kind? Sarebbe “fedele” far non-rimare mente con tipo? O forse va considerato un ordinamento gerarchico delle caratteristiche del TP che, in quel preciso contesto, rendono prioritario usare nel Testo di Arrivo (TA) il criterio etimologico, oppure quello sonoro, oppure quello fraseologico, o un altro ancora? E, se decidiamo di usare il criterio fraseologico, quale delle due varianti italiane (2, 3) possiamo/dobbiamo scegliere? E quanto è importante veriicare che il traducente italiano abbia la stessa occorrenza (frequenza d’uso) dell’espressione inglese? Come possiamo veriicare nei corpora delle due lingue se le varianti 2 e 3 sono usate nello ‘stesso modo’? Basta solo il numero di citazioni nei corpora? Vale anche l’intero motore di ricerca, basta “googlare” il fraseologismo? Anche di queste domande si occupa la teoria della traduzione. La prima cosa che emerge dalla ricerca teorica è il fatto che la cosiddetta “fedeltà” è la “libertà” che si prende qualcuno che non sa tradurre: è la soluzione privilegiata dei dilettanti e dei computer di vecchia generazione. La 26. F. Macaluso, traduttore di Damasio (1995), dovendo tradurre proprio “out of sight, out of mind”, si è trovato con l’ulteriore vincolo nel TP di un calambour (l’allusione a pazienti per cui “out of sight”, fuori dalla vista, fosse “in the mind”, dentro la mente), ma ha optato nel TA per un calco (citato tra virgolette come fosse un modo di dire italiano): “fuori della vista, fuori della mente” (ivi, 301); in quella forma, il calco è del tutto incomprensibile a chiunque non conosca l’espressione inglese. Non ha senso creare un calambour (ivi, 302) se non lo si può comprendere. Bastava usare la tecnica dell’esplicitazione (citando il calco italiano preceduto da “in inglese si dice…”), meglio ancora, lasciando l’idiomatismo in inglese.
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cosiddetta “traduzione fedele”, dunque, non è affatto una traduzione, ma un modo per convertire un enunciato chiaro in uno che non si capisce. La ragione è semplice: le lingue naturali possono esprimere tutto, ma lo fanno con strumenti tra loro diversi, asimmetrici. Ogni lingua ha soluzioni proprie per formare le parole (lessico), per usarle in funzioni diverse (morfologia), per unirle nella frase (sintassi), per collegarle al contesto d’uso (pragmatica). Al variare del contesto, un’invariante assume forme linguistiche diverse. In qualsiasi lingua, per una stessa invariante ci sono tante varianti quanti sono i contesti della comunicazione27. L’incoerenza del termine “fedeltà” vale anche per il suo antonimo: la traduzione “libera”, ammesso che si possa deinirla, parrebbe una non-traduzione, se un traduttore è ‘libero’ dai vincoli testuali, non sta traducendo, ma parafrasando. In traduzione, misurare i soli aspetti astratti, formali, la morfo-sintassi o il lessico non basta. Oltre le regole grammaticali, esistono le regole delle opzioni che consentono di selezionare i traducenti grazie alla marcatezza delle varianti tra cui scegliere (cfr. Bell 1997,118-122; Prandi 2004, 306-308). Le varianti solo in rarissimi casi sono perfettamente intercambiabili: dato un insieme di opzioni per dire la cosa Y, se un parlante ha scelto l’opzione X dell’insieme (“Stasera vieni?” è diverso da “Verresti stasera?” o da “Questa sera vorrei che tu venissi”), la traduzione in qualsiasi lingua è vincolata al fatto che l’opzione X contiene l’informazione Y, ma aggiunge anche informazioni che solo X contiene. Come vedremo, questo è il punto focale della teoria della traduzione, quello che, opportunamente formalizzato, può essere il fulcro di un modello teorico applicabile a qualsiasi testo. Jurij Lotman (1990, 37), uno dei padri della semiotica, ha proprio mostrato che, se in un testo si cambiano le parole, non si ottiene una “variante di contenuto”, ma “un nuovo contenuto”: quindi, qualunque linguista può veriicare che “non esistono sinonimi” (ivi). L’equivalenza di un testo tradotto non è altro che la capacità di a) recepire e b) ri-codiicare tutte le informazioni contenute in ogni unità traduttiva minima del TP: tradurre è scegliere, una dopo l’altra, l’opzione che, in quel contesto, userebbe un parlante dell’altra lingua pur in modo asimmetrico. Gli umani comunicano sempre mediante enunciati autonomi espressi in una delle variabili possibili. Il traduttore ha il compito di isolarli e tradurli in modo coerente al contesto di ogni variabile, senza mai scomporli nelle singo27. Questo problema è sempre stato recepito, ma non è mai stato spiegato in termini chiari prima di E. Nida e dei suoi studi teorici sulla traduzione della Bibbia. Eppure è chiaro che la “fedeltà” a un livello testuale implica infedeltà a un altro: il calco semantico preclude la funzionalità sintattica, il calco sintattico non rispetta il registro, il calco funzionale può non rispettare la prosodia, la riproduzione prosodica può essere asimmetrica dal punto di vista dei canoni, l’ossequio al canone può comportare la cancellazione della rima e così via.
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le parole che li compongono. Ogni testo è formato da una serie di enunciati, ognuno dei quali costituisce un’unità traduttiva minima. Un’unità traduttiva minima è un enunciato non scomponibile nelle sue parti; è, per così dire, una “formula linguistica” indivisibile o “formulaic sequence” (Wray 2002, 4), formata da “parole e stringhe di parole che vanno computate senza ricorrere al livello inferiore della loro struttura” (ivi). Buona parte delle lingue naturali è costituita da espressioni formulaiche (ivi, 28 ss.) che tutti usiamo in continuazione o nell’oralità, o nella scrittura (“Come va?”, “Buon giorno”, “Come ti chiami?”, “Non ne posso più!”, “Me ne frego!”, “Sta’ attento!”, “Mi raccomando”, “Ma dai!”, “Che palle!”, “Restando in attesa di un cortese riscontro”, “Porgo distinti saluti” ecc.). Solo raramente un’unità traduttiva consta di una singola parola (di solito un verbo o un sostantivo che sottintende un verbo) e costituisce un autonomo enunciato: ad esempio, “Stop!” (= fermati, chiunque tu sia), “Pappa!” (dammi da mangiare + ho fame + sono un bambino). Non posso tradurre in inglese “Pappa!” con “Would you, please, give me some food?”, l’enunciato inglese corrisponde a una diversa variabile della lingua italiana per chiedere del cibo: l’invariante è la stessa, ma l’opzione è incoerente sul piano contestuale. La formulaicità è l’aspetto fondamentale della lingua che rende fallimentare qualsiasi forma di calco. Invece di ragionare nei termini ingenui e contraddittori di “fedeltà” e “libertà”, al traduttore servono parametri concreti e concetti chiari, riconducibili a deinizioni discrete (in senso matematico) cioè che non si confondano tra loro e non siano ambigue. 5.3. Traduzione “orientata” o traduzione “totale” Un’altra frequente coppia pseudo-terminologica che i teorici della traduzione hanno prediletto in dall’epoca romantica e che è in voga ancora oggi è data dall’opposizione tra traduzione orientata all’autore e traduzione orientata al lettore. Il promotore di questa opposizione binaria è stato, nel 1813, il critico e letterato romantico tedesco Friedrich Schleiermacher (1993, 153). La sua idea era che il traduttore potesse e dovesse scegliere tra due “direzioni” della traduzione che avrebbero portato a due traduzioni completamente diverse: “O il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore”. La posizione di Schleiermacher ha avuto tale successo da essere stata ri-formulata in tempi recenti (in inglese) come opposizione tra traduzione source oriented e target oriented. Anche ammettendo che due testi completamente diversi tra loro siano entrambi “traduzioni” dello stesso TP, l’ipotesi di un’opzione di orientamento implicherebbe che il traduttore a) conosca le “intenzioni” dell’autore, b) escluda a priori la possibilità che un lettore del TA possa accedere al testo 36
come un lettore del TP, c) possa produrre due TA completamente diversi che (entrambi) sarebbero traduzioni. Un traduttore (come qualsiasi lettore) non può sapere quali fossero le “intenzioni” dell’autore, né può prevedere (come qualsiasi autore) chi siano i suoi destinatari e come costoro leggeranno il testo. In realtà, neppure un autore conosce tutte le proprie intenzioni, certamente non i suoi impulsi inconsci. Al massimo, uno scrittore conosce il suo progetto cosciente, ma non ha accesso alle risorse della sua creatività inconscia, proprio quella che trasformerà la sua opera da “trattato della coscienza” in “arte” (in poesia, ad esempio, possiamo trovare soisticati e assai signiicativi anagrammi intralinguistici di cui, certamente, i poeti-autori non sono/erano consapevoli; cfr. Sasso 1993). In tal senso, un traduttore non può far altro che orientare la traduzione verso se stesso, verso le proprie (soisticate) congetture. Ecco perché, in termini un po’ provocatori, è stata proposta altrove l’idea che la traduzione sia sempre self oriented, cioè progettata, prodotta, criticata dalla sola mente del traduttore nella sua veste di interprete-scrittore (cfr. Salmon 1998, 878-79). Come qualsiasi artefatto, ogni testo è un oggetto materiale, concreto, che può innescare diverse reazioni e che possiede, quindi, un potenziale per attivare nel lettore interpretazioni diverse. Questo potenziale è legato, né più, né meno, a quello che isicamente il testo contiene. Se un testo è stratiicato, ambiguo, polivalente, dotato di sottotesti o rimandi intertestuali, se è predisposto a innescare diverse reti associative (a seconda di chi lo legge in un preciso momento della sua vita), questo va còlto dal traduttore e la stessa potenzialità va trasferita al TA. Le caratteristiche di un testo, concrete e materiali, sono gli ‘ingredienti’ che consentono al potenziale comunicativo di attivarsi. In metafora, così come il retrogusto di peperoncino, zenzero, frutta può rendere speciale un piatto che diventa irriconoscibile, insipido, persino “immangiabile” se manca quell’ingrediente, egualmente un testo ha una serie di caratteristiche che ne deiniscono lo stile. È l’equilibrio degli ‘ingredienti’ del testo (le parole), il loro effetto combinatorio, unito alle tecniche di lavorazione delle parole a determinare la speciicità di un testo rispetto agli altri. Un traduttore è una sorta di sommelier di testi linguistici: il suo compito è trasformare un barolo in un barolo, lo champagne nello champagne ecc. Non si può aggiungere dell’acqua, dello zucchero o dell’alcol al vino senza snaturarne l’aroma. Tradurre è, sempre in metafora, un atto “chimico”, una questione di dosaggi che si possono misurare con appositi strumenti. Non c’è nulla di magico, solo molte soisticate competenze. Il buon esito della traduzione dipende da particolari abilità di una mente bilingue, addestrata a riprodurre i testi. Il bilinguismo (come vedremo, inteso in senso lato) costituisce il pre-requisito, ma si tratta di una competenza necessaria e non suficiente. A differenza di un autore di testi primari, che ha una quantità limitata di vincoli (è come un tennista che giochi senza rete), l’autore dei testi secondari ‘gioca con una rete altissima’: la traduzione è un 37
tipo di scrittura iper-vincolata, dove il massimo virtuosismo è guidato dalla profonda umiltà di prestare il proprio estro a un altro essere umano. Come avviene in tutte le più complesse attività umane (sport, danza, musica, canto ecc.), quanto più è bravo il traduttore, tanto meno si vedrà l’immensa fatica del suo lavoro e, come nell’arte o nello sport, se la traduzione non funziona nella sua totalità, non funziona del tutto28. Sempre secondo una metafora sportiva, non si può fare goal a metà: o si raggiunge la meta o non si raggiunge. Come sintetizza una delle più signiicative teorie di ine Novecento (la Skopostheorie), lo scopo della traduzione risponde all’idea che il TA funzioni come il TP nella cultura di partenza. Se una traduzione funziona in parte, signiica che – debitamente perfezionata – potrà funzionare nella sua totalità. Sono pochi i casi in cui questo accade, perché è recente la consapevolezza della complessità di questa attività e il conseguente investimento nella professionalità dei traduttori. Compito della teoria e della sua applicazione nell’addestramento dei futuri traduttori è far sì che a tradurre siano professionisti consapevoli, preparati, i cui requisiti siano garantiti da un lungo apprendistato. Così è accaduto per tutte le discipline applicative che prevedevano di commisurare la rilessione all’esperienza. Il connubio tra conoscenza teorica ed esperienza pratica ha permesso alla chirurgia del XXI secolo di essere smisuratamente più afidabile di quella dei secoli precedenti. Una rigorosa disciplina teorica può consentire alla professione di crescere esponenzialmente e di fondare critiche e autocritiche su criteri argomentati e dialogici. 6. Le legittime “pretese” della teoria 6.1. Dopo Babele La quantità, complessità e interdisciplinarità dei temi che rientrano nella traduttologia fa sì che la maggior parte dei saggi sulla traduzione siano rivolti a singoli aspetti o a speciici àmbiti settoriali. Molti di questi saggi hanno costituito e costituiscono un apporto irrinunciabile allo sviluppo e alla maturazione della disciplina, e contribuiscono a determinare quali siano i problemi che necessitano di indagini approfondite. Qualsiasi ricerca sulla traduzione presenta oggi limiti e approssimazioni inevitabili, ma nel suo insieme, il patrimonio della ricerca in questo campo già rivela in modo inequivocabile i punti deboli dei punti di partenza, dei costrutti preliminari. La presa di coscienza delle lacune epistemologiche e il loro superamento sono i primi passi per superare anche la tradizionale difidenza dei detrattori della teoria che si è sviluppata tra alcuni letterati restii ad accettare il contributo di discipline a loro 28. Parlando di “traduzione totale” non mi riferisco qui, direttamente, all’omonima opera di Peeter Torop (2010 [1995]), pur condividendone gli aspetti semiotici ed enciclopedici.
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estranee. Basti pensare che, ormai nel nuovo millennio, Stefano Manferlotti (2001, 191) si chiedeva quale fosse la ricaduta della rilessione teorica sull’attività del traduttore letterario e rispondeva: “nessuna”. Le sue considerazioni avevano una sola argomentazione: esistono traduzioni, i cui autori non hanno “avvertito il bisogno di compulsare Cicerone o Mounin” (ivi). Certamente, in effetti, chiunque può fare qualsiasi cosa senza tecnica, senza addestramento o rilessione, ma non si può non chiedersi quanto meglio l’avrebbe fatta con la necessaria preparazione e quanto, in assoluto, sia professionale ciò che ha fatto. Purtroppo, il canone letterario non ha mai premiato chi traduceva bene, ma chi occupava una posizione autorevole come letterato29. Per comprendere ricchezze e limiti delle posizioni anti-teoretiche, è utile considerare in modo privilegiato un testo che, per decenni e a livello internazionale, è stato considerato il più noto contributo sulla traduzione: si tratta di After Babel del 1975 (Dopo Babele, 1984), scritto dal noto letterato comparatista, saggista e intellettuale (trilingue) George Steiner. Questo corposo saggio è una dettagliata ed erudita ricostruzione storicocritica dell’attività traduttiva occidentale e delle posizioni teoretiche a essa connesse, ed è stato un punto di riferimento irrinunciabile per i teorici della traduzione; in un modo o nell’altro, ha profondamente inluenzato e condizionato gli studi successivi. Tra i meriti del libro, vi è quello di offrire un quadro storico complessivo e una suddivisione cronologica dell’attività traduttiva occidentale. Nonostante l’approccio profondamente euro-centrico, la periodizzazione proposta da Steiner ha avuto il merito di evitare la grande insidia della diffusa periodizzazione e suddivisione della storia letteraria (cfr. Bassnett-McGuire 1993, 63). Pur essendo solo una delle sintesi possibili, la quadripartizione di Steiner (1984, 229-231) coniuga utilmente la cronologia con il substrato storico-ideologico e fornisce un utile punto di partenza per discutere le alternative: - il primo periodo è deinito “focalizzazione empirica immediata” (ivi, 230) ed è caratterizzato da “analisi e dichiarazioni embrionali” (ivi, 229); parte da Cicerone e Orazio, e arriva alla ine del XVIII secolo, ovvero alla pubblicazione, nel 1792, dell’Essay on Translation di A.F. Tytler (Lord Woodhouselee); - il testo di Tytler, assieme al (già citato) saggio di Schleiermacher, “Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens” (“Sui diversi metodi del tradurre”, cfr. Schleiermacher 1993), segna l’inizio del secondo periodo, “stadio di teoria e indagine ermeneutica” che dominerà ino alla metà del XX secolo; questo periodo è coronato dal celebre scritto di Walter 29. Se trent’anni fa, agli esordi della mia carriera di traduttore, qualcuno mi avesse insegnato la tecnica e la rilessione, la progettazione e le strategie della traduzione, avrei evitato di impararle da sola, per tentativi ed errori: il mio lavoro sarebbe stato in dall’inizio improntato alla professionalità. “Compulsare” i testi teorici consente di evitare l’arbitrio che è la negazione stessa della professionalità.
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Benjamin “Die Aufgabe des Übersetzers” (“Il compito del traduttore”, cfr. Benjamin 1995), pubblicato nel 1923, ma celebrato negli anni Settanta, quando divenne il perno ideologico del quarto periodo, quello “neoermeneutico”; - il terzo periodo prende il via negli anni Quaranta e prosegue poi, parallelamente, anche durante la quarta fase neo-ermeneutica, seppur separatamente a causa di una vistosa differenziazione di premesse, intenti e inalità. La terza fase è quella del grande “sogno computazionale”. Nel tentativo di trovare in tempi brevi una strada per realizzare la traduzione meccanica (prima) e computazionale (poi), numerose équipe di ricercatori cercavano algoritmi e pattern strutturali che rendessero ri-codiicabili tra loro le lingue naturali con regole semplici e quindi facilmente applicabili. Quest’aspirazione era stata nutrita in embrione dalle ambizioni del formalismo russo, corrente pionieristica che, aspirando a rendere scientiica, cioè formalizzabile, l’arte letteraria, proponeva metodi d’indagine rigorosa per rendere “oggettivo” lo studio dei testi. Per evitare gli aspetti “soggettivi” della letteratura, dificilmente formalizzabili, alcuni tra i più noti formalisti invitavano a ‘sezionare’ i testi senza considerare la complessità psichica della comunicazione umana, la funzione emozionale dell’estetica. La psiche umana, cioè l’aspetto che oggi parrebbe il generatore primario dell’arte (di chi la crea e di chi ne fruisce), era quindi bandita dalla ricerca. Il formalista Boris Ejchenbaum, in un noto saggio del 1927, “Com’è fatto il Cappotto di Gogol’”, rendeva programmatico questo riiuto della psicologia, trasmettendo un lascito alle scuole strutturaliste (eredi del formalismo) che equivaleva a un veto: L’opera d’arte è sempre qualcosa di fatto, di foggiato, d’inventato, non soltanto d’artistico, ma anche d’artiiciale nel senso buono della parola; e pertanto in essa non vi è e non può esservi posto per il rilesso dell’esperienza psichica (Ejchenbaum 1968, 268).
La terza fase, in realtà (Steiner non ne era del tutto consapevole), aveva trovato un’eco fruttuosa nell’enorme contributo delle scuole traduttologiche slave (russa, polacca, ceca, slovacca e bulgara), sebbene – almeno uficialmente – i primi risultati noti nell’àmbito della traduzione computazionale fossero stati diffusi negli anni Quaranta in America; - il quarto periodo, inine, può essere inteso come reazione al “pensiero forte”, formalistico, scientistico e deterministico dominante ino agli anni Sessanta, che i sostenitori della neo-ermeneutica criticavano come “nuova metaisica”, come un tentativo di sostituire alla Verità dell’arte l’asettica e cinica verità della scienza. Secondo il suo stesso schema, il testo di Steiner parrebbe rientrare in quest’ultima epoca “postmoderna”30. 30. L’aggettivo “postmoderno” è usato qui esclusivamente in termini generici per intendere quella diffusa (e potente) corrente ideologico-culturale che vede nella concezione illumi-
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Dopo Babele ha grandi meriti accanto ad alcuni limiti epistemologici, pertanto è l’opera più indicata per avviare una rilessione sulla storia della teoria e, soprattutto, per argomentare l’importanza di un’impostazione più attenta alle premesse (e alle lacune) epistemologiche. Infatti, l’opera di Steiner ha contribuito – sulla scia di noti antesignani novecenteschi (soprattutto di José Ortega y Gasset) – a nutrire gli umori postmoderni che, in buona parte, hanno inluenzato lo scetticismo teoretico di letterati e ilosoi. Di fatto, Steiner è divenuto un riferimento utile per chiunque fosse critico verso la linguistica e considerasse pretenziosi o addirittura irriverenti i tentativi di rendere più scientiico lo studio della traduzione, tentativi che Steiner (1984, 229-285) deinisce, nell’omonimo capitolo, “le pretese della teoria”. Con il suo pregiudiziale atteggiamento anti-teoretico, Steiner ha rafforzato i preconcetti delle cosiddette “scienze umane”, allontanando il dibattito sulla traduzione dalla prospettiva scientiica e sancendo ulteriormente lo scisma tra gli studi linguistici sui processi e gli studi culturali sui testi. In ottica postmoderna, il traduttore è visto non come un professionista dotato di conoscenze teoriche e tecniche, ma come un demiurgo al centro di un’operazione non deinibile, il cui talento non è acquisito secondo un addestramento professionale, ma è originato da una sorta di ‘ispirazione’, peraltro inferiore e meno nobile rispetto all’ispirazione di un Autore. In quest’ottica, in modo esplicito si deduce che la traduzione letteraria non può essere oggetto di studi scientiici, mentre la traduzione non letteraria non merita l’attenzione degli studiosi dei testi e dell’ermeneutica testuale. Secondo Steiner, la traduzione letteraria non può essere studiata scientiicamente perché rappresenta un paradosso. Echeggiando Ortega y Gasset e commentando un celebre racconto di Borges, Steiner affermava (1984, 71): Ripetere un libro già esistente in una lingua straniera è il ‘compito misterioso’ del traduttore, il suo lavoro. Non è possibile, ma deve essere fatto.
Solo i miracoli avvengono senza essere possibili. Per cui il ‘buon’ traduttore sarebbe sospinto da una ‘vocazione’ che (come quella religiosa) non dipende dallo studio e dall’addestramento. Dal canto suo, il ‘cattivo’ traduttore non è chi è privo di requisiti professionali, ma è un ‘impostore’. Questa idea risale a Leonardo Bruni, l’eminente esponente dell’Umanesimo che meglio la ha espressa. In un noto saggio del 1420, Bruni (1993, 86) invitava a evitare la “colpa imperdonabile” che “una persona priva di cultura e di gusto si accosti al lanistica, nell’approccio scientiico, nella formalizzazione del sapere, un illusorio intento autolimitante del pensiero e della creatività umana, e che reclama l’autonomia del pensiero umanistico, svincolato da scienza e tecnologia. Non si riferisce invece alla critica socio-politica (anticapitalistica), condivisa da buona parte del pensiero postmoderno, in quanto una posizione anticapitalistica non contraddice affatto, in linea di principio, l’adesione al razionalismo e alla difesa del metodo scientiico.
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voro di traduzione”. Da un lato, questa sua è un’opinione genericamente condivisibile, ma, dall’altro, Bruni rimette i requisiti del traduttore ai concetti di “gusto” e “cultura” senza però deinirli. Di per sé, Bruni non dice nulla di controvertibile, ma tace sulla possibilità che gusto e cultura siano competenze e non doti ontologiche di alcuni umani e non di altri. Da questo deriva il corollario che la traduzione non sia un’attività assoggettabile a competenze, assunto che ha frenato il dibattito sul piano epistemologico. Se diciamo che è imperdonabile che una persona priva di conoscenza della medicina faccia il chirurgo, tutti convengono. Infatti, possiamo stabilire, pur in modo approssimativo e contingente (hic et nunc) come circoscrivere il processo di acquisizione della conoscenza medica: sei anni di corsi universitari comuni e ulteriori anni di specialità, comprensiva di addestramento. Viceversa, secondo la concezione umanistica, il concetto di “gusto” non viene fatto rientrare tra i requisiti acquisibili, bensì, tra le indeinibili qualità che caratterizzano un’indeinita élite. In realtà, il gusto artistico è un senso composito che riguarda la capacità di distinguere input sensoriali (sostanzialmente visivi, uditivi, olfattivi) secondo categorie condivise da un’élite culturalmente ‘preparata’, cioè educata, abituata e addestrata a farlo. Bruni (ivi, 86) diceva giustamente che un traduttore deve ricreare nel TA lo stile e l’andamento ritmico del TP, ma non allude al grado di bilinguismo necessario per tentare questa operazione, né sembra considerare il fatto che l’analisi stilistica dei testi letterari si insegna, si esercita e si impara. In un cervello umano, particolarmente ricettivo all’inluenza dell’ambiente e dell’educazione culturale, ogni forma di ‘gusto’ viene esercitata a livello macro-cognitivo dall’esperienza, cioè dall’addestramento. Per un letterato, ad esempio, la percezione estetica delle caratteristiche di un testo non diverge, in senso lato, dalla percezione selettiva di un critico dell’arte, dalla valutazione di un vino, dalla computazione diagnostica di un medico. Nelle arti, come in medicina, uno specialista può essere più o meno brillante, volendo anche “geniale” (cioè straordinariamente intuitivo e capace di collegare tra loro i dati), ma quello che distingue la professionalità di un esperto dei testi dall’incompetenza è epistemologicamente simile, mutatis mutandis, a quello che distingue un medico da chi non lo è. A distanza di cinque secoli, Steiner, pur in modo estremamente forbito e prolisso, non faceva che aderire alla posizione di Bruni, giungendo alla conclusione che teorizzare la traduzione fosse prematuro o impossibile in assoluto. La principale ragione di questo scetticismo teoretico era per lui (e resta oggi per qualcuno) una malcelata difidenza generale per la linguistica e il conseguente desiderio di lasciarla fuori da un àmbito, quello della traduzione, che si vorrebbe relegato al solo campo umanistico. Apparentemente, Steiner riconosceva l’importanza della linguistica, ma le ambizioni di questa giovane scienza gli sembravano chimeriche e pretenziose: da qui la convinzione che la traduzione non solo non richiedesse dimestichezza con la linguistica, 42
ma che non richiedesse competenze assoggettabili né ad apprendimento, né a deinizioni discrete. Sulla scia del ilosofo irrazionalista spagnolo Ortega y Gasset, che vedeva nella traduzione un atto paradossale e utopico che (come tutte le azioni umane) viene fatto senza poter essere fatto, Steiner (1984, 285) affermava che la traduzione “non è una scienza, ma un’arte esatta” e che, in quanto “arte esatta”, è estranea alla “logica”: “la logica”, diceva, è “successiva al fatto” (ivi). Quest’ultima affermazione è oggi contestabile sulla base di quanto le scienze cognitive hanno dimostrato a livello teorico e sperimentale: la logica non è posteriore “al fatto”, ma governa per lo più in modo rigoroso le computazioni inconsce. Semmai, è la coscienza che interpreta secondo una pseudologica quello che molto logicamente viene eseguito a livello inconscio (cfr. Gazzaniga 1999). L’intelletto umano non è affatto vincolato alla coscienza, poiché anche soisticate intuizioni scientiiche possono derivare da processi logici inconsci, che si manifestano come “visioni” o persino in sogno, ma che si basano su competenze pregresse e su calcoli soisticati troppo veloci per essere registrati dalla coscienza31. 6.2. L’errore di Cartesio Nel cervello umano, le operazioni logiche avvengono in larga misura a livello inconscio, in millisecondi, prima di essere trasmesse alla coscienza che le registra con notevole lentezza. In altre parole, il cervello segue la ‘sua’ logica inconscia, spesso capace di eseguire computazioni di grande complessità, che lasciano la sensazione di essere stati “ispirati” da una fonte esterna: infatti, la coscienza può non registrare affatto la computazione, può registrarne solo una parte oppure può ricostruirla a posteriori con grande sforzo. Questo spiega la traduzione “geniale”, estemporanea di una poesia, che sembra nata dall’ispirazione, ma che deriva invece da soisticate computazioni inconsce della mente, che ha ‘processato’ così tanti dati da non riuscire a crederci: i dati sono conservati nel cervello, in circuiti mnestici che in parte non sono accessibili alla coscienza (ad esempio, la memoria di tutte le poesie lette ino a quel momento), ma che certamente a livello cosciente non possono essere computati tutti insieme dalla “memoria di lavoro” che è limitatissima32. Le computazioni inconsce, ripetute tante volte, memorizzate a lungo termine grazie all’uso e ricostruite dall’analisi cosciente, possono trasformar31. Sono numerosi i lavori di alta divulgazione che hanno illustrato questo complesso fenomeno di interazione tra circuiti impliciti ed espliciti del cervello (cfr. ad esempio Damasio 1995, 2000, 2003; Dennett 1991, 1997; LeDoux 1999, 2002, Freeman 2000, Changeux 2003, Ramachandran 2004). 32. Quando un’informazione raggiunge la coscienza, cioè quando ‘ricordiamo’, signiica che l’informazione viene trasferita dal “deposito a lungo termine” all’attenzione consapevole per essere quindi “processata” dalla memoria di lavoro (cfr. LeDoux 2002, 443).
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si in procedure e prodursi in modo più o meno automatizzato (è questo che consente la traduzione simultanea). Chi ha passato molto tempo a leggere, studiare, scrivere poesia, può improvvisare sonetti “a orecchio” senza computare coscientemente il numero delle sillabe e le rime, ma il suo cervello – grazie a una sorta di ‘orecchio interno’ – ha calcolato tutto già prima che le parole vengano pronunciate. Questo spiega in parte anche il processo traduttivo, che a qualcuno pareva così ‘misterioso’ da far pensare che fosse semplicemente un ‘dono’. Il noto traduttore e teorico Eim Etkind (1968, 6), dichiarando a proposito della traduzione che “la pratica estetica ha superato la rilessione teorica”, lasciava intendere che, quando si tratta di una creatività artistica così complessa, non ci sia spazio per l’analisi scientiica. Quest’idea può essere superata se si ammette a) che il nostro cervello sa eseguire inconsciamente operazioni linguistiche così complesse da rendere la loro formalizzazione spaventosamente ardua (ma non necessariamente impossibile), b) che una teoria della traduzione deve essere fondata tanto sullo studio dei prodotti culturali (banca dati), quanto sul funzionamento cognitivo del processo traduttivo (procedure acquisite). Una siffatta teoria, che consideri entrambe le cose, non è affatto prescrittiva, bensì descrittiva, com’è descrittiva ogni scienza empirica basata su conoscenze ed esperienza. La medicina, ad esempio, descrive le malattie, descrive le terapie e descrive le tecniche chirurgiche che permettano di curarle, senza alcuna pretesa che deinizioni, terapie e tecniche siano deinitive; si cerca che siano le migliori a disposizione e che aiutino a trovarne di ancora migliori in futuro. Ovviamente, in tutte le professioni esistono normative e ‘protocolli’ apparentemente prescrittivi, ma la loro funzione è di essere un riferimento condiviso per valutare come, quando e quanto si possa rischiare di derogare qualora si presentino nuovi dati33. La deinizione steineriana di “arte esatta” tende ad affermare senza sostanziali argomentazioni che la traduzione non è assoggettabile a studio rigoroso (perché è “arte”), supponendo però uno standard isso di esecuzione (perché è “esatta”). Per uscire da questo paradosso, basta ammettere che è un mestiere a “regola d’arte”, cioè attinente a tecniche e strategie che sono classiicabili, studiabili, migliorabili. È quindi immotivato restare vincolati al pregiudizio che l’attività traduttiva sia il risultato di una vocazione, di un dono naturale/spirituale non riducibile alla rilessione scientiica e che la traduzione, in quanto “arte”, debba restare avvolta da un alone di insondabile mistero. È immotivato pensare alla traduzione come a un’attività che non si insegna, non si impara e non si studia. Questo pregiudizio rilette soltanto un ostinato utilizzo astratto e misterico della parola “arte”. 33. Neppure la giurisprudenza è limitata a prescrizioni e proscrizioni, infatti prevede al suo interno la possibilità di descrivere situazioni nuove, cambiare le leggi o interpretarle diversamente in base a nuovi dati. Solo l’autoritarismo è prescrittivo e proscrittivo, e una scienza autoritaria è una contraddizione in termini, ovvero è autoritarismo mascherato da scienza.
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Deinendo la traduzione un’“arte esatta”, Steiner non deinisce il termine “arte”, né il concetto di “esattezza”, il che impedisce a priori di spiegare secondo quale criterio qualcosa non sia arte e non sia esatto. Inoltre, attribuisce al misterico concetto di arte l’impossibilità di deinire in modo più formale il processo traduttivo34. In realtà, Steiner trascura proprio l’indagine di tipo estetico-psicologico e quella linguistica e psicolinguistica, che è componente imprescindibile della traduttologia, che studia le abilità cognitive umane come insieme di processi razionali e irrazionali, consci e inconsci, isici e relazionali (sociali) e, in quanto tali, indagabili (almeno parzialmente) con il metodo scientiico. Parole come “intuizione” e “ispirazione” contribuiscono a rafforzare antiche superstizioni e a censurare la “dangerous idea” (cfr. Dennett 1997) che la mente biologica umana faccia cose fenomenali e contro-intuitive di cui sappiamo ancora poco, ma che sono il risultato dell’evoluzione e della selezione naturale, non di misteri mistici. Una completa padronanza dei fenomeni della mente umana è probabilmente, in assoluto, al di là delle capacità della nostra specie, ma questo non signiica affatto che non si possano studiare sempre più e sempre meglio le operazioni mentali, comprendendo almeno cosa, di preciso, non riusciamo a capire e perché. L’approccio scientiico ci impone di riconoscere e di mettere in discussione le nostre credenze e i nostri costumi mentali, di riconsiderare continuamente postulati, ipotesi e dati35. L’idea che esista una Mente/Anima estranea al mondo isico e alle sue leggi (come voleva Cartesio) viene oggi difesa a spada tratta come fosse la sola salvezza dalla supposta prepotenza tecnocratica della scienza. In realtà, prepotente è la natura umana (e la pseudo-scienza), non il metodo scientiico, il cui riiuto non è rivoluzionario, ma conservatore. Come testimonia tutta la storia della scienza, il fatto che un’ipotesi sia di dificile dimostrazione, o appaia fantastica, o sia in contrasto con le nostre credenze e con il senso comune, non signiica che sia errata o indimostrabile. Le grandi rivoluzioni scientiiche spesso hanno scosso l’umanità (più di quelle tecnologiche) proprio perché comportavano uno sforzo mentale molto maggiore di quello richiesto dal senso comune dominante; non è un caso che lo scetticismo conoscitivo, tipico di tutta la storia umana, si acuisca di fronte a ogni grande scoperta o invenzione (cfr. Dennett 1997, 423-424; Pinker 1997, 82) e che generi una pseudo-scienza “bugiarda” (cfr. Di Trocchio 1995). Un conto è dire che non tutto è immediatamente conoscibile at34. Questa osservazione è davvero importante se si considera il legame intrinseco che la teoria della traduzione ha con la tradizione letteraria. Non è infatti possibile affrontare una qualsivoglia ipotesi teorica se si prescinde da una pur provvisoria deinizione di arte che inquadri il problema nei suoi aspetti storico-antropologici (si veda anche il capitolo seguente). 35. Uso il termine “credenza” secondo la deinizione proposta da Alberto Oliverio così sintetizzata: “Le credenze sono stati mentali, cioè pensieri in cui si ritiene che una preposizione sia veritiera (ritengo che la neve sia sofice, che Carlo sia buono) e che preparano all’azione” (Oliverio 1999, 195; corsivo mio).
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traverso il metodo scientiico, altro è dire che il metodo scientiico depriva la conoscenza della sua “anima”. La conoscenza è un atto isico, cerebrale, ed è la cosa più appassionante e gratiicante che sia offerta all’esperienza umana: si nutre di curiosità e combatte i pregiudizi (che abbiamo tutti, sempre)36. Come ha ampiamente argomentato (oltre ogni ragionevole dubbio) Antonio Damasio (1995), oggi sappiamo che quello di Cartesio è stato un fenomenale “errore”: Eccolo, l’errore di Cartesio: ecco l’abissale separazione tra corpo e mente – tra la materia del corpo, dotata di dimensioni, mossa meccanicamente, ininitamente divisibile, da un lato e la “stoffa” della mente, non misurabile, priva di dimensioni, non attivabile con un comando meccanico, non divisibile; ecco il suggerimento che il giudizio morale e il ragionamento e la sofferenza che viene dal dolore isico o da turbamento emotivo possano esistere separati dal corpo. In particolare: la separazione delle più elaborate attività della mente dalla struttura e dal funzionamento di un organismo biologico (ivi, 338-339).
La ricerca nell’ambito della letteratura in generale e della traduzione in particolare è nata e si è evoluta con i limiti pregiudiziali del conservatorismo cartesiano. Soprattutto per questa ragione il fallimento della traduzione meccanica (prima) e computazionale (poi) è stato accolto con compiaciuta soddisfazione dagli ideologi dello scetticismo. Ciò, del resto, è comprensibile: i primi insuccessi, almeno temporaneamente, hanno allontanato l’idea perturbante che l’Homo sapiens-sapiens, nel suo complesso, potesse (anzi, possa) essere, come dice Steven Pinker, una “thinking machine” (1997, 59-148)37. Il mistero è parso preferibile alla dimostrazione dell’inconsistenza del nostro antropocentrismo metaisico. Giustamente, nella prefazione al libro di Roger Bell Translation and Translating, Christopher Candlin (1997, XI) scrive: For someone who is professionally engaged in conceptualising and organising postexperience programmes in Applied Linguistics […] the discipline of Translating has always posed problems. Very largely, I suspect, because it has presented the twin (and both equally inaccessible to the outsider) qualities of the guild and the mystery.
Anche così si spiegano le resistenze di grandi studiosi come George Steiner di fronte alla sperimentazione scientiica e alla razionalizzazione dei ‘misteri’ dell’arte. Pur avendo il merito di denunciare gli estremismi scientisti, l’atteggiamento postmoderno di “allergia alla scienza” (Bloch 2000, 191) giunge spesso a dogmatismi peggiori di quelli che vorrebbe combattere38. 36. Ciò non toglie, ovviamente, che anche gli scienziati siano fortemente condizionati dalle proprie convinzioni e perseguano ostinatamente ciò che già hanno deciso di trovare: è raro, infatti, che i ricercatori, in particolare i teorici, siano disposti a lasciarsi sorprendere dai loro risultati. Come sottolinea E.O. Wilson, “gli individui sono naturalmente romantici, hanno bisogno di miti e di dogmi” (2001, 69). 37. L’idea, ovviamente, è seccante, ma, se è così, pazienza. Saperlo è decisamente interessante. 38. All’epoca di Galileo, l’idea che la terra girasse intorno al sole era considerata da molti non solo impossibile, ma sacrilega: da un lato, violava le dominanti ideologie teleologiche
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Uno tra i compiti più urgenti della traduttologia è, quindi, quello di diffondere l’idea che, a differenza di esegeti e sacerdoti, i teorici della traduzione possono assumere un atteggiamento più orientato al metodo scientiico: gli scettici diranno che è impossibile. I fatti della scienza e l’arte non potranno mai essere tradotti l’uno nell’altra. Questa è la risposta della saggezza popolare. Ritengo che sia sbagliata (Wilson 2001, 134).
Qualcuno sosterrà che il riiuto dei dogmi è esso stesso un dogma, ma è un’arguzia che maschera una forma di autoritarismo: c’è una grande differenza tra dogma e ipotesi, tra verità imposta e postulato provvisorio39. Una teoria della traduzione che non voglia emarginarsi dal generale processo della ricerca scientiica dovrebbe indagare l’attività traduttiva come insieme di operazioni altamente complesse, basate su processi decisionali orientati a criteri e parametri (pattern). Il ine ultimo della teoria è quello di far rientrare questi processi nel più generale quadro psico-cognitivo delle attività mentali umane, di individuare ciò che accomuna (oggettivamente) e ciò che distingue (soggettivamente) tutti i processi traduttivi al di là della sensazione di impossibilità o di mistero che incutono. Questo non deve spaventare: Rendersi conto che dietro il comportamento umano più sublime vi sono certo meccanismi biologici non comporta una riduzione semplicistica alla meccanica della neurobiologia. In ogni caso, la parziale spiegazione della complessità per mezzo di qualcosa che è meno complesso non signiica impoverimento (Damasio 1995, 185).
Finora, invece, la teoria della traduzione ha fatto tendenzialmente il contrario: ha insistito, come osserva Bell (1997, XV), sull’“aneddotismo individualista”, cercando di suddividere e differenziare tipologie mal deinite, alimentando l’assioma del ‘mistero’ e dando la sensazione ittizia che lo scetticismo nei confronti del metodo scientiico sia non solo fondato, ma moralmente giustiicato. Infatti, ancora oggi negli studi sulla traduzione permane un dualismo che non solo non è necessario, né giustiicato, ma che è dannoso. Ad esempio, si contrappone il concetto di “creazione dell’opera” (ispirata) a quello di “costruzione dell’opera” (materiale), come se si parlasse di fenomeni di diversa natura (cfr. Legeżyńska 1997, 48). Ancora nel 1991, Carlo Carena (1991, 209) scriveva senza alcuna remora che chi tradue antropocentriche, dall’altro era contro-intuitiva (infatti, secondo i nostri sensi, si muove il sole e noi stiamo fermi). 39. L’irrazionalismo ha un aspetto autoritario ed è importante distinguere la positività delle critiche all’autoritarismo scientiico che hanno contribuito al progredire del pensiero epistemologico – come quella dell’ermeneutica tedesca, del “pensiero debole” e del Dialogo sul metodo di P. Feyerabend (1989) – dagli atteggiamenti di chi sfrutta il linguaggio della scienza in nome dell’arbitrio: si veda l’implacabile denuncia di Sokal e Bricmont (1999), che hanno smascherato talune mistiicazioni decostruzioniste che hanno imperversato per decenni ino a tempi recentissimi.
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ce non dev’essere un “traduttore di mestiere”, ma un “letterato”, non solo escludendo dal supposto ‘non-mestiere’ della traduzione chiunque traduca la ‘non-letteratura’, ma negando che esistano competenze professionali nella formazione dei traduttori. Nelle sue diverse gradazioni, questo pregiudizio che non è giustiicato neppure per le lingue antiche, ha avuto e continua ad avere notevoli conseguenze in campo teorico, didattico e professionale: chi traduce lavora sempre sulla lingua e non può esimersi dal suo studio in quanto sistema complesso. In tal senso, la negativa contrapposizione tra letterati e linguisti che ha dominato tutta la traduttologia del XX secolo può essere vista come il tentativo di contrapporre su base ideologica i “creatori” (i letterati) ai “costruttori” (i linguisti): i primi, in realtà, collegano le premesse ai “ganci appesi al cielo”, mentre gli altri indagano, con più o meno umiltà e pazienza, come funziona il linguaggio e come gli umani usano le lingue. 7. La tendenza alle opposizioni binarie 7.1. Traduzione e interpretazione Le contrapposizioni binarie hanno caratterizzato la teoria della traduzione in dai suoi esordi medievali: testi sacri vs. “altri testi”, testi “letterari” vs. testi “tecnico-scientiici”, testi scritti vs. orali, poesia vs. prosa ecc. Particolarmente signiicativa e discriminante è stata la contrapposizione tra traduzione (scritta) e interpretazione (orale) che ha portato pensatori, traduttori e il vasto pubblico a considerare le due attività come radicalmente diverse, come se si trattasse di azioni che non condividono né inalità, né procedure, né requisiti40. Questa differenziazione ha avuto uno straordinario successo ed è oggi attestata a livello disciplinare, didattico e accademico. Anche questo pregiudizio ‘binario’, uno dei più radicati, è stato formulato programmaticamente da Schleiermacher (1993, 144-145). Nel già citato saggio del 1813, lo studioso tedesco proponeva di basare l’approccio teorico sulla contrapposizione tra Übersetzung (traduzione scritta della scienza e dell’arte) e Dolmetschung (traduzione orale della quotidianità)41, come se un traduttore non interpretasse e un interprete non traducesse. 40. Con “interpretazione” viene intesa l’attività generale dell’interprete, mentre con “interpretariato” si intende una prestazione professionale. Nella prassi universitaria e scientiica, oggi il termine “interpretazione” è uficialmente attestato per indicare ciò che fa l’interprete e che auspicabilmente sostituirà deinitivamente, anche nel mondo professionale, il termine “interpretariato”. Tuttavia, a livello ministeriale, continuano a proporsi per i corsi universitari etichette come “Traduzione e interpretariato” che rivelano ancora una scarsa capacità di separare l’evento dalle competenze (mutatis mutandis, sarebbe come se “intervento [chirurgico]” e “chirurgia” fossero termini intercambiabili). 41. La terminologia in tedesco è rimasta la stessa: Übersetzer è il traduttore dei testi scritti, Dolmetscher è l’interprete.
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Se ci si concentra sulle concrete differenze che esistono nell’esercizio delle due attività professionali del traduttore e dell’interprete (e tra le varie modalità di traduzione orale), la cosa è comprensibile. Tuttavia, è secondaria e posteriore rispetto a ciò che accomuna il tradurre in ogni sua forma. La contrapposizione di Schleiermacher (1993) presenta, infatti, due seri e vistosi problemi epistemologici: per prima cosa, non è epistemologicamente motivabile partire dalle differenze prima di vedere che cosa renda la traduzione – scritta, parlata o segnata – il risultato di un analogo processo psico-cognitivo (sarebbe come partire dalla differenza tra cani e gatti senza aver prima considerato che sono entrambi animali, quadrupedi, mammiferi, domestici ecc.); in secondo luogo, quello di sempliicare la differenziazione al punto da considerare la traduzione orale ‘fuori dalla teoria’, essendo “una questione meccanica risolvibile da chiunque possieda una mediocre conoscenza delle due lingue”, tale per cui “se si evita l’errore manifesto, c’è poca differenza tra una conoscenza miglior e una peggiore” [sic!] (ivi, 147). Il primo problema è stato superato. A mano a mano che l’interpretazione orale si attestava (a partire dal Processo di Norimberga) come attività fondamentale a livello giuridico, politico, militare, professionale e sociale, oggi, a distanza di due secoli dal saggio di Schleiermacher, l’interpretazione orale ha ottenuto anche a livello universitario un legittimo status di disciplina accademica. Tuttavia, questo mutamento è così recente che solo una decina di anni fa Mara Morelli (2005, 34) osservava come alcuni professionisti continuassero a ignorare l’esistenza degli Interpreting Studies come materia accademica, rivendicando “il carattere meramente pratico dell’interpretazione”. È stato a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso che sono apparse le prime pubblicazioni scientiiche dedicate alla teoria dell’interpretazione e proprio questo settore pionieristico della teoria della traduzione ha inalmente contribuito ad attirare l’attenzione degli studiosi alla psicolinguistica, alla neurolinguistica e alle scienze cognitive (cfr. Riccardi 2002, 15 ss.)42. Sembra ovvio del resto, che attività di commutazione interlinguistica che richiedono soisticate mnemotecniche siano il terreno ideale per lo studio (anche sperimentale) della memoria a breve termine (cfr. Godijns, Fabbro 2002) e del rapporto tra memoria e qualità della traduzione (cfr. Errico, Morelli 2015, 61-79). Il secondo problema, quello della differenziazione statutaria delle due operazioni traduttive è ancora del tutto attuale. In sostanza, Schleiermacher si era vistosamente sbagliato nel negare l’evidenza che traduzione e interpretazione condividono la stessa immensa complessità. Se ci si basa sul “senso comune”, può davvero sembrare che – operativamente – il cervello faccia cose diverse se traduce oralmente o se, invece, la traduzione viene scritta. Ma non è così. Basti considerare il fatto banale che chi scrive una traduzione, pri42. Per una sintesi storica dell’evoluzione degli Interpreting Studies (la migliore in lingua italiana) cfr. Garzone 2001.
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ma di scriverla, l’ha mentalmente già eseguita; scriverla è solo un modo per registrarla, perché “scripta manent”. Ma oggi abbiamo anche le registrazioni orali. La differenza, parrebbe, sta solo nella velocità di esecuzione e nell’impossibilità della traduzione orale di essere ‘corretta’ a posteriori. È una differenza signiicativa, ma che riguarda il processo redazionale a posteriori, non il processo traduttivo in sé. Ma c’è un’altra considerazione importante che dimostra la fallibilità del ‘senso comune’. Contrariamente a quello che sembra a prima vista, gli interpreti di conferenza traducono spesso testi scritti (i relatori leggono comunicazioni, diapositive, relazioni), che hanno tutte le caratteristiche del registro formale. Gli interpreti, in sostanza, non possono non avere dimestichezza con la lingua di registro alto, tipica dei testi scritti. Viceversa, altrettanto esperti della lingua orale sono (o dovrebbero essere) i traduttori di narrativa, cioè di testi abbondantemente costituiti da dialoghi orali che (se sono credibili) rispecchiano i registri della lingua parlata: da Dostoevskij a Mann, da Sallinger a Gary, la narrativa è piena di interiezioni, anacoluti, ridondanze, intercalari, sottintesi, gergalità, ambiguità ecc. I testi della letteratura richiedono a lettori e traduttori una inissima conoscenza della lingua parlata. L’idea che i traduttori letterari debbano sì conoscere la lingua normativa, “lingua letteraria”, ma non necessariamente la “lingua della letteratura” (che è tutt’altra cosa, cfr. Uspenskij 1994), è inspiegabilmente sopravvissuta ino a oggi, tanto da far sorgere il quesito: ma come sono stati tradotti i dialoghi dei “grandi romanzi” da persone che non erano bilingui e neppure parlavano la lingua da cui traducevano?43 La storia evolutiva della teoria della traduzione non fa che rispecchiare la dificoltà che incontra una nuova disciplina scientiica nell’intaccare gli stereotipi che appartengono tanto al “senso comune”, quanto agli autorevoli esperti di àmbiti che sono latamente ‘afini’, ma che sono sostanzialmente estranei: più le convinzioni sono pregiudiziali, più sono radicate e più è dificile ai pionieri di una nuova area disciplinare far valere argomentazioni basate sia sull’evidenza, sia sulla logica. 7.2. Le tipologie testuali La storica contrapposizione tra oralità e scrittura è fondata sull’idea che i testi possano dividersi in tipologie così diverse tra loro da richiedere teorie 43. In realtà, la mancanza del bilinguismo non riguarda solo i dialoghi, ma anche la voce narrante, che spesso è dialogica anche nei romanzi tradizionali. Vi sono pagine intere di capolavori letterari tradotti in italiano in cui, semplicemente, non si capisce nulla; si tratta spesso di traduzioni che sono state indicate come capolavori e punti di riferimento per il pubblico colto (valga per tutte l’esempio di Anna Karenina nella traduzione di Leone Ginzburg per Einaudi, ritenuta la “migliore” in Italia ino agli anni 2000, essendo, invece, l’unica che è a tratti incomprensibile).
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diverse e, magari, contrapposte. Questo pregiudizio non solo è passato inosservato, ma è stato il punto di riferimento di numerosi tentativi, inalmente ‘scientiici’, di fondare un’analisi descrittiva utile ai traduttori. Le tipologie testuali si distinguerebbero, nell’auspicio dei ricercatori, secondo criteri discreti, come, ad esempio, testi “denotativi” e testi “connotativi”. I primi sarebbero i testi a base terminologica (tecnico-scientiici), che richiederebbero la cosiddetta “traduzione specializzata”, viceversa i secondi, i testi “letterari”, o “espressivi”, chissà perché non richiederebbero una traduzione “specializzata”. Fin dagli anni Novanta, molti specialisti del settore negano che il qualiicativo “specializzata” possa essere tributato alla traduzione letteraria, cosa contestabile sul piano logico, poiché qualsiasi tipo di testo richiede una specializzazione (cfr. Salmon 2007, 2016). La separazione tra traduzione “specializzata” e “letteraria” è anche, da decenni, la posizione del nostro Ministero, che impone ai futuri traduttori (studenti dei corsi magistrali) di decidere se vogliono occuparsi di testi tecnico-scientiici o di testi letterari, come a dire: se impari a fare una cosa, non puoi imparare a fare l’altra. Contrariamente all’idea di alcuni studiosi di terminologia (terminologi), i termini delle lingue professionali sono sempre convenzionali, provvisori e sostanzialmente instabili, cioè pronti a rinnovare i nomi delle cose e dei concetti, a mano a mano che entrambi si evolvono. Questo è dovuto alla propensione degli individui e dei gruppi umani ristretti a creare nomi nuovi ogni volta che cambia un concetto o la sua valutazione sociale (ad esempio, il termine “portatore di handicap” si è trasformato in “diversamente abile” e la parola, un tempo termine, “handicappato” è diventato un improperio del registro basso della lingua ‘standard’). Anche la propensione alla creatività linguistica e alla creazione di parole nuove è onomasiologica. Riguarda infatti l’onomasiologia, la disciplina che studia il modo di chiamare i concetti con nomi speciici. Le mutazioni onomasiologiche sono dovute a volte a nuove scoperte (si pensi all’ex termine “microbo” che oggi non è più usato, perché troppo vago rispetto alle conoscenze su virus, batteri, protisti ecc.)44; altre volte, le mutazioni sono dovute a motivi di ‘correttezza politica’ (politeness), la quale, a sua volta può anche indicare una maggiore consapevolezza scientiica. Ad esempio, alcuni nomi delle malattie, evolvendo, rendono datati o socialmente riprovevoli i termini un tempo condivisi: mongoloidismo → sindrome di Down → trisomia 21 Si può argomentare in modo dettagliato che i termini nascono, vengono selezionati e cadono in disuso secondo le stesse ‘leggi’ che governano il successo di tutte le parole e persino delle espressioni fraseologiche (cfr. Prandi 2009, Salmon 2016). Inoltre, due termini che in due lingue diverse indicano 44. Interessante, quanto tra la popolazione comune (anche istruita) permanga una sostanziale e inspiegabile confusione tra virus e batteri.
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lo stesso concetto raramente presentano una corrispondenza ‘uno-a-uno’; infatti, anche i termini, come le altre parole della lingua ‘standard’ o dei colloquialismi, sono (o diventeranno) più o meno connotati. Ma, soprattutto, è poco convincente l’idea che la terminologia sia stretto appannaggio dei testi tecnico-scientiici. Nel Manuale del traduttore di Bruno Osimo (2006, 132), si afferma che scopo della terminologia, come àmbito speciico del testo tecnico-scientiico, sia quello di trovare una singola parola per ogni oggetto/concetto, così da escludere ogni connotazione a favore di una “denotazione pura”. Nei linguaggi settoriali (o microlingue professionali), i termini avrebbero “uno e un solo signiicato denotativo codiicato e inequivocabile” (ivi, 108). Anche Donatella Pulitano (2006) afferma che la terminologia ha la doppia funzione di eliminare ogni forma di ambiguità intralinguistica e interlinguistica, e di trasmettere conoscenza (come se un testo letterario non trasmettesse conoscenza). Federica Scarpa (2004, 69), in un noto e utile libro sulla traduzione specializzata, presenta a sua volta una contrapposizione tra “approccio cognitivo e razionale della traduzione specializzata” (che segue delle norme) e “testo letterario”, supportata dall’assioma (riferito nelle parole dello stesso Osimo) che sia impossibile capire del tutto un testo letterario e trasporre tutto quello che si è capito in un’altra lingua, facendo sì che il lettore della traduzione abbia “le stesse possibilità di comprensione/incomprensione e interpretazione presenti nell’originale” (ivi)45. Per quanto paia sorprendente, questo postulato binario che contrappone testi di tipo terminologico (specializzati) a testi di tipo letterario è stato volentieri adottato proprio nel campo della traduzione letteraria, ovviamente considerando i testi della letteratura come “superiori” agli altri (cfr. capitolo seguente). In realtà, i testi che traduciamo sono tutti ‘fatti’ di lingua naturale, la quale si forma, si diffonde e si canonizza seguendo sempre lo stesso insieme di regolarità, a prescindere dalle funzioni che il singolo testo abbia nel contingente processo di comunicazione (vi sono numerosissimi esempi di testi nati come trattati scientiici o ilosoici che vengono letti oggi come testi letterari, basti pensare a Machiavelli o a Galileo). Questa posizione è tanto radicata, quanto controvertibile sul piano logico, pratico, epistemologico. I testi artistici, come narrativa e poesia hanno (talvolta, ma non sempre) qualche complessità particolare nel violare aspettative e canoni, nel dosare, per esempio, assonanze e dissonanze; a volte sono più dificilmente formalizzabili (non sempre), ma sono sempre altamente informativi, a patto, ovviamente, che si deinisca il termine “informazione”, uno dei concetti più polisemici, discussi e contraddittori del contemporaneo dibattito scientiico 45. Scarpa cita la prima edizione di Osimo, nella seconda edizione (Osimo 2006), questa citazione, immutata, è a p. 40.
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(cfr. Aunger 2002, 136-158). Se l’informazione è un insieme di input che modiicano lo ‘stato del sistema’ (che può essere un’intelligenza umana o artiiciale), i testi narrativi possono, anzi dovrebbero programmaticamente modiicare la cognizione umana, apportando modiiche allo ‘stato del sistema’. È peraltro bene argomentata l’idea che proprio i testi creativi, nel corso dell’evoluzione della nostra specie, abbiano aiutato lo sviluppo delle abilità cognitive: ad esempio, nel processo adattativo degli umani, la capacità di narrare e sviluppare abilità poetiche ha facilitato la sopravvivenza e, per l’appunto, la trasmissione di informazioni e conoscenze sul mondo, evitando che si dovesse, a ogni generazione, imparare tutto da zero (cfr. McEwan 2005; Boyd 2009, 69-188). Del resto, se i testi (apparentemente) asettici che accompagnano i farmaci avessero come funzione primaria quella di ‘informare’, perché sarebbero chiamati “bugiardini”? Inoltre, chi ha pratica dei testi letterari sa che è dificile trovare un testo narrativo del tutto privo di terminologia: sono innumerevoli i romanzi e i poemi scritti a scopo ideologico, ma anche pieni di termini tecnici, scientiici, professionali (a volte per pagine intere). Del resto, ogni testo artistico ha anche altre funzioni oltre a quella “espressiva” (di solito, dominante) (cfr. Lotman 1990, 90). Dal canto loro (come vedremo nel terzo capitolo), i testi non artistici possono assumere in certi casi, spostati dal contesto, un funzionamento ‘artistico’ (ad esempio, parodico). Qualsiasi criterio si proponga per la suddivisione delle tipologie testuali, si otterrà un esito contraddittorio e, comunque, non discriminante sul piano della funzione testuale, addotta di solito a ‘criterio guida’46. Ogni testo, anche quello che sembra più convenzionale ha un’inevitabile componente di ibridità e ogni destinatario del testo (lettore o interlocutore), a seconda del contesto (che deiniamo come interrelazione tra i fattori wh-: chi, quando, dove, come, perché, a chi), delle conoscenze e delle aspettative individuali, può attribuire il dominio a una tipologia e a una funzione47. A questo punto, si può ammettere che, per lo più, la funzione dominante di un testo è oggetto di consenso, ma un conto è poter deinire grosso modo quali sono le tipologie, un altro è immaginare di poterle deinire in modo discreto, cioè oggettivamente distintivo. Dal punto di vista teorico, nessun testo di per sé, a livello ontologico e materiale, può essere catalogato per 46. A che tipologia testuale va attribuito Il Principe di Machiavelli? (è un testo letterario? o trattatistico? o politico?) e lo Zibaldone di Leopardi? (è ilosoico? o aforistico? o didascalico?) e il Genera Plantarum di Linneo? (è tecnico? o scientiico? o informativo? o prescrittivo?) e un tema scolastico sul ruolo dell’istruzione? (è libero pensiero? o scrittura coatta? o captatio benevolentiae?) e una lettera di auto-presentazione a un college americano (è un testo creativo? o burocratico?) e un contratto di divorzio religioso ebraico? (è un testo giuridico? o etnograico?) e una denuncia di furto? (è un testo amministrativo? o una sua parodia?), e l’arringa di un avvocato (è tecnico? o giuridico? o espressivo?) (riportato da Salmon 2007, 41). 47. I fattori wh- (wh- factors), che costituiscono i parametri contestuali, si chiamano così per la radice inglese wh- delle parole: who [says] what, to whom, when, where, why.
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genere, tipologia o funzione senza imbattersi in ostacoli logici e in controesempi concreti: Poniamoci una domanda: quali testi sono artistici e quali no? La dificoltà di una risposta universale è nota a tutti. Qualunque regola venga formulata, immediatamente la viva storia della letteratura offre tanti esempi da annullarla (Lotman 1990, 335).
Contrariamente al senso comune, è impossibile stabilire una distinzione assoluta e valida sempre (tale, per esempio, da poter essere individuata da un programmatore o da un computer) tra letteratura e trattatistica, tra testo didascalico e persuasivo, tra testo impegnativo e testo divulgativo, e persino tra poesia e prosa. Prendiamo proprio l’ultimo esempio: l’unica distinzione strutturale e formale tra poesia e prosa sembra quella di considerare “poesia” un testo incolonnato ‘più stretto’ di quanto lo sia il testo in prosa. Nessun altro criterio sembra generalizzabile e incontrovertibile, ma in realtà neppure questo criterio sembra contestabile: infatti, esistono testi che sono totalmente ibridi. Nella raccolta del poeta russo Boris Ryžij E così via (2000), ad esempio, troviamo alcune “poesie” come questa48: Nei remoti e mesti quartieri, che al mattino sono umidi e vuoti, dove i lillà e gli altri iori paiono bufi e pietosi, c’è un palazzo di sedici piani, e lì sotto c’è un pioppo, e un acero inutile e stanco che anela al cielo vuoto; sotto il pioppo c’è una panchina. S’è addormentato lì e sogna il mare Dima Rjabokon’, lo scrittore. S’era lasciato andare, aveva bevuto vodka: se n’era andato a fanculo da casa, gli era venuta voglia di partire, di andare al mare, ma alla stazione non era arrivato. Gli era venuta voglia di partire, di andare al mare, perché è il limite del dolore. Aveva imprecato, sbraitato e sulla panchina aveva preso a russare. Ma il mare blu, il mare azzurro, per conto suo l’aveva raggiunto e, mattiniero e familiare, gli aveva sorriso luminoso. E pure Dima aveva sorriso. E pur immobile, sdraiato, magro, calvo, senza denti, davvero era corso verso il mare. Correva e vedeva qualcuno sulla riva, una riva dorata. Ma sono io, io pure, che proprio non riesco a raggiungere il mare: dondolandomi sull’altalena, mi sono addormentato; attorno qualche cespuglio. Nei remoti e mesti quartieri, che al mattino sono umidi e vuoti (ivi, 442)49.
Questo testo è una poesia? Certamente sta in un libro di “poesie”, ma in che cosa si differenzia, ad esempio, da un raccontino breve? Chi scrive o chi traduce questo testo è un “poeta”? Chi può deinirsi “poeta”? Se conosciamo il criterio chiaro e giuridico per potersi deinire “avvocato” o “medico”, non esiste alcun criterio per deinirsi “poeta”. Ad esempio, se qualcuno scrive tutta la vita poesie che nessuno conosce e recensisce, può deinirsi “poeta”? Se le sue poesie sono “brutte”? Ha senso la deinizione “cattivo poeta”? E chi stabilisce che cosa sia “bello” o “brutto” in poesia? 48. Si intitola “Mare”. Questo testo è così importante e noto che il primo “verso” (?) dà il titolo all’unica raccolta cumulativa di tutte le poesie di Ryžij (2015), Nei remoti e mesti quartieri, che al mattino sono umidi e vuoti. 49. Traduzione mia, in stampa.
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Se, per esempio, cito questi “versi”: E solo, deluso, ancora sento il fruscio dei frassini sul colle, piegati al vento e ai miei sospiri […]
come fa un lettore a dire se sono per davvero “poesia”? Sono tratti dalla poesia italiana detta “minore”? Oppure sono stati improvvisati in questo momento? Oppure sono un collage di tre versi di tre poesie diverse assemblati a caso dal computer? O sono tradotti dal polacco? E se i primi due versi si scrivono così? E solo, deluso, ancora sento il fruscio dei frassini sul colle…
È “prosa lirica”? O “prosa” e basta? Non possiamo offrire alcun assoluto criterio testuale per distinguere prosa e poesia, neppure, si è visto, l’incolonnamento a centro pagina: se un extraterrestre giunto sulla terra fosse incaricato di dividere tutti i testi dei “poeti” umani da quelli dei “prosatori”, quali parametri potremmo fornirgli, tali che inserisca “Mare” di Boris Ryžij nella stessa pila dove ha messo “L’ininito” di Leopardi? Nessuno. Quando il criterio formale dell’incolonnamento dei versi non è suficiente a distinguere la prosa dalla poesia, possiamo solo introdurre un’etichetta ibrida, “prosa poetica”, e dire al marziano che faccia una terza pila. Ma, anche questa volta, l’etichetta sarà convenzionale, non assoluta: dove metterà “Mattina” di Ungaretti? Probabilmente nella pila “poesia”, ma a quel punto, il marziano ci chiederà: “che faccio delle imitazioni, delle parodie, delle traduzioni? Le metto con Leopardi?” In effetti, la manipolazione, l’imitazione, la contraffazione sono altrettante “tipologie” a sé stanti? Possiamo davvero riferirci a una tipologia testuale che si chiami “imitazione”? Ma quasi tutte le opere umane sono imitative… E la parodia è una forma di “imitazione” o è una “tipologia” a sé stante? Dove sta il conine tra la nobile imitazione di un conclamato artista (che dà eco alle inluenze dei suoi maestri) e un mediocre epigono (imitazione ‘ignobile’)? E a chi spetta decidere chi sia un “epigono” o un “corifeo”, chi un vero “poeta” (“pittore”) o un “imbrattacarte” (“imbrattatele”)? È insomma evidente che il diffuso pregiudizio del senso comune, secondo cui “la poesia” può tradurla “solo un poeta”, è un’affermazione priva di logica: se già è problematico deinire la “poesia”, deinire un “poeta” è pressoché impossibile. Infatti, non si è “poeti” per professione, ma non lo si è nemmeno per titolo di studio. Parrebbe che sia “poeta” chi si proclama tale o (meglio ancora) chi tale è considerato dagli “altri”. Ma chi sono questi “altri”? Chi ha diritto di elargire questa qualiica? Molti pensano ancora che il “poeta” sia una persona soggetta a “ispirazione”, intendendo una dote ‘esogena’, più o meno connessa (come indica 55
l’etimo) con lo ‘spirito’. In realtà, la parola ‘ispirazione’ rivela solo l’incapacità di spiegare il funzionamento delle abilità computazionali inconsce. I “poeti” sono persone addestrate dall’esperienza a ‘sentire’ il ritmo, le rime, le consonanze, capaci di misurare ‘a orecchio’ la metrica e a costruire anagrammi spontanei senza bisogno di calcoli coscienti: il poeta crea ‘d’istinto’, poi controlla, ritocca il metro, il ritmo, le rime, ma è la computazione inconscia a ‘dettare’ i versi. L’arte, come lo sport, è tecnica processata mediante intuizioni e grazie alla proceduralità. Come suggerisce Dennett (1997, 564), chi agisce in base all’intuizione non sa formalizzare ciò che ha fatto, così lo attribuisce al “talento”, alla “genialità”, chiamati in causa quando non si sa spiegare un’abilità: Ogni volta che qualcuno dice di aver risolto un problema “con l’intuizione”, ciò che intende veramente è “non so come l’ho risolto”. Il modo più semplice di fare un modello dell’“intuizione” in un computer si ha semplicemente negando al programma l’accesso al proprio funzionamento interno. Ogni volta che risolve un problema e gli si chiede come ha fatto, dovrebbe rispondere “Non lo so, m’è venuto per intuizione”.
Insomma, anche ammesso che qualcuno sia un “poeta” conclamato, dovremmo afidargli la traduzione di poesie (sperando di sapere che cosa siano) anche se non conosce la lingua da cui dovrebbe tradurre? Esiste una quantità notevole di grandi opere poetiche tradotte da poeti che dichiaratamente non conoscevano per nulla la lingua di partenza. Viene da chiedersi: come hanno fatto? La teoria della traduzione ha anche lo scopo di rispondere all’insieme di domande e problemi che abbiamo visto, di analizzare la complessità dei testi e individuare i requisiti indispensabili ai professionisti della traduzione. Come vedremo e come suggerisce la logica, più è complesso il testo, più tecniche e requisiti sono richiesti. Come diceva Lotman (1990, 25), la lingua naturale “ammette la traduzione”, ma ha al suo interno una “gerarchia di stili, che permette di esprimere il contenuto di questa o quella comunicazione da diversi punti di vista pragmatici [corsivo mio]”. Ogni ordinamento o tassonomia tipologica legata all’essenza materiale e formale del testo è, a livello teorico, attaccabile. È il consenso, la convenzione, la prassi a consentirci di stabilire cosa sia “poesia”, “letteratura”, “testo tecnico” o “scientiico”. La stessa convenzione riguarda le professioni e, quindi, anche la qualiica dei traduttori. Etichette come “traduttore letterario”, “interprete”, “traduttore specializzato” funzionano benissimo nella prassi, nella professione, ma sono specializzazioni che si richiamano a una competenza unitaria. Come nella pratica medica, esistono specializzazioni e un ortopedico non cura l’infarto, ma ogni medico è tale se ha studiato tutte le cliniche e se la sua specializzazione è successiva a questa generale capacità di essere prima di tutto “medico”. Le competenze che servono al traduttore per decodiicare, formalizzare e ri-codiicare stili testuali diversi si ottengono con un faticoso, lungo ad56
destramento e vanno afinate e aggiornate quotidianamente per tutta la vita, come avviene (o dovrebbe avvenire) in tutte le attività umane. Se durante l’addestramento un apprendista traduttore ha affrontato ripetutamente e con regolarità una grande quantità di testi diversi per inalità e stile, sarà in grado di ricondurre il suo operato a un agire unitario, coerente. Solo allora dovrebbe specializzarsi. In sintesi, un modello teorico unitario sulla traduzione non è il punto di arrivo, ma quello di partenza. Solo all’interno di una teoria unitaria si può riuscire a valutare in modo suficientemente oggettivo le differenze di registro e stile, i problemi speciici e settoriali, per perseguire la sola equivalenza che possa esistere tra due testi intercambiabili, quell’equivalenza che Lotman ha deinito pragmatica e che potrebbe deinirsi, in alternativa, funzionale.
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2. LA RIFLESSIONE SULLA TRADUZIONE: UN APPROCCIO STORICO-CRITICO
1. Il dominio del pensiero binario: la “bi-teoria” La traduzione esiste, probabilmente, da quando esistono le lingue naturali; parrebbe, infatti, un fenomeno altrettanto naturale: dal punto di vista evolutivo, per la sopravvivenza degli individui e dei gruppi, la traduzione poteva consentire di comunicare con i ‘vicini’, di allearsi con gruppi ‘amici’ e di negoziare con quelli ostili. Possiamo immaginare che forme di traduzione siano esistite in dall’antichità più remota, anche se solo la scrittura (che esiste da poco più di 5000 anni) ha consentito che arrivassero a noi testimonianze di testi bilingui (soprattutto glossari e lemmari) e solo la stampa (che è recentissima) ha permesso che le traduzioni circolassero massivamente, divenendo la prima tappa della ‘globalizzazione della cultura’. In moltissimi casi (la Bibbia è uno di questi), le traduzioni sono esponenzialmente più numerose dei testi in lingua originaria. Ricostruire la storia dei testi tradotti all’interno di ogni singola cultura è un’impresa estremamente ardua, che è stata avviata in tempi recenti, ma che richiederà un ingente impegno futuro, se ci sarà la volontà di investire in progetti a lunga scadenza1. Si tratta, infatti, di migliaia di dati da raccogliere, ordinare, archiviare (nel caso di singoli autori o di opere particolarmente importanti, esistono già alcune ricerche afidabili, ma si tratta davvero di una ‘goccia nel mare’). 1. Al momento, siamo agli albori di questa ricostruzione storica: i prodotti della traduzione sono un numero enorme, ma non sconinato. La prima parte di questo lavoro dovrebbe logicamente consistere nella catalogazione secolo dopo secolo, lingua dopo lingua, prima delle traduzioni delle opere più note e, poi, di quelle considerate secondarie. Tuttavia, i nuovi parametri di scientiicità impongono che i ricercatori siano ilologi e storici dei testi, esperti di precisi periodi storici in precise aree culturali: questo fa sì che spesso si studino singoli decenni signiicativi o le traduzioni di singoli autori o da singole lingue. La mole di questo lavoro richiederebbe un interesse politico-culturale, una progettazione a lungo termine e ingenti inanziamenti.
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Diversamente dalla storia delle traduzioni, cioè dei testi tradotti, la storia della teoria è stata parzialmente ricostruita e costituisce un’importante branca della generale ‘teoria della traduzione’, anche se teoria e storia restano due cose profondamente diverse: un teorico della traduzione non è uno storico della teoria, ma un esperto dei processi traduttivi, che conosce per di più, almeno a grandi linee, le tappe evolutive del pensiero teorico del passato. Ripercorrere queste tappe è utile per ovvie ragioni culturali, ma soprattutto per evitare che si ‘scopra l’acqua calda’, cioè che si fatichi per raggiungere risultati già ottenuti in precedenza (cosa che accade di frequente nel caso delle ‘giovani discipline’, dove si è più propensi a sentirsi ‘pionieri’). Poiché la cultura occidentale ha trascurato un’immensa mole di studi in lingue meno accessibili, è facile che proponga come innovative idee che altrove sono note da decenni2. In generale, nella cultura cosiddetta “occidentale”, sia il pensiero teorico sulla traduzione, sia la sua ricostruzione storica hanno avuto come origine e come riferimento privilegiato il dibattito sulla traduzione della Bibbia. Non solo la teoria della traduzione era nata, nel lontano passato, come rilessione dei più noti traduttori dei “testi sacri”, ma la moderna traduttologia occidentale è stata fondata, alla metà del XX secolo, da Eugene Nida, linguista americano assunto nel 1943 dalla Bible Society allo scopo di aggiornare e conformare il processo traduttivo della Bibbia a standard di qualità. Nida (1945, 1964) può essere considerato l’‘anello di congiunzione’ tra la secolare teoria della traduzione umanistica e la contemporanea traduttologia scientiica. Prima del Novecento, tuttavia, la rilessione sulla traduzione delle Scritture non era mai stata compresa in un modello universale, basato sulla natura delle lingue naturali, ma avanzata per postulare la speciicità della traduzione biblica rispetto a qualsiasi altra attività traduttiva: in quanto “parola di Dio”, il testo “sacro” veniva programmaticamente distinto da ‘tutti gli altri testi’. In altre parole, la teoria della traduzione ha per secoli ignorato il postulato scientiico di generalità, fondandosi su presupposti ideistici e metaisici, e generando una stabile scissione tra due àmbiti ideologicamente diversi e contrapposti: quello relativo, appunto, al “testo sacro” e quello relativo a “tutti gli altri testi”. L’assiomatica contrapposizione teorica di due macro-tipologie testuali, di cui una fondata su base soggettiva (la fede), è epistemologicamente incoerente e nuoce alla credibilità scientiica della disciplina. Tuttavia, in dagli albori del Medioevo, si sono contrapposte queste due “correnti traduttive” (cfr. Pergola 2016, 5), rafforzandosi nel corso di circa un millennio, anche quando la supposta “sacralità” non avrebbe più riguardato solo la Bibbia, bensì i testi 2. Se, ad esempio, si leggono i saggi meno recenti (i migliori) dell’antologia della traduttologia polacca curata da Lorenzo Costantino (2009), si ha un esempio di ricerche lungimiranti che proponevano negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo temi che, spesso timidamente, vengono affrontati oggi dalla traduttologia “occidentale”.
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(soprattutto poetici) considerati “speciali” per importanza storica e culturale, cui veniva tributata una superiorità “spirituale”. La prima delle due “correnti”, quella propriamente religiosa, era stata inaugurata da San Gerolamo nel IV secolo d.C. ed era legata alla traduzione in latino (da ebraico, aramaico e greco) dei testi che componevano quell’insieme di opere variegate, complesse e disomogenee che oggi chiamiamo per antonomasia “Bibbia” (“i libri”)3. La seconda “corrente”, posteriore (a partire dal IX-X secolo), riguardava la traduzione in latino (soprattutto dall’arabo e dal greco) di testi scientiici, prevalentemente di matematica, astronomia, isica, medicina e ilosoia (ivi). Sebbene questa seconda corrente avesse prodotto traduzioni che avrebbero reso possibile la rinascita umanistico-rinascimentale e la futura rivoluzione scientiica del XVII secolo (ivi, 7), il pensiero cui anche ai nostri giorni si riferisce il dibattito sulla traduzione in campo umanistico non si era sviluppato dalla rilessione sui testi scientiici e ilosoici, bensì da quella sui “testi sacri” della religione e della poesia. Pur variando la tipologia di testi che, in epoche diverse, era considerata “alta”, il concetto di “sacralità” è rimasto strettamente connesso all’idea metaisica che alcuni testi abbiano a che fare con la sfera “spirituale”, mentre gli altri appartengono alla sfera materiale, utilitaristica. Ancora oggi, i testi “alti” della letteratura sono recepiti come una sorta di versione laica dei testi religiosi, soprattutto quelli poetici che più si prestano all’idea di essere stati ‘ispirati’. Ancora oggi, i testi scientiici non sono mai inclusi nei testi “alti”, anche se il loro impatto sulla cultura planetaria è cruciale, e neppure i testi di carattere tecnico o amministrativo, spesso importantissimi per la vita sociale e politica di intere comunità (peraltro fondamentali per decifrare alfabeti e studiare le lingue più antiche). In quanto non rappresentativi del mysterium che caratterizzava l’ascosa complessità della “parola di Dio”, i testi secolari non parevano interessanti sul piano teorico, come se la loro traduzione non creasse problemi o come se quei problemi non fossero d’alcun interesse accademico4. Intesi come portatori di Verità divina, i testi religiosi venivano considerati testi di ‘serie A’, così come quelli di ‘alto valore estetico-spirituale’, mentre i testi ‘umani’ (compresi quelli scientiici) erano recepiti come testi di ‘serie B’. Per chi li considera “sacri”, i testi di riferimento delle tre religioni monoteiste rappresentano lo spartiacque che separa la Verità divina dalla verità umana (compresa la conoscenza scientiica). Se si accetta il postulato della natura divina di alcuni testi, è logicamente comprensibile l’idea che possano e debbano essere teorizzati secondo un sistema di regole diverso rispetto agli altri testi. Tuttavia, l’accettazione di questo postulato per un solo testo sacro 3. Spesso i fedeli non sanno che sia all’interno, sia all’esterno delle singole confessioni religiose, non c’è unanime accordo su che cosa debba intendersi come “Bibbia”. 4. Non molti anni fa si poteva ancora leggere che la “comprensione esatta dell’originale” era “più ardua in un testo religioso” (Carena 1991, 209), senza peraltro che venisse fornita una deinizione di “comprensione”, di “esattezza” e di “arduità”.
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(il proprio), salvo rare eccezioni, ha implicato il corollario che il testo ‘sacro per gli altri’ fosse un’impostura (è noto che cristiani, ebrei e musulmani anche adesso negano la sacralità dei testi che sono “sacri” per le altre due comunità, pur nella totale impossibilità di fornire criteri oggettivi per distinguere quali testi siano davvero “parola di Dio”)5. In una cultura monoteistica basata su un’idea esclusiva di creazione e di rivelazione (che esclude idee analoghe ma relative agli altri monoteismi), di fronte a testi che, si credeva/crede o anche solo si ipotizzava/ipotizza, contenessero/contengano la ‘parola di Dio’, il lettore-traduttore si trovava/trova davvero e logicamente di fronte a un dilemma: sarà mai possibile rendere accessibile questo testo divino in un’altra lingua senza travisare o deformare il messaggio di Dio? Se un testo è stato trasmesso all’uomo da Dio in una lingua X scelta da Dio, come si potrà convertirlo senza dissacrarlo in una lingua Y, non divina? Se Dio ha scelto di rivolgersi agli uomini, suoi potenziali credenti, attraverso una precisa lingua, è sacro solo il testo o è sacra anche la lingua per il solo fatto di essere stata scelta da Dio? Può tradurre un testo sacro un traduttore che non condivide la sacralità del testo (laico o appartenente a un’altra religione)? Come vedremo in seguito, le tre grandi religioni monoteiste hanno un rapporto diverso tra loro rispetto a questi quesiti, ovvero rispetto ai propri testi sacri, alla lingua in cui sono scritti, al loro ruolo nella vita quotidiana dei credenti, alla possibilità che qualcuno dotato di alcune caratteristiche speciiche possa tradurli in altra lingua. Anzi, diverge proprio la posizione delle tre religioni nei confronti della possibilità e legittimità della traduzione. Prima di passare a considerare queste differenze, è opportuno ribadire che tutte le religioni monoteiste considerano il proprio “testo sacro” diverso dagli altri testi (compresi i testi sacri degli altri) e quindi meritevole di essere affrontato a livello teorico e pratico ad hoc, secondo una teoria diversa dagli altri testi, per i quali valgono altri criteri di interpretabilità e traducibilità6. Basata sulla contrapposizione tra testi sacri vs. altri testi, dal Medioevo ino ai giorni nostri, la teoria della traduzione ha assunto una struttura binaria, ‘sdoppiata’, è stata, per così dire, una ‘bi-teoria’7. Per secoli si è postu5. L’unica eccezione parrebbe quella dell’AT, sacro per ebrei e cristiani, ma anche in questo caso diverge non solo l’interpretazione del testo, ma anche l’applicazione dei precetti (i cristiani, infatti, non osservano quasi nulla di quello che l’AT impone). Come vedremo, più che criteri ilologici o formali, quelli che determinano la supposta sacralità dell’uno o dell’altro testo (ad esempio Bibbia vs. Corano) dipendono dal luogo, dall’autorità politica e dal numero dei fedeli in una permanente commistione tra cultura religiosa e politica (che crea spesso profondi disagi, quando non discriminazioni, alle minoranze religiose). 6. Ovviamente, ci sono posizioni ecumeniche e di profondo rispetto reciproco. Cottini (2000, 231), ad esempio, dice espressamente che un cristiano che legga il Corano non può prescindere dal fatto che si tratta di un libro sacro, che quindi “non deve essere letto come un qualsiasi altro libro di storia o di storie”. 7. Il concetto di ‘bi-teoria’ è molto simile a quello di “théorie dualiste” cui accenna appena, ma utilmente, Jean-René Ladmiral (1994, 105-106).
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lato che, per testi di status diverso servissero due diversi sistemi di regole, in certi casi contrapposti tra loro. La medesima opposizione binaria è stata spesso proiettata anche sui traduttori. La bi-teoria si è così radicata da impedire che qualcuno cercasse un modello teorico generalizzato che, prima di postulare le differenze, indagasse ciò che accomuna tutti i processi traduttivi, a prescindere dalle tipologie, dal formato dei testi e dalle coppie di lingue. Iniziatore della bi-teoria è stato San Gerolamo, autore della più nota versione latina della Bibbia (detta “Vulgata”)8. Nel suo famoso scritto, “Liber de optimo genere interpretandi”, il “santo traduttore”, pur in modo laconico, fondava due teorie separate, introducendo il binomio fedeltà/libertà che avrebbe drammaticamente connotato la bi-teoria nei secoli. Il saggio era in realtà una lettera all’amico Pammachio (epistola 57, 5), in cui Gerolamo difendeva il suo operato di traduttore di un’epistola del vescovo Epifanio al vescovo Giovanni di Gerusalemme: tacciato di essere un “falsario” per i suoi “delitti” di traduzione, si giustiicava animatamente, appellandosi soprattutto alla concezione retorica di Cicerone e Orazio. La “libertà” che aveva seguito nel tradurre l’Epistola di Epifanio, infatti, rispecchiava proprio i dettami di Orazio: “Non ti sforzerai di rendere fedelmente parola per parola il tuo testo” (San Gerolamo 1993, 67). Come insegnava anche Cicerone, rendere il testo “parola per parola” avrebbe signiicato privarlo “della forza e della proprietà dei vocaboli”, restituendo ai lettori il “numero delle parole”, ma non il “loro peso” (ivi, 66). Tuttavia, sottolineava Gerolamo, c’era un’eccezione a questi princìpi: il criterio della “libertà” non poteva essere applicato alle Sacre Scritture, poiché in quel caso “anche l’ordine delle parole racchiude un mistero” (ivi, corsivo mio). Se, dunque, nelle traduzioni secolari era meglio farsi “oratore” piuttosto che ligio “interprete”, questo non valeva per la Bibbia, di fronte alla quale, evidentemente, venivano meno i criteri della retorica e della ilologia. In virtù della sua sacralità, la Bibbia si sottraeva, secondo Gerolamo, alle regole generali, reclamandone altre, ad hoc. Il ‘doppio standard’ partiva dall’idea che nella Bibbia si nascondesse un ‘mistero’ qualitativamente diverso dagli enigmi interpretativi degli altri testi e suficiente a giustiicare la sospensione del metodo ciceroniano (cui Gerolamo stesso si era attenuto per tradurre come “oratore” l’epistola di Epifanio; ivi). La bi-teoria si è poi sviluppata durante l’umanesimo: nonostante una sostanziale laicizzazione della cultura, i testi della cultura greca avevano as8. Il nome “vulgata” si riferisce proprio al “volgo”. Il verbo “volgarizzare” deiniva, per l’appunto, la conversione di testi “alti” in lingue più usate e meglio comprese dal popolo. Quella in latino, infatti, era la prima edizione della Bibbia in una lingua (il latino) ben più accessibile ai lettori dell’ebraico e del greco (all’epoca, chi era in grado di leggere, leggeva il latino). A partire dal Concilio di Trento, la traduzione latina di San Gerolamo sarebbe stata canonizzata dalla Chiesa cattolica romana, accrescendo smisuratamente il prestigio della “Vulgata”. Questo prestigio, a sua volta, ha contribuito a determinare che il latino, con ebraico e greco, assurgesse al ruolo di lingua “sacra” del cattolicesimo.
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sunto il ruolo di testi così ‘alti’, da assumere anche una propria ‘sacralità’. Successivamente, nel periodo del tardo rinascimento, ino all’illuminismo, era stata la cultura francese ad assumere il ruolo di riferimento ‘alto’ rispetto alle altre linguoculture, valorizzando l’idea, sempre binaria, che tradurre in francese fosse una forma di nobilitazione del testo. Il periodo romantico, che vede protagonisti i pensatori tedeschi, ripropone il primato della “letteralità”: i testi letterari, soprattutto la poesia, vengono assunti come testi “alti”, contrapposti ai testi “quotidiani” (bassi). Nel Novecento, questa binaria contrapposizione romantica si consolida, assumendo forme di palese irrazionalismo: si radica il pregiudizio, ad esempio, che la “poesia” sia più “spirituale” dell’astroisica e che nel “testo letterario” vi sia qualcosa (un ineffabile quid) di più “nobile” rispetto ai testi scientiici: la scienza viene deinita da Ortega y Gasset (1993, 204) “brutta”. L’annosa idea che “la fede possa essere più importante della qualità” e che “la fede sia la cosa più importante quando si tratta del testo culturalmente più rilevante di una cultura” (Lefevere 1992b, 2-3) evidenzia un’errata equazione di fondo, secondo cui l’“originale” sarebbe dotato di una irraggiungibile “qualità”, cui la traduzione può ambire solo snaturando se stessa (cessando di essere “attività creativa dell’ingegno”). Nessuno, né prima, né dopo, si è mai preoccupato di deinire secondo categorie formali che cosa distinguesse le tipologie testuali, la “poesia”, il testo “scientiico”. In realtà, ogni giudizio di letterarietà, superiorità o sacralità di un testo è umano, storico e contingente9. La contrapposizione, consacrata a suo tempo da Cartesio, tra mondo dello spirito (Dio, Arte, Poesia) e mondo della materia (uomo, scienza, mercato), è stata recentemente oggetto di ampie contro-argomentazioni scientiiche. Senza mezzi termini, il celebre neuroscienziato Antonio Damasio, nell’omonimo capolavoro del 1995, ha deinito, si è detto, questa contrapposizione l’“errore di Cartesio”: non esiste, dice Damasio, una res cogitans separata da una res extensa. Eppure, nelle scienze umane, è diffusa a tutt’oggi l’idea che esista una ‘spiritualità’ svincolata dal mondo isico che, magari, non corrisponde più all’ispirazione divina, ma che certamente si contrappone al mondo ‘materiale’. Le cose hanno cominciato a cambiare solo nell’ultimo ventennio del XX secolo, con il lento ma progressivo affermarsi della traduzione come materia di àmbito accademico e come ampia attività intellettuale, complessa, suddivisa in campi diversi, ma di eguale dignità (compresa la traduzione tecnica e l’interpretazione orale). Questo processo è ancora in corso e, a oggi, permangono radicati pregiudizi binari, secondo cui la traduzione dei testi ritenuti ‘alti’ (spirituali) non può sottostare alle stesse regole degli altri testi (materiali). Vi sono molti professori e traduttori che sono refrattari anche solo a 9. Del resto, ancora oggi, non tutti sono d’accordo che i testi di Bob Dylan siano “letteratura”, anche se così sembra stabilito dalla giuria del Premio Nobel. Ma chi stabilisce chi possa stabilire che cosa sia “letteratura”?
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immaginare l’esistenza di un modello teorico unitario di traduzione, cioè di un modello che – pur contemplando le profonde differenze tra le tipologie testuali – possa partire dall’assunto che tutti i testi e tutti i processi traduttivi debbano avere necessariamente una base comune10. Proprio per cercare di scalire gradualmente i pregiudizi ideologici che contrappongono la “spiritualità” alla “materialità”, l’“arte” alla “quotidianità”, è utile analizzare come è nata e si è radicata l’idea che alcuni testi siano ontologicamente superiori agli altri o che sia “superiore” la lingua in cui sono scritti; ma, soprattutto, è indispensabile ricordare che, proprio tra i testi considerati “sacri” dalle religioni e dai letterati, non ci sono testi “originali” e che i copisti lavoravano e lavorano su copie (anzi, su copie di copie di copie), fatte da persone che, “quasi senza eccezione”, non erano “consce di scrivere la sacra Scrittura” (McDonald 2008, 205). Se anche mai è esistito un testo divino, è stato modiicato da comunità diverse in epoche diverse e non esistono due soli manoscritti della Bibbia che siano identici (ivi, 209): oggi ci rimangono, di quel perduto “originale”, solo meta-testi (testi derivati) che scribi umani e traduttori hanno trascritto e, riscrivendoli, hanno inserito (inconsapevolmente, ma anche deliberatamente) errori, omissioni, aggiunte e modiiche. I dogmi e le norme confessionali delle religioni rivelate sono fondati su testi ricostruiti in base a copie e traduzioni: il processo di ricostruzione di un originale perduto si basa su soisticate tecniche di calcolo, applicate a tutte le copie del testo pervenute. Poiché queste copie contengono discrepanze, possono essere proprio le traduzioni di copie anteriori perdute ad aiutare a classiicare i manoscritti, a dirimere le controversie e a supportare ipotesi interpretative. Per questa ragione, prima di considerare il diverso approccio alla traduzione del testo sacro delle tre religioni monoteiste, merita sottolineare la profonda afinità che accomuna la critica testuale, cioè il lavoro del ilologo, alla critica traduttiva. In generale, non solo la storia dei testi tradotti, ma la traduzione stessa hanno molto in comune con l’ambito della ilologia. Per fare ipotesi sulla autenticità e afidabilità dei manoscritti, servono competenze molto simili a quelle impiegate da chi traduca: - autori che hanno lasciato varianti diverse dello stesso testo (basti pensare a versioni modiicate per gusto o censura di una stessa poesia o canzone, come nel caso di Konstantinos Kavais o di Francesco Guccini, ma anche a edizioni diverse di taccuini e diari); - lo stesso testo scritto in due lingue diverse (ad esempio della cosiddetta “autotraduzione”, come nel caso di Lolita di Vladimir Nabokov); - stampe di un testo di cui non si è conservata la versione d’autore (come nel caso della Commedia dantesca, ma anche dell’Idiota di Dostoevskij); 10. Naturalmente, quelle stesse persone sarebbero d’accordo nell’ammettere che, pur essendo ogni corpo umano unico e diverso dagli altri, esiste un’anatomia comune che permette alla medicina, in base al principio di generalizzazione, di agire secondo il metodo di deduzione e induzione.
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- un manoscritto o un dattiloscritto unico e autoriale, ma con correzioni e indicazioni ambigue o di non certa paternità (è il caso dei diari, dei taccuini, di racconti, romanzi e poesie di autori di ogni epoca). Di tutte le discipline umanistiche, la ilologia è quella da cui si dovrebbe partire per studiare la teoria della traduzione. In primo luogo, le competenze ilologiche di base sono competenze necessarie (seppur non suficiente) del traduttore; in secondo luogo, la ilologia è il campo di studi umanistici che più si avvicina alle discipline formali e sperimentali: i criteri seguiti dai critici del testo sono, infatti, estremamente rigorosi e basati sulla condivisione di regole procedurali; queste regole comprendono i metodi di congettura atti a ricostruire i testi perduti, quindi sono le sole regole disponibili per stabilire quale versione di un testo manoscritto vada assunta come TP per progettare una traduzione. 2. Filologia e traduzione Con il termine “ilologia” si possono indicare attività piuttosto diverse tra loro11. Qui il termine sarà considerato nella sua accezione più tecnica, ovvero come l’attività di analisi linguistico-testuale atta a ricostruire, interpretare ed editare testi o documenti manoscritti e dattiloscritti (ma, in certi casi, anche stampati o elettronici)12. Così inteso, il mestiere del ilologo mira a ricomporre un testo di cui la tradizione ha lasciato vari esemplari, nessuno dei quali è il testo autografo (l’“originale” dell’autore). Queste copie parzialmente diverse tra loro possono derivare da uno stesso testo-capostipite, detto archetipo, oppure appartenere a un gruppo di testi di redazione diversa. Il ilologo opera una valutazione critica delle fonti e delle testimonianze scritte (i vari manoscritti di uno stesso testo si chiamano, infatti, testimoni) che vengono collazionate, cioè segmentate, confrontate e ricomposte in un’edizione artiiciale (detta edizione critica), che mette insieme le soluzioni più afidabili presentate da ogni manoscritto (come si è detto, secondo regole chiare e, per lo più, condivise). Per deinire i procedimenti di edizione critica di un testo perduto, esiste un’altra parola italiana, più tecnica e più precisa: ecdotica. In alternativa, si può usare il termine tedesco Textkritik (ricorrente anche in inglese)13. In casi particolari, tra le competenze dei ilologi rientra anche la capacità di decifra11. In lingue diverse, il termine greco “philologia” assume connotazioni un po’ diverse: ad esempio, l’inglese “philology” indica soprattutto la “storia della lingua” e la “linguistica storica”, mentre il russo “ilologija” riguarda lo studio delle “lettere” in genere. 12. Paradossalmente, nella nostra realtà digitale, le cose peggioreranno sempre più, visto che i testi si moltiplicano, si copiano e si manipolano, riempiendosi di modiiche ed errori (questo vale per qualsiasi testo, non solo per le traduzioni). 13. Nelle lingue slave, per indicare la scienza che studia l’edizione critica dei testi è diffuso il termine tekstologija/tekstologia.
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zione (interpretazione di codici dimenticati, ad esempio i gerogliici o i caratteri cuneiformi) e di decrittazione (rilevamento della ‘chiave’ per rendere comprensibili testi consapevolmente crittografati). Le scelte del ilologo (come quelle di qualsiasi studioso, medico, scienziato) sono parzialmente soggettive, ma mai arbitrarie: sono infatti fondate su criteri speciici, consapevoli e convenzionali (ad esempio, sulla distinzione tra errori e varianti, e sulle diverse tipologie di errori). Di conseguenza, sono valutabili e confutabili da parte degli altri specialisti in base a parametri condivisi: La critica del testo fornisce appunto procedure razionali per arrivare a formulare l’ipotesi più probabile su come era l’originale e su come si è articolata, nelle grandi linee, la sua trasmissione ino ai testimoni conservati (Stussi 1985, 9).
Il ilologo cerca tutti i manoscritti che riesce a trovare di un determinato testo (talvolta, negli archivi sparsi in Paesi diversi) e li confronta (collaziona), creando una gerarchia organizzata in modo diacronico, cioè un albero genealogico della tradizione manoscritta, detto stemma. Lo stemma indica in quale ordine cronologico quale testo sia stato copiato da quale altro testo e quali manoscritti intermedi risultino mancanti (proprio come si farebbe ricostruendo una dinastia)14. Questa procedura è stata necessaria per numerose opere che abbiamo letto a scuola, come la Divina Commedia (senza, magari, che capissimo in classe per quale ragione i nostri compagni avessero edizioni con parole o frammenti diversi dal “libro di testo”). La ilologia ha un rapporto diretto con la traduzione non solo per il reperimento del TP, ma anche, come si è anticipato, perché l’analisi del ilologo comprende anche le varianti tradotte in altra lingua di testi manoscritti studiati; infatti, alcune traduzioni potrebbero rifarsi a copie perdute più antiche rispetto ai testimoni che ci sono pervenuti. L’approccio ilologico aiuta anche a comprendere la necessità epistemologica di distinguere tra autore e testo (cfr. Antonelli 1985, 173), sfatando l’idea che un testo vada ricostruito secondo la “volontà” o l’“intenzione” dell’autore. Filologi e traduttori lavorano sui testi e lo fanno tanto meglio, quanto più privilegiano la materialità del testo rispetto alle ‘illazioni’ su dati esterni e non ricostruibili: Se non esiste metodo scientiico possibile per la ricostruzione del testo secondo la volontà dell’Autore, se per limitare i danni occorre rispettare un “testo” inteso come docu14. Questo metodo porta il nome del ilologo tedesco Karl Lachmann (1793-1851) ed è il più diffuso nella pratica ecdotica. Peraltro, il criterio dell’ordine cronologico, potrebbe non essere il migliore quando si trovino manoscritti autograi dello stesso testo, ma diversi tra loro (per esempio, due varianti della stessa poesia). Quando si tratta, invece, di dattiloscritti, l’analisi dell’auctoritas diventa più complessa (non è facile dimostrare che le stesse dita abbiano ‘battuto a macchina’ due testi diversi). Con i ile elettronici è più facile risalire alla datazione e spesso anche alla fonte del documento, ma le manipolazioni sono possibili.
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mento, ma oggettivamente esso stesso già rappresentante di innovazioni rispetto alla volontà dell’Autore, dunque di una fruizione e di una interpretazione nuova e storicamente collocata nel tempo, allora, da un punto di vista teorico, si dovrà ammettere che il testo stesso è un valore storicamente dato e di fatto potenzialmente indipendente dall’Autore (ivi, 173-174).
La componente progettuale della traduzione trova nella ilologia un eccellente modello epistemologico fondato sul rigore del “mestiere”: sulla ricerca, la computazione e l’esercizio15. Come il ilologo, praticando il mestiere, il traduttore acquisisce esperienza: supera ostacoli diversiicati, arricchendo le sue competenze e la propria capacità di valutazione e previsione. Entrambi, ilologi e traduttori, operano in base a congetture. Le congetture non sono illazioni soggettive, ma operazioni mentali “euristiche”, ovvero calcoli probabilistici indispensabili quando mancano alcuni dati e/o il tempo necessario per computarli (il concetto verrà ripreso nel capitolo seguente)16. Come il ilologo, il traduttore opera piccole o grandi congetture a tutti i livelli operativi: durante la ricezione del TP, durante il processo di ri-codiicazione del TA, durante la valutazione del TA. Pur lavorando in millisecondi, il traduttore professionista continua a computare, frase per frase. Interpretare signiica ricostruire nessi tra i dati anche laddove non ci sia una soluzione unica e univoca. Il traduttore, grazie al supporto della ilologia, può procedere secondo questo schema: - (congettura 1) se i dati disponibili del TP sono ambigui, si valutano le ipotesi e le ambiguità; - valutazione di tutte le informazioni di una frase (unità di testo) del TP; - (congettura 2) ipotesi sul modo in cui l’avrebbe scritta/detta l’autore se la sua lingua nativa fosse stata quella di arrivo; - (congettura 3) ipotesi sul modo in cui i destinatari del TA lo recepiranno, valutando che debba essere analogo al mondo in cui i destinatari di partenza, coevi dell’autore, recepivano il TP17. Nel caso di ambiguità, se il testo è contemporaneo al traduttore, si considera che l’ambiguità sia un importante artiicio del TP e lo si riproduce allo stesso grado nel TA. Se invece il testo è cronologicamente distante, come il ilologo, il traduttore si chiede se l’ambiguità sia dovuta allo slittamento se15. Il celebre ilologo russo Dmitrij Lichačëv (1983, 31) ha scritto esplicitamente che “la critica testuale è un mestiere”. 16. Applicato all’ambito della semiotica, lo stesso concetto è rappresentato dal termine abduzione, che indica un “processo inferenziale”, ovvero un’ipotesi probabile: “L’abduzione è un procedimento tipico mediante il quale nella semiosi si è in grado di prendere decisioni dificili quando si seguono istruzioni ambigue” (Eco 1995, 224-225). 17. Ovviamente, se due destinatari del TP lo recepiscono in modo lievemente (soggettivamente) diverso (la diversità aumenta con l’espressività del TP), proprio questa potenzialità del TP va trasmessa al TA.
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mantico del lessico e/o alle mutazioni sintattiche occorse nel tempo, o se invece, anche in questo caso, si tratti di un artiicio speciico del TP. Per nessun tipo di testo le ambiguità, le lacune e le contraddizioni dei manoscritti hanno implicato congetture più dificili e più violentemente discusse di quanto sia accaduto, e ancora accada, con i testi ritenuti “sacri” dai credenti delle rispettive religioni. Miliardi di persone al mondo, oggi, venerano e seguono come modello di vita testi considerati “sacri” che sono il risultato di un processo di ricostruzione e traduzione umana, non solo basato su congetture, ma condizionato dall’ambiente, cioè dal contesto politico, ideologico, culturale. 3. I testi “sacri” e la ‘parola di Dio’18 Il testo sacro, inteso come “parola di Dio” rivelata agli uomini, è legato alle tradizioni monoteiste che hanno fortemente condizionato il pensiero umano e il rapporto della cultura con l’ignoto. L’AT, i Vangeli, il Corano – in un complesso intreccio di cronache, narrazioni, prescrizioni e proscrizioni – si presentano come mediazione di un messaggio divino dal valore profetico che ha il molteplice compito di rivelare la ‘Verità’, fornire norme di comportamento e trasmettere narrazioni che supportino l’idea di un rapporto privilegiato di Dio con un gruppo circoscritto di creature umane (che si distingue da tutti gli altri secondo uno schema binario: fedeli/infedeli, ebrei/gentili, cristiani/pagani ecc.)19. Paradossalmente, pur essendo l’auctoritas dei testi sacri di ebraismo, cristianesimo e islam ilologicamente molto confusa e ambigua, i testi vengono presentati ai rispettivi fedeli secondo un postulato di Auctoritas: viene detto loro che il testo sacro è “parola di Dio” in quanto Dio stesso, direttamente o indirettamente, ne è l’Autore. Chi dubita dell’origine divina del testo sacro della propria cultura viene guardato, nel migliore dei casi, con difidenza e fastidio da coloro che sono meno consapevoli delle diatribe ilologico-testuali avvicendatesi nel corso dei secoli. Se davvero si crede che un testo contenga la Verità divina, qualora le scoperte scientiiche contraddicano le affermazioni di quel testo, al fedele può essere imposto di disconoscere il valore della scienza o di compiere una sorta 18. In questo paragrafo vengono esposte solo alcune considerazioni generali su studi condotti da altri studiosi, senza alcuna pretesa di offrire dati aggiornati né, tanto meno, esaustivi. Data l’importanza storica del dibattito sul tema religioso, è comunque importante offrire una sintesi che ne illustri la straordinaria complessità. 19. Si noti, ad esempio nella nostra lingua, l’uso politicamente scorretto della parola “cristiano” come sinonimo di “essere umano”, ma anche l’uso dell’espressione “nome di battesimo” per indicare il primo nome di una persona. Si noti ancora l’uso (ad esempio nei tribunali americani) di attestare giuridicamente l’attendibilità di un teste, facendogli giurare con la mano su un “testo sacro” (ad esempio, la Bibbia) di dire “la verità, nient’altro che la verità”.
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di separazione tra la logica argomentativa e la fede: del resto, se i testi sacri delle religioni non venissero considerati “parola di Dio” e portatori della Sua “Verità”, l’impalcatura della religione rivelata crollerebbe. Quando c’è contraddizione tra la ‘Verità’ assoluta e immanente della religione e la ‘verità’ relativa e contingente della scienza, esistono alcune ‘soluzioni’. Una, per esempio, è negare del tutto il contributo della scienza pur di non intaccare il signiicato ‘letterale’ del testo sacro: si pensi che i cosiddetti “creazionisti”, a dispetto di qualsiasi dato scientiico, affermano oggi (in base all’AT) che il mondo esista da circa 6000 anni. Un’altra possibilità è quella di indagare con i mezzi della ilologia i testi sacri, ipotizzando che vi siano signiicati nascosti, ma accessibili, che possono rivelare nuove informazioni sulla “parola di Dio”: si cerca quindi uno ‘spazio interpretativo’ per conciliare i dati della scienza con il testo sacro. Una terza strada è attribuire al testo sacro un valore metaforico, simbolico, che indichi un percorso etico forte e stabile, ma suscettibile di essere interpretato secondo parametri nuovi in epoche diverse: in questo caso, l’assioma della Verità rivelata ‘perde rigidità’, ma questo può suscitare scontento tra i conservatori che intendono la (propria) rivelazione come un messaggio univoco, universale, ‘ortodosso’. Inine, un’ulteriore possibilità è quella di supporre che un preciso testo sacro offra modelli non tanto metaforici, quanto esoterici, nascondendo, dietro semplici parole, un codice meta-linguistico accessibile solo a una stretta cerchia di accoliti in grado di decifrarlo: per esempio, nel caso della Kabbalah ebraica, o di altre correnti mistiche, si possono individuare complesse correlazioni tra lettere e numeri che potrebbero offrire un codice alternativo a quello meramente linguistico20. In ogni caso, a prescindere dalla fede e dalla modalità di risolvere le contraddizioni con i dati scientiici, i testi sacri delle religioni rivelate presentano enormi problemi di tipo ilologico. Ebraismo, cristianesimo e islam dispongono solo di copie dei rispettivi testi sacri, copie che sono spesso posteriori di secoli rispetto ai testi originari: le varianti codiicate per i fedeli in edizioni canoniche vengono uficializzate dalle autorità della comunità religiosa secondo umani criteri storici e ideologico-interpretativi. Ovviamente, la mancanza degli “originali” rende la traduzione dei testi ‘sacri’ particolarmente problematica, ma è problematica anche l’inclusione o esclusione dei testi o di alcune copie dei testi dal canone attestatosi nella tradizione di ogni singola religione: prima ancora di tradurre la Bibbia, si deve decidere cosa venga incluso o escluso dai due Testamenti (McDonald 2008, 204). Talvolta, del resto, tra le traduzioni in altre lingue diverse, paradossalmente, può trovarsi un frammento tradotto da una versione più antica del testo considerato canonico. Ad esempio, la traduzione in greco dell’AT deinita in latino Septuaginta (“Bibbia
20. Nella tradizione ebraica, come in quella latina, i numeri erano codiicati con le lettere dell’alfabeto.
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dei Settanta”)21, almeno per alcuni traducenti, potrebbe essere più afidabile della versione masoretica ebraica, posteriore di circa un millennio22: questo è emerso dopo il ritrovamento (nei pressi del Mar Morto negli anni Quaranta e Cinquanta del XX secolo) dei manoscritti ebraici di Qumran, che risalgono in parte all’epoca pre-cristiana (cfr. Evans 2008, 16). Ma anche su questo esistono interpretazioni e non certezze, visto che “quello che a uno studioso pare una variante del testo ebraico ricostruita rigorosamente è per un altro la resa tendenziosa del traduttore” (Tov 2008, 32) e, per ogni variazione dei Settanta rispetto al testo ebraico, si possono trovare, tra gli studiosi, opinioni diverse e “pochi criteri obiettivi per valutare” (ivi). La questione se un testo tradotto sia afidabile sul piano della fede e, quindi, la discussione sulla legittimità stessa della traduzione dei testi sacri, resta aperta. In ambito cristiano, in particolare, domina per lo più l’idea che tradurre la Bibbia sia possibile e legittimo: a prescindere dalla lingua, la Verità della Bibbia può essere preservata e trasmessa all’umanità in qualsiasi idioma. Altri non condividono questa opinione. Nel caso del Corano, come vedremo, domina la convinzione opposta: se il testo arabo è così complesso da evocare molteplici associazioni, rimandi e interpretazioni, e se questa ricchezza è legata alla speciica forma della parola originaria in arabo, la traduzione, per principio, non può conservare l’immenso retaggio interpretativo del testo arabo, sebbene nessuna delle copie del Corano in arabo sia l’“originale” perduto. Per chi assuma l’ottica della sacralità sostanziale e formale del testo sacro, la traduzione (in quanto sostituzione della lingua sacra con una ‘non sacra’) può essere vista addirittura come processo di dissacrazione e, di conseguenza, come operazione di dissidenza religiosa (eresia) o di azione demoniaca: soprattutto nelle epoche degli scismi e delle riforme religiose, “un traduttore poteva essere giustiziato solo per aver reso in un parti21. La Septuaginta, realizzata ad Alessandria d’Egitto all’inizio del III secolo AC, resta a tutt’oggi il testo uficiale della Bibbia greco-ortodossa ed è tradizionalmente considerata anche da alcuni cattolici più importante del testo masoretico ebraico. Questa traduzione dall’ebraico al greco, basata su una versione del testo ebraico andata perduta, pare fosse stata commissionata per la comunità ebraica alessandrina che parlava solo greco. Si chiama così perché, stando alla leggenda, erano stati riuniti 72 esperti ilologi-traduttori che avevano tradotto separatamente il testo, per poi veriicare l’unanimità delle loro scelte traduttive. Secondo alcuni studi, il testo da cui i 72 esperti avevano tradotto non era però quello in alfabeto ebraico, ma un testo già traslitterato in alfabeto greco (cfr. Vaccari, online; Buzzetti 1993, 35-37; per una disamina ilologica, cfr. Martone 2012). Se le cose stanno così, visto che, come vedremo, solo poche vocali dell’alfabeto erano segnate nei manoscritti ebraici (essendo quello ebraico un alfabeto consonantico), resta da chiedersi con quali congetture, durante la traslitterazione, fossero state inserite in alfabeto greco le vocali che l’alfabeto ebraico non segnava. Comunque sia, la Bibbia dei Settanta ha avuto ed ha ancora un ruolo primario nelle nuove traduzioni della Bibbia in altre lingue (Wooden 2008, 133).. 22. Gli scribi e interpreti ebrei detti “masoreti”, a cavallo tra il X e XI secolo d.C., avevano concluso una secolare revisione testuale dell’AT ebraico, utilizzando i manoscritti sopravvissuti alla distruzione del secondo tempio di Gerusalemme (70 d.C., a opera di Tito). La versione della Bibbia ebraica usata oggi dagli ebrei è detta “testo masoretico”.
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colar modo una frase del testo” (Bassnett-McGuire 1993, 81). Questo spiega l’atteggiamento caustico o battagliero dei grandi traduttori, consapevoli dei rischi cui andavano incontro23. Pur in estrema sintesi, queste considerazioni spiegano perché la traduzione del testo sacro si sia prestata a divenire il ‘terreno’ ideale per rilettere sulla responsabilità del traduttore e per chiedersi chi fosse afidabile come traduttore: non solo i copisti dei testi sacri dovevano essere afidabili sul piano della fede, prima ancora che per le loro competenze ilologiche, ma anche i traduttori, per essere afidabili nel ri-creare la “parola divina” in una lingua ‘laica’, più delle competenze bilingui, dovevano dimostrare di essere ‘buoni fedeli’. La posizione dei tre monoteismi nei confronti del rispettivo testo sacro e della sacralità della lingua in cui era stato originariamente scritto (o anticamente tradotto) è interessante per comprendere le radici del dibattito sulla traducibilità dei testi “alti” che molto ha condizionato il dibattito sulla traduzione in generale24. 3.1. Testo biblico e traduzione nell’ebraismo La società occidentale, deinita “giudaico-cristiana”, ha un legame privilegiato con la Bibbia: l’AT è un testo “sacro” sia per l’ebraismo, sia per il cristianesimo, sebbene nell’ebraismo non si possa parlare di “Antico Testamento”, in quanto non ne esiste uno “nuovo” (quindi la dicitura più corretta è “Bibbia ebraica”). Nell’ebraismo, tuttavia, il testo sacro per eccellenza è la Torah, che comprende solo i primi cinque libri dell’AT (Pentateuco), sebbene anche gli altri siano un patrimonio fondamentale della cultura ebraica. Ancora oggi, la Torah viene letta e studiata dagli ebrei osservanti in lingua ebraica (nella versione masoretica) e con dedizione quasi quotidiana. L’ebraico della Torah è deinito (in ebraico e per antonomasia) “lingua santa” (“lashon ha-kodesh”) ed è assunto come lingua liturgica. L’esempio dell’AT ebraico è utile da considerare non solo perché è il riferimento principale di alcune note teorie della traduzione (cfr. Nida 1945, 1964, Nida e Taber 1982), ma anche perché, dal punto di vista materiale e ilologico, la scrittura ebraica in cui sono state tràdite (cioè trasmesse a noi) le copie manoscritte del Pentateuco presenta alcune ‘fatali’ caratteristiche delle scritture semitiche (condivise anche dall’arabo coranico): da un lato, queste caratteristiche iniciano l’idea che possa esistere una “Verità” asso23. Etienne Dolet fu condannato da un tribunale per la propria interpretazione di Platone; anche nella lontana Russia, lo spirito innovatore di un erudito religioso di origine italiana, Maksim Grek (Massimo il Greco), traduttore dal greco in latino del Salterio, durante la sua permanenza in Russia, per alcune sue scelte traduttive, fu perseguitato, accusato di eresia e condannato alla clausura. 24. Per una sintesi sulle principali tappe storiche delle traduzioni bibliche, cfr. Buzzetti (1993, 32-55).
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luta dell’originale; dall’altro, dimostrano l’impossibilità di leggere e comprendere i manoscritti antichi senza la procedura ilologica delle congetture. Quello ebraico, infatti, è un alfabeto consonantico, cioè trascrive per lo più i soli suoni delle consonanti che costituiscono la radice della parola (eccetto, in alcuni casi, la ‘i’ e la ‘o’/‘u’), formata per lo più da tre consonanti; i suoni delle vocali, ovviamente, esistevano (ed esistono oggi nell’ebraico parlato), ma venivano omessi nella scrittura (e anche oggi sono quasi sempre assenti). Si immagini di dover leggere in italiano la sequenza consonantica mlt, dovendo decidere in base alla verosimiglianza contestuale se sia amuleto, molto, milite, malto, omileta, multa, ecc.: senza contesto, sarà dificile, se non impossibile, trovare una soluzione certa. Comunque, in questo caso, un contesto in buona parte senza vocali crea un rompicapo anche in una lingua radicale, dove le previsioni sono comunque guidate (a differenza dell’italiano) da un nesso semantico25. Del resto, però, questo sistema pare legato a una modalità cognitiva universale, visto che (in parte) è quello che facciamo anche noi, che usiamo lingue indeuropee, codiicando e decodiicando gli sms per abbreviare le parole; di fatto non le tronchiamo (perché sarebbero troppo ambigue), ma togliamo le vocali; leggendo, le ripristiniamo per congettura, secondo abilità statistico-contestuali che, evidentemente, sono proprie di ogni intelligenza umana addestrata alle lingue sonore: cmq (= comunque) vng (= vengo) sts (= stasera)26 25. Per esempio, se in ebraico si ha la sequenza MLD, si tratta della radice che riguarda insegnare/imparare, da cui deriva, ad esempio, la parola “maestro/istruttore religioso” (“melamed”). 26. Curiosamente, seguendo un istinto creativo comune ad altre lingue, usiamo anche altri criteri economici di codiica dei segni linguistici che assomigliano a quelli dei gerogliici e degli ideogrammi. Ad esempio, noi italiani scriviamo “6” intendendo il verbo essere alla 2° persona singolare (“sei”), mentre gli anglofoni scrivono “wh r u” intendendo “where are you”, “4 U” (= “for you”), “C U L8R” (“see you later”) e i russi, per trascrivere in alfabeto latino sul cellulare i suoni ‘č’ e ‘š’, usano i numeri che iniziano in russo con quel fonema, rispettivamente 4 (“četyre”) e 6 (“šest’”). Ultimamente, inoltre, grazie a nuovi sistemi di codiicazione graica, possiamo rappresentare intere narrazioni mediante emoticon ed emogji. Si veda la descrizione del suo imminente matrimonio postata dal tennista A. Murray su un social network:
Tutto ciò richiederà presto nuove abilità ilologiche e interpretative; certamente richiede già abilità traduttive, visto che i testi degli sms sono usati correntemente negli audiovisivi sottoposti a doppiaggio e sottotitolaggio.
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Come se non bastasse, gli autori delle copie manoscritte (non originali) dell’AT (ma vale anche per le copie manoscritte del Corano), oltre a non annotare le vocali, non utilizzavano le maiuscole, non distinguevano tra fricativa sorda alveolare (“s”) e postalveolare (“ʃ”) e, per lo più, non separavano tra loro le singole parole: si immagini, in metafora, di stabilire che un sms signiica “comunque vengo stasera”, ricevendolo scritto così: cmqvngsts Nel corso dei secoli, singoli esegeti e gruppi di eruditi ilologi hanno fatto del loro meglio per mettere ordine in questi testi, operando congetture sulla precisa separazione delle parole, oltre che sulla combinazione delle vocali. Una volta scelta una certa opzione, quella avrebbe inluito sulle opzioni successive; cambiando quella opzione, anche quelle precedenti e seguenti ne avrebbero risentito27. La vocalizzazione mediante puntuazione (combinazioni di segni convenzionali, puntini e lineette disposte sopra e sotto le lettere, che registrano nel testo le vocali precise) risale circa al vii secolo d.C.: tuttavia, la scelta delle vocali che sono state inserite è stata basata su congetture; è ampiamente condivisa, ma non univoca, cioè può variare su larga scala se cambiano anche poche interpretazioni. Uno dei compiti più importanti richiesti a un ebreo praticante è proprio quello di studiare la Torah e di veriicare, anche in base alle interpretazioni dei grandi commentatori del passato, quali altre combinazioni di vocali (oltre a quelle codiicate dalla puntuazione medievale) possano portare a nuove interpretazioni. Questo fatto impone di accettare l’idea che più signiicati possano convivere nello stesso messaggio biblico. Per quanto rigorosi e dotti, gli interventi ecdotici sull’AT hanno portato, in differenti epoche e contesti, a esiti interpretativi diversi, generando l’idea paradossale che, se anche si disponesse oggi del testo originale perduto, sarebbe comunque impossibile leggerlo senza congetture, secondo un’interpretazione del tutto oggettiva. La consapevolezza di questo, che rende lo studio della lingua ebraica e del testo biblico un dovere degli ebrei osservanti, implica che – pur con l’indubbia deferenza per le canoniche interpretazioni rabbiniche del passato (espresse per lo più in volumi di commentari, come il Talmud) – chiunque abbia il diritto e il dovere di studiare la Torah, cercando nuove conferme o nuove combinazioni di parole e signiicati. Proprio questo, a sua volta, implica l’impossibilità oggettiva di proporre una traduzione della Torah (cioè del testo masoretico) che sia oggettiva, deinitiva e statica. La reticente lingua ebraica scritta della Torah è dunque lo strumento offerto agli uomini per condurre una ricerca del messaggio divino dell’AT, il quale messaggio, tuttavia, è sempre in divenire e non giunge mai a un traguardo 27. Ovviamente alcune parole come i nomi propri (antroponimi, toponimi, etnonimi, teonimi ecc.) sono più facilmente isolabili e afidabili.
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deinitivo. A quanto pare, Dio aveva dato agli ebrei un testo che facesse loro esercitare l’umiltà dello studio, nella consapevolezza che la Verità non fosse mai raggiungibile del tutto. L’atto di ricerca ebraico è, quindi, un importante esercizio per ribadire l’immensa potenzialità del testo e la initezza degli strumenti umani. Per questo, un altro dovere ebraico è la pratica congiunta del confronto delle interpretazioni e dell’addestramento alle argomentazioni interpretative28. In sostanza, l’ebraico della Torah è sacro in ogni sua lettera, ma i precetti che il testo sacro contiene sono applicati nella vita quotidiana in base ad argomentabili congetture. Essendovi una interpretazione condivisa dalla comunità, la versione masoretica del testo ebraico può essere tradotta, ma la traduzione non ha valore per lo studio dei testi come pratica di devozione ilologico-religiosa, perché la traduzione sarebbe un testo deinitivo, mentre la “vera” Torah non lo è. È importante considerare che l’ebraismo, a differenza di cristianesimo e islam, non è mai incline al proselitismo esterno, cioè non è dedito a diffondere la propria religione tra i non ebrei. Infatti, per ragioni diverse e in buona misura storicamente comprensibili, si è mantenuta nei secoli una rigida correlazione tra l’appartenenza religiosa e l’appartenenza al popolo ebraico29. L’ebraismo, quindi, non cerca di moltiplicare i fedeli tra gli altri popoli, cerca piuttosto di rendere più osservanti e biblicamente dotti gli ebrei meno religiosi. Il messaggio anticotestamentario, infatti, annuncia che il Messia verrà quando il popolo ebraico (secondo l’AT, “eletto” da Dio) si comporterà in modo retto, secondo le Scritture (infatti, ogni singolo ebreo inadempiente concorre a ritardare l’atteso evento). Dunque, non c’è mai stata l’esigenza di tradurre la Torah per diffonderla tra i non ebrei, ma solo la necessità di renderla accessibile ai meno dotti ebrei della diaspora che non fossero in grado di comprendere l’ebraico biblico. Questa necessità risale al periodo dell’esilio babilonese, quando si traduceva in aramaico la Torah per gli ebrei che non comprendevano più l’ebraico, in quanto la loro lingua nativa, a Babilonia, era divenuta l’aramaico30. Così, 28. Gli ebrei ortodossi venerano la Torah come simbolo e riferimento non solo della religione, ma anche della coesione nazionale (questo non vale per gli ebrei laici o moderatamente praticanti). Per essere considerato sacro, il testo della Torah deve essere scritto a mano su lunghi rotoli di pergamena da scribi esperti che controllino lettera per lettera e ne evitino qualsiasi deformazione (rispetto, tuttavia, al testo masoretico e non all’originale perduto). 29. Solo chi è ebreo può (uficialmente) professare la religione ebraica, per cui, nei casi di conversione religiosa, viene prima richiesto di avviare ed espletare una (complessa) procedura per “diventare ebrei”, ma la conversione non solo non è caldeggiata, ma si accompagna talvolta a lieve difidenza. 30. All’epoca del secondo Tempio (ricostruito nel 515 a.C.) si era anche diffusa la pratica dell’interpretazione consecutiva orale dall’ebraico in aramaico durante le funzioni religiose; tuttavia, le traduzioni orali dovevano necessariamente succedere alla lettura dei testi in ebraico e solo allo scopo di rendere partecipe chi non comprendesse la lingua sacra (erano una sorta
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per la comunità ebraica di lingua greca di Alessandria, era stata progettata la Bibbia dei Settanta. Restava comunque chiara l’idea che queste traduzioni “di servizio” (in ebraico targumim) servivano solo al popolo per seguire le funzioni sinagogali svolte in ebraico, senza però avere valore sacrale: la traduzione non sostituiva il testo della Torah ebraica31. Anche oggi le numerose traduzioni ebraiche della Torah hanno valore soprattutto culturale. Tuttavia, secondo Paolo De Benedetti (1994, 16), le traduzioni della Bibbia fatte dai rabbini – esperti conoscitori della lingua ebraica e degli imponenti e dotti commentari dei maestri del passato – rivelano una sensibilità particolare alle potenzialità del testo ebraico e si distinguono dalle traduzioni cristiane per “l’attenzione alle irregolarità di supericie”32. 3.2. La Bibbia e la sua traduzione nel cristianesimo Anche in ambito cristiano, l’ebraico dell’AT è stato considerato a lungo una lingua fondamentale per lo studio delle Scritture, tuttavia la sua sacralità è stata messa in ombra per varie ragioni. Innanzitutto, i non ebrei vedevano nell’ebraico la lingua di un singolo popolo, connotato da un’“elezione” che il cristianesimo aveva reinterpretato, di fatto, annullandola (il Messia cristiano, infatti, era giunto per estendere il patto divino dell’AT a tutta l’umanità). In secondo luogo, gli ebrei erano stati accusati di deicidio (e di altre nefandezze) e parte della difidenza si era rilessa sulla lingua ebraica. In terzo luogo, ma soprattutto, il crisma di lingua sacra era stato rivendicato dal greco (lingua evangelica) e poi esteso al latino, lingua liturgica della Chiesa cattolica romana. Per quanto riguarda il Nuovo Testamento, la confusa situazione ilologica è simile a quella dell’AT: “non c’è alcuna famiglia di manoscritti che ottenga un punteggio ottimale nel compito di preservare i testi più antichi e migliori” (McDonald 2008, 211). L’intera Bibbia è stata ricostruita secondo canoni che sono stati, per lo più, il risultato di un processo, più che la conseguenza delle di testo orale “a fronte”). 31. Tra il 1676-78 fu pubblicata la prima traduzione della Torah in yiddish, lingua tedesco-ebraico-slava, parlata all’epoca da più di un milione di ebrei ashkenaziti dell’Europa centro-orientale (cfr. Krasnyj 1909 [1991], 519). Poiché non tutti gli ashkenaziti erano in grado di leggere la Torah in ebraico, ma leggevano solo la propria lingua parlata (yiddish) e, talvolta, le lingue dei Paesi in cui vivevano (tedesco, polacco, russo ecc.), numerosi libri di preghiere e narrazioni bibliche circolavano in traduzione yiddish (soprattutto per le donne, esentate dal dovere religioso di studiare la Torah). 32. Esistono in numerose lingue traduzioni dall’ebraico della Torah e degli altri testi dell’AT eseguite da esperti rabbini: di solito vengono stampate con testo a fronte e commenti in nota, ovvero come compendio al testo ebraico (è il caso della traduzione in italiano dell’AT a cura di Rav Dario Disegni, pubblicata da Giuntina nel 1995 e impaginata, come prevede la scrittura ebraica del testo “principe”, da destra a sinistra).
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decisioni di concili ebraici o cristiani, ma la differenza tra canone ebraico e cristiano è proprio quello che ha permesso di marcare le differenze che consentono ai diversi “popoli del Libro” di sentirsi “il popolo del Libro” (Charlesworth 2008, 85). La sostanziale macro-differenza tra ebraismo e cristianesimo nel rapporto con le Scritture e le loro traduzioni dipende, come si è anticipato, dall’opposto approccio al proselitismo. Il cristianesimo (come del resto, mutatis mutandis, l’islam) si fonda sul proselitismo, coerentemente all’idea che il Messia sia già arrivato e sia Gesù di Nazareth, e che la sua “buona novella” (l’estensione del patto divino a tutti gli esseri umani) sia resa accessibile a tutti i popoli della terra. Per essere eficace, la missione di evangelizzazione è necessariamente connessa alla divulgazione e ricezione della Bibbia, che va “portata” ai popoli che non la conoscono. Poiché non è mai stato realistico pretendere che l’adesione dei singoli al cristianesimo comportasse lo studio dell’ebraico, del greco e del latino (le tre lingue fondamentali per l’esegesi delle sacre Scritture cristiane), la traduzione era la soluzione ideale per la conversione di milioni di persone. Con l’estensione a tutti i popoli del patto divino, veniva gradualmente affermato il diritto di tutte le lingue a farsi strumento della “parola di Dio”. Il processo di diffusione della Bibbia tradotta è aumentato progressivamente, raggiungendo un picco con la fondazione, intorno alla metà del XX secolo, delle United Bible Societies. Le Società Bibliche Unite avevano assunto il compito, per usare la metafora di Schleiermacher, di “muovere incontro” la Bibbia al lettore, organizzando in modo professionale il lavoro e fornendo ai traduttori un supporto sempre più coerente a standard veriicati di alta qualità. Sul sito uficiale delle United Bible Societies è detto esplicitamente: We believe the Bible is for everyone so we are working towards the day when everyone can access the Bible in the language and medium of their choice33.
Come anticipato, la teorizzazione della traduzione della Bibbia in ambito cristiano risaliva a San Gerolamo – autore della Vulgata alla ine del IV secolo – che considerava che la Bibbia non potesse essere tradotta secondo il principio funzionale di Cicerone, ma richiedesse una particolare attenzione alle strutture. Per più di un millennio, nessuno avrebbe messo apertamente in discussione l’approccio al testo biblico del “santo traduttore”. Solo nella prima metà del XVI secolo, la sua concezione veniva praticamente ribaltata dalla traduzione della Bibbia in tedesco conclusa da Martin Lutero nel 1534: questa traduzione avrebbe costituito un drastico momento di svolta teorica non solo in ambito religioso, ma per la teoria della traduzione in generale. 33. http://www.unitedbiblesocieties.org.
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Con Lutero, si affermava la priorità della funzione comunicativa e della coerenza pragmatica del testo tradotto: il suo approccio alla traduzione è stato così ‘rivoluzionario’ da potersi considerare una tappa signiicativa dello scontro ideologico con Roma (sfociato già qualche anno prima nella Riforma). Secondo Lutero, che basava la Riforma sulla centralità dei testi sacri (soprattutto del Vangelo) per la dottrina cristiana, era necessario, anche nel caso della Bibbia, dare assoluta priorità al criterio della credibilità linguistica e testuale34. Le sue considerazioni, espresse nell’“Epistola sul tradurre” del 1530 (cfr. Lutero 1993), rispecchiano in modo sorprendente le moderne teorie semiotiche, mirate agli aspetti comunicativi della traduzione, annullando per la prima volta il postulato binario della contrapposizione tra testi ‘alti’ e ‘bassi’. Per questo aspetto, Lutero potrebbe essere deinito un lungimirante “funzionalista”, persuaso che la lingua delle Scritture fosse e dovesse restare popolare, credibile, comprensibile: Non si deve chiedere alle lettere della lingua latina come si ha da parlare in tedesco, come fanno questi asini, ma si deve domandarlo alla madre in casa, ai ragazzi nella strada, al popolano al mercato (ivi, 1993, 106).
Da precoce cultore della pragmatica linguistica, rivalutando la funzione comunicativa del testo, Lutero osservava, ad esempio, come il saluto dell’angelo a Maria (Luca, I, 28), cristallizzato nella versione latina nel noto e poco funzionale “Ave, Maria, piena di grazia”, fosse innaturale. Nel tedesco vivo, invece, questo saluto doveva corrispondere a “Dio ti saluta, cara Maria” (Lutero 1993, 108), perché così avrebbe detto l’angelo se avesse parlato in viva lingua tedesca. Un’ulteriore prova della modernità del pensiero di Lutero è il suo approccio alla critica della traduzione, che appare oggi coerente alle leggi di un mercato culturale libero e improntato al rigore del mestiere: un traduttore che lavorasse al meglio delle sue possibilità (secondo arte, diligenza e intelligenza), secondo Lutero, avrebbe reso un servigio a chi non avesse saputo “far di meglio”; nessuno sarebbe stato obbligato a leggere la sua traduzione e, soprattutto, a nessuno si sarebbe “vietato di fare una traduzione migliore” (ivi, 101). Tuttavia, nonostante la sua lungimiranza nell’opporsi alla posizione binaria di Gerolamo e dei suoi sostenitori, Lutero costellava le sue argomentazio34. In buona misura, oltre alle motivazioni politico-nazionali, a innescare gli scismi cristiani sono state le diverse interpretazioni di alcuni punti cruciali della Bibbia. Il concetto di afidabilità della traduzione, in ambito cristiano, viene oggi riferito al modello canonico del testo approvato dalla speciica Chiesa cristiana che amministra la singola missione. Il problema delle traduzioni/interpretazioni riguarda soprattutto la liturgia che diverge nei riti, ma talvolta nella sostanza. Per questa ragione, in nome dell’unità del cristianesimo, sarebbe “auspicabile che si giunga ad una interpretazione uniforme e si evitino al massimo le interpretazioni contrastanti, anzi che si giunga ad una stessa interpretazione delle formule più importanti e più discusse” (Falsini 1994, 67).
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ni di affermazioni poco coerenti con un approccio argomentativo ilologico e rigoroso. Ad esempio: Il mondo è e resta il mondo del diavolo, perché non vuole essere diverso […] (ivi, 105). Chi non vuole la mia traduzione, la lasci stare. Il diavolo sarà riconoscente a chi non l’approva e la critica contro la mia volontà e a mia insaputa […] (ivi, 109).
Di fatto anche Lutero non separava il piano funzionale da quello ideistico, intrinsecamente legato alla sua ostilità per i nemici della sua ‘verità’ (soprattutto gli “asini papisti” e gli ebrei). Infatti, dopo aver parlato in termini semiotici della qualità linguistica della traduzione, passava a elencare le doti intrinseche, secondo lui necessarie a un traduttore degno di accedere ai testi sacri. Queste qualità rimandavano a categorie dogmatiche e ineffabili: il traduttore avrebbe dovuto avere “un cuore veramente pio, fedele, zelante, timoroso, cristiano, dotto, sperimentato, esercitato” (ivi, 111). Il problema tecnico della resa linguistica veniva dunque accantonato in nome dell’ontologia del traduttore. Questa prescrizione lasciava intendere che la bontà del testo tradotto dipendesse a priori da doti umane indeinibili (è dificile stabilire che cosa signiichi “zelante, timoroso, cristiano, dotto”, ecc.). I traduttori ebrei, ad esempio, non sarebbero potuti comunque essere afidabili (sebbene ilologicamente preparati) in quanto non avevano mostrato “molta venerazione per Cristo” (ivi). Il timore che i “nemici di Cristo”, a causa delle loro potenziali manipolazioni ideologiche (magari inconsce), non potessero essere buoni traduttori è certamente comprensibile e condivisibile, ma l’idea non veniva argomentata in modo razionale e rigoroso, bensì supportata esclusivamente da tendenziosa animosità. Lutero iniva, quindi, a ri-proporre in veste nuova una modalità binaria (bi-teoria): invece di applicarla al metodo traduttivo, l’applicava al traduttore. Per parafrasare André Lefevere (1992b, 2), il problema della fedeltà veniva spostato dal prodotto della traduzione al suo arteice. La generale commistione di razionalità e indeinitezza che si riscontra nei due grandi traduttori biblici (Gerolamo e Lutero) è particolarmente rilevante poiché è comune non solo a tutti i teorici religiosi, ma, in certi casi, anche ai giorni nostri, ha portato ad alternare erudizione e settarismo35. I primi tentativi di impostare la discussione sulla traduzione della Bibbia secondo un approccio realmente laico, sistematico e rigoroso si sarebbero avuti solo nella seconda metà del XX secolo grazie al contributo di Eugene Nida. In un suo lavoro decisamente innovativo del 1945, dopo aver premesso che la cultura rappresentata nella Bibbia fosse “a suo modo differente dal nucleo della nostra attuale cultura occidentale” (Nida 1945, 195), lo studioso poneva l’accento (in sintonia con Lutero) sul problema della traduzio35. È il caso, ad esempio, del volume di Roman Curkan (2001) sulla traduzione slava della Bibbia.
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ne come realizzazione di corrispondenze pragmatiche, ovvero su quello che deiniva “l’uso effettivo” della lingua (ivi, 207): “Il signiicato di ogni unità linguistica”, sosteneva, “va considerato nei limiti delle situazioni in cui può veriicarsi” (ivi). Nei suoi contributi successivi (la sua prima monograia dedicata alla Bibbia è del 1947), Nida (1964, IX) argomentava una sostanziale separazione tra sacralità del testo e attività interlinguistica, invitando a ricondurre l’attività della traduzione biblica agli “sviluppi contemporanei nei campi della linguistica, antropologia e psicologia”, nonché “alla più vasta attività traduttiva in generale”. Inine, in un volume pubblicato dalle United Bible Societies nel 1982 assieme a Charles Taber, Nida perfezionava il principio gerarchico che poneva alla base di qualsiasi progetto traduttivo (cfr. Nida, Taber 1982, 14) e affermava che “si daranno traduzioni diverse che possono essere deinite ‘corrette’” (ivi, IX). Nida ha enormemente contribuito a sensibilizzare i traduttori al mestiere e, in buona parte, a laicizzare il processo di traduzione multilingue della Bibbia, individuando nella traduzione lo strumento principale del proselitismo e dell’acculturazione36. Purtroppo, pur essendo Nida del tutto estraneo all’insensato concetto di “fedeltà” della traduzione, spesso il suo messaggio e i suoi sforzi di linguista hanno continuato a essere correlati ai dogmi della fede. È il caso, ad esempio, dell’erudita opera del biblista Carlo Buzzetti La Bibbia e la sua traduzione (1993), dove l’autore si riferisce spesso a Nida (la cui teoria è deinita la “più limpida e soddisfacente”; ivi, 71), lasciando intonso l’antico concetto di “fedeltà”. In un paragrafo dal titolo eloquente “La fedeltà: un’esigenza inevitabile”, Buzzetti (ivi, 115) afferma: se una traduzione non è “fedele”, non soltanto non può esser detta “buona”, ma addirittura si colloca al di fuori dell’area del “tradurre”; la sua “fedeltà” si misura sia sul versante della forma che su quello del signiicato effettivo.
L’evidenza del dominio del piano metaisico su quello logico-epistemologico si manifesta in dalla presentazione al volume irmata da Alberto Ablondi, dove si allude esplicitamente alle qualità necessarie al traduttore nei termini espressi quasi cinquecento anni prima da Lutero: i traduttori devono essere “umili” per farsi guidare dallo “Spirito Santo” (ivi, 3). Questo postulato inicia a priori qualsiasi ambizione scientiica e dialogica. Chiaramente, i linguisti (cui pur Buzzetti sembrava rivolgersi) non possono accettare l’idea che un’analisi teorica si fondi sul postulato non falsiicabile che i testi biblici siano “di origine divina, per l’incarnazione della parola di Dio” (ivi, 91). Certamente, l’atto di fede può coesistere con l’atto scientiico, ma solo se non condiziona l’argomentazione logica. Chiunque ha pieno dirit36. Sono numerosissimi i casi in cui, durante il processo di evangelizzazione dei popoli, la Bibbia è stata non solo il primo testo scritto di una cultura, ma anche quello che ne ha determinato la modalità di scrittura alfabetica (questo è accaduto con la versione della Bibbia in lingua slava a opera dei monaci evangelizzatori bizantini Cirillo e Metodio nel IX secolo).
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to di considerare qualsiasi testo opera divina e di auspicare in traduzione l’intervento dello Spirito Santo; tuttavia, se si assume come premessa che la Bibbia sia “parola di Dio scritta nel linguaggio degli uomini” (Martimort 1984, 856), ci si sottrae al dibattito scientiico e, di conseguenza, a qualsiasi criterio di negoziazione e di falsiicabilità. Infatti, da un punto di vista argomentativo, se Dio e lo Spirito Santo hanno a che fare con le traduzioni, se sono onnipotenti e interferiscono nelle faccende umane, i ragionamenti della ilologia, della linguistica e dell’antropologia (per non parlare della psicologia) vengono azzerati. Facendo riferimento a una realtà indimostrabile, che trascende la realtà isica e storica, la posizione metaisica è per deinizione inattaccabile, cioè non falsiicabile, e si pone fuori dal dialogo scientiico. Un dibattito tra studiosi implica che si negozino punti di partenza comuni a tutti i partecipanti al dialogo, se no si va incontro al ‘nonsense’: qualunque esperto teorico che non riconosca la Auctoritas divina del testo biblico e il ruolo dello Spirito Santo nel garantire la “fedeltà” alla “parola di Dio” non può teorizzare nulla; qualunque teorico li riconosca entrambi non ha bisogno della teoria. Nida era pienamente consapevole che tradurre la Bibbia implicasse una responsabilità particolare a prescindere dal fatto che il traduttore credesse o meno che la Bibbia fosse “parola di Dio”, ma spostava il concetto di sacralità dall’ineffabile ontologia del testo al suo ruolo storico-sociale: la sacralità di qualsiasi testo riguarda il mondo in cui quel testo verrà recepito dalla maggior parte dei destinatari della traduzione. Le due cose sono profondamente diverse: la prima implica una ispirazione elettiva, la seconda straordinarie competenze professionali. Merita, quindi, rilettere sul punto di maggiore incoerenza tra la posizione cristiana di totale ammissibilità religiosa delle traduzioni e i dati della ilologia. Si è detto, infatti, che l’“originale” da cui è stata tradotta la Bibbia non è mai stato l’originaria parola di Dio (questo vale per entrambi i Testamenti) e che, dunque, le interpretazioni dei testi oggi canonizzati non possono non essere, almeno in parte, frutto di congetture soggettive umane. Eppure, a partire da San Gerolamo e ino a oggi, neppure i teorici più soisticati hanno affrontato in modo esplicito e diretto i seguenti quesiti sull’AT che un traduttore dall’ebraico biblico non dovrebbe trascurare: - Visto che il testo della Bibbia da cui vengono fatte le traduzioni non è un autografo, ma una copia di copie, non può essere accaduto che i copisti (o gli editori dei testi a stampa), in quanto esseri umani, abbiano omesso, aggiunto, modiicato qualcosa, magari una sola lettera, ma signiicativa per l’Autore e per la Sua dottrina? - Se la Bibbia è “parola di Dio” (così recitano le Bible Societies), quali vocali ha immaginato l’Autore? - È possibile che il traduttore, che è a sua volta umano, oltre a dover partire da un testo manipolato dai copisti e dagli esegeti, essendo vincolato ai 81
suoi limiti di fallibilità, trascuri qualche particolare cruciale in cui, magari, l’Autore aveva voluto racchiudere o nascondere la Sua “chiave di lettura”? Ogni forma di manipolazione di un testo è soggetta ai limiti umani: a omissioni, aggiunte e refusi che possono essere volontari o involontari. Inoltre, tutte le interpretazioni, comprese quelle della parola considerata divina, sono umane e restano tali anche se, per fattori storici, ideologici, socio-psicologici o politici, assurgono al ruolo di “testo sacro” e vengono canonizzate. La posizione del cristianesimo non sembra tenere conto di questi problemi e delle contraddizioni che emergono nell’utilizzo delle traduzioni come testi “sacri”. Rispetto ai suddetti quesiti, al contrario, appare coerente la posizione dell’islam, che non contempla l’uso esegetico, religioso e liturgico della traduzione del Corano, poiché solo il testo in arabo (pur copia di copie in versioni diverse) è considerato “parola di Allah”. 3.3. Il Corano come testo sacro e la sua intraducibilità Anche nella cultura islamica, fondata sul testo coranico e sul proselitismo, il dibattito sulla traduzione è strettamente legato all’àmbito religioso (cfr. Zilio-Grandi 2012, 488-489); tuttavia, se il cristianesimo ‘porta la Bibbia al credente’, al contrario, si può dire che l’Islam, in dagli esordi, prevedesse di ‘portare il credente al Corano’. Pertanto, il proselitismo islamico non si fonda sulla diffusione di traduzioni del Corano nelle lingue dei potenziali nuovi fedeli, ma sulla diffusione del testo coranico in arabo e, dunque, almeno in parte, sulla diffusione dell’arabo coranico stesso. Il ruolo speciale dell’arabo rispetto alle altre lingue è attestato, come rileva Ida Zilio-Grandi (ivi, 488), dall’esistenza di due verbi differenti per intendere l’operazione di traduzione verso l’arabo dal greco (naqala) e dall’arabo stesso (tarjama), ed entrambe le operazioni sono intese (lo indica il participio “mutarjam”) come interpretazioni “dubbiose” o “incerte”37. La sacralità del testo coranico, quindi, è considerata inscindibile dalla sacralità della lingua prescelta da Allah e dal Suo Profeta, pertanto (logicamente) il Corano è assoggettato al dogma di “inimitabilità” (ivi, 489). Secondo le posizioni tra37. Zilio-Grandi ha tradotto il Corano per Mondadori nel 2010 (curato da Alberto Ventura), affrontando il lavoro con molto zelo e presentandolo con un utilissimo saggio, da cui si evince, tuttavia, un’adesione all’atavica ottica binaria della “letteralità” contrapposta alla “intrascritturalità” (termine non chiaro usato dalla traduttrice) del “segno” contrapposto al “senso” (parole, anche queste, che nessuno ha mai deinito a uso scientiico). Inoltre, affermando che “il Corano sfugge comunque alla traduzione letterale”, Zilio-Grandi non considera che, per ovvie asimmetrie strutturali tra le lingue naturali, tutte le traduzione “sfuggono” alla traduzione “letterale”, perché “letterale” vuol dire “calco” e nessun calco linguistico è mai una ‘traduzione’.
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dizionali, infatti, l’universalismo della religione islamica è collegato all’universalità della lingua (sacra) araba, che resta patrimonio comune dell’intera comunità dei credenti, la umma. La lingua coranica si attesta, quindi, come tramite fondamentale del credo islamico: se davvero Allah è l’Autore del testo sacro (o almeno Colui che lo ha dettato/ispirato) ed è Allah ad aver scelto proprio quella lingua, è coerente la scelta di diffondere la lingua stessa in àmbito religioso e di preservarla da ogni corruzione o manipolazione da parte degli umani. Come per la tradizione biblica, tuttavia, resta aperta la questione relativa alla mancanza di un “originale”, ovvero all’afidabilità delle copie in base alle quali vengono redatte le versioni arabe del Corano utilizzate da milioni di fedeli. In sostanza, non è garantito che anche il testo arabo sia esattamente corrispondente al messaggio profetico e divino che è andato perduto. Nel mondo islamico sono state elaborate ampie e dibattute teorie sulla traduzione, ma le interpretazioni del Corano costituiscono “ancora oggi una questione assai spinosa” (Cassarino 1998, 131) e il problema della sua traduzione trova ancora oggi risposte molto contrastanti (Borrmans 2000, 203). Agli occhi della maggior parte degli studiosi dell’islam, le numerose traduzioni del Corano di cui disponiamo non sostituiscono il testo sacro in arabo (ivi), ma hanno il ruolo di spiegazioni del suo contenuto, di vie d’accesso al “senso della Rivelazione” (Zilio-Grandi 2012, 489). Questo indica una sostanziale coerenza tra religione e ilologia: se il testo è sacro, la sua sacralità non può essere scindibile da quella della lingua prescelta da Allah e dal Suo Profeta, per altro semitica e vocalizzata solo in epoca posteriore a quella di Muhammad (quindi, frutto di lavoro umano come, del resto, è avvenuto per il testo masoretico ebraico dell’AT). Il Corano, quindi, viene riconosciuto a pieno titolo come “central text” religioso non solo in termini di contenuto e di ispirazione, ma in termini materiali, isici, linguistici (Lefevere 1992, 3): ogni copia deve essere in arabo, perfettamente e materialmente conforme alla versione del canone; di conseguenza, ogni traduzione non può che essere una mera parafrasi priva di valore sacrale e distante dal messaggio divino. In tempi molto recenti, tuttavia, sta parzialmente cambiando l’atteggiamento nei confronti della traduzione e, secondo alcuni esponenti dell’islam, in modo irreversibile. All’inizio del nuovo millennio, ad esempio, Borrmans (2000, 205) scriveva: si deve ammettere che ormai la traduzione del Corano viene ammessa dalla stragrande maggioranza dei dotti dell’islâm contemporaneo: infatti non mancano oggi i musulmani che hanno tradotto il Corano nelle grandi lingue di cultura, tanto più che l’ottanta per cento dei musulmani attuali non sa l’arabo coranico e lo ripete senza capirlo.
Kelly e Zezsche (2012, 117), alcuni anni fa, hanno intervistato l’islamista Tarif Khalidi, il quale ha dichiarato che, nonostante le dispute teologiche e linguistiche del passato, oggi la diatriba è superata: infatti, ormai, solo la 83
traduzione rende accessibile il Corano a moltissimi fedeli, per i quali lo studio e la comprensione dell’arabo coranico (secondo Khalidi) non sarebbe più necessaria (ivi, 118). Questo, tuttavia, non annulla il dubbio (da un punto di vista ideistico) che, per un testo considerato “sacro”, una lingua diversa da quella scelta da Allah possa essere afidabile e garantisca di non pregiudicare la comprensione e la pratica religiosa (cfr. Borrmans 2000, 209). Si consideri nel caso delle traduzioni del Corano un problema inevitabile e rilevante: essendo fatte spesso da traduttori che sono non solo cronologicamente, ma culturalmente distanti dal mondo coranico, il testo può subire interferenze, in particolare omologazioni alla cultura di arrivo. Questo è particolarmente rischioso, dal punto di vista islamico, qualora l’inluenza sia quella della diffusa cultura ebraico-cristiana, responsabile (sempre in ottica islamica) di aver falsiicato e nascosto le Scritture coraniche “per celare la previsione della venuta del profeta Muhammad” (ivi, 236). In generale, per concludere questa breve sintesi comparativa, si può affermare che la relazione tra la sacralità materiale della lingua e la sacralità del testo della rivelazione è stata recisa solo nel cristianesimo, laddove i fedeli di ebraismo e islam cercano comunque (tanto più devotamente, quanto più è radicata la loro fede) di accedere al testo sacro originario che, pur non “originale”, è scritto nella lingua prescelta dal rispettivo Dio unico. 3.4. Il dialogo scientiico e la dinamica linguo-testuale La rilessione sulla traduzione religiosa manifesta una contrapposizione iniziale: da un punto di vista logico, l’idea di traduttori “ispirati” al di fuori di loro stessi da Qualcosa o da Qualcuno contraddice l’idea che tradurre implichi (come ogni abilità umana) conoscenze, abilità e norme deontologiche acquisibili durante un opportuno addestramento al mestiere. In altre parole, nella traduzione di qualsiasi testo considerato “sacro”, l’ossequio alla “lettera” del testo contraddice l’esigenza che la traduzione sia opera di professionisti e che debba funzionare come funzionava il TP, perduto, dell’Autore. Per il teorico e per il traduttore, è importante valutare che un testo, qualsiasi testo, possa essere considerato ‘sacro’ da qualsiasi punto di vista; ma, nel momento in cui si procede alla rilessione e al mestiere, qualsiasi intento sistematizzante, generalizzante o formalizzante deve prescindere dall’assioma metaisico dell’“ispirazione” per confrontarsi con i dati (materiali) del testo e della sua storia, compresi i condizionamenti socioeconomici e le modalità cognitive (consce e inconsce) con cui si attuano le congetture. Se si parla di traduzione in termini razionali, scientiici, dialogici, i concetti di “fedeltà”, di “ispirazione” e di “originale” risultano del tutto privi di senso (tanto più quello di “fedeltà assoluta”: cfr. Falsini 1994, 69). Come già venticinque anni fa affermava coraggiosamente Enrico Arcaini (1991, 43), dal 84
punto di vista scientiico del ilologo e del linguista, “non vi è autonomia del testo; non esiste il testo in sé”. Se si vuole affrontare la questione della traduzione da un punto di vista dialogico è indispensabile chiarire quale sia la propria modalità di approccio e, contestualmente, giungere a un ‘patto logico’ con l’interlocutore, mirato a individuare postulati condivisi su cui fondare le divergenze. Non può esistere dialogo senza il confronto e la condivisione degli strumenti del pensiero, e non può esservi confronto e condivisione senza riferimenti comuni: serve un accordo preliminare che individui premesse comuni agli interlocutori che possano, almeno temporaneamente e convenzionalmente (hic et nunc), essere considerate per tutti “oggettive”. Se i postulati sono solo metaisici (ad esempio: “io ho la verità e tu no”), si resta fuori dall’agire scientiico: se si vuole parlare in termini di fede e di ispirazione religiosa, si fa un ‘salto fuori dal dialogo’, si sostituisce alla razionalità il dogma della fede. Se un solo interlocutore considera “componente oggettiva” la propria credenza o ideologia soggettiva, si esclude a priori da qualsiasi discussione che non assuma come postulato la sua fede. Queste osservazioni aiutano a comprendere per quale ragione l’atteggiamento dei teorici della traduzione e le loro conclusioni vadano vagliate non tanto in base all’epoca in cui hanno operato, ma al loro rapporto con la fede e con la ragione. Infatti, l’insensato principio di intraducibilità – inteso come impossibilità che un metatesto (testo derivato da un altro testo) in un’altra lingua sia equivalente al TP – è basato sul postulato che “originalità” corrisponda a “Verità” estetica o spirituale e sull’omissione di una vistosa ‘verità’ ilologica materiale: gli “originali” di cui si parla sono praticamente sempre, essi stessi, metatesti rimaneggiati da copisti, redattori, tipograi, editori. Si consideri che anche per i testi non religiosi del passato, trattati spesso con devozione simile a quelli religiosi, si può quasi sempre escludere che un traduttore utilizzi come TP un autografo. Per tradurre oggi Tolstoj o Dostoevskij dall’“originale” russo, ci si serve di edizioni a stampa che sono copie di manoscritti di cui si hanno solo altre copie, magari ri-copiate dalle rispettive mogli degli scrittori prima di essere spedite a riviste i cui redattori avrebbero probabilmente apportato ulteriori modiiche. Del resto, anche nella nostra èra elettronica, qualsiasi mail o ile può giungere al traduttore con varianti ‘materiali’ dovute a problemi di conversione dei simboli, di trasmissione e di stampa (lo stesso vale per gli ormai pochi testi faxati, che presentano comunque usure e conseguenti ambiguità non troppo dissimili da quelle dei manoscritti antichi). Si consideri, inine, un fatto di grande importanza, che l’ermeneutica, la semiotica e le scienze cognitive hanno dimostrato da ogni punto di vista: ogni testo (scritto o orale) varia non solo per lettori (o ascoltatori) di culture diverse, ma per ogni lettore (o ascoltatore) all’interno della stessa linguocultura (cfr. Johansen 2002; Carrroll 2004; Boyd 2009, 129-211). È anche empiricamente dimostrabile, ad esempio, che i lettori francesi possono leggere Madame Bovary in “originale” con reazioni molto diverse, mentre potrebbe85
ro avere reazioni molto simili alcuni lettori francesi e alcuni lettori stranieri: la mera appartenenza a una linguocultura può inluire in qualche misura, ma non determina mai l’individualità, le conoscenze, il gusto, l’acume di un singolo individuo (lettore o ascoltatore). Si sa, inoltre, che uno stesso individuo, in due momenti diversi della sua vita, recepisce in modo diverso lo stesso testo in lingua nativa, notando e valutando elementi del testo in modo qualitativamente e quantitativamente diverso. Le reazioni di ogni umano allo stesso input in due momenti diversi della vita mutano al mutare dell’esperienza: “non esistono due esseri umani che, pur parlando la stessa lingua, siano cresciuti esattamente nello stesso modo” (Hofstadter 2008, 257). L’esperienza, infatti, attimo dopo attimo, giorno dopo giorno, modiica i nostri circuiti cerebrali “che vengono rimodellati più e più volte nel corso dell’esistenza, secondo i cambiamenti che l’organismo subisce” (Damasio 1995, 169-170). Inine, ma anche questo è un fatto di manifesta importanza, le lingue stesse a) sono lievemente diverse per ogni parlante, anche nativo e b) mutando con grande rapidità, diventano sempre più “strane”, a tratti incomprensibili, per nativi della stessa cultura a distanza di decenni e secoli. L’assenza di una rilessione che sia basata sui fondamenti della ilologia e dell’epistemologia, che sappia quindi tener conto delle ‘proprietà’ del TP da cui si traduce, è la sola motivazione che può indurre a negare: a) la possibilità di rendere scientiico il pensiero sulla traduzione, b) la possibilità di tradurre qualsiasi testo, c) lo status di mestiere della traduzione, che è – nel sobrio senso medievale del termine – una ars: un’arte che si impara ‘in bottega’, esercitandosi con un maestro. 3.5. La traduzione tra ideologia e religione Nel corso dei secoli, le traduzioni dei testi sacri, a prescindere dalla loro afidabilità liturgica e dalla loro professionalità, hanno più che mai contribuito a mettere in contatto culture lontanissime tra loro, diffondendo su larga scala messaggi che hanno portato al mondo idee nuove, talvolta di pace e consolazione, talvolta di superstizione e intolleranza. In un certo senso, la traduzione dei testi sacri è stato il primo e più signiicativo passo verso una globalizzazione ideologica: oggi, al mondo, i monoteisti superano il 50% dei credenti. L’ideologia e la fede, da un lato, l’estetica e la stilistica, dall’altro, fanno parte dei fattori, diversi, ma correlati, coinvolti nei meccanismi di selezione dei testi da tradurre. In un modo o nell’altro, la decisione su quali testi verranno tradotti dipende sempre dai giudizi e dai pregiudizi dei ‘gruppi dominanti’ che controllano le decisioni, i inanziamenti, la produzione e la distribuzione dei testi. In tal senso, le traduzioni mirate alla conversione, al proselitismo, alla ‘dissidenza religiosa’ (comprese le traduzioni dei manifesti delle ‘religioni laiche’, politiche o economiche) sono sempre soggette a 86
un controllo che viene esercitato sul traduttore e sul suo operato da qualcuno che ha più potere decisionale di lui. La posta in gioco è altissima sotto ogni aspetto, visto che i testi religiosi e politici sono strumenti atti ad apportare ingenti cambiamenti ai comportamenti di piccoli o grandi gruppi etnici e sociali. Le traduzioni hanno cambiato e possono cambiare il mondo. L’epoca umanistico-rinascimentale che avrebbe portato alla Riforma protestante (che fu anche e soprattutto una ‘protesta’ relativa all’interpretazione dei testi) aveva dimostrato come le traduzioni avessero assunto su vasta scala il ruolo di strumento sociale, politico e ideologico. Questo era stato possibile soprattutto dopo l’invenzione della stampa (quella della prima Bibbia è del 1455): la prospettiva di una divulgazione massiva dei testi aveva creato le premesse perché si potesse organizzare e regolamentare l’attività traduttiva riconoscendole una primaria funzione sociale (cfr. Bassnett-McGuire 1993, 79): nel panorama intellettuale rinascimentale, la traduzione “plasmava la vita intellettuale dell’epoca”, rendendo la igura del traduttore più simile “a un attivista rivoluzionario che al servitore di un testo o di un autore” (ivi, 84). In generale, soprattutto dopo l’invenzione della stampa, l’immagine che un popolo si è formato di un altro popolo, di un’altra religione o di una nuova ideologia è stata regolamentata dal controllo dei testi tradotti e immessi su un nuovo mercato: La traduzione detiene un potere immenso nel costruire le rappresentazioni delle culture straniere […] Così i testi stranieri vengono spesso riscritti per essere conformi agli stili e alle tematiche che prevalgono stabilmente nelle letterature di partenza (Venuti 1998, 67).
L’impatto ideologico-culturale dei testi, inoltre, non riguarda solo le differenze tra i ‘popoli’ (in senso etnico), ma anche quelle tra gruppi di individui che si distinguono dagli altri in base ad altri fattori, come il ceto e il sesso (gender). Per quanto riguarda la traduzione della Bibbia, ad esempio, la critica di ambito femminista considera i modelli dei testi sacri uno strumento di espressione dell’ideologia maschile che domina in quasi tutte le società umane. La traduzione fatta in ottica femminista, quindi, è l’occasione di risposta critica a una “fedeltà” intesa come esercizio del potere maschilista. Nella sua monograia Sherry Simon (1996, 29) affermava: Sicuramente ciò che va maggiormente criticato in numerose formulazioni maschiliste della fedeltà in traduzione è il fatto che esse suppongano un soggetto “universale” […] Il potere delle riformulazioni femministe del soggetto che traduce è stato quello di tributare un chiaro riconoscimento alle speciiche condizioni del rapporto traduttivo, di cui una delle condizioni è data dalla componente di genere del testo e del soggetto che lo traduce. La traduttrice femminista afferma il proprio ruolo come partecipante attiva alla creazione del signiicato.
Questa posizione può essere più o meno condivisa, ma il suo scopo principale è quello di contrastare l’idea di un traduttore “asettico”, privo di ideologia, che traduce un testo culturalmente e sessualmente asettico. La critica 87
femminista ha approfondito la correlazione tra cultura di massa, cultura individuale e ideologia: “ogni progressiva re-visione del testo esplicita necessariamente la propria afiliazione estetica, il proprio progetto traduttivo” (ivi, 112; corsivo nel testo). Lo stesso dibattito si svolge oggi in ambito omosessuale, per rilettere sulle modalità di nominare, deinire, descrivere, tradurre le relazioni e gli atti che le religioni (soprattutto quelle monoteiste) hanno programmaticamente combattuto (per un insieme di ragioni ideologiche, evolutive, sociali, psichiche). Il potere seduttivo dei ‘grandi testi’, delle loro ideologie e dei comportamenti che prescrivono e proscrivono dipende anche dalla loro incisività retorica e dalla loro costruzione formale: da come sono scritti, stampati, tradotti. È noto (in dalle intuizioni di Orazio e Cicerone) che uno stesso argomento può risultare più o meno eficace a seconda delle caratteristiche stilistiche della sua formulazione e presentazione: alcuni enunciati, come i comandamenti, le sentenze, gli slogan hanno un impatto psichico sorprendente, inducono a disprezzare ed esaltare, a fare e a comprare, a credere e combattere. I testi funzionano come veri e propri ‘programmi’ che predispongono all’azione. Questo succede persino con le formule magiche e con i mantra: a volte non importa capire il loro signiicato, in quanto i suoni agiscono in modo ‘magnetico’. Come noto a oratori, predicatori e sacerdoti, ma anche ai pubblicitari, quanto più un testo è suadente per energia, ritmo, musicalità, coesione formale, tanto più “fa presa” sulla memoria: uno slogan “vincente” (Credere, obbedire, combattere!, Proletari di tutto il mondo unitevi!38, Make America great again!) può giocare un ruolo così importante e per così lungo tempo, da creare un vero dominio ideologico, psicologico, sociale o politico39. Non a caso Dennett (1997, 455) si chiede che cosa abbiano di speciale gli acronimi, le poesie, gli slogan “brillanti” per poter ‘uscire vincitori’ nella gara che imperversa nella mente umana. La loro eficacia è in buona parte dovuta alla loro struttura tautologica, ‘autoaffermativa’, cui sembra particolarmente predisposto il pensiero umano: Il nostro modo usuale di considerare le idee è anche normativo: incarna un canone o un ideale riguardo a quali idee dovremmo accettare, ammirare, o approvare. In breve, dovremmo accettare il vero e il bello. In base alla visione usuale, quelle che seguono sono praticamente tautologie – verità banali che non valgono l’inchiostro necessario per scriverle: 38. Il celeberrimo slogan del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Friedrich Engels, “Proletarier aller Länder, vereinigt euch!” è stato tradotto da Palmiro Togliatti con un eficace “di tutto il mondo”, invece di “di tutti i Paesi” (come è detto in tedesco), con una sfumatura ideologica assente nel TP che dà prova delle piccole o grandi manipolazioni richieste nella conversione degli slogan. 39. Chi abbia dimestichezza con la letteratura bolscevica può veriicare che, a dispetto della veste più o meno rigorosa, poche sono le differenze tipologiche tra l’‘agiograia politica’ e quella religiosa.
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L’idea X era creduta perché era ritenuta vera. La gente approvò l’idea X perché la giudicava bella. Tali norme non sono soltanto del tutto ovvie, sono costitutive: determinano le regole secondo cui pensiamo alle idee (ivi, 460).
In realtà, quasi tutti i testi prodotti dall’uomo hanno in comune un legame più o meno marcato con gli stilemi della retorica e della persuasione40. L’impatto a livello planetario delle traduzioni dei testi sacri, di quelli della letteratura mondiale ‘che conta’ (secondo gli ideologi-sacerdoti della letteratura) e di quelli delle “grandi ideologie” rende davvero insensato discutere ancora sulla traducibilità, poiché da secoli non si fa che tradurre i testi e questi testi continuano ad agire quanto gli “originali” e spesso molto di più. Discutere sulla traducibilità dei testi è come discutere oggi sulla possibilità di eseguire interventi chirurgici: invece di chiederci se i testi (e le lingue) siano traducibili, dovremmo chiederci quando, in metafora, le ‘operazioni’ di traduzione portano a ‘esito letale’, a gravi ‘menomazioni’ o, invece, alla ‘guarigione’. Occorre vedere che cosa accomuni l’anatomia della specie umana prima di chiedersi che cosa differenzi i singoli individui. Fuori metafora, è opportuno discutere sul rapporto tra incompetenza e professionalità, tra soggettività e oggettività, tra ideologia e conoscenza, tra norma e creatività. Questo approccio, nella teoria della traduzione, è recentissimo. La storia della teoria dimostra che, anche fuori dal dibattito religioso, il pensiero sulla traduzione è rimasto per secoli dualistico e vincolato a forti preconcetti ideologico-culturali. La logica argomentativa è sempre stata secondaria rispetto al pregiudizio. 4. Metaisica, estetismo, irrazionalismo: il retaggio storico da superare 4.1. Il culto dell’“originale” e lo “spirito dell’Autore” Il legame primigenio che ha collegato la traduzione alla religione e all’estetica metaisica costituisce un retaggio teorico imponente che aiuta a comprendere (e superare) i limiti che hanno pesantemente condizionato (e continuano a condizionare) la teoria della traduzione. Si è visto che il concetto di “parola di Dio” è connesso a doppio ilo a quello di “originale” senza che nel corso di tutto il pensiero sulla traduzione – a fronte di costanti, irrinunciabili tentativi di offrire deinizioni più o meno formali di “traduzione” – vi sia stato un tentativo di deinire il concetto di 40. Persino la comicità, aveva scoperto Pirandello (1995:39), risponde a un’ideologia binaria dominante e diffusa tra tutti i popoli, motivo per cui i testi che si oppongono a questa struttura tautologica (ad esempio, ‘i carabinieri sono stupidi’), cioè i testi umoristici, sono rari in tutti i tempi e tra tutti i popoli (ivi) e sono apprezzati e compresi solo da coloro che, grazie all’esercizio, si oppongono alle tautologie.
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“originale”. Questa assenza pare davvero sorprendente: infatti, il pensiero sulla traduzione ha ‘saltato a piè pari’ la rilessione sul termine principale e più citato dell’operazione che voleva teorizzare41. Il discorso relativo alla sacralità del testo religioso, in dall’epoca umanistica, si è esteso anche ai testi letterari, assurti al ruolo di “testi di culto” (cult texts), ovvero a “originali” (che però non erano originali) da preservare mediante “fedeltà”. Per secoli, in modo immutato, il pensiero sulla traduzione ha riguardato la supposta “fedeltà” al supposto “originale”, recepito come sede di parole sacre non solo della religione, ma anche dell’arte. Pertanto, l’ottica binaria che oppone “fedeltà” a “libertà” della traduzione si è radicata sempre più, restando ancora oggi incredibilmente vitale nel mondo letterario e ilosoico. Pur cambiando gli autori e le culture di riferimento, alcuni venerati “classici” della letteratura hanno assunto una sorta di sacralità che solo apparentemente è più laica dei testi religiosi. Nella cultura occidentale, infatti, alcuni testi particolarmente rappresentativi sono considerati portatori di un valore speciale che li rende per gli ideologi della cultura ‘superiori’ agli altri testi: la Bibbia era ‘sacra’ per i santi traduttori e gli esegeti non più di quanto potesse esserlo Omero in epoca umanistica o di quanto lo sia stata la Divina Commedia (testo rivoluzionario all’epoca, ma oggi ‘canonizzato’) per generazioni di commentatori, interpreti e traduttori. La possibilità di un testo di diventare oggetto di un culto quasi religioso è tanto più alta, quanto più il testo, che probabilmente alla sua epoca aveva violato aspettative e canoni, è diventato rappresentativo non solo di un più recente modello letterario (nuovo canone), ma di una cultura nel suo insieme, cioè quando diventa un modello etico-estetico riconducibile a un Autore nei cui confronti si nutre una devozione talvolta maniacale e agiograica42. Per usare le parole di Roberto Antonelli (1985, 202): Il valore del testo rimanda al valore dell’Auctor, della sua auctoritas, dunque della preservazione della sua volontà in quanto “autorevole”, portatrice di valore.
La deferenza rispetto al cosiddetto “originale” e alla sua “esattezza” era ben nota alla cultura europea molti secoli prima dell’èra cristiana. Fin dal VI e V secolo a.C. era nata attorno all’opera omerica una tradizione esegetica non dissimile, in termini di ossequio all’“originale”, da quella biblica. La 41. Fanno eccezione le (molto recenti) posizioni dell’ultima ermeneutica tedesca (Theorie der Rezeption) e del decostruzionismo francese, che hanno compreso l’instabilità che lega ogni testo alla sua interpretazione, ma portandola all’estremo opposto: in quest’ottica, il testo si fa e si disfa a ogni contatto con la mente del ricevente (lettore) e il suo “non-senso” acquisisce dignità pari al suo “senso”. All’estremismo dell’interpretazione illimitata, Umberto Eco (1995) ha opposto valide contro-argomentazioni basate sul concetto (dialogico e scientiico) di negoziazione delle scelte interpretative. 42. Nel suo breve romanzo Il parco di Puškin, Sergej Dovlatov offre un’istruttiva parodia umoristica del processo di santiicazione del Poeta (qui Puškin), assurto a oggetto di culto popolar-burocratico, ma anche di ‘brand’ commercializzabile.
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discussa auctoritas (la “questione omerica”) aveva paradossalmente acuito e non attenuato la devozione per i testi omerici, generando, come nel caso dei testi sacri, traduzioni in un greco più recente dei testi di Omero per coloro che non potessero leggerlo nell’antico “originale”. Franco Montanari (1991), affrontando il problema delle traduzioni greche di Omero, – “il poeta più usato nella pratica scolastica di tutta l’antichità” (ivi, 223), che aveva scritto in “una lingua del tutto artiiciale, che nessun gruppo dei parlanti ha mai adoperato come lingua d’uso” (ivi, 222) – ha evidenziato i due principali parametri che, in generale, inducono alla traduzione intralinguistica di un testo ‘di culto’: il parametro diastratico (legato al prestigio di un’opera o di una cultura linguistica) e quello diacronico (legato al trascorrere del tempo). Questi due fattori risultano spesso interconnessi: man mano che la lingua evolve, cresce l’esigenza di “tradurre” i testi più antichi scritti nella “stessa” lingua; di solito, più essi sono antichi e più sono importanti nel sistema culturale, più questa esigenza cresce e si sviluppa (ivi, 221)
Questo anelito a rafforzare l’identità culturale mediante miti e oggetti mitizzati è una costante culturale che si rilette persino nel linguaggio quotidiano43. Si può dunque pensare a una propensione antropologica (psicosociale) dei gruppi culturali a eleggersi cult texts il cui prestigio raggiunga forme di vera e propria deferenza. Si tratta di una deferenza non più connessa a una dottrina religiosa, ma a un bisogno di riferimenti ‘mitologici’, probabilmente innati, che va trasmessa, come per i testi religiosi, alle generazioni successive. Proprio questo bisogno di tributare al testo un valore assoluto ha indotto a tacere il fatto che l’“originale” (perfetto o imperfetto che fosse) non c’è. In realtà, fuori da canoni che rispondono all’autorevolezza di chi li supporta, non c’è nulla in un testo che lo renda oggettivamente migliore di un altro: la superiorità di un testo rispetto agli altri è contingente e risulta da un alto numero di variabili storico-culturali che agiscono sulla mente dei destinatari (lettori, spettatori, ascoltatori) e che sono veicolate da critici, esegeti, censori e, si direbbe oggi genericamente, opinion makers. Secondo questo meccanismo si è trasmesso l’assioma, sostenuto dagli ideologi della cultura, che il traduttore sia gerarchicamente, qualitativamente e ‘ontologicamente’ inferiore all’autore dell’“originale”, e che la traduzione sia a priori ‘difettosa’. Stefano Manferlotti (2001, 198), ad esempio, ha postulato per il traduttore l’assenza di “capacità artistica” (sembrerebbe di tutti i traduttori), in quanto questa capacità “appartiene solo allo scrittore creativo”; dal traduttore, invece, ci si aspetta un “umile atteggiamento ancillare”. Secondo Ida Porena (2001, 221), la traduzione poetica è addirittura “un atto blasfemo e profanatorio”44. 43. Il nesso tra “modello” e “mito” si rilette persino nel gergo giovanile dell’italiano contemporaneo, in cui sono usate correntemente espressioni encomiastiche come “Sei un mito!” o “Mitico!”. 44. Ai convegni sulla traduzione, frasi del genere si sentono continuamente anche oggi e, paradossalmente, sono spesso gli stessi traduttori a esprimere le posizioni più drastiche. Ri-
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L’assioma dell’imperfezione costitutiva, ontologica, della traduzione si è proiettato sulla teoria, generando una radicale difidenza verso la possibilità di studiare e formalizzare il processo traduttivo e, di conseguenza, di trovare parametri condivisi per valutare le traduzioni, cioè per fondare una critica della traduzione. In traduzione, senza teoria, non ci sono miglioramenti, ma se si parte dall’assioma di imperfezione costitutiva, i miglioramenti paiono impossibili (come se, in chirurgia, fossero stati dissuasi i chirurghi dell’antichità dalla ricerca e sperimentazione di nuove tecniche). Il postulato dell’imperfezione costitutiva della traduzione si basa, a sua volta, sul solo e unico postulato che il TP sia “perfetto”, stabile, immutabile e portatore dello “spirito dell’autore”. È solo questo postulato a tenere in piedi l’assunto che la traduzione sia destinata a priori all’imperfezione e che il traduttore sia uno ‘scrittore fallito’ che si presta umilmente a un’operazione fallimentare. Nella storia della teoria, il concetto di “spirito dell’autore” è stato particolarmente centrale nell’àmbito della cultura inglese. Per quanto notoriamente ‘pragmatici’ e ancorati a una visione apparentemente laica del testo, i pensatori britannici ponevano comunque al centro della rilessione teoretica uno “spirito” che, pur non ‘divino’ in senso religioso, connotava di un’aura metaisica il connubio testo/autore. Da John Dryden ad Alexander Tytler, “il problema centrale” attorno a cui ruotava la teoria della traduzione era “il tentativo di ricreare lo spirito essenziale, l’anima o la natura dell’opera d’arte” (Bassnett-Mc Guire 1993, 91). André Lefevere (1992b, 102-105) ha proposto una sintesi delle idee esposte da Dryden nelle sue Ovid’s Epistles (1680), secondo cui le tipologie traduttive potevano rientrare nella seguente tripartizione: metafrasi, parafrasi (“translation with latitude”), imitazione. Dryden stesso privilegiava la parafrasi, in quanto aurea mediocritas tra la pesantezza dell’interlineare e l’eccessiva autonomia dell’imitazione. L’imitazione, infatti, si arroga il diritto di sacriicare “lo spirito dell’autore”, il quale “non dovrebbe andare perduto”, violando con ciò il “senso dell’autore” che deve restare “sacro e inviolabile”. Per Dryden (1992, 28), tutto era “superstizione” fuori dall’anelito a ricreare un testo antico per il quale provava un’“opportuna venerazione”. Dal canto suo, nella prefazione alla sua traduzione dell’Iliade (1715), Alexander Pope rivalutava il letteralismo in nome di una ritrovata autorevolezza dell’autore e dell’“originale”, nuovamente indicati come gerarchicamente superiori al traduttore e alla traduzione. Secondo l’idea umanistica, la verticalità gerarchica veniva stabilita dal riconoscimento della supremazia dello “spirito dell’antichità” rispetto alla contemporaneità: cordo come (a un evento pubblico del 2002) lo slavista (e amico) Luigi Marinelli, peraltro stimato traduttore dal polacco, in modo volutamente provocatorio, avesse deinito la traduzione un “atto di ciarlataneria e supponenza” mirato a far rivivere in una forma “inferiore” la forma “superiore” dell’“originale”.
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It is certain no literal Translation can be just to an excellent Original in a superior Language: but it is a great Mistake to imagine (as many have done) that a rash Paraphrase can make amends for this general Defect; which is no less in danger to lose the Spirit of an Ancient, by deviating into the modern Manners of Expression. If there be sometimes a Darkness, there is often a Light in Antiquity, which nothing better preserves than a Version almost literal (Pope, in Lefevere 1992a, 64).
I pensatori inglesi avviavano il dibattito verso le posizioni che avrebbero dominato l’epoca romantica e che avrebbero sancito l’idea che il traduttore dovesse avere un modesto ruolo di sudditanza all’autore. Soprattutto, si esprimevano in chiara contrapposizione alla pratica francese delle “belle infedeli” che poneva la lingua e i canoni francesi come valore di riferimento, e vedeva nelle traduzioni francesi i veri “originali”. 4.2. Il modello francese delle “belles inidèles” A partire dal primo Rinascimento, anche grazie al consolidarsi delle “lingue nazionali”, il numero delle traduzioni profane aumentò “vertiginosamente” (Mounin 1965, 41), si diffusero in quantità dizionari bilingui e poliglotti (ivi, 43) e alcuni traduttori-pensatori cominciarono a vedere nella traduzione un’attività laica cui spettasse lo status di ars, cioè di arte-mestiere basato appunto (come la pittura o la medicina) su “regole dell’arte”. Particolarmente sensibili ai problemi estetico-funzionali della traduzione, i teorici rinascimentali davano priorità alla buona conoscenza di entrambe le lingue di lavoro, alla comprensione del TP, all’autonomia estetica del traduttore rispetto alle esigenze e ai canoni della cultura di arrivo: “per ragioni essenzialmente ideologiche, religiose come ilosoiche” il Rinascimento rompeva con la “versio medievale, legata strettamente alla traduzione letterale” (ivi). Tra i più noti sostenitori di questa posizione, detrattori del vincolo della “fedeltà” e della traduzione scolastica “parola per parola” (interlineare), va ricordato il grande umanista Etienne Dolet. Considerato a ragione il padre della traduttologia francese, fu uno dei ‘martiri della traduzione’, bruciato sul rogo dall’Inquisizione per aver tradotto in modo inappropriato un Dialogo di Platone: secondo le autorità ecclesiastiche, Dolet aveva aggiunto un’espressione, assente nel testo greco, che negava l’esistenza dell’anima (cfr. Laurenti 2015, 117-120). In un breve saggio pubblicato nel 1540, La manière de bien traduire d’une langue en autre, Dolet aveva sintetizzato le sue lungimiranti intuizioni sull’asimmetria delle lingue e sulle regole che guidavano il buon traduttore. Convinto sostenitore del funzionalismo, in opposizione al letteralismo imposto dal canone della “fedeltà, Dolet riteneva che il traduttore dovesse impegnarsi a tutelare l’esito estetico della traduzione e considerava riprove93
vole qualsiasi calco del TP. Proponeva, quindi, cinque moderni princìpi della traduzione ‘a regola d’arte’, che Zuzana Raková (2014, 35) ben sintetizza in linguaggio attualizzato: 1. Comprendere bene il senso e l’intenzione dell’autore dell’originale, pur concedendosi la libertà di chiarire i passaggi oscuri. 2. Possedere una conoscenza perfetta della lingua di partenza e della lingua d’arrivo. 3. Evitare di tradurre parola per parola. 4. Utilizzare espressioni d’uso comune. 5. Selezionare e organizzare le parole in modo appropriato per ottenere la tonalità ottimale.
Questa posizione, contemporanea a quella funzionalista di Lutero, ma in un’ottica inalmente del tutto laica, a prescindere da ideologie o credenze religiose, veniva ripresa anche da George Chapman, traduttore di Omero in inglese (cfr. Bassnett-McGuire 1993, 80-81). Opponendosi all’ossessione per la “fedeltà”, si poneva la funzionalità del testo come inalità dell’atto traduttivo, ma ignorando il criterio dell’equivalenza, cioè ponendo l’estetica del testo tradotto al di sopra della sua precisione: il lato estetico della traduzione iniva con il sovrapporsi a quello della funzionalità. Dolet, inoltre, nonostante la sua propensione per libertà ed estetismo, restava ancorato agli indeinibili concetti di “originale” e di “senso”, e all’illusorio parametro dell’“intenzione dell’autore”. Ovviamente, l’estetismo era coerente alla rivalutazione rinascimentale dell’estetica classica, che poneva il “bello” e il gusto all’apice della ricerca artistica; tuttavia proprio questo aspetto, estremizzato, sarebbe stato il fondamentale retaggio della teoria di Dolet, mentre le sue avanguardistiche intuizioni sull’asimmetria tra le lingue sarebbero rimaste in ombra. Infatti, a partire dal XVII secolo, la rivolta contro il letteralismo portava, in Francia, grazie soprattutto all’omologazione estrema teorizzata da Nicolas Perrot d’Ablancourt, al trionfo delle traduzioni cosiddette “belles inidèles” (cfr. Venuti 1995, 48-50). Il testo tradotto, “innestato dai valori speciici della cultura di arrivo” (ivi, 49), doveva contribuire ad arricchire la cultura di arrivo secondo i princìpi di un ‘estetismo naturale’. Non era un caso che le traduzioni estetizzanti avessero preso piede proprio in Francia: le “belle infedeli” nascevano dall’intento nobilitante di “francesizzare” i testi originari, di renderli più “belli”, secondo il gusto francese. Quest’ottica poneva la traduzione al centro del processo letterario e creativo, sottraendola al ruolo servile cui l’aveva circoscritta il pensiero religioso, ma creava un infausto precedente: l’estetismo in traduzione sarebbe stato recepito come spavalda “libertà” di riscrivere il testo (quasi) a piacimento, assecondando il gusto dei destinatari contemporanei. I letterati francesi, convinti della propria supremazia culturale e civile, direttamente ispirata dalle culture classiche pre-cristiane, propugnavano, sul modello ciceroniano, uno schema verticale. Come prescriveva d’Ablancourt 94
(nella sua prefazione a una traduzione di Luciano del 1654), priorità del traduttore era la ricerca dell’effetto e del piacere estetico: si privilegia un tipo di traduzione che si adegui ai criteri stilistici dell’epoca, che sia agréable ed élégante e che non offenda les délicatesses della lingua francese, trasformando notevolmente di conseguenza gli originali (Nergaard 1993, 38).
Le belles inidèles erano in realtà pseudo-traduzioni: nonostante l’approccio funzionale, queste operazioni di spinta omologazione alla cultura di arrivo erano vincolate a parametri extra-testuali che, non meno dei vincoli religiosi, allontanavano la traduzione dal concetto di ars come mestiere per avvicinarla a quello di ‘Arte’ come estetica ine a se stessa. Quella che Henri Meschonnic (1995, 275) ha chiamato “ideologia estetizzante” si sarebbe radicata nella pratica traduttiva francese del XVIII secolo, contribuendo a trasferire l’idea della ‘sacralità’ dall’àmbito della fede a quello dell’arte. Se la “fedeltà” linguistica era in contraddizione con la “bellezza” del testo, il traduttore doveva in “libertà” abdicare alle corrispondenze interlinguistiche. Questa posizione, paradossalmente, ribaltava i termini del dualismo teorico, enfatizzandone il ruolo: è in questo periodo che si attesta il binomio dualistico ‘fedeltà/libertà’, diffondendo lo stereotipo che, se una traduzione è “bella”, è necessariamente “infedele”. Il modello francese ebbe un successo particolare in Russia a partire dal XVIII secolo, quando ancora non c’era una assiomatica distinzione qualitativa tra testi “originali” e traduzioni: “la maggior parte delle traduzioni dell’epoca, se valutate secondo i parametri odierni, dovrebbero essere deinite ‘imitazioni’ o ‘rifacimenti’” (Toper 2000, 55). In Russia, infatti, la pratica traduttiva non era legata solo alla convinzione (tipica del classicismo e del canone importato dalla Francia) che esistesse obiettivamente il ‘bello’, ma soprattutto allo sforzo di agevolare lo sviluppo delle giovani lettere russe e della stessa lingua letteraria russa (ivi, 56). Per questa ragione, più di quanto avvenisse altrove e in altre epoche, in Russia, a partire dai secoli XVIII e XIX, l’attività traduttiva veniva recepita, a pieno titolo, come attività letteraria creativa45. Il successo del modello francese era prevedibile in un paese imperiale, potente, i cui “complessi” di nazione giovane, dalla tradizione linguistico-letteraria instabile e recente, venivano compensati da una vivacità culturale straordinaria e da un numero sorprendente di talenti. Attraverso traduzioni omologanti, creative, “russiicate”, cioè attraverso testi “belli e infedeli”, la Russia creava capolavori di traduzione 45. Tra gli scrittori-traduttori russi si possono menzionare i nomi più prestigiosi: (XVIII secolo) Kantemir, Lomonosov, Sumarokov, Trediakovskij, Fonvizin, Bogdanovič, Cheraskov, Kapnist, Karamzin, Radiščev; (XIX secolo) Krylov, Žukovskij, Puškin, Griboedov, Lermontov, Dostoevskij, Turgenev, L. Tolstoj, A. Tolstoj, Gončarov, Ostrovskij, Garšin, Nekrasov, Fet, Korolenko (cfr. Toper 2000, 49). Nel XX secolo, alla creatività traduttiva fecero ricorso quasi tutti i più noti poeti e narratori, soprattutto perché come traduttori erano meno assoggettati ai vincoli della censura.
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liberi da vincoli linguistici, pronti a divenire testi autoctoni che avrebbero contribuito a fondare i canoni letterari russi. L’inlusso del modello ideologico francese ottenne un certo consenso anche in Inghilterra. Tuttavia, per i teorici inglesi, opporsi alla tradizione delle “belle infedeli” divenne ben presto un modo obbligato per opporsi alla galloilia dominante in Europa. In Inghilterra, in realtà, la parentesi dell’estetismo era stata molto breve: già a partire dall’ultimo Seicento, i teorici-traduttori erano tornati a guardare al concetto di “fedeltà all’originale” come al criterio guida per rispettare quello che John Dryden aveva deinito, come si è detto, il “senso sacro e inviolabile dell’autore”. A superare l’estetismo laico francese sarebbe stato il romanticismo tedesco. Sostenuti da un illuminato nazionalismo ilosoico-culturale, a partire dal XIX secolo, i pensatori tedeschi avrebbero cercato di ‘quadrare il cerchio’ tra “fedeltà” e “libertà”, ricadendo per lo più in una nuova forma di dualismo ‘spirituale’. Soprattutto il tardo romanticismo tedesco, che annoverava letterati, eruditi e critici di grandissima levatura, avrebbe lasciato un’impronta indelebile sulla ‘bi-teoria’ novecentesca. Pur accompagnato a una crescente consapevolezza della complessità dell’argomento e al virtuosismo ilologico dei suoi corifei, il pensiero romantico tedesco ereditava e restituiva in veste nuova le lacune epistemologiche del passato. Anzi, i retaggi metaisico-religiosi, fortemente attenuatisi in epoca riformista rinascimentale e nel periodo dell’estetismo francese, riprendevano vita, nutriti da una rilessione ilosoica intrisa di un idealismo solo apparentemente ‘laico’. 4.3. Il romanticismo tedesco e il ritorno allo “spirito dell’originale” Stimolati dalla crescente attenzione alla componente “spirituale” della cultura nazionale, i critici e i ilosoi del romanticismo tedesco si interrogavano sul ruolo della storia, della lingua, delle lettere nell’evoluzione del destino umano46: Com’è stato spesso ribadito dai poeti e dagli studiosi tedeschi, la traduzione era l’‘intimo destino’ (innerestes Schicksal) della lingua tedesca stessa. L’evoluzione del tedesco moderno è inseparabile dalla Bibbia di Lutero, dall’Omero di Voss, dalle versioni successive di Shakespeare a opera di Wieland, Schlegel e Tieck. La teoria della traduzione acquista in tal modo un’autorità e uno spessore ilosoico senza precedenti (Steiner 1984, 257).
A rilettere sulla traduzione, pur in modo frammentario, troviamo anche il grande poeta e scrittore Johann Wolfgang Goethe (1993, 124), considerato una sorta di mediatore tra classicismo e romanticismo. Nelle 46. Si tenga comunque presente che la parola tedesca “Geist”, per lo più tradotta con “spirito”, è la stessa che si usa al posto di “mente”: nel primo caso, l’accezione è metaisica, nell’altro non lo è affatto.
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“Note” al Westöstilches Divan (1819), Goethe propugnava senza mezzi termini, ma con argomentazioni paradossali, la supremazia della versione interlineare (traduzione “letterale”): solo l’aderenza al testo originario sarebbe stata in grado, secondo il poeta, di “rendere la traduzione identica all’originale”, evitando che divenisse un “surrogato” dell’“originale”, bensì rappresentandolo “paritariamente” (ivi, 122-123; corsivo mio). Sebbene l’umiltà prescritta al traduttore sia qui da intendere in senso laico, nonostante alla traduzione venga riconosciuta una sua dignità, Goethe sanciva in modo chiaro la superiorità del TP. Come i suoi contemporanei, combatteva il modello francese, che omologava le traduzioni alla cultura di arrivo, avanzando il moderno concetto di ibridazione culturale: calcando il testo straniero, infatti, il traduttore avrebbe potuto educare il “gusto della folla” a una “terza entità”, rinunciando in parte “all’originalità della sua nazione”, accogliendo l’estraneità47. Questa idea, come vedremo, avrebbe trovato nell’ultimo Novecento cultori di diverso orientamento teorico. Si trattava di una importantissima intuizione che, tuttavia, sarebbe stata interpretata e recepita come “estraniamento” della traduzione, vista non come riproduzione funzionale di un testo in un altro codice, ma come mera “ibridazione” della cultura di arrivo. I più noti e celebrati protagonisti del romanticismo tedesco sono stati Wilhelm von Humboldt e Friedrich Schleiermacher. Quasi contemporaneamente alle “Note” goethiane, venivano infatti pubblicati due saggi che rivelavano, per quell’epoca, intuizioni importanti, ma che – per il loro immenso successo – rafforzavano i pregiudizi dualistici della teoria della traduzione: oltre al già menzionato saggio “Sui diversi metodi del tradurre” di Schleiermacher (1813), nel 1816 veniva pubblicata l’“Introduzione alla traduzione dell’Agamennone di Eschilo” di Wilhelm von Humboldt. Le rilessioni contenute in questi due scritti sono divenute un punto di riferimento per tutte le correnti della teoria letteraria della traduzione novecentesca: dall’irrazionalismo al decostruzionismo, dai Translation Studies all’idealismo, dall’ermeneutica al postmodernismo. Inoltre, nonostante le conclusioni oggi controargomentabili, i due saggi sono stati utili anche in àmbito psicolinguistico, stimolando la ricerca di ipotesi più coerenti e aggiornate. Dal saggio di Schleiermacher, come già si è detto, emerge il duplice intento paradossale che caratterizza buona parte della teoria: da un lato, quello di creare tipologie per regolamentare la traduzione; dall’altro, quello di dimostrare che la traduzione è un’operazione non assoggettabile a schematizzazioni. L’analisi parte dalla considerazione che la comunicazione umana è estremamente dificile anche all’interno della stessa comunità linguistica: in primo luogo, secondo Schleiermacher, e contrariamente all’opinione oggi invalsa, le forme di una stessa lingua e il senso loro attribuito dai singoli par47. Questo pensiero dimostra la lungimiranza cosmopolita del pensiero nazionale tedesco, solo successivamente deformato in ideologia suprematista.
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lanti non paiono riconducibili a un codice unitario; in secondo luogo, opinione oggi condivisa, per ogni persona varia la ricezione individuale di uno stesso testo nel tempo. Passando alla traduzione interlinguistica, Schleiermacher (1993, 144-145) proponeva la nota distinzione tra l’attività del Dolmetscher, interprete dell’“attività quotidiana”, e dell’Übersetzer, il vero traduttore che operava nel campo “della scienza e dell’arte”. Mentre “all’ambito dell’arte e della scienza si addice la scrittura”, riteneva il ilosofo, negli altri àmbiti non si sarebbe avuta traduzione, ma solo “registrazione di un’interpretazione orale” (ivi, 145); il traduttore di resoconti e articoli di giornale, quindi, andava equiparato all’interprete e, se un interprete di testi simili avesse avanzato “pretese maggiori” per “conquistarsi la reputazione di artista”, sarebbe stato “ridicolo” (ivi). Il legame tra lingua, pensiero e cultura, sosteneva Schleiermacher, richiedeva che il traduttore dei testi “dell’arte e della scienza” avesse un’irreprensibile dimestichezza con la lingua e la cultura di partenza (ivi, 148-150), bilanciando l’innovazione del TA con la “creatività” del TP: La prima norma del traduttore, infatti, deve essere quella di non permettersi nulla […] che non sia permesso anche a ogni scritto originale dello stesso genere nella lingua nativa (ivi, 166).
In quest’ottica, il rapporto dell’Übersetzer con la propria cultura risultava fondamentale, ma la sua capacità di progettare “con esattezza i suoi obiettivi” e di calcolare “i mezzi necessari al loro conseguimento” (ivi, 151) diveniva un compito impossibile da deinire. Dopo aver affermato che al traduttore serviva un progetto e che era importante creare tra il proprio lettore e il TA un rapporto analogo a quello esistente tra il TP e il suo lettore coevo (strategia oggi deinita attualizzazione), Schleiermacher deiniva “folle” questa stessa ambizione, poiché la lingua del TP “con la straniera non concorda in nessun punto” (ivi; corsivo mio). Anche questa visione di relativismo estremo, intrisa ante litteram di pessimismo irrazionalista, era però presentata secondo un drastico dualismo: riguardava, infatti, solo i testi dove si manifestasse lo “spirito”, poiché i testi “bassi” erano invece basati su corrispondenze quasi perfette. Da qui scaturiva l’ulteriore contrapposizione binaria tra “parafrasi” e “rifacimento” (ivi): la prima, sosteneva Schleiermacher (ivi, 151-152), è “meccanica” e chi la pratica “tratta gli elementi delle due lingue come se fossero segni matematici”, per cui è limitata ai testi della scienza, mentre per l’arte si ha l’imitazione o rifacimento (Nachbildung) che può permettere una forma di attualizzazione, ma sostituendo lo “spirito dell’originale” con “l’estraneo”: Ora una tale imitazione non è più certamente l’opera originale, né in essa si troverà rappresentato e operante lo spirito della lingua originale, ma piuttosto all’estraneo, prodotto da questo spirito, verrà connesso qualcosa di diverso […] solo un’opera di questo genere può essere per i propri lettori, nei limiti del possibile, quello che il modello è stato per i suoi lettori originari (ivi, 152).
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Altrettanto contro-argomentabile è l’affermazione di Schleiermacher che nulla possa essere “inventato” in una lingua e che il traduttore abbia problemi enormi con i termini e i referenti assenti nella cultura di arrivo: in realtà, proprio le traduzioni costituiscono un àmbito di sviluppo onomasiologico per qualsiasi lingua di arrivo e, conoscendo le regole per farlo, si possono creare neologismi eficaci e di successo. Gli umani dispongono, infatti, di facoltà atte a inventare parole in modo che siano comprese e trasportate da un campo all’altro, da un registro all’altro48. Inine, Schleiermacher sintetizzava il suo dualismo teorico (‘bi-teoria’) con la sua affermazione più famosa: O il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore. Le due vie sono talmente diverse che, imboccatane una, si deve percorrerla ino in fondo con il maggior rigore possibile (ivi, 153).
Secondo l’autore, uniicare le due strategie avrebbe dato “risultati estremamente incerti con il rischio di smarrire completamente sia lo scrittore, sia il lettore” (ivi). Oltre a questi due metodi, aggiungeva, “non può essercene un terzo capace di prospettare un obiettivo ben deinito” (ivi, 154). A questo conclusivo ‘aut-aut’ di Schleiermacher si possono opporre due considerazioni pragmatiche: 1) dosare i due metodi è possibile e questo è quello che fa oggi un professionista, soprattutto con testi complessi e perino con la traduzione biblica: una traduzione in lingua moderna della Scrittura ha legittimità ebraica nella misura in cui, rovesciando Schleiermacher, non lascia in pace né lo scrittore né il lettore, cioè non cancella con le sue scelte l’enorme patrimonio ermeneutico che sta nella traduzione di tutti i secoli (De Benedetti 1994, 21).
2) quali che siano i parametri seguiti da un traduttore, sono sempre e solo (come per qualsiasi scrittore) proiezioni del suo mondo mentale e circoscritto; attualizzare o storicizzare, ‘avvicinare’ o ‘allontanare’, omologare o straniare, sono operazioni che il traduttore misura e veriica (cioè, computa) su se stesso, secondo un processo di decodiica-codiica-veriica che avviene solo nella sua mente e che è, pertanto, sempre e comunque ‘selforiented’. Infatti, come afferma Jack Balkin (1998, 128), “la comprensione umana, quindi la comprensione della comprensione, è essenzialmente rilessiva e autorilessiva [self-referential]”. Tra le osservazioni di Schleiermacher che anticipavano importanti discussioni teoriche del XX secolo vi era quella sul rapporto pensiero-linguaggio 48. Si pensi allo slittamento semantico dell’usatissima parola italiana “casino” o ai neologismi importati da una lingua straniera, detti “forestismi” o “prestiti”. Inoltre, gli umani possono inventare parole inesistenti (“pseudo-parole”) e persino lingue nuove o artiiciali (cfr. Eco 1996).
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(problema che sarebbe stato posto in termini scientiici da Lev Vigotskij negli anni Trenta del XX secolo) e quella sul rapporto tra parlante e lingua nativa. Il suo più evidente pregiudizio, in ottica pre-relativista, era quello di negare la possibilità che un individuo potesse essere “una stessa cosa in due lingue diverse” (Schleiermacher 1993, 167): il pensiero umano, secondo il pensatore tedesco, sarebbe stato direttamente modellato sulla lingua che racchiudeva lo “spirito” della nazione (ivi, 177). In realtà, come mostrano i bilingui precoci e tardivi, che sono una parte molto consistente dell’umanità, in due lingue diverse, si può essere la stessa persona49. Limiti e meriti analoghi a quelli di Schleiermacher vanno riconosciuti anche a Wilhelm von Humboldt, giustamente considerato uno dei padri della moderna ilosoia del linguaggio e della linguistica. Nella doppia veste di traduttore e teorico, nell’introduzione alla sua traduzione dell’Agamennone, Humboldt (1993, 134) partiva dal postulato che la poesia di Eschilo fosse “intraducibile per sua peculiare natura”, ma non forniva alcun parametro per individuare in che cosa consistesse la “peculiare natura” di siffatta intraducibile poesia, se non una serie di aggettivi riferiti alla lingua e allo stile che risultano ambigui: “forti, grandiosi, arcaici, persino spezzati talvolta, oscuri e quasi sovrabbondanti” (ivi). Avanzava subito dopo una considerazione di grande importanza, ovvero che le diverse lingue sono tra loro in un rapporto di sinonimia, seppure inteso come corrispondenza imperfetta, in quanto: nessuna parola di una lingua è completamente uguale a una di un’altra lingua […] ognuna esprime il concetto un po’ diversamente, con questa o quella determinazione secondaria, un gradino più alto o più basso sulla scala delle sensazioni (ivi).
Questa premessa, in opposizione alla tesi del letteralismo, portava l’autore a sostenere, in sintonia con Orazio e Cicerone, che “una traduzione è tanto più deviante quanto più tenta d’esser fedele” (ivi, 135). Tuttavia, Humboldt misurava la sinonimia secondo la corrispondenza parola/parola (lessema/lessema), senza fare il passo successivo alla sua signiicativa premessa: tra le lingue, infatti, esiste sempre una sinonimia praticamente perfetta, ma solo se si considera il rapporto parola/locuzione o locuzione/locuzione. Questo limite teorico induceva Humboldt (ivi,136) – convinto peraltro che ogni lingua potesse dire “tutto” – a teorizzare un “mistico rapporto tramite lo spirito” che avrebbe unito i suoni ai concetti, laddove i suoni avessero contenuto “gli oggetti della realtà disciolti in idee” (ivi). Humboldt, dunque, univa rilessioni empiriche e veriicabili ad affermazioni tipiche del dualismo di matrice cartesiana. Molto lungimirante era, ad esempio, l’idea che la “stranezza” della traduzione (dovuta all’imperizia del traduttore) tendesse a “oscurare” l’estraneità, motivo per cui il traduttore avrebbe dovuto “scrivere come lo scrittore avrebbe scritto nella lingua del traduttore” (ivi, 137). Poco dopo, però, in ottica pre-relativistica, speciicava che “nessuno scrittore scriverebbe in un’al49. Lo sa qualsiasi italiano che a casa parli un dialetto e fuori casa parli italiano.
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tra lingua la stessa cosa e allo stesso modo” (ivi, 138); questo è certo vero, ma veniva detto in modo fuorviante: infatti, semplicemente, in due momenti diversi, nessuno scrittore scriverebbe la stessa cosa e allo stesso modo nella stessa lingua. Un’altra intuizione particolarmente importante di questo saggio è che la qualità della traduzione (“leggerezza e chiarezza”) dipenda non da lunghi rimaneggiamenti, ma da “una prima felice ispirazione” (ivi, 139)50. I dati empirici parrebbero oggi avallare quest’idea altamente contro-intuitiva: effettivamente, a un alto livello di addestramento, i traduttori, proprio come gli interpreti orali, tendono a produrre un testo scritto già molto simile a quello deinitivo e le eccessive revisioni possono rovinare la prima “felice ispirazione”: è talvolta meglio rivedere la traduzione dopo un certo periodo, piuttosto che continuare, come dicono i traduttologi russi, a modellarla. Prima di giungere alla conclusione del suo saggio, Humboldt faceva un accenno, pur privo di ulteriori sviluppi, a quello che oggi deiniremmo il dominio dei canoni dei culture makers. Sebbene lo studioso tedesco parlasse solo nei termini ristretti dei “canoni di versiicazione”, la sua idea è davvero importante e generalizzabile: i lettori, osservava, sono “storditi dall’arbitrio dei poeti” e “poco abituati a metri usati non tanto spesso” (ivi, 141). Le “libertà” che il traduttore può assumersi, pertanto, sono un utile strumento in direzione del contatto tra estraneità, inteso soprattutto come ‘ibridità culturale’. Proprio in tal senso, diremmo oggi, le traduzioni possono esercitare un inlusso cognitivo sui destinatari, addestrandoli alla ricezione di nuovi modelli culturali, comprese nuove sonorità e prosodie. La conclusione del saggio denota nuovamente la tipica commistione romantica di rilessioni storico-pragmatiche e misticismo. Nel rimarcare uno dei problemi centrali delle opere tradotte, ovvero la loro precarietà e contingenza storica, Humboldt, con parole che rimandano alla metaisica, conclude che le traduzioni sono “altrettante immagini dello stesso spirito”, ma “il vero spirito riposa solo nel testo originale” (ivi). Traducendo questo assunto in un linguaggio più attuale e meno metaisico, a quanto pare, il ilosofo intendeva dire che la traduzione è il prodotto non solo di un’epoca, ma della ricezione del singolo traduttore nella sua individuale relazione con la cultura di arrivo (in sostanza, la traduzione è ‘self-oriented’). Pur senza superare del tutto il postulato della supremazia del TP, Humboldt ha comunque spianato la strada all’idea (centrale per i Translation Studies) che qualsiasi testo (anche una traduzione) sia, di fatto, un “originale”, 50. Se il concetto di ispirazione, secondo un’ipotesi scientiica corrente, viene tradotto nell’insieme complesso di abilità congiunte che operano a livello cognitivo secondo modalità inconsapevoli, l’affermazione risulta estremamente lungimirante. In epoche più recenti il concetto di ispirazione ha gradualmente ceduto il posto a quello di intuizione. L’intuizione, come si è detto, è un termine per indicare un’idea di cui non conosciamo l’origine: ancora non si conoscono bene i meccanismi neuronali dell’intuizione, ma si può dire con certezza che non sia frutto di magia, né di inlussi esterni alla mente (come l’‘ispirazione’).
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poiché il TP stesso è comunque strettamente imparentato all’insieme dei testi precedenti di cui l’autore è divenuto ricettacolo e che costituiscono la memoria creativa cui attinge; al tempo stesso, suggeriva acutamente Humboldt, ogni TP è almeno in parte un’imitazione (lo stesso pensiero era stato espresso anche da Schleiermacher, 1993, 171). 4.4. La deriva irrazionalista postmoderna Nel bene e nel male, i saggi di Schleiermacher e Humboldt hanno inluito in modo trasversale su tutta la teoria del Novecento: a loro si sono ispirati tanto i pensatori irrazionalisti, quanto i semiologi della traduzione. Sul fronte irrazionalista “postmoderno”, due ilosoi in particolare – Walter Benjamin e José Ortega y Gasset – hanno ereditato alcuni postulati comuni ai due pensatori romantici, soprattutto l’idea dell’impossibilità di far comunicare perfettamente due lingue e quella di una superiorità ontologica del testo artistico rispetto agli ‘altri testi’. Entrambi i noti ilosoi del Novecento, pur in modo diverso, hanno contribuito a esasperare le moderate tendenze metaisiche romantiche in direzione di un drastico postmodernismo, inteso come reazione alle illusioni positivistiche e scientiste della modernità. Come già anticipato, il celeberrimo saggio di Benjamin “Il compito del traduttore” (1923) sarebbe divenuto, cinquant’anni dopo la sua prima pubblicazione, un cult text51. Si apriva, infatti, con una serie di assunti provocatori e innovativi che avrebbe fornito una base speculativa al cosiddetto “pensiero debole”52 e alla più estrema “teoria della ricezione”. Particolarmente importante e signiicativa è la rilessione sui destinatari di un’opera d’arte che, secondo Benjamin (1995, 39), non sarebbe rivolta mai ad alcun destinatario, motivo per cui ipotizzare un “lettore ideale” sarebbe non solo insensato, ma “nocivo”. Secondo Benjamin, quindi, la questione della traducibilità andava rivista ponendosi due quesiti: 1) se l’opera possa trovare mai, nella totalità dei suoi lettori, un traduttore adeguato; 2) se l’opera, nella sua essenza, consenta una traduzione e, quindi, secondo l’autore, “la esiga” (ivi, 40). Anche Benjamin proponeva di affrontare il problema della “vitalità” delle opere d’arte su base esplicitamente dualistica, ma contrapponendo, questa volta, la storia alla natura: “in base alla storia, e non alla natura […] va determinato, in ultima istanza, l’ambito della vita” (ivi, 41). La sopravvivenza delle opere sarebbe equivalsa alla sua “gloria” e solo la “gloria” avrebbe dato 51. Data l’imperizia della traduzione di G. Bonola proposta da Nergaard 1993 (che supera quella dei saggi precedentemente citati), per la traduzione del saggio di Benjamin, mi rifarò a quella, pur stilisticamente goffa, di R. Solmi (cfr. Benjamin 1995). 52. Si tratta di una corrente ilosoica di matrice italiana che ha avuto uno straordinario impatto anche all’estero, ideata dai ilosoi Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti. Il “pensiero debole” si oppone alle forme “forti” della ragione in nome di un pluralismo oggettivo e soggettivo del pensiero, del ragionamento e dell’esperienza (cfr. Vattimo, Rovatti 1995).
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traduzioni. Veniva così stabilito che non erano mai le traduzioni a dar gloria a un’opera, ma che a questa gloria pregressa le traduzioni stesse dovevano la loro esistenza. Questa idea appare contraria ai dati storici; numerose traduzioni, infatti, contribuiscono ogni giorno alla “gloria” delle opere in lingua di partenza e talvolta la creano. Alcune opere vengono pubblicate in traduzione prima che in lingua di partenza53. Benjamin criticava la “teoria tradizionale della traduzione” (ivi, 42) basata sull’afinità delle lingue, ritenendo impossibile deinire il concetto di “esattezza” nel processo di trasmissione di forme e signiicati. Questo concetto, secondo Benjamin, non poteva riguardare la “riproduzione del reale” (e quindi dell’“originale”), che non potrà mai essere “obiettiva”. Da questa considerazione, emergeva l’originale idea della “dinamica del senso”, ovvero della “maturazione postuma delle parole issate” (ivi, 43). Benjamin alludeva qui, sulla scia di Schleiermacher e Humboldt, al processo di mutazione dei valori e delle componenti di un testo in base al tempo trascorso, introducendo con ciò la concezione di ricezione testuale. La stessa lingua materna del traduttore, osservava, era recepita come mutevole, a differenza di quanto accadeva nel caso della parola del poeta nella sua (nativa) lingua poetica. Veniva postulata, in tal modo, una contrapposizione tautologica tra il “poeta”, colui che scriveva un “originale”, e il traduttore, colui che non era “poeta”, in quanto non scriveva “originali”. Questa opposizione, però, pare contraddire l’idea stessa di “maturazione postuma delle parole”: non si spiega, infatti, perché il mutamento cronologico della lingua non possa avvenire nel caso della poesia (intesa come ‘assoluta’ ed ‘eterna’), né si spiega, di conseguenza, perché le traduzioni dovrebbero “invecchiare” più dei TP (idea falsiicabile, ma diffusa dal ‘senso comune’). La permanente commistione di ragionamento razionale e di virate metaisiche si ripropone in modo più evidente quando il ilosofo afferma che la traduzione “si accende all’eterna sopravvivenza delle opere e all’ininita reviviscenza delle lingue”, prova “di quella sacra evoluzione o crescita delle lingue” (ivi, 45). La stessa idea che le lingue si “evolvano” verticalmente dal basso verso l’alto, dalla “primitiva rozzezza” alle “forme più perfette”, era stata espressa da Schleiermacher (1993, 149), secondo una visione escatologica che vedeva l’evoluzione dei fenomeni umani in termini di ‘progresso’ estetico. Che le lingue “evolvano” e non “involvano” è già un’affermazione pregiudiziale, ma che un’evoluzione, come affermava Benjamin, debba essere “sacra” pare un giudizio arbitrario. Si ha, dunque, la sensazione che, inoltrandosi sempre più su posizioni irrazionalistiche, il ilosofo tedesco concepisse il compito del traduttore in termini altrettanto sacrali dei traduttori della 53. Si pensi, ad esempio, a opere del dissenso russo, come Noi di Evgenij Zamjatin e Il dottor Živago di Boris Pasternak, che devono la loro fama alle traduzioni (rispettivamente americana e italiana), di molti anni anteriori alla prima edizione russa (“originale”).
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“parola di Dio”. Benjamin (1993, 45) intendeva, infatti, la traduzione in base a una correlazione mistica (e nebulosa) tra lingua e religione: è la crescita delle religioni che matura nelle lingue il seme nascosto di una lingua più alta. La traduzione, quindi, per quanto non possa pretendere alla durata delle sue creazioni, e si differenzi in ciò dall’arte, non nasconde la sua tendenza a uno stadio ultimo, deinitivo e decisivo di ogni formazione linguistica. In essa l’originale trapassa, per così dire, in una zona superiore e più pura della lingua, in cui a lungo andare non può vivere […] (ivi).
Da qui derivava l’affermazione illogica secondo cui, sottraendo e a una traduzione “tutto il comunicabile”, il lavoro del traduttore sarebbe restato comunque intatto (ivi). Il saggio di Benjamin contiene affermazioni e conclusioni così contraddittorie che è impossibile districarvisi con l’aiuto del procedimento logicoargomentativo. L’aflato metaisico lo porta ad affermare che la “lingua della verità”, la quale è “la vera lingua” (la sola cui possa aspirare il ilosofo), è “intensivamente nascosta nelle traduzioni” (ivi, 47). Le successive affermazioni seguono circuiti così vorticosi che Benjamin stesso, paradossalmente, consiglia di non seguirli: “Se il compito del traduttore appare in questa luce, le vie della sua soluzione rischiano di diventare tanto più oscure e inestricabili” (ivi, 48). Anche le considerazioni sulla “fedeltà nella traduzione della parola singola” (ivi), senza nulla aggiungere, si limitavano ad acuire un ermetismo espressivo e concettuale: “Redimere nella propria quella pura lingua che è racchiusa in un’altra; o, prigioniera nell’opera, liberarla nella traduzione – questo è il compito del traduttore” (ivi, 50). La nota idea del traduttore che “allarga i conini” della lingua di arrivo è certamente interessante, così come le considerazioni sull’omologazione delle culture straniere a quella tedesca (ivi, 51), ma non dice nulla di nuovo rispetto ai contributi dei romantici. La conclusione del saggio, secondo cui “la versione interlineare del testo sacro è l’archetipo o l’ideale di ogni traduzione” (ivi, 52) appare un calco preciso della posizione goethiana. Come aveva fatto Schleiermacher e avrebbe fatto Ortega y Gasset, Benjamin ribaltava le proprie premesse, affermando che la “grande opera di traduttori” dei romantici “implicava il sentimento dell’essenza e della dignità di questa forma”, cioè della traduzione (ivi, 46). Tuttavia, il compito del traduttore sarebbe dovuto essere “nettamente distinto” da quello del “poeta”, in quanto la traduzione, a differenza dell’opera poetica, sarebbe stata “fuori” della “foresta del linguaggio”, pur facendovi entrare “l’originale” (ivi, 47): le traduzioni si distinguerebbero dagli “originali” in quanto più “leggere” e, perciò stesso, a differenza degli originali, “intraducibili” (ivi, 52). Data la sostanziale ‘nebulosità’ di tutto il testo, il grande e duraturo successo del saggio di Benjamin è davvero un emblematico fenomeno culturale. Parrebbe il rilesso della dominante propensione all’irrazionalismo della cultura umanistica europea, acuitasi in risposta, da un lato, alle proterve conqui104
ste della scienza e della tecnica, dall’altro, alla diffusione del totalitarismo politico (che si ispirava, a sua volta, a ‘certezze’ falsamente inneggianti al progresso scientiico). La velocità con cui, in dal principio del XX secolo, avevano progredito scoperte scientiiche sempre più inquietanti aveva messo a dura prova le capacità reattive umane (come poi sarebbe accaduto con la rivoluzione elettronica)54. Il profondo disagio psicologico di fronte allo spostamento dei riferimenti etici e reali portava a contrastare l’arroganza e l’autoreferenzialità del pensiero scientista, anche a costo di abdicare al supporto del dialogo scientiico. Dalla difidenza verso le nascenti tecnocrazie scientiiche (su cui, per altro, si fondava il capitalismo della seconda rivoluzione industriale) nasceva la drastica risposta dell’irrazionalismo che avrebbe esercitato un grande fascino sull’ermeneutica estrema, l’esistenzialismo, il decostruzionismo e il “pensiero debole”. Il principale ideologo dell’irrazionalismo nel campo della teoria della traduzione è stato il ilosofo spagnolo José Ortega y Gasset. Si trattava, soprattutto, di un irrazionalismo gnoseologico (cioè relativo alla conoscenza umana) e distopico (pessimistico), fortemente legato agli anni più bui della moderna storia europea, mentre imperversavano ideologie cupe, costruite, paradossalmente, proprio sull’irrazionalità dei popoli mascherata da pseudoscienza (basti pensare alle teorie sulla razza presentate come risultato del progresso bio-antropologico). Partendo dal postulato dell’assoluta impossibilità di qualsiasi compito comunicativo umano, il ilosofo spagnolo, ispirandosi a Schleiermacher e in sintonia con Benjamin, fondava il suo pensiero su un’aporia esplicitata dal titolo stesso del saggio: “Miseria e splendore della traduzione” (1937). La prima parte dello scritto sosteneva le ragioni della “miseria”, la seconda (più ridotta) quelle dello “splendore”. La tesi di partenza è che “tutto ciò che l’uomo fa è utopistico” (Ortega y Gasset 1993, 181). L’utopia riguarderebbe in primis la conoscenza: l’uomo è avido di un sapere che non può mai afferrare pienamente, per cui è tormentato dal desiderio di realizzare imprese che sarebbero irrealizzabili per deinizione (ivi, 182)55. Secondo Ortega, la traduzione, come tutte le altre attività umane, era destinata al fallimento in quanto “compito smisurato” per gli umani. Il traduttore non poteva essere, quindi, nella posizione ardita dello scrittore che, potendo intervenire sulla sua lingua, violandone in piccola misura le norme e i canoni, ne ricava nuove possibilità (ivi); il traduttore, per Ortega, era un “pusillanime”, incapace, a differenza di un “autore”, di divenire un “ribelle”. 54. Se la rivoluzione elettronica di ine XX secolo sia stata più sconvolgente di quella industriale e di quella tecnico-scientiica dei secoli precedenti, potranno valutarlo solo i nostri pronipoti. 55. Ortega y Gasset sembra in realtà riproporre il triplice principio del soista Gorgia, secondo cui a) nulla è, b) se qualcosa è, è incomprensibile, c) se è comprensibile è incomunicabile.
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Quest’affermazione confondeva la prassi traduttiva (quello che fanno i traduttori) con l’essenza ontologica delle singole persone (ipotesi di pusillanimità a priori per qualunque traduttore)56. La posizione secondo cui la traduzione sarebbe un’impresa utopica era conseguenza, secondo Ortega, dell’impossibilità in toto della comunicazione umana, idea che assumeva, nella sua concezione, le connotazioni di un marcato decostruzionismo: nessun umano avrebbe potuto esprimere davvero il proprio pensiero e i limiti del linguaggio umano (fatta eccezione per quello matematico) parevano tali da rendere utopica, anche all’interno della stessa comunità linguistica, la comprensione reciproca: man mano che la conversazione comincia a toccare temi più importanti di questi [della matematica e della isica; L.S.], più umani, più “reali”, il linguaggio diventa sempre più impreciso, impacciato e confuso. Tutti noi, accettando docilmente quel pregiudizio inveterato secondo cui parlando ci capiamo, diciamo ed ascoltiamo con tale buona fede che iniamo per intenderci molto peggio di quanto ci capiremmo se, muti, tentassimo di “indovinarci” (1993, 192).
Innanzitutto, la separazione tra estetica e ilosoia, da un lato, e matematica, dall’altro, rispecchiava un pregiudizio che non tutti condividevano allora, né condividono oggi. In secondo luogo, il fatto che la matematica e la isica siano a priori “meno importanti” di qualcosa (di qualsiasi cosa) è una convinzione soggettiva che Ortega non argomentava, neppure chiedendosi come fosse possibile che la scienza (come indagine sul ‘reale’), con tutti i limiti del linguaggio e al di là dell’utopia, avesse potuto progredire in modo così impressionante. Del resto, non solo Ortega affermava che è “brutta” (sic!) “la traduzione”, ma che “è brutta la scienza” (ivi, 204). Sempre senza argomentazioni, in direzione di un proto-relativismo linguistico estremo, Ortega y Gasset, deiniva la lingua un ostacolo all’intelligenza umana (che ne sarebbe risultata “paralizzata in determinate direzioni”; ivi, 194). Ortega mirava a denunciare le false certezze sia della scienza, sia del linguaggio che la esprimeva: le ragioni per cui il linguaggio, deinito “scienza primitiva”, sarebbe causa del fallimento della scienza era da rinvenirsi nell’incapacità dell’uomo di “parlare sul serio” (ivi, 197). La lingua sarebbe, quindi, da intendersi come specchio delle errate intuizioni umane che trasforma il pensiero in “pura facezia” (ivi, 198): noi diciamo che “il sole sorge a Oriente” senza che vi sia questo reale movimento e senza che si possa deinire il concetto di “Oriente”. La sopravvalutazione del silenzio e dell’assenza – ripresa nei decenni successivi dal pensiero postmoderno e decostruzionista – veniva qui accompagnata dal pensatore spagnolo a una troppo ingenua esaltazione del potere 56. Come avrebbero rivelato i Translation Studies, evidenziando la propria autonomia dall’irrazionalismo, la speciicità della traduzione non si sarebbe dovuta ricercare nell’‘essenza del traduttore’, ma nel ruolo sociale delle traduzioni.
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della “lingua madre” rispetto alla “lingua straniera”. Per di più, nel generalizzare la “tristezza” del “parlare una lingua straniera”, Ortega utilizzava come modello se stesso e i suoi personali insuccessi con la lingua francese: È proprio la tristezza che io sto provando adesso mentre parlo in francese: la tristezza di dover tacere i quattro quinti di quello che mi viene in mente, perché quei quattro quinti dei miei pensieri spagnoli non si possono esprimere facilmente in francese (ivi, 195).
Una generalizzazione inferita dai propri limiti personali (‘se io non riesco a parlare francese come parlo lo spagnolo, ergo nessuno spagnolo può farlo’) è davvero sorprendente da parte di uno dei pensatori europei più inluenti del XX secolo57. Indubbiamente interessante in questo saggio resta l’idea (in parte provocatoria, in parte condivisibile) che i testi “scientiici” possano considerarsi una “traduzione” dello scienziato dalla “lingua vera” (forse intendeva “lingua standard”) in una “pseudolingua formata da termini tecnici, da vocaboli linguisticamente artiiciosi che lui stesso [l’autore del testo; L.S.] ha bisogno di deinire” (ivi, 183). L’idea dell’autore che “traduce se stesso passando da una lingua a una terminologia” (ivi), pur lontana dall’odierna complessità delle microlingue professionali, è un buon suggerimento per affrontare le modalità di formazione del linguaggio tecnico, e soprattutto accademico-scientiico, dal punto di vista dei meccanismi onomasiologici dei “tecnoletti”. In generale, da questo celeberrimo saggio si evince un’ingiustiicata sovrapposizione dei concetti di “scientismo” e “scienza”: questo irrazionalismo estremo iniva almeno in parte per ‘buttare il bambino con l’acqua sporca’, rigettando tutti i procedimenti logici, anche quelli utili a smascherare lo scientismo su base argomentativa. In tal modo, il passaggio dalla “miseria” allo “splendore” della traduzione appariva più contraddittorio che paradossale: il ilosofo riconosceva che l’attività traduttiva offrisse ampi servigi alla cultura e che, a qualche titolo, fosse necessario “tesserne le lodi” (ivi, 205), ma solo (come dicevano i romantici tedeschi) qualora la traduzione applicasse in via esclusiva la norma dello straniamento, costringendo il lettore a “fare gesti mentali” che non fossero “i suoi” e forzando le regole grammaticali della lingua di arrivo per assorbire la diversità (ivi, 206). Nel complesso, il saggio di Ortega y Gasset è un contributo alla ‘mistica della traduzione’: troppe affermazioni risultano, infatti, arroganti e facilmente confutabili. Tuttavia, rispetto a Benjamin, le idee del ilosofo spagnolo mostrano una loro ‘strana coerenza’, le sue iperboli e i suoi paradossi sono esposti con una certa chiarezza. 57. È noto oggi che i bilingui tardivi in lingua straniera possono riprodurre quasi i cinque quinti di ciò che potrebbero dire nella propria (cfr. Fabbro 1996, 119) e, in numerosi casi, nella lingua seconda (straniera) riescono a esprimere alcune cose con più agio che nella lingua madre, talvolta neppure è chiaro quale sia la lingua che più incide sulla personalità di un essere umano (cfr. Amati Mehler et al. 2003).
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Si può dire in estrema sintesi che l’irrazionalismo postmoderno, che tanto ha plasmato la teoria della traduzione, si fonda su alcune vistose contraddizioni: nel momento stesso in cui gli irrazionalisti negavano il ruolo del linguaggio e della comunicazione, se ne servivano per diffondere il proprio pensiero; accusando la scienza di fondarsi sull’equivocità del linguaggio, ricorrevaono a locuzioni contorte e confuse (il saggio di Benjamin ne è un esempio anche in versione tedesca). Anche leggendo altri testi postmoderni, soprattutto di stampo decostruzionista e pseudo-semiotico, si comprende il ruolo importante dell’esperimento del isico americano Alan Sokal, che, nel 1996, aveva pubblicamente smascherato l’agire truffaldino di un certo ambiente accademico postmoderno, pronto a subissare il lettore con un’“intossicazione di parole, combinata con una superba indifferenza per il loro signiicato” (cfr. Sokal, Bricmont 1999, 19)58. Ovviamente, le imposture e persino le “bugie” esistono anche nella scienza (cfr. Di Trocchio 1995, Bürgin 1999) e, senza dubbio, il postmodernismo ha avuto un ruolo importante nell’evoluzione della cultura contemporanea. Tuttavia, ha anche contribuito, purtroppo, a esasperare sempre più l’opposizione tra gli “illuministi”, che “credono si possa sapere tutto”, e i “postmodernisti più radicali”, che “credono non si possa sapere nulla” (Wilson 2001, 44), ingigantendo una già spaventosa frattura culturale e alimentando l’atteggiamento di reciproca sprezzante separatezza con cui lavorano alcuni umanisti e alcuni scienziati: Gli scienziati più produttivi, installati in laboratori miliardari, non hanno tempo di rilettere sul quadro d’insieme nel quale peraltro non vedono alcun proitto […] Essere uno studioso di successo signiica dedicare un’intera carriera alla bioisica della membrana, ai poeti romantici, alla storia americana degli inizi o a qualche altra area circoscritta di studi formali (ivi, 42-43).
Forse un “quadro d’insieme” della cultura umana (la “big picture”) è ancora così lontano da far pensare davvero a un’utopia; ma è solo un bene che qualche studioso o scienziato abbia avuto in passato e abbia oggi un’utopica testardaggine nei confronti della razionalità umana. Certamente si dovrà evitare qualsiasi “fede nel progresso” che, come osservava Dan Sperber (2000, 179), “è una delle attrazioni subliminali di qualsiasi teoria ‘evoluzionistica’ della cultura”; certamente, “il costo del progresso scientiico consiste nel riconoscere umilmente che la realtà non è stata costruita perché la mente umana potesse facilmente afferrarla” (Wilson 2001, 34), tuttavia, è lecito auspicare che l’ancora giovane teoria della traduzione possa affrancarsi inalmente dai suoi aflati metaisici e irrazionalistici, cessando di misurarsi con l’‘Ineffabile’ per passare a indagare pazientemente ciò che non è ancora compren58. Troppo spesso, osservava E.O. Wilson (2001, 245), l’ipotesi postmodernista è rimasta “tranquillamente ignara delle informazioni in nostro possesso sul funzionamento del cervello”.
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sibile, ma potrebbe (forse) diventarlo. Probabilmente, non si arriverà mai a un traguardo deinitivo, ma, accettando il confronto con le altre discipline, soprattutto quelle formali e sperimentali, si avrà una chance di scoprire di più su ciò che accomuna le lingue naturali e su quella sorta di ‘dispositivo mentale per tradurle’ di cui sembra dotato ogni essere umano. Proprio la teoria della traduzione potrebbe contribuire signiicativamente a comprendere alcuni meccanismi che governano l’uso creativo del linguaggio, la letteratura: Sebbene il rapporto tra la neurobiologia e le arti sia esile, fornisce all’istinto estetico dei suggerimenti promettenti che […] non sono ancora stati studiati sistematicamente né dagli scienziati né da coloro che interpretano le opere d’arte (ivi, 263).
Questo obiettivo è importante e non impossibile, a patto di “ridisegnare un conine” tra le discipline (ivi, 142). 5. Contro la formalizzazione: i Translation Studies Uno degli aspetti più rilevanti nell’evoluzione degli studi sulla traduzione nell’Europa occidentale è la separatezza che ha caratterizzato ino agli anni Novanta del XX secolo gli studi sui prodotti e quelli sui processi della traduzione. Proprio mentre, ai primi del Novecento, con Ferdinand De Saussure, nasceva la linguistica accademica, gli studi sulla traduzione si allontanavano sempre più dall’attenzione alla lingua per ripiegare sull’irrazionalismo antiscientiico, sull’utopismo e il misticismo letterario59. Si è visto, viceversa, come in un’altra realtà geo-culturale, nella giovane Unione Sovietica, proprio in campo umanistico si muovessero i primi passi per impostare una teoria della traduzione sempre più attenta agli aspetti linguistici e direttamente mirata a uniicare e formalizzare le procedure traduttive: Maksim Gor’kij, con il suo straordinario progetto di tradurre la “letteratura universale”, per la prima volta aveva richiamato l’attenzione sul processo traduttivo, creando le premesse per immaginare un collegamento tra lingua e letteratura (cfr. Fëdorov 1983, 111-153). Il legame con la linguistica e la ricerca di procedure era decisamente più consono allo sviluppo di una teoria uniicata che, pur lentamente, avrebbe portato a progressi indiscutibili. Sebbene le sue radici si possano far risalire a un lontano passato, la linguistica occidentale ha come riferimento irrinunciabile il contributo di Saussure, che sarebbe risultato fondamentale per lo sviluppo della semiotica e della traduttologia. Come accennato, tuttavia, il ruolo della lingua nel processo traduttivo divenne evidente per tutti quando, a metà degli anni Quaranta del 59. Secondo Bloch (2000, 190), l’atteggiamento di difidenza per la formalizzazione scientiica “includeva il drastico pregiudizio per qualsiasi cosa remotamente ‘scientiica’, così come il sospetto che qualsiasi ‘biologizzazione’ della cultura si sarebbe trasformata in un’immediata giustiicazione per il razzismo e il sessismo”.
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XX secolo, Eugene Nida intraprese il suo percorso di ricerca per regolamentare le procedure di traduzione della Bibbia. Nel decennio successivo, soprattutto dalla ine degli anni Cinquanta, si assisteva a una crescita esponenziale degli studi dedicati alla linguistica della traduzione, senza tuttavia che questo attenuasse una drastica contrapposizione tra teorie “letterarie” e teorie “linguistiche”. Le prime si richiamavano alla tradizione ilosoica tedesca (in particolare a Schleiermacher) e alla supremazia del testo letterario, mentre le seconde ambivano alla scientiicità della disciplina, considerando i testi letterari uno tra i tanti àmbiti dell’indagine linguistico-testuale. Questa contrapposizione era trasversale e riguardava ogni aspetto della ricerca: i temi, i ini, le premesse e le prospettive. Dai primi anni Settanta, la scuola tedesca (soprattutto nella ex Repubblica Democratica) aveva acuito la contrapposizione, cercando di sviluppare la prospettiva linguistica a dispetto delle resistenze dei letterati, consapevoli delle dificoltà di infrangere i pregiudizi della frequente ‘linguofobia’ umanistica. L’avversità per gli studi linguistici aveva sicuramente una forte base ideologica, ma era anche, almeno in parte, un pretesto per sottrarsi a un campo di studi non solo nuovo e in veloce evoluzione, ma estremamente complesso, che richiedeva di accostarsi (umilmente e con fatica) a studi molto impegnativi e soggetti a maggior rigore logico-formale di quanto fosse richiesto in àmbito letterario. A sancire il distacco dei letterati dagli studi linguistici, allo scopo di costituire un solido campo di studi umanistico, mirato a preservare le prerogative letterarie e socioculturali degli studi sulla traduzione, alla ine degli anni Sessanta, veniva fondata uficialmente la corrente dei “Translation Studies”, che sarebbe divenuta assai presto la più nota ‘scuola’ occidentale di ricerca sulla traduzione. Un folto gruppo di giovani e dotati studiosi di traduzione letteraria si era riunito a Bratislava nel 1968, a un convegno internazionale dal titolo “Translation as an Art”, organizzato dal celebre traduttologo slovacco Anton Popović. Assieme a lui e Frans De Haan, James S. Holmes avrebbe curato la raccolta (in inglese) degli Atti, The nature of translation: essays on the theory and practice of literary translation, inaugurando il primo numero della collana “Approach to Translation Studies” (cfr. Holmes et al. 1970). Da allora il gruppo, oggi noto come “TS” (Translation Studies), si è fortemente radicato, conta un gran numero di studiosi in tutto il mondo e ha in Susan Bassnett la sua esponente più nota. Il suo scopo evidente è stato quello di separare gli studi sui prodotti della traduzione dagli studi (linguistico-formali) sui processi. Nonostante alcuni degli originari fondatori del gruppo (tra cui gli stessi Popović e Holmes) volessero supportare il ruolo degli studi letterari in campo traduttologico senza enfatizzare l’avversione per la linguistica in quanto tale, l’approccio dei TS per decenni si è disinteressato alle ricerche linguistiche, formali e sperimentali, limitando le proprie ricerche all’àmbito socioculturale. 110
Mentre i linguisti cercavano di offrire ai traduttori criteri di equivalenza, i TS che rifuggivano programmaticamente ogni intento prescrittivo, scambiavano la raccolta di dati sui processi traduttivi per prescrizioni. Le scuole linguistiche cercavano di porre dei limiti all’arbitrio dei traduttori, in quanto appariva chiaro che l’assenza di regole è “una forma non evidente di rigidità” (Bottiroli 1999, 86): nessuno dei linguisti voleva imporre norme, ma solo spiegare quali parametri rendessero migliore il processo traduttivo. Eppure, proprio il concetto di “equivalenza” su cui si basava la ricerca scientiica era visto dai TS come inutile e persino ‘autoritario’: la traduzione si sarebbe dovuta studiare solo in chiave descrittiva, come fenomeno culturale (di fatto, letterario), e non allo scopo di individuare strutture, norme e modelli. Questo portava a un’aporia: infatti, vietare le prescrizioni era, in deinitiva, una proscrizione, cioè una prescrizione in negativo. Certamente, grazie ai TS, la crescita quantitativa e qualitativa delle ricerche in questo campo è stata estremamente signiicativa. A questo ha molto contribuito anche la scuola di Tel-Aviv (soprattutto di Itamar Even-Zohar e di Gideon Toury) che ha offerto importanti riferimenti teorici sui meccanismi di interazione tra letteratura primaria e secondaria. La ‘spaccatura’ tra linguisti e letterati, così come quella tra “umanisti” e “scienziati”, in fondo, riletteva originariamente la differenza tra chi cercava le regole, credendole facilmente abbordabili, e chi, negando che se ne potessero trovare, evitava di cercarle. Ma di questa ‘spaccatura’, ovviamente, erano responsabili tutti. Anche gli studi teorici e applicativi sui processi per decenni si erano sviluppati in modo sostanzialmente autarchico, guidati sia dalla lungimiranza, sia da un’inconsapevole e ingenua superbia. A partire dagli anni Trenta, infatti, si era sviluppato un ilone di ricerche sulla traduzione “meccanica” (divenuta, in seguito, “automatica” e, quindi, “computazionale”) che aveva del tutto ignorato il fatto che – per quanto formalizzabile –-la lingua umana esiste solo nella realtà comunicativa e che qualsiasi complessità testuale non avrebbe potuto essere studiata senza unire le competenze di chi conosce i processi per produrre i testi con quelle di coloro che studiano i testi stessi, le loro origini, la loro storia. Ancora oggi, i sistemi elettronici di traduzione rilettono esattamente questo limite, acquisito da una profonda difidenza per l’universo psichico che, in realtà, rende (secondo una metafora invalsa) lo studio del “software” linguistico inseparabile dai “sistemi operativi” (mentali) che ne consentono e ne gestiscono il funzionamento. Oggi possiamo confermare che la separatezza programmatica tra studi sui prodotti e studi sui processi non aveva, né ha alcuna ragione di esistere e va contro i principi basilari della coerenza intra- e interdisciplinare. Qualsiasi cosa sia studiata fuori da uno schema d’insieme, fuori dalla regolarità e dalle interrelazioni che accomunano i fenomeni, rende qualsiasi risultato più astratto e ine a se stesso: “quando si guadagna in generalità, si guadagna in concretezza” (Sacks 1990, 160). 111
3. LA TRADUTTOLOGIA SCIENTIFICA: INTERDISCIPLINARITÀ E FORMALIZZAZIONE
1. Il ‘sogno’ meccanico L’ambizione utopistica di creare in tempi brevi una macchina in grado di eseguire traduzioni al posto degli esseri umani nacque nei primi decenni del XX secolo e avrebbe portato, negli anni Trenta, ai primi progetti concreti. Ciò accadeva circa vent’anni prima che il grande matematico inglese Alan Turing ideasse il parametro – detto “test di Turing” – cui ancora oggi ci si riferisce per indicare quando una macchina sia in grado di fornire un risultato o un comportamento (irrilevante se ‘giusto’ o ‘sbagliato’) attribuibile a un essere umano, ovvero humanlike. Certamente, nei primi decenni del XX secolo, si era trattato di un’idea almeno in parte molto ingenua, dovuta alla scarsa conoscenza della linguistica teorica e testuale, e della complessità della comunicazione umana. Il pioniere della traduzione meccanica non era neppure uno scienziato, né un accademico, bensì un ingegnere-inventore che sarebbe morto proprio nel 1950 (l’anno in cui Turing pubblicava il famoso lavoro sull’omonimo test, cfr. Turing 1994). Costui, Pëtr Petrovič Trojanskij (noto anche come SmirnovTrojanskij), si era formato in Russia durante l’epoca travagliata in cui si cercava di realizzare il “sogno socialista”. Per anni aveva lavorato al progetto tanto affascinante quanto originale di una macchina in grado di effettuare traduzioni da una lingua naturale all’altra con la sola assistenza di due umani monolingui; il suo progetto si sarebbe concluso con un brevetto (depositato a Mosca nel 1933). Curiosamente, un progetto analogo veniva brevettato contemporaneamente anche a Parigi da Georges B. Artsrouni (un armeno naturalizzato francese), che in realtà, pure, aveva studiato in Russia prima di emigrare in Francia. Entrambi i progetti superavano il concetto di “dizionario meccanico” (commutatore di parole o singole locuzioni): considerando (pionieristicamente) che la strutturazione sintattica degli enunciati fosse gerarchicamente antecedente alla selezione del lessico, presentavano un vero e 113
proprio congegno per tradurre testi, partendo dalla elaborazione delle asimmetrie sintattiche. Il fatto che, secondo il progetto di Trojanskij, la macchina richiedesse l’intervento di due umani potrebbe oggi apparire del tutto diseconomico: perché, con tanta fatica, sostituire il traduttore unico con due monolingui? La macchina, in realtà, sarebbe stata vantaggiosa da due punti di vista, strettamente connessi al momento storico in cui si trovava la giovane e sterminata Unione Sovietica: da un lato, infatti, nell’enorme Paese multilingue (con decine di lingue diverse, di cui molte circoscritte in remote aree geograiche), non era possibile reperire traduttori bilingui per la maggior parte delle potenziali coppie di lingue (per esempio, era improbabile esistessero bilingui jakuto/spagnolo o tunguso/armeno); dall’altro, il progetto prevedeva che, con una sola operazione meccanica, si potesse eseguire la traduzione di un medesimo testo contemporaneamente in lingue diverse, velocizzando un processo altrimenti lungo e oneroso. Questo sarebbe stato straordinariamente utile per la politica culturale dell’URSS di quegli anni. Così scriveva Trojanskij: Certo, certo, non discuto: che i vecchi traduttori bilingui traducano pure senza la macchina nelle lingue che conoscono! Ma esistono lingue che loro non conoscono. Di fronte a queste, i vecchi traduttori si fermano come davanti a un muro di pietra […] Ora davanti a loro c’è una metodologia monolingue che apre la possibilità di utilizzare ampiamente le lingue straniere senza conoscerle. Ciò non impedirà loro di studiare le lingue in modo da arrangiarsi con alcune di esse senza la macchina. Questo non verrà interdetto a nessuno e lo studio delle lingue straniere proseguirà (Smirnov-Trojanksij 1959, 13).
L’implicazione era tanto avveniristica, quanto semplicistica. Si postulava, infatti, che la traduzione interlinguistica potesse essere così asettica e meccanica da realizzarsi mediante la mera conversione logica di codici algoritmici. Nonostante questa sempliicazione minasse alla base il progetto, Trojanskij era stato all’epoca un formidabile precursore, aveva intuito come le lingue fossero accomunate da una struttura logica comune: di fatto, aveva anticipato di una trentina d’anni l’intuizione che avrebbe reso celebre Noam Chomsky. Purtroppo, la prematura morte del geniale inventore e il lungo isolamento della cultura sovietica lo avrebbero condannato, assieme al suo progetto, all’oblio1. Solo alla ine degli anni Cinquanta, quando l’interesse per la tra1. Solo in tempi recenti, quasi contemporaneamente in Paesi diversi, si è nuovamente intravisto un interesse per Trojanskij e per la sua avanguardistica macchina. Quando, alla ine degli anni Novanta, avevo reperito a Pietroburgo la pubblicazione dell’Accademia delle Scienze dell’URSS dedicata a Trojanskij (cfr. Panov 1959), ne avevo parlato con Annunziata Marzano, allora mia allieva presso la SSLiMIT di Forlì (Università di Bologna), che aveva accettato di occuparsene per la sua tesi di laurea (discussa con lode e dignità di stampa un paio di anni dopo; cfr. Marzano 2000-01). Questo lavoro, che (a quanto mi risulta) è lo studio storico e analitico più approfondito sul brevetto dell’ingegnere russo (purtroppo inedito), offriva anche un excursus storico generale sul “sogno meccanico”.
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duzione automatica raggiungeva in Unione Sovietica il suo apice, Trojanskij ebbe un momento di notorietà postuma. Nel 1959, infatti, l’Accademia delle Scienze dell’URSS pubblicò (con autorevoli commenti) i suoi manoscritti, raccolti in un volumetto dal matematico Dmitrij Panov (1959) con i commenti della stimata linguista computazionale Izabella Bel’skaja. La raccolta era divisa in due parti: “materiali linguistici” e “materiali tecnici” (ivi). Per meglio valutare la portata del brevetto di Trojanskij, è importante premettere che, in dal principio, il “sogno meccanico” si fondava sulla linguistica formale contrastiva: sarebbe stato impossibile, infatti, trovare una “chiave” per formalizzare le strutture e i nessi intra-strutturali delle lingue naturali senza formulare ipotesi chiare sul substrato logico che le accomunava. Il grande merito della linguistica formale era stato proprio quello di indagare, al di là delle differenze di supericie, le regole generali di formazione ed evoluzione dei codici linguistici, coerenti a un criterio universale di grammaticalità2. Il suo limite, invece, era quello di non andare al di là della struttura logica dei codici, trascurando gli aspetti pragmatici, psico- e sociolinguistici della comunicazione verbale, ovvero le regole d’uso che governano nel contesto comunicativo la ‘propagazione’ o l’‘estinzione’ delle ‘formule’ linguistiche. Senza ripercorrere i diversi modelli descritti da Trojanskij (parzialmente diversi l’uno dall’altro e accompagnati da dettagliati schemi tecnici), merita soffermarsi sul principio logico su cui era basato l’ultimo e più ambizioso progetto dell’ingegnere russo. Il postulato era quello, pionieristico, che le lingue fossero accomunate da una struttura logica comune che poteva fungere da codice intermedio tra una lingua naturale e l’altra. Sulla base di questa struttura comune, Smirnov-Trojanksij (1959, 5) aveva ideato un’unica forma, per così dire, di analisi logica che costituisse “un testo di passaggio nel processo traduttivo”. La “forma” che scaturiva dall’analisi logica si contrapponeva, secondo Trojanskij, alla “forma nazional-grammaticale”, ovvero alla veste particolare che la forma logica assumeva in una data lingua naturale3. Prima che intervenisse la macchina, era quindi necessario l’intervento dei due monolingui nativi: il primo avrebbe dovuto trasformare il testo “nazional-grammaticale” A in un testo in forma logica A1; la macchina avrebbe quindi provveduto a convertire A1 in B1, ovvero nella forma logica della lingua di arrivo B. Questa operazione bilingue A1 ➝ B1 era a carico della macchina e consisteva nella trasformazione della forma morfosintattica della lingua A in quella corrispondente della lingua B: i simboli logici sarebbero stati ri-assemblati in costituenti di arrivo secondo l’ordine previsto dalla lin2. Va ricordato in tal senso che, in dal XVII secolo, con Cartesio e Leibniz, si erano fatti alcuni sforzi per collegare il lessico a codici numerici in grado di associare in modo automatico un signiicato alle parole corrispondenti di lingue diverse (cfr. Marzano 2000-1, 19-23; per spunti sintetici cfr. Mounin 1965, 188-202; per informazioni più tecniche, cfr. Miram 1998). 3. Le espressioni russe utilizzate da Trojanskij sono: “forma logičeskogo razbora” e “nacional’no-grammatičeskaja forma”.
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gua B (nell’ultimo prototipo della macchina, in questa fase, non era previsto alcun ausilio umano). La terza fase sarebbe stata a carico del secondo monolingue che avrebbe convertito il testo B1 nel corrispondente testo “nazionalgrammaticale” B. Le competenze richieste per i due passaggi intralinguistici (A ➝ A1 e B1 ➝ B) erano elementari: più semplici dell’analisi logica che si impara a scuola (ivi, 8). Per la componente semantica (lessico), invece, si faceva riferimento all’esperanto e a un glossario predeinito a tipologia “radicale”, comprensivo di sinonimi, omonimi e idiomatismi (ivi, 17). Pur non avendo avuto la fama che avrebbe meritato, Trojanskij inluì certamente sull’evoluzione successiva degli studi sovietici sulla traduzione automatica: aveva ideato un procedimento di eccessiva semplicità, ma si era basato su intuizioni soisticate e lungimiranti che precorrevano le teorie trasformazionali della grammatica generativa. In generale, la paternità della machine translation (traduzione automatica) va riconosciuta agli Stati Uniti. Del resto, come avviene per ogni grande scoperta, in un certo momento storico, erano maturati i tempi per intraprendere la graduale realizzazione dell’intelligenza artiiciale (IA) e il ruolo dell’Europa fu, in tal senso, tutt’altro che secondario (il primo rudimentale computer, che risale al 1936, era opera del tedesco Konrad Zuse). La nascita dell’IA vera e propria si colloca, non a caso, negli anni Quaranta, quando i primi progetti di autonomi elaboratori elettronici erano sollecitati da interessi bellici. In quel periodo, avviene il ‘grande salto’ dai congegni meccanici alle “macchine computazionali”, reso possibile dall’ideazione di dispositivi elettromeccanici che permettevano di utilizzare il codice binario privilegiato dai computer (l’ultimo modello di Trojanskij, se fosse stato realizzato, sarebbe stato una via di mezzo). L’utilizzo elettronico del codice binario (in luogo di quello decimale, delle schede perforate e dei nastri magnetici) consentiva di eliminare l’intervento umano nell’esecuzione delle singole operazioni (un tempo manuali). La gloriosa paternità del computer, per quanto nutrita dal genio dei predecessori, viene riconosciuta all’americano John von Neumann (un ebreo ungherese riparato negli USA), ideatore della prima macchina in grado di “memorizzare un programma” che non si limitasse a memorizzare i dati, ma anche le istruzioni per elaborarli4. Convertendo i numeri in dati simbolici, il calcolatore era divenuto un’intelligenza autonoma capace di commutare informazioni da un codice in un altro. Il problema della traduzione interlinguistica si presentava come un caso particolare di commutazione non distante, sul piano teorico, dai problemi di “decrittograia” (decodiicazione dei linguaggi cifrati) che erano stati brillantemente affrontati da Turing. Durante la Seconda Guerra Mondiale, Turing, il genio britannico, aveva automatizzato il processo di decrittazione elettronica del codice segreto dei tedeschi “Enig4. La “macchina di Von Neumann” fu il primo computer a entrare stabilmente in funzione (presso l’Università di Princeton, nel 1952).
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ma”, contribuendo a sconiggere il nazismo e a sviluppare l’IA. Da anello di congiunzione tra traduzione e decrittazione fungeva proprio l’ipotesi che le lingue naturali fossero accomunate da una struttura-base logica, intesa a tutti gli effetti come un codice non dissimile da quelli artiiciali sia di segretazione dei messaggi, sia di programmazione delle macchine. Fin dalla nascita dell’IA, il problema della traduzione interlinguistica fu al centro dell’interesse dei “cibernetici”, detti oggi “computer scientists”: i matematici Warren Weaver e Claude Shannon cominciarono a parlarne nel secondo dopoguerra. All’idea che era stata di Trojanskij lavorava anche il matematico e linguista viennese-israeliano Yehoshua Bar-Hillel, cui si deve, tra l’altro, l’organizzazione del primo convegno americano di traduzione automatica (nel 1952), che avrebbe segnato l’acme del “grande sogno”. All’epoca, erano in molti a credere con convinzione che ben presto le macchine avrebbero del tutto sostituito i traduttori: i progressi fatti nel campo dell’elettronica durante gli anni Cinquanta lasciavano supporre che la collaborazione tra l’Università di Georgetown (Washington DC) e l’IBM avrebbe consentito di realizzare una macchina programmata per tradurre senza l’intervento umano. Alla Georgetown University venne effettuato con successo un esperimento preliminare: la traduzione dal russo in inglese di 49 frasi di un testo di chimica, basate su 250 parole e sei regole grammaticali. I risultati di questo e altri esperimenti parevano confortare ogni ottimistica speranza: nel 1954, uscì il primo numero della rivista Mechanical Translation e l’anno seguente William Locke e Donald Booth pubblicarono a New York un’importante raccolta dal titolo Translation of Languages, che due anni dopo uscì a Mosca con il titolo Mašinnyj perevod (La traduzione automatica): l’interesse dei russi era dovuto anche al fatto che gli studi americani fossero mirati (per ovvi motivi politico-militari) a esperimenti di traduzione proprio dal russo, cioè dal “codice del nemico” (cfr. Kuznecov 1957, 8). Pëtr Kuznecov (ivi, 6-7), curatore dell’edizione russa, forniva nella prefazione un’utile sintesi del livello di ricerca dell’epoca: Nei vari articoli vengono studiati i metodi di ricerca delle parole nel dizionario della macchina, allo scopo di individuare l’equivalente necessario alla traduzione, i metodi per stabilire il signiicato di una parola nel caso di polisemia in una data lingua, i metodi per isolare gli idiomatismi ecc. Vengono analizzati diversi problemi grammaticali, come, ad esempio, la ricostituzione dell’ordine delle parole in traduzione, la questione della corrispondenza o discordanza delle categorie grammaticali di una lingua rispetto a un’altra e i metodi di traduzione in casi in cui non vi sia corrispondenza […] Si analizzano svariati metodi operativi necessari a determinare la struttura morfologica di una parola: metodi per individuare le desinenze, gli afissi e i formanti, i limiti spaziali della parola, particolarmente importanti nel caso delle parole composte […] Inine alcuni articoli studiano i problemi generali della struttura logica che sta alla base di tutte le lingue e in particolare i problemi della sintassi logica. Le ricerche di questo tipo ci avvicinano sempre più all’idea di creare, per la traduzione da una qualsiasi lingua in un’altra, una lingua-medium, argomento a cui noi [sovietici; L.S.] stiamo dedicando sempre maggiore attenzione.
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Kuznecov notava anche come la ricerca fosse orientata soprattutto alla traduzione scritta e come un solo articolo della miscellanea affrontasse il problema della traduzione orale, particolarmente caro agli scienziati sovietici: nell’ambito della traduzione orale, il livello della teoria pareva decisamente embrionale e il novero delle imprecisioni teoriche e degli ostacoli reali appariva imponente, sebbene non insormontabile. Kuznecov evidenziava inoltre l’annoso problema dell’arbitrio terminologico che i traduttori russi (T. Mološnaja e V. Purto) avevano cercato, almeno in parte, di arginare. Gli scienziati russi erano rimasti impressionati dall’esperimento di Georgetown e, in occasione del Convegno Internazionale di Traduzione Automatica del 1956, organizzato dal MIT, Panov (curatore del volumetto di Trojanskij) aveva assistito a una replica dell’esperimento, dando il via a nuovi investimenti in Russia, dove già da un paio d’anni erano entrati in funzione potenti calcolatori5. Panov già nel 1955 aveva realizzato in Russia il primo esperimento di traduzione automatica: si trattava di un testo di matematica da trasformare (in direzione opposta agli americani) dall’inglese in russo. I successi ottenuti in questo e altri esperimenti avrebbero condotto, nel 1958, a organizzare a Mosca il successivo Convegno di Traduzione Automatica. Negli anni seguenti, tuttavia, non solo non si ottennero i risultati vistosi e immediati che tutti si aspettavano, ma gli ostacoli incontrati dai ricercatori rivelarono che gli obiettivi preissati dalla ricerca sulla traduzione automatica erano troppo ottimistici e ambiziosi. Numerosi ricercatori sospettavano che si fosse veriicato il cosiddetto “paradosso di Bar-Hillel”, che considerava la traduzione automatica impossibile per deinizione, a livello teorico, a causa dell’incapacità delle macchine di discriminare la semantica. In sintesi, BarHillel aveva compreso che alla base del fallimento c’era stata una riduttiva e semplicistica concezione delle lingue naturali come asettiche strutture logiche ed era giunto a condividere, a un livello di reale comprensione scientiica, le stesse perplessità espresse dai ilosoi romantici e dagli irrazionalisti. Del resto, l’atteggiamento di delusione di autorità scientiiche di fama internazionale consentiva ai detrattori della traduzione automatica di decretare in toto il fallimento della scienza computazionale che aveva cercato di ridurre a codice l’intelligenza umana6. Nel 1966, un rapporto dell’Automatic Language Processing Advisory Commitee (noto come “rapporto ALPAC”) decretò uficialmente il fallimento dell’“era romantica” della traduzione automatica. Anche a causa del consolidarsi della guerra fredda e della conseguente interruzione della collabo5. Da un indice bibliograico uscito a Mosca nel 1965, che elencava i lavori di linguistica strutturale e applicata, pubblicati in URSS dal 1918 al 1962, si può veriicare il numero notevole di pubblicazioni dedicate alla traduzione, con un picco d’interesse proprio a partire dalla metà degli anni Cinquanta. 6. Come ricorda Marzano (2000-2001), all’epoca cominciarono a diffondersi innumerevoli aneddoti per dimostrare la “stupidità” dei computer (che ricalcano quello già citato sull’“invisible mad”).
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razione scientiica tra USA e URSS, questo documento sanciva la ine della sperimentazione. Al principio degli anni Settanta, dicevano i linguisti Ol’ga S. Kulagina e Igor’ A. Mel’čuk (1971, 21), alla domanda se le macchine sapessero tradurre, la risposta sarebbe stata: Le macchine traducono da una lingua all’altra, di regola, solo nelle condizioni di un esperimento ben preparato. Una traduzione automatica pratica, che possa entrare nell’uso così com’è stato per i registratori, per i microscopi o per i computer, per ora non esiste.
Sebbene Kulagina e Mel’čuk (ivi, 22) sostenessero che gli ostacoli non fossero insormontabili e che il problema fosse non la realizzabilità del progetto, ma il tempo necessario alla sua realizzazione, le perplessità di Bar-Hillel avevano posto un serio veto a qualsiasi ‘chimera’. La ricerca, dunque, si indirizzò verso mete meno ambiziose, nella convinzione che fosse possibile ottenere ancora buoni risultati, ma solo procedendo secondo un chiaro riduzionismo, cioè perseguendo obiettivi parziali e di basso proilo: traduzioni facili di alta qualità o traduzioni complesse di qualità inferiore. Il riduzionismo, a sua volta, agiva negativamente sugli entusiasmi interdisciplinari che avevano caratterizzato, all’inizio del “sogno meccanico”, la collaborazione tra linguisti, cibernetici e informatici. Sicuramente, il drastico isolamento delle discipline scientiiche da quelle umanistiche non aveva giovato: ai progetti computazionali avevano lavorato matematici e cibernetici, ingegneri e linguisti, militari e informatici, ma nessuno di loro aveva suficienti competenze di ilosoia del linguaggio, ilologia, retorica, semiotica e pragmatica testuale, né la consapevolezza dell’importanza di queste lacune: la lingua di un testo di chimica era ben più ‘attendibile’ di quella, viva, della comunicazione umana, in cui risultava fondamentale il ruolo dell’ambiguità, le strutture formali mutavano in itinere e le metafore prevalevano sulla astratta semantica dizionaristica. La traduzione automatica si fondava sul concetto saussuriano di langue, la lingua normativa astratta, mentre nei testi umani abbondava la parole, la produzione contingente, unica e irripetibile degli individui. Le dificoltà della traduzione da parte dell’IA risultavano simili a quelle che si sarebbero incontrate nel tentare di programmare le macchine per il riconoscimento facciale; in alcuni casi era tremendamente dificile ridurre a routine automatica quello che per un cervello umano risultava semplice e ‘naturale’: l’intelligenza umana, pur così lenta rispetto alle macchine, si era dimostrata in grado di gestire i dati grazie alla maggiore lessibilità e alle capacità analogiche. Nel suo complesso, la storia della traduzione automatica rilette un’oscillazione tra due estremi: quello del pregiudiziale scetticismo, espresso dal paradosso di Bar-Hillel, e quello di un ingenuo e ingiustiicato ottimismo. Bel’skaja – madre della linguistica computazionale sovietica, cui si deve il concetto di algoritmo linguistico – ancora negli anni Sessanta continuava a pensare che fosse imminente la formalizzazione di tutte le componenti della lingua, compresa la semantica, e che, pertanto, una volta trovati gli algoritmi 119
giusti, la traduzione automatica sarebbe stata applicabile a qualsiasi testo, compresi quelli letterari. Il fallimento della traduzione automatica dimostrava, invece, che gli algoritmi linguistici erano ben più complessi del previsto e che non erano suficienti a creare un’intelligenza artiiciale humanlike. Da questa consapevolezza, si può dire, nacquero due iloni di ricerca paralleli. Il primo ilone era quello della linguistica computazionale che inaugurava una ‘terza strada’, intermedia tra il “sogno meccanico” e il negazionismo romantico: la traduzione assistita. L’idea di una collaborazione tra traduttori umani e macchina implicava di guardare ai computer non più come a “humanlike robot”, ma come a utili strumenti da afiancare ai professionisti umani per rendere i processi traduttivi più veloci e i risultati più afidabili, grazie alle banche dati che le macchine potevano memorizzare, i corpora. Anche la formazione dei corpora linguistici non era affatto semplice e avrebbe richiesto un notevole impegno epistemologico per rendere sia suficientemente ampi, sia suficientemente rappresentativi i dati raccolti. I corpora paralleli (bilingui) avrebbero sostituito l’antico e insoddisfacente criterio del dizionario ‘lessicale’ e i corpora monolingui si sarebbero potuti usare per confrontare le lingue tra loro. Invece di proporre un’astratta e inafidabile corrispondenza lessicale tra le singole parole di due lingue, le ‘memorie di traduzione’ avrebbero consentito di individuare frasi, frammenti e porzioni di testo corrispondenti, creando archivi consultabili e implementabili da parte dei traduttori. Il secondo ilone di studi era quello della traduttologia, che si sarebbe sviluppata come branca della teoria della traduzione dedita allo studio dei processi traduttivi e alla loro classiicazione formale7. Pur autonomamente e pur coniugando inalmente gli aspetti bottom up e top down della ricerca, la traduttologia cercava di formalizzare i processi traduttivi e le gerarchie procedurali, mediante tassonomie e classiicazioni, ma senza rinunciare del tutto all’approccio olistico del tradizionale àmbito umanistico da cui, comunque, traeva origine8. Tra i traduttologi, infatti, vi erano tanto linguisti interessati alla traduzione, quanto, e soprattutto, traduttori (letterari e non) interessati alla linguistica. 2. La traduttologia linguistica Gli studi di stampo linguistico hanno avuto una loro epoca d’oro a partire dalla metà degli anni Cinquanta ino ai primi anni Novanta del secolo scorso. Il 7. Per un panorama generale e aggiornato dell’evoluzione storica della traduzione automatica e assistita cfr. D’Agostino, Elia 2001. 8. L’olismo, contrapposto al riduzionismo, è una posizione teorico-epistemologica che nega la possibilità di spiegare fenomeni complessi sommando le ricerche sui singoli elementi che determinano la complessità. Come a dire che il fenomeno meteorologico non può essere studiato sommando lo studio della chimica e della isica coinvolte, ma identiicando l’elemento imprevedibile che la totalità (“olos” in greco) degli elementi fa emergere.
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loro scopo primario era quello di intaccare l’opinione assai diffusa secondo cui il traduttore dovesse essere solo un buon letterato con rafinate conoscenze della propria lingua. Le teorie universalistiche avevano ampiamente argomentato l’esistenza di regolarità strutturali alla base di tutte le lingue, indicando la possibilità di trovare anche regolarità procedurali nel processo di traduzione che avrebbero reso più professionale la ‘pratica traduttiva’. Quasi nessuno ambiva più a individuare rigide normative, ma a superare l’anarchia del soggettivismo dominante, in nome sia di una ‘qualità’ oggettiva, sia delle speciicità culturali. I traduttologi erano convinti che fosse possibile comprendere e descrivere anche le procedure creative seguite dai traduttori letterari che, inevitabilmente, affrontavano processi decisionali commisurati soprattutto a criteri linguistici. Ma l’idea che la lingua e la linguistica dovessero essere fondamentali nello studio della traduzione, per quanto ovvia e banale, è stata osteggiata e ostracizzata per decenni, imponendo che ogni generazione di teorici dovesse sentirsi sempre in dovere di ripetere questa ovvietà. Così, Henri Meschonnic (1995, 277), il più noto teorico d’area francese, nei primi anni Settanta affermava che una teoria linguistica fosse necessaria perché la traduzione cessasse “di essere un artigianato empirico che disconosce il suo lavoro e il suo statuto”. Ugualmente, dieci anni dopo, l’inglese Peter Newmark (1988, 75) ribadiva che il generale compito di un teorico altro non fosse, banalmente, che quello di “far sì che nella traduzione non venga ignorato alcun fattore linguistico e culturale rilevante” e, dopo altri dieci anni, Roger T. Bell (1997, XVII) doveva ancora affermare che, fuori dalle competenze linguistiche, non si poteva studiare la traduzione: the major need – from both the theoretical and the practical points of view – is for descriptions and explanations of the process of translating. Such a model will be located within the more general domain of human communication and will, necessarily, draw heavily on both psychology and linguistics.
Per quasi un secolo, fatto imbarazzante, si è continuato a insistere su un fatto così evidente e inconfutabile da costituire una tautologia: per studiare la traduzione, non si può escludere lo studio dei meccanismi che governano le lingue naturali. Si ha la sensazione che queste ripetizioni siano sostanzialmente inutili: chi lo sa, non ha bisogno di sentirselo dire, chi non vuole saperlo, non lo accetta. Se, è opportuno ribadirlo, una dozzina di anni fa, Hans Vermeer (2005) intitolava un suo saggio “Smettiamola di interrogarci sull’oggetto della traduttologia”, un cospicuo numero di persone delegate a occuparsi di traduzione, in tutti i Paesi del mondo, continua a mettere in dubbio non solo l’oggetto della traduttologia, ma la sua legittimità come disciplina scientiica. 2.1. Tra Est e Ovest Fin dagli esordi, alla metà del XX secolo, la traduttologia europea, pur con tutta la difidenza che ha suscitato, ha mostrato una grande vitalità. Al 121
suo interno, si possono distinguere due iloni: quello “occidentale”, sviluppatosi soprattutto in Germania, e quello “slavo”, che si deve ai pionieri dell’Europa orientale, che scrivevano in russo, polacco, ceco, slovacco, bulgaro, e conoscevano molto bene i contributi antichi e recenti pubblicati nelle lingue dell’Europa occidentale9; purtroppo, del loro immenso retaggio ben poco arrivava agli studiosi occidentali, che per lo più non leggevano le lingue slave. Solo pochi teorici occidentali avevano un parziale accesso diretto o indiretto alle ricerche sviluppate dalle scuole di Mosca, Leningrado, Varsavia, Praga e Bratislava (che facevano capo rispettivamente ad Andrej Fëdorov, Stepan Barchudarov, Olgierd Wojtasiewicz, Jiři Levý e Anton Popović): da un lato, alcuni importanti contributi slavi (ad esempio, di Levý e Popović) erano stati comunque tradotti in tedesco; dall’altro, alcuni studiosi europei che conoscevano una o più lingue slave, ma scrivevano in lingue occidentali, facevano da ‘ponte’ tra i due mondi separati dalla “cortina di ferro”. Tra questi, vi erano sia gli esponenti della Scuola di Lipsia (Otto Kade, Gert Jäger, Albrecht Neubert ecc.), che scrivevano in tedesco, ma conoscevano il russo e le teorie sviluppate ‘oltre cortina’10, sia i numerosi studiosi russi emigrati in Europa e negli Stati Uniti, che annoveravano personalità del calibro di Roman Jakobson, una delle menti più brillanti del Novecento. Slavista, formalista e strutturalista russo, naturalizzato americano, Jakobson aveva insegnato in diversi Paesi europei, mantenendo un legame più o meno costante con la Russia. Durante la sua poliedrica carriera di studioso indifferente alle barriere disciplinari, Jakobson si era occupato di ilologia, letteratura, semiotica, psicologia, linguistica e neurolinguistica. Il suo interesse per le afasie e i disturbi del linguaggio (cfr. Jakobson 1971), mutuato dal grande linguista Karl Bühler, dimostrava quanto fosse logico per uno studioso delle lingue e dei testi provare curiosità scientiica per i meccanismi cerebrali del linguaggio11. In ambito traduttologico, Jakobson è ricordato soprattutto per un suo brevissimo saggio del 1959, “Aspetti linguistici della traduzione” (cfr. Jakobson 2008, 56-64), che solo in minima parte rilette la statura del grande studioso, 9. Solo recentemente è stata pubblicata proprio in Italia la prima raccolta di saggi (in inglese) che ricostruisce uno spaccato della traduttologia slava: Translation Theories in the Slavic Country (cfr. Ceccherelli et al. 2015). Si vedano anche Zlateva 1993 (sulla traduttologia russa e bulgara) e Costantino 2009 (su quella polacca). 10. La Scuola di Lipsia è stata un ‘ponte’ importante tra Est e Ovest, grazie al fatto che gli studiosi della RDT potevano essere letti da tutti i colleghi occidentali e veicolare alcune idee sviluppate nei Paesi slavi. 11. Ancora oggi, invece, chi tra i letterati coltiva interessi neuro-cognitivi è guardato con enorme difidenza. Non ci si può esimere dal pensare che, in un sistema settario e mono-disciplinare come quello degli attuali concorsi accademici, un genio enciclopedico come Jakobson avrebbe faticato a ottenere una cattedra universitaria in qualsiasi Paese occidentale.
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ma che ha avuto un’immensa risonanza. Oltre alla nota tripartizione (di cui già si è detto), il saggio proponeva, pur espresse in linguaggio divulgativo, intuizioni di notevole rilevanza teorica. Tra queste, vi era l’idea che le dificoltà dovute alle asimmetrie tra lingue fossero a loro volte asimmetriche (ivi, 58-61), ovvero che tradurre da una lingua X a una lingua Y potesse risultare più facile o dificile rispetto al processo inverso (da Y a X). Ma, soprattutto, Jakobson attestava nel suo saggio l’universale potenziale di tutte le lingue naturali a esprimere l’esperienza umana: Ogni esperienza conoscitiva può essere espressa e classiicata in qualsiasi lingua. Dove vi siano delle lacune, la terminologia sarà modiicata e ampliata dai prestiti, dai calchi, dai neologismi, dalle trasposizioni semantiche, e, inine dalle circonlocuzioni (ivi, 59).
Jakobson (ivi, 61) postulava che le lingue differissero essenzialmente “per ciò che devono esprimere” e non “per ciò che possono esprimere” (corsivo nel testo); solo la poesia, secondo lo studioso, sarebbe stata un limite alla traducibilità e avrebbe richiesto al posto della traduzione una “trasposizione creatrice” (ivi, 63). Altrettanto noto in Occidente è stato anche il contributo del giovane studioso praghese Jiři Levý, prematuramente scomparso nel 1968. Pur avendo pubblicato, nel 1963, una monograia di carattere descrittivo Umění překladu (“Teoria della traduzione”), tradotta in tedesco e in russo, la sua fama è dovuta a un saggio del 1967, pubblicato in inglese: “Translation as a Decision Process” (cfr. Levý 1995)12. In questo lavoro, Levý sosteneva che il processo di traduzione fosse un problema decisionale intrinsecamente gerarchico e riconducibile alla capacità di optare per soluzioni coerenti: una volta presa la prima decisione, “con la propria scelta”, il traduttore avrebbe stabilito “un numero di mosse successive” secondo un “gioco a informazione completa” (ivi, 65). In termini chiari ed economici, senza lesinare esempi eficaci, lo studioso ceco spiegava le modalità per calcolare le variabili e tracciare i criteri prioritari di un “modello generativo” (ivi. 83): ogni decisione ne generava altre. Chiaramente, crescendo la complessità del testo, le conoscenze del traduttore sarebbero dovute crescere in proporzione, in base alle speciicità testuali, stilistiche e lessicali (nel caso della poesia, anche metriche). Nel saggio, dunque, attraverso lungimiranti intuizioni psicolinguistiche, venivano sollevati alcuni dei punti cruciali dell’odierno dibattito sui processi traduttivi. Merito incondizionato di Jakobson e Levý è stato quello di essere rimasti ancorati al procedimento scientiico, immuni da qualsiasi riferimento metaisico, cosa che solo in parte si può dire di Eugene Nida, il grande studioso americano da molti considerato il “padre della traduttologia”. 12. Il saggio era compreso nel secondo volume di una Festschrift per i settant’anni di Jakobson.
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2.2. Eugene Nida, il traduttologo americano A metà degli anni Quaranta, dopo essere stato assunto dalla Società Biblica Americana, Nida intraprendeva un fruttuoso percorso di studi sulla traduzione. Il suo lavoro era il primo tentativo in Occidente di costruire una teoria ampia e pragmatica, basata sia sulla linguistica, sia sulla pratica professionale. Pur lavorando soprattutto a coordinare e dirigere con rigore i lavori di traduzione della Bibbia, Nida si sforzava di proporre un metodo generalizzabile anche agli altri testi. Oltre all’intuito, disponeva di grande competenza traduttiva e di una certa elasticità mentale che gli avrebbe permesso di coniugare la teoria degli universali linguistici con alcuni aspetti dell’ipotesi “Sapir-Whorf”. Inoltre, come già era stato per Trojanskij, prima che fossero diffuse le teorie chomskiane, Nida aveva intuito che le lingue dovessero essere accomunate da una struttura profonda e che proprio questo costituisse il fondamento di una teoria “scientiica” della traduzione. Nel 1964, pubblicava la sua monograia fondamentale, Toward a Science of Translating, che può essere considerato il primo trattato occidentale di traduttologia: per decenni, numerosi studiosi hanno guardato a quest’opera come a una “Bibbia” della teoria della traduzione (Genzler 1993, 44). Nida riteneva che la grammatica di ogni lingua fosse assoggettata a meccanismi trasformazionali prevedibili e formalizzabili, e teorizzava la possibilità di veriicare l’afidabilità di una traduzione mediante il criterio della retroversione (ri-traducendo il TA nella lingua di partenza). L’idea della retroversibilità delle traduzioni per la veriica delle equivalenze funzionali tra un testo e la sua traduzione era audace e appare ancora oggi di straordinaria lungimiranza. Tuttavia, lo studioso americano si rifaceva ancora al non meglio speciicato parametro dello “spirito dell’autore” (Nida 1964, 150-151), rilettendo la stessa dipendenza dei suoi predecessori dai pregiudizi metaisici (cfr. Genzler 1993, 47); la sua teoria dell’“equivalenza dinamica”, quindi, era iniciata da elementi ideistici più di quanto si attenesse ai princìpi scientiici (ivi, 54): “Nida non ci offre una generale teoria della traduzione, suggerendo che, afidandoci ai teologi e pregando, Dio ci darà la risposta” (ivi, 58). In sintonia con la critica femminista (cfr. Simon 1996, 112), Genzler (1993, 60) rilevava come la metodologia suggerita da Nida fosse commisurata a traduttori che si occupavano di “propaganda” religiosa e proselitismo, restando nel complesso scientiicamente limitata: Nida provides an excellent model for translation which involves a manipulation of a text to serve the interests of a religious belief, but he fails to provide the groundwork for what the West in general conceives of as a “science” (ivi).
Curiosamente, Nida resta l’unico vero traduttologo americano. Negli Stati Uniti, infatti, da un lato, i teorici hanno fondamentalmente aderito all’approccio socio-culturale dei TS, estremamente avverso alla linguistica, mentre, dall’altro, i linguisti non si sono occupati di traduzione. Lo iato rispetto 124
all’Europa è evidente. La teoria della traduzione americana è stata e resta appannaggio dei letterati e degli storici della teoria (Lawrence Venuti è, tra loro, il più noto). Quando, a metà degli anni Sessanta, tra le materie accademiche era stata introdotta la traduzione, l’iniziativa veniva da scrittori e poeti (tra cui Ezra Pound) che, nell’ambito del cosiddetto American Translation Workshop (cfr. Genzler 1993, 7-42), si occupavano esclusivamente di traduzione letteraria in ottica culturale: in America, lo studio dei processi è rimasto “the most neglected branch of translation theory (ivi, 41). All’interno del dibattito letterario, le posizioni erano diversiicate, fatta salva la superiorità di letterati e scrittori su linguisti e traduttori, nella sostanziale indifferenza non solo per la linguistica, ma anche per la lingua: Licence has been given to allow translators to intuit good poems from another language without knowledge of the original language or the culture, and, as long as they have some poetic sensibility and good taste, now governed by plain speech and lack of adornment, their translations are accepted. […] Foreign language facility does not seem to be a requirement for entrance to a workshop; poetic sensibility and an ability to write well in English are the most important criteria (ivi, 37).
2.3. La traduttologia sovietica In Russia, la traduttologia, come branca linguistico-formale della teoria della traduzione, risale al 1962, anno in cui fu pubblicato un articolo di Isaak Rezvin e Viktor Rozencvejg dal titolo eloquente “K obosnovaniju lingvističeskoj teorii perevoda” (“Verso la fondazione di una teoria linguistica della traduzione”). Il saggio, denso ma sintetico, costituiva un punto di svolta per la scuola russa e, ancora oggi, si presenta come un manifesto chiaro ed esplicito della traduttologia intesa come “scienza della traduzione”. I due autori si richiamavano ai lavori di Andrej Fëdorov, il più noto teorico russo, che, pur provenendo dal mondo letterario, aveva posto le basi per un dialogo con i linguisti (i quali erano soprattutto matematici e logici). Fëdorov aveva iniziato a pubblicare importanti contributi in dai primi anni Cinquanta: nel 1953, era uscito il celebre volume Vvedenie v teoriju perevoda (“Introduzione alla teoria della traduzione”) e, nel 1968, il volume Osnovy obščej teorii perevoda (“Fondamenti di una teoria generale della traduzione”). Scopo della teoria, secondo Fëdorov (1968, 15), era a) generalizzare, in base ai dati scientiici, le deduzioni tratte dall’analisi di singoli casi traduttivi e b) suggerire ai professionisti modelli di risoluzione dei problemi concreti. Tuttavia, Rezvin e Rozencvejg (1962, 51) osservavano che “nei lavori di A.V. Fëdorov proprio la questione del fondamento di una teoria linguistica della traduzione” era impostata “senza suficiente chiarezza” e spiegavano in che cosa consistesse la teoria linguistica della traduzione. Non si trattava affatto di una teoria normativa, che dovesse stabilire come fare una traduzione, ma di un’elaborazione dei criteri di valutazione: ne scaturiva 125
un modello esclusivamente teorico, mirato alla descrizione del processo di traduzione (la parola “process” veniva evidenziata; ivi, 51-52) e basato sul principio di deduzione. Tuttavia, i due linguisti proponevano una distinzione che, pur senza espliciti riferimenti, riproponeva invertito il modello dualistico di Schleiermacher: da un lato, si parlava di interpretazione (quando il traduttore si rapportava alla realtà che era descritta nel messaggio attraverso la lingua naturale), dall’altro di traduzione (quando il traduttore si rapportava solo alla lingua e ricodiicava il messaggio in lingua d’arrivo senza rapportarsi alla realtà) (ivi, 52-53). Sul piano epistemologico, non c’era alcuna novità, ma era nuovo l’approccio ‘tecnico’ dell’articolo e l’uso coerente di termini chiaramente deiniti, tra cui quello di unità traduttiva (il “segmento semantico minimo”)13. Anche in Russia, la traduttologia nasceva in risposta alla prolissità e all’arbitrio dei letterati, ma reclamando l’indipendenza dal tradizionale approccio umanistico. E i letterati ripagavano con la stessa moneta. In un capitolo della sua seconda monograia, intitolato “Come si è sviluppata nel nostro Paese la teoria della traduzione”, Fëdorov (1983, 155-170), pur appellandosi a criteri di obiettività e rigore, di fatto si soffermava quasi esclusivamente sulle rilessioni soggettive di poeti e letterati (e, doverosamente, sulle traduzioni di Marx); ricordando la spaccatura tra letterati e linguisti avvenuta negli anni Cinquanta, si preoccupava di stabilire chi tra i due ‘contendenti’ fosse legittimato a occuparsi di traduzione letteraria (ivi, 167), ma non citava neppure un nome dei già celebri traduttologi sovietici (Aleksander Švejcer, Vilen Komissarov, Jakov Recker, Leonid Barchudarov) che avevano tentato di costruire modelli uniicati, applicando la linguistica a testi complessi, compresi quelli letterari. Negli anni Settanta, Šveicer aveva pubblicato un paio di libri importanti e, nel decennio successivo, aveva intensiicato la sua produzione. Tra le sue opere principali, merita menzione un ambizioso volume dal titolo Teorija perevoda. Status, problemy, aspekty (“Teoria della traduzione. Lo status, i problemi, i vari aspetti”) (1988), in cui si vedeva il tentativo di coniugare le ambizioni scientiiche con le propensioni romantiche in stretta coesione ideale con i colleghi tedeschi (i più citati). A conclusione del volume, Šveicer (1988, 205) offriva una deinizione della disciplina e del suo oggetto: essendo uno dei più complessi tipi di comunicazione linguistica, la traduzione costituisce un processo pluridimensionale e multiforme, determinato da una quantità di fattori linguistici ed extralinguistici. Tra questi vi sono il sistema e le norme delle due lingue, le due culture, due situazioni comunicative – primaria e secondaria – la situazione concreta, la tipologia funzionale del testo di partenza, le norme traduttive. 13. Ad esempio, “How do you do?”, in quanto unità traduttiva, non può essere tradotta come somma dei componenti (how+do+you+do), ma mediante un segmento unitario (in italiano, “Come va?”)
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Tra i meriti principali di Švejcer (ma per Fëdorov era un demerito), vi era quello di aver deinito la traduzione come oggetto di studio della linguistica e di aver fornito un quadro coerente di istruzioni professionali utili anche ai traduttori tecnici; tra i suoi limiti, c’era la mancanza di premesse epistemologiche chiare. Purtroppo, dopo Rezvin e Rozencvejg, la traduttologia sovietica ripiegava su intenti pratici, mirando soprattutto a offrire ai professionisti alcuni schemi modellati sui concetti di tipologia e funzione, e ipotizzando che la traduzione comportasse necessariamente una ‘perdita’. Pur aiutando i traduttori a prendere atto della complessità del mestiere, le classiicazioni banalizzavano gli aspetti teorici, riducendoli in parte a schematismi: quando Švejcer parlava di processo traduttivo – come numerosi suoi colleghi d’oltrecortina – intendeva, banalmente, la “pratica”. Nelle sue pagine non si ritrovano mai affermazioni avventate o controvertibili, ma solo attinenti gli aspetti ‘supericiali’ dell’attività professionale che, tra l’altro, riproponevano l’annoso binomio letteralismo/libertà: Il processo della traduzione si svolge su una serie di opzioni. Durante la prima tappa il traduttore si trova dinanzi alla scelta della strategia. Così, ad esempio, la preferenza può essere accordata alla traduzione precisa a livello testuale, che si avvicina al letteralismo o, al contrario, a una traduzione che si allontani con forza dalla struttura formale dell’originale e che si avvicini a quella libera. In questa decisione può avere un ruolo decisivo il genere testuale (ivi, 65).
In generale, la teoria sovietica aveva creato per prima le premesse di un approccio realmente interdisciplinare, coinvolgendo nel dibattito la psicologia, le neuroscienze, la cibernetica, la semiotica (cfr. Salmon 2015)14. Tuttavia, a causa del declino della ricerca scientiica successivo allo scioglimento dell’URSS, le ricerche si sarebbero concentrate sui case studies, adagiandosi sui traguardi del passato15. 14. La scuola russa ha sviluppato al meglio, per esempio, due concetti fondamentali di cui si è poco occupata la teoria occidentale: il primo è quello dei realia, ideato per la prima volta dagli studiosi bulgari Sergej Vlachov e Sidor Florin (cfr. Vlachov, Florin 1986) e sviluppato da Venedikt Vinogradov (2001); il secondo è quello delle lacune casuali, ideato in realtà dai traduttologi francesi Jean-Paul Vinay, Jean Darbelnet e Alfred Malblanc, ma approfondito nei decenni successivi da numerosi traduttologi russi e slavi. I realia (termine mutuato dalla traduttologia tedesca e italiana) sono parole di una linguocultura attinenti a referenti concreti o astratti di quella singola cultura (ad esempio, “croissant”, “tokaj”, “leghista”, “glasnost’”, “watergate” ecc.); le lacune sono parole di una linguocultura attinenti a referenti concreti e astratti che sono universali, ma che non tutte le linguoculture nominano con un termine (ad esempio, “zapoj”, che indica uno stato di alcolismo in cui si alternano periodi di totale astinenza dall’alcol a periodi di consumo illimitato, che può condurre, nei casi estremi, al coma etilico). In Italia non si usa il “samovar”, ma la parola è entrata come realia nel dizionario dell’italiano, mentre “zapoj” esiste nella realtà italiana, ma non c’è un termine che lo indichi: è una lacuna. 15. Nella Russia odierna, permane un forte interesse per la traduzione e non solo nelle università e nel mondo della cultura, ma anche tra i lettori, che sono tra i più numerosi al mondo.
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2.4. La traduttologia tedesca La scuola di traduttologia tedesca, dell’Est e dell’Ovest16 è stata estremamente produttiva. Tra gli studiosi tedeschi d’impronta linguistica, i nomi più signiicativi sono quelli di Otto Kade, Wolfram Wilss, Jörn Albrecht, Katharina Reiss, Hans J. Vermeer, Albrecht Neubert, Gert Jäger, Werner Koller, Christiane Nord17. Se gli studiosi occidentali utilizzavano il termine Übersetzungwissenschaft, (“scienza della traduzione”), compatibile con la tradizione umanistica, la scuola di Lipsia, più rigorosamente linguistica, aveva inaugurato il termine esplicitamente ‘tecnico’ di Translation/Traslatologie; secondo i teorici di Lipsia, la traduzione era “un atto linguistico che consiste in un processo di decodiicazione-ricodiicazione” (Bianchi 1989, 49)18. A inaugurare la traduttologia della Germania dell’Ovest e dell’Est, furono rispettivamente Wilss e Kade. Entrambi condividevano una programmatica difidenza per il relativismo linguistico, opponendosi al principio romantico dell’intraducibilità. Secondo Wilss (1977), il presupposto teorico della traducibilità era garantito dagli universali linguistici; tuttavia, sia Wilss, sia Kade criticavano il disinteresse che la linguistica chomskiana riservava alla pragmatica e alla psicolinguistica e, come i traduttologi russi, consideravano la linguistica strutturale insuficiente a spiegare i processi traduttivi (cfr. Bianchi 1989, 36-37). I traduttologi tedeschi tentavano, come i colleghi slavi, di costruire tassonomie utili a differenziare l’approccio del traduttore a testi diversi, ma utilizzavano in modo confuso alcuni termini fondamentali, alimentando lo scetticismo sia dei letterati, sia dei linguisti. Particolarmente nociva è stata la confusione tra i termini “equivalenza” e “invarianza” che creava una grave ambiguità, pregiudicando i presupposti fondamentali di un modello unitario: La parola-chiave della Übersetzungwissenschaft sul piano normativo è “equivalenza”. Per qualche tempo all’inizio (soprattutto dalla “scuola di Lipsia” […]) è stato usato il termine “invarianza”, ma ben presto si è sentita la necessità prima di coniugarlo, poi di sostituirlo con l’altra più elastica nozione, quella di equivalenza appunto […] (Bianchi 1989, 45)19. 16. Sorprende che, nella sua antologia del 1995, Siri Nergaard abbia incluso autori come Lotman e Gadamer (che non si sono mai occupati direttamente di traduzione), senza annoverare neppure uno dei più noti traduttologi tedeschi (per non dire dei russi e dei polacchi). In generale, l’assenza della traduttologia linguistica dalle antologie occidentali è sintomatica di un sostanziale disinteresse. 17. Per una visione complessiva, cfr. Bianchi 1989, Apel 1993, Fawcett 1997, Bertozzi 1999. Non vengono qui inclusi gli studiosi austriaci (la più nota, Mary Snell-Hornby, è di origine britannica e scrive prevalentemente in inglese), in quanto la scuola di Vienna avrebbe sostanzialmente aderito ai TS, manifestando un particolare interesse per la Skopostheorie. 18. In seguito, parte della traduttologia tedesca, soprattutto la scuola di Lipsia, si è orientata in direzione della linguistica testuale e della pragmatica, ponendo le basi delle teorie funzionaliste. 19. I due concetti, nati in modo analogamente confuso nella traduttologia slava, sono in
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In realtà, si erano create diverse categorie di “equivalenza” che rendevano i modelli farraginosi e frammentari, negando di fatto che si potesse trovare un parametro di equivalenza valido in modo generalizzato. Inoltre, anche i traduttologi tedeschi, più o meno esplicitamente, avevano ripiegato sulla bi-teoria: Wills, Koller e altri avevano inito per proporre due modelli teorici diversi per la traduzione del testo letterario o “scientiico-tecnico” (ivi, 45-47). Di fatto, era una ‘resa’ ai presupposti romantici, l’ammissione dell’impossibilità di studiare la traduzione dei testi complessi con il metodo scientiico. In sintesi, la traduttologia tedesca è stata criticata da tre punti vista: quello drastico dei postmoderni, emblematicamente rappresentato da Friedmar Apel (1993), che metteva in dubbio non solo la “scientiicità” della traduttologia, ma la sua stessa legittimità in quanto disciplina (ivi, 33-35, 47-51); quello di Genzler (1993, 67), che imputava ai traduttologi tedeschi affermazioni sulla natura della lingua troppo riduttive e non supportate da dati e argomentazioni; quello, inine, dell’ermeneutica tedesca, che considerava ingenua l’illusione di stabilire una corrispondenza tra i testi senza tener conto dei fattori extra-testuali legati alla ricezione (cfr. Bertozzi 1998, 91). In deinitiva, si era rivelata “insostenibile” l’ambizione di lasciare fuori dalla traduttologia l’analisi letteraria (Bianchi 1989, 57), rinunciando a qualsiasi intento generalizzante. La virata della traduttologia linguistica in direzione della “relativizzazione del processo traduttorio” (ivi, 54) ha sicuramente contribuito a sviluppare l’approccio funzionale su cui si sarebbe basata la Skopostheorie, un modello di enorme successo che, dal rigore della linguistica, passava a un funzionalismo estremo. Inizialmente formulata da Reiss e Vermeer (1984), poi integrata nei lavori di Christiane Nord e altri, la Skopostheorie partiva da una concezione di “equivalenza” non schematica e non rigida: criterio dell’equivalenza non erano più le strutture linguistiche, bensì lo scopo dell’atto traduttivo che assurgeva all’apice della gerarchia decisionale del traduttore. Lo “scopo” poteva variare a seconda del punto di vista (quello dell’editore, dell’autore, del lettore, della singola contingenza ecc.). L’importanza della teoria consisteva, paradossalmente, nel delegittimare istruzioni valide ‘sempre e comunque’ per qualsiasi testo, persino per una singola tipologia; in buona parte, quindi, la teoria tedesca si conciliava con i TS in direzione di un rinnovato arbitrio: eliminando la fase linguistico-contrastiva, la Skopostheorie si limitava a suggerire al traduttore una completa coerenza rispetto al progetto, ribadendo il legame primario tra teoria e pratica professionale, ma perorando l’impossibilità di un modello unitario. realtà diversissimi, poiché l’invarianza indica ciò che accomuna tutte le opzioni, tra cui una sola è quella equivalente sul piano funzionale (per lo più corrispondente, in tedesco, alla “kommunikative Äquivalenz”).
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In quest’ottica, la critica della traduzione avrebbe avuto il solo compito di veriicare la coerenza tra strategie e intento progettuale secondo il principio “lo scopo giustiica i mezzi” (cfr. Bianchi 1989, 54). 2.5. La traduttologia in Francia, Inghilterra, Italia Rispetto alla traduttologia tedesca e slava, negli altri Paesi europei, i contributi rimanevano circoscritti a singoli autori. In Francia, ad esempio, l’unico celebre contributo dedicato alla traduttologia linguistica, ma mirato all’analisi contrastiva tra due sole lingue (inglese e francese), resta la nota e pionieristica monograia di Vinay, Darbelnet (1958) Stylistique comparée du français et de l’anglais. Merito indiscusso dell’opera era l’utilizzo di termini rigorosi ed eficaci, come “equivalenza”, “unità traduttiva”, “calco” ecc., che ancora oggi, pur con varie distinzioni, sono usati da tutti i traduttologi in lingue diverse20. Successivamente, oltre al noto George Mounin, cui si devono due monograie di carattere storico-descrittivo (1963 e 1965, la seconda pubblicata ex novo per Einaudi in italiano), non vi sono opere di rilievo in ambito linguistico. Il contributo della Francia agli studi su lingua e traduzione è stato ben più signiicativo nel campo dell’interpretazione e, recentemente, in quello dei corpora e della terminologia. In sostanza, alla ine del XX secolo le teorie francesi sulla traduzione si dividevano in due correnti contrapposte, entrambe di ispirazione ilosoicoletteraria e lontane dalla traduttologia linguistica: l’una “ermeneutica” (rappresentata da Ladmiral), l’altra “etico-letteraria” (rappresentata da Meschonnic; cfr. Scotto 2002, 34-35). Jean-René Ladmiral, traduttore di Nietzsche, nel volume Traduire: théorème pour la traducion (1994), non considerava, in realtà, alcun problema linguistico, limitando il suo interesse alla semiotica che, sulla scia di Hjelmslev e Barthes, considerava una “linguistica delle connotazioni” (ivi, 149, 191). Secondo Ladmiral (ivi, 212), la traduttologia non avrebbe portato a scoperte o rivelazioni, ma avrebbe solo aperto “inestre” sulla pratica traduttiva; addirittura, diceva, la teoria non avrebbe potuto apportare “sapere supplementare”, ma solo “concetti” grazie ai quali descrivere la “pratica” (per un esperto di ilosoia, è strano ritenere che i concetti non siano “sapere”). L’ambigua posizione di contrasto tra “teoria della traduzione” e “traduttologia”, tra “storia” e “pratica” emerge, quasi programmatica, dalle denominazioni stesse che Meschonnic selezionava per il suo principale libro sulla traduzione, Poétique du traduire (1999): un capitolo veniva intitolato “La pratique, c’est la théorie” (ivi, 73-277), un altro “La théorie, c’est la pratique” (ivi, 279-526), e un paragrafo, emblematicamente, “Poétique 20. Mantenevano, tuttavia, espressioni come “traduzione letterale”, le quali, oltre a restare vaghe e poco scientiiche, erano ridondanti (il termine “calco”, opportunamente qualiicato, consente di sostituire qualsiasi accezione dell’espressione “traduzione letterale”).
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du traduire, non traductologie” (ivi, 75-79); qui Meschonic siglava con argomentazioni esclusivamente culturologiche la distanza tra la teoria e la scienza: “la poetica del tradurre, quindi, non è una scienza in nessuno dei signiicati della parola scienza” (ivi, 77; corsivo nel testo). In campo “linguistico”, secondo Scotto (ivi, 36-37), ci sarebbe stato in Francia il solo Antoine Berman che, in realtà, considerava la traduzione una “scrittura autonoma” (ivi), negando il fondamento stesso delle teorie linguistiche, ovvero di qualsiasi tipo di analisi formale e contrastiva (cfr. Berman 1994). I suoi scritti paiono assimilabili al dominante postmodernismo che, con le sue “allergie alla scienza” (Bloch 2000, 191), ha pesato profondamente sulla cultura francese nella seconda metà del Novecento. Si deve, tuttavia, proprio a un cultore del francese il miglior saggio italiano di traduttologia linguistica del Novecento. Con il volume Analisi linguistica e traduzione, Enrico Arcaini (1991) forniva il più rigoroso contributo allo sviluppo delle ricerche traduttologiche nel nostro Paese21. In Italia, la traduttologia linguistica era stata tradizionalmente surclassata da innumerevoli studi sulla traduzione letteraria in chiave ilosoica o culturologico-descrittiva e, in campo linguistico, dalle ricerche computazionali e terminologiche; il saggio di Arcaini ha avuto così ben meno riscontri di quanto avrebbe meritato. In Inghilterra, dagli anni Settanta divenuta la ‘patria’ dei TS, programmaticamente ostili alla traduttologia linguistica, si è avuto un solo, ma importantissimo corifeo della traduttologia linguistica: John Catford. Nel 1965, Catford pubblicava A Linguistic Theory of Translation: An Essay in Applied Linguistics (1969), con cui cercava di promuovere in Europa il ruolo della linguistica negli studi sulla traduzione, avanzando una prima differenziazione tra criterio linguistico e criterio funzionale. Secondo Bassnett (BassnettMcGuire 1993,170), proprio questo suo intento, che oggi può parere il maggior pregio di Catford, era il principale difetto dell’opera: l’autore affronta l’argomento attraverso una discussione della teoria generale della linguistica e di conseguenza la traduzione non viene studiata come disciplina in se stessa, ma serve da esempliicazione per alcuni aspetti della linguistica applicata.
In realtà, Catford è stato il primo traduttologo a porre le basi per costruire un modello teorico generalizzato, che valesse per tutti i tipi di testo. Utilizzando una terminologia chiara e coerente, il libro evidenziava il ruolo fondamentale dei concetti di “equivalenza” e di “corrispondenza formale”, nonché l’attenzione ai diversi aspetti della lingua (fonologia, scrittura, grammatica, lessico) e alle varietà linguistiche. Particolarmente interessante dal punto di vista epistemologico è l’ultimo capitolo dedicato ai “limiti della traducibi21. Scotto (2002, 37-38), nella sua sintesi sull’Italia, non menziona neppure Arcaini, ma solo letterati e ilosoi ostili a considerare che la traduzione possa comprendere una qualsiasi forma di “equivalenza” tra “codici”.
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lità”, dove Catford (1969, 93) evidenziava l’errore di differenziare, in ottica binaria, il “traducibile” dall’“intraducibile”. Gli pareva ben più utile distinguere tra “pertinenza linguistica” e “pertinenza funzionale”: la sola “intraducibilità” poteva riscontrarsi laddove non si fosse riusciti a ottenere una corrispondenza “funzionale” (ivi, 94). Catford, che aveva intuito autonomamente le questioni cruciali che Levý avrebbe affrontato un paio di anni dopo, resta in Occidente il pioniere più importante della sua epoca. Successivamente, a partire dai primi anni Ottanta, grande inluenza ha avuto un altro studioso inglese, Peter Newmark. Con il suo Approaches to Translation (La traduzione: problemi e metodi) del 1981, Newmark (1988) tentava di conciliare l’approccio linguistico con quello dei TS. Merito notevole di Newmark (unico nel panorama europeo occidentale) era stato quello di aver dedicato molte e dettagliate pagine alla traduzione dei nomi propri (ivi, 129-151), pur ignorando del tutto l’esistenza sia dell’onomastica, sia degli studi sui realia (che sono in buona parte nomi propri): la sua opera, infatti, è caratterizzata da vistosi difetti epistemologici22. A questo volume ne sarebbero seguiti altri, sempre di carattere manualistico. In generale, ino alla ine del XX secolo, nel panorama accademico europeo ha dominato una trasversale difidenza per la traduttologia. Da un lato, i traduttologi erano disprezzati dai letterati in quanto ‘troppo linguisti’; dall’altro, erano disprezzati dai generativisti come ‘dilettanti della linguistica’ che, per di più, si occupavano di una disciplina di dubbia dignità che nulla poteva avere a che spartire con la linguistica: Non sorprende quindi che la teoria chomskiana in tutte le sue versioni non offra al processo traduttivo una collocazione adeguata. La traduzione, con tutta la dimensione interlinguistica, resta in realtà esclusa. La ragione speciica sta nella natura intralinguistica della struttura profonda chomskiana (Rigotti 1982, 76).
3. Algoritmi ed euristiche: le strategie del “problem solving” 3.1. La metafora computer/cervello Davvero sorprende che l’acclamata ipotesi che esista un dispositivo innato per l’acquisizione delle lingue naturali (detto da Chomsky Language 22. In La traduzione: problemi e metodi, non solo la rilessione epistemologica sui concetti e i relativi termini è assente, ma le conclusioni, formulate con troppa sicurezza, contribuiscono a fornire una visione concettualmente semplicistica (limitata alle strutture di supericie) e, al tempo stesso, rigida: la confusione tra i termini “traduzione” (utilizzata al tempo stesso per processo e prodotto) e “strategia” è notevole e le etichette “esatto”, “signiicato”, “originale” e “teoria” sono assunte con intento prescrittivo, ma fuori dal rigore dell’indagine linguistica (non a caso l’autore cita Benjamin, Nabokov e Ortega y Gasset: Newmark 2988, 79). Il volume di Newmark, tuttavia, proprio grazie al suo schematismo, è un utile strumento per un primo approccio alla teoria occidentale che va comunque oltre la descrizione storicistica.
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Acquisition Device o LAD) non sia stata logicamente estesa all’ipotesi che esista anche un ‘Translation Device’, cioè un dispositivo innato per la traduzione. Infatti, pur con i limiti dell’inesperienza, i bambini bilingui sono in grado di tradurre frasi semplici da ognuna delle due lingue all’altra e spesso lo fanno in modo spontaneo e seguendo un istinto funzionale. Le operazioni che affrontano senza alcuna preparazione i ‘traduttori spontanei’ sono computazioni estremamente soisticate, ma non dissimili da quelle che, crescendo, affrontano tutti gli esseri umani per passare dal dialetto famigliare alla lingua usata a scuola, da un registro all’altro, dal lessico gergale o scurrile a quello accettato in ogni ambiente. Non risulta alcuno studio scientiico che invalidi l’ipotesi semplice e lineare che ogni umano bilingue sia potenzialmente in grado, previo addestramento, di tradurre mediante procedure interlinguistiche tipologicamente afini a quelle intralinguistiche che gli umani realizzano di continuo. Né esistono studi scientiici che dimostrino che i processi traduttivi non rientrino nella categoria dei processi decisionali che richiedono, per essere affrontati con successo, di disporre di strategie di “problem solving” che sono compatibili con qualsiasi cervello umano bilingue. Eppure, parrebbe trattarsi di un’idea rilevante per gli studi sui “sistemi intelligenti” anche se è dificile indagarla sperimentalmente, come del resto può dirsi del LAD. A differenza dei prodotti, il cui studio può limitarsi all’indagine storicoculturologica, non è possibile studiare i processi traduttivi umani fuori da un modello psico-cognitivo della mente/cervello. Alcuni scienziati, per capire come funzioni l’intelligenza umana, optano per un modello analogico: la mente umana viene considerata come una sorta di “facoltà emergente” del sistema neurocerebrale, capace di eseguire diversi procedimenti logici o pseudo-logici che, sempre in termini igurati, costituiscono un insieme di ‘programmi in funzione parallela’. Pur difettosa, la metafora della computazione elettronica applicata alla mente umana (l’analogia computer/cervello) può rivelarsi tanto utile quanto la metafora del cervello umano è stata cruciale per il decollo dell’IA (Longo 1998, X). Come afferma Jack M. Balkin (1998, 15-16): For most of us, then, what we mean by “the computer” includes all the capacities made possible by the interaction of its hardware and software. In human beings, of course, the matter is much more complicated. A complex interaction of cultural software, genetic predisposition, and environmental inluences creates the entity we know as the person […]. Hence the connection between the biological structures of our understanding and the processes of social learning is closer in humans than the relation of hardware to software in any existing computer.
Sempre per analogia, il processo traduttivo può essere rappresentato nei termini di una computazione mirata alla commutazione di un testo da un codice all’altro che si avvale di un hardware biologico per effettuare operazioni elettrochimiche attraverso i neuroni. Dunque, la competenza traduttiva potrebbe essere vista come il progressivo addestramento di un insieme di reti 133
neuronali interattive, programmate dall’esercizio per questo speciico compito. Potenzialmente, qualsiasi persona ha in dotazione alla nascita un dispositivo in grado di acquisire una L1 (lingua nativa), di acquisire una L2 (lingua seconda) e di esercitarsi a convertire testi dall’una all’altra lingua; questa ‘commutazione’ si avvale di una serie di circuiti primari (programmi) e secondari (sotto-programmi) che usano chunk di informazione registrati nella memoria a lungo termine (dati), dotati di sistemi di auto-apprendimento, auto-correzione e rinforzo. Secondo questa prospettiva, diversamente dalle altre specie, abbiamo tutti in dotazione un codice genetico (biologico) che ci rende ‘animali traduttivi’; i primati, invece, pare siano dotati esclusivamente di facoltà di decodiicazione elementari, basate su rilessi condizionati innati o sull’imitazione (un certo suono emesso da un animale indica pericolo e il branco scappa; un certo suono emesso dall’uomo è riprodotto dal pappagallo, che ripete senza capire). Dunque, un traduttore – come un chirurgo, un tennista o un pianista – è un individuo che, accumulate le basilari conoscenze esplicite (consapevoli) necessarie per avviare l’addestramento, sfrutta le potenzialità comuni a tutta la specie, formando ed esercitando circuiti cerebrali sempre più soisticati, automatizzandoli e trasformando le conoscenze esplicite in abilità implicite (procedurali). Chiunque può imparare a suonare il piano, a giocare a tennis, a operare i pazienti e a tradurre, e chiunque, con dedizione, passione e tempo, può diventare un serio professionista in tutti questi campi: in pochi vinceranno tornei o premi internazionali, in pochissimi passeranno alla storia, ma lo studio e l’addestramento per automatizzare le procedure restano per tutti (anche per Rubinstein, Federer o Barnard) l’unica strada per diventare ‘professionisti’. Molti, invece, riiutano categoricamente l’analogia cervello/computer. Alcuni, pur accettando la materialità della mente umana, considerano quell’analogia inutile o fuorviante e ritengono impossibile districare con il metodo scientiico una complessità che parrebbe andare oltre le capacità della scienza e delle umane facoltà: pur trattandosi di un mistero isico, resterà tale perché non è scientiicamente sondabile. Altri negano del tutto il fatto che la mente umana sia l’esito di un processo isico, biologico e materiale: aderendo al dualismo cartesiano, considerano la mente come immateriale ed esterna alle leggi del mondo isico, e vedono le ‘attività mentali’ come ontologicamente superiori, più nobili e insondabili delle attività ‘isiche’. Secondo questa posizione, un poeta non saprebbe scrivere versi perché – grazie alla passione e alla motivazione – ha imparato a farlo, leggendo, scrivendo, esercitandosi (come capita ai pianisti, ai tennisti o ai chirurghi), ma solo perché ispirato da qualcosa di extra-naturale, accessibile solo a pochi ‘eletti’. In quest’ottica, il ‘vero’ traduttore di poesia o di testi sacri non sarebbe un professionista esercitatosi con continuità, ma il destinatario di un’ispirazione esterna che gli renderebbe accessibile il mysterium. Questa posizione è per deinizione estranea allo scambio dialogico della comunicazione scientiica, in quanto sostituisce all’indagine un concetto, l’ispirazione, che non è una 134
semplice metafora delle abilità cognitive, ma un deus ex machina (un “gancio appeso al cielo”). In realtà, non solo non c’è nulla di mentale nell’uomo che non sia anche isico (Damasio 1995), ma neppure l’intuizione è mai metaisica: Ogni volta che qualcuno dice di aver risolto un problema “con l’intuizione”, ciò che intende veramente è “non so come l’ho risolto”. Il modo più semplice di fare un modello dell’“intuizione” in un computer si ha semplicemente negando al programma l’accesso al proprio funzionamento interno. Ogni volta che risolve un problema e gli si chiede come ha fatto, dovrebbe rispondere “Non lo so, m’è venuto per intuizione” (Dennett 1997, 564).
Per indagare la traduzione secondo un percorso d’indagine coerente ai presupposti del dialogo interdisciplinare e ai dati oggi disponibili, non si può non assumere che i processi traduttivi implichino facoltà species-speciic, competenze pregresse e l’addestramento a una massiccia e intricata attività neuronale paragonabile a quello dell’apprendimento artistico, del ragionamento matematico e dell’intelligenza sportiva. Che si accetti o si riiuti la metafora cervello/computer e mente/software, che si voglia distinguere nettamente l’intelligenza biologica da quella artiiciale o, al contrario, cercarne le analogie, non pare che esistano per qualsiasi sistema intelligente humalike ininiti modi di problem solving (senza contare i rilessi condizionati e le reazioni stereotipate geneticamente programmate). Sostanzialmente esistono due categorie di strategie per risolvere problemi: gli algoritmi e le euristiche. Ovviamente, le due strategie possono fondersi o alternarsi in molti modi diversi e prevedere gradi differenti di determinismo o di soluzione aperta, possono applicarsi bottom up o top down, ma rispecchiano tendenzialmente queste due modalità. La traduzione, intesa come l’insieme di operazione decisionali con alto tasso di dati, non può fare eccezione e non c’è nulla di male a vedere nel cervello umano una ‘centralina’ che esegue calcoli. Come scrive Edoardo Boncinelli (1999, 91): La natura ha inventato la digitalizzazione molto prima dell’informatica, senza utilizzare valvole o transistor, ma impiegando qualcosa di molto simile a una serie di circuiti integrati capaci di oscillare fra due stati, quello acceso o quello spento, che possiamo anche chiamare stato 1 o stato 0.
3.2. Algoritmi ed euristiche: deinizioni La mente umana, per risolvere qualsiasi problema, si avvale o A) di conoscenze esplicite (coscienti) o B) di procedure implicite (automatizzate), che consentono alle conoscenze di trasformarsi in schemi afidabili per ottenere risultati ottimali in breve tempo, o C) di entrambe. Prima di esercitarsi in una procedura, infatti, si possono ricevere istruzioni pre-esistenti (top down) o ricavarle secondo il metodo “per tentativi ed errori” (bottom up) o combinare 135
i due metodi. Il metodo per tentativi ed errori non è mai casuale, ma segue comunque una logica, magari inconscia e intuitiva, che riduce sia i tentativi, sia gli errori. In ogni caso, anche chi dà priorità alla “pratica” è avvantaggiato da istruzioni già pronte, sperimentate, che evitano il più possibile i tentativi del tutto inutili o dannosi (non tutti gli errori sono uguali). Per ‘addestrare’ alle procedure, cioè per aiutare qualcuno a trasformare le conoscenze astratte, trasmesse da altri, in abilità esecutive, si devono distinguere due casi: 1) le situazioni del tutto prevedibili, assoggettabili a istruzioni generalizzabili e complete, applicabili in modo ripetitivo secondo strategie sistematiche di risoluzione del problema dette “algoritmi”23; 2) le situazioni nuove, imprevedibili nel sistema generale e assoggettabili a strategie parzialmente intuitive e soggettive dette “euristiche”24. Gli algoritmi sono programmi che soddisfano le condizioni di completezza, non ambiguità e coerenza (Tabossi 1998, 41; Miram 1998, 29-33), sebbene non necessariamente un algoritmo rappresenti una ricerca esaustiva di un problema risolvendolo completamente (Moates, Schumacher 1983, 373) 25. Ci sono algoritmi top down e bottom up: per il primo tipo (dall’alto), di solito, si cita l’esempio del cosiddetto “algoritmo euclideo”, che consente con la regola generale di individuare uno speciico massimo comun divisore di due cifre note (cfr. Penrose 1996, 18), ma si potrebbe anche citare una ricetta comprensiva di ogni mossa che porti a un esito perfetto. La strategia dal basso, viceversa, è quella che consente di risalire a una premessa teorica generale dai dati particolari: in psicologia, ad esempio, analizzando un ampio numero di risposte agli stimoli, si risale alla regola generale26. In sintesi, “ogni programma di un computer è un algoritmo” (Dennett 1997, 51) e può essere eseguito ripetutamente – se si dispone dei dati e del tempo necessari alla computazione – da qualsiasi sistema intelligente, secondo lo schema: se P, allora Q Questo schema consente – potendo deinire P e Q, e avendo tempo suficiente – di effettuare una ricerca per veriicare se l’opzione conside23. Il termine algoritmo deriva dalla variante latina, Algorismus, del nome del matematico persiano Abū Jaʿfar Muhammad ibn Mūsā Khwārizmī (IX secolo). 24. Il termine euristica deriva dal greco “heurískō” (“trovo/scopro”). 25. In informatica, per algoritmo si intende “la descrizione di un processo che opera su oggetti che sono rappresentazioni simboliche di dati” (Siciliano 1983, 29). Gli algoritmi di questo tipo sono ideali per costruire l’IA, ma non se si vuole un’intelligenza humanlike; infatti, gli umani alternano continuamente algoritmi ed euristiche, cioè inferenze, induzioni e intuizioni che caratterizzano la potenziale ‘elasticità’ mentale della nostra specie. 26. “Top down” e “bottom up”, in terminologia attualizzata, corrispondono ai concetti di deduzione e induzione.
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rata è uguale o diversa da P e di concludere la computazione secondo lo schema: sì ∨ no ➝ stop computing27
L’algoritmo è un ‘programma’, un ‘insieme di regole’, un ‘sistema di calcolo’, una ‘ricetta’ che permette di giungere a una soluzione secondo lo schema logico, affrontando uno o più passaggi. Supponiamo di avere il problema Y, con Y = “come andare nel modo più rapido da casa all’università con il motorino”, e supponiamo che la soluzione veriicata di Y sia l’“Itinerario A”, l’algoritmo sarà formalizzabile come: se Y, allora “Itinerario A” L’“Itinerario A” può essere stato trasmesso da altri a chi lo applica (top down), oppure può essere ricavato autonomamente bottom up, eseguendo con il motorino tutti gli itinerari possibili ed escludendoli tutti tranne il più veloce. L’“itinerario A”, a sua volta, sarà composto da una serie di sub-routine isse [vai dritto], [volta a destra in concomitanza del Bar B], [all’incrocio, imbocca la rotonda], [seconda uscita] ecc., e da una serie di variabili prevedibili (come le condizioni del tempo, il trafico, le scolaresche che intasano le strisce pedonali ecc.), le quali integrano l’algoritmo principale: se Y e se piove, allora “Itinerario A” ∧ “esci 20 min. prima”28 Finché i dati non cambiano (casa, università, mezzo, trafico, meteo ecc.) e si dispone del tempo per acquisire e applicare l’algoritmo, si ha la certezza di avere una regola completa e coerente. L’applicazione “Itinerario A” risponde a un algoritmo deterministico. Se ci fossero due soluzioni altrettanto buone, di cui una prevedesse che si scegliessero i passi successivi (se [si gira a destra e poi dritto] o se [si va dritto e poi a sinistra] ➝ il tempo è lo stesso), si avrebbe un algoritmo non deterministico: se Y, allora “Itinerario A1” ∨ “Itinerario A2”
destra dritto
Poniamo, invece, che una delle sub-routine non sia applicabile perché i dati sul trafico sono cambiati e/o possono continuare a cambiare: questo rende inapplicabile l’algoritmo rigido e il sistema intelligente non riesce a decidere. Se un incidente impone di voltare a sinistra invece di voltare a destra o di andare dritto, entrambi gli itinerari A1 e A2, che garantiscono di arrivare puntuali a lezione, non possono più essere applicati. Si deve cercare una 27. Il simbolo logico “∨” indica “aut” (disgiunzione esclusiva). 28. Il simbolo logico “∧” indica “e” (congiunzione logica).
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nuova strategia, basata su un’intuitiva valutazione delle possibilità, che dovrà essere per forza veloce ed eficace e magari contemplerà una violazione del codice stradale, aggiungendo il calcolo della probabilità di prendere la multa. Questa strategia sarà un’euristica e si applicherà per risolvere Y quando non si può applicare l’algoritmo o una sua sub-routine. Il concetto di euristica non ha una deinizione universale neppure tra i logici matematici, ma, in modo approssimativo, si tratta di una strategia che considera, tra le soluzioni possibili, solo “quelle più promettenti, ignorando invece quelle poco probabili o addirittura implausibili” (Tabossi 1998, 59). In altre parole, si tratta di una ‘scorciatoia’ e di una scommessa: si selezionano i dati della ricerca, aggirando quelli mancanti, riducendo costi e tempi della ricerca e della soluzione (cfr. Moates e Schumacher 1983, 373). Secondo Dennett (1997, 264), le strategie euristiche umane, generalizzanti e probabilistiche, sarebbero in realtà forme di algoritmi non deterministici, sempre potenzialmente indagabili in termini formali, ma a volte inafferrabili in quanto parti di un enorme programma “orrendamente complicato e sconosciuto” (ivi, 563). Nel caso del problema Y, se l’imprevisto incidente determina una riduzione del tempo a disposizione per percorrere un nuovo itinerario diverso dai due noti (≠ A1, A2), le decisioni andranno prese in fretta (non si può ritardare all’università), secondo parametri probabilistici; si segue una ‘logica parziale’, di tipo intuitivo, che non dà certezze, ma consente di evitare tutte le veriiche per risolvere Y: se Y ∧ incidente, allora vai a sinistra ∧ itinerario ≠ A1, A2 ➝ cerca “Itinerario B”
L’euristica, quindi, è una strategia di ricerca ad hoc della soluzione di un problema che tiene conto di parametri generali e di interpretazioni in parte soggettive, che solo parzialmente è formalizzabile, ma prevede routine e sub-routine riconducibili ad algoritmi non deterministici (che consentono di convalidare o scartare un’ipotesi secondo lo schema “Sì/No”)29. Chi scappa da un malintenzionato inseguitore cerca con la massima velocità mentale di risolvere una quantità elevata di sub-routine formalizzabili solo a posteriori, mirate alla soluzione “mettersi in salvo”, scommettendo sui dati disponibili: se scappo dentro un portone, allora resto intrappolato nell’ediicio ➝ No ➝ cerca ancora se entro nel bar pieno di gente, allora probabilmente sono salvo ➝ Sì ➝ stop computing Talvolta, un’euristica può essere formalizzabile e prevedibile in modo preciso e completo come un algoritmo. Ad esempio, si sa che, per moltiplicare un numero N per 9, la scorciatoia ad hoc preferita dagli umani non è 29. Esistono anche algoritmi di tipo euristico che “indovinano” la soluzione invece di calcolarla, vengono chiamati “oracoli”.
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l’algoritmo universale di moltiplicazione, ma l’euristica “moltiplica N per 10, sottrai N” (cfr. Lolli 2000, 135); per un computer, invece, qualsiasi numero è uguale e viene trattato con l’algoritmo generale. Almeno per ora, sebbene l’IA superi l’uomo nell’applicazione degli algoritmi, l’uomo è straordinariamente più abile a sempliicare le routine di ricerca euristica, abilità fondamentale per la nostra esistenza, basata sulle scommesse. Secondo alcuni studiosi, la mera e perfetta applicazione di algoritmi è una forma di intelligenza senza comprensione: Senza qualche forma di sempliicazione nella forma delle categorizzazioni, delle narrazioni, delle euristiche o delle norme, non è possibile capire nulla in assoluto (Balkin 1998, 18).
3.3. I pattern della traduzione Per realizzare la traduzione automatica, gli scienziati cercavano “un algoritmo che mostrasse quali passi si dovessero intraprendere per ottenere una traduzione da un TP a un TA” (Miram 1998, 30; Bel’skaja, 1959; 1969). Molti credevano che, ottenuto quello e perfezionatolo, si sarebbe trovato l’algoritmo universale della traduzione. Come si è visto, ingegneri e linguisti avevano trascurato alcuni fattori fondamentali. Tra questi, soprattutto, la pragmatica comunicativa, l’interrelazione che, nella mente umana, collega la lingua alla motivazione, alle emozioni, ai cinque sensi, e il fatto che la coscienza interpreti i messaggi in modo sfasato rispetto all’inconscio, sebbene i due processi interpretativi avvengano in parallelo: Senza lo stimolo delle emozioni, il pensiero razionale rallenta ino a disintegrarsi. La mente razionale non luttua al di sopra di quella irrazionale; non può liberarsi per potersi dedicare alla ragione pura. In matematica esistono teoremi puri, ma non pensieri puri che li scoprano (cfr. Wilson 2001, 129). I processi di codiica in parole di un messaggio, di decodiica e di ri-codiica in un’altra lingua constano di una serie di operazioni indicibilmente numerose e complicate, che si svolgono, in alternanza, a livello inconscio (prevalentemente) e conscio (parzialmente). Attraverso la valutazione di una serie limitata di opzioni, candidate al ruolo di traducenti in lingua di arrivo di un’unità U del TP, per selezionare l’opzione ‘vincente’, cioè quella equivalente a U, sono indispensabili: 1) un criterio di equivalenza; 2) un numero di dati compatibile con le limitate facoltà di calcolo della mente umana. Se il criterio di equivalenza è parziale (per esempio, riguarda solo l’equivalenza etimologica, come in “I pretend to be a scholar” ➝ “pretendo di essere uno scolaro”), l’operazione fallirà; se il criterio è generale l’operazione ri139
uscirà (“ingo di essere uno studioso”). La traduttologia ha proposto decine di modelli e criteri di equivalenza, spesso suggerendo l’idea che ne possano coesistere diversi con risultati estremamente diversi, ma egualmente legittimi. Un modello teorico generale per la soluzione di problemi può utilizzare insieme sia routine note (algoritmi), sia istruzioni probabilistiche per affrontare variabili situazionali nuove (euristiche): quando un chirurgo entra in sala operatoria per un’operazione ‘di routine’, dispone di una procedura algoritmica, ma sa che potrebbe accadere qualcosa di imprevisto (l’emergere di dati non noti) che imporrà, a un certo punto, di abbandonare l’algoritmo per applicare strategie euristiche, afidandosi, per analogia, ai dati noti più simili a quelli nuovi emersi dalla situazione imprevista. I traduttori procedono nello stesso modo. Se le ‘operazioni’ sono routinarie, si aspettano pochi imprevisti, che possono comunque insorgere inaspettatamente a ogni nuova unità traduttiva. Le ‘operazioni’ sono complesse e rischiose proprio quando, con l’aumentare del tasso di correlazioni tra i parametri, aumenta la probabilità di imprevisti: tradurre le istruzioni per la lavatrice rispetto a un sonetto è come eseguire un’appendicectomia rispetto a un trapianto cardiaco. In tutti i casi, il traduttore, come il chirurgo, dovrebbe seguire un modello teorico (protocollo) che fornisca: a) istruzioni generali, complete e coerenti, comprensive dei calcoli delle variabili probabili e improbabili; b) istruzioni su come affrontare le situazioni nuove in base ai vincoli di tempo e alle soluzioni non note, ma possibili. Tornando al paragone con la chirurgia, ci sono effettivamente tecniche operatorie diverse per risolvere lo stesso problema chirurgico, ma, per lo più, ne esiste sempre una sola, in ogni dato momento storico, che è la più afidabile e costituisce “il protocollo”: la coesistenza di altre tecniche spesso non è dovuta a discordanze teoriche, ma alla mancanza di strumentazione, di condizioni operatorie, di costi materiali, di rischi legali ecc. Quasi sempre, la tecnica migliore è la più recente, che si avvale di dati aggiornati e di strumenti all’avanguardia. Nel caso della traduzione, questo vale parzialmente: pur esistendo strumenti all’avanguardia esterni al traduttore (ad esempio, programmi e corpora di traduzione assistita, talvolta molto costosi), lo strumento fondamentale per la procedura di traduzione è (al momento) il cervello umano; per questa ragione, il ruolo delle routine (teoria) e dell’esercizio (addestramento) restano assolutamente fondamentali (come dimostra il virtuosismo di molti interpreti, che traducono senza avere il tempo di utilizzare null’altro che il proprio cervello). Ovviamente, poi, esistono problemi del tutto analoghi a quelli che affronta il chirurgo: vincoli di tempo, interferenze da parte di committenti e destinatari, fondi insuficienti a pagare l’operazione ecc.30. 30. Come i chirurghi, i traduttori possono lavorare pro bono o per minor prezzo se traggono utilità o gratiicazione dall’operazione proposta.
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Un domani, forse, il sistema decisionale umano che permette di tradurre potrà essere sostituito da un meccanismo di tipo digitale, che risponda a uno schema Sì/No e che non preveda ambiguità, ma non sarà facile: si consideri, infatti, che gli algoritmi di qualunque tipo “hanno bisogno di un’interpretazione, ossia di una decodiicazione delle disposizioni” che dipende “dal ‘linguaggio’ in cui gli algoritmi sono scritti” (Penrose 2000, 542). Non avendo la capacità di memoria e la velocità di calcolo di un computer, la mente umana “ha dovuto perciò trovare di necessità una sua propria via alla decisione che non fosse totalmente e perfettamente logica” (Boncinelli 2000, 245). La comunicazione umana è spesso ambigua, quando non paralogica, e vi saranno sempre variabili interpretative non deterministiche: le lingue umane creano “un’esplosione combinatoria” di dati (Tabossi 1998, 59) che rendono necessario l’impiego di soisticate euristiche interpretative. Un input ambiguo attiva nel cervello umano due potenziali output e la selezione avviene in base a inferenze che, nel caso dei testi espressivi, ammettono proprio la concomitanza di entrambi gli output31. Dunque, in generale, le ricerche sulla soluzione dei problemi da parte del cervello umano si sono concentrate sull’euristica piuttosto che sugli algoritmi (cfr. Moates, Schumacher 1983, 373), ma, nel caso dei processi traduttivi, dato l’alto numero di algoritmi prevedibili, unito a variabili di natura soggettiva (“registro”, “allusioni”, “ambivalenza”, “quasi-sinonimia” ecc.), la computazione parrebbe trovarsi all’incrocio tra determinismo algoritmico e non determinismo euristico. Non è possibile, comunque, costruire un qualsivoglia modello teorico della traduzione senza un qualsivoglia criterio di equivalenza: solo in base a questo criterio si può tentare una formalizzazione di routine a schema Sì/No, che preveda euristiche ‘di ripiego’ per le situazioni nuove, anomale, ‘creative’. Il processo traduttivo può essere visto, infatti, come un procedimento soisticato di inibizione delle opzioni scartate: uno schema binario Sì/No si ripete, unità dopo unità, interrompendosi nei casi che richiedano un’euristica. Il traduttore, computando in millisecondi, seleziona prima una rosa di opzioni, poi le considera ad una ad una, inché, alla ine, che si ricorra o meno alle euristiche, una delle opzioni ottiene un Sì ➝ stop computing. Più il traduttore è esperto, meno sono le opzioni candidate alla soluzione: l’abilità procedurale implica la capacità inconscia di propendere subito per l’opzione migliore, senza pre-attivare troppe opzioni concorrenti (tenuto conto di una memoria di lavoro estremamente limitata, che può ‘collazionare’ poche soluzioni alla volta). Infatti, l’energia spesa dal sistema di controllo dell’informazione per stabilire che cosa “trattenere” e che cosa inibire è immensa: Quando alla memoria vengono aggiunti nuovi episodi e nuovi concetti, questi ultimi sono elaborati con una ricerca estesa attraverso il sistema limbico e corticale, che stabilisce dei legami con i nodi precedentemente creati (Wilson 2001: 154). 31. Il principio della poesia è proprio questo: il testo è un insieme di input, ognuno dei quali può innescare più output contemporaneamente, generando un’esplosione combinatoria.
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Il processo inverso, di riconoscimento in memoria, è altrettanto oneroso. Un simile apparato di controllo, di attivazione e inibizione di milioni di link, che associano i segni in base ai dati soggettivamente memorizzati lascia intendere che il sistema procedurale (implicito) sia intimamente connesso allo stato psicoisico del traduttore. Come avviene nella computazione matematica, nell’esecuzione musicale o nello sport, quando si traduce è possibile giungere a risultati complessi e addirittura virtuosistici senza che la coscienza registri alcuni dei passaggi più signiicativi del processo di soluzione. Poiché, per applicare una routine, non si deve scendere sotto una certa velocità operativa, l’intervento della coscienza può essere un freno per quella sintesi intuitiva che aiuta a trovare soluzioni cui i processi coscienti non possono condurre. La coscienza, infatti, procede con una lentezza sgomentevole rispetto alle procedure automatiche. Le procedure sono veloci se evitano che i singoli passaggi della computazione si presentino per intero alla coscienza, quindi il traduttore addestrato percepisce la soluzione come largamente intuitiva (e l’interprete come ‘automatica’). Si può dire, quindi, che i processi traduttivi utilizzino un’ininità di micro-passaggi neuronali che agiscono tra il livello cosciente (controllo esplicito) e il livello automatico (procedura implicita): questo livello ‘semi-cosciente’ della procedura innesca la nota sensazione dello ‘stato di grazia’ procedurale (ben noto ad artisti e atleti) in cui ci si sente agire in perfetto controllo, senza che, paradossalmente, il controllo sia cosciente. Questa sensazione è assai nota anche agli scrittori cui più volte è parso – lo confermano diverse testimonianze – che i personaggi si ‘scrivano da soli’ a prescindere dal progetto consapevole dell’autore32. Abbiamo in realtà scarsa o nulla consapevolezza di eventi che in realtà la nostra memoria implicita provoca o registra: la coscienza parrebbe un epifenomeno, una specie di illusione “su larga scala” derivata dalla “collusione” di “tanti piccoli, indubitabili eventi non illusori”; la sensazione del ‘Sé’ deriverebbe da una “struttura astratta”, “un pattern” che produce una rilessione degli eventi (Hofstadter 2008, 93): “cosa conta è il pattern dell’organizzazione, non la sostanza” (ivi, 257)33. Il concetto di “pattern” secondo Douglas Hofstadter, scienziato cognitivo e teorico dell’IA, è particolarmente utile per rilettere sulla traduzione; infatti, i pattern, gli schemi, “possono essere copiati da un medium all’altro” e quest’azione è per l’appunto ciò che chiamiamo “traduzione” (ivi). Il concetto di pattern, dunque, non si applica solo ai “geni”, ma anche, dice 32. Oltre al ben noto esempio dei “sei personaggi” di Pirandello, scrive Sergej Dovlatov (2016, 110): “I personaggi sono immancabilmente superiori al loro autore. Se non altro per il fatto che non è lui a disporne. Al contrario, sono loro a comandare”. 33. Secondo il neuroscienziato Michael Gazzaniga (1999, 27), il “Sé” mentale sarebbe una sorta di “invenzione” creata da un meccanismo cui si può dare il nome di “interprete”. La mente cosciente dell’essere umano potrebbe “emergere” come un “testo su se stessi” nel quale si mantiene una coesione di massima, inibendo e aggiustando le contraddizioni.
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Hofstadter, ai testi letterari e sarebbe questa essenza strutturale dei testi a consentirne l’intrinseca traducibilità: A novel is not a speciic sequence of words, because if it were, it could be only written in one language, in one culture. No, a novel is a pattern – a particular collection of characters, events, moods, tones, jokes, allusions, and much more. And so a novel is an abstraction, and thus, the very same novel can exist in different languages, different cultures, even cultures thriving hundreds of years apart (ivi, 224; corsivo nel testo).
Le strutture che governano la lingua, la pragmatica d’uso e il singolo testo che si va a tradurre offrono i riferimenti attraverso cui orientarsi per cercare le regolarità operative, i parametri, le strategie, le tecniche che costituiscono le ‘regole dell’ars’ o, in altri termini, le procedure di soluzione del problema “converti da una lingua all’altra”. Indagare le interrelazioni tra elaborazione inconscia ed elaborazione consapevole è dunque un passo fondamentale per almeno tre compiti diversi: a) per formulare ipotesi sui meccanismi che consentono la traduzione; b) per valutarne le complessive implicazioni cognitive; c) per riformulare i compiti della didattica (o tecnica) della traduzione. Un modello teorico per la traduzione prevede una strategia algoritmica quando:
1) il testo è chiaramente univoco (se univoco ➝ equivalenza di univocità); 2) il testo è volutamente e chiaramente ambiguo (se ambiguo ➝ equivalenza di ambiguità); se, invece, l’unità traduttiva non rientra nei casi 1) e 2), perché i dati sono superiori alla gestione algoritmica, si ricorre a una strategia euristica, in base al contesto operativo: più veloce e meno complessa (ad esempio, nella traduzione simultanea) o più ricercata e più lenta (ad esempio, nella traduzione creativa). Come aveva argomentato Levý, i processi traduttivi non pongono “problemi linguistici”, ma complessi “problemi decisionali”, organizzati secondo un ordine gerarchico, in cui è più importante soddisfare il parametro più alto della gerarchia stabilita, che Jakobson (1996, 119-125) deinisce “dominante” testuale. Il processo di traduzione, dunque, è una tipica tipologia del problem solving (“risoluzione dei problemi”) che si avvale di strategie atte a individuare la soluzione ottimale per risolverlo, dove “ottimale” va deinito secondo criteri di equivalenza che variano per ogni modello teorico. Nei ‘frammenti’ dei Taccuini di Sergej Dovlatov, ad esempio, ci sono decine di giochi di parole fatti con citazioni colte. Tra questi, c’è un frammento che rimanda a un celebre verso del noto poeta romantico russo Jurij Lermontov (“Noč, ticha, pustynja vnemlet Bogu”, “Notte, silente, ode il deserto Dio” 1841), nel quale la parola “ticha” [“silente/quieta”] per assonanza diventa nel testo umoristico di Dovlatov, per omofonia, “Techas” [“Texas”]; l’altro 143
parametro importante è dato dall’allusione allo iato vita/cultura degli emigrati russi negli Stati Uniti: Ar’ev: “...Noč, Techas, pustynja vnemlet Bogu...” [“Notte, Texas, ode il deserto Dio...”] L’euristica seguita nella traduzione italiana ha comportato “scommettere” che, cambiando Lermontov con Leopardi e Texas con Maryland, l’effetto ‘umoristico’, ‘di-vertens’ (stabilito come gerarchicamente dominante), sarebbe stato equivalente sul piano funzionale (f-equivalente) a quello del TP: Andrej Ar’ev: «... E il naufragar m’è dolce in questo Maryland» (Dovlatov 2016, 156)34. La soluzione euristica di questo problema decisionale P (dove P = “crea in italiano un testo con analoga funzione estetico-umoristica che riveli lo stesso tipo di ‘gioco poetico’”) è formalizzabile come algoritmo-base a soluzione aperta: se P, allora ➝
“trova un gioco di parole con un verso della poesia italiana, in cui si possa cambiare una parola che, per assonanza, si trasformi nel nome di uno Stato degli USA” e tale che: a) il verso del poeta italiano sia noto a memoria ai lettori italiani, b) il poeta sia un pessimista romantico (come Lermontov), c) lo stato sia il Texas.
Dato il tempo disponibile per la computazione, l’euristica proposta in traduzione ha potuto soddisfare le prime due condizioni, ma non c). Tuttavia, essendo l’effetto umoristico in cima alla gerarchia decisionale, l’effetto è fequivalente. Se si vogliono scomporre, analizzare e formalizzare le tappe di risoluzione di un problema, osserva Patrizia Tabossi (1998, 103), serve determinare a ritroso, bottom up: a) le conoscenze che abbiamo impiegato; b) il modo in cui queste conoscenze sono rappresentate nella nostra mente o, più precisamente, nella nostra memoria; c) i processi mediante i quali, sulla base dell’informazione ricevuta dall’esterno […] siamo riusciti ad attivare, fra tutte le conoscenze a nostra disposizione, quelle pertinenti alla soluzione del compito; d) i processi che hanno portato alla risoluzione del problema (ivi).
Supponendo di raccogliere un corpus di traduzioni che a tutti paiano ‘buone’, si può cercare per induzione, bottom up di risalire alle procedure di 34. In traduzione si è esplicitato il nome di Ar’ev in modo da rendere inequivocabile che si tratta di una persona.
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calcolo mentale che hanno condotto al risultato positivo e di formalizzarle in modo da renderle applicabili come generali algoritmi semplici che aiutino a prevedere e organizzare le strategie euristiche. Si prendano, ad esempio, le traduzioni dei “Nomi parlanti” dei personaggi delle iabe che hanno avuto per secoli indubbio successo: Cappuccetto Rosso, Biancaneve, Cenerentola, Raperonzolo ecc. Le iabe presentano due pattern fondamentali per il progetto di traduzione: 1) sono ambientate in uno spazio-tempo mitologico, fuori da vincoli nazionali, storici, geograici; 2) sono per lo più rivolte a bambini che gradiscono la totale omologazione alla lingua di arrivo: per un bimbo italiano Biancaneve perderebbe buona parte del suo fascino se si chiamasse, come nel testo dei fratelli Grimm, Schneewittchen, nome peraltro mal pronunciabile anche per i genitori-narratori. Queste soluzioni della tradizione hanno ispirato le recenti traduzioni dei personaggi dei cartoni animati, da Topolino a Paperina. La procedura seguita dai traduttori può essere sempre formalizzata, valutando il grado di equivalenza di ogni soluzione proposta. Nel noto caso: Scrooge McDuck ➝ Uncle $crooge ➝ Paperon de’ Paperoni ➝ zio Paperone,
si perde il riferimento (evidente nella cultura di partenza) a Ebenezer Scrooge, vecchio e tirchio protagonista del Canto di Natale di Charles Dickens, nonché il riferimento alle origini scozzesi (McDuck) secondo lo script: “scozzesi ➝ tirchieria”. Ovviamente, molti bambini anglofoni, grazie alla televisione, hanno conosciuto prima i cartoni animati dei libri, quindi il riferimento a Dickens potrebbe essere posteriore e meno rilevante, ma, nel complesso, se nella cultura di partenza il nome Scrooge McDuck crea un pattern “ricchezza+tirchieria”, il nome italiano Paperone è divenuto antonomasia di “ricchezza” e non di “tirchieria” (grazie anche al ‘nobilitante’ cognome de’ Paperoni). In questo caso, il pattern di traduzione non ha trasmesso l’informazione “tirchieria”, quindi un nome f-equivalente richiederebbe “+ tirchieria”. L’analisi bottom-up ci mostra anche che questo criterio non è mai stato applicato ai nomi-parlanti degli eroi letterari, come ad esempio Karenina o Lev Myškin, che richiamano rispettivamente i sostantivi “nemesi” (“kara”) e “leone+topolino” (“lev”+”myška”). A questo punto, si possono generalizzare i due differenti procedimenti algoritmici della tradizione della traduzione dei nomi propri, di cui il primo a soluzione aperta, l’altro deterministica: 1) se [TP ➝ iction per infanzia], allora [TA ➝ ricrea nome parlante eficace in lingua di arrivo] 2) se [TP ➝ iction realistica], allora [TA ➝ lascia nome del TP]
Con lo stesso procedimento qui esempliicato, si può formalizzare qualsiasi strategia e tecnica di traduzione utilizzata per qualsiasi testo che riguardi il lessico, la fonologia, la sintassi, il registro, la terminologia, la metrica, 145
le intonazioni, le metafore oppure il loro insieme, cioè il livello pragmaticofunzionale. Le strategie possono essere applicate con la parziale o totale inconsapevolezza della gamma delle opzioni possibili oppure, invece, con la precisa adesione a una strategia derivata da un modello teorico: che il traduttore sia o non sia consapevole della strategia che usa, quella strategia può essere formalizzata. La strategia più facile è quella del dilettante totale, quando le soluzioni prescelte risultano semplicemente arbitrarie, cioè slegate da qualsiasi modello teorico; in questo caso, l’algoritmo dell’arbitrio è: se [∀ unità TP], allora [per corrispondente unità TA ➝ fai quel che ti pare]35
In questo caso, qualunque sia la traduzione dell’unità, l’algoritmo sarà applicato con successo, ma la soluzione sarà, pure, dilettantesca. Viceversa, se il traduttore applica una strategia restrittiva con procedure che portino a una qualche forma di equivalenza, anche parziale, le sub-routine saranno formalizzabili secondo un algoritmo più complesso. Più si aggiungono condizioni alle routine, più si complica la formalizzazione dell’algoritmo. Durante il processo traduttivo, si applicano algoritmi semplici, ma quando le cose si complicano, si cercano algoritmi complessi e, quando non si individuano strategie algoritmiche, si procede mediante euristica. La velocità procedurale del processo traduttivo è tanto migliore, quando più è costante, ma le unità complicate interrompono la procedura per trovare la ‘scorciatoia’ euristica. Il traduttore può procedere in modalità “automatica” solo se sta applicando una strategia nota a un’unità prevedibile: strategia [cerco] ➝ applico[seleziono] ➝ veriico[misuro] ➝ convalido ➝ stop computing
Il processo che comporta la tappa ‘cerco’ è “un meccanismo biologico che effettua la preselezione, esamina i candidati e consente solo ad alcuni di presentarsi all’esame inale” (Damasio 1995, 265; corsivo mio). Dopo la selezione deinitiva “applico”, infatti, si avverte che una sorta di ‘dispositivo mentale di veriica’ conferma: “Ok, convalido ➝ non cercare oltre”, oppure “No, non convalido ➝ cerca ancora”. Spesso, questo procedimento è così rapido da essere semi-consapevole, ma nel caso dell’interpretazione simultanea è così rapido (dura pochi centesimi di secondo) da non raggiungere la consapevolezza (che richiede che le procedure siano suficientemente lente). Si è detto inizialmente che, per applicare strategie algoritmiche, serve disporre a) di tutti i dati relativi al problema e b) del tempo necessario alla computazione. Quando questa felice concomitanza non si veriica, si applicano strategie euristiche, cioè ‘scorciatoie’ o ‘scommesse’ che consentono di 35. “∀”, nel linguaggio della logica, è il simbolo che indica “per ogni”, “quale che sia”.
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inferire i dati mancanti da quelli disponibili e di risparmiare sul tempo di calcolo. Più un TP è complesso e imprevedibile (creativo), più le due modalità (algoritmica ed euristica) si alternano. Un traduttore competente, se ci rilette, sa quando è in modalità algoritmica e quando invece sta applicando una strategia euristica. Se la situazione è parzialmente nuova e mancano dati di riferimento per valutare/convalidare l’opzione, l’euristica impone di convalidare un’unità di arrivo che presenta alcuni rilevanti segni di corrispondenza con quella di partenza, ma che non è perfettamente corrispondente a quello che “servirebbe”. Esistono, infatti, in traduzione, due tipologie di soluzione “migliore possibile”: 1) “migliore possibile hic et nunc” (nei tempi sempre limitati del processo traduttivo); 2) “migliore possibile in assoluto” (anche senza vincoli di tempo, non si può trovare una soluzione migliore). In ogni traduzione professionale, vi è sempre un certo numero di entrambe le tipologie di soluzioni “migliori possibili”: nei testi letterari, quelle “migliori in assoluto” dovrebbero essere mutuate dai traduttori successivi dello stesso testo, il cui compito dovrebbe essere quello di trasformare nella tipologia 2) le soluzioni della tipologia 1). Va rilevato, tuttavia, che in traduzione (come in ogni altro àmbito di problem solving), per “trovare” una soluzione e per poterla “convalidare”, è indispensabile una correlazione “cerco/trovo/veriico/convalido” che implichi che quello che si sta cercando venga riconosciuto. Per riconoscere qualcosa, o lo si è conosciuto prima (allora il riconoscimento è algoritmico), oppure si procede alla veriica in base ai dati disponibili (euristica) senza avere la certezza che offre un algoritmo. Questo accade di continuo nella vita reale: se sto cercando Mario in tutti i bar del quartiere, per riconoscerlo devo a) averlo conosciuto prima o b) avere ‘indizi’ per riconoscerlo anche se non l’ho mai visto prima (so che indossa una camicia rossa e un berretto giallo); nel caso b), il riconoscimento è meno afidabile (Mario potrebbe aver fatto indossare i suoi vestiti a qualcun altro). Applicato alla lingua, il riconoscimento è tanto più afidabile se, cercando nei dizionari o nei corpora, il traduttore riconosce l’unità linguistica o la parola che sta cercando perché già l’ha incontrata: non la ricorda, ma, se la vede, la riconosce. Quanto minore è il bilinguismo del traduttore, quanti meno enunciati conosce, tanto più inafidabili sono le sue scelte lessicali: nel complesso, più scelte inafidabili si accumulano, più è probabile che il TA sia ‘diverso’ dal TP. Qualsiasi traduttore professionista conosce la differenza tra una soluzione nota e dimenticata, ma che si può cercare e ri-trovare, e una soluzione che si cerca in base a dati parziali: se non si sa che cosa voglia dire “chiocciola” in italiano, come si potrà scegliere tra le opzioni del dizionario per distingue147
re tra il nome comune di un gasteropodo e il logogramma dell’informatica? Ci si afiderà al contesto. Ma come si comprenderà se c’è un’ambiguità o un gioco di parole? Lo psicolinguista Gerry T.M. Altmann (2001, 206) ben illustra quanti dati in memoria vengano coinvolti nel processo di attivazione/inibizione che produce il signiicato. La conoscenza di qualcosa (cioè il suo signiicato) riguarda svariate parti del cervello, compresi gli input visivi, uditivi (ecoici), tattili, olfattivi, gustativi, che costituiscono la base essenziale dell’informazione da noi memorizzata (cfr. anche Cardona 2001, 44-67). Nella memoria biologica si forma un’immagine mentale, che coinvolge i cinque sensi e numerosi altri dati, in parte collegati all’esperienza universale, in parte alla biograica soggettiva. Dunque, il signiicato va inteso come sintesi dell’insieme di diverse associazioni, anche sinestetiche, cognitive, emotive. Ad esempio: il signiicato della parola pudding risulta dalla vista (l’aspetto del pudding e la forma graica della parola), dal gusto, dal tatto (memoria della consistenza veriicata in bocca o con il polpastrello), dalle onde sonore del signiicante pronunciato, decodiicate dai recettori neuronali dell’udito; ma fa parte del signiicato sapere che il pudding non è azzurro, che non costa 200 sterline, che non si appende in salotto, che non è largo 15 metri, che “lo preparava sempre nonna Jane”, il cui nipote ha una rappresentazione affettiva del segno pudding. Per qualcuno pudding rappresenta ‘casa’, per qualcuno ‘esotismo’. Per quanto ci si sforzi di formalizzare queste reti associative, nessun algoritmo, per quanto non deterministico, può attivare nella memoria di un computer i ricordi legati alla nonna o alla patria. Alla macchina (pur dotata di alcuni sensi) manca la memoria affettiva: la macchina, rispetto a un essere umano, non dispone di un signiicato di pudding che possa equivalere alla comprensione della parola di un essere umano. Tanto meno un dizionario cartaceo. 3.4. I cluster del signiicato Non sappiamo ancora bene come il cervello immagazzini i concetti, come le loro rappresentazioni possano essere deinite in termini prettamente isici e come avvenga, a livello neuronale, l’interazione tra meccanismi consci e inconsci. Non sappiamo se un lessema corrisponda a un singolo neurone e se, in un bilingue, i correlati neuronali di una parola-concetto (per esempio, “onestà”) nelle sue due lingue siano collegati in modo diretto o indiretto36. Sappiamo, però, che quando il cervello umano deve tradurre una frase dal 36. Hofstadter (2008, 176) ritiene che siano i nostri stessi ‘programmi mentali’ (le nostre idee) a creare, in senso isico, la “micro-materia” del pensiero, e non viceversa.
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pensiero in lingua naturale, da un registro all’altro di una stessa lingua, da una lingua naturale all’altra, o da una lingua naturale a un sistema semiotico artiiciale, si comporta come una centrale ipercomplessa che gestisce un’immensa banca dati, suddivisa in moduli neuronali (sorta di cluster) collegati tra loro. Dato un certo input, questi moduli sono addestrati a valutare le opzioni di output attivando altri cluster interconnessi che non sono solo relativi alla ‘lingua’ (lessico, sintassi, fonetica, intonazione, stile e registro), ma a tutti i circuiti cerebrali che gestiscono le emozioni, i ricordi, i cinque sensi (vista, udito, tatto, gusto, olfatto). Le interconnessioni tra cluster formano mostruose reti associative che solo in una microscopica parte sono accessibili alla coscienza. Un cervello biologico evoluto funziona come un lentissimo, ma eficiente computer parallelo; la sua lentezza, però, è relativa: i tempi di computazione del nostro cervello sono molto più veloci delle aspettative del ‘senso comune’, modellato sulla (lentissima) coscienza. Il cervello scansiona “un simbolo ogni 25 millesimi di secondo”, cioè 40 simboli al secondo (Wilson 2001, 126): “nello spazio di un secondo della vita della mente il cervello produce milioni di schemi di scarica per un’ampia varietà di circuiti distribuiti in varie regioni del cervello” (Damasio 1995, 351). Anche la decodiica del lessico avviene a livello inconscio: “Il signiicato di una parola pronunciata raggiunge il cervello dell’ascoltatore in circa un quinto di secondo, prima che il parlante abbia inito di pronunciarla” (Pinker 1999, 3). Il processo di decodiicazione di un TP e di ri-codiicazione di un TA è dunque lentissimo rispetto a una macchina, ma suficientemente veloce da consentire una traduzione simultanea. Ogni input verbale “accende e spegne” parallelamente un numero impressionante di link nel gigantesco ipertesto neuronale: alcuni link sono condivisi da tutti i parlanti, altri derivano dall’esperienza soggettiva e dalle acquisite competenze implicite ed esplicite. Come semplicistica esempliicazione, si veda parte dello schema associativo che l’input della parola italiana “pagoda” (udita o letta) può innescare nel mio cervello di bilingue italiano-russo (L1-L2), che gestisce anche inglese, tedesco, polacco (L3-L4-L5), che conosce determinate persone, ama determinati frutti e ha visto determinati ilm (ig. 1): sono solo alcuni (tra migliaia) link neuronali interconnessi a immagini, suoni (e signiicanti), associazioni mnestiche a persone, eventi, oggetti concreti e astratti che possono esercitare un potenziale priming, cioè pre-attivare a livello inconscio elementi del circuito associativo37:
37. La parola-input “banana” pre-attiva inconsciamente nella mente di chi la sente la visione del colore giallo, la memoria del sapore, della forma ‘a cornetto’, la consistenza, la funzione simbolica (ad esempio, sessuale) del frutto, il giudizio positivo/negativo oggettivo e soggettivo che gli viene attribuito (buono, nutriente, calorico, astringente ecc.).
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Fig. 1 – “Pagòda” è la parola italiana che indica la tipica costruzione buddista orientale, ma “pogoda” (pronuncia “pagóda”) in russo signiica “tempo meteorologico” (la parola “tempo” in italiano indica anche la dimensione cronologica, quindi pre-attiva un link con le analoghe parole di tedesco, polacco, inglese ecc.), mentre “jagòda”, che in polacco signiica “frutto di bosco” (bacca), indica anche un nome proprio femminile, dunque pre-attiva la parola “lampone” (il mio frutto preferito), ma anche la mia amica Jagòda. Possiamo immaginare una miriade di linee tratteggiate che si diramano da ogni link nelle direzioni più diverse e che vengono istantaneamente inibite non appena si è raggiunta l’informazione necessaria alla decodiicazione del signiicante “pagoda” nel suo cotesto/contesto logico.
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In una frazione di secondo, grazie a un solo input, innumerevoli concetti, immagini, parole, emozioni, sensazioni vengono attivate o pre-attivate. A mano a mano che qualcuno parla, nel cervello di chi ascolta (o di chi sta leggendo) si “accendono” e si “spengono” di continuo migliaia di sinapsi38. Se le ‘accensioni’ di due o più neuroni in connessione sono frequenti, il collegamento è registrato dalla memoria a lungo termine; e, se la ripetizione è costante, la memoria esplicita si può trasformare in memoria procedurale, implicita, come accade quando si impara ad andare in bicicletta (cfr. Kandel 2007a, 122). Come vedremo nel paragrafo successivo, le proprietà memetiche del linguaggio fanno sì che espressioni nuove, ripetute continuamente, diventino abituali e cessino di essere ‘strane’, perdendo la loro marcatezza pragmatica. In questo caso, entrano nell’uso comune e nella memoria a lungo termine dei parlanti: grazie al “doppiaggese” (l’italiano calcato dall’ingle38. Le sinapsi sono fessure intercellulari, ovvero “regioni specializzate” che, mediante i dendriti e gli assoni dei neuroni (si veda il capitolo seguente), li mettono in comunicazione (elettrochimica) tra loro o con altre cellule (cfr. Kandel 2007a, 59).
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se doppiato), le invalse espressioni italiane “arrivederci!”, “a presto!” sono state soppiantate da calchi dall’inglese (“ci vediamo!”, “buon pomeriggio!” ecc.): all’inizio, quei calchi parevano ‘strani’ e ‘davano fastidio all’orecchio’, ma oggi sono usati in modo quasi esclusivo dalle giovani generazioni. 4. Memetica, linguaggio e traduzione 4.1. Formulaicità e stereotipia Chi si occupa di traduzione non si occupa solo della trasmissione di un testo a un’altra cultura, ma anche dei messaggi contenuti nel testo che vengono diffusi, contagiando nuove persone e nuovi popoli. Il “contagio” è possibile grazie alla predisposizione del cervello umano a recepire, memorizzare e riprodurre quello che ha sentito, e a farlo tanto più eficacemente, quanto più i suoni sono strutturati secondo parametri di ritmo, rima, consonanza e dissonanza: questo vale per la musica e per la lingua, ma, nel caso delle lingue naturali, si sa che esiste tra gli accostamenti dei suoni nelle parole (i signiicanti saussuriani) e il signiicato (le reti neuronali) un nesso diretto. Non solo, sappiamo che le parole tendono ad associarsi tra loro in modalità formulaica (che, come si è anticipato, è una successione “prefabbricata” di parole, conservata compatta in memoria e, come tale, richiamata per l’uso, senza essere generata e analizzata dal sistema di produzione e controllo grammaticale; cfr. Wray 2002, 4-9). La preferenza per certe formule linguistiche (dovuta anche all’economia dello sforzo) convive con l’istinto innovativo (dovuto alla creatività umana): il “dispositivo umano del linguaggio” ama imitare formule esistenti, ama crearne di nuove e sa fare entrambe le cose39. Per capire quanto sia importante quest’aspetto nella formazione, valutazione, decodiica e ri-codiica testuale, è fondamentale comprendere che l’informazione su cui si fonda ogni cultura “non può semplicemente essere sospesa nell’aria. Deve essere codiicata in qualche oggetto materiale” (Boyd, Richerson 2000, 147). Per rilettere sulla codiica delle informazioni, comprese quelle verbali, il contributo dell’informatica è stato enorme: L’informatica ci ha portato a riconoscere che tutti i saperi si materiano in un supporto. Per quanto riguarda la matematica, ad esempio, per tradizione essa venne considerata un’attività immateriale svolta dalla mente o dallo spirito o dall’intelligenza, entità che si suppongono disincarnate e separate cartesianamente dalla res extensa. Tuttavia ormai si riconosce che non c’è spirito, mente o intelligenza che non s’incarni in qualche struttura materiale più o meno organizzata (Longo 1998, 51). 39. L’alta prevedibilità nell’uso di formule ‘prefabbricate’, tanto più prevedibili quanto più i testi sono tecnici (o parodie di testi tecnici), è il fondamento della linguistica dei corpora, che si basa proprio sulle stringhe: “The advantage of relying on computer searches for the identiication of formulaic sequences would seem enormous” (Wray 2002, 25).
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In sostanza, con “informazione” intendiamo un input che raggiunge un sistema intelligente e lo modiica: “ho acquisito una nuova informazione quando c’è stato un effetto sul mio comportamento, le mie opinioni o la mia conversazione futura” (Distin 2005, 40). Il motivo per cui una certa componente isica delle lingue e dei linguaggi (suoni, gesti, cadenze, inquadrature, vibrazioni, incisioni ecc.) ha successo e altre invece ‘muoiono senza riprodursi’ può dirci molto sulle modalità di catalogazione dei dati linguistici in memoria. Come è ben noto a chi deve diffondere slogan, la forma in cui sono codiicati i messaggi li rende ‘vittoriosi’ nella ‘competizione’ che avviene nella infosfera linguistica. In lingua naturale, infatti, vengono codiicate sequenze diverse di parole per esprimere script (stereotipi) che hanno il potere di moltiplicarsi e ‘contagiare’ i cervelli. Come i virus biologici, i ‘virus verbali’ possono creare ‘danni parassitari’ strutturali al pensiero (a livello cognitivo), oppure possono limitarsi a un innocuo contagio che avviene ‘a orecchio’, senza modiicare le strutture cognitive: in questo secondo caso, le persone usano una formula invece di un’altra (“un attimino” invece di “un attimo”) perché la sentono di più; si crea un circolo vizioso in cui i parlanti passivamente subiscono il contagio: più sentono la formula, più la usano, più la diffondono, più la sentono. Il fatto che la formula sia fastidiosa, a volte repellente (“dimmi tre parole, sole, cuore, amore”), non ne limita affatto il potenziale parassitario. I ‘virus verbali’ che manipolano le strutture cognitive del cervello ‘ospite’ che hanno ‘parassitato’ agiscono secondo due modalità: 1) creando associazioni innocue (“ambarabaciccicoccò, tre civette sul comò”) e 2) predisponendo al pregiudizio (e all’azione): “fuma come un turco”; “piange come una femminuccia”; “non fare il rabbino” (turco ↔ vizio, pianto ↔ femmina, ebreo ↔ tirchieria), ma anche “dove c’è Barilla, c’è casa”. La manipolazione si registra a livello cognitivo e attivo (nei comportamenti), se crea “credenze”: “le credenze sono gli indicatori interni naturali che sono divenuti rappresentazioni con la funzione di controllare un determinato comportamento” (ivi, 22). 4.2. I “memi” e il dibattito epistemologico sulla “memetica I problemi dell’epidemiologia culturale sono estremamente complessi, riguardano in modo diretto il ruolo della traduzione e non possono essere indagati solo dalla linguistica o dall’antropologia culturale. Da alcuni decenni esiste una disciplina speciica che si occupa esattamente della replicazione della cultura secondo un modello evoluzionistico: la memetica. Si tratta di un campo di studi trasversale, ricco e complesso, da alcuni considerato poco promettente e troppo teorico, ma supportato da vistosi indizi e da un’evidente coerenza con il modello della replicazione biologica. 152
Oggetto della memetica sono i memi, ovvero le unità minime di replicazione, trasmissione e riproduzione della cultura e dell’informazione. La memetica, dunque, condivide parzialmente il suo oggetto di studio con altre discipline, soprattutto con l’antropologia e le scienze sociali (cfr. Sperber 2000, Kuper 2000, Bloch 2000), ma è modellata sulla teoria del “gene egoista” dello zoologo e teorico evoluzionista Richard Dawkins. Il termine meme, infatti, è stato inventato, proposto e divulgato nel bestseller di Dawkins The Selish Gene. Il libro risale al 1976, ma è stato ristampato ininterrottamente e viene letto in tutto il mondo da quarant’anni. L’etimologia della parola “meme” era stata ispirata a Dawkins sia dalla radice greca “mime-” (che dà l’idea di “imitazione”), sia dalla parola francese “même” (che dà l’idea di “identità della replicazione”), ma soprattutto dalla speculare consonanza con “gene”; inoltre, è chiaro un riferimento alla “memoria”. Se il gene è il replicatore biologico, il meme è il replicatore culturale: ha la forma di una frase, di una melodia, di un’idea, di una moda, di un modello (cfr. Dawkins 1998, 201). Come il gene ha un genotipo e un fenotipo, il meme ha un memotipo e un femotipo; quest’ultimo è la forma isica del meme nel mondo (ad esempio i suoni di una sequenza musicale), collegata nelle reti neuronali di un cervello a una struttura di signiicato (in senso associativo) (cfr. Balkin 1998, 45; Aunger 2002). La propagazione del meme dipende non solo dalla sua struttura, ma anche dall’ambiente che ne determina la virulenza epidemica: ad esempio, “nel XXI secolo il meme ‘la terra è piatta’ dovrebbe avere poco successo” (Distin 2005, 65). Dal 1976, la fortuna del termine meme è stata inarrestabile, tanto da portarlo all’inserimento nell’Oxford Dictionary e a una diffusione esponenziale sul World Wide Web; in sostanza, la parola meme è stata un “metameme” (Chesterman 2009, 76). Il successo di Dawkins è stato così grande che, tra le centinaia di pubblicazioni sui memi, Kate Distin (2005) ha addirittura mutuato per il suo libro, dal capolavoro di Dawkins, la struttura del titolo: The Selish meme. In Consciousness Explained (1991), il neuroilosofo Daniel Dennett, uno dei primi studiosi del modello biologico applicato alla cultura mostrava la versatilità e l’utilità del modello di Dawkins per impostare una nuova ricerca culturologica interdisciplinare: Once our brains have built the entrance and exit pathways for the vehicles of language, they swiftly become parasitized (and I mean that literally, as we shall see) by entities that have evolved to thrive in just such a niche: memes. […] These new replicators are, roughly, ideas (Dennett 1991, 200-201).
Secondo Dennett, la coscienza umana sarebbe un grande complesso di memi, opinione che può considerarsi “radicale” (Distin 2005, 77), ma è stata condivisa da altri. Secondo Balkin (1998, 61), i memi che compongono la mente umana “possiedono le persone” più di quanto “le persone possiedano 153
le idee”: la mente di uno studioso, dunque, non sarebbe altro che uno strumento per mezzo del quale una biblioteca si replica (“fa un’altra biblioteca”; Dennett 1991, 202)40. Le lingue naturali costituirebbero, in tal senso, un ottimale canale di diffusione memetica; esisterebbero memi universali e memi speciici di una linguocultura, i quali sarebbero responsabili delle differenze microstrutturali: The avenues for entry and departure are modiied to suit local conditions, and strengthened by various artiicial devices that enhance idelity and prolixity of replication: native Chinese minds differ dramatically from native French minds, and literate minds differ from illiterate minds […] But the most striking differences in human prowess depend on microstructural differences induced by the various memes that have entered them and taken up residence (ivi, 207).
Dennett (1997, 447) ipotizzava successivamente che il meme fosse più propriamente connesso all’idea di “signiicato” che a quello di “struttura”, nel senso che la struttura sarebbe “in funzione” del signiicato: ciò che si conserva e si trasmette nell’evoluzione culturale è l’informazione – in un senso neutrale rispetto ai mezzi del linguaggio. Pertanto il meme è in primo luogo una classiicazione semantica, non sintattica, che potrebbe essere osservabile in modo diretto nel “linguaggio cerebrale” o nel linguaggio naturale.
Nella concezione dennettiana, la memetica si presenta come modello teorico per lo studio della stereotipia testuale (linguistica in particolare), cioè come quadro di interazione tra la mente, come prodotto ideologico-narrativo (cfr. Gazzaniga 1999), e le informazioni esterne: “L’esistenza di un meme dipende dalla sua incarnazione isica in qualche mezzo; se tutte le sue incarnazioni vengono distrutte, un meme si estingue” (Dennett 1997, 439). Proprio in tal senso, il paragone con i geni (struttura a quattro nucleotidi) è particolarmente utile: Una frase composta da tre nucleotidi non si può considerare un gene per la stessa ragione per cui non si può ottenere il copyright di una frase musicale di tre note: non è suficiente per una melodia (ivi, 435).
Successivamente ai contributi di Dennett, si è diffusa un’ampia ‘letteratura memetica’, inizialmente di stampo molto, se non troppo, divulgativo (cfr. Brodie 1996, Lynch 1996, Blackmore 1999). Susan Blackmore (1999) ha fornito il primo, semplice ‘manuale di memetica’, in cui proponeva di considerare i memi “gli strumenti [tools] con cui pensiamo” (ivi, 15) e ne analizzava il funzionamento in organizzazioni complesse, i memeplex (“coadapted meme complexes”), che, come i geni, si uniscono in sequenze, si “alleano” 40. La frase è stata ripresa nel 1998 da Hugh Pyper: “Western culture is the Bible’s way of making more Bibles” (cit. in Blackmore 1999, 192).
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tra loro per una prestazione di maggior successo41. I complessi di memi, secondo Brodie (1996, 45), spiegherebbero il successo delle idee e la diffusione epidemiologica dei comportamenti umani che non rientrano nella mera propensione all’imitazione: Advertisers don’t wait for you to develop your own association-memes. They go ahead and program you with their own through television: Baseball, hot dogs, apple pie and Chevrolet. Sexy men and Diet Coke. Sexy women and beer. Sexy women and computers, cars, garden tools, fan belts… (ivi).
Tanto la religione, quanto la scienza farebbero abbondante uso di memeplex, ma la religione avrebbe il vantaggio di non dover fornire né le dimostrazioni, né i tentativi di falsiicazione che la scienza impone per corroborare i suoi memi. In effetti, noi non impariamo qualcosa perché è logico, ma tanto più lo consideriamo “logico”, quanto più ci è familiare: la sola conformità di un messaggio alle nostre usuali categorie mentali dà la piacevole sensazione di “logicità”. Ciò che impariamo, dunque, modella il pensiero e, di conseguenza, predispone ad accettare come logica anche l’illogicità. Un esempio è dato dalle “teorie della cospirazione”: the conspiracy theory meme, which has a built-in response to the objection that there is no good evidence of the conspiracy: ‘Of course not – that’s how powerful the conspiracy is!’” (Dennett 1991, 206)
Alcuni volumi sulla memetica denotano una certa estraneità alla rilessione epistemologica, critica che veniva espressa in una miscellanea in cui Robert Aunger (2000) raccoglieva i saggi di vari studiosi di diverse discipline, chiamati a dire la loro sulla memetica come potenziale disciplina scientiica e sui suoi rapporti con la biologia. Dawkins veniva per lo più criticato per avere, da outsider, affrontato il tema della trasmissione culturale senza aver tenuto conto delle ricerche antropologiche, anche se dificilmente avrebbe accettato che un profano si mettesse ad avanzare teorie rivoluzionarie in biologia (cfr. Kuper 2000, 180; Bloch 2000, 190). Maurice Bloch (2000, 192) estendeva la critica ai memetisti in generale, che di fatto si sarebbero appropriati del secolare oggetto di studio degli antropologi senza premurarsi di veriicarne i grandi contributi storici. Esprimendo il suo scetticismo sul fatto che la trasmissione della cultura potesse essere ricondotta a mera “trasmissione di bits” come fossero “palle da rugby passate da un giocatore all’altro”, Bloch (ivi, 199) affermava che il passaggio di informazione che avviene nella comunicazione culturale richiedeva “un atto di ri-creazione da parte del destinatario” (ivi; corsivo nel testo). L’idea di ridurre l’uomo alla somma di una quantità di geni più una quantità 41. Anche il concetto di “memeplex” risale a Dawkins (1998, 206-8).
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di memi, secondo Bloch (ivi), equivaleva a considerare uno scoiattolo “una collezione di nocciole”. Il problema, piuttosto, sarebbe stato quello di comprendere i meccanismi inconsci che portavano alle “inferenze” prima e alle azioni poi, attraverso quel rapido processo che avrebbe innescato la sensazione dell’intuizione (ivi, 200). Harry Plotkin (2000, 79) criticava l’idea di Blackmore (2000, 38) che il cervello umano fosse “un dispositivo di imitazione selettiva”, mentre in realtà la trasmissione culturale sarebbe dipesa non solo da “memi di supericie”, ma da un processo profondo di costruzione e integrazione identitaria. In tal senso, Rosaria Conte (2000, 97-109), nel suo saggio sulla “sociomemetica cognitiva”, invitava a non confondere ciò che era stato appreso socialmente per trasmissione con ciò che era risultato dell’esperienza personale soggettiva. Kevin Laland e John Odling-Smee (2000) mettevano in dubbio l’esistenza stessa dei memi e la loro utilità come strumento di ricerca scientiica, dubitando che la cultura potesse essere circoscritta a una “collezione di memi” (ivi, 122), pur ammettendo che i memi potessero essere utili a individuare elementi o “pezzi di elementi” (“chunks of items”) socialmente appresi (ivi, 128). Inoltre, sostenevano, insistendo sulla “virulenza” epidemica dei memi, la memetica trascurava la “suscettibilità” dei destinatari, capaci, in quanto portatori, di rendere potenti i memi indipendentemente dalla loro struttura (ivi, 135). Secondo Laland e Odling-Smee, la memetica poteva giovare alla ricerca solo se coerente agli studi sulla coevoluzione gene-culture. Egualmente, Robert Boyd e Peter Richerson (2000, 158) consideravano prematuro parlare di “replicanti” senza conoscere ancora bene i meccanismi che regolavano la cultura. Nella conclusione del volume, Aunger (2000, 214) rilevava l’importanza di rinvenire un “modello isico” di replicazione memetica che potesse deinire il communication problem. Secondo Aunger, dunque, la trasmissione culturale non sarebbe stata altro che traduzione dalla lingua del cervello a quella dei simboli culturali: the memetic life cycle requires that memes be translated from some neuronal construct into another form for social transmission – for example, into parts of speech. Thus, memetic replication cycles involve stages of translation from one code and substrate to another. Since translation is rarely perfect, this implies that information leakage should regularly occur (ivi, 215-216).
In un importante volume successivo, Aunger (2002), affrontava inalmente, per primo, la questione cruciale della isicità dei memi, partendo dal postulato dell’informatica secondo cui “non esiste informazione senza rappresentazione isica” (ivi, 145). Lo studioso introduceva, quindi, il concetto di “neuromeme”, ovvero: A coniguration in one node of a neuronal network that is able to induce the replication of its state in other nodes (ivi, 197; corsivo nel testo).
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Un neuromeme, in deinitiva, sarebbe una “struttura cerebrale super-molecolare capace di replicarsi” grazie a stimoli speciici, i memi (ivi); solo speciiche tipologie di input sarebbero, infatti, in grado di contagiare i neuroni e far loro assumere la struttura di replicante (ivi, 198), cosa ipotizzata da Aunger (ivi, 203) anche per la lingua naturale e la comunicazione verbale: Hearing one’s own voice saying something may cause the responsible neuronal node to revert to the state that produced the meme in the irst place […] Similarly, the individual who types a word onto paper or a computer screen is the irst to see and interpret what the message says. These are examples of the long loop in action. The host becomes both the sender and receiver of messages (corsivo nel testo).
Questa visione, pur ancora vaga e ipotetica, offre almeno un percorso d’indagine interessante per teorizzare il modo in cui varia la memoria a lungo termine, assoggettata a continui input esterni, ma anche ai propri output: chi trasmette un meme, rinforza anche le proprie strutture, la propria memoria. Il meme, dunque, non sarebbe “il messaggio”, ma la struttura del messaggio, che diverrebbe il “segnale” inviato a un altro cervello mediante un canale di comunicazione (ivi, 257). Uno degli studi più interessanti sulla contaminazione linguoculturale resta ancora oggi Cultural software di Jack M. Balkin (1998), un’originale rilessione che spazia dalla ilosoia all’antropologia, dalla neurobiologia alla teoria della retorica. Balkin contestava alla primigenia concezione di Dawkins l’idea che i memi si replicassero in forma identica, trascurando il fattore-mutazione. Le mutazioni culturali non solo supererebbero quelle biologiche, ma sarebbero l’essenza stessa della trasmissione memetica: la cultura, dunque, sarebbe un sistema evolutivo equilibrato, al contempo conservatore e mutevole, assoggettato non alla “legge dell’obbedienza”, bensì a “quello che noi chiamiamo libertà” (ivi, 18). Pur riconoscendo all’essere umano una predilezione per le strutture cognitive rigide e stereotipiche che assecondano la tradizione, Balkin (ivi, 53, 173-215) considerava che la fondamentale differenza tra evoluzione culturale e biologica sarebbe stata da ricercare proprio nelle continue mutazioni dei simboli che esprimono i giudizi e le credenze: The study of ideology is the study both of endemic cognitive structures and of epidemic changes in beliefs and symbols […] Propositional beliefs can be true or false, but cognitive mechanisms are neither true or false. Rather, they are the ways in which attitudes and judgments are formed: they produce beliefs that can be true or false (ivi, 61; 102).
Come la lingua, suggeriva Balkin (ivi, 105), anche l’ideologia acquista signiicato in base al contesto d’uso, in quanto diventa signiicante quando è contestualizzata, creando un rapporto sociomemetico tra ideologia ed estetica: “Come forme del software culturale, le strutture narrative possono essere trasmesse agli altri attraverso la comunicazione, l’imitazione e le altre forme dell’apprendimento sociale” (ivi, 194). Le strutture narrative, gli espedienti 157
retorici (in particolare, metafora e metonimia), sarebbero “forme pervasive del pensiero umano” predisposte a essere “immagazzinate nella memoria” (ivi, 188), creando quella struttura di aspettative che rafforza l’intera rete di conoscenze con cui un individuo confronta ogni input esterno per accettarlo o riiutarlo (ivi, 190). Gli avvocati, osservava Balkin, offrono alla giuria di un processo una “storia” e i giurati, pur in buona fede, tendono a orientarsi sulla “storia migliore”, memorizzando solo i dati che soddisino le aspettative della struttura narrativa modellante che ha creato il miglior avvocato-narratore (ivi, 197-198). 4.3. Lingua, memi e traduzione Per quanto riguarda il legame tra memetica e traduzione, gli studi si sono limitati per lo più a indagare la diffusione memetica delle teorie, tra le quali la ‘bi-teoria’ è senz’altro il meme di maggior successo. Tuttavia, l’ideatore della Skopostheorie Hans J. Vermeer (1997, 163), per il Forum “Translation and the Meme” pubblicato su Target nel 1997, sosteneva che le traduzioni potessero essere viste come “veicoli transculturali di memi” sulla base di quattro considerazioni: There is no longer “the” text, either as a ixed unit or as a member of one well-established intertextuality […] Memes may so to speak jump in and out of texts and groups of texts according to the actual condition […] Text reception and production in translating is determined by memes which, in their turn, seem to be only partly controllable by their “host” (the translator) […] Translating means transcultural meme replication with translations as transcultural meme vehicles […] Cultures can be considered “meme pools” where memes are (considered to be) interdependent.
Secondo Vermeer, nella memosfera (il pool dei memi) si svolgerebbero la competizione e la selezione naturale tra i memi, la cui prerogativa (come del resto quella dei geni) non sarebbe di essere “veri” o “buoni”, ma di avere successo, diffondendosi epidemicamente a una velocità ben superiore a quella dei geni; infatti, tanto più oggi, milioni di cervelli possono essere raggiunti nello stesso istante. La relazione tra memetica e traduzione è stata studiata, contemporaneamente, anche da Andrew Chesterman (1997), convintosi più recentemente che la teoria della traduzione sia addirittura “una branca della memetica” (Chesterman 2009, 75)42: 42. Sul successo memetico delle idee sulla traduzione e dei termini usati, e sulla manipolazione memetica attraverso le traduzioni e la ri-scrittura, cfr. la monograia di Chesterman 1997.
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It [memetics] assumes that we translate ideas, not languages. It assumes that modiication is an inherent aspect of this process, that equivalence in translation is not identity but more like continuity, that metonymy is a more appropriate descriptive igure for translation than metaphor. It sees translation as a process of dissemination, of sharing, rather than as a movement from A to B (ivi, 87).
Lo studioso rilevava anche una similitudine interessante tra le condizioni richieste per la replicazione e quelle richieste per la traduzione (ivi, 79-80): secondo Dan Sperber (2000, 169), B è una replica di A se B è causato da A, se B è simile ad A, se il processo che genera B ottiene da A l’informazione che rende B simile ad A; secondo Toury (1995b, 33-35), un testo B è la traduzione di A, se esiste un TP, se esiste un processo di trasposizione, se TP e TA risultano correlati. Curiosamente, gli studiosi di memetica non hanno in pratica dedicato attenzione alla correlazione tra teoria dei memi e formulaicità linguistica: come un meme musicale è un’autonoma unità minima riconoscibile, associata a tempo, ritmo, melodia, armonia, strumentazione (si pensi alle due sole note che immediatamente associamo al ilm Lo squalo), un meme verbale è un’unità minima di fonemi, lessico e morfosintassi, ma anche di intonazione, prosodia e ritmo. Se la semiotica studia i simboli e la memetica studia la forma linguistica delle formule di successo, la traduttologia studierebbe la trasformazione dei memi da una lingua all’altra. La maggior parte dei fraseologismi, dei modi di dire, dei proverbi possono essere utilmente considerati memi linguistici, cioè formule che, nelle varie lingue, hanno vinto la competizione tra le alternative concorrenti: esistono decine di espressioni in ogni lingua per esprimere l’invariante dell’italiano colloquiale “Me ne frego!” (che vanno dall’equivalente di “non m’importa” al turpiloquio più marcato), ma c’è solo un equivalente in ogni lingua che abbia lo stesso stile, la stessa funzione, la stessa occorrenza tra lo stesso tipo di persone e nello stesso tipo di situazioni, e che possa anche, nella fattispecie, corrispondere (con pertinenza storica e funzionale) al motto fascista “Me ne frego!” (inglese “I don’t give a damn!”, russo “Plevat’ mne!”, tedesco “Ich pfeife darauf” ecc.). Un meme va tradotto con un meme. Il valore dell’impatto memetico di ogni espressione linguistica (potenziale di cristallizzazione più capacità di diffondersi tra un numero sempre più alto di parlanti) è un utile parametro per misurare la corrispondenza interlinguistica. Possono diventare memi di successo non solo i giochi di parole e gli slogan, ma anche i banali eufemismi che fanno parte delle innovazioni e della creatività (“cacchio!”, “capperi!”, “cavolo!”, “cazzarola!” ecc.). È memetico lo slang dei giovani che cercano sempre di marcare con formule verbali la differenza tra la propria generazione e quelle precedenti. È memetico l’uso traslato del lessico (“stracciare”, “fregare”, “liquidare”, “asfaltare” ecc.), l’uso degli eponimi (“linciare”, “boicottare”, “galvanizzare” ecc.), dei modi di dire (“spremersi le meningi” e “andar fuori di testa” è italiano corrente, 159
ma “vado fuori di meningi”, se mai lo ha detto qualcuno, non ha ‘attecchito’); è memetico l’uso idiomatico degli slogan pubblicitari (come “o così, o pomì”, “no X, no party” ecc.). I memi linguistici sono ‘invenzioni’ vincenti che ‘mettono le radici’ e proliferano: qualcuno le usa per primo e, se hanno successo, iniscono nei dizionari accademici. Il concetto di “potenziale memetico” potrebbe rivelarsi un utile strumento psicolinguistico, sociolinguistico e traduttologico.
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4. IL BILINGUISMO, LA MENTE INTERLINGUISTICA E I PROCESSI TRADUTTIVI UMANI1
1. La prospettiva neurolinguistica 1.1. La lateralizzazione del linguaggio L’encefalo è la ‘centralina’ del sistema nervoso: è composto da tronco encefalico, cervelletto e cervello; queste strutture sono formate, a loro volta, da due tipi di cellule: i neuroni, su cui si concentrano quasi tutte le ricerche, e le cellule della glia, considerate “di supporto” ai neuroni (Freeman 2000, 61) e appena menzionate nei manuali specialistici. I neuroni hanno la funzione di conservare ed elaborare i dati in entrata e in uscita, e sono particolarmente soggetti a mutare la propria struttura in base alla frequenza con cui vengono attivati e alla co-attivazione combinatoria di altri neuroni. Sono dotati di un nucleo, di un lungo ilamento (assone) da cui partono ‘ramiicazioni’ di diversa lunghezza, dette dendriti: attraverso i dendriti, il neurone riceve e trasmette informazioni mediante processi elettrochimici che si concentrano nello spazio sinaptico; questi processi consentono la “conversazione fra le cellule nervose” (Kandel 2007, 83-94). Il cervello umano “comprende circa 100 miliardi di neuroni, ognuno con circa un migliaio di sinapsi, per un totale di 100.000 miliardi di connessioni sinaptiche” (ivi, 101). La parte anteriore dell’encefalo (telencefalo) è costituita da due emisferi (destro e sinistro) tra loro separati, ma collegati dal corpo calloso, un fascio di oltre due miliardi di ibre nervose, la cui funzione è di garantire che le informazioni ricevute da entrambi gli emisferi convergano in un continuum mentale coerente. Gli emisferi sono la sede della corteccia cerebrale, la par1. Questo capitolo, con ampie modiiche, sempliicazioni e precisazioni, ripropone il contenuto del volume di L. Salmon e M. Mariani, Bilinguismo e traduzione. Dalla neurolinguistica alla didattica delle lingue (2012, stessa collana), cui si rimanda il lettore per ulteriori dettagli. Sulle memorie, per dettagli e riferimenti bibliograici, cfr. Cardona 2010, Salmon 2014.
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te evolutivamente più recente del cervello (spessa 3-4 mm), e sono entrambi composti da quattro lobi (frontale, parietale, temporale, occipitale). Nella parte sottostante, subcorteccia, si trovano le strutture ilogeneticamente più antiche, che regolano funzioni importantissime non direttamente controllate dal pensiero cosciente: il talamo, l’ipotalamo, i gangli della base, l’amigdala (complessa struttura a forma di mandorla, fondamentale nella regolazione delle emozioni e dei ricordi legati alle emozioni). Gli emisferi sono collegati a queste strutture sotto-coricali da circuiti detti cortico-sottocorticali, che testimoniano l’interazione tra funzioni automatiche, cognizione e pensiero consapevole. I due emisferi sono quasi simmetrici, tuttavia, “nella cultura popolare” è diffuso il “mito” che l’emisfero sinistro sia “più logico, verbale e orientato al dettaglio”, mentre quello destro sarebbe “più creativo e passionale, spaziale e olistico” (Hickok 2015, 68): in certa misura, l’idea non è sbagliata, ma, “goniata a dismisura”, offre una visione fuorviante, ovvero “l’equivalente novecentesco della frenologia” (ivi) 2. Del resto, anche nella cultura scientiica permane, da parte di numerosi autori, l’idea che la sede anatomica del linguaggio sia tout court l’emisfero sinistro, idea nata nella seconda metà del XIX secolo, grazie agli studi di Carl Wernicke e Paul Broca su pazienti affetti da disturbi del linguaggio: gli esami autoptici post mortem avevano dimostrato in questi pazienti una correlazione tra i loro speciici sintomi (relativi alla comprensione o alla produzione del linguaggio) e le lesioni in due aree dell’emisfero sinistro, chiamate appunto “area di Wernicke” (nel lobo temporale sinistro) e “area di Broca” (nel lobo frontale sinistro). Le aree di Wernicke e Broca venivano indicate come sede, rispettivamente, della comprensione e della produzione del linguaggio. Si era notato, infatti, che una lesione in un’area non comprometteva l’altra, né le sue funzioni. In parte, questo resta valido, tuttavia, sono emerse negli ultimi decenni alcune perplessità e importanti distinzioni: ad esempio, analizzando la letteratura specialistica, Gregory Hickok (2015, 107) conclude che nessun danno a qualsiasi punto dell’emisfero sinistro causa deicit importanti relativamente ai suoni, che sono il fondamento del linguaggio verbale; i deicit si hanno solo in presenza di danni bilaterali (al lobo temporale superiore di entrambi gli emisferi). A supportare l’ipotesi di una correlazione tra componenti della lingua e corrispondenti aree cerebrali “dedicate” era stata anche la nota teoria composizionale di Ferdinand de Saussure (1857-1913); il celebre linguista svizzero aveva proposto la distinzione tra langue (insieme condiviso delle regole e del lessico) e parole (realizzazione soggettiva degli enunciati), nonché quella tra signiiant (signiicante o suono della parola) e signiié (signiicato o referente semantico). Questa classiicazione saussuriana ha contribuito a considerare 2. La frenologia era una teoria ottocentesca, oggi abbandonata, secondo cui la conformazione anatomica del cranio avrebbe indicato lo sviluppo maggiore o minore di aree speciiche dell’encefalo, sede di ognuna delle funzioni psichiche e morali del soggetto.
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“linguistiche” solo le funzioni “localizzate” nell’emisfero sinistro, ovvero la fonetica (l’insieme dei suoni articolati dall’apparato fonatorio umano), la morfologia (l’insieme dei sufissi, preissi e inissi), la sintassi (l’insieme delle regole combinatorie dei costituenti della frase), il lessico (l’insieme dei singoli lessemi). Se questi fossero davvero i soli elementi “linguistici”, l’emisfero sinistro (come sede delle abilità simboliche, analitiche e logiche dell’intelletto) sarebbe davvero l’“emisfero linguistico” e quello destro (detto in modo estremamente riduttivo “emisfero creativo”) sarebbe davvero la sede di funzioni “extra-linguistiche” (percettive, visuospaziali, immaginative, metaforiche, musicali ecc.)3. Lo schema dicotomico che associa le funzioni del linguaggio all’emisfero sinistro, fondato su una concezione astratta di “lingua”, si è fortemente radicato, ma lo studio successivo dei sintomi legati alle disfunzioni del linguaggio ha messo in dubbio questa visione strettamente “localizzazionistica”, dimostrando che, nella realtà comunicativa concreta, la produzione/ comprensione della lingua non si limita all’emisfero sinistro, ma coinvolge quello destro e persino le aree sottocorticali. L’ipotesi di una drastica lateralizzazione del linguaggio, in realtà, era stata messa in discussione già dagli studi di Freud sulle afasie (1891) che evidenziavano il ruolo associativo del linguaggio complesso, la sua essenza metaforica, e, di conseguenza, il ruolo di entrambi gli emisferi. Le intuizioni di Freud sarebbero state riprese in Russia nella seconda metà del XX secolo: il padre della neuropsicologia Aleksandr Lurija (allievo del noto psicologo Lev Vygotskij) ipotizzava che l’attivazione delle funzioni cognitive, comprese quelle linguistiche, dipendesse dalla cooperazione di innumerevoli aree cerebrali ed elaborava un modello modulare del linguaggio, secondo cui le diverse funzioni (articolatoria, denominativa, fonemica ecc.) sarebbero state organizzate in una rete di circuiti cerebrali (cfr. Lurija 1976, 1992, 1998). L’ottica modulare del linguaggio ha inluito sulle più recenti neuroscienze, oggi maggiormente interessate a studiare le connessioni complesse piuttosto che a localizzare aree speciiche per singole funzioni cerebrali isolate (cfr. Solms, Turnbull 2004, 73). Come rilevano importanti studi psico- e neurolinguistici, vi sono fondamentali funzioni del linguaggio verbale processate prevalentemente dall’emisfero destro – in primis, quella prosodica, intonazionale e metaforica – che non solo sono indispensabili a un funzionamento eficiente della comunicazione verbale, ma sono cruciali nell’acquisizione della L1 (cfr. Altmann 2001, 27-38, Clark 2003, 38-42, Ingram 2008, 129 ss.); numerosi dati si oppongono, quindi, al pregiudizio che aspetti importantissimi, come la prosodia e la metaforicità del linguaggio, siano componenti “extra-linguistiche”. Che le intonazioni siano fattori “extra-linguistici” è contradditorio proprio se si assume (e tutti concordano) che la sintassi sia 3. In realtà, pare che le metafore sinestetiche (come “camicia chiassosa”) siano processate dall’emisfero sinistro (cfr. Ramachandran 2004, 77).
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una componente “linguistica” (se non quella linguistica per eccellenza, come sostiene la scuola di Chomsky): spesso, infatti, l’intonazione è indispensabile proprio a disambiguare l’interpretazione sintattica. Altmann (2001, 101102) analizza, ad esempio, la celebre frase inglese “Time lies like an arrow”, interpretabile in modi diversi al variare dell’intonazione (può essere intesa come “Il tempo vola come una freccia”, come “Alle mosche del tempo piace una freccia”, come “Cronometra le mosche come una freccia!” ecc.4). Una mutazione intonazionale può addirittura trasformare una frase nel suo contrario, come illustra la nota frase russa “Kaznit’ nel’zja pomilovat’!”, la cui disambiguazione grammaticale è data solo dall’intonazione: “Kaznit’ ESCLAMATIVO + PAUSA nel’zja pomilovat’!” (Giustiziare PAUSA non si deve graziare!) “Kaznit’ nel’zja ESCLAMATIVO + PAUSA pomilovat’!” (Giustiziare non si deve PAUSA graziare!)5
Basta un solo esempio (ma ce ne sarebbero innumerevoli) per dimostrare che, in alcuni casi, senza conoscere la realizzazione orale della lingua e le relative intonazioni, anche conoscendo il contesto, non si può interpretare il ruolo morfosintattico dei costituenti dell’enunciato. In realtà, le lingue parlate utilizzano le intonazioni secondo algoritmi complessi, ma precisi (discreti), proprio come utilizzano le regole grammaticali, lessicali e fonologiche: anche le ambiguità intonazionali possono essere formalizzate come le ambiguità lessicali o sintattiche. Nelle lingue dei segni, funzione analoga hanno la gestualità e l’espressione degli occhi, ad esempio per marcare la frase interrogativa (cfr. Bertone 2011, 230-232). Ulteriori argomentazioni contrarie all’idea che “linguistico” sia solo l’emisfero sinistro vengono dall’àmbito della patologia. Negli anni Ottanta, Oliver Sacks (2003, 115-117) aveva descritto alcuni pazienti afasici che avevano perduto le abilità linguistiche tipiche dell’emisfero sinistro, ma riuscivano a cogliere aspetti fondamentali dei messaggi verbali grazie ai parametri intonazionali (il loro emisfero destro era intatto). Viceversa, altri pazienti affetti da incapacità di riconoscere le intonazioni (per un danno al lobo temporale destro), pur avendo intatte le capacità linguistiche dell’emisfero sinistro, 4. L’enunciato “Time lies like an arrow” può avere, nella sua produzione orale, anche cento interpretazioni diverse (viste le diverse pronunce a livello diatopico), in quella scritta circa la metà (cfr. Altmann 2001, 102). Un traduttore, per ‘interpretare’, deve decidere come accorpare ‘intonazionalmente’ le parole e, quindi, dove fare le pause (se, ad esempio, c’è un soggetto “time” [tempo] e un predicato verbale “lies” [vola] farà una pausa mentale tra “time” e “lies”, oppure, se c’è un soggetto “time lies” [mosche del tempo] e un predicato verbale “like” farà la pausa mentale tra “time lies” e “like”). Essendo le operazioni decisionali gerarchiche, se si legge “time lies”, la parola “like” sarà letta come verbo (amano/gradiscono) e non come avverbio (implicazione di “lies” = verbo). 5. La possibile ambiguità è data qui dalla possibilità di usare l’ininito del verbo in funzione imperativa, come in russo avviene nel linguaggio militare o autoritario.
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erano del tutto invalidati nella comunicazione verbale (ivi, 118; cfr. anche Marini, Nocentini 2003, 57-58). Lo stesso accade a pazienti che, per una lesione all’emisfero destro, hanno perduto la capacità di afferrare il signiicato relativo al contesto oppure le capacità metaforiche: costoro ‘capiscono’ tutto ‘alla lettera’ (cercano isicamente i “grilli per la testa” delle persone). Inoltre, si sa che pazienti con l’emisfero sinistro lesionato e incapaci di parlare riescono a rispondere correttamente a un test di identiicazione immagine/ parola nel 77% dei casi (cfr. Hickok 2015, 119). Se si aggiunge il coinvolgimento nel linguaggio verbale di strutture sottocorticali, il cervello umano sembra concorrere nella sua interezza (peraltro con differenze soggettive) alla produzione e comprensione richieste da una comunicazione verbale eficiente, luente, completa. A ben vedere, le argomentazioni favorevoli alla lateralizzazione sono costruite sulla seguente tautologia: siccome noi chiamiamo “linguaggio” solo quello che viene processato dall’emisfero sinistro, allora quello che fa l’emisfero destro e il resto del cervello è (per deinizione) “extra-linguistico”. In sintesi, è accettato da tutti che l’emisfero destro gestisca fondamentali aspetti pragmatici della lingua che “sono almeno altrettanto importanti per il successo della comunicazione verbale quanto la grammatica della frase (cioè il sistema linguistico)” (Paradis 2004, 220-221); eppure, molti (compreso Paradis) continuano a considerare la pragmatica una competenza “extra-linguistica”. La pragmatica, invece, è il livello più complesso della produzione/ comprensione del linguaggio umano: da un lato, non c’è pragmatica senza grammatica, senza lessico, senza prosodia e senza ortoepia (la pronuncia corretta dei suoni); dall’altro, la comunicazione linguistica senza abilità pragmatiche non è humanlike. Finché non si vedrà nella pragmatica, cioè in tutti gli elementi deiniti “extra-linguistici”, il fondamento della comunicazione umana, si ritarderà la creazione di un’intelligenza artiiciale in grado di superare un test di Turing in una prestazione linguistica. Senza pragmatica, ci si può avvicinare molto, ma non abbastanza. 1.2. I circuiti della memoria e l’apprendimento Sebbene il linguaggio sia impensabile senza memoria, non esiste una singola “memoria linguistica”, né esiste una singola “memoria globale”. Di per sé, la parola “memoria” è un lessema polisemico usato sia come termine neuroscientiico, sia come concetto vago e astratto: in quasi tutte le lingue indica genericamente i “ricordi”, ma anche la “capacità di ricordare”. In realtà, esistono diverse speciiche modalità, strutture e circuiti neuronali che il cervello impiega per estrarre e immagazzinare i dati dalle esperienze sensoriali, percettive, cognitive ed emotive, e per renderli accessibili a livello conscio e/o inconscio durante i processi di richiamo delle tracce mnestiche (memory recall). Anche le persone con ‘cattiva memoria’ ricordano una quantità smi165
surata di cose: cose che sanno, cose che non sanno di sapere e cose che sanno fare senza sapere come le fanno. Nell’àmbito della neuroisiologia, il termine memoria indica i processi elettrochimici che consentono il richiamo (o “ricordo”) dei dati o delle procedure apprese e, per “richiamo”, si può intendere “l’espressione della risposta comportamentale modiicata in qualche tempo successivo all’apprendimento iniziale” (Rose 1994, 170). Molti ricordi immagazzinati nelle memorie umane accomunano gruppi e sotto-gruppi di persone che condividono l’esperienza di stimoli che innescano ricordi simili: tra questi stimoli condivisi vi sono quelli linguistici, che costituiscono oggetti mnestici non solo complessi, ma anche mutevoli. Le persone possono comunicare proprio perché, da un lato, condividono le memorie di cose, eventi, nozioni, nonché le parole per descriverle e le regole per assemblare le parole, ma anche, dall’altro, perché condividono le mutazioni memetiche cui è continuamente assoggettata la lingua. Infatti, nonostante la parziale soggettività dell’esperienza umana, esiste tra tutti gli ‘interpretanti’ una base universale dei ‘signiicati’, cioè delle associazioni tra parole, oggetti, sensazioni, valori (cfr. Changeux 2003, 122). Non solo tutti gli umani tendono a legare le parole agli stessi concetti, ma catalogano parole e concetti in base a esperienze dirette o indirette che sono condivise a livello universale o parziale. Si pensi ai concetti di “regalo” o di “cibo”: nessun umano regala “un ombelico” a un matrimonio o inserisce “i chiodi” tra gli ingredienti di una ricetta; tuttavia, alcuni popoli usano regalare “assegni bancari”, mentre altri inseriscono “gli insetti” nel loro menu quotidiano: ciò signiica che il nesso concettuale ombelico/regalo/matrimonio è universalmente inesistente, mentre quello coleotteri/spiedini/ricetta esiste per alcuni popoli (comunque, per decine di milioni di persone): a mano a mano che si importano gli oggetti, le esperienze e le parole, si modiicano i concetti (come è avvenuto in Europa con il sushi). Si è detto che le parole di una lingua vengono registrate nel cervello secondo una rete associativa che ne determina il signiicato, seguendo “determinati schemi” e che quindi non ha senso attribuire “il modo di procedere del nostro pensiero al ‘signiicato’ delle parole” (Hofstadter 2001, 65): il signiicato, merita ribadirlo, non è una proprietà della parola, né il “contenuto” di un input verbale, bensì la sintesi di uno schema associativo che si attiva quando il cervello è stimolato da un determinato innesco (trigger). Tuttavia, gli esseri umani non hanno bisogno di fare sempre esperienza diretta per conoscere qualcosa perché, a differenza delle altre specie, condividono un’enorme quantità di esperienze indirette; infatti, noi non memorizziamo solo quello che abbiamo vissuto in prima persona, ma anche un’enorme quantità di esperienze altrui, trasmesse mediante canali di comunicazione indiretta: la narrazione orale, la letteratura (scientiica e inzionale), la pittura, la scultura, la fotograia, le riprese cinematograiche (documentarie o fantasiose), gli audiovisivi, le memorie elettroniche ecc. La tendenza umana a memorizza166
re e a trasmettere le esperienze agli altri rilette una predisposizione innata della nostra specie, e ogni ricordo, diretto o indiretto, è sempre, a suo modo, “vero”: In the end, what is the difference between actual, personal memories and pseudomemories? Very little. I recall certain episodes from the novel The Catcher in the Rye or the movie David and Lisa as if they had happened to me – and if they didn’t, so what? They are as clear as if they had. The same can be said of many episodes from other works of art […] There is no absolute and fundamental distinction between what I recall from having lived through it myself and what I recall from others’ tales (Hofstadter 2007, 256).
La lingua è uno dei principali veicoli che consentono alle esperienze dirette di qualcuno di divenire esperienza indiretta di altri e a modiicarne le azioni: ogni “immagine acustica” produce una “modiicazione nello stato di coscienza dell’uditore e, in particolare, nei suoi piani d’azione e nel suo comportamento reale” (Changeux 2003, 117). Le rappresentazioni interne al cervello, che si replicano grazie al linguaggio, sono probabilmente “all’origine dell’evoluzione culturale” (ivi, 38-39); questo vale anche per le memorie esterne (i libri, i ilm, i ile elettronici) che conservano le rappresentazioni linguistiche delle esperienze e del pensiero individuale. Ogni cervello umano, dunque, è “mappato” a livello individuale dall’esperienza diretta e indiretta (compresa quella del ricordare), ma i meccanismi che governano i processi di interazione tra esperienza e neuroisiologia sono sostanzialmente universali. A differenza dei personal computer, che memorizzano tutto secondo parametri rigidi, nei cervelli umani non tutti i ricordi hanno la stessa probabilità di sopravvivere e di essere riattivati. Le parole sono “inneschi” che vengono memorizzati meglio se i concetti cui sono legati sono emotivamente e socialmente rilevanti: Mental representations are activated by a verbal, auditory, olfactory, somesthetic, gustatory or verbal stimulus or set of stimuli. The extent of the activated portion of the mental representation network is inluenced by the context surrounding the perception of the stimulus. The individual’s mind-set, partially inluenced by desires, interests, previous discourse and concurrent or previous events that trigger expectations, also affects which neural substrates get activated (Paradis 2004, 202).
In altri termini, come mostrano le teorie memetiche, i ricordi umani più longevi e resistenti sono quelli conformi ai giudizi di valore positivi dell’ambiente culturale circostante: Nel cervello di un individuo, le popolazioni sinaptiche che soddisfano i criteri stabiliti dai sistemi di valore hanno maggiori probabilità di sopravvivere e contribuire alla produzione di comportamenti futuri (Edelman 2004, 29).
Anche se può dipendere in parte da predisposizione genetica, lo sviluppo anomalo di abilità mnestiche necessita pur sempre di addestramento. È l’ap167
prendimento, non la genetica, a produrre “drastiche variazioni nelle mappe corticali” rispetto a com’erano prima dell’addestramento (Kandel 2007a, 201). È grazie all’allenamento che si producono variazioni a livello genico che fanno memorizzare nozioni e procedure. I geni non sono “mere determinanti del comportamento”, rispondono, infatti, alle stimolazioni ambientali, tra cui l’apprendimento è una delle più importanti (ivi, 257). Poiché l’esperienza diretta o indiretta interviene “sull’eficacia sinaptica” e regola “l’espressione genica” (Kandel 2007a, 174, 2007b, 243-257), l’apprendimento implica sia la comparsa di nuove sinapsi, sia la sparizione di sinapsi preesistenti, modiicando la struttura genica dei neuroni e condizionando la produzione di speciiche sostanze chimiche indispensabili alla formazione di nuovi circuiti neuronali. “Ricordare”, dunque, signiica operare “una selezione fra un vasto repertorio di connessioni preesistenti” (Kandel 2007a, 186): Studi condotti su animali indicano che la modiicazione dell’espressione genica legata all’apprendimento è seguita da una riorganizzazione delle connessioni tra cellule nervose e, in alcuni casi, dall’accrescimento e dal ritiro delle connessioni sinaptiche (Kandel 2007b, 109).
Le più importanti teorie e scoperte sulla memoria sono state possibili anche grazie all’osservazione di pazienti che avevano subìto danni cerebrali di tipo diverso, correlati a sintomi differenti: la perdita di un tipo di memoria e non di un altro ha permesso di comprendere che, nel suo insieme, non esiste una memoria unica “statica, localizzata chiaramente in un sito o in un piccolo insieme di cellule”, bensì modalità diverse di conservazione e richiamo dei ricordi (Rose 1994, 340). Le diverse memorie si differenziano per i compiti che assolvono, per le strutture cerebrali coinvolte e per una certa autonomia funzionale: un tipo di memoria può essere conservato qualora se ne perda un altro. La prima importante distinzione è tra memoria implicita (inconscia) e memoria esplicita (cosciente): la corteccia cerebrale non è la sola struttura coinvolta nei circuiti mnestici; alcune ‘memorie’, infatti, coinvolgono le strutture sottocorticali. Dell’immensa quantità di ricordi immagazzinati nel cervello umano, solo una piccola parte è accessibile al controllo della coscienza. Freud “aveva colpito nel segno deinendo l’Io conscio come la punta di un iceberg” (LeDoux 1999, 19): il 98% di quello che fa il cervello è al di fuori del dominio della coscienza. Nessuno oserebbe contestare la tesi secondo cui tutte le nostre attività sensoriali e motorie vengono di fatto pianiicate ed eseguite inconsciamente (Gazzaniga 1999, 42-43).
Alcune forme di apprendimento utilizzano sia la memoria esplicita, sia quella implicita, ma è la continua ripetizione a consentire di trasformare i dati consapevoli in procedure, come quando si impara ad andare in bicicletta o a guidare la macchina (cfr. Kandel 2007a, 122; Rose 1994, 149): 168
Numerosi esperimenti hanno dimostrato che, a furia di essere ripetuta, l’esecuzione impegnativa e meticolosa di un compito diventa automatica, comportando una ridottissima dose di attenzione. Agire “in automatico” signiica avere la libertà cognitiva di concentrarsi su un altro mentre si esegue un compito che un tempo assorbiva tutta la nostra attenzione, per esempio guidare (Schachter 2003, 57).
La memoria implicita procedurale agisce grazie alle ripetizioni, all’esercizio (Schachter 2001, XX) e procede a velocità superiore al pensiero cosciente: un nativo che non abbia mai ‘studiato’ la grammatica della propria L1 e non distingua un nome da un aggettivo può coniugare i verbi velocemente, senza pensarci, meglio di chi conosce benissimo (esplicitamente) i verbi e le coniugazioni di una L2 che non ha ancora esercitato a suficienza. Quando parliamo, infatti, “non pensiamo in quale punto della frase mettere il sostantivo o il verbo. Lo facciamo in automatico, inconsciamente” (Kandel 2007a, 122; cfr. anche LeDoux 1999, 183; Paradis 2009, 4). Viceversa, la memoria dichiarativa (o semantica) è il meccanismo che permette di conservare i ricordi rendendoli accessibili alla coscienza: non solo ricordiamo che “Roma è la capitale d’Italia”, ma ricordiamo di ricordare questa informazione6. Sebbene i due sistemi, implicito ed esplicito, possano essere considerati complementari e cooperativi (cfr. Reber 1993, 24), per trasformare il “sapere” in “saper fare”, è utile conoscere quali ripetizioni (esercizi) facilitino gli automatismi procedurali: le mamme, ad esempio, sono ‘istruttori naturali’ nell’aiutare i bambini ad acquisire la L1 (non a caso si parla di “lingua materna”)7. Un’altra fondamentale distinzione è tra memoria a lungo termine e a breve termine (o memoria di lavoro); in entrambi i casi, la memoria è innescata da stimoli sensoriali impliciti o espliciti (visivi, uditivi, tattili, gustativi, olfattivi), da stimoli somatici dell’organismo (Damasio 1995, 273-276), dalle nozioni esplicite trasmesse da altri o frutto della rilessione, dalle emozioni che valutano e classiicano gli stimoli stessi (LeDoux 1999, 50 e ss.; 2002, 286). La memoria di lavoro consente, ad esempio, di ricordare un numero di telefono appena udito inché non lo si sia annotato; per trasferire quel nu6. Sebbene il termine “semantica” (prevalentemente in linguistica e in ilosoia del linguaggio) rimandi all’ambito del “signiicato”, la memoria esplicita non va confusa con la memoria lessicale (la perdita della memoria semantica non ha ripercussioni sull’uso e sul riconoscimento del lessico, ma sull’associazione tra le conoscenze enciclopediche, gli oggetti e le parole che li indicano; cfr. Schachter 1996, Verstichel 2008). 7. La madre col bimbo piccolo utilizza la lingua, le intonazioni, il lessico e la grammatica in modo istintivamente graduato, passando dal baby speech a strutture via via più complesse, ino a quando il iglio non è in grado di comunicare allo stesso livello degli adulti. I parlanti adulti non sono altro che ex-bambini cresciuti esercitandosi quotidianamente, senza sosta, imitando “i grandi” e correggendo i propri errori con ininita fatica, pazienza e lentezza (un bambino impiega circa tre anni di esercizio per pronunciare in modo quasi ottimale il proprio nome).
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mero alla memoria a lungo termine è però necessario ripeterlo di continuo e senza intervalli troppo lunghi (cioè, frequenza e recenza del richiamo) così da modiicare la microstruttura dei neuroni, producendo al loro interno “variazioni anatomiche” (LeDoux 2002, 199): Il deposito a breve termine di informazioni comporta modiicazioni covalenti di proteine preesistenti, mentre la memoria a lungo termine richiede trasformazioni nell’espressione genica e nella sintesi proteica (Kandel 2007b, 431).
Grazie alla ripetizione degli stimoli, avviene il potenziamento dei circuiti neuronali e la mappatura a lungo termine del ricordo. Per esempio, per attivare la memoria spaziale, un percorso va ripetuto molte volte (Kandel 2007a, 403) e per attivare la memoria ecoica, grazie alla quale riconosciamo i suoni e le stringhe di suoni, si devono udire e ripetere tante volte i suoni uditi: sentendo molte volte la stessa frase in una lingua, la si registra nella memoria deinitiva, mappandola con i dati contestuali associati allo stimolo e con i dati della memoria emotiva. Il sistema mnestico emotivo (dotazione ilogeneticamente antica) costituisce un importantissimo “centro di transito delle esperienze soggettive” indispensabile per creare il “sentimento emotivo cosciente” (LeDoux 1999, 307)8. Ci sono evidenze che memoria esplicita e implicita siano elaborate e immagazzinate in differenti regioni del cervello (Kandel 2007a, 120): la memoria esplicita di lavoro (riconoscimento di volti, oggetti, loghi, fatti ed eventi) è immagazzinata nella corteccia prefrontale (ivi); la conversione di questa memoria in memoria a lungo termine pare avvenga nell’ippocampo, mentre i dati permanenti sono immagazzinati nelle aree della corteccia “che corrispondono ai sensi implicati” (un ricordo visivo direttamente collegato a uno uditivo è comunque “registrato” nell’area della visione); la memoria procedurale, che presiede ad abilità, assuefazioni e condizionamenti, “è immagazzinata nel cervelletto, nello striato e nell’amigdala” (ivi). A livello generale, apprendere signiica ricordare, ma non necessariamente ‘sapere che si sta ricordando’. Esistono tipologie di apprendimento inconsapevole, che sfruttano le memorie implicite, e tipologie di apprendimento consapevole che sfruttano le memorie esplicite (dichiarative). Secondo il modello generale “classico”, esistono due macro-tipologie di apprendimento. Quello non associativo è innescato da uno stimolo preciso, è registrato a livello implicito e non implica la costruzione di schemi mentali complessi: è il primo stadio evolutivo della memoria, condiviso anche da organismi con sistema nervoso rudimentale (cfr. Rose 1994, 210). Tra le modalità di apprendimento non associativo che interessano sia la memoria a breve termine, 8. Damasio (2000, 335-342) spiega che il sentimento non è affatto un’emozione, ma una rielaborazione iltrata dalla coscienza del ricordo di un’emozione. Per questo, gli umani possono provare un sentimento senza sapere di provarlo: il ricordo può essere implicito (ad esempio, “rimosso”).
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sia quella a lungo termine (cfr. Kandel 2007b, 402), la più semplice è deinita abituazione e consiste nella “diminuzione della risposta comportamentale dovuta alla presentazione ripetuta di uno stimolo iniziale” (Schachter 2001, 19): si tratta di un’assuefazione graduale a uno stimolo ricorrente (per esempio, quando non sentiamo più i rumori cui siamo abituati o smettiamo di sentire fredda l’acqua del mare dopo un tuffo). La modalità antitetica è la sensibilizzazione; se l’abituazione è l’indebolimento di una risposta, la sensibilizzazione ne è il rafforzamento (cfr. Rose 1994, 210): l’accumulo di stimoli stressanti causa una risposta negativa, utile a difendersi da stimoli dannosi (si pensi ai farmaci usati troppo a lungo). Diverso è il caso dell’apprendimento associativo a lungo termine (ivi, 271): basandosi sulle sinapsi preesistenti, l’associazione determina una rete di concetti più o meno gerarchicamente ordinati; richiamando un elemento della rete altamente rappresentativo, si attiva la rete intera: grazie alle associazioni mnestiche, un’intera cultura può essere evocata con un solo sostantivo (cfr. LeDoux 2002, 246). In questa tipologia rientra il condizionamento classico pavloviano (o “rilesso condizionato” di Ivan Pavlov): l’associazione di uno stimolo condizionato che prima era neutro si associa a uno stimolo incondizionato e “innesca un’azione rilessa” (Kandel 2007a 199). Il ricordo e l’apprendimento migliorano quando le nuove informazioni sono collegate in schemi che si “appoggiano” a strutture già memorizzate, cioè “quando vengono generate frasi o storie che intrecciano le informazioni da apprendere a fatti o associazioni già note” (ivi). Nell’addestramento al bilinguismo, ad esempio, se gli enunciati della L2 si associano nel contesto reale a quelli noti della L1, si ottiene una memorizzazione più rapida e più stabile (cfr. Salmon, Mariani 2012, 154-165), cioè un’associazione sistematica “alle conoscenze già solidamente issate in memoria”, rafforzata dall’attenzione (Kandel 2007a, 195). Poiché non si può stare sempre attenti, né memorizzare tutto, l’apprendimento necessita di un iltro per selezionare gli stimoli più importanti: si può avere, quindi, un’attenzione involontaria (ivi, 290). Se l’attenzione cosciente supporta la memorizzazione esplicita, l’attenzione involontaria supporta quella implicita. Poiché viene appreso solo ciò che si ripete tante volte e che serve (per farsi dare la “pappa” o per passare un esame), l’apprendimento implica tanto la selezione delle mappe utili, quanto la de-selezione delle innumerevoli mappe superlue presenti nel nostro cervello (cfr. Changeux 2003, 66): apprendere, dunque, non è solo “aggiungere”, ma anche “eliminare” selettivamente (ivi). Infatti, le forme dei verbi “irregolari” sopravvivono solo perché si tratta sempre, in tutte le lingue, dei verbi più usati (“mangiare”, “dormire”, “fare”, “dire”, “andare” ecc.; cfr. Pinker 1999, 18 e ss.): essendo ripetute di continuo, le forme irregolari sono memorizzate come “lessico autonomo” (e non come ‘voci’ di un unico verbo) in circuiti a lungo termine (prima in modalità esplicita, poi come procedure; cfr. Jackendoff 2000, 83). 171
Oltre all’attenzione selettiva, un importante supporto all’apprendimento è dato dallo stato di eccitazione e dalla motivazione. L’eccitazione è un profondo coinvolgimento emotivo che acuisce la percezione (cfr. LeDoux 1999, 295-299): se è “positiva”, facilita il ricordo; se è troppa (agitazione), agisce negativamente e si genera l’ansia che ostacola i ricordi (come avviene durante gli esami). La motivazione, invece, è “l’attività neurale che ci instrada in direzione dei nostri obiettivi” (ivi, 328). Non tutte le motivazioni sono supportate dalle emozioni, ma certamente le emozioni agiscono come forti fattori motivanti di supporto allo stato attentivo (ivi, 329): in generale, i ricordi sono facilitati se “lo stato emotivo al momento della formazione mnestica corrisponde allo stato emotivo al momento della rievocazione” (LeDoux 2002, 309). 1.3. Acquisizione e apprendimento della lingua Rispetto alle lingue naturali, esiste una differenza cruciale tra acquisizione delle procedure e apprendimento delle regole che sottostanno alle procedure: l’acquisizione avviene bottom up, grazie alla ripetizione e alla conseguente introiezione dei pattern linguistici nelle memorie implicite (un nativo della L1 applica continuamente regole di cui neppure conosce l’esistenza); l’apprendimento, invece, utilizza top down la memorizzazione esplicita delle regole che vengono ‘studiate’ (uno studente della L2 può conoscerle alla perfezione e non saperle applicare in modo procedurale). Un bambino monolingue prima acquisisce la L1 e solo dopo, a scuola, apprende le regole della L1 che sa già applicare; viceversa, un adulto che affronti lo ‘studio’ di una L2 segue il processo inverso: parte dall’apprendimento top down delle regole, usando la memoria dichiarativa, e poi, grazie alla ripetizione, cerca di acquisire (introiettare) le procedure. Per ottenere un bilinguismo di livello professionale, la L2, pur partendo da forme di apprendimento dichiarativo, deve raggiungere il livello di acquisizione procedurale (anche i bilingui tardivi dimenticano le regole della L2 quando le hanno introiettate e le usano in modo automatico)9. Le memorie implicite (inconsce) sono le uniche di cui dispongono i bambini ino agli 8-10 mesi e, ino a 3 anni circa, restano dominanti (cfr. Fabbro 2004, 57); l’iniziale impossibilità di apprendimento esplicito aiuta i bambini ad acquisire la lingua nativa grazie all’imitazione e a un dispositivo linguistico (il LAD) che permette loro di inferire inconsciamente le regole grammaticali generali da una quantità non ininita di esempi particolari (uditi dal mondo circostante); questa capacità innata e spontanea riguarda il riconoscimento e l’articolazione dei suoni, le regole morfologiche (coniugazioni, 9. Molti interpreti che parlano luentemente la L2 talvolta non sono affatto in grado di spiegare le regole che applicano.
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declinazioni, concordanze) e quelle che determinano la formazione e la collocazione delle parole nella frase (sintassi) (cfr. Fabbro 2004, 59). Il primo stadio di acquisizione è quello prosodico: probabilmente, dice Altmann (2001, 37), un neonato sente la voce umana come un adulto ascolta una canzone in una lingua che non conosce. Grazie al ritmo e ai picchi intonazionali, il bambino impara a riconoscere la lingua della madre quando è ancora in gestazione (ivi, 30-31); una volta venuto al mondo, la imita e la pratica, senza apprendere nulla sulla lingua inché non va a scuola. I meccanismi che stimolano la ripetizione e che, evidentemente, hanno evolutivamente favorito la lingua come veicolo di trasferimento delle conoscenze e delle abilità sono di estrema importanza per qualsiasi teoria sull’origine del linguaggio umano, sull’acquisizione, sull’apprendimento delle lingue e sul mantenimento del bilinguismo. Quale che sia l’origine e la funzione del LAD, per attivarlo, serve un istinto imitativo e un continuativo esercizio di ripetizione. La ripetizione a ine imitativo era stata il fondamento delle teorie di Vygotskij (1992) e Lurija (1976): i bambini non fanno che ripetere ad alta voce quello che sentono dai loro genitori; ad esempio, indicando un oggetto pericoloso, ripetono il divieto di toccarlo con le parole che hanno sentito. La ripetizione avrebbe anche il vantaggio cognitivo di rinforzare il ricordo del divieto, sarebbe utile socialmente e sul piano evolutivo (se capisco un divieto e lo ripeto evito l’approccio per tentativi ed errori). Certamente, senza ripetizione non si rinforzano le abilità fonatorie, intonazionali, lessicali. Non si è ancora stabilito se il linguaggio umano sia un meccanismo ilogeneticamente indipendente (posizione chomskiana) o sia il risultato di una specializzazione evolutiva (esadattamento) di compiti motòri (articolatori e/o gestuali). La prima ipotesi considera secondarie la ripetizione e l’imitazione (si concentra sull’induzione che, da pochi stimoli esterni, fa introiettare i pattern generali), la seconda le ritiene fondamentali10. Lo studio della relazione tra memoria e apprendimento dovrebbe essere il fondamento delle tecniche didattiche mirate ad addestrare il bilinguismo e le competenze traduttive. Cardona (2010) non solo rileva l’impossibilità di insegnare una L2 senza disporre dei dati scientiici sul funzionamento delle memorie, ma ritorna su alcuni deleteri pregiudizi, tra cui quello che esista una predisposizione naturale alle lingue: qualunque umano con un cervello funzionante è naturalmente portato ad acquisire le lingue, sebbene esistano persone più motivate a “elaborare strategie che consentano di strutturare e organizzare l’apprendimento in modo eficace e produttivo” (ivi, 13). Di gran 10. Nell’àmbito della seconda posizione teorica, pare oggi ridimensionata (se non esclusa) l’ipotesi che il linguaggio sia supportato dai cosiddetti “neuroni specchio” (scoperti nei macachi e poi individuati nell’uomo), capaci di attivarsi non solo quando si esegue un compito motorio, ma anche quando si osserva l’esecuzione del compito da parte di altri individui (cfr. Hickok 2015).
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lunga non tutti i docenti di L2 (e pochi studenti) comprendono che acquisire le procedure implica esercitare le memorie mediante ripetizione per tempi lunghissimi e con continuità. Credono (altro deleterio pregiudizio) che i bambini imparino la L1 senza fatica, mentre i bimbi investono per anni energie immense, ma guidati da una motivazione estrema (dalla lingua dipende l’autonomia, il potere di chiedere e ottenere quello che serve per sopravvivere e quello che serve sapere). In realtà, un bimbo impiega molto più tempo a memorizzare lessemi e procedure della L1 di quanto ne serva a uno studente di L2, ma il bimbo è costantemente gratiicato (senza esami, né frustrazioni) dai suoi lenti, ma progressivi successi11. E, soprattutto, per anni può fare solo quello. In sintesi, se è noto a tutti che il potenziamento a lungo termine di una nozione richiede l’esercizio della memoria dichiarativa, a pochi è noto che qualsiasi procedura linguistica richiede l’addestramento della memoria procedurale implicita perché, per qualsiasi abilità non è mai la genetica, ma la pratica che “porta alla perfezione” (Kandel 2007a, 190): “nessuno impara a suonare il violino in una lezione, neanche un nuovo Heifetz. È necessario un gran numero di tentativi” (Damasio 2000, 357). 1.4. Il cervello bilingue: apprendimento e acquisizione della L2 Gli studi sperimentali sul bilinguismo sono innumerevoli ed evidenziano l’impossibilità di deinire e ‘classiicare’ i bilingui in modo univoco. In generale, il dibattito sulla rappresentazione cerebrale del bilinguismo è stato profondamente inluenzato dall’assioma della lateralizzazione del linguaggio e dai pregiudizi sulla supposta ‘facilità’ di acquisizione delle lingue nell’infanzia. È noto che tutti i bambini, entro i primi tre anni di vita, acquisiscono spontaneamente una L1, quella dell’ambiente che li accudisce: chi è deprivato di questa possibilità, per patologie o segregazioni gravi, dopo quell’età non riesce più ad acquisire una L1 nativelike, può imparare a esprimersi solo in modo incompleto, ‘difettoso’. Anche su questa base, si è pensato che il parametro per classiicare la tipologia di bilinguismo dovesse essere l’età in cui un individuo entra in contatto con la L2 (in realtà, il vincolo dei tre anni è solo per la L1). Si usa distinguere, pertanto, tra bilinguismo precoce, che è (inizialmente) coordinato e bilanciato (cioè acquisito in parallelo e di uguale livello), e bilinguismo tardivo, che è subordinato, in quanto la L1 è dominante sulla L2. Secondo l’approccio orientato all’età, non si misura cosa sa fare un bilingue con le due lingue, ma quando è entrato in contatto con la L2; si 11. A un bimbo italiano ben stimolato servono sette-nove anni di esercizio per usare correttamente il congiuntivo e la consecutio temporum (qualcuno non impara mai), ma da uno studente di italiano L2 si pretende lo stesso risultato in metà tempo.
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differenzia a priori (spesso, senza controlli successivi) chi acquisisce parallelamente L1 e L2 da chi entra in contatto con la L2 a distanza di anni dalla nascita; si pensa che un bilinguismo precoce sia sempre migliore di uno tardivo. In realtà, come vedremo, è così solo in certi casi. In quest’ottica, esisterebbe una soglia critica oltre la quale non sarebbe più possibile acquisire una L2 in modalità nativelike. La soglia sarebbe collocata in un arco di tempo che varia, a seconda degli autori, dai tre anni di età alla primissima adolescenza. L’età resta, dunque, il più importante parametro di valutazione e classiicazione del bilinguismo tra i neurolinguisti (cfr. Fabbro 2001, 2004; Paradis 2004, 2009). È probabile che, per quanto riguarda l’abilità di percepire, imitare e riprodurre i suoni12, esista, almeno parzialmente, una soglia critica; tuttavia la soglia è comunque soggettiva e certamente condizionata da altri parametri. Infatti, poiché nella vita di un bilingue precoce, a causa di fattori ambientali, la dominanza tra L1 e L2 può alternarsi (cfr. Myers-Scotton 2006, 25-34), poiché sempre più spesso si cambia luogo di residenza, ambiente famigliare e lavorativo, un bilinguismo perfettamente bilanciato nello stesso periodo non esiste mai. In sintesi, l’ipotesi della soglia critica è contro-argomentabile in base a tre considerazioni: 1) in età adulta si può acquisire una L2 in modalità nativelike; 2) per alcuni bilingui tardivi, la L2 può diventare dominante; 3) spesso i igli di migranti o i ragazzi adottati all’estero, pur entrati in contatto con la L2 dopo gli otto-dodici anni di vita, addirittura perdono la L1 (usata durante tutta l’infanzia) e, dopo qualche anno, si ritrovano o a parlarla come ‘stranieri’ (persino a livello fono-articolatorio) o, in alcuni casi, a non capirla neppure più. Il fenomeno di perdita della lingua è detto attrition (“sfaldamento”) ed è tanto interessante quanto drammatico; può riguardare sia la L1, sia la L2, e talvolta entrambe (nel caso diventi dominante una L3). Mentre la perdita della lingua conseguente a una disfunzione cerebrale è detta “afasia”, l’attrition è causata di solito dalla mancanza di esercizio dovuta a forti concause socio-psicologiche, famigliari, culturali: tra queste, quella fondamentale, è il ‘disvalore’ della L1 rispetto alla L2. Per un ragazzino adottato, ad esempio, rispetto alla L1 del Paese abbandonato, la L2 parlata durante l’adolescenza nel Paese nuovo (recepita come più prestigiosa e consona alla nuova identità personale) tende gradualmente a cancellare totalmente la L1 (nativa e parlata per tutti gli anni dell’infanzia). Sta ai genitori (migranti o adottivi) trasmettere ai igli il rispetto e l’affetto per la L1, aiutandoli a conservarla anche di fronte a vergogna, resistenza e riiuto13. 12. Fino a sei mesi i bimbi discriminano i suoni di tutte le lingue umane, ma a un anno riescono ormai a discriminare bene solo i suoni della L1 cui sono esposti (cfr. Fabbro 2004, 29-30). Per riattivare la percezione dei suoni di una L2 in età adulta, ancora una volta, serve l’esercizio. 13. Questa fermezza è comunque molto dificile e la maggior parte dei genitori migranti
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I primi sintomi dell’attrition della L1 nei bilingui si manifestano sotto forma di confusione tra le due lingue. Se l’abilità di passare in modo controllato da una lingua a un’altra (detta “code switching”) è una prerogativa dei bilingui, la commutazione incontrollata è un segnale di confusione tra i due sistemi (come se un telecomando impazzito passasse da solo da un canale all’altro): nello switching incontrollato viene meno la capacità di tenere le lingue separate, ovvero di “etichettarle” (tagging)14. Questo capita ai bilingui che vivono in un ambiente in cui L1 e L2 vengono confuse e che si disabituano a prestare attenzione al tagging: senza accorgersene, costoro mischiano L1 e L2 e non si rendono conto di produrre messaggi ibridi, comprensibili solo a chi condivida la stessa confusione (chi parla runglish, russo misto ad americano, non è compreso né dagli anglofoni, né dai russofoni). Il fenomeno è dovuto in buona parte all’incapacità di rispettare una stabile correlazione tra lingua e luogo (“one place, one language”), e tra lingua e persona (“one person, one language”)15. La confusione si manifesta sia come switching incontrollato (si passa all’altra lingua senza rendersene conto), sia come “code-mixing”; nel secondo caso, si perde la capacità di tenere separate L1 e L2 che si mescolano strutturalmente tra loro: di solito il mixing inconsapevole fa sì che le regole sintattiche e i morfemi della L1 vengano applicati al lessico della L216. Entrambi i livelli di confusione linguistica colpiscono numerosi migranti di prima generazione. Per queste tre ragioni, sono state avanzate deinizioni di bilinguismo basate non sull’età di acquisizione, ma sulle reali prestazioni linguistiche. Secondo Carol Myers-Scotton (2006, 44), il bilinguismo sarebbe “l’abilità di usare due o più lingue in modo suficiente da gestire una circoscritta conversazione casuale”. Meglio ancora, si può deinire “bilingue” una persona cui è praticamente indifferente in quale delle due lingue vivere qualsiasi situazione. L’idea è che, per quanto diversi siano, i canali dell’apprendimento e quelli dell’acquisizione non sono del tutto scollegati, come, invece, sostiene Paradis (2009, 36, 59): Explicit components of input may become intake for learning, but only implicit components of input become intake for acquisition – not what is noted, but what is ritiene accettabile e comprensibile che i igli si ‘ambientino’ nella nuova linguocultura a scapito della L1 e della cultura nativa ino a ‘ripudiarla’. 14. L’incapacità di alternare in modo selettivo le lingue potrebbe dipendere da una capacità del cervello indipendente dai circuiti del linguaggio (cfr. Lurija 1976, Green 1986). 15. Ogni genitore dovrebbe sempre parlare la stessa lingua con i igli, senza mai mischiarla con quella “nuova” proprio per evitare che venga meno la separatezza delle lingue e per scongiurare i fenomeni di confusione inconsapevole. 16. Nelle comunità russofone americane, dove è diffuso il “runglish”, si sentono frasi come “ja drajvila childronov v skul” (“ho draivato i cildreni alla scul”; da: “to drive”, “children”, “school”, con il pronome personale russo “ja” [io], i morfemi russi “-la” [sufisso verbale], “-ov” [genitivo plurale] e la preposizione russa “v”).
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implicitly abstracted […] By deinition, nothing implicit (such as the underlying structure of utterances) can be observed, let alone noticed.
Certamente, se la L2 è ‘studiata’ prevalentemente in modo dichiarativo, cioè viene utilizzata troppo lentamente, rilettendo, tende a essere rappresentata per lo più in aree corticali; solo se la L2 è stata introiettata in modo procedurale, interessa anche le strutture sottocorticali, come avviene per la L1 (cfr. Fabbro 2001, Paradis 2009). Tuttavia, paradossalmente, a chi entra in contatto con la L2 mediante apprendimento adulto non solo non è preclusa l’acquisizione, ma questa può essere facilitata dalla rilessione, a patto che l’addestramento procedurale superi quantitativamente quello esplicito. Nel bilinguismo adulto si può agire in modo ‘sinergetico’, cosa impossibile con i bambini piccoli che, come si è detto, impiegano lunghissimi anni per poter usare la lingua a livello complesso. Un adulto abituato dalla scuola a ‘studiare’ le lingue tenderà, inizialmente, a privilegiare la memoria dichiarativa e a opporre una certa resistenza al monotono addestramento procedurale (la ripetizione è ‘noiosa’ e, apparentemente, poco gratiicante); al tempo stesso, per rendere le abilità della L2 molto simili a quelle della L1, vanno riprodotte situazioni il più possibile simili all’acquisizione della L1 (cfr. Fabbro 2004, 75). È dunque possibile e utile alternare sempre al ‘canale’ esplicito quello implicito. Per creare situazioni simili all’acquisizione della L1, secondo i dati neurolinguistici, si dovrebbe partire dalla comprensione passiva, sensibilizzando alle variazioni prosodiche e lasciando la scrittura come compito ultimo. Lettura e scrittura, a livello ilogenetico e ontogenetico, sono le tappe conclusive delle competenze linguistiche (è evidente a chiunque che è più facile imparare a leggere e scrivere una lingua che si comprende e si parla bene). Tuttavia, il percorso adulto verso la L2 si differenzia dall’acquisizione della L1 proprio per il ruolo della lettura, di solito ampiamente privilegiato. La lettura, in realtà, va sfruttata come mezzo per migliorare l’acquisizione della lingua, evitando che diventi un ine e ostacoli l’investimento sull’oralità. La lettura può essere un mezzo straordinario per accelerare il processo acquisizionale degli adulti: è utile per accedere ai testi degli esercizi, nonché alla navigazione in rete e agli audiovisivi sottotitolati (la capacità di leggere libri nativelike è una tappa inale). Per ottimizzare l’impatto della lettura sulle competenze orali, è utile che qualsiasi esercizio in L2 venga svolto ad alta voce, addestrando in modo diretto l’apparato fono-articolatorio, la pronuncia e le intonazioni, e aiutando a individuare i problemi soggettivi. Del resto, i non vedenti che utilizzano solo esercizi orali (senza lettura, né scrittura) sono, potenzialmente, eccellenti bilingui tardivi: prestano più attenzione ai suoni e non hanno dificoltà a imitare e a ripetere; inoltre, non avendo i vincoli dell’ortograia, concentrano i loro sforzi solo sull’oralità, che dovrebbe essere sempre la prima tappa dell’acquisizione17. 17. Questa affermazione è basata su esperienza didattica diretta.
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Addestrare le procedure mediante imitazione e ripetizione è una condizione non suficiente, ma necessaria per far sì che la L2 sia computata dal cervello in modo gradualmente sempre più simile alla L1. Il fatto che i neuroni dei circuiti procedurali possano modiicarsi strutturalmente quando si acquisisce una L2 supporta la cosiddetta “ipotesi della convergenza” (Green 2005). Secondo questa ipotesi, a mano a mano che la competenza operativa in L2 aumenta e un soggetto riesce a fare in L2 quello che sa già fare in L1, i circuiti cerebrali dedicati alle due lingue tendono a sovrapporsi (con enormi vantaggi per la velocità di switching L1/L2): quanto più la grammatica è introiettata e quanto più si sovrappongono i sistemi neuronali della L1 e della L2, tanto più è alto il livello di bilinguismo tardivo (cfr. Paradis 2002). L’ipotesi della convergenza è coerente con l’idea che tra un cervello bilingue e uno monolingue ci siano poche differenze funzionali e strutturali: secondo Paradis (2004, 212), L1 e L2 sarebbero addirittura due “sottosistemi” del “sistema del linguaggio”. In estrema sintesi, si può ipotizzare (sulla base di dati per ora indicativi) che non solo nei bilingui precoci entrambe le lingue siano rappresentate nelle stesse aree cerebrali, ma che, nei bilingui tardivi con alto livello di competenza in L2, i sistemi neuronali delle due lingue tendano a convergere come nei bilingui precoci. In sintesi, il bilinguismo è esteso a oltre metà della specie umana e la genetica offre a qualunque monolingue la possibilità di acquisire un’altra lingua: è l’interazione con l’ambiente a favorire la potenzialità di un individuo a diventare bilingue; sono solo la quantità e la qualità dell’esercizio di ognuna delle due lingue a determinare la dominanza di una sull’altra. Come nello sport o nell’abilità di suonare uno strumento musicale, prima inizia l’esercizio, più è facile che le procedure siano introiettate indipendentemente dallo ‘studio’ delle nozioni esplicite; ma, anche in età adulta, chiunque, potenzialmente, può imparare a suonare uno strumento, a praticare uno sport, a usare una lingua in modo qualitativamente prossimo alla L1. Inine, nessuna acquisizione, neppure quella della L1, è stabile e deinitiva se non si mantiene un esercizio costante, quotidiano, per tutta la vita: se i circuiti di L1 e L2 si confondono, oppure se una delle due lingue cessa di essere usata, l’altra può “sgretolarsi”. 2. Proposta teorica sui processi traduttivi umani (PTT) 2.1. L’ipotesi del Translation Device Il bilinguismo è una condizione necessaria, ma non suficiente per poter tradurre: come nota Paradis (2004, 175), “trovare un traducente equivalente su richiesta è un compito dificile per bilingui luenti che non siano interpreti professionisti”. Infatti, un bilingue non speciicamente addestrato può scoprirsi del tutto incapace di svolgere anche il più semplice esercizio di tradu178
zione simultanea; l’assenza di esercizio e la mancanza di preparazione teorica gli impediscono: - di richiamare alla memoria il traducente nel tempo a disposizione, cioè pochi millisecondi; - di applicare un ben preciso criterio di selezione se più traducenti-output si attivano in risposta all’input della lingua di partenza; - di sovrapporre l’emissione della traduzione in uscita all’ascolto del testo in entrata. Le osservazioni empiriche, l’esperienza didattica e i dati estremamente signiicativi relativi a pazienti afasici bilingui suggeriscono (prima ipotesi) che esista un Translation Device (TD), ovvero un dispositivo neuro-funzionale di traduzione in dotazione a ogni essere umano bilingue che lo rende potenzialmente in grado, previo addestramento: - di passare da una delle due lingue all’altra (switching); - di mantenere separate le due lingue (tagging); - di convertire i messaggi da una lingua all’altra in modalità nativelike. Quest’ipotesi è semplice e logica, intendendo il TD come dispositivo che lavora in modo indipendente, ma in parallelo con quello che gestisce la lingua naturale. Come spesso accade, sono i disturbi del linguaggio in pazienti bilingui a offrire una rappresentazione dell’inquietante autonomia dei processi traduttivi rispetto alla comprensione/produzione di una lingua. Una folta letteratura scientiica descrive i sintomi di diverse forme di ‘anomalie traduttive’, che comprendono:
- impossibilità a tradurre nelle due direzioni (sia L1 ➝ L2, sia L2 ➝ L1) pur potendo parlare le due lingue; - traduzione spontanea: impulso incontrollato a tradurre tutto quanto viene detto (dal paziente stesso o dai suoi interlocutori); - traduzione senza comprensione: il paziente non comprende il testo da tradurre, ma lo traduce con eficacia; - traduzione paradossale: il paziente può tradurre solo in una delle due lingue, quella in cui non riesce più a parlare spontaneamente (e non nell’altra)18. Quando, viceversa, un cervello bilingue è pienamente funzionante, dispone di un TD che, opportunamente addestrato, consente di tradurre da una lingua all’altra sia potendole, al contempo, parlare e capire entrambe, sia tenendole distinte tra loro. Tuttavia, i compiti del TD, secondo l’ipotesi, non 18. Si veda il caso riportato da Paradis et al. (1982) di una paziente arabo-francese che poteva parlare spontaneamente un giorno in francese e non in arabo (ma traduceva in arabo dal francese), il giorno dopo in arabo e non in francese (ma traduceva in francese dall’arabo). Non poteva mai tradurre verso la lingua che poteva parlare. Per una rassegna dei casi, cfr. Salmon, Mariani 2012, 71-76.
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sono limitati al cervello bilingue, ma riguardano, in generale, qualsiasi cervello monolingue: il TD lo rende capace di traduzione intralinguistica (cioè, di riformulare gli enunciati L1 in sottocodici diversi). Non sono noti, infatti, dati empirici, teorici o sperimentali che dimostrino che l’abilità di un bilingue di passare da L1 a L2 e viceversa (ad esempio, dal dialetto parlato in casa alla lingua uficiale parlata a scuola) sia diversa dall’abilità di qualunque monolingue di passare da un registro all’altro della L1 (ad esempio, da quello cameratesco con gli amici a quello formale a una riunione di lavoro). Il TD è, dunque, un’ipotesi che riguarda e accomuna entrambi i tipi di traduzione: intralinguistica e interlinguistica. Vediamo perché. Per diventare tanto luenti monolingui, quanto luenti bilingui è necessario un prolungato esercizio per saper usare formule diverse che dicono “la stessa cosa” in contesti diversi. La parola “contesto”, pur comunemente usata anche in linguistica, non è mai stata deinita, ma certamente è fondamentale: Through language we express relations between meanings. We collocate these meanings in context, and the context itself is meaningful to understand situations, intentions and goal-directed actions. As a matter of fact, we cannot separate language from its context (Morosin 2007, 103).
Si assuma ora che la deinizione di “contesto” sia una correlazione di fattori ben precisi, ovvero quella tra wh- factors: WHO is saying WHAT to WHOM, WHEN, WHERE, WHY CHI dice COSA a CHI, QUANDO, DOVE, PERCHÉ
La capacità di variare le formule in base al contesto così deinito richiede un enorme addestramento sia ai bambini in L1, sia ai principianti in L2. Nei primi anni di acquisizione della L1, i bambini non si preoccupano di sbagliare variante, riescono a gestire una sola formula: dicono “Ciao!” a chiunque, così come fa uno studente straniero di italiano. L’addestramento alle varianti contestuali, basato sulla memorizzazione del feed-back contestuale da parte degli interlocutori, parrebbe quasi identico nell’acquisizione della L1 e della L2 in età adulta: anche un bambino impara a dire “Buon giorno!” in alternativa a “Ciao!” grazie all’insegnamento (dichiarativo) dei genitori (o di altri “care keeper”). Il TD, dunque, darebbe agli umani la facoltà sia di riformulare in un altro sotto-codice della stessa lingua, sia di tradurre da una all’altra lingua naturale. In tal senso, come sostiene Paradis (2004, 88, 225), in un cervello bilingue agiscono gli stessi meccanismi di un cervello monolingue: Sociolinguistic registers in unilinguals have come to be viewed as neurofunctionally fractionable, in the same way as two languages in the brains of bilinguals (ivi, 88).
L’ipotesi di un TD può essere avanzata per via induttiva e può implicare che l’addestramento alla differenziazione tra i codici sia fondamentale per la traduzione interlinguistica: 180
se
[un monolingue dispone implicitamente dell’abilità di selezionare le varianti del sottocodice della L1 in base al contesto (ad esempio, per salutare, sa scegliere quando usare “Ehilà!”, “Salve!”, “Buon giorno!”, “Ciao!”, ecc.)] allora ➝ [un bilingue sa selezionare le varianti del sottocodice della L2];
se
[un bilingue viene addestrato in base a parametri di equivalenza a convertire le variabili L2 ↔ L1], allora ➝ [impara a tradurre nella L1 le varianti L2 equivalenti in base ai parametri dati].
La potenziale abilità di tradurre può essere addestrata in qualsiasi essere umano e, come la competenza linguistica, è di livello professionale se e solo se si trasforma in abilità procedurale. L’attivazione e il rinforzo del TD possono avvenire sia esercitando la memorizzazione di procedure con un addestratore (ad esempio, all’università), sia con l’esercizio personale (ripetizione ‘a casa’), sia in condizioni spontanee, quando un bambino o un adulto viene sollecitato a tradurre da una lingua all’altra in àmbito familiare, scolastico o lavorativo. Prima di pensare alla traduzione scritta, per l’addestramento sono particolarmente indicate la traduzione simultanea o consecutiva in ascolto e la traduzione a vista (si legge direttamente in L1/L2 un testo scritto in L2/L1): si tratta di esercizi che rendono più rapido il richiamo (recall) e il rinforzo di corrispondenze tra le due lingue. Infatti, a mano a mano che un bilingue (a prescindere dall’età) si esercita a tradurre, nei suoi circuiti di memoria si formano e si rinforzano nuove connessioni neuronali che generano un “ipertesto” bilingue: l’associazione di ogni variante della L1 a quella corrispondente della L2 è facilitata proprio dall’esercizio. Il compito di addestramento alla traduzione, dunque, è quello rinforzare il TD velocizzando gli automatismi degli apprendenti-traduttori. Anche in questo caso, ciò non implica che le conoscenze dichiarative siano inutili: qualsiasi adulto è avvantaggiato da conoscenze teoriche esplicite sia sulle lingue di lavoro, sia sugli algoritmi procedurali suggeriti dalla teoria. Come avviene nello sport o nel processo di acquisizione delle procedure per suonare uno strumento musicale o per eseguire un intervento chirurgico, imitazione e ripetizione vanno supportate, prima e dopo, dalla capacità di analizzare consapevolmente il proprio operato e renderlo coerente alle indispensabili nozioni teoriche. Se collegate all’esercizio procedurale, le conoscenze dichiarative possono facilitare il ricorso alle strategie euristiche necessarie in situazioni nuove, che richiedono aggiustamenti procedurali (come alla guida di un veicolo in situazioni impreviste). Ovviamente, più tempo ha a disposizione il traduttore, più ha la possibilità di rilettere sulle proprie opzioni: ma, anche nel caso dell’interpretazione simultanea di conferenza, quando il margine di correzione degli errori è limitatissimo, proprio la capacità di analizzare a posteriori la causa degli errori aiuta a non commetterli più in seguito e a studiare strategie migliori per correre meno rischi. In sintesi, a favore dell’ipotesi di un circuito speciico per la traduzione, si consideri l’evidenza empirica che: 181
1) addestrandosi a riformulare nella L1, si migliorano le abilità a tradurre da una lingua a un’altra; 2) traducendo da una L2 in L1, migliorano le abilità nel tradurre da qualsiasi altra L3; 3) sebbene l’addestramento alla traduzione L2 ➝ L1 non corrisponda in modo diretto a quello contrario (L1 ➝ L2), tuttavia lo facilita: esercitarsi nella traduzione passiva ha una ripercussione positiva sulle abilità in traduzione attiva e viceversa. Ciò fa pensare che l’esercizio possa agire su uno stesso circuito “traduttivo” (il TD, per l’appunto) e che le differenze nelle prestazioni in entrambe le direzioni L1 ↔ L2 dipendano dal fatto che il bilinguismo non sia mai perfettamente bilanciato: la traduzione verso la lingua più debole (di solito la L2) è sempre meno nativelike, ma si velocizza comunque in proporzione all’esercizio in direzione opposta19. Scopo della traduttologia teorica è trovare un modello generalizzabile che spieghi quando una traduzione funziona, quali requisiti siano richiesti al traduttore, quali parametri e tecniche possano considerarsi universali per affrontare qualsiasi situazione. 2.2. Generalità La generalità, si è detto, è una condizione fondamentale per un modello teorico rigoroso. In biologia, gli esseri viventi sono classiicati secondo categorie che vanno dal generale al particolare (dal regno alla specie) e non viceversa: prima di vedere che cosa distingua una medusa da un pipistrello, una teoria deve comprendere che cosa abbiano in comune. Se il ‘denominatore’ che accomuna gli elementi della biologia è quello della “vita”, quello che accomuna gli elementi della traduttologia è “essere un messaggio in lingua naturale”. Quindi, un modello teorico sulla traduzione deve partire dal massimo livello di generalizzazione (che cosa accomuna la traduzione di qualsiasi messaggio verbale) e solo al suo interno comprendere le particolarità dei singoli casi. Nella fattispecie, la prima ambizione del modello teorico è quella di comprendere bottom up che cosa accomuni tutte le traduzioni che ‘funzionano’ (quando, cioè, TP e TA siano sostanzialmente intercambiabili), in modo da risalire a un principio generale di equivalenza comune a: 19. A livello scientiico, questi ‘fatti’ empirici hanno scarso valore probatorio inché non sono corroborati da prove di laboratorio, ma non per questo sono meno importanti. Semplicemente, realizzare veriiche sperimentali è spaventosamente dificile sia a livello epistemologico, sia a livello organizzativo e inanziario. Prima o poi queste evidenze empiriche saranno supportate da veriiche scientiiche (un esperimento del genere è stato realizzato all’università di Genova; cfr. De Carli et al. 2015), ma, nel frattempo, il processo induttivo è indispensabile a supportare l’ideazione di qualsiasi sperimentazione.
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A) tutte le tipologie testuali; B) tutte le coppie di lingue; C) tutti i formati testuali (orale, scritto, elettronico).
Un modello teorico, dunque, parte dalle analogie e considera le particolarità e le differenze come elementi costitutivi della soluzione generale. Se CRITERIO X è la soluzione generale per la traduzione costruita sulla previsione delle differenze, si ha l’algoritmo: se TRADUZIONE [generale], allora CRITERIO X [generale] se TRADUZIONE [problema particolare], allora CRITERIO X [caso particolare]
In altre parole, compito del modello teorico è stabilire quali parametri e strategie segua sempre un traduttore per riuscire in modo ottimale: 1) a suddividere un testo in unità traduttive minime; 2) a selezionare in un tempo massimamente breve una e una sola tra le opzioni traduttive considerate nella sua mente; 3) a inibire tutte le altre opzioni. Se il primo compito di un traduttore è quello di procedere a suddividere le porzioni di testo in unità traduttive minime compatibili con la memoria di lavoro, il secondo compito è quello di selezionare un traducente per ogni unità considerata, de-selezionando tutti gli altri. Tradurre, di fatto, è saper scegliere, saper escludere tutte le opzioni tranne una. Il modello proposto, detto PTT (proposta teorica sui processi traduttivi umani), è un primo tentativo di realizzare questo compito, senza alcuna pretesa che sia né ‘corretto’ né, tantomeno, deinitivo20. Il concetto fondamentale intorno al quale verte il modello è quello di equivalenza. Tuttavia, per poter deinire due testi ‘equivalenti’, è indispensabile ‘negoziare’ una deinizione del concetto stesso di “equivalenza” che è ben più ostico di quanto si pensi. Nella storia della traduttologia, esistono innumerevoli tipologie di equivalenza parziale (basate sull’etimologia, la morfologia, la sintassi, il dizionario, l’estetica, lo scopo ecc.); tuttavia, essendo la generalità il cardine del modello, è indispensabile trovare un concetto di ‘equivalenza traduttiva’ che soddisi qualsiasi testo a prescindere dalle lingue di lavoro e dal formato; è indispensabile un’equivalenza generale che comprenda in sé alcuni o tutti i livelli di equivalenza parziale e che, quindi, sia misurabile al più alto livello complessivo del messaggio. 2.3. Sull’inquietante concetto di “equivalenza” (tra matematica e lingua naturale) Se qualcuno ritenesse che il concetto di ‘equivalenza’ sia chiaro, propriamente ‘matematico’, nonché male applicabile alla lingua naturale, dovrebbe 20. Il modello è stato presentato in più riprese, gradualmente modiicate, ed è aperto a qualsivoglia ‘miglioria’, a mano a mano che ne emergano i difetti (cfr. Salmon 2005, 2006, Salmon, Mariani 2012, 98 ss.).
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riconsiderare questa opinione. Di sicuro, la questione dell’equivalenza non è per nulla univoca tra gli stessi matematici. Se si chiede a matematici diversi quali delle seguenti operazioni siano “equivalenze” e/o “uguaglianze”, non si ottiene una risposta unanime: 8=8
8=5+3
4+4=2x4
1 kg = 1000g π = 3,14
Tutti converranno sul fatto che, tranne 8 = 8, in tutti gli altri casi ci sono due cose diverse da una parte e dall’altra del segno di uguaglianza; inoltre, converranno che π = 3,14 è semplicemente un’affermazione ‘sbagliata’, è un’uguaglianza approssimata (un ossimoro in termini); eppure, quella falsa uguaglianza è diffusa e ‘funziona’ in molti casi senza che il segno “ = ” faccia gridare all’impostura. Del resto, come suggeriva Paul Davies (1993, 19), “la geometria euclidea è ancora insegnata nelle scuole perché rimane un’ottima approssimazione nella maggior parte delle circostanze” (corsivo mio). In realtà, parrebbe, le analogie tra matematica e traduzione sono più di quante si pensi, l’approssimazione esiste in entrambi i casi ma, a differenza della matematica, l’entropia in traduzione è in molti casi decisamente inferiore. In altre parole, anche per i matematici esistono, pur con termini diversi, i concetti di ‘invarianza’ e ‘variante’: lo stesso teorema può avere una dimostrazione algebrica e una geometrica che “dicono la stessa cosa”, ma in modo diverso, cioè con due linguaggi diversi. Douglas Hofstadter (cibernetico, informatico, ilosofo e traduttore) ha sostanzialmente dedicato a questo problema buona parte del suo celeberrimo volume del 1979 Gödel, Escher e Bach: un’eterna ghirlanda brillante, chiedendosi quando due cose siano “la stessa cosa”, quando si abbia l’“uguale nel diverso” (Hofstadter 2001, 161): le sue argomentazioni riguardano ogni possibile campo dello scibile (dalla matematica alla ilosoia, dalla linguistica all’informatica, dall’arte alla traduzione); il termine “traduzione”, ad esempio, viene da lui usato proprio per intendere la riformulazione matematica che ha con quella verbale molto in comune (ivi, 229-232). In termini semplici, il simbolo di “uguaglianza” (=) può indicare sia “equivalenza”, sia “uguaglianza”, sia “identità”. A prescindere dalle deinizioni, si direbbe, il concetto di “equivalenza” dovrebbe essere meno rigido rispetto a quello di “uguaglianza” o “identità”. Infatti, un numero è identico solo a se stesso (8 = 8), così come pure un messaggio (“vieni qui” = “vieni qui”); un numero può essere uguale (ma non identico) alla somma di due numeri (8 = 5 + 3), come la parola “ragazzino” può essere “uguale” (ma non identica) alla somma di due parole in un’altra lingua, per esempio, “little + boy”; tuttavia, con la lingua almeno, è più opportuno parlare di equivalenza proprio perché è un criterio più elastico e più consono all’aspetto funzionale. Sebbene nessuno metta oggi in discussione la traducibilità di un’equazione algebrica in una igura geometrica, è terribilmente dificile convincere la 184
maggior parte degli studiosi che la traduzione interlinguistica non solo funziona in modo analogo, ma che la retroversibilità in traduzione è straordinariamente frequente e molto infrequente in matematica. Fatta eccezione per i casi di identità (8 = 8), se vedo un 8 da solo, non so se sia risultato di 5 + 3 o di 2 x 4 o di √64 o di 10-2 (e via all’ininito): non si può da un numero risalire alla ‘fonte’ che lo ha generato perché ininite “uguaglianze” generano lo stesso numero. Mentre se ho come risultato di una traduzione dall’italiano “Thank you very much!” posso risalire a un’altamente probabile unità di partenza: “Grazie mille!”. Del resto, se il grande matematico Henri Poincaré (1997, 26) ha deinito la matematica “l’arte di dare lo stesso nome a cose diverse”, la traduzione è l’arte di dare nomi diversi alla stessa cosa, ovvero l’abilità di trasformare ogni unità del TP in un’unità “equivalente” del TA. In entrambi i casi, mutatis mutandis, è questione di codici (inglese, italiano, geometria, algebra), di regole e di contesti. Ma in traduzione c’è meno entropia, quindi la retroversibilità è altamente funzionante. Se ci chiediamo quale sia la “stessa cosa” di due enunciati linguistici vediamo subito che le cose sono un po’ diverse (ma non del tutto) rispetto alla matematica, perché il contesto (a differenza della matematica) è parte stessa della comunicazione. Se un cliente chiede al panettiere 8/16 di torta (invece di “metà torta”) o, se chiede in drogheria “mille grammi di cioccolatini” (invece di “un chilo”), suscita una reazione di stupore o d’ilarità. Anche in matematica 8/16 è una variante di 1/2 (le due si “equivalgono” senza essere identiche), ma l’informazione è quasi la stessa indipendentemente dal contesto. Nel linguaggio, invece, ogni variante aggiunge informazioni diverse al variare del contesto: “Vorrei mille grammi di cioccolatini” = “Vorrei [un sacchetto con] un chilo di cioccolatini” + è detto in modo strano. “Vorrei un mezzo di duemila grammi di cioccolatini” = “Vorrei [un sacchetto con] un chilo di cioccolatini” + è detto in modo stranissimo ➝ “è fuori di testa”.
Dal punto di vista linguistico, i due messaggi non sono affatto “equivalenti”; né lo sono se si chiedono “two kilograms” dove si usano le libbre: infatti, oltre a chiedere “due chili” di qualcosa, si susciterà stupore, dificoltà a pesarli, ma, soprattutto, si avrà l’informazione: “è uno straniero e viene da un Paese dove si usa il sistema metrico-decimale”. L’informazione di un enunciato linguistico, quindi, pur non numerico, è comunque un “risultato”, ovvero un insieme di informazioni codiicabili. Ovviamente, “i cervelli non lavorano sull’informazione nel senso dei computer, ma sul signiicato” (Rose 1994, 117) e il signiicato è “un processo che non è riducibile a un numero di bit di informazione” (ivi, 116), ma anche l’informazione linguistica è formalizzabile in somme di informazioni esplicite e implicite. Se dico, ad esempio, “è venuta Maria Rossi”, so che è venuta una donna e che è italiana, 185
l’informazione è implicita, ma fondamentale (è teoricamente possibile che sia un transgender di origine etiope che ama i nomi comuni, ma è altamente improbabile). Se ogni variante dentro una stessa lingua cambia le informazioni, traducendo una stringa di una lingua in quella di un’altra lingua, le stesse informazioni possono essere ri-codiicate. Non si avrà di sicuro “identità” e, forse, neppure “uguaglianza”, ma si può ottenere un’equivalenza tale da trasmettere tutte le informazioni dell’unità di partenza e solo quelle. Ci sarà una diversa ricezione di un messaggio tra un destinatario e l’altro? In minima parte, sì; ma anche in matematica, una formula che piace a qualcuno a qualcun altro può apparire “goffa”, “inelegante”, persino “ridicola”: anche la matematica, suggeriva Gabriele Lolli (1998, 45), diventa ridicola quando raggiunge complicazioni esorbitanti. 2.4. Invariante, variante Il procedimento di traduzione interlinguistica, si è detto, è simile a quello impiegato dai monolingue per riformulare gli enunciati in sottocodici diversi della stessa lingua. In entrambi i casi, si tratta di riformulare una stringa di parole (unità traduttiva minima), senza che cambi il ‘nucleo’ d’informazione dell’enunciato, cioè l’invariante. Data una stessa invariante la si può codiicare in forme diverse, dette varianti o variabili. Mutando la variante, muta (magari impercettibilmente) l’informazione complessiva: invariante + variante. La variante è determinata da tre fattori codiicati nel messaggio: - caratteristiche diastratiche e diatopiche del parlante (provenienza sociale e regionale); - generale stato psico-emotivo del parlante (umore e personalità); - speciico atteggiamento del parlante nei confronti dell’interlocutore (gerarchia, cameratismo, distacco ecc.). Ogni variante, di conseguenza, ha codiicate le informazioni su alcuni o su tutti questi fattori. Supponiamo, per esempio, che una persona chieda a qualcuno che tiene in mano una bottiglia: “Versa!”, “Forza!”, “Vai!”, “Per favore!!!”, “Ti dispiacerebbe versarmi un po’ d’acqua?”, “Versi pure!”, “Le dispiacerebbe…”, “Mi verserebbe…”, oppure che, semplicemente, allunghi il bicchiere all’interlocutore con uno sguardo complice o ingiuntivo, dicendo solo: “Grazie!”. Queste sono tutte varianti di una sola invariante, rappresentabile come: [parlante] ➝ [volere] + [acqua ↔ bere]
Come si vede dall’esempio, nella riformulazione intralinguistica, l’informazione complessiva (invariante + variante) cambia sempre, sebbene alcu186
ne informazioni possano essere recepite solo a livello implicito (senza che i comunicanti le registrino consapevolmente). Al mutare della variante, cambia sempre l’informazione complessiva: non esistono, né possono esistere sinonimi all’interno della stessa lingua, ma solo quasi-sinonimi. Questo vale per le locuzioni, per gli enunciati, per i singoli lessemi, persino per le preposizioni e i morfemi: non solo “sono triste” e “sono mesto” contengono informazioni diverse (“mesto” = “triste” + ”stranezza”), non solo “ho un libro” è diverso da “ho il libro”, ma anche “vengo tra tre ore” e “vengo fra tre ore” sono un pochino diversi (il primo è un pochino più cacofonico e informa sulla sensibilità stilistica dell’autore del messaggio). Viceversa, nella traduzione interlinguistica è possibile, per ogni unità minima di partenza, trovare un traducente in lingua di arrivo che contenga precisamente la stessa informazione complessiva, cioè la stessa invariante + la stessa variante. In questo e solo in questo caso si può parlare di equivalenza funzionale (o f-equivalenza). La comunicazione funziona perché l’interlocutore non solo comprende l’invariante, ma anche l’informazione supplementare espressa dalla variante. Sta al traduttore valutare il potenziale informativo che ogni unità del TP offre al destinatario e trasformarlo in un’unità del TA che abbia lo stesso potenziale informativo. Solo un eccellente bilinguismo consente a un traduttore di sentire in L2 anche la minima differenza tra le varianti, di recepire le informazioni trasmesse dal TP; senza questa abilità, nessun modello traduttivo potrà essere d’aiuto. Bilinguismo e competenze teoriche, dunque, sono due condizioni necessarie a un ottimale processo traduttivo, ma sono suficienti solo se concomitanti. Per sempliicare, possiamo chiamare l’invariante il COSA (viene detto) e la variante il COME (viene espressa l’invariante). Quando parliamo, registriamo il COME in modalità automatica, prestando attenzione soprattutto al COSA: questa è la norma, poiché di solito la variante rispecchia le aspettative di un interlocutore. Quando, invece, il COME disattende le aspettative, può diventare più importante (cioè, più informativo) del COSA viene detto. Se un uomo guardando l’amante negli occhi le sussurra “Ti voglio bene”, può ottenere l’effetto opposto rispetto all’enunciato “Ti amo!”21. Basta cambiare una preposizione e può cambiare radicalmente il signiicato fraseologico di un enunciato: “è una persona interessata a tutto quello che fa” è ben diverso dal dire “è una persona interessata in tutto quello che fa”, ma un non nativo necessita di un alto bilinguismo per cogliere tutte le differenze, per quanto minime. 21. L’orecchio interno di qualsiasi italofono sa che l’invariante di “amare” e “voler bene” è la stessa, ma sa anche (addestramento pragmatico) che nel contesto rapporto-di-coppia, “ti voglio bene” signiica “Non ti amo [più]”, e che “Ti amo” tra un genitore e un iglio è disdicevole perché implica un coinvolgimento incestuoso.
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In sintesi: la frequenza con cui compare nella lingua una particolare sequenza sintattica può costituire un elemento di previsione più forte di qualsiasi altro. Ma a volte, e a seconda del contesto, altri fattori possiedono una maggiore capacità di previsione (Altmann 2001, 245).
2.5. L’orecchio interno È ipotizzabile che il TD o, comunque, il meccanismo di decodiicazione dei messaggi di cui è dotato un cervello umano possieda uno strumento appositamente atto a registrare ogni input linguistico e a valutarlo: lo si può chiamare orecchio interno, o anche sotto-sistema di riconoscimento dei suoni nel contesto (Salmon, Mariani 2012, 112-117). Se il COME corrisponde alle attese (a livello grammaticale, lessicale, fonologico e pragmatico), l’interlocutore non presta attenzione alla variante; se, invece, uno dei livelli del COME disattende le aspettative, l’enunciato innesca l’attenzione dell’interlocutore che rileva un’informazione supplementare, cioè ottiene dati nuovi non solo sull’invariante (per esempio, “a che ora devo andare dal professore”), ma anche sul parlante: se il professore ha usato un imperativo, può farlo, è il professore, mentre io sono lo studente e, quindi (informazione importante), non posso negoziare. La valutazione implicita e simultanea dell’orecchio interno è una sorta di comparazione tra aspettative e contesto (wh- factors). Si immagini una situazione in cui la mamma cerca di dire qualcosa al papà mentre i bambini disturbano: ‘suona normale’ che la mamma dica “Ma volete stare un po’ zitti, bambini?!”. In questo contesto, l’enunciato è deinito non marcato, perché è ‘normale’ che una mamma seccata dica così; si immagini, invece, che un moderatore a una conferenza usi lo stesso messaggio, rivolgendosi al pubblico di accademici, “Ma volete stare un po’ zitti, signori?!”: in quest’altro contesto l’enunciato sarebbe marcato e informerebbe che il moderatore ha perso il controllo della convenzione comunicativa (che impone di dire: “Per favore, signori, un po’ di silenzio!”). Tutti i presenti avvertirebbero l’incongruenza tra contesto ed enunciato. Si pensi ora a come valutiamo qualcuno che dica “Non pensavo che veniva!”: se è un italiano nativo inferiamo informazioni molto diverse rispetto al caso che sia uno straniero; se al difetto grammaticale si aggiunge l’accento straniero, non scommettiamo più che la persona sia “ignorante” (marcatezza negativa), ma semplicemente che stia imparando l’italiano e sia già in grado di farsi capire (marcatezza positiva, nonostante il fastidio per l’errore). Questo tipo di marcatezza è detta pragmatica o funzionale (in sintesi, f-marcatezza). L’orecchio interno è il dispositivo che misura la f-marcatezza, che sollecita o inibisce l’attenzione al COME è stata formulata un’invariante (il COSA): 188
si tratta, ipoteticamente, di un circuito mentale di controllo della congruenza contestuale degli enunciati-messaggi. L’orecchio interno non è ancora stato individuato a livello neuro-funzionale, quindi, al momento, potrebbe essere deinito come “l’ipotetico, complesso sistema in grado di valutare la congruenza tra ogni enunciato in un determinato contesto (wh-factors) e le aspettative dei comunicanti”. L’orecchio interno relativo alla L1 viene esercitato in dalla nascita; a mano a mano che crescono la competenza e la sensibilità linguistica di un parlante, può raggiungere diversi livelli di soisticatezza. Uno studente, dopo un esame, può dire: “Quando mi ha fatto quella domanda, mi ha preso un colpo!” “Quando mi ha fatto quella domanda, mi è venuto un infarto!” “Quando mi ha fatto quella domanda, me la sono fatta sotto!”
Ma non dirà: *“Quando mi ha fatto quella domanda, ho preso un colpo!” *“Quando mi ha fatto quella domanda, mi è venuto un infarto del miocardio!” *“Quando mi ha fatto quella domanda, ho evacuato!”
Le espressioni “ho preso un colpo!”, “mi è venuto un infarto del miocardio!”, “ho evacuato!” esistono e si possono dire in molti contesti, ma non in funzione metaforica, non in quel contesto. L’orecchio interno di ogni parlante suggerisce automaticamente non solo se un enunciato è frequente, ma se è attendibile in quel preciso contesto. Un elemento ‘fuori posto’ può essere involontario o volontario, sbagliato o creativo. Le persone si aspettano che il COME corrisponda alle aspettative contestuali; quando le aspettative sono disattese, l’effetto può essere positivo se il parlante ‘gioca’ consapevolmente e creativamente con la lingua (ironia, humor, poesia, aforistica ecc.), mentre è negativo se c’è stata noncuranza linguistica o deliberato attacco (sarcasmo)22. Applicato alla traduzione, l’orecchio interno entra in azione due volte: prima, per valutare l’input (enunciato di partenza), poi per veriicare l’output (enunciato di arrivo); è come se il traduttore selezionasse i traducenti in base alla scommessa che, se l’emittente del messaggio (autore) avesse usato la lingua di arrivo, avrebbe scelto quella e solo quella variante. Poniamo che la prima unità di partenza di un testo inglese sia “Once upon a time…”, grazie al suo orecchio interno, il traduttore seleziona il traducente in base al contesto: se è l’incipit di una iaba, sceglie l’espressione fraseologica italiana “C’era una volta…”, cioè quella che l’autore avrebbe usato se fosse stato 22. Supponiamo che la moglie chiami il marito per cognome (“Buona sera, Rossi!”) o con il titolo (“Buon giorno, avvocato!”), a seconda dell’intonazione, il marito recepisce affettuosa ironia o sarcasmo. Se, tuttavia, la moglie chiama sempre il marito “Rossi”, si produrrà un’abituazione che annullerà, in quel preciso contesto, la marcatezza.
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italiano. La creatività linguistica, tuttavia, fa sì che gli autori ‘giochino’ con le parole, ad esempio, manipolando le formule, la fraseologia. Così, Denise Doyen ha pubblicato nel 2009 un libro per bambini che s’intitola Once upon a twice. Se si dovesse tradurre il titolo in italiano, un traduttore troverebbe la soluzione già pronta nel titolo di Gianni Rodari C’era due volte il barone Lamberto (probabilmente Doyen lo conosceva…). A sua volta, il titolo di Rodari è stato tradotto in alcune lingue manipolando il fraseologismo in modo equivalente (Il était deux fois le baron Lambert, Twice upon a time there was the Baron Lambert, Žil-byl dvaždy baron Lambert, Érase dos veces el barón Lamberto ecc.); al contrario, nel titolo tedesco Zweimal Lamberto, è stata eliminata la marca del TP, pregiudicando sia l’associazione con la iaba (che sarebbe stata “Es war zweimal…”), sia l’elemento ‘buffo’ del TP, sia il titolo nobiliare, per di più introducendo una marcatezza non prevista nel mondo fantasioso dei bambini: il nome italiano (Lamberto) nel titolo. Il titolo tedesco trasmette un’incongruenza rispetto al TP, omettendo l’informazione dominante (“siamo in un mondo iabesco per l’infanzia”). Certamente i titoli sono un’anomalia in àmbito traduttologico, visto che spesso sono stabiliti dagli editori e non dai traduttori (sono ‘microtesti’ afini ai marchionimi), ma proprio per questo, grazie alla loro funzione, sono un’ottima ‘palestra’ per addestrarsi ai problemi della traduzione funzionale. Ad esempio, nelle lingue slave in cui manca l’articolo, il traduttore dovrà spesso compiere una valutazione critica complessiva per decidere se Inostranka (titolo di Sergej Dovlatov) sia in italiano “Straniera”, “La straniera” o “Una straniera”: per un italofono L1 c’è una differenza e un lettore potrebbe essere attratto da una variante del titolo, ma non dall’altra. 2.6. Marcatezza funzionale e f-equivalenza Nel paragrafo precedente si è introdotto il concetto di f-marcatezza che non coincide con il termine generico di “marcatezza” spesso utilizzato in linguistica. “Marcatezza”, infatti, è di solito riferito alla struttura sintattica di un enunciato a bassa occorrenza (cfr. Benincà 1988, 116; Waugh, Lafford 1994): è “marcata” una struttura poco usata, meno frequente rispetto alla struttura “non marcata” (quella usata dai parlanti ‘per default’). L’uso generico del termine considera il criterio statistico ma non quello relativo al contesto; come si è visto, in realtà, un enunciato frequente in un contesto non lo è in un altro. Se, invece, si computa il criterio statistico in base ai dati contestuali (fattori wh-), ci si rende conto che la “marcatezza” che ne deriva è un parametro più complesso e completo, cioè correlato a tutti gli elementi della lingua: suoni, lessico, morfologia, sintassi, intonazione, fraseologia ecc. La f-marcatezza, a differenza di quella generica, rappresenta il livello complessivo, gerarchicamente più alto della comunicazione linguistica ed è un parametro universale per misurare tanto il grado di competenza linguistica di un 190
parlante (L1 e/o L2), quanto l’equivalenza di due testi in lingue diverse (TP e TA). In poche parole, la f-marcatezza è parametro fondamentale della traduzione, utile a tradurre, utile a valutare le traduzioni. Solo un alto grado di bilinguismo consente, infatti, al traduttore: 1) di recepire la f-marcatezza dell’enunciato di partenza in L2; 2) di trovare un equivalente funzionale in L1 basato sul rapporto COSA/ COME è detto. L’equivalenza funzionale, o f-equivalenza, misura pertanto la corrispondenza della f-marcatezza tra unità del TP e unità del TA rispetto sia all’informazione dell’invariante, sia all’informazione della variante. Se due unità hanno la stessa f-marcatezza sono f-equivalenti. Nel parlato quotidiano, l’orecchio interno consente di recepire la f-marcatezza a livello implicito, subliminale. Quando si traduce, è più complicato: inizialmente, un aspirante traduttore si esercita a valutare la f-marcatezza e, solo dopo un prolungato esercizio, è in grado di automatizzare il processo di ricerca e valutazione della f-equivalenza. È la consapevolezza pragmatica a far selezionare l’opzione che rispecchia la stessa occorrenza nel contesto, viceversa, i traduttori elettronici, che non conoscono il contesto, risolvono le ambiguità in modo casuale o meccanicistico. Mentre l’’automatismo umano è il risultato di procedure addestrate, per ora i programmi di traduzione sono quasi del tutto insensibili ai fattori wh-23. In sintesi, il modello teorico (PTT) afferma che un testo in L1 è equifunzionale a un testo in L2 se conserva, unità per unità, la stessa combinazione di informazione sul COSA e sul COME. Se numerose unità tradotte non corrispondono allo stesso livello di f- marcatezza delle unità di partenza, il complessivo equilibrio d’informazione si altera, creando un TA il cui potenziale funzionale è diverso nel suo complesso: un testo comico fa ridere di più o di meno, una poesia commuove di più o di meno, l’ambiguità è troppa o troppo poca, lo stile cambia. Molto spesso, in un testo, la differenza tra rozzezza e innovazione, tra eleganza e trivialità, è data da un sottile equilibrio di marcatezze funzionali, alterando le quali si ‘snatura’, per così dire, lo stile della lingua e, quindi, il messaggio. Grazie alla f-marcatezza si può misurare la f-equivalenza di qualsiasi coppia di testi paralleli, di cui uno è traduzione dell’altro, da qualsiasi lingua in qualsiasi lingua. È la funzionalità contestuale che permette a un traduttore: - di selezionare, tra i potenziali quasi-sinonimi del suo “catalogo mentale”, l’unico sinonimo che contiene la stessa informazione complessiva (il COSA e il COME) dell’unità di partenza; 23. Ad esempio, testando Google Traduttore con vari enunciati dall’inglese verso il russo (o il francese), di fronte a “you”/“your” il sistema sceglie ogni tanto il “voi”/“vostro” (forma di cortesia) e ogni tanto il “tu”/“tuo”. L’umano sa prendere la decisione perché sa rapportare l’unità di partenza al contesto che ha in mente, (se la mamma francese parla a suo iglio, “you” diventa “tu”, se la stessa mamma parla con il postino, “you” diventa “vous”).
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- di escludere (inibire) i quasi-sinonimi che aggiungono o sottraggono parte dell’informazione (invariante o variante). Secondo il modello teorico, la traduzione può essere vista come un processo di selezione di sinonimi equifunzionali. Idealmente, una perfetta taratura della f-marcatezza di ogni unità dovrebbe garantire una sostanziale retroversibilità: ritraducendo il TA in lingua di partenza si dovrebbe, idealmente, ottenere il TP. La retroversibilità, di certo, non è sempre garantita e questo per due ragioni: o perché il TA non rispetta la f-equivalenza (la traduzione non è professionale), o perché, anche nel caso di un traduttore professionista, la minima componente soggettiva del suo orecchio interno crea sempre un inevitabile fenomeno di entropia. Ma è pur sempre un’entropia molto minore rispetto a quella che impone la ‘traduzione’ dal linguaggio geometrico in quello algebrico: se un’equazione è traducibile in una e una sola igura geometrica, la igura ottenuta può essere convertita a sua volta in un numero ininito di equazioni. Al contrario, in una traduzione professionale, una frase ri-tradotta da un altro professionista si avvicina sempre moltissimo al TP e rende comunque identiicabile l’unità di partenza con quella di arrivo (e viceversa). Mentre l’informazione invariante (COSA) è issa, la variante (COME) può essere rappresentata su un piano cartesiano che indichi in ordinate la distanza gerarchica tra parlante e interlocutore e in ascisse l’affettività: i due parametri si combinano in un preciso punto P che indica la ‘dose’ di autorità, paternalismo, cameratismo o neutralità. È uno schema straordinariamente primitivo rispetto alla complessità delle gradazioni, ma utile a comprendere come una minima variazione dell’unità di partenza implichi la stessa variazione nella selezione dell’unità in lingua di arrivo: Fig. 1 – Il piano cartesiano del COME (è espresso il COSA)
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Il punto 0 dello schema, all’incrocio degli assi, indica un’astratta neutralità, che è presente solo nelle istruzioni o nella comunicazione 192
tecnica e scientiica (si pensi alle espressioni impersonali della matematica come “si assuma X come …”); si potrebbe affermare che meno un testo è espressivo, meno sono marcate le unità traduttive che contiene, maggiore è la f-equivalenza della retroversione. Tuttavia, non è una regola rigida; infatti, la neutralità è sempre recepita dagli umani come distanza, quindi infastidisce (‘allontana’) chi non abbia dimestichezza con queste formule linguistiche. Paradossalmente, la neutralità di un enunciato può non innescare una risposta neutrale: chi è abituato allo stile neutro lo recepisce come ‘non distante’, ma chi non è abituato lo recepisce come autoritario: nelle comunicazioni orali dei testi scientiici esistono sempre inlessioni percettibili che rendono la comunicazione più autoritaria o più conidenziale e questa differenza rilette il rapporto tra i due comunicanti (relatore e pubblico)24. In sintesi, gli enunciati collocabili al punto 0 sono davvero pochi: per scrivere e per tradurre un testo di istruzioni apparentemente neutrale si deve comunque decidere se usare “tu”, “Lei”, “voi” o l’ininito: “premi/prema/premete/ premere il tasto Avvio”. Nel punto di massima gerarchia e di minima affettività si ha l’autoritarismo che esprime la posizione di distanza e superiorità espressa dal parlante (tipico di chi comanda e si trova in posizione asimmetrica con i sottoposti); in quello di massima gerarchia e di alta affettività, si ha il paternalismo che esprime una posizione di superiorità, ma con affettività (tipico di chi comanda per il bene dell’interlocutore, come i genitori con un iglio, o i politici populisti con i loro ammiratori); nel punto di minima gerarchia e massima affettività si ha il cameratismo (tipico di chi appartiene a un gruppo paritario: amici, compagni, colleghi di stesso livello). Rispetto ai quattro estremi, ‘nel mezzo’, si trova l’immensa gamma potenziale delle ‘dosature’ intermedie. Secondo il modello teorico, per ogni punto P del piano cartesiano della lingua di partenza esiste un punto e uno solo che corrisponde alla stessa f-marcatezza sul piano cartesiano della lingua di arrivo (cioè allo stesso rapporto COME/COSA). Se tutti gli enunciati di un TA hanno la stessa f-marcatezza dei relativi enunciati del TP, i due testi sono f-equivalenti e nel processo di retroversibilità l’entropia è minima. Se due varianti della “stessa COSA”, nella stessa lingua, non possono mai essere “la stessa cosa”, in due lingue diverse possono esserlo, dipende solo dall’addestramento del traduttore: un professionista non dovrebbe mai dire nella lingua di arrivo “quasi la stessa cosa”, come sosteneva Eco (2003), ma dovrebbe dire la 24. Si consideri anche che le comunicazioni asettiche realizzate con sintetizzatore di voce artiiciale, capaci di emettere enunciati senza alcuna inlessione gerarchico-affettiva, vengono comunque recepite come marcate, cioè come ‘distanti’: la mancanza totale di coinvolgimento relazionale (l’indifferenza) da parte di un parlante dà sempre una sensazione (talvolta appena percettibile) di autoritarismo; questo vale a qualsiasi livello linguistico (compreso quello sonoro: fonetico e intonazionale). Per questo motivo le segreterie telefoniche evitano i sintetizzatori e sono spesso programmate con registrazioni di voce umana con inlessioni ‘gentili’ e sottofondo musicale.
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stessa cosa. Semplicemente, il concetto di “stessa cosa” è meno rigido e più complesso di quanto ritenga il senso comune. Si può, dunque, considerare la f-equivalenza come “identità” di due cose “diverse”? No. Così come non è possibile considerare “identiche” le espressioni “due chili” e “duemila grammi”, così come non sono “identiche” un’equazione algebrica e una parabola geometrica. La f-marcatezza è un parametro universale che può misurare l’alto grado di neutralità di un testo tecnico e la massima creatività di un testo espressivo. Solo nel caso della poesia, dove i vincoli testuali sono spesso troppi e troppo coesi per poter ri-creare un testo che risponda al criterio di retroversibilità, si procede a una selezione delle varianti che rispetti la dominante testuale, assecondando la funzione gerarchicamente più importante e, dove possibile, anche le altre, sempre in ordine gerarchico. Prima di esempliicare il procedimento, è importante un’altra considerazione generale che riguarda il TP: chiunque abbia scritto il TP ha seguito un processo di selezione delle unità testuali non dissimile da quello della traduzione. La scrittura non è così diversa dalla ri-scrittura e qualunque autore, anche di un testo scientiico, lo sa bene: per ogni enunciato, sceglie le parole e il modo per combinarle tra una grande quantità di opzioni; la selezione non è mai casuale, è coerente all’insieme del testo e risponde a qualità che richiedono un’attenta elaborazione linguistica, uno speciico dosaggio di f-marcatezze. Questo implica che ogni autore di qualsiasi TP ha scelto di non usare le altre varianti e in traduzione il compito principale è non usare le varianti che l’autore avrebbe scartato. 2.7. Esempliicazione Un enunciato utile a illustrare l’applicazione del parametro della f-marcatezza è l’incipit del romanzo breve di Dovlatov La valigia (1986). L’equifunzionalità della traduzione italiana dell’incipit è stata misurata in base al parametro della f-marcatezza: All’Uficio per l’espatrio quella stronza viene a dirmi (Dovlatov 1999, 11).
Perché il lettore, destinatario della traduzione, può ‘idarsi’ che nessuna delle varianti scartate da Dovlatov nell’incipit sia quella del TA italiano? Può idarsi perché il traduttore, misurando la f-marcatezza complessiva, ha deselezionato le opzioni che dicevano “quasi la stessa cosa”. Tra queste opzioni (e sono solo una minima parte di quelle quasi-sinonimiche, non f-equivalenti, che potrebbero venire in mente a un traduttore che usi altri parametri) c’è: All’Uficio per l’espatrio quella stronza mi dice. All’Uficio per l’espatrio quella stronza mi fa. All’Uficio per l’espatrio una stronza viene a dirmi.
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All’Uficio per l’espatrio questa stronza viene a dirmi. All’Uficio per l’espatrio questa cagna dice a me. All’OVIR [N.d.T.] questa stronza mi dice. All’OVIR [N.d.T.] una stronza mi dice. All’OVIR [N.d.T.] una cagna mi dice pure. All’OVIR [N.d.T.] quella stronza mi dice pure. All’Uficio passaporti mi dice una stronza. All’Uficio passaporti anche una stronza mi dice. All’Uficio passaporti questa stronza mi ha detto. All’Uficio passaporti quella stronza è venuta a dirmi. All’Uficio emigrazione questa bastarda mi dice. All’Uficio emigrazione quella bastarda mi ha detto. E così via
Quale fosse il traducente f-equivalente lo suggerisce la f-marcatezza dell’enunciato di partenza: V OVIRe eta suka mne i govorit.
Questa frase, apparentemente semplice, può essere usata come ‘micromanuale’ di traduttologia. Nell’incipit del libro, secondo il suo stile, Dovlatov suscitava deliberatamente nel lettore la sensazione di riprendere, tra amici, una conversazione interrotta poco prima; al tempo stesso, questo ‘effetto cameratesco’ era dato dalla certosina ricerca dell’inlessione tranchant che caratterizzava la sua generazione di intellettuali sovietici, ossessionati dal perfezionismo verbale, dai suoni, da una ricercata laconicità. Dovlatov limava la struttura sonora, ritmica, estetica di ogni enunciato, selezionava solo quella che per lui era ‘perfetta’, e ‘perfetta’ signiicava ‘credibile’ nel contesto comunicativo. L’unico modo per ri-fare la “stessa cosa” era selezionare un traducente con la stessa f-marcatezza, scegliendo di tradurre: - con un’esplicitazione l’acronimo “OVIR” (che sta per “Sezione visti e registrazioni”, ma indicava in epoca sovietica il luogo dove si chiedeva il passaporto, si registravano gli stranieri e si otteneva il “visto per l’espatrio”); la scelta che quell’esplicitazione fosse “Uficio per l’espatrio” e non “Uficio passaporti”; - “suka” con “stronza” e non “cagna” (come suggeriscono i dizionari); la scelta di tradurre con il presente il russo “govorit” (cosa non scontata, perché in russo non esiste coerenza temporale nelle narrazioni e spesso il presente si alterna al passato nello stesso paragrafo, quindi spesso si rende con il passato remoto); - la “i” polisemica del TP (“i govorit”) – che potrebbe signiicare, in generale, “anche” oppure “e” – con “viene a dirmi” (perché qui ha valore fraseologico); - l’aggettivo dimostrativo “eta” non con “questa”, ma con “quella” (evitando un calco che i traduttori italiani spesso assecondano a dispetto dell’orecchio interno alla nostra lingua) eccetera. 195
Le numerose e complesse computazioni che riguardano una sola unità traduttiva minima richiedono molto tempo per essere formalizzate in modalità dichiarativa; solo un traduttore addestrato svolge l’operazione in modalità implicita, procedurale e può poi fermarsi a rilettere e spiegare il criterio che ha seguito: l’orecchio interno di un traduttore bilingue può misurare le marcatezze a una velocità sorprendente. Sebbene nel caso di un testo scritto (come questo) si possa anche intervenire a posteriori per modellare la traduzione, molto spesso, tuttavia, la prima soluzione, quella intuitiva, è la migliore25. Per questo, un professionista è sempre, almeno in parte, un traduttore “simultaneo”.
25. Come accade agli studenti durante gli esami: quasi sempre, nelle correzioni, sostituiscono a una risposta giusta, data intuitivamente, una sbagliata, frutto della rilessione.
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5. IL PROGETTO, LE STRATEGIE, LE TECNICHE
1. Il progetto 1.1. Rilessione, gerarchia decisionale, automatismo In ogni attività umana, la progettualità rispecchia la consapevolezza della responsabilità professionale. La traduzione non fa eccezione; infatti il traduttore è “responsabile di ciò che viene detto” (Pym 1997, 45) non solo davanti alla legge, ma anche nei confronti dell’autore del TP e dei destinatari del TA. Ovviamente, un progetto, in qualsiasi professione, può rivelarsi difettoso, ma la consapevolezza e il senso di responsabilità che lo generano aiutano di per sé, in un circolo virtuoso, a ridurre i rischi di fallimento: in sostanza, un cattivo progetto è sempre meglio dell’arbitrio. In qualsiasi campo professionale, per eseguire lo stesso compito si possono fare progetti molto diversi, che tengano conto del rapporto costi/beneici, della valutazione dei rischi e, in particolare, della correlazione tra tempo e risorse disponibili; qualsiasi progetto, per essere approvato da chi lo eseguirà, deve essere realizzabile e coerente rispetto ai vincoli esterni1. Il ine ultimo di un progetto traduttivo è proprio quello di calcolare quali strategie e tecniche possano consentire più facilmente di riprodurre in lingua di arrivo le f-marcatezze di un dato TP, senza pregiudicarne il potenziale comunicativo ed estetico, valutando, almeno, quale sia la dominante testuale da considerare irrinunciabile e gerarchicamente più rilevante. Non solo è fondamentale valutare le asimmetrie tra le due lingue di lavoro, ma anche considerare da quale delle due lingue si traduca nell’altra una determinata tipologia testuale: in numerosi casi, anche le asimmetrie, per così dire, funzionano in 1. Il fatto, ad esempio, che i traduttori siano pagati in modo, talvolta, ridicolo non si ripercuote sulla qualità della traduzione perché il traduttore ‘si vendica’ del mancato riconoscimento economico, ma solo perché, nel frattempo, deve fare altro per guadagnare, invece di dedicarsi interamente alla traduzione.
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modo asimmetrico. Traducendo, ad esempio, una canzone americana in italiano, si hanno problemi opposti a quelli che s’incontrano traducendo una canzone italiana in inglese (legati, soprattutto, al diverso numero medio di sillabe per parola da far combaciare con le stesse sequenze musicali: verso l’italiano si deve eliminare, verso l’inglese si deve aggiungere). La progettazione della gerarchia su cui si basa il processo decisionale (cfr. Levý 1995) e la conseguente applicazione di quelle, e non altre, strategie e tecniche dipende, quindi, dalle due lingue del TP e del TA, dalla tipologia testuale correlata alla tipologia linguistica contrastiva (asimmetrie tra le lingue di partenza e di arrivo) e dai fattori esterni (tempo, costi, rischi ecc.). In generale, per prendere una decisione eficace, osservava Damasio (1995, 236), qualsiasi soggetto umano deve conoscere: a) la situazione che richiede una decisione; b) le differenti possibili scelte di azione (risposte); c) le conseguenze di ciascuna di tali scelte (esiti) nell’immediato e in tempi futuri.
Nel caso della traduzione, in particolare, un eficace processo di decision making necessita non solo di requisiti di base (alto grado di bilinguismo, soisticata competenza attiva nella L1, dimestichezza con la data tipologia testuale), ma anche di un progetto consapevole che stabilisca le priorità e preveda le conseguenze delle proprie scelte. Poiché ogni traduzione professionale, a prescindere dalla tipologia testuale, ha un committente (o cliente), il progetto è almeno in parte condizionato dall’esterno2. Per lo più, il committente e il destinatario della traduzione non coincidono, ma non sempre il committente ne è consapevole e capita che avanzi al traduttore richieste poco chiare o addirittura irrealistiche: capitano clienti che non comprendono affatto il livello di dificoltà delle operazioni traduttive e altri che neppure sospettano che la traduzione si avvalga di competenze, eccetto un approssimativo bilinguismo occasionale; alcuni clienti pretendono di insegnare al traduttore il mestiere, altri, pur di pagare meno, vorrebbero che il professionista fosse un po’ meno professionale. È una cosa molto positiva per il traduttore (e per la traduzione) se il committente è competente o, almeno, rispettoso della professionalità altrui. Sebbene la inalità della traduzione non sia il parametro unico del progetto (come assume la Skopostheorie), è di certo quello più importante: sulla base dei parametri legati al committente e ai destinatari, il traduttore opera una serie di opzioni concatenate e interdipendenti, adottando strategie che possono essere molto diverse e, talvolta, opposte. Si prenda come esempio la traduzione di un testo teatrale: il progetto cambia radicalmente se il committente è: -
un editore che vuole pubblicarlo in volume e i destinatari sono lettori (in questo caso, si tratta di traduzione letteraria);
2. Il committente può essere un editore, un’agenzia di traduzione, un’istituzione pubblica o privata, uno studio professionale, una ditta, un privato ecc..
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-
un regista che vuole realizzare in scena il testo straniero e richiede i copioni tradotti (i destinatari sono sia gli attori, sia gli spettatori); un regista che vuole far recitare il TP in lingua di partenza, utilizzando un sopratitolaggio3 (i destinatari sono spettatori che devono leggere); uno storico del teatro interessato a conoscere quel testo teatrale di cui non capisce la lingua (il destinatario coincide con il committente).
Il ‘senso comune’ potrebbe suggerire che solo la traduzione letteraria, soprattutto poetica, richieda una progettazione vera e propria, laddove, ad esempio per l’interpretazione simultanea, non abbia molto senso parlare di ‘progetto traduttivo’; l’interprete, a prima vista, non ha tempo suficiente né per progettare, né per controllare che la propria prestazione corrisponda al progetto. In realtà, non è così: un interprete professionista, come un calciatore o un chirurgo, deve aver precedentemente studiato ed esercitato a lungo le strategie da applicare proprio perché non avrà tempo per fare troppi calcoli in progress: per correre meno rischi, per utilizzare al meglio il (poco) tempo a disposizione per la propria prestazione, deve aver automatizzato le procedure secondo parametri progettuali preventivi. Scopo della progettazione, quindi, è anche quello di dotarsi di un modello procedurale euristico che renda parzialmente prevedibile la combinazione delle numerose variabili con alcune inevitabili incognite. Per quanto ‘accidentale’ possa sembrare a uno spettatore la singola prestazione di un interprete o di un atleta, a monte c’è sempre un’attenta preparazione e una precisa strategia, cioè un insieme di scelte che corrispondono a una gerarchia decisionale e che possono avvalersi di tecniche diverse, talvolta opposte tra loro. Un interprete, in particolare, ha afinato persino la capacità di prevedere approssimativamente, su base statistica, che a certe parole dell’oratore ne seguiranno altre, così come, per diventare un tennista professionista, si è automatizzato un sistema di calcolo probabilistico per prevedere, in una data situazione, la ‘qualità’ della palla che arriverà dall’avversario in risposta (direzione, potenza, taglio, altezza, velocità). In qualsiasi attività umana, infatti, l’automatismo computazionale e l’arbitrio sono agli antipodi. L’addestramento continuativo e prolungato cui sono sottoposti gli aspiranti interpreti consente di sviluppare anche la capacità di decidere in modalità automatica quali informazioni del TP debbano avere la precedenza su altre a seconda del contesto (fattori wh-) e dello Skopos. La professionalità è una sinergia tra rilessione preventiva cosciente e proceduralità esecutiva (sviluppo di automatismi) e riguarda qualsiasi tipo di traduzione: a prescindere dal formato e dalla tipologia testuale, la chiara formulazione del progetto e la sua introiezione consentono di automatizzare le risposte, riducendo i tempi di calcolo sia in situazioni altamente prevedi3. Il sopratitolaggio è posto nella parte alta del palcoscenico (può essere anche luminescente e scorrere su appositi pannelli) ed è spesso utilizzato per tradurre (almeno parzialmente) i libretti musicali cantati all’opera, ma anche come elemento di scena (pannelli, striscioni ecc.). Cfr. S. Gianotti, “Approccio al sopratitolaggio nella globalità della traduzione audiovisiva”: https://proscenio2012.wordpress.com/author/susannagianotti/ [cons. giugno 2017].
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bili, sia in situazioni ‘creative’ e, quindi, inattese. Per tradurre un soisticato testo ‘artistico’, cioè per risolvere in modalità euristica lo spaventoso calcolo combinatorio dei dati, è indispensabile avere un progetto4; d’altro canto, solo le abilità procedurali consentono di realizzare un buon progetto nei tempi richiesti dal processo creativo. Infatti, come in tutte le attività intellettive, la rilessione prolungata inibisce proprio gli aspetti intuitivi e procedurali della creatività: il progetto è il momento della consapevolezza, mentre la sua applicazione si avvantaggia di un’estrema rapidità procedurale; se il progetto è ben articolato, le opzioni traduttive risultano rapide e coerenti. Dunque, anche nella traduzione creativa si agisce in modalità procedurale, sebbene ci si possa avvalere, se necessario, di una ricerca pedissequa nel caso di singoli traducenti; per tradurre i giochi di parole, i proverbi, le metafore, gli anagrammi, le ‘battute’ divertenti, ad esempio, il traduttore deve necessariamente disporre di un modello progettuale da seguire ed è avvantaggiato se lavora in modalità procedurale, ma talvolta può faticare a trovare una soluzione equifunzionale in lingua di arrivo e quindi deve intraprendere una ricerca mirata che può rivelarsi straordinariamente onerosa in termini di tempo ed energie. Ma proprio in questo caso, la chiarezza del progetto consente di indirizzare la ricerca nella direzione giusta, evitando ancora una volta l’arbitrio. 1.2. Attualizzazione e storicizzazione In alcuni casi, tra l’epoca in cui è stato scritto (o registrato) il TP e l’epoca del traduttore e dei destinatari del TA esiste una signiicativa distanza temporale che impone al traduttore decisioni precise: se la distanza è rilevante, andrà infatti considerata come il fattore più importante, in ordine gerarchico, per la costruzione del suo progetto. Naturalmente, per la maggior parte delle traduzioni, il problema non si pone: le traduzioni orali (interpretazione di trattativa, di conferenza e mediazione interculturale) vengono svolte per lo più in sincronia, salvo rari casi come, ad esempio, l’interpretazione simultanea di audiovisivi datati; anche nella traduzione commerciale, tecnica, scientiica e cinetelevisiva si ha una sostanziale sincronia tra TP e TA, poiché la distanza tra loro, in media, va da qualche ora a pochi mesi. Viceversa, nella traduzione per l’editoria, la questione della discronia tra TP e TA si pone frequentemente: i libri, infatti, vengono spesso tradotti o ri-tradotti a distanza di anni, decenni e persino secoli. Tuttavia, il divario sul piano linguoculturale non dipende solo dalla quantità del tempo trascorso, ma anche dalla qualità degli eventi intercorsi, alcuni dei quali, magari recenti, possono aver provo4. Qualunque traduttore lavora sempre con una scadenza serrata e con altri lavori da svolgere; i tempi di consegna sono sempre notevolmente inferiori a quelli che richiederebbe un ipotetico ‘perfezionismo’.
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cato drastici cambiamenti linguoculturali. Nel caso di rivolgimenti politici e di rivoluzioni sociali e/o tecnologiche, anche un cinquantennio, talvolta un solo trentennio, può determinare una signiicativa discrepanza tra la linguocultura del TP e quella del traduttore e dei destinatari del TA. In qualsiasi situazione di distanza cronologica tra il TP e il momento in cui si colloca il futuro TA, va progettata la relativa strategia che molto inluirà sul risultato, ovvero il traduttore deve stabilire se attualizzare o storicizzare il TA. In parole semplici, il traduttore potrebbe decidere che il TA debba innescare nei destinatari la stessa sensazione di distanza che il TP suscita in lui e nei lettori della lingua di partenza a lui contemporanei, oppure, al contrario, potrebbe considerare il fatto evidente e importante che gli autori scrivono i testi perché li leggano in primis i loro contemporanei: nessuno scrive per essere letto solo dai posteri. Attualizzazione e storicizzazione riguardano le speciicità linguistiche, stilistiche e culturali che esprime l’asse della diacronia, compresi i realia storici e tutti i referenti culturali che, nel TP, deliberatamente o ‘isiologicamente’, marcano un’epoca. La deinizione dei due procedimenti può essere questa: Attualizzare signiica tradurre il TP in un TA in modo tale che il TA sia recepito dal lettore di arrivo contemporaneo del traduttore così come il TP era recepito dal lettore di partenza coevo dell’autore, ovvero eliminare la distanza temporale tra TP e TA che esiste per cause esterne all’opera stessa. Ad esempio, attualizzare la Divina Commedia in inlandese oggi signiica produrre un TA che produca nel lettore inlandese di oggi un effetto il più possibile linguisticamente e stilisticamente afine a quello che la Commedia innescava nei contemporanei di Dante. Storicizzare signiica tradurre il TP in un TA in modo tale che il TA sia recepito dal lettore di arrivo contemporaneo del traduttore così come il TP è recepito oggi dal lettore di partenza coevo del traduttore, ovvero marcare la distanza temporale tra TP e TA che esiste per cause esterne all’opera stessa. Ad esempio, storicizzare la Divina Commedia in inlandese oggi signiica produrre un TA che inneschi nel lettore inlandese di oggi un effetto linguisticamente e stilisticamente molto diverso da quello che la Commedia innescava nei contemporanei di Dante, ovvero, trasferire al TA la distanza temporale esistente tra testo e lettori generata da cause esterne al testo stesso.
È importante distinguere la distanza temporale dovuta al solo tempo trascorso dagli stilemi di storicizzazione che sono parte integrante del TP. In questo caso, la simmetrica storicizzazione (parziale o totale) del TA è una ‘scelta obbligata’, pena la neutralizzazione di un espediente stilistico che fa parte del TP secondo un deliberato progetto dell’autore. Questo si veriica quando: -
nel TP siano impiegati artiici che deliberatamente falsiicano la datazione del testo stesso, ponendo ittiziamente la voce narrante e/o l’autore in un’epoca diversa da quella reale (nel passato o nel futuro), per simulare che l’autore stesso appartenga a un’altra epoca; è il caso celeberrimo, ad esempio, dei Canti di Ossian di James MacPherson e del ittizio manoscritto trovato dalla voce narrante dei Promessi sposi;
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le vicende narrate nel TP si svolgano in un’epoca lontana e la lingua dei personaggi suoni deliberatamente storicizzata nel TP. Si pensi, ad esempio, al Nome della rosa di Umberto Eco: interi passi di un romanzo possono essere scritti in una lingua non più parlata, come il latino, e creare pertanto uno spinoso problema teorico di traduzione (visto che il latino costituisce solo per poche culture una diffusa materia di studio); solo uno o alcuni personaggi del TP usino una lingua più datata (o arcaica) di altri, perché le vicende narrate si svolgono su piani cronologici differenti. Esiste, ad esempio, un celeberrimo ilm sovietico del 1973 Ivan Vasil’evič cambia professione (ispirato a una pièce di Michail Bulgakov), in cui, grazie a una macchina del tempo, lo zar Ivan (Vasil’evič) il Terribile, è catapultato nella Mosca degli anni Settanta al posto di un suo omonimo sovietico, Ivan Vasil’evič Bunša, che, a sua volta, si ritrova nei panni del Terribile nel XVI secolo; lo zar, ovviamente, parla con i sovietici in russo antico, mentre, con grande effetto parodico, il suo omonimo impostore alla corte del Terribile tenta di arcaizzare il suo linguaggio in modo approssimativo.
In questi casi, la storicizzazione parziale o complessiva del TA è inevitabile per mantenere l’equifunzionalità rispetto al TP; infatti, viene storicizzato in traduzione proprio quello che è già deliberatamente storicizzato nel TP: c’è una perfetta corrispondenza tra la strategia del TP e quella del TA. In tutti gli altri casi, in traduzione è fortemente consigliabile attualizzare, sebbene talune ‘delicate’ marcature temporali possano essere utilmente incluse nel progetto, adottando un’attualizzazione ‘ibridata’ che, pur equifunzionale agli stilemi del TP, non trascuri del tutto la distanza temporale che inluisce sulla ricezione del TP stesso da parte dei contemporanei. In sintesi, qualora l’epoca del TP sia la stessa in cui si svolgono gli eventi narrati, anche in un progetto che assuma come prioritaria la strategia dell’attualizzazione possono essere storicizzati alcuni singoli elementi che marchino in modo ‘delicato’ la distanza culturale. Quali elementi si prestino meglio allo scopo, può deciderlo il traduttore, ma la sua opzione deve essere applicata con coerenza. Ad esempio, traducendo in italiano da lingue (come francese o russo), dove la forma di cortesia è il “voi”, o da lingue (come l’inglese) in cui la forma di cortesia è l’unica forma allocutiva usata con tutti (“you”), si può progettare l’uso del “Voi” per i TP anteriori al XX secolo e l’uso del “Lei” per TP recenti o contemporanei al traduttore5. 1.3. Omologazione, straniamento, estraniamento Per quanto riguarda le opzioni relative alla distanza culturale, l’approccio è analogo a quello che riguarda la distanza temporale. Si può distinguere, 5. Traducendo dal russo in italiano, ad esempio, suggerisco il seguente criterio che funziona bene nella ricezione del lettore, storicizzando in minima parte un TA attualizzato: si usa il “voi” nei testi anteriori alla Rivoluzione del 1917 e il “lei” in quelli posteriori. Questo è un criterio “culture speciic”, traducendo da altre lingue varia, ma resta stabile la coerenza con cui va applicato.
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infatti, tra tre strategie, di cui la terza, come verrà argomentato, è fortemente controindicata: omologazione, straniamento ed estraniamento. La strategia dell’omologazione implica di eliminare gli elementi culturali estranei alla cultura d’arrivo ed è quindi indicata per testi che si riferiscano al mondo mitico o inesistente delle iabe o del fantasy che sono collocati in un tempo/spazio astratto e universale (tra gli innumerevoli esempi di omologazione, già si sono visti i nomi propri “italianizzati” nella traduzione delle iabe e dei cartoni animati, da Biancaneve a Paperopoli). Un’omologazione estrema coincide con la totale trasposizione spaziale nella cultura d’arrivo, per esempio, ambientando in Italia un TP ambientato altrove: in questo caso, sarebbe più opportuno parlare di “adattamento” o trasposizione6. L’omologazione totale è una tecnica più rischiosa nei testi realistici, in quanto, nel migliore dei casi produce una falsiicazione, nel peggiore un’incongruenza: ad esempio, agli esordi del doppiaggio cinematograico in Italia, gli antroponimi americani diventavano italiani (da Paul a Paolo, da Max a Massimo), creando un effetto di incongruenza rispetto agli altri realia (Paolo e Massimo, chiaramente, stavano in America). L’omologazione alla cultura italiana di un TP presuppone, infatti, una parziale italianizzazione di elementi della cultura di partenza, trasformando ciò che è culturalmente meno familiare al lettore italiano del TA in qualcosa di familiare o consueto: in un TA omologato, dunque, New York, Parigi o Mosca non diventano Roma (altrimenti sarebbe una trasposizione e non una traduzione), ma i pancakes diventano “frittelle”, i croissant diventano “cornetti”, i pel’meni diventano “ravioli” ecc. La strategia opposta all’omologazione è l’estraniamento, mentre una strategia intermedia è lo straniamento parziale. Lo straniamento è, da alcuni punti di vista, l’opposto dell’estraniamento. Il concetto di “straniamento” era stato introdotto e utilizzato un secolo fa dai formalisti russi per indicare un interessante artiicio letterario che si ottiene quando una cosa ben nota al lettore viene mostrata come se fosse nuova e ‘strana’, come se la descrivesse chi la vede per la prima volta; una descrizione appare straniata agli occhi del lettore quando è mostrata dalla prospettiva di chi vede strano ciò che il lettore ben conosce. In letteratura, la prospettiva nuova e inattesa di un personaggio o della voce narrante induce anche i lettori a recepire in modo straniato ciò che conoscono bene, a stimolare il sistema cognitivo, sperimentando il fatto che ciò che sembra ovvio e banale a qualcuno possa apparire nuovo, buffo o persino assurdo a uno sguardo esterno. Lo straniamento, dunque, agisce sulla cognizione umana, addestrando a ‘sentire’ che la ‘normalità’ o la ‘stranezza’ (de6. Ad esempio, nel ilm Il sole anche di notte (1990) dei fratelli Taviani, che si ispira esplicitamente al testo Padre Sergio di Lev Tolstoj. Viceversa, lo straniamento estremo porta in traduzione a esotizzare il TA dotandolo di un potenziale informativo assente nel TP e non previsto in lingua di partenza.
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gli oggetti, delle azioni e delle conoscenze) dipendono sempre dal punto di vista di chi osserva7. Si immagini, ad esempio, la descrizione straniata che il rappresentante di una civiltà aborigena potrebbe dare di un direttore d’orchestra la prima volta che lo veda all’Opera: una specie di strano sciamano con una tunica scura come la notte, lunga dietro e corta davanti, con le gambe pure coperte di nero, ma con le mani tutte bianche, che agita la testa e fa volteggiare in aria, davanti a sé, un rametto magico dritto e perfettamente levigato che genera suoni, li ferma, li fa salire e scendere a piacimento.
Lo straniamento si contrappone, per la reazione che innesca, all’artiicio dell’“estraniamento”8. In letteratura, dunque, l’estraniamento si ha quando l’autore si riferisce a qualcosa di ignoto e incomprensibile per il lettore senza fornire spiegazioni, al deliberato scopo di suscitare una sensazione di esclusione ed estraneità. Si immagini un romanzo italiano che cominci così: Cercava una piekarnia aperta, dove comprare dei rogaliki, ma ovviamente l’11 novembre al Rynek era tutto chiuso, così si diresse verso l’Ogród Saski, dove doveva incontrare Alfons.
Salvo eccezioni, i lettori italiani non possono identiicare (senza consultare Internet) quale sia il Paese della narrazione (la Polonia), la città (Varsavia), il quartiere (tra la Piazza del Mercato e i Giardini Sassoni), né che cosa siano il luogo cercato (un forno-pasticceria) e la merce desiderata (dolcetti), né che cosa rappresenti l’11 novembre in Polonia (festa dell’Indipendenza). Una lunga serie di elementi estranei senza spiegazione allontana il lettore dal processo di immedesimazione, lo costringe a ‘uscire dal patto inzionale’, distraendolo con il fastidio di troppe parole estranee e ‘opache’. In un romanzo polacco, invece, quella stessa frase è chiara a qualunque lettore (anche chi non è di Varsavia sa in che città si trovino i Giardini Sassoni, sa cosa sia una piekarnia, cosa rappresenti l’11 novembre e che cosa siano i rogaliki, così come qualsiasi lettore francese, anche non parigino, sa dove si trovano le Tuileries, cosa sia una boulangerie, cosa siano i macaron e cosa rappresenti il 14 luglio). Anche nella teoria della traduzione, i concetti di straniamento ed estraniamento sono profondamente diversi: il termine estraniamento indica una paradossale ‘strategia di non-traduzione’ che consiste nel non esplicitare al let7. Ad esempio, il concetto di “soldato”, così ‘normale’ per la “civiltà occidentale”, appare feroce e folle ai tagliatori di teste: “come può un uomo fare il soldato e comandare ai suoi fratelli di esporsi al fuoco del nemico?” (Mantovani 1998, 143). Come osservava Giuseppe Mantovani (ivi, 94) “un gesto splendido agli occhi di una cultura appare orribile ai membri di un’altra”. Per esempio, la croce, che duemila anni fa simboleggiava uno strumento di morte, è poi divenuta per i cristiani un simbolo di pace e amore, ma è ricordata come simbolo di orrore e sangue dalle vittime dei crociati, dei pogrom e del Ku Klux Klan. 8. Anche in russo, i termini straniamento ed estraniamento si differenziano per un solo fonema (sono rispettivamente ostranienie e otstranenie).
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tore di arrivo quello che il lettore del TP desume immediatamente senza bisogno di spiegazioni. Per evitare l’estraniamento, è utile adottare la strategia dello straniamento, applicando la tecnica dell’esplicitazione (che fa capire al lettore d’arrivo che cosa signiichi quello che è strano per lui, ma familiare al lettore di partenza). In alternativa, si può applicare la strategia dell’omologazione, cambiando il riferimento alla cultura di partenza con uno alla cultura d’arrivo, ma questo implica cancellare le tracce della diversità culturale (tracce non necessariamente marcate nel TP, che però emergono nella mente del lettore di arrivo). Nel primo caso, si aggiunge una spiegazione, ma si lascia l’effetto straniante; nel secondo caso, si omologa alla cultura italiana, ad esempio, italianizzando oggetti, concetti, luoghi, azioni, persino i gesti. Infatti, quello che vale per le parole (realia), vale anche per la gestualità che le parole descrivono. Si immagini di dover tradurre dal TP russo la frase seguente (che segue all’enunciato “Vedrai che presto guarirai!”): “Ivan sputò tre volte dietro la spalla sinistra”.
Se il traduttore italiano non esplicita, il gesto descritto suscita estraniamento a qualunque lettore; se esplicita, fa capire che cosa signiichi “sputare tre volte dietro la spalla sinistra”, lasciando comunque una traccia della speciicità culturale di partenza9; se invece omologa, nel TA sparisce ogni traccia di ‘russità’: estraniamento: “Ivan sputò tre volte dietro la spalla sinistra”. straniamento: “Ivan, in segno di scaramanzia, sputò tre volte dietro la spalla sinistra”. omologazione: “Ivan incrociò le dita”.
Nella traduzione dei testi scientiici e giuridici, l’opzione estraniamento/ straniamento/omologazione riguarda diversi elementi, per lo più lessicali, soprattutto se si ha un’asimmetria tra i destinatari del TP e quelli del TA. Se cambia la tipologia dei lettori/ascoltatori, i termini tecnici possono innescare reazioni di estraniamento, di straniamento o, nel caso dell’omologazione lessicale, non sortire alcun effetto. Per esempio, se traducendo un referto medico da un’altra lingua, si dicesse ai genitori che il loro bambino manifesta “una forma di iscofonia”, si produrrebbe in loro un effetto straniante, laddove con “balbuzie” si omologherebbe il registro del TA non a quello del TP, ma a quello dei destinatari. Un referto medico, infatti, è un TP paradossale, poiché può essere rivolto al contempo a destinatari diversi (medici e pazienti), utilizzando parole chiare per gli specialisti e spesso del tutto ‘opache’ per i pazienti (più che mai interessati a capire che cosa ‘dica’ il testo). La stessa cosa accade quando, durante un processo legale, giudici o avvocati usano espressioni che, con lo stesso registro, sarebbero ‘opache’ per testimoni e/o 9. Secondo la credenza popolare russo-ortodossa, dietro la spalla sinistra si trova un demone (dietro quella destra, l’angelo custode).
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imputati. Il traduttore, in questi casi, può operare una mediazione, esplicitando i termini o, direttamente, omologando il registro a quello del destinatario. Quando le parole del TP trasmettono informazioni implicite ai lettori di partenza, sta al traduttore decidere se estraniare (il destinatario non deve capire), straniare (il destinatario è aiutato a capire, ma recepisce il testo come ‘strano’) o omologare (si annulla del tutto l’effetto di stranezza): è il progetto iniziale che condiziona le scelte traduttive. La deinizione delle tre strategie può essere così formalizzata: Omologare un TA signiica assecondare alla cultura di arrivo alcuni o tutti gli elementi della lingua, della fraseologia, delle igure retoriche e dei realia riferiti alla realtà extratestuale del TP sul piano sincronico. Il termine inglese è domestication. Straniare un TA è la strategia traduttiva mirata a creare una certa distanza culturale, talvolta socio-psicologica, tra TA e lettore di arrivo: quando il traduttore, senza mutare il registro terminologico, esplicita al TA le informazioni implicite per il lettore di partenza (ad esempio, un medico) al lettore di arrivo (ad esempio, un paziente), qualcosa appare straniato, ma comprensibile. Il termine inglese è defamiliarization. Estraniare un TA signiica lasciare che il lettore di arrivo (non specialista) proprio non capisca quello che nel TP è chiaro ai lettori di partenza (specialisti): non si esplicita e non si omologa nulla alla cultura o al registro di arrivo. Il termine inglese è foreignisation.
Il problema dell’estraniamento è al centro di un grande dibattito che riguarda due aspetti socio-ideologici fondamentali per lo studio della cultura nel suo complesso: il primo aspetto è quello della traduzione intesa come strumento di opposizione al livellamento e all’imperialismo culturale; il secondo è quello della traduzione intesa come opera creativa d’autore, in cui progettare alterità, rendendo visibile il ruolo del traduttore. André Lefevere (1992a, 3) affermava il ruolo positivo dell’estraniamento (foreignization) per allargare gli orizzonti culturali dei popoli; lasciava intendere, infatti, che questo “tipo di traduzione”, pur obsoleto, fosse del tutto legittimo; non rilevava, dunque, i limiti propriamente deontologici di una manipolazione che poneva il lettore d’arrivo in una posizione drasticamente opposta rispetto a quello di partenza: A translation should therefore sound “foreign” enough to its reader for the reader to discern the working of the original language that expresses the language game, the culture of which the original was a part, shining through the words on the translated page. Obviously, this is a type of translation no longer practiced in our day and age, simply because the audience for it has almost ceased to exist (ivi).
Secondo Lefevere, dunque, l’estraniamento sarebbe stato una cosa buona se ci fosse ancora stato un pubblico in grado di apprezzarlo, dimenticando che qualsiasi pubblico, potendo scegliere, avrebbe preferito e preferirebbe non essere estraniato. In molti casi, anche in passato, l’estraniamento non derivava, in realtà, dall’applicazione selettiva di una strategia consapevole, ma dal fatto che le traduzioni fossero fatte in modo arbitrario da ‘avventori’ 206
impreparati. Oggi, dato il numero ben più elevato di traduttori professionisti, l’estraniamento non è affatto diffuso tra i traduttori, bensì tra i teorici dei Translation Studies che, in alcuni casi, lo applicano ancora come forma di enfatizzazione della diversità culturale. Il più convinto sostenitore dell’estraniamento (foreignisation), Lawrence Venuti (1995, 1998), ha molto insistito negli ultimi decenni sulla legittimità e (a parer suo) necessità di valorizzare questa strategia come mezzo per combattere a) la globalizzazione e b) l’“invisibilità” del traduttore; la sua idea è questa: se la lingua del traduttore è quella che avrebbe usato l’autore se avesse scritto nella lingua di arrivo, l’operato del traduttore diventa invisibile; pertanto, per renderlo visibile, il traduttore deve evidenziare l’alterità sfruttando le asimmetrie tra le lingue. Secondo Venuti (1998, 9-13), solo la foreignisation può introdurre nel TA i cosiddetti “remainders” dell’alterità linguoculturale, cioè elementi linguistici trascurati dai canoni vigenti della cultura d’arrivo, allargando l’orizzonte culturale dei destinatari del TA. Solo attraverso l’estraniamento, la traduzione sarebbe in grado, secondo Venuti, di apportare elementi caotici (dis-organizzativi) all’interno di quell’“ordine” linguoculturale che rispecchia i dettami di un dato potere in un dato luogo e in una data epoca: Foreignising translation in English can be a form of resistence against ethnocentrism and racism, cultural narcissism and imperialism, in the interest of democratic geopolitical relations (Venuti 1995, 20).
Come ogni alterazione di un ordine costituito, secondo Venuti (1998), la traduzione crea “scandali” e proprio questa, secondo lui, è la ragione per cui viene tradizionalmente relegata tra le attività di second’ordine, privando il traduttore di riconoscimento (e riconoscenza): Yet translation is scandalous because it can create different values and practices, whatever the domestic setting […]. A translation project can deviate from domestic norms to signal the foreigness of the foreign text and create a readership that is more open to linguistic and cultural differences [...]. United States and the United Kingdom enjoy a hegemony over foreign countries that is not simply political and economic [...] but cultural as well (ivi, 82, 87, 88).
Nonostante l’indubbio interesse di questa posizione estrema e provocatoria, le argomentazioni di Venuti conducono a un’evidente aporia: da un lato, si dice che la visibilità si ottiene mediante lo “scandalo”, dall’altro, lo “scandalo” è indicato come causa principale dell’invisibilità. Ma non è questa la sola contraddizione: Venuti esempliica il modello dell’estraniamento come strumento anti-imperialista, applicandolo alla traduzione per il ‘globalizzante’ mercato americano da una lingua, l’italiano, che appartiene a una cultura in via di americanizzazione (cioè, globalizzata o “conglobata”): in sostanza, per contrapporsi all’imperialismo culturale americano, Venuti propone, paradossalmente, una teoria che è applicabile solo al mercato americano; senza 207
volerlo, proprio per combattere l’americo-centrismo della cultura globalizzata, lo studioso americano offre un modello che non considera ‘l’altrove’ e che rilette proprio l’atteggiamento egemone di chi si dimentica che esistano traduttori, per esempio, dal polacco al farsi, dall’arabo allo svedese. In realtà, un progetto di traduzione da qualsiasi lingua per il mercato editoriale europeo, est-europeo, asiatico risponde a criteri ben diversi da quelli che Venuti assume come postulati per la sua tesi. In deinitiva, l’idea che le traduzioni prive di tracce straniere siano la causa principale dell’invisibilità del traduttore appare tanto americano-centrica quanto il potere cui Venuti vorrebbe opporsi. In Europa, ad esempio, dove l’interesse per la diversità storica, geograica e culturale in genere è più radicato, le traduzioni equifunzionali, progettate per essere “la stessa cosa” (rispetto al TP), sono lo strumento migliore per rendere i lettori non solo partecipi dei contenuti delle “opere altrui”, ma capaci di godere della loro ‘bellezza’, fatta spesso di linearità, di equilibrio e studiata sobrietà. Se un TP scandalizza, il TA dovrebbe proprio “scandalizzare”, ma se un TP incanta o commuove, il TA non dovrebbe affatto “scandalizzare”, ma incantare e commuovere. Forse rendere familiare il diverso è un buon modo per avvicinare le culture. Certamente, l’estraniamento dà facilmente visibilità al traduttore e alla sua traduzione, ma solo in termini negativi, poiché estraniare un TP ‘non estraniante’ signiica snaturare non solo quel testo, ma anche la cultura che rappresenta. Del resto, se un cantante stona, una ballerina cade per terra durante un volteggio o un chirurgo lascia le forbici nella pancia del paziente, diventano molto visibili e riescono forse a creare “scandalo”, ma certamente non incrementano la propria afidabilità e professionalità. Non solo “scandalizzare” i destinatari della traduzione non è necessario, non solo è controproducente, ma è deontologicamente reprensibile: un’opera, infatti, tanto più profondamente agisce sui lettori, quanto più agilmente ne afina il pensiero critico, il gusto e i canoni estetici. Proprio per ottenere un effetto cognitivamente straniante, un testo non dovrebbe mai diventare ‘straniero’, cioè non dovrebbe mai essere ‘estraneo’ ed ‘estraniante’: le reazioni all’estraneità possono essere (comprensibilmente) molto negative, poiché provocano l’allontanamento invece del coinvolgimento e dell’empatia, alimentando la convinzione che pure il TP (e forse tutta la sua cultura) sia ben più ‘strano’ di quanto potrebbe sembrare se la traduzione fosse davvero equifunzionale. Infatti, una reazione negativa dei destinatari del TA rischia di compromettere non solo la ricezione di una singola opera (TP), ma quella di tutte le opere dello stesso autore o, addirittura, quella della cultura di partenza in toto10. 10. Si tenga presente, inoltre, che l’impressione destata dalla lettura (in traduzione) dell’opera di un autore tende a condizionare anche in seguito la ricezione di entrambi da parte del lettore: gli stereotipi si formano facilmente e si radicano stabilmente. Ad esempio, il falso script sul cinema sovietico “lungo, noioso, monotono” è basato su un ideologico sfruttamento dello straniamento: mostrando al pubblico occidentale solo pochissimi ilm non rappresentativi, non doppiati e mal sottotitolati, senza nulla dire delle straordinarie
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Come sempre, nell’uso delle strategie, la professionalità è una questione di ‘dosi’: alcuni elementi stranianti possono effettivamente valorizzare la diversità, ma, se l’estraniamento è la strategia progettuale di base, il rischio è che, semplicemente, si renda illeggibile il TA, usando il “traduttese” (la linguacalco dei traduttori automatici e degli studenti del liceo), che è l’emblema più vistoso del dilettantismo. Mentre lo straniamento richiede processi decisionali soisticati, l’estraniamento genera sempre nei destinatari del TA, magari ingiustamente, la sensazione che il traduttore, pur ben visibile, sia un dilettante. Come diceva Von Humboldt (1993, 152), un conto è l’estraneo, un conto sono le stranezze e le due cose non vanno confuse: lo straniamento consapevole è l’opposto funzionale del calco meccanicistico che rende strano nel TA quello che non è strano nel TP; infatti, in qualsiasi capolavoro letterario il lettore diventa parte dell’opera e dimentica tutto, anche l’autore. Proprio per rendere “opera creativa” la traduzione di un’“opera creativa”, il traduttore deve essere, come l’autore, invisibile. L’estetica e lo “scandalo” agiscono in modo opposto, ed è l’estetica l’arma più potente contro la prevaricazione culturale, poiché l’arte è uno strumento di condivisione universale. Va sottolineato il fatto, noto ai lettori esperti, che taluni elementi di distanza culturale emergano non tanto in base alla forma o alla disposizione delle parole, ma soprattutto in relazione alle associazioni linguo-tematiche create dallo stile singolare di autori che hanno operato uno straniamento proprio nel TP: ogni testo, diceva Eco (1995, 303; corsivo nel testo), “è una sorta di meccanismo idiolettale, che stabilisce correlazioni enciclopediche che valgono soltanto per quel testo speciico”. Per questa ragione, una sostanziale attualizzazione con elementi di storicizzazione, unita a una sostanziale omologazione con elementi di straniamento può costituire, nella gerarchia progettuale, il miglior compromesso per chi voglia evitare l’estraniamento, presentando al pubblico di altri Paesi un TA che offra davvero la possibilità di leggere il TP ‘d’autore’ attraverso il TA. 1.4. Ibridazione ed effetto estetico La coerenza al progetto non implica che si applichi in modo rigido una strategia, ma, anzi, che si possano prevedere impieghi diversi dell’ibridazione. Essendo la traduzione un’operazione che scaturisce dall’applicazione di euristiche (approssimazioni), sta al traduttore, alle sue intuizioni e alla sua esperienza, lavorare sulla dosatura delle strategie scegliendone una come dominante. Per esempio, se nel progetto la strategia dominante è l’attualizcommedie sovietiche, divenute cult-movie per milioni di persone (divertenti, parodiche, avventurose o commoventi), alla ine si è estraniato del tutto il pubblico, come testimonia la liberatoria iperbole di Fantozzi: “La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca!” (https:// www.youtube.com/watch?v=pIComyzyv7Y [cons. giugno 17]).
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zazione, se TP e TA sono separati da una distanza cronologica, è comunque possibile e consigliabile introdurre qualche elemento di storicizzazione; se anche la strategia dominante è l’omologazione, è comunque importante trasferire al TA tutti gli elementi di straniamento presenti nel TP; viceversa, se si decide che nel TA l’effetto straniante debba prevalere, lo si deve comunque bilanciare con una buona dose di omologazione, perché almeno una parte rilevante del testo deve offrire elementi di riconoscibilità per innescare almeno una parziale sensazione di empatia estetica. Per tarare l’ibridazione basta ricorrere al parametro generale della f-marcatezza, che consente di veriicare che il TA inneschi nel destinatario di arrivo una risposta psicocognitiva equivalente a quella che il TP innesca o innescava nel destinatario di partenza. L’ibridazione è uno dei princìpi fondanti dell’arte e della creatività umana. Infatti, in generale, l’effetto estetico di qualsiasi artefatto si realizza sempre attraverso una combinazione di elementi nuovi, sorprendenti perché inattesi, assieme a elementi canonici, attesi, che innescano riconoscimento. Schematicamente, l’ibridazione può essere rappresentata così:
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L’arte letteraria, creata con le lingue naturali, non fa eccezione: l’effetto artistico di un testo si ha se a) il testo disattende in parte le attese (sorprende) e, al tempo spesso, se b) evita che la sorpresa ecceda i limiti che trasformano la novità in fastidio o shock: la dosatura ideale si ottiene quando il testo presenta alcuni elementi noti che innescano la sensazione del riconoscimento. Qualora un testo, nonostante il trascorrere del tempo o il passaggio a un’altra cultura, mantenga questa posizione di suficiente equilibrio tra ciò che i destinatari si aspettano e ciò che non si aspettano, si ha un potenziale artistico duraturo e universale. Non c’è alcuna ragione di ritenere che un testo tradotto non venga recepito secondo le stesse modalità di ricezione di tutti gli altri testi e che non debba avere, quindi, lo stesso potenziale d’innesco estetico: pur attuato in modo parzialmente soggettivo da ogni lettore, il potenziale del TA è paragonabile quantitativamente e qualitativamente a quello del TP. In tal senso, il traduttore dei testi espressivi (ma non solo) è sempre un ‘tecnico di me210
diazione estetica’ che opera secondo lo schema di intersezione di tendenze diverse:
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Proprio come accade nel TP, se lo straniamento o l’omologazione del TA sono totali, si ha comunque una forma di estraniamento, di fastidio o di shock nel primo caso, di noia nel secondo. In un certo senso, il processo creativo dell’autore viene iterato in traduzione dalla mente del traduttore e continua ad attuarsi nella mente del destinatario del TA (cfr. Lefevere 1992a, 5). Fin dal progetto, dunque, la traduzione è un’approssimazione in cui il traduttore sceglie l’ibridazione ideale delle strategie che attribuirà al TA il potenziale estetico del TP: l’impronta del traduttore sarà tanto meno visibile, quanto maggiore sarà la sua abilità di imitare l’autore nell’ibridazione delle strategie. Se, viceversa, una strategia è applicata in modo rigido, si avrà il rischio di inibire nel TA il potenziale d’innesco del TP. La storicizzazione, in particolare, è la strategia più rischiosa; prevede, ad esempio, che, per tradurre in italiano un testo letterario inglese del Settecento (supponiamo un diario di viaggio), si debba usare la lingua italiana ‘equivalente’ sul piano cronologico (ovvero l’‘italiano del Settecento’ ispirato alla letteratura di viaggio della nostra tradizione) che non è, tuttavia, f-equivalente. Infatti, l’italiano del Settecento è tipologicamente diverso dall’inglese del Settecento e, anche supponendo che il traduttore sia uno storico della lingua italiana e un esperto del Settecento letterario, non è affatto detto che possa individuare un modello analogo di riferimento tra i documenti letterari italiani: in Italia la tradizione della letteratura di viaggio è asimmetrica rispetto alla coeva tradizione inglese (meno simbolica, meno canonica, meno signiicativa ecc.)11. Il traduttore potrebbe rivolgersi ad altri modelli letterari del Settecento italiano, ma Goldoni sarebbe troppo veneto, Alieri troppo tragico, Parini troppo satirico. In 11. Il termine asimmetria è antonimo di simmetria, concetto utilizzato da numerose discipline scientiiche, che può essere inteso nella sua accezione dizionaristica generale come “corrispondenza di forma o di posizione fra le parti di una struttura, in modo che a ogni punto posto da una parte di essa corrisponda un punto dall’altra parte” (sintesi dal primo punto della voce “simmetria” di De Mauro 2000, 2459). In traduttologia, il termine viene applicato a qualsiasi livello (strettamente linguistico, stilistico, culturale ecc.).
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questo caso, per avere un potenziale d’innesco equifunzionale, il traduttore dovrebbe necessariamente creare un genere nuovo, offrendo al destinatario italiano un’esperienza che non fa parte direttamente della sua tradizione, ma che indirettamente, attraverso la traduzione, potrà arricchirla. In sintesi, per una storicizzazione totale non solo servono competenze molto particolari e un progetto troppo complesso, ma le asimmetrie tra i canoni linguistici ed estetici delle due tradizioni (di partenza e di arrivo) comportano sempre il rischio di iniciare il rapporto sforzo/beneicio. Per questa ragione, i traduttori professionisti optano per l’attualizzazione, dosando tuttavia alcuni elementi di storicizzazione, aiutando il destinatario a ‘inserirsi’ mentalmente in un’altra epoca senza perdere la credibilità espressiva che il TP aveva per il suo lettore coevo. Anche nel caso di omologazione e straniamento, l’ibridazione è inevitabile, in quanto un’omologazione totale prevederebbe che il TA abdicasse del tutto alle speciicità culturali del TP, mentre uno straniamento totale implicherebbe abdicare del tutto alle speciicità culturali della cultura di arrivo (effetto ‘shock’). Pertanto, come un buon chirurgo, il buon traduttore può operare con strategie diverse, fondendole insieme secondo le caratteristiche ‘organiche’ del singolo testo. 2. Le tecniche di traduzione Progettando una traduzione che abbia lo stesso potenziale d’innesco psico-cognitivo del TP, è importante che la somma di tutte le informazioni, esplicite e implicite, contenute in ognuna delle unità del TP siano ri-codiicate nel TA e siano in grado di suscitare una risposta analoga da parte dei destinatari. Gli artiici formali del TP impongono al traduttore vincoli strutturali che richiedono l’applicazione di tecniche di traduzione, grazie alle quali al TA vengano traferite sia le informazioni invarianti, sia quelle innescate dalle varianti formali del TP (linguistiche, stilistiche, associative, metaforiche ecc.). Queste tecniche sono poche e, almeno in parte, facilmente acquisibili; anche in questo caso, tuttavia, è opportuno saperle dosare, applicandole in modalità e quantità diversa a seconda del singolo progetto. Nel loro insieme, le tecniche di traduzione consentono di ovviare a qualsiasi problema di asimmetria strutturale, lessicale, fonologica e culturale tra la lingua del TP e quella del TA. Grazie a queste tecniche è possibile mantenere simmetrico il potenziale d’innesco di TP e TA. Certamente, più i vincoli testuali sono numerosi e soisticati, più è prevedibile una certa entropia, ovvero una divergenza tra TP e TA che renderà meno probabile una ri-conversione precisa del TA nel TP. Come si è detto, l’entropia è del tutto accettabile persino in matematica e, comunque, in traduzione, non preclude mai il riconoscimento del rapporto stretto tra TP e TA: se la corrispondenza non si ha a livello della singola unità, si ha comunque a livello di ‘somma degli addendi’ e del deinitivo potenziale d’innesco. 212
Curiosamente, le tecniche traduttive sono simili a quelle con cui la mente umana tratta il materiale diurno durante i sogni; per questo le loro denominazioni collimano con alcuni termini del tecnoletto psicoanalitico: esplicitazione, condensazione, compensazione, spostamento Ovviamente, il numero delle tecniche potrebbe dilatarsi o potrebbero chiamarsi in altro modo, ma, secondo il principio della ‘parsimonia’, elencarne altre sarebbe ridondante e in queste sole quattro ‘categorie’ può rientrare qualsiasi tipo di intervento sul TA attuato allo scopo di ottenere una sostanziale f-equivalenza con il TP. 2.1. Esplicitazione Ogni unità traduttiva del TP può codiicare informazioni implicite sia a livello dell’invariante, sia a livello della variabile. L’esplicitazione comporta la conversione di un frammento del TP in uno parallelo del TA che sia egualmente informativo, dando la priorità all’informazione implicita più rilevante. Quasi tutti gli italiani, ad esempio, sanno che il Brunello è un vino rosso, pregiato, caro; l’esplicitazione può riguardare una o tutte le caratteristiche del vino, a seconda della loro rilevanza nel contesto: è importante, in questo caso, che la differenza (evidente per ogni italiano) tra regalare una cassa di Tavernello o una cassa di Brunello sia comprensibile anche a destinatari che appartengano a una realtà culturale che non condivide questa informazione. L’esplicitazione è spesso indispensabile nel caso degli onimi, cioè dei termini dell’onomastica: nomi di persona (antroponimi), di luoghi (toponimi), di strade e piazze (urbanonimi), di ediici, di oggetti, di opere, di cibi, di marchi commerciali (marchionimi) ecc. Se, per esempio, nel TP viene nominata la via centrale di una città, il cui nome si prevede non inneschi alcuna informazione nella mente del lettore di arrivo, il traduttore aggiunge “sulla centralissima [principale, nota, elegante, provinciale, proletaria ecc.] via X”; ad esempio, una frase come “Arriva a Tiburtina alle 8.00” diventa “Arriva alla stazione Tiburtina [di Roma, se necessario] alle 8.00”. Si può esplicitare, completando la componente di un nome (aggiungendo Las a “Vegas”), speciicando a quale oggetto si riferisca un nome di ediicio o un toponimo (aggiungendo cattedrale a “San Vito”, cimitero a “Staglieno”), sciogliendo un acronimo (“I’ll come tomorrow at JFK” diventa “Verrò domani all’aeroporto Kennedy”), sostituendo un nome proprio con un altro (“J’arrive demain à Roissy” diventa “Arrivo domani al[l’aeroporto] Charles de Gaulle”), convertendo un soprannome di persona o di luogo (“Torniamo a Piter a settembre” diventa “Torniamo a Pietroburgo a settembre”) ecc. 213
Sta al traduttore decidere in quali casi un’esplicitazione sia indispensabile, quando, ad esempio, Big Apple deve diventare New York oppure Grande Mela, quando New York City diventa solo New York, perché un italiano tenderà a speciicare solo nel caso dello Stato di New York, mentre gli americani speciicano quando si tratta della città di New York (City)12. Nel caso di informazioni che il destinatario del TP comprende immediatamente, ma che risulterebbero incomprensibili al destinatario d’arrivo perché ‘opache’, polisemiche o ambigue, l’esplicitazione risolve il problema. Ad esempio, il medesimo nome Kirov innesca tre informazioni del tutto diverse nelle tre unità seguenti: 1) Dopo una severa selezione entrò al Kirov. 2) Era nata a Kirov, ma aveva studiato a Londra. 3) La missiva fu fatta consegnare a Kirov nel 1933.
Un lettore russo recepisce immediatamente che: 1) si tratta del teatro Kirov dell’Opera e del Balletto di Leningrado, chiamato Mariinskij al tempo dello zar, intitolato in epoca sovietica (dal 1935) al rivoluzionario bolscevico Sergej Kirov, per poi riprendere il nome precedente nel 1992, quando Leningrado è tornata a essere San Pietroburgo. Per un destinatario russo, la parola “Kirov”, intesa qui come “teatro”, si associa ai concetti: Leningrado, epoca sovietica, opera e balletto, prestigio internazionale; 2) si tratta della città di Kirov (Vjatka prima della Rivoluzione); un destinatario russo sa che è nella parte nord-orientale della Russia europea, che è una città di media grandezza, che è circondata da boschi, che è a circa un’ora di aereo da Mosca, che è sulla ferrovia transiberiana, che ha preso il nome di Sergej Kirov, cui si allude direttamente solo nell’unità seguente; 3) qui si tratta direttamente del capo del PCUS leningradese Sergej Mironovič Kirov, notoriamente (per un destinatario russo) assassinato nel 1934. La tecnica dell’esplicitazione ha lo scopo: a) b) c) d)
di trasferire nel TA a livello esplicito l’informazione implicita al destinatario del TP; di farlo in modo del tutto ‘non invasivo’; di selezionare solo le informazioni implicite rilevanti nel contesto; di formulare le informazioni esplicitate coerentemente allo stile del testo.
In sintesi, a seconda delle necessità e del progetto, l’esplicitazione può essere di primo grado (una sola esplicitazione) o, anche, di secondo grado (due esplicitazioni), ma non deve mai essere ridondante. Tornando all’ultimo 12. Ovviamente, se un soprannome-toponimo è usato come marchio commerciale non può essere soggetto ad alcuna esplicitazione (come nel caso di un Big Apple hostel o dell’Hotel Drei Könige, che non può diventare “Hotel Tre Re”).
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esempio, si ottiene (in corsivo viene data l’esplicitazione di primo grado e, tra parentesi quadre, quella di secondo grado, necessaria solo se non desumibile dal contesto): 1) Dopo una severa selezione entrò al teatro Kirov [di Leningrado]. 2) Era nata nella città [sovietica o russa] di Kirov, ma aveva studiato a Londra. 3) La missiva fu fatta consegnare a[ll’esponente del PCUS] Sergej Kirov nel 1933.
L’esplicitazione è la tecnica più diffusa, usata indistintamente in ogni tipo di testo, dal depliant informativo, TP: Le Cogmaster offre un cursus unique en Europe. TA: Il Corso Magistrale in Scienze Cognitive (Cogmaster) offre un percorso di studio che non ha eguali in Europa.
alla poesia: TP: Iz drugogo pod’’ezda vyjdet, pojdja podvalom // zatjanetsja «Belomorom», popravljaja mude. // …V rajonnoj biblioteke zasopjat nad žurnalami // ljudi iz MVD.
TA: Sbuca dalle cantine in un’altra scala, // aspira il fumo, sistemando i genitali. // … Sonnecchiano alla biblioteca rionale // gli agenti del GIP su riviste e giornali.
Come rivela l’ultimo esempio (la strofa è tratta da una poesia del 1999 del poeta russo Boris Ryžij [2013, 47]), esistono due modalità di esplicitazione: la prima è quella che produce una ‘generalizzazione’, ovvero un’esplicitazione per iperonimia: il marchio di sigarette [papirosy] “Belomor” diventa più in generale “il fumo”; la seconda modalità è quella che produce una ‘speciicazione’, ovvero un’esplicitazione per iponimia (“la gente [ljudi] del Ministero degli Affari Interni [MVD]” diventa, più speciicamente, “gli agenti del GIP”). L’uso provocatorio degli acronimi burocratici da parte del poeta (autore del TP) è stato ri-creato nel TA con variante e invariante equifunzionali (gli uomini dell’MVD russo fanno le indagini come gli agenti del GIP)13. Il ruolo dell’esplicitazione in traduzione è fondamentale, in quanto permette di evitare le Note del Traduttore (N.d.T.), una delle irrimediabili ‘piaghe’ della tradizione dilettantesca. Le N.d.T. sono interruzioni del testo, assenti nel TP, che deliberatamente iniciano la ricezione del TA. Si immagini, ad esempio, di guardare un ilm e di venire interrotti per ricevere spiegazioni nel bel mezzo di una sequenza, di essere costretti più volte, guardando il ilm, a ‘entrare’ e ‘uscire’ dallo stato di immedesimazione, distraendosi dal lusso delle immagini, venendo privati dell’effetto psico-emozionale ed estetico del testo ilmico. In un testo letterario accade la stessa cosa; anzi, le sequenze delle immagini mentali sono più ‘instabili’ di quelle direttamente proiettate sullo schermo: leggendo un romanzo o una poesia, ci si abbandona all’immaginario mondo creato dai suoni delle parole, cioè al ‘patto’ narrativo 13. Qui e in seguito, le traduzioni dei versi di Ryžij sono mie (in corso di pubblicazione).
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che consente al lettore di immedesimarsi mentalmente nella ‘realtà parallela’ creata dalla fantasia dell’autore del TP; la N.d.T., di colpo, costringe il lettore a staccare lo sguardo, a ‘uscire’ dal testo e dal ‘patto’ narrativo, a inibire la modalità procedurale della lettura, a entrare in un altro testo con funzione completamente diversa per ricevere una spiegazione che non è dell’autore, ma del traduttore. Incapace di inserire nel TA tutte le informazioni implicite nel TP, il traduttore crea un piccolo testo estraneo, separandolo dal corpo del TA, mostrando se stesso in modalità dichiarativa. Mentre un’esplicitazione ben dosata mantiene l’invisibilità del traduttore e non disturba la ricezione del lettore del TA, le N.d.T. inibiscono il potenziale artistico del testo. Se il traduttore ritiene, giustamente, che sia utile informare il lettore dei procedimenti seguiti, delle strategie e tecniche impiegate, è deontologicamente vincolato a farlo fuori dal TA, posponendo separatamente una “Nota del traduttore” che, complessivamente, riunisca le informazioni in modalità dichiarativa. La “Nota” non disturba la lettura, che è terminata, ma ha la funzione di informare solo il lettore interessato e solo post factum dei dettagli di progettazione e lavorazione del TA (così come, dopo un ilm, ci si può interessare alle tecniche del doppiaggio o alle recensioni: sarebbe del tutto inopportuno che se ne parlasse mentre lo spettatore sta guardando il ilm). 2.2. Condensazione La tecnica della condensazione è, di fatto, quella opposta all’esplicitazione, infatti mira a ‘condensare’ due termini o due concetti in uno solo: ad esempio, un aggettivo e un sostantivo (“small table”) diventano un solo sostantivo (“tavolino”); due aggettivi (“light blue”) diventano un solo aggettivo (“celeste”); un sostantivo del TP può diventare implicito grazie alla traduzione di un altro sostantivo nel TA: TP: “Oni chodili v les za jagodami” (calco dal russo: andavano nel bosco per [raccogliere] frutti di bosco). TA: “Andavano a raccogliere frutti di bosco”.
Oppure, un sostantivo + aggettivo può essere sostituiti da un solo avverbio: TP: La scheda può essere inviata come ile elettronico. TA: The form may be submitted electronically.
In certi casi, la condensazione può essere un’opzione stilistica, in altri è la soluzione obbligata. In particolare, può essere indispensabile dove sia vincolante il numero delle parole o sillabe, per esempio nelle didascalie delle “icone” elettroniche o nei testi in versi. Ad esempio, nell’ultimo verso della quartina seguente (sempre di Boris Ryžij), si trova un tipico modello di du216
plice condensazione, imposta dai vincoli metrici dell’endecasillabo e dalla rima (il calco sarebbe “cadeva la prima neve e c’era tristezza nel cuore”)14: TP: Už ubran s polja načista turneps i vyvezeny svekla i kapusta. Na fone razvernuvšichsja nebes šel pervyj sneg, i serdcu bylo grustno.
TA: Il raccolto di rape era concluso, barbe e verze partite col trasporto. Sullo sfondo del cielo dischiuso, la prima neve portava sconforto.
La condensazione è una tecnica usata continuamente nel sottotitolaggio (soprattutto televisivo), nel doppiaggio, nell’interpretazione di conferenza e di trattativa, quando (a causa dei limiti spazio-temporali) è indispensabile trasmettere le stesse informazioni con un numero ridotto di parole. L’abilità nell’applicare questa tecnica sta nel condensare parole il cui potenziale informativo sia comunque deducibile dalle altre parole presenti nel TA. La condensazione è indispensabile nella traduzione dei testi di canzoni progettati per essere cantati in altra lingua; in questo caso, talvolta, si realizza omettendo semplicemente le ripetizioni del TP. Ad esempio, traducendo (per il suo album Rimini) la ballata “Romance in Durango” di Bob Dylan, Fabrizio De André, nella terza strofa, al posto di tre “soon”, riporta un solo “presto”; eppure, la stessa cadenza ritmico-anaforica del TP resta altamente equifunzionale nel TA grazie alla rima tronca grammaticale (guarderà/inirà) e alla duplice iterazione del nome Maddalena. In questo caso la condensazione è unita alla tecnica della compensazione: 15 TP: No llores, mi querida Dios nos vigila Soon the horse will take us to Durango Agarrame, mi vida Soon the desert will be gone Soon you will be dancing the fandango.
TA: Nun chiagne Maddalena Dio ci guarderà e presto arriveremo a Durango Stringimi Maddalena ‘sto deserto inirà tu potrai ballare o fandango15.
14. Sono soprattutto i vincoli della singola lingua (isocronia) e della sua speciica prosodia che determinano, tra lingue diverse, un uso asimmetrico della rima e, quindi, una diversa tradizione metrica. Questi vincoli precludono la semplice applicazione delle stesse tecniche di traduzione che, in prosa, consentirebbero di ottenere la f-equivalenza. È arduo costruire in italiano rime originali, azzardate o rafinate (basate, cioè, su ricercate combinazioni fonico-semantiche) senza dover dilatare a dismisura il numero di sillabe dei versi coinvolti. Il potenziale estetico della rima e della metrica dipende, infatti, dall’incidenza in una singola lingua di: 1) numero medio di sillabe dei lessemi; 2) terminazioni delle parole in sillabe chiuse o aperte; 3) incidenza delle lessioni e, quindi, dei sufissi morfologici che concorrono alle ‘rime grammaticali’; 4) accentuazione (ad es. tonica issa, come in ceco е polacco; relativamente libera, ma colonnare, come in spagnolo e italiano; del tutto mobile, come in russo e lituano). Proprio queste asimmetrie tra le lingue spiegano le particolari dificoltà nel tradurre poesia e canzoni, ad esempio, dall’inglese all’italiano: il solo fatto che la nostra lingua utilizzi un numero medio di sillabe molto più elevato rispetto all’inglese impedisce di trovare soluzioni equifunzionali per ritmi musicali particolarmente consoni alla scansione ritmica (isocronia) della lingua inglese. 15. Su “Le traduzioni dei lyrics di Bob Dylan come fuzzy set”, compresa un’analisi della traduzione della “Romance in Durango” di De André, cfr. Garzone 2015, 133-169.
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2.3. Compensazione La tecnica della compensazione si usa quando, in caso di asimmetria tra le due lingue (a qualsiasi livello), non si riesca a ottenere l’equifunzionalità tra due unità corrispondenti TP/TA. Il diverso potenziale espressivo di un elemento in un segmento del TP viene compensato da un altro elemento nel TA (nello stesso segmento o in un altro). Si applica, per lo più, in testi espressivi con funzione ironica, parodica, umoristica, ma anche in poesia e nella canzone d’autore. L’uso della compensazione può essere così sintetizzato: a) all’interno della stessa unità traduttiva si compensa l’informazione trasmessa da un costituente mediante quella trasmessa da un altro costituente. Per esempio, in un frammento umoristico dei Taccuini di Sergej Dovlatov (2016, 16-17), in riferimento al balletto classico, un rinomato critico teatrale dice all’ignorante operaio Stachanov (calco): “È un genere artistico siffatto, dove i pensieri si esprimono attraverso i mezzi della plastica”.
Secondo la terminologia russa, il balletto rientra nell’“arte plastica”, mentre in italiano il termine “plasticità” è riferito alla scultura e il balletto è un’arte “corporea”. Per compensare il registro più elevato del tecnicismo russo (“plastika”), che ha la funzione di marcare la distanza tra i due interlocutori, si è inserita nel segmento un’ulteriore parola di registro alto (“prerogativa”), ottenendo lo stesso effetto estraniante del TP: “È una prerogativa di questo genere artistico, i pensieri si esprimono attraverso la corporeità”.
b) In presenza di una ‘battuta’ particolarmente divertente, o di un gioco di parole particolarmente eficace nel TP che risulti meno divertente o eficace nell’unità corrispondente del TA, il traduttore compensa l’asimmetria variando in modo speculare la f-marcatezza di un’altra unità (precedente o successiva). L’esito complessivo è quindi quantitativamente e qualitativamente equifunzionale nei due testi, ma in segmenti diversi. Vige, in sostanza, la proprietà commutativa: se si cambia l’ordine degli artiici, l’effetto (somma) inale del potenziale d’innesco rimane invariato. Per esempio, nella traduzione italiana dell’Idiota, un segmento risulta più ironico nel TA rispetto al TP16: TP: “C’erano addirittura persone che si odiavano completamente”; TA: “C’erano addirittura persone che si odiavano cordialmente”.
La maggiore ironia del TA compensa la frase precedente del TA, che (pur con la stessa f-marcatezza dei costituenti) nel TP suonava complessivamen16. Milano, Rizzoli 2013, 588. Traduzione mia.
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te più ironica (“Quella sera c’erano persone che mai e per nessuna ragione avrebbero, neppure minimamente, considerato gli Epančin loro pari”). 2.4. Spostamento Lo spostamento (o dislocazione), come suggerisce il termine, è la tecnica con cui uno o più elementi di un enunciato vengono ri-collocati nel TA in posizione diversa rispetto a quella del TP (ovviamente, senza considerare le dislocazioni imposte dalla tipologia linguistica: se l’aggettivo precede o segue il sostantivo in una lingua, la sua collocazione è dislocata ‘per default’). Lo spostamento può implicare l’anticipazione di una parola (dislocazione a destra) o la sua posticipazione (dislocazione a sinistra). Nella traduzione della poesia, ad esempio, è frequente anticipare o posticipare un verso intero per vincoli di rima, mentre non c’è mai ragione di dislocare una strofa intera. In questa strofa di Boris Ryžij (2013, 14), i versi 2 e 3 del TP sono stati invertiti nel TA: TP: Na kuporosnych golubych cnegach, zakončivšie ŠRM na trojki, oni zapnulis’ s med’ju v čerepach kak pervye soldaty perestroki.
TA: Sul blu-vetriolo di innevate dune sono caduti con il rame nel teschio gli operai diplomati a malapena, militi ignoti della perestrojka.
Nella traduzione di testi in prosa, lo spostamento è spesso usato nel TA sotto forma di inversione sintattica per motivi eufonici, prosodici o idiomatici, nonché per evitare stilemi asimmetrici rispetto al TP. Gli esempi di spostamento sintattico che seguono (il TP è riportato sotto forma di calco italiano) sono tratti dalla “Nota del traduttore” che segue la traduzione italiana dell’Idiota di Dostoevskij17: TP: persino quando è corsa da me, sono mai stato per te un vero rivale? TA: sono mai stato per te un vero rivale, persino quando è corsa da me? TP: la distrazione e un particolare umore stranamente irritabile; TA: l’umore distratto assieme all’irritabilità particolarmente strana; TP: Per lo meno non riusciva in alcun modo a intuire l’impressione che gli avrebbe suscitato l’imminente incontro con lei e talvolta, spaventato, cercava di immaginarsela; TA: Per lo meno non riusciva in alcun modo a immaginare che impressione gli avrebbe suscitato l’imminente incontro con lei e talvolta, spaventato, cercava di intuirlo; TP: so di essere al di là di qualsiasi potere del tribunale; TA: so di essere al di là del potere di qualsiasi tribunale;
Come per le strategie, così anche per le tecniche di traduzione vale il principio dell’ibridazione e della ‘dosatura’: ci sono interventi che richiedono, ad 17. Milano, Rizzoli 2013, 787-789.
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esempio, di spostare per esplicitare o di compensare una condensazione; in generale, nel loro insieme, le quattro tecniche di traduzione coprono l’intero àmbito degli interventi di adeguamento del TP alla f-marcatezza del TA. 3. Il progetto e il cult text Si è già accennato a situazioni particolari in cui progettare la traduzione è particolarmente dificile, in quanto si ha a che fare con testi che - a prescindere dal valore loro attribuito dalla critica - per diffusione, affezione e rappresentatività, hanno un ruolo fondamentale per la cultura di partenza e per il gruppo di riferimento. Questi testi possono essere deiniti “cult text”. Nella categoria del cult text rientrano canzoni, ilm, romanzi, poesie, fumetti, opere liriche e tutti i testi che detengono un particolare potenziale evocativo, basato su meccanismi identitari: un gruppo di persone, distinto per età, strato sociale, predilezioni culturali, nazionalità (talvolta un intero popolo) si identiica con l’opera cult perché la sente rappresentativa della propria identità culturale e/o nazionale. Questa tipologia di testi rivela un potenziale memetico molto superiore alla media: non solo ha la capacità di diffondersi, ma anche di attecchire nella memoria delle persone, agendo come elemento coesivo di una collettività. La poesia e le canzoni sono più consone a diventare cult text poiché la prosodia, il ritmo e la rima facilitano l’attivazione dei circuiti mnestici (come dimostrano anche inni e slogan). È quindi importante che il traduttore, nell’attuare il progetto e la traduzione, consideri attentamente il grado di rappresentatività del TP: più è rappresentativo, più aumenta il rischio di compromettere, oltre al testo stesso, tutto ciò che rappresenta (l’autore, il gruppo e i valori di riferimento). Se si deve tradurre un’opera cult in versi o in musica, il progetto parte dalle speciiche asimmetrie tra lingue, canoni culturali e metrici (cfr. Etkind 1982; Gasparov 1989). Il metro canonico della poesia di una data cultura in una data epoca non corrisponde quasi mai a quello di un’altra cultura nella stessa epoca, anche perché l’isocronia linguistica rende l’effetto musicale del tutto diverso qualora alla lingua di arrivo vengano imposti gli stessi vincoli sonori e prosodici della lingua di partenza. L’accostamento di certi suoni può essere inatteso in una lingua, ma ricorrente, persino banale (attendibile) nell’altra; la rima può essere irrinunciabile nelle aspettative di una cultura e desueta all’orecchio di un’altra; la tipologia stessa delle rime varia drasticamente in base alla dominante struttura sillabo-tonica della lingua: in inglese rimano spesso le parole intere (monosillabiche), in italiano rimano per lo più morfemi e sufissi (le sillabe sono mediamente molte di più). Chiunque provi a tradurre in italiano la canzone cult di John Lennon Imagine, cercando di ottenere un testo con lo stesso potenziale evocativo, troverà problemi in dalla prima parola, “imagine”, dovendo stabilire in italiano la persona del verbo 220
d’arrivo: in inglese, infatti, il tu/Lei/voi/noi/ininito si sovrappone, creando un forte effetto impersonale che ancor meglio esprime il messaggio universale, quasi mitico, della canzone. Anche a livello culturale, le asimmetrie possono iniciare l’effetto del TA: un potenziale associativo del TP che evoca con delicatezza il mondo dell’infanzia può trasformarsi in una metafora stucchevole in LA, oppure in un’immagine troppo straniata rispetto a quella originaria. Quando si progetta la traduzione di un cult text, la valutazione della gerarchia decisionale che consenta di salvaguardare il potenziale rappresentativo dell’opera inluisce sulla capacità di dosare sia le strategie, sia le tecniche di traduzione. Quando, invece, il progetto è inesistente o fallimentare si possono avere conseguenze decisamente negative a livello di ricezione culturale. Un esempio ottimale è dato dal cult text di Aleksandr Puškin, Evgenij Onegin. Coetaneo di Leopardi, Puškin è il più grande rappresentante delle lettere russe, incommensurabilmente più rappresentativo e venerato di Dostoevskij o Tolstoj. Puškin è un poeta di tale levatura che dovrebbe, alla pari di Shakespeare, Dante e Goethe, risiedere nell’Olimpo delle lettere universali e godere d’immensa fama tra tutti i popoli; non solo ha prodotto opere poetiche e narrative di immenso valore letterario, non solo a lui si deve il consolidamento della lingua letteraria russa, ma questa igura romantica e irriverente, frivola e tragica, è il simbolo della Russia, un’icona talmente rappresentativa che, da ormai più di un secolo, i russi lo deiniscono “il nostro tutto”18. La sua opera più celebre, più conosciuta e studiata in Russia (cui s’ispira l’omonima, nota opera musicale di Petr Čajkovskij) è l’Evgenij Onegin, un poema che l’autore, tuttavia, aveva deinito “romanzo in versi”: qualunque studente russo impara quest’opera a memoria. L’Onegin in Italia non lo conosce quasi nessuno (fatta eccezione per i melomani che conoscono l’omonima opera lirica) e il nome di Puškin è quasi ignoto al ‘grande pubblico’ proprio per l’assenza di una traduzione italiana equifunzionale. Alcuni tentativi di proporre al pubblico italiano il capolavoro puškiniano rispecchiano una parziale consapevolezza della responsabilità da parte dei ‘traduttori’; si tratta di coloro che hanno optato per un compromesso, proponendo un interlineare in prosa, cercando almeno di rendere accessibile la fabula (trama) dell’Onegin (peraltro, di per sé, piuttosto banale). Questo è stato, ad esempio, il progetto dello slavista Eridano Bazzarelli. Al contrario, il corifeo della slavistica italiana Ettore Lo Gatto aveva precedentemente tentato una rischiosa ‘traduzione’ in versi e, nonostante qualche sporadica soluzione accettabile, il suo TA non riusciva affatto a convincere che si trattasse del più celebrato capolavoro della poesia russa. La ‘traduzione’ più nota e diffusa dell’Onegin (edita nella “Grandi Libri” della Garzanti) si deve, comunque, al noto poeta italiano Giovanni Giudici che, pur consapevole di avere dinanzi a sé “quella specie di capolavori che quanto più ne penetri la 18. Dalle parole con cui aveva deinito Puškin coevo Apollon Grigor’ev.
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sostanza, tanto più disarmano e paralizzano il traduttore potenziale” (Giudici 1980, XXIII), dichiarava (ivi) di aver affrontato l’Onegin mosso da “spirito d’avventura” e “curiosità” senza conoscere il russo, senza essere uno specialista di letteratura russa e senza avere interessi in questo campo (sic!). Ci si chiede come sia stato possibile che il simbolo della poesia russa, l’emblema stesso della Russia, potesse essere ‘tradotto’ da qualcuno che non conosceva il russo; dietro questa insania si cela il famigerato postulato che, per tradurre poesia non serva conoscere la lingua di partenza, ma solo essere ‘poeta’ (“la poesia possono tradurla solo i poeti”). Data la fama del poeta-traduttore, l’Onegin di Giudici è diventato un riferimento sul mercato italiano, sebbene consista, più o meno omogeneamente, in un pedissequo calco semantico, con qualche inversione dei costituenti; il metro e il ritmo che evocano nel Puškin russo una dissacratoria leggiadria assumono, in questa versione italiana, l’andamento di una noiosa ilastrocca. Analogo e ancora più deludente è il caso di Pia Pera che, dell’Onegin, propone una versione a calco in ‘versi’ che poco si distingue da quella di un buon programma di traduzione automatica19. Nel campo della traduzione letteraria, si sa, è legittimo che chiunque faccia ciò che vuole (per fortuna, non ci si può dilettare di cardiochirurgia senza essere medici), ma qualsiasi traduttore professionista concorderà che sarebbe scandaloso tradurre Shakespeare senza neppure conoscere l’inglese. In realtà, se anche fosse impossibile, in una sola vita, tradurre tutto il capolavoro puškiniano, è certamente possibile che si trovi un russista, traduttore ed esperto di poesia, capace di recepire e valutare il testo dell’Onegin, in grado di tentare l’impresa utile e accessibile di creare in italiano alcune strofe che abbiano un potenziale d’innesco estetico paragonabile a quello del TP. Certamente, anche per realizzare questo progetto più umile, servono a chiunque anni di tentativi, partendo dalla consapevolezza di una responsabilità che va al di là delle dificoltà tecniche (il rischio è di compromettere l’emblema stesso dell’identità culturale russa), nonché dalle competenze indispensabili per tentare di scrivere l’Onegin in italiano. Queste competenze, grosso modo, comprendono: - la conoscenza virtuosistica, sincronica e diacronica, della lingua russa: del russo discorsivo (i dialoghi sono numerosi), del russo della poesia puškiniana e di quello degli altri grandi russi (per capire in che cosa Puškin sia Puškin e l’Onegin sia l’Onegin); - la conoscenza del valore culturale dell’opera, del suo ruolo e della sua sterminata critica; - la conoscenza della metrica contrastiva russo/italiano (su questo gli studi migliori sono stati pubblicati in russo) e, aggiungerei, la capacità di pro19. La traduzione di Lo Gatto (Milano, Garzanti) risale al 1950, quella di Bazzarelli (Milano, Rizzoli) al 1960, quella di Giudici (Garzanti) al 1975, quella di Pera (Venezia, Marsilio) al 1996.
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vare, leggendo il testo russo, quel senso di ‘scanzonata serietà’ e di malinconica irrisione che si sprigiona dai versi ‘non si capisce bene come’; - la conoscenza dei canoni di arrivo per attualizzare un testo che è impossibile storicizzare (e un canone storico di confronto manca del tutto); - una forte motivazione fondata sull’esperienza attiva (scrittura) e passiva (lettura) dei testi poetici e su una buona dose di temerarietà; - un’esperienza di traduzione poetica così ampia e apprezzata dagli esperti da motivare la sida20. Queste competenze sono condizioni sine qua non per poter valutare il “tasso di accettabilità” delle opzioni traduttive (cfr. Toury 1995a, 107), per individuare gli elementi linguistici e stilistici che concorrono a creare la soisticata naturalezza del verso di Puškin, cercando di ricrearli gradualmente e proponendo i risultati alla comunità degli esperti (di poesia, letteratura russa e traduttologia). In sintesi, l’unica procedura per tentare di ri-scrivere un testo cult in altra lingua è quella di ‘provare e riprovare’, valutando assenso, consenso e dissenso, e pubblicando piccoli frammenti di testo per un pubblico esperto e ristretto. In tal senso, si può partire proprio dalle strofe ‘più cult’, per le quali più severo sarà il giudizio degli esperti che, conoscendo il TP, potranno misurare il grado di equifunzionalità del TA o, al contrario, di ‘dissacrazione’. Una volta veriicato quali soluzioni siano state più apprezzate dagli esperti, si prosegue adottando lo stesso progetto. La possibilità reale di tradurre in modo equifunzionale almeno alcune parti dei più venerati testi dell’umanità è dimostrato da alcune virtuosistiche traduzioni in lingue diverse di Dante, Cervantes, Rabelais, Shakespeare. Ad esempio, grazie alle improbe fatiche di alcuni virtuosi traduttori, la Commedia (in terzine di rime incatenate) è conosciuta in Russia come altissimo simbolo della letteratura italiana e la sua traduzione russa è citata, spesso a memoria, da cultori che non dubitano delle ragioni della sua grandezza21. 4. Gli strumenti Qualsiasi traduttore professionista utilizza tradizionalmente una grande quantità di strumenti e repertori di tipologie diverse, nonché, in casi particolari, si avvale della consulenza di specialisti delle lingue settoriali o di studiosi che possano spiegare termini e concetti per selezionare un traducente con maggiore consapevolezza. Riguardo allo stato attuale delle risorse disponi20. Per una sintesi dei problemi traduttivi (a livello metrico, stilistico, sonoro, intertestuale ecc.) che l’Onegin pone al traduttore italiano, si veda la monograia Tradurre l’Onegin di Giuseppe Ghini (2003). 21. Michail Lozinskij, autore della più celebre traduzione della Commedia, annovera senz’altro qualche convinto detrattore, ma questo vale per gli stessi cult text: c’è sempre qualcuno cui ‘non piacciono’ proprio.
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bili alla ricerca linguistica e interlinguistica, pur senza entrare nel dibattito traduttologico, Anna Riccio (2016) offre un compendio agile, dettagliato e corredato di utili illustrazioni, che costituisce un excursus attualizzato sulla natura, le tipologie e gli usi di dizionari, corpora e banche di dati linguistici. Inoltre, per l’applicazione speciica alla traduzione specializzata, Federica Scarpa (2005, 215-229) fornisce una dettagliata descrizione degli strumenti, dei sistemi di gestione della terminologia, dei corpora multilingui e della traduzione assistita. Riccio (2016, 9) sottolinea il fatto noto che la comparsa della rete abbia cambiato “la metodologia di ricerca e l’interpretazione dei dati”. Nell’ultimo decennio, infatti, lo sviluppo esponenziale di Internet ha offerto nuove e immense possibilità di reperire velocemente informazioni complesse, di fare veriiche in caso di dubbio e di ridurre al minimo il ricorso ai consulenti esterni. Interrogando i motori di ricerca, infatti, è possibile accedere a una quantità strabiliante di informazioni multilingui, correlate tra loro in un gigantesco ipertesto planetario, ed è possibile inserire alcuni iltri per la ricerca, selezionando la tipologia di risposta più utile22. Proprio il ‘fattore quantità’, tuttavia, è al contempo il maggior pregio e il peggior difetto della rete: come noto, quando le informazioni sono troppe, quando sono discordanti o sono prive di fonti afidabili, ci si può ritrovare senza criteri per stabilire quale risposta sia più afidabile dell’altra. Poiché trovare informazioni rigorose può richiedere molto tempo, troppo spesso ci si afida a informazioni verosimili assemblate con altre platealmente sbagliate, senza la possibilità di stabilire un grado di afidabilità (come noto, ad esempio, Wikipedia comprende voci piuttosto soisticate, voci di imbarazzante ingenuità ed errori macroscopici). Il grande problema della rete è quello di creare più ostacoli a chi tenda a sottovalutare la molteplicità, contraddittorietà e instabilità del “pubblico dominio”: Internet è una sorta di “labirinto” che può trasformarsi in “miniera” solo se si conosce il modo in cui è strutturato e i pericoli che nasconde (cfr. Poli et al. 2004). Paradossalmente e curiosamente, le generazioni cresciute prima della rivoluzione informatica, addestrate alle ricerche sui libri e alle consultazioni con i bibliotecari, sono spesso più abili nel recuperare più velocemente in rete informazioni più afidabili rispetto a quanto sappiano fare giovani studenti cresciuti con cellulari, tablet e computer: chi era bravo un tempo a cercare in luoghi più ostici è diventato più bravo oggi a cercare dove sembra troppo facile trovare tutto. Una ragione molto semplice è che, per lavorare sui testi, un tempo si leggeva e si studiava moltissimo, a lungo, veriicando con cautela dati e fonti, mentre la rete offre oggi l’illusione di una conoscen22. Sul problema della “query”, cioè delle metodologie di interrogazione del dizionario elettronico, cfr. Riccio 2016, 80-90; del resto anche i criteri di compilazione dei tradizionali dizionari monolingui variavano drasticamente da una lingua all’altra e ancora oggi l’utente può utilizzarli meglio se comprende il modello seguito dal lessicografo.
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za immediata e selettiva che porta a fare troppo poca distinzione tra le fonti, trattando libri, articoli, blog, forum e social network come se fossero ‘più o meno’ la stessa cosa. In sostanza, con l’accelerazione della comunicazione, l’inafidabilità delle fonti è aumentata esponenzialmente e solo chi può fare il confronto con il mondo precedente ha una rappresentazione chiara del devastante potere memetico che la rete può tributare alle informazioni imprecise, lacunose, supericiali o, semplicemente, false. Nonostante la versatilità e velocità dei programmi elettronici, i criteri umani di raccolta e diffusione delle informazioni restano vincolati a modalità di categorizzazione del sapere che rendevano le euristiche dell’‘antica’ ricerca bibliograica più professionali delle ricerche elettroniche. Quali che siano gli strumenti e le banche dati disponibili oggi a un traduttore, il suo ruolo di ‘selezionatore di opzioni’ resta stabilmente quello di sempre; oggi come ieri, infatti, un traduttore può ‘trovare’ una soluzione solo se ha le competenze per cercarla (selezionando le fonti afidabili e conoscendo i criteri per interrogarle) e per riconoscerla (per selezionare l’opzione migliore quando più fonti afidabili propongano traducenti diversi). Infatti, per quanto miracolose paiano le nuove tecnologie, restano ‘vecchi’ i nostri cervelli umani, per cui non è affatto scontato che strumenti potenzialmente migliori portino a un miglioramento immediato e trasversale della traduzione: come accade in tutte le professioni, più sono soisticati gli strumenti, più alta dovrebbe essere la generale competenza di chi li applica. Inoltre, poiché il cervello umano utilizza euristiche nella costruzione, per così dire, dell’‘ipertesto individuale’, queste stesse euristiche, unite alla casualità, si rilettono sulla struttura fuzzy della rete, determinando la mancanza di strategie ottimali nell’uso dei motori di ricerca. In un mondo con una ricerca scientiica e tecnologica in accelerazione esponenziale, i termini stessi di cui si servono scienza e tecnologia sono in parallela evoluzione: in tal senso, al traduttore spetta anche l’onere e la responsabilità di diventare un operatore memetico, ovvero un tramite di diffusione e ‘canonizzazione’ di alcuni termini settoriali nella sua L1. Inoltre, anche per quanto riguarda l’oralità, il lessico quotidiano, la fraseologia e la pragmatica della cosidetta “lingua standard”, l’accelerazione del contagio culturale, incrementata dall’impatto dei social network, impone oggi ai traduttori di prestare un’attenzione particolare alla coerenza diacronica, diatopica, diastratica e pragmatica di qualsiasi enunciato usato anche nella traduzione di testi, letterari o audiovisivi e nell’interpretazione orale23: ci sono 23. Il livello della lingua più soggetto a mutamenti è quello lessicale e fraseologico, ma anche la grammatica può esserne condizionata: si evolve la funzione strutturale delle parole (ad esempio, “tramite”, originariamente sostantivo, oggi è usato come connettore, al posto di “mediante” [“tramite Х” un tempo era un errore grave, oggi è attestato nei dizionari]), mutano le preposizioni rette dai verbi o dai sintagmi nominali (“attingere da”, invece di “attingere a”; “con lo scopo di”, invece di “allo scopo di”). Certamente, il “doppiaggese”, ovvero la lingua densa di calchi del doppiato (dall’anglo-americano), ha il potere di addestrare l’orecchio in-
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parole, idiomatismi, modi di dire che possono sembrare a un primo sguardo traducenti ottimali, ma che, commisurati al contesto, risultano incoerenti, marcati o incongruenti rispetto al registro. Ad esempio, alcuni pseudo-anglicismi - come “approcciare”, “realizzare” (nel senso di “comprendere”), “performare”, “scannerizzare” (invece di “scansionare”), “sciftare” (invece di “slittare”) ecc. - possono diventare così familiari all’orecchio del traduttore da impedirgli di attuare un’opportuna ‘autocensura’, evitandone l’uso in prestazioni che richiederebbero una produzione irreprensibile della L1 (in questo caso, l’italiano). Per aggiornarsi sulla statistica d’uso di parole, termini, sintagmi e locuzioni che cambiano in tempo reale, il traduttore è oggi più che mai costretto a mantenere un contatto costante con la comunicazione quotidiana nelle sue lingue di lavoro, a seguirne l’evoluzione attraverso gli audiovisivi, i libri, la conversazione, gli articoli scientiici. L’esperienza dimostra che non solo le lacune lessicali e fraseologiche del traduttore non sono compensate in modo eficace dagli strumenti lessicograici (tradizionali o elettronici) e dalla rete, ma anche che nessun repertorio è abbastanza afidabile per valutare il registro di un’unità traduttiva qualora sia assente nell’ipertesto mentale del traduttore. Per questo, di fondamentale importanza per la traduzione sono i corpora elettronici che hanno rivoluzionato, nella procedura e nella sostanza, la traduzione specializzata e quella commerciale, ma che si sono rivelati estremamente utili anche nell’interpretazione di conferenza e trattativa. Il problema dei corpora è che non sono facilmente accessibili: o sono a circuito chiuso o sono di dificile consultazione. 4.1. I dizionari Per quanto possa sembrare provocatoria, categorica e ingiustiicata, è ampiamente argomentabile l’affermazione che, per i traduttori, l’uso del dizionario bilingue sia sempre stato dannoso. I dizionari bilingui, ovviamente, possono avere una certa utilità in alcuni rari casi e per alcuni utenti, ma non sono mai utili ai traduttori in generale (tanto più ai principianti), se non per scopi ben diversi da quelli che immaginano coloro che vengono addestrati a usarli per ‘tradurre’. Infatti, se un traduttore non comprende un enunciato o una parola, è totalmente insensato che usi un tradizionale dizionario bilingue. Le ragioni sono molto più semplici e logiche di quanto si possa pensare. Un traduttore che ‘traduca’ con un dizionario bilingue è come un chirurgo che ‘operi’ con un manuale di anatomia, ovvero rappresenta una situazione che si dovrebbe auspicare non accada mai. Da un lato, un soisticato bilinguismo (competenza in L1 e L2 piuttosto simile) è un requisito fondamentale terno dei parlanti della lingua di arrivo a recepire come “grammaticali” e “consueti” costrutti che, ino a poco tempo fa, erano considerati ‘sbagliati’.
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per qualsiasi traduttore, il quale, per le lacune lessicali, dovrebbe ricorrere, piuttosto, a dizionari monolingui: infatti, è sempre il traduttore a selezionare i traducenti e le opzioni f-equivalenti e, per poterlo fare, per poter scegliere, dovrebbe essere in grado di poterne fare a meno. Dall’altro, ammettendo che un traduttore possa non conoscere un nome comune o un modo di dire (la questione dei termini tecnici professionali è completamente diversa), l’ultima cosa raccomandabile è quella che vada a cercare in un repertorio lessicograico che non conosce e che, quindi, non può riconoscere tra un elenco di suggerimenti poco o male contestualizzati: non si può riconoscere ciò che non si conosce. Se il traduttore non ha mai visto, né sentito una parola, se il suo orecchio interno non sa valutare né la sua occorrenza statistica, né il contesto in cui è usata (fattori wh-), non ha alcuna possibilità di trovare il suo traducente se non a) tirando a indovinare (se più traducenti sono suggeriti dal lessicografo) o b) accettando per buono l’unico traducente suggerito24. Inoltre, avendo la possibilità di ottenere in Internet dettagliati resoconti sull’uso di parole, locuzioni, fraseologie direttamente nel contesto, non ha alcun senso afidarsi a un dizionario che solo in rari casi offre collocazioni e contesti dei lemmi e che quasi mai contiene le locuzioni e i modi di dire che servono in quel dato momento. Si può affermare che qualsiasi professionista esperto che usi in L1, ma soprattutto in L2, termini, parole, sintagmi che non ha mai usato prima lo faccia solo dopo avere eseguito controlli incrociati nei dizionari monolingui o nei corpora25. In questi casi, la professionalità implica una preliminare difidenza per tutto quello che non è veriicato dal proprio orecchio interno. C’è un solo caso in cui il dizionario bilingue può servire a un traduttore: quando si veriica un’anomia, cioè quando il traduttore non riesce a richiamare alla memoria a breve termine una parola in L1/L2 che sa di conoscere bene, ma che ha dimenticato in quel momento e che, quindi, può riconoscere tra i traducenti proposti dal dizionario. In questo caso, effettivamente, il dizionario bilingue può ridurre moltissimo i tempi di recupero mnestico e, quindi, va usato come un “dizionario dei sinonimi”, accessibile, peraltro, solo a chi abbia un solido bilinguismo. In tutti gli altri casi, la consultazione di un dizionario monolingue è più afidabile. La ‘sindrome da dizionario bilingue’ è pertanto il primo segnale dell’inesperienza di un traduttore. Il ricorso frequente e continuato a questo strumento denota non tanto una scarsa riserva lessicale soggettiva, quanto un procedimento scarsamente professionale. Vale dunque il principio di non utilizzare nelle traduzioni parole che non appartengano ancora al proprio bagaglio linguistico attivo o passivo, 24. Pur non disponendo affatto di dati afidabili, ho veriicato nella mia esperienza che gli studenti, per scegliere una parola ignota nel dizionario bilingue, optano spesso per la seconda proposta della voce consultata: la prima, dicono, è “troppo facile”, la terza “troppo rischiosa”. 25. Nei dizionari, i lemmi possono essere monorematici (“tavola”, “caldo”) o polirematici (“tavola calda”) (cfr. Riccio 2016, 61).
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esperito nella realtà comunicativa, se non dopo attenta veriica nei corpora di riferimento con contesto analogo. Per chi non è ancora un traduttore esperto e, soprattutto, per chi è ancora nella fase di ‘studio’ di una lingua, il dizionario bilingue (L1 ↔ L2) è uno strumento particolarmente subdolo che incita all’associazione arbitraria tra un segno noto della L1 e uno ignoto della L2 (cioè assente dall’enciclopedia mentale). Il danno maggiore dei dizionari bilingui, infatti, si manifesta proprio quando ci si esercita nella ‘traduzione’ in L2, cioè nella lingua in cui è ancora scarso il corpus linguistico di controllo presente nella memoria dello studente. Se si confrontano le traduzioni professionali verso la L1, si trovano molte meno divergenze di quanto si riscontri nelle traduzioni (decisamente sconsigliate) verso la L2: nella stragrande maggioranza dei casi, la risposta, pur soggettiva, di un nativo è più attendibile non solo del dizionario bilingue e, ovviamente, dell’arbitrio, ma anche di quella di un bilingue non nativo: per quanto soggettive, le esperienze linguistiche di un nativo poggiano su un più consolidato orecchio interno. La traduzione dalle cosiddette lingue “morte” potrebbe sembrare del tutto differente, ma pure, in sostanza, non diverge da quella delle lingue “moderne”: i traduttori dei testi antichi, pur non avendo diretta esperienza attiva e passiva di pratica della lingua orale, possono avvalersi comunque di un’immensa esperienza passiva di testi scritti, i quali, peraltro, sono spesso ricchi di dialoghi e, quindi, di oralità trascritta. Gli specialisti di letterature antiche, quindi, possono diventare profondamente esperti dello stile, della speciicità sintattica, delle occorrenze lessicali e fraseologiche che distinguono un singolo autore antico dall’altro, e le modalità di espressione di un’epoca da quelle anteriori o posteriori. Un esperto ilologo comprende dalla lingua di un testo antico quello che un esperto di arte comprende dalle forme, dal tratteggio, dal pennello e dai colori di un quadro. La profonda comprensione del testo antico, la capacità di valutarne le caratteristiche rispetto all’epoca in cui era stato scritto e per il pubblico cui si rivolgeva abilitano un traduttore dalle lingue antiche ad attualizzare una traduzione in lingua moderna. Solo un lettore dilettante di un testo in ebraico, greco, sanscrito, arabo classico, latino sente il testo come ‘distante’ o ‘datato’: infatti, non è la lingua di per sé, ma il modo in cui è stata usata che può rendere un testo eficace, talvolta universale, a prescindere dal tempo trascorso tra autore e lettore. Dunque, anche traducendo da lingue pervenuteci solo in forma scritta, si può ottenere, pur a livello passivo, una conoscenza procedurale paragonabile all’acquisizione delle lingue parlate, basata su un orecchio interno che consente, ad esempio, a un latinista esperto di ‘sentire’ quale latino sia compatibile con la lingua di Catullo e quale con quella di Lucrezio. La mente linguistica umana non fa distinzioni tra lingue moderne e lingue antiche, l’acquisizione si rinforza in ogni caso se le lingue vengono lette, ascoltate e/o parlate: se non tutti i più esperti latinisti sanno parlare latino correntemente, alcuni sono in grado di farlo, così come gli ebrei, migliaia di anni dopo aver cessato di usare l’ebrai228
co come lingua parlata, sono riusciti a farlo rivivere partendo proprio da testi scritti in una lingua parlata più di due millenni prima. Dunque, anche nel caso delle lingue antiche, pur essendo più comprensibile un saltuario ricorso al dizionario bilingue, è evidente che, per tradurre, resti indispensabile un soisticato bilinguismo, pur passivo in L2. Inoltre, i numerosi corpora elettronici di testi antichi oggi disponibili rendono la pratica traduttiva dalle lingue antiche estremamente simile a quella dalle lingue moderne. I corpora e i dizionari monolingui sono per qualunque traduttore strumenti ben più afidabili di qualsiasi dizionario bilingue26; tanto più, e quest’argomentazione non è secondaria, che i dizionari bilingui ‘invecchiano’ molto più velocemente di quelli monolingui e sono impostati secondo una concezione di “traducente” basata sulla singola parola e su un ‘letteralismo’ che spesso è, semplicemente, ridicolo. Se, inine, si considera la traduzione specializzata di testi professionali che sono altamente codiicati secondo gli stilemi, la terminologia e la fraseologia delle microlingue, in alternativa al dizionario bilingue si possono utilizzare i glossari terminologici. Se compilati in modo rigoroso, questi repertori composti da schede complesse, comprensive di fonti e contesti, hanno una funzione molto più specialistica rispetto a quella dei dizionari bilingui settoriali; anche in questo caso, tuttavia, a differenza dei glossari cartacei tradizionali, quelli elettronici vengono aggiornati continuamente dai traduttori stessi e contengono in ogni ‘scheda’ una grande quantità di informazioni relative a tutti i dati rilevanti per una traduzione equifunzionale (compresa, nei glossari migliori, l’informazione sull’afidabilità dei traducenti proposti per ogni lemma considerato)27. Poiché i glossari professionali sottostanno a regole e a controlli da parte di esperti, il traduttore si afida a compilatori che hanno fatto le opportune veriiche. Prima della diffusione di Internet, i traduttori si servivano di una serie di dizionari monolingui specializzati (ad esempio, il dizionario enciclopedico, quello ortograico, degli acronimi, dei sinonimi e contrari, delle parole straniere, delle frequenze ecc.) la cui tipologia e qualità variava nelle diverse lingue di lavoro: il contenuto di questi repertori, immensamente allargato, è oggi facilmente reperibile in rete e, in modalità elettronica, qualsiasi tipo di veriica è enormemente più veloce. La rete ha completamente rivoluzionato non solo l’essenza, la quantità e qualità degli strumenti, ma la concezione stessa di traduzione specializzata (cfr. Oddone 2004). Oggi, la maggior parte delle agenzie si avvale di applicazioni condivise dai traduttori che ‘ospitano’ direttamente le traduzioni (come il software CAT, Computer Aided Transla26. Esistono, in realtà, dizionari “combinati” che forniscono “traduzioni delle entrate in L1, seguite dalle deinizioni in L2” (Riccio 2016, 58): possono aiutare grazie alle deinizioni, ma non garantiscono quasi mai l’afidabilità dei traducenti proposti, poiché la contestualizzazione o è assente o è minima. 27. Sul concetto di “lemma” e “lemmario”, cfr. Riccio 2016, 61-63.
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tion) e creano gigantesche memorie di traduzione (ivi, 430-433): il traduttore deve acquisire l’accesso alla piattaforma di condivisione dei dati per usufruire del lavoro svolto dagli altri e, a sua volta, per rendere disponibile il proprio contributo. Sebbene la traduzione per l’editoria resti, in tal senso, ancora autonoma e soggetta al copyright (di autore, traduttore, editore) che ne impedisce la divulgazione, gli strumenti forniti dalla rete sono ormai irrinunciabili per qualsiasi traduttore, tanto più se lavora su testi complessi: la rete rende possibile non solo accedere a dizionari, glossari ed enciclopedie di ogni genere, ma anche, per esempio, ad applicazioni che aiutano a trovare, oltre a sinonimi e antonimi, anche rime, consonanze, anagrammi, proverbi, modi di dire, maledizioni, scurrilità, dialettismi, formule. Inoltre, grazie ai blog e ai forum mirati (cfr. Garbarino 2004), il traduttore può consultare in tempo reale colleghi ed esperti e discutere con loro: anche in questo caso, permane il problema della ‘qualità’ dei suggerimenti che va commisurata all’enorme dilettantismo rilevabile tra i tanti (troppi) sé dicenti ‘traduttori’ che usano le lingue di lavoro in modo approssimativo e che, tuttavia, sono molto attivi nei professional network specializzati. 4.2. I corpora I corpora (plurale di corpus) non sono nati con l’elettronica, ma costituiscono un concetto e un oggetto noto in dall’antichità e un elemento imprescindibile della ilologia, cioè dello studio storico dei testi e della loro ricostruzione storico-critica. Chiunque lavori nell’àmbito degli studi ilologici, linguistici, letterari dovrebbe avere molto chiaro il concetto di corpus, ovvero dell’insieme dei testi che costituiscono l’oggetto della ricerca, contrapposti ai testi critici che si utilizzano come commento. Il termine latino corpus ha oggi avuto una diffusione massiccia grazie al successo della corpus linguistics (linguistica dei corpora), nata quando l’antico concetto è stato applicato alle nuove tecnologie. È utile la deinizione generale di “corpus” fornita da Riccio (2016, 17): Sotto il proilo strutturale e formale, il corpus è una raccolta sistematica, coerente e bilanciata di testi autentici (scritti e/o orali, o multimediali), o parte di essi, selezionati e organizzati secondo espliciti criteri linguistici e non linguistici, disponibile oggi anche in formato digitale manipolabile da un calcolatore. Lo scopo principale di un corpus è quello di essere consultato come campione rappresentativo di una lingua, o di una sua varietà, in tutti i suoi aspetti, in vista di soddisfare gli obiettivi dell’analisi; questi ultimi determinano la scelta dei testi e le diverse fasi della costruzione del corpus.
La prima suddivisione è tra corpora generali (che rappresentano la lingua in ogni sua varietà) e specialistici (distinti per varietà testuali). 230
In secondo luogo, i corpora possono distinguersi in scritti, parlati e misti, nonché in diacronici (che considerano testi di epoche diverse) e sincronici (che riguardano la lingua degli ultimi dieci-vent’anni). Inine, e questo è fondamentale per i traduttori, i corpora possono essere monolingui o bi-/multilingui. Entrambe le tipologie possono essere di due tipi: comparabili (corpora di confronto) o paralleli. I primi sono testi della stessa tipologia (per forma e contenuto) che non costituiscono, né comprendono traduzioni: un esempio nell’àmbito economico inglese/italiano è proposto da Julia Bamford (2011, 288, 293-296), che ha comparato i settimanali The Economist e “Affari e Finanze” (inserto di La Repubblica)28. I corpora paralleli, invece, sono costituiti da gruppi di testi uniti alle loro traduzioni in una o più lingue, a seconda che siano bilingui, trilingui o multilingui. A loro volta, i corpora paralleli possono essere unidirezionali (i TP sono in una sola lingua e i TA nell’altra) oppure bidirezionali (TP in entrambe le lingue con i rispettivi TA nell’altra lingua). Per effettuare una ricerca, l’interfaccia del corpus presenta una inestra di dialogo in cui inserire la stringa di testo ricercata (ad esempio: “la notizia ha fatto scalpore”, “soluzione in acido nitrico”, “a nome del Presidente” ecc.) e utilizzare i iltri che possono ottimizzare le risposte (se ci sono troppe risposte, è troppo il tempo necessario a esaminarle): dal corpus ‘interrogato’ si ottiene l’elenco completo di tutte le occorrenze e di tutte le concordanze di quella precisa stringa in migliaia di pagine di testo (estratto dal corpus), con l’indicazione dell’origine di ogni risposta: ciò consente al traduttore di valutare la tipologia e afidabilità della fonte, il contesto, il cotesto (ovvero, le parole immediatamente adiacenti a quella stringa), la frequenza d’uso. Il ricorso ai corpora, dunque, riguarda gli àmbiti distinti, seppur correlati, della ricerca linguistica, della glottodidattica e della traduzione professionale, i cui scopi, tuttavia, restano molto diversi (per una visione d’insieme, si vedano i saggi raccolti da Aston, Bernardini, Stewart 2004). È possibile, infatti, individuare con buona afidabilità statistica quante volte una determinata parola (ad esempio, un prestito straniero o una parola desueta) ricorra all’interno di una certa lingua, così com’è possibile svolgere analisi di tipo sincronico (su testi solo contemporanei) o, viceversa, diacronico (confrontando i testi contemporanei con quelli di altre epoche). I corpora possono essere utilmente confrontati per stabilire, ad esempio, se alcuni costrutti o lessemi o parole vengano usati in modo diverso nella lingua standard e in quella delle traduzioni, ad esempio per l’inglese, comparando il Translational English Corpus con il British National Corpus (Bamford 2011, 289), 28. Bamford mostra, ad esempio, come dall’analisi delle due fonti (inglese/italiana) emerga un uso asimmetrico dei verbi assume/assumere che, pur non essendo propriamente “falsi amici” non convergono a livello funzionale. I corpora aiutano proprio a confrontare il lessico in diretta connessione alle collocazioni e alle occorrenze morfologiche: si può, sempre ad esempio, confrontare la realizzazione dell’impersonale con diverse forme del verbo.
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mentre i corpora monolingui britannici e americani possono essere confrontati per quantiicare le differenze tra le due varietà diatopiche. Utilizzando, invece, i corpora paralleli, si può ottenere un ulteriore riferimento delle corrispondenze bilingui standard, ma anche delle incongruenze a livello di fmarcatezza. A mano a mano che si approfondiscono le questioni epistemologiche e tecniche legate a creazione, ampliamento, mantenimento e utilizzo dei corpora, oltre alle suddette nozioni distintive basilari, si aggiungono altre ‘classi’ di corpora con le considerazioni sul loro impiego scientiico e applicativo (cfr. Riccio 2016, 22-24, 46-51). Merita ripetere che sia la progettazione, sia la codiica informatica dei corpora richiedono soisticate competenze speciiche che rendono questo campo una vera e propria disciplina (per l’appunto, la “linguistica dei corpora”29) che, pur strettamente collegata agli studi linguistici e traduttologici teorici e pratici, non si sovrappone alla traduttologia: La costituzione di un corpus non è un lavoro solo pratico, che implica una grande fatica per la raccolta di dati, per la durata del tempo di lavoro, per l’alto impiego di forze e denaro […] implica scelte teoriche di diverso livello e deve attenersi a regole che consentano l’afidabilità del corpus stesso (Cresti, Panunzi 2013, 21).
Una delle dificoltà maggiori nella raccolta dei corpora elettronici è quella relativa ai ‘testi orali’. Come osservano Emanuela Cresti e Alessandro Panunzi (2013, 64), il problema primario deriva dal fatto che, pur segmentato, il lusso della lingua orale non ha “limiti programmati”, non è quindi propriamente suddivisibile in ‘testi’ veri e propri, ma viene trattato secondo schemi concettuali che trasformano un insieme di parole sonorizzate in un “prodotto” approssimativo. Come si è detto, esistono corpora in molte lingue, ma solo alcuni sono il frutto di anni di lavoro e pochi sono altamente afidabili. L’inglese britannico gode di una situazione particolarmente privilegiata, infatti è proprio nell’àmbito dell’anglistica che, a partire dagli anni Ottanta, la corpus linguistics è divenuta gradualmente una disciplina fondamentale in campo macro-linguistico (cfr. ad esempio, Sinclair 1991, Kennedy 1998). La rivoluzione elettronica ha reso i corpora uno strumento fondamentale per i traduttori di ogni genere, ma propriamente indispensabile per chi lavori con testi ad alta prevedibilità e stereotipia (in àmbito commerciale, tecnico, scientiico, più genericamente deinito come LSP: Languages for Special Purpouses). L’analisi contrastiva di unità traduttive nel contesto consente, infatti, di veriicare quali soluzioni siano state proposte da altri traduttori, quali di queste siano più afidabili, quali siano più coerenti rispetto alla fmarcatezza del TP e allo Skopos del TA. 29. Per una sintesi sull’evoluzione della linguistica dei corpora, cfr. Cresti, Panunzi (2013, 33-41).
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Utilizzando i corpora elettronici nella pratica traduttiva, tuttavia, ci si convince che questo strumento sia utile se e solo se supportato dai corpora di confronto mentali del traduttore che, grazie a bilinguismo ed esperienza contrastiva, consentono di operare le scelte incrociando la f-marcatezza in contesti diversi. Il dizionario mentale, infatti, non funziona affatto come un “vocabolario” tradizionale, ma come un ipertesto biologico che, su base esperenziale, forma una gigantesca mappa mentale bilingue. La competenza traduttiva prevede proprio l’incrocio delle due (o più) lingue di lavoro e più si traduce, più la mappa mentale si espande e si rafforza, consentendo un più rapido richiamo mnestico delle corrispondenze. Certamente, i corpora elettronici sono meno ‘soggettivi’ dei corpora neuronali ma, proprio per questo, sono meno versatili: è la sinergia con il corpus mentale del traduttore che può rendere versatile il corpus elettronico. Ecco perché si è diffusa la traduzione assistita, in cui banche dati e corpora elettronici sono solo strumenti, in quanto la scelta spetta al traduttore. Numerose applicazioni elettroniche, usate oggi da agenzie di traduzione in tutto il mondo, sono programmi in grado di compattare corpora diversi in un enorme mega-corpus parallelo (per diverse coppie di lingue, selezionabili dal traduttore): per ogni unità traduttiva, la macchina predispone una scelta e il traduttore può accettarla o selezionarne un’altra30, ma anche considerare soluzioni non previste dal ‘sistema’. È dunque fondamentale che un apprendente traduttore si afidi ai corpora esterni quando già ha consolidato nel suo cervello un solido dizionario pragmatico ‘interno’ (cfr. Porcelli 2007, 76-77): solo la mente umana, infatti, è in grado di eliminare ciò che il concordancer include per errore o, viceversa (e capita molto spesso), di includere ciò che il concordancer ha escluso (ivi, 83). In sintesi, anche nel caso di testi ad alta prevedibilità, maggiore è la competenza (orecchio interno) del traduttore, maggiore è la sua capacità di operare selezioni in ‘modalità assistita’. Ancora una volta: per saper trovare, non basta saper cercare, si deve saper riconoscere. Inine, nel caso della traduzione letteraria, i corpora elettronici sono uno strumento da utilizzare con particolare ‘cautela’ e, sostanzialmente, servono più per studiare le traduzioni di quanto aiutino a ‘farle’. Infatti, i vincoli del testo artistico e le conseguenti computazioni dei parametri ‘in gioco’ da parte del traduttore sono ancora quantitativamente e qualitativamente al di sopra delle previsioni di qualsiasi strumento elettronico (ad esempio, i iltri di ricerca non comprendono i vincoli fonetici direttamente connessi a quel30. I programmi di traduzione assistita sono per lo più ad accesso vincolato (in abbonamento periodico o su licenza limitata) e consentono ai traduttori di consultare in tempo reale banche dati in continuo aggiornamento, cui accedono traduttori di tutto il mondo: inserendo i testi delle nuove traduzioni, ogni traduttore contribuisce a modiicare e ampliare il corpus (purtroppo, non sempre e non solo ‘in meglio’).
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li prosodico-intonazionali e metaforici). I parametri propriamente stilisticoestetici non sono ancora codiicabili (sono troppi, forse, per poter essere formalizzati e trasformati in un sistema coerente). Esistono corpora di confronto per la letteratura e anche per la poesia che sono preziosi per l’analisi dei testi e per lo studio storico-critico della traduzione, ma il loro uso non è iterabile per principio, visto che, se si utilizzano strutture identiche, la scrittura creativa diventa ‘plagio’.
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6. LA PROFESSIONE E IL MERCATO
1. Una visione d’insieme 1.1. Il ‘panorama’ professionale A partire dal secondo dopoguerra, l’attività traduttiva ha avuto uno sviluppo quantitativo esponenziale a livello planetario (cfr. Apel 1993, 125-132; Venuti 1995, 1-17; AIE 2002), ma per lungo tempo, nonostante la quantità delle traduzioni richieste e la continua diversiicazione delle specializzazioni, non si è avuta alcuna concreta rivalutazione della complessità di questa professione. Solo a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, con l’istituzione e la graduale diffusione dei percorsi mirati di formazione universitaria in tutto il mondo, la maggiore competenza dei giovani professionisti immessi sul mercato ha contribuito a sensibilizzare i clienti, i committenti e i destinatari a considerare la drastica differenza tra dilettantismo e competenza professionale. Anche nel nostro Paese, per ogni speciica tipologia traduttiva, sono oggi disponibili corsi di specializzazione tenuti da studiosi, ricercatori e docenti, afiancati da professionisti esperti, in grado di fornire ai giovani traduttori maggiore consapevolezza sugli aspetti teorici, tecnici, deontologici e giuridici del mestiere1. Sul mercato internazionale, con talune differenze nei singoli Paesi, le tipologie di traduzione professionale sono sempre più numerose e diversiicate. Le più importanti sono: - la traduzione per l’editoria; - la traduzione specializzata; 1. Stupisce che nel volume (per altro prezioso) dell’Associazione Italiana Editori (AIE 2002) non vi sia alcuno spazio speciicamente dedicato alla traduzione: i dati relativi si possono ricavare solo dalle tabelle complessive o dalle diverse voci sulla “letteratura straniera”. Questo catalogo è un’evidente dimostrazione della grave disattenzione degli editori per il ruolo propriamente editoriale della traduzione e dei traduttori.
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la traduzione specializzata assistita; la traduzione dei dialoghi cinetelevisivi; la traduzione per il turismo; la traduzione a vista; la traduzione di applicazioni elettroniche (programmi, giochi, materiali didattici); la localizzazione2; l’interpretazione di conferenza (simultanea, consecutiva, chuchotage); l’interpretazione di trattativa; l’interpretazione in àmbito sociale (mediazione interculturale); l’interpretazione simultanea di audiovisivi.
Oltre ai requisiti comuni a tutte le suddette tipologie professionali (solido bilinguismo, competenze teoriche e addestramento trasversale), ognuna di esse impone oggi conoscenze speciiche e un addestramento particolare. Solo in rari casi, un traduttore può diventare così abile e richiesto in un singolo settore professionale da esercitare la professione di traduttore o di interprete solo in quell’àmbito; altrettanto dificile è riuscire a lavorare stabilmente con due sole lingue di lavoro (L1 e L2). In realtà, data la presenza sul mercato di un grandissimo numero di traduttori privi di laurea e di adeguata preparazione, la maggior parte dei giovani traduttori professionisti, almeno per lungo tempo dopo aver concluso gli studi, si trova necessariamente a sperimentare tipologie diverse di traduzione, accompagnate spesso da altre attività di sostentamento. Per questo, nel periodo di formazione, è importante sviluppare nei futuri traduttori la capacità di adattarsi a settori diversi e a nuove lingue, imparando a guardare al proprio ruolo professionale in modo il più possibile ‘elastico’. Del resto, una certa elasticità è richiesta anche a chi raggiunga i massimi livelli professionali presso le grandi istituzioni internazionali: ai traduttori e interpreti assunti dagli enti governativi può essere richiesto, infatti, di aggiungere alle proprie lingue di lavoro una lingua supplementare, anche del tutto ignota, come si è veriicato negli anni in cui sono entrati a far parte dell’Unione Europea numerosi nuovi Paesi. Tra coloro che svolgono esclusivamente il mestiere di traduttore, vi sono sia professionisti free lance, sia dipendenti di imprese o istituzioni, assunti a seguito di selezioni o concorsi, i quali, soprattutto in piccole imprese, devono anche svolgere mansioni allargate (ad esempio, organizzative o di segreteria). Si potrebbe dire che oggi anche la versatilità sia una sorta di ‘specializzazione’ che aiuta a sperimentare settori professionali diversi. Ad esempio, un àmbito lavorativo in costante evoluzione e stabilmente interes2. I localizzatori sono “coloro che traducono e adattano il prodotto (il più delle volte un intero pacchetto applicativo software o il contenuto di un sito web) alle caratteristiche non solo linguistiche e culturali, ma anche di altro tipo (s. legali, di consumo, religiose ecc.) del mercato di destinazione” (Megale 2004, 13). Forme di localizzazione sono anche le trasformazioni degli spot pubblicitari e la traduzione dei marchi commerciali.
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sato alle generali competenze linguo-traduttive è quello del turismo: per chi ambisca a diventare interprete di conferenza o di trattativa, esercitarsi come accompagnatore turistico o come interprete privato (in Italia, all’estero, nei villaggi turistici o sulle navi da crociera) costituisce un’ottima occasione per abituarsi a tradurre in pubblico, mettendosi alla prova prima di esporsi alle più elevate responsabilità dell’interpretazione di trattativa o di conferenza. Il fatto di dover svolgere prestazioni molto diversiicate, alternando il mestiere di traduttore ad altre attività di sostentamento, è conseguenza soprattutto dell’incerto ruolo sociale e giuridico della professione. In sintesi, i problemi legati al ruolo sociale della traduzione dipendono dall’evoluzione interrelata di 1) rilessione teorico-epistemologica (consapevolezza professionale), 2) legislazione e 3) prassi professionale. Per quanto riguarda il primo punto, secondo l’ottica dei Translation Studies, la teoria della traduzione avrebbe proprio il compito generale di supportare il ruolo socio-economico della traduzione, teorizzando “una pratica sociale non ancora teorizzata” (Meschonnic 1995, 266), nonché avrebbe il compito speciico di provvedere: -
alla ricostruzione di un quadro generale del funzionamento del patronato che governa il polisistema culturale (Lefevere 1992a, 1992b); alla descrizione dei rapporti tra opera tradotta, ideologia e cultura (Even-Zohar 1995, Toury 1995a); allo studio dei nessi esistenti tra opzione, progetto, prodotto e canone (cfr. ad esempio Bassnett 1991, Lefevere 1992b, Venuti 1995, Pym 1998).
Per quanto riguarda il secondo e il terzo punto, la correlazione tra legislazione ed evoluzione della prassi professionale è strettissima, in quanto le leggi inluiscono sulla qualità e sul prestigio della professione, così come i mutamenti della prassi professionale inluiscono, a loro volta, sulla legislazione (ad esempio, la comparsa della rete, delle banche dati elettroniche, delle memorie di traduzione ha implicato una revisione della normativa sul diritto d’autore). Da più di settant’anni, i prodotti della traduzione sono tutelati in Italia da un testo di legge che risale al 1941 e che protegge i diritti d’autore dei traduttori (Legge, 22/04/1941 n° 633, G.U. 16/07/1941). Nella sua forma originaria, questa legge si occupava di traduzioni editoriali, per lo più letterarie, ma, nel corso dei decenni, soprattutto in tempi recenti, il suo testo si è arricchito di numerosi articoli a tutela dei dialoghisti cinematograici e televisivi (cfr. Megale 2004, 103-112), nonché di chi crei corpora e banche dati elettronici (ivi, 145-174), compresi i testi letterari pubblicati in rete (ivi, 175-180). La complessità della legge è tale, ormai, da richiedere legali competenti per chi debba dirimere contenziosi. Eppure, nonostante le tutele legislative, il diritto d’autore dei traduttori, nella prassi, ‘funziona’ in modo molto diverso rispetto a quello degli scrittori: per poter pubblicare il proprio lavoro, infatti, l’autore delle traduzioni è quasi sempre costretto a cedere del tutto i propri diritti 237
all’editore o a ottenere percentuali di vendita (royalties) del tutto insigniicanti. Sui diritti d’autore del traduttore, Fabrizio Megale ha pubblicato nel 2004 un utile compendio che espone nel dettaglio la situazione di traduttori editoriali, dialoghisti cine-televisivi e localizzatori. Megale, tuttavia, presenta la realtà giuridica in modalità consapevolmente ‘asettica’, deinendo l’invalso rapporto dei traduttori letterari con le case editrici come “rapporto di libera collaborazione esterna” (ivi, 19), laddove si potrebbe parlare, dal punto di vista del traduttore, di ‘forzata sudditanza’3. 1.2. Le associazioni e la regolamentazione della professione Le ragioni dello scarso prestigio professionale dei traduttori e delle loro limitate possibilità di negoziare con i clienti un onorario rispettabile sono dovute, essenzialmente, all’assenza di un albo (o ordine professionale) riconosciuto uficialmente dallo Stato. Solo un’associazione uficialmente riconosciuta, sottoposta a una rigorosa normativa di accesso e giuridicamente controllata da un Ministero potrebbe impedire che si deinissero ‘traduttori’ o ‘interpreti’ persone prive di un percorso di studi professionalmente coerente. Una quantità non facilmente calcolabile di pseudo-professionisti opera in pratica sul mercato una concorrenza massiccia ai professionisti più seri che, per la legge, non è concorrenza “sleale”. Legalmente, chiunque può fare il traduttore poiché la legge sul diritto d’autore tutela chiunque si auto-proclami ‘traduttore’. Paradossalmente, nell’àmbito dell’interpretazione (soprattutto di conferenza), dove il diritto d’autore ben raramente è chiamato in causa, si osserva, almeno negli ultimi decenni, una reale valorizzazione professionale, pur non paragonabile a quella di altre libere professioni. Infatti, le associazioni professionali sono molto severe anche se non sono controllate dallo Stato e le tariffe degli interpreti sono dignitose, talvolta piuttosto alte (in certi casi particolari, superano i 600 euro a giornata o frazione)4. Tuttavia, anche in questo caso, non è raro che alcuni clienti meno esigenti cerchino ‘pseudo-interpreti’ disposti a lavorare per cifre inferiori del 50-70% rispetto alla prassi prevista dai professionisti: in sintesi, nessun intervento dell’Antitrust può o potrebbe 3. Per quanto riguarda altri Paesi europei (nella fattispecie, Francia, Germania, Spagna, Gran Bretagna), si rimanda ai numerosi saggi della miscellanea Linguistica e proprietà intellettuale, curata da Marie-Christine Jullion (2005). 4. Le tariffe dell’interpretazione di conferenza e di trattativa possono variare in base alle lingue della prestazione e al regime di lavoro, ma non vige mai la tariffa oraria: l’interprete è pagato a giornata anche se lavora poche ore. In altri casi, per esempio nell’interpretazione giuridica, si deve sottostare alle tariffe (spesso estremamente basse) previste dall’istituzione; nel campo della mediazione c’è maggiore elasticità, data la rilevanza sociale dell’interprete che, in attesa del dovuto riconoscimento istituzionale, può operare in regime forfettario e talvolta pro bono.
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salvaguardare un interprete professionista dal ‘collega’ disposto a lavorare per meno di metà della tariffa giornaliera. Si immagini ora, per assurdo, che lo Stato non imponga più a un cittadino che voglia esercitare l’odontoiatria di laurearsi, di sostenere un esame di Stato e di iscriversi all’Ordine professionale degli Odontoiatri (che lo tutela e lo controlla): in una situazione del genere, un dentista laureato sarebbe costretto da una legislazione carente a concorrere sul mercato con qualsiasi odontotecnico, studente di odontoiatria o autodidatta disposto a offrire lo ‘stesso’ intervento a metà prezzo. I prezzi delle libere professioni sono molto alti perché implicano, a tutela dei clienti, conoscenze e abilità che richiedono un lunghissimo periodo di istruzione e addestramento, nonché il superamento di severe selezioni direttamente controllate dallo Stato. Non essendo tutelato da un ordine professionale, il traduttore è in balìa dei clienti che giocano al ribasso, visto che sul mercato è pieno di ‘traduttori’. Questo consente un ulteriore paradosso socio-economico: il cliente stabilisce la tariffa del professionista e gliela comunica quando richiede la prestazione. Si immagini, per fare un confronto, che un cliente imponga a un avvocato il prezzo di cinquanta euro a udienza o che offra a un architetto di progettare una ristrutturazione d’interni a cento euro o, ancora, si immagini un paziente che chieda al dentista un’estrazione per venti euro: il professionista, ovviamente, si stupirebbe molto (con probabile risentimento), precisando che non è il cliente a stabilire la parcella. La situazione dei traduttori è peggiore anche rispetto ad artigiani e commercianti: qualsiasi cliente che entri in un negozio può decidere di non comprare un oggetto se il prezzo non lo soddisfa, così come qualsiasi cliente può non accettare il preventivo di un artigiano, ma nessun cliente stabilisce da solo il prezzo della merce nei negozi in cui entra, né impone a un idraulico le sue tariffe (al massimo, comunica il proprio budget). I traduttori, invece, ricevono il lavoro al prezzo stabilito dal cliente (aziende e case editrici) che impongono il costo delle prestazioni (la sola cosa negoziabile sono talvolta i tempi di consegna): se il professionista non accetta, il cliente sa che, per quanto assurdamente bassa sia la sua offerta, potrà trovare un altro ‘traduttore’ disposto ad accettarla. Se non ci sono vincoli giuridici, se non ci sono limiti legali alle tariffe ‘basse a piacere’, si trova sempre qualcuno che, ritenendosi suficientemente ‘bilingue’, si ritenga per ciò stesso un ‘traduttore’. In Italia siamo in presenza di un grave vuoto legislativo cui cercano di opporsi con ogni possibile mezzo legale diverse associazioni professionali. A livello internazionale esistono associazioni professionali di traduttori e interpreti cui aderiscono singole ‘iliali’ in numerosi Paesi: le più note sono la Fédération Internationale des Traducteurs (FIT), che comprende 55 afiliate in altrettanti Paesi del mondo e conta ca. 80.000 traduttori, interpreti e terminologi, e, per quanto riguarda l’interpretazione di conferenza, l’Asso239
ciation Internationale des Interprètes de Conférence (AIIC, in inglese Conference Interpreters Worldwide)5. A livello nazionale, oltre alle associazioni afiliate a quelle internazionali, ne esistono altre, nei singoli Paesi, come, ad esempio, l’American Translators Association (ATA), la Asociación española de traductores, correctores e intérpretes (Asetrad), la Bundesverband der Dolmetscher und Übersetzer (BDÜ), la Sojuz perevodčikov Rossii (SPR) ecc.6. In Italia, la più importante è l’Associazione Italiana Traduttori e Interpreti (AITI), fondata nel 1950 e membro della FIT, la quale raggruppa traduttori editoriali, traduttori tecnico-scientiici, interpreti e interpreti di conferenza. L’ammissione avviene sulla base della documentazione dei titoli e dell’esperienza professionale, inoltre i soci ordinari devono sostenere una prova di idoneità che simula un reale contesto lavorativo7.
Come le altre associazioni dei traduttori, tuttavia, l’AITI non è affatto un “ordine professionale”: la “prova d’idoneità” di cui è detto sopra non è un “esame di Stato”, né richiede come requisito uno speciico titolo di studio, chiunque può chiedere di essere ammesso alla prova, la cui tipologia è stabilita dal direttivo dell’associazione e non dallo Stato italiano. Se almeno l’iscrizione a un’associazione riconosciuta fosse vincolante, si eviterebbe l’amara incongruenza tra il numero degli iscritti alla principale associazione professionale italiana (l’AITI conta oggi poco più di 1100 membri) e il numero dei ‘traduttori’ che operano in Italia, superiore di dieci-quindici volte rispetto ai membri dell’AITI (secondo l’Istat, già nei primi anni Novanta, in Italia i traduttori professionisti erano più di 10.000; cfr. Megale 1993, 155). Questo signiica che moltissimi ‘traduttori’ operano senza vincolo alcuno, non solo senza aver conseguito un coerente titolo di studio, ma senza neppure aver mai superato alcuna prova di idoneità. Gli scopi stessi dell’AITI, come espressamente indicati sul sito, indicano il mancato raggiungimento di uno status giuridico e sociale paragonabile a quello delle altre libere professioni: -
promuovere iniziative legislative volte al riconoscimento di uno stato giuridico del traduttore e interprete come professionista; attestare le competenze professionali dei propri associati; promuovere l’immagine e la consapevolezza del ruolo sociale, culturale ed economico dei traduttori e degli interpreti presso la committenza e le istituzioni;
5. La AIIC Italia esiste dal 2014. 6. In alcune aree multilingui, come la Spagna, esistono anche associazioni regionali, come la catalana Associació d’Escriptors en Llengua Catalana (AELC). Esistono poi, in vari Paesi, associazioni in campi speciici della traduzione; ad esempio, per i traduttori letterari esiste (tra le altre) l’American Literary Translators Association (ALTA), per quelli giuridici la Union Nationale des Experts Traducteurs Interprètes près les Cours d’Appel (afiliata della FIT), per gli interpreti delle lingue dei segni, la Association of Visual Language Interpreters of Canada (AVLIC) ecc.. 7. http://www.aiti.org/associazione.
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promuovere l’aggiornamento e la formazione continua dei traduttori e degli interpreti e il rispetto della deontologia professionale; garantire, sotto l’aspetto etico e sociale, il rispetto delle migliori condizioni e prestazioni di lavoro, autonomo e dipendente, dei traduttori e degli interpreti, anche tramite l’elaborazione di contratti tipo; promuovere la raccolta e la diffusione di informazioni riguardanti la professione; elaborare e diffondere raccomandazioni, norme e standard sulle migliori prassi professionali; favorire l’accesso alla professione attraverso forme di tutoraggio con l’acquisizione di comportamenti e mentalità professionali; promuovere l’attuazione dei più idonei percorsi formativi per le diverse igure professionali nel campo della traduzione e dell’interpretazione; promuovere iniziative legislative afinché nei tribunali italiani i servizi di interpretazione e traduzione nei procedimenti penali vengano garantiti da traduttori e interpreti qualiicati e professionali, in conformità alle normative internazionali in materia, in primis la Direttiva 2010/64/UE8.
È particolarmente indicativo, all’ultimo punto dell’elenco, che l’AITI debba lottare per riuscire a ottenere in Italia l’adeguamento alle norme giuridiche richieste in materia legale dall’Unione Europea (Direttiva 2010/64/ UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20/10/2010 sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali)9, atte a tutelare sia il ruolo dei traduttori, sia la qualità delle prestazioni in àmbito giuridico-legale. È possibile che l’AITI riesca, prima o poi, nell’ardua impresa di convincere gli organi di potere della necessità di riconoscere in Italia “uno stato giuridico del traduttore e interprete come professionista”, ma, inché questo non avverrà, sul nostro mercato continuerà a operare un numero di ‘traduttori’ dieci volte superiore a coloro che si sono almeno sottoposti a una prova d’idoneità. Finché, dunque, non maturerà a livello governativo la convinzione che tradurre sia un’attività estremamente complessa, qualsiasi traduzione di alta responsabilità economica, sociale e civile (ad esempio, nei tribunali e negli ospedali, ma anche in campo tecnologico e commerciale), per non parlare di quello letterario, potrà essere legalmente afidata a chiunque. Comprensibilmente, chiunque eserciti da anni la professione di traduttore senza avere alcun requisito opporrà resistenza a qualsiasi mutamento legislativo, soprattutto alla creazione di un ordine professionale. Tuttavia, questa fase delicata e spiacevole di passaggio dalla deregulation alla regolamentazione è inevitabile in tutte le professioni: nel passato prossimo o remoto, in tutte le libere professioni, c’è stato un momento storico in cui si è dovuto affrontare lo scontento di alcuni per garantire a tutti, committenti (clienti), destinatari e professionisti, garanzie deontologiche rigorose. Cer8. http://www.aiti.org/associazione. 9. http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2010:280:0001:0007:it:PDF. Sulla traduzione giuridica, si veda la monograia di Megale (2008) che, nei primi due capitoli, affronta da diversi punti di vista l’interazione fra lingua, traduzione e diritto.
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tamente queste garanzie hanno un costo, ma, come dimostrano la medicina e la giurisprudenza, l’ingegneria e l’architettura, se si vogliono prestazioni serie (pazienti vivi e ponti che non cadano), è bene controllare l’accesso alle professioni specialistiche. 2. I paradossi della traduzione editoriale 2.1. Il caso e la necessità Sebbene la stretta correlazione tra qualità delle traduzioni e competenze dei traduttori sia ovvia e innegabile, nel polisistema editoriale italiano, sono lo status giuridico del traduttore e i fattori ideologico-economici a determinare le tariffe professionali, la tipologia dei testi pubblicati, la gerarchia delle lingue e delle culture di maggior successo. Nell’àmbito dell’editoria italiana e, in particolare, in quello della traduzione letteraria e saggistica, l’anomalo quadro generale relativo allo status sociale, giuridico, economico del traduttore è particolarmente svantaggioso: se ancora esiste un minimo prestigio sociale nel tradurre opere di poesia o narrativa, la scarsa gratiicazione che ne deriva non può certo compensare la frustrazione di onorari straordinariamente miseri e quasi mai negoziabili (talvolta dificili da ottenere nei tempi previsti dal contratto). Nel mondo editoriale, infatti, il traduttore (se non è rispettato per un altro suo ruolo, per esempio di famoso scrittore, noto scienziato o, magari, conduttore televisivo) è considerato alla stregua di un ‘manovale delle lingue’, beneicato dall’editore per il solo fatto di aver ottenuto una proposta di traduzione10; qualora, invece, la proposta sia stata avanzata direttamente all’editore dal traduttore, costui viene beneicato dal fatto stesso di essere stato preso in considerazione11. È evidente un ulteriore paradosso: il massimo prestigio e rispetto professionale in qualità di traduttori per l’editoria lo ottengono persone che non sono traduttori e che, spesso, non hanno alcuna preparazione né teorica, né professionale nel campo delle lingue e della linguistica12. Ma questo è solo uno dei tanti paradossi e certo il meno problematico. Quello più 10. La parola “editore” (qui e in seguito) non si riferisce necessariamente alla persona a capo dell’azienda, ma in generale a coloro che gestiscono le singole collane editoriali, deputati a seguire l’iter di un progetto. 11. Quanto alla proposta editoriale, che richiede indagini di marketing, è importante veriicare se l’opera in questione ricada ancora nel regime dei diritti d’autore e se esistano già traduzioni (è opportuno consultare in tal senso i cataloghi delle Biblioteche Nazionali, ma, in alcuni rarissimi casi, possono non comprendere traduzioni italiane pur esistenti). 12. Certamente, se il traduttore è uno scrittore famoso, l’editore lo rispetta, lo paga di più e gli risponde sempre al telefono; se il traduttore è un professore universitario, l’editore lo rispetta e fa in modo che qualcuno gli risponda al telefono, ma non lo paga di più; se il traduttore è un professionista free lance, il rispetto e l’attenzione sono spesso minimi.
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grave deriva dal fatto, come si è anticipato, che gli editori possono commissionare la traduzione di qualsiasi testo, anche dei classici della letteratura, a chiunque: la legge sul diritto d’autore considera ‘traduttore’ chiunque scriva un testo qualsiasi e lo deinisca ‘traduzione’. Poiché, poi, alcuni editori non hanno competenze critiche in merito alle traduzioni (spesso sanno distinguere le traduzioni pessime da quelle eccellenti, ma tendono ad accontentarsi della mediocrità), il criterio adottato per commissionare le traduzioni è soprattutto quello del vantaggio economico momentaneo (risparmio sulla traduzione). Tuttavia, anche in questo caso, si riscontra un curioso paradosso: nella traduzione per l’editoria, non c’è alcuna correlazione tra il livello delle tariffe e la qualità delle prestazioni; infatti, un ottimo traduttore letterario può lavorare per pochi spiccioli e un dilettante può ottenere un prezzo più alto. Questo si spiega con il fatto che un traduttore letterario può per anni ambire a tradurre un certo autore o una particolare opera e che, quindi, consideri gratiicante concedersi questa appassionante possibilità a prescindere dal compenso; viceversa, un traduttore privo di speciiche competenze letterarie fa il lavoro soprattutto per guadagnare o per avviare il proprio curriculum, pertanto può riiutare un incarico del tutto svantaggioso. Chiaramente e più che comprensibilmente, se si lavora per guadagnare, la traduzione letteraria è davvero svantaggiosa perché implica anche, quasi sempre, ricerche di carattere storico ed enciclopedico molto faticose e raramente computate nella remunerazione13. Questi paradossi si rilettono congiuntamente nel paradossale contratto diffuso nella traduzione per l’editoria: pur essendo la traduzione editoriale protetta dalla legge sul diritto d’autore, la prassi prevede contratti ‘capestro’, i cui termini sono pressoché interamente gestiti dagli editori, spesso su moduli prestampati con un minimo margine di intervento della controparte (quasi mai relativo alle tariffe). Nella sostanza, il traduttore viene di norma costretto dall’editore a cedere per vent’anni i diritti sulla sua traduzione (cfr. Megale 2004, 60-62) e, a prescindere dal successo della traduzione stessa sul mercato, a rinunciare a qualsiasi ulteriore guadagno (o alla possibilità di cambiare editore, se ne trovasse uno disposto a ri-pubblicare quella stessa traduzione a condizioni migliori per il traduttore). I contratti editoriali che prevedono le royalties (cioè, percentuali di guadagno sulle copie vendute) sono spesso ancora più svantaggiosi: infatti, il traduttore percepisce alla consegna del lavoro un compenso minimo, una tantum, più basso delle tariffe usuali, per poi scoprire che è in realtà un anticipo sulle royalties, le quali, a loro volta, risultano sempre inferiori alle previsioni (il traduttore non può sapere quale 13. Per esempio, se in un romanzo dell’Ottocento viene richiamato, senza esplicitazione, il nome di un esercizio commerciale, per stabilire (ed esplicitare) se si trattasse di un sarto, di un ristorante o di una modista e, magari, per comprendere che cosa rappresentasse (un luogo elegante o malfamato?), sono richieste competenze soisticate per valutare troppe fonti contraddittorie o, talvolta, per trovarne una sola.
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sia la reale previsione di vendita di un libro nell’immediato o negli anni, né può sapere quante copie siano state realmente vendute). Certo, il traduttore, per irmare un contratto, potrebbe utilmente servirsi della consulenza di un legale, ma questo andrebbe comunque a suo svantaggio: se il legale trovasse irregolarità nel contratto, l’editore non accetterebbe modiiche sostanziali e, se non le trovasse, il traduttore dovrebbe pagare comunque al legale una parcella pari a una signiicativa percentuale dell’ipotetico guadagno. Nessuno nega che l’editore faccia un utile investimento per ogni libro pubblicato, cioè che corra concreti rischi in quanto imprenditore e che affronti spese notevoli di progettazione, produzione, distribuzione e conservazione dei prodotti, ma la posizione contrattuale del traduttore è così insigniicante da creare una vera e propria sperequazione. Anche per questa ragione, sono comparse sul mercato alcune piccole case editrici che applicano una nuova formula: non pagano nulla per la traduzione, ma riconoscono tutti i diritti al traduttore; in questo caso, per ogni progetto, editore e traduttore investono le proprie risorse (l’editore progetta e stampa il libro, il traduttore lo traduce) per poi dividersi i proventi secondo quanto previsto dalla legge. Questa nuova formula, tuttavia, implica che si traducano solo opere straniere che non ricadono nel campo di applicazione dei diritti dell’autore, cioè quelle i cui autori siano morti da almeno settant’anni, momento in cui gli eredi perdono per legge i diritti acquisiti alla morte dell’autore14. In caso contrario, se l’opera è contemporanea, anche il traduttore dovrebbe condividere con l’editore l’oneroso acquisto dei diritti dell’autore straniero, che è spesso rappresentato da un agente letterario che, a sua volta, richiede un onorario per la mediazione15. Per questo e altri simili problemi, i traduttori, se non vogliono rischiare investendo personalmente, preferiscono sottostare al regime imposto dagli editori che prevede molto spesso tariffe orarie inferiori (nella sostanza) a quelle di un bracciante: per le traduzioni letterarie più complesse, soprattutto per la poesia, un’ora di lavoro frutta in media tre o quattro euro16. Anche in questo caso, la legislazione esiste e tutelerebbe il traduttore, se non fosse che, in sede di contratto, il traduttore è indotto, per non essere sostituito, a rinunciare ai propri diritti (cfr. Megale 2004, 85-102): come si è detto, è facile essere sostituiti anche da pensionati o da neo-laureati (i quali, comprensibilmente, pur di acquisire esperienza e inaugurare il proprio curriculum, sono 14. L’articolo 25 della summenzionata Legge 22/04/1941 n° 633 recita: “I diritti di utilizzazione economica dell’opera durano tutta la vita dell’autore e sino al termine del settantesimo anno solare dopo la sua morte. (1) Il termine di durata di cinquanta anni è stato così elevato dall’art. 17, co. 1, L. 6 febbraio 1996, n. 52”. 15. I diritti d’autore possono essere molto accessibili (se l’autore è sconosciuto) o molto onerosi (se l’autore è famoso) e sono oggetto di contrattazione tra l’autore (o i suoi eredi) e l’editore o tra l’editore e l’agente letterario (se l’autore è da lui rappresentato). 16. Forse è giusto che il lavoro intellettuale sia pagato meno di quello isico, ma dovrebbe valere per tutti i lavoratori e tutti i professionisti.
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disposti a lavorare persino gratis). Questa situazione, del resto, è comune a molte professioni: certamente, una volta entrati nel mondo dell’editoria con i primi lavori, ottenerne altri è sempre più facile (a prescindere dalla qualità del proprio lavoro). Inoltre, se il nome di un traduttore è associato a quello di un autore celebre o di un editore noto, il traduttore stesso verrà citato più spesso in cataloghi, recensioni, articoli e blog. Inine, ma soprattutto, sia tra i traduttori più noti, sia tra i principianti si accettano compensi irrisori se si ha l’opportunità di cimentarsi con autori studiati e amati, facendo un’esperienza che, per quanto poco remunerativa, è straordinariamente appassionante e gratiicante. Infatti, oltre a non stabilire i tempi di consegna e l’onorario, i traduttori molto raramente possono scegliere che cosa tradurre. Se un traduttore vuole proporre personalmente un’opera da tradurre, deve svolgere indagini di mercato con i limitati mezzi a disposizione (senza avere accesso alle banche dati del mondo editoriale) e deve rinvenire a) un’opera del presente o del passato che non sia ancora stata tradotta, oppure b) un’opera che sia bene (economicamente parlando) ritradurre. In entrambi i casi, dovrebbe essere un TP che possa avere successo e/o apportare prestigio all’editore17. In deinitiva, non avendo alcun ruolo all’interno del sistema di produzione, nessun ‘normale’ traduttore ha suficiente autorità per condizionare le scelte editoriali. Inoltre, se l’autore proposto dal traduttore è noto all’estero, di solito è già stato “acquisito” da qualche editore (si parla di opzione sui diritti), il quale, in questo caso, potrà rivolgersi a qualsiasi traduttore: questa scelta può essere diretta o delegata a esperti di collana, ma il criterio dominante è spesso quello dell’amicizia personale. Ovviamente, se è documentabile che la proposta editoriale è frutto delle ricerche del traduttore, l’editore, accettando la proposta, si impegna a farla tradurre al proponente; anche questo, chiaramente, è paradossale: infatti, un bravo esperto di marketing letterario può trovare un’opera davvero proponibile e vantaggiosa, facilmente accettabile per un editore, ma questo non signiica affatto che costui sia un professionista o sia, semplicemente, un traduttore18. Per vedere accettata da un editore una proposta di traduzione, è indispensabile che inisca ‘tra le mani’ di chi ha potere decisionale19. In deinitiva, fatte le debite eccezioni, per pubblicare una traduzione è indispensabile avere fortuna, conoscere un editore o essere una persona nota. La fortuna riguarda la possibilità di trovare l’opera ‘giusta’ al momento ‘giusto’ e la persona ‘giusta’ che aiuti a contattare l’editore ‘giusto’. Se si ha fortuna, se la proposta viene accettata, la qualità professionale della traduzione diviene, paradossalmente, un fatto secondario. Questo spiega perché la qualità della 17. Almeno alcuni grandi editori sono interessati ad avere una collana in perdita o a costo zero, la cui funzione è quella di arricchire il catalogo e renderlo più prestigioso. 18. Di fatto, la prova di traduzione che si invia all’editore, potrebbe averla fatta chiunque. 19. Perciò è più facile riuscirci con ‘piccoli editori’ che seguono da vicino ogni proposta. Poi intervengono comunque gli stessi criteri (coerenza editoriale, previsioni di mercato, politica culturale, originalità, prestigio ecc.).
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traduzione sia indipendente dal nome dell’editore: per la stessa casa editrice può lavorare un professionista dalle competenze virtuosistiche, un grafomane o un ‘avventore’ della professione privo di qualsiasi requisito. Finché non si provvederà a legiferare in merito al diritto di esercitare la professione, permarrà la situazione attuale: qualunque libro sia in vendita, per quanto caro sia il prezzo di copertina, non dà al lettore alcuna garanzia che la traduzione sia professionale, né gli riconosce la possibilità di ottenere rimborsi per ‘danni morali’ qualora il livello sia sotto la soglia critica del ‘decoro’. In effetti, come si fa a stabilire il livello di ‘decoro’, se lo Stato non riconosce alla traduzione il diritto di darsi ‘regole dell’arte’ che abbiano valore istituzionale? In sintesi, il rapporto tra mondo editoriale e attività traduttiva è regolato da criteri professionali, da fattori extra-professionali e, in buona parte, dalla fortuna, secondo il saggio principio per cui “la fortuna aiuta gli audaci”. 2.2. La valutazione delle traduzioni in prospettiva Fino a qualche decennio fa, era legittimo pensare che i committenti e i destinatari delle traduzioni letterarie fossero quasi del tutto indifferenti alla qualità delle prestazioni: forse non sempre era così, ma erano quasi inesistenti, in Italia, le collane di classici della letteratura che non annoverassero almeno una traduzione pressoché illeggibile. Paradossalmente, in certi casi, le traduzioni meno professionali erano quelle irmate da studiosi, scrittori o personaggi della cultura, i cui nomi erano più noti al pubblico. Negli ultimi decenni, le cose sono lentamente cambiate e, salvo singoli casi, le competenze dei traduttori editoriali (in campo letterario e saggistico) sono generalmente cresciute, producendo maggiore attenzione da parte di editori e lettori. La qualità delle traduzioni editoriali nel nostro Paese è cresciuta in modo esponenziale proprio con il moltiplicarsi dei corsi universitari deputati a preparare e addestrare in modo mirato traduttori professionisti: solo parzialmente si può ‘acquisire’ qualsiasi professione all’università, ma sicuramente, come avviene per la medicina o l’ingegneria, si può apprendere tutto quello che serve a maturare professionalmente, adeguandosi a contesti nuovi e valorizzando le proprie crescenti competenze. Non è stato facile, soprattutto in Italia, che l’università accettasse di inserire la traduzione tra i suoi programmi di studio, poiché per secoli è stata considerata un’attività extra-professionale che veniva delegata a igure sociali cólte e benestanti, che la praticavano per interesse personale e per diletto, oppure a studenti e giovani studiosi come ‘tappa provvisoria’ per accedere a più ‘stimabili’ compiti editoriali (curatele, critiche letterarie, consulenze di mercato ecc.), appannaggio dei professori. Nonostante siano ancora numerosi i docenti universitari di traduzione che hanno una scarsa preparazione teorica (e che si ispirano, nel migliore dei casi, al ‘buon senso’), senza dubbio il protervo disconoscimento per l’attività traduttiva che ha dominato le 246
discipline umanistiche nel corso dell’intero XX secolo è decisamente superato. Nel mondo accademico, nessuno più considera la traduzione un esercizio quasi meccanico, alla portata di tutti, cui guardare come all’anticamera di professioni letterarie intellettualmente più nobili ed erudite. Questo ha avuto ripercussioni positive sulla visibilità del traduttore. Nel 1963, nella prefazione al libro di Georges Mounin Les problèmes théoriques de la traduction, Dominique Aury (1963, VII) scriveva con grande scoramento: si la couverture d’un livre traduit porte le nom de l’auteur et le nom de l’éditeur, il faut chercher à la page de titre intérieure, et plus encore face à cette page, tout en haut ou tout en bas, dans le plus petit caractère possible, le mieux dissimulé possible, le miserable nom du traducteur.
Oggi non è più così: per quanto in caratteri più piccoli, il nome del traduttore compare ormai spesso sulla copertina del libro o in quarta di copertina ed è comunque sempre stampato (per legge) nel frontespizio interno. Sicuramente, la massiccia attività di ricerca in questo campo ha contribuito a dare visibilità alla traduzione, responsabilizzando traduttori ed editori. Parafrasando Ortega y Gasset (1993, 205), si può dire che, a furia di “tessere le lodi” della traduzione e di considerarla “un lavoro intellettuale di prim’ordine”, si è dato davvero un “nuovo prestigio a questa attività”, pur ancora lontano dai riconoscimenti socio-economici che meriterebbe. A prescindere da tutti i paradossi ancora presenti nella traduzione editoriale, si riscontra un logico rapporto di causa-effetto tra la qualità delle traduzioni e le attese/pretese dei lettori: più aumenta la generale qualità delle traduzioni, più il pubblico in genere si abitua a un più alto livello professionale. Questo determinerà, si spera, che gli editori siano in futuro più interessati a investire in traduzioni altamente professionali. In sintesi, se oggi, a fronte di tempi di lavoro sempre più stretti, la professionalità è nettamente migliore rispetto a qualche decennio fa, purtroppo, tuttavia, questo processo virtuoso ha coinciso con un’epoca di grande crisi per l’editoria in generale e per il ‘libro’ in particolare, ma, inché nel nostro Paese ci saranno libri e ci saranno lettori, si può immaginare che le traduzioni occuperanno stabilmente circa un terzo del mercato librario20. In deinitiva, oggi, pur con tempi di lavorazione sempre più stretti, la professionalità dei traduttori editoriali è nettamente migliore rispetto a qualche decennio fa e la sensibilizzazione alla complessità della professione ha certamente contribuito alla crescita del senso di responsabilità dei traduttori e al rigore delle traduzioni. Tuttavia, manca ancora del tutto una ‘classe’ di critici competenti che educhi le competenze dei destinatari. Finora, fatta eccezione per le riviste scientiiche destinate al circuito accademico, la critica delle tra20. In realtà i dati recenti, stando al portale dell’AIE (www.aie.it) indicano un aumento delle vendite e una crescita del mercato del libro.
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duzioni è stata pressoché assente dalla stampa italiana, se non sotto forma a) di recensione generica su un nuovo libro, b) di generico encomio per il lavoro di un amico o c) di personale polemica contro qualche collega. Va rilevato, infatti, che, almeno in Italia, i problemi connessi alla critica della traduzione sono legati proprio a problemi relazionali: qualsiasi aspirante critico della traduzione incontra inevitabilmente una serie di deterrenti che generano un sistema di autocensura: se si facessero regolari rubriche di critica in rete o su giornali e riviste, il ‘critico’ si troverebbe quasi sempre a recensire traduzioni di maestri, amici, colleghi e accademici più o meno autorevoli, pubblicate da case editrici per cui egli stesso ha lavorato, lavora o vorrebbe lavorare. Se la sua critica fosse troppo severa, potrebbe danneggiarlo. Ma questo, del resto, riguarda tutte le professioni e la capacità di criticare in modo neutrale, asettico, limitandosi a valutare la coerenza procedurale, è il solo modo per superare l’autocensura, per far sì che i traduttori cerchino di tradurre meglio, che gli editori selezionino meglio i traduttori e che i lettori pretendano traduzioni professionali. Questa è la sola strada per incentivare un incremento qualitativo dei prodotti, del mercato, delle condizioni di lavoro e accrescere la sensibilità deontologica dei traduttori. Per decenni, è prevalsa l’idea che, come per le opere letterarie o cinematograiche, anche per le traduzioni fosse legittimo qualsiasi giudizio (secondo il principio, “de gustibus non disputandum est”), salvo poi ammettere che la critica letteraria avesse diritto alle proprie ‘autorità’ e che a loro si dovesse allineare il giudizio dei lettori meno competenti. Una ventina di anni fa, Evgenij Solonovič (1997: 127-128; corsivo mio), uno dei più noti traduttori della poesia italiana in russo, scriveva: I giudizi dei teorici e dei pratici della traduzione sullo stesso esito traduttivo spesse volte non coincidono [...] il fatto è che un traduttore, giudicando il lavoro di un collega, oppure il proprio lavoro, si basa, nella sua analisi, sui dati empirici. Il giudizio negativo su una traduzione è più obiettivo se viene da chi conosce in pratica i segreti del mestiere e sa quali elementi di un determinato testo di partenza possono essere riprodotti nel testo arrivo e quali no.
È evidente che individuare parametri coerenti e condivisi per la valutazione critica delle traduzioni impone di individuare parametri coerenti e condivisi per fare le traduzioni, e riconoscere in un mestiere l’esistenza di ‘regole dell’arte’ signiica riconoscere un nesso irrinunciabile tra conoscenza teorica e competenza professionale, tra competenza e qualità del prodotto. È del tutto contro-argomentabile l’idea di Gideon Toury (1995a, 108), secondo cui sarebbe arbitrario “qualsiasi tentativo di deinire una determinata relazione tra un’entità linguistica di partenza e una di arrivo”. Se così fosse, nessuna qualità della traduzione e dell’interpretazione potrebbe mai essere studiata, migliorata, valutata: la qualità delle prestazioni professionali è un requisito irrinunciabile perché una professione sia deinita tale e la sola possibilità di valutare è quella di stabilire i punti di riferimento per un sistema critico. 248
Operare in qualità di critico o recensore della traduzione è possibile solo sulla base di un approccio epistemologico che non riguardi necessariamente le regole in sé, ma l’esistenza stessa di un sistema regolatore comune a traduttori, lettori, critici, recensori ed editori: le regole sono “lessibili” non perché si riconducono ai soli casi a cui si applicano, esibendoli “come meri esempi”, ma quando mettono in luce la “natura polimorfa” di un singolo procedimento (Bottiroli 1999: 86). Anton Popovič (2006, 143) sosteneva che esistessero due tipi di critica: quella modellata sulla critica letteraria, applicata direttamente al TP, e quella che non ne teneva alcun conto, poiché riferita esclusivamente al polisistema nazionale di arrivo. In realtà, una nuova e credibile critica della traduzione editoriale dovrebbe essere una sintesi dei due approcci, ma fondata comunque su parametri emersi dallo studio del processo traduttivo. Ovviamente, un critico della traduzione può non essere un traduttore, come un critico letterario può non essere uno scrittore o un commentatore sportivo può non essere mai stato un atleta, ma qualsiasi critico o commentatore deve essere esperto nel proprio campo, così che chi critica la letteratura cinese conosca la lingua e la cultura cinese, e chi commenta il calcio conosca le regole e la storia del calcio. In sintesi, la critica della traduzione può esistere solo sulla base di un modello teorico; è proprio questo il postulato irrinunciabile del rigore critico ed è la ragione per cui la falsiicabilità è alla base del dialogo scientiico: un modello può essere falsiicato proprio se viene applicato. Chiunque intervenga in veste di critico del mestiere-traduzione non può che partire dal rapporto tra progetto, strategie e tecniche traduttive, valutarne la coerenza rispetto alla dominante e allo Skopos: ogni TP viene creato per assolvere funzioni diverse, compatibili o incompatibili tra loro (tra cui, convincere, spiegare, informare, intrattenere, vendere libri, sublimare sofferenza, vincere un premio ecc.). La qualità di un TA non è alta perché ‘piace’ a qualcuno, ma perché sostituisce all’arbitrio del giudizio soggettivo un sistema di valori condiviso dai professionisti. Pare dunque sensato che, se il critico della letteratura è normalmente un letterato (non necessariamente uno scrittore), il critico della traduzione sia, a qualche titolo, un esperto di traduzioni (non necessariamente un traduttore). 3. La traduzione specializzata La traduzione (scritta) dei testi commerciali, tecnici e scientiici (che comprendono tutti i testi delle discipline accademiche, quelli giuridici, politici, economici ecc.), basati su terminologia specialistica e stilemi speciici, è la tipologia professionale più diffusa sul mercato mondiale e viene deinita traduzione specializzata. I committenti delle traduzioni specializzate, per lo più, possono essere privati cittadini (soprattutto per corrispondenza e documentazione persona249
li), aziende (per testi commerciali o documentazione tecnica), comitati congressuali (per cataloghi, programmi, materiali scientiici) o le pubbliche istituzioni (che richiedono soprattutto traduzioni in campo economico, sociopolitico, giuridico, diplomatico). Nell’àmbito delle istituzioni governative, esiste una massiccia e quotidiana attività di traduzione che coinvolge sia numerosi traduttori impiegati stabilmente, sia professionisti free lance. Ad esempio, nelle istituzioni dell’Unione europea, in cui si contano ventiquattro lingue uficiali per i ventotto Paesi membri, sono coinvolti ca. 4300 traduttori e 800 interpreti che costituiscono “personale permanente”21. Non solo ogni membro del Parlamento europeo ha il diritto d’intervenire in una qualsiasi delle lingue uficiali dell’UE, e tutte le riunioni del Consiglio europeo e del Consiglio dell’Unione europea dispongono di interpretazione simultanea in tutte le lingue uficiali, ma a ogni abitante europeo è garantito l’accesso alla legislazione dell’UE e ai principali documenti politici nella lingua uficiale del proprio Paese; inine, chiunque ha diritto a scrivere agli organi dell’Unione nella propria lingua e a ottenere una risposta in quella stessa lingua22. In Italia, in àmbito aziendale e congressuale, si lavora prevalentemente con le lingue “europee”, in primis l’inglese, ma vi sono ampi settori del commercio, della politica, della diplomazia e delle istituzioni (soprattutto i tribunali e gli organi dell’ordine pubblico) che necessitano stabilmente di traduttori da e verso lingue di Paesi esterni alla UE23. In tutto il mondo, particolarmente ambìti sono i professionisti in grado di lavorare non solo con le lingue più diffuse, ma con almeno una lingua meno nota, possibilmente in combinazioni inusuali. Oltre ai generali requisiti professionali, qualsiasi traduttore specializzato deve disporre di competenze di base relative alla specialità su cui è chiamato a intervenire, pur senza essere, comprensibilmente, uno specialista: esattamente come un medico non è un traduttore, così un traduttore di testi medici non è un medico, pur essendogli richiesta una certa ‘dimestichezza’ con l’àmbito della medicina. Si è discusso a lungo sul grado di ‘dimestichezza’ e sul concetto di ‘competenze di base’ che i traduttori specializzati dovrebbero avere rispetto alle tematiche oggetto di traduzione; le posizioni in merito sono tutt’altro che 21. Cfr. il sito uficiale dell’UE, da cui sono tratte anche le informazioni successive: https://europa.eu/european-union/about-eu/igures/administration_it#lingue. 22. Sempre sul sito dell’UE si legge che “il costo stimato di tutti i servizi linguistici (traduzione e interpretazione) in tutte le istituzioni dell’UE ammonta a meno dell’’1% del bilancio generale annuale dell’UE. Diviso per la popolazione dell’’UE, questo costo equivale a circa 2 euro per persona all’’anno”. Quest’affermazione parrebbe quasi una giustiicazione, come a rassicurare i cittadini europei che sulle traduzioni si investe il minimo indispensabile. 23. Spesso, i costi di traduzione e convalida legale dei documenti stranieri vengono addebitati ai cittadini cui vengono richiesti e, in alcuni casi, ci si avvale di interpreti che svolgano anche le prestazioni di traduzione specializzata.
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univoche (cfr. Scarpa 2005, 192-196). In sostanza, si può condividere l’idea che un traduttore specializzato non possa assolutamente sostituirsi allo specialista “in quanto non ha una conoscenza né scientiica, né tecnica della disciplina”, pur essendo altrettanto vero, tuttavia, “che il traduttore specializzato possiede una conoscenza sia scientiica che tecnica della lingua in quanto veicolo della comunicazione specialistica, competenza che lo specialista non può avere” (ivi, 196)24. Del resto, merita rilevare che, nella nostra epoca, nessuno specialista o scienziato può avere dimestichezza con un’intera “scienza” poiché le discipline sono ormai, sempre più, sotto-settori scientiici estremamente tecnici e circoscritti, i quali, incrociandosi e moltiplicandosi, frammentano i convenzionali conini del sapere. Il traduttore, quindi, può essere al massimo uno specialista di traduttologia, se coltiva questo campo di ricerca parallelamente alla professione di traduttore, ma deve comunque avere idee molto chiare sulle modalità con cui vengono strutturate le informazioni che deve tradurre, sugli schemi procedurali con cui gli specialisti comunicano e argomentano il proprio sapere, sulla terminologia e fraseologia che usano nel linguaggio professionale. Nel complesso, al traduttore specializzato è richiesto: -
di conoscere, grazie ai suoi studi, le strutture ricorrenti dei testi specialistici (ad esempio, nel caso della medicina, le ‘formule’ usate nelle cartelle cliniche, nei referti, negli articoli e nelle relazioni scientiiche ecc.); di conoscere e implementare la terminologia specialistica (che non è issa, ma muta al mutare dei dati e delle innovazioni scientiiche); di saper usare con coerenza pragmatica i connettori che stabiliscono le correlazioni tra gli enunciati (non solo sintattici, ma propriamente logici)25.
24. Il volume di Scarpa è uno strumento fondamentale e trasversale per chi voglia affrontare la traduzione specializzata e offre una dovizie di informazioni sulla professione; si riscontra, tuttavia, l’idea piuttosto ingenua (espressa in punti diversi del libro) che, a differenza della lingua “standard” (connotativa), la terminologia sia “denotativa” e che il linguaggio tecnico-scientiico sia materialmente distinguibile da quello che ha altre dominanti testuali: ad esempio, Scarpa (2005, 69) si rifà a una contrapposizione tra traduzione “letteraria” e traduzione “specializzata” che è ampiamente contro-argomentabile (cfr. Salmon 2007 e 2016). 25. Ad esempio, per rendere l’italiano “al contrario”, che talvolta coincide con “contrariamente”, l’uso pragmatico delle espressioni inglesi “on the opposite”, “viceversa”, “conversely”, “as opposed”, “contrarily” può risultare marcato e inopportuno in alcuni contesti (l’espressione più versatile e meno rischiosa è, curiosamente, quella meno frequente nei dizionari elettronici e nelle memorie di traduzione: “conversely”): l’orecchio interno del traduttore specializzato dovrebbe essere in grado di selezionare la forma che userebbe un nativo. Un altro noto esempio riguarda la resa in tutte le lingue dell’usatissimo avverbio italiano “infatti”, connettore che può avere funzioni assai diverse e richiedere in alcune lingue (tra cui l’inglese) di costruire la frase secondo un’altra struttura logica per ricreare l’equivalente funzionale del connettore. Solo in rarissimi casi “infatti” è usato in modalità negativa (si conferma una negazione) e può quindi rendersi con il falso amico inglese “in fact”: per lo più va omesso, destrutturando la frase inglese, o va sostituito verosimilmente con “indeed” o “actually” in una posizione che non è mai quella dell’avverbio italiano.
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Non in tutte le lingue naturali le strutture e i connettori dei linguaggi settoriali (e del linguaggio in genere) funzionano nello stesso modo, tuttavia, esistono alcune ‘regolarità’ che permettono a un traduttore che si addestri nel singolo àmbito di una singola lingua di implementare le proprie abilità in modo trasversale anche in altri àmbiti e nelle altre sue lingue di lavoro. Come accade negli sport (chi pratica nuoto allena la respirazione per qualsiasi altro sport), un traduttore che abbia ampia esperienza in un certo settore con una particolare coppia di lingue è facilitato a diventare traduttore in quello stesso settore qualora introduca una lingua nuova, così come è anche avvantaggiato se, diversamente, vuole introdurre per la sua abituale coppia di lingue un nuovo àmbito di specializzazione. Questo è tanto più evidente se il professionista lavora in modalità passiva, traducendo verso la L1: infatti, ogni esercizio di traduzione da una lingua non nativa rafforza gli automatismi verso la L1 da tutte le altre lingue. Nella prassi professionale, dopo il training universitario, che contempla un esercizio mirato in almeno alcuni dei principali àmbiti settoriali (economia, politica, giurisprudenza, logistica e medicina sono i più diffusi), quando il neo-professionista accede al mercato, può perfezionare via via la sua preparazione terminologica e fraseologica ogni volta che gli viene afidato un lavoro speciico. Il committente è tenuto, nel suo stesso interesse, a trasmettere al traduttore i dettagli tematici, i materiali o le informazioni necessarie a documentarsi al meglio prima di intraprendere il lavoro. Quando un professionista traduce in modalità continuativa lo stesso tipo di testi specialistici, tende ad avere una padronanza superiore alla media e acquisisce fama come specialista di un particolare linguaggio settoriale; solo in rari casi, tuttavia, è possibile lavorare soltanto in uno o due settori disciplinari ed è rarissimo che si possa scegliere in quale settore. Come si è detto, caratteristica distintiva della traduzione specializzata è la familiarità con le strutture e i termini delle lingue settoriali, dette anche microlingue o LSP (Languages for Special Purposes). Di fatto, la complessità e la diversiicazione dei testi specialistici impone ai traduttori commerciali, tecnici e scientiici di conoscere i fondamenti della terminologia, che ormai è riconosciuta a tutti gli effetti come una disciplina a sé stante, direttamente imparentata con la linguistica (con cui condivide le ricerche onomasiologiche e semasiologiche) e con la traduttologia (con cui condivide la ricerca sull’equivalenza oggetto/parola e parola/traducente). Secondo una visione semplicistica, la terminologia viene presentata come “un codice artiiciale all’interno di un codice naturale” (Osimo 2011, 132) e il testo specialistico come “puramente informativo, tecnico, terminologico, chiuso, nel quale a ogni termine corrisponde uno e un solo signiicato denotativo codiicato e inequivocabile” (ivi, 156). L’idea che i termini siano più artiiciali delle “parole” e siano inequivocabilmente “denotativi” è contro-argomentabile non solo a livello epistemologico, ma anche logico, materiale e statistico: basti pensare alla migrazione, creativa e metaforica, dei termini da una lingua settoriale all’altra (come, ad esempio, il termine “screwdriver” [“cacciavite”] 252
che, dal campo della meccanica, è stato mutuato nel glossario dei coktail, o il termine “vaccino”, antonomasia metonimica che, dall’aggettivo originato da “vacca”, indica un preparato che offre immunità da un agente biologico; cfr. Salmon 2016, 27); ma si pensi anche al numero di parole create artiicialmente come termini, ma oggi ‘ridotte’ a “parole” non specialistiche (ad esempio, “nostalgia”, termine inventato nella tesi di laurea in medicina dello studente di Basilea Johannes Hofer nel 1688), nonché alle parole nate come antonomasia o metonimia persino da nomi propri e divenute termini proprio con l’uso (come “sodomia”, deonomastico di origine biblica, derivato dal toponimo Sodoma e presente nei glossari di medicina). Inoltre, i termini, comunque li si intenda, possono essere presenti, anche massicciamente, in tutte le tipologie testuali (compresi i testi letterari), per cui non possono costituire l’elemento distintivo dei testi specializzati. Infatti, prima di cercare i criteri che rendono un testo “specialistico” o “non specialistico” è opportuno comprendere che le cose sono meno semplici di come sembrino a uno sguardo supericiale. A prescindere dal loro differente uso e registro, i termini sono creati, selezionati, modiicati, dimenticati in base all’ideologia, alle mode, ai tabù e a fattori soggettivi. Persino le relazioni morfologiche, onomastiche e tassonomiche rispecchiano gli stessi processi metonimici che governano l’onomasiologia universale (sulle proprietà metaforiche della terminologia in chiave intra- e interlinguistica, cfr. Prandi 2013, Rossi 2015)26. Di conseguenza, si può affermare che: -
in tutte le lingue umane, le microlingue condividono stabilità e instabilità; con tutti i linguaggi umani, le microlingue condividono la creatività, intesa come violazione di regolarità e stereotipi; la creatività linguistica implica un certo grado di connotazione, in quanto rende l’unità verbale ‘speciale’ (marcata) rispetto all’uso atteso; le microlingue sono ‘discrete’ e ‘oggettive’ solo nei limiti in cui è stato canonizzato un processo onomasiologico soggettivo e non sono ancora subentrate mutazioni; la terminologia e le deinizioni dei termini non sono mai ‘ideology-free’ (cfr. Salmon 2016, 19-20).
In proporzioni variabili, tutti i testi, in quanto artefatti verbali, rilettono due qualità paradossali: sono conformi a un dato canone e tendono parzialmente a differenziarsi per aggiungere informazioni nuove che concorreranno alla creazione di nuovi canoni (ivi, 20). Di conseguenza, -
tutti i testi sono artiiciali e hanno qualcosa in comune; l’attribuzione di una tipologia testuale non è possibile senza stabilire prima il contesto esterno27;
26. I termini della medicina sono un buon esempio, come già si è visto per la creatività e la concorrenza di “mongolismo”, “sindrome di Down” e “trisomia-21”, che illustrano il meccanismo metaforico e metonimico che presiede alla creazione, diffusione e al successo memetico delle parole umane. 27. Come si è detto, il concetto di “contesto” può essere ricondotto ai fattori wh-.
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-
una denotazione completa, perfetta e deinitiva di un termine in qualsiasi testo umano non esiste e non può esistere; il come qualcosa è detto (variante) va considerato informativo tanto quanto il cosa viene detto (invariante); la correlazione come/cosa agisce sempre in tutte le tipologie testuali, visto che anche un’astratta assenza di variabili è, per deinizione, una variabile; tutte le lingue naturali sono altamente formulaiche e seguono un percorso che va sempre dalla creatività (metaforico-metonimica) al canone; la funzione essenziale dei canoni è quella di essere applicati o violati; la violazione dei canoni avviene in tutte le tipologie testuali; in qualsiasi tipo di comunicazione linguistica, il messaggio agisce sia a livello implicito (subliminale), sia a livello esplicito ed entrambi i livelli possono coincidere o non coincidere a prescindere dalla tipologia testuale.
Queste premesse aiutano a comprendere l’importanza del criterio di generalità nell’approccio alla traduzione e alla complessa classiicazione delle tipologie testuali: solo dopo aver compreso che cosa accomuni tutti i testi, si può stabilire cosa consenta di suddividerli in tipologie. Nel caso della traduzione specializzata, i criteri distintivi sono fondamentalmente due: 1) la funzione dominante, determinata dallo Skopos, cioè dal contesto professionale, e 2) la presenza di stilemi atti a rendere le unità di testo il più possibile non marcate, ovvero (secondo la PPT) vicine al punto 0 (gerarchia/affettività) indicato sul piano cartesiano rappresentativo della f-marcatezza; tra questi stilemi rientrano, ad esempio, l’uso continuo dell’impersonale, l’assenza di articoli e aggettivi superlui, la nominalizzazione ecc.28. Ma, nonostante gli stilemi delle lingue settoriali siano parzialmente generalizzabili, sia per ragioni sintattiche, sia per ragioni propriamente stilistiche, alcune lingue, come l’inglese, utilizzano prevalentemente la paratassi, mentre altre, tra cui l’italiano, prediligono l’ipotassi, gli incisi e un numero articolato di frasi secondarie. Tra gli automatismi del traduttore specializzato, vanno quindi annoverati soprattutto i meccanismi di conversione stilistica, infatti, lo stile del testo tecnico e di quello scientiico è parzialmente formalizzabile, ma non riducibile a un sistema preciso e ‘discreto’: anche in questo caso, conoscere il più possibile il contesto relazionale tra committente e destinatario è più che mai utile. Nella comunicazione commerciale, invece, le modalità con cui viene espressa la “cortesia” (politeness), unite alle formule usate per esprimere intenti persuasivi o ritrattazioni, possono essere piuttosto asimmetriche e, in caso di traduzioni non professionali, creare malintesi. Da quando esistono le agenzie di traduzione e, soprattutto, da quando traduttori sparsi in tutti i continenti possono lavorare contemporaneamente per lo stesso committente, è più dificile avere una chiara rappresentazione del lavoro che si sta svolgendo. Un tempo, il traduttore specializzato aveva con28. Del resto, da un lato, nessun termine può stare sullo 0, ma più un linguaggio specialistico si avvicina allo 0, più subisce un effetto paradosso: diventa marcato dall’assenza di marcatezza. A noi umani, infatti, le cose troppo ‘neutre’ suonano false.
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tatti diretti con il cliente, per incontrarlo e ritirare il materiale, si recava in azienda, spesso poteva parlare con il personale che gestiva i testi da tradurre. Oggi, la trasmissione elettronica ha spersonalizzato le consegne e, almeno in parte, accresciuto il senso di alienazione del traduttore, isicamente isolato dal mondo, solo con il suo computer, ma immesso virtualmente in una rete globale. La globalizzazione non ha portato solo a una dispersione planetaria della committenza, ma anche alla diversiicazione dei servizi; le nuove “imprese di traduzione” hanno spesso la funzione di “service providers” integrati che si occupano non solo di fornire ai clienti un testo tradotto, ma anche di prestare servizi di localizzazione, valutazione e “customizzazione” delle informazioni (Scarpa 2005, 210) e questo richiede che il traduttore, pur nel suo isolamento, segua l’evoluzione del mercato mondiale. Anche per questo la traduzione specializzata impone oggi al professionista particolare elasticità mentale e procedurale non solo riguardo alla gamma sempre crescente di sotto-settori sempre più specializzati, alle tempistiche richieste dal mercato e alla nuova ‘mentalità’ dell’imprenditoria globale, ma anche all’evoluzione degli strumenti di lavoro imposti dai “service providers”. Per lavorare con testi specialistici, un traduttore deve avere acquisito ampia dimestichezza con gli strumenti speciici della traduzione specializzata (memorie, banche dati e corpora) e saperli utilizzare in modalità assistita, mettendo a disposizione di altri il proprio lavoro. Il ruolo sempre più centrale degli strumenti e dei programmi elettronici usati nella traduzione assistita (peraltro richiesti o imposti da numerose agenzie e istituzioni) costituisce uno dei motivi per cui la traduzione specializzata è particolarmente complessa e necessita di aggiornamenti continui sul piano terminologico, ma anche tecnologico. Per far fruttare il proprio lavoro, è fondamentale non disperdere le proprie energie in ricerche troppo lunghe, pur sapendo, magari, che un altro repertorio terminologico potrebbe essere più afidabile rispetto a quelli disponibili. Il traduttore dovrebbe ‘quadrare il cerchio’: da un lato dovrebbe ambire alla precisione assoluta, dall’altro dovrebbe sempre ricordare che “il meglio è nemico del bene”. Del resto, le odierne memorie di traduzione hanno modiicato la ‘isionomia professionale’ della traduzione specializzata: da un lato, consentono di lavorare in team, mantenendo una sostanziale coerenza nella selezione dei traducenti, svolgendo anche grossi lavori in tempi brevi (e l’urgenza delle scadenze non è l’eccezione), dall’altro accrescono il senso di spersonalizzazione del lavoro. Infatti, proprio come l’editore, il committente della traduzione specializzata “si riserva di norma la proprietà della memoria e il traduttore è quindi tenuto a consegnargliela insieme alla traduzione” (ivi). È chiaro, comunque, che chi lavora particolarmente bene mette a disposizione materiale migliore allo stesso prezzo di altri, con la sensazione che la propria competenza, così come l’incompetenza altrui, conluisca in un insieme promiscuo gestito da un sistema dove il singolo traduttore si sente sempre più 255
invisibile. In realtà, le memorie di lavoro codiicano l’origine delle entrate e spesso rendono accessibile a tutti gli utenti il nome o il codice del traduttore: per così dire, i più abili possono farsi notare e ottenere la iducia e il rispetto dei colleghi. L’insieme delle memorie di traduzione e delle banche dati terminologiche impiegate nella traduzione assistita sotto forma di programmi elettronici prende il nome di “CAT-tools” (ovvero di strumenti per la Computer Assisted Translation)29. Un aspetto interessante del sistema dei “CAT tools” è quello relativo al computo dei compensi “frammentati” che vedono variare la percentuale della tariffa globale secondo i cosiddetti “match value”, o ‘contatori di corrispondenze’ (cfr. Megale 2004, 149). Questo sistema penalizza il traduttore e avvantaggia il cliente, dimostrando che le macchine, almeno in piccola parte, hanno iniziato a soppiantare i traduttori umani. Infatti, a determinare il compenso è la percentuale di match (corrispondenze) presentati dalle memorie di traduzione, cioè la presenza esclusiva o parziale nel corpus di ogni singola unità traduttiva selezionata dal traduttore: in alcuni casi, solo un match inferiore all’84% implica che sia pagata al traduttore una tariffa del 100% (ivi). Rispetto al ‘vecchio regime’, quando il computo per il compenso era “a cartella” o “a rigo”, il traduttore riceve compensi che lui stesso non è più in grado di calcolare, poiché li calcola il ‘sistema’ stesso. La traduzione assistita non è, in realtà, più ‘facile’, né consente ai traduttori di avere meno competenze rispetto all’epoca pre-elettronica. Anzi, se è vero che è il sistema elettronico a individuare per gli umani, nelle memorie di traduzione, uno o più “match” tra cui selezionare il traducente deinitivo, è anche pur vero che la traduzione è sempre stata e resta l’abilità di scegliere tra apparenti ‘soluzioni’ diverse, laddove una sola è quella f-equivalente: nella traduzione assistita, dunque, il compito è solo apparentemente facilitato, ma, paradossalmente, usa tanto meglio le memorie di traduzione proprio chi potrebbe farne a meno. 4. L’interpretazione La traduzione orale è praticata in dall’antichità, ma ha ottenuto un vero e proprio status professionale come “interpretazione” solo nel XX secolo. La prima occasione in cui è stata impiegata a livello internazionale ha coinciso con il Processo di Norimberga, cui hanno partecipato, in funzione di interpreti, traduttori, uficiali, impiegati che non avevano avuto uno speciico addestramento e le cui competenze e abilità erano molto difformi. Da allora, moltissimo è cambiato. Grazie all’impegno di organizzazioni professionali e di gruppi di studio impegnati nello sviluppo di un vero e proprio campo di 29. Le applicazioni più avanzate (e abbastanza costose) sono in grado di supportare diversi formati testuali. Tra le più note vi sono Trados, Wordfast, Transit.
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ricerca, a partire dagli anni Sessanta del XX secolo, si è strutturato l’àmbito professionale degli interpreti di conferenza. Dell’interpretazione di conferenza fanno parte tre tipologie di prestazioni tra loro molto diverse, che si svolgono, tuttavia, nello stesso contesto, quello dei congressi, dei convegni internazionali e delle conferenze, e che richiedono, oltre ai pre-requisiti professionali, una preventiva preparazione tematica e terminologica (che si attiva non appena all’interprete è comunicata la data dell’evento a cui è convocato): - interpretazione simultanea; - interpretazione consecutiva; - chuchotage. Non solo sono diverse le modalità, i tempi e le attrezzature richieste da ognuna di queste prestazioni, ma divergono, talvolta in misura signiicativa, le abilità richieste agli interpreti. Per questa ragione, sebbene gli interpreti di conferenza (salvo eccezioni) siano in grado di svolgere ogni tipo di prestazione, è frequente che abbiano una forte preferenza per l’una o per l’altra. Nel complesso, tuttavia, contrariamente al senso comune, la modalità di interpretazione meno faticosa tra queste tre è la traduzione simultanea. Per praticarla è indispensabile che vi sia una sala o un’aula debitamente attrezzata con un sistema di cabine che ospitino due interpreti ciascuna; ogni cabina è dotata di una doppia postazione, che comprende sedia, tavolo, le cufie per ricevere il messaggio di input, e una consolle dotata di microfono per l’output e di pulsanti che consentano di accendere e spegnere il microfono o di isolarlo per una brevissima pausa (per coprire, ad esempio, starnuti, tosse o comunicazioni momentanee all’interno della cabina)30. Ogni cabina si occupa di una coppia di lingue: se si è in Italia, la “cabina di tedesco” si occuperà della traduzione dal/in tedesco e, quindi, secondo la prassi deontologica, ospiterà due interpreti, ognuno dei quali sarà nativo di una delle due lingue e (idealmente) ognuno tradurrà esclusivamente nella propria L1. Solo in casi rari, l’eccellenza della L2 di un interprete può consentirgli di lavorare in retour, ovvero dalla L1 verso la L231. Se le coppie di lingue sono troppe, tanto più se la traduzione in alcune lingue interessa pochi ospiti dell’evento, si può attuare il relais, ovvero la “staffetta”: una sola cabina traduce il discorso del relatore nella lingua comune a tutte le altre cabine; 30. Mentre uno dei due interpreti della stessa cabina traduce, l’altro può eventualmente uscire o, soprattutto all’inizio di un intervento, aiutare il compagno con ogni mezzo: infatti, in cabina si dispone di connessione alla rete, ai dizionari, alle banche dati, ai corpora. Il compagno non parla al collega che traduce, ma annota il suggerimento sulla carta disposta sul tavolo. La capacità di lavorare bene insieme è un’ottima premessa per un lavoro professionale. 31. In questo caso, l’interprete bidirezionale può fare da cheval tra due cabine: se un interprete lavora con inglese L1, francese L2 e spagnolo L3, ma la L2 è a livello nativo, può prestarsi a tradurre dallo spagnolo sia verso inglese, sia verso francese.
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questo consente di ridurre il numero delle cabine e i costi del servizio32. Sempre secondo la prassi, ogni simultaneista dovrebbe lavorare idealmente per un massimo di ca. 20-30 minuti consecutivi, ma i tempi regolamentari vengono osservati con scrupolo solo nelle grandi istituzioni internazionali, raramente negli eventi locali33. In una cabina regolamentare con due interpreti, la prestazione non deve superare le sette ore giornaliere, mentre nel caso eccezionale che sia presente in cabina un solo interprete, costui non dovrebbe lavorare mai più di 60 minuti consecutivi al giorno. Tranne rari casi, come si è anticipato, il simultaneista traduce sempre in modalità passiva (cioè verso la L1) e mai, salvo rari casi, in modalità attiva (in retour verso la L2); questo determina un addestramento costante unidirezionale che impone un estremo virtuosismo nella traduzione passiva. Inoltre, pur dovendo sovrapporre parte dell’input (ascolto in L2) a parte dell’output (parlato in L1), con un intervallo, detto décalage, la sua prestazione avviene in modalità procedurale: il cervello dell’interprete non si concentra sul contenuto di ciò che traduce, ma sull’equivalenza funzionale dell’output. Per quanto possa parere inverosimile, è possibile produrre un’eccellente traduzione simultanea ricordando solo in piccola parte ciò che in realtà si è ‘detto’. Si supponga, ad esempio, di dover tradurre a un convegno di biochimici, dove parte dei relatori fornisce spiegazioni molto tecniche di processi chimici: comprendere ino in fondo ciò che si sta traducendo imporrebbe competenze scientiiche troppo soisticate per essere acquisite nei pochi giorni, a volte ore, che precedono la prestazione (un interprete non è uno specialista, come il relatore, della materia trattata, è uno specialista di interpretazione); in questo caso, la traduzione simultanea consente di comprendere e di tradurre ogni singola unità, pur senza essere affatto in grado di ripetere tutto l’intervento del relatore e neppure ampie frazioni: l’interprete comprende le singole frasi, ma non necessariamente tutti i concetti. Poiché, spesso, dalla sua cabina, l’interprete vede il pubblico per cui sta traducendo, capita di constatare che gli ascoltatori capiscano molto bene la traduzione dell’interprete, sebbene l’interprete stesso capisca 32. Si supponga, ad esempio, che a un congresso le lingue uficiali siano tre (inglese, francese, tedesco) con tre cabine (inglese/francese, francese/tedesco, inglese/tedesco), ma che vi sia comunque una delegazione di cinesi che ha concordato di poter parlare cinese; invece di allestire tre cabine supplementari (inglese/cinese, francese/cinese, tedesco/cinese), si installa una sola cabina inglese/cinese e gli interpreti delle cabine inglese/francese e inglese/tedesco tradurranno in francese e tedesco non il discorso del relatore in cinese, ma la traduzione in inglese della sola cabina i cui interpreti lavorano con il cinese (questi ultimi sono detti pivot, cioè sono i traduttori “perno”). 33. Una forma ibrida di simultanea senza cabina, detta “interpretazione in bidue” (Errico, Morelli 2015, 32), che permette di risparmiare i costi elevati delle attrezzature standard, prevede la distribuzione di dispositivi che collegano ogni presente all’interprete: tutto si svolge come una consueta simultanea, ma senza la cabina che difende l’interprete da distrazioni e interferenze sonore.
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quello che dice solo in parte. Completamente diversa è la stessa situazione in modalità di interpretazione consecutiva. Il consecutivista non sta dentro una cabina, ma in piedi o seduto a breve distanza dal relatore osservando direttamente il pubblico e completamente esposto alla vista di tutti, non ha le cufie e ascolta il relatore, intervenendo a tradurre a intervalli più o meno regolari con l’uso del microfono: in modalità consecutiva non si traducono le singole unità traduttive coprendo le parole del relatore, si traduce un grande numero di unità tutte insieme, successivamente al relatore, che si ferma appositamente per essere tradotto: costui parla per un tempo che va, idealmente, da 3 a ca. 8 minuti e, quindi, cede la parola al traduttore che opera, dunque, ‘in consecutiva’. Mentre parla il relatore, per non dimenticare quello che viene detto (comprese cifre, nomi propri, spiegazioni di diagrammi sulle diapositive ecc.), l’interprete prende appunti. La presa di appunti o presa di note si basa su alcuni princìpi ed è semplice nella sostanza, ma necessita di un debito addestramento: si annotano parole che rappresentino i concetti esposti, si usano simboli convenzionali o abbreviazioni se i simboli non sono disponibili, si codiicano con segni speciali i connettori sintattici (“perciò”, “poiché”, “ma”, “e”, “o”, “invece”, “qualora”, “sebbene” ecc.), si marcano la negazione e l’enfasi (per esempio, barrando o sottolineando la relativa parola o unità traduttiva), si dispongono le note in posizioni particolari del foglio. Esistono diversi sistemi codiicati per le annotazioni della consecutiva, ma spesso ogni singolo interprete adotta una sua variante ad hoc, fondendo insieme sistemi diversi o, magari, introducendo segni personalizzati. La bravura del consecutivista sta anche nel trovare un equilibrio tra codiica e decodiica dei segni: spesso, capita che l’interprete annoti parole o segni in due lingue (quella del TP e quella del TA) e questo, al momento della decodiica, può creare interferenze, per cui è consigliabile, già nelle note, usare solo la lingua di arrivo. Lo chuchotage, inine, è una tipologia anomala di simultanea in assenza di cabina che è più disagevole per tutti, per il traduttore, per i destinatari, per le persone del pubblico che siedano vicino ai destinatari. L’interprete, infatti, si posiziona dietro a due, massimo tre destinatari della traduzione (o accanto a un solo destinatario) ed esegue la simultanea solo per loro, sottovoce. Parlare a lungo sottovoce è molto faticoso per l’apparato fonatorio, crea fastidio in platea e, soprattutto, avviene in un ambiente non insonorizzato: mentre in cabina, con le cufie, si sente bene senza interferenze sonore, nella sala, l’imput e l’output sono disturbati e il destinatario riceve il segnale dal solo orecchio esposto all’input (quello più vicino alla bocca dell’interprete). Se l’interprete è molto bravo e il destinatario conosce le dificoltà della tecnica, l’apprezzamento non manca, ma accade talvolta che la situazione, faticosa per tutti, impedisca di valorizzare lo sforzo dell’interprete. L’interpretazione di trattativa diverge da quella di conferenza per alcuni aspetti fondamentali: l’interprete, che siede al tavolo con i destinatari delle 259
due lingue in diretta esposizione, per lo più lavora da solo e deve quindi operare in modalità attiva e passiva (da e verso la L2). La sua speciica abilità è di saper passare in modo altamente automatizzato da una lingua all’altra (code switching), di evitare le interferenze indesiderate (code-mixing), di controllare in modo pedissequo gestualità e sguardo, nonché di operare una maggiore mediazione interculturale. Per esempio, in situazioni di aggressività, che possono sfociare in toni di voce elevata e in parole scurrili, deve cercare di smussare i toni e di trasmettere in modo quasi ‘asettico’ le informazioni relative allo ‘stato emotivo’ del parlante: invece di tradurre le parolacce, può riferire che “viene espressa forte disapprovazione/irritazione”. La funzione del trattativista è, dunque, quella di far svolgere una discussione eficace e di far raggiungere un accordo tra le parti oltre all’accuratezza nel trasmettere i contenuti (invarianti) del dialogo. Va detto, in tal senso, che il trattativista non viene mai assunto da entrambe le parti, bensì da una sola, che funge da committente e da cliente pagante: è quindi inevitabile, da un punto di vista deontologico, che il trattativista cerchi di adeguarsi il più possibile allo stile di conversazione del suo cliente, senza tuttavia discriminare la controparte e senza prestarsi ad alcuna concreta disparità di attenzione. Il vantaggio di questo tipo di prestazione rispetto all’interpretazione di conferenza, è quello, qualora non si sia compreso qualcosa, di poter chiedere (saltuariamente, con garbo e agilità) alcune rapide spiegazioni durante i singoli interventi; inoltre, sempre considerando situazioni conlittuali, l’interprete può chiedere a chi ha appena parlato se ci sia qualcosa che sia meglio non tradurre. Durante la trattativa c’è, quindi, un canale di comunicazione tra interprete e relatore. La trattativa prevede che si traducano in modalità consecutiva una o più frasi brevi e concluse che consentano uno scambio rapido di informazioni, il ritmo della prestazione dipende dalle circostanze e l’interprete tende ad adeguarsi alla situazione generale e ai singoli partecipanti. Non potendo sovrapporre la propria voce a quella dei vari partecipanti, l’interprete prende appunti, limitati, di solito, a cifre e nomi propri, e cerca di tradurre il prima possibile: se la memoria di lavoro non è troppo sollecitata, è possibile ricordare tutto e tradurre ogni dettaglio. In tal senso, se qualcuno parla troppo a lungo, sta all’interprete segnalare in modo garbato che è bene cedergli la parola, ma certamente non può imporsi (del resto, gli stessi partecipanti si irritano se devono ascoltare un lungo intervento in una lingua a loro incomprensibile). Una modalità sui generis di interpretazione, afine e paragonabile a quella di trattativa, è quella che si svolge in àmbito giudiziario, durante interrogatori e processi, pur caratterizzata dall’attendibile “squilibrio di potere” tra giudici, avvocati e imputati, nonché da un’“interazione rigida e rituale” (Morelli 2005, 16) che non corrisponde a quella più variabile e gestibile delle trattative commerciali, sindacali o diplomatiche. Spesso, in campo giuridico, il 260
professionista che segue una causa agisce sia come interprete, sia come traduttore, senza che la distinzione tra le prestazioni sia suficientemente chiara (cfr. Ballardini 2002, 210)34. Tra le altre specializzazioni “ibride” nel campo dell’interpretazione vi è la “mediazione interculturale” o community interpreting. Sostanzialmente, come suggerisce Morelli (2005, 21), questa modalità di traduzione orale può essere deinita più chiaramente come “interpretazione in àmbito sociale”: pur non godendo di un prestigio paragonabile a quello dell’interpretazione di conferenza (ivi, 22), il community interpreting ha e dovrebbe avere un ruolo fondamentale in società interetniche, in particolare in epoche di forti ondate migratorie, soprattutto per facilitare la comunicazione nei commissariati, negli ospedali e, in generale, negli enti pubblici (queste igure professionali dovrebbero avere un ruolo stabile almeno nelle scuole dell’infanzia). Il mediatore interculturale fa da tramite quando il confronto tra diverse realtà culturali (ad esempio, quella di medico e paziente migrante) rischia di sfociare in uno stallo comunicativo o in un conlitto: in questo caso, “il ruolo dell’interprete non è prestabilito a priori bensì viene rinegoziato in ogni interazione comunicativa” (ivi, 25), richiedendo al traduttore competenze di carattere socio-psicologico che lo aiutino a gestire le emozioni proprie e quelle dei soggetti coinvolti. In molti casi, tuttavia, una dificoltà sostanziale si ha nel tentativo di una delle parti (di solito il funzionario) di aggirare l’intervento dell’interprete, adducendo la propria convinzione di capire la lingua dell’interlocutore (ivi, 32-33), ma la prassi mostra che le dificoltà comunicative sono di tipo prettamente linguoculturali e che i funzionari tendono a sottovalutare proprio la diversità culturale (un esemplare case study è fornito in Desideri 2007). A differenza della traduzione scritta, soprattutto editoriale, la qualità in interpretazione è molto più apprezzata dai destinatari e, di conseguenza, dai committenti. Questo tema è stato studiato e approfondito da numerosi studiosi italiani (cfr., ad esempio, Viezzi 1996; Garzone 2002; Errico, Morelli 2015); tuttavia, nonostante i risultati davvero importanti di queste ricerche, non esiste ancora un modello unitario di riferimento e i criteri di valutazione della qualità sono scandagliati in un quadro analitico troppo ampio e ridondante. Certamente, l’àmbito traduttivo che Schleiermacher aveva lasciato fuori della teoria, è quello più evoluto e scevro da interferenze ideologiche e metaisiche. 34. L’analisi estremamente dettagliata che Megale (2008) ha dedicato alle particolarità del linguaggio giuridico, della traduzione giudiziaria e della relativa normativa, pur rivolta ai traduttori specializzati e non ai futuri interpreti, può costituire un buon punto di partenza per documentarsi sulla complessità del settore giuridico. In questo campo vige anche una chiara “ibridazione dei proili professionali” (Errico, Morelli 2015, 87-92) che rende l’interpretazione in tribunale soggetta a variabili sostanziali a seconda che il traduttore sia assunto da un privato o, per via istituzionale, direttamente dal tribunale.
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5. La traduzione per lo spettacolo 5.1. La traduzione dei testi audiovisivi La traduzione per spettacolo, data la sua multimedialità, è di straordinaria complessità, in quanto unisce numerosi aspetti della traduzione orale al lavoro sul testo scritto; questo vale sia per il cinema e la televisione, sia per il teatro e la canzone d’autore. La traduzione multimediale costringe i traduttori a misurarsi con vincoli così numerosi e complessi da sembrare insuperabili, ma, grazie a un approccio drasticamente funzionale e alle competenze speciiche di operatori estremamente creativi, pur procedendo all’inizio per tentativi ed errori, senza supporto teorico, il doppiaggio ha lentamente raggiunto livelli altissimi di funzionalità e credibilità. Una delle ragioni della crescita impressionante della qualità, a fronte di tempi di lavorazione estremamente ridotti, è che, a differenza dell’editoria e della traduzione specializzata, nel mondo dello spettacolo, un risultato negativo è improponibile; nessuno guarderebbe un ilm con dialoghi inverosimili: È proprio anche grazie a un certo grado di verosimiglianza o di realismo linguistico, infatti, che lo spettatore si immedesima nella rappresentazione audiovisiva e che il ilm importato piò essere accettato dalla comunità (Pavesi 2005, 135).
Per questa ragione, soprattutto in Italia, dove è doppiata la maggior parte dei prodotti trasmessi sui canali di iction televisiva e la maggior parte dei ilm che accedono al grande schermo, il livello delle traduzioni è mediamente altissimo. Certamente, sono ancora numerosi i prodotti tradotti a calco, che hanno creato il cosiddetto ‘doppiaggese’, cioè la lingua inesistente, di matrice anglofona, dei calchi traduttivi, la quale – a sua volta – ha ampiamente plasmato l’italiano contemporaneo, diffondendo (grazie alla continua ripetizione) alcune routines traduttive: Maria Pavese ha analizzato gli stereotipi sintattici (in particolare, le dislocazioni, le frasi scisse e le frasi presentative; ivi, 72-134), ma un impatto enorme del doppiaggese si ha a livello lessicale e fraseologico (come dimostra, ad esempio, la graduale sostituzione in italiano di “Arrivederci!” con “Ci vediamo!”, sorta di calco da “See you!”). La traduzione per il doppiaggio cinematograico, pur indirettamente e tacitamente, ha costituito nel passato recente un eccellente modello funzionale applicabile agli àmbiti creativi, compresa la traduzione letteraria. Le dificoltà dell’adattamento dei dialoghi per il doppiaggio sono tali da suggerire che, se davvero è possibile tradurre un ilm, nessuna traduzione letteraria è al di sopra delle possibilità umane. Agli esordi della traduzione cinematograica, erano certamente presenti alcuni “miti” sulla “fedeltà” (cfr. Cipolloni 1997, 21-26), direttamente mutuati dalla pratica letteraria (inizialmente, molti dialoghisti erano traduttori letterari); tuttavia, era apparso chiaro ben presto che, 262
a differenza di quanto (stranamente) avveniva nel caso dell’editoria per adulti, i ilm, il teatro e le canzoni, così come i fumetti e le iabe, per funzionare dovevano trasformarsi in prodotti perfettamente autonomi, pur restando metatesti riconducibili ai testi originari. Non solo il ilm tradotto e doppiato può funzionare come il TP funziona nel ilm originario, ma si è anche visto che, in ceri casi, può funzionare ‘meglio’, cioè avere più successo. Anche grazie al cinema, oggi è chiaro a tutti, compresa la giurisprudenza in materia, che “le opere tradotte hanno un proprio valore artistico, talora superiore a quello dell’opera originaria” (Aa.Vv. 1995, 307, corsivo mio). Quando è altamente professionale, il doppiaggio lascia pienamente soddisfatti (e positivamente ‘ingannati’) persino i bambini, che sono il pubblico più esigente, poiché meno condizionato da fattori sociali: infatti, se un cartone animato è doppiato male, al bimbo non interessa nulla quanto sia famoso l’autore dei dialoghi o il direttore del doppiaggio. Se è realizzato in ogni sua tappa da professionisti (traduttori, adattatori, direttori, attori, tecnici), il doppiaggio funziona così bene da far completamente dimenticare allo spettatore che il ilm è stato girato in un’altra lingua. Poiché, quando si traduce per lo spettacolo, la teoria è messa immediatamente alla prova, schermo e palcoscenico sono la sede ideale per capire se una traduzione funziona, cioè se la gente ride, piange, ha paura e si commuove come gli spettatori di partenza. Per quanto riguarda il cinema, le tipologie di traduzione più diffuse sono tre: -
il doppiaggio (diffuso, ad esempio, in Italia, Germania, Spagna); il sottotitolaggio o sottotitolazione (diffuso, ad esempio, in Francia, Inghilterra, Scandinavia); la voce in sovrapposizione, ovvero l’inserimento di una voice over (diffusa in quasi tutti i Paesi dell’Est europeo, compresa la Russia).
L’idea della sonorizzazione dei ilm risale alla ine del XIX secolo, ma la ricerca di tecniche per realizzare i ilm in altre lingue prende piede a partire dagli anni Venti del XX secolo (cfr. Paolinelli, Di Fortunato 2014, 4-6), sperimentando nel decennio successivo la realizzazione dello stesso ilm in molte lingue, girandolo ogni volta con attori diversi per ogni lingua, con un immenso dispendio di risorse (ivi, 5-6). Proprio negli anni Trenta, si consolida, quindi, il doppiaggio vero e proprio, con l’apertura anche in Italia di “stabilimenti” che avrebbero trasformato centinaia di ilm americani in ilm italiani (ivi, 8). Come rilevano Mario Paolinelli ed Eleonora Di Fortunato, (ivi, 8-23), il doppiaggio può anche essere considerato un fenomenale archivio per lo studio dell’evoluzione della lingua italiana parlata lungo tutto il Novecento (anche in decenni per cui scarseggiano i materiali alternativi). I dati sul doppiaggio, inoltre, sono uno specchio realistico delle predilezioni culturali 263
degli italiani o, almeno, delle predilezioni derivate dall’interazione tra mercato, ideologia e abitudine: al 2004, i ilm statunitensi occupavano il mercato italiano per quasi il 62%, a fronte di un 32% di ilm nazionali ed europei, e di meno del 7% di ilm “altri” (ivi, 27)35. Il doppiaggio, così come avviene oggi, consiste in quattro fasi: 1) la traduzione dei dialoghi, fatta per iscritto dal dialoghista (che talvolta non vede neppure il ilm o teleilm di cui traduce i dialoghi); 2) l’adattamento di questa prima traduzione da parte di un adattatore che, sulla base del confronto con le immagini, rimodella i dialoghi tradotti secondo le esigenze di recitazione e le rende compatibili con le inquadrature, con la posizione delle labbra degli attori sullo schermo (sincronismo ritmico e labiale), con i picchi espressivi dei volti (sincronismo espressivo); 3) l’intervento del direttore di doppiaggio che, di fatto, è il ‘regista’ che guida la recitazione degli attori doppiatori, serve anche a migliorare la funzionalità e recitabilità dei dialoghi, talvolta grazie a vistose manipolazioni (che possono essere giudicate positive o negative a seconda dei punti di vista). Dopo aver preventivamente esaminato l’adattamento del prodotto, il direttore segue la recitazione degli attori nello studio di doppiaggio, un luogo apposito in cui sono disponibili attrezzature standard (una cabina dotata di microfoni, che è posta davanti a un grosso schermo e separata da una parete di vetro insonorizzante dalla postazione della regia, le macchine per la sincronizzazione, la sala di proiezione ecc.). Il direttore del doppiaggio, come ogni regista, dispone di un aiuto o assistente alla direzione che, sempre nel corso di lavorazione del doppiaggio, può esprimere suggerimenti per apportare modiiche ai dialoghi; 4) la sincronizzazione con macchinari ad alta tecnologia che perfezionano la sincronia di voci e immagini, poiché gli attori, per quanto esperti e virtuosi, partono sempre con un minimo ritardo (décalage) rispetto alla voce associata all’immagine sullo schermo. Successivamente, il doppiato viene sottoposto al “mix” (integrazione con la colonna sonora internazionale, che contiene tutti i suoni non linguistici del ilm, e con la colonna musicale). La citata legge n. 633 del 1941 tutela anche i diritti del dialoghista e dell’adattatore, e prevede che le prestazioni dell’adattatore e del dialoghista siano riconosciute come “opere dell’ingegno”, protette dalla regolamentazione del diritto d’autore e, quindi, esenti dall’imposta sul valore aggiunto36. Inoltre, con una sentenza del Tribunale di Roma (6 febbraio 1993), nel 35. Si può considerare che i ilm americani costituiscano stabilmente circa la metà dei ilm offerti dai canali televisivi presenti nel nostro Paese, sebbene, negli ultimi anni, le cose stiano cambiando, almeno per quanto riguarda alcuni provider privati, che trasmettono numerosi serial televisivi europei e ilm provenienti da tutto il mondo. 36. Risoluzione del Ministero delle Finanze, 14 dicembre 1993, n. III-7-126/93. Per una
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processo Toschi contro XX Century Fox Italy, è stato riconosciuto che il lavoro dell’adattatore dialoghista è di diritto un “contributo alla sceneggiatura” del ilm e che, pertanto, il suo nome va inserito tra i titoli di coda del ilm stesso37. La suddivisione e l’entità dei compiti traduttivi nelle tappe del doppiaggio cine-televisivo dipende per alcuni aspetti dalla lingua di partenza. Se la lingua è l’anglo-americano (soprattutto se la produzione del ilm è americana), i problemi sono ridotti: oltre a una grande quantità di professionisti disponibili, il direttore stesso è solitamente competente in prima persona; inoltre, le case produttrici americane, mediante i distributori, trasmettono agli operatori non anglofoni dei vari Paesi le trascrizioni dei dialoghi, per di più corredate dalle informazioni più ostiche per qualsiasi traduttore: vengono elencate, ad esempio, le caratteristiche diatopiche, diastratiche, dialettali, idiolettiche, nonché accenni ai nomi propri, qualora siano realia della cultura americana (a margine della trascrizione dei dialoghi viene spiegato l’‘accento’ di una parola, la provenienza di un’espressione, la connotazione di una parlata particolare, l’identità di una persona ecc.). In tal modo, chi traduce un ilm americano può essere informato sulle marcatezze del TP e sui realia, può venire a sapere, ad esempio, che un epiteto è diffuso in una certa zona degli USA o che una pronuncia identiica in modo marcato la variante afroamericana dell’inglese (AAE, anche detto “black English”). Un simile ausilio è purtroppo inimmaginabile nel caso di ilm, per esempio, iraniani, polacchi o giapponesi e, quando si tratta di una lingua rara, la prassi traduttiva è diversa rispetto ai ilm anglo-americani, richiede più tempo, a volte a scapito dell’esecuzione in studio. La realizzazione della traduzione e del doppiaggio di un ilm è comunque vincolata a tempi stretti, a volte strettissimi. Il prezzo del doppiaggio viene pagato direttamente allo studio che poi provvede agli onorari di dialoghisti, operatori e attori: i margini di guadagno sono proporzionali a un impegno molto faticoso e comunque possono variare da uno studio all’altro e da un ilm all’altro; ovviamente, poi, certi doppiatori famosi hanno onorari particolari poiché la loro voce è ormai associata all’attore di riferimento e sono in condizione di negoziare38. Rari sono i casi come quello del celebre attore, doppiatore e traduttore Oreste Lionello (che per lunghi anni ha dato la sua disamina della giurisprudenza italiana in materia di doppiaggio cine-televisivo, cfr. Megale (2004, 289-295) e Paolinelli, Di Fortunato (2014, 82-85). 37. Il testo della sentenza è interessante dal punto di vista teorico, in quanto distingue la traduzione creativa da quella “meramente meccanica” e considera esplicitamente la possibilità che una traduzione possa migliorare l’opera di partenza (cfr. Megale 1993; Paolinelli, Di Fortunato 2014, 85-89). 38. Per quanto riguarda l’Italia, Paolinelli e Di Fortunato (2014, 92-103) offrono un quadro dettagliato (pur ormai aggiornato solo ad alcuni anni fa) della situazione contrattuale dei dialoghisti/adattatori, nonché informazioni su strutture e costi di mercato.
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voce a Woody Allen, peraltro cambiando notevolmente la tipologia del personaggio39), il quale ha ottenuto notevoli privilegi professionali, lasciando intendere quale sia il ruolo delle conoscenze e della fortuna nel mondo del doppiaggio in particolare e del cinema in generale: Io ho tradotto per il cinema Cyrano de Bergerac. Mi sono preso tre mesi di tempo prima di dire sì all’impresa e mi sono trasferito in Sardegna [...] Il Cyrano de Bergerac è un’opera che richiama la nostra attenzione su un concetto fondamentale, che è quello del prezzo. Bisogna prima di tutto, che ciascuno di noi dia un valore alle opere che crea. Io chiesi una somma altissima per fare il Cyrano. Mi fu data perché il produttore era amico di mia iglia e non poteva dire di no [...] (Lionello 1994: 42).
Al contrario del doppiaggio, in cui gli italiani sono considerati “maestri”, il sottotitolaggio è poco diffuso nel nostro Paese ed è stato utilizzato soprattutto per ilm destinati a circuiti d’essai, ai cineclub o a canali televisivi specializzati in ilm “in lingua”; tuttavia con la massiccia diffusione dei dvd prima e oggi dei formati elettronici dei prodotti ilmici, quasi tutte le pellicole prodotte sul mercato cine-televisivo presentano l’opzione dei sottotitoli che non di rado è del tutto slegata dal doppiaggio stesso, creando in certi casi un vero problema di incongruenza testuale40. La nascita del sottotitolaggio risale all’epoca del ilm muto, quando le scritte a fondo schermo avevano una funzione simile a quella del testo nei baloons dei fumetti. Con la comparsa del sonoro, questa pratica si è rivelata eficace come metodo di traduzione interlinguistica, in quanto non impediva al destinatario l’accesso alla prestazione degli attori in versione originaria. Tuttavia, un buon doppiaggio può rendere onore alla recitazione degli attori e, spesso, migliorarla, mentre il sottotitolaggio distrae lo spettatore dalle immagini, costringendolo a leggere, invece di guardare. Non solo, per quanto i sottotitoli siano fatti a regola d’arte, non possono trasmettere tutte le informazioni (perché la lettura è lenta rispetto all’ascolto), né possono trasmettere gli aspetti fondamentali della recitazione: intonazioni, prosodia, pause, indugi ecc. 39. Caso interessante di asimmetria in cui, calcando alcune caratteristiche di Allen-personaggio (parodicamente aggressivo e molto ‘Jewish’, cioè tipico ebreo newyorkese), in italiano è venuto fuori un personaggio non solo diverso, ma quasi antitetico (insicuro, complessato e un po’ patetico) che ha avuto un enorme successo (a differenza della versione americana, che è rimasta “di nicchia” negli USA). 40. Un caso (tristemente) esemplare è dato dal sottotitolaggio di Ogni cosa è illuminata (2005), ilm di grande valore, tra l’altro incentrato sul tema della traduzione, nonché un assoluto capolavoro di traduzione in italiano dei dialoghi inglesi (di Valerio Piccolo) e del doppiaggio in generale (diretto da Carlo Di Carlo). Pur essendo un ilm americano, il regista Liev Schreiber, nella versione originaria del ilm, ha coraggiosamente usato il russo, accanto all’inglese, come lingua di recitazione, facendo sottotitolare in inglese (malissimo) i dialoghi russi. Mentre i dialoghi italiani sono stati tradotti molto accuratamente dall’inglese parlato, i dialoghi russi sono stati sottotitolati in italiano, traducendo non direttamente dal russo parlato, ma dai pessimi sottotitoli in inglese. Chi comprende il russo vede un ilm, chi legge i sottotitoli ne vede un altro, decisamente pregiudicato.
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La pratica dei sottotitoli è molto diffusa in Europa, dove si vedono molti ilm stranieri e ormai pochi Paesi utilizzano il doppiaggio, molto costoso in termini di tempo e denaro (oltre all’Italia, il doppiaggio è praticato sistematicamente in Germania e in Spagna). La miglior scuola di sottotitolaggio è quella dei Paesi scandinavi, soprattutto della Danimarca, cui si deve non solo il primo ilm sottotitolato (cfr. Perego 2005, 36), ma anche i primi corsi universitari per preparare i sottotitolatori41. Anche in Francia, ormai, numerosi ilm sono sottotitolati (una delle ragioni della differenza con l’Italia è la politica culturale del Paese, che sostiene la diffusione di prodotti francesi)42. Esiste inoltre una speciica tipologia di sottotitolaggio per i sordi (ivi, 62-68). Contrariamente a quanto si possa pensare, eseguire la sottotitolatura di un ilm richiede molte competenze: non si tratta certo di un’interlineare, ma di un’elaborazione speciale del testo che tiene conto di alcuni fenomeni percettivi che fanno recepire e memorizzare meglio l’inizio della scritta rispetto alle ultime parole43. Poiché ogni scritta sovrimpressa permane sullo schermo pochi secondi (o perché preceduta e sostituita da altro titolo, o perché cambia l’inquadratura), il traduttore deve riuscire, riducendo il numero delle parole, a ricostruire come può le informazioni contenute nell’enunciato di riferimento (ivi, 39). Se poi il sottotitolaggio viene fatto per il piccolo schermo (per computer o televisione), lo spazio per i sottotitoli si riduce ancora. La dificoltà risiede, quindi, nella capacità di operare una selezione delle informazioni per trasformare un messaggio orale, il cui ascolto richiede un tempo ridotto, in un messaggio scritto, per leggere il quale è indispensabile più tempo: si tratta di una vera e propria “tecnica di riduzione” che comprende numerose regole condivise, come la condensazione, l’esplicitazione, l’eliminazione totale (ivi, 79-89)44. Uno dei limiti evidenti del sottotitolaggio è che, nei dialoghi di un audiovisivo, sono spesso presenti tutti gli elementi del parlato: intonazione, accenti locali o stranieri, aspetti del dialetto, del socioletto, dell’etnoletto, cioè elementi che danno informazioni sulla provenienza e sul ceto sociale del parlante; nei sottotitoli, invece, si deve ricorrere alla tecnica della compensazione, 41. Henrik Gottlieb dell’Università di Copenhagen è stato in materia il primo grande esperto di teoria del sottotitolaggio. Anche in Italia esistono numerosi studi sul sottotitolaggio, inaugurati dai corsi di traduzione multimediale della SSLiMIT di Forlì (cfr. Heiss, Bollettieri Bosinelli 1996 e Bollettieri Bosinelli et al. 2000). 42. Sugli aspetti relativi alla politica culturale inerente i prodotti cinematograici, cfr. Paolinelli, Di Fortunato 2014 (in particolare, per Francia e Spagna, pp. 119-121 e, per l’Italia, pp. 121-127). 43. Chiunque può notare che molto spesso non si riescono a leggere le ultime parole dei sottotitoli (per mancanza di tempo) e, se lo spettatore legge a velocità standard, si tratta di un errore di valutazione del sottotitolatore. 44. Perego (2005, 119) propone una tavola sinottica che riporta le strategie di sottotitolazione così come deinite (con terminologia diversa) dai più autorevoli teorici della sottotitolazione.
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ma lo spazio non è suficiente per applicare le tecniche soisticate accessibili nella traduzione scritta. La pratica del sottotitolaggio è estremamente utile, in generale, al training dei traduttori in quanto aiuta ad afinare lo switching tra parlato e scritto in un contesto comunicativo altamente funzionale, stimolando anche le abilità tecniche e le competenze teoriche. Per esercitarsi, si esegue una trascrizione dei dialoghi del ilm e, a ianco, si produce, enunciato per enunciato, una traduzione sempre più breve del TP trascritto. Come nel caso del doppiaggio, la competenza speciica è data anche dalla conoscenza delle modalità di realizzazione tecnica del sottotitolaggio che aiutano il traduttore a valutare meglio le proprie opzioni. Oggi sono disponibili in rete, in modalità gratuita, alcuni programmi per la realizzazione di sottotitolazioni di qualsiasi ilm: lo studente può scaricare un programma e sperimentare le proprie abilità, sottotitolando un ilm non tradotto in italiano o confrontando la sua prestazione con un ilm già sottotitolato. Per quanto riguarda la pratica della voice over, si tratta della sovrapposizione di una voce in lingua di arrivo ai dialoghi di partenza, i quali, tuttavia, non vengono eliminati, ma solo trasmessi a volume ridotto. Per eseguire il voice over, come nel doppiaggio, si traducono i dialoghi e si adattano in modo sommario alle immagini, ma, invece di far recitare i dialoghi tradotti ad attori diversi, una singola voce legge tutte le battute; in certi casi, i lettori dei dialoghi sono due attori, uno per coprire le voci maschili e l’altra quelle femminili. Le regole di lettura sono precise: poca enfasi e dominante monotonia tonale. Questa pratica ha avuto una diffusione esplosiva nei territori dell’ex Unione Sovietica e dei Paesi dell’Est a partire dalla ine degli anni Ottanta, quando – dopo l’isolamento dovuto alla “cortina di ferro” – è stata importata improvvisamente una quantità impressionante di ilm (soprattutto in videocassetta) e, in pochissimo tempo, gli spettatori dell’ex blocco sovietico hanno avuto accesso all’intero cinema occidentale (prima parzialmente inaccessibile), nonché a migliaia di telenovela e soap opera. In epoca sovietica, la tradizione del doppiaggio era eccellente; pur con una tecnologia obsoleta, quella russa era una delle migliori scuole al mondo. Tuttavia, in mancanza dei fondi statali bloccati dalla crisi degli anni Novanta, non è stato più possibile affrontare un impegno quantitativo così straordinario come quello richiesto dal neocapitalismo russo: non c’erano mezzi per pagare i dialoghisti e i doppiatori professionisti, abituati alla posizione sociale privilegiata di funzionari della cultura sovietica. Il sottotitolaggio, del resto, non era una soluzione praticabile, in quanto non ottemperava alle esigenze del pubblico dei serial televisivi, più incline ad apprezzare la voice over, che consentiva di ascoltare la televisione anche senza guardarla attentamente. La voice over si è rivelata una soluzione economica e veloce per la traduzione in serie e il pubblico si è abituato velocemente, al punto che ancora oggi è molto diffusa nella maggior parte dei Paesi dell’Europa orientale. 268
Come la sottotitolatura, questo metodo ha anche il vantaggio di preservare il TP con le relative intonazioni, cosa utile in caso lo spettatore conosca un poco la lingua di partenza, sempre udibile in sottofondo. Inine, una pratica diffusa nei festival cinematograici è la traduzione simultanea dei ilm: l’interprete è chiamato a fondere in un’unica prestazione la mansione di dialoghista, adattatore e attore, ovvero a fare la voice over di un testo creato da lui stesso estemporaneamente. 5.2. La traduzione dei testi teatrali Per quanto riguarda la traduzione delle opere teatrali, si lavora solitamente con margini di tempo ridotti, ma con la possibilità di avvalersi della consulenza del regista e dei suoi collaboratori. L’opera teatrale richiede una particolare preparazione culturale da parte del traduttore, che deve avere dimestichezza con il teatro in generale, con i canoni di recitazione e di ricezione del singolo autore e con il sistema delle citazioni (ogni opera, in modo esplicito o implicito, si ricollega al sistema delle opere precedenti). Esistono anche in questo caso due tipologie e collocazioni diverse della traduzione teatrale: - il testo tradotto è inalizzato esclusivamente alla rappresentazione: non è un prodotto autonomo, ma uno strumento per il regista che lo manipola (con o senza il benestare del traduttore); - il testo è destinato alla pubblicazione e gode quindi di una sua autonomia, rispondendo alle regole del mercato editoriale. In questo caso, la traduzione può essere progettata per la sola lettura o anche per la rappresentazione (ma la maggior parte dei registi richiede un testo ad hoc, da cui ricavare i copioni rimaneggiati per ogni singolo attore). La pubblicazione di una traduzione teatrale (di solito si tratta di prosa e drammaturgia, ma talvolta di poesia) può riguardare il testo linguistico effettivamente recitato sul palcoscenico, oppure la versione italiana di un’opera cui, successivamente, si è ispirato un regista, apportando le sue modiiche per realizzare i copioni. In questo secondo caso, il regista può coinvolgere il traduttore e avvalersi della sua collaborazione, oppure può limitarsi a chiedere all’editore l’autorizzazione all’utilizzo per la messa in scena. Inine, come suggeriscono Paolinelli e Di Fortunato (2014, 35-36), il doppiaggio potrebbe costituire un’evoluzione del teatro (genere artistico che sta vivendo una profonda crisi), trasformandolo in un audiovisivo doppiato, quindi godibile da un pubblico vastissimo. Dati i costi, probabilmente, il progetto potrebbe riguardare solo opere di fama internazionale di registi famosi, ma è una prospettiva interessante. 269
5.3. La traduzione dei testi cantati Del tutto diversa e più complessa è la traduzione della canzone d’autore, che è uno speciale artefatto in cui devono congiungersi in modo ottimale due componenti: -
il microtesto musicale semi-isso (detto in gergo “maschera” o “mascherina”), che può essere eseguito con varianti strumentali, tonali, armoniche; il microtesto linguistico, a sua volta scindibile in: a) testo scritto (sia a stampa, nelle varianti testuali disponibili, sia nelle varianti elettroniche disponibili in rete) e b) testo canoro (sia quello dell’esecuzione canonica commercializzata, sia quello attestato in altre registrazioni).
Questi due microtesti esistono separatamente e potrebbero avere vita autonoma, ma la canzone di per sé è un’inseparabile fusione di entrambi. Sebbene parole e musica siano separabili e possano costituire un testo autonomo, soprattutto le parole tendono a risultare diverse dalla poesia, poiché incomplete senza la musica sulla quale è previsto che si inseriscano naturalmente: i testi delle canzoni sono come poesie cui ‘manchi qualcosa’. Anche per quanto riguarda la musica, poiché l’effetto sonoro è particolarmente memetico, se si è abituati a sentire la canzone, il solo motivo musicale privo di parole suscita un effetto di incompletezza. Al traduttore di canzoni, possono essere richieste prestazioni diverse, il cui livello di dificoltà è del tutto differente: - un’interlineare in prosa, da utilizzare come riferimento sulla copertina di un disco o come sottotitolazione a scorrimento durante l’esecuzione di un testo cantato; - un’interlineare che andrà poi rielaborato da un paroliere; - la creazione di un testo in lingua di arrivo che sostituisca il TP musicato per essere eseguito da un particolare artista (straniero o nativo, e in traduzione va tenuto conto di chi canterà il TA). Il traduttore, quindi, varierà il progetto a seconda che si tratti a) di tradurre il microtesto linguistico per la pubblicazione a stampa, per la recitazione o per il sottotitolaggio, oppure, b) di tradurre il microtesto linguistico per l’esecuzione canora, ovvero costruendo il TA direttamente sulla mascherina musicale. In questo caso si può parlare anche di adattamento, ma alcune canzoni sono traduzioni che non solo funzionano nello stesso modo in traduzione, ma sono testi talmente equivalenti da lasciar supporre una retroversione molto simile al TP (è il caso, ad esempio, della canzone “Le passanti”, cantata in italiano da Fabrizio De André nella sua traduzione dall’omonima canzone di Georges Brassens che musicava una poesia di Antoine Pol, ispirata, a sua volta, alla poesia di Baudelaire “À une passante”). Da un punto di vista teorico, è fondamentale partire dall’assunto che il caso a) e il caso b) costituiscono due operazioni traduttive completamente 270
diverse, tali per cui: a) la traduzione può avere una sua indipendente ragion d’essere, cioè il TP può essere considerato un macrotesto scritto che prescinde dal microtesto musicale45; b) la traduzione, o adattamento, non può essere affrontata prescindendo dalla fase a). La traduzione di tipo a) e quella di tipo b) vanno distinte rispetto alla committenza, ai destinatari (pubblico di lettori versus ascoltatori), alle abilità e competenze richieste al traduttore (professionista della traduzione scritta o componente di un’équipe di musicisti). La differenza fondamentale, da un punto di vista traduttivo, è comunque macroscopica: nel caso a), per quanto si costituisca metricamente, il TA è emancipato dal vincolo metrico-musicale predeinito, mentre nel caso b) dovrà essere adattato alle esigenze metricoritmiche della mascherina. Nella canzone d’autore, critici ed esperti concordano nel considerare il testo verbale prevalente su quello musicale; tuttavia, come osservava Fernando Bandini (1996: 29), la lingua poetica delle canzoni “trova nel ritmo il suo fattore di base, ad esso vanno ricondotti tutti gli altri elementi relativi al lessico, alla rima ecc.”. In deinitiva, si può sostenere che la melodia e il ritmo (ovvero il metro musicale) abbiano un ruolo cruciale nella ricezione del macrotesto-canzone da parte dei destinatari e che stabilire un conine preciso tra “canzone d’autore” e “canzonetta” sia un’ardua impresa epistemologica. Va inine sottolineato ancora una volta che il traduttore italiano deve affrontare particolari dificoltà se traduce da una lingua isolante (come l’inglese), con prevalenza di mono- e bisillabi e quasi priva di sufissazione: Il fenomeno è determinato dalla particolare struttura della frase musicale moderna, che comporta la frequenza di parole ossitone in clausola di verso. E la lingua italiana possiede, per quanto riguarda le parole ossitone, un repertorio lessicale molto ridotto, al contrario dell’inglese, ricco di parole monosillabiche, e naturalmente del francese (ivi, 31)46.
In conclusione, chi traduce per lo spettacolo ha a che fare con dificoltà eccezionali e, soprattutto, con la profonda dipendenza del mercato dai canoni e dai gusti dei destinatari: voci, ritmi, intonazioni, melodie hanno un potere memetico straordinario e questo rende molto più facile rischiare la ‘dissacrazione’ dei cult texts, perché il pubblico si abitua alle parole e alle voci ed è molto conservatore. Curiosamente, quando vengono tradotte le canzoni, il 45. Ad esempio: 1) una casa discograica che immetta sul mercato straniero un CD decide di allegare al prodotto originario i testi scritti delle canzoni nella lingua del Paese straniero in questione (in modo che gli ascoltatori sappiano “di che cosa parlino le canzoni”); 2) una casa editrice decide di pubblicare in traduzione una raccolta di testi di canzoni di un cantautore straniero; 3) la produzione di un ilm (o documentario) in lingua straniera decide di offrire la traduzione sottotitolata di una canzone che resta – anche se il ilm è doppiato – nella versione di partenza. 46. Esemplare è il caso della traduzione italiana di “Tu te laisses aller” di Charles Aznavour (eseguita da lui stesso in italiano) in cui, secondo Bandini (1996, 34), “la deplorevole allure della traduzione non è tutta del paroliere: essa deriva anche dalle obiettive impossibilità della lingua”.
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senso di ‘dissacrazione’ può derivare più da una voce diversa (o da un arrangiamento diverso) di quanto derivi da parole diverse. Anche nel caso della traduzione per il teatro, il cinema e la canzone, non c’è dubbio che non bastino i geni, né la loro rappresentazione mistica (l’“ispirazione”): ci vuole il solito appassionante, ma faticosissimo addestramento. 6. Etica e deontologia Verso la ine del secolo scorso, il traduttore e teorico della traduzione Anthony Pym (1997) pubblicava un volume dal titolo Pour une éthique du traducteur, che costituiva il primo dettagliato studio sull’“etica della traduzione”. La monograia lasciava intendere che si trattasse di una rilessione epistemologica sui concetti di etica e deontologia, ma così non era. Pym, infatti, considerava “questione etica” la valutazione dello “sforzo profuso nella traduzione” (ivi, 105), individuando il ine ultimo della professione nell’investimento sociale del traduttore come mediatore nella “cooperazione” tra culture dominanti e culture dominate (ivi, 103-133). L’approccio di Pym, totalmente allineato alle posizioni dei Translation Studies, suggeriva la completa sovrapposizione dell’etica della traduzione alla sociologia della traduzione. Ciò che interessava l’autore, si evince dal volume, era individuare un concetto trasversale di “guadagno” collegato alla professione del traduttore che, in termini sempliicati, deinisse l’etica come cooperazione economica: “Ci devono guadagnare tutti. C’è, quindi, in questa forma di cooperazione qualcosa di etico” (ivi, 110). Da questo emergeva un’ingiustiicata confusione tra il concetto di “etica” e quello di “deontologia”. Sulla base della deinizione dei termini etica e deontologia (nelle varie lingue, compreso il francese in cui è scritta l’opera), le questioni sollevate da Pym paiono decisamente deontologiche, non etiche. L’etica, infatti, non riguarda tanto un campo d’azione e di pensiero ‘più ampio’ della deontologia, ma una sfera separata che può anche essere in contrapposizione con la cooperazione professionale (in termini di “guadagno” economico, sociale, culturale). Nel signiicato odierno, la deontologia (dal termine inglese deontology, coniato su base etimologica greca da Jeremy Bentham alla ine del XVIII secolo) comprende l’insieme delle norme che regolano una professione e che sono, quindi, condivise da coloro che la amministrano e la esercitano, a prescindere dalla sfera soggettiva. L’etica, al contrario, riguarda l’insieme delle regole morali soggettive che, a prescindere dalla normativa e dalla cooperazione professionale, ogni essere umano si dà in base a valori magari condivisi, ma comunque individuali. Per questa ragione, qualora le norme professionali non collimino con quelle morali soggettive, si può creare un’aporia. Nella prassi professionale, etica e deontologia possono entrare in conlitto, come del resto è noto in campo bioetico. Si pensi al ginecologo, magari 272
donna, che comprenda intimamente le ragioni della paziente che vuole abortire, verso cui prova empatia, ma che, al tempo stesso, provi anche incertezza sulla legittimità dell’intervento richiesto47. La deontologia, infatti, impone ai professionisti di applicare la legislazione vigente in materia, mettendo in pratica al meglio le proprie abilità professionali e le “regole dell’arte” e contenendo i propri onorari e i tempi di esecuzione delle prestazioni entro i limiti stabiliti dal regolamento dell’associazione professionale riconosciuta: non solo un intervento chirurgico va fatto ‘bene’, ma deve essere necessario, non comportare rischi superlui per l’incolumità del paziente e non abusare della sua iducia, né della sua disponibilità di tempo e denaro. Ogni ruolo sociale comporta responsabilità, sebbene alcune professioni presentino maggiori implicazioni etiche (cfr. Da Re 1994, 205-206): la traduzione è probabilmente una di queste. Talvolta, infatti, la responsabilità del traduttore esula dall’àmbito ristretto della normativa professionale (deontologia) e diviene capacità di “comportarsi bene o male in rapporto alle passioni” (ivi, 211). Secondo il ilosofo Antonio Da Re (ivi, 208), quindi, l’etica non è riducibile alla deontologia professionale proprio perché quest’ultima non è fondata sull’etica che “comprende anche le motivazioni, gli atteggiamenti personali che rendono concretamente possibile un intervento professionale competente e al tempo stesso rispettoso dell’altro” (ivi). Tanto più che, traducendo per qualcuno, si può danneggiare qualcun altro. In àmbito traduttivo (sia orale, sia scritto), il problema etico, in realtà, nasce proprio quando la cooperazione, che implica l’applicazione delle norme professionali (deontologia), porta a violare i princìpi morali soggettivi del traduttore. Per fare un esempio estremo, un traduttore della Gestapo poteva essere molto eficace nel cooperare alla distruzione di civili innocui e indifesi, e non necessariamente per convinzione etica o ideologica, per un desiderio cooperativo o perché fosse convinto che la deontologia dovesse prevalere sulla morale, ma, semplicemente, poteva aver paura. L’adesione alle norme professionali previste dalla deontologia suggerisce a qualsiasi traduttore di avvantaggiare con il proprio lavoro il committente, anche se si tratta della Gestapo, ma la complessa struttura etica personale può indurre a posporre la deontologia all’etica; il traduttore della Gestapo, infatti, aveva pur sempre altre due opzioni: riiutarsi di tradurre (per non cooperare al massacro) oppure sabotare la traduzione, manipolandola, cioè venendo meno ai propri obblighi deontologici nella speranza di salvare qualcuno, ovviamente a suo rischio e pericolo (e sono innumerevoli, nel corso della 47. Sia il medico che pratica l’aborto, sia il fanatico antiabortista che lo uccide agiscono in nome di una ‘giustizia’ che può essere di origine diversa: un medico può praticare l’aborto per motivi deontologici, etici o per entrambi; se il suo senso etico (per esempio religioso) domina sulla sua deontologia professionale, sceglie l’obiezione di coscienza, che è un tentativo di rimediare al conlitto tra i due sistemi normativi; del resto, l’assassino del medico che agisce come ‘difensore della vita’, perde credibilità morale poiché, per affermare il suo principio etico, lo viola.
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storia passata e presente, i traduttori imprigionati o addirittura giustiziati per aver scelto di tradurre secondo la propria morale)48. I conlitti tra i dettami convenzionali della professione e la percezione del proprio ruolo di ‘agente morale’ non sono infrequenti nell’attività traduttiva, in cui possono veriicarsi situazioni paradossali: ad esempio, se un cliente insulta il suo interlocutore e l’interprete smorza i toni per non far fallire la trattativa, fa ‘bene’ o fa ‘male’? Se un ilm predica la violenza, è ‘giusto’ tradurlo e tradurlo in modo eficace? Se un nuovo Hitler scrivesse un nuovo Mein Kampf, non ci si dovrebbe opporre alla sua diffusione in altre lingue? Quando Pym (1997, 45) assumeva il postulato che il traduttore fosse sempre responsabile “de ce qui est dit”, considerava che la sola soluzione di fronte a un conlitto fosse quella di “non tradurre”: on ne saurait rejeter sur le traducteur la responsabilité de la qualité du texte de départ, du client, des normes en vigueur, de sa rémunération. Il n’empêche, la responsabilité […] du traducteur lorsqu’il décide de traduire ou de ne pas traduire (ivi, 99).
Nel caso, per esempio, del nuovo Mein Kampf, non solo esisterebbe l’opzione di riiutare di tradurre (utile solo a salvaguardare se stessi, visto che un altro professionista accetterebbe e i danni si produrrebbero), ma anche quella di manipolare la traduzione, adottando tecniche di traduzione atte a moderare i toni e i contenuti dell’opera, in modo da fomentare meno odio (e un professionista sa bene come intervenire sulla lingua per rendere meno credibile un enunciato, meno eficace uno slogan, meno contagioso un meme). In sintesi, potrebbe risultare che la scelta di manipolare il TA per impedire danni al prossimo sia più etica della decisione di far afidare il compito ad altri (che magari si presterebbero con grande eficienza deontologica a diffondere l’odio). A prescindere dai casi estremi, è doveroso distinguere tra la deontologia professionale, che comprende la valutazione dei beneici della cooperazione tra individui e il diritto etico di un traduttore di opporsi a una cooperazione che ritiene immorale secondo il suo soggettivo sistema di valori. Solo un’adeguata rilessione, unita all’esperienza e al buon senso, può aiutare a trovare buoni compromessi tra norme deontologiche (oggettive) e norme etiche (soggettive). Non è così infrequente, ad esempio, che un interprete o un traduttore sia chiamato da un cliente a gestire una trattativa o a tradurre documenti e che, durante il lavoro, percepisca o venga a sapere che il proprio cliente (che lo paga) sta cercando di imbrogliare la controparte; il traduttore sa che, quanto migliore (più deontologica) sarà la sua prestazione, tanto 48. A un traduttore (per ovvie ragioni anonimo) è capitato di dover tradurre una trattativa in cui si decideva se eliminare (isicamente) un socio che si trovava all’estero. Durante la trattativa, il traduttore ha anche subìto la battuta “E di lei cosa dobbiamo fare? Possiamo idarci?”. Con maestria, il traduttore ha risposto secondo i dettami della più ineccepibile deontologia: “Fidarvi in merito a cosa?” (alludendo alla capacità professionale di dimenticare all’istante i contenuti dei dialoghi tradotti).
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più contribuirà a danneggiare un altro individuo (ignaro e, probabilmente, in buona fede): se il traduttore eseguirà al meglio il suo lavoro, contribuirà al fallimento o a una perdita economica per la controparte; del resto, se il traduttore metterà in guardia la controparte, verrà meno a un dovere deontologico nei confronti del cliente, quello del segreto professionale (fatto, di per sé, assai grave). Ma in questo caso, il conlitto sarebbe addirittura duplice, in quanto la legge dello Stato (gerarchicamente superiore alle norme deontologiche) prevede di violare il segreto professionale se si viene a conoscenza che si stia per commettere un reato. Se, come sosteneva Pym (1997, 125), il traduttore non deve assoggettarsi unilateralmente al proitto del cliente e un traduttore che dica “my client right or wrong” è un mercenario “sans préoccupations proprement éthiques” (ivi, 132), è pur vero che i conlitti nascono non solo perché qualcuno ha ragione o torto, ma perché talvolta torti e ragioni si sovrappongono. Dal punto di vista delle neuroscienze e della sociobiologia, pur essendo un fatto sociale, il senso etico risponderebbe alla percezione interiore del senso di giustizia soggettivo e all’intenzionalità individuale che chiamiamo “libero arbitrio”. Mentre la deontologia risulta delegata interamente alla cultura, l’etica avrebbe a che fare con la natura biologica dell’essere umano. L’esistenza del libero arbitrio pare proprio una condizione indispensabile per parlare di etica e, non a caso il problema è connesso a doppio ilo al dibattito sulla coscienza e sull’autocoscienza (self-consciousness)49. Il problema della differenza tra etica e deontologia, dunque, sembra sfociare in una rilessione ilosoica così complessa da costringere a speculazioni irte di dificoltà concettuali50. È possibile che il “libero arbitrio” (in quanto sistema di giudizio che emancipa il singolo dal cieco ossequio ai propri impulsi e ai dettami altrui) sia solo un ‘effetto speciale’ e non una realtà isica51. Se, invece, esiste, allora siamo davvero intelligenze morali, in grado di scegliere intenzionalmente (coscientemente) se onorare o violare le norme; in questo caso, il computer, come sosteneva Pym (1997, 80), resta il solo traduttore completamente “schiavo”, costretto a un’etica programmata, cioè a una ‘pseudo-etica’. 49. Come mostra la polisemia della parola “coscienza”, la percezione di sé è connessa alla percezione del “bene”: fare le cose “secondo coscienza” non signiica solo “consapevolmente”, ma anche in armonia con i propri valori, con la propria concezione del mondo, della vita e della morte, della giustizia e dell’ingiustizia. 50. Il problema è talmente complesso che anche epistemologi, come ad esempio Da Re (1994, 205), offrono una deinizione di “etica” (o “morale”) che non aiuta a discriminare i due concetti: “In senso stretto con etica e con morale intendiamo un insieme di criteri, di valori, di norme, in base ai quali orientare il nostro agire”. 51. Tutte le più note teorie sull’etica e sul rapporto tra morale e libero arbitrio hanno ottimi sostenitori e ottimi detrattori: molti studiosi negano l’esistenza del libero arbitrio (tra i più famosi, Gazzaniga e Dennett), altri ritengono il problema troppo complesso per l’intelligenza umana (ad esempio, Pinker e Penrose), altri ancora difendono con convinzione l’idea che l’essere umano non sia affatto vittima del determinismo biologico (in primis, John Searle).
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Comunque stiano le cose, noi umani percepiamo l’esistenza di un meccanismo che ci permette di decidere in base alla volontà: se anche il meccanismo non esistesse, e fosse solo un ‘effetto speciale’, non potremmo lo stesso non comportarci (nei confronti di noi stessi e degli altri) come se fossimo liberi. Inoltre, se anche gli umani accettassero razionalmente di riconoscersi automi biologici in balìa del “caso” e della “necessità” (come sosteneva Jean-Jacques Monod, 1997), se anche non esistesse una distinzione tra “essere” e “dover essere”, nessuno potrebbe davvero vivere nella quotidianità senza credere a questa distinzione. Del resto, anche i colori ‘non esistono’ e sono solo un ‘effetto speciale’ del nostro occhio biologico, ma i semafori evitano gli incidenti perché, per fortuna, gli ‘effetti speciali’ funzionano. Qualunque sia la sua posizione etica o morale, il traduttore può essere “responsabile” nella misura in cui è addestrato a esserlo. Una teoria etica della traduzione, dunque, come del resto una teoria bioetica, non offre soluzioni pronte, universali e giuste, ma aiuta a capire quanto sia dificile reperire criteri cui ricondurre la propria responsabilità professionale, civile, individuale. Solo una crescita del ruolo professionale della traduzione potrà contribuire in modo decisivo all’autonomia decisionale del traduttore. In tal senso, l’etica è anche una questione sociale, che implica la possibilità di affrancarsi almeno in parte dai dettami (morali e immorali) imposti dai clienti e dal mercato, di essere un po’ meno sfruttati e un po’ meno mercenari: “moins le traducteur se trouve en position d’inferiorité sociale, plus il est responsable de ses choix” (Pym 1997, 80).
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INDICE DEI NOMI
Ablondi A., 80 Albrecht J., 128 Algorismus (al-Khwārizmī), 136 Alighieri D., 22, 221, 223 Allen W., 266 Altmann G.T., 148, 163, 164, 172 Amati Mehler J., 107 Antonelli R., 67, 90 Apel F., 128, 129, 235 Arcaini E., 84, 131 Artsrouni G.B., 113 Aston G., 231 Aunger R., 53, 153-154, 156, 157 Aury D., 247 Aznavour Ch., 271 Balboni P., 31 Balkin J., 99, 133, 153, 157, 158 Ballardini E., 261 Bamford J., 231 Bandini F., 271 Barchudarov S.G., 122, 126 Bar-Hillel Y., 117, 118, 119 Barnard Ch., 134 Barthes R., 130 Bassnett (McGuire) S., 13, 39, 72, 87, 92, 94, 110, 131 Baudelaire Ch., 270 Bazzarelli E., 221, 222 Bell R.T,, 35, 47, 121 Bel’skaja I., 115, 119, 139 Benincà P., 190 Benjamin W., 40, 102-108, 132
Bentham J., 272 Berman A., 131 Bernardini S., 231 Bertone C., 164 Bertozzi R., 129 Bianchi B., 128-130 Blackmore S., 154, 156 Bloch M., 46, 109, 131, 153, 155, 156 Bogdanovič I.F., 95 Bollettieri Bosinelli R.M., 267 Boncinelli E., 135, 141 Bonola G., 102 Borges J.L., 41 Borrmans M., 83, 84 Booth D., 117 Bottiroli G., 111, 249 Boyd B., 53, 85, 151, 156 Brassens G., 270 Bricmont J., 47, 108 Broca P., 162 Brockman J., 31 Brodie R., 154-155 Brown D.E., 20 Bruni L., 41, 42 Bühler K., 122 Bulgakov M.A., 202 Bürgin L., 108 Buzzetti C., 71, 72, 80 Čajkovskij P.I., 221 Candlin Ch., 46 Cardona M., 148, 161, 172 Carena C., 47, 61
289
Dovlatov S., 90, 143, 144, 190, 194, 218 Doyen D., 190 Dryden J., 92, 96 Dylan B., 64, 217
Carrol. J., 85 Carruthers P., 17 Cartesio (Descartes R.), 45, 46, 115 Cassarino M., 83 Catford J., 131, 132 Ceccherelli A, 14, 122 Cervantes (de) M., 223 Changeux J.-P., 43, 166, 171 Chapman G., 94 Charlesworth J.H.,, 77 Cheraskov M.M., 95 Chesterman A., 153, 158 Chomsky N., 15, 16, 26, 114, 132, 164 Cicerone M.T., 39, 63, 77, 88, 100 Cipolloni M., 262 Cirillo (San), 80 Clark E.V., 163 Comrie B., 20 Conte R., 156 Costantino L., 60, 122 Cottini V., 62 Cresti E., 232 Čukovskij K.I., 25 Curkan R., 79
Eco U., 68, 90, 99, 193, 202, 209 Edelman G.M., 167 Ejchenbaum B.М., 40 Elia A., 120 Engels F., 88 Epifanio (vescovo), 63 Errico E., 258, 261 Eschilo, 96 Etkind E., 220 Evans C.A., 71 Even-Zohar I., 111
D’Agostino E., 120 Damasio A., 34, 43, 46, 64, 86, 135, 146, 149, 169-171, 174, 198 Da Re A., 273, 275 Davies P., 184 Darbelnet J., 127, 130 Dawkins R., 153, 155 De André F., 217 De Benedetti P., 76, 99 De Carli F., 182 De Haan F., 1, 1103 De Mauro T., 211 Dennett D., 33, 43, 45, 56, 88, 138, 153155, 275 De Saussure F., 109, 162 Desideri P., 261 Di Carlo C., 266 Dickens Ch., 145 Di Fortunato E., 263, 265, 267, 269 Disegni D., 76 Distin K., 152, 153 Di Trocchio F., 108 Dolet E., 93, 94 Dostoevskij F.M., 50, 65, 85, 95, 219
Fabbro F., 49, 107, 172, 173, 175, 177 Falsini R., 78, 84 Fawcett P., 128 Federer R., 134 Fëdorov A.В., 109, 122, 125, 126, 127 Fet (Fet-Šenšin) A.A., 95 Feyerabend P., 47 Finkel’ O.M., 25 Florin S., 127 Fonvizin D.I., 95 Freeman W., 43, 161 Freud S., 163 Gadamer H.G., 128 Galilei G., 46, 52 Garbarino S., 230 Garšin V.N., 95 Garzone G., 49, 217, 261 Gary R., 50 Gasparov M.L., 220 Gazzaniga M., 43, 142, 154, 275 Gebert L., 17 Genzler E., 124, 125, 129 Ghini G., 223 Gianotti S., 199 Ginzburg L., 50 Giovanni (Vescovo di Gerusalemme), 63 Giudici G., 221, 222 Godijns R., 49 Goethe J.W., 96, 97,221 Gogol’ N.V.., 40 Gončarov I.A., 95
290
Gor’kij M., 25, 109 Gottlieb H., 267 Green D.W., 176 Griboedov A.S, 95 Grigor’ev A.A., 221 Guccini F., 65 Gumperz J.J., 17 Heiss Ch., 267 Hickok G., 162, 165, 172 Hitler A., 274 Hjelmslev L.T., 130 Hofer J., 253 Hofstander D., 86, 142, 143, 148, 166, 167, 184 Holmes J.S., 13, 110 Ingram J.C.L., 163 Ivan (IV) il Terribile, 202 Jackendoff R., 171 Jäger G., 122, 128 Jakobson R., 21, 122, 123, 143 Johansen J.D., 85 Jullion M.-Ch., 238 Kade O., 122, 128 Kandel E., 150, 161, 168, 169, 170, 174 Kantemir A.D., 95 Kapnist V.V., 95 Kavais K., 65 Kelly N., 83 Kennedy G., 232 Khalidi T., 83, 84 Kirov S.M., 214, 215 Koller W., 128, 129 Kommissarov V.N., 126 Korolenko V.G., 95 Kostomarov V.G., 16 Krasnyj G., 76 Krylov S.A., 95 Kulagina O.S., 119 Kuper R., 155 Kuznecov P., 117, 118 Lachmann K., 67 Ladmiral J.-R., 62, 130 Lafford B.A., 190 Laland K., 156
Laurenti F., 93 LeDoux J., 43, 168, 169-172 Lefevere A., 64, 79, 92, 93, 206 Legeżyńska A., 47 Leibniz (von) G.V., 115 Lennon J., 220 Leopardi G., 53, 55, 144, 221 Lermontov Ju.M., 95, 144 Levinson S.C., 17 Levý J., 122, 123, 132, 143, 198 Lichačëv D.S., 68 Linneo C., 53 Lionello O., 265, 266. Locke W., 117 Lo Gatto E., 221, 222 Lolli G., 139, 186 Lomonosov M.V., 95 Longo G., 133, 151 Lotman Ju.M., 35, 53-54, 56, 128 Lozinskij M.L., 22, 223 Luciano (di Samosata), 95 Luria (Luria) A., 163, 173, 176 Lynch A., 154 Macaluso F., 34 Machiavelli N., 52, 53 MacPherson J., 201 Maksim Grek (Massimo il Greco), 72 Malblanc A., 127 Manferlotti S., 39, 91 Mann Th., 50 Mantovani G., 204 Mariani M., 161, 171, 179, 183, 188 Marinelli L., 92 Marini A., 165 Martimort A.-G., 81 Martin Lutero (Luther), 77, 78, 79 Martone C., 71 Marx K., 23, 88, 126 Marzano A., 114, 115, 118 McDonald L.M., 65, 70, 76 McEwan I., 53 McWhorter J.H., 17-20 Megale F., 236-238, 240, 241, 243, 244, 256, 261, 265 Mel’čuk I.A., 119 Meschonnic H., 95, 121, 130, 237 Metodio (San), 80 Miram G., 115, 136, 139
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Moates D.R., 136, 138, 141 Mološnaja T., 118 Monod J.-J., 276 Montanari F., 91 Morelli M., 49, 258, 260, 261 Morosin M.S., 180 Mounin G., 39, 93, 115, 130, 247 Muhammad (Maometto), 83, 84 Murray A., 73 Myers-Scotton C., 175 Nabokov V., 65, 132 Nekrasov N.A., 95 Nergaadr S., 95, 102 Neubert A., 122, 128 Newmark P., 121, 132 Nida E., 12, 35, 60, 72, 79, 80, 110, 123, 124 Nocentini U., 165 Nord Ch., 128, 129 Oddone F., 229 Odling-Smee J., 156 Oliverio A., 45 Omero, 89-91, 94, 96 Orazio (Flacco Q.), 39, 63, 88, 100 Orlando V.E., 33 Ortega y Gasset J., 41, 43, 64, 102, 104107, 132, 247 Osimo B., 51, 252 Ostrovskij A.N., 95 Pammachio (San), 63 Paolinelli M., 263, 265, 267, 269 Panov D.Ju., 114, 115, 118 Panunzi A., 232 Paradis M., 165, 167, 169, 175-178, 180 Pasternak B.L., 103 Pavesi M., 262 Penrose R., 136, 141, 275 Pera P., 222 Perego E., 267 Pergola R., 60 Perrot d’Ablancourt N., 94 Peruzzi A., 31 Piccolo V., 266 Pinker S., 45-46, 149, 171, 275 Pirandello L., 89 Plotkin H., 32
Poincaré H., 185 Pol A., 270 Poli S., 224 Pope A., 93 Popović A., 13, 110, 122, 249 Porcelli G., 233 Porena I., 91 Pound E., 125 Prandi M., 35, 51, 253 Pulitano D., 52 Purto V., 118 Puškin A.S., 90, 95, 221-223 Pym A., 197, 272, 274-276 Pyper H., 154 Rabelais F., 223 Radiščev A.N., 95 Raková Z., 94 Ramachandran V.S., 43, 163 Reber A., 169 Recker Ja.I., 126 Reiss K., 129 Rezvin I.I., 125, 127 Riccardi A., 49 Riccio A., 224, 226, 229, 230, 232 Richerson P.J., 151, 156 Rigotti E., 132 Rodari G., 190 Rose S., 166, 168, 170, 171, 185 Rossi M., 253 Rovatti P.A., 102 Rozencvejg V.Ju., 125, 127 Rubinstein A., 134 Russo Cardona T., 17 Ryžij B., 54, 55, 215, 216, 219 Sacks O., 111, 164 Sallinger J.D., 50 Salmon L., 37, 51, 53, 127, 161, 171, 179, 183, 188, 251, 253 San Gerolamo (S.E. Girolamo), 12, 63, 77, 78, 81 Sapir E., 16, 17, 124 Scarpa F., 52, 224, 251, 255 Schachter D., 169 Schleiermacher F., 32, 36, 39, 48-49, 97100, 102, 103, 110, 126 Schumacher G.M., 136, 138, 141 Scotto F., 130, 131
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Ungaretti G., 55 Uspebskij B.A., 50
Searle J., 275 Shakespeare W., 25, 223 Shannon C., 117 Siciliano A., 136 Simon S., 87, 124 Sinclair J., 232 Slobin D., 17 Snell-Hornby M., 128 Sokal A., 47 Solms M., 163 Solonovič E.M., 248 Sperber D., 108, 153, 159 Steiner G., 39-43, 96 Stewart D., 231 Stussi A., 67 Sumarokov A.P., 95 Švejcer A.D., 126, 127 Taber C.R., 72, 80 Tabossi P., 136, 138, 141, 144 Taviani P. e V., 203 Tito (Flavio Vespasiano), 71 Tolstoj A.K., 95 Tolstoj L.N., 85, 95, 203, 221 Toper P., 95 Torop P., 38 Toury G., 111, 159, 223, 248 Tov E., 71 Trediakovskij V.K., 95 Trojanskij (Smirnov-Trojanskij) P.P., 26, 113-117, 124 Turgenev I.S., 95 Turing A., 113, 116, 165 Turnbull O., 163 Tytler A.F., 39, 92
Vaccari A., 71 Vattimo G., 102 Ventura A., 82 Venuti L., 87, 94, 125, 207, 208, 235, Vereščagin E.M., 16 Vermeer H., 15, 121, 128, 129, 158 Verstichel P., 169 Viezzi M., 261 Vinay J.-P., 127, 130 Vlachov S., 127 Volterra V., 17 (von) Humboldt W., 16, 96, 100, 101, 103, 209 (von) Neumann J., 116 Voss J.H., 96 Vygotskij L.S., 23, 100, 163, 172 Waugh L.R., 190 Weaver W., 117 Wernicke C., 162 Whorf B., 16, 17, 124 Wilson E.O., 30, 46-47, 108, 141, 149 Wilss W., 128, 129 Wojtasiewicz O., 122 Wooden R.G., 71 Wray A., 36, 151 Zamjatin E., 103 Zetzsche J., 83 Zilio-Grandi I., 82, 83 Zlateva P., 122 Žukovskij V.A., 95 Zuse K., 116
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