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Italian Pages 198 Year 2020
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BIBLIOTECA
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Letterature 92
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Collana diretta da Matteo Palumbo e Antonio Saccone fondata da Giancarlo Mazzacurati
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Virginia di Martino
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Sul fuoco Camini, focolari, incendi, streghe e altro nella poesia italiana del primo Novecento
Liguori Editore
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Questo volume è stato pubblicato con il contributo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (fondi del progetto FFABR)
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a Lucia e Benedetta
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INDICE
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XI Premessa
1
1. Camini, focolari, lampade, candele 1.1 «Felicità di focolare»: il poeta davanti al fuoco (Govoni Palazzeschi Moretti Gozzano), p. 2; 1.2 «Scoprirò la cenere del gioco?»: fine del fuoco e della vita (Corazzini Gozzano Moretti), p. 17; 1.3 «Curvo e pensoso di un lontano lume»: camini e viandanti (Corazzini Campana Sbarbaro Ungaretti Montale), p. 23; 1.4 «Nel brillar dei camini»: riprendere le forze (Saba Rebora), p. 36.
45
2. Fuoco sacro 2.1 «Accendiamo le candele sull’altare». Ceri, lampade e lumini (Moretti Govoni Corazzini Palazzeschi), p. 46; 2.2 «Mistica compagnia»: la ricerca del sacro (Rebora Campana Ungaretti Sbarbaro), p. 62; 2.3 «Arde in corona la pietà dei ceri»: candele e lumi per i morti (Govoni Corazzini Moretti), p. 68.
75
3. Quando il fuoco distrugge 3.1 «Sia fatto un gran fuoco»: sacrifici e purificazioni (Palazzeschi Govoni Ungaretti Campana Montale), p. 76; 3.2 «Nel mio sogno s’accendean le vampe»: distruzioni di repertorio (Moretti Gozzano Govoni Corazzini Saba), p. 87; 3.3 «Fuoco! Fuoco!»: distruzione e trasgressione (Palazzeschi Campana), p. 91.
111
4. Il fuoco, l’amore, la donna 4.1 «Una gran fiamma / di sentimento»: la mancata esperienza d’amore (Corazzini Gozzano Moretti), p. 112; 4.2 «Principesse salamandre»: identità donna-fuoco (Govoni Palazzeschi Campana), p. 118; 4.3 «Il fuoco di cui ardi»: amore e desiderio (Rebora Saba Ungaretti), p. 129.
145
5. Fiamme e stati d’animo 5.1 «Anima della nostra fiamma»: tra estroversione e inazione (Govoni Corazzini Palazzeschi), p. 146; 5.2 «Cuore senza fuoco»: l’abulia sentimentale (Gozzano Moretti Saba Corazzini Sbarbaro), p. 156; 5.3 «Face dalla fiamma
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INDICE
nova»: fuoco e inquietudine (Corazzini Campana Govoni Rebora), p. 162; 5.4 «Bruci tu pure […], cuore»: paesaggi dell’anima (Rebora Sbarbaro Montale Ungaretti), p. 169.
Indice dei nomi
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177
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PREMESSA
Il fuoco, elemento sacro per eccellenza, portatore sia di luce e vita che di morte, è simbolo di purificazione e distruzione, strumento di dei, demoni o alchimisti, centro della casa o protagonista di luoghi inospitali, significante di sentimenti che vanno dall’amore alla furia, trait d’union tra cielo, terra, mondo infero. Le fiamme del camino, il fuoco che cuoce gli alimenti, il rogo sacrificale su cui brucia un’offerta, gli incendi che devastano, terrorizzando le folle o incantando piromani, sono immagini che costituiscono archetipi culturali, religiosi e, di conseguenza, poetici. Attraversando l’immaginario e le letterature di ogni tempo, le diverse figurazioni legate all’elemento igneo approdano alla poesia dei primi trent’anni del Novecento, variamente declinate e rivestite di significati diversi a seconda del sistema poetico in cui si trovano a reagire. Nel presente lavoro vengono presi in considerazione autori quali Corazzini, Govoni, Moretti, Palazzeschi, Gozzano, Rebora, Sbarbaro, Campana, Saba, Ungaretti, Montale: sono state selezionate opere relative all’arco cronologico prescelto, e dunque produzioni circoscritte nel tempo (come nel caso di Corazzini, Gozzano o Campana) vengono considerate nella loro interezza, mentre per autori quali, ad esempio, Saba o Ungaretti, sono oggetto di esame le sole opere pubblicate nei primi trent’anni del secolo scorso. Questa selezione ha comportato, nel caso di intere sillogi o di singoli componimenti riediti a distanza di anni (talora di decenni), la necessità di scegliere tra diverse versioni: in generale, si è preferito seguire la prima nei casi in cui l’autore (come accade a Govoni o Sbarbaro), essendosi distaccato dal testo in maniera definitiva, vi sia tornato, per diverse ragioni, dopo un lungo intervallo temporale; la lezione prescelta è stata, invece, quella definitiva nei casi (ben esemplificati da Ungaretti) in cui il testo edito sia stato oggetto, fino
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PREMESSA
all’edizione definitiva, di un costante rimaneggiamento, indice di una continua evoluzione e non di una riscrittura a posteriori. Sono state individuate cinque aree tematiche, ad ognuna delle quali è dedicato un capitolo. Nel primo, sulle immagini di camini, focolari e lampade, si indaga come l’idea del fuoco domestico, a seconda dell’universo poetico in cui è inserita, dia vita ad immagini molto diverse fra loro: si va dagli interni borghesi di Gozzano alle cucine campagnole di Moretti e Govoni, mentre lumi osservati da lontano sono emblema, di volta in volta, dello sradicamento del soggetto (nei versi di Campana) o del senso di solitudine che prova (in quelli di Corazzini e Sbarbaro); di un rifugio rispetto all’apertura caotica ed eccessiva del mondo (per Ungaretti) o dell’ammonimento sulla fugacità della vita (Montale). Rebora e Saba, a loro volta, presentano immagini di focolare familiare come centro del mondo, che rappresenta per l’io lirico l’occasione di recuperare una dimensione infantile a cui attingere nuove forze per affrontare le sfide poste dalla vita adulta. Il secondo capitolo, dedicato al fuoco come manifestazione del sacro, si apre con una panoramica sulle raffigurazioni di ceri, candele e lampade votive che affollano le poesie di Govoni e Corazzini e che, con Palazzeschi, diventano occasione per attuare un rovesciamento ludico del topos crepuscolare. In Rebora, Ungaretti e Campana, con esiti diversi, le fiamme sono segno di una «mistica compagnia», simboleggiando la tensione del soggetto verso una «vita più profonda» che invece Sbarbaro dichiara inattingibile attraverso un semplice «lumino alla Madonna»; mentre ancora nei versi di Govoni e Corazzini possono indicare il desiderio di illuminare il percorso di un’anima che trasmigra dal proprio corpo verso un altrove sconosciuto. Nell’opera di Campana e Ungaretti la sacralità dell’elemento diviene simbolo di una riconquistata fiducia nella parola poetica, che si «infiamma» o «brucia»: al contrario in Montale, che sa di non possedere più «parola» poetica assoluta, «formule» sacre o magiche, sono frequenti immagini di roghi morenti o cenere. Tuttavia, il fuoco che riscalda la casa e ne fa un centro del mondo, l’elemento divino che apre quotidianamente al contatto con il trascendente, può talora eccedere la misura e distruggere: si manifesta allora come forza inarrestabile, capace di travolgere e devastare. Il potere distruttivo del fuoco (su cui è offerta un’indagine nel terzo capitolo) può essere irreggimentato nei sacrifici rituali (se ne trovano esempi in Palazzeschi, Ungaretti, Campana e Montale), o sfuggire a ogni tentativo di dominio da parte dell’uomo, come sanno, ad esempio, Gozzano
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PREMESSA
e Corazzini. Ma la violenza del fuoco può anche diventare strumento eversivo, prima solo evocato e quasi temuto, poi esplicitamente adoperato per bruciare allegramente la «gelida carcassa» (Palazzeschi) del mondo, o liberare nuove possibilità creative (Campana). Talora, e se ne parla nel quarto capitolo, le fiamme fanno la loro comparsa come correlativo del sentimento amoroso: la loro assenza, secondo quanto testimoniano Corazzini, Gozzano e Moretti, indica l’impossibilità di amare, mentre nei versi di Rebora, Saba e Ungaretti il fuoco che divampa simboleggia la vitalità del desiderio, sia esso appagato o meno. Non di rado le metafore ignee si volgono a connotare la stessa figura femminile, rappresentata da Govoni come «salamandra» o associata, nei componimenti di Palazzeschi e Campana, alle fiamme per dettagli fisici quali capigliatura, labbra, abbigliamento. Se è innegabile l’immediatezza con cui le immagini del fuoco possono corrispondere all’amore e renderlo descrivibile, non meno efficacemente esse riescono a simboleggiare ed oggettivare una vasta gamma di emozioni, come si sostiene nel quinto capitolo. Mentre in Govoni il fuoco può sia devastare il cuore dell’io lirico che esplicitarne il dinamismo e l’estroversione, in Corazzini indica l’anima con la quale è intavolato un intimo colloquio, o simboleggia, spegnendosi, il senso di frustrazione del soggetto. Anche Palazzeschi rimarca fortemente il nesso tra il fuoco e lo stato d’animo dell’io poetante, che racconta le proprie vicende interiori attraverso le evoluzioni delle fiamme. L’assenza del fuoco, come già notato a proposito della passione erotica, indica assenza di ogni altro sentimento: è quanto accade al Totò Merùmeni gozzaniano, o al soggetto di molti versi di Moretti. Un rovesciamento delle immagini improntate ad abulia e passività ci è offerto invece da Campana e Rebora, che ricorrono alla simbologia del fuoco per dare corpo all’inquietudine che li agita. Infine, in Rebora, Sbarbaro, Montale e Ungaretti sono presenti immagini di fiamme e roghi che devastano il paesaggio, coinvolgendo nella distruzione dello spazio fisico anche l’anima del poeta.
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1
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CAMINI, FOCOLARI, LAMPADE, CANDELE
Nel sesto libro dei Fasti, Ovidio racconta l’origine del culto di Vesta, custode della pace e della concordia familiare; vergine e pura come la fiamma, la dea arriva a coincidere col fuoco stesso («E tu per Vesta non intendere altro che la viva fiamma»1), e protegge il focolare domestico: Il focolare è detto così dal fuoco, e perché riscalda (fovet) ogni cosa; in passato esso era situato all’ingresso della casa. Penso che da qui derivi anche la parola vestibolo; e da qui l’usanza di invocare per prima Vesta, che si trova nell’entrata. Un tempo s’usava sedere insieme davanti al focolare su lunghi scranni, e si credeva che gli dei fossero presenti al pasto2.
Come è rotonda la terra, «situata nello spazio centrale dell’universo»3, così è rotondo il tempio di Vesta, ugualmente posto al centro del mondo. Questa prerogativa, annota Mircea Eliade, appartiene ad ogni abitazione e ad ogni focolare: […] la casa è un microcosmo. La soglia separa i due spazi, il focolare è assimilato al centro del mondo. […] Ogni abitazione […] è trasformata in un «centro», per cui tutte le case – come tutti i templi, i palazzi, le città – sono situate in un solo e medesimo punto comune, il Centro dell’Universo. Si tratta, è chiaro, di uno spazio trascendente, con struttura completamente diversa da quella dello spazio profano, compatibile con la molteplicità, perfino con l’infinità, dei «centri»4.
1 P. Ovidio Nasone, I Fasti, introduzione e traduzione di L. Canali, note di M. Fucecchi, testo latino a fronte, Milano, BUR, 1998, p. 465 (VI, 291). 2 Ivi, p. 467 (VI, 301-306). 3 Ivi, p. 463 (VI, 273). 4 M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, trad. it., a cura di P. Angelini, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. 344.
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SUL FUOCO
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Intorno al «centro» costituito dal focolare, dal caminetto, o anche dal fuoco di lampade, si raccoglie la vita della famiglia; non molto diversamente da quanto, secondo Barenghi, è avvenuto per i «sagaci ominidi»5 che, avendo imparato a controllare il fuoco per scopi pratici, scoprirono il piacere di impiegare davanti alla fiamma «frequenti surplus di energie mentali»6: a pasto ultimato, intorno al fuoco sul quale era stato cotto il cibo e che forniva luce, calore e sicurezza, qualcuno, profittando di quella non usuale condizione di benessere psicofisico, cominciò a immaginare e a rappresentarsi cose nuove. Cose, in maniera nuova: avvenimenti, azioni, condizioni mentali ed emotive, stati del mondo ispirati bensì dall’esperienza empirica, ma non vincolati ad essa; elaborazioni di fatti accaduti e di stati d’animo già attraversati, o sfiorati, o anche solo possibili; assetti del reale non esperiti ancora7.
In un soggiorno borghese o in una cucina campagnola, vagando in strade cittadine o in luoghi desolati, il poeta di inizio Novecento declina in vari modi le immagini legate al focolare: davanti al fuoco si lascia andare a bilanci esistenziali o a incursioni tra le diverse possibilità di vita che gli si aprono davanti.
1.1 «Felicità di focolare»: il poeta davanti al fuoco (Govoni Palazzeschi Moretti Gozzano) È possibile individuare, in alcuni «poeti diversi» compresi «sotto la comune etichetta di “crepuscolarismo”»8, l’immagine ricorrente del focolare visto come emblema di una realtà casalinga, di un nido prosaico e quotidiano, riparo tranquillo per l’io lirico che fugge la tentazione di – o si sente inadeguato a – una vita avventurosa e proiettata all’esterno. Nelle poesie di Armonia in grigio et in silenzio (1903) di Corrado Govoni9 il fuoco e il focolare della cucina sono protagonisti indiscussi degli interni familiari; anzi, col fuoco “si fa casa” anche fuori casa: 5 M. Barenghi, Che cosa possiamo fare con il fuoco? Un’ipotesi sulle origini della letteratura, in Id., Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti, Macerata, Quodlibet, 2013, p. 23. 6 Ibid. 7 Ibid. 8 V. Coletti, Fonti e precedenti del linguaggio poetico di Marino Moretti, in «Studi Novecenteschi», vol. 2, n. 5, 1973, p. 207. 9 C. Govoni, Armonia in grigio et in silenzio. Poema, con postfazione di L. Barile, Milano, Scheiwiller, 1989 (in seguito AGS). Le poesie tratte da questa edizione saranno seguite da indicazione di pagine e versi, senza rinvio in nota.
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CAMINI, FOCOLARI, LAMPADE, CANDELE
In una barca piena di legumi mentre le case sbocciano dei bianchi lumi, una donna con una guasta ventola incita il fuoco sotto la sua vecchia pentola (Canto fermo – XVIII, AGS p. 44, vv. 13-16).
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Sembra che basti un fuoco acceso – meglio se con un micio accanto – per creare un’atmosfera calda e protettiva di «armonia famigliare» (Rosario di conventi – XXIII, Sinfonia di grigio, AGS p. 136, v. 13), in cui non c’è spazio per alcun elemento inquietante, venga da fuori o da un altro tempo: Le campane imbastiscono il corredo per il freddo Natale. L’anguilla tradizionale sfrigola ne lo spiedo. Il micio dorme sul leggiadro tappeto del colore de le mandorle acerbe; la luce d’un tizzo si riverbera ne la cornice dorata d’un quadro (La filotea de le campane – II, Vigilia di Natale, AGS p. 57, vv. 9-16).
Accanto al gatto, fa la sua comparsa un grillo: Gatti bianchi, che ne l’inverno affezionano la candida neve e il focolare ove l’eterno grillo racconta la sua storia breve (Rosario di conventi – VI, I gatti bianchi, AGS p. 100, vv. 25-28).
Lo spazio interno è protetto da eventuali intrusioni: mentre la cucina è protagonista della cena «de la frugale famigliuola» (La Certosa – V, Estate di San Martino, AGS p. 167, v. 16), la finestra resta «ben chiusa»: La lampada a petroglio sotto il paralume si schiarisce: la teglia fragrante, nel fornello accresce il suo gorgoglio. Il micio bianco fa le fusa lisciandovi. Sul tavolo avvizzisce un mazzo d’aster in un vasello. La finestra è ben chiusa (vv. 17- 24).
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SUL FUOCO
Fuori, nell’«estate dei morti» (p. 168, v. 26), dominano noia e tristezza; dentro, al sicuro, «il primo fuoco nel camino / crepita» (vv. 29-30), fugando possibili inquietudini e nostalgie. A Govoni – nota Laura Barile – «è estraneo […] il “male di vivere” primonovecentesco nei suoi risvolti metafisici, e insieme, la consapevolezza della morte, presente invece nella poesia del “fanciullo” Corazzini e nei modi dandistici di Gozzano»10. Davanti al fuoco, così, si colgono rumori11 e odori di una realtà quotidiana, di dati e situazioni che creano «un misto, spesso delizioso, di astuzia e candore, raffinatezza e immediatezza pre-culturale»12. Un’altra ambientazione casalinga si trova nei Fuochi d’artifizio13 (1905), in cui Govoni descrive la sosta attorno al focolare dopo la cena familiare: È finita la cena, e s’è già sparecchiato. […] Ed ora si sta tutti intorno al fuoco sull’arola come in un almanacco fiammingo, nelle sedie impagliate ad ascoltare il vento che borbotta per l’affumicata gola del camino ch’è l’orco casalingo pensando a la burrasca che farà nel mare (L’ora di notte, FA p. 110, vv. 1, 7-12).
Govoni appronta quasi una versione domestica della scena lucreziana che ha ispirato a Blumenberg il suo Naufragio con spettatore14: al caldo del focolare, più che contemplare una burrasca la si evoca soltanto, pensando ai pericoli che restano opportunamente al di fuori dell’orizzonte casalingo, «terreno saldo e inattaccabile dal quale guardare il mondo»15. Attorno all’arola tutto è riletto in chiave antisublime: sia il riferimento all’arte (l’«almanacco fiammingo») che quello alla fiaba (l’«orco») sono riassorbiti nell’atmosfera quotidiana della con10
L. Barile, Postfazione, AGS, p. 215. Govoni riproduce i suoni ascoltati mediante «grafie fonetiche regionali, di naïveté provocatoria», come nel caso, appena citato, di «petroglio» in rima con «gorgoglio»: P.V. Mengaldo, Corrado Govoni, in Id. (a cura di), Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1990, p. 5. 12 Ibid. 13 C. Govoni, Fuochi d’artifizio, a cura di F. Targhetta, Quodlibet Note azzurre, 2019. Dei componimenti tratti da questa raccolta (in seguito citata come FA) si daranno indicazioni di pagine e versi, senza rinvio in nota. 14 Cfr. H. Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, trad. it., Bologna, il Mulino, 1985. 15 Ivi, p. 51. 11
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CAMINI, FOCOLARI, LAMPADE, CANDELE
versazione serale, per cui neanche il vento fischia o spaventa ma, più prosaicamente, «borbotta». Come in Armonia in grigio et in silenzio, i grilli compaiono anche negli Aborti (1907)16 govoniani come ospiti del focolare. A differenza di quanto visto nella silloge del 1903, i grilli degli Aborti sono calati in atmosfere connotate da tristezza e malinconia. D’altronde già in apertura di libro, con la lirica dedicata Alla Musa, assistiamo ad un’esplicita dichiarazione di poetica: la Musa, povera «come una scalza mendicante» (AB p. 9, v. 48), è invitata a dare in elemosina un po’ di «allegria vagabonda» (p. 10, v. 89) a chi è ancora più misero di lei, sostando «davanti alle grigie case dei poveri / dove sono i vecchi impotenti / tremanti intorno a un debole fuoco» (p. 10, vv. 81-83). Il focolare, col fuoco debole e prossimo a spegnersi per mancanza di legna, non crea più atmosfere calde e rassicuranti: ecco, ad esempio, «il grillo sconsolato / che si lamenta nel suo focolare» (Il canto del gallo, AB p. 38, vv. 3-4), ascoltato da un uomo che ha «faticato / e pianto tutto il giorno» (vv. 1-2); «il trillare del grillo nel deserto focolare» (Le voci tristi, AB p. 172, v. 14), associato a voci che suscitano malinconia, tra «il suono dell’organo di Barberia» (v. 7) e altri tipici ingredienti della poetica crepuscolare, quali «il piangere monotono delle campane» (v. 8) o «la voce dei fanciulli girovaghi che cantano per via» (v. 9); fino ad arrivare a La notte, in cui compare Una povera vedova che ha pianto tutto il giorno, a cui si sono fatte varie proposte di prostituzione che ascolta insonne lamentarsi il grillo nel deserto focolare (AB p. 237, vv. 37-40).
Dopo la stagione rappresentata da Armonia in grigio et in silenzio il focolare resta, dunque, «deserto», con un fuoco spento o in procinto di spegnersi, come già nei Fuochi d’artifizio: Grigio uniforme della mia vita! Pare un qualche povero salone provinciale rischiarato da un troppo grande focolare, in un triste crepuscolo domenicale.
16 C. Govoni, Gli aborti. Le poesie d’Arlecchino. I cenci dell’anima, Ferrara, Tipografia Taddei-Soati, 1907 (citata in seguito con la sigla AB). Tutte le poesie degli Aborti sono tratte da questa edizione, per cui si daranno i riferimenti di pagina e versi senza rinvio in nota.
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SUL FUOCO
Chi scalda quella fiamma stanca di bruciare di nascosto? […] (Studio di nudo, FA p. 57, vv. 1-6).
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L’esistenza del poeta è simile ad una stanza spoglia e deserta, troppo vuota perché non vi si provi solitudine e senso di spaesamento: il focolare, pur eccessivamente grande, è inadatto a riscaldare; non c’è chi possa alimentare le fiamme, ed il «grigio uniforme» «si è rivelato una minaccia piuttosto che un rifugio»17, così come risultano minacciose «le ombre [che] giuocano ai dadi sopra il pavimento» (Studio di nudo, v. 12). Negli Aborti nemmeno le lampade accese nel tramonto riescono a suggerire tranquillità e protezione, e il crepuscolo può essere un’ora inquietante: È l’ora in cui i pazzi dentro il manicomio cantano. È l’ora in cui le lampade dentro le case accendono i loro occhi gialli. È l’ora in cui gli specchi chiudono gli occhi lucidi (Crepuscolo, AB p. 151, vv. 8-10).
Un tono pacato e rasserenante sembra invece trovarsi in Sera: E tutti quei tegoli scintillanti come scaglie d’oro d’un pesce e tutti quei comignoli che fumano placidamente, […] È l’ora in cui nelle case le lampade accendono il loro fuoco mite casalinghe vestali dal velo di tulle (AB, pp. 190-191, vv. 6-9, 18-21).
Nel variopinto gioco di immagini è possibile cogliere «una totale estroversione, uno spostamento dell’attenzione dall’io alle cose»18 che catturano il lettore: come le tegole sono scaglie dorate, così le lampade si vestono di tulle, trasformando in festose ballerine le figure delle antiche sacerdotesse. Il fuoco è fuoco di Vesta, che sparge «dolcezza […] nelle stanze melanconiche» (p. 191, vv. 22-23), che differenzia lo spazio della casa dallo spazio esterno. Eppure, se in Armonia in grigio et in silenzio le finestre restano ben chiuse (come visto in Estate di San Martino) e il confine inviolato, non così negli Aborti: 17 F. Targhetta, L’esplosione e l’esasperazione: i «Fuochi d’artifizio» di Corrado Govoni, in «Studi Novecenteschi», vol. 36, n. 78, 2009, p. 490. 18 F. Curi, Corrado Govoni, Milano, Mursia, 1964, p. 45.
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CAMINI, FOCOLARI, LAMPADE, CANDELE
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E l’anima è leggera come una pallida rosa che si porta all’occhiello alla domenica. Ma per poco. Ché l’impressione di pienezza e di felicità è distrutta dall’ombra tetra che la luce non ha potuto sconfinare (Sera, AB p. 191, vv. 35-41).
Accade il contrario di quanto ci aspetteremmo: non è la luce a proiettarsi dall’interno della casa all’esterno, ma l’ombra tetra di fuori a invadere «l’anima […] leggera», distruggendo la passeggera sensazione di benessere. Ancora più esplicita l’aggressione che lo spazio interno subisce nei Poemi di Palazzeschi19 (1909): qui il lume intorno al quale è riunita a cenare una famiglia di sole donne non fa abbastanza luce, e tutte le fanciulle assumono tratti spettrali. Vorresti, Giuditta, provare ad alzare quel lume, mi sembra sia gialla la luce, ti pare? […] Tu tieni, Celeste, le mani così sulla tavola insieme, mi sembran di cera, mi sembran le dita sì lunghe… Bianca, tu tieni la testa poggiata, perché? Vedessi che effetto che fa! Sei bianca, e sembrano gli occhi Socchiusi a metà, sei stanca mia piccola forse? (Corinna Spiga, p. 116, vv. 9-11, 14-23).
Corinna, la protagonista dei versi, in «un lungo discorso diretto, teatrale»20, parla a sei ragazze le cui mani e i cui visi, pallidi e cerei, richiamano l’eccessivo candore della tovaglia usata per la cena («quel bianco stasera m’abbaglia, / non sembra un lenzuolo?»,
19 Tutte le poesie di Palazzeschi sono tratte da A. Palazzeschi, Tutte le poesie, a cura e con un saggio introduttivo di A. Dei, Milano, Mondadori, 2002, per cui da ora in avanti se ne darà indicazione di pagina e versi, senza rinvio in nota. 20 A Dei, Note al testo, in A. Palazzeschi, Poemi, a cura di A. Dei, Parma, Edizioni Zara, 1996, p. XXXIV.
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p. 116, vv. 3-4), e sembrano quasi assumere un carattere mortuario, accentuato dal lume che dà poca luce, quasi la cena fosse una veglia funebre. Secondo Bachelard «la lampada è lo spirito che veglia sulla sua stanza, su ogni stanza. È il centro di una dimora, di ogni dimora»21. Se la lampada non veglia, o non veglia abbastanza, la stanza non è sicura. E dunque cresce «la paura dell’irruzione dall’esterno»22, che culmina nel grido su cui si chiude la poesia: Romore di passi, strisciare, posare qualcosa, che è mai, chi mormora giù, che luci son quelle, chi batte all’uscio, chi entra? Correte, chiudetegli in faccia le porte, venite, venite, venite mie figlie, mie povere figlie, stringetemi, stringetemi forte! Corinna! Corinna! Corinna! (Corinna Spiga, p. 117, vv. 31-40).
Al contrario, nel Giardino dei frutti (1916)23 di Marino Moretti lo spazio domestico è protetto da invasioni, e anche le ombre proiettate dalle fiamme sulle pareti non hanno nulla di tetro: Felicità di focolare, accordo mite fra la mia lampada e il camino, dolcezza della serva e del bambino che siedon tutt’e due sopra una sedia, malinconia d’un po’ solo d’inedia di chi guarda nel fuoco o nel ricordo; lingueggiar dolce e mite della fiamma che si specchia su i volti e le pareti, […] (Neve di fine d’anno, pp. 327-328, vv. 19-26).
21
G. Bachelard, Prefazione, in Id., La fiamma di una candela, trad. it., Milano, SE, 2005, p. 23. 22 A Dei, Note al testo, cit., p. XXXV. È stato rilevato che le «figlie» potrebbero essere delle prostitute, la casa un bordello, Corinna la tenutaria: cfr. ivi, p. XXXIV. 23 Tutte le poesie di Moretti sono citate da M. Moretti, Tutte le poesie, Introduzione di G. Pampaloni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1966, per cui si daranno indicazioni di pagina e versi, senza rimando in nota.
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La serva e il bambino non sono impegnati in esercizi di scrittura24: si trovano in un interno umile (dove l’arredo è costituito da sedie), probabilmente una cucina, da cui guardano alla neve di fuori, ristorati dal calore del focolare. «Guarda[re] nel fuoco» innesca la «rêverie», come annota Bachelard:
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Il focolare […] rappresentò senza dubbio il primo soggetto della rêverie dell’uomo. […] Senza dubbio il fuoco riscalda e conforta. Ma si prende coscienza di questo conforto solo dopo una lunga contemplazione; il fuoco infonde benessere a chi si siede con i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani. Questo atteggiamento viene da lontano. Il bambino vicino al fuoco lo assume naturalmente25.
Ed ecco il bambino di Moretti, risorto dal ricordo del poeta che, osservando la fiamma, «rammenta» «un’altra vita» (p. 327, vv. 6, 5) e gioca a sovrapporre passato e presente. Si tratta di una rêverie in tono minore, caratterizzata da una rinuncia al Sublime, […] un prender le distanze sia da quel Sublime che muoveva dalla eccitazione verbale nella fiducia in analogiche epifanie, sia quello che muoveva dalla rivelazione conoscitiva che si connette alle sollecitazioni sentimentali degli oggetti accumulati e aggrumati26.
Davanti al fuoco sorgono immagini forse banali e assolutamente prive di eccezionalità, ma familiari e tranquillizzanti. Nel saggio sul Perturbante Freud riferisce che «Heimlich» (da Heim, casa) significa, tra le varie accezioni, fidato, intimo, che rammenta il focolare; il grato senso di quieto appagamento ecc., senso di agio, di tranquillità e di sicura protezione, come quello che suscita la casa confortevole, raccolta nel suo recinto27;
24 Come accade in Gozzano: «Buon Dio, e puro conserva / questo mio stile che pare / lo stile d’uno scolare / corretto un po’ da una serva» (G. Gozzano, L’altro, in Id., Tutte le poesie, a cura di A. Rocca, con un saggio di M. Guglielminetti, Milano, Mondadori, 2016, p. 250, vv. 13-16. Tutti i versi di Gozzano sono tratti da questa edizione, per cui se ne indicheranno i numeri di pagina e di versi, senza rinvio in nota). 25 G. Bachelard, La psicoanalisi del fuoco, in Id., L’intuizione dell’istante – La psicoanalisi del fuoco, trad. it., con un’introduzione di J. Lescure, Bari, Edizioni Dedalo, 2010, p. 124. 26 L. Anceschi, Nascita di una idea di poesia, in G. Calisesi (a cura di), Marino Moretti. Atti del Convegno di studio (Cesenatico 1975), Milano, il Saggiatore, 1977, p. 143. 27 S. Freud, Il perturbante, trad. it., in Id., Opere, edizione diretta da C.L. Musatti, 12 voll., vol 9 «L’io e l’es» e altri scritti, Torino, Paolo Boringhieri, 1977, p. 84.
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e inoltre «sottratto a occhi esterni, celato, segreto»28. L’aggettivo «Unheimlich», il suo contrario, indica invece ciò che è «disagevole, che suscita trepidante orrore […] come un fantasma»29. Nei versi di Moretti troviamo sia il focolare e i segreti, che i fantasmi; le due sfere, quella del familiare, del guscio protettivo, e quella dell’inquietante, appaiono insieme:
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dondolio di fantasmi e di segreti ch’empion le stanze di malinconia, dondolio delle spalle d’una zia, dondolio della testa d’una mamma (Neve di fine d’anno, p. 328, vv. 27-30).
Secondo Freud è proprio in casa, in situazioni intime e private, che più spesso si manifesta il perturbante: fantasmi e segreti, dunque elementi di inquietudine, che vengono a galla turbando la pace domestica. Ma essi sono ricondotti da Moretti a ricordi affettuosi, secondo un percorso inverso a quello da cui nasce l’Unheimliche: se questo consiste nel rivivere una sensazione provata nel passato e poi rimossa (e perciò estranea alla coscienza), e quindi nel sentirsi all’improvviso spaesati in situazioni apparentemente consuete o familiari, Moretti riporta, invece, il ricordo di ciò che potrebbe turbare (il nascosto, l’incorporeo, il desiderio) alle figure rassicuranti di madre e zia, «piccole introverse epifanie laiche»30, che dondolano in un abbraccio il bambino, Vestali di un tempio ridotto alle dimensioni di una cucina, fatto di protezione e tranquillità. Dall’infanzia non riemergono traumi: piuttosto, è il presente ad essere segnato dai lutti della guerra, dall’«orror delle armi e delle offese» (p. 328, v. 40), mentre il tempo e lo spazio dominati dalla fiamma «dolce e mite» restano a rassicurare e confortare l’io lirico. Prima di approdare, con Neve di fine d’anno, al Giardino dei frutti del 1916, l’immagine del focolare attraversa tutte le precedenti raccolte morettiane, a partire da Fraternità (1905). Qui è già delineato l’orizzonte ristretto prediletto dall’io poetante: la cucina, dove avviene il dialogo tra «la piccola serva» e «la cuccuma nana» che «è sola sul fuoco» (La cuccuma nana, p. 481, vv. 9, 4, 3), o in cui la madre, vista – più che immaginata – di nuovo giovane, prepara la cena: 28 29 30
Ivi, p. 87. Ivi, p. 86. L. Anceschi, Nascita di una idea di poesia, cit., p. 147.
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vidi la bella mamma giovinetta serena preparare la cena breve e la poca fiamma (Nostro lutto, p. 514, vv. 25-28).
Come in Neve di fine d’anno, domina qui il nesso tra le fiamme e il recupero dell’infanzia: il focolare è il centro di un mondo sereno, goduto durante la fanciullezza e ricercato anche dal Moretti adulto, baluardo e difesa da quel mondo esterno che ha provocato il lutto cui si allude nel titolo dei versi ora citati (il suicidio di Olindo, fratello di Marino). Il poeta conserva dunque perennemente nel cuore la nostalgia della cucina e di una madre ‘angelo del focolare’: in Poesie scritte col lapis (1910), infatti, il vagabondaggio domenicale, con la sua tipica tristezza, si identifica con una vana ricerca di un ubi consistam modesto e accogliente, un altro focolare che risarcisca della perdita del focolare primo, come Moretti confessa rivolgendosi ad un cane randagio. Nessuno sa ch’io mi lagno e vago senza perché, nessuno forse fuorché tu, mio raccolto compagno. Tu che hai sul ciglio due buone lacrime ancor da seccare, tu che pur cerchi un padrone come io cerco un focolare; (Cane randagio, p. 55, vv. 13-20).
Ridimensionare l’orizzonte dei desideri, e sancire ancora una volta lo «stretto rapporto fra infanzia e dimensione del quotidiano»31, diventa l’esercizio a cui il poeta invita il tu destinatario di Teda (Poesie di tutti i giorni, 1911): Perché il tuo sguardo veda salir su le pareti penombre famigliari e legga nei miei chiari occhi gli oblii segreti, ecco la vecchia teda (p. 121, vv. 1-6).
31
G. Zaccaria, Invito alla lettura di Marino Moretti, Milano, Mursia, 1981, p. 29.
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La teda, anticamente fiaccola simbolo dei riti nuziali, è qui una lampada a «tre becchi» (v. 12): grazie ad essa vengono suscitate ombre che, ancora una volta, anziché inquietare creano un ambiente familiare. La donna a cui Moretti si rivolge può leggergli negli occhi «oblii segreti», immagini venute a galla non in virtù della luce diretta, quanto della penombra propiziata dalla lampada. Eredità trasmessa dai «nostri vecchi» (v. 7), che la «accendevano a sera» (v. 8) nel silenzio, «ammira[ndo] il chiarore / fumoso dei tre becchi» (vv. 11-12), la teda, come il focolare, costituisce un invito a non cercare altro: non «lampada o paralume» (v. 17), non fate «che si fanno belle / de’ loro veli di tulle» (vv. 23-24), non «sfarzo / dei lampadari antichi» (p. 122, vv. 25-26), che possono suscitare l’ansia di evadere verso un altrove. Meglio, suggerisce Moretti, restare nel piccolo perimetro disegnato dal cerchio di luce: ma se calma tu sieda alla tavola, ammira ogni piccola spira che sale dal chiarore dei tre becchi, dal cuore antico della teda; e pensa che forse ogni desiderio importuno che piacque ai nostri sogni se ne va con quel fumo e si disperde zitto zitto lungo il soffitto (Teda, p. 122, vv. 31-42).
I desideri sono «importuni» e la teda può disperderli, consumandoli in fumo32. Come il Gozzano della Via del rifugio (1907), che volutamente e scientemente rifiuta di stendere il braccio a raccogliere 32 Anche se Le occasioni di Montale (1939) non rientrano nell’arco cronologico qui delimitato, è inevitabile pensare alla «spirale del fumo» di Nuove stanze (in E. Montale, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1990, p. 184, v. 4: tutte le poesie di Montale saranno citate da questa edizione, e se ne darà indicazione di pagina e versi senza rinvio in nota), che salendo «al soffitto» (v. 3) crea l’illusione di una città ideale. Il fumo (proveniente qui non da una lampada, come in Moretti, ma dagli «ultimi fili di tabacco», v. 1, fumati da Clizia), più che essere simbolo dei desideri che si disperdono, è «incenso» (v. 14) in cui si condensa il sogno di un luogo perfetto, da contrapporre alla «follia di morte» (v. 20) che domina all’esterno e che determina la fine dell’incantesimo («La morgana che in cielo liberava / torri e ponti è sparita / al primo soffio; s’apre la finestra / non vista e il fumo s’agita», vv. 9-12).
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il quadrifoglio adocchiato33, così Moretti insegna alla donna che ha accanto a preferire la calma al desiderio: una sorta di apátheia spicciola, un invito alla contemplazione serena, un’identificazione con la vita dei propri vecchi, che esclude ogni slancio verso il futuro. L’antica fiaccola che accompagnava al matrimonio è qui simbolo della cerimonia funebre dei desideri congedati in silenzio, senza enfasi (l’epanalessi «zitto / zitto» ci dà la sensazione del lessico quotidiano e infantile, della dimensione scelta dall’io lirico). Eppure, i desideri «importuni» sembrano fare capolino appena lo sguardo si allarga, dal proprio focolare, ad altre luci: Ardon gli astri nell’ombra e le campane si rispondono querule e sonore; così una voce piange in fondo al cuore per desiderio di cose lontane (Notte di Natale, p. 159, vv. 1-4).
Nella «festa / notturna che di buon incenso tepe» (vv. 5-6), piano piano i desideri prendono forma, e il soggetto può esprimerli; ma, ancora una volta, il sogno di «cose lontane» è esorcizzato: l’esotico viene conquistato in un «paesaggio / di Terrasanta coi laghi di vetro, / le pie casette col lumino dietro / e la stella che in alto fa vïaggio» (vv. 9-12). La luce degli astri accende un desiderio che viene deviato da un oggetto lontano nello spazio su un oggetto lontano nel passato: la casetta illuminata, le finestre (che «sono tanti lumi», v. 18) dietro cui si immagina un focolare (magari col bambino e la serva che contemplano le fiamme); finché gli astri stessi diventano, nel ricordo, «stelle / di talco ardenti come ceri» (p. 160, vv. 26-27): sono gli oggetti, insieme ai «giocattoli» nascosti da «una mano frettolosa / e occulta» (vv. 21, 22-23), delle feste di Natale della propria infanzia, nella cui nostalgia si «consum[a]» il «dolce cuore» (v. 19). Se ritorniamo al Giardino dei frutti, da cui è iniziato il discorso su Moretti, vi troviamo una vera apologia della cucina, condotta nei toni dimessi di «una poesia che tende al parlato»34, in cui si insinua una vena ironica (e la consapevolezza di trasgredire ogni cliché del dialogo paradisiaco madre-figlio); una poesia «di cui, alla fine, si ritrovano con
33 «La vita? Un gioco affatto / degno di vituperio, / se si mantenga intatto / un qualche desiderio. // Un desiderio? Sto / supino nel trifoglio / e vedo un quatrifoglio / che non raccoglierò» (La via del rifugio, p. 10, vv. 165-172). 34 L. Anceschi, Nascita di una idea di poesia, cit., p. 141.
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malinconia, tra i pezzetti minuti, oggetti naturali e quotidiani»35. Ecco, così, l’«acquaio» e il «fornello», i «tegami smaltati bianchi e blu» di In cucina (pp. 281-82, vv. 3-4), dove compare una madre intenta a tritare cipolle, cogliere pomodori, insomma «fare anche la cuoca» (v. 30). La «fiamma [che] si fa sempre più roca» (vv. 25-26) fa da sottofondo al dialogo tra la mamma e il poeta, che le prende le mani e la esorta ad accontentarsi del chiuso ma protettivo orizzonte domestico:
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Triste, mammina, triste sapere troppe cose e cercar fra l’ortica o fra le vuote ariste rose e foglie di rose; dolce invece sostare in questi vaghi odori guardando il focolare e i fumi di vapori che con labile volo escono dal paiuolo (In cucina, p. 282, vv. 38-48).
È stato notato che L’affettuoso rapporto con la madre muove anche […] una sua parodia di D’Annunzio, disegnando il quadro di un possibile poema antiparadisiaco. Il colloquio con la madre non avviene infatti nel giardino chiuso, ma “fra i tegami” […]36.
Al profumo delle rose, dichiaratamente rifiutate37, si sostituisce l’odore della «carne cotta in forno» (v. 33) rimasto sulle mani della donna. L’ambientazione è dunque volutamente prosaica, ma «la presenza della parodia non distrugge certamente l’autonomo sogno di candore del poeta Moretti»38. Dal giardino, simbolo di una poesia retoricamente sostenuta, e sospettata di falsità, si passa al focolare, che per un verso è simbolo di «questa sorta di autoumiliazione, di
35
Ibid. F. Bandini, Il trobar leu di Marino Moretti, in G. Calisesi (a cura di), Marino Moretti, cit., p. 239. 37 Mentre Gozzano dichiara di amare solo le rose non colte, «le cose / che potevano essere e non sono / state» (Cocotte, p. 126, vv. 69-71), Moretti, molto più prosaicamente, devia il proprio amore dal profumo di «rose e foglie di rose» ai «vaghi odori» della cucina. 38 F. Bandini, Il trobar leu di Marino Moretti, cit., p. 239. 36
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autocostrizione, di autolimitazione al grigiore costante e alla noia del quotidiano, alla ripetitività del quotidiano»39; per un altro verso può compensarla, regalando almeno la dolcezza della rêverie davanti alla fiamma, che riporta al tempo edenico e perduto dell’infanzia, alla comunione totale con la madre, «figura […] dominante nell’universo psichico e fantastico dell’autore»40. La risposta della madre è affidata a due componimenti: ella dichiara al figlio di amare gli oggetti41 tra i quali egli l’ha invitata a rimanere (Mia madre risponde-I, pp. 283-84); poi, rimasta sola, si rivolge alla cucina e vive in prima persona la regressione all’infanzia42 che attraverso di lei cerca il poeta. (Tace, sorride come una bambina. […] ) O mia cucina, io vorrei pur dirti quanto t’amo, quanto le cose tue mi paion belle; ma, poiché suona l’angelus, preghiamo. (Ed ella prega come una bambina finché il rettangolo brulichi di stelle). (Mia madre risponde – II, p. 296, vv. 8, 21-27).
Simile all’ambientazione di Neve di fine d’anno è quella dei versi gozzaniani di In casa del sopravvissuto: anche qui il poeta è davanti al fuoco, mentre fuori nevica. Nel caminetto crepita la bragia e l’anima del reduce s’adagia nella bianca tristezza dei ricordi. Reduce dall’Amore e dalla Morte gli hanno mentito le due cose belle! (In casa del sopravvissuto – I, p. 146, vv, 10-14). 39 G. Bàrberi Squarotti, Il «grado zero» di Moretti, in G. Calisesi (a cura di), Marino Moretti, cit., p. 268. 40 M. Guglielminetti, Da Moretti a Gozzano, e viceversa, in G. Calisesi (a cura di), Marino Moretti, cit., p. 178. 41 Oggetti che nel Sogno di Pasquetta – Intermezzo di voci prenderanno direttamente parola: è la pentola stessa, sul fuoco, a recitare un suo Strambotto, seguito da una Romanza della padella, cui fanno da controcanto le voci di tegami vari. 42 Spesso, nelle poesie di Moretti, la madre è rivista ragazza; in Mia madre risponde, invece, la donna riprende, agli occhi del figlio, atteggiamenti e pose infantili.
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Al poeta che osserva le fiamme si avvicina la madre: i protagonisti di questa poesia anticipano quelli del Giardino dei frutti; eppure colpisce, nei versi dei Colloqui (1911), l’uso di tante maiuscole, che saranno accuratamente evitate da Moretti. In luogo della morettiana strofa di settenari, scelta, ad esempio, in In cucina, è qui adoperato l’endecasillabo, funzionale a un discorso più ricercato: la «Mamma» è con il figlio, «custode e sacerdotessa della sua non vita»43, davanti al caminetto di un salotto, non di una cucina, e non verrà mai rappresentata ai fornelli. I ricordi, in Gozzano, non hanno il sapore di un passato sereno: al contrario sono tristi, gelidi come la neve di cui assumono il colore. L’io lirico torna al focolare solo perché non ha vinto la sua battaglia col mondo esterno: è un «reduce» che non ha trovato il posto che pur desiderava nell’universo sublime dell’Amore, o, in mancanza di questo, della Morte (leopardianamente, «le due cose belle»). Secondo Sanguineti, Gozzano «si dipinge come il convertito […], l’esule volontario da quel reame affascinante e corrotto che è la letteratura, […] nella accezione dannunziana del vocabolo»44. Infatti, mentre «ravviva dalla brace / il guizzo allegro della buona fiamma» (In casa del sopravvissuto – II, p. 147, vv. 33-34), dichiara i suoi buoni propositi alla madre: «Penso, mammina, che avrò tosto venticinqu’anni! Invecchio! E ancora mi sollazzo coi versi! È tempo d’essere il ragazzo più serio, che vagheggiano i parenti. […] Sia la mia vita piccola e borghese: c’è in me la stoffa del borghese onesto…» (p. 147, vv. 45-48, 53-54).
La madre è la buona, affettuosa madre senza età di un tipico interno di concreta e solida borghesia […] ma ridotta (si noti l’appellativo familiare, infantile) alle dimensioni della comprensiva confidente del figlio, della custode del focolare, dell’annuente protettrice della conversione borghese del figlio45.
43
M. Paino, Signore e signorine di Guido Gozzano, Pisa, Edizioni Ets, 2012, p. 209. E. Sanguineti, Da D’Annunzio a Gozzano, in Id., Tra Liberty e Crepuscolarismo, Milano, Mursia, 1961, p. 72. 45 G. Bàrberi Squarotti, Il poeta fra le rovine, in Id., Poesia e ideologia borghese, Napoli, Liguori Editore, 1976, p. 91. 44
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Ma a questo quadro di intimità domestica, di pace del focolare, al desiderio «borghese» «di una serena e ripetibile (e ancora ripetibile, all’infinito) quotidianità»46, manca una completa adesione da parte del poeta che, contemplato il proprio ritratto di ventenne, e presene le distanze con la dichiarazione d’intenti sopra riportata, lo «ricolloca sul piano- / forte» (vv. 55-56) e intanto «sogghigna un po’» (v. 55): La rinuncia alla poesia, apparentemente sostenuta a chiusura di componimento da quell’abbandono sconsolato dello stesso simbolo figurativo che ne era stato a vario titolo il corrispettivo («Ricolloca sul piano- / forte il ritratto») viene tuttavia a un tempo smentita, con modalità assolutamente gozzaniane, dal sogghigno appena accennato del sopravvissuto, che ribalta implicitamente il senso stesso del buon proposito47.
1.2 «Scoprirò la cenere del gioco?»: fine del fuoco e della vita (Corazzini Gozzano Moretti) Nelle poesie di Sergio Corazzini il fuoco della casa, data la mancanza di camini e focolari di cucina48, è rappresentato dal lume acceso, e si sposa, nel poemetto in prosa del 1905 Soliloquio delle cose (pp. 167169), al «tema della prigione», «dello spazio che incarcera e dell’evasione impossibile e negata»49, all’insistenza sull’idea «dell’ombra, della polvere, della camera chiusa»50. «Le povere piccole cose» (p. 167), «vecchie vergini chiuse nell’ombra come nella bara» (ibid.), piangono l’assenza del loro «amico [che] non tornerà più» (ibid.) e ricordano: 46
F. Moretti, Il borghese. Tra storia e letteratura, trad. it., Torino, Einaudi, 2017, p. 28. M. Paino, Signore e signorine di Guido Gozzano, cit., pp. 99-100. Se si tralasciano i versi in romanesco, esclusi da tutte le raccolte, di Romanzo sconosciuto, in cui è rappresentata un’anziana madre che attende il ritorno della figlia, fuggita di casa per amore: «Ne lo stanzone a pianterreno, accanto / ar cammino, che manna / sprazzi de luce sull’ammattonato, / c’è ‘na vecchietta tutta freddolosa» (in S. Corazzini, Poesie, introduzione e commento di I. Landolfi, Milano, BUR, 2000, p. 237, vv. 37-40. Tutte le poesie di Corazzini sono tratte da questa edizione, per cui se ne indicheranno solo i numeri di pagina e di versi, senza rinvio in nota). E quando la figlia torna, il camino ravviva la scena d’affetto tra la ragazza e la madre: «Stanno lì strette, strette, abbracciate… / Mentre er foco tranquillo dorcemente / illumina la rocca, / pe’ filà, de Zi’ Rosa, e la mantija / bianca de Nannarella…» (p. 238, vv. 66-70). 49 G. Palli Baroni, La prigione dell’anima. L’oratio conclusa di Sergio Corazzini, in F. Livi – A. Zingone (a cura di), “Io non sono un poeta”. Sergio Corazzini (1886-1907), Atti del Convegno internazionale di studi (Roma, 11-13 marzo 1987), Roma – Nancy, Bulzoni Editore – Presses Universitaires de Nancy, 1989, p. 213. 50 Ivi, p. 214. 47 48
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Oh, egli ci voleva bene: qualche volta ci parlava a lungo, come in sogno. In sogno parlava. Avanti di dormire, accendeva un piccolo lume giallo, sospeso al muro. Forse aveva paura (p. 168).
La simbologia del fuoco innesca, dunque, come vedremo anche più avanti, fantasie luttuose51 anziché immagini di calore familiare e di celebrazione di affetti condivisi. Immagini di morte sono collegate anche da Gozzano al fuoco di lampade e camini. I versi prima citati di In casa del sopravvissuto sono l’unico esempio, nella sua produzione poetica, di interno familiare con caminetto: altre donne, al posto della madre, appaiono in diversi componimenti in associazione con camini, lumi e focolari. Ne Il responso (La via del rifugio) il poeta è con Marta, un’«amica buona» (p. 23, v. 2), in una stanza in penombra rischiarata da un lume: L’alta lucerna ingombra segnava in luce i rari pizzi dei suoi velari, ergendosi nell’ombra come un piccolo sole… Durava nella stanza l’eco d’una speranza data senza parole (p. 23, vv. 3-6).
La lampada non crea, come in Moretti52, un’atmosfera familiare: gli oggetti illuminati («fiori, carte, / volumi, sogni d’arte […] una stam51 Immagine luttuosa è anche quella di Crepuscolo ferrarese (FA p. 125), in cui Govoni associa il lume ad una «nave affondata», in virtù della visione mediata da uno specchio: «Nella bonaccia della psiche ornata / il lume sembra una nave affondata» (vv. 9-10). Lo specchio è assimilato ad acqua e morte anche nel Lamento del tisico (FA p. 132), dove un «verdastro fantasma […] galleggia / nell’acqua degli specchi» (vv. 37-39). Ancora nel ’15, in una delle Rarefazioni, Lo specchio, la superficie riflettente sarà un «acquario», una «tomba di ghiaccio trasparente» (in C. Govoni, rarefazioni e parole in libertà, a cura di M. Dillon Wanke, Milano, Scheiwiller, 1990, p. 11; la raccolta sarà citata in seguito con la sigla RPL. A questo proposito rinvio a V. di Martino, Sull’acqua.Viaggi diluvi palombari sirene e altro nella poesia italiana del primo Novecento, Napoli, Liguori Editore, 2012, in part. al cap. Acque, tempo, morte): la morte e l’acqua sono associate allo specchio, che in Crepuscolo ferrarese sembra inghiottire e far naufragare, quasi fosse una nave, la lampada. Qualche verso più avanti, il lume subisce un’altra metamorfosi, ancora concernente un’ambientazione marina: «Dentro lo specchio, tra giallastre spume / ritorna a galla il polipo del lume» (FA p. 125, vv. 21-22). Il riemergere del lume dalla illusoria profondità abissale della superficie specchiante non ha nulla di festoso: sembra anzi continuare il tono macabro, evidente nel riferimento al polipo, «animale informe e tentacolare, […] personificazione dei mostri che rappresentano abitualmente gli spiriti infernali, o l’inferno stesso» (J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri, trad. it., Milano, BUR, 2016, p. 789). 52 Oltre ai versi citati sopra, cfr. anche La preghiera della sera (p. 496), in cui Moretti affida al «il lumino» lasciato di notte accanto al bambino il compito di segnalare la presenza materna. Morta la madre, la donna che si occupa dell’orfano lo lascia al buio dopo averlo aiutato a mettersi a letto: venendo meno il lume viene meno anche la tranquillità del bambino, che nella luce individuava un residuo del perduto calore familiare.
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pa truce / del Durero, una grigia volpe danese», vv. 7-9) restano freddi ed estranei53, ed anche la comunicazione tra i due (tentata veramente o solo parodiata nella recitazione di una confessione da parte dell’io lirico?) resta una possibilità che non si realizza. E a quella donna, avvezza a me come a un fratello buono, mi parve bello dire la mia tristezza.
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Ah! Se potessi amare! Vi giuro, non ho amato ancora: il mio passato è di menzogne amare (Il responso, p. 24, vv. 29-32).
A Marta, a conclusione della lunga confessione di aridità sentimentale, viene posta una domanda: «L’amore giungerà, Marta?» (p. 26, v. 71). «La Verità chiesta alla donna […] è semplice e decisiva»54, nota Gioanola; l’«amica buona» risponde: «Forse! – Perché non v’uccidete?» (v. 78). Chi non sa amare, si uccida; infatti una vita senza amore non è vita, o è vita simile alla morte, morte-in-vita. O morire, o fare il sopravvissuto, non c’è scampo: chi è reduce dalle due «cose belle», l’amore e la morte, non può avere altro statuto che quello del morto-in-vita, avendo in comune con la morte la mancanza d’amore e con la vita la pura mancanza della morte55.
Ancora in Convito, nei Colloqui, davanti al camino tornano presagi di morte: M’è dolce cosa nel tramonto, chino sopra gli alari delle braci roche, 53 L’atmosfera di penombra rischiarata da un lume è esplicitamente associata a una presenza funerea in Della testa di morto. Acherontia Atropos (Le Farfalle) dove è protagonista la farfalla «dal corsaletto folto con impresso / in giallo d’ocra il segno spaventoso» (p. 435, vv. 12-13) del teschio umano. «Intorno al lume turbina ronzando / la cupa messaggiera funeraria» (vv. 115-116). Come a dire che la luce e il calore che attirano gli uomini attirano anche la morte. Dell’Acherontia Atropos si ricorderà Montale, in Vecchi versi, quando la stessa messaggera di morte («Era un insetto orribile dal becco / aguzzo, gli occhi avvolti come d’una / rossastra fotosfera, al dosso il teschio / umano», p. 116, vv. 32-35) perderà la vita per essersi avvicinata troppo al lume: «Poi tornò la farfalla dentro il nicchio / che chiudeva la lampada, discese / sui giornali del tavolo, scrollò / pazza aliando le carte - / e fu per sempre / con le cose che chiudono in un giro / sicuro come il giorno […] » (vv. 46-52). 54 E. Gioanola, Gozzano: la malattia e la letteratura, in Guido Gozzano. I giorni, le opere. Atti del Convegno Nazionale di Studi (Torino, 26-28 ottobre 1983), Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1985, p. 336. 55 Ibid.
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m’è dolce cosa convitar le poche donne che mi sorrisero in cammino (Convito – I, p. 88, vv. 1-4).
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Davanti al fuoco si dà il recupero del ricordo; ma le donne («non amate che mi amaste», Convito – II, p. 88, v. 17) non sono immagini vive e rassicuranti: «Tra le faville e il crepitio dei ceppi / sorgono tutte, pallida falange…» (vv. 11-12). Il fuoco del caminetto, lungi dal suscitare atmosfere tranquille e pacate, ha in Gozzano il sapore della morte: i fantasmi delle donne «trasumanate già, senza persone» (v. 5) profetizzano al poeta la venuta di un’ultima «Signora»56: – Una ti bacierà con la sua bocca, sforzando il chiuso cuore che resiste; e quell’una verrà, fratello triste, […] «Fratello triste cui mentì l’Amore, che non ti menta l’altra cosa bella!» (Convito – III, p. 89, vv. 29-31, 37-38).
Il crepitio delle braci, nota Bachelard, può anche «suggeri[re] il desiderio […] di affrettare il tempo, di compiere e superare la vita»57. In Gozzano, dunque, la rêverie davanti al camino porta spesso all’idea della morte: il poeta si sente «esiliato dall’oggi»58 e pensa alla morte come all’approdo, prossimo e necessario, di una vita disillusa nelle sue aspettative. Anche quando alla morte non si fa esplicito riferimento, resta comunque impossibile, per Gozzano, godere di un caminetto in atteggiamento sereno e rilassato. È, ad esempio, la situazione vissuta dall’«avvocato» a Villa Amarena: Sotto l’immensa cappa del camino (in me rivive l’anima d’un cuoco forse…) godevo il sibilo del fuoco; la canzone d’un grillo canterino mi diceva parole, a poco a poco, e vedevo Pinocchio, e il mio destino… (La signorina Felicita ovvero la felicità –III, p. 107, vv. 121-126).
56
Cfr. la «Signora vestita di nulla» di Alle soglie – III, p. 94, v. 29. G. Bachelard, La psicoanalisi del fuoco, cit., p. 125. 58 N. Lorenzini, «I colloqui» di Guido Gozzano, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Le Opere, vol. IV Il Novecento, t. I L’età della crisi, Torino, Einaudi, 1995, p. 159. 57
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«La cucina è lo spazio e il nucleo dell’idillio, e lì il poeta non a caso trova rifugio e ispirazione»59. Nel fuoco del camino il soggetto vede personaggi legati a mondi fantastici infantili (il grillo rimanda alle vicende dell’opera di Collodi), ma anche il proprio destino: in presenza di Felicita sarebbe possibile accantonare le cupe profezie sul futuro («Vedevo questa vita che m’avanza: / chiudevo gli occhi nei presagi grevi; / aprivo gli occhi: tu mi sorridevi, / ed ecco rifioriva la speranza!», vv. 127-130), ma quella trascorsa con la «signorina» è solo una parentesi nella vita del poeta, «l’esteta gelido, il sofista» (p. 114, v. 321) che non riesce a identificarsi nel ruolo di «buono / sentimentale giovine romantico» (p. 117, vv. 432-33). Anche privo di fiamme, il focolare suscita fantasticherie luttuose, più che suggerire l’idea del confortante riposo nel calore di quattro mura familiari: ne è un esempio il «caminetto un po’ tetro» dell’Amica di nonna Speranza (p. 118, v. 3), relegato tra le altre «buone cose di pessimo gusto» (v. 2), che ci dà la misura di una messinscena risolta in un gioco, una mascherata in cui la stessa nostalgia viene ironicamente negata. Nelle due ultime liriche del Giardino dei frutti, I quattro cantoni e Nessun ricordo, Moretti ci presenta immagini di fiamme che si spengono, simbolo della brevità o del grigiore della vita: Chiudo gli occhi. Mi par che sia la sera dell’ultimo dell’anno. Si fa il gioco ch’è come un rito. Nella cappa nera scoppietta e ciancia linguacciuto il fuoco (I quattro cantoni – I, p. 330, vv. 1-4).
Come un vecchio e bisbetico familiare, il fuoco sembra commentare in una lingua tutta sua il vano affaccendarsi delle persone che allestiscono un gioco: una sorta di profezia sull’anno nuovo, pronunciata dagli oggetti nascosti dietro quattro sedie: «un anello, una chiave, un bicchier d’acqua; / anche un pugnel di cenere» (vv. 10-11). Mentre ancora nel camino «ciancia e farfuglia a grandi lingue il fuoco» (I quattro cantoni – II, p. 330, v. 1), il poeta, invitato a sedere su una delle sedie, fantastica sulle varie possibilità che gli si schiudono davanti: dare «pegno di fede» ad «una ragazza del paese» (vv. 9-10); avere «una bella casa tutta mia» (v. 11); piangere; morire. L’amore e l’adesione soddisfatta ad una vita tranquilla sono ipotesi considerate in tutta la loro seduzione; anzi, forse 59
M. Guglielminetti, Introduzione a Gozzano, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 68.
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in mezzo a tanti «uomini solerti» che «non san che tutto eternamente è gioco; / vengono, vanno, han tanti conti aperti, / tanti negozi…» (I quattro cantoni – IV, p. 331, vv. 9-12), forse solo il poeta e una sua ipotetica moglie sarebbero in grado di non accettare le assurde e vacue regole di questa «normalità borghese»60: «Ma noi due… chi sa!» (v. 12). Così anche possedere una dimora distinta, con l’annesso ruolo di «padrone di casa e capofamiglia» (I quattro cantoni – IV, p. 331, verso in esergo), è un’idea valutata ma, infine, scartata: scartata come il «bicchier d’acqua» e il «dolore» (I quattro cantoni –VII, p. 332, v. 3), che simboleggiano un’esistenza dominata da emozioni forti, se pur negative. Cosa resta, dunque, all’io lirico? Torna il fuoco del camino a suggerire, nel suo discorso fatto di crepitii (tra i quali sembra quasi di intravedere linguacce che beffano chi osserva), il destino del poeta: L’orïol ride col suo ticchettío, ciancia e farfuglia a grandi lingue il fuoco. Amici miei, son io dunque, son io che scoprirò la cenere del gioco? Io morirò? […] (I quattro cantoni – X, p. 334, vv. 1-5).
La cenere – resto del fuoco che muore insieme alla possibilità della rêverie – diventa immediato simbolo della fine della vita: il focolare che si raffredda è subito correlativo oggettivo della morte dell’uomo61 e, infine, di tutto quello che egli ha amato, posseduto, o scritto, come si dichiara in Nessun ricordo: Tutto vi lascio del mio Novecento in prosa o in verso che è quel ch’io possiedo, con una casa, un focolare spento, e uno squallido arredo (p. 335, vv. 19-22).
Un focolare spento, cioè ancora ceneri: ceneri della parola che, «in prosa o in verso», doveva riscaldare e non riscalda. 60
G. Bàrberi Squarotti, Il «grado zero» di Moretti, cit., p. 262. O dei suoi sogni, come accade in Cenerentola (in Fraternità): qui, «tra la cenere seduta» (p. 495, v. 42), una fanciulla, «dolce sorellina» (v. 32) del poeta, accetta la fine dei desideri, mentre la mamma, consolandola, «nel raggio del lumino / stuzzica la brace» (vv. 47-48). Anche nella Via del rifugio ricorre simile associazione di immagini: nei versi del Filo compare la figura di un «Vecchio» (in cui il poeta «ricono[sce] il [suo] profilo», p. 40, v. 7) che brucia vecchi libri e carte, indicando in questo gesto la fine dell’arte e della vita: «“Ma resta il sogno! I sogni cari…” / Il Vecchio tacque. M’additò la cenere» (p. 40, vv. 13-14). 61
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Nel suo inesorabile decorso, l’esistenza, che sembrava all’inizio così disponibile, così ricca di possibilità, perde a poco a poco il suo mistero, spegne uno a uno i suoi falò. Essa è, alla fine, soltanto una storia, insignificante e disincantata come ogni storia62.
1.3 «Curvo e pensoso di un lontano lume»: camini e viandanti (Corazzini Campana Sbarbaro Ungaretti Montale)
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Camini e lampade possono anche essere osservati da uno spazio esterno, e diventare simbolo di un rifugio che, agli occhi di chi ne è escluso, sembra accogliente e desiderabile. Così nei versi corazziniani del Fanciullo (Le Aureole, 1905): Campane d’oro e tu le vuoi, sì, d’oro, fanciullo, per il cuore che ti trema d’ineffabile angoscia, oh, sì, campane d’oro come i castelli de le fate, pellegrino che vai senza una meta, curvo e pensoso di un lontano lume che brilli sulla porta di una casa triste ma dolce al tuo martirio… oh, d’oro, sì, le campane come le alte stelle! (p. 155, vv. 1-9).
Pensieroso e curvo come un vecchio, il fanciullo «vuo[le] morire», «vuo[le] dormire» (v. 18) ma continua a vagare senza avere una meta da raggiungere: la meta, paradossalmente, è alle spalle, in quella casa col lume il cui ricordo, se anche triste, è dolce rifugio all’angoscia dello sterile pellegrinaggio. Mentre «le pallide sorelle» (p. 156, v. 24) attendono invano «l’assente» (v. 25), questi ancora sogna: Domani, se riprenderai cammino curvo e pensoso di un lontano lume che brilli sulla porta d’una casa, fanciullo, come il tuo sogno divino vorrai morire dopo un breve andare (Il fanciullo, p. 156, vv. 41-45).
La casa, col lume acceso come un faro per chi vaga senza seguire un itinerario definito, può essere amata solo da lontano, nel ricordo, 62
G. Agamben, Il fuoco e il racconto, in Id., Il fuoco e il racconto, Roma, Nottetempo, 2014, p. 16.
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nell’assenza. Varcarne la soglia significherebbe rientrare nell’atmosfera «triste» e luttuosa che nessuna luce riesce a riscaldare. Situazione simile nel Piccolo libro inutile (1906), dove la figura del fanciullo pellegrino si sdoppia. Nell’Ode all’ignoto viandante, infatti, il poeta fanciullo, sveglio di notte in casa, sente passare qualcuno ma non alza la fiamma della lampada. «Una lampada […] è il segno di una presenza»63, nota Bachelard, e il mutamento d’intensità della fiamma sarebbe interpretato, dal pellegrino, come un invito a bussare e chiedere ospitalità per la notte: Ben ch’io t’oda passare vicino alla mia soglia e pensi che tu voglia battere e domandare; non tormento a più viva fiamma la mia lucerna – cui, nella notte eterna guardo come a una riva – (Ode all’ignoto viandante – I, p. 178, vv. 1-8).
Due naufragi si danno a poca distanza: uno nella dimensione dello spazio (il viandante che vorrebbe entrare ma non osa bussare) e uno nella dimensione del tempo (il poeta che è al sicuro, nell’interno casalingo protetto dal fuoco domestico, ma è perso in una «notte eterna»). Far entrare il viandante significherebbe consentire l’ingresso, nella casa solitaria, del sapore della vita: lo sconosciuto ha le «mani […] colme di doni» (p. 178, vv. 13-14). Come mai, allora, il poeta non apre? Nella seconda parte della lirica, ascoltiamo la sua esortazione a se stesso: […] Un giorno volli […] […] chiamarmi a nome e dirmi: «Creatura vergine, non udire più. Apprendi, ora, a morire nella tua sepoltura. Accendi un lume, un solo. […] Così vivrai, né cura ti terrà del passante, 63
G. Bachelard, La fiamma di una candela, cit., p. 93.
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ignaro viandante di una via peritura, se tu l’oda cantare o piangere alla soglia e imagini che voglia battere e domandare (Ode all’ignoto viandante – II, pp. 180-181, vv. 6, 12-17, 33-40).
Corazzini crea un’immagine claustrofobica che associa la casa alla gabbia e alla tomba64: la lucerna non è il fuoco di Vesta, ma la lampada che si accende per i defunti; «nell’Ode all’ignoto viandante […] ritornano […] le situazioni della verginità e della sepoltura. […] il poeta può […] vedere se stesso nella bara»65. Verginità, morte, lumino sulla tomba: siamo agli antipodi dell’immagine del focolare come centro ideale di una casa. È possibile rilevare una differenza tra l’atteggiamento di Corazzini e quello, di cui si è parlato sopra, di Gozzano nei confronti della morte. Il «fanciullo» dell’Ode all’ignoto viandante non è «reduce» da alcuna battaglia persa: è piuttosto un adolescente ignaro relegato volontariamente in uno stadio della vita connotato da «verginità» e incoscienza (e nei suoi versi il fuoco non solo fa pensare alla morte, ma diventa direttamente fiamma di cero funebre66, mentre il poeta «apprend[e] a morire» in una casa trasformata in «sepoltura»). L’ultimo lume di candela osservato da un vagabondo fa la sua comparsa – o meglio, è palesemente assente – in Scena comica finale, nel Libro per la sera della domenica, del 1906 (p. 213): qui il tono, abbandonato il registro patetico, è giocato su immagini dissacranti e ironiche che si susseguono a parodiare l’atteggiamento del poeta che civettava con la morte67. La candela che non c’è dovrebbe illuminare e riscaldare non 64
Analizzando le immagini delle streghe rintanate in case strettissime, presenti nei racconti popolari di magia, Propp ha sottolineato proprio la coincidenza della casa con una tomba o con una gabbia: «Perché la strega occupa tutta la capanna? In effetti la strega non viene mai descritta come un gigante. Di conseguenza non è grande la strega, ma piccola la capanna. La strega ricorda un cadavere, un cadavere in una bara stretta o in una gabbia speciale nella quale si seppellisce o si fa morire qualcuno» (V.Ja. Propp, Le radici storiche dei racconti di magia, in Id., Morfologia della fiaba – Le radici storiche dei racconti di magia, trad. it., Roma, Newton Compton, 2004, p. 191). 65 G. Savoca, Forme della regressione nella poesia di Corazzini, in F. Livi – A. Zingone (a cura di), “Io non sono un poeta”. Sergio Corazzini (1886-1907), cit., p. 235. 66 Si veda più avanti, par. 2.3. 67 Secondo quanto nota Jacomuzzi, Corazzini «non voleva morire e ancora non attendeva la morte. […]che invece nella sua poesia la morte appaia come accettazione e richiesta deve indurci ad essere guardinghi. La sua frequentazione assidua e dolente, alla fine quasi esclusiva, con la tristezza e la morte, si traduce in voce di fiaba lontanante, quanto più
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una casa, ma un «postribolo» (v. 3), dove «l’ultimo Desiderio traballando / nell’ombra della porta / […] fa / la serenata alla Disperazione» (vv. 1-4). Ma non vedendo, appunto, «trapela[re] / per le chiuse imposte lume / di candela» (vv. 11-13), il Desiderio immagina l’assenza, forse la morte dell’amata. La Disperazione, colei che permette di scrivere versi, abita lo scenario baudelairiano68 del bordello in cui si racconta la perdita d’aureola del poeta. Nonostante l’esercizio della prostituzione, però, la musa ispiratrice non sembra guadagnare abbastanza, sottolinea tra l’altro Corazzini, se può essere «morta di fame» (v. 8). La mancanza della luce di candela sancisce, dunque, la fine dell’illusione di arrivare a un approdo (casa, bordello o tomba che sia). L’impossibilità di un approdo è condivisa con un altro viandante: nei Canti Orfici (1914) 69 di Dino Campana un tragico alter ego dell’io lirico, Faust, vaga senza meta per le strade bolognesi: Faust era giovane e bello, aveva i capelli ricciuti. Le bolognesi somigliavano allora a medaglie siracusane e il taglio dei loro occhi era tanto perfetto che amavano sembrare immobili a contrastare armoniosamente coi lunghi riccioli bruni. Era facile incontrarle la sera per le vie cupe (la luna illuminava allora le strade) e Faust alzava gli occhi ai comignoli delle case che nella luce della luna sembravano punti interrogativi e restava pensieroso allo strisciare dei loro passi che si attenuavano. (La Notte – I, La Notte 14, p. 116).
Nei Canti Orfici non ricorre nessuna immagine di focolare domestico: mentre alcuni interni sono costituiti, ad esempio, da sale di bordelli, le case vengono osservate dall’esterno. L’occhio coglie non caminetti, ma comignoli, il loro corrispettivo visto dalle strade notturne. Nel passo della Notte sopra citato, l’io lirico si riconosce in un Faust già ringiovanito, mosso verso l’ignoto dall’ansia di conoscere:
la sentiamo aggredita da una realtà tragica e ineluttabile» (S. Jacomuzzi, Sergio Corazzini, Milano, Mursia, 1963, p. 13; cfr. anche p. 9). 68 Se il poeta di Perdita d’aureola (cfr. Ch. Baudelaire, Perdita d’aureola, in Id., Lo spleen di Parigi. Piccoli poemi in prosa, trad. it. e cura di F. Rella, testo originale a fronte, Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 182-183) entra nel bordello per godersi l’anonimato, il protagonista di Scena comica finale resta escluso anche da questa amara consolazione, che il protagonista dell’apologo di Baudelaire si concede insieme a un’altrettanto amara risata. A questo proposito mi permetto di rinviare a V. di Martino, Sergio Corazzini. Tra libri senza prezzo e poesia in vendita, in I. Crotti - E. Del Tedesco – R. Ricorda – A. Zava (a cura di), Autori, lettori e mercato nella modernità letteraria, Pisa, ETS, 2011, t. I, pp. 389-396. 69 D. Campana, Canti Orfici, a cura di F. Ceragioli, Milano, Rizzoli, 2017. Tutte le poesie di Campana, salvo diversa indicazione, sono tratte da questa edizione, per cui in seguito si indicherà il numero di pagina e versi, senza rinvio in nota.
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«questo tratto di bellezza e giovinezza», nota Verdenelli, «si traduce in un forte anelito del poeta verso il mistero e il viaggio»70. Inquieto e vagabondo come Faust, Campana è tormentato dallo Streben:
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Streben è il desiderio verso un oggetto […] concreto o astratto, e lo sforzo per raggiungerlo: è quindi ricerca, tensione, aspirazione, brama, lotta. Streben è per Faust l’anelito al continuo superamento di sé e di ciò che ha raggiunto71.
Ma lo Streben è, inoltre, «il campo del male e del dolore, proprio e altrui»72. Anche le apparizioni femminili sono seguite senza reale desiderio di sosta: al contrario, l’io lirico è consapevole, direbbe Ungaretti, di non potersi «accasare»73; e i comignoli, più che l’invito a fermarsi, sono una domanda sospesa, «punti interrogativi» anziché approdi alla pace casalinga. Rimasto «pensieroso» all’allontanarsi dei passi delle bolognesi seguite per via, Faust si rifugia in un’osteria, ed è qui che sosta davanti all’unico caminetto dei Canti Orfici: Dalla vecchia taverna a volte che raccoglieva gli scolari gli piaceva udire tra i calmi conversari dell’inverno bolognese, frigido e nebuloso come il suo, e lo schioccare dei ciocchi e i guizzi della fiamma sull’ocra delle volte i passi frettolosi sotto gli archi prossimi (La Notte – I, La Notte 14, p. 116).
«Il focolare, simbolo e invito al riposo»74, trattiene solo provvisoriamente il poeta votato al nomadismo: «bello di tormento, inquieto pallido assetato errante dietro le larve del mistero» (La Notte – I, La Notte 14, p. 117), il protagonista della Notte non può fermarsi a lungo davanti al fuoco: «Poi fuggii» (ibid.). Il quattordicesimo momento della Notte prosegue col «tumulto delle città colossali» (ibid.) e con le Alpi alte «come più grandi cattedrali» (ibid.), dove il soggetto si perde «povero, ignudo, felice di essere povero ignudo, di riflettere un istante il paesaggio» (ibid.), per approdare a una nuova – temporanea – sosta: 70 M. Verdenelli, L’ombra nei «Canti Orfici», in Id. (a cura di), O poesia tu più non tornerai. Campana moderno, Macerata, Quodlibet, 2003, p. 108. 71 A. Casalegno, Note, in J.W. Goethe, Faust – Urfaust, Introduzione di G. Mattenklott, Prefazione di E. Trunz, traduzione, note e commenti di A. Casalegno, con testo a fronte, Milano, Garzanti, 1989, 2 voll., vol. I, p. 577. 72 Ibid. 73 «In nessuna / parte / di terra / mi posso / accasare»: G. Ungaretti, Girovago, in Id., Vita d’un Uomo. Tutte le poesie, a cura e con un saggio introduttivo di C. Ossola, Milano, Mondadori, 2009, p. 85, vv. 1.-5. Tutte le poesie di Ungaretti sono tratte da questa edizione, per cui ne indicherò i numeri di pagine e versi senza rinvio in nota. 74 G. Bachelard, La psicoanalisi del fuoco, cit., p. 124.
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Una fanciulla nel torrente lavava, lavava e cantava nelle nevi delle bianche Alpi. Si volse, mi accolse, nella notte mi amò. E ancora sullo sfondo le Alpi, il bianco delicato mistero, nel mio ricordo s’accese la purità della lampada stellare, brillò la luce della sera d’amore (La Notte – I, La Notte 14, pp. 117-118).
La compagnia della fanciulla, «figura della purezza e del gelo della neve»75, può essere goduta solo in uno spazio aperto, che trascende i confini della casa, o meglio rende casa tutto il paesaggio dal «sublime candore»76. Se la poesia di Campana è «poesia in fuga»77, se è poesia senza focolare, non è tuttavia poesia senza lampada. Ma mentre le lampade di Moretti, Govoni o Palazzeschi illuminano e proteggono spazi reclusi, sull’amore del poeta e della fanciulla veglia una fiaccola nuziale che dilata l’orizzonte abitato fino al cielo: non «teda», bensì «lampada stellare». Anche nella Verna il poeta riconosce che il fuoco di Vesta è per altri: E, mentre il tempo fuggiva invano per me, un canto, le lunghe onde di un triplice coro […]. Il canto breve: le tre fanciulle avevano espresso disperatamente nella cadenza millenaria la loro pena breve ed oscura e si erano taciute nella notte! Tutte le finestre nella valle erano accese. Ero solo [La Verna – I, La Verna (Diario), Castagno, 17 Settembre, p. 133].
Per il pellegrino «il tempo fugg[e] invano». Presente e passato si fondono nell’accento millenario delle voci femminili, e scompaiono insieme al canto. In una notte sospesa al di fuori di ogni coordinata cronologica (a dispetto dell’indicazione diaristica del titolo del paragrafo), il poeta assapora la solitudine, resa più assoluta al confronto con le luci che illuminano le dimore altrui. Se il pellegrino di Corazzini desidera bussare, pur non avendone il coraggio, ed è presenza percepita da chi, all’interno della casa, decide comunque di non alzare la fiamma del lume, qui la situazione è molto diversa. Il viandante della Verna osserva lo spettacolo di tutte le finestre illuminate senza avvicinarsi, anzi ricavando proprio dalla vista di quel comune ritrovo domestico attorno al fuoco o alla tavola la conferma della propria estraneità. Bachelard ha notato che «la fiamma isolata è la testimonianza di una
75 G. Bàrberi Squarotti, Campana, la matrona e l’ancella, in M. Verdenelli (a cura di), O poesia tu più non tornerai. Campana moderno, cit., p. 67. 76 Ibid. 77 E. Montale, Sulla poesia di Campana, in Id., Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1997, p. 252.
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solitudine»78: potremmo dire che tante luci vicine sono la testimonianza della solitudine dell’uno che non ha e non vuole accesso alla vita dei molti, al loro stesso spazio circoscritto e protetto. È possibile trovare una situazione parzialmente simile in Pianissimo79, l’opera di Sbarbaro coeva ai Canti Orfici. Anche qui è presente l’immagine di finestre illuminate guardate da fuori, ma il punto di osservazione dell’io lirico non è lo spazio aperto, bensì una casa senza lampade o focolari accesi: Padre che ci hai tenuto sui ginocchi nella stanza che si oscurava, in faccia alla finestra e contavamo i lumi di cui si punteggiava la collina, […] (Padre che muori tutti i giorni un poco, p. 62, vv. 30-33).
Davanti alle luci delle case altrui l’io poetante, come accade nei Canti Orfici, prova un senso di solitudine: con la differenza, sostanziale, che stavolta questa sensazione è sperimentata non nell’ampiezza dell’orizzonte della Verna, ma in una casa buia, priva del fuoco tutelare. Il poeta adulto, che ricorda il gioco infantile del contare i lumi sulla collina, riconosce di aver vissuto, e prova ancora nel presente, una solitudine che non è spezzata, anzi è amplificata, dall’essere condivisa col padre e con la sorella80: Padre che muori tutti i giorni un poco, e ti scema la mente e più non vedi con allargati occhi che i tuoi figli, […] Contro l’indifferenza della vita vedo inutile anch’essa la virtù, e provo forte come non ho mai il senso della nostra solitudine (p. 61, vv. 1-3, 16-19).
78
G. Bachelard, La fiamma di una candela, cit., p. 21. C. Sbarbaro, Pianissimo (1914), a cura di L. Polato, Venezia, Marsilio Editori, 2001. Tutte le poesie di Pianissimo sono tratte da questa edizione, per cui si indicheranno i numeri di pagina e versi senza rimando in nota. 80 È stato notato che «il padre e la sorella sono presenze […] drammaticamente assorbite nello stesso gorgo di solitudine del poeta»: A. Padovani Soldini, «Il nome dell’amico è nome vano». Solitudine e illusioni nel tempo di «Pianissimo», in G. Devoto – P. Zoboli (a cura di), Camillo Sbarbaro. Atti della giornata di studio (11 aprile 2003), Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2003, p. 28. 79
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Il genitore e il figlio restano vicini ed estranei81: l’assenza del focolare, della luce, di una lampada, indica la negatività dello spazio domestico82 e denuncia l’assenza di una vestale, figura presente invece, per quanto invisibile, nelle dimore lontane e illuminate. Lo svilimento della casa e del focolare passa attraverso – e coincide con – lo svilimento e la dissacrazione della figura paterna che, morta la madre, non ha saputo rendere accogliente il nido83; l’immagine del buio in casa, difatti, torna in Piccolo, quando un canto d’ubriachi: dopo essersi affacciato alla finestra per ascoltare gli ubriachi, il protagonista si volta e guarda «la chiusa stanza e dopo lei la casa / dove già tutti i lumi erano spenti!» (p. 71, vv. 9-10). Non c’è madre o luce a vegliare, e il padre non è più l’idolo da odiare-amare, ma un uomo inchiodato ad una situazione di debolezza e mancanza. Sbarbaro si dimostra, così, ben oltre la coeva letteratura europea: da Tozzi a Svevo a Kafka, gli autori del primo ventennio del Novecento si misurano con un’autorità cui ribellarsi, con un Padre contro il quale rivendicare il proprio essere autonomi e adulti, con un avversario forte che può morire, ma continua fino alla fine a incutere timore o a punire il figlio per le sue mancanze. Sbarbaro, invece, rappresenta la miseria della figura genitoriale, condannata a un lento morire «tutti i giorni un poco». Anche in Rimanenze, che raccoglie versi scritti tra il ’21 e il ’22, la casa è rappresentata come un luogo buio, e la sensazione dominante è la solitudine. Di nuovo, il poeta si rivede bambino: […] gioca sulla soglia il piccolo, con dietro il buio e il freddo 81 L. Polato nota che è frequente, in Pianissimo, «questa condizione (qualcosa di molto intimo ci giace accanto come estraneo)» (Introduzione, in C. Sbarbaro, Pianissimo, cit., p. 18). Anche per Sbarbaro è possibile fare il nome di Freud, e richiamare il già citato saggio sul Perturbante, per sottolineare come l’ambiente per antonomasia intimo e protettivo sia percepito come il luogo dell’estraniamento, della mancata costruzione d’identità e del fallito riconoscimento di sé nella relazione con i familiari. 82 Come ha notato V. Coletti (Prove di un io minore. Lettura di Sbarbaro – «Pianissimo» 1914, Roma, Bulzoni Editore, 1997, p. 30), «gli interni di Pianissimo sono invariabilmente la dimora paterna, la «chiusa stanza», il «mio letto». Il loro ruolo è quello di evocare, introdurre l’esterno, il fuori, che dovrebbe restare escluso da essi, non contaminarli e non forzarli, ed è quindi fonte di paura e desiderio. Sono luoghi di clausura, di immobilità spaventata, di ribellioni silenziose, di sbigottimento doloroso». 83 A proposito di Padre che muori tutti i giorni un poco Bàrberi Squarotti (Camillo Sbarbaro, Milano, Mursia, 1971, p. 61) ha notato: «Si badi bene: non è l’elegia degli affetti perduti, ma quella degli affetti inutili, inefficaci […], sprecati nell’impossibilità di dare un senso alle azioni e ai gesti anche all’interno del nido per la precarietà stessa delle relazioni che vi operano e per l’ostilità delle cose, al di fuori».
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della cucina dove su ramaglie una vecchia si china ad attizzare. (Voze, che sciacqui al sole la miseria84, p. 94, vv. 7-10).
Il fuoco non illumina e non riscalda, se la cucina resta buia e fredda alle spalle del bimbo che «gioca sulla soglia» (v. 7) quasi pronto a scappare dall’abitazione e dalla vecchia, presenza inquietante e vagamente simile a una strega di fiabe infantili – si pensi, per contrasto, alle cucine morettiane, riscaldate dalla giovane madre e da un fuoco benevolo85. Ma torniamo a Campana: davanti alle luci accese nella valle, il poeta elegge per sé altra lampada (si noti quanto diversa la rassegnazione sbarbariana a restare nella casa buia), come già accaduto nella Notte: Alzando gli occhi alla roccia a picco altissima che si intagliava in un semicerchio dentato contro il violetto crepuscolare […] io non ero non ero rapito di scoprire nel cielo ancora luci [La Verna – I, La Verna (Diario), Castagno, 17 Settembre, p. 133].
Le case viste dall’esterno non rappresentano, per il viandante, un motivo di attrazione o di nostalgia, né lo spingono a interrompere il viaggio. E la negatività di un arresto forzato, la violenza dello spazio chiuso imposto, appare in tutta la sua evidenza nelle pagine dedicate al Russo. Qui è la stufa, e non il focolare, a costituire un centro gravitazionale per il «violinista e pittore» (Il Russo, p. 170) compagno di prigionia di Campana in Belgio: In un ampio stanzone pulverulento turbinavano i rifiuti della società. […] Dei frati grigi dal volto sereno, troppo sereno, assisi: vigilavano. In un angolo una testa spasmodica, una barba rossastra, un viso emaciato disfatto, coi segni di una lotta terribile e vana. Era il russo, violinista e pittore. Curvo sull’orlo della stufa scriveva febbrilmente (ibid.).
84 In C. Sbarbaro, L’opera in versi e in prosa, a cura di G. Lagorio e V. Scheiwiller, Milano, Garzanti-Scheiwiller, 1999 (in seguito citata OVP). 85 Solo in una poesia del ’12 l’osservazione di un focolare altrui provoca una sensazione di benessere: «Come convalescente ch’esce al sole / […] / la casetta che fuma in mezzo agli orti, / trasalendo di giubilo saluto» (Una felicità fatta di nulla, OVP p. 119, vv. 4, 11-12). Potremmo sottolineare la differenza del punto di osservazione, che è qui l’esterno, ma più probabilmente la diversità del tono è legata a una diversa fase poetica: «il tono di trasognata letizia, e il graduale insorgere di uno slancio vitale […] ci appaiono aspetti difficilmente assimilabili alla disillusa negazione che permea Pianissimo» (A. Padovani Soldini, Ho bisogno d’infelicità. Pianissimo. Rimanenze. Primizie. Storia della poesia di Sbarbaro con testimonianze inedite, Milano, All’insegna del Pesce d’oro, 1997, p. 43).
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Chiuso in un ambiente ostile, l’artista è rappresentato da Campana in un momento di sofferenza fisica, espressione, nel corpo, della «lotta terribile e vana» che deve agitarglisi dentro, sotto gli occhi di inquietanti frati della cui serenità diffidiamo perché eccessiva, e segno dunque di assenza di ogni empatia umana nei confronti del dolore altrui. Il Russo scrive, «e oggetto di questa metascrittura è un racconto di morte»86 il cui protagonista, figura diametralmente opposta a quella dei frati, fa propria la sofferenza degli altri, desiderando alleviarla e condividerla: «Un uomo in una notte di dicembre, solo nella sua casa, sente il terrore della sua solitudine. Pensa che fuori degli uomini forse muoiono di freddo: ed esce per salvarli. Al mattino quando ritorna, solo, trova sulla sua porta una donna, morta assiderata. E si uccide» (ibid.).
In casa, davanti al fuoco che lo riscalda, l’uomo è solo come il poeta della Verna che osserva le finestre degli altri; ma la solitudine che si prova al chiuso incute «terrore», mentre quella del pellegrino gli suggerisce una consapevolezza di sé e della propria esistenza non acquisibile altrimenti87. Si veda, a confronto, la posizione dell’io lirico dell’ungarettiana Natale: Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade Ho tanta stanchezza sulle spalle Lasciatemi così come una cosa posata
86
T. Ferri, Dino Campana. L’infinito del sogno, Roma, Bulzoni Editore, 1985, p. 40. Si veda l’invito alla solitudine, che sembra preannunciare il tono della Notte o della Verna, presente in F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, trad. it., versione e appendici di M. Montinari, Nota introduttiva di G. Colli, Milano, Adelphi, 2001, p. 55: «Amico mio, fuggi nella tua solitudine! […] La foresta e il macigno sanno tacere dignitosamente con te. Sii di nuovo simile all’albero che tu ami, dalle ampie fronde: tacito e attento, si leva sopra il mare». 87
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in un angolo e dimenticata
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Qui non si sente altro che il caldo buono Sto con le quattro capriole di fumo del focolare (p. 100).
Altrettanto nomade, il poeta dell’Allegria vive momenti di sosta sconosciuti a Campana, la cui poesia «è coinvolta in un mondo dove non esiste nessun porto, neanche sepolto, nessun appoggio o punto fermo»88. Nei versi di Natale è inscenato un ripiegamento dell’io lirico su se stesso, un rientro, «dettato dalla stanchezza», «nel guscio, nel perimetro chiuso e accogliente della casa, dallo spazio aperto e disponibile del “gomitolo di strade”»89. Lo spazio interno è connotato positivamente come rifugio, per quanto segnato da tratti di malinconia, rinuncia e riduzione della vitalità («come una cosa») marcata dalla frantumazione del discorso90; mentre l’esterno è apertura illimitata e caotica («gomitolo»: matassa, «entità estranea e indecifrabile che si pone di fronte all’io»91 e di cui non sempre è facile seguire lo sdipanarsi), è il mondo cui il poeta sa di non potersi accostare gradualmente, se uscire dal proprio «angolo» significa «tuffar[si]» completamente nella vita che si intreccia per le strade. Il focolare è dunque un ripiego ma rappresenta, nel fisiologico momento di «sistole» dell’io, un rifugio necessario senza il quale non
88
C. Mileschi, Dino Campana: orfismo e amorfismo, in M. Verdenelli (a cura di), O poesia tu più non tornerai. Campana moderno, cit., p. 163. 89 G. Cambon, La poesia di Ungaretti, Torino, Einaudi, 1976, p. 50. 90 «Tra l’ottativo e la formulazione dell’augurio (“Lasciatemi così / […] dimenticata”) si inserisce un’intera strofe pausata nella stesura finale dall’alternanza di versi a tre e a due sillabe […] che rallentano la progressione del senso […]. Il risultato è così l’oblio del senso nella sillabazione, l’inflettersi dell’attesa nel vuoto di una similitudine immersa nel silenzio, nell’indeterminazione: “come una / / in un/”» (C. Ossola, Giuseppe Ungaretti, Milano, Mursia, 1982, p. 271). 91 G. Cambon, La poesia di Ungaretti, cit., p. 33n.
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potrebbe darsi la successiva «diastole»92. Ed è proprio sull’immagine del focolare e grazie ad essa che, in chiusura, la poesia sembra già preludere al successivo rinvigorirsi dell’animo dell’«uomo di pena» (Pellegrinaggio, p. 84, v. 12): quelle «quattro / capriole / di fumo» già ci fanno intravedere, nell’uomo stanco che tende le mani al camino per ristorarsi, «l’istinto ludico, l’allegria del giocoliere, del funambolo in bilico tra gioia e nostalgia, tra estasi e noia»93. In Campana, invece, il camino avrebbe senso solo se fosse condiviso, ed è per questo che il protagonista del racconto del Russo esce di casa. Non è previsto riscatto individuale in caso contrario: il Russo non trova in sé lo slancio per passare dalla pena all’allegria, come accade all’io lirico di Ungaretti. L’uomo, «doppio emblematico e ostentatamente tragico»94 di Campana, nello scoprire la propria incapacità di indovinare quando conviene aspettare e quando andare in cerca dall’altro95, decide di rifiutare la vita come fosse un insensato gioco d’azzardo. Dopo aver saputo della morte del Russo, preannunciata dal suicidio del protagonista del suo racconto, Campana torna a rappresentarlo nello stesso atteggiamento in cui lo abbiamo già visto: Una dolcezza acuta, una dolcezza di martirio, del suo martirio mi si torceva pei nervi. Febbrile, curva sull’orlo della stufa la testa barbuta scriveva. La penna scorreva strideva spasmodica. Perché era uscito per salvare altri uomini? (Il Russo, p. 171).
Questo inquieto alter ego del poeta resta fotografato nell’atteggiamento del naufrago che, perso in un ambiente ostile, afferra un relitto che lo tenga a galla: il Russo si aggrappa alla stufa, su cui esercita febbrilmente il gesto consolatorio e vano della scrittura, creando la 92
Cambon nota come sia presente, nell’Allegria, un costante altalenare tra espansione e ripiegamento dell’io: «Il momento di ristagno e buio è la sistole dell’io, isolata al centro della sua poesia» (ivi, p. 32), cui segue una nuova nascita. «L’io si è visto ridurre a mera cosa inanimata e addirittura scartata, ha quindi affrontato la sua estrema degradazione, ma per discendere nel cuore delle sue possibilità esistenziali» (ivi, p. 42). A questo proposito si leggano le note di A. Saccone (Ungaretti, Roma, Salerno Editrice, 2012, p. 69), che rileva come, nella prima stagione ungarettiana, «ad uno stato di oscuro ristagno subentr[ino] un vorace appetito di vivere, infantilmente irrefrenabile, un’ebbra sintonia con lo spazio esterno, un dionisiaco tripudio cosmico». 93 G. Cambon, La poesia di Ungaretti, cit., p. 58. 94 G. Turchetta, Dino Campana. Biografia di un poeta, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 94. 95 Il Russo è quasi un “samaritano mancato”: nella parabola evangelica riportata da Luca l’incontro con la persona bisognosa di soccorso avviene «per caso» (Luc. 10,31): l’uomo non può decidere quando portare la salvezza ai propri simili (o a sé), ed è questa scoperta, letta come conferma dell’esposizione al caso della vita umana, che induce il Russo al suicidio.
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dimensione altra che, unica, può essere casa, evasione dal carcere e (in un gioco di mise en abîme tra Campana, il Russo e l’uomo senza nome del racconto “secondo”) assoluzione dalla colpa di aver mancato l’appuntamento con la salvezza condivisa: La penna scorreva strideva spasmodica: perché era uscito per salvare altri uomini? Curvo, sull’orlo della stufa la testa barbuta, il russo scriveva, scriveva scriveva…………… (Il Russo, p. 172, corsivi nel testo).
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Un’ulteriore variazione della congiunzione tematica focolareviandante è rappresentata nei versi dei Sarcofaghi, negli Ossi di seppia (1925) di Montale: Il fuoco che scoppietta nel caminetto verdeggia e un’aria oscura grava sopra un mondo indeciso. Un vecchio stanco dorme accanto a un alare il sonno dell’abbandonato (Sarcofaghi – Il fuoco che scoppietta, p. 23, vv. 1-6).
Si tratta di un fuoco leopardianamente scolpito su un bassorilievo sepolcrale, che «verdeggia» probabilmente per l’ossidazione o il proliferare di muschi. La scena riproduce un interno riscaldato da fiamme che crepitano e creano un’atmosfera accogliente, favorevole alla sosta e al riposo. Il sonno dell’anziano davanti al camino (forse eco del pascoliano «dorme il vecchio avanti i ciocchi»96) riconduce ad un orizzonte di pace domestica la dimensione della morte, rappresentata come approdo finale a una casa che eternamente conserverà il focolare acceso. Davanti a questo quadro il passante – figura chiave negli Ossi 97– è invitato a compiere un gesto di pietas: […] E tu camminante procedi piano; ma prima un ramo aggiungi alla fiamma
96 G. Pascoli, Al fuoco, in Id., Myricae, Introduzione di P.V. Mengaldo, note di F. Melotti, Milano, BUR, 1997, p. 302, v. 1. 97 A proposito del viandante è stato sottolineato: «Il vero protagonista degli Ossi è in fondo, in rapporto antagonistico con le forze della fissazione, il passante: l’uomo che passa di Sarcofaghi, “il passante” che sente “come un supplizio / il suo distacco dalle antiche radici” […], è in questo senso acuto e doloroso del movimento e del transito che va forse cercata una possibile ragione della ricchezza giovanile e inquieta degli Ossi di seppia» (E. Testa, Montale, Torino, Einaudi, 2000, p. 27).
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del focolare e una pigna matura alla cesta gettata nel canto: ne cadono a terra le provvigioni serbate pel viaggio finale (p. 23, vv. 9-16).
Se l’io lirico degli Ossi è «uno che non si muove, assediato da un contesto geografico tanto simbolico quanto immutabile»98, il viaggio viene a coincidere col «viaggio finale», con la morte: ma sembra che i due mondi, quello dei vivi e quello dei defunti, possano entrare in contatto, che un ramo raccolto dal viandante possa alimentare il fuoco «che finge il bronzo» (v. 8). Possiamo immaginare, allora, che anche la lastra99 col focolare scolpito sia punto di contatto tra vivi e defunti (come la riva del mare, ad esempio, nella lirica I morti100), che a quel fuoco il passante tenda le mani cercando il conforto di un interno accogliente101, o, come si legge nel quarto componimento di Sarcofaghi, «un asilo», come quello riservato a «codesti che accolgono la brace / dell’originale fiammata» (Sarcofaghi – Ma dove cercare la tomba, p. 24, vv. 4, 5-6).
1.4 «Nel brillar dei camini»: riprendere le forze (Saba Rebora) Tutta la carica simbolica di tale «originale fiammata» è presente in Rebora e Saba: nei loro versi il caminetto non configura, come per gli autori analizzati in precedenza, la rinuncia a un mondo esterno 98 M.A. Grignani, Dislocazioni. Epifanie e metamorfosi in Montale, Lecce, Manni Editore, 1998, p. 50. 99 Di cui Contini scrive: «oggetto fuor di durata, luce d’eterno; ma con qualcosa d’inquietante, quel fuoco effigiato nel bronzo, quel timore che tutto abbia a ridestarsi…»: G. Contini, Introduzione a «Ossi di seppia», in Id., Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Torino, Einaudi, 2002, p. 13. 100 G. Zampa (Introduzione, in E. Montale, Tutte le poesie, cit., p. XLII) ha rilevato che «lo scambio tra vivi e morti [è] metafora frequente in Ossi di seppia, dove l’acqua che il mare spinge verso terra o quella che finisce da terra in mare stanno a significare incontri di vita e non-vita». 101 Gli spazi chiusi sono del tutto assenti nella prima raccolta montaliana: Romano Luperini a questo proposito, istituendo un confronto tra Montale e Gadda, sottolinea che gli Ossi differiscono dalle Occasioni anche per l’ambientazione. «Gli Ossi di seppia sono un libro di paesaggi en plein air: luce meridiana, mare, scogli, agavi. Niente “interni”. Nel libro fiorentino di Montale, Le occasioni, prevale invece il simbolo della casa» (R. Luperini, Un appunto: la casa e l’opposizione interno - esterno nelle «Occasioni» e nella «Cognizione del dolore», in Id., L’autocoscienza del moderno, Napoli, Liguori Editore, 2006, p. 108).
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troppo vasto e grandioso, né la difesa contro un “fuori” inquietante, e nemmeno un riparo osservato da viandanti cui è precluso. Sia nei Frammenti lirici (1913) che nel Canzoniere102 «il focolare familiare ha la funzione di centro o ombelico del mondo»103 e rappresenta il recupero, da parte del poeta, di una dimensione infantile (non regressiva o rinunciataria) che può dare nuova forza all’uomo adulto, ricollegandolo alle proprie radici e consentendogli di affrontare con rinnovata forza la vita. L’itinerario della poesia sabiana trova due tappe importanti in due immagini di case, che rimandano a focolari molto diversi tra loro, e a due madri: nelle Poesie dell’adolescenza e giovanili104 leggiamo i versi della Lettera ad un amico pianista studente al Conservatorio di…: Elio, ricordi il bel tempo gentile, l’amicizia fraterna che ci univa pel gioco nel cortile della casa materna? Eran chiassi, eran salti; […] fin quando, muto rimprovero, un lume nell’interno brillava, e della sera con le fredde brume l’ombra nera calava (p. 19, vv. 1-5, 9-12).
L’attacco leopardiano105, con l’allocuzione rivolta all’amico perché ricordi la fanciullezza, rinvia al tempo dell’infanzia e dei giochi, già segnato però dalla «tristezza»106: i passatempi infantili («schioppi e tamburi», scrive il poeta in Eroica, p. 424, v. 2) sono segnati dal rimprovero materno, che impedisce al bambino di divertirsi in modo spensierato. 102 Di cui si leggono qui, in particolare, i primi due volumi, che recano rispettivamente i riferimenti cronologici 1900-1920 e 1921-1932. 103 J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri, cit., p. 455. 104 I versi di Saba sono tratti da Tutte le poesie, a cura di A. Stara, Introduzione di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 1996; si darà indicazione dei numeri di pagine e versi senza rinvio in nota. 105 «Non sembra dubbio che, nell’età della sua formazione, il poeta che più l’ha impressionato sia stato il Leopardi»: U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Id., Tutte le prose, a cura di A. Stara, con un saggio introduttivo di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 2001, p. 126. La Lettera ad un amico pianista è, secondo Marina Paino, un «componimentoemblema del leopardismo del giovane Saba» (M. Paino, La tentazione della leggerezza. Studio su Umberto Saba, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2009, p. 17). 106 U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, cit., p. 123.
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Sulla «vita malinconica e angustiata del giovane Saba»107 incombe un lume che è emanazione della figura materna, vigile e severa, sofferente e inibitoria di ogni possibile felicità nel figlio. Questo lume, potremmo dire sulla scorta di Bachelard, «è una lampada che attende. Veglia così incessantemente che sorveglia. […] La lampada attende e sorveglia. Sorveglia, dunque è malevola»108. Se questa «casa materna» è oppressiva, se questo lume è segno di «muto rimprovero» per il fanciullo che ammira «la gioiosa esultanza degli uguali»109 senza poterne godere in prima persona, ben diversa è la «ridente / casina» della nutrice, rifugio accogliente dopo i giochi di guerra, in cui il fuoco riscalda e cuoce la cena (in Cuor morituro): O immaginata a lungo come un mito, o quasi inesistente, dove sei tu, ridente casina, che dal primo verso addito? […] E quello che dal tetto fuor t’usciva con odori di cena, dimmi, lo sparse appena il vento? O tutta una vita fuggiva? (La casa della mia nutrice – I, p. 313, vv. 1-4, 9-12).
Le due liriche, separate da decenni, risultano accomunate dal vocativo iniziale e dalla struttura metrica (strofe di due endecasillabi e due settenari, anche se diversamente disposti e con rime alternate in un caso, incrociate nell’altro). La «cara amata casina» (v. 22) è abitata dalla presenza rassicurante dell’«eterna Peppa» Gabravich (Partenza e ritorno, p. 422, v. 8): «dal tetto», come in un disegno infantile che riproduca l’archetipo “casa”, esce il fumo, che «testimonia la presenza di respiri, ossia di vita nella casa»110. E dunque se la dimora materna è la prigione che si oppone agli svaghi infantili, e il lume che vi si accende è il segnale della fine della libertà per il piccolo Umberto, la casa della nutrice è invece il focolare che offre ristori e riposo tra un gioco e l’altro. Il recupero memoriale della «casina» col suo fuoco protettivo diventa vera 107
Ibid. G. Bachelard, La psicoanalisi del fuoco, cit., p. 94. 109 G. Debenedetti, La poesia di Saba, in Id., Saggi critici – Prima serie, Venezia, Marsilio Editori, 1989, p. 86. 110 J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri, cit., p. 179. Più avanti leggiamo: «il fumo è – in qualche misura – il respiro della casa» (p. 473). 108
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e propria riconquista di una patria mitica da parte del poeta, novello Ulisse111, nella sezione Il piccolo Berto: «un libro impudico e scoperto che nasce dalla sistematica fragilizzazione dei confini imposti dalla censura e che recupera l’infanzia in una luce spietata»112. Qui Saba si riconosce come Il figlio della Peppa (p. 419), e torna da adulto presso di lei: non per regredire a una primissima, edenica infanzia, quanto per prendere consapevolezza della propria identità di uomo maturo113. Nell’ultima delle Tre poesie alla mia balia è il poeta stesso ad accendere il fuoco: Appeso al muro è un orologio antico così che manda un suono quasi morto. Lo regolava nel tempo felice il dolce balio; è un caro a lui conforto regolarlo in suo luogo. Anche gli piace a sera accendere il lume, restare da lei gli piace, fin ch’ella gli dice: «È tardi. Torna da tua moglie, Berto» (p. 407, vv. 16-23).
Padroneggiare il fuoco, così come regolare l’orologio114, è un gesto che colloca il poeta nella vita adulta («Il bimbo / è un uomo adesso», vv. 7-8), sullo stesso piano del «dolce balio»: se Berto aveva osservato l’uomo nell’atto, interdetto ai piccoli, di accendere il lume – «che questo fuoco sia fiamma o calore, lampada o fornello, la sorveglianza dei genitori è la stessa. […] La prima cosa che impariamo sul fuoco è che non bisogna toccarlo»115, sottolinea Bachelard – , una volta cresciuto Saba può sostituire la figura paterna e impadronirsi dell’«oggetto [del] 111 «Le sofferenze e le “prove” attraversate da Ulisse sono favolose, eppure qualsiasi ritorno al focolare “vale” il ritorno di Ulisse a Itaca»: M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 347. 112 M. Lavagetto, La gallina di Saba, Torino, Einaudi, 1974, p. 53. 113 A questo proposito Lavagetto nota che «La psicoanalisi regala a Saba una seconda nascita; dissolve gli ostacoli e le rimozioni, gli chiarisce il senso della sua vicenda. […] L’uomo viene ricondotto indietro a ritrovare il ragazzo e a sacrificarlo in nome della maturità» (ivi, p. 47). 114 A proposito di tempo e orologi, si legga la Scorciatoia 51: «OROLOGI Il tempo è rotondo; ritorna in se stesso. E gli orologi, che servono a indicarlo, dovrebbero pure essere rotondi. Lo furono infatti: dalla loro invenzione a ieri. L’uso, ultimamente invalso, di dare agli orologi forma quadrata, triangolare, ottagonale, è uno dei tanti piccoli indizi dello smarrimento dei nostri giorni» (U. Saba, Terze Scorciatoie, in Id., Tutte le prose, cit., p. 28). Per fortuna – viene da dire – l’orologio di Peppa è «antico» e dunque, verosimilmente, della tradizionale forma rotonda: regolarlo, in qualche modo, significa simbolicamente diventare padrone del proprio tempo, presente e passato, e della propria vita. 115 G. Bachelard, La psicoanalisi del fuoco, cit., p. 121.
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SUL FUOCO
divieto generale»116. Si chiude, in questo modo, il cerchio aperto con i versi della Lettera ad un amico pianista: il lume che brilla «nell’interno» non ha più nulla di malevolo, è diventato a pieno titolo una tra le cose da cui, già nelle Poesie dell’infanzia e giovanili, può nascere «gioia»:
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Poco invero tu stimi, uomo, le cose. Il tuo lume, il tuo letto, la tua casa sembrano poco a te, sembrano cose da nulla, poi che tu nascevi e già era il fuoco, la coltre era e la cuna per dormire, per addormirti il canto (Meditazione, p. 37, vv. 11-16).
Giacomo Debenedetti, a proposito di questi versi, sottolinea che «fin dagli esordi di Saba, in taluni pensieri ancora incerti e divagati, pensieri che ancora sembrano fantasticherie, l’attenzione alle cose comincia a prescriversi come un obbligo morale»117: tra queste «cose / da nulla» è appunto il lume, il fuoco, a consentire la creazione di un’atmosfera appagante. Così anche nei versi di L’ultimo amore (in Cose leggere e vaganti): Che mi vorrebbe ad essere felice? Una stanzetta, ma col fuoco acceso; due tazzine, due piccole tazzine, una per te, l’altra per me, Paolina (p. 195, vv. 1-4).
Con questi oggetti quotidiani, con il fuoco che arde in un ambiente pur modesto si ha, nel Piccolo Berto, «un incontro decisivo»118: arriva all’uomo maturo l’eco di una beatitudine casalinga provata un tempo e cercata per tutta la vita, e ritrovata, commista al rimpianto, nei versi prima citati delle Tre poesie alla mia balia. È proprio la balia – che tra l’altro appare come «vecchia nutrice» (p. 406, v. 3) con tutto il peso degli anni, lontanissima dalle visioni morettiane di madri giovinette – ad arginare il rischio di una regressione all’infanzia perduta che alieni il poeta dal presente: nel verso finale l’anziana donna invita il poeta, pur ancora chiamato col nome «Berto», a tornare alla vita adulta, alla donna che ha sposato. Anche nei Frammenti lirici (1913) di Clemente Rebora possiamo seguire alcuni movimenti verso l’infanzia che poi scartano in direzio116
Ibid. (corsivo nel testo). G. Debenedetti, «Quest’anno…», in Id., Intermezzo, Milano, il Saggiatore, 1972, p. 51. 118 M. Lavagetto, La gallina di Saba, cit., p. 53. 117
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ne di una piena assunzione di responsabilità nei confronti della vita adulta. Il frammento L, «una lirica notturna meditazione in un villaggio alpestre»119, mette in scena un conflitto interiore tra desiderio di regressione nel nido familiare e tensione morale alla vita «fra gli uomini»: Quassù fra proni tetti aspri cipressi nereggiano: (laggiù fra gli uomini domani io tornerò). […] Ai vicoli clamore di bimbi si dilegua: un passo, un nome, e tonfi dalle case nel brillar dei camini; fin che non visto il sonno chiude finestre e cuori, e vuoto il tempo buio lascia fuori (Quassù fra proni tetti120, p. 92, vv. 1-4, 15-21).
L’ansia del poeta «che deve tornare ad affrontare gli uomini»121 lo porta a rifugiarsi in un luogo isolato ed elevato, simbolo di un’elevazione di pensiero inattingibile a valle, un «quassù» abitato da figure familiari e contrapposto al «laggiù», che è lo spazio in cui «non è concesso titubare» (v. 27). Il «brillar dei camini» è emblema dell’ambiente che accoglie e ristora, come già nel frammento XXIII: Qui, nella tana è curva fra il variar delle braci la digiuna forma rozza del parentado accolto, con gli occhi chiari dall’imagin bruna; e va nell’aria un dir d’avemmarie, quasi di bimbi un parlottio raccolto quando fra lor si vendono bugie.
119 G. Boine, Recensione apparsa sulla «Riviera Ligure», a. XX, n. 33, settembre 1914, ora in C. Rebora, Le poesie (1913-1957), a cura di G. Mussini e V. Scheiwiller, Milano, Garzanti, 1994, p. 578. 120 In C. Rebora, Poesie, prose e traduzioni, a cura e con un saggio introduttivo di A. Dei, con la collaborazione di P. Maccari, Milano, Mondadori, 2015. Tutti i versi di Rebora sono tratti da questa edizione, per cui le indicazioni di pagine e versi saranno date senza rinvio in nota. 121 M. Guglielminetti, Clemente Rebora, Milano, Mursia, 1968, p. 28.
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SUL FUOCO
Poi tranquillo ognun posa, e in un guizzo anche il fuoco si spoglia: filtra il cielo e sorveglia da una cruna (Col moto egual delle tue genti, o valle, p. 50, vv. 6-16).
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Il focolare evoca presenze infantili122: nei versi appena citati, come in quelli di Quassù fra proni tetti, compaiono bambini colti nelle loro attività più semplici e consuete, in un’atmosfera di guscio protettivo su cui vegliano gli adulti e il cielo stesso, chiamato in causa dal «dir d’avemmarie» del v. 11, e poi esplicitamente chino a «sorveglia[re]» amorevolmente. Accanto ai bambini, nel frammento L compare la figura materna: E te chiamo e vorrei piegare il capo accarezzato alla tua spalla, o mamma, come fanciullo io t’invocava quando fra coltre e coltre con la man sugli occhi sudavo eterne notti di paura nell’ascoltare il passo d’un fantasma. O mamma o mamma mia, sono un mercante senza mercanzia, sono un pilota che ha perso la via, la via buona del tuo cuore, o mamma! (Quassù fra proni tetti, p. 93, vv. 29-38).
L’io lirico, spaesato e in crisi, cerca nel ritorno al focolare non l’evasione dal mondo, ma la forza per affrontare il «cimento» (v. 44), per tornare «laggiù fra gli uomini» (vv. 3, 13, 45): «non si tratta di un ricupero dello stato aurorale della coscienza, ma del ritrovamento di quella “via buona del cuore” che percorre sempre ogni zona della vita umana»123. Il focolare, dunque, è promessa, leggiamo nel frammento XLVIII (Grillo del focolar), di un «ardore» prossimo a venire, della nuova forza che consentirà al poeta di «operare» «la pace robusta […] e l’onestà feconda» (Quassù fra proni tetti, p. 93, vv. 47-48):
122 Nei Canti anonimi (1922) Rebora rivive la propria fanciullezza nei versi di Al tempo che la vita era inesplosa, «rievocazione di un passato irraggiungibile, di uno stato edenico» (A. Dei, Sul filo della spada, in C. Rebora, Poesie, prose e traduzioni, cit., p. XXXI). Anche qui il fuoco è associato al cibo e a presenze adulte positive, in questo caso il contadino Carlo, «figura saggia e protettiva […] quasi una sorta di guru campestre» (ibid.): «il gerlo sulle spalle, / andavo rincasando / con te come uguale, / verso la fiamma che dal sasso / già inneggiava alla polenta» (p. 222, vv. 55-59). 123 M. Guglielminetti, Clemente Rebora, cit., p. 28.
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Grillo del focolar la tua lima assopita lamenta grillo del focolar che la mia cappa è spenta.
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Grillo del focolar rodi in fretta il tuo grigio dolore grillo del focolar ch’è vicin nuovo ardore (Grillo del focolar, p. 89).
Ben diversamente da quelli incontrati nei versi di Govoni o Gozzano, il grillo di Rebora figura, secondo Fortini, nel novero degli «oggetti o eventi investiti di potere allegorico»124 che incontriamo frequentemente nei Frammenti lirici: qui il focolare diventa, dopo l’inevitabile presa di coscienza della facilità del degrado morale (cfr. il frammento precedente, XLVII, Fra il caldo velo del sonno, pp. 86-88), simbolo della «speranza [che] non si estingue», se al grillo «la voce poetante promette venturo fuoco e calore»125.
124 F. Fortini, «Frammenti lirici» di Clemente Rebora, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Le Opere, vol. IV Il Novecento, t. I L’età della crisi, cit., p. 245. 125 Ivi, p. 250.
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FUOCO SACRO
Da sempre il fuoco è stato associato al sacro, come sua manifestazione o suo esclusivo possesso: dal fulmine di Zeus o di Baal, al fuoco rubato da Prometeo; dalla colonna ardente che guida Israele nel deserto, alla pioggia di fiamme che distrugge Sodoma e Gomorra. Particolarmente interessante risulta l’epifania divina che, come narra la Bibbia, Primo libro dei Re, avviene attraverso l’elemento igneo quando il profeta Elia invita il popolo a scegliere tra Jahvè e Baal evocando il Signore sul monte Carmelo: Elia si accostò a tutto il popolo e disse: «Fino a quando zoppicherete da entrambi i piedi? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!». Il popolo non gli rispose nulla. Elia aggiunse al popolo: «Sono rimasto solo, come profeta del Signore, mentre i profeti di Baal sono quattrocentocinquanta. Dateci due giovenchi; essi ne scelgano uno, lo squartino e lo pongano sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Io preparerò l’altro giovenco e lo porrò sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Voi invocherete il nome del vostro dio e io invocherò quello del Signore. La divinità che risponderà concedendo il fuoco è Dio!». Tutto il popolo rispose: «La proposta è buona!»1.
Dopo che i sacerdoti di Baal hanno invocato inutilmente il loro dio, perché bruci il sacrificio che gli hanno offerto, Elia immola a sua volta un giovenco e lo pone sull’altare, ordinando agli israeliti di versarvi sopra l’acqua contenuta in dodici brocche: l’altare è inondato e si riempie il canaletto che il profeta ha scavato tutto intorno. Infine, Elia invoca il Signore, che si manifesta: «Cadde il fuoco del Signore e consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere, prosciugando 1
1 Re 18, 21-24.
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SUL FUOCO
l’acqua del canaletto»2. Il fuoco è segno della presenza del principio divino:
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È nel fuoco infatti che Dio si manifesterà; la scelta di tale segno non è casuale: Baal era dio dei fulmini, e il Signore al Sinai si era rivelato nel fuoco. Il fuoco è evocativo della dimensione del divino: senza contorni, sempre diverso e in continua trasformazione, rende visibile l’invisibile consumarsi del legno, distrugge (o si spegne) se si tenta di racchiuderlo. Sarà perciò il fuoco a segnalare la presenza di Dio3.
Oltre che «segnalare la presenza di Dio», il fuoco può anche sollecitarne la manifestazione: Frazer, ad esempio, segnala che l’antica usanza di accendere lampade per propiziare l’arrivo della dea Diana a Nemi (cui viene conferito anche l’appellativo di Vesta) presenta «evidente analogia con l’usanza cattolica di accendere le candele benedette in chiesa»4. Che sia simbolo della presenza e dell’onnipotenza divina, o strumento usato per evocare una ierofania (col fuoco acceso dall’uomo si cerca di suscitare il fuoco divino), il fuoco compare anche nella poesia di inizio Novecento in stretta associazione con immagini del sacro declinate virando dal patetico al trasgressivo; dal senso mistico di una tensione verso il principio di tutto, al luogo comune di un lumino acceso dalla pietà popolare.
2.1 «Accendiamo le candele sull’altare». Ceri, lampade e lumini (Moretti Govoni Corazzini Palazzeschi) Se in Govoni e Corazzini candele e lampade votive sono molto frequenti, in Moretti il fuoco è associato ad immagini sacre solo in una occasione: nelle Poesie scritte col lapis l’io poetante accosta una «teda» e un «bel “santino” […]: il volto addolorato / d’una Madonna del Sassoferrato» (La Madonna del Sassoferrato, p. 77, vv. 1-3). Per questa Madonna non vengono accese candele, eppure «il foglietto […] ha un odor di cera» (v. 5), e riporta alla mente dell’io lirico «il domestico altare in miniatura» (v. 30) presso il quale pregavano le sue padrone 2
1 Re 18, 38. B. Costacurta, Il fuoco e l’acqua. Riflessioni bibliche sul profeta Elia, Milano, Edizioni San Paolo, 2009, p. 49. 4 J. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, trad. it., con introduzione di A.M. Di Nola, Roma, Newton Compton editori, 1992, p. 23. 3
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FUOCO SACRO
di casa, non per nulla definite «Suor Vincenza» e «Suor Ginevra». A far luce, nella loro casa che è quasi un convento, la teda:
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Nulla mutaron nella vostra vita gli anni che sguscian facili nell’ombra quando una teda basta alla penombra e la discesa è quasi una salita (p. 78, vv. 37-40).
I versi govoniani di Armonia in grigio et in silenzio sono invece popolati di ceri e lampade accesi su altari o davanti a icone devozionali. Nella sezione Filotea delle campane si susseguono di componimento in componimento i richiami a cattedrali, conventi, feste religiose e ricorrenze scandite dalle campane che invitano al culto: tra queste, quelle «argentine / de le povere suore cappuccine» (La Filotea delle campane - IV, AGS p. 60, vv. 1-2): I loro suoni lenti sono ceri pazienti da la fiammella salutare, placidi ceri che languiscono sopra un candido altare (p. 62, vv. 24-28).
Ceri, suore, altare e suono di campane in lontananza: siamo in pieno «armamentario crepuscolare»5, declinato però da Govoni con la solita accesa fantasia, per cui lo scampanio che perdura lieve è sinesteticamente paragonato al lento ardere dei ceri. Ancora nella sezione Rosario di Conventi, il cero è in scena nelle celle di «sette bianche Spose / di Dio» (Rosario di Conventi – II, AGS p. 89, vv 2122) e nel «corto dormitorio» dove tre suore hanno, ognuna, accanto al letto «il crocefisso d’avorio, / il mingherlino cero benedetto» (Rosario di Conventi – IV. Convento in miniatura, AGS p. 94, vv. 17, 19-20). Nel V componimento della sezione le donne in preghiera parlano in prima persona, e ancora una volta la fiamma simboleggia il contatto con la sfera del divino6: 5 S. Solmi, Govoni e le immagini, in Id., Scrittori negli anni. Saggi e note sulla letteratura italiana del Novecento, Milano, il Saggiatore, 1963, p. 257. 6 Nei Fuochi d’artifizio i corpi stessi delle suore sono trasformati in ceri: «Le due suore vaghe come giorni di vacanze tediose / vicino al pozzo pregano con il rimpianto / delle lor mani simili a candele d’amianto / di cui l’unghie son fiammelle perpetuate e pudorose» (Riflessioni macabre, FA p. 134, vv. 5-8).
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SUL FUOCO
ascetica
La mia fede è la lucerna calma da la mite fiammella come un giglio; […] ardente
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Signore, o Tu consumami d’ardenza come si strugge l’espiatrice cera (Anime preganti, AGS pp. 96-97, vv. 9-10, 13-14).
Un veloce elenco: si va dai «corredi / di pace, d’incenso e di steli / di ceri!» (Ore innocenti, AGS p. 115, vv. 10-12) ai «ceri [che] sbocciano sopra l’altare» (Le voci de le suore, AGS p. 122, v. 2); poco più avanti un «chierico / [è] intento ad accendere i ceri» (Benedizione serale, AGS p. 128, vv. 1-2) e «i bioccoli de la cera / lagrimano lungo le gote / dei bianchi candelabri» (Pastello di palpiti e pensieri, AGS p. 141, vv. 1-3); sempre in Rosario di Conventi leggiamo: «Una povera lampada si strugge / in silenzio per il sacramento» (Nel convento di S. Antonio, AGS p. 144, vv. 21-22); «Quattro cerei malaticci, dietro / il tabernacolo con la sua bruna / cotta inclinano le smilze fiammelle» (Ne la cappella de la beata, AGS p. 146, vv. 13-15); «L’altarino s’empie di ceri / come una luminaria di gigli» (La domenica nel convento, AGS p. 149, vv. 25-26). Se è vero che Armonia in grigio et in silenzio [è] il testo che per primo, in data estremamente alta, 1903, tenta il rovesciamento delle poetiche dell’Arte con la maiuscola, e del sublime, inventandosi e costruendosi quel sublime d’en bas, contrapposto al sublime d’en haut dannunziano, che avrebbe preso il nome di crepuscolare7,
è vero anche che il repertorio di immagini di suore, conventi, ceri, altari è guardato ed esibito attraverso un «vivissimo caleidoscopio»8 che produce «una continua esplosione di immagini, collegate dal demone […] della analogia»9: fiamme e candele non suscitano un’idea del sacro ‘tradizionale’, bensì basata sulla ricerca dello shock, sulla novità di accostamenti inusuali, mentre «le tematiche crepuscolari […] subi[scono] l’aggressione di una parola pirotecnica»10.
7
L. Barile, Postfazione, AGS, p. 211. Ivi, pp. 216-217. 9 Ivi, p. 217. 10 N. Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, Bologna, il Mulino, 1999, p. 42. 8
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FUOCO SACRO
Questa tendenza si accentua, e sfocia in «un disordine assoluto, un caos apparentemente incontrollato»11, nei Fuochi d’artifizio:
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I candelabri giaccion rovesciati sopra gli altari insieme con le dolci cartaglorie. Le imagini ed i crocefissi sono imbacuccati di violetto ed i vasi ànno dei fiori disseccati simili a quelli morti dentro i libri di memorie (Sabato santo, FA p. 101, vv. 26-30); L’azimo delle fiamme si scartoccia dalla gluma del suo spegnimento. La carne pallida delle candele si consuma senza dolori (Nell’oratorio delle Stimatine, FA p. 138, vv. 1-4); Le tre suore si sono coricate nelle celle della loro lucerna con le bocche umide dove si eterna l’ardore delle fiamme soffocate (Cercate il tubercoloso, FA p. 150, vv. 1-4).
Una commistione del sacro col quotidiano si dà nell’Ora di notte, in cui, dopo cena, i membri della famiglia si avvicinano al camino: E incomincia la processione per l’altar notturno con le candele. L’ultimo che resta copre il fuoco con la cenere, e carica la pendola ch’è quasi appisolata (L’ora di notte, FA p. 111, vv. 31-33).
Il gesto consueto e banale di accendere le candele per la notte è solennemente associato a un rito da compiere in processione: ma subito dopo l’incursione nella sfera del sacro, Govoni torna alla prosaica descrizione della copertura delle braci e della carica data alla pendola, assonnata come i commensali. Negli Aborti ricorrono, anche se con una frequenza molto minore, immagini simili: nei versi dedicati alle Tuberose e alle Azalee, ad esempio, i fiori sono associati a ceri, altari, ostie, incenso, insomma a tutta la sfera simbolica di Rosario di Conventi: [le tuberose] preferiscono i vasi degli altari, dove si sgranano come rosari di profumo tra i canti delle suore 11
F.Targhetta, L’esplosione e l’esasperazione: i «Fuochi d’artifizio» di Corrado Govoni, cit., p. 475.
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SUL FUOCO
e illuminan le dita scrupolose ceri fioriti di bianchiccie [sic] rose, candide scale a chiocciola d’odore (Le tuberose, AB p. 59, vv. 9-14); ostie di carne, fiori immateriali come specchiati, pallidi e leggeri come le fiamme argentee dei ceri, come l’incenso azzurro spirituali.
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Bianche azalee […] (Le azalee, AB p. 63, vv. 1-5).
Coi «preannunci futuristici»12 della raccolta del 1907 si accentua la tendenza di Govoni a farsi trascinare di immagine in immagine, seguendo «la novità sbalorditiva degli accostamenti»13: le azalee sono paragonate a quanto di più «spirituale» possa esistere, la fiamma14, e nello stesso tempo la coniugano con la «carne» nell’immagine dell’ostia, che nel rito cattolico sostituisce proprio la carne, il corpo di Cristo. Potrebbero riferirsi alle «fiamme argentee dei ceri», definite da Govoni «spirituali», le parole dedicate da Bachelard alla purezza del fuoco: Osserviamo meglio l’area dove il fuoco sembra più puro: la punta della fiamma, dove il calore lascia il posto a una vibrazione quasi invisibile. Allora il fuoco, perdendo la sua materialità e realtà, diventa spirito15.
Ancora a termini relativi alla vita religiosa sono accostate le «tede» de L’Azzurro (AB p. 93), «luminose» testimoni di «purificazione», «Paradiso», «Annunciazione», «Assunzione» e «Pasqua» (vv. 2, 4, 6, 7, 10); così come le candele di Nella Certosa (AB p. 111) che, in un’immagine mirante a suscitare una barocca meraviglia16, «con il loro bianco pianto ardente / lavano i piedi come pie donne inginocchiate» (vv. 12
S. Solmi, Govoni e le immagini, cit., p. 257. Ibid. 14 Si riprende, negli Aborti, un’immagine dei Fuochi: «I gigli dentro l’anfore di porcellana / àn sbocciato la loro fiamma francescana / soave come un suono dentro della lana» (Per le suore benedettine di Ferrara, FA p. 152, vv. 1-3). 15 G. Bachelard, La psicoanalisi del fuoco, cit., p. 214. 16 Sembra quasi che Govoni voglia gareggiare con l’Artale: le sue candele, che «lavano i piedi […] inginocchiate» fanno venire in mente la Maddalena descritta dal poeta barocco nell’atto di lavare i piedi a Gesù: «ché il crin s’è un Tago e son due Soli i lumi, / prodigio tal non rimirò natura: / bagnar coi Soli e rasciugar coi fiumi» [G. Artale, Santa Maria Maddalena, in B. Croce (a cura di), Lirici marinisti, Bari, Gius. Laterza e figli, 1910, p. 453, vv. 12-14]. 13
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3-4). L’aggettivo «bianco», dal quale è definito il pianto, viene accostato ossimoricamente al participio «ardente», che invece indurrebbe a pensare al rosso: Govoni condensa così, in una sola immagine, il bianco della cera sciolta che cola e la fiamma che nasce all’estremità della candela e la consuma. «Ceri accesi davanti alle reliquie» fanno la loro comparsa nei versi di Dolcezze (AB p. 195, v. 9), mentre ne La Cordaia la luce proviene da «qualche umil lampada sospesa / che veglia nella notte d’una chiesa» (AB p. 138, vv. 53-54). Ugualmente sospesa, ma in macabra figura «d’impiccata», è La lampada di Psiche (AB p. 121): qui una fanciulla devota (è lecito pensare che il suo dio sia un Amore addormentato) entra scalza in una casa deserta, come il poeta racconta all’oggetto della di lei contemplazione: E l’ho vista chinarsi quasi incerta sul tuo letto ad esaminare un’ala, e prima di partire appendere a la trave la sua lampada in offerta (AB p. 21, vv. 5-8).
Ma la lampada svolge per poco tempo il suo compito: all’alba è sovrastata dalla luce del giorno, assumendo tratti funerei, «sospesa / sopra il tuo viso in aria d’impiccata» (vv. 13-14). «Al poeta Corrado Govoni» è dedicata, da Sergio Corazzini, La chiesa venne riconsacrata… (L’amaro calice, 1904), in cui proprio un’impiccagione profana lo spazio sacro, mentre «ne le piccole celle» (v. 5) i frati riposano inconsapevoli: ogni monaco viene al suo piccolo letto, nitido come un altare, e accende il luminetto a la Vergine Maria, che non fa che lagrimare perché ha sette spade in core che le dànno acerba doglia (p. 135, vv. 10-17).
Nella chiesa le «candele [sono] spente a i lati» (vv. 31-32) dei confessionali, e arde una lampada: Il sagrestano recise la grossa corda per cui pendeva davanti la figura
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di Cristo, la lampada rossa con la sua fiamma quieta e pura. La lampada cadde con sorda percossa su le pietre sepolcrali; l’uomo con tre moti uguali girò intorno al collo la corda e penzolò nel vuoto (pp. 136-137, vv. 54-62).
In effetti alcune immagini, quali quella dei «confessionali, con le loro / tendine verdi un po’ sciupate» (vv. 26-27 ) paragonati ad «alveari ove ronzino, api, i peccati, / e l’assoluzione sia miele» (vv. 33-34), o quella del «piccolo libro delle / Massime Eterne» (vv. 39-40) che «è l’unica bocca che parli, / […] è l’unico occhio che veda» (vv. 49, 51) richiamano modi del poeta ferrarese: molto deve al Govoni questa lirica, […] per il modo di descrivere l’interno della chiesa, coi suoi ceri, le acquasantiere, i confessionali, le beghine. E la dedica vuol forse anche essere il riconoscimento della ‘maniera’ derivata dall’amico […]17.
In genere i toni di Corazzini indulgono più al patetico che al grottesco, insistendo non tanto su accostamenti azzardati quanto su consuete immagini di semplice devozione, nate da «una memoria infantile e incantata di presepe»18. Si vedano le sue Madonne, sempre sofferenti e dolci, le suore e le fanciulle oranti, il suo Gesù tenero che offre «un parallelo alla [corazziniana] vicenda di fanciullo destinato al sacrificio»19. Nei versi di La Madonna e il suo lampioncello (in Dolcezze, 1904) la Vergine è spaventata da un imminente temporale e invoca un po’ di luce: O lampioncello, fallo per mi’ amore, […] senti: ho paura di stare all’oscuro, senza il raggietto [sic] de la tua fiammella! Ardi, ed il cuor dolente rassicuro, ardi, ti prego, lampioncello rosso, come il cuor di Gesù, tremante e puro… (La Madonna e il suo lampioncello – I, p. 96, vv. 4, 8-12).
17
I. Landolfi, Commento, in S. Corazzini, Poesie, cit., p. 366. A. Marcovecchio, Sergio Corazzini: Manierismo come poesia, in F. Livi – A. Zingone (a cura di), “Io non sono un poeta”. Sergio Corazzini (1886-1907), cit., p. 46. 19 G. Savoca, Forme della regressione nella poesia di Corazzini, cit., p. 234. 18
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Maria prova un’infantile paura del buio e della solitudine («Qui sono sola ed assai lunge è Dio! / Qui sono sola, assai lunge è il mortale», La Madonna e il suo lampioncello – II, p. 97, vv. 7-8), proprio come ha paura del buio il fanciullo che abbiamo già incontrato in Soliloquio delle cose20. Similmente, nei Poemi palazzeschiani, l’io lirico implora una lanterna perché continui a risplendere: Lanterna dalla luce eterna, non potresti rischiarare, per un poco, per un poco, la via d’un sopravvissuto? Io son breve, tu sei eterna, mia lanterna un po’ di foco! […] Io vorrei stasera stessa, se luce tu farai, sotto te venire a cena, se tu credi che ne valga la pena su coraggio, un po’ di foco, per un poco, per un poco (La lanterna, p. 146, vv. 6-13, 19-24).
È qui ribaltata la situazione inscenata nei versi di Corazzini: se è vero che la Madonna potrebbe ben dirsi «eterna» e che il lampioncello ha esaurito il fuoco, nei Poemi il protagonista è un povero «sopravvissuto» consapevole di essere «breve», mentre la lanterna è perenne, ed è perciò implorata affinché offra luce e calore. Eppure, laddove Corazzini preserva il tono mistico e patetico fino alla fine del componimento, in Palazzeschi, con l’improvviso riferimento alla «cena», assistiamo al «consueto abbassamento dal fiabesco al quotidiano, che corregge la rilevanza simbolica del motivo, riportandolo ai rituali di semplice sopravvivenza domestica»21. Non sappiamo cosa accada dopo l’implorazione rivolta alla lanterna dal soggetto palazzeschiano; ne La Madonna e il suo lampioncello, invece, dopo tante preghiere inesaudite («il lampioncello sospirò: “Non 20 «Avanti di dormire, accendeva un piccolo lume giallo, sospeso al muro. Forse aveva paura. È una così dolce cosa, la paura, appunto perché è dei fanciulli!» (Soliloquio delle cose, p. 168). 21 A. Dei, Note al testo, in A. Palazzeschi, Poemi, cit., p. XLII.
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posso”», La Madonna e il suo lampioncello – I, p. 96, v. 13), viene finalmente acceso il fuoco, ma troppo tardi: «Maria suavissima non c’era…» (La Madonna e il suo lampioncello – III, p. 97, v. 13). In altri versi di Corazzini, ceri impossibilitati a bruciare vengono associati ad una condizione di verginità, bloccati come sono in un “non ancora” che è prerogativa dei suoi fanciulli:
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Giù dall’antica grata, estenuati i fiori morti, su l’altare, il Santo, dolcissimo nel suo nitido manto, con gli occhi un po’ velati, un po’ velati forse, chi sa, da qualche umano pianto; due ceri gialli, senza fiamma, a i lati, due ceri senza fiamma, inanimati, come i cuori che mai sepper lo schianto (Cappella in campagna – I, p. 126, vv. 1-8).
Le figure di ripetizione, frequenti fin da Dolcezze, hanno anche nei versi di Cappella in campagna (L’amaro calice) la funzione di «allontanare in modo indefinito il soggetto»22, di collocarlo in un altrove che sembra un luogo inaccessibile eppure vicino, come la morte. I ceri di Cappella in campagna, come già il lampioncello, dovrebbero ardere in offerta votiva: eppure sono colti nella loro impossibilità di bruciare e consumarsi: quasi mummificati nella loro ostinazione a preservarsi integri, hanno perso il candore originario. Avvizziti e ingialliti come i fiori morti sull’altare, hanno subito una forma di morte alternativa. È l’io lirico a portare finalmente il fuoco, ma non verranno accesi i ceri invecchiati: alla Madonna sarà riservata la fiamma di ceri candidi, accompagnati da rose altrettanto candide. […] volli portare due ceri nuovi, due ceri bianchi come mai, e due rose – ho i miei piccoli rosai anch’io – due rose bianche come i ceri; […] Oh la fiamma purissima, oh il profumo novo […]. Su i candelabri, i ceri arsero in pura fiamma, come due cuori amanti; tutti 22
S. Simone, Corazzini e Pascoli, in F. Livi – A. Zingone (a cura di), “Io non sono un poeta”. Sergio Corazzini (1886-1907), cit., p. 98.
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arsero, e per un poco su i distrutti avanzi andò la fiamma malsecura (Cappella in campagna – II, pp. 126-127, vv. 3-6, 9-10; III, p. 127, vv. 1-4).
Come Govoni, Corazzini associa il candore dei ceri all’ardore di una fiamma che, si è visto sulla scorta di Bachelard, diventa spirito immateriale: il sacrificio delle candele rispecchia quello di due «cuori amanti», che ci aspettiamo siano altrettanto candidi e ardenti. La fiamma purifica e consuma, finché «nell’aria fu un odor di sepoltura» (III, v. 5): il fuoco non ha dato luogo ad un cambiamento nello scenario della cappella, ancora marcato da «una tristezza / intensa immensa» (IV, p. 128, vv. 5-6)23. Il tono lacrimevole di Cappella in campagna resta immutato nella successiva silloge, Le aureole: nel sonetto A la sorella (p. 162) la «lampada votiva» (v. 5), accesa per favorire la preghiera, non serve a rinsaldare la fede e la speranza dell’orante, «tristissima sorella» (v. 9) dell’io lirico. Oscillante invece tra esultante attesa e scoraggiamento improvviso è lo stato d’animo delle suore di Sonata in bianco minore (Piccolo libro inutile), costruita interamente sul dialogo tra le donne, che decidono di soccorrere un ossimorico sole infreddolito: - Sorelle, venite a vedere! - C’è il sole nell’orto, c’è il sole! - È un povero sole che ha freddo, non senti? - Che piange le sue primavere… […] - È più banco della mia cornetta… (p. 183, vv. 1-4, 14).
Come i futuristi, di lì a pochi anni, si proporranno di riscaldare un sole ammalato, riaccendendone il fuoco spento con il loro sangue infervorato dal deflagrare dell’arte nuova24, così le suore di Corazzini 23
Nelle Poesie sparse troviamo altre immagini di lumi votivi che non bruciano abbastanza per consolare la Madonna in pena («E la fiamma morente guizza, brilla / e lampeggia e rischiara il sacro muro / […] / E nell’ultima rapida scintilla / illuminante il triste fondo oscuro / la dolce madonnina par tremare», La Madonna, p. 231, vv. 9-10, 12-14), che restano spenti («Nella cappella solitaria / perché non veniva accesa / la piccola lampada sospesa / davanti all’Agnello confitto / in croce? […]», Vigilavano le stelle, p. 299, vv. 26-30), o che persistono soltanto nella memoria di un’antica chiesa abbandonata (Dittico della chiesa, p. 280, vv. 1-2: «O gelida, nel tuo triste abbandono, / ricordi il vasto fiammeggiar dei ceri»). 24 «Il nostro sangue?... Sì! Tutto il nostro sangue, a fiotti, per ricolorare le aurore ammalate della Terra!... Sì, noi sapremo riscaldarti fra le nostre braccia fumanti, o misero Sole,
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mettono in gioco ogni loro risorsa per propiziarne il ritorno con la preghiera e le candele dell’altare, quasi il dio da loro adorato fosse il sole.
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- Sorelle, pregatelo a mani giunte ché torni domani! - Che torni, per poco, che torni, però, tutti i giorni! […] - Comunichiamocene, sorelle, prima che vengano le stelle. - Noi non abbiamo che Gesù, Maria e niente più (pp. 183-184, vv. 17-20, 23-26).
La devozione delle Sorelle è spostata da Gesù e Maria al sole, in una nuova idolatrica eucaristia. Anche i ceri votivi non sono più accesi per la Vergine e per il Cristo: - Oh, Sorelle, e, se non torna, che faremo? - Se non torna, aspetteremo. - Com’è gelido il convento. - È più gelido il mio cuore. - Oh, Sorelle, invece io sento tutto il sole nel mio cuore. […] - Accendiamo le candele sull’altare (p. 184, vv. 34-40, 43).
Con un gesto di magia imitativa, le suore sperano di poter sostenere il sole con il fuoco delle candele, di poterne riscaldare la fiamma «che ha freddo» con altra fiamma. Ingenue quanto l’uomo primitivo di cui parla Frazer, «dev[ono] aver pensato di poter aiutare il sole in quello che sembrava il suo declino – di poter sorreggere i suoi passi vacillanti e ravvivare la fiamma morente della lampada rossa che teneva in mano»25. Il fuoco sull’altare dovrebbe, dunque, riprodurre il fuoco celeste, ed avere su di esso un’influenza benefica. Ben diversamente vigoroso, l’astro diviene, nella Regola del Sole di Palazzeschi, oggetto del culto di «un piccolo gruppo di signore, / dei decrepito e freddoloso, che tremi sulla cima del Gorisankar!...» (F.T. Marinetti, Uccidiamo il Chiaro di Luna, in Id., Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Milano, Mondadori, 2005, p. 26). 25 J. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, cit., p. 688.
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più svariati paesi» (p. 214, vv. 1-2). Il poeta dell’Incendiario (1910), memore dei versi dell’amico Sergio, ne rovescia il tono patetico nella giocosa e ironica rappresentazione di una nuova regola religiosa, intessendo il racconto di «ripetuti, deformanti riferimenti ai rituali del culto»26 cattolico: Appena il Sole appare, al primo raggio, che serba per una speciale predilezione alle sue religiose, esse emettono grida, ridono, cantano, i loro inni, i loro voti passionali, salutano piene di ebbrezza dopo il bacio del Signore. È la loro comunione (La Regola del Sole, pp. 215-216, vv. 59-68).
Non c’è fuoco nel monastero di queste strane suore: l’unica fiamma loro concessa è il sole stesso, che raduna le donne attorno a sé come attorno a un falò, attirando gesti di devozione e preghiere quando, al tramonto, sembra avvicinarsi alla terra: Il Sole si abbassa poco a poco, s’adunano le suore dalla stessa parte come vicino al fuoco. Che momento per loro! Il Sole posa come la particola più luminosa sopra il calice più grande e più colmo (La Regola del Sole, pp. 217-218, vv. 127-135).
Il tramonto del sole richiama esplicitamente la consacrazione cattolica delle particole e del calice di vino: in questo modo, alla morte dell’astro è conferita la dignità di un evento sacro. Il richiamo all’eucaristia, e quindi al sacrificio di Cristo, non elimina del tutto alcune divergenze tra le due situazioni: il Sole, dopo la sua breve sparizione, torna esattamente uguale a se stesso; Gesù, invece, dopo un’assenza molto più lunga, torna ma conserva nel suo corpo i segni del passaggio 26
A. Dei, Giocare col fuoco. Storia di Palazzeschi poeta, in A. Palazzeschi, Tutte le poesie, cit., p. XXXVI.
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attraverso la morte. Il sole, più che morire e risorgere, attraversa il regno della morte da vivo, per tornare al mattino dopo l’incursione negli inferi:
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senza conoscere la morte […] attraversa ogni notte il regno della morte e riappare l’indomani, eternamente uguale a se stesso. Il «tramonto» non è percepito come «morte» del Sole (contrariamente ai tre giorni di oscurità della Luna), bensì come una discesa dell’astro nelle regioni infere, nel regno dei morti. Diversamente dalla Luna, il Sole ha il privilegio di attraversare queste regioni senza subire la modalità della morte27.
Il sole assume, così, la «funzione ambivalente di psicopompo “uccisore” e di ierofante iniziatico»28, poiché «può condurre gli uomini con sé e, tramontando, farli morire; d’altra parte, può contemporaneamente guidare le anime attraverso le regioni infernali e ricondurle alla luce l’indomani»29. Anche per le signore della Regola, il Sole si trasfigura in uno psicopompo che «“aspira” le anime dei viventi»30: Esse lo sanno che il Sole le ama, che sempre le guarda, e non le scorda mai; lo sanno che quando moriranno anderanno da Lui, che le coronerà del suo più caldo amore! […] Quelle suore non muoiono di nessun male, si asciugano, si asciugano, si disseccano al Sole… […] senza la consueta putrefazione. Il loro Signore le raccoglie a poco a poco sotto l’azione del suo potente fuoco (pp. 216-217, vv. 94-99; pp. 219-220, vv. 195-198, 203-205).
Ma se in questo monastero non si accende altro fuoco, e a sera, col «diminui[re]» delle «belle fiamme» (v. 147) dei raggi solari, le suore impallidiscono e piangono, altri luoghi sacri palazzeschiani pullulano invece di candele, lampade, ceri votivi. Si vedano, nei Cavalli bianchi (1905), Il manto e La lacrima: 27 28 29 30
M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 122. Ibid. Ibid. Ibid.
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Recinto da un muro rotondo è il Santuario che non si chiude mai. È tutto bianco e non à tetto. Un’apertura piccola è l’ingresso. V’arde un lume perenne (Il manto, p. 25, vv. 1-5);
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Su la vetta del monte ne l’ombra dei cipressi alti è il Santuario. Sette cipressi alti una cappella piccola ed un lume (La lacrima, p. 26, vv. 1-5).
I due lumi accesi nei due Santuari fanno luce su «minime, incongrue reliquie»31: «tre fili di seta celeste / rimasti volanti a una spina» (Il manto, vv. 12-13), e il punto dove «la Lacrima cadde» (La lacrima, v. 21). Il sacro palazzeschiano è costruito sulla «frigida commemorazione di un oggetto inappropriabile, messo in vetrina per essere consumato unicamente attraverso la fissazione feticistica»32. Il fuoco arde senza un senso ulteriore: la gente che osserva non partecipa ad alcun rito, non prega, non attende alcunché. Gli stessi elementi – santuario, fuoco, folla – configurano uno scenario completamente diverso in Lanterna (1907). Laddove Il manto e La lacrima sono componimenti tutti giocati sullo svuotamento di senso del rituale religioso, ambientati in un «universo bloccato, ripetitivo e invariabile»33, in Tempio serrato va in scena un incubo. «Il centro», che nei Cavalli Bianchi «è vietato, protetto da cancelli e mura»34, è in Lanterna luogo che la folla può profanare, facendovi irruzione. Il punto di vista, angosciato e angosciante, è quello della possibile futura vittima, il Kinik, a cui è appena stato tolto l’impero: Nel mezzo, nel vuoto del Tempio, sul gelido marmo, prostrato dinanzi a l’altare maggiore ov’ardono i ceri del segno, vi prega, dominio d’orrore, il Kinik. 31
A. Dei, Giocare col fuoco. Storia di Palazzeschi poeta, cit., p. XVII. A. Saccone, L’occhio postumo. Palazzeschi debuttante, in Id., L’occhio narrante. Tre studi sul primo Palazzeschi, Napoli, Liguori Editore, 1987, p. 31. 33 E. Pellegrini, “La morte euforica” di Palazzeschi, in G. Tellini (a cura di), La «difficile musa» di Aldo Palazzeschi. Indagini, accertamenti testuali, carte inedite, in «Studi italiani», XI, 1-2, p. 306. 34 G. Guglielmi, L’immagine negativa, in Id., L’udienza del poeta. Saggi su Palazzeschi e il futurismo, Torino, Einaudi, 1979, p. 90. 32
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Strappato àn di mano l’impero al Kinik, l’àn chiuso nel Tempio. I ceri massicci vi furono accesi a l’altare maggiore siccome per festa, fu chiusa la porta ferrata (Tempio serrato, pp. 37-38, vv. 20-30).
Il re spodestato attende il suo destino: d’esilio, di morte o di prigionia. Il Santuario potrebbe essere profanato dallo spargimento di sangue umano, oppure, se a ciò fosse deputato, potrebbe essere il luogo dove il sacro35 sta per manifestarsi, con l’uccisione rituale di un re che deve cedere ad altri il potere. Il tempo è misurato proprio dal consumarsi dei ceri, perciò definiti «del segno»: Il Tempio è serrato, serrato fin tanto che raggio di fuori si veda. La gente à la chiave del Tempio, la gente che è fuori aspettando, rivolta impaziente a la luce che ancora leggera traspare (p. 37, vv. 13-19).
Finché i ceri arderanno, la folla resterà all’esterno; quando ogni residua fiamma sarà spenta, il diaframma tra dentro e fuori, confine inviolabile nei Cavalli Bianchi, sarà penetrato. Caduta la tensione di Tempio serrato, si torna a toni da cantilena o filastrocca con Rosario, lungo catalogo di personaggi che, in tre versi ciascuno, si presentano sulla scena – o meglio, presentano la pura sonorità dei versi che essi recitano, «inaugurando anche una sorta di nonsense preironico e cantilenante che estrania suono e senso»36: ecco Stefanello che, nell’anafora della parola «cero», inanella associazioni di idee che riguardano l’apertura di una porta (come in Tempio serrato), l’attesa di una felicità suprema (come sarà nella Regola del Sole), lo sguardo che contempla senza uno scopo (come nelle poesie dei Cavalli bianchi).
35 Secondo una distinzione operata da Serres il sacro ha sempre a che fare con la morte, propria o imposta ad altri, con il sangue e, appunto, i sacrifici; mentre il santo ne rappresenta il superamento: «Il santo si distingue dal sacro. Il sacro uccide, il santo appacifica» (R. Girard – M. Serres, Il tragico e la pietà, trad. it., a cura di R. Alessandrini e M. Rossi, Bologna, Edizioni dehoniane, 2015, p. 76). 36 A. Dei, Giocare col fuoco. Storia di Palazzeschi poeta, cit., p. XXIV.
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FUOCO SACRO stefanello,
scaccino.
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Cero che si porta, chiave d’una porta, cero che s’accende, gioia che s’attende, per cero che arda, occhio che ti guarda (Rosario, p. 54, vv. 81-84).
Recuperano la loro simbologia di oggetti d’arredo sacro i ceri accesi nel Monastero di Maria Riparatrice, pubblicata su «La Voce» nel 1913 e dedicata al «convento di monache di clausura in via Gino Capponi, […] una delle mete abituali dei pellegrinaggi di Palazzeschi per le chiese e le cappelle fiorentine»37. Le suore, che l’io poetante osserva «col naso dentro un vano / del fitto cancello che [le] serra» (p. 327, vv. 15-16), partecipano ad una funzione piena di inchini, canti e litanie: Le vostre voci unite salgono a Gesù, pallido amante, che è lassù, fra le candele, sul tripode di marmi bianchi dell’altare e che adorate (Monastero di Maria Riparatrice, p. 328, vv. 25-30).
Laddove le adepte della Regola del Sole godono dei favori di un amante lontano (raggiungibile, come Gesù, solo con la morte) ma dalla presenza ardente, le suore chiuse nel monastero di Maria Riparatrice venerano un dio «pallido» e forse anche freddo, come il marmo bianco che evoca, sì, l’idea della purezza, ma la associa all’algore38 di un rito cristallizzato e congelato nella sua mancanza di passione. Come il fuoco delle candele, le suore «biancovestite e di bianco velate» (v. 175) diventano creature immateriali, «automi o astrazioni senza fisicità»39, perdendo la loro concretezza di donne; vivono di un sacro basato su rassicuranti pratiche liturgiche, che il poeta un po’ invidia, un po’ rifugge: Parlare sempre con altrui parole, gestire come si deve, non come si vuole, essere dieci, venti, cento tutti in fila, 37
A. Dei, Note alle singole poesie, in A. Palazzeschi, Tutte le poesie, cit., p. 1111. Come vedremo a proposito dei Bianchi del convento della Storia di Frate Puccio. 39 G. Tellini, Sul comico palazzeschiano, in Id., Le muse inquiete dei moderni. Pascoli, Svevo, Palazzeschi e altri, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2006, p. 245. 38
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e fare al tempo stesso le medesime cose […] Essere musica o colore, non più povera carne delle strade (pp. 328-329, vv. 56-61, 66-67).
Come le suore sembrano dissolversi in «musica o colore», così anche il sole nel monastero sbiadisce, insieme al pallido Gesù, in mezzo al biancore dei ceri: uscito di nuovo all’aria aperta, il poeta paragona il sole «tutto di sangue» (v. 116) visto, al tramonto, «dietro il tetto d’un’altura» (v. 104), con «il sole bianco / che lassù fra le candele / del vostro altare langue» (vv. 111-113). Questo «sole bianco» contornato di ceri, sull’altare, potrebbe anche rimandare all’ostensione dell’ostia consacrata, in un’ulteriore irrisione del rito che svuota di senso l’oggetto del proprio culto, nel momento stesso in cui pretende di possederlo: O venitelo a lodare qui, il Signore, che ve lo fece il sole! Perché non glie lo venite a gridare che lo amate? […] E venite qui con me un poco, e le cantiamo insieme le laudi al Signore! (pp. 330-331, vv. 119-122, 125-127).
Abbandonare lo spazio chiuso, dunque, dove fin dai Cavalli bianchi il sacro è messo in scena col suo contorno di ceri votivi, arredi liturgici, porte serrate; abbandonare la contraddizione di «ama[re] il sole» restando «nell’ombra rinserrate» (vv. 140, 141): sembra che questo invito, rivolto alle «macchie di colore» (v. 180) che recitano litanie a Maria, sia già stato accolto, alla fine dei Poemi, dal frate Rosso, come vedremo più avanti.
2.2 «Mistica compagnia»: la ricerca del sacro (Rebora Campana Ungaretti Sbarbaro) Nei Frammenti lirici di Rebora non compare alcuna icona devozionale associata ad immagini ignee: il senso del sacro, la certezza che «la materia è indistinguibile dallo spirito ed è percorsa da un unico potente
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moto di elevazione»40, permeano tutta la raccolta del ’13, tessuta sulla tensione del soggetto verso una «tormentosa e felice capitolazione di fronte a un destino universale»41. Spesso l’io lirico, nel suo percorso esistenziale, si percepisce in una situazione di paralisi o, meglio, di oscillazione tra condizioni opposte, che caratterizza anche la stessa poesia: questa, nel frammento XLIX, O poesia, nel lucido verso, si fa fuoco, che «speranze nell’occhio del cielo divampa» (p. 90, v. 4) e «tripudi sul cuor della terra conflagra» (v. 5). Il componimento è giocato sulle opposizioni alto/basso, terra/cielo, o anche «sterco»/«fiori» (p. 91, v. 31). Le fiamme esplicitano lo slancio verso l’alto, verso la purificazione, del poeta e della sua opera, che tendono ad essere segno, come appunto è il fuoco, della «presenza di Dio» (v. 32) ma si riconoscono inattuali: «O [poesia] morta e rinata / cittadina del mondo catenata!» (vv. 33-34). Lampade votive compaiono invece nei Canti Orfici, e sono accese per la Vergine: si tratta ancora, come abbiamo osservato a proposito delle immagini di focolare, di fiammelle osservate da uno spazio aperto. Nei versi di Campana lumini, candele o fiaccole, se anche associate alla sfera del sacro, non figurano mai nel chiuso di chiese, monasteri o conventi. Leggiamo, ad esempio, L’invetriata: Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? – c’è Nella stanza un odor di putredine: c’è Nella stanza una piaga rossa languente (p. 127, vv. 4-7).
Il gesto di devozione apre un orizzonte di domande inquiete: l’io poetante si tende senza sosta «nello spasimo di un interrogativo, nel naufragio di fronte ad un mistero»42. La lampada accesa è accostata al «suggello ardente» (v. 3) che la sera imprime nel cuore del poeta, e alla «piaga rossa languente» (v. 11) che la sera stessa porta nel proprio cuore. L’io lirico riesce ad «avvertire l’esistenza di una realtà non percepibile dai sensi, ma che talvolta si manifesta attraverso segni quotidiani che si trasformano in elementi inquietanti»43. La lampada non sembra illuminare e rischiarare la notte, ma far intravedere al poeta una verità 40
F. Fortini, «Frammenti lirici» di Clemente Rebora, cit., p. 245. Ibid. 42 S. Guarnieri, La sfida di Campana, in Dino Campana oggi. Atti del Convegno (Firenze, 18-19 marzo 1973), a cura del Gabinetto scientifico letterario G.P. Vieusseux, Firenze, Vallecchi, 1973, p. 81. 43 F. Ceragioli, Commento, in D. Campana, Canti Orfici, cit., pp. 228-229. 41
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subito nascosta: la fiamma che si accende alla Madonna diventa simbolo della fiamma che il poeta ha in petto, e anche la sera «tremola» «fatua» (v. 9), come vibra la luce votiva della «Madonnina del Ponte». Un’altra Madonna è in Faenza, su «una grossa torre barocca: dietro la ringhiera una lampada accesa» (p. 156). Il fuoco, che l’altezza della torre e la presenza della ringhiera44 separano dallo spazio in cui si muove l’io lirico, arde illuminando la statua della Vergine ed un orologio:
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l’occhio dell’orologio trasparente in alto appare che illumina la sera, le freccie [sic] dorate: una piccola madonna bianca si distingue già dietro la ringhiera colla piccola lucerna corrosa accesa (Faenza, p. 156).
La Vergine, isolata sulla torre, lascia il poeta solo nel suo «sforzo di conquistare e annettere all’uomo quel che sta al di là dell’umano»45; allo stesso modo è lontano l’orologio, simbolo di un tempo oggettivo e misurabile, incommensurabile rispetto al tempo che scorre e si addensa, si ferma e riprende a fluire46, in cui vive il protagonista dei Canti Orfici. Al di là della ringhiera si trovano tutte le certezze che il poeta osserva da estraneo, illuminate dalla «lucerna corrosa»: corrosa perché antica e perennemente esposta, ma anche corrosa perché è oramai riconosciuta fuori luogo e fuori tempo la sua funzione di illuminare «i simboli del tempo e della fede» (p. 156, corsivi nel testo). Diverso è il senso del sacro percepito dal pellegrino della Verna: qui non compaiono madonne o candele, ma il paesaggio, in un percorso verso le origini che segue, a ritroso, il cammino dei corsi d’acqua, è intriso di spiritualità francescana e panteista; nel viaggio di ascensione l’io poetante percepisce «le divinità ctonie e quelle celesti, in una fusione di immaginari, che potrebbe essere definita – se la contraddizione fosse intesa nei suoi giusti termini – pagano-cristiana»47. Ecco come viene presentato Francesco d’Assisi: Il santo appare come l’ombra di Cristo, rassegnata, nata in terra d’umanesimo, che accetta il suo destino nella solitudine. La sua rinuncia è semplice e dolce: dalla sua solitudine intona il canto alla natura 44 Su un lato della Torre dell’Orologio della Piazza Maggiore di Faenza si trova un gruppo marmoreo (Madonna con il Bambino) circondato da una ringhiera in ferro battuto (Cfr. F. Ceragioli, Commento, cit., p. 274). 45 S. Guarnieri, La sfida di Campana, cit., p. 85. 46 Cfr., ad esempio, La Verna-II, Ritorno, Presso Campigno (26 settembre): «Il tempo è scorso, si è addensato, è scorso: così come l’acqua scorre […]», p. 143. 47 A. Asor Rosa, «Canti Orfici» di Dino Campana, in Id. (a cura di), Letteratura italiana. Le Opere, vol. IV Il Novecento, t. I L’età della crisi, cit., p. 366.
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con fede: Frate Sole, Suor Acqua, Frate Lupo [La Verna (Diario), 22 Settembre (La Verna), pp. 137-138].
Mentre all’interno del santuario scavato nella roccia «un frate decrepito nella tarda ora […] prega le preghiere d’ottanta anni d’amore» (ibid.), il poeta esce a guardare il tramonto. Alla sua «anima improvvisamente sola [che] cerca un appiglio una fede nella triste ora» (ibid.) sembra rispondere la danza delle fiaccole dei pellegrini:
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Esco: il piazzale è deserto. Seggo sul muricciolo. Figure vagano, facelle vagano e si spengono: i frati si congedano dai pellegrini. […] Una campana dalla chiesetta francescana tintinna nella tristezza del chiostro: e pare il giorno dall’ombra, il giorno piagner che si muore (ibid.).
Le «facelle», allontanandosi dal luogo sacro, tremano: «il vagare delle persone (figure) e dei lumi (facelle) che esse recano crea una scena quasi irreale»48. Similmente, nell’Allegria ungarettiana, un tremolio di luci intorno ai minareti crea un’atmosfera onirica: Il cielo pone in capo ai minareti ghirlande di lumini (Notte di maggio, p. 51).
Il titolo originario della lirica, Curban bairam49, fa riferimento alla «festività religiosa islamica che ricorda il sacrificio di Abramo»50: i minareti, contemplati nel paesaggio egiziano, sono contornati da lumi offerti direttamente dal cielo, che sembra così benedire il luogo del culto, in una consonanza di intenti tra l’alto e il basso, il divino e l’umano. I minareti non sono i soli elementi della religione islamica che lasciano tracce nella poesia di Ungaretti: insieme al salmodiare degli oranti – «quel vociare piano che torna, e torna a tornare, nel canto arabo, mi colpiva […]. In quel salmodiare s’insediava il valore d’Essenza e ne divenivo quasi inconsapevolmente consapevole»51 – sopravvive anche il ricordo della «cantilena / del Corano» (In memoria, p. 59, vv. 15-16) ascoltata dai padri di Moammed Sceab. 48
F. Ceragioli, Commento, cit., p. 246. Cfr. C. Ossola-F. Corvi-G. Radin (a cura di), Commento, in G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit., p. 838. 50 Ibid. 51 Note a cura dell’Autore e di Ariodante Marianni. Nota introduttiva, in G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit., p. 738. 49
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Ma tutta la poesia di Ungaretti è intrisa di senso del sacro: rammentando, in Sentimento del Tempo (1933), risvegli notturni infantili, l’io lirico avverte una «mistica compagnia», offerta dall’abbaiare di cani lontani e, anche se in misura minore, dalla luce di un lumino acceso davanti all’icona della Vergine Maria: Se bimbo mi svegliavo Di soprassalto, mi calmavo udendo Urlanti nell’assente via, Cani randagi. Mi parevano Più del lumino alla Madonna Che ardeva sempre in quella stanza, Mistica compagnia (Il Capitano, p. 195, vv. 3-9).
La notte52 è il momento in cui l’uomo è in contatto con il sacro, mistero «tremendum» e «fascinans»53 che, se rivelato in tutta la sua essenza, può annientare chi lo contempla: Quando ha segreti, notte hai pietà. […] Ma quando, notte, il tuo viso fu nudo E buttato sul sasso Non fui che fibra d’elementi, Pazza, palese in ogni oggetto, Era schiacciante l’umiltà (vv. 2, 13-17).
Il segreto (per definizione, ciò che è e non appare, dunque ciò che non deve essere visto54) è strettamente collegato alla «pietà» offerta dalle tenebre all’uomo: finché il viso della notte è pietoso e nascosto, l’io lirico può trovare conforto nelle presenze naturali (l’abbaiare lontano dei cani) e spirituali (la Madonna, con il lume che arde perennemente, ad indicare la veglia dell’anima durante il riposo del corpo). Quando invece i segreti si rivelano, si compie «la scoperta 52 Che, tra l’altro, «è in Ungaretti il sostantivo più frequente»: G. Savoca, Parole di Ungaretti e Montale, in A. Zingone (a cura di), Giuseppe Ungaretti 1888-1970. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, p. 116. 53 R. Otto, Il sacro: l’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 23, 34. 54 «Mi piace che alcunché ci sia, che rimanga segreto per me. Mi piace che il segreto, per averlo rispettato, serbi per me un sapore infinitamente più poetico che se m’accadesse di conoscerlo in tutta la sua realtà»: Note a cura dell’Autore e di Ariodante Marianni. Nota introduttiva, cit., p. 734.
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della povertà definitiva di ogni oggetto, dell’ineludibile finitezza, della terrestrità (“umiltà”)»55. In Campana e Ungaretti, dunque, il fuoco conserva tutta la sua portata sacrale e purificatrice, indicando il vibrare dell’anima del soggetto, il persistere dei suoi interrogativi sul senso della vita e sul suo fine ultimo. Diversamente, in Pianissimo l’unico lume acceso alla Madonna non innesca alcun cortocircuito tra mondo reale e dimensione trascendente, risultando uno tra i tanti oggetti su cui, senza ordine o gerarchia, vengono a posarsi gli occhi del poeta56 durante un vagabondaggio notturno. Quando traverso la città la notte io vivo la mia vita più profonda. Persiane silenziose illuminate! Finestra buja aperta nella notte! Negli atrii di pietra voce d’acqua! Tra le bestie squartate lumicino alla madonna! Ombre umani informi dietro i vetri nebbiosi dei caffè! (Quando traverso la città la notte, p. 77, vv. 1-8).
La città in cui di giorno l’individuo vaga «come un sonnambulo»57, durante la notte gli offre invece occasioni di autoriconoscimento: «la notte, il buio, funzionano come anticamera del sonno; in questa vigilia […] l’es si risveglia»58. In cerca di una «vita più profonda», «fatalmente la più insidiosa»59, Sbarbaro aspira a perdersi negli angoli più bui e malfamati. Negli Scampoli, difatti, ammette: Tanto grigia è la mia vita, la mia poesia tanto povera che il più buio sfondo le conviene. Ho nel sangue la predilezione per i quartieri miserabili. Mi specchio nei reietti, nei diseredati…60
55
G. Guglielmi, Interpretazione di Ungaretti, Bologna, il Mulino, 1989, p. 57. A. Perli (La parola necessaria. Saggio sulla poetica di Sbarbaro, Ravenna, Giorgio Pozzi Editore, 2008, p. 95) ha notato che, in Pianissimo, «il ruolo del soggetto, della voce narrante, è dunque quello […] di raccontare in diretta la trama di un film, che si sta svolgendo sotto i suoi occhi». 57 Cfr., tra i tanti esempi possibili, Io che come un sonnambulo cammino, p. 74. 58 E. Citro, Sbarbaro e Campana. Lo sguardo e la visione, Genova, il melangolo, 1994, p. 31. 59 Ibid. 60 C. Sbarbaro, Come per via, nella vita…, OVP p. 211. 56
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Nell’ambientazione notturna e maudit dei versi sopra citati, Sbarbaro «[si] trasform[a] nel cieco del crocicchio / che suona ritto gli occhi vaghi al cielo» (Quando traverso…, p. 77, vv. 9-10), nella prostituta e negli ubriachi, per i quali prova «un’attrazione contraddittoria, un’ansia di identificazione, di mortificazione»61:
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Essere la puttana che sussurra la parola al passante che va oltre! la vecchia della porta che s’attacca pel soldo della grappa al militare ch’esce nauseato! (vv. 14-18).
Non c’è riscatto per le figure umane tra cui, ombra in mezzo ad altre ombre, si muove il poeta: il lumicino alla madonna non apre spiragli di salvezza, e nemmeno innesca interrogativi su una possibile uscita dalla condizione di indifferenza62 e reificazione. Lo sguardo di Sbarbaro, come quello di Baudelaire di cui parla Benjamin, «è lo sguardo dell’estraniato»63, che si posa su tutto ciò che incontra, cercando anche una momentanea identificazione (con l’ubriaco, la prostituta, la vecchia alcolizzata) ma restando, in fondo, alieno anche a se stesso64.
2.3 «Arde in corona la pietà dei ceri»: candele e lumi per i morti (Govoni Corazzini Moretti) Abbiamo già visto a proposito dei Sarcofaghi montaliani come un camino scolpito riproduca un’ambientazione domestica su di una tomba; e nell’Ode all’ignoto viandante di Corazzini come la fiamma della lucerna possa trasformarsi in fuoco acceso quasi per veglia funebre, mentre lo spazio domestico assume i connotati di una sepoltura da cui l’io poetante è imprigionato e contemporaneamente protetto rispetto al 61
V. Coletti, Prove di un io minore. Lettura di Sbarbaro - «Pianissimo» 1914, cit., p. 116. «A queste vie simmetriche e deserte / a queste case mute sono simile. / Partecipo alla loro indifferenza, / alla loro immobilità. / Mi pare / d’essere sordo ed opaco come loro, / d’esser fatto di pietra come loro» (Esco dalla lussuria. M’incammino, p. 45, vv. 14-20). 63 W. Benjamin, Parco centrale, in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti, trad. it., Torino, Einaudi, 1962, p. 149. 64 Molto diverso il vagare di Saba tra prostitute e ubriachi nei bassifondi di Trieste descritti in Città vecchia: qui un afflato divino fa scoprire imprevisti sentimenti di fratellanza («Qui prostituta e marinaio, il vecchio / che bestemmia, la femmina che bega, / […] / sono tutte creature della vita / e del dolore», p. 81, vv. 11-12, 17-18); per cui, anche in assenza di ogni simbolo che richiami il divino, il poeta sente in se stesso e negli altri «il Signore» che «s’agita» (v. 19). 62
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mondo esterno. Il fuoco in associazione a figure di defunti è immagine presente, molto più che nelle poesie di Corazzini, in quelle di Govoni; ma ricorre, talora, anche nei versi di Moretti. Nel XVI componimento della sezione Canto fermo, in Armonia in grigio et in silenzio, Govoni crea uno scenario cimiteriale all’interno di una stanza: mentre «la buia solitudine / si scava la fossa» (p. 39, vv. 9-10) i fiori dipinti sul soffitto, come estremo omaggio, «si restringono in un mazzo» (v. 18); «il lume sembra un cero espiatorio» (v 22) acceso per accompagnare l’ultimo viaggio di un’anima, e la «camera» assume i tratti del luogo di espiazione per antonomasia, diventando «un purgatorio»65 (v. 24). La candela che si accende per i defunti sta ad esprimere il desiderio, da parte di chi resta, di dare sostegno all’anima che trasmigra altrove: come abbiamo visto a proposito del “sostegno” dato alla luce del sole, così si ritiene che la fiamma possa dare forza anche al cammino verso l’alto dello spirito del defunto: le candele che ardono accanto al defunto – i ceri accesi – sono il simbolo della luce dell’anima nella sua forza ascensionale, della purezza della fiamma spirituale che sale verso il cielo, la perennità della vita personale che è giunta allo zenith66.
È nella sezione La Certosa che le immagini di ceri accesi per i defunti si infittiscono. La via della Certosa, che porta «al soggiorno dei morti» (AGS p. 171, v. 3) e ha visto passare strette casse di gracili fanciulli morti tra i fiori, morti d’etisia, corpicciuoli ravvolti in fini tulli di amare lacrime e di liturgia; lunghe casse di poveri mendichi la cui vita fu un’agonia lenta: vecchi senza famiglia, mendichi di cui nessuno piange e si rammenta (AGS p. 172, vv. 17-24),
conserva perennemente le tracce del transito dei cortei funebri, in «un sentor di ceri e di mistero» (v. 8). Stringendo analogicamente nella 65 Un altro purgatorio è in Incisione in legno (AGS, p. 156), in cui compare «un libretto che del purgatorio // parla e de le sue fiamme» (vv. 4-5). 66 J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri, cit., p. 183.
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stessa immagine i ceri e il mistero, Govoni riesce a rendere percepibile l’essenza dell’incorporeo, della morte stessa: il mistero della vita che si è spenta ha l’odore della cera sciolta. Di questi versi si ricorderà, pochi anni più tardi, Corazzini nel IV sonetto di Toblack:
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Vidi lungo la via della Certosa passare funerali e funerali; disperata etisia degli Ideali anelanti la cima gloriosa! Ora tutto è quïeto: nelle bare stanno i giovini morti senza sole, arde in corona la pietà dei ceri (p. 134, vv. 5-11).
Chi guarda passare i numerosi cortei funebri interroga la propria anima: Anima, quale mano pietosa accese questa sera i tuoi fanali malinconici, lungo gli spedali ove la morte miete senza posa? (pp. 133-134, vv. 1-4).
Anche in questo caso una fiamma è collegata all’idea della morte: «persino i “fanali” dell’anima, con il loro suggerire una malinconica, ferma e tenue luce, lasciano intravedere una vita immobilmente arrestata nel disagio della malattia e nel presentimento della fine»67. Se malattia e morte sono il binomio inscindibile su cui si fonda Toblack, con la sua ambientazione bloccata in uno «spazio irraggiungibile e perduto», in un «tempo sospeso nell’occhio di una immota catastrofe»68, nei versi di Follie Thanatos appare invece in coppia con Eros. Anche in questo componimento, «ambiguamente giocato in una sospensione tra un erotismo ora languido e ora nutrito di impeti improvvisi […], una opprimente atmosfera chiesastica […], e un piacere del tormento»69, ci sono «tetri cerei» (Follie, p. 108, v. 14) a contornare «la piccola bara» (v. 13), dove riposa la «Madonna». A lei si rivolge 67
G. Palli Baroni, La prigione dell’anima. L’oratio conclusa di Sergio Corazzini, cit., p. 213. A. Marcovecchio, Sergio Corazzini: Manierismo come poesia, cit., p. 49. 69 A.R. Pupino, L’astrazione e le cose nella lirica di Sergio Corazzini, Bari, Adriatica Editrice, 1969, p. 157. 68
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l’io lirico, in uno slancio amoroso che si risolve nella contemplazione ossessiva (sottolineata dalla fitta presenza di figure di ripetizione), tra la necrofilia e il feticismo, di dettagli fisici: e tu, e tu, mio amore, piccola, tra le rose che la mia mano pose su la fronte, su ’l cuore,
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ne le mani conserte, sopra i piedini lievi – e tu non le vedevi con le pupille aperte – rose dovunque, fra i capelli ch’io non sciolsi, capelli per cui colsi rose odorate mai (Follie, p. 109, vv. 29-40).
I ceri attorno alla bara sono accompagnati e potenziati da quelli posti sull’altare («gli altari / fiammeggianti», vv. 22-23), e si rispecchiano nelle fiamme che simboleggiano la passione frustrata del soggetto: «[o morta] per cui arsero tutte / le mie fiammee voglie» (p. 110, vv. 57-58), «Voi siete il Sole, io sono / un pazzo che lo segue / e non concede tregue / allo spirto mai prono, // e come suo bagliore / i cieli azzurri infiamma, / s’agita la gran fiamma / del mio inutile amore!» (p. 112, vv. 125-132). Altari e tombe, se torniamo a Govoni e alla Certosa, figurano ancora (nel Giorno dei morti, AGS pp. 178-179) contornati da «lampade» e «fanali» (vv. 12, 17) vacillanti, che contribuiscono a creare un’atmosfera cimiteriale, insieme a «un’acquerugiola che pare ranno» (v. 19) e ai ceri «che si disfanno / dai candelabri» (vv. 22-23); così come troviamo «torcie [sic] al tuo feretro vicino» (La Certosa - XIX, AGS p. 201, v. 19). Particolarmente suggestiva risulta, nel X componimento della sezione, l’antropomorfizzazione grazie alla quale un lumino sembra essere lui stesso il protagonista dell’agonia: Presso una tomba con un lungo marmo glabro in mezzo a una ghirlanda d’edera strafatta, un lucignolo rantola sul morto labro d’un luminello d’una lampada di latta (AGS p. 181, vv. 5-8);
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e ancora più avanti incontriamo «un cero quasi sfatto» che «da le votive lacrime m’addita / con la sua lingua tacita un ritratto» (Tra gli ex-voti del bosso, AGS p. 185, vv. 13-15), e «i lumi» che «un lucido rosario / sgranano […] con la pia bocca» (Nel sacrato de la Certosa, AGS p. 206, vv. 5-6). Gli oggetti vengono umanizzati, acquistando quasi una loro psicologia e prendendo parte al lutto: ne risulta, tuttavia, una sensazione straniante, come se i ceri e i lumini che hanno labbra e lingua non facessero altro che rivelare la natura di cosa dello stesso corpo umano, in una serie di immagini volte a suscitare stupore più che adesione emotiva, tramite cui Govoni con audacia sperimentale tenta di imporre un nuovo commercio poetico col sacro quotidiano, col sacro di tutti i giorni e delle vie modeste, laterali, di provincia e di campagna70.
Per contrasto, si veda l’atmosfera di sommesso raccoglimento di cui è intessuta Il giardino dei morti, nella prima raccolta di Marino Moretti. Qui il topos crepuscolare del cimitero, con il suo «odor di gelsomino, di geranio, d’acanto…» (p. 533, v. 1), è reso vivo dalle vicende reali messe in versi: la morte di «un fratellino» del poeta («ch’io non conobbi mai», v. 14) e del fratello maggiore suicida, Olindo, cui è dedicata la sezione di Fraternità che comprende Il giardino dei morti. Se la tomba di Olindo è forse senza luci e fiori («O madre perdonami s’io / ti reco un dolor così grande. / Tu no, non portarmi ghirlande, / non raccomandarmi al tuo Dio», p. 534, vv. 31-34), su quella del neonato brilla una candela: E vidi, tremante, la fiamma d’un cero e una pia ghirlandella e un volto dolcissimo: quella pensai dovess’esser la mamma… (p. 534, vv. 21-24).
Il poeta presta voce e parole al bambino che «non visse che un mese, / un aprile» (vv. 15-16), nei cui confronti sente quasi come una colpa la vita e la quotidianità con la mamma; mentre proprio la sofferenza inflitta a questa è motivo di accusa all’altro fratello, non voltagli direttamente bensì lasciata trapelare attraverso il discorso che il poeta attribuisce al defunto.
70
L. Barile, Postfazione, AGS, p. 230.
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Due sorelle sepolte vicine si trovano anche in Armonia in grigio et in silenzio, nel XVI componimento della Certosa, ma sulle lapidi stavolta si posa lo sguardo di un io lirico non affettivamente coinvolto e turbato, piuttosto interessato a cogliere la vita autonoma degli oggetti e dei marmi: Un angelo in un monumento smorza contro terra la face de la vita. Un luminello la sua fiamma scorza
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pei vetri tondi […] (Ines – Jole – Sorelle, AGS p. 192, vv. 1-4).
La fiamma della fiaccola è spenta sulla terra, come ammonimento all’uomo sulla natura della sua vita. Nel gesto dell’angelo è rappresentata l’equivalenza tra la fiamma e la vita stessa, già oggetto di un’osservazione di Bachelard: Qual è il più grande soggetto del verbo spegnersi? La vita o la candela? I verbi metaforizzanti possono far agire i soggetti più eterocliti. Il verbo spegnersi può far morire qualunque cosa, un rumore come un cuore, un amore come una collera71.
La riflessione sulla fine della vita, avviata dall’immagine dell’angelo, prosegue nella terza strofa con l’affacciarsi di «una donna a una porta semiaperta / di marmo (marmo anch’essa)» (p. 193, vv. 7-8); finché il tono elegiaco e riflessivo sfocia nel grottesco finale (forse anticipatore di qualche immagine della palazzeschiana Fiera dei morti): «Su un’epigrafe un teschio à sopra il cranio / una berretta obliqua da prete» (vv. 10-11). È proprio l’insistenza sul grottesco a caratterizzare le immagini della morte e del fuoco nei Fuochi d’artifizio e negli Aborti: andiamo dai «fuochi fatui nel canale» (Sonetto a quattro mani, FA p. 71, v. 9) accesi dai «miasmi» (v. 9) di un’«epidemia» (v. 11) alle «torce fumose» (Sogno d’un funerale, FA p. 113, v. 5) e alla «lanterna» (v. 15) che fanno luce in un corteo funebre. Anche in assenza di riferimenti a cimiteri, ceri e candele illuminano lutti improvvisi72 o premeditati, come nel caso del suicidio di due giovani, a cui è paragonato, tra le altre cose, il sorriso della donna amata dal poeta: 71
G. Bachelard, La fiamma di una candela, cit., p. 31. «Gli ultimi: sono arrivi atroci; / dei ceri bruciano su tutte le porte, / tutte le cose han l’aria geometrica di croci: / sono gli arrivi della morte» (Gli arrivi, AB p. 162, vv. 50-53). 72
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Un suicidio coi fiori di due belli amanti ignudi sopra un letto di porpora in una camera piena di specchi illuminati da candele funebri (Il tuo sorriso, AB pp. 216-217, vv. 40-44).
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I defunti sono bloccati narcisisticamente nella loro immagine moltiplicata dagli specchi, mentre il rosso del letto e del fuoco, da emblema di passione condivisa, diviene colore del lutto e del sangue. Altro interno, ancora con l’associazione di eros e lumi per defunti: Ecco l’immondo lupanare! Una lanterna fioca sembra vegliare qualche strano morto nell’umido corridoio. Un gatto nero fa le fusa sopra il limitare, nero Mefistofele (Le capitali, AB p. 223, vv. 63-68).
La lampada che indica il bordello si trasforma nella lanterna di una veglia funebre, mentre il gatto nero fa nascere il sospetto che l’atmosfera lugubre sia tale quasi per intervento diabolico73.
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Nonostante Mefistofele, nel poema goethiano, si presenti a Faust sotto le spoglie non di un gatto, ma di un cane nero.
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QUANDO IL FUOCO DISTRUGGE
Né più oltre Zeus tratteneva il vigore, ma a lui il cuore fu pieno di forza, e tutta mostrò la violenza; intanto dal cielo e dall’Olimpo veniva lampeggiando senza posa, e le folgori fitte insieme col tuono e con il lampo volavano dalle sue mani forti che ruotavano la fiamma divina più volte; e attorno la terra nutrice crepitava bruciando, e gemeva intorno nel fuoco la grande indicibile selva. Bolliva la terra tutta, e i flutti d’Oceano, e il mare infecondo; un caldo vapore avvolgeva i Titani figli della terra e la fiamma giungeva alle nubi divine indicibile, e a loro accecava gli occhi, per quanto forti essi fossero, il lampeggiante bagliore dei fulmini e dei balenìi1.
Il fuoco che riscalda la casa e ne fa un centro del mondo, l’elemento divino che apre quotidianamente al contatto con il trascendente, può talora eccedere la misura e distruggere: si manifesta allora come forza inarrestabile, che consuma elementi dannosi (nell’esempio esiodeo incarnati dai Titani), coinvolgendo però tutta la terra in un crescendo di devastazione che l’uomo non può arrestare. Dietro a un incendio, come non sa chi è preso contemporaneamente da sacro terrore e dallo slancio alla lotta contro le fiamme, si nascondono numi adirati2. L’uomo non può irreggimentare definitivamente «il bagliore lungisplenden1
Esiodo, Teogonia, Introduzione, traduzione e note di G. Arrighetti, testo greco a fronte, Milano, BUR, 1994, pp. 107-109, vv. 687-699. 2 Si veda quanto capita ad Enea che, volendo difendere Troia dai nemici e dalle fiamme, viene fermato dalla madre Venere che gli svela l’origine dei mali della città nella «divom inclementia», l’inclemenza degli dei: cfr. P. Virgilio Marone, Eneide, trad. it. di L. Canali, Introduzione e commento di E. Paratore, testo latino a fronte, Milano, Mondadori, 1985, pp. 70-71 (II, vv. 601 ss.).
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SUL FUOCO
te del fuoco indefesso»3 che Prometeo gli ha donato: in quella fiamma resta pur sempre la facoltà di distruggere la terra. La stessa portata sacrale del fuoco potrebbe essere una derivazione del primo e maggiore dei suoi attributi, la forza distruttiva: esistono
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due concezioni molto diverse del fuoco […]. Una è che il fuoco […] sia una forza creatrice che promuove la crescita delle piante e di tutto ciò che dà felicità e vigore. L’altra, che il fuoco sia una forza essenzialmente distruttiva, che arde e consuma ogni elemento nocivo, spirituale o materiale, che minacci la vita dell’uomo, degli animali e delle piante4.
Le due teorie, quindi, colgono i due diversi aspetti dell’elemento: «la prima vede il fuoco come elemento stimolante; la seconda come elemento purificante; la prima come forza positiva, la seconda come forza negativa»5. Si tratta di due istanze compresenti nella fiamma, dispensatrice sia di vita che di morte: secondo quanto messo in luce da Eliade, il fuoco, come ogni manifestazione del sacro, conserva sempre tratti ambivalenti; «attrae e respinge, è utile ed è pericoloso, dà sia la morte che l’immortalità»6. Questa natura ambivalente si traduce spesso, nella poesia di inizio Novecento, in immagini di grande densità semantica, in cui il fuoco – potremmo dire con Bachelard – «presenta dei valori contrastanti: è celeste o infernale, benefattore e distruttore, vita e morte»7.
3.1 «Sia fatto un gran fuoco»: sacrifici e purificazioni (Palazzeschi Govoni Ungaretti Campana Montale) Alle immagini di fuoco «benefattore» e dispensatore di calore vitale, e a quelle di fuoco «celeste», passate in rassegna nei precedenti capitoli, si affiancano dunque rappresentazioni del fuoco che consuma e annienta. In diverse situazioni l’aspetto benevolo e quello distruttivo coesistono: è il caso, in particolare, delle immagini di roghi sacrificali. Le fiamme che avvolgono l’olocausto – come quelle accese sugli
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Esiodo, Teogonia, cit., p. 99, v. 567. J.G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, cit., p. 709. 5 Ibid. 6 M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 349. 7 G. Bachelard, Le immagini del fuoco, in Id., Causeries (1952-54), Prefazione di J.L. Pouliquen, Introduzione, traduzione e note di V. Chiore, con testo originale a fronte, Genova, il Melangolo, 2005, p. 49. 4
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QUANDO IL FUOCO DISTRUGGE
altari, davanti ad icone devozionali o accanto ai defunti per far luce alle anime nel loro cammino – assumono anche un aspetto terribile: il potere di bruciare ciò che è offerto in sacrificio, riassorbendolo in sé e di fatto, nel reintegrarlo ad un grado superiore e “puro” di esistenza, annientandolo. Ne abbiamo un esempio emblematico sullo scorcio di Lanterna. Nei versi della Storia di Frate Puccio 8 Palazzeschi rappresenta l’irruzione della folla nello spazio sacro che, solo presagita in Tempio serrato, è ora messa esplicitamente in scena: si tratta della molto composta ed inquietante massa di «fratelli e sorelle lontane» (p. 62, v. 54) accorsi ad assistere alla punizione di Puccio, che ha violato le regole dell’ordine dei «Bianchi», ed in particolare il voto di castità. Tutto il componimento è giocato sulla contrapposizione tra acqua e fuoco: frate Puccio è addetto al trasporto di brocche d’acqua nel convento e, per quanto anziano, svolge l’incarico «col viso fiorito d’un gaio sorriso, / con occhi ridenti» (p. 61, vv. 2-3), e soprattutto con la leggerezza cara a Palazzeschi. Esercitando le sue mansioni, Puccio talvolta sostava un istante a la cella, posando le brocche a la soglia sostava un istante ed usciva col gaio sorriso, più lesto s’andava, più snelle le braccia reggevan le brocche (La storia di frate Puccio, p. 61, vv. 9-13).
I confratelli guardano «con occhio di dubbio» (v. 15) sia «la sosta a la cella» (v. 18), sia il piccolo frate; e subito lo marchiano come diverso, «qual fiore scarlatto nel mazzo bianchissimo» (v. 17). Nel bianco che domina il convento, l’alterità non può che vestirsi di rosso: prima ancora di verificare se Puccio sia realmente un peccatore, i fratelli lo considerano tale, finché «un giorno» (v. 26), in uno «spiro di luce» (v. 27) che filtra dalla porta socchiusa della cella, si scopre il segreto: Nascosto fra i libri, fra i libri dei Salmi, fu visto un fantoccio coperto di logori stracci, di stracci dai vivi colori, figura profana di femmina! 8 Per un’analisi più approfondita mi permetto di rinviare a V. di Martino, La tragedia impossibile di Aldo Palazzeschi: «La storia di Frate Puccio», in A. Saccone (a cura di), «Tutto è degno di riso…». Declinazioni del tragico nella letteratura italiana tra Otto e Novecento, Napoli, Liguori Editore, 2012, pp. 93-111.
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SUL FUOCO
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Soltanto una bocca che aveva baciato il peccato poteva sorrider là dentro! (p. 62, vv. 34-39).
L’amore vissuto da Puccio – per quanto fittizio, per quanto alla donna reale sia sostituito un fantoccio – rimanda a una dimensione di leggerezza, di levità. Ma la leggerezza, e l’oggetto che la rappresenta e la trasmette, non sempre è considerata innocente; nonostante per Puccio l’evasione sia tutta privata, nei confratelli «si diffonde l’oscura consapevolezza che essa finisca invece per provocare un rovesciamento delle istituzioni»9. L’amore per la bambola, amore ‘omeopatico’ che aiuta il frate a vivere in allegria il celibato, assume agli occhi dei Bianchi un aspetto minaccioso. Ciò che è legittimo, la personale biblioteca coi libri dei Salmi, specchio di una cultura collettivamente condivisa, deve espungere l’elemento che vi è stato impropriamente nascosto, il segreto deve essere reso pubblico, così come il disordine deve essere ricondotto all’ordine10: la comunità si difende contro l’individuo, a spese dell’individuo, ripristinando «lo schema del sacrificio: lo schema della folla attorno al singolo, o del coro attorno alla vittima»11. A tal fine, si dispiegano una serie di provvedimenti, residui (fuori luogo) di solenni rituali: Coperte le immagini sacre di tele violette, l’oggetto profano fu tolto e portato al giudizio del frate Maggiore, del Padre (vv. 40-42).
Unico a prendere la parola in tutta la poesia, il Padre stabilisce le regole della penitenza: «il frate peccante» (v. 48) dovrà «pos[are] l’oggetto del grande peccato» (v. 49) sul «gran fuoco» (v. 47) predisposto ad hoc «nel mezzo al cortile del chiostro» (v. 46), e restare « tre giorni / nel mezzo al cortile prostrato!» (vv. 50-51) al cospetto di «lontani fratelli» (v. 45) e gente del popolo, chiamati per l’occasione.
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F. Curi, I «Buffi» o la fine dell’utopia, in L. Caretti (a cura di), Palazzeschi oggi, Atti del Convegno (Firenze, 6-8 novembre 1976), Milano, il Saggiatore, 1978, p. 207. 10 A proposito della «tendenza a sopprimere il disordine» cfr. R. Girard, Ordine e disordine in un mito Dogrib (in Id., Miti d’origine. Persecuzioni e ordine culturale, trad. it., a cura di P. Antonello e G. Fornari, Milano, Feltrinelli, 2016, p. 6). 11 G. Guglielmi, La voluttà di essere fischiati, in Id., L’udienza del poeta. Saggi su Palazzeschi e il Futurismo, cit., pp. 33-34.
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QUANDO IL FUOCO DISTRUGGE
La condanna, paradossale e sproporzionata rispetto alla colpa, «non punta sull’introversione, ma sull’esibizione»12; non sul pentimento e sulla conversione del peccatore, ma sullo spettacolo della sua penitenza; non sull’intimità ma sulla teatralizzazione del rito. Al centro, «costante figurativa»13 di tante liriche del primo Palazzeschi, palcoscenico per eventi magici o rituali, insensati quanto impenetrabili, sarà acceso un rogo: «il fuoco penitenziale distrugge il fuoco della ribellione»14, la bambola causa e oggetto dell’errore di Puccio sarà bruciata, le fiamme (della passione) torneranno alle fiamme (reali) e saranno consumate in esse, riassorbite nel caos del colore scarlatto ed espulse dal cosmo del convento, ordinato e dominato dal bianco e dalla regola religiosa. Puccio rinuncia al peccato: il vecchietto agile dal braccio robusto, che ingannava il tempo e la gravità, si converte, come i clown di cui parla Starobinski, in «una figura esemplare del crimine e della punizione, [...] un modello di scacco»15. Il fuoco fu acceso. Chinaronsi i Bianchi in due file formando un viale di marmi. Sol l’ultimo, Puccio, in piedi rimase. Cricchiaron le grosse fascine nel fondo del bianco viale, le fiamme s’alzarono presto. Cadente, tremante, ricurvo, il piccolo frate si mosse. Fra i Bianchi prostrati a la terra, giungendo sfinito a la fiamma, con mano stecchita, la bambola pose nel mezzo a l’ardente fascina; un ultimo sguardo le diede con occhio sbarrato, e cadde, siccome fardello di cenci, nel mezzo al cortile, vicino a la fiamma prostrato. (La storia di frate Puccio, pp. 63-64, vv. 86-101). 12
A. Saccone, «Un giuoco complicato, molto complicato» ovvero «parole un pochino astruse ma molto notevoli», in Id., L’occhio narrante. Tre studi sul primo Palazzeschi, cit., p. 68. L’osservazione, fatta a proposito di Chi sono, risulta illuminante anche per comprendere il gioco alla base de La storia di frate Puccio. 13 A. Dei, Giocare col fuoco. Storia di Palazzeschi poeta, cit., p. XV. 14 A. Saccone, Figurazioni del personaggio incendiario: Marinetti e Palazzeschi, in Id., «La trincea avanzata» e «la città dei conquistatori». Futurismo e modernità, Napoli, Liguori Editore, 2000, p. 70. 15 J. Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco, trad. it., a cura di C. Bologna, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, p. 101.
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SUL FUOCO
I Bianchi si inchinano in adorazione, più che di Dio, di un dio-fuoco che, eliminando l’elemento di disturbo, mantenga l’ordine nel convento. Un monaco e un rogo molto diversi si trovano nei Fuochi d’artifizio di Govoni: O mio grande concittadino monaco ribelle, Girolamo Savonarola, che come si muore bruciando tu il provasti e il fuoco ne salì alle stelle,
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sul tuo esempio, con la mano che non tremerà sopra il rogo dei sensi porrò il mio selvaggio cuore che la terra del suo bollente sangue inebrierà… (La prova del fuoco, FA p. 108, vv. 9-14).
Nei versi govoniani, in cui «i toni agonistici […] possono addirittura anticipare certo titanismo marinettiano-futurista»16, è lo stesso io lirico, in un gesto provocatorio verso la società e il pubblico, a offrire «con la mano che non tremerà» il proprio cuore sul rogo. A differenza di Puccio, costretto e «tremante», connotato da «mano stecchita», il soggetto dei Fuochi d’artifizio sembra affermare, come farà alcuni anni più tardi il Marinetti di Uccidiamo il Chiaro di Luna!, che «il sangue sappiatelo, non ha valore né splendore, se non liberato, col ferro o col fuoco, dalla prigione delle arterie!»17; che «il […] sangue, a fiotti»18, può guarire una terra «ammalat[a]»19 e immiserita. Il sacrificio della Prova del fuoco, dunque, attraverso le fiamme ed il sangue mira a ristabilire un valore, a riscattare la materia inerte (sulla terra è impossibile trovare «uomini forti a cui gettare il […] guanto di sfida», La prova del fuoco, v. 2, o «impenetrabil[i] corazz[e]» da «recid[ere]», v. 5), a trasfonderle lo spirito inebriante, il surplus di vita ed energia che caratterizzano il poeta, identificatosi con la figura di un «monaco ribelle», indomito e spiritualmente più forte dei suoi uccisori. Il rogo per Govoni è rogo di festa, non di punizione; di esaltazione «dei sensi», non di purificazione. Nel caso di Puccio il rogo, al contrario, provoca il riassorbimento dell’infrazione, la censura del principio di piacere, l’annientamento degli elementi estranei all’ambiente (la bambola e il sorriso del frate). 16 F. Targhetta, L’esplosione e l’esasperazione: i «Fuochi d’artifizio» di Corrado Govoni, cit., p. 482. 17 F.T. Marinetti, Uccidiamo il Chiaro di Luna!, cit., p. 17. 18 Ivi, p. 26. 19 Ibid.
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Nel crepitio sinistro della pira di Lanterna si oggettiva la consunzione cui è destinato frate Puccio, già segnato dalla decrepitezza nella «mano stecchita». Bachelard ha notato che «se tutto ciò che cambia lentamente si spiega attraverso la vita, ciò che cambia rapidamente si spiega attraverso il fuoco»20. In chiusura del componimento palazzeschiano ritroviamo il frate, ancora addetto al trasporto delle brocche d’acqua, e un suo primo piano ci permette di vedere il rapido cambiamento avvenuto: il «viso fiorito» è «emaciato», è «serrata» la bocca che si apriva in «gaio sorriso», non sono più «ridenti» gli occhi che ora languono, mentre si è fatta pesante e stentata l’andatura un tempo leggera. Con viso emaciato, la bocca serrata, con occhio languente, pel grande convento dei Bianchi il vecchio si mena stentando. (La storia di frate Puccio, p. 64, vv. 108-111).
Puccio si è così purificato, ha espiato il peccato: ciò comporta sia il suo nuovo inserimento nella comunità, sia la sua rinnovata sottomissione alle leggi ferree del tempo, alle quali si deve sottostare come alla regola religiosa. L’azione del fuoco, quindi, bruciando l’oggetto del peccato e metonimicamente il peccato stesso di Puccio, lo reintegra nella dimensione del dovere in cui, realisticamente, un vecchio non può che essere descritto come appare nella conclusione della poesia. Un fuoco sacrificale compare anche in Sentimento del Tempo: nei versi di Ungaretti il rogo non serve a eliminare elementi corrotti e disturbanti per ribadire le leggi di una comunità, né ad esaltare la volontà di potenza del soggetto dal «bollente sangue», ma ad abolire ogni vincolo, ogni gerarchia convenzionalmente o naturalmente predisposta, e a dare libertà assoluta all’io lirico. Il fuoco, bruciandoli, annienta i riferimenti temporali e spaziali, in una sorta di rito sacrificale officiato dal poeta: Brucio sul colle spazio e tempo, Come un tuo messaggero, Come il sogno, divina morte (Canto quarto, p. 224, vv. 2-4).
Salito su un colle per celebrare il suo sacrificio, il poeta compie un’azione riconosciuta tipica della morte o del sogno: bruciare lo spa20
G. Bachelard, La psicoanalisi del fuoco, cit., p. 117.
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zio ed il tempo ordinari, per accedere ad una dimensione di abbandono, onirico («Mi presero per mano nuvole», si dichiara in apertura del componimento) o ultraterreno; in ogni caso vivendo una condizione di familiarità con lo spazio e il tempo dell’oltre-vita, della «divina morte». Anche nei Canti Orfici il fuoco diviene il mezzo con cui il poeta cerca di svincolare il proprio senso religioso, la propria tensione verso l’assoluto, da ogni regola devozionale codificata e cristallizzata. In Pampa, ad esempio, l’uomo si slancia verso il cielo proprio nel momento in cui lo riconosce sgombro da presenze21, e in Ho scritto. Si chiuse in una grotta22, poesia esclusa dai Canti Orfici, esprime il desiderio di «un cielo nuovo» che «viene definito man mano, attraverso un suggestivo crescendo di determinazioni sia positive che negative»23: Oh avere un cielo nuovo, un cielo puro Dal sangue d’angioli ambigui Senza le zuccherine lacrime di Maria Un cielo metallico ardente di vertigine Senza i miasmi putridi dei poeti e delle fanciulle Che accolga il respiro vergine violento e sublime della prateria Dove il tramonto bruci in fiamma vera Col solo aroma purificatore della forza Nuova, infinita, intatta […]24.
La «fiamma vera» è per il poeta, in un accesso di furia iconoclasta, il fuoco che brucia in sé e per sé, senza le raffigurazioni, care alla pietà popolare, di angeli adoranti (e ambigui nella loro asessualità25) e madonne dolcemente piangenti, che diventano anzi bersaglio polemico. Il tramonto è fiamma che brucia, contemporaneamente figura
21 «Mi ero alzato. Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio», Pampa, p. 168. 22 Componimento presente nel cosiddetto Quaderno, «una raccolta di quarantadue poesie e una prosa»: «la critica è concorde nel ritenere che questi componimenti vadano ascritti a un periodo precedente ai Canti Orfici» (C. Geddes da Filicaia, Lettere,Taccuini e un quaderno, in Ead., Dino Campana. L’«universo mondo» dei «Canti Orfici» e altri studi, Firenze, Franco Cesati Editore, 2018, pp. 92-93). 23 T. Catenazzo, Verginità e vertigine nei paesaggi di Dino Campana, in M. Verdenelli (a cura di), O poesia tu più non tornerai. Campana moderno, cit., p. 142. 24 D. Campana, Ho scritto. Si chiuse in una grotta, in Id., Inediti, a cura di E. Falqui, Firenze, Vallecchi, 1942, pp. 167-168, vv. 17-25. 25 Sull’ambiguità degli angeli già ha giocato Goethe, nel finale del Faust. Bàrberi Squarotti ha notato che «l’utilizzazione della figura dell’angelo da parte di Campana ha la funzione di accrescere (sia pure non di molto) il progetto di trasgressione» (G. Bàrberi Squarotti, La tragedia elusa, in Id., Poesia e ideologia borghese, cit., p. 257).
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del fuoco sacro che purifica e offerta sacrificale che spande l’«aroma», gradito alla divinità, di una «forza nuova»: dalle fiamme tutto emerge rinnovato, temprato, sgombro di parassiti (laddove, prima di questo rito di purificazione, nel cielo «frati e poeti» avevano «fatto / la tana come i vermi»26). Negli Ossi di seppia, invece, Montale rappresenta un soggetto che si trova «di fronte all’assurdità del mondo, alla sua inspiegabilità»27: l’insufficienza esistenziale dell’io lirico si coniuga con l’insufficienza del sacrificio che egli si sente chiamato a compiere. Nella raccolta del ’25 le immagini del fuoco associate all’idea di offerte votive sono completamente sganciate da riferimenti a tradizionali icone devozionali, e il principio divino è oggettivato nel «mare fermentante»28, «vasto e diverso / e insieme fisso» (Antico, sono ubriacato dalla voce, p. 54, vv. 16-17), con cui l’io lirico avvia un dialogo pur sapendo di non poter partecipare della vita e della forza delle acque29. Secondo Luperini il confronto sussiste fra il soggetto (lo spaesato “uomo europeo” di cui Montale intende fornire i lineamenti già in Mediterraneo, autorappresentandosi come il protagonista del poemetto) e il mare, concepito come immagine stessa dell’essere, fra l’incapacità di vivere del primo e la forza e l’oscura vitalità del secondo30.
«In presenza» dei flutti, l’uomo «impietr[a]» (Antico, sono ubriacato dalla voce, p. 54, v. 9), provando quella che Eliade ha definito «nostalgia del Paradiso»: l’uomo, per diversi che siano, qualitativamente, lo spazio sacro e lo spazio profano, può vivere soltanto in uno spazio sacro […]. Potremmo dire che un gruppo di tradizioni attesta il desiderio dell’uomo di trovarsi senza sforzo nel «Centro del Mondo», mentre un altro gruppo insiste sulla difficoltà, e di conseguenza sul merito, di penetrarvi. […] Il fatto che la prima [tradizione] si ritrova quasi dappertutto, ci invita
26
D. Campana, Ho scritto. Si chiuse in una grotta, cit., p. 168, vv. 26-27. G. Debenedetti, Montale, in Id., Poesia italiana del Novecento, con Prefazione di A. Berardinelli, Introduzione di P.P. Pasolini, Milano, Garzanti, 2000, p. 36. 28 E. Montale, Intenzioni (Intervista immaginaria), in Id., Sulla poesia, cit., p. 567. 29 A proposito della simbologia dell’acqua e dello spazio sacro mi permetto di rinviare a V. di Martino, Sull’acqua. Viaggi diluvi palombari sirene e altro nella poesia italiana del primo Novecento, cit. (in part. al cap. L’eden restaurato). 30 R. Luperini, Appunti su «Mediterraneo»: Montale tra Svevo e Lautréamont, in S. Campailla – C. F. Goffis (a cura di), La poesia di Eugenio Montale. Atti del Convegno Internazionale (Genova, 22-25 novembre 1982), Firenze, Le Monnier, 1984, p. 132. 27
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a considerarla se non addirittura la più primitiva, almeno significativa, caratteristica dell’umanità nel suo complesso. Questa tradizione pone in rilievo e tradisce una determinata condizione dell’uomo nel Cosmo, che potremmo chiamare nostalgia del Paradiso, cioè il desiderio di trovarsi, sempre e senza sforzo, nel cuore del mondo, della realtà e della sacralità, in breve di superare in modo naturale la condizione umana e di ricuperare la condizione divina31.
Il protagonista di Mediterraneo, davanti al mare, prova netto il senso della propria inferiorità: il principio divino lo rifiuta, lo relega a terra «tra sugheri alghe asterie» (Antico, sono ubriacato dalla voce, p. 54, v. 20), relitto tra le altre «inutili macerie» (v. 21) disdegnate dalle onde: «dal mare l’io si sente quasi risucchiato, potentemente, come dall’elemento mitico per eccellenza vitale, ma insieme ne è rifiutato, espulso, confinato a terra»32. Il Mediterraneo, «padre perduto, assente nel suo delirio», rappresenta «la realtà del mondo»33, alla quale non è possibile nessuna felice adesione, nessun abbandono: ecco dunque il senso di scacco esistenziale, cui si accompagna una poesia costruita per via di negazioni e confessioni di impossibilità: è questo che accade, ad esempio, con le «lettere di fuoco» di Non chiederci la parola, nota dichiarazione di poetica posta in apertura della sezione eponima degli Ossi di seppia: Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda […] (p. 29, vv. 1-3).
Il fuoco, come il mare, è manifestazione e attributo della divinità: come sul Monte Sinai Dio, rivelatosi nel fuoco34, ha inciso il suo Verbo sulla pietra, allo stesso modo i «poeti laureati» (I limoni, p. 11, v. 1) potrebbero desiderare la parola definitiva e sacra, il sigillo che si imprima sull’animo, a dargli – e contemporaneamente esprimerne – la forma. Ma all’io montaliano, come è precluso l’accesso all’elemento liquido, così manca la familiarità con una parola immutabile, eterna, 31
M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., pp. 347-348 (corsivi nel testo). P. V. Mengaldo, L’«Opera in versi» di Eugenio Montale, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Le opere, vol. IV Il Novecento, t. I L’età della crisi, cit., p. 638. 33 P. Bigongiari, Dal “correlativo oggettivo” al “correlativo soggettivo”, in M.A. Grignani – R. Luperini, Montale e il canone poetico del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 426. 34 Es 19, 18: «Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace». 32
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partorita dal fuoco. Così al «padre» Mediterraneo, dio imperscrutabile, taciturno o tremendo, egli si offre umilmente in sacrificio, consapevole del fatto che «il destino dell’uomo appare ridotto a un significato di consunzione e di cenere»35: Presa la mia lezione più che dalla tua gloria aperta, dall’ansare che quasi non dà suono di qualche tuo meriggio desolato, a te mi rendo in umiltà. Non sono che favilla d’un tirso. Bene lo so: bruciare, questo, non altro, è il mio significato (Dissipa tu se lo vuoi, p. 61, vv. 16-23).
«Incapace di trovare un senso nell’ordine universale, e anzi incapace affatto di entrarvi»36, il poeta sa di essere parte («favilla») di una totalità che lo trascende ma non lo riassorbe, anzi lo estromette, come accade alla scintilla che schizza via dal tirso incendiato. «Non siamo altro che i residui di un essere infiammato», conclude Bachelard il suo commento su Novalis37: non resta altro che bruciare, consumandosi lentamente (non ci aspettiamo, dopo la resa «in umiltà» al mare, un rogo che deflagra con violenza; e anche l’immagine del «duro ceppo nel focolare»38 nella Bufera, emblema della speranza dell’io lirico, ci orienta in questo senso). Se però da Mediterraneo passiamo a Meriggi e ombre, l’ultima sezione degli Ossi di seppia, troviamo un’immagine molto simile – ancora un fuoco che brucia per un’offerta sacrificale – ma di senso assolutamente diverso. Stavolta l’io non è solo di fronte alle «acque di piombo» (Crisalide, p. 88, v. 49): insieme a lui è una donna, una «crisalide» (dunque a lui accomunata dal non avere ancora assunto «un volto»39 definitivo, un’identità ben individuata), con cui assiste a 35
R. Luperini, Storia di Montale, Roma-Bari, Laterza, 1986, p. 41. P. Cataldi, Montale, Palermo, Palumbo, 1991, p. 20. 37 G. Bachelard, La fiamma di una candela, cit., p. 62n. 38 «Solo quest’iride posso / lasciarti a testimonianza / d’una fede che fu combattuta, / d’una speranza che bruciò più lenta / di un duro ceppo nel focolare», Piccolo testamento, p. 275, vv. 8-12. 39 Tale impossibilità può essere anche, in un primo momento, indice di un’apertura dell’esistenza a molteplici possibilità di realizzazione: «Quivi sei alle origini / e decidere è stolto: / ripartirai più tardi / per assumere un volto» (Là fuoresce il Tritone, p. 37, vv. 10-13), ma negli ultimi componimenti degli Ossi diventa invece simbolo di una vita che non si riesce a definire e a giocare in pienezza. La donna è rappresentata come crisalide, «che è 36
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un prodigio che potrebbe rivelare «la libertà, il miracolo, / il fatto che non era necessario!» (p. 89, vv. 66-67).
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Un glorioso affanno senza strepiti ci batte in gola: nel meriggio afoso spunta la barca di salvezza, è giunta: vedila che sciaborda tra le secche, esprime un suo burchiello che si volge al docile frangente – e là ci attende (Crisalide, p. 88, vv. 52-57).
In un meriggio che «è quello marino caratteristico degli Ossi»40 sembrerebbe rivelarsi l’occasione di fuggire dal «limbo squallido / delle monche esistenze» (p. 88, vv. 37-38): ma è solo un’illusione; «le note […] s’informano […] a elegiaca malinconia, e dentro l’elegia si alza […] il voto di poter offrire la propria parte di felicità e la vita stessa perché la donna amata si salvi e abbia un destino privilegiato»41. Il silenzio ci chiude nel suo lembo e le labbra non s’aprono per dire il patto ch’io vorrei stringere col destino: di scontare la vostra gioia con la mia condanna (p. 89, vv. 71-75).
L’io lirico prega di poter almeno contribuire, come scrive in In limine, a cercare per la sua compagna «una maglia rotta nella rete / che ci stringe» (p. 7, vv. 15-16), a favorire il suo «balz[o] fuori» (v. 16), la sua fuga. Lo slancio per la felicità della donna è l’ultimo sussulto del «cuore che ogni moto tiene a vile» (Mia vita, a te non chiedo lineamenti, p. 33, v. 5), e che offrendosi in sacrifico e bruciando vedrà appunto «finir[e] ogni moto»: È il voto che mi nasce ancora in petto, poi finirà ogni moto. Penso allora alle tacite offerte che sostengono le case dei viventi; al cuore che abdica perché rida un fanciullo inconsapevole;
simbolo di una fatale quanto esistenziale fragilità e di un’altrettanto fatale e cosmica ignoranza»: G. Baldissone, Il male di scrivere. L’inconscio e Montale, Torino, Einaudi, 1976, p. 16. 40 E. Bonora, Poesie d’amore di Montale, in S. Campailla – C. F. Goffis (a cura di), La poesia di Eugenio Montale, cit., p. 230. 41 Ibid.
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al taglio netto che recide, al rogo morente che s’avviva d’un arido paletto, e ferve trepido (Crisalide, p. 89, vv. 76-83).
Riconoscendosi nell’«arido paletto», incapace di vita e rifiutato dalla vita, il poeta si vota alle fiamme e, come in Mediterraneo confessava: «forse / m’occorreva il coltello che recide, / la mente che decide e si determina» (Avrei voluto sentirmi…, p. 59, vv. 17-19), così anche in Crisalide la rinuncia gli richiama alla mente il «taglio netto che recide», emblema di volontà e presa di possesso sul mondo. L’io lirico dunque si immola42, e la sua «condanna» fa sì che il «rogo morente» riprenda vigore, a beneficio della crisalide che lo accompagna. È tutta qui la differenza rispetto al «bruciare» di Dissipa tu…: il sacrificio è ora compiuto non per uniformarsi al volere di una divinità – il mare – dispotica e imperscrutabile, che respinge l’individuo inadeguato e indeciso, ma per riscattare la gioia di una donna il cui «cuore vicino che non m’ode / salpa già forse per l’eterno»43.
3.2 «Nel mio sogno s’accendean le vampe»: distruzioni di repertorio (Moretti Gozzano Govoni Corazzini Saba) In Moretti e Gozzano sono rarissime le rappresentazioni di fiamme che devastano, e generalmente si tratta di immagini che non rientrano in un più vasto sistema simbolico. Da Poesie scritte col lapis fino al Giardino dei frutti, troviamo solo un paio di artificiosi «orizzonti di fuoco» (Dove sei?, p. 36, v. 10) in cui potrebbe essersi persa l’anima del poeta, e «arcipelaghi in fiamme» (Carolina Invernizio, p. 271, v. 29), ambientazione per avventurosi romanzi di fanciulli, che «esagera[no] il carattere di banalità del discorso poetico»44; mentre nella gozzaniana Via del rifugio il contadino ottuagenario, che racconta all’io lirico il proprio passato e gli eventi della guerra di Crimea, suscita la visione stereotipata «di guerre e d’altri popoli» (L’Analfabeta, p. 16, v. 162): 42
«La salvezza è possibile solo attraverso la testimonianza del singolo che si sacrifica per tutti»: D’Arco S. Avalle, Cosmografia montaliana, in Id., Tre saggi su Montale, Torino, Einaudi, 1970, p. 107. 43 Così leggiamo in Casa sul mare (p. 94, vv. 36-37), l’ultima di tre poesie (con Crisalide, anche Marezzo) di Meriggi e ombre dedicate alla stessa figura femminile. 44 G. Bàrberi Squarotti, Quasi un’introduzione: letteratura e decadenza borghese, in Id., Poesie e ideologia borghese, cit., p. 42.
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E nel mio sogno s’accendean le vampe sopra le mura. Entrava la milizia nella città: una città fittizia quali si vedon nelle vecchie stampe (p. 16, vv. 165-168).
Il vecchio è ancorato alla vita e,
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sebbene ottuagenario, è ancora «candido e robusto» perché non si è lasciato devastare dalla cultura, e ha saputo conservare un «cuore sempre giovine», leggendo negli spettacoli della natura il mistero dell’evoluzione della vita e la necessità della morte45.
La sua parola è chiara e referenziale, laddove il poeta riduce l’esperienza a finzione: le guerre e le devastazioni reali vissute dal contadino diventano immediatamente «vampe» osservate in una stampa, in cui la portata distruttiva delle fiamme è esorcizzata – ricondotta ad un «territorio familiare»46, che non può turbare eccessivamente «il bimbo illuso dalle stampe in rame» (L’Analfabeta, p. 17, v. 180) – e contemporaneamente nobilitata e fissata per sempre, se è vero che «l’arte […] conserva nell’artificio che le è proprio quell’autenticità, quella verità, quei valori che la vita non possiede più»47. Nemmeno nella poesia di Govoni le immagini di incendi e devastazioni causate dal fuoco, pur molto più frequenti, assumono il ruolo di tasselli di un preciso sistema simbolico – come sarà, ad esempio, nelle sillogi palazzeschiane o, in modo diverso, in quelle ungarettiane. Si tratta, in particolare negli Aborti, di figurazioni scelte per il loro valore di «stranezze»: tra altre immagini spettacolari, ridotte a «presenze sempre un po’ irrazionali»48 in sorprendente e «silenziosa giustapposizione»49, incontriamo «un incendio in una serra d’orchidee / simili a sospensori d’idoli» (Le stranezze, AB p. 246, vv. 13-14); o un veleno che, devastando le «viscere» de La suicida (AB p. 260, v. 17), crea visioni di «rossi candelabri accesi» (v. 20) e stravolge la percezione della realtà:
45
G. Savoca, Parole del corpo nella poesia di Guido Gozzano, in Guido Gozzano. I giorni, le opere, cit., p. 196. 46 E. Gioanola, Gozzano: la malattia e la letteratura, cit., p. 324. 47 G. Bàrberi Squarotti, Il poeta fra le rovine, cit., p. 86. 48 G. Guglielmi, Govoni informale, in Id., L’invenzione della letteratura. Modernismo e avanguardia, Napoli, Liguori Editore, 2001, p. 106. 49 Ibid.
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Non credere che sia la tua bocca che ti brucia! Non vedi ch’è un vulcano in mezzo al mare che vomita dal suo cratere angeli bianchi che si mettono in fila come i tuoi denti? (AB p. 261, vv. 46-51).
Indugiando su tutti i sintomi che annunciano l’approssimarsi della morte, Govoni paragona il veleno a «un ardito incendiario / con la sua face / nella reggia del tuo cuore» (AB p. 261, vv. 62-64), la cui azione provocherà, come risultato dell’agonia della suicida, l’esalazione dal suo cadavere di «un profumo acuto / come di bruciati fiori» (p. 263, vv. 98-99). Altri roghi nei versi de Il rosso («Trombe d’Apocalissi. Fiammea gloria / di gran bandiere […] / Incendio d’oro», AB p. 89, vv. 5-6, 8) o in quelli, dedicati allo sguardo, di Ottavario degli occhi – V («Oasi in fiamme ove in lor nudità / i sensi urlan belve pazze e confuse», AB p. 102, vv. 1-2) e di Occhi di malati: «Occhi malati. Tiepidi giardini / […] / Reggie [sic] in fiamme»50 (AB p. 98, vv. 1, 9). Una simile immagine, di «reggia […] che fiammeggia», si trova nei versi corazziniani di Elemosina nel sonno, nel Libro per la sera della domenica. Un «piccolo vecchio lebbroso» (p. 204, v. 1), sognando, abbandona la sua condizione di miseria per elevarsi a «re dei re»51 (v. 6), mentre il poeta, notando il suo «sorriso muto d’idiota» (p. 205, v. 28), prima di invitarlo a svegliarsi gli domanda: «È dunque la tua reggia / meravigliosa, questa che fiammeggia / come un rogo?» (p. 204, vv. 7-9). Il malato che sogna «nell’ombra della via suburbana» (v. 3) è escluso, come il poeta, dalla vita in grande stile intravista nel sonno; ma mentre il poeta è ben sveglio, e lucidamente consapevole di «non sa[per] fare nient’altro che piangere, cioè non conosce[re] altro che il dolore, la pena, la morte, il sentimento»52, il lebbroso si abbandona al sogno e, inconsapevolmente, si espone allo scherno dei passanti, perdendosi in visioni di fiamme che si elevano al cielo dalla reggia sfavillante. 50 Ancora un grande palazzo associato alle fiamme si trova nella tavola paesaggio + mare + temporale + mendicante = primavera. Sotto il disegno di «una gran casa nuova» ecco la catena di immagini da questa evocate: «tetto rosso grondante assassinio socialismo fiamme» (RPL p. 42). Più avanti, nella stessa tavola parolibera, ricorre il disegno di un sole e la definizione «sole // ostia incendiaria» (p. 43). 51 Evidente il riferimento alla figura di Cristo, più volte chiamato in causa dall’io lirico corazziniano. 52 G. Bàrberi Squarotti, Inutilità e divertimento: le risposte della poesia, in Id., Poesia e ideologia borghese, cit., p. 269.
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Tornando a Govoni, negli Aborti incontriamo ancora altri incendi, collegati sia al paradiso che all’inferno: Paradiso incendiato, io posso bere tutte le sue carezze voluttuose (Il vino, AB p. 88, vv. 5-6);
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Nelle taverne gli ubbriachi vedono inferni ardenti dove la lor sete53 in gironi di vino acre s’ingoia (La notte, AB p. 77, vv. 12-14).
Il vino, dunque, comune denominatore dei versi sopra citati, suscita visioni di passioni appagate, di beatitudini «voluttuose», o di punizione per le azioni compiute di notte, l’«ora di pipistrelli e di peccati» (La notte, AB p. 77, v. 1). La rappresentazione govoniana dell’inferno è in linea con quella tradizionale, che lo vede luogo di fiamme inestinguibili: molto diverso dall’inferno che, nella Regola del Sole di Palazzeschi, è rappresentato come il luogo dove non giungono i raggi del dio venerato dalle signore, ossessionate dalla paura di finire, dopo la morte, nel «gelido mare» (La regola del Sole, p. 217, v. 112). Capovolgendo di segno il significato delle fiamme, il poeta degli Aborti ne fa anche tratto caratteristico di un paradiso che diviene metafora di appagamento erotico (nella contemplazione di «bellezze ascose», Il vino, AB p. 88, v. 7, e nel godimento delle carezze). Ma «ogni configurazione» – come ha notato Guglielmi a proposito di più tardi componimenti govoniani – «si rivela labile, trapassa in altro, è una costellazione momentanea e subito disfatta»54: come l’io lirico del Vino sa bene, le fiamme del paradiso, nate dallo stato di ubriachezza, sono sempre passibili di una conversione in elementi demoniaci, tra «infernali / baci» (vv. 9-10) e «tristi angeli biondi / briachi» (vv. 12-13). Fugacemente ricordate anche da Saba, le fiamme dell’inferno sono associate, nei Versi militari, a echi danteschi in due sonetti uniti da un ardito enjambement: mi verrà fatto di fermare in una strofa, in un verso, quel suo aspetto un poco di Farinata… Ma ben più che il fuoco 53 Un inferno ugualmente associato alla sete, ma paradossalmente collocato in alto, è nei Versi militari di Saba, dove si incontra un ufficiale che «assetato non beve, di sua gente / guarda l’urto coi verdi occhi crudeli, / pallido sotto arroventati cieli» (A un ufficiale, p. 50, vv. 12-14). 54 G. Guglielmi, Govoni informale, cit., p. 113.
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dell’Eterno la cruccia […] (Il capitano – I, p. 56, vv. 12-14; Il capitano – II, p. 57, v. 1).
Anche qui il «fuoco // dell’Eterno» non rientra in una precisa costruzione simbolica, restando solo un’immagine come un’altra per richiamare uno scenario infernale.
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3.3 «Fuoco! Fuoco!»: distruzione e trasgressione (Palazzeschi Campana) Nella poesia di Aldo Palazzeschi il fuoco che distrugge compare fin dalle prime prove. Nei Cavalli bianchi il fuoco è presenza inquietante perché non ancora motivata (come invece accade in Lanterna con la Storia di Frate Puccio) da un’esigenza umana. Le fiamme del Campo dell’odio, ad esempio, si manifestano come un fenomeno legato ad eventi ingovernabili ed inquietanti: La terra è riarsa né l’acqua la bagna, nemmen le gramigne vi fanno. Nei tempi lontani in quel campo fu fatta la guerra. Moriron, si dice, ridendo fratelli bruciati dall’odio. […] Ogn’anno allorquando ricorre la notte del giorno funesto la gente sta desta: guardando in quel campo si vedono alzare leggere e svanire le fiammelle gialle: sorrisi dell’odio dei morti (p. 15, vv. 1-6, 13-19).
Il metaforico fuoco dell’odio, che in «un tempo astorico»55 ha consumato «fratelli» giunti ad uccidersi, lungi dall’estinguersi si è trasformato nel fuoco reale delle «fiammelle gialle»: l’elemento igneo distrugge la «sora nostra madre terra» (p. 15) che Palazzeschi ritrae nel suo rigoglio riportando, in epigrafe al Campo dell’odio, i versi delle 55 Nei Cavalli bianchi, nota la Dei, gli eventi affondano le proprie radici in epoche lontane: «a un tempo astorico, appunto fiabesco, viene fatta risalire l’origine di ogni vicenda ormai consumata e irrigidita, senza prospettiva di sviluppo o di scioglimento» (Giocare col fuoco. Storia di Palazzeschi poeta, cit., p. XIX).
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Laudes creaturarum di Francesco d’Assisi. I «diversi fructi, con coloriti fiori et herba» (p. 15) sono distrutti dall’arsura, e la terra è «giallita» (v. 8) come gialle sono le lingue di fuoco: c’è «qualcosa di maligno, di spettrale e di persecutorio che è sepolto, nascosto, ma continua a esercitare il suo potere perverso»56, interferendo col normale corso della natura ed impedendo la fecondità della terra57. Chi è morto non va mai davvero via dai luoghi che ha abitato: anche Madama Mirena, scomparsa nell’incendio che ha distrutto il suo palazzo, si trasforma nel «fantasma di una presenza inquietante»58, capace di esercitare, come le fiamme, un forte potere di attrazione. L’incendio devastante è sia elegante danza di luce, seducente riproduzione del ballo di dame sofisticate, sia terribile punizione che mette fine a «una non innocente veglia»59: Palazzo Mirena è distrutto, distrutto dal fuoco. In sera di festa, la veglia era piena, le fiamme terribili avvolsero il grande palazzo. […] Il cielo che s’ebbe di fiamme terribile omaggio per tutta una notte, rimase chiazzato di rosso per giorni e per giorni. […] In sera di festa, la veglia era piena, smagliante di luci e di gemme, fiorita di petali rossi e scarlatti di dolci sorrisi lunghissimi, fra […] frusciare di serici manti, di manti vermigli, violetti, di manti bianchissimi (Palazzo Mirena, pp. 46-47, vv. 1-5, 15-18, 26-30, 33-35).
56
E. Pellegrini, “La morte euforica” di Palazzeschi, cit., p. 306. Addirittura, «nell’immanenza di questo mondo, il dolore e la sofferenza sono iscritti nella terra stessa»: E. Polizoes, Palazzeschi e san Francesco. Alcune proposte per una lettura dei «Cavalli bianchi», in L. Somigli – G. Tellini (a cura di), L’arte del saltimbanco. Aldo Palazzeschi tra due avanguardie, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Toronto, 29-30 settembre 2006), Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2008, p. 95. 58 E. Pellegrini, “La morte euforica” di Palazzeschi, cit., p. 307. 59 A. Saccone, Figurazioni del personaggio incendiario: Marinetti e Palazzeschi, cit., p. 70: «[…] in Palazzo Mirena il fuoco, sospendendo una non innocente veglia, si consegna implicitamente ad una finalità repressiva». 57
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Gli abiti vermigli e violetti che rompono il candore dei «manti bianchissimi», il rosso e lo scarlatto delle labbra delle signore, simili a petali, già preannunciano e quasi provocano le lingue di fuoco alzate al cielo, delle quali, definendole «omaggio», il poeta coglie una somiglianza con la solenne eleganza delle dame stesse. Mentre molte donne sono viste «gettarsi dall’alto» (v. 49) o «fuggire fuggire pel grande giardino / siccome le torce terribili al vento / strapparsi le trecce infuocate» (vv. 52-54), Madama Mirena «rima[ne] al suo posto» (v. 48), con il «guardo di Sole» (v. 47) fisso sul fuoco, forse memore della dannunziana Foscarina dal «cuore […] ebro di distruzione», che desidera «scomparire, essere inghiottita, non lasciar traccia!»60. Secondo Bachelard «l’amore e il rispetto del fuoco, l’istinto di vita e l’istinto di morte»61 si uniscono nell’atteggiamento di chi, senza riuscire a fuggire, contempla le fiamme, affascinato e terrorizzato allo stesso tempo. Madama Mirena sembra essere affetta dal «complesso di Empedocle»: Il fuoco è l’immagine più grande, l’immagine più completa dell’annichilimento. Per questa vertigine del fuoco, per il suo rimando al rogo, si può ricordare la morte di Empedocle nel cratere dell’Etna, e quindi definire un complesso di Empedocle62.
Soggiogata dal fascino delle fiamme, la dama «rima[ne] la suo posto / strisciando alle fiamme l’inchino infinito» (p. 48, vv. 66-67), perfettamente «padrona» (v. 66) di sé – mentre le altre signore, abbiamo visto, fuggono scomposte o restano «folli» (v. 44). Tanto diverso da quello di sottomissione imposto a Puccio, l’inchino di Madama Mirena è inchino di dama al cavaliere perfetto e definitivo, gesto di resa verso colui che la domina, e al contempo atto di dominio su sé e sul proprio destino. Per la «bionda Contessa» (v. 47) «nel fuoco, la morte non è più morte»63: Talora, fra il nero si scorgon dei raggi lucenti, fulgore di gemme rimaste, “son gli occhi di Dama Mirena!”. Di sotto ai carboni
60
G. d’Annunzio, Il fuoco, con Introduzione di P. Gibellini, Milano, Rizzoli, 2009, p. 258. G. Bachelard, La psicoanalisi del fuoco, cit., p. 126. 62 G. Bachelard, Le immagini del fuoco, cit., p. 45. 63 G. Bachelard, La psicoanalisi del fuoco, cit., p. 128. 61
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Si dice che ancora Ella guardi (p. 48, vv. 74-79).
Se l’incendio improvviso che distrugge l’eleganza liberty del ballo a palazzo Mirena non ha origini chiare (doloso o casuale?), ben diverso è quello appiccato al palazzo di Cobò (nell’Incendiario), dove si ammassano in promiscuità animali immondi. La folla che, si è visto64, nelle prime raccolte palazzeschiane osserva da fuori, «curios[a] e ammirat[a]» o «pronta, se non al linciaggio, certamente al saccheggio»65, diventa adesso incendiaria, spinta dalla «rabbia» («Cobò è morto, / e non gli possono fare il trasporto; / e quello che più rabbia fa, / è che nessuno avrà / la grande eredità», La morte di Cobò, p. 205, vv. 2-6) e dalla «paura» («Attorno alle altissime mura / che circondano il castello di Cobò, / gira e rigira la gente / nella massima paura. / Vengono dal castello / le grida più disparate, / cori altissimi infernali, / di centinaia di animali», p. 205, vv. 7-14). Cobò, «ulteriore incarnazione del profeta e benefattore incompreso e perseguitato»66, muore circondato dai tanti animali la cui compagnia lo ha risarcito del disprezzo degli uomini. Eppure il «minatorio antropomorfismo»67 di scimmie vestite da dottore o da prete, di scimmioni in livrea e di orsi ballerini già insinua il sospetto che questi animali non si riveleranno, morto il padrone, meno avidi degli uomini: inquieti per la mancanza del «solito lauto desinare» (p. 212, v. 251) ed euforici per l’improvvisa, assoluta libertà, galli, cani, gatti e scimmie devastano la casa e i beni di Cobò. E dunque la folla, frustrata nel desiderio di impadronirsi delle ricchezze del defunto, e spaventata dall’inquietante consesso di bestie sempre più sfrenate e affamate, decide di risolvere drasticamente il problema con il fuoco. La massa che, secondo Canetti, «non riconosce case, né porte, né serrature»68, muove un vero e proprio «attacco a tutti i confini»69: anche il palazzo di Cobò deve essere distrutto, e mediante l’elemento che alla massa è più congeniale. 64
Cfr. par. 2.1. A. Dei, Le case di Aldo Palazzeschi, in G. Tellini (a cura di), La «difficile musa» di Aldo Palazzeschi, cit., p. 244. 66 Ivi, p. 250. 67 G. Nicoletti, L’azzardo negato dell’«Incendiario», in G. Tellini (a cura di), L’opera di Aldo Palazzeschi, Atti del Convegno Internazionale (Firenze, 22-24 febbraio 2001), Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2002, p. 110. 68 E. Canetti, Massa e potere, trad. it. di F. Jesi, Milano, Adelphi, 1981, p. 19. 69 Ivi, p. 23. 65
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Il mezzo di distruzione più impressionante di tutti è il fuoco. Lo si vede da lontano e attira altra gente. Distrugge in maniera irrevocabile. Nulla dopo il fuoco rimane com’era prima70.
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Con le fiamme si vuole annientare l’elemento estraneo, il diverso che si è auto-isolato dalla comunità alimentandone i sospetti, fondati o infondati che siano. - Buttate dentro il fuoco! È l’unica maniera, stando bene lontani con ogni precauzione. […] - Fuoco! Fuoco! - È pericoloso aspettare, c’è da temere un’epidemia nel paese. Fuoco, e pronti con cautela per ammazzare le bestie che potessero uscire (La morte di Cobò, p. 213, vv. 271-274, 278-284).
Si tratta di un incendio «da pulizia etnica […], appiccato dalla piazza conformista»71 per evitare il «fracasso» (v. 26), il «fetore» (v. 27), o la diffusione di qualche «malaccio» (v. 44). Il fuoco è dunque invocato ed adoperato come strumento di repressione, che distrugge in quanto purifica e viceversa: Una delle ragioni più importanti della valorizzazione del fuoco in questo senso è forse la deodorizzazione, che costituisce una delle prove più dirette della purificazione. L’odore è una qualità primitiva e imperiosa […]. Il fuoco purifica tutto perché sopprime gli odori nauseabondi. […] Una seconda ragione del principio di purificazione per mezzo del fuoco […] è che il fuoco separa le materie e distrugge le impurità materiali72.
Le fiamme eliminano quindi la «presenza importuna»73 dell’odore animale, elemento di disturbo e fonte di angoscia; e cancellano fisicamente quanto di immondo si concentra nel castello, pur causando la perdita di favolosi tesori:
70 71 72 73
Ivi, p. 24 (corsivi nel testo). Ibid. G. Bachelard, La psicoanalisi del fuoco, cit., pp. 212-213 (corsivi nel testo). Ivi, p. 212.
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- E tutto l’oro? - E le robe preziose? - E tutti i fogli da mille lire? - Fuoco, fuoco! È l’unica maniera per evitare un più gran male (p. 213, vv. 285-289).
Insieme alle impurità, le fiamme bruciano anche le ricchezze accumulate da Cobò, e il suo stesso cadavere (o quel che ne resta: «A quest’ora tutte quelle bestiacce / ànno mangiato ventimila Cobò!», p. 206, vv. 46-47): «siamo di fronte a una morte senza resti, a una specie di sparizione iniziatica, alla conferma di un’intoccabilità»74, che, come anche a Madama Mirena, sembra riservata a personaggi palazzeschiani che godono di un particolare rapporto con il fuoco75. È la stessa situazione in cui si trova il Frate Rosso, protagonista dell’omonima poesia, che scompare dopo un incendio. Eppure, molto diversamente da quanto accade a Cobò, la sparizione del Frate Rosso e il relativo incendio non sembrano opera di alcuna folla, bensì, nonostante non sia mai detto esplicitamente, del frate stesso, «un nuovo stranissimo frate / vestito d’un insolito colore» (Il Frate Rosso, p. 173, vv. 4-5). Nei versi del componimento conclusivo dei Poemi, che esercitano una «funzione di “cerniera” […] in quanto […] idealmente collegati[i] al poemetto dell’Incendiario»76, è messo in scena un frate molto diverso dal Puccio che abbiamo visto punito per mezzo del fuoco. Questo religioso, «tutto rosso, / nella veste, / nei capelli, negli occhi» (vv. 7-9), non ha nome – primo indizio sulla sua essenza indefinibile e indecifrabile77 – né prende mai parola (tratto condiviso sia con Puccio che, come vedremo, con l’incendiario che dà il nome al poemetto e alla raccolta del ’10). Sul silenzio del Frate Rosso si susseguono voci di diverse beghine, affascinate o scandalizzate, mentre il tempio è illuminato da «candele accese» (v. 60) che rendono l’altare simile a «una mano / dalle cento dita / che indicano Gesù / tutte protese» (vv. 62-65), traccia delle tante candele disseminate, come già visto, in molti versi palazzeschiani: ma 74
E. Pellegrini, “La morte euforica” di Palazzeschi, cit., p. 303. Non posso qui soffermarmi sulla sparizione di Valentino Kore o di Perelà, protagonisti delle prime prove narrative di Palazzeschi. 76 G. Nicoletti, L’azzardo negato dell’«Incendiario», cit., p. 104. 77 «Conoscere il nome, pronunziarlo in modo giusto è esercitare un potere sull’essere o sull’oggetto»: J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri, cit., p. 695. 75
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QUANDO IL FUOCO DISTRUGGE
beghine e candele, tradizionali «segni devozionali»78, sono accostate a un personaggio inedito, un «misterioso protagonista» dalle «potenzialità ignee ed eversive»79:
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il bruciamento dell’altare
La mattina l’altare non c’era più. Non c’era più. Per tutte le file incatenate del lino e dell’argento passò il fuoco. […] Una favilla non vista? Forse sfuggita all’occhio del chierico nello spengere i lumi? L’altare non c’era più. Non c’era più. E non c’erano più nemmeno le sue ceneri (pp. 177-178, vv. 131-136, 142-148).
A nessuno viene in mente un altro motivo per la sparizione dell’altare: deve essere stato il fuoco, anche se non se ne comprende la causa e non se ne vedono i resti. Immediatamente si pensa che il Frate Rosso si sia «macchiato di una gravissima colpa, procedendo al “bruciamento dell’altare” e poi fuggendo»80. Questo strano confratello di Puccio, vestito del colore della «figura profana di femmina», irrompe col fuoco nello spazio rigido e candido del «Tempio smisurato / tutto di marmi bianchi» (vv. 49-50), scompone l’abituale susseguirsi di orazioni e rituali stantii; dandosi poi alla fuga e lasciando, con la sua sparizione, spazio alle «riflessioni» (v. 149) della gente: Dove anderà ora il Frate Rosso? Dove anderà? Fra tutta la gente vestita di colore indeciso, lui, tutto rosso, con quel suo strano viso… Se lo mettessero in prigione? (vv. 150-156). 78
A. Dei, Note al testo, in A. Palazzeschi, Poemi, cit., p. LXIV. Ibid. 80 G. Savoca, Il primo e l’ultimo Palazzeschi poeta: continuità e innovazione, in G. Tellini (a cura di), L’opera di Aldo Palazzeschi, cit., p. 376. 79
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SUL FUOCO
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Il Frate dei Poemi, dunque, è il primo di «quei personaggi […] chiamati a svolgere una missione potenzialmente salvifica, volta a sciogliere, con il fuoco che è la loro anima vitale, da un sistema di divieti e di norme repressive, un mondo di cui vorrebbero capovolgere i codici statuiti»81. Se la prigione è una tra le tante possibili prospettive per il Frate Rosso, per l’incendiario in gabbia è invece realtà. Mentre nei Cavalli bianchi e in Lanterna «il rogo è essenzialmente castigo e punizione»82, mezzo per ristabilire un ordine violato nel convento di Puccio, o per mettere fine agli «ultimi fasti della decadenza»83 inscenati a palazzo Mirena, adesso è uno strumento consapevolmente adoperato per sovvertire tramite il «divertimento» le regole di un mondo eccessivamente ordinato: - Se non facevano presto a accaparrarlo, ci mandava tutti in fumo! - Si meriterebbe altro che berlina! - Quando l’ànno interrogato, à risposto ridendo che brucia per divertimento (L’Incendiario, p. 182, vv. 58-63).
Mentre ne La morte di Cobò è la folla ad appiccare il fuoco, qui il piromane è l’individuo, il singolo: l’incendiario ha con le fiamme una dimestichezza che le persone normali temono. Tratto comune a Cobò e all’incendiario senza nome è il loro essere reclusi (in un palazzo o in una gabbia, volontariamente o no) e il loro essere percepiti come diversi: come Cobò, anche il prigioniero in piazza è visto come un pericolo da parte della comunità, che proprio nell’odio e nella violenza – almeno verbale – verso il piromane trova motivo di coesione84, accalcandosi minacciosa attorno alla gabbia: 81
G. Nicoletti, L’azzardo negato dell’«Incendiario», cit., p. 107. A. Dei, Note alle singole poesie, in A. Palazzeschi, Tutte le poesie, cit., p. 1092. Il fuoco tornerà ad avere un ruolo punitivo nell’Incendiario del ’10 nei versi della Mano, in cui è raccontata una «protratta fantasia onanistica» (A. Dei, Giocare col fuoco. Storia di Palazzeschi poeta, cit., p. XXXIX). L’unico modo per sottrarsi alla «mano fortissima / e insieme affettuosa, / mano che sa tanto bene carezzare, / che sembra quella d’un gigante buono» (La mano, p. 257, vv. 39-42) consiste nel distruggere il «morbido divano» (p. 256, v. 9) che «è quello della mano» (v. 15). Come distruggerlo? È il pubblico a suggerirlo: «Mi direte: / Bruciate quel divano!» (p. 262, vv. 228-229). 83 A. Saccone, Figurazioni del personaggio incendiario: Marinetti e Palazzeschi, cit., p. 70. 84 A proposito del meccanismo che scatta intorno al «capro espiatorio», René Girard ha notato che «la violenza […] non è semplicemente collettiva: è spontaneamente unanime. Da questa unanimità nasce il suo potere unificante per la comunità» (R. Girard, Milomaki. Edipo presso gli indiani Yahuna, in Id., Miti d’origine. Persecuzioni e ordine culturale, cit., p. 70). 82
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QUANDO IL FUOCO DISTRUGGE
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- Io lo farei volentieri a pezzetti. - Buttatelo nel fosso! - Io gli voglio sputare un’altra volta addosso! - Se bruciassero un po’ lui perché ridesse meglio! […] - E ci sono di quelli che avrebbero pietà! (p. 183, vv. 66-71, 79-80).
Mentre il prigioniero «se ne sta tranquillo» (v. 40) e «non à mica paura»85 (v. 41), la ferocia della comunità, quasi fisiologica86, sembra farci presagire il linciaggio. Ma a rompere il rapporto vittima-folla si presenta un elemento esterno: A spezzare il cerchio di aggressività verbale creato dalla folla avversa interviene il poeta, che si assegna un ruolo antagonista nei confronti della società e solidale con la trasgressione eversiva del piromane imprigionato87.
Il poeta, che «viene da un’altra contrada»88 («Io vengo di lontano, / il mondo ò traversato», vv. 92-93) ed è quindi estraneo alla comunità che ha rinchiuso ed estromesso il piromane, si presenta come un suo alter ego: si trovano dunque faccia a faccia, «opposti e complementari, l’Eroe e il suo Doppio, ovvero, se preferiamo guardare dall’altro lato, rovesciando la prospettiva, il Poeta e il suo Doppio»89. Prima di liberare il prigioniero, il poeta sottolinea le analogie, e rimarca le 85 Come «non tem[e] i castighi contro gli incendiari» lo Zarathustra che vuole «portare nelle valli il [suo] fuoco: F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, cit., p. 4. L’incendiario palazzeschiano non intende tanto regalare il fuoco agli uomini, quanto bruciare «la gelida carcassa di questo mondo»; ma ha in comune con il protagonista del libro nicciano la noncuranza nei confronti del pericolo. 86 Ancora Girard sottolinea che «le vittime non possono essere condannate per aver esercitato il loro influsso negativo, dal momento che non avevano cattive intenzioni e agivano semplicemente secondo la loro natura terrificante e grandiosa» (R. Girard, Milomaki. Edipo presso gli indiani Yahuna, cit., p. 66). Anche la pericolosità dell’incendiario è legata, oltre che ad una volontà di divertimento (mentre il poeta, una volta entrato in scena, confesserà di operare incendi meno dannosi, ma «per dolo»), alla sua natura («T’ha creato il sole, / che bruci al sol guardarti?», L’incendiario, vv. 155-156). Ma nemmeno la comunità ha colpa per la violenza che riversa sul capro espiatorio: «non si può condannare nemmeno la violenza scaturita direttamente o indirettamente dalla comunità: non c’erano alternative» (R. Girard, Milomaki. Edipo presso gli indiani Yahuna, cit., p. 66). 87 A. Saccone, Figurazioni del personaggio incendiario: Marinetti e Palazzeschi, cit., p. 74. 88 G. Guglielmi, Gli imperi mancati di Palazzeschi, in G. Tellini (a cura di), La «difficile musa» di Aldo Palazzeschi, cit., p. 103. 89 E. Sanguineti, L’incendiario, in L. Caretti (a cura di), Palazzeschi oggi, cit., pp. 55-56.
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differenze, del rapporto di entrambi col fuoco. Se l’incendiario è in gabbia, nemmeno il poeta è libero:
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Anch’io, sai, sono un incendiario, un povero incendiario che non può bruciare, e sono come te in prigione. Sono un poeta che ti rende omaggio, da povero incendiario mancato, incendiario da poesia (p. 186, vv. 178-183).
Essere in prigione, per il poeta, vuol dire vivere in uno «stato di isolamento psichico e sociale, e quindi di coatta segregazione dalla comunità»90; ma se simile è la condizione di prigionia, fisica o meno, dei due, molto diversa è la loro inclinazione all’uso delle fiamme. Il piromane, operatore di divertimento ed eversione, «signore» (v. 103), «Dio» («Quando tu bruci / tu non sei più l’uomo, / il Dio tu sei», vv. 157-159) dall’«anima […] di fuoco» (v. 145) è «senza parole, / come la fiamma: colore, e calore!» (vv. 137-138), e può «cogli occhi / bruciare tutto il mondo!» (vv. 153-154). Il poeta, al contrario, proprio sulle parole fonda il suo incendio, e anziché appiccare il fuoco a tutto il mondo brucia libri: Ogni verso che scrivo è un incendio […]. Incendio non vero è quello che scrivo, non vero seppure è per dolo. (p. 186, vv. 184, 189-191).
L’«incendio non vero» può essere il «sì gran foco» che, in E lasciatemi divertire (p. 238, v. 63), il poeta è accusato di voler «tenere alimenta[to]» (v. 62) con materiale di scarto, con le «robe avanzate», «la spazzatura / delle altre poesie» (vv. 26, 28-29), attirandosi le critiche, via via più aggressive, del pubblico. Quello che ai lettori sembra il simbolo nobile dell’attività poetica, il «gran foco» sacro dell’arte, per Palazzeschi si rovescia nelle «vampe, bollenti / carezze al mio viso» (L’Incendiario, p. 186, vv. 187-188) che nascono dalla scrittura: l’elemento igneo nelle mani del poeta diventa lo strumento trasgressivo per agire con «dolo» in campo poetico, a proprio rischio e pericolo («Àn tutte le cose la polizia, / anche la poesia», vv. 192-193; così come contro gli incendi «gli uomini 90
F. Curi, I «Buffi» o la fine dell’utopia, cit., p. 217.
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serî […] ànno inventato i pompieri», p. 187, vv. 218-219). Accanto a questi versi-incendi, c’è però un piccolo incendio reale, una sorta di battesimo del fuoco praticato bruciando «il primo esemplare» del libro:
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Là sopra il mio banco ove nacque, il mio libro, come per benedizione, io brucio il primo esemplare, e guardo avido quella fiamma (L’Incendiario, p. 186, vv. 194-197).
E quindi anche il poeta, nel suo piccolo, compie la stessa azione del piromane: mentre lo riconosce come un essere superiore (capace di agire realmente mentre allo scrittore è destinato l’ambito ristretto della propria stanza, come a un bambino), si pone al suo stesso livello. Secondo Bachelard si possono annoverare sotto il nome complesso di Prometeo tutte le tendenze che ci spingono a «sapere» come i nostri padri, più dei nostri padri, come i nostri maestri, più dei nostri maestri. Proprio maneggiando l’oggetto […] possiamo sperare di porci più chiaramente al livello intellettuale che abbiamo ammirato nei nostri padri, nei nostri maestri91.
Se è vero che le parole del poeta, affidate alla pubblicazione, non restano nel chiuso della sua stanza, è anche vero che il fuoco, l’oggetto della trasgressione, resta un’esperienza da vivere solo in privato (ma forse, se seguiamo Bachelard, tra le righe delle affermazioni del poeta dell’Incendiario possiamo leggere la consapevolezza di «sapere» di più del padre/maestro, che ancora crede più efficace l’incendio vero rispetto a quello poetico). Come il piccolo incendio sul «banco», anche altri passatempi sono destinati all’intimità degli spazi domestici: Nel segreto delle mie stanze passeggio vestito di rosso, e mi guardo in un vecchio specchio, […]. Fuori vado vestito di grigio, ovvero di nessun colore, c’è anche per le vesti una polizia, come per le parole (L’Incendiario, p. 187, vv. 204-206, 211-214).
91
G. Bachelard, La psicoanalisi del fuoco, cit., p. 122 (corsivo nel testo).
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In questi versi, «una sorta di fulmineo riepilogo di già fissate icone poetiche»92, torna la situazione già presentata da Palazzeschi nello Specchio (Poemi). Affascinante e perturbante, lo specchio è il mezzo di riconoscimento di un alter ego incendiario da parte di un io che, a livello conscio, ancora teme il fuoco: Là, in un angolo della mia stanza, è un sudicio vecchissimo specchio ovale, una luce oscena che riflette male abbastanza. Cosa mi guardi, brutto sfacciato d’uno specchio? [...] Sotto l’occhio sinistro il palpito si vede d’una stella rossa, [...]. Quei capelli rossi, rossi e ricciuti! [...] Quell’enorme mantello rosso mi abbaglia gli occhi, ò paura, t’odio specchio vile, cosa mi fai vedere? Un uomo che mi fa paura, un uomo tutto rosso, che orrore! (Lo specchio, pp. 165-167, vv. 1-5, 48-50, 57-58, 65-71).
Il gioco di mistificazione e svelamento del proprio io culmina con l’apparizione, contemporaneamente celata, mediata ed imposta dalla superficie riflettente, di un soggetto «tutto rosso», clownesco e incendiario, che viene a sostituirsi all’identità cosciente e controllata. La costruzione e l’esibizione di tale identità sono messe in atto “a tradimento”, da parte di uno specchio con cui viene instaurato un rapporto ambivalente, conflittuale, di amore-odio, accettazione-repulsione, identificazione-distanziamento («Di’, mi rifletti o mi rigetti?», Lo specchio, p. 166, v. 33). Secondo Freud, come già visto a proposito di Moretti (cfr. par. 1.1), sarebbe inquietante, perturbante, unheimlich, il ritorno di ciò che, una volta familiare, è stato poi rimosso. Con heimlich si indica sia ciò che «appartiene alla casa», ciò che è «non straniero, familiare, domestico, fidato 92
G. Nicoletti, L’azzardo negato dell’«Incendiario», cit., p. 99.
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e intimo»93, sia ciò che è «nascosto, tenuto celato»94. Entrambi i significati si riferiscono ad eventi collegati ad atmosfere o ambienti chiusi: heimlich è sempre qualcosa che si dà in un interno, in uno spazio riservato. L’identità incendiaria, istanza nascosta del soggetto95, seppellita da tutte le convenzioni che regolano l’appartenenza alla società, rappresenta il rimosso, ciò che, riportato di colpo alla luce a causa dello specchio, diventa unheimlich, e provoca la reazione turbata dell’io poetante: No guarda, voglio ravvicinarmi a te, voglio vincere l’orrore, guarda ci ritorno, forse nuove e lunghe ore, forse tutto un giorno con te mio strano compagno (Lo specchio, p. 167, vv. 74-80).
Quasi vincendo il timore che lo specchio possa rubargli l’anima96, o almeno sottrargli le facoltà razionali a vantaggio dell’istinto sovversivo 93
S. Freud, Il perturbante, cit., p. 84. Ivi, p. 85. 95 «Inequivocabile figura di proiezione di una dimensione dell’io, preda di inconfessati impulsi libidici» (G. Nicoletti, L’azzardo negato dell’«Incendiario», cit., p. 99). 96 Lo specchio, in molte culture, può avere il potere di rubare l’anima delle persone che vi si vedono riflesse. La stessa pericolosa facoltà appartiene alle acque, che nei versi di Palazzeschi sono esplicitamente associate allo specchio: «Sfacciato! Ti credi di prender / la mia faccia, perché la tua / ti manca, la mia poverina / è bianca, ma la tua, che non ài, / è quella del più sudicio / stagno vecchio» (Lo specchio, p. 165, vv. 10-15). Frazer sottolinea che «come alcuni ritengono che l’anima di una persona si trovi nella sua ombra, così altri (o, forse, quegli stessi) credono che essa stia nell’immagine riflessa nell’acqua o in uno specchio […]. Possiamo ora comprendere l’antica massima indiana, ma anche greca, che ammoniva di non specchiarsi nell’acqua, e il motivo per cui i Greci consideravano presagio di morte sognare di vedere la propria immagine riflessa. […] Forse è questa l’origine del mito di Narciso, che cominciò a languire e poi morì, per essersi specchiato nell’acqua. Così si spiega anche l’usanza, molto diffusa, di coprire gli specchi di casa, o girarli contro il muro, quando muore qualcuno. […] È dettata dal timore che l’anima, proiettata fuori dalla persona sotto forma di riflesso nello specchio, venga portata via dal defunto […]. È anche evidente il motivo per cui gli ammalati non dovrebbero guardarsi allo specchio; e perché, nella camera di un infermo, lo specchio viene coperto; durante la malattia, infatti, quando l’anima potrebbe così facilmente fuggire, è molto pericoloso proiettarla fuori del corpo attraverso il riflesso nello specchio» (Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, cit., pp. 230-231). Anche nel pallore estremo del protagonista dello Specchio si potrebbe scorgere un segno di debolezza fisica, forse di crepuscolare malattia, o addirittura di prossimità alla morte: «Tu mi fai vedere un uomo / che mi fa pietà! / Che faccia bianca! / Tutto uguale il volto! / Se chiudo gli occhi / quell’uomo costà / mi sembra un morto» (Lo specchio, p. 166, vv. 34-40). Il soggetto moribondo, dopo essersi specchiato, si trasforma: il pallore diventa trucco da «pagliaccio» (v. 44), e piano piano vengono a galla i tratti eversivi dell’identità che lo specchio permette di vedere (o addirittura crea). 94
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e incendiario, l’io poetante gli si avvicina, nel tentativo di riconciliarsi con l’immagine riflessa, che gli risulta contemporaneamente estranea e familiare:
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Infatti questo elemento non è in realtà niente di nuovo o di estraneo, ma è invece un che di familiare alla vita psichica fin dai tempi antichissimi e ad essa estraniatosi soltanto a causa del processo di rimozione. […] Il perturbante è qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che è invece affiorato97.
Osservare lo specchio è dunque un modo per conoscere se stesso98. Eppure questa conoscenza è ancora messa in forse se il poeta, troppo spaventato per accettare ciò che vede, chiude la poesia con una domanda: Perché non mi dici allora se quello che tu mi fai vedere son veramente io? (Lo specchio, p. 167, vv. 94-96).
Messo faccia a faccia con il suo doppio, il soggetto non lo riconosce e non si riconosce99, non riuscendo ad identificarsi con l’«uomo che [gli] fa paura», l’«uomo tutto rosso», suo «strano compagno». Più consapevole di sé è il poeta dell’Incendiario, che, nei versi prima citati, ammette di vedere se stesso, non un altro («mi guardo in un vecchio specchio»), accettando l’identità incendiaria solo «nel segreto delle [sue] stanze», come a ribadire che la stranezza della poesia, cioè il carattere abnorme di essa di fronte alla normalità borghese, quel modo capriccioso, ludico, arbitrario che le è proprio, ha bisogno di una fisica lontananza, di un «reale» distacco dal contesto sociale100.
E quindi, «fuori» meglio andare «vestito di grigio», come la «gente vestita / di colore indeciso» (Il Frate Rosso, p. 178, vv. 152-153) tra
97
S. Freud, Il perturbante, cit., p. 102. Come si afferma in una Spazzatura, «[…] sembra che l’amore sia un po’ come lo specchio: tu guardi lui, ma vedi te»: A. Palazzeschi, Spazzatura (1915) [I], in Id., Tutti i romanzi, vol. I, a cura e con introduzione di G. Tellini e un saggio di L. Baldacci, Milano, Mondadori, 2004, p. 1309. 99 Cfr. G. Savoca, Eco e Narciso. La ripetizione nel primo Palazzeschi, Palermo, Flaccovio, 1979, p. 158. 100 G. Bàrberi Squarotti, Inutilità e divertimento: le risposte della poesia, cit., p. 282. 98
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QUANDO IL FUOCO DISTRUGGE
cui spiccherebbe pericolosamente il rosso, e tra cui infatti si è senza fortuna avventurato l’incendiario. Ma, pur non condividendo la strategia esibizionistica del Frate Rosso e del piromane, il poeta (che sotto questo aspetto sembra più simile a Puccio, con la sua relazione amorosa felicemente nascosta nel chiuso di una cella) decide di aprire la gabbia e liberare il prigioniero:
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Ma fido in te! T’apro la gabbia va’! Guardali, guardali, come fuggono! Sono forsennati dall’orrore, la paura gli à tutti impazzati (L’Incendiario, p. 187, vv. 224-228).
Gli astanti scappano: il sentimento che li muove alla fuga è lo stesso «orrore» provato dal poeta dei Poemi guardandosi allo specchio, e forse l’identità della parola usata serve proprio a instaurare un parallelismo tra le due situazioni. Il poeta vede nello specchio l’uomo di cui ha paura perché rappresenta una potenzialità diversa del suo essere; la folla vede nella gabbia tutto quello che ha dovuto allontanare perché la società sussista, ma forse quegli «uomini seri» invidiano la libertà assoluta e il potere dell’incendiario. Solo perché l’«uomo rosso» non può uscire dallo specchio, il poeta resta e gli si avvicina ancora: se l’incendiario rimanesse in gabbia, forse Palazzeschi cambierebbe il finale della storia del capro espiatorio, e anche la folla potrebbe finire col chiedere: «Perché non mi dici allora / se quello che tu mi fai vedere / son veramente io?». Mentre tutti fuggono, chi ha aperto la gabbia non manifesta paura: rispetto al poeta dei Poemi, quello dell’Incendiario sembra aver accettato l’istanza ignea, però sdoppiandola; l’incendio «non vero» è ammesso, relegato alla scrittura e alla sfera privata101; l’incendio che aggredisce «le consuete catapecchie» (v. 233), diverso e complementare, è demandato ad altri. Definendosi «una fiamma che aspetta!» (p. 188, v. 246) e invitando il «fratello» (v. 247) «a riscaldare / la gelida carcassa / di questo vecchio mondo!» (vv. 247-249), Palazzeschi sottolinea ulteriormente le differenze che intercorrono tra i due incendi e le loro finalità, e ribadisce di voler essere, oltre che un piromane, anche un «pagliaccio» 101 Come opportunamente messo in luce da Pieri, «Palazzeschi è consapevole di non essere il prototipo dell’artista socialmente attivo. […] Il proprio senso crepuscolare della relatività esistenziale non gli permette di impersonare in pubblico il ruolo offerto dal letterato iconoclasta» (P. Pieri, Ritratto del saltimbanco da giovane. Palazzeschi 1905-1914, Bologna, Pàtron Editore, 1980, p. 105).
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(Lo specchio, p. 166, v. 44): «la figura per eccellenza dell’immoralista gratuito, del trasgressore»102 che «alimenta» il suo «gran foco» sostanzialmente per divertirsi e sa quando è il caso di fermarsi. Ecco che dall’incendiario si passa al giocoliere: in una poesia del 1915 la dimestichezza col fuoco è prerogativa non già di un pericoloso piromane, ma di un clown che si guadagna da vivere intrattenendo la folla: Ogni sera su quest’ora mangia il fuoco Boccanera Bonasera Boccanera! Boccanera bonasera! […] Tutta la vita à mangiato il fuoco […] Mangiò il fuoco anche l’altra sera […] Mangerà il fuoco anche stasera certamente (Boccanera, p. 351, vv. 1-4, 10, 12, 14).
La gente, come al solito, prende la parola, salutando Boccanera o facendo supposizioni sulla sua esibizione: non è più la folla spaventata e aggressiva dell’Incendiario, ma pubblico pronto ad assistere ad uno spettacolo che si darà «anche stasera certamente», come «l’altra sera», come «tutta la vita». Nella ripetitività del gesto del “mangiafuoco” si esorcizza il pericolo: se in passato nella performance non c’è stato alcunché di spaventoso, non ci sarà nemmeno in futuro. L’uomo del fuoco, simile in questo alle Comare Coletta protagonista dell’omonima poesia di Lanterna, è emblema del diverso, potenzialmente eversivo, ricondotto alla logica dello spettacolo, al dominio da parte del pubblico che applaude, lancia una moneta e se ne va tranquillo. E insieme alla ripetitività del gesto si svela la stanchezza di Boccanera, che nessun intervento esterno sottrarrà alle aspettative della gente, come invece capitava al piromane in gabbia. Anzi, in luogo del proclama dell’«incendiario da poesia», che metteva a tacere lo «sconcio pettegolezzo» (L’incendiario, p. 183, v. 89) degli astanti, si ha la dissoluzione di ogni proclama, di ogni linguaggio: Mangiare… il fuoco […] 102
E. Sanguineti, L’incendiario, cit., p. 52.
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Man… fu… Don-don-dula Manfù […] Fuoco Fuo Fu F (Boccanera, p. 352, vv. 34, 36-38, 42-45).
La «degradazione ludica del linguaggio che nega ogni impegno comunicativo […] in parte è una scelta, in parte è un destino ineluttabile»103: veramente «incendiario mancato», Boccanera domina le fiamme e contemporaneamente le rende inoffensive, offrendo al divertimento del pubblico un fuoco che «non comunica altro che la propria evaporazione»104. Molto diversa rispetto alla palazzeschiana inclinazione al fuoco, declinata sul «divertimento» e sul «collasso del senso»105, è la «funebre febbre incendiaria» di cui parla Dino Campana in Oscar Wilde a S. Miniato106. Mentre le città rappresentate nella raccolta del ’14 possono essere genericamente «arse»107, la «città fantastica»108 lungo l’Arno descritta in Oscar Wilde a S. Miniato è rappresentata come «infuocata in linee lambenti di fuoco / Nella sera gravida» (vv. 4-5): è «un luogo di perduti, di morti, di dannati»109. I versi comunicano il senso di «un notturno in cui dominano il “gorgo” della città quasi bolgia dantesca, […] e la solitudine del poeta»110 che, accompagnato da «un’amica giovane» (v. 5), è impegnato, come lo vediamo anche altrove111, in un percorso ascensionale:
103
F. Curi, La poesia italiana d’avanguardia. Modi e tecniche, Napoli, Liguori Editore, 2001, p. 136. 104 A. Saccone, La rappresentazione della grande guerra. «Due imperi… mancati» di Aldo Palazzeschi, in Id., «Secolo che ci squarti… secolo che ci incanti». Studi sulla tradizione del moderno, Roma, Salerno Editrice, 2019, pp. 40-41. 105 F. Curi, La poesia italiana d’avanguardia. Modi e tecniche, cit., p. 136. 106 Anche questo componimento fa parte del Quaderno. 107 Ad esempio: «Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido», La notte – I, La notte 1, p. 109. 108 D. Campana, Oscar Wilde a S. Miniato, in Id., Inediti, cit., p. 27, v. 1. Le prossime indicazioni di pagina e versi senza rinvio in nota. 109 G. Bàrberi Squarotti, La tragedia elusa, cit., p. 258. 110 F. Ceragioli, Campana prima e dopo i «Canti Orfici», in M. Verdenelli (a cura di), O poesia tu più non tornerai. Campana moderno, cit., p. 174. 111 Ad esempio, nei passi dedicati alla salita ne La Verna.
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SUL FUOCO
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Salivamo, essa oppressa e anelante, Io cogli occhi rivolti alla funebre febbre incendiaria Che bruciava te, o nero naviglio alberato di torri Nell’ultime febbri dei tempi remoti o città: […] Ma bella come te battello bruciato tra l’alto Soffio glorioso del ricordo, gridai o città, O sogno sublime di tendere in fiamme I corpi alla chimera non saziata Amarissimo brivido funebre davanti all’incendio sordo lunare (Oscar Wilde a S. Miniato, p. 98, vv. 12-15, 18-22).
La trasgressione dell’io lirico campaniano che grida, esultando disperatamente della devastazione operata dal fuoco, e riconoscendo necessaria la «febbre» («incendiaria» e «funebre» insieme, dunque apportatrice di morte) è molto diversa da quella dell’Incendiario di Palazzeschi. Campana non mira al divertimento, ma alla distruzione delle forme «dei tempi remoti» (v. 15) e alla ricerca di nuove forme di espressione: il novecentismo di Campana sta forse nella percezione del vortice del tempo e nel tentativo di adoperare mezzi futuristi non per esaltarlo, ma per esprimerne l’orrore e l’enigma112.
La nuova poesia, che nasce dalle fiamme del passato oggettivato nella città, si fonda sul desiderio «sublime» di poter «tendere» un’offerta degna alla Chimera, «divinità ostile e minacciosa, mostruosamente amata, […] entità fascinosa e maligna […] che reclama continuamente sacrifici e vittime»113 (ma per la Chimera si veda più avanti, par. 4.2). L’«incendio lunare» non è percepibile da tutti: solo al poeta, e forse alla sua accompagnatrice (non sicuramente all’altezza della situazione, se lo segue «oppressa e anelante») è dato di percepire la distruzione «sord[a]» che cala sulla città e la trasfigura, trasformandola da oggetto statico e inerte a «battello bruciato», dono di arte e amore che tuttavia non riesce a soddisfare la Chimera. «Ipostasi della morte, non del desiderio o della vita»114, essa è un idolo terribile e sfuggente, mai pago di quanto le viene offerto. 112 V. Coletti, Postille a un vecchio saggio su Dino Campana, in M. Verdenelli (a cura di), O poesia tu più non tornerai. Campana moderno, cit., pp. 186-187. 113 S. Gentili, Il “bisogno della morte” e il “fuoco della distruzione”: lettura del Quaderno, in M. Verdenelli (a cura di), O poesia tu più non tornerai. Campana moderno, cit., p. 196. 114 G. Bàrberi Squarotti, La tragedia elusa, cit., p. 258.
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QUANDO IL FUOCO DISTRUGGE
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«Probabilmente posteriore»115 a Oscar Wilde a S. Miniato è Genova116, che ne riprende molte immagini117: ancora in compagnia di una «affranta / Giovane» (vv. 6-7) il poeta cammina verso l’alto, «tra le spente teorie / Degli uguali cipressi, le grandi spente faci» (vv. 4-5). Stavolta, però, la città non è contemplata dall’io lirico, ma dalla donna, «Fisa rivolta, le labbra convulse, le amare / Labbra protese a te nero turrito naviglio nel mare del fuoco» (vv. 12-14). Non è possibile, tuttavia, mantenere costante la tensione ideale dei «corpi in fiamme» protesi alla Chimera; e la poesia è destinata a scomparire: O poesia tu più non tornerai Eleganza eleganza Arco teso della bellezza. La carne è stanca, s’annebbia il cervello […] […] Non campane, fischi che lacerano l’azzurro Non canti, grida E su questa aridità furente La forma leggera dai sacri occhi bruni Ondulante portando il tabernacolo del seno: I cubi degli alti palazzi torreggiano Minacciando enormi sull’erta rapida Nell’ardore catastrofico (O poesia tu più non tornerai, vv. 1-4, 7-14).
La «tragedia» che «Campana rivela […] è l’abbandono della poesia. Quell’abbandono trascina con sé il colore delle cose, il loro profumo, tramuta i suoni in fischi e grida, vanno cioè sparendo tutti gli elementi che sono per Campana tramite alla poesia»118. L’«aridità furente» è l’incendio che l’io lirico non è riuscito a gestire (per la stanchezza della carne e l’annebbiamento del cervello), e ha finito col distruggere e travolgere ogni possibilità di canto: appare così improbabile il ricorso all’uso tradizionale di una poesia che non può dunque che sostituire al proprio canto il grido, l’urlo mun115 N. Bonifazi, Note a «Altre poesie», in D. Campana, «Canti Orfici» e altre poesie, a cura di N. Bonifazi, Milano, Garzanti, 2002, p. 173. 116 Anche Genova, O poesia tu più non tornerai, Dall’alto giù per la china ripida e Traguardo, citate più avanti, sono tratte da D. Campana, Inediti, cit., rispettivamente a p. 277, 131, 189 e 211. I numeri di versi saranno indicati senza rinvio in nota. 117 Bonifazi, visti i richiami tra Oscar Wilde a S. Miniato e Genova, che sarebbe «un’altra redazione» (N. Bonifazi, Note a «Altre poesie», cit., pp. 173-174) della prima, pone una domanda: «Genova o Firenze, dunque?» (ivi, p. 174). 118 F. Ceragioli, Campana prima e dopo i «Canti Orfici», cit., p. 172.
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SUL FUOCO
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chiano o il fischio lacerante che, nella poesia di Campana, ne rende manifesta la connaturata, perturbante, disarmonia119.
L’«ardore catastrofico» deriva dalla «catastrofe ardente» di Dall’alto giù per la china ripida120 (v. 9). La «rocciosa catastrofe ardente» non significa ancora la scomparsa definitiva della poesia, ma indica l’intenzione di conquistare uno stile che, libero dalle incrostazioni di secoli (e appunto nella loro «catastrofe»), si ridesti «alla vita primeva, gagliarda d’ebbrezze» (v. 6) e ottenga «un ritmo / infaticabile» (vv. 2-3): tale ritmo si associa anche all’azione del protagonista dei versi che, diversamente dall’io poetante dei componimenti visti poco prima, è impegnato in un cammino discendente, in una corsa dall’alto in basso che assomiglia a un volo in picchiata, e non conosce la fatica dei percorsi ascensionali.
119 M.C. Papini, L’espressionismo e Dino Campana, in C. Geddes da Filicaia (a cura di), Dino Campana ieri e oggi, Macerata, eum, 2018, p. 21. 120 Questo componimento compare, rivisto e intitolato Traguardo, con dedica «A F.T. Marinetti», nella bozza presso Ravagli per essere poi escluso dai Canti Orfici. Tale dedica «sembra emblematica di una dimostrazione di vera poesia futurista, come doveva essere fatta secondo il nostro poeta» (N. Bonifazi, Note a «Altre poesie», cit., p. 175).
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4
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IL FUOCO, L’AMORE, LA DONNA Discorrendo dei mezzi a disposizione del poeta per «rendere elevato il discorso»1, lo Pseudo-Longino si sofferma sui versi forse più famosi di Saffo2, che offrono una penetrante descrizione delle «passioni che accompagnano il delirio amoroso»3: Ma dove essa [Saffo] dimostra la sua bravura? Quando ha la capacità di scegliere i più elevati e i più tesi di quegli affetti, e di connetterli tra loro: «Mi sembra uguale agli dei l’uomo che ti siede dinanzi […] […] Questo fin dentro il petto sconvolge il mio cuore: appena ti guardo, la voce mi vien meno; mi si spezza la lingua, sottile improvviso il fuoco mi corre sotto la pelle»4.
L’elemento igneo, scelto per dare corpo a ciò che è incorporeo, diventa correlativo oggettivo del sentimento, tradotto immediatamente in sintomi fisici, a suggerire l’intima connessione, la consustanzialità, tra le fiamme e «l’anima […], il corpo»5 dell’io poetante. L’immateriale «sottile […] fuoco», che «corre sotto la pelle», ancora oggi è forse l’esempio più immediato di quanto sia labile il confine tra mondo fisico e sfera emotiva. 1 Pseudo-Longino, Del sublime, a cura di F. Donadi, testo greco a fronte, Milano, BUR, 1991, p. 179 (X, 1). 2 Mi riferisco al Fr. 31 Voigt, «φαίνεταί μοι». 3 Pseudo-Longino, Del sublime, cit., p. 179 (X, 1). 4 Ivi, pp. 179-181 (X, 1-2). 5 Ivi, p. 181 (X, 3).
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SUL FUOCO
4.1 «Una gran fiamma / di sentimento»: la mancata esperienza d’amore (Corazzini Gozzano Moretti) Nei versi corazziniani di Follie, in parte già letti6, l’amore per la fanciulla morta «tra le rose» (Follie, p. 109, v. 30) viene espresso col ricorso alla metafora delle fiamme:
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O morta ch’eri in cielo e nel mio cuore anelo di te, di te, creatura, per cui arsero tutte le mie fiammee voglie (Follie, p. 110, vv. 54-58).
«L’elemento funebre si fonde in maniera abbastanza convincente con quello amoroso»7; il desiderio, reso inattuabile dalla morte dell’amata, è fiamma che si consuma invano, sempre tesa verso l’oggetto inaccessibile, che non è per questo abbandonato: Voi siete il Sole, io sono un pazzo che lo segue e non concede tregue allo spirto mai prono, e come suo bagliore i cieli azzurri infiamma, s’agita la gran fiamma del mio inutile amore! (Follie, p. 112, vv. 125-132).
Già in alcune liriche pubblicate in rivista8 prima della stampa di Dolcezze compariva, ma con «falsità di tono» e «sforzatura della voce»9, il tema del fuoco come significante del sentimento amoroso: nei versi di Un bacio, accanto al candore che connota la figura femminile, «piccola visione bianca» (p. 229, in epigrafe), compare il colore rosso delle labbra di lei, «bocca ardente» (v. 12) su cui il poeta vorrebbe deporre «un bacio di morente» (v. 10). «Ardente» di amore e di febbre è anche la fronte dell’io lirico de L’addio (p. 246, v. 7); «accese / dal desiderio» 6 7 8 9
Cfr. par. 2.3. I. Landolfi, Commento, in S. Corazzini, Poesie, cit., p. 353. Cfr. S. Jacomuzzi, Sergio Corazzini, cit., pp. 50 ss. Ivi, p. 52.
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IL FUOCO, L’AMORE, LA DONNA
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sono le «dolci bocche ansiose […] di baciarsi» de L’attesa (p. 255, vv. 3-4, 1-2); ancora, «arde […] la fiamma de le labbra dolorose» dell’amata (Lettere ad una donna – Lettera prima, p. 275, vv. 2-3). Nella produzione corazziniana tali figurazioni non costituiscono un’area metaforica di grande rilievo: la stessa situazione è riscontrabile nella poesia di Gozzano, in cui espressioni come «t’amo di fiamma» sono frammenti di un discorso sentimentale altrui, citato quasi nella speranza di potervi credere, di diventare «più atto»10 a vivere: Ritorna col redo, mi guarda sott’occhi; un bacio le chiedo: mi fissa negli occhi con occhi sicuri e vuole che giuri. […] - Il fieno ci copra. Ah! T’amo di fiamma! Ti giuro fin sopra la testa di mamma: Mi guarda supino, mi dice «assassino!» (Il giuramento, pp. 56-57, vv. 1-6, 25-30).
Il giovane romantico11 e appassionato, che cerca di conquistare la ragazza, è il protagonista di un canto popolare che Gozzano lesse e rielaborò12: il gioco della seduzione legittima l’uso di formule stereotipate e banali, «artifici letterari» che autodenunciano la propria «natura retorica e sentimentale»13, accettabili nel contesto di un’avventura campagnola. L’accostamento retorico della simbologia del fuoco al sentimento d’amore è invece scusabile, perché nato da un dolore reale, nel caso dell’illetterato Commesso farmacista che scrive poesie per la promessa sposa defunta: 10 Cfr. Il più atto (p. 95), in cui Gozzano augura al fratello di essere «quell’uno felice ch’io non fui!» (v. 9), riconoscendolo degno di amori e piaceri: «A lui vada la vita! A lui le rose, i beni, / le donne ed i piaceri!» (vv. 7-8). 11 Cfr. La signorina Felicita ovvero La Felicità, in cui l’io poetante si definisce «un buono / sentimentale giovine romantico… // Quello che fingo d’essere e non sono!» (p. 117, vv. 432-434). 12 Cfr. le note di Bàrberi Squarotti a Il giuramento, in G. Gozzano, Poesie, a cura di G. Bàrberi Squarotti, Milano, BUR, 1997, p. 113n. 13 M. Guglielminetti, Introduzione, in G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., p. XXVIII.
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SUL FUOCO
Imaginate con che rime rozze, con che nefandità da melodramma il poveretto cingerà di fiamma la sposa che morì priva di nozze!
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Il cor… l’amor… l’ardor… la fera vista… il vel… il ciel… l’augel… la sorte infida… Ma non si rida, amici, non si rida del povero commesso farmacista (Il commesso farmacista, p. 272, vv. 41-48).
Le poesie «rozze» sono sostitute della «fiamma» d’amore che la fanciulla morta non ha mai conosciuto: tuttavia, nonostante la «qualità troppo scadente dei suoi versi»14 da repertorio, il farmacista non cade nel ridicolo. A lui – che afferma: «Vede che piango… non me ne vergogno», «e faccio versi… non me ne vergogno» (p. 271, vv. 16, 24), mentre l’io lirico dei Colloqui confessa: «Io mi vergogno, / sì, mi vergogno d’essere un poeta!» (La signorina Felicita ovvero La Felicità, p. 113, vv. 306-307) – è concesso di usare le parole abusate e banali, proprio perché egli non le sente tali. Non si rida alla pena solitaria di quel poeta; non si rida, poi ch’egli vale ben più di me, di voi, corrosi dalla tabe letteraria […]. Vale ben più di noi che, fatti scaltri, saputi all’arte come cortigiane, in modi vari, con lusinghe piane tentiamo il sogno per piacere agli altri (Il commesso farmacista, pp. 272-273, vv. 49-52, 61-64).
Il poeta farmacista è immune dalla «tabe letteraria», quella «fede […] che fa la vita simile alla morte» (La signorina Felicita ovvero La Felicità, p. 113, vv. 300-301) da cui è contagiato l’io lirico gozzaniano: questi, dal canto suo, mentre associa amore e fuoco, ammette l’impossibilità che sussistano sentimenti assoluti in un cuore «riars[o]»: Non fu l’Amore, no. Furono i sensi curiosi di noi, nati pel culto del sogno… E l’atto rapido, inconsulto ci parve fonte di misteri immensi. 14
M. Guglielminetti, Introduzione a Gozzano, cit., p. 49.
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IL FUOCO, L’AMORE, LA DONNA
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[…] E fu vano accostare i nostri cuori già riarsi dal sogno e dal pensiero; Amor non lega troppo uguali tempre (Il buon compagno, p. 83, vv. 1-4, 9-11).
Già nella Via del rifugio, dunque, si afferma la consapevolezza che chi è votato al «sogno per piacere agli altri» non possa provare l’Amore (con la lettera maiuscola!). Non esiste, per il poeta e per il suo «buon compagno»15, altrettanto «corros[o] dalla tabe letteraria»16, la fiamma della passione; al contrario, il cuore è già stato arso da altri fuochi che lo hanno devastato, lasciandolo inadatto a concepire sentimenti: il sogno e il pensiero – o, come vedremo più avanti, «l’analisi e il sofisma» (Totò Merùmeni, p. 132, v. 47). È l’«ammissione» della «consapevolezza che Gozzano aveva dell’essere, il proprio esercizio letterario, più mortale che vitale»17. Pur dissimulata nel grigiore del lapis, nella ricercata trascuratezza formale, l’arte è, anche in Moretti, contrapposta alla vita. Se anche un vecchio compagno di classe afferma «la vita poco cambia, poco dona, / molto promette. In fondo è un artificio» (L’omonimia, p. 275, vv. 4041), il poeta sa che la verità è un’altra: «Sapessi! È l’arte un artificio. Ancora / buona è la vita» (vv. 49-50). A riprova, si acclude un elenco di cose prosaicamente e borghesemente solide («la casa […], la tua signora, / l’ufficio, un bimbo, i bimbi» , vv. 51-52) che alla vita danno la consistenza di cui è priva l’arte. La Musa, afferma Moretti, altro non è che proiezione di un desiderio: Io t’ho creata nella mia confusa anima come un sogno ardente, come un desiderio ed occhi e labbra e un nome t’ho dato: Musa (Alla Musa, p. 164, vv. 9-12).
15
Sotto questo senhal si nasconde la poetessa Amalia Guglielminetti, ricondotta così ad una «rassicurante condizione maschile» (M. Paino, Signore e signorine di Guido Gozzano, cit., pp. 218-219). 16 Della Guglielminetti e di altre poetesse che soffrono di troppa letteratura si dà una rappresentazione in tono scherzoso nella Ballata dell’uno: «Térésah, Carola, Amalia, / l’altre insigni letterate, / che oggi infiammano l’Italia […]» (p. 227, vv. 53-55). Accanto ad Amalia Guglielminetti compaiono Carola Prosperi e Corinna Teresa Gay-Ubertis: le scrittrici, prese dal fervore per le belle lettere, altrove deriso da Gozzano, contagiano tutto il Paese, infiammato da ammirazione. 17 M. Guglielminetti, Introduzione a Gozzano, cit., p. 69.
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SUL FUOCO
Anche se limitiamo il nostro campo d’indagine alle poesie morettiane in cui compaiono immagini variamente legate alla simbologia ignea, possiamo notare che, se chi vive la vita fa esperienza dell’amore, per il poeta questo è un orizzonte irraggiungibile: sognato nell’adolescenziale risveglio degli istinti, è perso per sempre nell’abulia della maturità. Il fanciullo che «d’un tratto, perché? come? chi sa?, / entr[a] nel [suo] periodo di crisi» (Sesto comandamento, p. 247, vv. 39-40) si sente «ardere»18, sognando i «baci di fiamma» (Diva, p. 249, v. 18) di una donna o «il fuoco» che «covava» (Il poeta nuovo, p. 272, v. 19) nella «storia proibita / detta Trionfo della Morte, ardente / come un trionfo o canto della vita» (vv. 13-15). Nell’età adulta la passione è censurata, e la figura femminile distanziata: ne è un esempio La maestra di piano, resa intangibile dal riferimento ad un lutto che la rattrista: Ha sonato di nuovo. La sua testa ferma fra le candele. «Non dovete cedere.» Sguardo. «Pallide, inquïete mani…» E la mano che più soffre è questa (p. 75, vv. 5-8).
Il volto femminile è incorniciato da due candele, che ne fanno quasi un’icona sacra pur lasciando sottintendere la possibilità, cui allude l’interlocutore della donna, di altri fuochi: Beethoven, terza pagina. La testa fra le candele, due ceri sottili. «No, non sonare. Andiamo. Quanti aprili ci aspettano al di là della foresta.» Non ode. Volta. Pallide, inquïete mani. La testa fra le due candele (La maestra di piano, p. 76, vv. 25-30).
Il poeta, dunque, sa di non poter fare esperienza dell’amore. Riconoscendo la «tristezza / del giorno domenicale» (Domenica, p. 47, vv. 3-4) come la nota di fondo delle proprie giornate, e analizzando lo stato d’animo sonnolento e indifferente con cui le trascorre, Moretti passa in rassegna varie immagini di vite diverse dalla propria: quelle di una suora, una madre, un malato, un innamorato deluso:
18
«Perché tremavo e ardevo, attento, illogico, / misterïoso, lontano, straniero?» (Sesto comandamento, p. 248, vv. 56-57).
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IL FUOCO, L’AMORE, LA DONNA
l’amante pieno d’ardore, che attese presso una chiesa si logorò nell’attesa tutto il suo giovane cuore (Domenica, p. 48, vv. 25-28).
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L’«ardore» che caratterizza l’innamorato lo pone agli antipodi dell’io lirico dal «povero cuore» (v. 48): chi ama è, per eccellenza, figura dell’altro, del diverso. L’unico affetto che al poeta è dato conoscere davvero è quello materno, la cui «fiamma» prevale su ogni altra. La prima rosa è sempre dubitosa, sempre piccina, dice la mia mamma; la rosa marzolina ha poca fiamma e la rosa di maggio è vera rosa (Un bocciuolo, p. 503, vv. 1-4).
Discorrendo di rose, la madre sembra quasi voler impartire ai figli ancora giovani una lezione sull’amore. Fiamma e rosa, da sempre simboli di amore passionale, nei versi morettiani subiscono un trattamento desublimante, come già abbiamo visto accadere ad altri «alti “oggetti” tradizionali» che «si trasformano negli equivalenti domestici e consueti»19. I fanciulli, impazienti, colgono prematuramente il fiore, su cui la donna piange come per un lutto20, scoprendone poi la maternità: A un tratto dié in un grido: «Ell’ha un figliolo, guardate, bimbi, la rosetta è mamma: due vite avete colto: una gran fiamma di sentimento e un piccolo bocciuolo (Un bocciuolo, p. 503, vv. 21-24).
E così la «rosa marzolina», che pareva «[avere] poca fiamma», si rivela invece «una gran fiamma / di sentimento»: non immagine di eros, ma sublime simbolo di amore materno. Dunque la condizione di lontananza da un amore vero e totalizzante è condivisa dai soggetti di Moretti e Gozzano; tuttavia quest’ultimo, diversamente dal poeta di Fraternità, si lascia «accendere» da fugaci avventure «ancillari»:
19
V. Coletti, Fonti e precedenti del linguaggio poetico di Marino Moretti, cit., p. 181. «Mia madre accolse la rosetta in grembo / la baciò come cosa molto cara, / sulle ginocchia le apprestò la bara / e parve pianger su destin di nembo» (Un bocciuolo, p. 503, vv. 17-20). 20
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SUL FUOCO
M’accende il riso della bocca fresca, l’attesa vana, il motto arguto, l’ora, e il profumo d’istoria boccaccesca… […] Gaie figure di decamerone le cameriste dan, senza tormento, più sana voluttà che le padrone (Elogio degli amori ancillari, p. 80, vv. 4-6, 11-13).
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Dietro l’opzione per le cameriste si nasconde il timore del coinvolgimento reale, che assume talora i tratti minacciosi della morte: la donna ritratta nel Sogno cattivo, ad esempio, è «una musa lontana, vestale di Thanatos»21. I suoi capelli hanno l’aspetto di fiamme letali: Se guardo questo pettine sottile […] risogno un sogno atroce. Dal monile divampa quella gran capellatura vostra, fiammante nella massa oscura… E pur non vedo il volto giovenile (Il sogno cattivo, p. 50, vv. 1, 5-8).
Come se divampasse un incendio, dal pettine scaturisce la capigliatura della donna, mentre lei è assente: i capelli «rappresentano le proprietà dell’individuo e sono il concentrato spirituale delle sue virtù»22, e la loro «massa» scomposta è indice del potere distruttivo della figura femminile, moderna Gorgone nelle cui chiome le fiamme si sovrappongono a flutti altrettanto pericolosi. Mentre «il pettine produce / sempre capelli biondo-bruni» (vv. 9-10) il poeta si abbandona, vinto: «E poi un mare… e poi cado in un gorgo / tutto di bande di color di rame» (vv. 13-14).
4.2 «Principesse salamandre»: identità donna-fuoco (Govoni Palazzeschi Campana) Nei versi di Palazzeschi e Govoni il nesso fuoco-donna diventa ancora più stretto, fino all’identificazione della figura femminile con le fiamme. È possibile, tuttavia, notare tra i due poeti una differenza fondamentale: 21
M. Paino, Signore e signorine di Guido Gozzano, cit., p. 55. J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri, cit., p. 197. 22
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IL FUOCO, L’AMORE, LA DONNA
mentre per Palazzeschi il nesso fuoco-amore-donna designa un ambito esperienziale al di là delle possibilità (o dei desideri) dell’io lirico, il protagonista dei versi govoniani vive al contrario la dimensione della passione condivisa, ed entra in contatto con la figura femminile e col fuoco. Se possono apparire scontate le metafore del «bacio rovente» presente in Lanterna (Rosario, p. 53, v. 50) o dei «baci ardenti» degli Aborti (Laus, AB p. 144, v. 6), quando entrano in gioco riferimenti più concreti al corpo femminile le immagini presenti nella produzione dei due autori assumono i tratti inconfondibili dei rispettivi universi poetici. Per quanto riguarda Govoni, una prima occorrenza dell’accostamento della donna all’elemento igneo è registrabile in Armonia in grigio et in silenzio, nel Rosario di conventi - XVII: mentre «un prete avvolto in un fine piviale / recita le preghiere de la sera» (Le voci de le suore, AGS p. 122, vv. 5-6) «le nascoste suore / rispondono» (p. 123, vv. 9-10) fino al termine della funzione religiosa quando esse, svolto il loro compito, tacciono: «e le suore invisibili le voci / smorzano come fiamme dolorose» (p. 124, vv. 33-34). Spegnendo un metaforico fuoco, che potrebbe rappresentare un pericoloso simbolo di eversione e disordine23, le donne reprimono tutto ciò che è espressione di sé24, più ancora di quanto, abbiamo già visto25, accadrà una decina di anni più tardi per le religiose rappresentate da Palazzeschi in Monastero di Maria Riparatrice, che si identificano con «musica o colore» (p. 329, v. 66) reprimendo le tracce di antiche fiamme da tenere a bada: Ri-pa-ra-tri-ce… Ahi! Prima peccaste dunque, ed ora riparate, […]? Ebbene… avrete peccato un po’… d’amore, povere donne, di che volevate mai peccare? E se anche vi foste lasciate possedere un milione di volte 23
Per il significato del «fuoco sessualizzato» (connesso allo sfregamento, prima tecnica praticata per ottenerlo), Bachelard nota che «l’amore è la prima ipotesi scientifica per la riproduzione del fuoco. Prometeo è un amante vigoroso e non un filosofo intelligente, e la vendetta degli dei è dettata dalla gelosia»: G. Bachelard, La psicoanalisi del fuoco, cit., p. 133. 24 Al contrario, in Rosario di conventi – VII «de le sconce figure / di donne, fatte col carbone» (Nel monastero di San Bortolo, p. 102, vv. 19-20) si insinuano, con gusto profanatorio (come accade nella palazzeschiana Storia di frate Puccio con la «figura profana di femmina» rivestita di «stracci scarlatti»: cfr. par. 3.1), sulle pareti delle «celle in demolizione» (v. 17) dell’antica dimora dei monaci, a testimonianza del decadimento, fisico e morale, in cui essa è caduta. 25 Cfr. par. 2.1.
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SUL FUOCO
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da mille diverse persone, che faceste di male? Gioiste e faceste gioire, perché di gioia eravate assetate e bruciavate, che faceste di male? (p. 331, vv. 137-139, 143-153).
Indagando, come nelle Beghine, sul passato delle donne che «fascia[no], prem[ono], soffoca[no] / il proprio cuore» (Monastero di Maria Riparatrice, p. 332, vv. 182-183), Palazzeschi insinua il dubbio che esse abbiano provato la passione, appunto, «brucia[ndo]», e l’abbiano rinnegata scegliendo di porre «ripar[o]» alle fiamme «d’amore» e «di gioia», naturale espressione di vitalità. Accanto alle donne che reprimono la propria natura ignea, ce ne sono altre che non la nascondono. Sono soprattutto gli occhi la parte del corpo femminile attraverso cui trapela la presenza delle fiamme. Nei Fuochi d’artifizio incontriamo, nel Trio delle maschere moderne, la raffigurazione di una Colombina «dai caratteri fortemente degradanti e grotteschi»26, di cui si nota: L’incendio dei suoi occhi sembra che s’estingua palpitando nell’orgia libidinosa della rossa marea della sua lingua (Colombina prostituta, FA p. 162, vv. 12-14).
E ancora negli Aborti, in cui Govoni spinge all’estremo le analogie «per significare l’indomabile confusione del reale»27, le fiamme intraviste negli occhi della donna amata innescano una serie vorticante di paragoni: Belli come le torcie [sic] sfolgoranti che illuminan le principesse ignude che fanno segni verso la palude dalle altissime torri barcollanti. Dolci come nell’albe e nei tramonti udire il suono dell’avemaria e come i rossi fuochi d’allegria nella notte di S. Giovanni, ai monti (I tuoi occhi, AB p. 84, vv. 1-8). 26 F. Targhetta, L’esplosione e l’esasperazione: i «Fuochi d’artifizio» di Corrado Govoni, cit., p. 470n. 27 Ivi, p. 505.
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IL FUOCO, L’AMORE, LA DONNA
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Govoni crea un cortocircuito tra la sensualità del corpo «ignud[o]» e desiderabile (ma inaccessibile, chiuso in pericolanti «altissime torri»), la presenza dei roghi propiziatori della fertilità dei campi, ed il richiamo alla pietas popolare, col riferimento alle campane «dell’avemaria». Anche Palazzeschi rappresenta donne dai cui occhi trapelano fiamme: ma la suggestione erotica è censurata perché prevalga altro aspetto del femminile. Nei Poemi, tra I ritratti delle nutrici «che mettono in luce i rapporti regressivi»28 dell’io poetante con l’idea della donna, spicca quello di «Suor Clemente» (p. 157, v. 50), dotata di Tracce di fiamme nei grandi occhi, bocca serrata che mette pena, capelli biondi sciolti ondulati fin sopra i ginocchi (I ritratti delle nutrici, p. 157, vv. 46-49).
Suor Clemente ha irreggimentato le fiamme che ne costituivano l’essenza: ne restano solo «tracce», forse prossime allo spegnimento ma ancora visibili. Lo sforzo dell’autocensura comporta l’impossibilità del sorriso, come accade anche a «Suor Triste» (p. 151, v. 24), che ha «bocca ermetica» (v. 22) ed è parimenti associata ad una «fiamma repressa»29 per i «capelli fulvi cresputi» (v. 23), che richiamano il fuoco nel colore e nell’ondulazione. Anche Govoni, negli Aborti, associa «chiome» a «fiaccole»: Si vedranno questa sera ardere come fiaccole viventi le chiome d’oro delle vergini dormenti in cima delle torri? (Il tuo sorriso, AB p. 216, vv. 11-14).
Rispetto ai versi dedicati da Palazzeschi alle nutrici, quelli govoniani proiettano l’identità fuoco-capelli in una prospettiva di passione gioiosamente attesa: non è così, se torniamo ai Poemi, per Regina Carmela, una delle «fiabesche regine, ferme su di un’alta torre»30, che si incontrano nei versi palazzeschiani. Chioma come fiamma, vesti come fiamme; per Carmela l’identificazione col fuoco è completa: 28
A. Dei, Note al testo, in A. Palazzeschi, Poemi, cit., p. XLVI. Ivi, p. XLVII. 30 S. Solmi, Palazzeschi poeta e romanziere, in Id., Scrittori negli anni. Saggi e note sulla letteratura italiana del ‘900, cit., p. 155. Sia in Govoni che in Palazzeschi è molto frequente il topos fiabesco di principesse e regine relegate su torri inaccessibili. 29
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Sul corpo le cade una veste preziosa ed ampissima di fino scarlatto, coperta e ravvolta di veli scarlatti. Il vento, che infuria lassù, solleva e trasporta la veste e i suoi veli, le chiome sue fulve disciolte. È tutta in potere del vento (Regina Carmela, p. 111, vv. 14-21).
La regina, quasi pronta, stregonescamente, a spiccare il volo sollevata dai suoi veli, è vestita di «scarlatto» e ha «chiome […] fulve»: è marcata, dunque, dal «colore del fuoco e del sangue, […] dell’anima, della libido, del cuore»31, elementi che appartengono all’intimità. «Il rosso […] è segreto, è il mistero vitale nascosto nel fondo delle tenebre e degli oceani primordiali»32; nel caso della regina, invece, tutto viene ostentato, continuamente, anche se non con intenzione provocatoria o trasgressiva da parte del poeta: la veste è insieme copertura e segnale, e importante elemento figurativo del quadro. Il rosso che identifica Carmela è il colore del peccato, dell’irregolarità […]. Ancora da venire (e comunque negato di solito a personaggi femminili) il ribaltamento eversivo ed esibizionistico del Frate Rosso e dell’Incendiario […]33.
E dunque, dopo l’identificazione col colore rosso, anche quella diretta con le fiamme non avviene sotto il segno della trasgressione, ma come esibizione di una tormentata natura ignea, che condanna alla sofferenza la stessa donna-fiamma, ammonimento vivente per il suo popolo: Talora Ella sembra una fiamma che il vento fomenta, talora una lingua di fuoco uscente di mezzo al palazzo. La vedon le genti del mare, ell’è come un faro sinistro lassù, il mesto fanale del popolo suo! (Regina Carmela, p. 111, vv. 22-28).
31 J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri, cit., p. 861. 32 Ibid. 33 A. Dei, Note al testo, in A. Palazzeschi, Poemi, cit., p. XXXII.
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IL FUOCO, L’AMORE, LA DONNA
Il rogo, senza minacciare chi osserva, consuma la donna che lo emana, figura di strega punita e dolente (il fuoco brucia, punendola, la donna-strega che avrebbe potuto bruciare gli uomini34): la figura femminile, potenzialmente pericolosa, è dunque condannata all’isolamento, all’esibizione; il fuoco che la agita suscita timore reverenziale35, non desiderio. Il corpo di Carmela è interdetto proprio come quello delle nutrici che hanno invece dovuto censurare ogni identità con il fuoco. «Regine […] nelle torri chiuse», negli Aborti, sono esplicitamente rappresentate in preda alla pazzia, e sempre in contiguità col fuoco. Tali immagini costituiscono il frutto della fantasia visionaria dei folli, che traspare dai loro occhi, «vomitori dell’anima ubbriaca» (Occhi della follia, AB p. 101, v. 14, 1). Tra «bianchi funerali» (v. 6) associati a «macabri carnevali»36 (v. 7), ecco comparire donne che, immerse nelle fiamme, non bruciano: E principesse salamandre illese dentro reggie [sic] di fiamme belle e strane. Regine pazze nelle torri chiuse (Occhi della follia, AB p. 101, vv. 12-14).
La salamandra, «identificata col fuoco, di cui [è] una manifestazione vivente» e di cui «si nutre»37, indica la familiarità col fuoco delle principesse che abitano i castelli in fiamme. Il sintagma «principesse salamandre» è di marca dannunziana: descrivendo «tutte le apparenze innumerevoli del Fuoco volatile e versicolore»38 che a Venezia, in occasione della festa del Redentore, «si spandevano pel firmamento, 34 A proposito del ribaltamento dei ruoli per cui «viene sottoposto all’azione del fuoco colui che […] voleva bruciare» cfr. V.Ja. Propp, Le radici storiche dei racconti di magia, cit., pp. 220-224. 35 L’immagine della regina palazzeschiana, che per un verso ci dà l’idea di una strega bruciata sul rogo, e per un altro verso ci appare oggetto di commiserazione e venerazione da parte del «popolo suo», fa venire in mente le parole dedicate da Girard alle donne accusate di stregoneria: «le stesse persone che nel medioevo bruciavano al rogo una donna che ritenevano una strega, potevano nel contempo arrivare quasi a venerarla, pregandola di compiere qualche miracolo per loro, proprio perché, in quanto strega, le attribuivano poteri speciali che avrebbe potuto usare per fare del bene oltre che del male» (R. Girard, Milomaki. Edipo presso gli indiani Yahuna, cit., p. 64). 36 Non è questo il luogo per soffermarci sull’associazione carnevale-funerale, che va, per fare solo due esempi, da Carneval-funeral di Govoni (FA p. 173) alla Fiera dei morti di Palazzeschi (pp. 193-199). 37 J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri, cit., p. 879. 38 G. d’Annunzio, Il fuoco, cit., p. 86.
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strisciavano su l’acqua, si avvolgevano alle antenne delle navi, inghirlandavano le cupole e le torri»39, d’Annunzio presenta le donne come creature ignee.
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Era veramente un tempio edificato dai genii alacri del Fuoco quello che nel crepuscolo era parso un argenteo palagio nettunio […]. Era veramente, ingigantita, […] una di quelle fragili reggie [sic] vermiglie alle cui mille finestre s’affacciano per un istante le principesse salamandre e ridono voluttuosamente al poeta che medita40.
Le donne salamandre del Fuoco e degli Aborti, molto diversamente dalla regina dei Poemi, vivono nel fuoco senza patimento: immagini di desiderio sensuale, sono creature che si mostrano e si nascondono, accendendo le fantasie degli uomini, e distogliendoli dalle attività contemplative. Le fiamme di Govoni costituiscono dunque un richiamo alla trasgressione, alla passione, senza alcuna ombra della tristezza e dell’inquietudine che Palazzeschi associa al fuoco nella figura di Carmela, «mesto fanale del popolo suo». E se le labbra delle nutrici che reprimono le fiamme sono serrate, e Carmela sembra una «lingua di fuoco», in Govoni l’associazione del fuoco alla bocca ed esplicitamente alla lingua della donna è ancora più frequente. Oltre che nei versi, già letti, di Colombina prostituta, tale nesso torna, ad esempio, in O amante mia!: lascia che ancora ti stringa fra le braccia e con la tua confonda la mia faccia e ti succhi la bocca piccolina in un bacio infinibile: […] Ebbra tu sei di bella giovinezza: l’anima tua la porti voluttuosa in bocca come una fiammante rosa. E il tuo corpo è tutta una carezza (AB pp. 141-143, vv. 14-17, 45-48).
L’anima della donna non traspare, come altrove, dagli occhi; «voluttuosa», essa ha sede «in bocca», ed è paragonata ad una rosa rossa, «fiammante»41: è sempre la sfera simbolica del fuoco ad esprimere la 39
Ibid. Ivi, pp. 86-87. 41 Allo stesso modo, un «garofano fiammeggiante» (Giorno di festa, AB p. 257, v. 4) che «l’amante / si appunta in testa» (vv. 2-3) è un modo per segnalare immediatamente i propri sentimenti. 40
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passione. Ancora fiamme e bocca (insieme a «reggie [sic] illuminate di bengala») tornano strette nella stessa immagine nei versi delle Capitali: Là vanno le belle femmine dalle pupille radiose42 come i brillanti, come reggie illuminate di bengala in serate di gala, dalle bocche sanguinose come frutti maturati colle fiamme (AB p. 222, vv. 16-22),
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ed in quelli de La tua bocca: La lingua è rossa come le bandiere delle rivolte, ed ha la fiammea gloria dei drappi stesi a tutte le ringhiere della reggia nei giorni di vittoria. Ed i tuoi denti, i tuoi candidi denti fanno pensare a immacolati agnelli dentro rossa fornace ignudi e belli (AB p. 83, vv. 5-11).
La «rossa fornace» fa pensare inevitabilmente all’inferno o al forno della strega, rimarcando la natura ambivalente propria tanto del fuoco e dell’amore, quanto della bocca: Il simbolismo della bocca attinge alle stesse fonti di quello del fuoco […]. La bocca disegna pure le due curve dell’uovo primordiale, una corrispondente al mondo dell’alto […], l’altra al mondo del basso […]. Essa è quindi il punto di partenza o di convergenza di due direzioni, è il simbolo dell’origine dei contrasti, dei contrari, delle ambiguità43.
E dunque, accanto alla «fiammea gloria», espressione gioiosa ed esuberante dell’amore, Govoni sottolinea anche la facoltà della donna 42 Nei Canti Orfici gli occhi femminili sono più esplicitamente associati ai bagliori del fuoco nella descrizione della prima presenza femminile della silloge: «nella chiesetta solitaria, all’ombra delle modeste navate, io stringevo Lei, dalle carni rosee e dagli accesi occhi fuggitivi: anni ed anni ed anni fondevano nella dolcezza trionfale del ricordo» (La Notte - I, La Notte 2, p. 110). L’esercizio memoriale «segna il recupero del primo archetipo femminile de La Notte, la “Lei” insieme settecentesca e leopardiana, l’adolescenziale iniziatrice» (M. Del Serra, L’immagine aperta. Poetica e stilistica dei «Canti Orfici», Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1973, pp. 114-115). 43 J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri, cit., p. 153.
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di fagocitare l’amante. Che l’amore sia esuberante esplosione vitale, e contemporaneamente furia distruttiva è quanto emerge anche in Canzone al vento: lungi da ogni idea di repressione, l’amore «gridava al triste mondo / la sua gioia le sue parole / di fuoco» e «scuoteva il suo giocondo / riso simile a un tirso violento» (AB p. 176, vv. 20-22, 22-23). Il fuoco d’amore è associato ad un eslege trionfo del sesso: il «tirso violento» richiama le «baccanti» di Magnolie (AB p. 62, v. 5), componimento in cui è presentata una vorticosa e grottesca sfilata di «grasse odalische» (v. 2) e «vergini arse d’incestuose voglie» (v. 3) in preda alla lussuria. Definita «Messalina fulva» (v. 10), la lussuria risulta dotata delle stesse «chiome fulve» di Regina Carmela: ancora una volta, dunque, è rimarcata la contiguità tra la capigliatura femminile ed il colore del fuoco. Solo apparentemente simili sono le chiome della Chimera, figura di donna ed emblema della poesia, inquieto idolo dei Canti Orfici. Molto diversa dalla «chimera non saziata» di Oscar Wilde a S. Miniato (cfr. par. 3.3) che, indicata con la lettera minuscola del nome comune, è generica istanza di divinità sanguinaria, la Chimera della silloge del ’14 44 è descritta con una sua fisionomia: pur essendo un’immagine ideale e sfuggente, ha «tratti di concretezza atti a farne quasi immaginare l’aspetto del volto»45. Campana ne descrive il «pallido / viso» (La Chimera, p. 123, vv. 1-2) di «fanciulla esangue» (v. 12), «la china eburnea / fronte» (vv. 4-5) e le «labbra sinuose» (v. 14) che sole, come «linea di sangue» (v. 13), interrompono il candore dell’incarnato. Anche quando i suoi capelli sono associati al fuoco, immediatamente l’aggettivazione ribadisce che il colore dominante non può essere il rosso acceso: Non so se la fiamma pallida Fu dei capelli il vivente Segno del suo pallore, Non so se fu un dolce vapore, Dolce sul mio dolore, Sorriso di un volto notturno: Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti E l’immobilità dei firmamenti E i gonfii rivi che vanno piangenti 44 «Che […] è come un fantasma femminile che percorre tutti i versi degli Orfici»: N. Bonifazi, L’elaborazione dei «Canti Orfici», in Dino Campana oggi, cit., p. 76. 45 C. Geddes da Filicaia, L’«universo mondo» dei «Canti Orfici», in Ead., Dino Campana. L’«universo mondo» dei «Canti Orfici» e altri studi, cit., p. 31.
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IL FUOCO, L’AMORE, LA DONNA
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera (pp. 123-124, vv. 21-32).
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I capelli della «Suora de la Gioconda» (v. 6), definiti «fiamma pallida», sembrano un fuoco fatuo, vampa che ha una connotazione funeraria se lo stesso sintagma, nella Verna, appare esplicitamente associato ad un «camposanto»46. All’elemento igneo, indicante la donna e l’amore inesausto che il poeta nutre per lei, si affiancano poi la terra («le bianche rocce»), l’aria (i «venti»), l’acqua («i gonfii rivi»): in questi versi, secondo Asor Rosa, «risalta con chiarezza» la caratterizzazione mitica della poesia campaniana. L’indeterminatezza del simbolo – a me pare indifferente che si tratti di una versione dell’Eterno Femminino oppure […], di una raffigurazione della Poesia – consente d’allargare lo sguardo alla visione cosmica in cui esso s’inquadra, dove l’acqua, l’aria, la terra – gli elementi-base del mondo – s’allacciano strettamente al fuoco della passione poetica, che insegue, insegue e continua ad inseguire senza posa se stessa: pura espressione di desiderio […], contro i ristretti confini della carne umana, del tempo e dello spazio47.
Se le labbra della Chimera sono marcate dal colore rosso, esplicitamente associate al fuoco sono quelle di una donna incontrata a Bologna: (Caffè) È passata la Russa. La piaga delle sue labbra ardeva nel suo viso pallido. È venuta ed è passata portando il fiore e la piaga delle sue labbra. Con un passo elegante, troppo semplice troppo conscio è passata. La neve seguita a cadere e si scioglie indifferente nel fango della via [La giornata di un nevrastenico (Bologna), p. 163].
La bocca, come già in Govoni, fa pensare ad una ferita, ad una rosa, al fuoco: nel perturbante colore rosso precipitano tutti i significati dell’amore, «concetto» – nota Jung – «estensibile che va dal cielo all’inferno, riunisce in sé il bene e il male, il sublime e l’infinito»48. Il colore del fuoco compare e passa come compare e passa la donna; è 46 «Come una fiamma pallida e fulva bruciano le erbe del camposanto» (Castagno, 17 Settembre, p. 133). 47 A. Asor Rosa, «Canti Orfici» di Dino Campana, cit., p. 368 (corsivi nel testo). 48 C.G. Jung, La psicologia dei processi inconsci, in Id., La psicologia dell’inconscio, trad. it., Roma, Newton Compton Editori, 1989, p. 21.
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impossibile fermarla, come è impossibile che il colore del sangue, della vita e della passione si imponga come tinta dominante: «presto la neve si stenderà ineluttabilmente in un lenzuolo bianco e allora potremo riposare in sogni bianchi ancora» (ibid.). Più avanti, nella stessa prosa Campana allestisce ancora uno scenario fondato sulla compresenza di bianco e rosso, passione erotica e senso di morte: (Notte) Davanti al fuoco lo specchio. Nella fantasmagoria profonda dello specchio i corpi ignudi avvicendano muti: e i corpi lassi e vinti nelle fiamme inestinte e mute, e come fuori del tempo i corpi bianchi stupiti inerti nella fornace opaca: bianca, dal mio spirito esausta silenziosa si sciolse, Eva si sciolse e mi risvegliò [La giornata di un nevrastenico (Bologna), p. 164].
Nella notte49 lo specchio sovrappone le immagini delle persone nude e del riverbero delle fiamme: fiamme di lussuria e dannazione infernale insieme, in un «gioco iniziatico, notturno […], e persino dantesco, nella determinazione di quei corpi come “lassi e vinti” (Inf. I, 28)»50. I corpi sono immersi in una «fornace», luogo in cui possono essere sia purificati e temprati, iniziati ad un grado più alto dell’esistenza, sia consumati e ridotti in cenere. Ma prima di intravedere l’esito di questa «fantasmagoria» «fuori del tempo», l’io lirico è riportato al presente e alla realtà da un’Eva, «donna di un falso paradiso o di un paradiso solo terrestre»51, che lo riscuote dalla visione e lo condanna a vagare ancora, «sotto l’incubo dei portici» (ibid.). Secondo Bàrberi Squarotti il troncamento della visione è funzionale all’interruzione dell’«invenzione onirica […], nel momento in cui troppo trasgressivo diviene il discorso»52: al contrario, nei componimenti inediti il nesso fuoco-eros-sangue viene rimarcato senza censure. Si legga, ad esempio, Spada barbarica, in cui la figura femminile (una «sirena», incantatrice e pericolosa) è associata all’elemento igneo sotto il segno della violenza: O se avessi sirena Una sol goccia del vostro sudore 49
Nel riferimento temporale alla notte possiamo leggere sia una promessa di «salvazione» che di «condanna», secondo quanto ha notato Ramat: «l’abisso notturno» nei Canti Orfici può essere inteso «come totalità nell’uno e nell’altro senso – matrice e tomba – »: S. Ramat, Campana nella tradizione novecentesca, in Dino Campana oggi, cit., p. 128. 50 M. Verdenelli, L’ombra nei «Canti Orfici», cit., p. 96. 51 F. Ceragioli, Commento, in D. Campana, Canti Orfici, cit., p. 283. 52 G. Bàrberi Squarotti, La tragedia elusa, cit., p. 248.
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IL FUOCO, L’AMORE, LA DONNA
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Sulla lingua ardente, una sol goccia. […] Idolo, nel mio sangue di cristiano Io sento la vertigine colare Idolo, il fuoco della distruzione Mi prende. Sulla vostra testa mozza Idolo il vostro sangue pagano Paradisiaco sangue io beverò […]53.
Stavolta le fiamme non provengono dal corpo della donna: è il suo amante, «protagonista della vicenda sadico-erotica»54, che ha «la lingua» «ardente» per la passione ed è preso dal «fuoco della distruzione», simbolo di un amore vissuto come esperienza violenta, scontro in cui uccidere l’«idolo» nemico, inebriandosene, o morire.
4.3 «Il fuoco di cui ardi»: amore e desiderio (Rebora Saba Ungaretti) Molto diverse dalle donne di cui abbiamo trovato esempi nei versi di Govoni e Palazzeschi, in Rebora, Saba e Ungaretti le figure femminili non sono associate al fuoco per dettagli fisici paragonabili alle fiamme, bensì per l’«ardore» della passione. L’io lirico tende, inesausto, verso una pienezza di vita e di sentimento mai totalmente raggiunta, nell’impossibilità del completo possesso dell’oggetto del desiderio. Nei Frammenti lirici l’elemento igneo è spesso annuncio di una «incipiente rivelazione di una realtà trascendente»55, intravista in alcuni momenti di grazia che interrompono il grigiore ostile della realtà circostante. È quanto accade, ad esempio, nel XVI frammento, un «sonetto alla musica»56: Virtù ti crea che non par segreta, ma il ritmo snuda l’amor che discende dall’universo a rivelar la meta: amor che nel cammino nostro accende l’inconsapevol brama triste o lieta, e in te, raggiunto il tempo, lo trascende (O musica, soave conoscenza, p. 39, vv. 9-14). 53 54 55 56
D. Campana, Spada barbarica, in Id., Inediti, cit., p. 13, vv. 4-6, 12-17. G. Bàrberi Squarotti, La tragedia elusa, cit., p. 233. F. Curi, La poesia italiana nel Novecento, Bari, Laterza, 1999, p. 140. F. Fortini, «Frammenti lirici» di Clemente Rebora, cit., p. 248.
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L’amore percepito grazie alla musica non è una passione individuale o ben individuata: è sentimento che non ha un oggetto preciso; è la risposta umana a un più grande amore che muove l’intero universo, colto nel suo benevolo discendere «a rivelar» all’io lirico «la meta». Questa tensione dell’anima ha la facoltà, come il fuoco, di «accende[re]» i desideri che nell’individuo sono ancora latenti e «inconsapevol[i]»: è un amore che, non nascendo dall’uomo, nemmeno finisce in lui, nel tempo da lui percepito, ma «lo trascende». Che l’amore possa «accendere» è confermato dai versi di Venga chi non ha gioia a ritrovare, in cui il sentimento può diffondersi così come si propaga il fuoco: ma qui c’è un cuore e vorrebbe altri cuori trovare; […] ma qui c’è amore e vorrebbe altro amore infiammare (p. 71, vv. 9-10, 13-14).
Mentre il cuore ha bisogno di trovare altri cuori, l’amore non ha bisogno di trovare altro amore; può suscitarlo, generando fiamma da fiamma: il sentimento è agganciato al corpo (al cuore), ma non ne dipende, così come la fiamma, nata da legna, cera o altro materiale, si slancia verso l’alto: Va la fiamma e si allontana donde trae l’alimento: tu per ardere parti, poi che hai me nel sentimento (Va la fiamma e si allontana, p. 251, vv. 1-4).
I versi di Va la fiamma e si allontana, risalenti ai primi anni Venti , aprono la sesta di Dieci poesie per una lucciola e sono dedicati alla musicista russa Lidia Natus, con la quale Rebora inizia una relazione nel 191458. L’amata, «trasformata nell’immaginario lirico del poeta in donna-lucciola […] portatrice di luce nelle tenebre»59, è associata 57
57 Cfr. A. Dei – P. Maccari (a cura di), Note e notizie sui testi – Poesie postume 1900-1927, in C. Rebora, Poesie, prose e traduzioni, cit., p. 1098. 58 Cfr. A Dei (a cura di), Cronologia, in C. Rebora, Poesie, prose e traduzioni, cit., p. LXIII. 59 M. Paino, Tra Beatrice e Laura. La figura femminile nella poesia di Clemente Rebora, in G. Savoca (a cura di), Sentimento del Tempo. Petrarchismo e antipetrarchismo nella lirica del Novecento italiano, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2005, p. 86.
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IL FUOCO, L’AMORE, LA DONNA
al fuoco in virtù della comune tensione verso l’alto. Se è innegabile l’«inscindibilità tra la dimensione fisica e quella spirituale»60, l’elevarsi della donna che «part[e]» (v. 3), allontanandosene, dall’amato, di fatto sottrae peso e materialità al corpo e alla passione. La donnalucciola rappresenta la tensione reboriana a sublimare l’amore, come la luce rappresenta, secondo Bachelard, «una supervalorizzazione del fuoco»61:
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Una materia, la più volgare, produce luce. Si purifica nell’atto stesso in cui dona luce. Quale eminente esempio di purificazione attiva! E sono le impurità stesse che, annientandosi, producono la luce pura. Il male è così l’alimento del bene62.
Se torniamo ai Frammenti lirici possiamo notare come, anche nei casi in cui l’amore sembri sfuggente, e ne diventi impossibile la rivelazione e l’esperienza, il fuoco sia comunque l’elemento tramite cui il soggetto può dare corpo ai sentimenti. Nel XVII frammento si canta l’«esaltazione erotica del paesaggio e delle presenze umane»63: […] il sol maschio sfuriava sulla terra supina nel grande amplesso caldo […] e s’incendiavan i colori secchi; […] e scaturiva l’invito bramoso d’intorno, aperte le magiche porte, ampliate le ardenti finestre, protesi i fiorenti balconi della natura balzata su, e al suo piede ferveale un piacere che voluttuoso salendo con gioia dai fianchi al sommo iridava 60
Ivi, p. 93. G. Bachelard, La fiamma di una candela, cit., p. 33. 62 Ivi, p. 34. Singolare la consonanza delle parole bachelardiane con quelle che Thomas Mann immagina pronunciate da Goethe, quando questi rivede a distanza di anni l’ispiratrice del Werther: «Se tu vuoi che io sia la luce verso cui si slancia la smaniosa farfalla, io sono però anche, nello scambievole tramutarsi delle cose, la candela accesa che sacrifica il proprio corpo perché la luce risplenda, sono anche la farfalla inebriata che si perde nella fiamma – simbolo del perenne sacrificio della vita e della materia per una suprema metamorfosi spirituale. […] Un giorno mi consumai per te nella fiamma e per te sempre mi tramuto in ispirito e luce» (T. Mann, Carlotta a Weimar, trad. it. di L. Mazzucchetti, introduzione di R. Fertonani, Milano, Mondadori, 1980, p. 333). 63 F. Fortini, «Frammenti lirici» di Clemente Rebora, cit., p. 248. 61
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SUL FUOCO
di squamme e scintille la bella e fragrante dimora. (Da tutto l’orizzonte, pp. 40-41, vv. 8-10, 14, 32-41).
La brusca conclusione, «in aperto contrasto col panismo dannunziano»64 dei versi iniziali, inscena la frustrazione del gruppo di «giovani cercanti / dal pensiero la vita» (Da tutto l’orizzonte, pp. 4041, vv. 26-27), resa attraverso il riferimento ad un oggetto concreto, il braciere in cui manca il fuoco:
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S’annidò il cielo corto, e si fece uno spento bracere (Da tutto l’orizzonte, p. 41, 55-56).
Lo spegnersi del fuoco indica anche l’impossibilità dell’amore, lo scacco subito dai giovani nella loro ansiosa ricerca. L’impossibilità di trovare e vivere l’amore coincide con la fine della corrispondenza tra la natura e i sensi dei ragazzi, sancendo la conclusione della stessa gioventù e la condanna allo spazio urbano: languì alla terra il piacere, e si fece la spoglia di un morto: strisciò la notte, scivolò la partenza, s’aprì la voragine della città rombante. Si lasciarono, e lasciarono la giovinezza (Da tutto l’orizzonte, pp. 41-42, vv. 57-63).
«Il senso di una possibile e tuttavia mancata rivelazione amorosa»65 torna nei frammenti XLII e LIV, esprimendosi, tuttavia, in toni molto diversi. Nel primo, l’amante non corrisposto dà sfogo ad una «stupefacente furia»66 per non aver saputo cogliere l’attimo: Voce, il ruscello delle tue campane l’anima innondi bramosa di te: chioma, il cespuglio delle calde trecce m’avvolga il capo solcato di te; […]. Io mi ritrassi, allor che nell’amore eri una cosa per me sciolta in me: 64 65 66
Ibid. Ivi, p. 245. Ivi, p. 248.
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IL FUOCO, L’AMORE, LA DONNA
fuggita or tu, rimbalzo con selvaggia voglia che ha fatto un groviglio di me (Voce, il ruscello delle tue campane, p. 77, vv. 1-4, 8-11).
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Se anche la «ragion maledetta» (v. 15) e «saggia» (v. 34) cerca di giustificare gli eventi («di nessuno la colpa; / non sua che prima amò, / non mia se tardi osai», vv. 18-20) e trarne una disillusa consapevolezza, l’io lirico cede alla «forsennata amarezza» (v. 36): e la pupilla storco fino al bianco e morsico la bocca e un non so che nel cuor torvo accoltello e nella gola mi gorgoglia e brucia tutto un impeto rosso che vien sulla parola e accieca il suono (p. 78, vv. 37-42).
La passione, sfuggendo alla ragione, assume tratti ignei: è un «impeto rosso» che brucia, fiammata che avvolge l’«anima […] bramosa». Della donna non si coglie altro che la voce e i capelli: ugualmente sfumata la sua figura resta nel frammento LIV, E tu, notte che dai parvenza al rito, in cui ancora le trecce, insieme alle «guance [che] sotto arrisero» (p. 100, v. 13) sono i dettagli emergenti nel ricordo involontario67. L’amore presagito, e tuttavia non espresso, è come un fuoco che non divampa: non ci guardammo; e amor era d’intorno quanto men si scopriva. O strano giorno di chiuso ardore, giorno senza artiglio! (E tu, notte che dai parvenza al rito, p. 101, vv. 26-28).
Il sentimento non palesato, come l’«ardore» soffocato, è destinato ad estinguersi68; il frammento successivo si chiude, infatti, con un 67 «[…] Io non penso, / ma il pensiero da sé batte un ricordo / assiduo con lo stesso tasto sordo» (E tu, notte che dai parvenza al rito, p. 100, vv. 5-7). 68 Per motivi cronologici non ci soffermiamo qui sulle poesie scritte da Rebora dopo la scelta religiosa. Ci limitiamo a riportare alcuni versi in cui l’amore, stavolta per il Cristo, è strettamente connesso con il fuoco, e con l’esigenza di purificazione a cui abbiamo accennato a proposito delle poesie per la Natus. Nei Canti dell’infermità il «fuoco dell’Amore divino [è] misura ed esaltazione di tutte le cose» (G. Marchetti, Nota introduttiva, in Omaggio a Clemente Rebora, Bologna, Massimiliano Boni Editore, 1971, p. 31): «Il sangue ferve per Gesù che affuoca. / Bruciami! Dico, e la parola è vuota» (Notturno, p. 310, vv. 1-2). In una delle Poesie sparse, risalente al 1935, torna l’idea della materia riscattata dallo spirito: «La nostra Casa è come un alveare / che miel distilla e cera pel Signore: / geme il miel dal
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SUL FUOCO
lapidario settenario: «e l’amore non venne» (Marzo lucendo nell’aria, p. 103, v. 30). Anche nel Canzoniere di Saba l’amore è spesso indicato come «ardore», in particolare nelle liriche dedicate alla moglie Lina Wölfler. Nel terzo sonetto dei Versi militari la lontananza è motivo di «querela» (v. 8) per il poeta:
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Saperti amante e non poterti avere, star lontano da te quando in cor m’ardi, aver la lingua e non poter parlare, udir quest’acqua e non chinarsi a bere, correre in riga quando a lenti e tardi passi vorrei pensosamente andare (Ed io, se a volte di sì aspra vita, p. 45, vv. 9-14).
Come un Tantalo consapevole dell’impossibilità di raggiungere l’oggetto del desiderio, il poeta si limita a lamentarne la lontananza. La donna «ard[e]» come un fuoco nel cuore dell’io lirico che vorrebbe, «solo et pensoso», andare «a passi tardi et lenti»69 ma è al contrario obbligato ai tempi rapidi e all’ordine imposto della vita militare, alla «realtà con i suoi elementi di dolore e di dramma»70. Lo stesso verbo, «ardere», torna in altri versi e ne è ancora la donna il soggetto: Ora i tuoi occhi come dolci dardi figgi in me e m’accarezzi, e di tutti i tuoi vezzi sorridente mi guardi. Ed io penso che il fuoco di cui ardi sì dolcemente penetra la vita nostra, e una preda facile ne fa; che a Carmen rassomigli, a Carmençita, rosa di voluttà (Intermezzo a Lina, p. 84, vv. 53-61).
Altrove Saba ricorre al sostantivo: Torna la mia disperazione a te. Dopo aver tanto errato, oggi il mio amore patire e dal pregare, / arde la cera al fuoco dell’amore. / […] / Oh come infiamma il tendere all’eterno / tutti concordi con chi ci sublima!» (La Casa religiosa, p. 386, vv. 1-4, 10-11). 69 F. Petrarca, Solo et pensoso i più deserti campi, in Id., Canzoniere, edizione commentata a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996, p. 190, vv. 1-2. 70 E. Caccia, Lettura e storia di Saba, Milano, Bietti, 1967, p. 97.
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IL FUOCO, L’AMORE, LA DONNA
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torna al tuo fiero mutevole ardore, più non pretende che la tua onestà (Carmen, p. 96, vv. 1-4).
Lina, la moglie fedifraga «che il male […] lasciava intatta» (Dico al mio cuore, intanto che t’aspetto, p. 135, v. 10), è dunque creatura ardente, emblema, nel riferimento alla Carmen di Bizet, di una femminilità sensuale ma «non colpevole, da non condannare, perché […] assolutamente innocente e naturale»71. Accanto alla passione, all’istintivo abbandono ai sensi, in Lina si trovano «santità» (Intermezzo a Lina, p. 83, v. 6) e «grazia» (v. 8); la «rosa di voluttà» è anche «rosa d’ogni bontà» (v. 2, v. 36), «rosa di purità» che spicca «tra i fiori minori» (vv. 52, 51). Ancora definita «tra i fiori minori la rosa» (L’ultima tenerezza, p. 141, v. 41), la moglie di Saba, più bella delle amiche che l’accompagnano, torna ad essere connotata da «ardore» in L’ultima tenerezza: Forse che invano in bianco petto hai cuore d’amante, e sola nel tuo ardore sei, sola che parli a te di solo amore? (p. 141, vv. 49-51).
In questa lirica, tuttavia, la donna si configura come immagine ibrida, icona erotica e materna insieme. Se alla sfera della passione rimandano il riferimento alla rosa e all’«ardore», alla sfera della maternità rimanda invece la conclusione del componimento, in cui l’io lirico, immaginando che Lina sia defunta, rivive l’infantile angoscia provocata dal pensiero della morte della madre72: Morta ti vedo; e son io che t’ho uccisa. […] Così ti vedo; e dopo tanta guerra, dopo tante per te notti affannose, dentro il mio cuore a Dio rendo amorose grazie per non averti ancora uccisa (L’ultima tenerezza, pp. 141-142, vv. 57, 75-78).
La «rappresentazione della morte, vista esclusivamente in chiave corporea e quindi di consunzione»73, assimila Lina all’immagine di 71
M. Paino, La tentazione della leggerezza. Studio su Umberto Saba, cit., p. 61. Il pensiero della morte, del bambino o della madre, permea ad esempio i versi di Preghiera alla madre (p. 345) e Il carretto del gelato (p. 418). 73 G. Baroni, Saba quasi extravagante, in Id. (a cura di), Saba extravagante. Atti del Convegno internazionale (Milano, 14-16 novembre 2007), «Rivista di Letteratura italiana», 2008, XXVI, 2-3, p. 339. 72
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SUL FUOCO
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madre soffocante e sofferente, della quale il figlio inconsciamente desidera, e contemporaneamente teme, di liberarsi. Se nei componimenti sabiani per la moglie compare l’area semantica dell’«ardore», nei versi scritti per altre fanciulle l’amore è più esplicitamente fuoco; non il calore chiuso e costante del focolare familiare, ma «infuocato […] pensiero» che si traduce fisicamente nella vampa improvvisa capace di riscaldare il «vecchio tronco» che non fiorisce da tempo: Se tutti i succhi della primavera fossero entrati nel mio vecchio tronco, per farlo rifiorire anche una volta, non tutto il bene sentirei che sento solo a guardarti, ad aver te vicina, a seguire ogni tuo gesto, ogni modo tuo di essere, ogni tuo piccolo atto. E se vicina non t’ho, se a te in alta solitudine penso, più infuocato serpeggia nelle mie vene il pensiero della carne, il presagio dell’amara dolcezza, che so che ti farà i begli occhi chiudere come la morte (Sovrumana dolcezza, p. 218, vv. 4-17).
Nemmeno nell’Amorosa spina, dunque, l’amore è immune da presagi funerei: se anche il pensiero del giovane corpo di Chiaretta, «uscita appena dall’adolescenza»74, ispira «una poesia francamente erotica»75, come ebbe a definirla lo stesso Saba, tuttavia «la dolcezza dell’eros non riesce più a farsi leggerezza ribelle ma viene a coincidere con la morte»76, «dolcezza» ossimoricamente «amara» (e in questo aggettivo, già in passato associato a Lina77, si coglie forse una traccia del senso di colpa provato dal poeta nei confronti della moglie). Il fuoco è metafora per alludere alle attenzioni maschili nel settimo componimento di Fanciulle: 74
U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, cit., p. 183. Ivi, p. 185. 76 M. Paino, La tentazione della leggerezza. Studio su Umberto Saba, cit., p. 121. 77 Cfr. ad esempio, in Trieste e una donna, L’appassionata, p. 92 («strana dolcezza lascia, / pure al ricordo, la tua voce amara», vv. 22-23); La moglie, p. 109 («me solo accusa la sua voce amara», v. 7); La malinconia amorosa, p. 113 («per te un dolce pensiero ad un’amara / rimembranza si sposa», vv. 5-6); Dico al mio cuore, intanto che t’aspetto, p. 135 («sento che la tua voce amara è fatta / per il mio cuore», vv. 11-12). 75
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IL FUOCO, L’AMORE, LA DONNA
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Com’esser può che già la cinga fiamma d’amori e nulla veda? (p. 285, vv. 1-2).
La protagonista dei versi è raffigurata sulla soglia della sua vita sentimentale, quando è già, inconsapevolmente, lambita dalla fiamma, minacciosa più che seducente, che la sottrarrà alle «rincorse / sul prato, con le amiche e il cane anelo» (vv. 15-16). Un’altra adolescente compare nella Sesta fuga, che «è anche un “contrasto amoroso” tra due giovani ed una fanciulla»78, le cui voci «si inseguono nel giro volubile di una canzonetta […e] serbano il più etereo incanto dei vagheggiamenti amorosi di Saba»79. La terza voce, espressione della ragazza, canta: io non so più dolce cosa di pensarmi. Il puro amore di cui ardo, dal mio cuore nasce, e tutto a lui ritorna (Sesta fuga, p. 377, vv. 33-36).
Narcisisticamente concentrata su di sé, la figura femminile (ispirata alla figlia Linuccia, in cui Saba quasi vede privato di amarezza il solitario «ardore» materno della già citata L’ultima tenerezza) brucia senza consumarsi, di un amore che potrebbe essere finalizzato ad illuminare o riscaldare altri, ma di fatto resta ripiegato su se stesso: A me stessa, è vero, basto, non mi punge alcuna brama; pure amar posso chi m’ama, e investirlo del mio fuoco. […] Se baciarmi sulla bocca fosse lecito a un mortale, proverebbe un senso, quale della morte è forse il gelo: tanto azzurro è in me di cielo, tanto in me brucia l’amore (pp. 379-380, vv. 85-88, 143-148).
78 79
U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, cit., p. 255. G. Debenedetti, Per Saba, ancora, in Id., Saggi critici (prima serie), cit., pp. 130-131.
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SUL FUOCO
Il contatto con la fanciulla è potenzialmente letale per un uomo: in essa si dà coincidenza e «conciliazione degli opposti»80 (ghiaccio e fuoco, e ancora una volta amore e morte), così come accade solo per le divinità. La compresenza di fuoco e gelo si riscontra anche in alcune poesie di Ungaretti. In Vita d’un uomo è generalmente l’acqua il simbolo privilegiato per alludere ad esperienze d’amore e ad incontri con figure femminili81. Solo in alcune liriche di Sentimento del Tempo si osserva il ricorso alla simbologia del fuoco: si tratta di un gruppo compatto di componimenti, che formano la sezione Prime, cui si possono aggiungere Nascita d’aurora e Con fuoco (ne La fine di Crono). Il riferimento al corpo femminile, associato all’«ardore» o alle «fiamme» della passione, non è funzionale alla descrizione oggettiva di una o più donne, quanto alla creazione di un’immagine disincarnata. Così in Paesaggio: sera
Mentre infiammandosi s’avvede ch’è nuda, il florido carnato nel mare fattosi verde bottiglia, non è più che madreperla. Quel moto di vergogna delle cose svela per un momento, dando ragione dell’umana malinconia, il consumarsi senza fine di tutto (p. 142).
La donna, come Adamo ed Eva dopo aver consumato il frutto proibito, si accorge improvvisamente della propria nudità, provandone imbarazzo. L’Eden è già perso, prima della vera e propria cacciata, nella vergogna (sintomo della perdita dell’ingenua adesione alla natura), nella nascita della «malinconia» dovuta alla consapevolezza della caducità «di tutto». Quel gerundio, «infiammandosi», che indica l’arrossire della protagonista di Paesaggio, è il residuo di più esplicite identificazioni della figura muliebre con l’elemento igneo, rilevabili nella versione del 1933 del componimento:
80 F. Brugnolo, «Il Canzoniere» di Umberto Saba, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Le Opere, vol. IV Il Novecento, t. I L’età della crisi, cit., p. 531. 81 «Quello di Ungaretti è un viaggio di ritorno, nell’alvo materno […], nella tradizione poetica, nell’ordine del mondo: non è percorso centrifugo, ma centripeto, dalla dispersione all’unità, dalla disarmonia all’armonia. L’elemento che sostiene il viaggio, che avvolge il “porto sepolto”, che conduce all’alvo materno, come agli “avi ignoti” della patria, che fa fluire la vita come linfa nelle “fibre”, è appunto l’acqua» (C. Ossola, Giuseppe Ungaretti, cit., pp. 234-235). Ma l’elemento liquido assume, a seconda del contesto, anche una «valenza erotica» (cfr. ivi, pp. 235 ss.).
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IL FUOCO, L’AMORE, LA DONNA
sera
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Mentre una bella ragazza nuda si vergogna in un mare verde bottiglia, ella non è più che fiamma, brace, nulla e un’ambra. Per un momento, in lei è palese il consumarsi senza fine di tutto82.
La «bella ragazza» (alla cui presenza, nella versione definitiva, si allude solo tramite l’aggettivazione al femminile) si identifica con una «fiamma» che si consuma, riducendosi prima a «brace», infine a un «nulla», una traccia di colore dorato. Il passaggio dal rosso del fuoco al tono dell’ambra è reso, nella versione definitiva, dal simile avvicendarsi dei colori: il rossore della subitanea vergogna sfuma nel gioco del bianco-rosa della madreperla83. La lezione del ’33 («non è più che fiamma, brace, nulla e un’ambra») potrebbe aver risentito della simile costruzione della traduzione di alcuni versi di Góngora, pubblicata da Ungaretti nel ’32: Ma tu non sia più tu, a fondo mutata, E tutto non sia più, confusamente, Che terra, fumo, polvere, ombra, niente…84.
Fino al ’23, difatti, la redazione di Paesaggio suonava così: sera
L’ambra rosata del corpo gentile si modula d’un’infinita malinconia nello smeraldo impassibile del mare85.
Nella versione del ’33 il «consumarsi senza fine di tutto», acquisizione legata anche alla frequentazione del poeta spagnolo, si traduce nell’immagine del fuoco che si spegne, unita alla «vergogna» per la nudità, ridotta poi alla metafora «infiammandosi» nella redazione fi82 La lezione citata è quella dell’edizione di Sentimento del Tempo del 1933, presso Vallecchi: cfr. F. Corvi - G. Radin (a cura di), Apparato delle varianti a stampa, in G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit., p. 622. 83 Già Govoni, in una tavola parolibera di Rarefazioni e parole in libertà, associa alla madreperla la donna, immersa nell’acqua come la protagonista di Paesaggio: «prendo sulle braccia e stringo con un brivido di ghiaccio i tuoi 69 chili di bellezza / TARA 65 chili carne ossa vischiose grasso sangue schifoso sterco + 2 chili costume ed acqua / NETTO 2 chili pelle vellutata retina trasparente madreperla unghie capelli ondulati e peli neri» (Bucato + bagni + ballo = primo amore, RPL p. 24). 84 G. Ungaretti, A una ragazza, per invitarla a godersi la sua gioventù, in Id., Vita d’un uomo. Traduzioni poetiche, a cura di C. Ossola e G. Radin, con un saggio introduttivo di C. Ossola, Milano, Mondadori, 2010, p. 70, vv. 13-15. 85 Così la variante apparsa nell’edizione del Porto Sepolto del ’23: cfr. F. Corvi – G. Radin (a cura di), Apparato delle varianti a stampa, cit., p. 622.
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SUL FUOCO
nale del ’43, che per i capoversi in questione non subirà in seguito ulteriori modifiche, ed in cui scompaiono i riferimenti espliciti alla fiamma e alla brace. Accanto alla descrizione del paesaggio nei diversi momenti del giorno, ecco quella delle Stagioni, che con le fasi della giornata instaurano un evidente parallelismo:
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l’uomo appartiene all’ordine temporale. E a simboleggiarlo ho quindi scelto l’antico simbolo: le quattro vicende del giorno e le stagioni dell’anno. E la parabola dell’anno e quella del giorno sono forse eterne figure dell’armonia universale, mentre l’uomo non è che un punto tra due infiniti oblii86.
Nel primo dei quattro brani raccolti sotto il titolo Le Stagioni, in cui si esprime «la pienezza dei sensi in fase di turbamento»87, il fuoco è simbolo del desiderio erotico: O leggiadri e giulivi coloriti […] Dall’astro desioso adorni, Torniti da soavità, O seni appena germogliati, […] V’ho Adocchiati (Le Stagioni – 1, p. 143, vv. 1, 4-6, 9-10).
Ancora una volta la simbologia relativa al fuoco risulta più esplicita nelle stesure precedenti, in particolare per il v. 4, che nel ’31 suona: «Dal fuoco desioso adorni»88. L’«astro» è dunque il sole, che sottintende il fuoco del desiderio dell’io lirico, che si protende a cogliere le primizie della terra e ora, nello sboccio primaverile, vede delinearsi un’agognata nudità femminile […] personificazione mitica della Terra (e il poeta ci fa assistere al processo medesimo della personificazione con quel graduale passaggio da «coloriti» a «torniti» e infine «seni appena germogliati») […] 89. 86
G. Ungaretti, Punto di mira, in Id., Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a cura di M. Diacono e L. Rebay, Milano, Mondadori, 1974, p. 302. 87 P.P. Pasolini, Un poeta e Dio, in Id., Passione e ideologia (1948-1958), Milano, Garzanti, 1977, p. 357. 88 Per la versione, apparsa sulla «Gazzetta del popolo», cfr. F. Corvi – G. Radin (a cura di), Apparato delle varianti a stampa, cit., p. 623. 89 G. Cambon, La poesia di Ungaretti, cit., pp. 89-90.
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IL FUOCO, L’AMORE, LA DONNA
Lo sguardo colmo di desiderio torna al centro di Con fuoco, nei cui versi compare anche la figura del lupo, maschera dietro cui Ungaretti si è celato già nell’Allegria90: Con fuoco d’occhi un nostalgico lupo Scorre la quiete nuda.
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Non trova che ombre di cielo sul ghiaccio, Fondono serpi fatue e brevi viole (Con fuoco, p. 169).
Lo stesso Ungaretti rimarca l’identificazione: «il lupo, lupo invecchiato e perciò nostalgico, ma con la violenza della gioventù nel desiderio, è il poeta»91. Dunque egli, «nostalgico lupo» ancora in preda a «desiderio» giovanile, ammette l’infondatezza del congedo rivolto, quasi in chiusura dell’Allegria, proprio alla gioventù: «Addio desideri, nostalgie» (Lucca, p. 133). Inoltratosi nell’età matura, l’io poetante ha «una vasta percezione di questa contrapposizione della natura umana che sinceramente aspira ad una piena liberazione della fisicità ma non ci riesce, e non può farlo se una straripante esigenza fisica non può essere azzerata nei sensi»92. Il soggetto sperimenta ancora il «fuoco» che si accende per amore: la nudità, che qui è prerogativa della quiete, rimanda, come in Paesaggio93, al corpo femminile; la stessa quiete, «accesa», diventa sinonimo di amore in Silenzio in Liguria: Il vero amore è una quiete accesa, E la godo diffusa Dall’ala alabastrina D’una mattina immobile (p. 145, vv. 9-12).
Tuttavia, è da notare che la ricerca amorosa dell’io poetante di Con fuoco sortisce un esito diverso che nei versi di Silenzio in Ligu90
Cfr., ad esempio, Attrito: «Con la mia fame di lupo / ammaino / il mio corpo di pecorella» (p. 90, vv. 1-3). 91 Note a cura dell’autore e di Ariodante Marianni – Sentimento del Tempo, in G. Ungaretti, Vita d’un Uomo. Tutte le poesie, cit., p. 771. 92 L. Piccioni, «Il peccato che importa, - Se alla purezza non conduce più», in C. Bo – M. Petrucciani et alii (a cura di), Atti del Convegno Internazionale su Giuseppe Ungaretti (Urbino, 3-6 ottobre 1979), Urbino, QuattroVenti, 1981, 2 voll., vol. I, p. 316. 93 O come in Scoperta della donna: «Ora la donna mi apparve senza più veli, in un pudore naturale. […] In quest’ora può farsi notte, la chiarezza lunare avrà le ombre più nude» (p. 134).
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SUL FUOCO
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ria: se in questi ultimi si sancisce la piena vicinanza alla donna e la conquista erotica è fonte di «un calore dolce, un calore così fedele, da apparire senza dubbio come un archetipo dell’immagine della femminilità»94, nella lirica della Fine di Crono, al contrario, il desiderio acceso negli occhi del «nostalgico lupo» si scontra col ghiaccio del paesaggio circostante. L’amore dunque è sentimento ambiguo, che ora fa godere calma e dolcezza, ora si risolve in «disgraziate brame»: in Ricordo d’Affrica, rammentando la dea Diana («naturalmente, la luna, personificazione mitica anche d’una forma femminile»95), l’io lirico ci dà una rappresentazione del desiderio erotico come «carnalità sofferta e continuamente contrastata dalla ricerca di misura»96, tensione inappagabile verso un miraggio. […] né più Le grazie acerbe andrà nudando E in forme favolose esalterà Folle la fantasia, Né dal rado palmeto Diana apparsa In agile abito di luce Rincorrerò (In un suo gelo altiera s’abbagliava, Ma le seguiva gli occhi nel posarli Arroventando disgraziate brame, Per sempre Infinito velluto) (Ricordo d’Affrica, p. 149, vv. 4-15).
In Diana, luna e donna97, si dà la stessa situazione che sarà riproposta in Con fuoco: le «brame» «arroventa[te]» e insoddisfatte si scontrano con l’abbaglio del «gelo», luce fredda di cui «la fantasia», «folle», indovina «forme favolose», non conoscibili realmente98. E dunque il fuoco della passione suscita nel poeta un demone99, un «Funesto spi94
G. Bachelard, Le immagini del fuoco, cit., p. 49. Note a cura dell’autore e di Ariodante Marianni – Sentimento del Tempo, cit., p. 770. 96 M. Allegri, «Vita d’un Uomo» di Giuseppe Ungaretti, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Le opere, vol. IV Il Novecento, t. I L’età della crisi, cit., p. 451. 97 A proposito del legame luna-donna cfr. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., pp. 148ss. 98 Sarà in Dunja, protagonista del trittico Croazia segreta (di cui non ci occupiamo per ragioni cronologiche), che l’«infinito velluto» dello sguardo di Diana diventerà segno di un amore finalmente salvifico (a questo proposito mi permetto di rinviare a V. di Martino, Da Didone a Dunja. Sull’ultimo Ungaretti, Napoli, Dante&Descartes, 2006). 99 «È l’ispirazione, che è sempre ambigua […]; è la musa sotto forma di sirena […]» (Note a cura dell’autore e di Ariodante Marianni – Sentimento del Tempo, cit., p. 770). 95
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IL FUOCO, L’AMORE, LA DONNA
rito / Che accend[e] e turb[a] amore» (Sirene, p. 148, vv. 1-2). L’eros è «un fiore di pallida brace» (Nascita d’aurora, p. 161, v. 4) offerto dalla notte: la metafora, che indica il primo rosseggiare dell’aurora nel buio100, allude anche al gioco elusivo di rincorse e incerte conquiste, in cui la figura della notte-fanciulla trascina l’uomo. Mentre ella lascia intravedere, fuggendo, le proprie forme, all’io lirico che la osserva resta la consapevolezza che l’invito all’incontro d’amore è solo apparenza, maschera dietro cui si cela la derisione:
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Nel suo docile manto e nell’aureola, Dal seno, fuggitiva, Deridendo, e pare inviti, Un fiore di pallida brace Si toglie e getta, la nubile notte (Nascita d’aurora, p. 161, vv. 1-5).
100
Come già il titolo di Rose in fiamme, nell’Allegria (p. 115).
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FIAMME E STATI D’ANIMO
Se è innegabile l’immediatezza con cui le immagini del fuoco possono corrispondere all’amore e renderlo descrivibile, non meno efficacemente esse riescono a simboleggiare ed oggettivare una vasta gamma di emozioni. I sentimenti che dimorano nel cuore, materializzandosi nelle evoluzioni di una fiamma, diventano visibili all’esterno, in molti casi, per il tramite degli occhi: è quanto già Baudelaire, immaginandosi «come un gatto / voluttuoso vicino a una regina»1, scrive nei versi de La gigantessa: Vedere insieme all’anima il suo corpo fiorire e libero in terribili giochi crescere – e capire dall’umida nebbia che fuma nei suoi occhi la fiamma buia accesa nel suo cuore2.
Con Bachelard, potremmo domandarci cosa esprima la fiamma che si agita nell’anima degli esseri viventi: «Tristezza o rassegnazione? Simpatia o disperazione?»3. Lo stesso Baudelaire torna sul nesso anima-fuoco quando si rivolge ad una «strega / dal fianco d’ebano»4 implorandola: Da quei grandi occhi neri, spie della tua anima, non versarmi, demone senza cuore, tanto fuoco!5
1 Ch. Baudelaire, La gigantessa, in Id., «I fiori del male» e altre poesie, trad. it. di G. Raboni, testo a fronte, Torino, Einaudi, 1987, p. 35, vv. 3-4. 2 Ibid., vv. 5-8. 3 G. Bachelard, La fiamma di una candela, cit., p. 41. 4 Ch. Baudelaire, Sed non satiata, in Id., «I fiori del male» e altre poesie, cit., p. 45, vv. 3-4. 5 Ibid., vv. 9-10.
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SUL FUOCO
Dagli occhi – che ne sono «spia» o specchio – traspare il fuoco che arde nell’anima, correlativo di uno stato dell’anima, anche se la donna è definita «senza cuore»: si tratta, evidentemente, di sentimenti che escludono la pietà e la compassione. Se ci spostiamo alla poesia italiana del primo Novecento, notiamo che è molto vasta la gamma dei sentimenti che il fuoco oggettiva e simboleggia:
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le immagini cosmiche del fuoco posseggono una vitalità che le fa riapparire continuamente come delle efflorescenze del linguaggio, come delle potenze di espressione, per tutte le passioni dell’uomo, per le passioni umane considerate nella loro conflittualità e nella loro ambivalenza6.
Nei vari poeti presi in considerazione, dunque, le fiamme sono, di volta in volta, correlativo di inquietudine o angoscia, di entusiasmo o furia, o anche di abulia.
5.1 «Anima della nostra fiamma»: tra estroversione e inazione (Govoni Corazzini Palazzeschi) In Armonia in grigio et in silenzio le fiamme diventano simbolo dello stato d’animo dell’io lirico govoniano, che si autorappresenta, a seconda dei casi, teso verso la realtà circostante in un’impetuosa estroversione, o bloccato in un atteggiamento che ben esemplifica «la poetica dell’inazione, del silenzio e della solitudine»7 che prese il nome di crepuscolare. Ecco, ad esempio, che rivolgendosi al proprio «cuore malato» (Ascoltando un doppio, AGS p. 82, v. 13), un «povero cuore» (v. 9) simile a «un vaso di cicuta» (v. 10), il poeta gli muove un rimprovero: Ma no: sorte crudele, tu mi bollasti del tuo fuoco, […] E ne le tue ferree morse ti delizi nel torturarmi il corpo […]. (pp. 82-83, vv. 21-22, 25-27).
6 7
G. Bachelard, Le immagini del fuoco, cit., pp. 47-49. L. Barile, Postfazione, AGS, p. 211.
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FIAMME E STATI D’ANIMO
Il fuoco che devasta il cuore del poeta marchia, inevitabilmente, anche la sua mente e il suo corpo, diventando segno di un destino di «dolore» (v. 12) e «tristezza» (v. 31). Anche descrivendo se stesso attraverso la figura di un gatto bianco8, per rendere in un’immagine concreta il subitaneo apparire di sentimenti che rompono la monotona assenza di emozioni, Govoni ricorre all’area semantica del fuoco:
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Gatti bianchi, che nelle chiese s’ inebriano d’incenso e di frescore; gatti da le pupille accese di tradimento e di languore (I gatti bianchi, AGS p. 99, vv. 21-24).
Ugualmente «accesa» è l’«anima» del poeta, seppure, paradossalmente, di «dolce tedio» (Nel sacrato di un convento, AGS p. 132, v. 28). Si tratta di uno spleen che, lungi dal rappresentare una condizione di stasi, si converte invece nell’occasione per liberare «una mitragliatrice o un collage di immagini»9, per cui da ogni oggetto spoglio o disadorno nasce una girandola di invenzioni visive. Anche nei versi delle Fantasie della neve il fuoco non offre ristoro e consolazione: «dal camino i tizzi rossi / invermigliano un poco la diffusa e triste Inedia» (FA p. 73, vv. 1-2); e se leggiamo la lirica subito seguente ci accorgiamo dell’identità tizzo-cuore: «il tizzo nel camino è il cuore / che dirama il suo caldo per la stanza» (Merletto di attimi, p. 74, vv. 3-4). Dallo slancio del cuore non può nascere gioia: il riverbero rosso e caldo che proviene dal camino incontra solo la «triste Inedia», che non viene convertita in felicità dalla fiamma e anzi la smorza, spegnendola nella seguente serie di immagini di «profonda amarezza esistenziale»10 («una vedova», v. 5, «un vecchio con la gotta», v. 3, fino alla «tisica» che «suona ad uno scordato pianoforte», v. 13). Negli Aborti l’impiego del fuoco come simbolo di stati d’animo diviene il modo per indicare non l’inazione, ma il dinamismo dell’anima: questa ha una sua dimora, da cui osserva il «fiume di ardente piombo» di una «città bianca» (Il palazzo dell’anima, AB p. 15, vv. 10, 11) intravista in sogno; dalla febbre – che ha il passo di «animali di 8 Avvisati in ultima pagina dell’interscambiabilità dei ruoli tra gatti e poeti («I gatti sono i poeti degli animali / come i poeti sono i gatti degli uomini», AGS p. 208), non possiamo non attribuire anche all’io lirico quanto questi afferma sui candidi felini. 9 Come noterà Montale a proposito di raccolte govoniane successive: E. Montale, Un’antologia di Govoni, in Id., Sulla poesia, cit., p. 282. 10 F. Targhetta, L’esplosione e l’esasperazione: i «Fuochi d’artifizio» di Corrado Govoni, cit., p. 470.
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SUL FUOCO
fiamma lunghi e strani» (La febbre, AB p. 71, v. 2), e brucia nelle «vene» (v. 13) come «un Vesuvio ardente» (v. 14) – è arsa «l’anima» che attende una carezza «amorosa» e «fresca» (Sorella, AB p. 35, vv. 5, 6, 7). È ancora l’area semantica del fuoco a indicare l’«impazienza» dell’anima della donna amata: Govoni «ferm[a] delle figure su cui l’occhio si sia posato riconoscendole segnate quasi dalla stessa sorte dell’anima. In termini più rigorosi, potremmo dire che le cose attraggono l’attenzione del poeta in quanto gli appaiono come dei “correlativi oggettivi” dei suoi stessi sentimenti»11:
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Occhi che incontro a la mia dimessa anima vennero come valletti turchini portando azzurri torcetti di sangue, per condurmela in presenza della tua già ardente d’impazienza come in presenza d’una principessa (I suoi, p. 99, vv. 9-14).
Anche in una delle poesie sparse di Corazzini l’anima e il fuoco risultano associati a occhi femminili, definiti «vele di smalto, nostalgia / dell’anima […] dolci lumi accesi / languidamente di malinconia» (I suoi occhi, p. 304, vv. 1-4): in un susseguirsi di immagini che potrebbero essere state partorite dalla fervida fantasia govoniana (singolare anche la quasi identità dei titoli), gli occhi della donna sono paragonati a «laghi d’azzurro» (v. 5), «torri d’avorio solitarie» (v. 10), nelle cui «pupille ora stravolte, ora serene, / […] come su tripodi, la Morte / brucia l’incenso della voluttà» (vv. 12-14). Ma torniamo a Govoni. Nuovamente associata a fiamme, l’anima diventa fisicamente palpabile: Anima mia, quale trasparenza ha la tua carne! che languore! […] Tu sembri materiata d’una cera pia di gigli e monde tuberose che illumina col suo olio di rose il cuore interna lampada leggera (Passeggiata dell’anima convalescente, AB p. 156, vv. 9-10, 13-16). 11 F. Curi, Corrado Govoni, cit., p. 37. L’affermazione di Curi, relativa in particolare alla scelta delle immagini da parte di Govoni nei Fuochi d’artifizio, mi sembra mantenere tutta la sua validità anche a proposito degli Aborti.
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Anche Moretti si rivolge col tu alla propria anima, e la porta a spasso12 nei luoghi eletti come esemplificativi della propria poetica: l’anima govoniana, però, è molto più concreta, «materiata» com’è di una «carne» che le dà consistenza di corpo. Tramite le «metafore che uniscono l’astratto al concreto, il mondo umano a quello naturale, e viceversa»13, l’elemento incorporeo si converte in dato fisico, e al contempo la pura materialità della cera e dell’olio è riscattata e quasi dotata di spirito. Simile accostamento, ma ridotto all’essenziale, direi alleggerito rispetto alla govoniana ricerca del “meraviglioso”, ricorre nell’Esortazione al fratello di Corazzini: Sii semplice e puro come un fanciullo; non altra ombra godere se non quella generata dal prezioso lume della tua anima. E questo lume, assai dolce, sappi tu nutrire di olii non vani e curare affinché il suo raggio non sia parte di un tutto, ma un tutto, per se stesso (p. 170).
Seppure spesso rappresentata, da Corazzini, nel suo «ripiegarsi e […] rinchiudersi […] in se stessa»14, l’anima riesce talora a far nascere, dalla solitudine, non un senso di tristezza e abbandono, ma un «prezioso lume». La solitudine non è, nell’Esortazione al fratello, condizione subita ma scelta dettata dall’intima consapevolezza che esclusivamente in questo modo il soggetto potrà giungere alla piena realizzazione di sé. Sulla consustanzialità di anima e fuoco si è soffermato Bachelard, notando che «la fiamma e le immagini della fiamma designano sia i valori dell’uomo che i valori del mondo»15: e il mondo, nell’intimità del suo mistero, vuole il destino di purificazione. Il mondo è il germe di un mondo migliore, come l’uomo è il germe di un uomo migliore, come la fiamma gialla e pesante è il germe di una fiamma bianca e lieve. […] Un valore superiore a tutti i valori che presiedono ai fenomeni fisici è conquistato. […] un ordine morale supera l’ordine fisico. Il luogo naturale a cui tende la fiamma è un ambito di moralità16.
Infine, afferma il filosofo francese, «coscienza e fiamma hanno lo 12
Si legga, ad esempio, Sogno d’aprile (in Poesie di tutti i giorni): «Anima, guarda il tuo giardino verde / che respira una vita umida-ardente: / […] / Guardati intorno. […]» (p. 155, vv. 1-2, 5). 13 V. Coletti, Fonti e precedenti del linguaggio poetico di Marino Moretti, cit., p. 213. 14 G. Palli Baroni, La prigione dell’anima. L’oratio conclusa di Sergio Corazzini, cit., p. 215. 15 G. Bachelard, La fiamma di una candela, cit., p. 35. 16 Ibid.
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SUL FUOCO
stesso destino di verticalità»17. Anima e fuoco, dunque, tendono allo stesso fine: essere, con le parole di Corazzini, «semplic[i] e pur[i]». Mentre l’anima, associata alla fiamma, è protagonista di una tensione verso un’armonia superiore, il cuore18, sede di sentimenti anche tumultuosi, è associato al fuoco in modo diverso: «rossa / macchia di sangue» (Il mio cuore, p. 93, vv. 1-2) dove l’io lirico intinge la penna, è sede di «passioni» sempre «nove» (v. 8) di cui «la carta s’arrossa» (v. 7). E il sangue-inchiostro, che anima il sentire del poeta e fonda la sua scrittura è, come ci si aspetta, «ardente» (v. 10). Ma come è presagito in questi versi, un destino di morte attende il cuore del poeta: se da Dolcezze passiamo a L’amaro calice ecco infatti le Rime del cuore morto, in cui è ancora la sfera simbolica del fuoco a offrire le immagini necessarie a parlare del «mio cuore umano» (p. 124, v. 11), ossimoricamente «piccolo» e «immenso» (v. 1): Fu come un sole immenso, senza cielo e senza terra e senza mare, acceso solo per sé, solo per sé sospeso nello spazio. Bruciava e parve gelo. Fu come una pupilla aperta e pure velata da una palpebra latente; fu come un’ostia enorme, incandescente, alta nei cieli fra due dita pure, ostia che si spezzò prima d’avere tocche le labbra del sacrificante (p. 124, vv. 13-22).
Il senso di frustrazione provato è espresso nel ricorso all’immagine del fuoco che non riscalda («bruciava e parve gelo»), del cuore destinato a non trovare dimensione («senza cielo / e senza terra e senza mare») e scopo («ostia che si spezzò prima d’avere / tocche le labbra»), a restare irrelato nella sua grandezza («enorme» e «immenso»). Nel passo dell’Esortazione al fratello visto sopra, alla frustrazione 17
Ivi, p. 33. A proposito del rapporto che nella poesia corazziniana viene ad instaurarsi tra anima e cuore, è stata «formul[ata] un’ipotesi: “anima” e “cuore” in Corazzini indicano due diverse situazione dell’io anche se si presentano casi di sovrapposizione dei lemmi. […] L’anima appartiene al sogno, dunque all’io profondo, rigenera desiderio e speranza, il cuore invece appartiene alla realtà oggettiva, quella della tristezza e del dolore dell’io conscio»: M Bruscia, La Primavera tra sogno e mito nei sonetti di Corazzini, in F. Livi – A. Zingone (a cura di), “Io non sono un poeta”. Sergio Corazzini (1886-1907), cit., pp. 90-91. 18
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FIAMME E STATI D’ANIMO
subentra la consapevole accettazione della solitudine: essere «acceso solo per sé» non sarà più condanna, ma scoperta di esistere «come un tutto, per se stesso»; ed al cuore, organo sofferente e «morto» invano, subentrerà l’anima. «Anima della nostra fiamma» è apostrofato, in epigrafe all’Incendiario, Filippo Tommaso Marinetti, che ne è il dedicatario: sovvertendo l’uso «intimistico-crepuscolare»19 che del termine «anima» viene fatto da un Corazzini, Palazzeschi rimarca fortemente il nesso tra il fuoco e lo stato d’animo dell’io poetante, che, nel poemetto in questione, è appunto connotato dal sovversivo desiderio di rovesciare, come visto in precedenza (cfr. par. 3.3), convenzioni e norme poetiche, e offrire «una idea di se stesso socialmente trasgressiva»20. Già dalla prima raccolta palazzeschiana, I cavalli bianchi, il ricorrere delle immagini ignee serve a definire una condizione interiore: laddove il poeta non dice mai “io”, sono proprio elementi del paesaggio (come una fonte inaccessibile, un giardino chiuso, un monte lontano) a comunicare uno stato d’animo. Leggiamo, ad esempio, Il pastello del sonno: S’innalzano fiamme di viola ne la nebbia densa che vieta la vista del mare. Lento il mare sussurra. Il gemito s’ode del folle. S’innalzano fiamme gialle ne la nebbia densa che vieta la vista del mare. Più forte il mare sussurra e il gemito cuopre del folle. Rapide s’innalzano fiamme leggere, rapide ne la nebbia densa. Il folle non s’ode più (p. 19).
Il componimento è caratterizzato da un tratto tipico «della retorica palazzeschiana»21 delle prime raccolte: «l’opacità di significazione»22 che ci rende difficile cogliere un nesso causale tra gli eventi e le situazioni rappresentati nei versi. Il termine «sonno», presente nel titolo, potrebbe indurci a credere che il rumore del mare, o anche la danza 19
A. Saccone, Figurazioni del personaggio incendiario: Marinetti e Palazzeschi, cit., p. 73. P. Pieri, Ritratto del saltimbanco da giovane. Palazzeschi 1905-1914, cit., p. 87. 21 A. J. Tamburri, La poesia ossimorica di Palazzeschi, in G. Tellini (a cura di), La «difficile musa» di Aldo Palazzeschi, cit., p. 81. 22 Ibid. 20
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delle fiamme, abbiano sortito un effetto soporifero sul folle, che «non s’ode più» perché addormentato. Ma l’atmosfera suggerita a livello uditivo dal rumore del mare, in crescendo, e a livello visivo dalle fiamme (con la loro «spettrale ed ipnotica incantazione»23 che diventa sempre più incalzante: «rapide […] rapide», in anafora ai vv. 9-10), non è di sereno abbandono al sonno, quanto di inquietudine per qualcosa di sinistro che sta per accadere: anche se non sarà raccontato nei versi, bloccati sulla mera registrazione di un fatto (il tacere del folle). D’altra parte «in moltissimi casi, nell’intera opera dello scrittore toscano, si instaura una contiguità, ora spaventosa ora rasserenante, fra il sonno e la morte»24: le fiamme diventano, così, segnale di un timore strisciante, possibile indizio di una fine tragica. Anche in questa poesia, tra le righe, potremmo leggere l’attuazione di un «gesto incendiario»25, di cui il folle potrebbe essere la vittima, l’autore, o entrambe le cose. Nell’impossibilità di procedere ad un’interpretazione univoca del Pastello del sonno, ci fermiamo sulla constatazione della presenza delle fiamme come elemento che oggettiva l’ansia taciuta: sono fiamme che non illuminano ma inquietano, perse nella nebbia con i loro colori da fuochi fatui, emblemi del timore che incutono l’ignoto e – forse – la morte. Nebbia e fiamme viola, e un’allusione alla morte, tornano in Lanterna, ne La veglia de Le Tristi. Sette contesse si riuniscono a vegliare, intorno a una lampada, senza proferire parola: Nel mezzo la lampada a spirito innalza di nebbia leggera la fiamma viola. […] La lampada in mezzo è già accesa, fra poco Le Tristi verranno a la veglia. […] La fiamma s’innalza di nebbia leggera fra il giallo smagliante dell’oro. Silenti come ombre, ravvolte nel manto viola, ricchissimo manto di fino damasco, Le Tristi compaion ciascuna a la piccola porta (p. 59, vv. 4-5, 15-16, 20-25).
23 24 25
A. Saccone, Figurazioni del personaggio incendiario: Marinetti e Palazzeschi, cit., p. 69. E. Pellegrini, “La morte euforica” di Palazzeschi, cit., p. 296. A. Saccone, Figurazioni del personaggio incendiario: Marinetti e Palazzeschi, cit., p. 69.
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FIAMME E STATI D’ANIMO
Ricoperte di manti che imitano il colore della fiamma, le dame «si dispongono coreograficamente […] a seguir[ne] le vicende»26. Come Madama Mirena «strisci[a] a le fiamme l’inchino infinito» (Palazzo Mirena, p. 48, v. 67), così le sette «si strisciano muto l’inchino profondo» (La veglia de Le Tristi, p. 60, v. 34), e «si seggon con l’occhio rivolto a la fiamma» (v. 37): nelle evoluzioni del «lieve bagliore» (v. 42) si oggettiva il desiderio, frustrato, di seguire la sorte della «Contessa dal guardo di Sole» (Palazzo Mirena, p. 47, v. 47). «Immobili e mute con occhio rivolto a la fiamma» (La veglia de Le Tristi, p. 60, v. 48), le sette donne ne osservano il languire: «la fiamma fruscia, la fiamma geme. La fiamma è una creatura che soffre»27. Il travaglio della fiamma, così descritto da Bachelard, nella Veglia de Le Tristi diviene motivo e correlativo oggettivo della tristezza delle dame. Alzatesi, nuovamente «si strisciano muto l’inchino profondo» (v. 52), e «scompaiono» (v. 53), come di lì a poco farà il fuoco, incustodito nella sua agonia al centro della sala: La fiamma nel mezzo pian piano si spegne. La sala degli ori massicci soltanto il suo giallo pesante nell’ombra risplende (vv. 54-56).
Nel «rito senza mito»28, nella messa in scena dell’incendio mancato, si esprime tutto il languore dell’attesa di un evento risolutore che non ci sarà. Una situazione di attesa irrisolta è anche in Rosario: nei versi recitati da «Una Paolotta» (p. 51, v. 17) pianto e cera sciolta sono accomunati perché entrambi «non cadono»: S’ammassan su i ceri spenti grondanti le lagrime pallide, morte, e non cadono, siccome le gocce spremute stagnate su cuori pendenti (Rosario, p. 51, vv. 18-20).
Se passiamo a Poemi, una fugace comparsa del fuoco come rivelatore di un mutamento di stato d’animo ricorre in Lord Mailor. L’anziano protagonista, «sconvolto, impaziente» (p. 103, v. 1), in «dolente
26 27 28
G. Guglielmi, L’immagine negativa, cit., p. 94. G. Bachelard, La fiamma di una candela, cit., p. 44. G. Guglielmi, L’immagine negativa, cit., p. 94.
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e indolente posizione di attesa»29, «straluna nelle orbite gli occhi» (v. 11): quando il suo servitore, dopo pressanti inviti, procede alla lettura delle vecchie carte contenute nel cassetto del banco del Lord, ecco che proprio gli occhi, descritti nel resoconto di un duello di gioventù, esprimono tutto l’ardore che, nel vecchio, si conserva chiuso e inespresso nel corpo infermo.
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Leggero si piega già pronto all’assalto, s’avanza la bella persona, s’allunga, s’inarca, lanciando dei guardi di fuoco (p. 105, vv. 84-87).
Il fuoco è segno del vitalistico slancio giovanile verso la vita e i suoi piaceri: ne restano, negli occhi inquieti dell’anziano Lord, solo dei brevi «lampi» (p. 103, v. 13). «Lampeggiano» anche gli occhi del poeta dell’Incendiario che, ritiratosi in solitudine nel suo castello, riceve in visita un «lontanissimo parente» (La visita di Mr. Chaff, p. 283, v. 8) americano. Sotto le incalzanti domande del visitatore, il poeta si descrive così: E poi, mister Chaff, volete proprio conoscere il mio partito? Fate un impasto uguale, metà sublime, e metà bestiale. I miei occhi vedete, sono avidi di sangue e di fiamme! No no no, non vi spaventate, me ne sto qui comodamente a dormire, dormire… per sognare (p. 286, vv. 122-130).
Forse memore del poeta-banditore di Corazzini, che mette all’asta le sue idee (rinunciando alla poesia) per «raggomitolar[si] al sole / come un gatto a dormire» (Bando, p. 215, vv. 9-10), l’io lirico si è ritirato a vita privata e, mentre assume la posa da incendiario attivamente proteso verso «spettacoli d’apocalisse»30, immediatamente la sconfessa, rassicurando Mr. Chaff sulla natura irreale del sangue e dell’incendio: «il poeta che chiude L’Incendiario è assai più pigro o,
29 30
P. Pieri, Ritratto del saltimbanco da giovane. Palazzeschi 1905-1914, cit., p. 51. G. Nicoletti, L’azzardo negato dell’«Incendiario», cit., p. 114.
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se si vuole, più riflessivo di quello che l’aveva inaugurato»31. Ma se l’«Americano… babbeo» (p. 288, v. 172) ostenta disprezzo e superiorità verso l’atteggiamento del suo parente italiano, ecco che questi risponde alla provocazione vestendo nuovamente i panni del piromane: I miei occhi lampeggiano sguardi che sono scintille, fiamme roventi, lame taglienti, […]. Ma io salgo, nulla m’arresta, è in cielo la mia testa, nell’azzurro profondo, fra le stelle che si confondono al bagliore dei miei occhi, e mi sorridono amiche, sorelle (La visita di Mr. Chaff, p. 288, vv. 182-185, 196-201).
In questi versi, che chiudono la raccolta del ’10, il poeta si identifica con l’incendiario della poesia che la apre, dai cui occhi «saltan […] le faville, / a cento, a cento, a mille!» (L’Incendiario, p. 185, vv. 151-152) e che può «cogli occhi / bruciare tutto il mondo!» (vv. 153-154). Eppure, se del fuorilegge in gabbia si dice che «brucia per divertimento» (p. 183, v. 63), il poeta protagonista della Visita di Mr. Chaff riconosce che all’incendiario il divertimento è negato: fattosi trascinare troppo dall’enfasi declamatoria, e dalla foga di ribattere alle critiche dell’americano, l’io lirico uguaglia addirittura il proprio estro creativo alle fiamme del sole, per il quale è «angusta» «la terra» (p. 289, v. 211), provocando l’uscita di scena dell’ospite infastidito. Dopo che «Mister Chaff si secc[a]» (v. 213) e va via, il poeta si pente di essersi lasciato andare: Io rimasi confuso, e pensai d’essermi riscaldato invano. Gli potevo lasciar dire tutte le sue grullerie a quel povero americano, chi sa come mi potevo divertire! (p. 288, vv. 216-221).
Chi affermava «gli uomini non dimandano / più nulla dai poeti, / e lasciatemi divertire!» (E lasciatemi divertire, p. 238, vv. 91-93) deve 31
Ibid.
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ora ammettere di aver perso, per intemperanza, un’occasione di svago: come a dire che, se il saltimbanco si diverte, l’incendiario – o chi con lui si identifica, anche per poi fare marcia indietro – non può. Radicalmente diversa l’intonazione di Apro la mia finestra (apparsa nel 1914 in rivista), «che suona singolarmente ungarettiana»32, caratterizzata come è «da uno stile fortemente ellittico e metaforico, assai lontano da quello conversevole ed espanso dell’Incendiario»33: Il pozzo azzurro del sole s’affonda nel cielo denso d’amaranto, nel mezzo agli oliveti porporini galleggia il mazzo degli oleandri d’argento. Mi sento bruciare (Apro la mia finestra, p. 339).
Qui il fuoco non sta ad indicare l’estroversione incendiaria e creativa del poeta eslege, quanto l’ardore nato dall’immersione in un paesaggio trasfigurato analogicamente. L’amaranto e la porpora, colori del tramonto o dell’alba, circondano il soggetto che, avvolto dalle stesse fiamme che incendiano il cielo34, si sente «bruciare» in uno stato di fusione panica con la natura.
5.2 «Cuore senza fuoco»: l’abulia sentimentale (Gozzano Moretti Saba Corazzini Sbarbaro) Figurazioni del fuoco ricorrono non solo a simboleggiare stati d’animo improntati a inquietudine o effervescenza, ma anche a indicare l’assenza di emozioni. È possibile riscontrare immagini del genere in poeti quali Gozzano, Saba, Moretti o Sbarbaro, uniti, nei casi qui esaminati, dalla comune condizione di abulia in cui versa il soggetto protagonista delle rispettive poesie. Abbiamo già letto alcuni versi del Responso gozzaniano (cfr. par. 1.1), in cui l’io lirico interroga Marta, la donna «taciturna» (p. 24, v. 25) che legge e, in veste di «sibilla antica» (v. 26), può forse conoscere e svelare il destino. Per esplicitare la 32
A. Dei, Giocare col fuoco. Storia di Palazzeschi poeta, cit., p. XLIII. F. Curi, La poesia italiana nel Novecento, cit., p. 80. 34 Simile situazione è rappresentata da Govoni: «Il crepuscolo incendia i vetri tondi dei balconi» (Giorno di festa, FA p. 76, v. 9). 33
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propria condizione di uomo che «non h[a] amato / ancora» (vv. 31-32) e attende colei «che nel deserto farà sbocciare fiori» (v. 43), il poeta ricorre all’immagine di un «cuore senza fuoco» in cui «già l’anima è più stanca» (p. 25, v. 61). L’assenza dell’amore coincide con l’assenza del fuoco, da sempre elemento che più degli altri ha dato espressione e corpo alla passione. Parimenti senza fuoco è l’anima di Totò Merùmeni, «maschera definitiva dell’autore»35 e protagonista dell’omonimo componimento dei Colloqui. L’azione delle fiamme motiva l’aridità interiore dell’io poetante, chiuso in un volontario esilio in una «villa triste» (Totò Merùmeni, p. 131, v. 5): Totò non può sentire. Un lento male indomo inaridì le fonti prime del sentimento; l’analisi e il sofisma fecero di quest’uomo ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento (p. 132, vv. 45-48).
Eppure il fuoco, come abbiamo già potuto osservare precedentemente (cfr. par. 3.1), «in quanto brucia e consuma, è parimenti simbolo di purificazione e di rigenerazione»36. Dall’incendio non derivano solo aridità e morte emotiva: leopardianamente (e se ne ricorderà Montale) dall’«anima riarsa» può nascere «una fiorita d’esili versi consolatori» (Totò Merùmeni, p. 133, vv. 51, 52). Gozzano afferma dunque che La poesia si genera dall’aridità, là dove il fuoco (purificatore) ha arso ogni eccesso, ogni violenza, ogni scatto del sentimento, ed è tanto più preziosa e sicura quanto più, intorno, ha il vuoto, il deserto, la terra bruciata, cioè non ha tramiti, compromessi, correlazioni con il «mondo», la società, gli uomini37.
E dunque la poesia è testimonianza di freddezza e consapevolezza: di incapacità di vivere emozioni violente e di autodefinirsi compiutamente, nel bene e nel male. A Marta l’io poetante del Responso chiede: «non sono cattivo, non è vero? / […] non è vero […] che sono buono?» (p. 25, vv. 53-54), e di Totò Merùmeni si dice:
35
M. Guglielminetti, Introduzione, in G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., p. XXXI. J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri, cit., p. 479. 37 G. Bàrberi Squarotti, Il poeta fra le rovine, cit., p. 99. 36
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Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti, non è cattivo. È il buono che derideva il Nietzsche: «… in verità derido l’inetto che si dice buono, perché non ha l’ugne abbastanza forti …» (Totò Merùmeni, p. 132, vv. 29-32).
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La mancanza di «fuoco» nel cuore e l’aridità legata al passaggio e all’esaurirsi di un incendio devastante, impedendo all’io lirico di vivere in uno stato d’animo che non sia quello di rinuncia, rappresentano pienamente «lo stigma di quella radicale inettitudine alla vita derisa da Nietzsche»38. La stessa condizione di inabilità alla vita provoca in Moretti non quiete e «quasi»39 felicità, ma tristezza: Presso un’arola o in mezzo d’una strada nessuna brama arde e s’appunta in me; triste son io perché la tristezza è il mio pane e la mia piada (L’albergo della tazza d’oro, p. 67, vv. 1-4).
La tristezza, connessa al «quotidiano senza enfasi»40 e alla mancanza di desideri che “brucino” nel cuore del soggetto, è legata anche ad un eloquio infantile41 (riscontrabile, ad esempio, nell’affermazione tautologica dei vv. 3-4) e ad un altrettanto infantile senso di abbandono: «quando questa ambascia mi circonda / anche mia madre non mi vuol più bene» (vv. 7-8). Simile situazione si riscontra, con qualche variazione, anche nei versi di Convitto del Sacro Cuore. «La novizia» (p. 85, v. 4) Elisabetta prende parola per spiegare il motivo della sua tristezza: «Tace e le guance le si fan di fiamma / e rigate di lacrime. “Perché?” / “Piango perché ho lasciato la mia mamma […]”» (vv. 5-7). A differenza dell’io lirico dell’Albergo della tazza d’oro, l’educanda è triste non per mancanza di desideri ma per l’insoddisfazione del più grande desiderio, quello di stare con la madre, ed esprime il proprio stato d’animo con il pianto: la metafora a cui ricorre Moretti è, di nuovo, costituita da un’immagine legata al fuoco. 38
M. Paino, Signore e signorine di Guido Gozzano, cit., p. 92. Come nel caso di Totò che, «dopo tristi vicende, / quasi è felice» (Totò Merùmeni, p. 133, vv. 53-54). 40 L. Anceschi, Nascita di un’idea di poesia, cit., p. 147. 41 Secondo Zaccaria stato infantile e scelte espressive sono collegati: Moretti effettua «la scelta per un livello di comunicazione che non è soltanto medio, ma ostentatamente regressivo nei confronti di uno stato infantile, esibito, fin dal titolo di Poesie scritte col lapis, come giustificazione dello stesso esercizio poetico» (G. Zaccaria, Invito alla lettura di Marino Moretti, cit., p. 27). 39
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In Saba, al contrario, la causa della tristezza consiste proprio nella vicinanza alla figura materna, «mater dolorosa per costituzione e per motivi biografici, ma anche e soprattutto perché tale il Saba poeta e prosatore ha costantemente voluto rappresentarla»42. In una delle Poesie dell’adolescenza e giovanili l’io lirico si riconosce preso dallo stesso «tedio» (A mamma, p. 32, v. 1) «che dalle cose in ogni / vita s’insinua» (vv. 2-3): Ed è un giorno di festa, oggi. La via nera è tutta di gente, ben che il cielo sia coperto, ed un vento aspro allo stelo rubi il giovane fiore, e in onde gonfi le gialle acque del fiume. Passeggiano i borghesi lungo il fiume torbido, con violacee ombre di ponti. Sta la neve sui monti ceruli ancora; ed il mio cuore, mamma, strugge, vagante fiamma nei dì festivi, la malinconia (A mamma, p. 32, vv. 8-18).
Infelice in un giorno di festa, Saba associa la «malinconia» che lo «strugge» ad una fiamma incerta, debole fuoco fatuo che non fa divampare incendi ma tremola «sottile» (v. 1). Se invece parla della figlia Linuccia, il suo tono è molto diverso: nonostante Saba veda in sua moglie le stesse caratteristiche della propria madre43, per la bambina la madre è fonte di gioia; e la fiamma non è indice di malinconia quanto di felicità: Ti conquisti la casa a poco a poco, e il cuore della tua selvaggia mamma. Come la vedi, di gioia s’infiamma la tua guancia, ed a lei corri dal gioco (A mia figlia, p. 79, vv. 18-21).
Ma torniamo a Moretti: come nei versi di Convitto del Sacro Cuore, anche in quelli dell’Epistolario nell’antologia la presenza del desiderio è oggettivata dal bruciare del «cuore» del poeta, «che arde frettoloso ed arde / nella ricerca d’un desìo segreto» (p. 99, vv. 5-6). L’ardore (come le guance infiammate dell’educanda) è riconosciuto comunque sintomo dell’età infantile: il «desìo segreto» e la fretta del cuore sono frutto di un recupero memoriale del soggetto che evoca i 42 43
M. Paino, La tentazione della leggerezza. Studio su Umberto Saba, cit., p. 23. Cfr., ad esempio, A mia moglie, pp. 74-76.
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tempi di scuola, essendone invece esente il poeta maturo dell’Albergo della tazza d’oro: il fanciullo ritorna e già rivive trepidamente nell’acceso cuore, con un bisogno trepido d’amore, con desiderio di perdute rive (L’epistolario nell’antologia, p. 99, vv. 21-24).
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Tristezza e assenza di fuoco coincidono ancora nei versi di un sonetto corazziniano escluso dalle raccolte, La campana, tessuto su un’analogia tra l’anima del poeta e una «piccola campana» (p. 264, v. 1) che «tacque» (v. 7): E muta sempre è la campana, attende forse una man pietosa che la scuota da la tristezza per suonare ancora; come l’anima mia che non s’accende più a fiamme d’illusioni, triste e vuota una man che consoli, avida implora! (vv. 9-14).
Seppure priva di «fiamme», quest’anima è molto lontana dal disincanto di Totò Merùmeni: anzi attende, avidamente, un intervento esterno che rompa la condizione di vuoto affettivo. Più vicino al gozzaniano protagonista dei Colloqui è l’io lirico di Sbarbaro, che in Pianissimo confessa più volte la propria abulia di sonnambulo, incapace di provare emozioni («Non voglio non desidero, neppure / penso», Ora che non mi dici niente, p. 50, vv. 7-8). L’aridità interiore del soggetto traspare dai suoi occhi, «estranei» (Talor, mentre cammino per la strada, p. 52, v. 6) o «implacabili» (I miei occhi implacabili che sono, p. 56, v. 1); e se per caso qualcosa interviene a rompere, temporaneamente, l’impassibilità di pietra dell’individuo, sono proprio gli occhi a darne segno all’esterno: Per la voce d’un cantastorie cieco per l’improvviso lampo d’una nuca mi sgocciolan dagli occhi sciocche lacrime mi s’accendon negli occhi cupidigie. Ché tutta la mia vita è nei miei occhi. Ogni cosa che passa la commuove come debole vento un’acqua morta (Taci, anima mia. Son questi i tristi, p. 69, vv. 14-20).
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I sentimenti e i desideri, le «cupidigie» e la «commozione» per gli eventi esterni, non alterano però realmente la condizione di rassegnazione in cui versa l’io poetante, perso in un orizzonte cittadino dominato da figure degradate e degradanti:
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Il lampo, il guardare, sono tutti fenomeni che interessano passivamente […] «l’acqua morta» (altra stupenda metafora della condizione fondamentalmente funebre dell’eroe reificato), passano su di esso, non lo incidono, non significano una modificazione, non nascono da una scelta, sono soltanto i dati inevitabili di un esistere fra le cose44.
Non è dunque un caso se, anche relativamente alle immagini usate per oggettivare il trasporto erotico, in Sbarbaro siano del tutto assenti le figurazioni ignee, essendo la passione ridotta a «lussuria» che svuota «i sensi»45, e l’amore «a qc [sic] di molto spiccio: la rimozione di un perturbamento, la ricuperata padronanza di sé»46. Al contrario in Saba «la città affollata non è […] il luogo per eccellenza dell’inumanità e della spersonalizzazione, ma […] della multiforme umanità»47. Il contatto con gli avventori di una taverna48, esemplari dei più vari e miseri strati sociali, arreca una sensazione di benessere: l’osteria […] di fumi e di canti a notte è piena; un dalmata ha con sé la più discinta; ritrova il marinaio la sirena. Io ascolto, e godo della compagnia, godo di non pensare a un paradiso, diverso troppo da quest’allegria, che arrochisce nei cori e infiamma il viso (L’osteria «All’isoletta», p. 153, vv. 10-16).
Anche se immerso, per sua ammissione, «in un clima di disfacimento morale»49, legato al «presentimento […] della grande guerra»50, 44
G. Bàrberi Squarotti, Camillo Sbarbaro, cit., p. 78. Un esempio tra tutti: «Adesso che passata è la lussuria / io sono rimasto con i sensi vuoti, / neppur desideroso di morire», Adesso che passata è la lussuria, p. 58, vv. 1-3. 46 C. Sbarbaro, Cartoline in franchigia. Lettere a Angelo Barile, OVP p. 563. 47 S. Carrai, Saba, Roma, Salerno Editrice, 2017, p. 104. 48 E più in generale con «la gente che viene e che va / dall’osteria alla casa o al lupanare» (Città vecchia, p. 91, vv. 5-6). 49 U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, cit., p. 167. 50 Ivi, p. 168. 45
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l’io lirico cerca di riconoscersi in «tutti / gli uomini di tutti / i giorni» (dirà così nel Borgo, p. 324, vv. 9-11): la gioia che ne deriva è una vampata che riscalda il viso, un fuoco che si trasmette dall’anima al volto.
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5.3 «Face dalla fiamma nova»: fuoco e inquietudine (Corazzini Campana Govoni Rebora) Abbiamo incontrato, nei versi sopra citati, un Sergio Corazzini bloccato in uno stato d’animo connotato da rinuncia e passività: un rovesciamento di questa immagine ci viene dato nei versi dell’Ascesa, che tracciano un percorso verso l’alto, improntato ad un inedito volontarismo. Ascendo. Io che già fui l’uom de l’incerta orma e del molle gesto involontario, securamente, novo reziario, lancio le maglie con la mano esperta. […] O quale face dalla fiamma nova s’agita nello spirto irrequieto, così che i sensi antichi si fan muti (L’ascesa, p. 283, vv. 1-4, 9-11).
Mentre nel cuore privo di volontà mancano, come visto, «fiamme d’illusioni» (La campana, p. 264, v. 13), allo «spirto irrequieto» si associa la presenza del fuoco, che ardendo simboleggia una nuova disposizione del soggetto, prima caratterizzato dal «molle gesto involontario», poi riconosciutosi nel gladiatore esperto, pronto al combattimento: una simile immagine, nella produzione poetica corazziniana, è tuttavia destinata a restare isolata. Nei Canti Orfici, al contrario, Campana ricorre spesso a figurazioni del fuoco per oggettivare i moti dell’«anima inquieta» (Dualismo, p. 160) del poeta, delle sue passeggere accompagnatrici, della stessa poesia (che è, dice l’io lirico, «un’anima inquieta come me; della quale mi ricordavo sempre»51). Nella prima parte della Notte l’agitazione del soggetto, che si muove «nell’odore pirico della sera di fiera» (La Notte – I, La Notte 11, p. 113), si rispecchia nelle «lingue di fuoco delle lampade inquiete a 51
È così che leggiamo nella prima stesura di Dualismo, nel passo riportato ora in F. Ceragioli, Commento, in D. Campana, Canti Orfici, cit., p. 279.
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trivellare l’atmosfera carica di luci orgiastiche» (ibid.). Le lampade «trivellano senza posa con quella ‘instabilità’ che è propria della fiamma, e pare che le lingue delle fiamme perforino l’oscurità»52. Parimenti, l’io lirico sembra muoversi nella notte con la stessa volontà di «perfor[are] l’oscurità», di trarne un segreto, di possederne l’essenza. Anche l’immagine delle «girandole di fuoco», che troviamo nel passo seguente del poemetto in prosa, si muove in questa direzione: Ne la sera dei fuochi de la festa d’estate, ne la luce deliziosa e bianca, quando i nostri orecchi riposavano appena nel silenzio e i nostri occhi erano stanchi de le girandole di fuoco, de le stelle multicolori che avevano lasciato un odore pirico, una vaga gravezza rossa nell’aria […] lei […] camminava ora a tratti inesperta stringendo il ventaglio (La Notte – I, La Notte 12, p. 114).
I fuochi d’artificio53 della «festa d’estate», con le loro «girandole», sono emblemi di mutamento incessante, veri e propri correlativi del continuo movimento, sia fisico che interiore, del poeta, del suo travaglio conoscitivo associato a un perenne peregrinare: che, a un certo punto, provoca stanchezza («i nostri occhi erano stanchi de le girandole di fuoco»). Quella «vaga gravezza […] nell’aria» è, ancora una volta, una sensazione del poeta che si riversa sul paesaggio circostante. Il fuoco è esplicitamente «fuoco interno» in Dualismo (Lettera aperta a Manuelita Etchegarray), componimento dedicato all’«adorabile creola dagli occhi neri e scintillanti come metallo in fusione» (p. 158). La ragazza, «selvaggia incarnazione delle praterie sudamericane, donna in 52
Ivi, p. 206. L’immagine dei fuochi d’artificio è molto frequente nelle poesie di Govoni: non solo, come è lecito aspettarsi, nella raccolta del 1905, ma anche, ad esempio, negli Aborti. Una veloce ricognizione ci permette di osservare alcune ricorrenze: nello scenario euforico di Per la festa di San Giovanni i fuochi sono attesi insieme ad altre attrazioni, quali giostre e pagliacci («in mezzo ai paesani estatici / s’innalzeranno due rossi globi aerostatici, / e dopo ci saranno i fuochi d’artifizio!», FA p. 77, vv. 16-18), così come accade ne La fiera, componimento costruito su un turbinare di onomatopee che riproducono gli schiamazzi della festa fino allo scoppio finale: «E nel cortile delle scuole contro un muro / ad uno, al fuoco che li accende, rovesciandosi, / scoppiano i mortaretti – bun, bun, bun, bun, bun!» (FA p. 95, vv. 46-48). Nel grigiore del quotidiano, invece, i fuochi sono paragonati agli organetti, che portano dolcezza e malinconica consolazione («Organi miti che si conformarono / a la malinconia dell’antichità! / Organi bene amati come i fuochi d’artifizio!», Gli organi di barberia, FA p. 86, vv. 13-15); e diventano, negli Aborti, sinestetico correlativo dei profumi di «una sera di gala», descritti «come varî fantastici bengala / accesi» (I profumi – IV, AB p. 51, vv. 2-3). Oppure, i fuochi possono esprimere le contraddizioni de Lo spleen («spleen, idra di Lerna. Re irriso / dal suo buffone idropico e rubro. / E fuochi di bengala in Paradiso», AB p. 87, vv. 9-11) o de Le stranezze (dove, nel fitto elenco di immagini barocche o grottesche, incontriamo «un museo di cera illuminato dai bengala», AB p. 246, v. 21). 53
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carne e ossa, immagine della natura»54, ne conserva l’energia primigenia: «figlia generosa della prateria nutrita d’aria vergine», mostra il suo «piccolo viso armato dell’ala battagliera del […] cappello», incedendo a «piccoli passi pieni di slancio» (ibid.). Manuelita è connotata dal fuoco, che ne indica il «carattere costante […] di vigore, quasi di aggressività»55:
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Tutta mi siete presente esile e nervosa. La cipria sparsa come neve sul vostro viso consunto da un fuoco interno, le vostre vesti rosa che proclamavano la vostra verginità come un’aurora piena di promesse! (ibid.).
La fanciulla ha le caratteristiche della fiamma che le arde dentro: «esile e nervosa», non è la vergine che languisce nell’attesa di eventi da lei indipendenti, bensì quasi una giovane guerriera, conscia della propria forza, che le deriva da una profonda simbiosi con la natura e con gli elementi56. Il poeta, al contrario, soffre della stanchezza dell’uomo europeo, carico di anni ed esperienza, che ha perso il contatto con il fuoco: Di notte nella piazza deserta, quando nuvole vaghe correvano verso strane costellazioni, alla triste luce elettrica io sentivo la mia infinita solitudine. […] Entravo, ricordo, allora nella biblioteca […]. Le lampade elettriche oscillavano lentamente (pp. 158-159).
All’energia del fuoco di Manuelita fa da contraltare la tristezza della luce elettrica, che indica la tristezza dell’io lirico, condannato a perdere la ragazza: tradendola con «la turba delle signorine elastiche» (pp. 158-159) e scegliendo, infine, di «restare fedele al [suo] destino» (p. 160) di girovago. A questo destino il poeta resta legato anche nella situazione di prigionia descritta in Sogno di prigione: il soggetto è scisso tra l’ansia di evadere dalla «cella […] bianca» col «giaciglio […] bianco» (p. 161), e l’angoscia provocata dalla visione onirica di un treno mostruoso che lo rapisce. Non è ancor notte; silenzio occhiuto di fuoco: le macchine mangiano e rimangiano il nero silenzio nel cammino della notte. Un treno: si sgonfia arriva in silenzio, è fermo: la porpora del treno morde la notte […]. Da un finestrino in fuga io? io ch’alzo le braccia nella luce!! (il treno mi passa sotto rombando come un demonio) (Sogno di prigione, p. 161).
54 M. Meschiari, Dino Campana. Formazione del paesaggio, Napoli, Liguori Editore, 2008, p. 28. 55 F. Ceragioli, Commento, in D. Campana, Canti Orfici, cit., p. 277. 56 Oltre che alla natura del fuoco, Manuelita partecipa a quella dell’acqua: «anima dell’oasi dove la mia vita ritrovò un istante il contatto colle forze del cosmo», p. 158.
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Mentre lo spazio interno è dominato dal «tremendo e livido colore bianco, il colore più claustrofobico e ansiogeno di tutti i Canti Orfici»57, all’esterno domina il rosso del fuoco, altrettanto ansiogeno. Nella sinestesia «silenzio occhiuto di fuoco» si esprime l’angoscia del soggetto, contemporaneamente protagonista e spettatore dell’incubo, che, nell’assenza di segnali uditivi («il nero silenzio», «un treno […] arriva in silenzio») si guarda intorno disperatamente, registrando l’alternarsi di buio e luce color «porpora»: il fuoco non rompe le tenebre né riscalda, è segno demoniaco della macchina infernale, il treno, che potrebbe anche adombrare la paura della morte se, come suggerisce Freud, «il morire viene sostituito nel sogno con il partire, con l’andare in treno»58. Il treno è associato al fuoco anche in Autoritratto, tavola inclusa da Govoni tra le Rarefazioni del 1915. Disegnando il proprio volto, il poeta traccia «ciglia lunghissime da diventare capelli»59 dando quasi l’idea di raggi che partono dagli occhi e, allargandosi a tutto lo spazio circostante, contemporaneamente fungono da righe, da supporto dunque per la scrittura. Sulle ciglia possiamo leggere le parole che descrivono ciò che lo sguardo raggiunge: viaggi sguardi diventano tutto quello che guardano un mare in foia un cielo di stelle un albero tutto fresco un grano di polvere si librano con l’aeroplano si curvano con l’arcobaleno fuggono col treno in fiamme […] (Autoritratto, RPL p. 9).
Manca, in Govoni, l’angoscia che Campana associa al treno in fuga e al fuoco che ne balena: il soggetto di Autoritratto, più che riconoscersi protagonista di uno sdoppiamento, registra la conversione degli «sguardi» in «viaggi» verso le cose, alle quali gli sguardi aderiscono tanto da «diventa[re] / tutto quello che guardano», in perenne movimento («si librano […] / si curvano […] / fuggono»). 57 M. Verdenelli, Campana etc., in M. Verdenelli – G. Vincenzi, La sua critica mi ha ridato il senso della realtà. Bibliografia campaniana ragionata dal 1912 etc., con prefazione di G. Cacho Millet, Roma, EdiLet 2011, p. 7. 58 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi. Prima e seconda serie di lezioni, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, p. 140. 59 M. Dillon Wanke, Introduzione, RPL p. 33.
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SUL FUOCO
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Anche nei Frammenti lirici di Rebora il fuoco è associato a molteplici stati d’animo. Nel LXX frammento l’io lirico – contemplando un «paesaggio […] antropomorfo»60 che si tende verso una vetta, ansioso di ascensione e purificazione – traccia «un riassunto di un itinerario del mondo fisico, allegorico di quello morale, racchiuso nell’elementare rapporto fra “basso” e “alto”»61. A questa opposizione se ne accosta un’altra, costituita dalla coppia ghiaccio-fuoco, cui Rebora ricorre per descrivere l’«anima» della «vetta»: da piani colline giogaie catene si lamina enorme la vetta su vertebre e stinchi a vedetta con l’anima ardente nei geli costretta. Sopra, il vuoto dell’ombra e del fuoco in infinita voragine tùrbina: sotto, dal vano dell’aria la terra – fra bave di nubi e tormenta – l’ultime scaglie le avventa (Dal grosso e scaltro rinunciar superbo, p. 127, vv. 45-53).
La cima del monte ha un’anima, che Rebora descrive come parlando della propria: la vetta si tende verso il cielo, elevandosi grazie alla «fiducia nell’assoluto»62, alla speranza (di dantesca memoria63) di conquistare l’«altezza». Il fuoco arde in ciò che esiste di più elevato, sia nella natura che nell’uomo: ed entrambi lottano, assediati dai «geli», perché la fiamma non si spenga. Il ghiaccio reale che «costringe» la vetta è allegoria della tentazione alla stasi, alla resa morale che potrebbe spegnere la tensione etica del poeta, perso tra due abissi64: «sopra», nel «vuoto» e nel buio, un «fuoco» infinito e voraginoso, emblema dell’assoluto impossibile da inquadrare e comprendere pure per un’anima che, «ardente», ha anch’essa natura ignea; «sotto», parimenti 60
F. Fortini, «Frammenti lirici» di Clemente Rebora, cit., p. 254. Ivi, p. 253. 62 M. Guglielminetti, Clemente Rebora, cit., p. 40. 63 Mussini ha notato come tutto il frammento LXX sia «intris[o] di suggestioni dantesche»: G. Mussini, Le carte segrete (dantismi e «tramutazioni» in un frammento di Clemente Rebora), in Sei poeti «all’Insegna del Pesce d’Oro». Rebora – Pound – Guillén – Piccolo – Sereni, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1987, p. 17. 64 Due abissi a confronto torneranno nei Canti dell’infermità: «Terribile ritornare a questo mondo / quando già tutte le fibre / erano tese a transitare! / […] / Ogni voler divino è sforzo nero. / Tutto va senza pensiero: / l’abisso invoca l’abisso» (Terribile ritornare a questo mondo, p. 314, vv. 1-3, 6-8). L’autore aggiunge la nota «L’abisso di miseria invoca l’abisso di misericordia»: cfr. A. Dei – P. Maccari (a cura di), Note e notizie sui testi – Canti dell’infermità, in C. Rebora, Poesie, prose e traduzioni, cit., p. 1157. 61
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nel vuoto, la terra che attira, la forza di gravità che impedisce lo slancio verso l’«altezza» (prima «vietata», v. 3; poi «fiutata», v. 11; infine «sperata», v. 19). L’oscillare del soggetto tra i due poli dell’ardore e del gelo, del fuoco e della terra, si rispecchia e si amplifica nella tensione degli stessi elementi della natura: come ha notato la Dei, «i fenomeni naturali, gli oggetti, i paesaggi, sono anch’essi bipolari, quasi manichei: sollevano e pacificano oppure travolgono, trascinano in un vortice verso il basso»65. L’ardore dell’anima, alimentato dal «replicato scontro di spinte contrastanti»66, è connaturato all’io lirico fin dagli anni della giovinezza, come viene ricordato in Clemente, non fare così!, resoconto di un periodo di inquietudine che provoca la preoccupazione della madre, alla cui sconsolata affermazione («e più non ti capisco», p. 138, v. 19) il figlio risponde tracciando un proprio ideale percorso, dall’infanzia all’età adulta, e chiedendole ancora comprensione: Ma risèntimi ancora tuo figlio, amato lasciato dall’anime schiette, dai rapidi amici infantili, se infuoco gli impulsi nativi o i pretesti del gioco scompiglio (Clemente, non fare così!, p. 139, vv. 49-53).
L’io poetante dà fuoco ai propri sentimenti, li fa deflagrare accentuando le proprie capacità percettive, nel bene e nel male: e dunque, che provi «dolore» o alimenti «furore», è il fuoco a costituire l’area metaforica con cui Rebora oggettiva i propri stati d’animo, le «indomabili fiamme» che cozzano con i «ripetèntisi flutti / nel mare sommerso / del cuore» (Movimenti di poesia – II, p. 150, vv. 68-70). Nel frammento XXXIX, Venga chi non ha gioia a ritrovare, già citato precedentemente (cfr. par. 4.3), l’io lirico tenta di dare un senso alla negatività della vita, traendone motivo, leopardianamente, per stringere alleanze con gli «altri»: Il dolor plachi come la stanchezza che reca sonno a riprodur la veglia, il dolor snodi come la giornata che rovinando crea l’indomani, il dolor viva come buona madre 65 66
A. Dei, Sul filo della spada, cit., p. XV. Ibid.
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che trae dal penar la speranza, il dolor fiammi come la lanterna che dal nostro il cammin sveli degli altri (p. 72, vv. 27-34).
Lo stato d’animo negativo può diventare occasione di nuovo slancio: nella rovina verso il basso è implicito il risalire, così come dopo il crollo di una giornata arriva un nuovo mattino. I simboli a cui Rebora ricorre per dare corpo al «dolore» provato sono quelli della madre e della lanterna. Se la prima «trae dal penar la speranza» (ed è difficile resistere alla tentazione di leggere in filigrana un’anticipazione di temi che saranno frequenti dopo la conversione), la seconda può servire a fare del dolore una via alla conoscenza (sulla scia dell’antica equivalenza tra pathe¯ mata e mathe¯mata), uno strumento per comprendere più a fondo la vita, e mostrarne agli altri il segreto: «Ciascun apra il suo gorgo e lo fluisca / ruscello all’acqua altrui» (p. 72, vv. 35-36). Se leggiamo alcuni versi del frammento X, apparentemente simili, ci rendiamo conto di quanto l’azione della lanterna abbia influenzato anche l’esito della fusione del soggetto con gli altri: Chiedono i tempi agir forte nel mondo […]; e che, fiumana alle marcite in guazza, scoli ognuno nei molti, e dissolva la sua intima pace alla città vorace che nella fogna ancor tutti affratella (Chiedono i tempi agir forte nel mondo, p. 29, vv. 1, 4-8).
La città scandisce «i tempi» in cui l’io lirico si muove, affratellato ai «molti» solo dal comune destino della «fogna» che attende tutti67. Al contrario, in Venga chi non ha gioia a ritrovare, il confluire di «ciascuno» nell’«acqua altrui» avviene grazie al riscatto del dolore, novella lanterna di Diogene che ardendo indica il cammino da percorrere e quasi permette di meglio scorgere la radice di umanità comune al poeta e ai suoi simili. La lanterna ritorna nei versi di In un diffuso vespero corrusco, in cui è rappresentata non come il correlativo dell’anima, ma come mezzo per gettarvi luce: 67
Si veda anche il frammento V, in cui «ciascun dalle piazze alle case […] stanco infogna giù piaceri e sonni» (Cielo, per albe e meriggi e tramonti, p. 20, vv. 12, 19).
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[l’anima] par nell’oscuro fetore di un porto, alla lanterna che snoda riflessi, il lamentare d’un vascello morto in cadenzati cìgoli sommessi (p. 79, vv. 5-8).
Qui è l’acqua, maleodorante e stagnante, ad oggettivare la condizione dell’anima dell’io lirico68, mentre il fuoco, nel sinestetico «oscuro fetore», è lo strumento per fare luce su questo stato, e riconoscerne la negatività. Alcuni versi più avanti, riconoscendosi bloccato in tale situazione di scacco e stallo (mentre «gli anni» «prega[no] la giovinezza, e l’avversaria», la vecchiaia, li «tra[e] biechi in catene dietro a lei», p. 79, vv. 14-16), l’io poetante ricorre alla metafora del fuoco per esprimere il proprio «furore» di eroe immobilizzato: Fui certo un tempo qualche degno eroe ch’or parletico soffre: così tanto furore accende il vagheggiar del segno, e l’atto m’abbandona fino al pianto! (In un diffuso vespero corrusco, p. 80, vv. 25-28).
Come il dolore, anche il furore è fuoco: a differenza di quanto accade nel frammento XXXIX, qui il risolversi delle emozioni in fiamma non porta a raggiungere la meta: il «segno» resta solo «vagheggia[to]», la volontà del soggetto non porta all’«atto», bensì alla frustrazione del pianto.
5.4 «Bruci tu pure […], cuore»: paesaggi dell’anima (Rebora Sbarbaro Montale Ungaretti). Il fuoco può distruggere per purificare, come per rinnovare o per liberare. Ma può anche distruggere senza promettere un riscatto. In Rebora, Sbarbaro, Montale e Ungaretti ricorrono talora immagini di fiamme e roghi che devastano il paesaggio, coinvolgendo nella distruzione dello spazio fisico anche l’anima del soggetto. Nei Frammenti lirici, in Pianissimo, in Ossi di seppia e Sentimento del Tempo è possibile selezionare versi in cui il fuoco diventa sinonimo di 68 A questo proposito mi permetto di rinviare a V. di Martino, Sull’acqua. Viaggi diluvi palombari sirene e altro nella poesia italiana del primo Novecento, cit. (in particolare al cap. Acque specchianti).
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SUL FUOCO
morte interiore. È quanto accade, ad esempio, nel XXXVI dei Frammenti lirici, Nell’avvampato sfasciume. Nello snodarsi delle immagini, che testimoniano della «dolorosa presa di coscienza della creatura che cerca disperatamente la propria rivelazione»69, si manifesta lo scontro tra «un dèmone bigio» (p. 67, v. 4) e il «nume» (p. 68, v. 45) dell’io poetante. L’istanza negativa e mortifera, che spinge il soggetto a riconoscersi «vittima che s’immola / al sacrificio muto» (p. 67, vv. 19-20), è connotata dal fuoco, «fusa scintilla» (v. 3) del demone sotto la cui azione la realtà circostante è ridotta ad «avvampato sfasciume, / tra polvere e péste, al meriggio» (vv. 1-2). All’aridità infernale, al fuoco che annienta lo spazio fisico e indica la deriva morale «di una società grettamente materialistica»70, si oppone, quasi a spegnere fisicamente l’incendio con uno scroscio d’acqua, il «volontarismo etico»71 del poeta: Ma chi nel borro impeciato sorger libero e terso mi vede, e fuggire dal fiato e dal piede l’arso dèmone bigio? Sgorgo, inalveo, verso fra murmuri e spruzzi al meriggio nell’aria l’effuso tesoro del vivido corso immortale (pp. 67-68, vv. 25-32).
Il «sacrificio muto» cambia di segno: se nei versi 19-20, prima citati, rappresenta la condizione di sconfitta subita, in chiusura del componimento diventa emblema della scelta del soggetto, e della sua vittoria sulle istanze distruttrici che avvampano e sfasciano. «Nell’ascesi segreta / del mio nume che s’immola / al sacrificio muto» (p. 68, vv. 44-46) si riscattano il paesaggio e le persone che vi si muovono. E dunque il frammento si chiude sull’estinzione del fuoco, sulla sconfitta dell’«arso dèmone». Non così in Sbarbaro e Montale. Il viandante spossato di Pianissimo, che avanza «nell’arsura della via» (Talora nell’arsura della via, p. 81, v. 1), come l’individuo dei Frammenti lirici «dentro l’arsura del cammino» (Scienza vince natura, p. 68, v. 39), può tuttavia, diversamente da quest’ultimo, solo osservare l’incenerirsi della realtà circostante e 69
G. Marchetti, Nota introduttiva, in Omaggio a Clemente Rebora, cit., p. 31. G. Mussini, Le carte segrete (dantismi e «tramutazioni» in un frammento di Clemente Rebora), cit., p. 19. 71 F. Fortini, «Frammenti lirici» di Clemente Rebora, cit., p. 249. 70
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della propria anima, senza essere capace dello scatto di volontà che in Rebora sovverte il corso degli eventi. Nelle Rimanenze, al contrario, per Sbarbaro la terra che brucia è rifugio materno e protettivo72:
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Scarsa lingua di terra che orla il mare, chiude la schiena arida dei monti; […] – ara di pietra sei, tra cielo e mare levata, dove brucia la canicola aromi di selvagge erbe (Scarsa lingua di terra che orla il mare, OVP p. 97, vv. 1-2, 8-10).
Con «movenze aulicheggianti e classiche»73 e «lirismo pieno, acceso, prezioso»74, Sbarbaro invoca la Liguria come un altare di pietra, su cui un’offerta sacrificale brucia spargendo al cielo «aromi di selvagge erbe». Ancora immagini di fiamme alcuni versi più avanti: stavolta sui «sassi» della terra-ara desidera essere bruciato lo stesso io poetante, regredendo a elemento docile della natura: «grappolo mi cocessi sui tuoi sassi» (p. 99, v. 85). Alla comunione con la propria terra – e col fuoco che la accende – corrisponde uno stato d’animo finalmente pacificato, secondo quanto lo stesso Sbarbaro dichiara a Camon: «Tutti i miei paesaggi sono petrosi, ma nascono dal didentro. In essi mi riconosco, mi specchio cioè […] con sollievo»75. Altre ambientazioni liguri bruciate dal sole, le cui vampate passano a connotare lo stato del «cuore» del soggetto, sono frequenti negli Ossi di seppia, in cui «il paesaggio intrattiene […] un rapporto fitto con un principio interiore e psicologico del soggetto»76. In Minstrels, «ubbid[endo] a un bisogno di espressione musicale»77, Montale si rivolge ad un tu che possiamo individuare in un «ritornello» («Ritornel72 Nelle Rimanenze, nota Taffon, compare «il tema della terra come consolazione, come dimensione di vita autentica […]. Più che il personaggio di Pianissimo qui a cambiare è la realtà che lo circonda di cui egli percepisce e registra ancora passivamente i nuovi significati straordinari che questa può assumere» (G. Taffon, Le parole di Sbarbaro. Studio sul lessico poetico di Camillo Sbarbaro, con le concordanze di «Resine», «Primizie» e poesie sparse, Roma, Bonacci Editore, 1985, p. 70). 73 L. Polato, Sbarbaro, Firenze, la Nuova Italia, 1969, p. 75. 74 G. Bàrberi Squarotti, Camillo Sbarbaro, cit., p. 194. 75 F. Camon, Camillo Sbarbaro, in Id., Il mestiere di poeta, Milano, Garzanti, 1982, p. 42. 76 E. Testa, Montale, cit., p. 20. 77 E. Montale, Intenzioni (Intervista immaginaria), cit., p. 565. La musica è – nota G. Ioli (Montale, Roma, Salerno Editrice, 2002, p. 79) – «la matrice primaria della storia poetica dell’autore».
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lo, rimbalzi / tra le vetrate d’afa dell’estate», p. 16, vv. 1-2), un «acre groppo di note soffocate» (v. 3), che permetterebbe di aderire all’essenza nascosta delle cose, alla loro irriducibilità al bisogno umano di senso, annullando così l’inganno idealistico e antropocentrico del mondo come rappresentazione78.
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Ma tale «musica senza rumore» (v. 11) si allontana, portando con sé l’illusione di penetrare «dietro il velo delle apparenze»79: il poeta passa a parlare in terza persona del «ritornello» (e in questo passaggio non possiamo non cogliere un segnale del distacco avvenuto), rivolgendosi invece col tu, negli ultimi versi, al proprio cuore: [la musica] Scatta ripiomba sfuma, poi riappare soffocata e lontana: si consuma. Non s’ode quasi, si respira. Bruci tu pure tra le lastre dell’estate, cuore che ti smarrisci! Ed ora incauto provi le ignote note sul tuo flauto (Minstrels, p. 16, vv. 19-26).
Il «rapporto tra esterno e interno, tra fisico e psichico, [è] inquieto e movimentato»80: il cuore brucia, con il paesaggio in cui è immerso, nella calura estiva, «smarri[to]» come spesso appare il soggetto degli Ossi, eppure ancora sedotto – «incauto» – da un flauto, su cui tenta invano di recuperare un perduto accordo di ossimoriche «ignote note». E di nuovo il cuore, protagonista inconsapevole e smarrito di Vento e bandiere, è testimone del mancato appuntamento tra la «folata che alzò l’amaro aroma del mare» (p. 25, v. 1) e una donna «lontana» (v. 7). Mentre «spenta la furia briaca / ritrova ora il giardino il sommesso alito» (vv. 9-10), l’assente è cercata invano: Ahimè, non mai due volte configura il tempo in egual modo i grani! E scampo n’è: ché, se accada, insieme alla natura la nostra fiaba brucerà in un lampo (Vento e bandiere, p. 25, vv. 13-16) 78 R. Luperini, Commentando «Corno Inglese»: musica e simbolismo nel primo Montale, in Id., Montale e l’allegoria moderna, Napoli, Liguori Editore, 2012, p. 90. 79 E. Testa, Montale, cit., p. 17. 80 Ivi, p. 21.
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Come in Minstrels, da cui tornano il verbo bruciare e il cuore, in Vento e bandiere la vicenda individuale e la «natura» tutta sono coinvolte nello stesso incendio, così come simile è la sensazione di spaesamento che l’io lirico prova in entrambi i componimenti: Il mondo esiste… Uno stupore arresta il cuore che ai vaganti incubi cede, messaggeri del vespero: e non crede che gli uomini affamati hanno una festa (Vento e bandiere, p. 25, vv. 21-24).
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Tra gli ossi brevi che compongono la sezione eponima della raccolta, la stessa associazione di idee ritorna in Non rifugiarti nell’ombra: Come quella chiostra di rupi che sembra sfilaccicarsi in ragnatele di nubi; tali i nostri animi arsi in cui l’illusione brucia un fuoco pieno di cenere si perdono nel sereno di una certezza: la luce (p. 31, vv. 17-24).
Il cuore – qui i «nostri animi» – che già abbiamo visto, preda del fuoco, perdere «l’illusione» di un accordo con il mondo, accetta di abbandonare «un addormentante riparo per guardare in faccia la realtà»81: È ora di lasciare il canneto stento che pare s’addorma e di guardare le forme della vita che si sgretola (Non rifugiarti nell’ombra, p. 31, vv. 5-8).
Nel ridursi in cenere di ogni aspettativa diversa, all’animo bruciato si offre però la «certezza» – che ha il sapore della rassegnazione, non meno che della serenità – della «luce»82. La vita, con le sue potenzialità non colte, col suo «falòtico / mutar[e]» (Ciò che di 81
S. Ramat, Montale, Firenze, Vallecchi, 1965, p. 40. La stessa esperienza fatta dal soggetto è comune anche al «girasole» che si alimenta «nel […] terreno bruciato dal salino» (Portami il girasole ch’io lo trapianti, p. 34, v. 2) e «impazzi[sce] di luce» (v. 12). 82
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me sapeste, p. 36, vv. 9-10), si risolve in un cammino cieco, nel non vedere83 e non sapere84. Il «fuoco pieno di cenere» di Non rifugiarti nell’ombra ci fa presagire il prossimo spegnersi dell’incendio. È quanto l’io lirico dichiara nell’ultimo testo della sezione, quasi congedandosi dagli incendi che abbiamo visto sopra:
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Chi si ricorda più del fuoco ch’arse impetuoso nelle vene del mondo; – in un riposo freddo le forme, opache, sono sparse (Sul muro grafito, p. 50, vv. 5-8).
«Obliati i fuochi»85 che divampano «nelle vene del mondo» non meno che nelle proprie, l’io lirico osserva «le forme» del reale in una condizione non più mutevole e transitoria – e perciò vitale, anche se precaria – ma fissa, «in un riposo freddo»: sono le macerie che il fuoco si lascia dietro e che, raffreddandosi, restano a testimoniare la distruzione avvenuta, l’impossibilità, per il soggetto degli Ossi, di approdare ad una condizione di pienezza esistenziale. Il fuoco che arde lo spazio in cui si trova il soggetto è tema caro anche all’Ungaretti di Sentimento del Tempo: come per Montale, così per il poeta di Alessandria d’Egitto all’arsura del paesaggio si accompagna il tema della memoria. Se in Ossi di seppia l’io lirico non «si ricorda più del fuoco ch’arse / impetuoso», nei versi ungarettiani di Sera è il fuoco stesso, «breve» e non «impetuoso», a non avere memoria: Appiè dei passi della sera Va un’acqua chiara Colore dell’uliva, E giunge al breve fuoco smemorato (Sera, p. 191, vv. 1-4).
83
Cfr. «lo schiudersi d’un’ignita / zolla che mai vedrò» (Ciò che di me sapeste, p. 36, vv. 11-12). 84 «Il fuoco che non si smorza / per me si chiamò: l’ignoranza» (Ciò che di me sapeste, p. 36, vv. 15-16). Le immagini montaliane del «falòtico» mutamento della vita e dell’impossibilità di dominarlo, comprendendone le ragioni ultime, sono anticipate da Sbarbaro che, in Pianissimo, dichiara di non amare la «Vita» in quanto «rapida fiammata» (Non, Vita, perché tu sei nella notte, p. 47, vv. 1, 2), emblema di apertura al godimento della varietà degli aspetti del mondo, ma in quanto occasione mancata, ignoranza: «pel non sapere e l’infinito bujo… / Per tutto questo amaro t’amo, Vita» (vv. 22-23). 85 S. Ramat, Montale, cit., p. 56.
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Il tramonto è il breve incendio del cielo86, che non ha coscienza né memoria del proprio accadere: che non ha, dunque, «sentimento del tempo». Il fuoco di inizio sera segue altri fuochi, quelli di un’estate «demoniaca divoratrice»87, «furia che s’ostina, […] implacabile» (Di luglio, p. 162, v. 6) emissaria di un «Erebo» (D’agosto, p. 164, v. 8): eppure, dopo aver «della terra spoglia[to] lo scheletro» (Di luglio, p. 162, v. 10), anche le fiamme della «stagione mortale»88 si estinguono.
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Arso tutto ha l’estate. Ma torni un dito d’ombra, Ritrova il rosolaccio sangue, E di luna, la voce che si sgrana I canneti propaga. Muore il timore e la pietà (Sereno, p. 190).
Contemplando il paesaggio post-apocalittico bruciato dall’estate, il poeta ne coglie il trascorrere: «l’ombra è il simbolo dell’autunno, della calma dopo l’ardore panico estivo, e della sera»89. E basta appena «un dito d’ombra» perché il «rosolaccio», col suo fiore rosso smagliante, riprenda colore. Alla fine dell’estate, attestata in Sereno, e allo spegnersi del tramonto, cantato nella lirica immediatamente seguente (Sera), corrispondono i moti dell’animo del poeta: agli aspetti del paesaggio sono attribuiti sentimenti, intenzioni, di forma, per così dire, umana, il paesaggio è umanizzato, psicologizzato; esso sente come potremmo sentire noi, cioè noi proiettiamo su di lui, sui suoi moti, la nostra psicologia90.
Il «timore» e la «pietà», sentimenti legati al patimento dell’incendio estivo e alla disarmonia91 da esso provocata, dileguano, mentre si fa 86
Cfr. l’«incendio della terra a sera» degli Ultimi Cori per la Terra promessa – 23, p. 320, v. 23. G. Cambon, La poesia di Ungaretti, cit., p. 92. 88 G. Guglielmi, Interpretazione di Ungaretti, cit., p. 50. 89 C. Ossola – F. Corvi – G. Radin, Commento – Sentimento del Tempo, in G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit., p. 953. 90 G. Debenedetti, Ungaretti, in Id., Poesia italiana del Novecento, cit., p. 98. 91 Mentre l’armonia è data, come chiaramente espresso nei Fiumi, da un’intima adesione all’elemento liquido («il mio supplizio / è quando / non mi credo / in armonia // Ma quelle occulte / mani / che m’intridono / mi regalano / la rara / felicità», p. 82, vv. 32-41), la rottura del contatto uomo-acqua, data dal sole estivo, provoca il «supplizio» della disarmonia tra l’universo e l’uomo che non ne è più «docile fibra» (v. 30). 87
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strada un abbandono «smemorato», liberatorio. Senza addentrarci qui nella complessa questione della dialettica tra innocenza e memoria, definite da Ungaretti «le persone del nostro dramma di artisti del primo Novecento»92, ci accontentiamo di notare che, se il fuoco dell’estate è associato alla memoria, e alla percezione del trascorrere doloroso del tempo, quando finalmente l’incendio si spegne alla memoria subentra l’amnesia, tanto del «fuoco» stesso quanto dell’io lirico. Nel fumo ora odo grilli e rane,
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Dove tenere tremano erbe (Sera, p. 191, vv. 5-6).
«L’estate della vita declina ormai nell’autunno come il giorno nel tramonto»93: del consumarsi del fuoco – del tramonto e dell’estate, per una sovrapposizione del motivo del paesaggio con quello delle stagioni94 – resta un «fumo» che, più che attestare la fine di tutto, apre la via a nuove possibilità95, «tenere», di vita e di canto.
92 G. Ungaretti, Innocenza e memoria, in Id., Vita d’un uomo. Saggi e interventi, cit., p. 133. Secondo Antonio Saccone (Ungaretti, cit., p. 95) innocenza e memoria sono «maschere (se si intende il termine “persona” in senso etimologico) operanti sullo scenario letterario dei primi decenni del secolo e, naturalmente, nuove autorappresentazioni dell’io poetante ungarettiano». 93 E. Giachery, Paesaggi e stagioni in Ungaretti, in C. Bo – M. Petrucciani et alii (a cura di), Atti del Convegno Internazionale su Giuseppe Ungaretti, cit., vol. II, p. 1024. 94 Cfr. ivi, p. 1023. 95 Come già accadeva nel Porto Sepolto, in Lindoro di deserto: «Dondolo di ali in fumo / mozza il silenzio degli occhi» (p. 62, vv. 1-2), di cui Ungaretti stesso argomenta: «l’oscillare della prima nebbia rischiarata e che somiglia ad ali che svaniscono, mozza il silenzio degli occhi, taglia d’un tratto, fa cessare improvvisamente il silenzio degli occhi, dà agli occhi una visione, suscita per gli occhi un colloquio» (G. Ungaretti, Punto di mira, cit., pp. 298-299).
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INDICE DEI NOMI Agamben, G., 23n. Alessandrini, R., 60n. Allegri, M., 142n. Anceschi, L., 9-10, 13n., 158n. Angelini, P., 1n. Antonello, P., 78n. Arrighetti, G., 75n. Artale, G., 50n. Asor Rosa, A., 20n., 43n., 64n., 84n., 127 e n., 138n., 142n. Avalle, D’Arco S., 87n. Bachelard, G., 8-9, 20 e n., 24 e n., 27-29, 38-39, 50 e n., 55, 73 e n., 76 e n., 81 e n., 85 e n., 93 e n., 95n., 101 e n., 119n., 131 e n., 142n., 145-146, 149 e n., 153 e n. Baldacci, L., 104n. Baldissone, G., 86n. Bandini, F., 14n. Bàrberi Squarotti, G., 15-16, 22n., 28n., 30n., 82n., 87-89, 104n., 107-108, 113n., 128-129, 157n., 161n., 171n. Barenghi, M., 2 e n. Barile, A., 161n. Barile, L., 2n., 4 e n., 48n., 72n., 146n. Baroni, G., 136n. Baudelaire, Ch., 26n., 68, 145 e n. Beethoven, L. van, 116 Benjamin, W., 68 e n. Berardinelli, A., 83n. Bigongiari, P., 84n.
Bizet, G., 135 Blumenberg, H., 4 e n. Bo, C., 141n., 176n. Boine, G., 41n. Bologna, C., 79n. Bonifazi, N., 109-110, 126n. Bonora, E., 86n. Brugnolo, F., 138n. Bruscia, M., 150n. Caccia, E., 134n. Cacho Millet, G., 165n. Calisesi, G., 9n., 14-15 Cambon, G., 33-34, 140n., 175n. Camon, F., 171 e n. Campailla, S., 83n., 86n. Campana, D., XI-XIII, 23, 26-28, 3135, 62-64, 67 e n., 76, 82-83, 91, 107-110, 118, 126-129, 162 e n., 164-165 Canali, L., 1n., 75n. Canetti, E., 94 e n. Caretti, L., 78n., 99n. Carrai, S., 161n. Casalegno, A., 27n. Cataldi, P., 85n. Catenazzo, T., 82n. Ceragioli, F., 26n., 63-65, 107n., 109n., 128n., 162n., 164n. Chevalier, J., 18n., 37-38, 69n., 96n., 118n., 122-123, 125n., 157n. Chiore, V., 76n. Citro, E., 67n.
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INDICE DEI NOMI
Coletti, V., 2n., 30n., 68n., 108n., 117n., 149n. Colli, G., 32n. Collodi, C. (pseud. di Lorenzini, C.), 21 Contini, G., 36n. Corazzini, S., XI-XIII, 4, 17 e n., 23, 25-26, 28, 46, 51-55, 57, 68-70, 87, 112 e n., 146, 148-151, 154, 156, 162 Corvi, F., 65n., 139-140, 175n. Costacurta, B., 46n. Cristo: vd. Gesù Cristo Croce, B., 50n. Crotti, I., 26n. Curi, F., 6n., 78n., 100n., 107n., 129n., 148n., 156n. d’Annunzio, G., 14, 16n., 93n., 123-124 Debenedetti, G., 38n., 40 e n., 83n., 137n., 175n. Dei, A., 7-8, 41-42, 53n., 57n., 59-61, 79n., 91n., 94n., 97-98, 121-122, 130n., 156n., 166-167 Del Serra, M., 125n. Del Tedesco, E., 26n. De Maria, L., 56n. Devoto, G., 29n. Diacono, M., 140n. Dillon Wanke, M., 18n., 165n. di Martino, V., 18n., 26n., 77n., 83n., 142n., 169n. Di Nola, A.M., 46n. Diogene, 168 Donadi, F., 111n. Eliade, M., 1 e n., 39n., 58n., 76 e n., 83-84, 142n. Empedocle, 93 Esiodo, 75-76 Falqui, E., 82n. Ferri,T., 32n.
Fertonani, R., 131n. Fornari, G., 78n. Fortini, F., 43 e n., 63n., 129n., 131n., 166n., 170n. Francesco d’Assisi, 64, 92 e n. Frazer, J.G., 46 e n., 56 e n., 76n., 103n. Freud, S., 9-10, 30n., 102-104, 165 e n. Fucecchi, M., 1n. Gabravich, G., 38-39 Gadda, C.E., 36n. Gay-Ubertis, C.T., 115n. Geddes da Filicaia, C., 82n., 110n., 126n. Gentili, S., 108n. Gesù, Cristo, 50 e n., 52, 56-57, 6162, 64, 89n., 96, 133n. Gheerbrant, A., 18n., 37-38, 69n., 96n., 118n., 122-123, 125n., 157n. Giachery, E., 176n. Gibellini, P., 93n. Gioanola, E., 19 e n., 88n. Girard, R., 60n., 78n., 98-99, 123n. Goethe, J.W. von, 27n., 82n., 131n. Goffis, C.F., 83n., 86n. Góngora y Argote, L. de, 139 Govoni, C., XI-XIII, 2 e n., 4-6, 18n., 28, 43, 46-47, 49-52, 55, 68-72, 76, 80 e n., 87-90, 118-121, 123125, 127, 129, 139n., 146-148, 156n., 162-163, 165 Gozzano, G., XI-XIII, 2, 4, 9n., 12, 14-21, 25, 43, 87-88, 112-115, 117-118, 156-158 Grignani, M.A., 36n., 84n. Guarnieri, S., 63-64 Guglielmi, G., 59n., 67n., 78n., 88n., 90 e n., 99n., 153n., 175n. Guglielminetti, A., 115n. Guglielminetti, M., 9n., 15n., 21n., 41-42, 113-115, 157n., 166n. Guillén, J., 166n.
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INDICE DEI NOMI
Ioli, G., 171n. Invernizio, C., 87 Jacomuzzi, S., 25-26, 112n. Jesi, F., 94n. Jung, C.G., 127 e n.
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Kafka, F., 30 Lagorio, G., 31n. Landolfi, I., 17n., 52n., 112n. Lautréamont (pseud. di Ducasse, I.L.), 83n. Lavagetto, M., 37n., 39-40 Leopardi, G., 37n. Lescure, J., 9n. Livi, F., 17n., 25n., 52n., 54n., 150n. Lorenzini, N., 20n., 48n. Luca, evangelista, 34n. Luperini, R., 36n., 83-85, 172n. Maccari, P., 41n., 130n., 166n. Mann, T., 131n. Marchetti, G., 133n., 170n. Marcovecchio, A., 52n., 70n. Marianni, A., 65-66, 141-142 Marinetti, F.T., 56n., 79-80, 92n., 9899, 110n., 151-152 Mattenklott, G., 27n. Mazzucchetti, L., 131n. Melotti, F., 35n. Mengaldo, P.V., 4n., 35n., 84n. Meschiari, M., 164n. Mileschi, C., 33n. Montale, E., XI-XIII, 12n., 19n., 23, 28n., 35-36, 66n., 76, 83-87, 147n., 157, 169-174 Montinari, M., 32n. Moretti, F., 17n. Moretti, M., XI-XIII, 2 e n., 8-18, 21-22, 28, 46, 68-69, 72, 87, 102, 112, 115-117, 149 e n., 156, 158159
Moretti, O., 11, 72 Musatti, C.L., 9n. Mussini, G., 41n., 166n., 170n. Natus, L., 130, 133n. Nicoletti, G., 94n., 96n., 98n., 102103, 154n. Nietzsche, F., 32n., 99n., 158 Novalis (pseud. di Hardenberg, G.F. von), 85 Ossola, C., 27n., 33n., 65n., 138-139, 175n. Otto, R., 66n. Ovidio Nasone, Publio, 1 e n. Padovani Soldini, A., 29n., 31n. Paino, M., 16-17, 37n., 115n., 118n., 130n., 135-136, 158-159 Palazzeschi, A., XI-XIII, 2, 7 e n., 28, 46, 53 e n., 56-57, 59-61, 76-79, 90-92, 94n., 96-100, 102-105, 107-108, 118-124, 129, 146, 151152, 154n., 156n. Palli Baroni, G., 17n., 70n., 149n. Pampaloni, G., 8n. Papini, M.C., 110n. Paratore, E., 75n. Pascoli, G., 35n., 54n., 61n. Pasolini, P.P., 83n., 140n. Pellegrini, E., 59n., 92n., 96n., 152n. Perli, A., 67n. Petrarca, F., 134n. Petrucciani, M., 141n., 176n. Piccioni, L., 141n. Piccolo, L., 166n. Pieri, P., 105n., 151n., 154n. Polato, L., 29-30, 171n. Polizoes, E., 92n. Pouliquen, J.L., 76n. Pound, E., 166n. Propp, V.Ja., 25n., 123n. Prosperi, C., 115n.
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INDICE DEI NOMI
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Pseudo-Longino, 111 e n. Pupino, A.R., 70n. Raboni, G., 145n. Radin, G., 65n., 139-140, 175n. Ramat, S., 128n., 173-174 Ravagli, F., 110n. Rebay, L., 140n. Rebora, C., XI-XIII, 36, 40-43, 62-63, 129-131, 133n., 162, 166-171 Rella, F., 26n. Ricorda, R., 26n. Rocca, A., 9n. Rossi, M., 60n. Saba, L., 137, 159 Saba, U., XI-XIII, 36-40, 68n., 87, 90 e n., 129, 134-138, 156, 159 e n., 161 e n. Saccone, A., 34n., 59n., 77n., 79n., 92n., 98-99, 107n., 151-152, 176n. Saffo, 111 Sanguineti, E., 16 e n., 99n., 106n. Santagata, M., 134n. Sassoferrato (pseud. di Salvi, G.B.), 46 Savoca, G., 25n., 52n., 66n., 88n., 97n., 104n., 130n. Savonarola, G., 80 Sbarbaro, C., XI-XIII, 23, 29-31, 62, 67-68, 156, 160-161, 169-171, 174n. Sceab, M., 65 Scheiwiller, V., 31n., 41n. Sereni, V., 166n. Serres, M., 60n. Simone, S., 54n.
Solmi, S., 47n., 50n., 121n. Somigli, L., 92n. Stara, A., 37n. Starobinski, J., 79 e n. Svevo, I., 30, 61n., 83n. Taffon, G., 171n. Tamburri, A.J., 151n. Targhetta, F., 4n., 6n., 49n., 80n., 120n., 147n. Tellini, G., 59n., 61n., 92n., 94n., 97n., 99n., 104n., 151n. Testa, E., 35n., 171-172 Tozzi, F., 30 Trunz, E., 27n. Turchetta, G., 34n. Ungaretti, G., XI-XIII, 23, 27 e n., 3334, 62, 65-67, 76, 81, 129, 138142, 169, 174-176 Verdenelli, M., 27-28, 33n., 82n., 107-108, 128n., 165n. Vieusseux, G.P., 63n. Vincenzi, G., 165n. Virgilio Marone, Publio, 75n. Wilde, O., 107-109, 126 Wölfler, C., 134-136 Zaccaria, G., 11n., 158n. Zampa, G., 12n., 28n., 36n. Zava, A., 26n. Zingone, A., 17n., 25n., 52n., 54n., 66n., 150n. Zoboli, P., 29n.
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Letterature
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Collana diretta da M. Palumbo e A. Saccone, fondata da G. Mazzacurati
B. Anglani, Goldoni. Il mercato, la scena, l’utopia A. Mazzarella, Il piacere e la morte. Sul primo D’Annunzio P. Voza, Coscienza e crisi: il Novecento italiano tra le due guerre A. Gareffi, La Filosofia del Manierismo A.C. Bova, La letteratura dentro di sé N. Merola, La letteratura come artificio e altri saggi di letteratura contemporanea R. Esposito, Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano 8. A. Gagliardi, La scrittura e i fantasmi. Radici de «La Coscienza di Zeno» 9. V. Masiello, Il Mito e la Storia. Saggi su Foscolo e Verga 10. S. Battaglia, Mitografia del personaggio 11. A. Palermo, Letteratura e Contemporaneità 12. M.A. Rigoni, Saggi sul pensiero leopardiano 13. N. Machiavelli, La vita di Castruccio Castracani, edizione critica a cura di R. Brakkee, con un saggio introduttivo di P. Trovato 14. L. Lugnani, L’infanzia felice e altri saggi su Pirandello 15. J. Culler, P. de Man, N. Rand, Allegorie della critica, a cura di M.A. Mancini e F. Bagatti 16. A. Saccone, L’occhio narrante. Tre studi sul primo Palazzeschi 17. P. Larivaille, Poesia e ideologia. Letture della «Gerusalemme Liberata» 18. E. Saccone, Conclusioni anticipate su alcuni racconti e romanzi del Novecento. Svevo, Palazzeschi, Tozzi, Gadda, Fenoglio 19. M. Baratto, Da Ruzante a Pirandello. Scritti sul teatro 20. L. Bolzan, L’alchimia del terrore. La Rivoluzione francese e il romanzo 21. M. Muscariello, Le passioni della scrittura. Studio sul primo Verga 22. G. Maffei, Ippolito Nievo e il romanzo di transizione 23. G. Scianatico, L’ultimo Verri. Dall’Antico Regime alla Rivoluzione 24. D.S. Di Simplicio, La nascita di un poeta. Boris Pasternak 25. M. Orcel, Il suono dell’Infinito. Saggi sulla politica del primo Romanticismo italiano da Alfieri a Leopardi 26. A.C. Bova, Illaudabil maraviglia. La contraddizione della natura in Giacomo Leopardi 27. S. Battaglia, Capitoli per una storia della novellistica italiana 28. R. Scrivano, Il modello e l’esecuzione. Studi rinascimentali e manieristici 29. M. Palumbo, Saggi sulla prosa di Ugo Foscolo 30. F. Pappalardo (a cura di), Scritture di sé. Autobiografismi e autobiografie 31. A. Palermo, Il vero, il reale e l’ideale. Indagini napoletane fra Otto e Novecento 32. S. Jossa, La fantasia e la memoria. Intertestualità ariostesche 33. A. Saccone, Carlo Dossi. La scrittura del margine 34. F.P. Botti, Gadda o la filologia dell’apocalisse 35. G. Patrizi, Prose contro il romanzo. Antiromanzi e metanarrativa nel Novecento italiano 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
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36. 37. 38. 39.
40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47.
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48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58.
59. 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74.
K.W. Hempfer, Testi e contesti. Saggi post-ermeneutici sul Cinquecento L. Lugnani, Ella giammai m’amò. Invenzione e tradizione di Don Carlos M. Santagata, Il tramonto della luna e altri studi su Foscolo e Leopardi R. Luperini, Controtempo. Critica e letteratura fra moderno e postmoderno: proposte, polemiche e bilanci di fine secolo A. Palermo, Ottocento italiano. L’idea civile della letteratura A. Saccone, «La trincea avanzata» e «la città dei conquistatori». Futurismo e modernità C.A. Madrignani, All’origine del romanzo in Italia. Il «celebre Abate Chiari» E. Saccone, Allegoria e sospetto. Come leggere Tozzi R. Bragantini, Vie del racconto. Dal «Decameron» al «Brancaleone» Z.G. Baranski, Dante e i segni. Saggi per una storia intellettuale di Dante Alighieri G. Guglielmi, L’invenzione della letteratura. Modernismo e avanguardia M. Schillirò, Narciso in Sicilia. Lo spazio autobiografico nell’opera di Vitaliano Brancati M. Riccucci, Il neghittoso e il fier connubbio. Storia e filologia nell’Arcadia di Jacopo Sannazaro M. Muscariello, Gli inganni della scienza. Percorsi verghiani F. Curi, La poesia italiana d’avanguardia. Modi e tecniche. Con un’appendice di documenti e di testi editi e inediti P. Boyde, ‘Lo color del core’. Visione, passione e ragione in Dante A. Mauriello, Dalla novella “spicciolata” al “romanzo”. I percorsi della novellistica fiorentina nel secolo XVI V. Russo, Il Romanzo teologico. Seconda serie A. Di Grado, La lotta con l’Angelo. Gli scrittori e le fedi P.V. Mengaldo, Studi su Salvatore Di Giacomo A. Matucci, Tempo e romanzo nell’Ottocento. Manzoni e Nievo E. Ghidetti, Il poeta, la morte e la fanciulla, e altri capitoli leopardiani E. Zinato, Il vero in maschera: dialogismi galileiani. Idee e forme nelle prose scientifiche del Seicento E. Scarano, La voce dello storico. A proposito di un genere letterario G. Bertoncini, “Una bella invenzione”: Giuseppe Montani e il romanzo storico A.R. Pupino, Notizie del Reame. Accetto, Capuana, Serao, d’Annunzio, Croce, Pirandello G. Baldi, Eroi intellettuali e classi popolari nella letteratura italiana del Novecento I. Pitti, Istoria fiorentina, a cura di A. Mauriello A. Gargano, Con accordato canto. Studi sulla poesia tra Italia e Spagna nei secoli XV-XVII R. Luperini, L’autocoscienza del moderno G. Mazzacurati, Il fantasma di Yorick. Laurence Sterne e il romanzo sentimentale A. Quondam, Tre inglesi, l’Italia, il Rinascimento. Sondaggi sulla tradizione di un rapporto culturale e affettivo S. Acocella, Controluce. Effetti dell’illuminazione artificiale in Pirandello P. De Ventura, Dramma e dialogo nella “Commedia di Dante”. Il linguaggio della mimesi per un resoconto dell’aldilà F. Ferrucci, Dante. Lo stupore e l’ordine M.A. Grignani, Novecento plurale. Scrittori e lingua P.M. Forni, Parole come fatti. La metafora realizzata e altre glosse al Decameron A. Saccone, «Qui vive/sepolto/un poeta». Pirandello Palazzeschi Ungaretti Marinetti e altri T. Accetto, Rime, a cura di A. Mauriello e R. D’Agostino
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75. P. Guaragnella, Teatri di comportamento. La «regola» e il «difforme» da Torquato Tasso a Paolo Sarpi 76. F.P. Botti, Alle origini della modernità. Studi su Petrarca e Boccaccio 77. E. Saccone, Ritorni. La seconda lettura 78. A. Carbone, «L’indomabile furore». Sondaggi su Domenico Rea 79. P. Puppa, Racconti del palcoscenico: dal Rinascimento a Gadda 80. A. Gargano (a cura di), “Però convien ch’io canti per disdegno”. La satira in versi tra Italia e Spagna dal Medioevo al Seicento 81. G. Lo Castro, La verità difficile. Indagini su Verga 82. V. di Martino, Sull’acqua.Viaggi diluvi palombari sirene e altro nella poesia italiana del primo Novecento 83. R. Girardi, Raccontare l’Altro. L’Oriente islamico nella novella italiana da Boccaccio a Bandello 84. R. Luperini, Montale e l’allegoria moderna 85. A. Saccone, «Tutto è degno di riso». Declinazioni del tragico nella letteratura italiana tra Ottocento e Novecento 86. S. Acocella, Effetto Nordau. Figure della degenerazione nella letteratura italiana tra Otto e Novecento 87. Sul modernismo italiano, a cura di R. Luperini e M. Tortora 88. A. Izzo, Telos. Il finale nel romanzo dell’Ottocento 89. E. Neppi, Il dialogo dei tre massimi sistemi. Le Ultime lettere di Jacopo Ortis fra il Werther e la Nuova Eloisa 90. I. Pupo, Crimini familiari e scena teatrale. Ibsen, Pirandello, De Filippo 91. M. S. Assante, L’analfabeta musicale. Eugenio Montale da Accordi a Prime alla Scala 92. V. di Martino, Sul fuoco. Camini, focolari, incendi, streghe e altro nella poesia italiana del primo Novecento
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