Studi per la fenomenologia della memoria

Fenomenologia della memoria. Phenomenology of memory

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Indice
Introduzione
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Studi per la fenomenologia della memoria

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Cultura Scienza e Società Sezione di studi filosofici diretta da Raffaele Bruno

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Martino Feyles

Studi per la fenomenologia della memoria

Cultura Scienza e Società FrancoAngeli

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli Studi di Cassino.

Copyright © 2012 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy. L’opera, comprese tutte le sue parti, è tutelata dalla legge sul diritto d’autore. L’Utente nel momento in cui effettua il download dell’opera accetta tutte le condizioni della licenza d’uso dell’opera previste e comunicate sul sito www.francoangeli.it.

Indice

Introduzione

pag. 117

1. Tra memoria e percezione: la ritenzione 1. Che cos’è la ritenzione? 2. Ritenzione e percezione: la presenza dell’appena passato nella percezione 3. Difficoltà terminologiche e descrittive 4. Ritenzione, sensazione e percezione 5. La ritenzione come intenzionalità speciale. Ritenzione e coscienza di immagine 6. Caratteristiche essenziali della ritenzione 7. La passività della ritenzione. La ritenzione nella rimemorazione 8. Ritenzione fresca e ritenzione vuota 9. Dalla ritenzione alla rimemorazione. Ritenzione e “immagine” memorativa 10. Una difficoltà di fondo: che cos’è che viene ritenuto? 11. Ritenzione e riconoscimento 12. L’interpretazione della nozione di ritenzione 2. L’“immagine” del passato: la rimemorazione 1. La rimemorazione come presentificazione intuitiva 2. Presentificazione, rimemorazione, fantasia. La modalità di credenza nella rimemorazione e nella fantasia 3. La rimemorazione come prototipo della presentificazione intuitiva 4. Comparazione con le altre forme di presentificazione: l’aspettazione come “ricordo del futuro” 5. Ulteriori comparazioni: la co-presentazione come ricordo del presente 6. La libertà della rimemorazione e la sua struttura pre-narrativa 7. Il problema dell’immagine memorativa 8. L’aporia dell’immagine interna 9. Fantasia e immaginazione 10. La differenza tra fantasia e rimemorazione. Impossibilità della tesi empirista 11. La coscienza di realtà e il problema della referenza del ricordo

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12. La posizione temporale del ricordo. L’inserzione del ricordo nella trama della memoria 13. Mondo immaginario e mondo passato. L’apertura intersoggettiva della rimemorazione 14. La fallibilità della memoria: l’oblio e il falso ricordo 15. La trascendenza dell’evento rimemorato. La fantasia come assemblaggio mnestico 16. L’origine della rimemorazione. Il ricordo involontario 17. La rimemorazione come ricostruzione. Il ricordo volontario 3. Memoria individuale e memoria collettiva. Il problema del soggetto nel ricordo 1. Tra fenomenologia e scienze sociali: una difficile mediazione 2. L’io nelle presentificazioni. Il problema del soggetto del ricordo 3. Riferimento soggettivo e posizione temporale del ricordo 4. Esistono ricordi impersonali? 5. Memoria semantica e ricordo episodico 6. La componente semantica del ricordo episodico 7. La memoria collettiva: una nozione ambigua 8. Ulteriori considerazioni sull’intreccio tra ricordo, immaginazione e sapere-che 9. Un fenomeno impossibile: il ricordo collettivo 10. I condizionamenti sociali del ricordo 11. La memoria e gli schemi sociali 12. Dal ricordo allo schema. La sovrapposizione delle immagini memorative 13. Schemi e tipi percettivi in rapporto alla memoria collettiva 4. Memoria e linguaggio. La rievocazione 1. Il linguaggio e i quadri sociali della memoria 2. Una peculiarità della memoria sonora. La memoria e il linguaggio 3. Ricordare, riconoscere, riprodurre 4. L’invenzione della memoria: il racconto 5. La memoria: immagine o racconto? 6. Reminiscing: ricordare-con 7. Perché raccontiamo il passato? 8. Il racconto dal punto di vista sociologico e dal punto di vista fenomenologico 9. La rievocazione: una forma autonoma di ricordo 10. La distinzione tra rimemorazione e rievocazione 11. Ritenzione e rievocazione 12. Rievocazione e memoria semantica. La temporalità della rievocazione 13. L’autenticità della rievocazione: il racconto proprio e il racconto altrui 14. La rievocazione come presentificazione non intuitiva 15. Caratteristiche essenziali della rievocazione Indice dei nomi

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Introduzione

“Memoria” è una di quelle parole che può significare tutto e il contrario di tutto. Un ricordo è un frammento di “memoria”. Un’autobiografia è un insieme coerente di “memorie”. Una statua antica conserva nella pietra la “memoria” di un volto del passato. Analogamente un monumento funebre mantiene viva la “memoria” dei caduti. Un Hard Disk è a tutti gli effetti una “memoria elettronica”. La “memoria genetica” di un organismo vivente è affidata al Dna. La “memoria procedurale” è responsabile della conservazione di un’abitudine motoria. La Biblioteca Nazionale salvaguarda la “memoria collettiva” del nostro paese. Una festa è una celebrazione “in memoria” di un avvenimento eccezionale. Una foto-ricordo può essere definita come una “memoria esteriorizzata”. Un’ossessione è un eccesso di “memoria”... Cos’è dunque la memoria? È possibile ricondurre ad unità, la varietà dei fenomeni che il linguaggio indica con la parola “memoria”? Un ricordo e un Hard Disk hanno davvero qualcosa in comune, come suggerisce il linguaggio? «La memoria è di ciò che è accaduto»1, diceva Aristotele; ha a che fare con il passato. Tra tutti i giudizi di senso comune questo è l’unico che davvero non può essere contestato, a meno che non si voglia svuotare la nozione di ogni significato proprio. Ciò non impedisce che la memoria possa avere un rapporto essenziale con il futuro o con il presente. Ma se la parola “memoria” deve mantenere un minimo di unità semantica – non dico che sia possibile darne una definizione, questo sarebbe troppo – è intorno al riferimento al passato che tale unità si costituisce. Certamente un Hard Disk ha davvero poco in comune con l’esperienza vissuta di un ricordo e forse ancora di meno con l’evento di una commemorazione pubblica. Tuttavia non è un caso se può essere nominato nello stesso modo e, senza dubbio, è 1

Aristotele, Della memoria e della reminiscenza, in Dell’anima, Piccoli trattati di storia naturale, tr. it. A. Russo e R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari, 2007, 449b 15.

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il riferimento al passato che rende legittima questa denominazione: una penna Usb conserva informazioni che provengono “dal passato”, un ricordo riproduce una percezione “del passato”, una festa rende onore a un avvenimento “del passato”, ecc. Se si “definisce” la memoria come la capacità di conservare il passato, o meglio, – per evitare l’imprudenza di un prematuro riferimento soggettivo – come ciò che permette di rapportarsi al passato, i fenomeni descritti nei quattro studi qui presentati meriteranno tutti con egual diritto l’appellativo di “memorie”. La ritenzione, la rimemorazione, la memoria collettiva e la rievocazione sono tutte forme di rapporto con il passato e implicano l’esperienza di un riferimento a ciò che “è stato”. Ma queste quattro modalità di rapporto al passato sono profondamente diverse tra loro e sono irriducibili l’una all’altra. Nella storia della filosofia, ma anche della storia della psicologia e delle scienze sociali, questa diversità essenziale è stata incredibilmente trascurata. Così Bergson ha potuto descrivere la percezione come se si trattasse di una forma di ricordo del presente; Halbwachs da parte sua ha attribuito le caratteristiche sociali della memoria collettiva alla rimemorazione; Janet ha creduto di poter ridurre la rimemorazione alla rievocazione. Il primo compito di uno studio fenomenologico della memoria sarà dunque di fare chiarezza circa le distinzioni tra le diverse forme di rapporto al passato, in modo da evitare le più gravi confusioni. La prima e la più fondamentale di queste distinzioni è quella tra la memoria in quanto archivio “interno”, sistema delle tracce mnestiche, e il ricordo in quanto atto cosciente. Ma, come si vedrà, per rendere giustizia della complessità dei fenomeni è necessario rintracciare, in un lavoro paziente, molte altre sottili differenze. In secondo luogo, una volta fissate le distinzioni essenziali tra i fenomeni, bisognerà affrontare un compito ancora più arduo: bisognerà cioè domandarsi quali rapporti intercorrano tra le diverse forme di memoria che l’analisi ha isolato. Che rapporto c’è tra ritenzione e rimemorazione? e tra rimemorazione e rievocazione? La memoria collettiva può forse condizionare il ricordo? Si vedrà allora che le distinzioni fissate dall’analisi fenomenologica non sono affatto contrapposizioni rigide e che, al contrario, implicano il riconoscimento dell’esperienza concreta come il luogo di un inestricabile intreccio dei diversi. Il problema della memoria può essere affrontato – e di fatto è stato affrontato – da un’infinità di angolazioni differenti. È lecito dunque non preoccuparsi più di tanto delle mancanze di un lavoro che non potrà mai pretendere di essere completo. Anche solo per elencare le diverse teorie sulla memoria che si sono susseguite nei secoli è necessaria un’enciclopedia. Tuttavia, in uno studio di impostazione fenomenologica, ci sono almeno tre 8

grandi questioni che andrebbero affrontate e che io, invece, ho consapevolmente tralasciato. Mi riferisco al problema dell’archivio così come è formulato da Derrida, al problema della memoria corporea così come è posto da Bergson e al problema freudiano della memoria inconscia. È evidente, infatti, che questi tre problemi non sono estranei alla fenomenologia. È lecito ed è essenziale domandarsi che rapporto ci sia tra la memoria corporea che si documenta in un’abitudine motoria e la rimemorazione descritta da Husserl. Allo stesso modo è chiaro che la ritenzione, nella misura in cui è qualcosa di simile ad una “registrazione” del vissuto, è una nozione che ha un ruolo essenziale in una filosofia dell’archivio. Per non parlare dell’indiscutibile rilevanza del tema dell’inconscio quando si tenta di descrivere qualsiasi genere di ricordo. Tuttavia, l’analisi della memoria corporea, della memoria inconscia e dell’archivio costringe ad abbandonare la sfera della coscienza e del vissuto e ad inoltrarsi in un territorio diverso, “esteriore” rispetto a quello in cui si muovono questi saggi. È per questo che, in uno studio dedicato alla fenomenologia della memoria, ho deciso di attenermi esclusivamente ai fenomeni che si presentano “all’interno” della sfera della coscienza, rimandando ad un altro lavoro – che spero di pubblicare al più presto2 – la discussione delle altre forme di memoria che sono altrettanto essenziali e altrettanto costitutive dell’esperienza umana. Questa decisione ha come conseguenza il taglio esplicitamente husserliano degli studi che seguono. Husserl è il punto di riferimento dei saggi che sono contenuti in questo volume, in particolare dei primi due. A questo proposito è però necessario un chiarimento. L’intento di questo lavoro non è storico-filosofico. Non intendo dare un contributo al dibattito intorno al pensiero di Husserl, né ricostruire un momento o un tema della filosofia husserliana, quanto piuttosto utilizzare il suo eccezionale lavoro per comprendere un problema filosofico particolare. Questa intenzione, più teoretica che storico-filosofica, mi autorizzerà ad una certa libertà nell’utilizzo dell’immenso corpus dei testi husserliani. Mi capiterà di accostare, senza troppo riguardo per le date, testi che appartengono a fasi diverse dell’evoluzione del pensiero husserliano. Ove necessario, cioè ogni volta 2

I quattro saggi che presento in questo volume sono il risultato della rielaborazione della prima parte della mia tesi di dottorato, la cui seconda parte era dedicata al problema dell’archivio e faceva riferimento in particolare a J. Derrida. Su questo tema ho pubblicato un articolo sulla rivista online “Il giornale di filosofia”, a cui rimando per integrare il punto di vista husserliano di questi studi (cfr. M. Feyles, Ricordare e archiviare. La de-costruzione tecnica della memoria, “Il giornale di filosofia”, testo disponibile al sito: http://www.giornaledifilosofia.net). Ho scelto, per la ragioni che ho detto, di separare il saggio sull’archivio dai quattro saggi presentati in questa sede, ma è evidente che le considerazioni svolte nel terzo e nel quarto saggio sulla memoria collettiva e sul linguaggio possono essere considerate come i preliminari essenziali per l’impostazione del problema dell’archivio.

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che l’elaborazione di un problema specifico lo richiederà, mi prenderò la libertà di infrangere (non eccessivamente) il rigore filologico. Va detto poi che il terzo e il quarto saggio si addentrano in questioni che in Husserl non sono nemmeno nominate. Benché io abbia cercato di sviluppare idee che, più o meno implicitamente, sono già formulate nei suoi testi; benché io abbia tentato di “tradurre” nel linguaggio husserliano i concetti estranei alla fenomenologia, è evidente che il problema della memoria collettiva e il problema della rievocazione sono lontani dal pensiero husserliano inteso in senso letterale. È necessaria una precisazione anche a proposito del metodo fenomenologico utilizzato in questi studi. La fenomenologia è una scienza descrittiva. Il suo obbiettivo è di fornire una descrizione rigorosa dell’esperienza così come si dà nell’intuizione, in “un puro guardare”, direbbe Husserl. Affinché una descrizione del genere sia possibile, il ricorso agli esempi è inevitabile. Tali esempi hanno valore nella misura in cui sono assunti come casi assolutamente generali e generalizzabili, aperti ad ogni possibile “variazione immaginativa”. Infatti, proprio questa possibilità illimitata di variazione rende plausibile la pretesa di universalità, e dunque di rigore, dell’analisi descrittiva. Ciononostante gli esempi qui proposti rimangono del tutto empirici e la loro selezione può apparire piuttosto arbitraria. Da questo punto di vista voglio scusarmi qui una volta per tutte, per aver fatto ricorso il più delle volte ad episodi autobiografici. Sarebbe stato possibile inventare esemplificazioni adeguate per ogni analisi, ma è stato decisamente meno faticoso partire dall’esperienza reale che non dalle pure possibilità. Le domande cui tento di rispondere in questi studi hanno un interesse puramente teoretico. E tuttavia, come ha sottolineato Ricoeur, i problemi della fenomenologia della memoria hanno delle implicazioni che oltrepassano di gran lunga l’indagine puramente conoscitiva e hanno ripercussioni epistemologiche, politiche e perfino giuridiche. In particolare all’origine di questi studi c’è una duplice preoccupazione. I primi due saggi sono attraversati da una sorta di inquietudine epistemologica: che ne è della realtà del passato? L’inquietudine nasce dalla più semplice delle constatazioni: il passato non è più e in questo senso la memoria ha a che fare con un’assenza, esattamente come l’immaginazione. Ne deriva un compito arduo: quello di distinguere la non-realtà propria del passato dalla non-realtà propria dell’immaginario. Evidentemente la possibilità o meno di una tale distinzione ha delle serissime ripercussioni sui fondamenti epistemologici di una scienza come la storia. Ricoeur lo ha mostrato chiaramente: la domanda “come è possibile accertare che un evento è realmente accaduto?”, costringe a mettere in questione il rapporto tra storia e memoria e la pretesa dell’una e dell’altra di attestare la verità di ciò che è stato. Per la stessa ra10

gione anche dal punto di vista giuridico le analisi della fenomenologia della memoria hanno delle conseguenze eclatanti. Una testimonianza, infatti, di qualsiasi testimonianza si tratti, attinge sempre ed inevitabilmente il suo contenuto dalle risorse della memoria. Perciò senza la possibilità di una distinzione tra fantasia e rimemorazione l’idea stessa di testimonianza sarebbe un non senso3. Da questo punto di vista la sconvolgente storia dello scrittore Binjamin Wilkomirski, raccontata da Daniel Schachter, è emblematica4. Wilkomirski è l’autore del libro Fragments: Memories of a Wartime Childhood5 e diventa una celebrità raccontando la sua infanzia di bambino ebreo perseguitato dai nazisti. Riceve numerosi premi letterari (“National Jewish Book Award” negli Stati Uniti, “Prix Memoire de la Shoah” in Francia, “Jewish Quarterly literary prize” nel Regno Unito) e viene invitato in tutto il mondo a parlare dell’Olocausto. La sua testimonianza commuove e sconvolge. Ma nell’agosto del 1998 un giornalista svizzero, Daniel Ganzfried, pubblica un articolo sul settimanale svizzero “Weltwoche” che contiene delle rivelazioni incredibili: Wilkomirski non è ebreo, il suo vero nome è Bruno Doessekker e non ha mai messo piede in un campo di concentramento, se non come turista. Le accuse si rivelano fondate e il presunto Binjamin Wilkomirski si rivela essere affetto da gravi disturbi di identità. Di fronte ad un caso del genere, come di fronte ai molti altri casi simili, se non più gravi, – si pensi alle accuse di abusi sessuali che negli Stati Uniti hanno coinvolto persone del tutto innocenti, a partire da ricordi completamente inattendibili6 –, si capisce quanto sia drammatica la domanda circa la capacità della memoria di attestare il vero. Nonostante le molteplici testimonianze circa gli inganni, le suggestioni, le distorsioni cui va continuamente soggetta la memoria, non si può non avvertire un’esigenza morale che non ammette repliche: ci deve essere un modo per attestare la verità di ciò che è stato7. 3

Ho sviluppato questo tema in M. Feyles, La memoria: un testimone inattendibile?, “L’Ircocervo”, testo disponibile al sito: http://www.lircocervo.it. 4 Cfr. D.L. Schacter, The Seven Sins of Memory: how the Mind Forgets and Remembers, Houghton Mifflin, Boston, 2001, tr. it. I sette peccati della memoria, Mondadori, Milano, 2002, “Introduzione”. 5 Il libro pubblicato nel 1995 in inglese e in tedesco, è stato pubblicato anche in italiano (B. Wilkomirski, Frantumi: un’infanzia, 1939-1948, Mondadori, Milano, 1996). 6 Su questo si veda E. Loftus, K. Ketcham, The Myth of Repressed Memory, St. Martin’s Griffin, New York, 1994. 7 Ricoeur è certamente il filosofo che più si è soffermato su questo aspetto del problema della memoria. Ma come si vedrà anche le analisi husserliane prendono le mosse da un’inquietudine epistemologica. Un’inquietudine che non ha di mira, come in Ricoeur, una interrogazione circa la legittimità dell’indagine storica, ma che si pone radicalmente il problema di come sia possibile conoscere ciò che non è più presente.

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La seconda preoccupazione è legata ai temi sviluppati della seconda parte di questo libro e in particolare nel terzo saggio. Il problema della memoria collettiva è senza dubbio uno dei problemi politici più rilevanti del nostro tempo. È un problema che si configura in modo duplice: da una parte c’è il pericolo della manipolazione della memoria, dall’altra la constatazione di un impoverimento dell’esperienza, per dirla con un’espressione benjaminiana. Mai come nel secolo che si è appena concluso – il secolo dei totalitarismi – la questione della manipolazione della memoria è apparsa così tragicamente urgente: non è un caso se i primi testi dedicati al problema della memoria collettiva risalgono al secondo dopoguerra8. Nello stesso tempo mai come nel secolo che sta iniziando la memoria collettiva, l’esperienza che ci accomuna, è apparsa così asfittica. Ora, benché io condivida e abbia sempre condiviso tutte le preoccupazioni formulate a questo proposito dagli storici, dai sociologi e dai filosofi, il concetto di memoria collettiva mi è sempre apparso nebuloso. La genericità e la confusione che si riscontrano a proposito di questa nozione così importante, screditano in partenza ogni discussione sull’argomento. Per questo la posizione di Halbwachs (e di una certa sociologia) sarà oggetto nel terzo saggio di una severa critica. Ma questa critica non deve essere fraintesa. Il mio scopo non è affatto quello di difendere una concezione ristretta della memoria come facoltà di un soggetto chiuso su se stesso e impermeabile alle influenze del mondo esterno. Al contrario, si tratta di fondare una nozione che altrimenti rimane inconsistente e inutilizzabile. Il primo saggio è costruito in modo piuttosto lineare. Si tratta di un commento sistematico dei paragrafi di Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo e delle Lezioni sulla sintesi passiva dedicati al problema della ritenzione. Al commento dei testi husserliani si aggiungono le analisi di alcuni esempi che a mio avviso sono estremamente significativi per tentare di comprendere meglio ciò che Husserl ha inteso dire e anche ciò che nei suoi testi rimane oscuro. La questione intorno a cui ruotano tali analisi è quella del rapporto tra memoria e percezione: che rapporto c’è tra memoria e percezione? Sarebbe possibile percepire senza l’intervento della memoria? La tesi che intendo sostenere è che l’esistenza di una forma particolare di memoria che interviene nella costituzione della presenza percettiva sia un’evidenza fenomenologica indubitabile. Ma ciò che è essenziale è che questa forma particolare di memoria – che tanto la scienza quanto la filosofia hanno per lo più ignorato e che Husserl chiama “ritenzione” – deve essere distinta dal ricordo vero e proprio. Cercherò quindi di seguire le 8

Cfr. T. Todorov, Les abus de la mémoire, Les Editions Arléa, Paris, 1995, tr. it. Gli abusi della memoria, Ipermedium, Napoli & Los Angeles, 1996, pp. 29-32.

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acutissime analisi husserliane per delineare le caratteristiche essenziali di questo fenomeno. Si vedrà però quante difficoltà implichi ogni tentativo di descrizione: bisogna ammettere che la ritenzione rimane un fenomeno per molti versi misterioso. Nonostante non si possa dubitare della sua esistenza, e nonostante la profondità delle analisi husserliane, le domande che rimangono aperte sono molte. Infatti, posto che la memoria percettiva sia da intendersi come una ritenzione, che cos’è esattamente che viene ritenuto? Che cos’è che permane nella ritenzione? Che caratteristiche ha la permanenza ritenzionale? Il secondo saggio è dedicato alla rimemorazione, di cui fin dall’inizio è precisata la caratteristica essenziale: come suggerisce il titolo, si tratta di una forma di memoria descrivibile come un’immagine del passato. Posta questa definizione iniziale sono posti anche tutti i problemi di fondo cui è dedicato il saggio. Da un parte bisogna comprendere la misteriosa natura di immagine propria della rimemorazione e dall’altra il suo peculiare riferimento al passato. L’immagine del passato è davvero una immagine? che genere di immagine? e come può riferirsi al passato? Queste domande si trascinano dietro inevitabilmente la problematica più generale dell’immaginazione. Se l’oggetto del primo saggio è il rapporto tra memoria e percezione, l’oggetto del secondo è il rapporto tra memoria e immaginazione. Il testo di riferimento qui – oltre alle già citate lezioni di Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo e alle Lezioni sulla sintesi passiva – è il corso sulla fantasia del 1904/5 contenuto nel volume XXIII della Husserliana, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung. La tesi centrale del saggio – una tesi per molti aspetti radicale – può essere formulata in modo semplice: la rimemorazione dal punto di vista fenomenologico è a tutti gli effetti una forma di fantasia, ma questo non pregiudica la possibilità di conoscere il passato. Tenterò di evidenziare tutti gli elementi essenziali di comunanza tra l’esperienza del ricordo e l’esperienza della finzione. Ma nello stesso tempo tenterò di tracciare una linea chiara di distinzione, in modo che rimanga aperta la possibilità della confusione tra rimemorazione e fantasia, ma anche la possibilità di una verifica di ciò che è “realmente” accaduto. Il primo e il secondo saggio sono legati profondamente tra loro, esattamente come il terzo e il quarto. La ritenzione gioca un ruolo essenziale negli atti rimemorativi ed è per questo che le analisi del secondo saggio rimandano continuamente alle analisi del primo. Altrettanto stretto è il legame che unisce memoria collettiva e linguaggio e per questa ragione le analisi del quarto saggio appaiono come una sorta di prosecuzione delle analisi del terzo. Il terzo saggio segue il cammino tracciato da Ricoeur in La memoria, la storia e l’oblio. Il problema della memoria collettiva è un problema che è 13

stato affrontato fino ad ora solo ed esclusivamente da studi storicosociologici. A prima vista può sembrare strano in un lavoro di fenomenologia occuparsi di un tema del genere. In effetti il tentativo di Ricoeur di mediare tra la posizione di Husserl e la posizione di Halbwachs è anche, nello stesso tempo, il tentativo di mediare tra fenomenologia e scienze sociali. Per la fenomenologia il ricordo è un fenomeno interno, per le scienze sociali – storia, sociologia, psicologia sociale – il ricordo è un fenomeno intersoggettivo. Ricoeur ha ragione nel tentare di gettare un ponte tra queste due posizioni e l’idea ardita di un confronto tra Halbwachs e Husserl è uno dei motivi di merito di un’opera straordinaria come La memoria, la storia, l’oblio. Se lo scambio tra questi due paradigmi concettuali non avviene, la nozione sociologica di memoria collettiva rimane priva di fondamento fenomenologico – e dunque in ultima analisi arbitraria e vaga – e, d’altra parte, la teoria fenomenologica della memoria rischia di rinchiudersi in una posizione idealistica, che ha come esito una sopravvalutazione del ruolo delle componenti intuitive dell’intuizione, una sorta di idolatria della percezione. Tuttavia il tentativo portato avanti da Ricoeur è per molti aspetti insufficiente. Senza criticare fino in fondo le ambiguità della posizione di Halbwachs, e senza riconoscere dall’interno della fenomenologia stessa la necessità di ampliare la teoria husserliana del ricordo, Ricoeur tenta un compromesso che lascia le argomentazioni di entrambe le parti sostanzialmente intatte e le richiama ad accogliere la posizione altrui in nome del riconoscimento della possibilità di punti di vista diversi. Io sono convinto che sia possibile una posizione più radicale, che, passando per una critica severa delle tesi più unilaterali di Husserl e Halbwachs, renda possibile un dialogo tra le due istanze più profondo. Tenterò dunque di mostrare come il problema del soggetto sia fondamentale nella teoria fenomenologica della rimemorazione, non solo perché la descrizione dei rapporti tra l’io che ricorda e l’io che ha percepito è uno dei contributi più interessanti del lavoro di Husserl, ma, ancora di più, perché è proprio il riferimento egologico ciò che contraddistingue in modo essenziale la rimemorazione, distinguendola da una parte dalla mera fantasia e dall’altra dalle altre forme di rapporto al passato. Questo problema mi condurrà, al di là di Husserl ma ancora all’interno della fenomenologia, ad un’interrogazione nuova: sono possibili ricordi che non implicano alcun riferimento soggettivo? dei ricordi “impersonali”? Per rispondere a questa domanda e per comprendere la differenza tra i ricordi veri e propri e le esperienze di memoria impersonale, farò riferimento ad alcune acquisizioni della psicologica sperimentale, o meglio alla fenomenologia implicita che alcune teorie scientifiche presuppongono e autorizzano. A questo punto, avendo portato la fenomenologia husserliana fino ai suoi estremi confini, 14

prenderò in considerazione le idee fondamentali di La mémoire collective. La critica fenomenologica della posizione di Halbwachs farà emergere l’ambiguità della sua nozione di memoria collettiva. Apparirà la necessità di ripensarla completamente. Attraverso un’interpretazione fenomenologica della nozione di memoria semantica proposta da Endel Tulving e attraverso un’analisi del rapporto tra ricordo e schema ispirata dal lavoro di Frederic Bartlett, sarà possibile riformulare il problema della memoria collettiva dal punto di vista fenomenologico. Il quarto saggio prende le mosse dalla domanda circa il rapporto tra memoria e linguaggio, ma questa domanda si rivela duplice. Da una parte bisogna chiedersi: il linguaggio può essere considerato come una forma di memoria? La risposta a questa domanda si ricollega in modo esplicito al problema della memoria collettiva trattato nel terzo saggio. Ma al di là del legame che unisce memoria collettiva e linguaggio, c’è un’altra questione che deve essere affrontata in uno studio fenomenologico: è possibile ricordare il passato grazie alla mediazione di proposizioni linguistiche? O, in altre parole: il racconto può essere considerato come una forma di ricordo? La discussione di questo difficile problema si inserisce all’interno della contrapposizione tra due modi radicalmente diversi di concepire gli atti attraverso cui il soggetto si rapporta al proprio passato. Infatti, se da una parte il ricordo appare come un’immagine del passato, dall’altra esso il più delle volte si presenta nella forma esteriore di un racconto. Da qui la possibilità di due paradigmi teorici molto differenti di cui Husserl e Janet sono in un certo senso i paladini. Anche in questo caso, come nel terzo saggio, ho tentato una mediazione (ma non un compromesso) tra queste due posizioni, cercando di dare un fondamento fenomenologico all’idea di un ricordoracconto. La nozione di rievocazione che discuto e analizzo nella seconda parte del saggio risponde a questa esigenza. Sono ben consapevole che si tratta di una nozione problematica. L’identificazione di ricordo e racconto non è certamente una novità. Ma l’analisi fenomenologica del rapporto tra ricordo e racconto che propongo qui è un tentativo inedito e per questa ragione arrischiato. A questo proposito mi permetto un’osservazione generale, che non vale solo per il quarto saggio, ma anche per gli altri tre. Non è per prudenza, né per falsa modestia, che ho scelto di intitolare questo lavoro “Studi per la fenomenologia della memoria”. Si tratta in effetti di analisi per molti versi incomplete, i cui risultati mi appaiono spesso soltanto ipotetici. Anche per questa ragione ho rinunciato a chiudere il libro con delle vere e proprie conclusioni, che avrebbero avuto inevitabilmente un carattere definitivo che giudico prematuro. Da ultimo bisogna chiarire la posizione di questi studi nei confronti del15

le scienze sperimentali che indagano la memoria. Il metodo fenomenologico proposto da Husserl richiede, come è noto, una rigorosa riduzione: è necessario analizzare i fenomeni al di là di ogni presupposizione e prescindendo da ogni sapere scientifico o pratico. Tuttavia io credo che la riduzione non debba impedire ogni dialogo con le scienze. Per questa ragione, mentre i primi due saggi sono integralmente costruiti a partire dal confronto con i testi husserliani, nel terzo e nel quarto vi è un sistematico riferimento ad autori che non sono di formazione fenomenologica e che non sono nemmeno filosofi: Halbwachs è un sociologo, Bartlett è uno psicologo, Janet è uno psicologo e un neurologo, Tulving è un neuroscienziato. Ho già accennato sopra alla necessità di uno scambio reciproco tra fenomenologia e scienze sociali. Vorrei ora precisare la posizione della fenomenologia della memoria rispetto alla psicologia sperimentale e alle neuroscienze. Credo che Paul Ricoeur abbia chiarito nel modo migliore i limiti e le condizioni di un dialogo che a mio avviso è necessario9. Tra lo scienziato che studia i meccanismi cerebrali alla base del funzionamento della memoria e il fenomenologo che tenta di descrivere l’esperienza della memoria non c’è, né ci può essere, alcun conflitto. L’oggetto e il metodo dello studio sono diversi. Lo scienziato ha a che fare con realtà obbiettive e trascendenti, il fenomenologo con fenomeni soggettivi (ma non per questo arbitrari) e immanenti: «l’orientamento generale è quello di uno scarto epistemologico fra il discorso neuronale e il discorso sullo psichico. Tale scarto sarà protetto contro qualsiasi estrapolazione spiritualista o qualsiasi riduzionismo materialista [...]»10. Occorre evitare la tentazione materialista di ridurre la coscienza ad un mero epifenomeno, una sorta di irrilevante “fosforescenza” che si produce in concomitanza dei fenomeni reali, degli accadimenti obbiettivamente constatabili. L’esperienza concreta del ricordo non sarà mai interamente riconducibile ad una modificazione neuronale. Ma è necessario anche evitare una esasperata “psicologizzazione” della coscienza. I vissuti della coscienza non sono innanzitutto accessibili all’osservazione scientifico-sperimentale, perché non possono essere misurati se non sono obbiettivati e l’obbiettivazione è sempre un livellamento della loro specificità essenziale. L’eroico tentativo di Hermann Ebbinghaus 9

Lo stesso Husserl nella seconda sezione del terzo volume delle Idee (“Relazioni tra la fenomenologia e la psicologia”) ha chiarito in che termini il confronto con la psicologia sperimentale possa essere utile per il fenomenologo. Cfr. E. Husserl, Ideen zur einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Drittes Buch: “Die Phänomenologie und die Fundamente der Wissenschaften”, Martinus Nijhoff, Den Haag, 1971, tr. it., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. II, Libro terzo: “La fenomenologia e i fondamenti della scienze”, Einaudi, Torino, 2002, § 8, pp. 413-427. 10 P. Ricoeur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Éditions du Seuil, Paris, 2000, tr. it. La memoria, la storia, l’oblio, R. Cortina, Milano, 2003, p. 594.

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– che si può a buon diritto ritenere il fondatore della psicologia della memoria – è da questo punto di vista emblematico11. Per ottenere i dati quantitativi necessari per l’elaborazione della sua celebre curva dell’oblio è necessaria la più radicale riduzione della complessità dell’esperienza del ricordo che si possa concepire. Senza dubbio le osservazioni raccolte grazie a questa riduzione soddisfano i canoni dell’esattezza scientifica. Ma ci si può domandare – e questa domanda è stata posta anche all’interno della comunità scientifica (si pensi alla critica di Ulrich Neisser) – se le misurazioni relative alla ritenzione di un gruppo di sillabe senza senso possano davvero pretendere di spiegare l’esperienza del ricordo. Le scienze cognitive più recenti non hanno risolto questo problema di fondo. Alle metodologie pionieristiche di Ebbinghaus, che si applicava all’auto-esperimento con una tenacia impressionante, si sostituiscono oggi i prodigi delle tecniche di neuroimmagine. Ma il presupposto di fondo non cambia: l’esperienza fenomenologica non è considerata come una fonte di evidenze significative, mentre solo ciò che è accessibile all’osservazione misurante soddisfa le esigenze della obbiettività. Anche degli importanti risultati conseguiti con queste tecniche si può dunque sospettare. La localizzazione cerebrale, infatti, permette di tracciare una “geografia” delle zone corticali coinvolte nei processi mnestici sempre più precisa. Ma la possibilità che questa geografia possa chiarificare in qualche modo l’esperienza della memoria, presuppone una riduzione del ricordo ad una scrittura di informazioni univoche (sul modello dei processi di scrittura del computer) completamente inadeguata12. Certamente è possibile tralasciare l’esperienza concreta della memoria, accantonandola per via della sua resistenza all’osservazione scientifico-sperimentale e accontentarsi delle verità obbiettive (ma parziali) prodotte dagli esperimenti. Ma questo significa di fatto rinunciare all’oggetto di studio da cui si era preso le mosse. Significa non rispondere alla domande da cui tutto era cominciato. In realtà la psicologia della memoria e le scienze cognitive – che indagano i fenomeni psichici in modo assolutamente legittimo e ottengono risultati la cui importanza è fuori discussione – non possono fare a meno della fenomenologia della memoria. La descrizione fenomenologica costituisce 11

Cfr. H. Ebbinghaus, Über das Gedächtnis, E.J. Bonset, Amsterdam, 1966, tr. it. La memoria. Un contributo alla psicologia sperimentale, Zanichelli, Bologna, 1975. 12 A. Oliverio che, nel suo interessante libro dedicato alla memoria, ricostruisce in modo molto chiaro il dibattito tra olisti e riduzionisti, giunge ad una conclusione estremamente significativa: «In qualche misura, localizzare le funzioni mentali significa sottoporre il mondo della psiche allo stesso ordine e alla stessa logica cui fanno capo gli atomi e le molecole, le stelle e i pianeti» (A. Oliverio, Ricordi individuali, memorie collettive, Einaudi, Torino, 1994, p. 49). In altre parole: la localizzazione delle funzioni mentali presuppone quella naturalizzazione dello psichico che Husserl ha più volte criticato.

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il punto di partenza imprescindibile da cui lo scienziato deve prendere le mosse per la costruzione dei suoi apparati sperimentali e delle sue tecniche di osservazione, ma anche un terreno di verifica cui ritornare continuamente per saggiare la capacità esplicativa delle sue teorie13. Da questo punto di vista è «sorprendente che i lavori, direttamente dedicati alla memoria e alle sue distorsioni, dedichino molti sforzi a quella che Pierre Buser chiama una tassonomia della memoria, o piuttosto delle memorie: quante memorie, ci si chiede, dobbiamo contare? [...] Un confronto diretto con la fenomenologia della memoria [...] si impone a questo livello»14. O meglio: si dovrebbe imporre a questo livello. Infatti la diffidenza delle scienze cognitive nei confronti delle teorie filosofiche, sospettate di essere ideologiche e non rigorose, è totale. Così la classificazione delle varie forme di memoria e la descrizione delle loro proprietà essenziali viene operata il più delle volte a partire da dati sperimentali ricavati in condizioni di osservazione artificiose e lontane dalla “vita quotidiana” e di conseguenza ultimamente parziali. «Si è colpiti, a un tempo, dall’ampiezza e dalla precisione dell’informazione e da una certa ristrettezza, quanto al carattere astratto delle condizioni di sperimentazione in rapporto alle situazioni concrete della vita, inoltre in rapporto alle altre funzioni mentali e, infine, in rapporto all’impegno dell’organismo nella sua interezza»15. La critica della «naturalizzazione della sfera psichica»16 è dunque uno dei compiti essenziali della fenomenologia. «E tuttavia – nota giustamente Ricoeur – non rivendicherei per la fenomenologia della memoria un qualsiasi diritto all’ignoranza quanto alle neuroscienze»17. Il fenomenologo, reso accorto da una severa critica dei fraintendimenti riduzionisti e dei pregiudizi obbiettivisti, può trovare nella mole ingente di dati raccolti dalle scienze della memoria un tesoro di osservazioni fenomenologicamente interessan13 Oliverio ha tentato una sintesi dei diversi punti di vita del biologo, dello psicologo, dello storico, del sociologo sulla memoria. Il punto di partenza di questo tentativo è il riconoscimento che i fenomeni cui si riferiscono il biologo, lo psicologo, lo storico o il sociologo quando utilizzano la parola “memoria” siano molto diversi tra loro, ma che abbiano anche un rapporto reciproco. Oliverio è un neurobiologo, ma nel tentare un chiarimento di questo genere – di cui evidentemente si avverte la necessità anche all’interno del mondo scientifico – si muove dall’inizio alla fine in un terreno filosofico. È compito della fenomenologia della memoria determinare chiaramente quali e quante diverse forme di memoria si possano enumerare e in che modi possano essere studiate. 14 P. Ricoeur, La memoria, la storia e l’oblio, cit., p. 603. 15 Ivi, p. 605. 16 E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, Martinus Nijhoff, Den Haag, 1976, tr. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Net, Milano, 2002, p. 92. 17 P. Ricoeur, La memoria, la storia e l’oblio, cit., p. 602.

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tissime. A mio avviso così come lo scienziato ha la possibilità di avvantaggiarsi di un lavoro di osservazione dell’esperienza che ha una tradizione millenaria, allo stesso modo il fenomenologo ha il dovere di appropriarsi delle più recenti acquisizioni della scienza. O meglio: di ciò che c’è di fenomenologicamente rilevante in queste acquisizioni. Tutto ciò senza che venga meno la rigorosa separazione tra metodi ed oggetti di studio che rimangono irriducibilmente diversi, almeno per quel che riguarda il lavoro del neuroscienziato e quello del fenomenologo. Le neuroscienze studiano il cervello per comprendere la mente. Niente impedisce che le osservazioni scientifiche sul funzionamento dei meccanismi mentali abbiano un valore fenomenologico. Ma per lo sguardo fenomenologico il cervello non esiste e la mente può essere indagata solo come coscienza. I meccanismi cerebrali sono senza dubbio cause dei fenomeni della vita della coscienza. Ma la vita della coscienza non è interamente riducibile alle sue cause materiali: «il cervello non è causa se non sul piano della possibilità condizionale espressa dall’idea di causa sine qua non»18. In questo senso lo studio fenomenologico della memoria ha una sua autonomia nei confronti della scienza sperimentale, ma nello stesso tempo ha il suo rigore e la sua dignità “scientifica”. Desidero ringraziare in modo particolare Raffaele Bruno che mi ha seguito assiduamente durante i miei studi dottorali, sostenendomi, indirizzandomi e incoraggiandomi alla pubblicazione di questo libro. Vorrei ringraziare anche Francesco Saverio Trincia, Rocco Ronchi e Davide Tarizzo, da cui ho ricevuto osservazioni e critiche decisive per la rielaborazione finale del terzo e del quarto saggio, e Vincenzo Costa, con cui ho avuto occasione di discutere dei temi di questo lavoro e da cui ho ricevuto preziosi suggerimenti. Al mio maestro Pietro Montani dedico il libro. Infine un ringraziamento speciale va a mia moglie Sofia, cha ha la pazienza di sopportarmi quotidianamente.

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Ivi, p. 600.

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1. Tra memoria e percezione: la ritenzione

La “scoperta” della ritenzione è uno dei grandi contributi di Husserl alla fenomenologia della memoria. In realtà l’idea di ricordo primario non è una vera e propria invenzione husserliana: William James aveva già chiaramente individuato il “primary remembering” ed è possibile che Husserl sia stato influenzato dai Principi di psicologia. D’altra parte per trovare un riconoscimento esplicito del ruolo della memoria nella percezione non c’è bisogno di attendere fino a Bergson. Agostino, quando analizzava la percezione del verso “Deus creator omnium” nelle Confessioni1, si muoveva già in un territorio fenomenologico molto vicino a quello delle lezioni sulla coscienza interna del tempo. Bisogna dire, però, che prima di Husserl è difficile trovare una analisi sistematica così rigorosa e così profonda del rapporto tra percepire e ricordare. Solo al termine di un lavoro di osservazione fenomenologica minuzioso, Husserl giunge alla conclusione decisiva: «che tra il ricordo ripresentificante e il ricordo primario (come estensione della coscienza d’ora) sussista una fortissima differenza fenomenologica, è dimostrato da un attento confronto tra i due vissuti»2. Questa distinzione radicale è il punto di partenza di ogni analisi. La necessità di introdurre la nozione di ritenzione appare soltanto se si coglie la «fortissima differenza fenomenologica» che la separa dalla rimemorazione3. La ritenzione non è la

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Agostino, Confessionum libri XIII, tr. it. Confessioni, Rizzoli, Milano, 2000, p. 581. E. Husserl, E. Husserl, Zur Phänomenologie des Inneren Zeitbewusstseins: 1893-1917, Husserliana X, Martinus Nijhoff, Den Haag, 1966, tr. it. Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, FrancoAngeli, Milano, 2001, p. 78. 3 La distinzione tra ritenzione e rimemorazione non ha niente a che vedere con la distinzione tra memoria a breve termine e memoria a lungo termine così diffusa nella psicologia della memoria contemporanea, che ha piuttosto a che fare con la distinzione tra ricordo e archivio. 2

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rimemorazione. Il ricordo primario non è un vero e proprio ricordo4. Che cos’è dunque la ritenzione?

1. Che cos’è la ritenzione? Nelle lezioni sulla coscienza interna del tempo Husserl introduce la nozione di ritenzione (Retention) per rendere conto della costituzione degli oggetti temporali. Non è semplice definire esattamente che cosa sia un oggetto temporale. Accontentiamoci per ora di dire – in modo un po’ generico – che un oggetto temporale è un oggetto che si costituisce in una certa durata, è un oggetto la cui identità è legata alla durata. L’esempio di Husserl è tra più ricorrenti nella storia della filosofia: la percezione di una melodia. Senza dubbio una melodia non è più la stessa se ne modifichiamo la durata, per esempio alterandone il ritmo. Cosa accade dunque quando percepiamo una melodia? I suoni si susseguono uno dopo l’altro seguendo un ordine ben determinato e in una durata temporale precisamente definita. Se provassimo a guardare solo ed esclusivamente a ciò che è effettivamente dato in questa esperienza, se cercassimo di attenerci a ciò che l’orecchio effettivamente recepisce, ci accorgeremmo che in ogni istante della durata della melodia, solo un singolo suono è veramente udito. A rigore, quando risuona una nota è soltanto quella che udiamo ed è soltanto quella che è presente. La nota precedente è già svanita nel nulla, quella successiva deve ancora risuonare. Eppure è la melodia ciò che percepiamo, non i singoli suoni. Per percepire la melodia nella sua interezza è necessario che i suoni già risuonati, i suoni appena passati, siano in qualche modo ancora presenti alla coscienza. Altrimenti l’esperienza della melodia sarebbe letteralmente impossibile: come potremmo cogliere i rapporti tra le note?5 Come potremmo accorgerci – per esempio – che la melodia percorre una scala ascendente, se le note passate non fossero ancora accessibili alla coscienza? Dunque la percezione di un oggetto tempo4

«La modificazione della coscienza che tramuta un “ora” originario in uno riprodotto, è qualcosa di completamente diverso da quella modificazione che tramuta sia l’“ora” originario, sia quello riprodotto in “passato”. Quest’ultima modificazione ha il carattere di un adombramento continuo; […] Per contro, non c’è alcun trapasso continuo dalla percezione nella fantasia, o dall’impressione nella riproduzione». E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 79. 5 «Quando ad esempio, risuona una melodia, il singolo suono non scompare completamente col cessare dello stimolo, rispettivamente, del moto nervoso da esso provocato. Al sopraggiungere di un nuovo suono, il precedente non è sparito senza lasciar traccia, altrimenti non saremmo neppure in grado di notare i rapporti tra i suoni che si succedono: avremmo in ogni istante un suono ed eventualmente, nell’intervallo tra il sorgere di due suoni, una pausa vuota, mai però la rappresentazione di una melodia». Ivi, p. 49.

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rale – come la melodia – richiede che la coscienza sia in grado di mantenere nella presenza l’appena passato. Husserl chiama questo fenomeno “ritenzione”. Ma come dobbiamo pensare questa capacità della coscienza di trattenere una fase percepita appena trascorsa? Non è forse compito della memoria mantenere il passato nella presenza? Dobbiamo ammettere che la memoria interviene all’interno della percezione integrandone i dati?6 Ma così facendo non rischiamo di ricondurre interamente il percepire al ricordare, come se si trattasse di una sorta di “ricordo del presente”? Certamente la ritenzione è una forma di memoria. Non a caso Husserl usa spesso l’espressione “ricordo primario” (primäre Erinneruung) per designarla. Tuttavia ci si accorge fin da subito che si tratta di un forma di memoria del tutto peculiare, una memoria che opera già all’interno della percezione e che solo secondariamente ha a che fare con ciò che nell’esperienza quotidiana è indicato dalla parola “ricordo”7. Questa è la ragione per cui la nozione di ritenzione può trovare legittimante posto in una fenomenologia della percezione non meno che in una fenomenologia della memoria.

2. Ritenzione e percezione: la presenza dell’appena passato nella percezione L’analisi della percezione di un oggetto temporale rivela dunque un fenomeno essenziale della vita della coscienza, la ritenzione. A questo punto 6

«Prendiamo l’esempio di una melodia o di una parte organica di essa. La cosa sembra, a tutta prima, assai semplice: udiamo la melodia, cioè la percepiamo, dato che udire è pure un percepire. Cionondimeno, è il primo suono che insorge, poi viene il secondo, poi il terzo ecc. Non si direbbe: quando attacca il secondo suono io odo quello, ma non odo più il primo, ecc.? In verità dunque, non è la melodia che odo, ma solo il singolo suono presente, che la parte trascorsa della melodia sia oggettuale per me, lo devo – si starebbe per dire – al ricordo; e che io arrivato a ciascun singolo suono, non presupponga che sia tutto qui, lo devo alla aspettazione antemirante». Ivi, pp. 59-60. 7 «Pochi ammetterebbero, senza doverci riflettere, che essere consci di qualcosa è, di per sé, un atto di memoria. Pensate, per esempio, a come si arriva alla comprensione di una frase. L’impressione soggettiva è la percezione della frase come un tutto unico, eppure, se si esamina ciò che deve avvenire perché sia possibile questa percezione unitaria, diventa chiaro che innanzitutto bisogna immagazzinare in memoria la prima parte della frase, integrare le singole parole e connettere il tutto con la parte finale della frase. La capacità di integrare nuove informazioni o di costruire nuove combinazioni di informazioni note richiede una forma di memoria legata alla coscienza di ciò che è qui e ora». M.A. Brandimonte, Psicologia della memoria, Carocci, Roma, 2004, p. 13. Che la memoria sia già all’opera nei processi percettivi è un dato acquisito per la psicologia della memoria. Non è però altrettanto chiaro che questa memoria è fenomenologicamente distinta dal ricordo nell’accezione comune del termine.

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è possibile obbiettare: la percezione della melodia non è un esempio scelto ad arte? Non si tratta di un caso particolare e di un fenomeno non generalizzabile? Come stanno le cose quando prendiamo in considerazione i fenomeni visivi invece di quelli uditivi? o quelli tattili? In che modo interverrebbe la ritenzione in questo caso? Andando un po’ oltre la lettera del testo husserliano, prendiamo in considerazione il campo visivo invece di quello uditivo8. Scagliamo un sasso in un giardino e ne osserviamo la parabola in aria e la caduta. Si tratta di un caso piuttosto semplice di percezione di un movimento. Anche in questo caso possiamo provare a fissare lo sguardo solo su ciò che è dato effettivamente in questa percezione, rivolgendo l’attenzione esclusivamente ai contenuti sensibili effettivamente presenti in questa esperienza: il sasso disegna la sua parabola, occupando successivamente una serie di posizioni ma, rigorosamente parlando, in ogni istante ciò che ci è dato è l’“immagine” del sasso che occupa una singola posizione. Nell’istante “ora” non è effettivamente dato alcun movimento. Il sasso è prima nella posizione A, poi nella posizione B, infine nella posizione C. In che modo sarebbe possibile percepire il movimento A-C senza una sorta di memoria? Se la coscienza non avesse la capacità di tenere insieme la fase-ora A, la fase-ora B e la fase-ora C, in che modo potremmo percepire il movimento di un unico ed identico sasso che si sposta lungo un unica traiettoria e non, invece, molteplici sassi che occupano diverse posizioni? Ancora una volta per spiegare la possibilità di una percezione saremmo tentati di chiamare in causa il ricordo. Ma non è il ricordo vero e proprio che interviene a rendere possibile la percezione del movimento, è la ritenzione. Analoghe analisi si potrebbero svolgere prendendo in considerazione il campo tattile, olfattivo e perfino gustativo. Percepire la variazione di temperatura di una sfera di metallo che si raffredda implica la ritenzione, esattamente come percepire una scala di note ascendente o il movimento di una pallina da tennis. In generale possiamo dire che la ritenzione è la condizione di possibilità della percezione di qualsiasi genere di cambiamento. La 8 In effetti è piuttosto sorprendente che Husserl non prenda quasi mai in considerazione il problema della percezione del movimento nei testi dedicati alla ritenzione. Disgraziatamente – almeno a miei occhi – gli esempi scelti da Husserl sono quasi sempre tratti dalla sfera del campo uditivo e quasi mai da quella del campo visivo. A me sembra tuttavia inevitabile collegare le analisi husserliane a considerazioni sul movimento di matrice bergsoniana: benché Husserl non lo dica esplicitamente mi sembra di non tradire le sue intenzioni sostenendo che la percezione del movimento non sarebbe possibile senza la ritenzione e che è proprio l’esperienza visiva del movimento la più persuasiva documentazione del ruolo della ritenzione nella percezione. Ve detto, però, che anche nelle lezioni sulla coscienza interna del tempo è possibile trovare fuggevoli riferimenti alla percezione del movimento. Cfr. per esempio ivi, p. 51 e p. 66.

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percezione di una variazione, infatti, è sempre necessariamente un atto sintetico, è sempre il risultato dell’unità complessa di una serie di fasi successive. Ma, affinché questa sintesi che tiene insieme una molteplicità di fasi sia possibile, è necessario che la coscienza sia in grado di abbracciare in un solo colpo d’occhio l’istante ora e l’appena passato (e naturalmente che sia già rivolta al futuro imminente9). La percezione di una variazione è infatti sempre una sintesi temporale in cui l’appena passato deve essere ancora dato. La ritenzione è ciò che permette all’appena passato di permanere nella presenza. A questo punto diviene chiaro che gli oggetti temporali non sono solo le melodie, ma tutti quegli oggetti che si costituiscono in una durata, cioè tutti i fenomeni che implicano una variazione. Certo, a proposito del sasso lanciato nel giardino potremmo essere un po’ in imbarazzo nell’utilizzare la nozione di “oggetto”: il sasso è l’oggetto, non la sua parabola nell’aria. Ma non bisogna dimenticare che dal punto di vista della descrizione fenomenologica ci interessano solo gli oggetti immanenti e non quelli trascendenti. E dal punto di vista immanente ciò che ci è dato quando osserviamo la parabola del sasso è un che di unitario e coerente, è una “figura visiva” del tutto analoga alla “figura sonora” che percepiamo ascoltando la melodia. Rimane tuttavia aperta una domanda: che ne è della percezione di un dato immobile? Che ruolo gioca la ritenzione nella percezione di un dato che rimane invariato? In realtà, come chiarisce in modo lampante il § 17 delle Meditazioni cartesiane, il carattere sintetico non è una prerogativa che riguarda esclusivamente la percezione di oggetti mobili. Immaginiamo per esempio di percepire un cubo immobile10. Anche in questo caso la percezione ha una durata. È sempre il medesimo oggetto immobile che mi è dato durante tutta la durata della percezione. Tuttavia, mentre l’oggetto trascendente rimane lo stesso e permane identico e immutato, l’insieme dei contenuti immanenti attraverso cui questo medesimo oggetto si manifesta, varia costantemente. Mentre mi avvicino il cubo appare prima più piccolo, poi più grande. Cambiando il mio angolo di visione, il cubo appare prima secondo una certa prospettiva visiva e poi secondo un altra, prima ne vedo un lato, poi un altro, prima uno spigolo, poi una faccia. Non solo le forme variano continuamente, ma anche le luci, le ombre, i colori e, eventualmente, la percezione tattile della superficie. È sempre il medesimo oggetto che appare, ma questa unità si dà in una molteplicità di manifestazioni diverse che si susseguono e mutano l’una nell’altra. Anche questo genere di percezione, 9 In questo studio dedicato alla memoria devo tralasciare la questione della protenzione che pure è sempre inscindibilmente legata alla ritenzione e alla percezione. 10 Cfr. E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, Husserliana I, Martinus Nijhoff, Den Haag, 1973, tr. it., Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano, 2002, p. 69.

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dunque, non sarebbe possibile senza un lavoro di sintesi della coscienza. Tale lavoro di sintesi richiede che l’appena passato sia ritenuto e permanga accanto a ciò che è percepito nell’istante ora. Altrimenti non potremmo in nessun modo essere coscienti che è lo stesso oggetto – questo cubo qui – che si manifesta mentre ne appare il lato anteriore e mentre ne appare il lato posteriore. La sintesi dell’identificazione è temporale come la sintesi della variazione. Nella misura in cui è lo stesso e identico oggetto X che si mantiene uguale a se stesso, che permane come identico, anche in questo caso la coscienza deve poter ritenere l’appena passato per poterlo riconoscere come il medesimo. In realtà si potrebbe ancora radicalizzare la questione: certo il cubo appare attraverso una serie successiva di manifestazioni e dunque attraverso contenuti immanenti molteplici e varianti. Ma queste variazioni sono dovute al movimenti dell’osservatore e questa molteplicità alla ricchezza della esperienza percettiva in questione. Cosa accade se l’osservatore è completamente immobile e l’oggetto ancora più semplice? Non è forse possibile ipotizzare la percezione di un dato singolo isolato e invariabile? Bisogna innanzitutto cogliere l’astrattezza di una simile ipotesi rispetto alla esperienza quotidiana e “normale” della percezione. E bisogna anche chiedersi fino a che punto una esperienza del genere sia veramente pensabile11. Tuttavia questa ipotesi è teoreticamente legittima e una considerazione approfondita della ritenzione deve essere spinta fino a questo livello di radicalità. È in questo senso che diventa comprensibile il difficile passaggio che Husserl opera nel § 8 delle lezioni sulla coscienza interna del tempo. L’ambizione di queste analisi è di prendere in considerazione non più soltanto un dato complesso, ma un dato assolutamente elementare, un mero “dato iletico” e mostrare come persino a questo livello le operazioni della coscienza richiedano la ritenzione. Husserl sceglie così di passare dall’esempio della melodia a quello del puro e semplice suono. Anche il puro e semplice suono nella sua monotonia, invarianza e quasi-puntualità, si rivela costituito come un oggetto temporale. Una analisi radicale potrebbe scoprire – almeno in linea di principio – anche all’interno di questo mero dato materiale un insieme di fasi: un inizio, una durata, una fine. Così diviene lecito affermare anche del mero dato iletico ciò che si può affermare nel caso della percezione di un cubo: «il suono stesso è il medesimo, ma il suono “nel modo del come” appare è sempre diverso»12. Anche una percezione così elementare è possibile solo grazie al contributo della ritenzione. Nella misura in cui è un atto sintetico, ogni percezione implica la ritenzione. 11 12

Percepire non è sempre cogliere una variazione? E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 61.

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3. Difficoltà terminologiche e descrittive Benché si tratti di un fenomeno la cui realtà è indubitabile, la ritenzione appare estremamente difficile da descrivere. Da una parte possiamo dire che senza di essa percepire sarebbe impossibile: la coscienza sarebbe condannata nell’angustia di un sentire istantaneo e l’esperienza si ridurrebbe alla successione completamente caotica di frazioni infinitesimali senza alcun nesso tra loro. D’altra parte, quando si tenta di delineare più esplicitamente la natura della “presenza” ritenzionale (la sua realtà ontologica), essa si rivela quasi misteriosa. Ci si accorge che il contenuto ritenuto, mentre è “ancora presente”, nello stesso tempo deve essere “già passato”, mentre è trattenuto, nello stesso tempo deve essere anche svanito. È necessario che l’appena passato non sia scomparso nel nulla quando non è più attuale; ma è anche vero che non si può semplicemente affermare che il passato – sia pure l’appena passato – si conservi “accanto” al presente. Il passato recente deve anche in qualche modo allontanarsi, deve anche perdersi. Altrimenti non vi sarebbe alcuna differenza tra presente e passato. Altrimenti il tempo non passerebbe affatto. Se i suoni di una melodia permanessero completamente inalterati nella presenza anche dopo aver cessato di risuonare, la melodia sarebbe completamente irriconoscibile: percepiremmo un’accozzaglia di rumori incomprensibili, come se premessimo contemporaneamente numerosi tasti di un organo13. E se le posizioni occupate dal sasso nella sua traiettoria non svanissero nell’immagine che ci appare, vedremo qualcosa di simile ad una striscia continua nello spazio, come accade per la coda della cometa14. Da qui deriva la difficoltà che il testo delle lezioni sul tempo di Husserl esibisce in maniera evidente. Si tratta di forzare i limiti del linguaggio – e dei concetti – per dire qualcosa che sembra non poter essere detto: il ritenuto permane, ma nello stesso tempo non permane. La ritenzione è un mantenere, ma anche un non mantenere: è qualcosa di paradossale. Da un lato si tratta di un fenomeno evidentemente constatabile, dall’altro si tratta di una nozione concettualmente quasi contraddittoria. Quando cerchiamo di descrivere adeguatamente la ritenzione ci accorgiamo che il linguaggio si av-

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Ivi, p. 49. «Facciamo un altro esempio: se, nel caso del movimento, il corpo mosso venisse mantenuto nella coscienza immutato in ciascuna delle posizioni che assume, allora lo spazio percorso ci apparirebbe continuamente riempito, ma non avremmo la rappresentazione di un movimento. Alla rappresentazione del movimento si arriva solo in quanto la sensazione più remota non permanga inalterata nella coscienza, ma si modifichi in una maniera peculiare e cioè progressivamente di momento in momento». Ivi, p. 51. 14

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viluppa su se stesso15. Per questo il testo di Husserl è attraversato da parte a parte da una fortissima tensione terminologica e dallo sforzo quasi titanico per trovare parole adeguate. In questo senso il continuo ricorso alla metafora non è certamente casuale16: la ritenzione è la capacità di «tenere in pugno» il passato che si allontana, è la «coda di cometa»17 della percezione, nello stesso tempo però il ritenuto si «inabissa», si «ispessisce» e si «oscura»18, «precipita»19, è «come qualcosa di morto»20, «sprofonda nel vuoto»21, «svanisce», «impallidisce» ecc. La stessa parola “ritenzione” contiene un rimando ad una immagine, quella del “tenere fermo”. Tra tutte le metafore una in particolare risulta la più appropriata: la metafora spaziale. C’è un’analogia del tutto pertinente tra la sintesi spaziale e quella temporale, un’analogia esplicitamente sostenuta dallo stesso Husserl. L’oggetto temporale si costituisce nell’insieme degli “ora” in cui appare, così come l’oggetto spaziale nell’insieme delle prospettive che lo manifestano. Nel primo caso si parlerà di «fenomeni di decorso» per indicare le diverse fasi che costituiscono una unità temporale, i «modi della orientazione temporale». Nel secondo caso si parlerà di «apparizioni» per indicare i diversi lati che costituiscono una unità spaziale22. Ma l’analogia può essere spinta oltre: il fenomeno dell’allontanamento temporale può essere pensato come somigliante al fenomeno dell’allontanamento spaziale23. L’idea sottintesa da questa metafo15 Certo non si può dire che la ritenzione sia un concetto contraddittorio, o un non senso; ma bisogna riconoscere che tentando di descriverla ci muoviamo al limite della contraddizione sui crinali del linguaggio. Ricoeur evidenzia il problema che si nasconde dietro queste difficoltà linguistiche con grande acutezza: «La ritenzione è una sfida alla logica del medesimo e dell’altro; questa sfida è il tempo». P. Ricoeur, Temps et récit, tome III: “Le temps raconté”, Editions du Seuil, Paris, 1985, tr. it. Tempo e racconto, vol. III: “Il tempo raccontato”, Jaca Book, Milano, 1999, p. 46. 16 Ricoeur ha molto sottolineato questo punto. Cfr. P. Ricoeur, Tempo e racconto, vol. III, cit., p. 44. 17 E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 69. 18 Ivi, p. 62. 19 Ivi, p. 60. 20 Ivi, p. 61. 21 Ibidem. 22 Ivi, p. 63 e p. 351. 23 Cfr. ivi, p. 61. L’importanza di questa analogia non deve essere trascurata. Il fenomeno dell’allontanamento temporale può e in un certo senso deve essere pensato come somigliante al fenomeno dell’allontanamento spaziale: che cosa vuol dire che un punto nello spazio si allontana? Dal punto di vista fenomenologico, escludendo ogni considerazione scientifica e ogni pratica di misurazione oggettiva, cosa vuol dire che una cosa nello spazio si allontana? Significa che si rimpicciolisce, cioè che diventa sempre meno percepibile. Ed è solo in rapporto a me stesso, in quanto il mio corpo è un “qui” assoluto, che io posso “interpretare” questo rimpicciolirsi, questo venire meno alla percezione, come un allontanamento e

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ra è che il rapporto tra il presente e il passato sia paragonabile al rapporto tra il “qui” e il “là”. In particolare ciò che rende la distanza temporale simile alla distanza spaziale è il fatto che il ritenuto, allontanandosi, diviene gradualmente sempre meno percepibile. Rispetto al “qui”, inteso come luogo in cui la coscienza è spazialmente situata, è possibile determinare la lontananza di un “là” qualunque in base alla maggiore o minore contrazione delle possibilità di discriminazione percettiva. Allo stesso modo rispetto all’ora, inteso come l’istante in cui la coscienza è temporalmente situata, è possibile determinare la lontananza di un passato qualunque in base al maggiore o minore impoverimento della vivezza percettiva. Più si allontanano dal “qui”, più le cose si “rimpiccioliscono”; più si allontanano dall’ora più si “oscurano”. Allora la ritenzione deve essere pensata come «una crescente retrocessione nel passato» che ha come termine ultimo l’impercettibilità24. La ritenzione implica un indebolimento progressivo della percepibilità25. È interessante notare – avendo in mente la critica derdunque avere il senso del qui e del là, cioè le coordinate fondamentali, anzi fondanti, dello spazio. Ora, accade una cosa analoga con l’allontanamento temporale. Fenomenologicamente cosa vuol dire che un oggetto si allontana nel tempo? Cosa vuol dire il passare del tempo? Che un oggetto diventa sempre meno percepibile, si oscura, si ispessisce ecc. Ma, anche qui, è soltanto in riferimento alla mia coscienza in quanto ora assoluto che io posso “interpretare” questo oscurarsi e questo ispessirsi come un allontanamento temporale, e dunque avere il senso del prima e del poi, e dunque avere le coordinate fondanti del tempo. 24 Ivi, p. 66. 25 Nel § 9 Husserl spiega molto chiaramente come deve essere inteso questo graduale venir meno della percepibilità: l’istante ora, che corrisponde all’impressione originaria è il solo istante «propriamente e pienamente percepito»; le fasi più prossime all’istante ora, cioè le fasi appena passate, sono anch’esse percepite «con chiarezza, sia pure decrescente; mentre le fasi più lontane, più remote nel passato, sono consapute in modo vuoto e del tutto oscuro» (ivi, p. 62). Come si vedrà successivamente questa tesi è in realtà molto problematica. Il fatto che Husserl parli dello svanimento ritenzionale come di un processo di progressivo indebolimento dell’efficacia percettiva lascia pensare che il venir meno dello stimolo sensibile nella realtà obbiettiva corrisponda ad un venir meno della coscienza percettiva non immediato, ma graduale, direttamente proporzionale al passare del tempo. In altre parole: cessato lo stimolo “s”, la sua rappresentazione nella coscienza S sarà progressivamente meno viva con il passare del tempo, per cui in T1 avremo la rappresentazione S1 ancora viva, in T2 avremo la rappresentazione S2 meno chiara, e in T3 avremo la rappresentazione S3 ormai quasi impercettibile. In realtà ci si può chiedere se questa progressione abbia davvero senso. Tra un suono che ho udito una settimana fa e un suono che ho udito un anno fa, entrambi conservati nella ritenzione, c’è davvero una differenza di chiarezza percettiva? Sembrerebbe più semplice sostenere che né l’uno né l’altro sono più percepibili. Entrambi hanno perso completamente ogni vivezza percettiva. Il problema è che, affinché sia possibile la costituzione degli oggetti temporali, per esempio una frase musicale, è necessario ammettere che le fasi ritenute più prossime all’istante ora conservino una certa vivezza percettiva, una chiarezza percettiva attenuata. La difficoltà si può superare distinguendo le ritenzioni appena passate, che sono ancora caratterizzate da una certa vivezza percettiva, sia pure diminuita, dalle ritenzioni remote, che hanno perso ogni percepibilità. Tornerò su questo punto nel § 8.

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ridiana, ma anche suggestioni bergsoniane – che nel testo delle lezioni sulla coscienza interna le metafore spaziali ritornano in continuazione e in ultima analisi si rivelano le più appropriate per tentare di dire il passare del tempo26.

4. Ritenzione, sensazione e percezione Alle difficoltà terminologiche inevitabili legate all’oggetto di queste lezioni, se ne aggiungono altre legate ad un uso non sempre felice dei termini “percezione” e “sensazione”. Alcune volte Husserl utilizza il termine “percezione” (Wahrnehmung/Perzeption) come sinonimo di “sensazione” (Empfindung/Impression), altre volte le distingue chiaramente. In queste problematicità e in questi imbarazzi terminologici una critica decostruttiva come quella di Derrida può affondare il colpo agevolmente. Ritornerò in seguito sull’interpretazione derridiana: ora invece è necessario precisare la posizione della ritenzione rispetto alla distinzione tra sensazione e percezione. Si potrebbe formulare la questione in questi termini: la modificazione ritenzionale è una caratteristica del percepire o del sentire? All’interno della percezione di una unità complessa come la melodia, si può individuare una differenza essenziale tra il suono effettivamente sentito, che è attuale e presente in senso stretto, e suoni ritenuti che, benché siano ancora percepiti, non sono più né attuali, né presenti in senso stretto. In questo senso diciamo che l’intera melodia è percepita, anche se solo il suono effettivamente presente è sentito. Ne risulta una distinzione chiara tra sentire e percepire: la percezione è un atto che prende di mira un oggetto complesso unitario, la melodia, data attraverso un insieme molteplice di sensazioni (i suoni). «La percezione si costruisce sulla sensazione»27. A questo stadio dell’analisi la posizione della ritenzione rispetto alla distinzione sentire/percepire sembrerebbe chiara: la modificazione ritenzionale è una proprietà essenziale del sentire28. Tutto ciò che è sentito viene ritenuto. Grazie alla permanenza ritenzionale delle sensazioni appena passate, la coscienza è in grado di percepire, cioè di prendere di mira un’unità oggettuale attraverso un complesso di impressioni. All’interno della percezione distinguiamo dunque la fase effettivamente sentita dalle fasi ritenute. Il presente in senso stretto, l’istante ora attuale, è il presente sentito. Il presente in senso più ampio, il “presente vivente”, è composto da una molteplicità di ora ritenuti che si affiancano all’ora attuale ed è il presente percepito. 26

Cfr. ivi, p. 85 e p. 62 in nota. Ivi, p. 79. 28 Vedremo successivamente come la questione sia molto più complicata. Cfr. § 10. 27

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Tutto sembrerebbe chiaro. Ma abbiamo visto come Husserl radicalizzi il discorso: non solo nella melodia, ma in ogni singolo suono – una nota di violino che risuona, per esempio – è possibile distinguere una fase attuale effettivamente sentita e una fase non più attuale ritenuta. Ma allora dobbiamo dire che anche la singola sensazione è composta da una fase effettivamente data – un’impressione originaria – e da una fase ritenuta? E fino a che punto è lecito spingere la analisi? Nella ricerca del mero “dato iletico” non rischiamo forse di frazionare all’infinito il materiale sensibile inseguendo un fantasma?29 A mio avviso queste obiezioni sono pertinenti e la nozione di “mero dato iletico” non deve essere presa alla lettera, ma considerata come un ipotesi puramente teorica. Tuttavia credo che se Husserl ha intrapreso questa strada, che sembra precipitare verso un regresso all’infinito, ci sia una ragione: probabilmente ciò che gli stava a cuore era mostrare come la modificazione ritenzionale appartenga al livello più elementare dell’esperienza, ad un livello che precede ogni costituzione attiva di oggettualità complesse, cioè al livello più radicalmente passivo della coscienza. Quasi come per cautelarsi in anticipo contro l’ipotesi derridiana di una “sintesi originaria”.

5. La ritenzione come intenzionalità speciale. Ritenzione e coscienza di immagine Il § 12 delle lezioni sulla coscienza interna del tempo è decisivo per comprendere in che modo i contenuti ritenuti possano essere ancora disponibili per la coscienza pur non essendo più effettivamente presenti. Qui Husserl spiega chiaramente che la ritenzione è una forma speciale di intenzionalità. L’intenzionalità è la proprietà essenziale che accomuna tutti gli atti della coscienza30. La percezione è intenzionale, la rimemorazione è intenzionale, il desiderio è intenzionale, la gioia è intenzionale: tutti gli atti della coscienza sono intenzionali, cioè si riferiscono a qualcosa, sono diretti verso qualcosa. Intenzionare significa “prendere di mira”, “dirigersi”, “essere in rapporto con”. Guardare un paio di scarpe sul pavimento significa prestare attenzione ad un insieme di “macchie colorate” organizzate secondo certe forme note, che occupano una piccola porzione del campo visivo. Attraverso queste macchie colorate, che sono contenuti immanenti, io sono in rapporto con un 29

Ricoeur ha individuato chiaramente questo problema. Cfr. P. Ricoeur, Tempo e racconto, vol. III, cit., p. 39 ss. 30 Cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Zweiter Teil: “Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis”, Husserliana XIX, Martinus Nijhoff, Den Haag, 1984, tr. it. Ricerche Logiche, vol. II, Il Saggiatore, Milano, 2005, p. 158.

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oggetto particolare, prendo di mira un “oggetto intenzionale”, in questo caso “le mie scarpe da ginnastica”. Perciò dire che la coscienza è intenzionale significa riconoscere che la coscienza è sempre in rapporto con qualcosa che va al di là delle mere sensazioni date nell’immanenza31. Ma allora in che modo la ritenzione potrebbe essere una forma di intenzionalità? Cosa ha a che fare la modificazione che tramuta un contenuto dato in un contenuto ritenuto con l’essenziale proprietà della coscienza di essere intenzionale? L’idea di Husserl è che vi sia un importante parallelismo tra due modi della coscienza di proiettarsi oltre ciò che dato. Da una parte la coscienza oltrepassa i contenuti effettivamente presenti al suo interno, per rivolgersi, attraverso questi stessi contenuti, ad un oggetto intenzionale. Così nella percezione visiva attraverso un insieme di macchie colorate possiamo prendere di mira le scarpe da ginnastica: si tratta dell’intenzionalità nel senso più usuale del termine. D’altra parte la coscienza oltrepassa ciò che è dato nel presente in senso stretto, nell’ora attuale, per rivolgersi all’appena passato (e al futuro imminente). Così nella percezione di una melodia i suoni già risuonati e il suono attuale sono tenuti insieme in una sintesi: si tratta della ritenzione. In questo senso diviene lecito parlare della ritenzione come di una intenzionalità, a patto di precisare, come Husserl prontamente fa nell’Appendice IX, che si tratta di «una intenzionalità sui generis»32. Nella prospettiva di questo lavoro – cioè in vista della elaborazione di una fenomenologia della memoria – il fatto che Husserl concepisca la ritenzione come una forma speciale di intenzionalità ha delle implicazioni davvero rilevanti. Bisogna tenere presente, infatti, la distinzione che già le Ricerche Logiche avevano stabilito tra intenzione significante e riempimento di significato. In quel testo Husserl chiarisce che le intenzioni di per sé sono vuote e che hanno bisogno di trovare riempimento in un’intuizione33. In un atto intuitivo compiuto possiamo sempre distinguere un lato intenzionale, il senso che è preso di mira, e un lato materiale, i contenuti che fungono da riempimento. Di per sé l’intenzione non ha un contenuto reale ed effettivo. Perciò, se è vero che è un’intenzione, allora la ritenzione manca del lato 31 In realtà nonostante si tratti della cifra fondamentale del pensiero husserliano, almeno secondo la vulgata più diffusa, non è facile dire esattamente che cosa Husserl intenda per intenzionalità. Qui faccio riferimento in modo particolare alla parte II della V ricerca delle Ricerche Logiche. 32 «La ritenzione non è già una modificazione nella quale i dati impressionali vengano conservati, sia pure in forma modificata, nella loro effettività: essa è invece una intenzionalità, e una intenzionalità sui generis». E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 143. 33 Cfr. E. Husserl, Ricerche Logiche, vol. II, cit., p. 301. In questa concezione del rapporto tra intenzioni vuote e intuizioni di riempimento si sente un’eco dell’idea kantiana per cui i concetti senza intuizioni sono vuoti e le intuizioni senza concetti cieche.

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intuitivo. Questo significa – tra l’altro – che non può essere pensata come una percezione affievolita, come una sorta di immagine scialba del percepito. La nota ritenuta non è un suono la cui potenza uditiva si sia indebolita. L’oggetto visivo ritenuto non è un’immagine illanguidita. Contrariamente a quanto sembrerebbe ovvio la presenza dell’appena passato non è la presenza di una immagine34. Per questo Husserl insiste nel § 12 nell’affermare che il ritenuto non è effettivamente presente nella coscienza e che la ritenzione non è una “coscienza di immagine”35. Ritorniamo agli esempi precedenti. Mentre ascolto una melodia la nota appena passata è ancora disponibile per la coscienza, ma non è più sentita. Se fosse ancora sentita, se fosse effettivamente ancora presente – sia pure in una forma indebolita – noi percepiremmo accanto al suono presente qualcosa di simile ad un’eco del suono passato. Ma la ritenzione di un suono non ha niente a che fare con il fenomeno dell’eco. Mentre percepiamo la melodia i suoni appena passati non sono affatto presenti come delle eco36. Allo stesso modo mentre osserviamo il movimento del sasso che cade, le immagini appena passate (i “fotogrammi”, verrebbe da dire) sono ritenuti dalla coscienza. Ma se fossero effettivamente presenti, se possedessero ancora una forza impressionale reale, noi vedremo dietro al sasso qualcosa come una scia luminosa o un ombra. In effetti qualche volta capita di vedere – per via della cosiddetta “persistenza retinica” – ombre di questo genere (nel caso per esempio di movimenti molto veloci). Ma è essenziale comprendere che la “presenza” ritenzionale non ha a che fare con questi fenomeni. Consideriamo un esempio: sto osservando un’elica. In un primo momento essa è immobile e io distinguo chiaramente i due “bracci” di cui è composta. Poi comincia a muoversi molto lentamente. In questa prima fase io posso ancora distinguere con grande chiarezza i due bracci dell’elica. Lì vedo anche muoversi, cioè occupare successivamente posizioni diverse. Per vedere questo movimento ho bisogno della ritenzione. Le posizioni appena 34 La parola “immagine” in questo lavoro è sempre intesa in senso ampio, in un senso comprendente tutte le modalità sensibili: ci sono immagini visive, immagini sonore, immagini olfattive ecc. 35 «Ricordo e quindi ritenzione, non sono coscienza di immagine, ma qualcosa di totalmente diverso». E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 69. 36 «Il suono ritenzionale non è presente ma, nell’“ora”, è per l’appunto “primariamente ricordato”: nella coscienza ritenzionale non è effettivamente reperibile, neppure come suono molto debole qualitativamente identico (come eco). Un suono presente può farci ricordare “di” uno passato, esporlo, raffigurarlo; ciò presuppone però già un’altra rappresentazione del passato. L’intuizione del passato, in se stessa, non può essere una raffigurazione. È una coscienza originaria.[…] L’eco stessa, in generale, le immagini o copie che restano di datità di sensazione più energiche, lungi dal doverlesi attribuire necessariamente, non hanno nulla a che fare con l’essenza della ritenzione». Ivi, p. 67.

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passate mi sono date come contenuti ritenuti e io posso perciò percepire la “differenza” rispetto alla posizione attuale, cioè il movimento. Ma cosa accade se la velocità di rotazione dell’elica aumenta? Non riesco più a distinguere i due bracci dell’elica. So bene che si tratta di una elica in movimento, ma ciò che vedo, ciò mi è dato nell’immanenza, è una forma circolare che appare continuamente riempita, benché in un modo del tutto particolare. In realtà, se il moto dell’elica è sufficientemente veloce, non vedo più alcun movimento. Questo fenomeno accade perché, a causa della persistenza retinica, l’occhio perde la capacità di discriminare le posizioni differenti occupate dai bracci dell’elica. I diversi “fotogrammi” di cui è composto il movimento dell’elica si sovrappongono e si fondono. Ora, ciò che è essenziale è che la persistenza retinica che rende possibile il “salto stroboscopico” e la fusione dei diversi “fotogrammi” (e che dunque fa apparire l’elica come un disco semitrasparente) non ha niente a che vedere con la ritenzione che rende possibile la percezione del movimento. Tanto è vero che nella prima fase io vedo un movimento mentre nella seconda no. Bisognerebbe riflettere a lungo sul rapporto tra ciò che in fenomenologia si chiama ritenzione e ciò che in psicologia si chiama “persistenza retinica”. La ritenzione non è una persistenza impressionale; è una permanenza intenzionale. I contenuti ritenuti sono ancora accessibili alla coscienza e sono parte integrante del presente vivente; ma non sono realmente presenti. La grande difficoltà qui è di pensare come quasi-presente, cioè come ancora vivo per la coscienza, qualcosa che non è effettivamente presente. La ritenzione appare così nuovamente come un fenomeno misterioso. È una forma di intenzionalità, ma sui generis. È una forma di memoria, ma sui generis, perché manca del lato intuitivo. Ma se non è una immagine, in che modo la ritenzione conserva il passato? Se la ritenzione non esibisce il lato intuitivo del passato, allora cosa ritiene la coscienza di ciò che è stato?

6. Caratteristiche essenziali della ritenzione Husserl attribuisce alla ritenzione alcune caratteristiche che sembrerebbero essere in contraddizione con gli attributi più ovvi della memoria così come la concepisce il senso comune. La prima di queste caratteristiche è l’universalità. Come si è detto, è l’analisi della percezione degli oggetti temporali che rivela in modo eminente l’esistenza della ritenzione. Ma qualsiasi evento della vita della coscienza è soggetto alla dinamica del mutamento ritenzionale. Tutto ciò che è dato viene ritenuto. La modificazione ritenzionale è una legge universale della coscienza. Ogni impressione si

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tramuta in ritenzione37. D’altra parte si può affermare a priori – Husserl ne è fermamente convinto – che ogni ritenzione deve essere preceduta da una impressione originaria38. Da qui deriva la seconda caratteristica essenziale della ritenzione: l’evidenza. Ciò che è dato in una ritenzione possiede il carattere dell’evidenza assoluta, la stessa evidenza che è propria della percezione39. Non si può in nessun modo dubitare di ciò che è ritenuto. L’importanza di queste due affermazioni, apparentemente banali, non deve sfuggire. Esse infatti sembrano a prima vista contraddire due dei limiti più evidenti della memoria. La memoria non è sempre essenzialmente parziale? Ma se viene ritenuto tutto, se ogni impressione si tramuta in ritenzione, in che modo la memoria può essere selettiva? E se il ritenere è sempre preceduto da un sentire originario, se è impossibile una ritenzione cui non corrisponda una impressione originaria, come è possibile il falso ricordo? Questa apparente negazione dei limiti della memoria diventa ancora più sorprendente se ci si domanda fino a che punto si estenda la capacità ritenzionale della coscienza. Diversi passaggi delle lezioni che stiamo considerando, infatti, sembrano autorizzare l’idea che la coscienza non abbia limiti nella sua capacità di ritenere il passato. Innanzitutto l’analogia con la prospettiva spaziale rende difficile immaginare una vera e propria fine per la prospettiva temporale. Certo, allontanandosi sempre di più dall’ora presente, l’ora ritenuto diviene sempre più oscuro e si può immaginare che ad un certo punto la ritenzione oltrepassi la soglia della completa impercettibilità. Ma nel § 9 e nell’appunto n° 53 prendendo in considerazione l’ipotesi di una fine della ritenzione, Husserl aggiunge una chiosa che non può passare inosservata: «ammesso che ciò sia sostenibile»40. Anche il noto diagramma del § 10 sembra confermare questa ipotesi. L’idea di fondo di questo diagramma è quella della catena ritenzionale. Una catena potenzialmente interminabile. Se consideriamo una serie di istanti temporali successivi A-D, quando B è la fase-ora presente, la fase A è mantenuta in una ritenzione. Quando poi la fase-ora presente è C, non è solo la fase B che viene ritenuta, ma anche la fase A. La ritenzione della fase B, infatti, contiene al suo interno la ritenzione della fase A, perché la fase-ora B implicava la ritenzione di A. In questo modo, attraverso questa specie di “incapsulamento”, ogni ritenzione si trascina dietro tutto l’insieme delle ritenzioni che la precedono. Ogni ritenzione è una ritenzione di ritenzioni41. Ma fino a che punto si e37

Cfr. ivi, p. 65. Cfr. ivi, p. 68. 39 Sull’importanza di questa evidenza della ritenzione tornerò nell’ultimo paragrafo di questo saggio. 40 Ivi, p. 62 e p. 349. 41 «Ogni fase, in quanto ha ritenzionalmente coscienza della precedente racchiude in sé, 38

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stende questa catena ritenzionale? Il diagramma delle lezioni sul tempo non sembrerebbe prevedere una fine al processo di sprofondamento nel passato. Husserl sembra sostenere che la ritenzione è – almeno idealmente – infinita42. Questo significa che, se anche de facto capita che non riusciamo a ritrovare un frammento di passato irrimediabilmente perduto, in teoria, de iure, ogni passato che sia stato esperito dalla coscienza rimane accessibile43. Niente va perduto, grazie alla potenza della ritenzione44. Accanto all’universalità, all’evidenza e all’infinitezza, bisogna rilevare anche una quarta caratteristica essenziale, che è suggerita dall’idea di catena ritenzionale. La modificazione ritenzionale è essenzialmente continua. Poiché ogni fase temporale della vita della coscienza trattiene in sé tutte le ritenzioni precedenti, incapsulate una nell’altra, la memoria si distende nel tempo senza strappi. Non ci sono discontinuità nel tessuto della memoria ritenzionale. Le fasi temporali successive sono conservate l’una dentro l’altra senza alcun salto. Ricapitolando: tutto viene ritenuto, ciò che è ritenuto è evidente, la ritenzione procede nel tempo senza limiti e senza discontinuità. Una concezione del genere sembrerebbe trascurare delle evidenze palmari: non ricordiamo tutto e non ricordiamo per sempre. Non solo. A volte capita di ricordare distintamente ciò che non è mai accaduto. Ma Husserl non sembra preoccuparsene minimamente. In realtà l’evidenza della ritenzione non deve essere confusa con l’evidenza della rimemorazione. Non bisogna mai dimenticare, seguendo le analisi husserliane della ritenzione, che il “ricordo primario” non ha niente a che vedere con il ricordo nel senso comune del termine. In effetti i limiti delin una catena di intenzioni mediate, l’intera serie delle ritenzioni trascorse: [...]». Ivi, p. 143. 42 Nel § 11 Husserl afferma che «il campo temporale originario è evidentemente limitato, proprio come quello della percezione». Ma in una nota precisa: «Nel diagramma non si tiene conto della limitatezza del campo temporale. Non vi si prevede alcuna fine della ritenzione e, idealiter, è pur sempre possibile una coscienza in cui tutto si conservi ritenzionalmente» (ivi, p. 66). Husserl sembra contrapporre un’infinità ideale della ritenzione alla incapacità di fatto della coscienza di ricordare infinitamente. B. Stiegler ha evidenziato con lucidità il problema di questa contrapposizione: cfr. B. Stiegler, La technique et le temps, vol. II: “La désorientation”, Galilée, Paris, 1996, p. 250 ss. 43 «Husserl n’est pas sans savoir que la coservation rétentionelle du passé a ses limites, mais il considère que ces limites sont dues à des contingences empiriques. Pour la thèorie husserlienne du re-souvenir, l’oubli n’est qu’un accident». R. Bernet, L’encadrement du souvenir, in Id., La vie du sujet, Presses Universitaires de France, Paris, 1994, p. 248. 44 Va detto però che nelle Lezioni sulla sintesi passiva Husserl sembra avere un ripensamento su questo punto. «Precedentemente avevo pensato che questo fluire ritenzionale e questo costituire l’esser-passato procedessero incessantemente anche nell’oscurità totale. Mi sembra tuttavia che si possa fare a meno di questa ipotesi. Il processo dunque si interrompe». E. Husserl, Analysen zur passiven Synthesis. Aus Vorlesungs- und Forschungsmanuskripten, 1918-1926, Husserliana XI, Martinus Nijhoff, Den Haag, 1966, tr. it. Lezioni sulla sintesi passiva, Guerini e Associati, Milano, 1993, p. 236.

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la memoria – selettività, distorsione, finitezza temporale – che sembrano non intaccare la ritenzione, emergono invece in tutta la loro decisività nella analisi della rimemorazione, come si vedrà nel secondo saggio. Husserl sa bene che non solo è possibile rimemorare un oggetto o uno stato di cose A, quando A non è mai esistito, ma anche che è possibile percepire A quando A non esiste affatto. Con ciò l’evidenza della ritenzione non viene scalfita. Può capitare che io percepisca la luna in movimento tra le nuvole, mentre in realtà è del tutto immobile. Questo significa che nella posizione dello stato di cose A (“la luna che si muove tra le nuvole”) mi sono ingannato. Ma si tratta della posizione di una trascendenza. A livello di ciò che mi è dato nell’immanenza non ci può essere nessun dubbio sul fatto che si sia verificata una alterazione ordinata e coerente dei dati visivi. Questa alterazione mi è data in una ritenzione ed è evidente. Come poi debba essere “interpretata” in termini di avvenimenti trascendenti, questo è un altro discorso45. 7. La passività della ritenzione. La ritenzione nella rimemorazione Tra le caratteristiche essenziali della ritenzione ce n’è una che è particolarmente importante, perché permette di comprendere meglio la differenza con la rimemorazione: la ritenzione è un fenomeno completamente passivo46. Mentre il ricordo vero e proprio è un atto libero, è una riproduzione operata dalla coscienza che “decide” di presentificarsi una certa porzione dell’esperienza vissuta, al contrario la modificazione ritenzionale è un accadimento che rimane completamente al di fuori delle possibilità attive del soggetto. Per rimemorare un episodio del proprio passato, la coscienza deve “vo45 «Ma si dirà: non posso io avere un ricordo, anche primario, di un A, mentre in verità non c’è stato nessun A? Certo. Anzi c’è di più: io posso avere una percezione di A, mentre A in realtà non c’è. E con ciò l’evidenza che sosteniamo non è che, quando abbiamo una ritenzione di A (posto che A sia un oggetto trascendente) A debba essere già passato, ma solo che A deve essere stato percepito. Che ad esso si sia fatto primariamente attenzione o no, esso era lì in carne ed ossa, consaputo anche se non notato o notato solo di passata. Se invece si tratta di un oggetto immanente, allora vale quanto segue: se una sequenza, un cambiamento, una alterazione di dati immanenti “appare”, è anche assolutamente certa. E così pura all’interno di una percezione trascendente, la serie immanente che appartiene per essenza alla sua costruzione è assolutamente certa». E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 68. 46 «È questa [la ritenzione, n.d.a.] una modificazione intenzionale nell’ambito della pura passività; essa si svolge secondo una regolarità assolutamente rigida senza alcuna partecipazione dell’attività irraggiantesi dal centro dell’io. Essa appartiene alla regolarità della costituzione originaria del tempo immanente in cui ogni coscienza impressionale dell’ora momentaneo originale muta costantemente nell’avere ancora coscienza dell’oggetto nel modo del poco-fa (ossia dell’ora che è stato poco fa)». E. Husserl, Erfahrung und Urteil, Klaassen Verlag, Hamburg, 1948, tr. it. Esperienza e giudizio, Bompiani, Milano, 1995, p. 100.

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ler ricordare”, o quanto meno deve assecondare un ricordo involontario che si ripresenta e “decidere” di seguirlo nel suo sviluppo47. Invece quando udiamo una melodia o quando percepiamo il movimento di corpo materiale non possiamo “decidere” se ritenere o no le fasi-ora appena passate: «L’originario apparire, e defluire dei modi di deflusso dell’apparire, è qualcosa di fisso, di cui si ha coscienza per “affezione” e su cui si può solo posare lo sguardo»48. Questa passività della ritenzione ha un legame decisivo con le altre due caratteristiche essenziali che sono maggiormente in contrasto con gli attributi di senso comune del ricordo, cioè l’universalità e l’evidenza. Infatti, proprio perché il soggetto non è libero di scegliere se ritenere o non ritenere, si può essere certi che la modificazione ritenzionale sia una proprietà universale della coscienza e che tutti i vissuti ne siano affetti. Nello stesso tempo, poiché che si tratta di una modificazione completamente subita, si può essere certi della sua totale “oggettività”, se così si può dire. Dal momento che la coscienza non sceglie né che cosa debba essere ritenuto, né come debba essere ritenuto, la componente empirico-soggettiva è completamente ininfluente. La ritenzione si presenta come una sorta di “registrazione” passiva. La rimemorazione al contrario, nella misura in cui è un atto libero che dipende dalla volontà della coscienza, è essenzialmente soggettiva. Il soggetto può decidere quali porzioni del passato richiamare e in che modo. In questo caso solo alcuni frammenti di esperienza vengono ritrovati e non è detto che si ripresentino esattamente nello stesso ordine e con stesse connessioni che avevano in origine. La rimemorazione si presenta per lo più come una ricostruzione essenzialmente selettiva. In effetti, se prestiamo attenzione alla diversità delle esperienze che nel linguaggio ordinario sono raggruppate dal verbo “ricordare”, ci accorgiamo che ci sono due modi essenzialmente distinti attraverso cui il passato può essere riprodotto. Andando nuovamente oltre la lettera del testo husserliano, potremmo distinguere tra ripetizione e ricostruzione. Si tratta in tutti e due i casi di riproduzioni di una esperienza passata e dunque di presentificazioni. Ma nel primo caso le fasi-ora riprodotte coincidono esattamente, quanto alla loro posizione, al loro ordine, ai loro rapporti reciproci, con le fasi ritenute. Nel secondo caso, invece, questa completa coincidenza tra fasi ritenute e fasi rimemorate non si dà. Se ascolto una sequenza di lettere senza senso, poniamo si tratti della parola “grofiletiz”49, quando risuona 47 Nel secondo saggio tornerò più approfonditamente sulla distinzione tra ricordo volontario e ricordo involontario. 48 E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 80. 49 Scelgo una parola senza significato perché appaia più evidentemente la differenza tra senso noematico e significato concettuale. La parola “grofiletiz” non ha alcun significato ma è una unità percettiva sensata.

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l’ultima lettera, la “z”, le lettere precedenti sono ritenute tutte e nell’ordine esatto in cui sono apparse. Se così non fosse il senso percettivo unitario, la parola “grofiletiz”, non potrebbe in nessun modo costituirsi. Appena terminata la percezione, se voglio, posso riprodurre questa sequenza di lettere senza alcuna difficoltà e senza alcun errore. Mi è invece estremamente difficile, a meno di uno sforzo intellettuale estremamente laborioso, riprodurre le lettere in una sequenza casuale. Per farlo dovrei prima rappresentarmi la parola nel complesso, poi selezionare casualmente una prima lettera, poi rappresentarmi nuovamente la parola nel complesso, poi selezionare una seconda lettera ecc. Per la stessa ragione è quasi impossibile riprodurre i suoni di una melodia in un ordine diverso da quello in cui li abbiamo uditi (a meno di eccezionale talento musicale). Questo accade perché il legame che unisce i diversi suoni o le diverse lettere è una associazione passiva, che la coscienza può assecondare, ma di cui non può disporre liberamente. Il ricordo, in questo caso, si presenta come una ripetizione esatta dell’esperienza ed è la passività della ritenzione che rende possibile questa esattezza. Nella ritenzione, infatti, le fasi temporali che si susseguono conservano esattamente gli stessi rapporti che avevano originariamente. Nella rimemorazione, invece, non accade necessariamente la stessa cosa. Solo in una particolare forma di riproduzione, la ripetizione, questa perfetta coincidenza è possibile. Ma nella maggior parte dei casi la rimemorazione non si presenta come una ripetizione fondata sulla passività, ma come una ricostruzione attiva50. Proprio questa fondamentale passività della ritenzione ci permette di comprendere in che senso si possa parlare di una ritenzione “della” rimemorazione e una ritenzione “nella” rimemorazione. Consideriamo innanzitutto il primo caso. Dal momento che la rimemorazione è una presentificazione libera, in qualsiasi momento io posso sforzarmi di ricordare un certo episodio della mia esistenza. Ad un certo punto, quando la ricostruzione mi appare soddisfacente o quando ho ritrovato il particolare che andavo cercando, il processo rimemorativo si interrompe. Terminata la rimemorazione, a distanza di molte ore, un amico potrebbe interpellarmi: “ti ho visto assorto prima, a cosa stavi pensando?”. Per rispondere a questa domanda io non devo “rivedere” tutte le “scene” che ho faticosamente recuperato in precedenza. Il ricordo è una esperienza che ho vissuto e che come ogni esperienza della mia vita è svanita, modificandosi in una ritenzione. La ri50

In effetti sembrerebbe che per Husserl la ripetizione, in quanto riproduzione perfettamente coincidente con la ritenzione, sia il modello ideale della rimemorazione. Ma la selettività propria della ricostruzione sembrerebbe una caratteristica essenziale della rimemorazione molto più della esattezza propria della ripetizione. Nel secondo saggio ritornerò su questa caratteristica essenziale della rimemorazione.

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memorazione è stata ritenuta. Volendo potrei tentare di esplicitare il contenuto intuitivo legato a quel momento e “ricostruire” in modo più dettagliato l’esperienza in questione: potrei ricordare di aver ricordato. Non si tratta affatto di una operazione astrusa o contorta, ma di una esperienza che accade quotidianamente: mi ricordo dov’ero mentre ricordavo, mi ricordo da dove ha preso le mosse il processo rimemorativo e quanta fatica ho fatto per ricostruire chiaramente la sequenza dei fatti (che ora invece mi è più facile recuperare) ecc. Un simile ricordo del ricordo è possibile perché anche gli atti memorativi, proprio come tutti gli altri vissuti della coscienza, sono soggetti alla modificazione ritenzionale. Allo stesso modo, analizzando attentamente una rimemorazione, ci accorgiamo che per la costituzione delle oggettualità complesse che si presentano “nel” ricordo è necessaria la ritenzione51. Anche nella rimemorazione, come nella percezione, possiamo distinguere una fase-ora riprodotta e una fase-ora ritenuta. Io posso ricordare molto distintamente una conversazione importante della mia vita. Mi sembra quasi di “ri-udire” quelle particolari parole che mi sono rimaste così impresse. Ma affinché io possa udire nel ricordo una frase, è necessario che la ritenzione mantenga nell’ora presentificato, accanto alla fase-ora attualmente presentificata, la fase-ora che non è più attualmente presentificata. La parola che è appena risuonata nel ricordo deve essere ritenuta, mantenuta accanto alla parola che sta risuonando nell’“ora” riprodotto, nel “presente” del ricordo. Altrimenti nella rimemorazione – esattamente come accade nell’esperienza presente – non potremmo affatto “percepire” qualcosa. Il ri-udire non sarebbe affatto una ripercezione, ma una confusione di frammenti senza senso. La ritenzione è dunque all’opera anche “all’interno” della rimemorazione.

8. Ritenzione fresca e ritenzione vuota Le riflessioni sulla ritenzione delle lezioni sulla coscienza interna del tempo vengono riprese, chiarite e per molti versi completate negli anni Venti, nei corsi raccolti sotto il titolo di Lezioni sulla sintesi passiva. Qui Husserl esplicita con maggiore chiarezza una distinzione estremamente problematica ma anche estremamente importante, che era rimasta un po’ tra 51 «La rimemorazione è invece un modo della ri-percezione (Die Wiedererinnerung ist aber eine Art von Wiederwahrnehmung), non è cioè precisamente una percezione, ma un costituirsi di nuovo, un iniziare di nuovo con un “ora” originario e uno spegnersi ritenzionale, ma appunto nel modo della riproduzione. Nella rimemorazione si fanno quindi “di nuovo” avanti tutti i gradi ritenzionali, ma riproduttivamente modificati». E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 160.

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le righe nelle lezioni sul tempo di Gottinga: si tratta della distinzione tra ritenzione vuota (leere Retention) e ritenzione fresca (frische Retention). Partiamo ancora una volta agli esempi. Mentre percepisco una melodia le note già risuonate sono ritenute. Ma la melodia non è infinita e ad un dato momento si arresta: a questo punto comincia – poniamo il caso – una conversazione con un amico che ha ascoltato insieme a me la medesima melodia. Cosa accade in questo caso? Sappiamo che lo sprofondamento ritenzionale è una modificazione graduale, continua e potenzialmente interminabile. Questo significa che, anche quando la nostra attenzione è catturata da un nuovo dato sonoro (la voce che parla), anche quando la nostra coscienza è rivolta ad una nuovo oggetto (il discorso che commenta il concerto appena udito), anche allora le note da poco risuonate sono ritenute. Successivamente un nuovo oggetto si farà avanti per la coscienza, poi un altro e poi un altro ancora. Anche allora la ritenzione delle note passate continuerà il suo corso. Si è già detto quanto sia difficile stabilire dal punto di vista fenomenologico fino a che punto proceda questa modificazione continua. Ora però è necessario evidenziare una differenza notevole che finora abbiamo trascurato. Mentre risuona l’ultima nota della melodia, la prima è ancora disponibile grazie alla ritenzione. Questa stessa nota rimane ancora disponibile, grazie alla catena delle ritenzioni di ritenzioni, anche a distanza di giorni, quando ricordiamo improvvisamente l’incipit della melodia. Ma nel primo caso ha senso dire che la nota ritenuta è ancora “presente”, nel secondo caso no. Se sto percependo una melodia, le note che mi sono date nella ritenzione sono parte integrante e costitutiva del mio presente: il mio presente è la percezione della melodia. Se invece, a distanza di giorni, ritrovo le prime note della medesima melodia, in questo caso, benché sia sempre la ritenzione che me le rende disponibili, non si tratta più del mio presente, ma del mio passato. Ciò che la ritenzioni del primo tipo mi offrono è una sorta di “estensione del presente puntuale”. Nel caso delle ritenzioni del secondo tipo si tratta, invece, del passato vero e proprio. Si potrebbe parlare a questo proposito di una differenza tra “passato compiuto” e “appena passato”. Dal punto di vista contenutistico questa differenza trova riscontro nella diversa vivacità intuitiva che caratterizza il primo tipo di ritenzioni rispetto al secondo. Le ritenzioni prossime all’istante ora, che Husserl chiama “ritenzioni fresche”, sono caratterizzate da una qualche forza impressionale, sia pure affievolita. Invece le ritenzioni lontane hanno perso ogni vivacità intuitiva, sono “ritenzioni vuote”. L’impressione originaria tramutandosi in ritenzione non perde immediatamente tutta la sua vivezza intuitiva: il tratto ritenzionale più prossimo all’istante ora, il tratto di ritenzione fresca, non è ancora completamente vuoto dal punto di vista contenutistico. In seguito, allontanandosi sempre di 41

più dall’impressione originaria, la ritenzione fresca trapassa in ritenzione vuota52. Quando questo trapasso è accaduto, la durata percepita si è conclusa, la costituzione dell’oggetto temporale in questione si è chiusa: la melodia è finita, ha cessato di risuonare ed ora un nuovo oggetto ha preso il suo posto nella coscienza. In questo senso si può dire che l’estensione del tratto ritenzionale fresco coincide con l’estensione della durata percepita53. Ciò che è dato in una ritenzione fresca, benché non sia più sentito (benché non sia effettivamente presente), è ancora percepito. Al contrario ciò che la ritenzione vuota trattiene non è più percepito, è definitivamente passato. Perciò la ritenzione fresca contribuisce alla costituzione del senso noematico della percezione in corso, mentre la ritenzione vuota rende disponibile un passato il cui senso è già completamente definito. Poiché solo quando risuona l’ultima nota il senso complessivo della melodia può essere afferrato nella sua unità, la ritenzione fresca della prima nota è decisiva per la costituzione dell’identità dell’oggetto percepito. Invece la ritenzione vuota attraverso cui ritroviamo l’intera melodia a distanza di qualche giorno, ha a che fare con un oggetto la cui costituzione è già compiuta54. La ritenzione fresca è dunque in una connessione continua con il presente. Invece tra ritenzione vuota e presente si dà una discontinuità55. Il tratto di ritenzione 52

«Il tratto di ritenzione fresca trapassa poi di continuo in un tratto di ritenzione vuota. Essa può essere definita coma la forma genetica originaria delle rappresentazioni vuote. La ritenzione vuota è pur sempre una sfera in cui viene mantenuta quell’oggettualità che ha la sua sfera di fondazione originaria nell’impressione originaria». E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 228. 53 Qui ci sono evidentemente due problemi molto seri: 1) quando accade il trapasso da ritenzione fresca a ritenzione vuota? 2) la nozione di ritenzione fresca non è forse in contraddizione con l’idea che la ritenzione sia una mera intenzionalità? Se la ritenzione è una intenzionalità e se l’intenzionalità è vuota ed è contrapposta alla pienezza della intuizione (cfr. sopra § 5), che senso ha parlare di ritenzione fresca? Si dovrà dunque fare attenzione di concepire la ritenzione fresca come una vuota intenzione cui è ancora legata la forza impressionale dell’impressione originaria, ma senza dimenticare che nella ritenzione, anche se ancora fresca, il ritenuto non è effettivamente presente. Qui l’intrico della questione rende sospetta la tesi da sostenere. 54 Si intravede già qui una questione su cui ritornerò: la ritenzione ritiene il senso o un contenuto intuitivo? In realtà anche questa distinzione tra ritenzione fresca e ritenzione vuota è molto problematica. 55 Considerando la cosa dal punto di vista del legame con il presente si può dire che le ritenzioni fresche sono originariamente legate al presente: sono di fatto un’estensione della fase-ora. Invece le ritenzioni vuote sono ritenzioni ridestate. Sono cioè ritenzioni che non sono immediatamente legate al presente, ma che entrano in relazione con il presente solo in virtù di un legame associativo. Mentre le prime sono caratterizzate da una progressiva e irrimediabile perdita di chiarezza intuitiva, le seconde possono recuperare il loro contenuto intuitivo in una rimemorazione. «Le ritenzioni che si fanno avanti originariamente restano non intuitive e si inabissano nell’orizzonte generale della dimenticanza, di ciò che è ormai privo di differenze e, per così dire, di vita, a meno che non abbia luogo un ridestamento as-

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fresca è quindi una sorta di zona intermedia tra la pienezza intuitiva dell’impressione originaria e la vuotezza delle ritenzioni lontane.

9. Dalla ritenzione alla rimemorazione. Ritenzione e “immagine” memorativa In un primo momento, seguendo le analisi delle lezioni sulla coscienza interna del tempo, la distinzione tra ritenzione e rimemorazione ci era apparsa coincidente con la distinzione tra passato recente e passato remoto. Ora però la considerazione delle Lezioni sulla sintesi passiva ci impone di rivedere questa convinzione. La ritenzione infatti, nella misura in cui si prolunga indefinitamente nel passato nella forma di una ritenzione vuota, ha a che fare anche con il passato remoto. È inevitabile allora domandarsi quale sia il rapporto tra questa ritenzione vuota e la rimemorazione. Ci si accorge allora che la distinzione tra ritenzione e rimemorazione, non è una separazione56. Nelle Lezioni sulla sintesi passiva Husserl descrive la rimemorazione come un processo di recupero graduale della pienezza intuitiva. Rimemorare significa ritrovare a poco a poco nell’intuizione tutti gli aspetti di un certo oggetto o stato di cose del passato. Questo significa che la dinamica della ritenzione è, dal punto di vista della pienezza intuitiva, del tutto opposta rispetto alla dinamica della rimemorazione. Nella ritenzione ciò che è dato svanisce, perdendo progressivamente di pienezza. Al contrario nella rimemorazione ciò che è stato dato si ripresenta, recuperando progressivamente la sua pienezza intuitiva. Lo stesso fenomeno (percezione di x), che si era progressivamente inabissato nello svanimento ritenzionale (ritenzione di x), ritrova progressivamente i suoi contorni in un atto vero e proprio di ricordo (rimemorazione di x). Così la melodia, quella stessa melodia che una volta terminata si allontana dal centro presente della coscienza in una ritenzione vuota, quando viene rimemorata a distanza di qualche giorno, può ritrovare in parte la sua concretezza sensibile: la musica sembra quasi risuonare di nuovo e le note che si susseguono nel ricordo sembrano quasi essere nuovamente udite. Ora, Le lezioni sulla sintesi passiva spiegano chiaramente che questo progressivo recupero dell’intuizione prende sempre le mosse da sociativo. Solo le ritenzioni dirette, che si sono cioè trasformate in intenzioni grazie a tale ridestamento, sono chiamate in causa dalle sintesi dell’illustrazione intuitiva». E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 125. 56 A proposito della rimemorazione Bernet chiarisce: «Nous allons essayer de montrer comment cette nouvelle forme d’une donation intuitive du passé dans le présent se distingue de la rétention tout en la présupposant». R. Bernet, La présence du passé, in Id., La vie du sujet, cit., p. 236.

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una ritenzione vuota. Il processo rimemorativo comincia dalla ritenzione vuota57. Il ritorno del passato nella rimemorazione avviene solo a partire dalla ritenzione corrispondente. La rimemorazione di x è resa possibile dalla ritenzione di x, che è ciò che rimane della (precedente) percezione di x. Nessun ricordo sarebbe possibile se la coscienza non fosse essenzialmente ritenzionale: in questo senso è lecito dire che la ritenzione è la condizione di possibilità della rimemorazione58. Io posso ricordare oggi una melodia che ho udito diverse settimane fa. Ricordare effettivamente questa melodia (e non semplicemente ricordare che ho udito quella melodia) significa compiere un atto rimemorativo complesso (che ha un certa durata), in cui quella particolare configurazione sonora sembra quasi risuonare nuovamente. Domani, volendo, potrò nuovamente rimemorare la melodia e anche tra diverse settimane. Ma se questo atto rimemorativo è possibile, è solo perché la ritenzione vuota della melodia percepita è ancora disponibile alla coscienza e lo sarà anche tra diverse settimane. Questa rappresentazione vuota che mi è ancora “presente” e a cui posso rivolgermi quando voglio, è il punto di partenza di una dinamica di progressivo riempimento che mette capo ad un’intuizione il più possibile compiuta, cioè ad una “immagine memorativa”. Il ricordo vero e proprio, la rimemorazione, è l’esito di questo processo intuitivo che prende le mosse dalla ritenzione vuota59. È evidente qui il nesso tra l’analisi della percezione e l’analisi del ricordo. Il rapporto tra ritenzione vuota e immagine memorativa nella rimemorazione è pensato da Husserl sul modello del rapporto tra intenzione e intuizione nella percezione. Nella percezione un’intenzione vuota si riempie progressivamente grazie ai contenuti offerti dall’intuizione sensibile. Allo stesso modo nella rimemorazione una ritenzione (che è ormai divenuta una intenzione vuota) trova di nuovo riempimento grazie ai contenuti offerti dalla “intuizione rimemorativa”. Si può comprendere allora perché Husserl paragoni la ritenzione al fenomeno della “rappresentazione anticipatrice”. Quando percepiamo qualsiasi 57 «In ogni caso vale però la legge secondo la quale le rimemorazioni possono scaturire solo grazie al ridestamento delle rappresentazioni vuote. Esse possono dunque comparire soltanto come conseguenze di rappresentazioni vuote che, da parte loro, per riuscire ad entrare nel presente vivente, sono scaturite da un ridestamento; [...]». E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 241. 58 Si potrebbe dire che la ritenzione è una rimemorazione potenziale: «Inoltre, lo ripetiamo, ogni percezione possiede il suo orizzonte di passato come potenzialità di suscitare atti di rimemorazione [...] ». E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 74. 59 «Le re-souvenir serait donc, selon la terminologie de Husserl, un “souvenir secondaire” (sekundäre Erinnerung) qui prendrait appui sur le “souvenir primaire” de la rétention». R. Bernet, L’encadrement du souvenir, cit., p. 248.

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oggetto l’insieme dell’esperienza che veniamo acquisendo determina delle aspettative concrete per l’esperienza che deve venire. Per esempio, ruotando per la prima volta tra le mani un oggetto sferico, la percezione presente della parte anteriore dell’oggetto determina una aspettativa circa la prossima percezione della parte posteriore: ci rappresentiamo in anticipo la parte posteriore dell’oggetto che abbiamo in mano come conforme a ciò che abbiamo fino ad adesso veduto, cioè come una superficie sferica. Questa rappresentazione è una anticipazione vuota o protenzione. Nel progresso del processo percettivo questa anticipazione vuota sarà riempita da un contenuto intuivo determinato, la visione del lato posteriore in se stesso. Nella protenzione abbiamo solo una rappresentazione vuota di ciò che verrà ed è la percezione che gradualmente riempie questo vuoto. Allo stesso modo nella ritenzione abbiamo solo una rappresentazione vuota di ciò che è stato ed la rimemorazione che riempie questo vuoto. Perciò, considerata in funzione dell’atto rimemorativo, la ritenzione è una sorta di anticipazione delle linee generali del ricordo. Nell’atto rimemorativo un’immagine (o più spesso una serie di immagini) provvede a dare concretezza e a determinare ciò che nella intenzione ritenzionale era preso di mira in modo generico60. In questo senso la ritenzione può persino essere definita come una «rimemorazione non intuitiva»: La ritenzione vuota – che in quanto ritenzione ridestata è propriamente già da designare come rimemorazione, ma come una rimemorazione non intuitiva (als Wiedererinerrung, aber als unanshauliche) – si verifica attraverso la coincidenza con la rimemorazione intuitiva corrispondente. Essa si riempie in senso pregnante 60

«Possiamo anche esprimerci così: proprio come la rimemorazione porta a datità il se stesso passato, più o meno chiaramente e, nel caso limite ideale, in modo del tutto chiaro, così la ritenzione vuota ha in sé questo se stesso in modo nient’affatto chiaro, in forma vuota: lo ha come un se stesso originariamente custodito (Aufbewahrtes), conservato (Verwahrtes), come qualcosa che è ancora cosciente e sotto presa. Quando l’impressione che dà originalmente è passata, il se stesso nonostante il vuoto, non è andato perduto. E d’altro canto: proprio come l’attesa intuitiva offre, invece della cosa stessa, solo una rappresentazione anticipatrice, un’immagine che anticipa ciò che accadrà, così anche la coscienza vuota di ciò che accadrà è solo una rappresentazione anticipatrice di ciò che accadrà, non una rappresentazione vuota della cosa stessa». E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 140. Il §18 delle Lezioni sulla sintesi passiva è ancora più esplicito su questo punto. Vi si legge che ad ogni forma della intuizione corrisponde una intenzione vuota. Così all’intuizione percettiva corrisponde l’orizzonte delle vuote co-presentazioni, all’intuizione rimemorativa corrisponde la ritenzione, mentre all’intuizione immaginativa corrisponde la protenzione. «Ci accorgiamo dunque e a titolo generale che ogni intenzione in generale è anticipatrice e deve questa proprietà precisamente a un tendere che, come tale, è diretto verso qualcosa cui soltanto spetta il compito di mettere capo ad una realizzazione. L’intenzione anticipa la realizzazione in originale di ciò che è futuro, e così pure di ciò che è co-presente attraverso la percezione, oppure anticipa la realizzazione di ciò che è passato attraverso la rimemorazione». Ivi, p. 132.

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in quanto è una intenzione memorativa vuota (leere Erinnerungsintention) cui, nell’intuizione rimemorativa (Wiedererinnerungsanschauung), è posto davanti agli occhi l’elemento oggettuale stesso, ed è posto proprio come quello stesso oggetto che essa aveva meramente inteso61.

L’immagine memorativa cui la rimemorazione mette capo, appare come ciò che riempie e verifica una ritenzione vuota.

10.Una difficoltà di fondo: che cos’è che viene ritenuto? La distinzione tra ritenzione vuota e ritenzione fresca pone una serie di problemi di non poco conto, e in particolare fa emergere in modo molto evidente una difficoltà di fondo che non è possibile aggirare. Possiamo riassumere questa difficoltà in una domanda apparentemente molto semplice: che cos’è che viene ritenuto? il senso noematico di una percezione? oppure i contenuti materiali attraverso i quali la percezione è “costruita”? Le analisi sviluppate da Husserl nelle lezioni sulla coscienza interna del tempo lasciano intendere in modo inequivocabile che la ritenzione è una modificazione dei contenuti materiali della percezione. Infatti, se la ritenzione è ciò che rende possibile il costituirsi di un oggetto temporale come la melodia, è evidente che sono i dati iletici alla base della percezione ciò che viene trattenuto dalla coscienza. Per poter intendere una figura sonora complessa è necessario che elementi sonori già passati siano ancora “presenti” alla coscienza. D’altra parte anche la contrapposizione tra impressione originaria e ritenzione non lascia alcun dubbio in proposito. Le impressioni sono date alla coscienza e, successivamente, sono ritenute. Ma le impressioni sono le sensazioni elementari, sono il materiale intuitivo di base attraverso cui è possibile percepire qualcosa. La permanenza di una impressione, per quanto non debba essere confusa con una presenza effettiva, come si è visto, non può che essere la permanenza (misteriosa) di un contenuto elementare di natura intuitiva. Se però si prendono in considerazione le analisi delle Lezioni sulla sintesi passiva, la risposta alla domanda circa i contenuti della ritenzione diviene molto più difficile. In queste lezioni infatti Husserl dice nel modo più esplicito che la ritenzione è una rappresentazione vuota, un’intenzione che ha perduto ogni contenuto intuitivo. D’altra parte che la ritenzione fosse un’intenzione (“una intenzionalità speciale”) Husserl lo aveva già sostenuto anche nelle lezioni sul tempo di Gottinga. Ed è proprio questa caratterizzazione della ritenzione come rappresentazione vuota che permette di spiega61

Ivi, p. 125.

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re il rapporto tra ritenzione e rimemorazione come una dinamica di riempimento. Solo intesa in questo secondo senso, la ritenzione può fungere da punto di partenza per il processo intuitivo caratteristico della rimemorazione. Infatti, intesa nel primo senso (come la permanenza di un contenuto impressionale), è difficile comprendere in che modo la ritenzione potrebbe essere “riempita” da un’immagine memorativa corrispondente. Ma se la ritenzione deve essere intesa in questo secondo senso, cioè come una rappresentazione vuota, come può svolgere un ruolo determinante all’interno del processo di costituzione di un oggetto temporale? Come può rendere possibile la percezione in quanto sintesi temporale? Consideriamo nuovamente l’esempio da cui abbiamo preso le mosse all’inizio di questo lavoro. Cos’è che viene ritenuto mentre percepiamo una melodia? Senza alcun dubbio le singole note che si susseguono una dopo l’altra sono trattenute in altrettante ritenzioni. Sono proprio queste ritenzioni che rendono possibile la costituzione della melodia come unità complessa. Ma, insieme alle ritenzioni delle sensazioni corrispondenti alle singole note, è necessario postulare che anche un altro “contenuto” sia ritenuto. Anche il senso unitario della melodia, il senso noematico, deve essere ritenuto. Questo senso si costituisce solo grazie al primo tipo di ritenzioni, cioè solo grazie alla permanenza non effettiva delle impressioni sensibili, ma non è completamente riducibile alla somma di questi dati iletici. Tanto è vero che se i dati iletici fossero sostituiti o modificati, noi potremmo ancora riconoscere la melodia con la sua identità. Se per esempio udiamo il celebre esordio della V sinfonia di Beethowen nella suoneria di un cellulare (può capitare!), noi lo riconosciamo senza esitazioni, anche se i suoni che il nostro orecchio recepisce non sono in nessun modo simili a quelli prodotti nell’esecuzione orchestrale che avevamo sentito per la prima volta. Bisogna dunque postulare a fondamento della percezione, non soltanto la permanenza delle impressioni sensibili, ma anche la permanenza dell’identità e del senso di ciò che è percepito. Quando rimemoriamo, quando ricordiamo la melodia a distanza di molti giorni, è da questo senso noematico che prende le mosse il processo memorativo. È questo senso noematico la prima cosa che “ci torna in mente”. Gradualmente poi, in un lavoro intuitivo paziente, possiamo tentare di riprodurre anche le intuizioni che corrispondono a questo senso noematico. I “contenuti” ritenuti sono dunque di due nature diverse. Il noema è ritenuto, in quanto senso unitario inteso in una percezione. Ma anche l’impressione è ritenuta, in quanto dato iletico necessario alla costituzione di un senso noematico complesso. Grossomodo si può dire che la ritenzione del noema è una ritenzione vuota, mentre la ritenzione dell’impressione è una ritenzione fresca. D’altra parte, se è vero che la ritenzione è una carat47

teristica universale di tutti i vissuti della coscienza, è necessario che tanto il senso noematico preso di mira in una intenzione, quanto i contenuti intuitivi che lo illustrano, subiscano la medesima modificazione.

11.Ritenzione e riconoscimento C’è un fenomeno della vita della coscienza che documenta in modo particolarmente significativo come la ritenzione riguardi non soltanto le impressioni, ma anche il senso noematico dell’esperienza. È un fenomeno cui Husserl non ha dedicato molte attenzioni, ma che ha una importanza centrale in una fenomenologia della memoria: si tratta del riconoscimento. Prendiamo in considerazione due esempi. Sto cercando di raggiungere la casa di un amico in cui sono stato solo una volta e non riesco a ricordare bene la strada. Mi trovo improvvisamente in una piazza in cui sono sicuro di essere già stato. La riconosco: è la piazza dove siamo stato insieme a prendere un caffè, il che significa che sono sulla strada giusta... Si tratta di una esperienza di riconoscimento molto comune. Un altro caso altrettanto frequente è quello del riconoscimento dei volti. Incontro ad un convegno una giovane donna che sono sicuro di aver già visto. Non riesco in nessun modo a ricordare niente di lei: né come si chiama, né cosa studia, né quando ci siamo incontrati. So solo con certezza assoluta che la conosco... Qual è la caratteristica peculiare di questo genere di esperienze? Evidentemente si tratta di esperienze che hanno una relazione essenziale con il passato. Ma nel riconoscimento il passato non è dato in modo esplicito62. Il passato è per così dire “operante”, ha un ruolo determinante nella percezione attuale, ma non è esplicitamente richiamato. Infatti negli esempi che ho proposto non è presente nessun ricordo vero e proprio, nessuna rimemorazione. Anzi a ben vedere si tratta di episodi in cui la rimemorazione fallisce in modo molto evidente: non riesco a ricordare la strada e non riesco a ricordare chi è la ragazza che ho davanti. Per questa ragione il riconoscimento sembrerebbe legato in primo luogo alla percezione e non al ricordo. Mentre sto vedendo, qui e ora, una certa strada o il volto di una certa persona, accade che io lo riconosca. Il che significa che ciò che si manifesta nella percezione presente mi appare come identico a ciò mi è stato dato in una percezione passata, senza bisogno che quest’ultima sia presentificata. Ma cos’è che rende possibile questa identificazione? 62

«[...] past experience of the recognizing object is presupposed even if it is not manifest as such in the experience itself». E. Casey, Remembering. A Phenomenological Study, Indiana University Press, Bloomington, 1987, p. 123.

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In effetti, se si riflette con attenzione, ci si accorge che il riconoscimento non è affatto un fenomeno percettivo accessorio. La percezione implica sempre un riconoscimento63. Mentre mi appare il lato posteriore di un oggetto io “riconosco” che si tratta “ancora” dello stesso oggetto di cui ho visto il lato anteriore. Senza questo riconoscimento, senza questa sintesi dell’identità, non avrei una percezione unitaria ma un collage di frammenti. Non è un caso se Husserl si imbatte nella problematica del riconoscimento all’interno di una analisi serrata della percezione. Le Lezioni sulla sintesi passiva mostrano mirabilmente come la percezione, nel suo procedere, renda noti aspetti sempre nuovi della cosa percepita. Nel progresso percettivo le nuove apparizioni si fanno avanti e le vecchie svaniscono. Ma, come sappiamo, le apparizioni che non sono più date non svaniscono nel nulla. «Ciò che è già noto, sebbene sia divenuto vuoto, è liberamente disponibile in quanto la ritenzione vuota che rimane può essere in ogni momento liberamente riempita e in ogni momento attualizzata attraverso una ripercezione che ha il carattere del riconoscere»64. In altre parole nel processo percettivo, esplorando una cosa materiale in tutti i suoi lati, possiamo sempre ritornare a ciò che abbiamo già visto e questo ritorno ci appare come una ri-percezione. Infatti ciò che era stato precedentemente percepito non è andato completamente perduto, ma è trattenuto nella ritenzione. È per questo che la nuova percezione dello stesso aspetto già visto, ci appare come una ri-percezione, cioè come un riconoscimento. Ma allora la ritenzione è la condizione di possibilità del riconoscimento. Già da questi brevi accenni si può intuire come l’analisi del riconoscimento e l’analisi della ritenzione siano sostanzialmente complementari. Riconoscere, infatti, che cosa significa? Significa constatare un’identità, cioè accorgersi che il fenomeno X che sto percependo è lo stesso fenomeno X che ho già percepito in passato. Affinché questa consapevolezza sia possibile è necessario che la percezione passata, o almeno l’essenziale della percezione passata, sia ancora raggiungibile dalla coscienza. Ma che cos’è che è ancora presente della percezione passata nel momento in cui accade il riconoscimento? un’immagine? un ricordo? la percezione stessa? Niente di tutto ciò. Nel riconoscimento noi non confrontiamo due immagini e non confrontiamo nemmeno una percezione e un ricordo. Se ne deve concludere, allora, che ciò che permane della percezione passata è il senso noematico. È la permanenza del senso noematico che rende possibile il riconoscimento.

63 Non solo la percezione ma ogni forma di intuizione. Prendiamo un caso estremo, il caso di una fantasia onirica. Nel sogno sono inseguito da un assassino e fuggo. Ma l’assassino riappare dietro l’angolo: lo “riconosco”, è nascosto tra la folla, è ancora lui che mi perseguita... 64 E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 41.

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Solo così si può spiegare perché è possibile riconoscere ciò che non siamo in grado di ricordare65.

12.L’interpretazione della nozione di ritenzione Nella suo tentativo di decostruire i concetti fondamentali del pensiero husserliano, J. Derrida ha dato una interpretazione della nozione di ritenzione molto significativa, che è necessario richiamare brevemente, per comprendere quali sono i problemi che fanno da sfondo alle analisi di questo saggio. In La voce e il fenomeno egli individua nella ritenzione la chiave di volta del sistema di distinzioni essenziali su cui è costruito tutto l’edificio fenomenologico. In questo senso decostruire l’idea husserliana di ritenzione significa mettere in dubbio la possibilità stessa della fenomenologia, così come la intende Husserl. Qual è infatti il “principio dei principi” della scienza fenomenologica?66 Qual è la sorgente di ogni certezza per il fenomenologo? L’evidenza. Ma che cos’è l’evidenza? L’evidenza è la “presenza” intuitiva del senso. Le cose stesse a cui la fenomenologia vuole tornare ci sono date originalmente e in carne ed ossa nell’intuizione. Questa insistenza sull’evidenza e sulla presenza intuitiva pone un serissimo problema. Se la compiuta datità di un oggetto è assicurata dalla sua presenza in carne ed ossa, la percezione è il paradigma di tutti gli atti intuitivi. Ma l’analisi della percezione mostra – come si è visto – che in ogni istante solo una sensazione singola è effettivamente “presente” alla coscienza percipiente. Dunque solo questa singola e puntuale impressione sensibile – che in realtà è una mera astrazione – è veramente “data”. Tutto il resto, tutto l’insieme di sensazioni appena passate che pure sono necessarie perché la percezione sia possibile, non è veramente dato, è ritenuto. La questione decisiva allora è: i contenuti ritenuti hanno la stessa evidenza dei contenuti effettivamente presenti? Husserl non ha dubbi: la ritenzione offre il suo contenuto in una datità originaria. La ritenzione partecipa ancora del65 Un’importante conseguenza di questo legame tra analisi della ritenzione e analisi del riconoscimento riguarda la rimemorazione. La differenza tra rimemorazione e fantasia – è questo il problema principale del secondo saggio – a cosa si riconduce? La rimemorazione è una presentificazione “riconosciuta” come già stata. Un’immagine appare e la riconosciamo come una immagine che abbiamo già visto in precedenza. La ritenzione consente dunque l’ancoraggio della rimemorazione nella percezione. 66 Cfr. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, Erstes Buch: “Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie”, Husserliana III, Martinus Nijhoff, Den Haag, 1976, tr. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I, Libro primo: “Introduzione generale alla fenomenologia pura”, Einaudi, Torino, 2002, p. 52.

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la medesima originarietà dell’impressione iniziale e in un certo senso si può dire che “estende” l’originarietà, e quindi l’evidenza, propria dell’istanteora agli istanti appena passati. Ciò che Derrida contesta è precisamente questa pretesa originarietà67. Se l’evidenza è data dalla presenza intuitiva e se i contenuti ritenuti non sono più presenti, come si può sostenere che la ritenzione condivida la stessa evidenza dell’impressione originaria? [...] nella ritenzione, la presentazione che si dà a vedere fornisce un non presente, un presente-passato ed inattuale. Si può quindi sospettare che se nonostante ciò Husserl la chiama percezione, questo avvenga perché egli tiene di fatto a questo, che la discontinuità radicale passi tra la ritenzione e la riproduzione, tra la percezione e l’immaginazione, ecc., non tra la percezione e la ritenzione. È il nervus demonstrandi della sua critica di Brentano68.

Posto di fronte alla problematica della permanenza dell’appena passato nella percezione, Brentano aveva creduto di trovare una soluzione nel ricorso alla immaginazione. Se l’istante appena passato non è più effettivamente presente, ma nello stesso tempo è ancora sotto lo sguardo della coscienza, si può ipotizzare che sia immaginato. La percezione, in quanto sintesi temporale, risulterebbe così composta di una fase-ora effettivamente sentita, cioè data, e di un insieme di fasi-ora appena passate riprodotte nell’immaginazione. Ma una prospettiva del genere è del tutto inaccettabile per Husserl. Come si può accettare che la percezione, il paradigma di ogni evidenza, il solo atto intuitivo in grado di portare a datità le cose in carne ed ossa, sia così dipendente dalla fantasia, il più aleatorio degli atti della coscienza? Si potrebbe ancora parlare di evidenza senza una chiara distinzione tra ciò che è dato, cioè percepito, e ciò che è soltanto immaginato? Animato da questa preoccupazione, Husserl costruisce le sue lezioni sulla coscienza interna a partire da una contrapposizione di fondo tra percezione e non percezione. Da una parte c’è la percezione, attraverso cui le co67 Per Derrida la ritenzione, nella misura in cui offre una non-presenza appartiene alla stessa categoria essenziale della rimemorazione e della fantasia: è cioè una non-percezione. «La differenza tra la ritenzione e la riproduzione, tra il ricordo primario e il ricordo secondario, è la differenza che Husserl vorrebbe radicale, non tra la percezione e la non percezione, ma tra due modificazioni della non-percezione. Qualunque sia la differenza fenomenologica tra queste due modificazioni, malgrado gli immensi problemi che essa pone e la necessità di tenerne conto, essa separa soltanto due modi di riferirsi alla non-presenza irriducibile di un altro adesso» (J. Derrida, La voix et le phénomène, Presses Universitaires de France, Paris 1967, tr. it. La voce e il fenomeno, Jaca Book, Milano 1997, p. 101). Si noterà in questo passo la cautela di Derrida («qualunque sia la differenza fenomenologica…», «malgrado la necessità di tenerne conto») che non nega (perché non si può negare) che vi sia una distinzione tra ritenzione e rimemorazione ma ne propone una interpretazione destabilizzante. 68 Ivi, p. 100.

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se ci sono date in carne ed ossa, dall’altra ci sono tutti gli altri atti intuitivi, come la fantasia, il ricordo, la coscienza di immagine ecc. In questa contrapposizione la nozione di ritenzione gioca il ruolo decisivo. Infatti se la ritenzione è responsabile della permanenza dell’appena passato nella percezione, la possibilità della costituzione di oggetti percettivi complessi non è più messa sul conto della immaginazione, come accadeva in Brentano. La nozione di ritenzione permette di spiegare la presenza dei contenuti percettivi svaniti senza chiamare in causa la fantasia. In questo modo è possibile fissare una distinzione chiara tra ciò che è percepito e ciò che è fantasticato. In altre parole la nozione di ritenzione è lo “strumento concettuale” attraverso cui Husserl stabilisce la possibilità di una chiara distinzione tra reale e immaginario69. Naturalmente bisogna fare molta attenzione qui a non fraintendere il significato della parola “reale”. Il problema della realtà esterna non interessa il fenomenologo che si muove nella sfera dell’immanenza, dove la distinzione tra reale e non reale non ha senso. Nell’immanenza i fenomeni appaiono o non appaiono, indipendentemente dalla loro realtà. Ciononostante io credo che abbia senso parlare – con la dovuta prudenza – di una “intenzione realistica” della fenomenologia husserliana. Mi sembra cioè che una delle preoccupazioni principali di Husserl sia di garantire la possibilità di distinguere chiaramente percezione e immaginazione. Non è strano dunque che Derrida abbia preso di mira proprio questo punto nevralgico del pensiero husserliano70. La decostruzione, infatti, è innanzitutto una contestazione 69 B. Stiegler ha molto insistito su questo punto nella sua interpretazione delle lezioni sul tempo di Husserl, dando ampio sviluppo alle critiche avanzate da Derrida in La voce e il fenomeno. «L’argument essentiel consiste à poser qu’en attribuant au moment du passé un caractère imaginaire, Brentano rend impossible toute distinction entre présent, passé e futur, sauf à poser que passé e futur sont des “irréels”». B. Stiegler, La technique et le temps, vol. I: “Le faute d’Épiméthée”, Galilée, Paris, 1994, p. 251. «Il y aurait une discontinuité essentielle entre perception et imagination à laquelle s’opposerait la continuité du “grand maintenant”». B. Stiegler, La technique et les temps, vol. II: “La désorientation”, cit., p. 234. «Cependant, en posant que la rétention primaire n’est pas une production de l’imagination, mais le phénomène de la perception du temps par excellence, Husserl doit non seulement distinguer la rétention primaire de la rétention secondaire, comme on comprend aisément que c’est nécessaire, mais proprement les opposer. Opposer les souvenirs primaires aux souvenirs secondaires, les rétentions primaires de la perception aux ressouvenirs de la mémoire, c’est instaurer une différence absolue entre perception et imagination, c’est poser que la perception ne doit rien à l’imagination, et ce qui est perçu n’est en aucun cas imaginé, ne peut absolument pas être contaminé par les fictions en quoi consistent toujours les productions de l’imagination: la vie est perception et la perception n’est pas l’imagination». B. Stiegler, La technique et le temps, vol. III: “Le temps du cinéma et la question du mal-être”, Galilée, Paris, 2001, p. 39. 70 Secondo il più tipico stile della decostruzione Derrida affida ad una nota, apparentemente “marginale”, il compito di esplicitare «l’intenzione prima» e «l’orizzonte lontano» del suo

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dei concetti classici di verità, realtà, evidenza, come chiarisce Ousia e grammé: «[...] è il legame fra la verità e il presente che è necessario pensare, in un pensiero che di conseguenza non deve forse più essere vero né presente, per il quale il senso e il valore di verità sono messi in questione come mai nessun momento intra-filosofico ha potuto fare, soprattutto non ha potuto farlo lo scetticismo e tutto quello che con esso fa sistema»71. L’obbiettivo ultimo della discussione dei concetti di espressione, indicazione e ritenzione, sviluppata in La voce e il fenomeno è un ripensamento dei rapporti tra immaginazione e realtà. Derrida lo dice esplicitamente: «Che si tratti di espressione o di comunicazione indicativa, la differenza tra la realtà e la rappresentazione, tra il vero e l’immaginario, tra la presenza semplice e la ripetizione ha già da sempre cominciato a cancellarsi»72. In realtà la posizione di Husserl a questo proposito è molto più complessa di quanto non lasci intendere La voce e il fenomeno. Se è vero che la critica della teoria brentaniana può apparire come un tentativo di ridimensionare il ruolo dell’immaginazione nei processi percettivi, è anche vero che la saggio sulla prima ricerca logica: «L’originalità fenomenologica che Husserl vuole così rispettare lo porta e porre una eterogeneità assoluta tra la percezione o presentazione originaria (Gegenwärtigung, Präsentation) e la ri-presentazione o ri-produzione rappresentativa, che si traduce anche con presentificazione (Vergegenwärtigung). Il ricordo, l’immagine, il segno sono delle ri-presentazioni in questo senso. A dire il vero, Husserl non è condotto a riconoscere questa eterogeneità: quest’ultima costituisce tutta la possibilità della fenomenologia che ha senso solo se una presentazione pura e originaria è possibile e originale. Una tale distinzione [alla quale bisogna aggiungere almeno quella tra ri-presentazione posizionale (setzende) che pone l’essendo-stato-presente nel ricordo, e la ri-presentazione immaginaria (Phantasie- Vergegenwärtigung) che è neutra a questo riguardo] di cui non possiamo qui studiare direttamente tutto il sistema complesso e fondamentale, è quindi lo strumento indispensabile per una critica della psicologia classica, in particolare della psicologia classica della immaginazione e del segno. Ma non è possibile assumere la necessità di questa critica della psicologia ingenua soltanto fino ad un certo punto? e mostrare finalmente che il tema ed il valore di “presentazione pura”, di percezione pura e originaria, di presenza piena e semplice, ecc., costituiscono la complicità della fenomenologia e della psicologia classica, la loro comune presupposizione metafisica? Affermando che la percezione non esiste o che ciò che si chiama percezione non è originario, e che in un certo modo tutto comincia con la “ri-presentazione” (tesi che può evidentemente sostenersi solamente nel cancellare questi due ultimi concetti: essa significa che non vi “è” cominciamento e che la ri-presentazione di cui parliamo non è la modificazione di un “ri”sopraggiunto ad una presentazione originaria), reintroducendo la differenza del “segno” nel cuore dell’“originario”, non si tratta di ritornare aldiquà della fenomenologia trascendentale, che ciò sia verso un “empirismo” o verso una critica “kantiana”, della pretesa all’intuizione originaria. Abbiamo così indicato l’intenzione prima – e l’orizzonte lontano – del presente saggio». J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 78 n. 71 J. Derrida, Ousia et grammé. Note sur une note de Sein und Zeit, in J. Derrida, Marges de la philosophie, Les Èditions de Minuit, Paris, 1972, tr. it. Ousia e grammé. Nota su una nota di Sein und Zeit, in Margini della filosofia, Einaudi, Torino, 1997, p. 69. 72 J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 84.

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concezione husserliana della rimemorazione – come si vedrà nel secondo saggio – è orientata in senso opposto. La ritenzione non è immaginazione, ma la rimemorazione sì. La fenomenologia della memoria si trova così di fronte ad una domanda temibile: ammesso che, grazie alla “scoperta” della ritenzione, sia possibile dividere chiaramente il mondo della percezione dal mondo dell’immaginazione, cosa accade quando prendiamo il considerazione non il presente, ma il passato? Come è possibile distinguere una mera fantasia da un vero e proprio ricordo? Come è possibile accertare ciò è “veramente” accaduto? Ma che cosa rispondere alla domanda, se il rimemorato sia stato veramente? E alla domanda circa la validità della rimemorazione? Essa si riferisce a una percezione precedente e la pone come realmente avvenuta. Questo glielo vediamo addosso, è un dato. Ma è proprio necessario che questa posizione sia valida? [...] Sembra così che, nei nostri enunciati fenomenologici, noi siamo legati mani e piedi ai fenomeni attuali, ai fenomeni nella loro presenza reale; finché il fenomeno dura, finché vi è là ciò che essi pongono come fenomenologicamente essente e così e così costituito. Ma appena il fenomeno è passato, l’enunciato perde il suo sostrato di validità. [...] Questo è dunque poco meno che scetticismo assoluto. Anzi, possiamo tranquillamente affermare che è assoluto scetticismo73.

Che ne è dunque della “realtà del passato? Qual è il rapporto tra ricordo e immaginazione?

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E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., pp. 333-334 passim.

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2. L’“immagine” del passato: la rimemorazione

La rimemorazione (Wiedererinnerung) è il fenomeno della vita della coscienza che più si avvicina all’accezione comune della parola “ricordo”. Sembrerebbe dunque più facile, rispetto alla ritenzione, spiegare di che si tratta e reperire esempi da analizzare. In realtà ci si accorge presto che un’analisi fenomenologica della rimemorazione conduce a problemi intricatissimi, forse anche ad aporie. La rimemorazione è l’atto psichico attraverso cui ci ripresentiamo una porzione del passato definita, chiusa, compiuta, che generalmente è separata dal presente da una discontinuità temporale. In questo differisce notevolmente dalla ritenzione che, come si è detto, entra in gioco in modo determinante nella costituzione della presenza. Per riprendere l’esempio husserliano con cui avevano preso inizio le analisi del primo saggio, si può dire che, mentre la ritenzione è ciò che rende possibile la “percezione” di una melodia in quanto oggetto temporale, la rimemorazione è ciò che consente di “ricordare” la medesima melodia anche a distanza di molto tempo1. A differenza della ritenzione la rimemorazione è un atto intuitivo. La ritenzione, come si è detto, è solo un momento di un atto psichico, il momento intenzionale. La rimemorazione, invece, è un atto psichico completo, costituito dalla unità di una intenzione ritenzionale e di un contenuto intuitivo, l’immagine memorativa. 1

Generalmente la rimemorazione ha a che fare con fenomeni più lontani nel tempo rispetto alla ritenzione. Ma non è detto che sia sempre così. Come nota giustamente Piana la differenza tra ritenzione e rimemorazione «non può essere ridotta ad una differenza nella quantità del tempo trascorso: come se la ritenzione fosse un ricordo di esperienze appena passate e la rievocazione [qui Piana chiama “rievocazione” la rimemorazione] un ricordo di esperienze remote». G. Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano, 1967, Edizione digitale: 1998, p. 100. Io posso ricordare, in una vera e propria rimemorazione, la parete che ho visto un istante fa e che ora si trova alle mie spalle. Si tratta in questo caso di una rimemorazione che riguarda un passato molto recente. D’altra parte grazie alla ritenzione – come si è visto nelle analisi del primo saggio dedicate alla ritenzione vuota – io posso restare in rapporto con un passato molto lontano nel tempo, che non ricordo esplicitamente, ma che in qualche modo mi è ancora presente.

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Questa definizione iniziale non deve essere presa alla leggera. Che la rimemorazione sia un atto intuitivo significa che il ricordo, nella sua forma compiuta, è un atto dello stesso genere della percezione: nel ricordo rivediamo, ri-udiamo, ri-sentiamo. Quando ripensiamo ad un incontro con un amico, possiamo quasi rivedere il modo scomposto in cui era seduto, possiamo quasi riudire le parole che ci hanno colpito. E quando ritorniamo nella memoria in un luogo dove siamo stati, ci sembra quasi di risentire un odore particolare. Certamente non si tratta di un “vedere” e di un “sentire” in tutto e per tutto uguali al vedere e al sentire della percezione. Husserl utilizza sistematicamente l’avverbio “quasi” (gleichsam) per rendere giustizia di questa differenza. Ma non deve sfuggire che, nella misura in cui è definita come un atto intuitivo, la rimemorazione è pensata come una quasipercezione. Questo significa che, anche se si tratta di una possibilità nei fatti non realizzabile, l’ideale ultimo della rimemorazione sarebbe la completa ri-percezione (Wiederwahrnehmung)2. Conseguenza diretta di questa concezione è che molti dei fenomeni psichici per cui il linguaggio ordinario riserva il verbo “ricordare”, non possano essere considerati come rimemorazioni. Diciamo ad esempio: “ricordo la dimostrazione del teorema di Pitagora”, oppure “ricordo che Roma fu fondata nel 753 a.c.”. Ma questi “ricordi” non hanno un rapporto preciso con una percezione che appartenga alla nostra esperienza passata. Non si tratta dunque di rimemorazioni, come avrò modo di spiegare meglio nel terzo saggio. Ciò che è essenziale, infatti, è che nella rimemorazione il passato appare3.

1. La rimemorazione come presentificazione intuitiva La rimemorazione è concepita da Husserl come una presentificazione intuitiva. Ma cosa significa “presentificazione” (Vergegenwärtigung)? Cosa 2

È chiaro che questo ideale è di per sé problematico. Bisogna chiedersi infatti se una perfetta ri-percezione sarebbe ancora un ricordo o se, piuttosto, la parzialità e l’inesattezza non appartengano alla natura essenziale del ricordo. Le testimonianze cliniche (il caso più sorprendente rimane quella descritto da Lurija. Cfr. A.R. Lurija, Una memoria prodigiosa, Editori Riuniti, Roma, 1975) a proposito degli individui dotati di eccezionali capacità mnemoniche mostrano chiaramente gli effetti deleteri di una memoria illimitata. 3 La rimemorazione è l’immagine del passato. Ma bisogna precisare il senso della parola “immagine” in questo contesto. Non si tratta di un’immagine come una fotografia o un quadro. Come verrà precisato meglio in seguito, analizzando i testi di Husserliana XXIII, l’immagine memorativa non è una immagine reale. In questo senso la rimemorazione non è “coscienza di immagine”. Dire che la rimemorazione è l’immagine del passato significa dire che la rimemorazione è un rapporto intuitivo con il passato.

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significa “intuizione”? Husserl ha dedicato molte delle sue energie al tentativo di elaborare i tratti essenziali di una fenomenologia delle varie forme di intuizione. Il principio di fondo che guida le analisi husserliane degli atti intuitivi è che vi sia una contrapposizione invalicabile tra presentazione (Gegenwärtigung / Präsentation) e presentificazione. Il criterio dirimente di questa distinzione è la “presenza” dell’oggetto intenzionato. Nella presentazione l’oggetto si dà come presente. La percezione, nella misura in cui è l’atto attraverso cui ci viene dato qualcosa in se stesso, nell’originale, è l’unico atto presentante. Nella presentificazione, invece, abbiamo a che fare con una non-presenza. Presentificare significa rendere presente qualcosa di assente. Benché nello sviluppo del pensiero di Husserl vi siano notevoli ripensamenti, per ciò che riguarda i diversi aspetti di questa fenomenologia delle forme intuitive, questa contrapposizione essenziale non viene mai messa in dubbio. Nelle lezioni sulla coscienza interna del tempo essa assume il più delle volte la forma di una opposizione tra “impressione originale” (Urimpression) e “riproduzione” (Reproduktion). Stabilita definitivamente (e in un certo senso per principio, come suggerisce Derrida) questa distinzione essenziale, è necessario procedere a determinare le ulteriori distinzioni che si danno all’interno della vasta famiglia delle presentificazioni. La pura fantasia (reine Phantasie), la “coscienza di immagine” (Bildbewusstsein), la rimemorazione, l’“aspettazione” (Erwartung), la “co-presentazione” (Mitgegenwärtigung), sono tutte varietà della presentificazione. Tutti questi vissuti hanno in comune due tratti essenziali: sono intuitivi, come la percezione, ma in essi la coscienza ha a che fare con qualcosa che non è presente, ma presentificato. Alle spalle della distinzione essenziale tra presentificazione e presentazione se ne trova un altra, ancora più fondamentale. È la distinzione tra atti intuitivi e atti signitivi. Intuire significa raggiungere l’oggetto direttamente, senza alcuna mediazione: nella percezione è il percepito stesso che si presenta, nel ricordo è il ricordato stesso che si dà a vedere, nella fantasia è proprio il fantasticato che appare4. Al contrario la significazione è un rapporto mediato con l’oggetto. Quando leggo un testo scritto, per esempio la descrizione di un oggetto, è solo attraverso la mediazione del linguaggio che sono rivolto all’oggetto stesso. Anche in questo caso l’oggetto mi è 4

Cfr. E. Husserl, Idee..., vol. I, cit., p. 104: «Negli atti immediatamente intuitivi noi intuiamo “qualcosa in se stesso”; non costruiamo sulle loro apprensioni delle apprensioni di grado superiore, non vi è nulla di dato alla coscienza rispetto a cui ciò che è intuito potrebbe servire da “segno” o da “immagine”. E appunto perciò esso è detto immediatamente intuito “come se stesso”. Nella percezione esso è inoltre peculiarmente caratterizzato come “presente in carne ed ossa”, in contrasto con le modificazioni che hanno luogo nel ricordo e nella libera fantasia dove esso si “presentifica”, “fluttua” dinanzi a noi».

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“dato” in qualche modo, ma non mi è dato in senso stretto, in originale. Mi è dato attraverso un segno. Le presentificazioni possono essere intuitive o non intuitive. In entrambi i casi abbiamo a che fare con un oggetto assente. Ma solo nel primo caso l’oggetto assente è reso presente immediatamente, la cosa stessa “appare” (erscheint), anche se non proprio “in carne ed ossa”5. C’è dunque una differenza sostanziale tra la presentificazione intuitiva di un assente e la sua rappresentazione in un segno. La presentificazione intuitiva non è un atto signitivo. Perciò nel caso della rimemorazione, non si dà alcun intermediario, non si dà alcuna mediazione tra la coscienza e il suo oggetto. Nella rimemorazione non c’è alcun segno.

2. Presentificazione, rimemorazione, fantasia. La modalità di credenza nella rimemorazione e nella fantasia L’oggetto presentificato è sempre un oggetto assente. L’intuizione di un oggetto assente sembrerebbe essere una prerogativa essenziale della fantasia. Fantasticare significa, in effetti, essere rivolti in modo intuitivo ad un oggetto che non è presente. Possiamo rappresentarci nella fantasia un centauro, per esempio. Benché il centauro non sia presente, né effettivamente percepito, questa rappresentazione può essere molto ben determinata e ricca di dettagli: ci sembra quasi di vedere gli zoccoli scalpitanti, la barba ispida, il petto irsuto. Esattamente come nel caso della rimemorazione, nella fantasia possiamo quasi-vedere, quasi-toccare, ecc. Ci si imbatte così nella domanda fondamentale: qual è il rapporto tra rimemorazione e fantasia? Anche nella rimemorazione, infatti, la coscienza ha a che fare con oggetti assenti. La posizione di Husserl a riguardo è spregiudicata: rimemorazione e fantasia sono vissuti dello stesso genere6. Nonostante la sua pretesa di “fe5 «Nella rimemorazione ci “appare” un “ora”, ma “appare” in un senso ben diverso da quello in cui l’“ora” appare nella percezione. Questo “ora” non è “percepito”, cioè dato in se stesso, ma presentificato. Esso rappresenta un “ora” che non è dato. Alla stessa stregua il decorso della melodia nella rimemorazione rappresenta un “appena passato”, ma non lo dà. [...] Qui dunque è in questione un concetto del tutto diverso di percezione. Percezione è l’atto che pone sott’occhio qualcosa come “se stesso”, l’atto che costituisce originariamente l’oggetto. Al contrario la presentificazione è rappresentanza, cioè un atto che non pone sott’occhio l’oggetto in se stesso, ma appunto lo rende presente, quasi ce lo propone in immagine, sebbene neppure proprio alla maniera di una autentica coscienza di immagine». E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 74. 6 Sulle caratteristiche comuni alla fantasia e al ricordo cfr. E. Casey, Comparative Phenomenology of Mental Activity: Memory, Hallucination, and Fantasy Contrasted with Imagination, “Research of Phenomenology”, n. 6, 1976, pp. 1-25.

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deltà” al reale, la rimemorazione è una presentificazione esattamente come la fantasia. Non deve sfuggire la radicalità di questa posizione. Contro il senso comune che mantiene una salda differenza tra fantasia e ricordo; contro una autorevole tradizione filosofica che pensa il ricordo come una derivazione diretta della percezione, nella sua classificazione degli atti intuitivi Husserl accomuna la rimemorazione alla fantasia e la contrappone alla percezione7. Ma che ne è allora della differenza tra la realtà del passato e l’irrealtà dell’immaginario? È un problema va posto ad un altro livello. È un problema che riguarda le “modalità dossiche” degli atti psichici. Le presentificazioni possono essere di due tipi: “tetiche” e “non tetiche”. La presentificazioni tetiche sono caratterizzate da una “posizione” di realtà, a differenza delle presentificazioni non tetiche. L’oggetto di una presentificazione tetica è posto come certo, dubbio o possibile ecc. La rimemorazione è una presentificazione tetica (ma non l’unica8). La pura fantasia invece è una presentificazione non tetica9. Questa è l’unica vera differenza tra le due10. Bisogna notare poi che il significato della parola “presentificazione” è così vicino a quello della parola “fantasia” che molte volte Husserl le usa come equivalenti11. Per questo caratterizzare il ricordo come presentificazione tetica significa concepirlo come una particolare forma di fantasia. In Husserliana XXIII, infatti, la rimemorazione viene esplicitamente inquadrata come una specie particolare del genere “rappresentazione di fantasia”: «Le rappresentazioni di fantasia si dividono in semplici rappresentazioni e in ricordi. Questi

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Si noterà qui un movimento di pensiero quasi contraddittorio: da una parte, concependo la rimemorazione come una ri-percezione, Husserl la sottomette al primato della percezione e la ancora alla realtà. Dall’altra, classificandola come una presentificazione, la accomuna alla fantasia e la espone alle fluttuazioni dell’immaginario. 8 Anche la co-presentificazione – per esempio – è una presentificazione tetica, che pone il proprio oggetto come reale. 9 E Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 89. 10 Gli atti tetici sono «atti che “pongono” l’essere». Una percezione, per esempio, è un atto tetico, è un atto psichico a cui si accompagna una credenza: il percepito può essere certo, quando non dubitiamo della sua realtà, ma può anche essere dubbio, come quando sospettiamo di essere preda di una illusione. Allo stesso modo l’oggetto di una rimemorazione può essere certo, probabile, dubbio ecc. Per la fantasia, invece, non vale lo stesso discorso. La fantasia non è un atto tetico. Il fantasticare è accompagnato da una coscienza dossica neutralizzata: non è cioè posizionale, non pone il suo oggetto né come certo, né come dubbio ecc. Ad una certa modalità di credenza dal lato noetico corrisponde sempre una certo carattere dell’essere dal lato noematico: così alla certezza percettiva corrisponde la “realtà” del percepito (cfr. E. Husserl, Idee…, vol. I, cit. p. 261). Bisogna fare molta attenzione a non scambiare questa credenza con una operazione consapevole del pensiero. 11 «Bisogna osservare che nel linguaggio comune presentificazione (riproduzione) e fantasia si confondono». Ivi, p. 271.

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ultimi sono anche caratterizzati dalla credenza»12. Il testo n. 1, che è un corso del 1904, è particolarmente esemplificativo a riguardo. Si tratta di una corso dedicato al problema della fantasia, ma Husserl non esita a citare casi di rimemorazione nelle sue analisi. Per il lettore digiuno di fenomenologia non può non risultare estranea la disinvoltura con cui in questo testo le rimemorazioni vengono chiamate in causa come esemplificazioni del tutto equivalenti alle fantasie. Per il fenomenologo invece la cosa non fa problema: si tratta di vissuti che hanno la stessa struttura e la stessa natura13. Piuttosto la difficoltà è capire se la rimemorazione debba essere pensata a partire dalla fantasia e non viceversa. Se infatti si avvicinano i testi di Husserliana XXIII ad altri testi successivi, ci si accorge che sarebbe errato classificare la rimemorazione come una specie del genere fantasia. In realtà dal punto di vista genetico la derivazione è esattamente opposta. Nel § 111 di Ideen I la fantasia è caratterizzata come una modificazione del ricordo: «[...] il fantasticare in generale è la modificazione di neutralità della presentificazione “posizionale”, dunque del ricordo nel senso più vasto che si possa pensare»14. Ma cosa significa questa neutralizzazione del valore posizionale del ricordo? Bisogna forse pensare che tutte le nostre fantasie derivano dalle rimemorazioni? che sono dei ricordi modificati? dei ricordi che hanno perso di credibilità? Certamente il rapporto tra memoria e immaginazione è un problema profondo: ci si deve chiedere se l’immaginazione non abbia un debito essenziale nei confronti della memoria. In ogni caso è chiaro che la fantasia di x ha la stessa struttura e la stessa natura della rimemorazione di x. Ne consegue che qualsiasi immagine memorativa, privata della certezza del suo esser stato, diviene del tutto identica alla corrispondente immagine di fantasia. Ma ne consegue anche che qualsiasi immagine di fantasia che si presentasse caratterizzata da una credenza certa sarebbe vissuta dalla coscienza come una rimemorazione. Qui si apre la breccia attraverso cui si insinuano i più inquietanti equivoci della memoria15. 12

«Die Phantasievorstellungen zerfallen in bloße Vorstellungen und Erinnerungen. Die letzten [sind] ebenfalls durch Glauben ausgezeichnet» (traduzione dell’autore). E. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung. Zur Phänomenologie der anschaulichen Vergegenwärtigung, Husserliana XXIII, Kluwer Academic Publishers, Dodrecht-Boston-London, 1980, p. 81. Cfr. anche Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 82 e p. 78 dove rimemorazione e fantasia sono usate come esemplificazioni equivalenti della riproduzione. 13 «In der Phantasie, das Wort im weitesten Sinn genommen, finden wir auch die Wiedererinnerung. In der Phantasie im engeren Sinn fehlt der Glaubenscharakter, sei es ganz, sei es für das phantasierte Ganze». E. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung, cit., p. 178. 14 E. Husserl, Idee…, vol. I, cit., p. 272. 15 A questo proposito è molto istruttivo il paragone con il lavoro di E. Loftus. I casi studiati dalla Loftus (che si può ritenere a buon diritto una delle voci più autorevoli della psico-

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Questa equivalenza tra fantasia e rimemorazione non può non lasciare interdetti. Come è possibile? Ciascuno di noi ha la più chiara consapevolezza della distinzione tra i suoi ricordi e le sue fantasie. Si tratta di vissuti chiaramente distinguibili. In effetti nella stragrande maggioranza dei casi le cose stanno così. Tuttavia, prima ancora di chiamare in causa le illusioni della memoria, guardando attentamente all’esperienza, si può notare il grado di vicinanza tra un atto di fantasia e un atto di rimemorazione. Consideriamo per esempio un caso in cui la distinzione tra fantasia e rimemorazione è fin troppo chiara. Io posso rimanere colpito da una bella donna, incontrata di sfuggita. Più tardi, trascorso del tempo, la sua immagine mi si ripresenterà in una rimemorazione. Mi sembrerà quasi di rivedere i suoi occhi o suoi capelli, così come mi sono apparsi in quel fugace incontro. Questa presentificazione avrà un preciso carattere tetico: io sono certo che i suoi capelli erano castani, che i suoi occhi erano azzurri, ecc. A questo punto io posso cominciare a fantasticare un incontro amoroso. È del tutto evidente la continuità che lega queste due rappresentazioni dal punto di vista intuitivo. Nel passaggio dalla rimemorazione dell’evento precedente alla fantasia di un evento mai accaduto io non avverto alcun salto intuitivo. Non accade come quando passiamo dalla fantasia alla percezione di un medesimo oggetto. La nuova presentificazione è del tutto analoga alla precedente. Anzi è una sorta di “evoluzione” della precedente. È la medesima donna che ho visto in quel momento, sebbene di sfuggita. I suoi occhi, che ricordo così bene, mi appaiono nella fantasia con la stessa identica chiarezza. Ma la modalità di credenza che accompagna la rappresentazione è ora completalogia internazionale e che da molti anni si occupa di dimostrare la suggestionabilità della memoria) dimostrano in modo eclatante come la fantasia possa essere scambiata per un ricordo. I drammatici episodi discussi (spesso si tratta di persone che accusano i propri genitori di abusi sessuali mai commessi) permettono di comprendere quanto sia difficile, anche dal punto di vista scientifico-obbiettivo (la Loftus è uno scienziato e i processi in cui è chiamata a testimoniare non sono certo dispute filosofiche!) accertare la realtà di una presunta rimemorazione. «La mia ricerca ha contribuito a creare un nuovo paradigma della memoria, a passare dal modello del magnetoscopio, dove i ricordi sono interpretati come delle informazioni fedeli e rigide, al modello detto “ricostruzionista”, nel quale i ricordi sono compresi come una ricostruzione permanente, un mélange creativo di fatti e finzione» (E. Loftus, K. Ketcham, The Myth of Repressed Memory, St. Martin’s Griffin, New York, 1994, tr. fr. La syndrome des faux souvenirs, Éditions Exergue, Paris, 1997, p. 24, t.d.a.). Simili affermazioni sono ancora più significative se si tiene conto dell’intenzione polemica antipsicanalitica che anima tutto il libro. L’immagine della memoria che viene suggerita da questo testo, per quanto triviale, è efficace: la memoria è come una bacinella piena d’acqua e ogni ricordo è come una cucchiaiata di latte versata in questa bacinella (ivi, p. 22). Non è possibile separare esattamente l’acqua dal latte, cioè la fantasia dal ricordo. La mescolanza dei due è completa. Il punto di vista fenomenologico è però nello stesso tempo più radicale e più semplice: il ricordo è una fantasia, non è semplicemente mescolato alla fantasia. La differenza tra i due non deve essere cercata a livello di contenuti, ma a livello di coscienza.

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mente diversa. Questo nuovo evento, nella misura in cui è fantasticato, è (ahimè!) soltanto possibile.

3. La rimemorazione come prototipo della presentificazione intuitiva Presentificare significa rappresentare nella fantasia, a patto di intendere la parola “fantasia” nel senso più ampio. Da questo punto di vista la rimemorazione può addirittura essere definita come una forma di fantasia. Ma bisogna fare molta attenzione a non fraintendere questo rapporto. In realtà per Husserl è la rimemorazione il prototipo della presentificazione. Se la fantasia è la neutralizzazione di un ricordo allora, in un modo o nell’altro tutte le forme di presentificazione possono essere ricondotte alla rimemorazione. Tutte le altre forme di presentificazione possono essere pensate sul modello della ricordo16. La rimemorazione è una modificazione della percezione e le varie forme di presentificazione sono modificazioni della rimemorazione: così, in ultima analisi, ogni atto intuitivo della vita della coscienza è ancorato saldamente alla percezione17. È essenziale da questo punto di vista che Husserl concepisca la presentificazione come una riproduzione (Reproduktion). Come ho detto, le lezioni sulla coscienza interna del tempo contrappongono l’impressione, come momento sorgivo della “produzione” dell’oggetto, alla presentificazione come momento della “ri-produzione” dell’oggetto. Presentificare significa riprodurre una percezione non presente. La presentificazione è la simulazione di una percezione assente. A proposito della rimemorazione questa idea non presenta grandi problemi. Anche per il senso comune ricordare significa in qualche modo rivivere una percezione precedente. Ma che dire della altre forme di presentificazione? Che dire della fantasia pura? o della anticipazione? In che modo si potrebbero concepire come delle riproduzioni, 16

«La percezione è il modo originario dell’intuitività (intesa sempre nel senso della posizionalità dossica). Di fronte ad essa vi è il modo della presentificazione che però, osservato più attentamente, ha diverse forme. Studiando la rimemorazione intuitiva ci siamo convinti che essa si annuncia in se stessa come presentificazione di una percezione, e che quindi non ha una struttura semplice come la percezione. La rimemorazione è un vissuto presente, che non è una percezione, ma che rende presente una percezione nel modo temporale del suo essere passata e proprio per questo presentifica come già stato ciò che da quella percezione era stato precedentemente percepito. Ogni altro tipo di presentificazione ha una struttura simile». E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 111. 17 Benché la posizione di Husserl sia completamente antiempirista – come apparirà meglio nei paragrafi successivi – si può quasi intravedere qui una concezione dei rapporti tra gli atti intuitivi simile a quella dell’empirismo più tradizionale: la memoria deriva dalla percezione e l’immaginazione dalla memoria. Ma la differenza tra questi tre atti intuitivi per Husserl, diversamente dagli empiristi classici, non è una differenza di intensità sensibile.

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dal momento che in questo caso non si dà alcuna percezione precedente? Certamente la rappresentazione fantastica di un centauro non implica alcuna precedente percezione!18 L’idea di Husserl è che la fantasia deve essere pensata come la riproduzione di una percezione che non è mai accaduta. Si tratta di un’idea paradossale, non c’è dubbio. Ma – come vedremo – è anche l’unico modo per sfuggire ai paradossi ancora più temibili legati alla teoria dell’immagine interna. In questo modo la fantasia avrebbe la stessa struttura riproduttiva della rimemorazione. Husserl pensa la fantasia a partire dalla rimemorazione. Questa sorta di primato della rimemorazione, che già in Ideen I è assunta a modello per ogni forma di presentificazione, è confermato dalle analisi dedicate alla presentificazione delle Lezioni sulla sintesi passiva. In queste lezioni Husserl si dedica ad una descrizione dei diversi tipi di intuizione e si impegna in un attento paragone tra le diverse forme di presentificazione. Non deve sfuggire la sorprendente scelta terminologica di questo testo. Invece delle più usuali “aspettazione” o “presentificazione anticipatrice”, qui Husserl utilizza la paradossale espressione “ricordo del futuro”. Invece di “co-presentificazione” utilizza “ricordo del presente”. Esse [le intuizioni, n.d.a.] erano o percezioni o presentificazioni; le presentificazioni erano o ricordi del passato (Vergangenheitserinnerungen), come quando è rappresentato un vissuto passato, o ricordi del presente (Gegenwartserinnerungen), come le rappresentazioni intuitive di qualcosa di co-presente: ad esempio l’anticamera di questa stanza, o la co-presenza della vita psichica estranea appartenete al corpo proprio estraneo percepito. Oppure, infine, c’erano ricordi del futuro (Zukunftserinnerungen), rappresentazioni intuitive di un futuro atteso19. 18 «Bisogna dunque dire che la fantasia pura è una coscienza riproduttiva neutralizzata che presentifica intuitivamente un oggetto di cui l’irrealtà ha la forma di una esistenza di finzione. Il carattere riproduttivo della fantasia pura è l’elemento centrale di questa definizione. Ciò che, nei fenomeni, parla in favore di una tale analisi fenomenologica della fantasia pura in termini di coscienza riproduttiva, è il fatto che la fantasia pura, al modo del ricordo, presentifica intuitivamente un oggetto assente, cioè un oggetto che si distingue essenzialmente da quegli oggetti presenti che la coscienza attuale effettiva continua a percepire mentre immagina questo oggetto assente. Husserl ne conclude che la coscienza di questa presenza di un oggetto assente si deve spiegare, nella fantasia pura come nel ricordo, grazie alla implicazione intenzionale all’interno dell’atto di presentifcazione attuale di una percezione assente. [...] In altre parole la quasi-percezione dell’oggetto di finzione è la modificazione di una percezione implicita, che non è ancora mai stata effettuata prima di subire questa modificazione in quasi-percezione. A differenza del ricordo si tratta dunque di una percezione che produce la quasi-percezione riproducendola, così come si tratta di una modificazione che crea, modificandola, la percezione che modifica in quasi-percezione». R. Bernet, Fantasia e fantasma in Husserl e Freud, in M. Feyles (a cura di), Memoria, immaginazione e tecnica, Neu, Roma, 2010, p. 89. 19 E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 113.

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4. Comparazione con le altre forme di presentificazione: l’aspettazione come “ricordo del futuro” La somiglianza tra rimemorazione e aspettazione è sottolineata anche nel § 26 delle lezioni sulla coscienza interna del tempo. Attendendo un evento futuro, la coscienza è in grado di anticiparlo in una rappresentazione. Si tratta di una rappresentazione intuitiva del tutto somigliante a quella della rimemorazione. Come il passato nel ricordo, il futuro nell’aspettazione appare in una “immagine” (le virgolette sono di Husserl)20. Anche in questo caso la coscienza si presentifica un evento, riproducendo una percezione assente. La differenza è che la percezione non è già stata, ma deve ancora essere. «In questo senso, l’intuizione aspettativa è il rovescio dell’intuizione memorativa»21. Poniamo il caso che io stia aspettando all’aeroporto un professore che non ho mai visto e che sarà ospite di un convegno di filosofia. Pur non avendolo mai incontrato di persona, io mi presentifico il suo volto. Nell’intuizione io “visualizzo” un volto a partire da una descrizione ricevuta tramite e-mail. Ora, che differenza c’è tra questa attesa intuitiva e il ricordo vero e proprio, come la rimemorazione che mi riporta alla mente il volto di un amico lontano? C’è senza dubbio una notevole differenza nella determinazione dei particolari. Ma nella sostanza le due rappresentazioni sono accomunabili in un medesimo genere. Sono due intuizioni dello stesso tipo. Dal punto di vista della chiarezza dell’intuizione, tra l’aspettazione che anticipa le linee generali di un evento ancora non accaduto e la rimemorazione che mi riconduce al passato, non c’è alcuna differenza essenziale. Aspettazione e rimemorazione sono vissuti simili. Si può obbiettare sottolineando il superiore grado di determinatezza della rimemorazione. Certamente rispetto all’immagine del volto dell’amico, la rappresentazione del volto del professore appare meno precisa. So che si tratta di una persona dai tratti nordici, con i capelli biondi e gli occhi chiari. Ma che dire del naso o della bocca? In realtà questa maggiore genericità non è così determinante. Che nel ricordo l’importo del processo sia più determinato, costituisce forse una differenza essenziale? Anche il ricordo, pur essendo intuitivo, può non essere molto determinato, in quanto talune componenti intuitive non possiedono un vero e proprio carattere memorativo. È vero che in un ricordo “perfetto” tutto sarebbe chiaro, ed avrebbe carattere memorativo, fin nei minimi particolari. Ma idealiter questo è possibile anche nel caso della aspettazione. In generale, in essa molto resta aperto, e questo “restare aperto” è un carattere delle rispettive componenti. In 20 21

E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 86. Ibidem.

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linea di principio, tuttavia, una coscienza profetica (una coscienza che pretende di esserlo) è pensabile; [...]22.

Non bisogna dimenticare, quando si confrontano questi due tipi di vissuti, che non tutte le rimemorazioni appaiono vividamente come il volto dell’amico. Un ricordo lontano può essere così vago da risultare quasi del tutto indeterminato, esattamente come la più sommaria attesa intuitiva. D’altra parte un’aspettazione può essere anche molto precisa, fino al punto da essere paragonabile ad un ricordo. Quando disponiamo di «un piano esattamente determinato»23 o quando, per esempio progettiamo la costruzione di oggetto, la rappresentazione alla base della nostra attesa può essere davvero dettagliata. Ci sono poi dei casi in cui è addirittura difficile stabilire con chiarezza se la presentificazione con cui abbiamo a che fare è una rimemorazione o una aspettazione. Io posso per esempio rappresentarmi con precisione un evento che deve ancora accadere: andrò alla Biblioteca Nazionale a cercare il tal libro. Nell’aspettazione io posso “vedere” con chiarezza la sala di lettura, l’impiegata al bancone ecc. Mi sembra già di poter sentire il particolare odore di quel luogo, che conosco molto bene. Questa presentificazione è senza alcun dubbio molto più determinata di molti ricordi della mia infanzia. Il problema è: si tratta di una aspettazione o di una rimemorazione? È evidente che è la mia prolungata frequentazione della Biblioteca Nazionale all’origine di tutti i dettagli della presentificazione. Ma è altrettanto evidente che l’evento rappresentato non è oggetto di una rimemorazione. Si capisce allora la forza della posizione di Husserl. Cosa accade in questo caso? Io sto fantasticando, o, per usare il termine tecnico, sto presentificando. Questa presentificazione ha come oggetto un evento futuro, che io non ho ancora percepito; ma, nella misura in cui è una presentificazione, consiste nella riproduzione di percezioni passate e percezioni possibili. La fenomenologia husserliana delle presentificazioni intuitive dimostra qui una eccezionale capacità di rendere conto della vicinanza tra vissuti diversi, come la rimemorazione e l’aspettazione, e persino delle forme ibride24. 22

E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 87. Naturalmente si noterà la paradossalità di questa posizione che discende ancora una volta dalla presupposizione del primato della percezione. 23 Ibidem. 24 Le aspettazioni possono essere di due tipi. Le prime sono in un certo senso delle mere estensioni di ciò che percepiamo nel presente. Per esempio quando proiettiamo nel futuro la percezione di un ambiente reale. Si tratta di presentificazioni molto ben determinate. Talvolta queste presentificazioni possono raggiungere un livello di predeterminazione quasi totale. È il caso di quelle attese che si fondano sulla ripetizione periodica di un evento. Possiamo anticipare il movimento di una lancetta dei secondi in un orologio con una precisione quasi

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5. Ulteriori comparazioni: la co-presentazione come ricordo del presente L’aspettazione, proprio come la rimemorazione – e a differenza della mera fantasia –, è caratterizzata dalla modalità dossica della credenza25. In entrambi i casi si tratta di presentificazioni tetiche. Solo che una è rivolta al passato e l’altra al futuro. Guardando a questa differenza si può comprendere una questione fondo, determinante per comprendere i problemi legati alla rimemorazione: il carattere temporale delle presentificazioni non ha nessun

“profetica”. C’è poi un secondo genere di aspettazioni, meno determinate, che riguardano eventi anticipabili solo nelle linee generali: «Abbiamo inoltre presentificazioni intuitive di ciò che accadrà nel futuro, attese intuitive quindi. All’essere-in-seguito, al domani, all’essere-futuro in quanto essere per noi nell’anticipazione o in quanto essere-atteso, appartiene ciò che intuiamo in anticipo come durata futura, appartiene l’essere che permane di quest’aula, dell’edificio universitario, delle strade, della città, ecc. Abbiamo quindi coscienza di ciò che sarà in una rappresentazione intuitiva. È chiaro tuttavia che le attese non sono sempre una mera estensione del presente percepito nel futuro. Anche qualcosa di ignoto, che non sia mai stato individualmente esperito può essere intuito in anticipo, ed è questo il caso di un evento sì atteso, ma individualmente nuovo che, a seconda dei casi, è atteso o in modo interamente determinato, come accade nella ripetizione periodica o assai più spesso, più o meno indeterminatamente» (E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., pp. 111-112). È chiaro che l’“estensione del presente percepito nel futuro” è una delle prerogative della memoria. Grazie alla memoria ciò che è ora percepito sarà ancora disponibile dopo. La presentificazione che anticipa esattamente il movimento della lancetta dei secondi nel quadrante dell’orologio è fondata su una ripetuta esperienza passata. Si vede bene dunque quale nesso stringente unisca questo genere di aspettazioni non solo alle percezioni corrispondenti, ma anche alle rimemorazioni. Tuttavia, anche aspettazioni meno determinate esibiscono una somiglianza essenziale con le rimemorazioni. È il caso delle presentificazioni che possono accompagnare la scoperta percettiva di un oggetto nuovo. Mentre osservo un edificio per la prima volta non ne percepisco la parte posteriore. Essa mi può esser “data” in qualche modo, grazie ad una presentificazione che ne anticipa le linee essenziali. Questa predelineazione intuitiva è determinata solo nei tratti più generali: mi posso aspettare che l’edificio abbia una forma di un certo genere, che si accordi con la facciata che vedo, che abbia un colore anche se non so bene quale ecc. Il fatto interessante è che anche questa forma di presentificazione può essere legittimamente paragonata alla rimemorazione. Certo in questo caso la presentificazione è molto indeterminata. Ma in effetti «solo così essa si differenzia davvero dal ricordo determinato che avremmo se, dopo l’appercezione reale del lato posteriore, ce lo presentificassimo nuovamente». Cfr. ivi, p. 77 ss. 25 «L’espressione “raffigurazioni” che utilizziamo a proposito delle attese anticipatrici intuitive, potrebbe qui indurre a contrapporre tali intuizioni, intese come mero fantasticare, alle intuizioni che danno originalmente. Ma non è così semplice definire la caratteristica di tali intuizioni che, di fatto, esigono una analisi più approfondita. Le mere fantasie non sono dei vissuti posizionali, mentre al contrario le attese intuitive sono appunto attese: in esse si crede a qualcosa posto come esistente nel futuro. L’evento futuro reso intuitivo non è tuttavia l’evento futuro stesso; non si manifesta infatti null’altro che una immagine anticipatrice (Vorbild) attraversata, per così dire, dall’intenzione in quanto intenzione non riempita e diretta in modo meramente anticipante sul se stesso che le corrisponde». Ivi, pp. 143-144.

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legame con il contenuto intuitivo26. La coscienza pone un certo contenuto intuitivo come già passato o come ancora a venire. Ma questa posizione temporale non ha alcun nesso con la rappresentazione intuitiva. Di per sé una “immagine” del passato non è meno scialba e imprecisa di una “immagine” del futuro. Tanto è vero che – come si è visto con l’esempio della fantasia dell’incontro amoroso – la stessa identica rappresentazione intuitiva può fungere da contenuto nella più improbabile attesa intuitiva e nella più certa rimemorazione. La coscienza può anche porre una presentificazione come presente. Benché la presentazione – la donazione di una presenza effettiva – sia propria solo della percezione; benché la presentificazione sia essenzialmente rivolta a qualcosa di assente, esistono anche presentificazioni di realtà presenti. Husserl le chiama co-presentificazioni o ricordi del presente. In questo caso una realtà assente viene resa intuitivamente presente e posta non come passata, ma come ancora reale. «Vi sono così rappresentazioni intuitive di un elemento presente che non sono tuttavia sue percezioni, ma sue presentificazioni. Per esempio, possiamo renderci intuitivo il lato posteriore di una cosa che ci è noto grazie ad una precedente percezione oppure possiamo renderci intuitivamente presente la copresenza (mitgegenwart) di altre cose, come la fontana di Berthold, che non ci rappresentiamo soltanto come la fontana che abbiamo visto ieri e quindi nel suo mero essere passato, ma come attualmente reale; lo stesso vale per le intuizioni che ci facciamo qui e ora dei corridoi e dell’atrio là fuori ecc». In questo caso il legame con la rimemorazione è ancora più evidente: «certo in ciò il ricordo del passato svolge il suo ruolo: l’atrio è qualcosa che, nell’intuizione attuale, emerge innanzitutto come rimemorazione; il passato tuttavia si estende coscienzialmente e oggettualmente immodificato nel futuro che dal passato riprodotto prende le mosse, e vi si estende in modo tale che questo futuro è contemporaneamente co-presente in relazione al nostro attuale presente percettivo al quale appartengono queste cose presenti nel nostro attuale campo percettivo»27. Non bisogna pensare che quest’analisi della co-presentificazione sia artificiosa o forzata. Le presentificazioni di questo genere sono molto comuni nell’esperienza quotidiana più elementare. Mentre, per esempio, mi presentifico la fontana di Berthold, l’“immagine” che appare è certamente dovuta 26 Bisogna fare molta attenzione a questo passaggio. Non intendo dire che le presentificazioni si manifestano senza carattere temporale e successivamente ricevono una determinazione in questo senso. Così come accade per i caratteri dossici, le presentificazioni appaiono fin da subito determinate temporalmente in un certo modo. Ma è essenziale che questa determinazione non abbia alcun nesso con il contenuto intuitivo. 27 E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 111.

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ad una percezione passata. Se però decido di andare nuovamente a vedere la fontana in questione, magari per ragioni estetiche, non è ad una immagine del passato che sono rivolto. È necessario che la fontana sia ancora presente perché io possa progettare di andarla a rivedere. In questo progetto, in questa presentificazione la fontana è posta come ancora presente. «L’“immagine memorativa” mi serve, ma io non pongo il ricordato come tale, l’elemento oggettuale del ricordo interno, nella durata che ad esso conviene»28. Questa immagine viene “estratta” dal contesto del passato in cui si trova e “inserita” in un nuovo contesto temporale. È importante sottolineare che rappresentazioni di questo genere, in cui si possono trovare elementi di una rimemorazione uniti a elementi fantastici entrambi posti come attualmente presenti, sarebbero del tutto incomprensibili se non disponessimo degli strumenti concettuali della fenomenologia. La nozione ordinaria di ricordo sarebbe in questo caso del tutto insoddisfacente.

6. La libertà della rimemorazione e la sua struttura pre-narrativa La rimemorazione è una libera possibilità della coscienza. Questa libertà è ciò che la accomuna alla fantasia e la distingue chiaramente dalla ritenzione (della cui passività si è già detto). Invece il presentificare è qualcosa di libero, è un libero percorrere, e possiamo usare della presentificazione “più rapidamente” o “più lentamente”, più chiaramente ed esplicitamente o più confusamente, fulmineamente e in un colpo solo o per passi articolati, ecc. La presentificazione stessa è, intanto, un evento della coscienza interna ed ha, in quanto tale, il suo “ora” attuale, i suoi modi di deflusso ecc. E nello stesso tratto immanente di tempo, nel quale essa ha luogo, noi possiamo collocare “liberamente” porzioni più o meno grandi dell’evento presentificato, coi suoi modi di deflusso, e così pure percorrerlo più lentamente o più rapidamente29.

Consideriamo un esempio. Io posso cercare di ricordare la giornata di ieri. Già questo “io posso” iniziale dice della libertà della rimemorazione30. Posso decidere di ricordare la giornata di ieri, o il giorno del mio ultimo compleanno, o il giorno della nascita di mia figlia. La coscienza ha la possibilità di “attualizzare” (o almeno tentare di attualizzare) tutti questi ricordi potenziali e può ripeterli più volte e in momenti diversi31. In questo caso 28

E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 90. Ivi, p. 80. 30 «A priori la presentificazione di un vissuto rientra nell’ambito della mia “libertà”». Ivi, p. 76. 31 «Per legge essenziale, ogni ricordo è iterabile [...]». Ivi, p. 77. 29

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particolare io decido di ricordare la giornata di ieri. Non appena comincia il processo di rimemorazione, una marcoscopica evidenza mi si presenta immediatamente: il ricordo non comincia dall’inizio. La rimemorazione della mia giornata di ieri non comincia con l’istante in cui apro gli occhi al mattino. Anzi quel particolare istante non riesco a ricordarlo. Al suo posto mi appare una immagine generica, probabilmente frutto della sovrapposizione di molte immagini simili. Il mio ricordo, invece, comincia da un episodio rilevante, un dialogo particolarmente intenso avuto con un amico in difficoltà, nel tardo pomeriggio. Da qui, retrocedendo nel tempo posso ricostruire una scena immediatamente precedente: abbiamo assistito insieme ad una conferenza. In seguito un nuovo episodio mi si ripresenta, questa volta successivo: la sera con mia moglie abbiamo cenato molto tardi e posso ricordare distintamente tutto ciò di cui abbiamo parlato. È evidente che l’ordine in cui le diverse fasi-ora rimemorate sono riprodotte non corrisponde all’ordine in cui quelle stesse fasi-ora si sono originariamente presentate nella percezione. Questo significa che la rimemorazione è sempre ricostruttiva32. Non solo. È altrettanto evidente che la durata delle fasi-ora rimemorate non corrisponde alla durata originaria. Il ricordo della conferenza a cui ho partecipato ieri occupa pochi istanti della vita della mia coscienza; ma la conferenza è durata ore! La rimemorazione è dunque sempre parziale. Infine – terza decisiva constatazione – non tutti gli eventi che mi sono accaduti nella giornata di ieri si ripresentano. La rimemorazione è sempre selettiva. Solo alcuni episodi si ripresentano, solo alcuni dettagli mi sono nuovamente visibili. La parzialità del ricordo è anche sempre una selezione. Gli episodi e i dettagli che mi si ripresentano sono quelli che mi sono apparsi particolarmente rilevanti, potremmo dire “memorabili”. Queste caratteristiche essenziali della rimemorazione possono apparire come dei limiti. D’altra parte se il ricordo non fosse essenzialmente parziale e selettivo, per ricordare la giornata di ieri avremmo bisogno di un’intera giornata. Invece la coscienza ha la possibilità di ricordare in un atto che ha esattamente la medesima durata un anno, un giorno o un ora di vita. Il tempo del ricordo non corrisponde mai al tempo del ricordato. Queste considerazioni sulla libertà della rimemorazione e sulla sua temporalità suggeriscono immediatamente l’ipotesi che vi sia un nesso originario tra memoria e narrazione. Se è vero che il ricordo è una fantasia tetica, il paragone con l’immaginazione narrativa è quasi inevitabile. P. Ricoeur in Tempo e racconto ha proposto una riflessione molto profonda sul nesso tra 32 Le apparizioni riprodotte mi appaiono per così dire “in ordine sparso”. Un’immagine richiama un’altra immagine secondo legami associativi che non corrispondono alla originaria sequenza temporale. Tuttavia io posso ricostruire l’ordine degli eventi: è nella “catena ritenzionale” che l’originaria posizione temporale di tutti questi frammenti memorativi si è conservata.

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tempo vissuto e narrazione ma, sorprendentemente, la relazione tra memoria e narrazione rimane in quel testo completamente elusa33. A mio avviso le considerazioni ricoeuriane sul significato e sulla portata della narrazione vanno affiancate alle analisi husserliane della rimemorazione. Ciò che si capisce in questo modo è che la rimemorazione ha una struttura prenarrativa. Nella misura in cui “rifigura” il tempo vissuto – omettendo, contraendo, ricostruendo – la rimemorazione compie un’operazione che può dirsi pre-narrativa. Il ricordo ridisegna la trama dell’esperienza. Se infatti prestiamo nuovamente attenzione all’esempio proposto in precedenza, ci accorgiamo che la rimemorazione – quando si tratta di un ricordo complesso e non di una immagine isolata – presenta sempre una peculiare articolazione in “episodi”34. Ricordando la mia giornata di ieri, la prima “scena” che mi appare è quella del dialogo con l’amico. Questo primo “episodio”, questo primo gruppo di immagini memorative, risulta legato un altro “episodio”, quello della conferenza. Entrambi questi episodi sono composti di diverse “scene”: della conferenza, per esempio, posso rivedere il momento in cui il relatore è arrivato, ne posso ricordare una fase particolarmente noiosa, posso rivedere l’uscita dalla sala ecc. La libertà della rimemorazione si manifesta qui nel fatto che la coscienza può decidere se sorvolare su un episodio oppure cercare di ricostruirlo nel dettaglio. In questo modo, tramite queste operazioni di suddivisione in episodi e selezione delle scene la coscienza, configura la sua propria esperienza in una forma che appare innegabilmente quella di una quasi-narrazione35. 33 Lo stesso Ricoeur ha avuto modo di meravigliarsi di questa omissione: «Il rapporto che stabilisco oggi tra storia e memoria rappresenta un passo in avanti rispetto a Tempo e racconto dove operavo una sorta di cortocircuito tra la funzione narrativa, nella sua duplice espressione finzionale e storica, e l’esperienza del tempo; in qualche modo io saltavo la memoria. Questa omissione non cessa di meravigliarmi retrospettivamente: credo che addirittura la parola memoria non figuri nell’indice tematico. Il problema della memoria non ha cessato da allora di tormentarmi per ragioni insieme esistenziali e epistemologiche». P. Ricoeur, Histoire et mémoire, in A. de Baecque, C. Delage (sous la direction de), De l’histoire au cinéma, Éditions Complexe, Bruxelles 1998, tr. it. Storia e memoria, in M. Feyles (a cura di), Memoria, immaginazione e tecnica, cit. p 25. 34 Su questo si vedano le interessanti osservazioni di E. Casey. «These episodes serve both as points of punctuation (as places of greatest interest or stress) and as interconnected components of the memory as a narratized whole». E. Casey, Remembering. A Phenomenological Study, cit., p. 26. 35 È chiaro che tutte le considerazioni svolte in questo paragrafo valgono solo per le rimemorazioni complesse, cioè per quelle rimemorazioni che si presentano come un insieme articolato di immagini percettive coerenti. Non tutte le rimemorazioni hanno questa forma. Esistono anche rimemorazioni estremamente semplici: per esempio io posso rivedere in un’immagine isolata e statica il profilo di una montagna. Questa immagine mi può apparire in un lampo, per via di una associazione passiva, e può scomparire senza che io ricostruisca il contesto narrativo cui appartiene.

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Il riconoscimento della struttura pre-narrativa della rimemorazione ci conduce immediatamente alla domanda circa il rapporto tra rimemorazione e racconto. Mi occuperò nel quarto saggio di questa questione. Per ora è necessaria un’importante precisazione. Si è detto che il ricordo è una ricostruzione imperfetta e parziale. Ma per Husserl questo è vero solo fino ad un certo punto. La rimemorazione, infatti può avere diverse modalità di compimento, come spiega il § 15 delle lezioni sulla coscienza interna del tempo: […] noi la compiamo, o di volo, come quando un ricordo “emerge” e gettiamo un colpo d’occhio sul ricordato, nel qual caso il ricordato è vago, magari porta intuitivamente con sé una fase privilegiata, ma non è ricordo ripetitivo; oppure compiamo un ricordo realmente riproduttivo, ripetitivo nel quale, in un continuum di presentificazioni, l’oggetto temporale si ricostruisce completamente e noi quasi lo percepiamo di nuovo (ma, appunto soltanto “quasi”)36.

In altre parole Husserl è convinto che la possibilità di una riproduzione assolutamente fedele, punto per punto coincidente con la percezione che presentifica, non sia da escludere: è il caso di ciò che abbiamo chiamato ripetizione. Ci sono molte ragioni per dubitare della legittimità di questa ipotesi. Ci si può chiedere infatti se l’esperienza vissuta sia realmente ripetibile e che cosa di essa possa essere davvero ripetuto. In ogni caso, anche accettando l’ipotesi che in linea di principio – ma solo in linea di principio – una rimemorazione-ripetizione sia possibile, bisogna ammettere che nella stragrande maggioranza dei casi non è così. “Di fatto” una rimemorazione perfetta è impossibile.

7. Il problema dell’immagine memorativa Nella rimemorazione il passato appare. Ma appare in che modo? in una immagine? La comprensione della natura dell’immagine memorativa è uno dei più grandi enigmi della fenomenologia della memoria. Nelle Lezioni sulla sintesi passiva, Husserl propone un’interessante distinzione tra “riempimento” (Erfüllung) e “riempitivo” (Füllsel) per rendere ragione della differenza tra “illustrazione meramente chiarificatrice” e “illustrazione verificante”. Senza questa distinzione capitale sarebbe impossibile comprendere che cos’è una immagine memorativa. Quando percepiamo un qualsiasi oggetto, un’intenzione trova progressivamente riempimento. I diversi lati ci appaiono; la cosa stessa si mostra sotto diversi profili, in diversi adombramenti. Così, in una sintesi che tiene 36

E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 71.

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insieme tutti questi diversi aspetti, un’intenzione vuota gradualmente si “riempie”. In questo senso “riempimento” significa conoscenza della cosa stessa, è il nome che Husserl dà all’esperienza della corrispondenza tra un’intenzione e un’intuizione, tra un significato e un contenuto sensibile. La medesima intenzione può trovare riempimento in diverse forme intuitive. Io posso per esempio rivolgermi nell’intenzione verso la città di Parigi. Tale intenzione può trovare riempimento in una percezione, mentre vado a passeggio nei dintorni di Notre-Dame, oppure in una presentificazione anticipatrice, come quando consulto una cartina prima di partire e mi immagino un percorso da Notre-Dame al Louvre, senza aver mai visto né l’una né l’altra. In entrambi i casi un’intenzione vuota viene riempita da un’intuizione, ma, evidentemente, tra il primo e il secondo caso si dà una differenza molto netta. Nel primo caso l’intuizione corrisponde pienamente all’intenzione, e avviene una “sintesi della verificazione”, cioè una coincidenza compiuta tra intenzione e intuizione. Nel secondo caso, invece, l’intuizione è soltanto una presentificazione, che illustra l’intenzione, ma non in modo verificante, bensì soltanto come una “illustrazione chiarificatrice”. Si tratta cioè di una mera “raffigurazione”, in cui la cosa stessa viene tratteggiata solo nelle sue linee generali e con un notevole grado di indeterminazione. In questo secondo caso allora, non si dovrà parlare di un vero e proprio riempimento, quanto piuttosto di uno “riempitivo”. La cosa interessante, dal nostro punto di vista, è che nel caso del ricordo la distinzione tra riempimento e riempitivo non è affatto possibile. Da una parte, infatti, ciò che appare è la cosa stessa: è proprio il passato che appare e non semplicemente una sua raffigurazione. Dall’altra è evidente che nel ricordo «l’illustrazione intuitiva chiarificatrice e quella verificante non si lasciano separare nettamente, cioè in modo tale da poter caratterizzare l’una come meramente raffigurante e quindi come non verificante, l’altra come verificante e quindi come meramente “raffigurante”»37. Questo significa che la rimemorazione non ha la capacità illustrativa della percezione. Considerata attentamente essa si rivela piena di “buchi”, di genericità, di lacune, in maniera del tutto analoga ad altre forme di presentificazione che dovrebbero essere meno “realistiche”, come la presentificazione anticipatrice. Husserl ci concede, a questo punto, un esempio di un’evidenza palmare. Un ricordo non intuitivo di una persona che avevamo conosciuto qualche tempo fa si riempie, per esempio, grazie ad una rimemorazione intuitiva. Se esaminiamo però ora più precisamente l’“immagine rimemorativa” (Erinnerungsbild), notiamo allora che, per esempio, la fisionomia, la barba riprodotta, gli occhiali, ecc. hanno

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E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 125.

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il carattere effettivo del ricordo, ma non il colore della barba, il colore degli occhi, ecc; in questi ultimi casi ciò che è intuitivo è raffigurazione, riempitivo38.

L’immagine memorativa, se considerata attentamente, mostra i suoi limiti. Limiti che, prima ancora di essere imputabili ad una distorsione o ad un errore della memoria, sono da attribuire ad un “difetto di intuitività”. Saremmo tentati di dire – in una terminologia decisamente non husserliana – che le immagini della memoria sono immagini a bassissima definizione. Questo è talmente vero che si può addirittura sospettare del loro statuto di immagini. È essenziale notare, nel passo appena citato, le virgolette che Husserl non può evitare di utilizzare nell’espressione “immagine memorativa”. Se è vero che molte componenti del ricordo non possiedono un vero e proprio carattere memorativo, bisogna chiedersi se possiedano un vero e proprio carattere figurativo. L’immagine di un volto in cui il colore della barba e il colore degli occhi non sono definiti, che genere di immagine è? È davvero un’immagine? Certamente non è paragonabile ad una fotografia, malgrado la consuetudine di paragonare i ricordi a delle istantanee conservate nella nostra testa non si sa bene dove. Ma allora l’espressione “immagine memorativa” è soltanto una metafora? Nelle lezioni sulla fantasia di Husserliana XXIII si trova un altro esempio molto chiaro: mi ricordo di un giardino botanico39. In un primo momento il ricordo sembra ben determinato: ricordo il giardino così com’era in estate, gli alberi che tremano nel vento, i fiori sbocciati, i pendii ombrosi. In realtà, se presto maggiore attenzione all’immagine così come appare – invece di essere rivolto al soggetto dell’immagine – mi accorgo di tutti i suoi limiti. I colori originali, in effetti, non riesco in nessun modo a ritrovarli. Al loro posto nell’immagine si trova un «un grigio fuggevolmente cangiante o qualcosa del genere», e anche le forme, le sagome, appaiono piuttosto confuse. Ma allora che genere di immagine è questa? Di che genere di “vedere” si tratta? È evidente che siamo di fronte ad una difficoltà. Da una parte la rimemorazione è concepita come un’intuizione, sul modello della percezione; dall’altra parte parlare di immagine a proposito della rappresentazione intuitiva propria della rimemorazione è estremamente problematico. La rimemorazione «non pone sott’occhio l’oggetto in se stesso, ma appunto lo rende presente, quasi ce lo propone in immagine, sebbene neppure pro38

Ivi, p. 127. «Wir können das Bildobjekt der Phantasie beschreiben: wie wenn wir z.B. sagen: Ich erinnere mich jetzt des Botanischen Gartens, wie er zur Sommerszeit war, voll rauschender Bäume, blühender Blumen, schattiger Hänge. Aber die Farben wollen mir nicht kommen, ich finde mehr die plastischen Formen, statt der Farben mehr ein flüchtig wechselndes Grau u. dgl.». E. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung, cit., p. 39. 39

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prio alla maniera di una autentica coscienza di immagine»40. La rimemorazione non è una percezione, ma quasi. Non è una immagine, ma quasi. Bisogna muoversi su un crinale sottilissimo.

8. L’aporia dell’immagine interna Dietro le difficoltà legate alla misteriosa natura dell’immagine memorativa si nasconde in realtà uno dei problemi più antichi della filosofia. È il problema dell’immagine interna41. È questo il vero tema delle lezioni sulla fantasia del 1904/5 raccolte in Husserliana XXIII. Il fine delle analisi che Husserl propone in questo corso è la comprensione fenomenologica della fantasia. A questo proposito la prima ipotesi che viene messa alla prova è proprio quella dell’immagine interna. Caratteristica della fantasia, come si è detto, è di avere a che fare con oggetti non presenti. Ma che cos’è una immagine se non la rappresentazione di una cosa assente? Sembrerebbe inevitabile concludere che la fantasia sia qualcosa come una facoltà delle immagine. Era questa la teoria della immaginazione propria di Brentano. Ma, anche prima del maestro di Husserl, una lunga e autorevole tradizione filosofica aveva dato fondamento alla tesi del senso comune per cui fantasticare significa contemplare un’immagine interiore. Ancora all’epoca delle Ricerche Logiche Husserl seguiva questa tradizione di pensiero. Nelle Idee, invece, questa concezione è già del tutto abbandonata. Le lezioni sulla fantasia di Husserliana XXIII rappresentano il momento di passaggio dalla concezione classica dell’immagine ad una concezione radicalmente nuova. Nelle difficoltà e le contraddizioni di questo testo si percepisce un sofferto travaglio di pensiero: più volte Husserl esita, dubita, ritorna sui suoi passi. 40

E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 74. Anche questo problema antichissimo, come tutti i problemi fenomenologici, non può trovare una soluzione dal punto di vista scientifico-sperimentale. Molto interessante da questo punto di vista è un libro relativamente recente di uno psicologo tra i più rinomati, Stephen Kosslyn. Il libro ha un approccio decisamente antifenomenologico e l’ingenuità critica di certi proclami (per Kosslyn grazie ai miracoli delle nuove scienze cognitive “in un paio di decenni” si sono fatti più progressi che in tutta la storia dell’umanità!) può addirittura far sorridere. In realtà la questione di fondo intorno a cui tutto il libro è costruito è esattamente il problema fenomenologico dell’immagine interna. Le immagini mentali, questi «fantasmi dentro la macchina della mente» tra cui troviamo i ricordi, «hanno un carattere simile a figurazioni visive, ma non sono vere figure: non possiamo incorniciare una immagine mentale, né c’è il rischio che ci cada su un piede» (p. 17). Le immagini mentali si comportano per molti versi come delle immagini reali, ma nello stesso tempo non possono essere concepite come tali. cfr. S.M. Kosslyn, Ghosts in the Mind’s Machine. Creating and Using Images in the Brain, W.W. Norton and Co., New York, 1983 tr. it. Le immagini della mente. Creare e utilizzare immagini nel cervello, Giunti, Firenze, 1999. 41

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Queste difficoltà, esibite con la più grande onestà, sono certamente parte dell’interesse eccezionale di questo corso e permettono di comprendere fino in fondo la problematicità di una situazione aporetica. L’analisi fenomenologica è in grado di chiarire, almeno nelle sue linee generali, la dinamica della “coscienza di immagine”. Quando osserviamo un’immagine, per esempio un’incisione che raffigura l’imperatore Massimiliano a cavallo, cosa accade? Noi vediamo un soggetto apparire nel quadro. Nell’immagine noi riconosciamo i tratti di un personaggio celebre: è l’imperatore Massimiliano. Occorre dunque distinguere nell’esperienza della coscienza di immagine tre diversi oggetti42. C’è innanzitutto la “cosaimmagine” (Bildding), l’“immagine fisica”, che è un oggetto reale, concreto, posto di fronte ai nostri occhi. È una superficie materiale costituita di pigmenti, macchie ecc. (nel caso di una statua di tratterebbe di un blocco di marmo o di bronzo) che costituisce il fondamento di un’apprensione di grado superiore nella quale appare un “oggetto-immagine” (Bildobjeckt), in questo caso la rappresentazione di un uomo a cavallo. A sua volta l’oggetto-immagine, o oggetto rappresentante, costituisce il tramite attraverso cui ci rivolgiamo ad un particolare soggetto-immagine (Bildsuject), in questo caso l’imperatore Massimiliano. L’oggetto-immagine è il rappresentante grazie al quale prendiamo di mira il soggetto-immagine, il rappresentato. L’oggetto-immagine è una “immagine spirituale” che può essere più o meno adeguata, più o meno somigliante al soggetto-immagine. È chiaro poi che lo stesso soggetto-immagine potrebbe essere rappresentato in molti modi diversi. In un’incisione diversa l’imperatore a cavallo potrebbe apparire in tutt’altro modo. Allo stesso modo è evidente che mentre l’oggettoimmagine e il soggetto-immagine non sono effettivamente presenti, al contrario l’immagine fisica, il supporto materiale, è “realmente” lì, sotto i nostri occhi. Dunque nell’esperienza dell’immagine, nell’immaginazione43, si dà una peculiare relazione tra una presenza (l’immagine fisica) e una non presenza (l’oggetto-immagine che rappresenta il soggetto-immagine). Una non presenza appare nella presenza44. In questo senso la coscienza di immagine è un forma intuitiva ibrida. Per un verso è una percezione, giacché 42

E. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung, cit., p. 19. Husserl utilizza in questo corso la parola “immaginazione” (Imagination) in un senso ampio e in un senso stretto. In senso ampio l’immaginazione contiene tutte le forme del fantasticare e dell’immaginare: in questo senso la coscienza di immagine e la fantasia sarebbero due forme dell’immaginazione e in un primo momento prevale questa accezione del termine. Successivamente, man mano che l’analisi porta a rivedere la teoria classica dell’immagine, Husserl giunge a fissare una distinzione chiara tra immaginazione e fantasia. A questo punto la parola “immaginazione” acquista una accezione più ristretta: in questo senso più ristretto l’immaginazione coincide con la coscienza di immagine ed è altra cosa dalla fantasia. 44 E. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung, cit., p. 47. 43

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l’immagine fisica è effettivamente percepita. Per un altro verso è una presentificazione, nella misura in cui rende presente un oggetto assente. La percezione della cosa-immagine serve da fondamento per una apprensione di fantasia. Possiamo dire, per esempio, che il blocco di marmo percepito è il fondamento della apprensione di una immagine, che è la statua di Cesare. Il marmo è percepito, senza alcun dubbio. Ma Cesare così come appare nella statua è un “oggetto” presentificato. Nell’immaginazione non siamo rivolti a ciò che è materialmente dato nella percezione, ma a ciò in questa percezione appare. L’apprensione percettiva è subordinata ad un’altra apprensione attraverso cui ci appare l’oggetto-immagine. Perciò l’immaginazione è una presentificazione fondata sulla neutralizzazione di una percezione.

9. Fantasia e immaginazione Chiarita la natura della coscienza di immagine ci si deve chiedere se la fantasia non possa essere pensata in maniera analoga. Nella prima parte di queste lezioni Husserl prende sul serio questa ipotesi e tenta di svilupparla fino in fondo. La differenza è che la fantasia non implica alcuna immagine fisica. Fantasticare per Husserl significa rappresentarsi oggetti immaginari senza l’ausilio di alcun supporto materiale. Un conto è rappresentarsi nella fantasia una battaglia tra uomini e centauri, un conto è contemplare la raffigurazione della medesima rappresentazione scolpita in un bassorilievo. Ma è possibile, nonostante ciò, pensare la fantasia sul modello della immaginazione?45 Pur non essendoci alcuna immagine fisica, anche nella fantasia sembrerebbe darsi una distinzione tra un oggetto-immagine e un soggettoimmagine46. In questo senso vi sarebbe una somiglianza tra il fantasticare e l’immaginare. Il problema è capire se l’oggetto-immagine, l’“immagine spirituale”, possa essere concepito come qualcosa di “reale”. Se così fosse la fantasia sarebbe del tutto simile all’immaginazione. Fantasticare significherebbe 45

«Ist die Phantasie wirklich auch eine Imagination, und wenn sie es ist, wie ist ihr Wesen im Vergleich mit dem von uns aufgeklärten der gemeinen Imagination zum Verständnis zu bringen?». Ivi, p. 63. Cfr. anche ivi, p. 29. 46 Io posso per esempio rappresentarmi nella fantasia Bismarck. Il soggetto di questa fantasia è un personaggio storico, realmente esistito. Ma questo soggetto-immagine mi può appare in un oggetto-immagine che può essere più o meno adeguato, più o meno somigliante al suo soggetto. Io posso rappresentarmi Bismarck come un uomo dal profilo severo con dei grandi baffi neri. Successivamente – per via della tipica instabilità della fantasia – questa rappresentazione potrebbe mutare e Bismarck potrebbe apparirmi come un uomo dai baffi biondi. Infine io potrei leggere una descrizione di Bismarck e constatare che non aveva affatto i baffi. Lo stesso soggetto-immagine mi può apparire dunque nella fantasia grazie a tre “immagini spirituali” differenti.

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contemplare un’immagine, esattamente come nel caso della immaginazione, con la differenza che in questo caso si tratterebbe di una immagine interna e non esterna. Un’immagine che avrebbe un’esistenza soltanto psicologica. Ma questa posizione è del tutto insostenibile. Appena si prova a considerare più attentamente la natura di questa immagine interna, ci si imbatte in una serie di difficoltà insuperabili. Come può un’immagine essere realmente “all’interno” della coscienza? Cosa significa questo “all’interno”? “Dove” sarebbe collocata? E se si tratta di una vera e propria immagine, qual è allora l’“occhio” che la vede? Dobbiamo forse ipotizzare uno “occhio interiore” come correlato dell’immagine interiore? Ma così non si innesca forse il meccanismo di un regresso all’infinito? Domande simili ci costringono ad abbandonare il senso comune e la concezione ingenua dell’immagine interna. In realtà l’oggetto-immagine, l’“immagine spirituale” non ha alcuna esistenza. Non solo non esiste esteriormente, così come esiste la cosaimmagine (questo è ovvio), ma nemmeno ha una esistenza interiore o psicologica47. Non è niente di reale, non è presente: è un niente. «La concezione ingenua sbaglia soprattutto in questo, che si raffigura l’immagine spirituale come un oggetto realmente immanente nello spirito. Essa si raffigura l’immagine presente nello spirito esattamente come una cosa nella realtà effettiva. Ma nello spirito, o meglio nella coscienza, dal punto di vista fenomenologico, non è presente alcuna cosa-immagine»48. L’immagine spirituale non è affatto percepita come accade con la cosa immagine. Si tratta di una differenza essenziale. Nell’immaginazione a fondamento della presentificazione vi è una apprensione percettiva. Nella fantasia non c’è niente di simile. C’è una esperienza che è cruciale da questo punto di vista e permette di distinguere chiaramente immaginazione e fantasia come vissuti di un genere differente. È l’esperienza del conflitto tra campo percettivo e campo immaginativo. Quando percepiamo un’immagine reale, poniamo che si tratti di un’incisione, l’ambiente circostante non scompare dall’orizzonte percettivo. Se l’incisione è incorniciata e appesa ad un muro, mentre guardiamo l’immagine raffigurata, la percezione della stanza in cui il quadro è collocato rimane sullo sfondo. La cornice rappresenta un limite al di là del quale comincia il mondo percettivo effettivo. Il mondo percettivo si estende in realtà 47

«Wahrhaft existiert das Bildobjekt nicht, das heißt nicht nur, es hat keine Existenz außerhalb meines Bewusstseins, sondern auch, es hat keine solche innerhalb meines Bewusstseins, es hat überhaupt keine Existenz». E. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung, cit., p. 22. 48 «Die naive Auffassung irrt aber vor allem darin, dass sie das geistige Bild sich als ein dem Geiste reell immanierendes Objekt denkt. Sie denkt sich das Bild geradeso im Geiste vorhanden, wie in der Wirklichkeit ein Ding. Im Geiste oder besser im Bewusstsein, phänomenologisch, ist aber kein Bildding vorhanden» (t.d.a.). Ivi, p. 21.

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anche all’interno dei limiti segnati dalla cornice. Ma questa zona del campo visivo viene in un certo senso “coperta” dalla immagine di fantasia49. Il fatto che nell’immaginazione vi sia una conflitto tra un’apprensione percettiva soggiacente e un’apprensione di fantasia che si fonda su di essa, è testimoniato dalla possibilità che abbiamo di escludere una delle due apprensioni e prestare attenzione esclusivamente all’altra. Nel rapporto normale con l’immagine è la percezione che è neutralizzata in favore della fantasia. Ma in teoria è sempre possibile il contrario. Possiamo neutralizzare l’immagine è prestare attenzione solo a ciò che è effettivamente presente. Così, per esempio, quando, osservando un quadro in una galleria, ci accorgiamo di uno strappo sulla tela, improvvisamente l’immagine presentificata è neutralizzata e la materialità della percezione di sottofondo riprende il sopravvento50. Ma cosa bisogna dire della fantasia? È forse possibile anche nel caso della fantasia neutralizzare l’apprensione fondata e dirigere l’attenzione solo sull’apprensione fondante? Evidentemente no. Mentre osservo un quadro appeso ad una parete io sperimento il contrasto tra due opposte tendenze. Da una parte l’immagine richiede di essere considerata come la presentificazione di un mondo fittizio. Dall’altra il contesto che circonda l’immagine richiede che la si consideri come un oggetto tra gli altri del mondo percettivo. Il mondo percettivo e il mondo fittizio sono in conflitto. Mentre osserviamo un quadro il nostro campo visuale è letteralmente “interrotto” dai contorni dell’immagine, esattamente come il mondo fantastico che ci appare in questa immagine è interrotto dalla cornice del quadro. Proprio l’esperienza di questo contrasto motiva la coscienza di immagine. Per quanto il quadro possa essere somigliante e realistico noi lo viviamo costantemente consapevoli che si tratta “solo” di una immagine. Nel caso della fantasia, invece, non c’è nessun contesto che faccia resistenza. L’immagine di fantasia non appare in una connessione obbiettiva con la realtà presente, la realtà che si costituisce nella percezione attuale, nel campo visivo attuale. Il centauro, che ora mi aleggia davanti nella fantasia, a quanto pare non copre una porzione del mio campo visivo, così come il centauro di un quadro di Böcklin che io vedo effettivamente. Lo spazio effettivo della percezione non ha una parte che sia inquadrata così e così e che attraverso se stessa lasci posto ad uno spazio fittizio per le mie fantasie. Il campo di fantasia è completamente separato dal campo percettivo51. 49

Ivi, p. 45. Cfr. N. De Warren, Imagination et incarnation, “Methodos: L’autre Husserl”, n. 9, 2009, testo disponibile su: http://methodos.revues.org, tr. it. Immaginazione e incarnazione, in M. Feyles (a cura di), Memoria, immaginazione e tecnica, cit., p. 109. 51 «Das Phantasiebild erscheint nicht im objektiven Zusammenhang der gegenwärtigen Wirklichkeit, der Wirklichkeit, die sich in der aktuellen Wahrnehmung, im aktuellen Blickfeld konstituiert. Der Zentaur, der mir jetzt in der Phantasie vorschwebt, bedeckt nicht scheinbar 50

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Il passaggio dalla fantasia alla percezione è sempre un salto, uno scarto violento. Se paragoniamo il rapporto tra campo percettivo e campo della fantasia al rapporto tra i diversi campi della percezione, la differenza emerge evidentemente. Il campo visivo e il campo tattile, per esempio, possono coesistere contemporaneamente. Quando osserviamo le nostre mani che toccano un oggetto, prestando attenzione alla sensazione tattile, noi viviamo contemporaneamente in due campi percettivi. Invece «in nessun modo si può gettare uno sguardo al campo percettivo e nello stesso tempo al campo di fantasia»52. Tra i due c’è un abisso incolmabile. Stando così le cose, una domanda temibile si impone: se l’immagine interna non ha alcuna realtà effettiva, che genere di immagine è? «Essa appare realmente al modo di una immagine? Si costituisce realmente nella fantasia un oggetto-immagine attraverso il quale viene visto un soggettoimmagine?» Husserl non nasconde le sue difficoltà: «devo confessare che a questo proposito mi hanno colto ripetutamente seri dubbi»53. Da una parte sembrerebbe necessario negare l’esistenza di un oggetto-immagine nel caso della fantasia. Fantasticando noi non apprendiamo alcun oggetto presente. Non c’è alcun elemento intermedio tra la coscienza e il suo oggetto. Quando rappresentiamo nella fantasia Bismarck, noi siamo rivolti a lui direttamente e non attraverso la mediazione di un segno o di una immagine. Nel caso della coscienza di immagine, come nel caso delle raffigurazioni mediante segno, «avendo nel nostro campo intuitivo il segno o l’immagine noi non siamo diretti su di essi, ma, grazie alla mediazione di una apprensione fondata, su qualcosa di altro, sul raffigurato o sul designato. Nulla di tutto ciò è presente nella percezione, né nel semplice ricordo o nella semplice fantasia»54. La fantasia non è una rappresentazione mediata55. È una presentificazione che ha il carattere dell’originarietà56. D’altra parte è pur vero che il fantasticato si manifesta in una apparizione. Bismark ci appare ora in ein Stück meines Blickfelds, so wie der Zentaur eines Böcklinschen Bildes, das ich wirklich sehe. Der wirkliche Raum der Wahrnehmung hat nicht eine Partie, die sich so und so umrahmt und zwischen sich einem fiktiven Raum Platz lässt für meine Phantasien. Das Phantasiefeld ist völlig getrennt von Wahrnehmungsfeld» (t.d.a.). E. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung, cit., p. 49. 52 «Niemals kann man auf das Wahrnehmungsfeld hinblicken und zugleich auf das Phantasiefeld hinblicken» (t.d.a.). Ivi, p. 69. 53 «Erscheint es wirklich in der Weise eines Bildes? Konstituiert sich wirklich in der Phantasie ein Bildobjekt, durch das hindurch ein Bildsubjekt angeschaut wird? Ich muss gestehen, dass ich hier immer wieder von ernstem Zweifel ergriffen wurde» (t.d.a.). Ivi, p. 55. 54 E. Husserl, Idee…, vol. I, cit., p. 104. 55 E. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung, cit., p. 80. 56 E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 89.

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modo ora in un altro, più o meno adeguatamente ecc. Sembrerebbe dunque necessario concludere che qualcosa come una immagine si dà anche nel caso della fantasia. Ma quello che Husserl esclude risolutamente è che questa differenza tra apparizione e soggetto della apparizione possa essere interpretata come un rapporto tra un segno o un simbolo e il suo referente. In questo caso si da lo stesso rapporto che si può constatare nella percezione tra la cosa stessa e le sue manifestazioni. Nella fantasia è la cosa stessa che appare, esattamente come nella percezione. Nell’esperienza fantastica, come nell’esperienza percettiva, non ci sono immagini, ma “apparizioni”. Al termine del suo faticoso percorso Husserl può dunque stabilire un differenza essenziale. «Possiamo ricapitolare così il risultato delle nostre ultime indagini: tra l’immaginazione in senso proprio (per esempio nel caso delle immagini fisiche) e l’immaginazione nel senso della semplice fantasia vi è una differenza essenziale»57. L’idea tradizionale della facoltà delle immagini deve essere rigettata. La fantasia non è immaginazione. Tra le due c’è, tuttavia, un rapporto molto intricato perché la fantasia è un momento essenziale dell’immaginazione. L’immaginazione è una percezione caratterizzata dalla coscienza di immagine; ma è la fantasia che rende presente l’immagine “nella” percezione. Perciò la fantasia non è immaginazione ma l’immaginazione è sempre anche fantasia. D’altra parte, benché in senso stretto non vi sia alcuna immagine nella fantasia, è vero che il fantasticato appare in qualcosa come un’immagine. In questo intreccio è tutta la difficoltà. Proprio per questa ragione Husserl giunge alla conclusione che sia necessario un vocabolario nuovo. Per intendere la rappresentazione di una cosa assente, non si parlerà più di “fantasia” – termine appesantito dall’eredità della teoria dell’immagine – ma di “presentificazione”58. Così la domanda sull’immagine interna si tramuta: che cos’è una presentificazione?59 È chiara, a questo punto, l’importanza fondamentale delle lezioni sulla fantasia per la fenomenologia della memoria. Se il ricordo è una fantasia 57 «Das Ergebnis unserer letzten Untersuchungen können wir so rekapitulieren: Es besteht zwischen der Imagination im eigentlichen Sinn (z.B. physischer Bildlichkeit) und der Imagination im Sinn der schlichten Phantasie ein wesentlicher Unterschied» (t.d.a.). E. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung, cit., p. 82. 58 «Ist man sich aber soweit klar, dann bedarf es anderer Terminologie. Entweder wir gebrauchen das Wort “Phantasie” selbst, oder wir gebrauchen das Wort “Vergegenwärtigung”. Der Wahrnehmung steht also gegenüber die Phantasie, oder der Gegenwärtigung, der Präsentation, die Vergegenwärtigung, die Repräsentation». Ivi, p. 87. 59 Sicuramente nessuno come Husserl è andato così in profondità di questo problema. Ma bisogna domandarsi se la sua soluzione risolva il problema o se invece non cambi i termini del problema. Invece delle aporie insuperabili dell’immagine interna – ricapitolabili nella domanda impossibile “dove è l’immagine interna?” – ci si trova ora nella difficoltà di pensare un concetto non meno paradossale, quello di presentificazione.

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tetica, rimemorare non è immaginare. L’“immagine” del passato non è una immagine vera e propria60.

10.La differenza tra fantasia e rimemorazione. Impossibilità della tesi empirista La rimemorazione deve essere pensata come una forma peculiare di fantasia. La fantasia non deve essere confusa con l’immaginazione. L’apparire dell’oggetto di finzione non ha la “realtà” di una immagine: al contrario è qualcosa di misterioso, nebuloso, impreciso. Giunti a questo punto la descrizione fenomenologica sembrerebbe autorizzare un radicale scetticismo nei confronti delle pretese veritative della memoria. Ma questa non è certamente l’intenzione di Husserl. Una volta che l’analisi ha evidenziato tutti gli elementi che accomunano fantasia e ricordo, è necessario percorrere il cammino inverso e rendere ragione delle loro differenze. Allo stesso modo, una volta destituita di ogni fondamento la teoria classica dell’immagine interna ed evidenziati i limiti intuitivi della rimemorazione, è necessario rendere giustizia del fatto che l’immagine memorativa, nebulosa quanto si vuole, è riconosciuta senza difficoltà come l’immagine del passato. Infatti nella stragrande maggioranza dei casi noi non confondiamo rimemorazioni e fantasie. La fenomenologia deve essere in grado di rendere conto adeguatamente del problema dei ricordi illusori e deve poter giustificare i fenomeni di distorsione della memoria. Ma innanzitutto deve essere in grado di rendere conto del buon funzionamento del ricordo, della “memoria felice”, per usare l’espressione di Ricoeur. La differenza tra rimemorazione e fantasia è indicata da Husserl con l’espressione “coscienza di realtà” (Wirklichkeitbewusstsein). La rimemorazione è una fantasia caratterizzata dalla coscienza di realtà. Ma che cosa significa coscienza di realtà? Si tratta di una connotazione esterna o successiva che si sovrappone all’immagine memorativa? E cosa la motiva? Perché 60 Sokolowski lo spiega con grande chiarezza. Si è tentati di pensare il ricordo come la visione di una immagine mentale. In questo modo il ricordo sarebbe come una sorta fotografia intramentale. In realtà nel ricordo non guardiamo un oggetto che ne raffigura un altro. Infatti non ci è possibile, come nel caso della raffigurazione, considerare l’immagine in quanto immagine e non in quanto raffigura. In questo senso il ricordo è molto più simile al percepire che non alla coscienza di immagine. Noi non immagazziniamo immagini del passato, immagazziniamo le percezioni precedenti. E non richiamiamo immagini interne, ma percezioni passate. Quando queste percezioni riaffiorano, portano in sé l’oggetto passato. cfr. R. Sokolowski, Introduction to Phenomenology, Cambridge University Press, Cambridge, 2000, tr. it. Introduzione alla fenomenologia, Edizioni Università della Santa Croce, Roma, 2002, cap. V, pp. 85-97.

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la coscienza attribuisce ad alcune rappresentazioni il carattere di realtà e ad altre no? Bisogna fare molta attenzione a questo proposito a non confondere due problemi legati tra loro ma non identici. Da una parte c’è il problema di descrivere adeguatamente la differenza fenomenologica di due generi di vissuti diversi: si tratta di una questione che riguarda soltanto la sfera dell’immanenza, i vissuti così come si mostrano alla coscienza nella loro diversità. Altro problema è il rapporto tra questi vissuti e la realtà oggettiva: questa è una questione che riguarda la trascendenza, il rapporto dei vissuti al mondo esteriore. Il primo rimane un problema interno al soggetto. Il secondo richiede la “collaborazione” intersoggettiva, come si vedrà. È necessario perciò sottolineare che il problema della distinzione tra rimemorazione e fantasia non coincide completamente con il problema della “verità” della rimemorazione. L’ipotesi che si presenta per prima, quando si cerca di distinguere fantasia e rimemorazione, è quella di una differenza a livello dei contenuti. È l’ipotesi del senso comune, ma è anche una tesi classica della tradizione empirista. Secondo questo punto di vista si darebbe una diversità intrinseca tra il contenuto rimemorato e il contenuto fantasticato. Le immagini del ricordo sarebbero più vive, più intense, più definite. Sarebbero cioè molto più vicine alle immagini della percezione. Si profilerebbe così una sorta di gerarchia delle rappresentazioni, costruita a partire dalla loro vivezza intuitiva: per prima la percezione, la cui nettezza sarebbe garanzia della massima credibilità; poi il ricordo, meno vivido, ma ancora credibile; infine la fantasia, la cui fioca intensità impedirebbe ogni confusione tra reale e irreale. In questo senso un colore ricordato sarebbe visivamente più nitido di un colore fantasticato e un suono ricordato sarebbe più evidente di uno fantasticato. La differenza tra questi contenuti immanenti sarebbe del tutto analoga alla differenza che percepiamo di fronte a stimoli di intensità diversa61. In realtà il criterio di distinzione empirista è assolutamente inutilizzabile. Ci sono fantasie che appaiono in modo del tutto vivido: il bambino terrorizzato “vede” il mostro della favola nel modo più distinto62. E non si tratta solo della fantasia troppo facilmente eccitabile dei bambini: si pensi a come pos61

La formulazione più autorevole di questa posizione è quella di Hume: «L’esperienza ci dimostra che, quando un’impressione si è presentata alla mente, vi fa di nuovo la sua apparizione in forma di idea. E questo può accadere in due modi diversi: o nella sua nuova apparizione conserva in grado considerevole la sua primitiva vivacità, ed è, allora, qualcosa di intermedio fra un’impressione ed un’idea; ovvero perde totalmente quella vivacità, ed è un’idea vera e propria. La facoltà per cui le impressioni si ripetono alla prima maniera, è chiamata memoria; l’altra immaginazione». D. Hume, A Treatise of Human Nature, tr. it. Trattato sulla natura umana, Mondadori, Milano, 2008, p. 46. 62 Cfr. V. Costa, Per una fenomenologia dell’immaginazione, in M. Feyles (a cura di), Memoria, immaginazione e tecnica, cit., p. 127.

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sono essere persuasive le fantasia erotiche. D’altra parte si è già detto dei limiti delle immagini memorative, anche di quelle più recenti. È fin troppo facile trovare rimemorazioni che risalgono al passato lontano la cui oscurità è maggiore rispetto a molte fantasie. Eppure, nella maggior parte dei casi noi non confondiamo queste rimemorazioni lontane con delle mere fantasie. E neanche il bambino s’inganna: per quanto turbato, egli sa bene che il mostro che “vede” è una mera fantasia. Il grado di intensità dell’intuizione non è dunque sufficiente per rendere conto della distinzione che cerchiamo. Non solo. A ben vedere a partire dai contenuti appresi non si riesce spiegare nemmeno la distanza tra presentazione e presentificazione. In certe condizioni – per esempio in un’oscurità fonda, o in mezzo alla nebbia – la percezione stessa può essere così confusa da risultare indeterminata come una presentificazione63. Ciononostante essa rimane per la coscienza una presentazione e non una presentificazione. A maggior ragione la differenza tra rimemorazione e fantasia – che sono due forme di presentificazione – non può essere attribuita alla diversità dei contenuti. Si tratta di una differenza di coscienza. I “materiali” a fondamento delle rappresentazioni della fantasia e della rimemorazione sono gli stessi. In entrambi i casi la presentificazione costruisce le sue rappresentazioni a partire non da sensazioni, ma da “fantasmi”. Il fantasma – la cui natura bisogna ammettere che rimane molto misteriosa64 – non è pensabile come un dato impressionale illanguidito65. É la rappresentazione di una sensazione, ma non è un segno. È la riproduzione della sensazione corrispondente. Fin tanto che si trattano i vissuti come “contenuti” o come “elementi” psichici che, nonostante tutte le contestazioni alla moda rivolte alla psicologia atomistica o reificante, vengono considerate come una specie di cose in miniatura, fin tanto che, di conseguenza, si crede di poter trovare la differenza tra i “contenuti di sensazione” e i rispettivi “contenuti di fantasia” soltanto nelle note caratteristiche oggettive dell’“intensità” e della “pienezza”, ecc., la situazione non potrà migliorare. Si dovrebbe innanzitutto comprendere che siamo qui in presenza di una differenza che concerne la coscienza, che quindi il fantasma non è un dato di sensazione illanguidito, ma è per sua essenza fantasia del corrispondente dato di sensazione [...]66. 63

E, d’altra parte, in certe condizioni una non-percezione può essere intuitivamente persuasiva esattamente come una percezione: è il caso dell’allucinazione. 64 Forse il problema principale della nozione di presentificazione è proprio quello di capire cosa sono i “fantasmi” che in essa fungono da contenuti. Si vede qui come Husserl si liberi delle aporie dell’immagine interna solo al prezzo di nuove aporie. 65 «Der Unterschied zwischen Wahrnehmungs- und Phantasieauffassung ist kein bloßer Unterschied zweier Gattungen oder Klassen von Inhalten und kann nicht es sein». E. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung, cit., p. 100. 66 E. Husserl, Idee…, vol. I, cit., p. 275.

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Queste analisi hanno un’implicazione decisiva: non esiste alcun criterio obbiettivo – nel senso della obbiettività scientifica – che consenta di stabilire se un’immagine presentificata che appare alla coscienza sia una rimemorazione o una fantasia67. Se tra rimemorazione e fantasia non si dà alcuna differenza materiale; se un’immagine ricordata è dal punto di vista dei “contenuti primari” indistinguibile rispetto ad una mero fantasma, allora non è possibile stabilire con il metodo scientifico-sperimentale un criterio di distinzione. Non è possibile misurare l’“intensità intuitiva” di una presentificazione e stabilire di conseguenza se si tratta di una rimemorazione o di una fantasia. Non c’è alcuna qualità materiale che permetta di distinguere il falso ricordo. Per questo tutti i tentativi messi in opera dagli scienze cognitive per costruire la macchina in grado di accertare finalmente la verità di un ricordo, non hanno prodotto alcun risultato credibile. Sono tentativi per principio inutili68. 67

«Scientific research has clearly established that is not always to determine what happened in the past on the basis of a person’s recollection, regardless of whom the person is, and regardless of how strongly – and genuinely – the person believes that he or she is telling the truth». E. Tulving, Episodic Memory and Common Sense: how Far Apart?, “Phil. Trans. R. Soc. Lond. B.”, 356, 2001, p. 1507. 68 Schacter ha condotto una serie di laboriosi esperimenti per verificare la differenza delle reazioni cerebrali nel caso di un vero ricordo e nel caso di un falso ricordo (cioè di una fantasia erroneamente presa per “reale”). In alcuni di questi esperimenti ai soggetti viene presentata una prima lista di parole affini (“filo”, “spilla”, “capocchia”, “cucito”, “appuntito” ecc.) e successivamente una seconda lista (“cucito”, “dormire”, “ago” ecc.). Durante la presentazione della seconda lista ai soggetti viene chiesto di riconoscere le parole già udite e si può osservare che molti di loro sbagliano sostenendo di aver già udito parole che non hanno mai udito (per es.“ago”). Sarebbe questo, secondo Schacter un caso di falso ricordo prodotto in laboratorio (si è già detto della artificiosità di questi esperimenti e della riduzione della complessità dell’esperienza che implicano). Grazie a questo artificio che permette di “produrre” un falso ricordo, diviene possibile visualizzare, tramite una particolare tecnica di risonanza magnetica (PET), cosa avviene nel cervello nel caso del vero ricordo (vero riconoscimento) e nel caso del falso ricordo (falso riconoscimento). Si possono così constatare delle piccole variazioni nella attività cerebrale. Schacter si domanda dunque: «Si potrebbero usare le PET per mettere fine alle controversie sui ricordi degli abusi subiti nell’infanzia, dove qualcuno descrive per filo e per segno un orrendo abuso e qualcun altro nega disperatamente? Potrebbero aiutare a stabilire l’attendibilità di un testimone oculare?» La domanda potrebbe anche essere formulata così: esiste un criterio obbiettivo per distinguere fantasia e rimemorazione? La risposta però è deludente: «Sono quesiti affascinanti, che presentano enormi implicazioni per la società. Ma i risultati ottenuti mi costrinsero a raffreddare gli entusiasmi. Le somiglianze tra vero e falso riconoscimento erano sorprendenti e generalizzate, le differenze poche e al massimo suggestive». D. Schacter, I sette peccati della memoria, cit., p. 117. Ciononostante il celebre neuroscienziato di Harvard rimane fermamente convinto che in futuro sarà possibile perfezionare gli esperimenti e ottenere risultati significativi: «Ancora non sappiamo con esattezza perché i pazienti sviluppano diverse forme di errata attribuzione, ma qualcosa mi dice che le tecniche di bioimmagine contribuiranno presto a svelare il mistero». Molto più cauta (e realistica) la posizione della Loftus:

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11.La coscienza di realtà e il problema della referenza del ricordo Si è detto che ciò che distingue una rimemorazione da una pura fantasia è la coscienza di realtà. È importante sottolineare che la coscienza posizionale che caratterizza la rimemorazione non è un atto predicativo. Non è il risultato di una riflessione intellettuale e non è un giudizio. La coscienza non attribuisce successivamente, in seguito ad un ragionamento, il “contrassegno della realtà” ad una presentificazione di per sé neutra. Le rimemorazioni si presentano fin da subito come caratterizzate dalla coscienza di realtà. Che le cose stiano così lo si capisce quando si considera la possibilità del contrasto tra la posizione di realtà che appartiene ad una rimemorazione e la consapevolezza critica della coscienza che “sa” che le cose stanno diversamente. Accade così ogni volta che “scopriamo” la falsità di un illusione rimemorativa. Io posso, per esempio, ricordare con precisione un certo avvenimento: “le cose sono andate proprio così e così”. Successivamente una serie di dati di fatto incontrovertibili smentiscono la versione dei fatti della mia memoria. Ora io sono consapevole di ricordare male: la rimemorazione di cui prima ero certo mi appare come un falso ricordo. Ciononostante essa rimane una rimemorazione. La presentificazione che mi mostra l’avvenimento in questione continua ad apparirmi come un ricordo, cioè continua a presentarsi come caratterizzata da una coscienza di realtà. Io “so” che “in realtà” si tratta di un falso ricordo. Ma questo sapere predicativo non può modificare la mia esperienza antepredicativa e perciò io non esperisco quella presentificazione come una mera fantasia. Esattamente come accade nel caso della percezione quando, pur sapendo benissimo che è la terra che gira intorno al sole, io continuo a “vedere” il sole muoversi intorno alla terra. Allo stesso modo la distinzione tra rimemorazione e fantasia appartiene alla sfera antepredicativa dell’esperienza. Bisogna dunque fare attenzione a non concepire in modo intellettualistico la nozione husserliana di coscienza di realtà. Ma nello stesso tempo bisogna fare attenzione a non fraintenderla in senso referenzialistico. Chiamando in causa la coscienza di realtà non si è affatto risolto il problema della “verità” della memoria. Se è vero che la coscienza di realtà è ciò che distingue nell’immanenza, dall’interno dell’esperienza vissuta, il fenomeno della rimemorazione dal fenomeno della mera fantasia, è anche vero che la coscienza di realtà può essere fallace. Noi sappiamo distinguere l’esperienza del ricordo dall’esperienza della fantasia, ma non è detto che questa distinzione vissuta corrisponda alla realtà dei fatti. «Psychological science has not yet developed a reliable way to classify memory as true or false». E. Loftus, Our Changeable Memories: Legal and Practical Implications, “Nature Reviews: Neuroscience”, 4, 2003, p. 232. Ivi, p. 126.

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Si vede qui come la questione della “verità” del ricordo sia problematica dal punto di vista fenomenologico. In effetti il problema nasce dall’impostazione metodologica fondamentale della fenomenologia. Il punto di partenza di ogni analisi è la riduzione. Il fenomenologo per principio si disinteressa della realtà oggettiva degli oggetti che studia e si impegna a descriverne fedelmente l’esperienza. La realtà appartiene alla sfera della trascendenza, alla sfera di ciò che è “oltre”, “al di fuori” della vita della coscienza, mentre il fenomenologo si deve attenere alla sfera dell’immanenza. Ma allora che senso ha domandare a proposito della realtà della rimemorazione? Come si può affermare che la differenza tra rimemorazione e fantasia è data dalla coscienza di realtà? Il problema della fenomenologia della memoria è che – proprio nella misura in cui è una “scienza dei fenomeni” – non può fare ricorso ad alcun referenzialismo ingenuo. La distinzione tra ricordo e fantasia non può essere risolta tagliando corto. Non possiamo dire: “la rimemorazione è una fantasia che si riferisce al qualcosa che è stato, a differenza della mera fantasia”. Questo referenzialismo ingenuo è escluso persino per ciò che riguarda la percezione. Non posso dire semplicemente: “il cavallo che vedo esiste, mentre il centauro che immagino non esiste”. Dal punto di vista fenomenologico il cavallo visto e il centauro immaginato hanno la medesima “dignità ontologica” – se così si può dire. Se ci atteniamo alla sfera dell’immanenza, l’uno e l’altro sono “apparizioni” – fenomeni, nell’accezione etimologica del termine – e in questo senso di entrambi è lecito dire che “esistono”. La distinzione tra reale e irreale non coincide in nessun modo con la distinzione tra esistenza e non esistenza, come spiegano bene le lezioni riunite in Esperienza e giudizio: «Come tutto ciò che compare nell’esperienza reale e nel mondo reale ha qui il suo parallelo nel “come-se”, così anche è per l’esistenza e la non esistenza. C’è una esistenza come-se sul terreno unitario di un mondo di fantasia e altrettanto una non esistenza come-se e dei giudizi esistenziali che si riferiscono ad esso»69. Se le cose stanno così nel caso della percezione, che si riferisce ad un oggetto presente e reale, a maggior ragione il problema si ripropone nel caso della rimemorazione, che si riferisce ad un oggetto non più presente e non più reale. Ma come è possibile allora accertare la realtà di una rimemorazione?

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E. Husserl, Esperienza e giudizio, cit., p. 276.

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12.La posizione temporale del ricordo. L’inserzione del ricordo nella trama della memoria Le due ipotesi più autorevoli della tradizione filosofica – l’ipotesi empirista e l’ipotesi referenzialista – si rivelano inadeguate a rendere conto della distinzione tra rimemorazione e fantasia. E si rivelano inadeguate anche a rendere conto del problema – connesso ma non identico – della verità della rimemorazione. Husserl percorre un altra strada. Nel §23 delle lezioni sulla coscienza interna del tempo la questione è impostata dal punto di vista temporale. L’apparizione intuitiva che si da a vedere in una rimemorazione si distingue per la sua esplicita connotazione temporale: l’immagine memorativa è una immagine del passato. Non è così per l’immagine meramente fantasticata. «Nella mera fantasia non è data alcuna posizione dell’“ora” riprodotto, né alcuna coincidenza di esso con uno passato. La rimemorazione invece pone ciò che riproduce e, in tale posizione, gli assegna un posto rispetto all’ora attuale e alla sfera del campo temporale originario, cui la rimemorazione stessa appartiene»70. Husserl perciò si domanda: «Come fa l’“ora” riprodotto ad essere il rappresentante di un “passato”?»71. Tutta la distanza tra rimemorazione e fantasia è celata nel mistero di questa rappresentanza, di questo riferimento al passato. «Come subentra questa relazione a un passato, che peraltro può esser dato originariamente solo nella forma dell’“appena passato”?»72. L’immagine memorativa – se deve potersi distinguere dall’immagine fantasticata – deve implicare dei riferimenti temporali precisi che mancano nel caso della mera fantasia. Come si è detto, è da escludere la possibilità che tali riferimenti siano reperibili a livello di una differenza contenutistica. Data e ora non iscritte in un angolo dell’immagine memorativa e non possono essere desunte dalla sua “qualità intuitiva”. I riferimenti temporali sono perciò di natura intenzionale. L’immagine memorativa è sempre inserita in una rete di rimandi ritenzionali e protenzionali che la legano ad altri ricordi, vicini e lontani, e che conducono – almeno in linea di principio – fino al presente vivente. A differenza della mera fantasia, il ricordo è caratterizzato da una certa posizione temporale, stabilita in rapporto all’istante “ora” attuale. Questa posizione temporale è resa possibile dalla catena ritenzionale che unisce ininterrottamente qualsiasi fase “ora” del passato al presente. Perciò la ritenzione è ciò che rende possibile la determinazione della posizione temporale di una immagine memorativa e la posizione temporale è ciò che motiva la coscienza di realtà. L’immagine memorativa è 70

E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 83. Ivi, p. 82. 72 Ibidem. 71

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“datata” – se così si può dire – perché è situata in rapporti ben determinati con i ricordi che la precedono e la seguono e perché ripercorrendo questa catena di relazioni è possibile risalire fino al presente vivente. Così è il nesso con il presente che autentica una rimemorazione ed è la ritenzione che rende possibile questo nesso. L’apparizione riprodotta è credibile come rimemorazione solo nella misura in cui è legata alla totalità dell’esperienza vissuta e al presente vivente. La credibilità di un ricordo è legata alla certezza del suo esser-passato. Ma questo esser-passato è documentato come appartenenza ad un contesto memorativo più ampio che è parte del flusso unitario dell’esperienza. Prendiamo in considerazione un esempio: il ricordo del giorno della mia laurea. Immediatamente una “scena” mi si fa presente. Ricordo chiaramente l’aula dove si è svolta la sessione di laurea, gli abiti che indossavo, l’obbiezione di un professore. Questa scena, che volendo potrei esplorare più a fondo, è legata inseparabilmente ad una scena immediatamente precedente: ricordo l’attesa fuori dall’aula, il nervosismo, gli amici che arrivano uno dopo l’altro. Il nesso tra i due “episodi” è strettissimo perché uno dà riempimento alle protenzioni implicate dall’altro. In questo modo queste due apparizioni si confermano vicendevolmente. Insistendo nella rimemorazione, molti altri episodi connessi si fanno avanti: ricordo che mia moglie arrivò alla laurea dalla Germania, dove stava lavorando, ricordo di essere partito il giorno successivo per raggiungerla ecc. Tutti questi episodi connessi in una “trama” coerente si confermano vicendevolmente. E in linea di principio, seguendo i legami che li uniscono uno all’altro, io potrei risalire fino al momento attuale. Un ricordo, se ha un senso, se è credibile, non è mai completamente isolato. Accade cioè esattamente come nel caso della percezione, come spiega chiaramente l’Appendice III. Non è possibile isolare una singola apparizione percettiva e pretendere che abbia ancora il valore di una percezione. Ogni singola apparizione percettiva, ogni momento di una percezione è legato da una serie di riferimenti ritenzionali e protenzionali al suo contesto percettivo. L’apparizione di un certo scorcio visivo è intrinsecamente legata all’apparizione che la precede immediatamente e a quella che la segue, secondo una “logica percettiva” che ha le sue regole di coerenza. Allo stesso modo «ogni ricordo rimanda ad un infinito contesto memorativo»73. L’intrico delle relazioni ritenzionali e protenzionali implica che ogni singolo brandello di esperienza percettiva rimandi a ciò che lo precede e preannunci ciò che lo segue. Ma questa rete di rimandi non si è perduta quando la percezione viene riprodotta. 73

E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 129.

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È così anche nel ricordo. Esso reca in sé il proprio “contesto”, cioè come ricordo ha la sua forma, che noi descriviamo come momenti intenzionali rivolti all’indietro e in avanti, senza di cui non può essere. Il suo riempimento richiede serie di ricordi che sfociano nell’“ora” attuale. È impossibile separare il ricordo, per sé preso e al di fuori delle intenzioni che lo collegano ad altri, da queste intenzioni stesse74.

La posizione temporale di una rimemorazione coincide con questo riferimento ad un contesto memorativo più ampio. Nel caso del ricordo della laurea io conosco la data e approssimativamente anche l’ora dell’episodio in questione. Ma si tratta di un caso raro. Per la maggior parte delle rimemorazioni non possiamo stabilire con precisione una data e un ora. Comunque, anche in un caso simile, la posizione temporale dell’episodio rimemorato è determinata innanzitutto dal suo rapporto con gli altri ricordi75. Ciò 74

Ibidem. S. Larsen, in un saggio dedicato al problema del ricordo degli eventi riferiti, critica “la teoria del contrassegno” con una argomentazione molto interessante: «Le teorie del contrassegno sono insufficienti perché postulano una unica caratteristica differenziale (il contrassegno), che esisterebbe esclusivamente nel sistema cognitivo dell’individuo, invece di analizzare l’informazione disponibile nella realtà allorché si verificano i due tipi di eventi. Per esempio, se uno ricorda di aver partecipato ad una dimostrazione davanti all’ambasciata sudafricana, la sua presenza in quel luogo sarà indicata da molto più che una singola informazione: dal ricordo del viaggio fatto per andarci, del tempo che faceva, dell’aver sbattuto contro Jane Fonda, dell’orribile hamburger spugnoso avuto per pasto, della piacevole sensazione di cantare tutti insieme dei canti anti-apartheid e così via. Analogamente il fatto che uno abbia visto la dimostrazione medesima alla televisione può essere indicato da parecchie cose (oltre alla mancanza d’informazione “personale”): dal ricordo di come la faccenda è stata presentata alla TV, del fatto che le telecamere erano costantemente puntate su personalità molto note, del commento successivo dei telecronisti, eccetera, eccetera» (S. Larsen, La memoria non basata sull’esperienza diretta: il ricordo degli eventi riferiti, in U. Neisser, E. Winogard (ed.), Remembering Reconsidered: Ecological and Traditional Approaches to the Study of Memory, Cambridge University Press, Cambridge, 1988, tr. it. La memoria: nuove prospettive secondo gli approcci ecologici e tradizionali, Cedam, Padova, 1994, p. 421). A mio avviso si può trovare una significativa corrispondenza tra l’approccio della psicologia sperimentale “ecologica” (di cui U. Neisser ha aperto la strada) e quello della fenomenologia. In questo caso – al di là dell’interesse intrinseco della problematica dei ricordi riferiti (che in una prospettiva cognitiva tradizionale non potrebbero nemmeno essere studiati) – si noterà la convergenza tra la tesi sostenuta da Larsen e la tesi sviluppata in questo paragrafo. La distinzione tra ricordo diretto e ricordo riferito è equivalente alla distinzione tra ricordo e fantasia. Cos’è infatti un ricordo riferito se non una fantasia elaborata a partire da un racconto udito? A questo proposito Larsen sostiene: 1) non c’è alcun contrassegno obbiettivo che distingua ricordo riferito e ricordo diretto. 2) la credibilità di un ricordo si basa sul rapporto che intrattiene con gli altri ricordi che lo circondano, dai quali può essere confermato o smentito. Cfr. anche D. Schacter, I sette peccati della memoria, cit., p. 111: «Legare le circostanze di un episodio a un oggetto o a una azione concomitante consente di verificare che sia accaduto davvero. Siete al volante tutti agitati perché non ricordate se avete chiuso la porta dello scantinato. Vi date a una frenetica ricerca mentale per trovare la conferma che 75

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che è essenziale è che vi sia questo rapporto, non che sia disponibile una datazione numericamente definita. «L’essenziale, nel tipo di riproduzioni che chiamiamo ricordo e aspettazione, sta nell’inserzione dell’apparizione riprodotta nella connessione d’essere del tempo interno, ossia nella serie defluente dei miei vissuti»76. Questa “inserzione” è ciò che fa la differenza. Possiamo dire dunque che una rimemorazione si distingue da una mera fantasia perché è inserita coerentemente nella trama unitaria della memoria di un soggetto77. È soprattutto grazie alle protenzioni che il legame tra le rappresentazioni intuitive diviene possibile. Ogni esperienza percettiva, come si è detto, implica una molteplicità di aspettative protenzionali che trovano riempimento nelle percezioni successive. Queste protenzioni all’inizio sono vuote, cioè indeterminate quanto al contenuto, poi si riempiono. Consideriamo nuovamente l’esempio precedente: mentre percepisco la parete esteriore della sala delle lauree, mentre vedo la porta di ingresso dall’esterno, io mi aspetto che dietro a quel muro, al di là di quella porta, ci sia un ambiente di cui posso genericamente anticipare la forma. Entrando nella sala queste aspettative vuote si concretizzano e ricevono un contenuto precisamente determinato: “la sala è fatta così e così, le sedie sono disposte in questo modo ecc”. Se ora consideriamo il caso della rimemorazione ci accorgiamo di una differenza essenziale tra l’esperienza percettiva e la riproduzione di questa stessa esperienza. Nella rimemorazione le protenzioni non sono più indeterminate. Quando ricordo il momento dell’attesa prima della laurea, io (quasi) rivedo la sala delle lauree, la porta di ingresso ecc. La coscienza riproduce un insieme di percezioni precedenti. Ma le protenzioni implicate da questa esperienza percettiva riprodotta non hanno più il carattere di apertura che possedevano originariamente. Io “so” già come è fatta la sala delle lauree, come sono disposte le sedie, come andrà la discussione ecc. Le protenzioni conducono necessariamente e immediatamente da una esperienza percettiva non ve lo siete solo immaginato. Tornate calmi solo quando vi ricordate di avere visto sfrecciare un gatto mentre chiudevate la porta. Ma se non aveste legato la percezione dell’animale impaurito all’atto di chiudere la porta, ancora fatichereste a distinguere la fantasia dalla realtà». 76 E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 90. 77 «È invece essenziale per le presentificazioni tetiche che io le compia nella coscienza dell’attualità della credenza. Per esempio, nel caso di un ricordo non è presentificata semplicemente una qualche sequenza di vissuti immaginata, senza alcuna posizione, ma i vissuti compiuti in modo riproduttivo sono dati nella coscienza del “di nuovo”, che è un “coscienza di credenza”. Ciò significa soprattutto che ad essi sono legate inseparabilmente intenzioni che rimandano all’indietro e in avanti che conferiscono loro un luogo determinato nel contesto complessivo della mia passata corrente di coscienza». R. Bernet, I. Kern, E. Marbach, Edmund Husserl. Darstellung seines Denkens, Felix Meiner Verlag GmbH, Hamburg, 1989, tr. it. Edmund Husserl, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 193.

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all’altra. Le due “sequenze” sono intimamente unite. «Per comprendere, ora, l’inserzione di questa unità di vissuti costituita, che è “il ricordo”, nel flusso unitario dei vissuti, bisogna tener conto di quanto segue: ogni ricordo contiene intenzioni di aspettazione il cui riempimento conduce al presente. Ogni processo originariamente costituente è animato da protenzioni che costituiscono e captano a vuoto ciò che ha da venire, come tale, e lo portano a compimento. Sennonché: il processo rimemorativo non rinnova memorativamente queste protenzioni soltanto! Esse non stavano soltanto captando, esse hanno captato, si sono riempite, e di ciò noi siamo ben coscienti nella rimemorazione»78. Ci si accorge allora che dal punto di vista fenomenologico c’è una differenza importante tra l’esperienza del ricordo e quella dell’immaginazione. Una differenza che è completamente intrinseca all’esperienza e che non implica alcun oltrepassamento della sfera dell’immanenza. In linea di principio – anche se non di fatto – seguendo la serie dei rimandi protenzionali implicati dalla rimemorazione si giunge fino all’esperienza percettiva presente. In questo modo Husserl evita il referenzialismo in un certo senso riformulandolo. La rimemorazione non si distingue dalla fantasia perché si riferisce alla realtà, ma perché si riferisce – in modo estremamente indiretto, cioè attraverso la mediazione della totalità della memoria – al presente vivente. La rimemorazione non è più ancorata ad una realtà esterna, ma all’esperienza presente. È possibile così fissare una distinzione chiara tra ricordo e immaginazione senza oltrepassare la sfera dell’immanenza e senza mettere in discussione la loro indiscutibile somiglianza.

13.Mondo immaginario e mondo passato. L’apertura intersoggettiva della rimemorazione L’analisi che abbiamo appena svolto sottolinea la coerenza con il contesto come elemento centrale per la credibilità di una rimemorazione. Ma a questo punto si potrebbe obbiettare: un insieme di rappresentazioni di fantasia non può essere altrettanto coordinato? Spesso anche quando fantastichiamo, immaginando le più stravaganti avventure, possiamo fare esperienza di un insieme di rappresentazioni legate una all’altra e coerenti tra di loro. Dov’è dunque la differenza con la rimemorazione? A mio parere le pagine più chiare su questo punto di trovano in Esperienza e giudizio, nei § 38-40. Sono pagine cui Ricoeur ha dato ampio seguito in Tempo e racconto79. La percezione 78 79

E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 84. Anche se, stranamente, in Tempo e racconto non vengono citate mai.

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e la rimemorazione, benché siano modalità intuitive essenzialmente diverse, appartengono ad un unico flusso temporale. L’oggetto presente che ho appena percepito e l’oggetto passato che rivedo in una rimemorazione sono accomunati in una unità essenziale: appartengono al medesimo “mondo”, cioè al medesimo tempo. Non è così per gli oggetti meramente fantasticati. I vissuti di fantasia hanno una loro temporalità propria, una temporalità senza nesso con il tempo della percezione. Questo significa che il «centauro che io ora immagino e l’ippopotamo che avevo prima immaginato, e ancora il tavolo che io ora percepisco direttamente, non hanno una connessione reciproca, ossia non hanno una posizione temporale reciproca l’uno rispetto all’altro»80. Certo, anche le rappresentazioni di fantasia possono essere molto complesse e possono essere ordinate in modo sensato. Si pensi ad un racconto di finzione. Le diverse parti della narrazione si integrano tra di loro secondo criteri di plausibilità paragonabili a quelli validi per l’intreccio delle rimemorazioni. Anche in un racconto si dà una unità temporale: c’è qualcosa che viene prima e qualcosa che viene dopo. Le rappresentazioni sono unite tra loro in un insieme sensato e si riferiscono l’una all’altra secondo una logica di rimandi. È dunque lecito parlare a questo proposito di veri e propri mondi immaginari. Husserl infatti utilizza l’espressione «mondo-come-se»81. Tuttavia «[…] una cosa manca necessariamente alla mera finzione e contrassegna l’oggetto realmente esistente: la posizione temporale assoluta, il tempo “effettivo”, come assoluta e autentica unicità temporale del contenuto individuale dato in una formazione temporale. Più chiaramente, il tempo e sì rappresentato, anzi rappresentato intuitivamente, ma è un tempo senza reale e autentica localizzazione del posto, appunto un tempo-come-se»82. Il tempo dei mondi immaginari, a differenza del tempo dei mondi passati, è senza relazione con il tempo reale. Questo significa che, anche se una fantasia si inserisce in un mondo immaginario coerente, questo insieme di rappresentazioni non ha una posizione temporale rispetto al presente vivente. Non è localizzabile a partire dall’“ora” della percezione attuale e per questo non possiamo dire “quando” è. Nella fantasia si dà concatenamento di rappresentazioni, ma questo concatenamento non è ancorato al presente. Una presentificazione è tanto più plausibile quanto più forma un’unità coerente insieme con altre presentificazioni simili. Ma, affinché questa plausibilità diventi credenza, la coerenza da sola non basta. Solo se l’insieme coerente delle presentificazioni appartiene al medesimo flusso di vissuti della percezione presente, cioè solo se è ancorato in qualche modo all’“ora” attuale, solo in questo caso una presentificazione è posta come reale. 80

E. Husserl, Esperienza e giudizio, cit., p. 152. Ivi, p. 155. 82 Ivi, p. 153. 81

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Per questa ragione, mentre un ricordo deve sempre potersi integrare con l’insieme di tutti gli altri ricordi di un soggetto, non è affatto necessario che una fantasia sia compatibile con un altra fantasia. Una narrazione è un insieme di rappresentazioni unitario. Ma non c’è nessuna ragione per cui un racconto di fantasia debba essere coerente con un altro racconto di fantasia. «Non ha senso, per esempio, domandarsi se la Margherita di una novella sia la stessa Margherita di una altra, se ciò che viene fantasticato e detto dell’una si accordi o meno con ciò che è fantasticato per l’altra, come è anche insensato domandarsi se le due Margherite siano affini ecc.»83. Sarebbe una pretesa assurda. Al contrario nel caso della rimemorazione questa compatibilità è un requisito necessario di credibilità. Questa è la ragione per cui non tutte le presentificazioni possono presentarsi come rimemorazioni. Io posso essere vittima dei più clamorosi errori di memoria. Ma non posso ricordare di aver perso un braccio in un incidente stradale. Posso sognarlo, posso immaginarlo, posso rappresentarmi la scena. Ma queste rappresentazioni non potranno mai valere come dei ricordi, perché non sono compatibili con il mio mondo percettivo attuale84. Un evento rimemorato deve potere essere compatibile con il presente che vivo e con tutti gli altri ricordi del passato85. Una concezione del genere permette di spiegare – in modo molto più convincente rispetto all’ipotesi empirista e a quella referenzialista – l’esperienza del ricordo dubbio e del falso ricordo. Un ricordo lontano, un ricordo di cui non riusciamo a ricostruire il contesto e di cui non possiamo più seguire i rimandi intenzionali è un ricordo inevitabilmente dubbio. Poiché dal punto di vista della “qualità intuitiva” non è differente da una mera fantasia, esso ne è, di fatto, indistinguibile. Prendiamo il caso di un ricordo remoto, risalente al periodo dell’infanzia. Un’immagine aleggia davanti alla coscienza, ma non siamo in grado dire esattamente se si tratta di una vera e propria rimemorazione o di un prodotto della nostra fantasia. Che cos’è che rende questo dubbio praticamente irrisolvibile? Il fatto che l’immagine è scialba e indefinita? Il fatto che l’evento cui si riferisce non è più presente? 83

Ivi, p. 156. Tornerò ancora su questa questione. Alcune presentificazioni possono valere come rimemorazioni anche se “in realtà” sono mere fantasie. Ma a questo scambio c’è un limite. Il limite è costituito dalla coerenza con gli altri ricordi. Prendiamo un esempio: io non ricordo quasi niente del mio primo giorno di scuola. Nessuna immagine mi appare, per quanto mi sforzi. L’unica cosa che mi sembra di ricordare, o forse di sapere, è che mi accompagnò mio padre. La mia memoria mostra qui una grande lacuna. Ciononostante io non potrei mai scambiare la presentificazione di una scena ambientata in un altro edificio scolastico, per la scena del mio primo giorno di scuola. È un errore impossibile. Perché? Perché questo falso ricordo sarebbe incoerente rispetto a tutti gli altri ricordi dei miei primi anni di scuola. 85 Potremmo anche dire: deve essere compatibile con la mia storia. 84

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In realtà il problema è che il mondo cui quel ricordo appartiene è completamente dissolto. Non possiamo più ricostruire ciò che precede e ciò che segue quell’immagine. Non possiamo più seguirne i rimandi intenzionali. È un frammento completamente privo di contesto e dunque “illeggibile”: un po’ come un frase estratta a caso da un libro di cui non si possieda più nemmeno una pagina. In che modo si potrebbe dire se è vera o se è falsa? L’esempio del ricordo di infanzia ci permette di aggiungere un ulteriore importante precisazione. Come si è detto non esiste un criterio obbiettivo che consenta di distinguere fantasia e ricordo. Ora, cosa accade comunemente quando dubitiamo della realtà di un ricordo? Chiediamo conferme. Cerchiamo conferme. Nel caso dell’immagine scialba della infanzia potremmo interrogare i genitori: “ti ricordi quella volta...?” Si tratta di una possibilità sempre aperta che è di importanza capitale. Una rimemorazione deve in linea di principio potersi integrare con le rimemorazioni altrui. Dal momento che appartiene allo stesso mondo della percezione, la rimemorazione ha una fondamentale apertura intersoggettiva. Non c’è niente di simile nell’esperienza della fantasia. Proprio perché manca della posizione di realtà, l’immagine fantasticata si sottrae ad ogni confronto critico intersoggettivo. A questo punto appare chiaro ciò che si è detto sopra, ovvero che il problema della coscienza di realtà e il problema della verità della rimemorazione sono legati ma non del tutto coincidenti. Una presentificazione, per poter valere come rimemorazione, deve potersi integrare nella totalità della memoria, cioè deve appartenere al medesimo flusso temporale della percezione attuale. Ma una rimemorazione, per essere vera, deve potersi integrare con le analoghe rimemorazioni altrui. La verità della rimemorazione è un problema che trascende la coscienza e che perciò non può essere risolto se ci si attiene solo alla vita immanente di una coscienza singola86.

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D’altra parte questo modo di porre il problema della referenza è valido anche per la stessa percezione. Anzi ne discende. Anche in quel caso non abbiamo altro criterio per discriminare la “vera” percezione dall’inganno percettivo se non la concordanza delle esperienze tra di loro e il confronto intersoggettivo, cioè la concordanza delle nostre esperienze e di quelle altrui. Sulla necessità di una concordanza delle esperienze percettive come criterio di realtà – una necessità di concordanza paragonabile a quella delle esperienze memorative – si legga il passo seguente, davvero notevole per la sua chiarezza: «Noi possiamo vedere una cosa ed in essa tutto concorda; le proprietà tattili co-segnalate in sé si adatterebbero senz’altro. Ma noi guardiamo, per esempio, attraverso uno stereoscopio, tendendo la mano appoggiata sul tavolo, e perciò (ma anche grazie al contesto complessivo della percezione che di continuo decorre) sappiamo di essere in una piccola stanza, mentre l’oggetto stereoscopico è una cascata in una grande rupe isolata. Ciò non concorda e la percezione è ora interrotta, modalizzata, assume il carattere della illusione, e in questo caso in pari tempo quello di una riproduzione impressionale di una cascata svizzera». E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 147.

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14.La fallibilità della memoria: l’oblio e il falso ricordo Dal punto di vista fenomenologico l’esperienza del fallimento della memoria è di due tipi. Da una parte c’è la possibilità dell’oblio: è ciò che accade quando la ritenzione viene meno, quando la coscienza non può più raggiungere una porzione di passato ritenuta. Dall’altra parte c’è la possibilità del falso ricordo. Una frammento del nostro passato si ripresenta con l’evidenza di un ricordo autentico, ma in realtà si tratta di un inganno: le cose sono andate diversamente, la memoria sta distorcendo “la realtà dei fatti”. Nell’ottica di questo studio, dove è a tema il rapporto tra rimemorazione e fantasia, è soprattutto questa seconda esperienza che è rilevante ed è su questa che vorrei soffermarmi in modo più approfondito. Infatti è proprio quando distorce la realtà di ciò che è accaduto che la memoria somiglia maggiormente all’immaginazione. L’esperienza del falso ricordo è quanto di più vicino si possa concepire all’esperienza della fantasia. Il problema degli inganni della memoria è affrontato in modo esplicito nella IV sezione delle Lezioni sulla sintesi passiva, intitolata “L’illusione nell’ambito della rimemorazione”. Come si è visto la concezione husserliana della ritenzione sembrerebbe minimizzare le possibilità di fallimento della memoria. Se la modificazione ritenzionale è idealmente infinita, l’oblio è idealmente impossibile. Il che significa che, anche se de facto ci accade di non poter più ritrovare un frammento remoto della nostra esperienza, in linea di principio, de iure, ogni passato è sempre accessibile alla coscienza. Si potrebbe ancora accettare questa spiegazione dell’oblio che ricorre alla distinzione tra fatto e diritto. Ma che dire del falso ricordo? La ritenzione, infatti, non è soltanto idealmente infinita. È anche sempre evidente. Ma allora – considerando che la rimemorazione è lo riempimento di una ritenzione, cioè è l’atto intuitivo che nasce dalla unità di una presentificazione intuitiva e della corrispondente intenzione ritenzionale – in che modo si possono spiegare le distorsioni della memoria? La rimemorazione non dovrebbe forse partecipare dell’evidenza propria della ritenzione? La posizione di Husserl a riguardo è molto chiara: «Il mio pensiero guida è il seguente: un ricordo intuitivo lontano, se non è fuggevole e fulmineo, ma stabile, sinteticamente riproducibile e identificabile, conosce per essenza soltanto un possibile modo per divenir dubbio e risultare in seguito non valido per ciò che concerne la sua oggettualità: il sovrapporsi caotico delle rimemorazioni»87. Nel caso del falso ricordo, l’oggetto rimemorato risulta dalla con-fusione di elementi che appartengono a rimemorazioni diverse. Partendo da questa ipotesi forte, Husserl si impegna in una analisi appro87

Ivi, p. 163.

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fondita della genesi delle illusioni memorative. L’illusione può accadere in due modi. La prima possibilità è che un ricordo (r’) sostituisca completamente il “vero” ricordo (r). In questo caso in ogni parte del campo intuitivo è occupata dal falso ricordo, ogni membro di (r) è sostituito e lo stesso (r) è completamente inabissato88. Si tratta di una possibilità remota, se i due ricordi sono molto diversi, ma non improbabile, se i due ricordi sono molto simili. Ci sono situazioni che si ripetono in modo quasi rituale che rendono la confusione molto facile: può accadere per esempio di confondere il ricordo di una cena di Natale con il ricordo di una cena di Capodanno. La seconda possibilità è quella della commistione. Alcune parti di (r) rimangono salde, ma contemporaneamente emergono anche parti di (r’). In questo caso può accadere come nel conflitto tra due immagini percettive: ora si afferma un’immagine ora l’altra. Oppure può accadere che le due immagini si confondano l’una nell’altra, si mescolino. «Le rimemorazioni possono in effetti collegarsi in una rimemorazione combinata che ha collegato, in una immagine intuitivamente concordante, le parti di ricordi diversi»89. La nuova immagine ibrida (r’’) conterrà l’elemento (a) di (r) e l’elemento (b) di (r’). La forza persuasiva di questo ricordo ibrido sarà tanto maggiore quanto più (a) e (b) sono abitualmente legati nella nostra esperienza quotidiana. Se (ab) è una connessione credibile, allora l’immagine (r’’) risulterà credibile90. Per esempio io potrei ricordare di aver fatto un brindisi durante una cena natalizia e accorgermi successivamente che il brindisi in questione è un frammento memorativo che appartiene ad un altro ricordo, al ricordo di una cena di Capodanno. Ovviamente la confusione sarà tanto più facile quanto più la connessione tra gli elementi è plausibile. Andando un po’ oltre la terminologia husserliana – ma non oltre le sue intenzioni – credo che si possa parlare a questo proposito di un montaggio falsificante delle immagini memorative. Consideriamo ancora un esempio, ben più drammatico: è la storia vera di Donald Thompson. Una storia scon88

Ivi, p. 261. Ivi, p. 262. 90 «Ciò che determina la fusione in una immagine illusoria è la forza dell’appercezione. Se in un presente e nell’unità di una oggettualità, (a) e (b) erano stati frequentemente collegati, non appena essi si fanno intuitivamente avanti insieme ai ricordi che si aprono un varco e che si sovrappongono l’uno all’altro (e insieme alle forme del campo temporale che momentaneamente si fondono grazie alla sovrapposizione), allora (a) e (b) vengono nuovamente appresi come collegati nell’unità di una tale oggettualità. Ma questa apprensione unitaria, e l’unitaria immagine intuitiva sono una illusione» (ivi, p. 262). In questo caso le componenti (a) e (b) hanno in realtà i loro complementi reali – chiamiamoli (a’) e (b’), dove la realtà di contro all’unità illusoria (a)(b) sarebbe l’unità reale (a)(a’) e (b)(b’) – che “protestano” contro l’unificazione tra (a) e (b), ma questa protesta non è “udibile”. Se diviene udibile ecco che l’illusione viene scoperta e il ricordo si rivela nella sua falsità. 89

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volgente, ma non unica nel suo genere. Thompson è (per ironia della sorte) uno scienziato australiano che si è occupato in modo particolare delle distorsioni della memoria e che viene invitato in televisione per discutere del suo lavoro. Poche settimane più tardi viene arrestato con l’accusa di stupro. La vittima lo riconosce con certezza: è certa di ricordare il suo volto come il volto dell’uomo che l’ha stuprata. Si scoprirà poi che nel giorno e nell’ora dello stupro Thompson era ospite della trasmissione televisiva di cui sopra. La donna, violentata proprio mentre stava guardando la televisione, aveva riconosciuto correttamente il volto dello scienziato, ma aveva sbagliato nell’attribuirlo allo stupratore! Quel volto, che le era rimasto impresso in modo cosi chiaro, era in effetti un frammento di ricordo autentico, un volto che aveva già visto e che aveva visto proprio in quel momento terribile. Ma non era il volto dello stupratore91. Un episodio del genere può apparire assurdo. In realtà si tratta di una situazione che si verifica molto più spesso di quanto si creda. Dal punto di vista fenomenologico casi del genere sono interessanti perché non si tratta di false testimonianze, né di una menzogne volontarie. Il testimone sbaglia del tutto involontariamente. In questi casi accade ciò che alcuni psicologi chiamerebbero “assemblaggio mnestico”. Due immagini “vere”, non due fantasie, si uniscono in una sequenza sensata. Ma il “montaggio” di queste immagini le falsifica. Nel falso ricordo, dunque, ciò che è falso è l’insieme, non le singole parti: il falso ricordo scaturisce sempre dalla commistione di brandelli di rimemorazione autentici92.

15.La trascendenza dell’evento rimemorato. La fantasia come assemblaggio mnestico Le Lezioni sulla sintesi passiva propongono una soluzione al problema dell’illusione memorativa del tutto simile alla soluzione del problema dell’inganno percettivo. La percezione – Husserl lo ha ripetuto costantemente – inganna solo perché è trascendente. Nell’immanenza l’inganno è impossibile. Ciò che appare, considerato in quanto apparenza è indubitabile. 91 Cfr. A. Baddeley, Human Memory: Theory and Practice, LEA, Hove 1990, tr. it. La memoria umana, il Mulino, Bologna, 1992, p. 40. 92 «Ma da un lato vi è qualcosa che continua a sussistere: il contenuto di ogni ricordo che si è rivelato falso, è falso solo riguardo all’unità dell’intero sorto per collegamento, ma resta corretto per ciò che riguarda le sue parti. Ciò che è cancellato è solo l’intero scaturito dalla commistione, ma gli ingredienti che giunsero alla commistione sono egualmente dati nell’originale, solo che appartengono ad altre connessioni». E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 163.

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Solo se considerato in rapporto ad una realtà di cui è apparenza può ingannare. Allo stesso modo la rimemorazione inganna perché è trascendente. O meglio: la rimemorazione inganna perché l’evento cui si riferisce la trascende. Consideriamo ancora il precedente esempio di falso ricordo. L’illusione consiste nel fatto che la rimemorazione attesta un evento (il brindisi durante la cena natalizia) che non è mai avvenuto. Ma l’immagine che mi appare, la sequenza (confusa) di apparizioni che rappresenta la scena del brindisi, non è una invenzione fantastica e non è di per sé falsa. È falsa solo in rapporto all’evento reale che attesta. Io mi inganno quando credo di aver pronunciato un brindisi in quella particolare occasione, ma so per certo di aver pronunciato un brindisi almeno una volta in una situazione simile. La rimemorazione è sempre la riproduzione di una percezione precedente. Ma l’esperienza percettiva è il risultato di un insieme complesso e coerente di percezioni. Perciò è possibile che la rimemorazione riproduca una percezione o un brandello di esperienza percettiva fraintendendone completamente il senso. In questo modo Husserl rende conto della fallibilità della memoria senza screditarla e senza rinunciare ad una dipendenza forte della rimemorazione nei confronti della percezione. Ricordando si può sbagliare, ma le possibilità di errore della memoria non sono indeterminate. Io posso non ricordare un luogo o un volto, posso confondere l’ordine e il senso degli avvenimenti, posso mescolare elementi percettivi eterogenei ecc. Ma non potrò mai e in nessun caso vivere un falso ricordo della battaglia di Waterloo! Perché? Per quale ragione non mi è possibile commettere questo tipo di errore?93 Perché in questo caso non può accadere che la coscienza costruisca un assemblaggio di rappresentazioni che mi appaia come un ricordo? Il fatto è che nella mia memoria mancano gli “ingredienti” necessari alla costruzione di una rappresentazione credibile di questo genere: non ho alcuna immagine della campagna di Waterloo, né dell’esercito napoleonico ecc. La verità è che – per dirla con una formula un po’ gretta – la memoria sbaglia, ma non inventa. O almeno non inventa in senso assoluto, non è mai assolutamente creativa. La questione può essere ulteriormente radicalizzata. In realtà – se non si fraintende il senso della parola “inventare” – è lecito affermare che nemmeno la fantasia inventa in senso assoluto. Non è un caso se Husserl, proprio seguendo questa linea argomentativa, si imbatte ad un certo punto in una domanda che appartiene alla tradizione filosofica da lunghissimo tempo: «Il problema della fusione delle rimemorazioni conduce inoltre a questo quesito: in quale misura anche le semplici fantasie ci riconducono, attraverso l’analisi intenzionale, a rimemorazioni, quindi in che misura, secondo il loro contenuto 93

A meno di allucinazioni o esperienze patologiche ecc.

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intuitivo, esse sono il prodotto della fusione di rimemorazioni?»94. La fantasia non trae forse le sue risorse e i suoi “materiali” dalla memoria?95. Una concezione del genere può apparire come una drastico ridimensionamento delle potenzialità creative della fantasia. In realtà è la conseguenza inevitabile dell’idea husserliana di presentificazione. Se fantasticare significa presentificare e la presentifcazione è la riproduzione di una percezione precedente, la libertà dell’immaginazione non è assoluta. Certamente nella fantasia è possibile oltrepassare i limiti del reale e del percepito. È possibile immaginare entità assurde, irreali, mai percepite: un centauro che corre, per esempio. Ma una rappresentazione del genere da dove trae i suoi materiali? Nessuno ha mai visto un centauro che corre, ma tutti hanno visto uomini a petto nudo e cavalli in corsa. Sarebbe forse possibile rappresentarsi nella fantasia la corsa di un centauro senza aver mai visto un cavallo o un uomo? Sarebbe forse possibile rappresentarsi un ippogrifo non avendo mai avuto alcuna esperienza delle ali degli uccelli e degli zoccoli dei cavalli?96 Tali rappresentazioni non sono forse il prodotto di un assemblaggio mnestico? È possibile immaginare un colore mai visto? O un suono mai udito?97

16.L’origine della rimemorazione. Il ricordo involontario Nelle analisi svolte fin qui la domanda circa la genesi della rimemorazione non è stata adeguatamente affrontata. Nelle Lezioni sulla sintesi passiva si possono trovare le indicazioni essenziali per impostare una risposta ad una simile domanda. Ma prima di seguire Husserl nelle sue considera94

E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 171. È molto chiaro a questo riguardo il testo n° 7 di Husserliana XXIII. A proposito della pura fantasia Husserl afferma: «Die Elemente sind noch Erinnerungselemente. Aber das intentionale Ganze ist charakterisiert als “freie Erfindung”, aufgehoben durch den Widerstreit mit gewisser Erinnerung und Wahrnehmung». E. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung, cit., p. 250. 96 Considerando la questione in questi termini ci si accorge che la creatività della fantasia ha nell’ancoraggio alla memoria non un limite, ma una risorsa. In effetti, benché certamente non si possa ricondurre integralmente la creatività della fantasia alla memoria, è giusto affermare che la memoria fornisce alla fantasia tutti i suoi “materiali”. E, chiaramente, la percezione li fornisce alla memoria. 97 «[...] genauso wie ich Dinge nur einbilden kann nach Formen, die ich einmal schon erfahren haben, ihrem allgemeinsten Typus nach. Ich kann nicht sinnliche Qualitäten nach ihren obersten Gattungen erfinden etc., so wie ich nicht neue Sinne erfinden kann». E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Husserliana XIII, Erster Teil, Martinus Nijhoff, Den Haag, 1973, Text n° 10, Studien über anschauliche Vergegenwärtigungen, Erinnerungen, Phantasien, Bildvergegenwärtigungen mit besonderer Rücksicht auf die Frage des darin vergegenwärtigten Ich und die Möglichkeit, sich Ich’s vorstellig zu machen, p. 311. 95

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zioni è necessario precisare che non si tratta qui di individuare le “cause” obbiettive – nel senso delle scienze sperimentali – del fenomeno del ricordo. L’indagine circa tali cause si muove all’interno della sfera della realtà obbiettiva che il fenomenologo per principio non prende in considerazione. Per questa ragione è preferibile parlare di “origine” del ricordo – anche se la parola “origine” non è più innocente della parola “causa”. Ci chiederemo dunque: in che modo ha origine il ricordo? Si è detto fin dall’inizio che la rimemorazione, in quanto presentificazione, appartiene alla sfera dell’io posso. In qualunque momento il soggetto può compiere un atto rimemorativo. Sembrerebbe però che nella vita della coscienza si diano due esperienze distinte di rimemorazione. Talvolta ci sforziamo di ricordare qualcosa e la rimemorazione è una ricerca, anche penosa, di un passato che non riusciamo a ritrovare. Altre volte il ricordo riemerge improvvisamente, inaspettato, senza alcuna collaborazione attiva della coscienza. Una descrizione fenomenologica della rimemorazione deve dunque essere in grado di rendere conto dell’esperienza del ricordo volontario e del ricordo involontario. In realtà per Husserl queste due esperienze non sono essenzialmente distinte perché hanno un fondamento comune. L’origine del ricordo – tanto del ricordo involontario quanto del ricordo volontario – è l’associazione. Il nesso tra presente e passato è di natura associativa. L’associazione è una legge essenziale della vita della coscienza. Tramite questa forma di legalità immanente è possibile spiegare l’insorgere di un fenomeno nella coscienza a partire da un altro fenomeno che lo precede. Utilizzando con le dovute precauzioni la parola “causa”, possiamo dire, per esempio, che l’apparizione di Y è “causata” dall’apparizione di X98. Il che significa che l’esperienza presente X richiama l’esperienza passata Y. Questo accade perché il senso noematico di ciò che è dato nel presente è in qualche modo in relazione con il senso noematico di ciò che viene richiamato. In ciò che sto percependo – per esempio – ci può essere qualcosa che mi rimanda indietro nel tempo, ad una precedente esperienza. Se assecondo questo rimando l’esperienza passata ritorna, si ripresenta. Ma che cos’è che mette in moto il meccanismo di questo rimando? Su cosa si fonda il legame associativo? Il fondamento ultimo dell’associazione è la somiglianza. Un presente rimanda al passato perché vi somiglia. Da questo punto di vista il linguaggio comune contiene un suggerimento davvero significativo: per indicare una somiglianza stretta tra due oggetti noi diciamo che un certa cosa ci “ricorda” un’altra cosa. Queste considerazioni sul fenomeno dell’associazione vanno avvicinate alle analisi della ritenzione sviluppate nel primo studio. Come si è detto, la 98

Cfr. E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 169.

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rimemorazione prende sempre le mosse da una ritenzione vuota. La rimemorazione è l’atto attraverso cui la coscienza dà riempimento intuitivo ad una ritenzione vuota che appartiene al passato. Ma fino a questo momento non era chiaro per quale ragione, ad un certo punto, una ritenzione vuota riemergesse dal passato e si facesse avanti nel presente della coscienza. La spiegazione di questa improvvisa riemergenza è da ricercarsi nell’associazione. L’associazione “ridesta” una ritenzione vuota che appartiene al passato e da questa ritenzione vuota prende le mosse il processo rimemorativo99. Tuttavia, chiamando in causa l’associazione, Husserl non ha risposto a tutte le domande. Il legame associativo è in grado di spiegare l’insorgere del ricordo involontario. Ma che dire del ricordo volontario? Il richiamo all’associazione non sembrerebbe rendere ragione in modo adeguato dello sforzo di ricerca caratteristico delle esperienze attive di ricordo. Non solo. Anche a proposito del ricordo involontario è possibile obbiettare: ci sono dei casi in cui sembra davvero impossibile trovare un nesso tra la rimemorazione che riemerge – sia pure involontariamente – dal passato e l’esperienza presente. Come si spiegano questo genere di ricordi? Nel caso del celebre ricordo involontario con cui si apre la Recherche proustiana il legame associativo è più che evidente. Nell’esperienza presente del narratore – che sta sorseggiando una tazza di tè – c’è un elemento preciso e facilmente individuabile – il gusto di una madeleine – che mette in moto il processo rimemorativo in virtù della sua somiglianza con un frammento preciso e individuabile del passato100. La situazione presente del narratore è simile alla situazione passata, quando la zia Léonie la domenica mattina gli offriva un pezzetto di madeleine intinto nel suo tè. Il gusto per99 Si può notare in questo testo, come Husserl, cercando di comprendere l’associazione, si trovi ancora una volta di fronte alle difficoltà legate alla questione del segno. Se l’associazione garantisce il legame tra ciò che rimanda e ciò cui si è rimandati – in questo caso tra il presente che sto vivendo e il passato richiamato – in che modo questa relazione differisce dalla relazione tra segno e significato? Che nesso c’è tra memoria e segno? Derrida seguirà la strada aperta da questa domanda, spingendola fino alle più estreme conseguenze: la memoria è un segno. Husserl, invece, affronta questa questione procedendo ad una ulteriore distinzione: il rimando associativo non è ancora una relazione segnica. È certamente più di una semplice somiglianza, ma meno di una vera e propria relazione segnica. Osservando un paesaggio, per esempio la gola di una valle, può capitare che ci torni in mente un paesaggio simile che abbiamo contemplato tempo addietro. I due paesaggi si somigliano, ma tra queste due esperienze non c’è solo una relazione di somiglianza. Noi non diciamo che una cosa ce ne ricorda un altra ogni volta che constatiamo una somiglianza: «non diciamo che dappertutto vediamo il “ricordare qualcosa”. C’è di più, nell’oggetto presente c’è una tendenza che va all’oggetto ricordato, l’uno allude all’altro sebbene non vi sia ancora una relazione segnica». E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 173. 100 M. Proust, À la recherche du temps perdu, tr. it. Alla ricerca del tempo perduto, vol. I, Mondadori, Milano, 2006, pp. 55-9.

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cepito ora “ridesta” un sapore antico, conservato in una vuota ritenzione, e a partire da questo ridestamento un mondo intero – almeno in parte – può essere ritrovato. Il racconto di Proust si adatta dunque bene alla teoria di Husserl. Il problema è che la maggior parte delle volte i ricordi ci investono senza mostrare alcun nesso con il presente che stiamo vivendo. A questo riguardo Husserl propone di distinguere tra associazioni dirette e indirette. Il legame tra l’esperienza X e l’esperienza Y può essere immediato, come nell’esempio proustiano. Ma può anche essere estremamente mediato e passare attraverso una o più associazioni intermedie. Queste associazioni intermedie possono essere così “rapide” da passare del tutto inosservate. Le lezioni sulla sintesi passiva sono chiarissime a tale proposito: Le associazioni decorrono però anche inosservate. Così come non facciamo attenzione a tante cose che avvengono nel nostro campo di coscienza, alla stessa stregua non facciamo attenzione alle concatenazioni dell’associazione. Come al solito vogliamo anche qui, guardando retrospettivamente – quindi nel modo della riflessione – divenire consapevoli della coscienza passata e del suo contenuto. Quando un membro finale, spesso molto mediato, ci attira particolarmente, il nostro interesse sorvola sugli altri membri. Questo membro finale ci si dà allora per sé come un lampo: l’intera connessione associativa decorre sì nella coscienza, ma non le prestiamo una attenzione particolare. Per esempio: durante una conversazione ci viene in mente uno splendido paesaggio marino. Se riflettiamo sui motivi per cui ci è venuto in mente allora troviamo, per esempio, che una piega della conversazione ce ne ricorda immediatamente una simile formulata l’estate scorsa al mare, in una festa. La bella immagine del paesaggio marino si è però interamente impadronita dell’interesse101.

In questo modo è possibile spiegare la genesi di qualsiasi tipo di ricordo involontario. Un’analisi infinitesimale della coscienza potrebbe scoprire l’origine associativa anche della più estemporanea delle rimemorazioni. Ma in che modo questa dottrina dell’associazione può spiegare il ricordo volontario?

17.La rimemorazione come ricostruzione. Il ricordo volontario L’associazione sfugge al controllo della coscienza. Il soggetto non può dominarne il meccanismo: «tutti questi eventi di suscitazione e di collegamento associativi si verificano nel dominio della passività senza alcuna aggiunta da parte dell’io. Da ciò che è presentemente percepito si irraggia una 101

E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 174.

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suscitazione, e i ricordi “riaffiorano” sia che noi lo vogliano o no»102. Eppure di molti ricordi noi disponiamo liberamente. Possiamo richiamarli a piacimento, seguirne lo sviluppo, interromperli ecc. Come si concilia la libertà della presentificazione con la passività propria del ridestamento? Si può trovare un’ipotesi di risposta in un passaggio di Esperienza e giudizio. Ma l’io può anche avere la tendenza a ricordarsi di qualcosa, per esempio a ripresentarsi di nuovo un evento passato nella sua successione. Dapprima possono essere presentificati solo frammenti ancora non ordinati secondo il prima e il poi. Possono mancare pezzi intermedi che l’io cerca di far rivivere mediante prove di presentificazione affidate ai frammenti suscitanti, finché esso non riesce ad ottenere l’intero evento di fronte a sé, in una catena chiusa di ricordi, e ad attribuire a ciascun pezzo singolo la sua posizione temporale103.

Il tentativo di Husserl sembrerebbe quello di fondare il ricordo volontario sul ricordo involontario. Cercando di rimemorare qualcosa, la coscienza si sforza di rivivere una certa situazione. Ma prima di ritrovare compiutamente l’intero evento, prima di ottenere una «catena chiusa di ricordi», ciascuno con la sua corretta posizione temporale, è necessario un paziente lavoro di ricostruzione. Un lavoro che è reso possibile dalla forza dei legami associativi. Dapprima non emergono che frammenti dispersi. Sono gli elementi del ricordo a cui abbiamo accesso più facilmente o perché sono particolarmente eclatanti o perché li abbiamo rivissuti più spesso. Successivamente, seguendo i rimandi associativi contenuti in ciascuno di questi frammenti rimemorativi, la coscienza ritrova gradualmente le parti mancanti del ricordo. Un numero sempre crescente di dettagli dell’evento si ripresenta. Infine tutti questi frammenti e tutti questi dettagli devono essere collocati nei giusti rapporti tra di loro. Bisogna risalire alle relazioni temporali e alle relazioni di significato che li univano104. Al termine di questo laborioso processo rimemorativo la coscienza dispone di una ricostruzione il più possibile fedele di un’esperienza che appartiene al suo passato. Ma è essenziale comprendere che anche questa ricostruzione, benché sia l’esito di un faticoso lavoro di ricerca, si fonda sulla passività delle connessioni associative: «anche questo ricordarsi attivo non è possibile che sul suolo della suscitazione attiva già avvenuta; la suscitazione stessa è un evento che ha luogo sempre passivamente»105. 102

E. Husserl, Esperienza e giudizio, cit., p. 162. Ibidem. 104 Questa operazione di messa in forma dei frammenti che altro è se non una operazione narrativa? Ricostruire le relazioni temporali e di significato tra gli eventi che altro vuol dire se non inserirli in una trama narrativa? 105 Ibidem. 103

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La libertà della ricordo di cui si è già detto, può ora essere compresa più a fondo. La rimemorazione è una attività del soggetto, ma è una attività essenzialmente condizionata. Certamente la riproduzione è un atto libero: è il soggetto che decide se intraprenderla o meno, a che punto interrompersi, per quanto tempo continuare nello sforzo del ricordo. La riproduzione è anche senza dubbio costruttiva, nel senso che le fasi del ricordo, i diversi momenti rivissuti, si presentano secondo un ordine e una connessione che non sono quelli originari e che dipendono dalla rielaborazione della soggettività. Infine la riproduzione è selettiva: la ri-percezione del passato è sempre parziale e le lacune e le incompletezze della rimemorazione dipendono dalla forza dei legami associativi che rendono il passato accessibile alla coscienza. Proprio considerando questa terza caratteristica si capisce in che senso l’attività rimemorativa sia condizionata da una fondamentale passività. Il processo del ricordo, come si è visto, prende le mosse da una ritenzione vuota. Ma la ritenzione non è un opzione del soggetto, è una “registrazione” passiva del dato. Senza la passività di questa registrazione l’attività rimemorativa non potrebbe esercitarsi. Non solo. Affinché il ricordo abbia inizio occorre che la ritenzione, sepolta nel fondo della coscienza, venga ridestata, riportata in superficie. È l’associazione che rende possibile questo ritorno. Ma l’associazione – come la modificazione ritenzionale – è essenzialmente passiva. Perciò la rimemorazione, anche nel caso del ricordo volontario, non è mai completamente in nostro potere. La coscienza è obbligata a seguire connessioni che – per lo più – non ha istituito consapevolmente. È l’associazione che traccia i percorsi attraverso cui è possibile raggiungere il passato. La coscienza, da parte sua, decide se incamminarsi lungo questa strade o no, cioè se intraprendere un atto compiuto di rimemorazione o invece attenersi semplicemente a ciò che è dato – non intuitivamente – dalla ritenzione vuota ridestata. Questa è anche la ragione per cui non è possibile – neanche volendo – che due soggetti ricordino un evento esattamente allo stesso modo (una questione su cui avrò modo di tornare nel terzo saggio). Infatti i legami associativi che consentono a due soggetti diversi di rimemorare il medesimo evento non sono gli stessi. Se per esempio cerco di ricordare la giornata di ieri insieme con mia moglie, la prime immagini che si ripresentano alla mia mente e alla sua sono completamente differenti. Abbiamo vissuto le stesse esperienze, abbiamo visto le stesse cose, abbiamo fatto le stesse cose. Ma le associazioni assecondando le quali riviviamo la giornata passata non sono le stesse per me e per lei. Naturalmente ciò non impedisce che, alla fine, ricostruendo l’ordine dei fatti, il senso degli eventi e la connessione delle situazioni, si possa arrivare ad una “versione dei fatti” praticamente identica. Che il ricordo volontario sia reso possibile sul fondamento della passività dell’associazione risulta ancora più chiaro se prende in considerazione il 104

fenomeno della memorizzazione. Imparare a memoria è certamente l’esperienza memorativa più controllata e volontaria che si possa concepire. Ci sforziamo per “imprimere” nella nostra mente un certo insieme di dati, per poterne disporre completamente, per poterli richiamare a nostro piacimento. Ma in effetti cosa significa memorizzare? Quale strategia essenziale mettiamo in pratica per essere certi di ricordare qualcosa. Che si tratti del nodo al fazzoletto o delle più complesse mnemotecniche, memorizzare significa essenzialmente istituire associazioni. Invece di subire il meccanismo associativo, come accade nell’esperienza ordinaria del ricordo, nella memorizzazione la coscienza tenta di dominarlo. Può capitare, per esempio, di avere bisogno assolutamente di ricordare un numero di telefono, che non è possibile annotare da nessuna parte. In che modo lo possiamo memorizzare? Possiamo tentare di prolungare l’evidenza della percezione attraverso una catena di ritenzioni una innestata sull’altra. Possiamo cioè tentare di ripeterlo incessantemente fino al momento in cui sarà necessario utilizzarlo. Ma si tratta evidentemente di una operazione piuttosto dispendiosa, in termini di concentrazione, e piuttosto scomoda. In alternativa possiamo cercare di aumentare la forza del nesso associativo che lega i numeri tra di loro e che lega l’insieme dei numeri alla nostra coscienza. In altre parole moltiplichiamo i rimandi contenuti in un esperienza che di per sé sarebbe piuttosto povera di nessi, cioè l’esperienza della percezione di un numero telefonico. Ci accorgiamo, così, che i primi tre numeri sono uno il doppio dell’altro. E nei numeri dal terzo al quinto leggiamo una data storica che conosciamo bene, la data di una grande battaglia. Ora siamo certi di poter ricordare. Associato all’immagine di un leggendario condottiero, anche un anonimo numero di telefono può diventare “indimenticabile”.

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3. Memoria individuale e memoria collettiva. Il problema del soggetto del ricordo

È compito della fenomenologia distinguere e analizzare le varie forme di memoria che si danno nell’esperienza. Ma la descrizione fenomenologica deve rivolgersi, oltre che al versante oggettivo dell’esperienza del ricordo, anche al versante soggettivo. Il concetto di intenzionalità implica l’unità essenziale di un polo soggettivo e di un polo oggettivo dell’esperienza, inscindibilmente correlati. Perciò l’analisi del ricordo come vissuto intenzionale non è completa se non viene affrontata la domanda circa il soggetto che ricorda. Tale domanda risulta notevolmente più complicata se si prende in considerazione una nozione che è estranea alla fenomenologia husserliana, ma che è ormai entrata a far parte del linguaggio quotidiano e del linguaggio scientifico e che perciò non può essere ignorata: la nozione di memoria collettiva. È sorprendente constatare quanto poco gli studiosi di filosofia si siano occupati di questo tema. Se si guarda alla filosofia più tradizionale questa omissione appare forse meno straordinaria: non è strano che la filosofia antica, medioevale e moderna, una filosofia legata ad una particolare concezione del soggetto, non si sia posta una questione del genere. Stupisce invece che la filosofia contemporanea – per la quale il primato della soggettività è del tutto in discussione – l’abbia trascurata. In questo contesto appare ancora più degno di nota il fatto che un filosofo come P. Ricoeur abbia affrontato direttamente questa problematica e ne abbia fatto il tema di una trattazione esplicita. La fenomenologia della memoria proposta in La memoria, la storia e l’oblio ruota intorno a due domande fondamentali. La prima, «di che cosa c’è ricordo?», è la più classica e la più discussa dal punto di vista filosofico e costituisce il tema del primo, del secondo e anche del quarto dei saggi proposti in questo volume. La seconda «di chi è la memoria?» ci introduce direttamente ai problemi che sono oggetto di questo saggio1. 1

P. Ricoeur, La memoria, la storia e l’oblio, cit., p. 13.

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Il fatto che il punto di partenza di Ricoeur sia la domanda circa il rapporto tra memoria e storia non è privo di importanza. Già da molto tempo storici e sociologi si interessano dei problemi legati alla memoria collettiva. La legittimità di tale nozione è autorizzata innanzitutto dalle scienze sociali. Ma dal punto di vista fenomenologico la nozione di memoria collettiva non è per niente ovvia. In particolare bisogna capire se tale nozione debba essere intesa in senso letterale o se piuttosto debba essere pensata come un concetto analogico. Come nota Ricoeur, «se affermiamo troppo in fretta che il soggetto della memoria è l’io alla prima persona singolare, la nozione di memoria collettiva può figurare soltanto come concetto analogico, anzi come corpo estraneo alla fenomenologia della memoria2». Occorre dunque chiarire cosa intendiamo con l’espressione “memoria collettiva” e, successivamente, qual è il rapporto che lega memoria collettiva e memoria individuale. Ricoeur sottolinea giustamente l’uso linguistico – comune al francese, al tedesco e all’italiano – del pronome “sé” per i verbi di memoria: diciamo infatti “mi ricordo”. Mai come nel caso del rimemorazione «si dà una aderenza così totale dell’atto di autodesignazione del soggetto all’intenzione oggettuale della sua esperienza [...] Ricordandosi di qualche cosa, ci si ricorda di sé»3. Da qui deriva l’idea di un nesso essenziale tra ricordo e soggetto. E da qui viene anche l’obiezione spontanea del senso comune, un obiezione che è ben lungi dall’essere ingenua: chi è che si ricorda nel caso della memoria collettiva? I ricordi sono sempre ricordi di qualcuno. Ma allora, di chi sono i ricordi nel caso della memoria collettiva? L’argomento più forte a sostegno di questa critica sta nella non trasferibilità della esperienza autentica del ricordo. Possiamo raccontare i nostri ricordi, possiamo comunicarli agli altri, ma non possiamo in nessun modo rivivere i ricordi altrui. La pertinenza di questo argomento semplice ma convincente dovrà essere attentamente indagata, perché è qui che si trova la chiave di volta di questo problema. 1. Tra fenomenologia e scienze sociali: una difficile mediazione Ricoeur tenta una mediazione tra la fenomenologia husserliana e le scienze sociali. Il filosofo francese individua due scuole di pensiero contrapposte e delinea con grande chiarezza i termini di una polemica «che oppone a una tradizione antica di riflessività una tradizione più recente di og2 3

Ibidem. Ivi, p. 136.

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gettività»4. Per tutta la filosofia classica (Aristotele, Platone, Agostino, Locke ecc.) il problema della memoria collettiva non si può nemmeno porre, nella misura in cui si tratta di una filosofia legata ad una concezione tradizionale del soggetto. Ma con la nascita della sociologia e delle scienze sociali si impone un nuovo modello epistemologico per il quale i fenomeni sociali sono realtà indubitabili. Gli storici e i sociologi sono abituati a prendere in considerazione nei loro studi quelle che Ricoeur chiama «entità di appartenenza partecipativa»5: stati, comunità, società – dal punto di vista storico e giuridico – possono essere considerati legittimamente come soggetti capaci di agire e patire. Sembra naturale, di conseguenza, attribuire a questi “soggetti collettivi” altrettante memorie collettive. Uno stato ha il suo passato e i suoi strumenti di conservazione del passato: biblioteche, archivi, musei ecc. Tutto ciò non costituisce forse una memoria collettiva? A questo punto è la nozione di memoria individuale che diviene sospetta. Non essendo accessibile se non attraverso l’introspezione, la memoria individuale viene relegata nell’ambito dei fenomeni che non appartengono alle scienze oggettive e che, di conseguenza, non sono rigorosamente indagabili. Posta la polemica tra queste due scuole di pensiero contrapposte, la proposta di Ricoeur per sfuggire ad una alternativa paralizzante è quella di «una costituzione distinta ma reciproca e incrociata della memoria individuale e della memoria collettiva»6. In questo senso egli critica tanto il solipsismo di una fenomenologia troppo preoccupata di mettere al riparo la coscienza da ogni influenza esterna, quanto il «sorprendente dogmatismo»7 del gesto con cui Halbwachs tenta, al contrario, di derivare completamente la memoria individuale dalla memoria collettiva. Se la fenomenologia rischia di cadere vittima di un pregiudizio idealistico, sul versante opposto le scienze sociali rischiano di cadere in un pregiudizio positivistico8. Di conseguenza la strategia argomentativa di La memoria, la storia, l’oblio consiste nel cercare di avvicinare Husserl ad Halbwachs e, dall’altra parte Halbwachs ad Husserl. In un primo momento l’interpretazione ricoeuriana evidenzia la problematicità interna del testo delle lezioni sulla coscienza interna del tempo per mettere in crisi il tentativo “soggettivistico” di Husserl. Successivamente, seguendo i passi delle Meditazioni cartesiane, Ricoeur individua i possibili punti di comunicazione (si tratta di gettare delle “passerelle” viene detto nell’introduzione) tra la fenomenologia del ri4

Ivi, p. 135. Cfr. P. Ricoeur, Temps et récit, tome I: “L’intrigue et le récit historique”, Éditions du Seuil, Paris, 1983, tr. it. Tempo e racconto, vol. I, Jaca Book, Milano, 2001, p. 286 ss. 6 P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, cit., p. 136. 7 Ivi, p. 174. 8 Ivi, p. 176. 5

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cordo individuale e la sociologia della memoria collettiva. In particolare è di grande importanza che le Meditazioni cartesiane autorizzino il fenomenologo a parlare di “comunità intersoggettive superiori”, per quanto solo per analogia. È questo infatti il punto cruciale, per Ricoeur: dal punto di vista husserliano è lecito parlare di memoria collettiva in senso analogico. C’è dunque uno spiraglio aperto verso il modo di considerare la memoria delle scienze sociali. Ma c’è anche una chiara limitazione – che Ricoeur non condivide9 – della legittimità della nozione di memoria collettiva. Dall’altra parte, rileggendo Halbwachs, Ricoeur si preoccupa di moderarne le tesi più radicali: se l’ipotesi di partenza di La mémoire collective – «per ricordarci abbiamo bisogno di altri»10 – può essere condivisa, le conclusioni che Halbwachs pretende di trarne sono ingiustificate. La memoria individuale non si lascia interamente ridurre alla memoria collettiva. Solo in una estremizzazione polemica del discorso si può arrivare a denunciare l’attribuzione del ricordo all’individuo come illusoria. «Halbwachs non supera, forse, qui una linea invisibile, quella che separa la tesi “non ci si ricorda mai da soli” dalla tesi “noi non siamo un soggetto autentico di attribuzione dei ricordi”? L’atto stesso di “collocarsi” in un gruppo e di “spostarsi” di gruppo in gruppo, e più generalmente di adottare il “punto di vista” del gruppo, non presuppone forse un spontaneità capace di far seguito a se stessa? Altrimenti la società sarebbe senza attori sociali»11. Così, dopo averne criticato le tesi più radicali, Ricoeur ritrova all’interno del testo di La memoria collettiva un’immagine leibniziana che apre la sociologia della memoria ad una posizione più conciliabile con la fenomenologia: memoria individuale e memoria collettiva coesistono nel senso che la prima è un “punto di vista” sulla seconda. La memoria individuale non può essere completamente radiata dalla sociologia della memoria nella misura in cui è necessario che vi sia un soggetto perché qualcuno possa collocarsi in un gruppo. Ricoeur ha il merito di aver imposto all’attenzione della comunità filosofica il problema della memoria collettiva e l’interpretazione proposta in La memoria, la storia, l’oblio, ha il pregio di essere equilibrata. Il tentativo di mediare tra una fenomenologia del soggetto solipsista e una sociologia riduzionista risponde ad un esigenza condivisibile. Ma i problemi di fondo de La memoria, la storia e l’oblio rientrano nell’orizzonte della filosofia pratica, più che della filosofia teoretica. Anche la questione epistemologica circa il rapporto tra memoria e storia è in ultima analisi subordinata ad una questione etica, che è quella del rapporto tra memoria e giustizia. Forse è 9

P. Ricoeur, Storia e memoria, cit., p. 26. P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, cit., p. 170. 11 Ivi, p. 173. 10

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per questa ragione che Ricoeur si può accontentare di mediare tra Husserl e Halbwachs, dando ragione un po’ all’uno e un po’ all’altro. In questo modo però le domande più insidiose circa il problema del soggetto nel ricordo rimangono senza risposta. Che cos’è esattamente la memoria collettiva? Quali fenomeni possono essere indicati con questo nome? Che cosa vuol dire che memoria collettiva e memoria individuale si costituiscono reciprocamente e in modo incrociato? Che rapporto c’è tra memoria collettiva e linguaggio? Che ne è del soggetto nella rimemorazione? Sono possibili dei ricordi collettivi? o dei ricordi impersonali? Come si spiegano dal punto di vista fenomenologico i condizionamenti sociali del ricordo? Per rispondere a queste domande è necessaria una analisi fenomenologica del problema del soggetto nel ricordo e, in secondo luogo, una critica approfondita della nozione di memoria collettiva.

2. L’io nelle presentificazioni. Il problema del soggetto del ricordo Le intuizioni, come tutti gli atti della coscienza, implicano il riferimento ad un io, che funge da soggetto del vissuto. La percezione implica sempre il riferimento ad un io che percepisce. Allo stesso modo l’immaginazione implica il riferimento ad un io che immagina e il ricordo il riferimento ad un io che ricorda. Tutto ciò è ovvio. Tuttavia quando si considerano le presentificazioni intuitive la cosa non è così semplice come sembra a prima vista. La fantasia e la coscienza di immagine, così come la rimemorazione e l’anticipazione, appaiono come atti più complicati rispetto alla semplice percezione, nella misura in cui sono vissuti che implicano altri vissuti. Io posso ricordare di aver percepito qualcosa [ricordo (percezione)], ma posso anche ricordare una fantasia concepita nel passato [ricordo (fantasia)]. Allo stesso modo io posso immaginare di vedere qualcosa [fantasia (percezione)], ma anche immaginare di ricordare qualcosa [fantasia (ricordo)]. Le presentificazioni hanno cioè una struttura complessa, caratterizzata dalla presenza di un vissuto “dentro” ad un altro vissuto. Da qui deriva una domanda importante. Nel caso delle presentificazioni intuitive non è forse necessario aggiungere, accanto all’io attuale che sta effettivamente compiendo una presentificazione, anche un secondo io, un io presentificato, come correlato soggettivo della “scena” che appare nella presentificazione? E se è così che rapporto c’è tra questi due io? In che modo il soggetto è chiamato in causa nella presentificazioni?12 12

«Fingiere ich mir ein Zentaurenland, ein Marswelt etc., fingiere ich mir Dinge, Vorgänge, sie frei bildend und umbildend: Inwiefren bin ich dabei?». E. Husserl, Studien über anschauliche Vergegenwärtigungen…, cit., p. 290.

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Sono queste le domande che Husserl si pone in un testo molto interessante dedicato al problema del soggetto delle presentificazioni e raccolto nel volume XIII della Husserliana. Si tratta di uno studio che si può datare tra il 1914 e il 1915, quindi in un periodo successivo alle lezioni sulla coscienza interna del tempo e precedente alle Lezioni sulla sintesi passiva. L’idea di Husserl è chiara: poiché la presentificazione è la simulazione di un atto non reale, è necessaria una scissione dell’io – una sorta di sdoppiamento – grazie alla quale l’io attuale si rappresenta un altro io, un iopresentificato, che percepisce, agisce, pensa, ecc., nella scena presentificata. È però possibile un’obbiezione molto seria. La presentificazione intuitiva implica sempre il riferimento ad un soggetto presentificato? Non possiamo immaginare una scena a cui non partecipiamo?13 Husserl a questo proposito propone un esempio molto chiaro. Se immagino una battaglia tra navi inglesi e navi tedesche, il mio io empirico, la mia persona, non è direttamente coinvolta nella scena in questione. Io vedo la scena, per così dire “dal di fuori”, come la vedrebbe un osservatore esterno. Benché io partecipi alla scena con grande trepidazione (si tenga presente che quando Husserl scrive questo testo è da poco iniziata la Grande Guerra!), io non sono là (dabei), non sono situato nel mezzo degli avvenimenti come quando mi ricordo un episodio che appartiene alla mia esperienza vissuta14. Bisogna dunque concludere che la presenza di un io presentificato non è necessaria? In realtà il riferimento all’io di fantasia è inevitabile quando si tratta di presentificazioni intuitive. Ma bisogna comprendere di quale io si sta parlando. Bisogna cioè comprendere la distinzione tra io empirico (empirische Ich) e io puro (reinen Ich)15. Se osserviamo la scena della battaglia navale, ci accorgiamo infatti che essa ci appare da una particolare angolazione, orientata in un certo modo, secondo una certa prospettiva. Le apparizioni che si susseguono si coordinano in un certo modo a partire da un centro di riferimento ben determinato. Perciò, anche se è completamente indeterminato e assolutamente impersonale, un punto di vista soggettivo c’è. È quanto basta perché si parli di un io puro presentificato. Certo non è il mio io empirico che è coinvolto negli avvenimenti rappresentati. Ma il riferimento ad un io puro rimane indispensabile, se la scena deve poter apparire in qualche modo16. 13

Cfr. su questo N. De Warren, Immaginazione e incarnazione, cit., pp. 103-122. E. Husserl, Studien über anschauliche Vergegenwärtigungen…, cit., p. 300. 15 «Ich, der empirische Mensch, bin nicht notwendig dabei, [...] Andererseits bin ich doch notwendig dabei, als Zentrum des Orientierung, als Subjekt, auf das die Erscheinungen bezogen sind, als Subjekt der Phantasieexplikationen, Phantasieurteile». Ivi, p. 291. 16 Husserl analizza anche il caso della coscienza di immagine. Quando osservo un quadro in una galleria, il mio punto di vista attuale coincide con il punto di vista del mio io attuale. Sono qui, in questo momento, in questo luogo e sto guardando un quadro. Ma la scena che mi è presentata nel quadro ha un suo punto di vista interno. Le apparizioni che vi ap14

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Questa importante distinzione tra io puro e io empirico trova un’applicazione immediata nelle analisi della rimemorazione e in particolare nelle analisi volte a determinare la differenza tra fantasticare e rimemorare. Nella fantasia, nella misura in cui si tratta di un’intuizione, il riferimento ad un io puro presentificato è sempre necessario, mentre il riferimento ad un io empirico presentificato può non esserci (come nella fantasia battaglia tra navi inglesi e tedesche). Nella rimemorazione, invece, l’io presentificato è posto come coincidente con l’io empirico che sta presentificando17. Siamo di fronte ad una differenza essenziale tra rimemorazione e fantasia. La rimemorazione non è semplicemente una rappresentazione di fantasia. È una rappresentazione che ha come correlato il mio io empirico presentificato. Il senso comune esprime questa evidenza dicendo che i ricordi sono sempre i miei ricordi18.

3. Riferimento soggettivo e posizione temporale del ricordo Come si vedrà il legame a doppio filo tra rimemorazione e soggetto implica un serie di interrogativi molto seri a proposito di tutte quelle forme di memoria in cui il nesso con l’io empirico sembra escluso. Ma prima di ripaiono si coordinano in base a questo centro di riferimento interno all’immagine stessa. C’è dunque un secondo sguardo oltre al mio sguardo attuale, uno sguardo cui mi devo adeguare, di cui devo assumere il punto di vista. Ma se c’è un secondo sguardo, ci deve essere anche un secondo io, non un io empirico certamente, ma un io puro, cui questo sguardo si riferisce. Cfr. ivi, p. 290. 17 «Handelt es sich um eine Erinnerung, so ist das Erinnerungs-Ich dasselbe wie das aktuelle Ich, das sich durch die Folge der Erinnerung als dauernd gewesenes in der Zeit zurückerstreckt». Ivi, p. 303. 18 «The remembered calls for the presence of the rememberer at its original happening» (E. Casey, Remembering. A Phenomenological Study, cit., p. 42). Per Casey però la presenza dell’io empirico nella rimemorazione non deve essere sopravvalutata. È vero che nel ricordo, a differenza che nella fantasia, il mio io attuale si riconosce come il centro della scena rappresentata. Ma è anche vero che nella maggior parte dei casi l’io presentificato è un io molto indeterminato, generico, quasi senza corpo. È proprio questa indeterminatezza che avvicina, anche da questo punto vista, l’esperienza del ricordo all’esperienza della fantasia. Casey lo evidenzia bene: «I was always there, somehow in the remembered scene, and never wholly absent from it; but I was there in a curiously diluted and dispersed form: faceless and almost bodyless, a mere onlooker who observes not himself but what is spread before him in nature» (E. Casey, Remembering. A Phenomenological Study, cit., p. 23). Nel ricordo io sono là (“dabei” direbbe Husserl). Spesso però, sono là in un modo piuttosto indeterminato, quasi come nel caso della fantasia, dove è presente un mero io puro. In ultima analisi bisogna riconoscere che la presenza dell’io empirico nella rimemorazione può essere molto diversa. In un ricordo nostalgico, l’io presentificato coincide in modo molto significativo con l’io attuale. Altre volte invece l’immagine memorativa appare ad uno sguardo più impersonale, simile a quello della mera fantasia.

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volgersi a queste domande, che oltrepassano l’ambito dei problemi che Husserl prende in considerazione, bisogna affrontare una questione più immediata e non meno problematica. Che cosa rende possibile l’identificazione tra l’io empirico che sta presentificando e l’io presentificato nel caso della rimemorazione? Che cosa significa questa coincidenza tra io attuale e io passato? È evidente, infatti, che la coincidenza tra l’io effettivo e l’io presentificato non può essere intesa come la posizione di un’identità completa. L’io presente non è identico all’io passato. È il medesimo io, ma non è più lo stesso. Basta pensare ai ricordi dell’infanzia per rendersene conto in maniera evidente. In che senso, di fronte alla rimemorazione di un’immagine della mia infanzia, io posso dire: “il soggetto di questa scena sono proprio io”? Il mio io empirico, la mia persona è completamente diversa da quella di allora. Anche il mio corpo non è più quello di allora e non è nemmeno somigliante al corpo che appare nel ricordo. Perché dunque posso dire: “sono proprio io”? Anche in questo caso è necessario richiamarsi alla teoria del flusso temporale esposta nelle lezioni sulla coscienza interna del tempo. La rimemorazione in quanto presentificazione intuitiva implica la posizione di un oggetto presentificato e di un soggetto presentificato, cui l’oggetto si dà a vedere. Entrambi, il soggetto rimemorato e l’oggetto rimemorato, appartengono al flusso temporale unitario della coscienza. Questa immagine che ora appare nella rimemorazione è già stata, così come questo io cui l’immagine appare. Solo presupponendo che la coscienza mantenga un legame inscindibile con tutte le sue esperienze anche dopo che sono decorse, costituendo, grazie alla catena delle ritenzioni che si innestano una nell’altra, un flusso unitario di tutti i suoi vissuti; solo presupponendo ciò si può spiegare come sia possibile la posizione di una coincidenza tra l’io attuale che sta rimemorando e l’io passato che appare come il soggetto di riferimento della rimemorazione. Evidentemente questa coincidenza è posta dalla coscienza insieme con gli altri caratteri essenziali che distinguono la rimemorazione dalla fantasia. Ricapitolando le osservazioni svolte nel secondo e nel terzo saggio possiamo dire che la rimemorazione e la fantasia si distinguono: a) per la modalità di credenza b) per la posizione temporale rispetto al presente c) per la coincidenza di io presentificante e io presentificato. Questi tre caratteri sono strettamente legati tra loro. La posizione temporale implica una modalità di credenza e nello stesso tempo implica la posizione di una coincidenza tra io presente e passato. Se una presentificazione mi appare chiaramente situata nel flusso temporale della mia coscienza (“questa immagine rappresenta ciò che mi è successo oggi, all’ora di pranzo”), nello stesso tempo essa mi 113

appare come caratterizzata da chiara una coscienza di realtà (“è senza dubbio un ricordo, non una fantasia”) e, di conseguenza, l’io presentificato mi appare come coincidente con l’io che sta ora presentificando (“il soggetto che percepisce la scena in questo modo sono io”)19. La possibilità di situare una rappresentazione nel flusso temporale unitario della coscienza è dunque l’elemento fondamentale della dinamica attraverso cui riconosciamo una presentificazione come rimemorazione20. Questo spiega anche perché la coincidenza tra io attuale e io presentificato (esattamente come la coscienza di realtà di cui si è discusso nel secondo saggio) non sia una prerogativa esclusiva della rimemorazione. Husserl lo dice in modo esplicito nel testo di Husserliana XIII a cui sto facendo riferimento21. La coscienza può rappresentarsi qualcosa in una anticipazione in cui l’io fantasticato è posto come coincidente con l’io empirico. Se mi immagino di organizzare un viaggio su Marte e di scoprire su questo pianeta il mondo dei centauri, l’io fantasticato che è presente in questa rappresentazione può essere posto in una linea di continuità con l’io attuale. Evidentemente però questa coincidenza è possibile solo in rapporto ad una precisa dimensione temporale, cioè in rapporto al futuro. Il che significa che è possibile solo come una estensione ipotetica del flusso temporale dei miei vissuti. Se io mi immagino di essere Giulio Cesare, se “mi metto nei suoi panni” mentre attraversa il Rubicone, il mio attuale non può coincidere con l’io-presentificato. Grazie alla ritenzione io ho ancora a disposizione l’intero tratto del flusso temporale che appartiene al mio passato e questa presentificazione non appare come coincidente con alcuna porzione di questo flusso. Se, invece, io mi rappresento in una anticipazione il giorno della laurea di mia figlia, se mi vedo vecchio, tra molti anni, mentre la ascolto parlare, in questo caso si dà una coincidenza tra io attuale e io presentificato: sono proprio io il soggetto di questa rappresentazione.

19 Non si tratta evidentemente qui di tre passaggi che si susseguono realmente, così come una deduzione deriva dalle premesse. Nell’esperienza tutto è unito. Il ricordo si presenta come immediatamente caratterizzato da una posizione temporale, da una coscienza di realtà e dalla coincidenza dell’io presentificante e dell’io presentificato. 20 Come si è detto l’elemento chiave in questa dinamica è la ritenzione. È la ritenzione che consente di riconoscere la presentificazione come situata nel passato. La posizione temporale implica la catena ritenzionale, implica cioè che il mio passato mi sia dato immediatamente. Una immagine mi appare. La riconosco “è ciò che è successo oggi a pranzo”. È la ritenzione del senso noematico di ciò che è stato che mi permette questo riconoscimento e che, di conseguenza, rende possibile la posizione temporale. 21 E. Husserl, Studien über anschauliche Vergegenwärtigungen…, cit., p. 305.

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4. Esistono ricordi impersonali? La concezione husserliana della rimemorazione come presentificazione intuitiva sembra accreditare l’ipotesi di un legame inscindibile tra ricordo e soggetto. Se la rimemorazione implica sempre il riferimento ad un io presentificato posto come coincidente con l’io attuale, l’idea di un ricordo impersonale è in partenza destituita di ogni fondamento. Il problema è che in numerose esperienze di memoria della nostra vita quotidiana il riferimento egologico sembra del tutto assente. Quando diciamo: “mi ricordo ancora la dimostrazione del teorema di Pitagora”, oppure “non mi ricordo più la password del mio PC”, ci riferiamo a dei “ricordi” che appaiono molto diversi da quelli descritti da Husserl. In casi del genere il ricordo non appare affatto come la replica di una percezione precedente. Non c’è nessuna intuizione, nessuna immagine che aleggia di fronte alla coscienza. E soprattutto non c’è nessun riferimento egologico. Di che genere di ricordi di tratta? Sono forse possibili dei ricordi impersonali? E. Casey analizza due esempi interessanti tratti dalla sua esperienza. Nel primo caso, mentre sta discutendo con un vicino di casa della possibilità di installare un depuratore d’acqua in casa, improvvisamente un nome riemerge dal passato: “Culligam”22. Si tratta del nome della marca del depuratore che era installato nella casa della sua infanzia. Sforzandosi notevolmente Casey riesce a recuperare un’immagine vaga e indistinta del basamento dell’oggetto in questione. Ma, poiché si tratta di un ricordo molto remoto, non gli è possibile ricostruire il contesto cui esso appartiene, né inserirlo in un episodio o in una sequenza narrativa di immagini del passato. Una semplice parola emerge dalle profondità della coscienza accompagnata dalla certezza che si tratta del nome di un oggetto del passato. Che genere di memoria è questa? Si può parlare in questo caso di ricordo? La risposta di Casey è senza dubbio affermativa. Ma proseguendo nella sua analisi il filosofo americano nota una cosa molto importante: non c’è traccia di un io presentificato in un ricordo del genere. Non c’è alcuna percezione di sé. Benché sia ragionevole pensare che il soggetto che ha percepito quel nome e quell’oggetto sia esattamente lo stesso che ora ricorda, in una memoria di questo tipo non si dà alcun io presentificato in modo esplicito. Il secondo esempio è altrettanto semplice e altrettanto interessante. Parlando al telefono per concordare un appuntamento, qualcuno gli domanda: “qual è il numero del tuo ufficio in università?”. Senza esitazioni Casey risponde: “902”. Ci sono delle informazioni che abbiamo ripetuto talmente tante volte che non richiedono alcuno sforzo per essere recuperate. Sono in22

E. Casey, Remembering. A Phenomenological Study, cit., p. 28 ss.

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formazioni che fanno parte di una sorta di repertorio fondamentale di conoscenze quotidiane. “Come ti chiami?”, “Dove abiti?”, “Qual è il tuo numero di telefono?”: la risposta a domande di questo genere non richiede alcuno sforzo. Eppure il recupero di un’informazione semplice come l’indirizzo di casa o il proprio numero di telefono si presenta come un compito di memoria. Certo non capita a nessuno di non riuscire a ricordare il proprio numero di telefono. Per questa ragione più che di memoria sembrerebbe appropriato parlare in questo caso di un sapere elementare. Ma se qualcuno ci domanda qual era il numero di telefono della casa dove abitavamo da bambini, ci accorgiamo che non siamo più in grado di ritrovarlo: l’abbiamo dimenticato. Ora, se abbiamo la possibilità di dimenticare queste informazioni, non è lecito parlare di memoria a proposito della loro conservazione? Analizzando i ricordi legati a questo sapere elementare ci si accorge presto che anche in questo caso – ancora di più in questo caso – il riferimento egologico è assente. Se già nel ricordo del nome del depuratore non si poteva trovare alcuna percezione di sé, ancora di più nel ricordo del numero dell’ufficio. C’è però una differenza interessante tra i due casi. La parola “Culligam”, che Casey si trova in bocca ad un certo punto, emerge effettivamente dal passato. È una parola che appartiene ad una certa epoca della sua vita, ad un mondo che non è più, il mondo della sua infanzia. Non accade la stessa cosa quando pensiamo al nostro numero di telefono, al numero del nostro ufficio o al nostro indirizzo di casa. Queste informazioni appartengono al nostro presente, sono parte essenziale del nostro presente23. Come bisogna interpretare questa differenza? I due “ricordi” di cui parla Casey si somigliano nella misura in cui non implicano alcun io presentificato, ma sono differenti nella misura in cui si riferiscono a due tempi diversi. Il primo (Culligam) appartiene al passato, un passato che non può essere determinato precisamente (l’infanzia, ma quando esattamente?), ma pur sempre un passato. Il secondo invece appartiene al presente, un presente inteso in un senso molto ampio (non certo il presente della percezione, quanto piuttosto il presente dell’azione), ma pur sempre un presente. Ma si può parlare di ricordo anche a proposito di informazioni (e non di intuizioni) che per di più si riferiscono non al passato, ma al presente? L’idea di Casey, che viene formulata in diversi luoghi del suo lavoro, è che la presenza dell’io presentificato, “the self-presence of the rememberer”, per dirla con le sue parole, sia una caratteristica importante ma non

23 «Thus there is a peculiar lack of discrete referentiality to the past in the memory of “902”, which in this respect (though perhaps only in this respect) resembles the memory of a recurrent fantasy whose origin we cannot determine: both seams to float upon a sea of temporal indifference». Ivi, p. 33.

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assolutamente necessaria delle esperienze di memoria24. Allo stesso modo, anche il riferimento al passato non sarebbe essenziale25. Io credo che Casey abbia ragione quando accoglie esperienze di questo genere all’interno della fenomenologia della memoria. Ma questa inclusione è possibile solo se si mantiene ben salda la distinzione tra le varie forme di memoria. I due episodi descritti da Casey sono esempi di memoria, ma non di ricordo. Di che genere di esperienze si tratta dunque?

5. Memoria semantica e ricordo episodico Il rapporto che intercorre tra la rimemorazione e le forme di memoria impersonale che si constatano nell’esperienza, può essere compreso più a fondo se prendiamo in considerazione una distinzione classica della psicologia sperimentale, quella tra memoria semantica e memoria episodica. Facendo riferimento al lavoro di uno dei più accreditati studiosi di questi temi, Endel Tulving, vorrei mettere a confronto l’analisi della rimemorazione svolta fin qui sulla scia di Husserl e i risultati cui giunge, con tutt’altri metodi, la psicologia sperimentale. A mio avviso un simile paragone è utile tanto per la fenomenologia quanto per la psicologia. A condizione di non dimenticare le differenze di approccio. Nella prospettiva della psicologia sperimentale le esperienze diverse della memoria episodica e semantica vengono riferite all’attività di “sistemi” (systems) diversi; si ipotizza che questi sistemi presuppongano le funzioni neuronali di zone cerebrali differenti e che implichino l’esistenza di strutture organiche distinte. Tutto ciò dal punto di vista fenomenologico non è rilevante, nella misura in cui la fenomenologia si muove esclusivamente all’interno del campo dell’esperienza immanente. È chiaro però che la ricerca dei meccanismi oggettivi alla base dell’una o dell’altra memoria richiede una preliminare distinzione delle diverse esperienze mnestiche, che può essere compiuta solo al livello dell’esperienza vissuta e che quindi implica una sorta di fenomenologia implicita. È con questa fenomenologia implicita che è interessante paragonarsi.

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«We may conclude when it is an active ingredient in the memory-frame, self-presence bears importantly on the fate of remembering; but it need not be present at all for bona fide remembering to arise». Ivi, p. 70. 25 «One might well ask at this point, where do the past and therefore memory enter in this picture? It is important to realize, first of all, that the very phrase “the past and therefore memory” is by no means unambiguous, since the two items thereby conjoined are not as indissolubly linked on all occasions as the “therefore” suggests». Ivi, p. 93.

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Per illustrare la differenza tra memoria semantica e episodica Tulving propone una carrellata di esempi molto semplici e molto chiari di cui il fenomenologo si può appropriare. Alcuni sono tratti dall’esperienza quotidiana (a, b, c), altri dall’esperienza di laboratorio (d, e). Le seguenti affermazioni sono basate su informazioni mnestiche archiviate nella memoria episodica: a) Io ricordo di aver visto il flash di una luce poco tempo fa, seguito da un forte rumore pochi secondi dopo; b) L’anno scorso, durante le mie vacanze estive, ho incontrato un capitano in pensione che conosceva più barzellette di qualsiasi persona che io abbia mai incontrato; c) Io ricordo che ho un appuntamento con uno studente alle 9.30 domani mattina; d) Una delle parole che sono sicuro di aver visto nella prima lista che ho studiato è “legend”; e) Io so che la parola accoppiata con “dax” nella lista era “frigid”26.

Gli esempi di memoria episodica sono seguiti da altrettanti esempi di memoria semantica: Ora consideriamo alcune esemplificazioni del tipo di informazioni gestite dal sistema della memoria semantica: a) Io ricordo che la formula chimica del comune sale da cucina è NaCl; b) Io so che di solito le estati sono piuttosto calde a Katmandu; c) Io so che il nome del mese che segue Giugno è Luglio, se li consideriamo nell’ordine in cui si presentano nel calendario, o Marzo, se li consideriamo in ordine alfabetico; d) Io so che l’incertezza di un evento che ha cinque risultati equiprobabili è 2.322 bit; e) Io penso che l’associazione tra le parole “tavolo” e “sedia” sia più forte dell’associazione tra le parole “tavolo” e “ naso”27.

Tulving evidenzia tre aspetti fondamentali di differenza tra queste due forma di memoria che mi interessa sottolineare28: 1) mentre la memoria e26

«The following memory claims are based on mnemonic information stored in episodic memory: a) I remember seeing a flash of light a short while ago, followed by a loud sound a few seconds later; b) Last year, while on my summer vacation, I met a retired sea captain who knew more jokes than any other person I have ever met; c) I remember that I have an appointment with a student at 9:30 tomorrow morning; d) One of the words I am sure I saw in the first list I have studied was LEGEND; e) I know the word that was paired with DAX in the list was FRIGIDE». E. Tulving, Episodic and Semantic Memory, in E. Tulving, W. Donaldson (eds.), Organization of Memory, Academic Press, New York and London 1972, p. 385. 27 «Now, consider some illustrations of the nature of the information handled by the semantic memory system: a) I remember that the chemical formula for common table salt is NaCl; b) I know that summers are usually quite hot in Katmandu; c) I know that the name of month that follows June is July, if we consider them in the order in which they occur in the calendar, or March if we consider them in the alphabetical order; d) I know that uncertainty of an event having five equiprobable outcomes is 2.322 bits; e) I think that the association between the words TABLE and CHAIR is stronger than that between the words TABLE and NOSE». Ivi, p. 387. 28 Ivi, p. 386.

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pisodica ha per oggetto eventi che hanno una collocazione temporale determinata (“temporally dated espisodes or events”), la memoria semantica ha per oggetto cognizioni extratemporali; 2) mentre la memoria episodica implica un preciso riferimento all’esperienza personale del soggetto (“autobiographical reference”) e gioca un ruolo importante nella costituzione della identità personale, la memoria semantica è impersonale; 3) mentre la memoria episodica registra le proprietà e gli attributi percettivi dell’evento – e in questo senso è immediata –, la memoria semantica richiede la mediazione di codice o di un sistema di segni29. Considerando le tre grandi differenze appena elencate, è evidente che i fenomeni che la psicologia classifica come ricordi episodici possiedono tutte le caratteristiche essenziali della rimemorazione descritte nel secondo saggio. Infatti: 1) la rimemorazione è la presentificazione di un “ora” di cui è possibile stabilire la posizione temporale rispetto al presente; 2) l’“ora” rimemorato appartiene al flusso unitario dei vissuti di un soggetto; 3) la rimemorazione è un’intuizione e dunque non implica la mediazione di un sistema di segni, ma ripropone le “proprietà percettive” (per usare il linguaggio psicologico) dell’evento ricordato. Ma che dire della memoria semantica? Che dire dei fenomeni che compaiono nella seconda lista di esempi di Tulving? Si tratta di fenomeni di memoria dello stesso genere di quelli descritti da Casey (“Culligam” e “902”), ma è chiaro che non si tratta di rimemorazioni. Tutti gli esempi che si riferiscono alla memoria semantica possono essere considerati come forme di conoscenza più che di ricordo. Tulving ne è ben consapevole e lo dice esplicitamente. Tuttavia nella prospettiva della psicologia sperimentale i fenomeni di questo genere possono essere guardati come forme di memoria nella misura in cui il loro contenuto dipende da un’informazione acquisita nel passato, anche se in un momento non determinato del passato. Se io so che la formula chimica del sale da cucina è “NaCl”, è perché mi ricordo un’informazione che ho appreso tanto tempo fa dalla mia insegnante a scuola, oppure leggendo un libro, o magari ancora guardando la televisione. In tutti i casi si tratta di una nozione che proviene dal passato. Qual è dunque la differenza con l’esperienza temporale che caratterizza la memoria episodica? In realtà c’è una grande differenza. Mentre la memoria episodica ci offre un frammento del nostro passato, la memoria semantica ci offre una informazione che proviene dal passato, ma non è del passato. La formula chimica del sale da cucina è una verità atemporale, è 29 «Inputs into the semantic memory system are always referred to an existing cognitive structure, that is, they always have some cognitive reference, and the information they contain is information about the referent they signify rather than information about the input signal as such». Ivi, p. 389.

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un significato ideale, e come tale è fuori dal tempo. Che, di fatto, io abbia appreso questa verità in qualche momento del mio passato non fa differenza. Se ciò che ricordo ora non è la circostanza in cui l’apprendimento è avvenuto, ma solo il significato ideale, non si può dire che io stia davvero riproducendo una porzione del mio passato. Questo rilievo ci conduce ad una distinzione fondamentale per risolvere i problemi posti in questo saggio, la distinzione tra memoria e ricordo. La memoria – nel senso più proprio del termine – è un sistema organico di registrazioni, una sorta di archivio. Essa può essere “interna” al soggetto, come nel caso della memoria semantica, che è una sorta di “archivio mnestico”; oppure “esterna”, come nel caso delle cosiddette “memorie esteriorizzate” (racconti, immagini, ecc.). Il ricordo si distingue dalla memoria perché implica il riferimento ad un io, ad una esperienza cosciente30. Occorre prestare molta attenzione a questa distinzione perché, se si considerano i termini nella loro accezione comune, “memoria semantica” è una espressione non meno pericolosa di “memoria collettiva” o “memoria RAM”, dal momento che suggerisce l’idea che esistano dei ricordi semantici. Ora, per sapere qual è la formula chimica del sale è certamente necessaria una memoria, la ritenzione. È necessario che la coscienza abbia ritenuto un significato che ha appreso in un momento indeterminato della sua esperienza passata. Ciò che gli psicologi chiamano memoria semantica non è altro che la ritenzione di un significato e questo spiega perché è possibile dimenticare una formula o una dimostrazione matematica che avevamo imparato. Ma l’utilizzo della parola “ricordo” in questo caso è improprio. Il ricordo implica la presentificazione di un io che pensa, percepisce, agisce, ecc. Rimemorare X non significa soltanto che X si ripresenta alla coscienza. Significa che X si ripresenta alla coscienza insieme con l’io che lo ha esperito31. Da questo punto di vista, per neutralizzare, o almeno arginare gli equivoci del linguaggio, sarebbe più prudente sostituire la coppia memoria semantica/memoria episodica, con la coppia ricordare/sapere-che; cosa che lo stesso Tulving spesso fa contrapponendo “remembering” e “knowledge”32. 30 In senso lato anche rimemorazione e rievocazione possono essere designate come forme di memoria, anche se è più appropriato definirle come forme di ricordo. In generale è giusto affermare che il ricordo si fonda sulla memoria, ma non è riducibile ad essa. 31 La dinamica della memoria semantica può essere schematizzata come segue: io ho vissuto X, X è ritenuto, ora io conosco X. Per esempio: io ho udito la formula del sale da cucina, questa formula è ritenuta, io la so ancora adesso. La dinamica del ricordo è differente: io ho vissuto Y, “io che vivo Y” è ritenuto, ora io posso rimemorare “io che vivo Y”. Per esempio: io ho udito la formula del sale da cucina dalla maestra, questo episodio (io che ascolto la maestra spiegare questa formula) è ritenuto, ora io posso rimemorarlo. 32 Questa equivalenza tra memoria e conoscenza è antichissima, se si pensa che è stata posta già da Platone nel Menone. L’idea della conoscenza come anamnesi può essere ripresa

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In ogni caso, al di là della questione terminologica di stabilire per quali fenomeni sia appropriata la parola “ricordo” e per quali no (il linguaggio può essere fonte di gravi confusioni, ma le dispute terminologiche rischiano sempre di rivelarsi sterili), è importante comprendere la differenze tra i fenomeni e le relazioni che li uniscono. In particolare è importante comprendere quale rapporto ci sia tra memoria semantica e ricordo episodico. Una delle cose interessanti che la psicologia sperimentale mostra è che la componente semantica gioca un ruolo importante nei processi episodici. La memoria semantica condiziona la memoria episodica, facilitandola, potenziandola, a volte anche distorcendola.

6. La componente semantica del ricordo episodico Numerose evidenze sperimentali, ma anche numerose evidenze di senso comune, testimoniano dell’importanza della memoria semantica per i compiti di ricordo episodico. In un esperimento classico viene presentata al soggetto una lista contenente una serie di coppie di parole, un tipico test di memoria episodica. Successivamente gli viene presentata una parola di questa lista e gli viene chiesto di ricordare quale parola fosse ad essa abbinata. Si dimostra così che è più facile ricordare la parola abbinata se essa era semanticamente associata alla parola presentata (così per esempio l’associazione cavallo-asino sarà più facile da ricordare). Altre evidenze di carattere sperimentale, unite ad evidenze cliniche, dimostrano che la memoria semantica può funzionare indipendentemente dalla memoria episodica33. Il caso di K.C. studiato da Tulving è tra i più impressionanti. Il 30 ottobre del 1980, all’età di trent’anni, K.C. è stato vittima di un terribile incidente stradale in una città vicino a Toronto; un incidente che gli ha procurato gravi lesioni cerebrali e una totale amnesia. Da quel momento non ha più potuto ricordare nemmeno un solo episodio della sua vita passata. Il suo quoziente intellettivo è rimasto normale, così come le sue capacità percettive e linguistiche. Anche la sua memoria a breve termine è rimasta intatta. Ma la sua memoria episodica è stata completamente compromessa. La cosa interessante è che, sebbene non possa più ricordare proprio niente, K.C. continua a sapere molte cose del mondo, della vita e perfino della sua esperienza passata. La sua memoria semantica è rimasta intatta. Conosce il significato dei termini tecnici che riguardano il suo lavoro (era un ingegnere) e sa ancora il nome della compagnia per cui lavorava. dal punto di vista fenomenologico a patto che la si liberi dalle implicazioni metafisiche: in effetti ogni sapere presuppone una memoria. Ma il ricordo non è solo un sapere. 33 E. Tulving, Episodic and Semantic Memory, cit., p. 392.

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Ma non riesce a ricordare di aver mai lavorato lì. Allo stesso modo ricorda ancora le regole degli scacchi e può giocare una partita. Ma non ricorda di aver mai giocato con nessuno34. Da queste e da molte altre evidenze sperimentali e cliniche, Tulving trae una conclusione decisiva, una conclusione che sarà molto importante per comprendere il ripensamento dei rapporti tra memoria individuale e memoria collettiva che proporrò tra poco, rileggendo Halbwachs: il sistema semantico condiziona in modo determinante le prestazioni del sistema episodico35. In che modo questo accada lo si capisce se si tiene presente il cosiddetto “modello SPI”36. L’idea di fondo di questa rappresentazione schematica dei rapporti tra le varie forme di memoria (che per la psicologia sperimentale sono essenzialmente tre: la memoria percettiva, quella episodica e quella semantica) è riassumibile in tre punti che corrispondono alla tre lettere della sigla “SPI”. 1) La codificazione delle informazioni nei tre sistemi è seriale (S). Questo significa che i dati in entrata, le “informazioni”, passano prima attraverso il sistema percettivo, poi attraverso quello semantico e infine raggiungono quello episodico. 2) Lo stoccaggio (storage) delle informazioni è parallelo (P), il che significa che ogni sistema trattiene delle informazioni specifiche differenti a riguardo dello stesso evento: il primo sistema trattiene i connotati percettivi, il secondo le informazioni concettuali, il terzo quelle legate al coinvolgimento del sé. 3) Il recupero dell’informazione è indipendente (I). Questo vuol dire che, se anche un evento lascia una traccia in tutti e tre i sistemi, cosa che non sempre accade, non è detto e non è necessario che il ricordo sia in grado di recuperare le informazioni percettive, semantiche e episodiche nello stesso tempo. K.C., per esempio, riesce a recuperare le informazioni semantiche ma non quelle episodiche. Di questi tre punti il più interessante per il discorso che sto sviluppando è il primo perché implica il rovesciamento dell’opinione tradizionale a proposito del rapporto tra semantico ed episodico, come lo stesso Tulving nota. Per il senso comune la memoria episodica precede di diritto e di fatto la 34

E. Tulving, Remembering and Knowing the Past, “American Scientist”, 77, 1989, p. 362. «The episodic system depends on but goes beyond the capabilities of the semantic system. It could not operate in the absence of semantic system, but it can accomplish feats that the semantic system alone cannot. The semantic system, on the other hand, is capable of operating in the absence, or independently, of the episodic system, although its operations are facilitated by the episodic system» (ivi, p. 362). Proprio perché il sistema episodico dipende dal semantico ma lo oltrepassa, è possibile sapere qualcosa del proprio passato ma non poterlo ricordare, ma non viceversa. A mio avviso il concetto husserliano di ritenzione dice in modo più chiaro in cosa consista questo “sapere” del proprio passato che si distingue chiaramente dal ricordo e nello stesso tempo lo rende possibile. 36 Cfr. E. Tulving, Episodic Memory and Common Sense: how Far Apart?, cit., pp. 1508-9. 35

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memoria semantica. Se è vero che è dall’esperienza personale che ricaviamo le categorie generali di cui ci serviamo, le “informazioni” (un termine fenomenologicamente inammissibile, che accetto solo provvisoriamente) devono raggiungere il sistema semantico passando attraverso quello episodico. Il ragionamento è all’incirca questo: a seguito delle esperienze particolari Xa, Xb, Xc, che il soggetto può ricordare grazie alla memoria episodica, è possibile acquisire il concetto generale X, che diviene parte essenziale di un sistema semantico. In realtà è vero il contrario e Tulving lo dice nel modo più chiaro: «Io credo che la concezione giusta sia quella opposta al senso comune: le informazioni entrano nella memoria episodica attraverso la memoria semantica»37. I dati percettivi vengono prima strutturati concettualmente e poi, successivamente, “archiviati” a livello episodico. Questo significa che non è possibile un ricordo episodico che non sia già mediato a livello semantico38. A questo punto ci si deve chiedere se i fenomeni che abbiamo indagato sotto il titolo di memoria semantica – fenomeni che si mostrano evidentemente non solo dal punto di vista scientifico-obbiettivo, ma anche dal punto di vista fenomenologico – non possano essere chiamati in causa nel tentativo di dare un fondamento fenomenologico alla nozione sociologica di memoria collettiva. La memoria semantica non è forse una memoria collettiva? Prima di rispondere ad una domanda del genere è necessario confrontarsi con il pensiero del fondatore della sociologia della memoria, Maurice Halbwachs.

7. La memoria collettiva: una nozione ambigua La paternità della nozione di memoria collettiva si può attribuire a M. Halbwachs, che per primo ne ha fatto l’oggetto di una trattazione sistematica in molti suoi lavori e in particolare in un celebre testo degli anni Cinquanta, La mémoire collective. Sorprendentemente non troviamo nelle opere 37 «I believe that the correct view is the reverse of common sense: information gets into episodic memory through semantic memory». Ivi, p. 1508. 38 Alle spalle del modello proposto da Tulving c’è una complessa teoria antropologica e antropogentica. L’idea è che la memoria episodica sia il sistema di memoria superiore, il sistema più specificamente umano e il frutto più tardivo delle evoluzione. Così mentre la memoria semantica sarebbe legata allo svolgimento delle funzioni vitali elementari, quella episodica sarebbe un “lusso”, legato alla costituzione dell’identità personale e di altre funzioni meno indispensabili dal punto di vista biologico. Nello stesso tempo però la memoria episodica è condizionata da quella semantica e non può operare senza appoggiarsi ad essa. Su questo cfr. D. Schacter, E. Tulving (eds.), Memory System 1994, MIT, Cambridge MA/London, 1994.

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di Halbwachs una definizione chiara di cosa si debba intendere per memoria collettiva. Talvolta sembra che si debba intendere la memoria collettiva come la capacità di conservare il passato propria di una sorta di “super-io” collettivo. Così Halbwachs usa senza alcuna esitazione l’espressione “memoria del gruppo”, come se l’attribuzione di un’attività della coscienza ad una collettività non presentasse alcun problema. Altre volte sembra che la questione sia di riconoscere l’originarietà di una dimensione sociale della coscienza in generale. Talvolta Halbwachs nega risolutamente la possibilità che esista un ricordo individuale. Altre volte sembra che l’individuo partecipi di due memorie, una individuale e una collettiva39. In virtù di questi equivoci e di questi continui slittamenti di significato, fin dal primo capitolo la dimostrazione dell’esistenza e della priorità dei ricordi collettivi si confonde con la dimostrazione dell’inevitabilità dei condizionamenti sociali cui ogni coscienza è soggetta. Il fatto è che, in realtà, non siamo mai soli. Non è necessario che altri uomini siano presenti, che si distinguano materialmente da noi: perché ciascuno di noi porta sempre con sé e dentro di sé una quantità di persone distinte. Immaginiamo che io arrivi per la prima volta a Londra […] Supponiamo che passeggi da solo. Si dirà forse che di questa passeggiata non potrò conservare che ricordi individuali, miei e soltanto miei? In realtà, ho passeggiato da solo soltanto in apparenza. Passando davanti a Westminster, ho pensato a quel che mi aveva detto l’amico storico, (o, ed è lo stesso, a quanto avevo letto in un libro di storia). Attraversando un ponte, ho considerato l’effetto di prospettiva che l’amico pittore mi aveva fatto notare (o che mi aveva colpito in un quadro, in una stampa). […] In tutti questi momenti, in tutte queste circostanze, non posso dire di essere stato da solo, di aver pensato da solo, perché nel pensiero mi ricollocavo all’interno di questo o di quel gruppo […] Altri uomini hanno avuto in comune con me questi ricordi. Di più: mi aiutano a ricordarli. Per meglio ricordare, mi rivolgo verso di loro, adotto momentaneamente il loro punto di vista, rientro nel loro gruppo, del quale continuo a far parte, perché ne subisco l’influsso e perché ritrovo in me idee e modi di pensare a cui da solo non sarei arrivato, e tramite i quali rimango in contatto con loro40.

È impossibile negare la pertinenza di queste osservazioni di Halbwachs. Senza dubbio la percezione di una città che vediamo per la prima volta è 39 Nella sua introduzione alla traduzione italiana di La mémoire collective P. Jedlowski rileva con grande lucidità i due limiti essenziali del lavoro di Halbwachs, che si possono ricondurre a due punti essenziali: 1) Il sociologo francese non è interessato ai rapporti tra memoria collettiva e tecnica 2) La memoria collettiva è concepita talvolta come un insieme di immagini, talvolta come un insieme di abitudini, talvolta come insieme di conoscenze. Cfr. P. Jedlowski, “Introduzione”, in M. Halbwachs, La mémoire collective, Presses Universitaires de France, Paris, 1968, tr. it. La memoria collettiva, Edizioni Unicopli, Milano, 2001, p. 30. 40 M. Halbwachs, La memoria collettiva, cit., pp. 80-81 passim.

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legata dalla storia sociale e culturale cui apparteniamo. Bisogna notare però il sottile spostamento dei termini del problema operato in questa pagina molto significativa. Il problema del ricordo collettivo diviene qui, quasi insensibilmente, il problema dei condizionamenti sociali della percezione. Gran parte della strategia argomentativa del primo capitolo di La mémoire collective è incentrata su questo spostamento: se la memoria collettiva ha il primato rispetto alla memoria individuale è perché la percezione è storicamente ed empiricamente condizionata41. Poiché la percezione è sempre orientata e ordinata secondo criteri che discendono da un «lungo addestramento sociale»42, anche la memoria, di conseguenza, non potrà mai essere veramente individuale. Un’analisi delle influenze sociali cui è soggetta la percezione ha certamente delle ricadute importanti sul modo di concepire la memoria. È evidente però che la constatazione del fatto che la coscienza è sempre situata storicamente non coincide con la dimostrazione dell’esistenza della memoria collettiva così come la intende Halbwachs, né della sua priorità rispetto alla memoria individuale. Il caso citato da Halbwachs – la passeggiata in una città mai vista – suggerisce una considerazione importante: è la nostra comunità di appartenenza che ci fornisce i criteri per distinguere ciò che è “memorabile” da ciò che non lo è. Allo stesso modo è vero che la maggior parte delle volte il ricordo si inserisce in una dinamica sociale. Confrontiamo i nostri ricordi con i ricordi altrui, li correggiamo, li verifichiamo, integriamo la nostra versione dei fatti con quella degli altri, utilizziamo i punti di riferimento temporali e spaziali che la nostra società ci mette a disposizione. Inoltre è per lo più all’interno del dialogo con gli altri che emerge la necessità di recuperare un frammento di passato. L’esercizio della memoria è quasi sempre legato ad una necessità dettata dalla vita sociale. Ma è essenziale, per evitare le confusioni, distinguere accuratamente ciò che riguarda il “fare-memoria” come pratica sociale (l’occasione del ricordo, la sua comunicazione, la sua verifica, ecc.) da ciò che riguarda il ricordo come esperienza vissuta. Se si mantiene salda questa distinzione, molte delle osservazioni di La mémoire collective diventano condivisibili. Il problema è che Halbwachs, nella sua polemica antisoggettivista, estremizza il discorso e non si accontenta affatto di studiare i meccanismi della memoria intesa come pratica sociale. Preoccupato di raggiungere una conclusione filosofica radicale – «noi stessi non siamo che un’eco»43 – egli tenta di eliminare completamente dal ricordo il riferimento soggettivo senza preoccuparsi troppo della paradossa41

Ivi, pp. 112-113. Ivi, p. 113. 43 Ivi, p. 116. 42

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lità delle sue conclusioni: «Per quanto strano e paradossale possa sembrare, i ricordi che ci è più difficile rievocare sono proprio quelli che non riguardano che noi, che costituiscono il nostro più esclusivo possesso»44. Ma si può davvero sostenere un punto di vista del genere? Che dire per esempio del rimorso, del rimpianto, dell’ossessione? Non si tratta forse di ricordi assolutamente “privati” che tuttavia si ripresentano con una veemenza e con una determinatezza fuori dal comune? Non è forse esperienza comune il ritorno – anche nostro malgrado – di immagini del nostro passato il cui significato profondo è completamente sconosciuto agli altri?

8. Ulteriori considerazioni sull’intreccio tra ricordo, immaginazione e sapere-che Per dimostrare la priorità della memoria collettiva rispetto alla memoria individuale Halbwachs si serve di un ulteriore ragionamento su cui vorrei soffermarmi, perché ci costringe a riconsiderare da un nuovo punto di vista le osservazioni proposte nel secondo saggio circa la somiglianza di ricordo e immaginazione e quelle proposte nei paragrafi precedenti circa il rapporto tra memoria semantica e ricordo episodico. Il ricordo – leggiamo in La mémoire collective – è una ricostruzione la cui fedeltà non deve essere sopravvalutata. Il passato riappare, ma la ricostruzione è sempre anche una alterazione. Ogni volta che ritorniamo al medesimo passato, ogni volta che la medesima immagine si ripresenta, le alterazioni si aggiungono una all’altra e si sovrappongono di modo che, con il passare tempo, diviene sempre più arduo distinguere il vero ricordo dalle aggiunte e dalle distorsioni operate dalla nostra memoria. L’immaginazione interviene aggiungendo, correggendo, omettendo. In particolare può capitare di alterare la rappresentazione di un episodio del passato in base a ciò che sappiamo a partire dai racconti altrui. In questo caso gli elementi intuitivi veramente ricordati – frammenti di un’esperienza vissuta in prima persona – si mescolano con le rappresentazioni immaginarie dell’esperienza vissuta da altri individui. Le testimonianze altrui o le notizie apprese circa avvenimenti cui abbiamo preso parte, danno origine a rappresentazioni immaginative che sono analoghe ai nostri ricordi e contribuiscono a renderli più coerenti e sensati. I ricordi d’infanzia da questo punto di vista sono i più emblematici. La maggior parte delle volte crediamo di avere realmente a che fare con le autentiche immagini della nostra infanzia, ma in realtà si tratta di rappresentazioni molto successive, costruite a partire dai racconti 44

Ivi, p. 118.

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dei nostri genitori45. Ora, se le cose stanno così, diviene praticamente impossibile – specie per quanto riguarda i ricordi lontani – distinguere ciò che deriva dall’esperienza personale da ciò che, attraverso la mediazione dell’immaginazione, deriva dalle testimonianze e dai racconti di coloro che ci circondano, cioè dalla società46. La parentela tra memoria e immaginazione – che anche l’analisi fenomenologica autorizza, come si è visto nel secondo saggio – diviene qui un potente argomento in favore dell’ipotesi della priorità della memoria collettiva. La questione cruciale, il perno intorno a cui ruota l’argomentazione di Halbwachs, è la differenza, cui già si è trattato, tra ricordare e sapere-che. Il ricordo episodico è diverso dalla memoria semantica, ricordare è molto più che sapere-che. Ci sono molti eventi di cui conosciamo data, luogo e particolari e che tuttavia non possiamo affatto ricordare. Per lo più si tratta di eventi cui non abbiamo preso parte personalmente. Io so – per fare un esempio ovvio – quello che è accaduto il 14 luglio del 1789 a Parigi nella piazza della Bastiglia. Ma evidentemente non posso ricordare nessuno degli avvenimenti che si produssero in quelle circostanze. Il problema è che ci sono eventi considerando i quali la distinzione tra ricordare e sapere-che va in crisi. Halbwachs propone un esempio davvero interessante: il primo giorno di scuola. La maggior parte delle persone non ne conserva alcun ricordo, oppure ne conserva un ricordo estremamente confuso. A questa imprecisione e questa vaghezza della rimemorazione, corrisponde invece un sapere-che indubitabile e piuttosto circostanziato. Sappiamo con precisione, il quando, il dove, il come. Ma, paradossalmente, proprio l’indubitabilità di questo sapere-che è fonte di confusione. Come possiamo essere sicuri che le immagini che ci appaiono quando cerchiamo di ricordare un episodio del genere siano dei ricordi e non delle fantasie costruite a partire dal corrispondente sapere-che? Come possiamo distinguere le autentiche rimemorazioni del primo giorno di scuola dalle presentificazioni del medesimo epi45

«È lo stesso per molti cosiddetti ricordi di infanzia. Il primo al quale ho creduto a lungo di poter risalire è stato l’arrivo a Parigi della mia famiglia. Avevo allora due anni e mezzo. Salimmo le scale di sera (l’appartamento era al quarto piano); e noi bambini osservammo a gran voce che a Parigi si abitava nei granai. Ora, che uno di noi abbia fatto questa osservazione è possibile. Ma era naturale che i nostri genitori, divertiti, l’abbiano conservata e che ce l’abbiano raccontata poi. Vedo ancora la scala illuminata: ma l’ho vista tante volte in seguito». M. Halbwachs, La memoria collettiva, cit., p. 95. 46 «L’abbiamo ripetuto molte volte: il ricordo è in grandissima parte una ricostruzione del passato operata con l’aiuto di dati presi dal presente, e preparata d’altronde da altre ricostruzioni fatte in epoche anteriori, dalle quali l’immagine originale è uscita abbondantemente alterata. […] Possiamo dunque chiamare ricordi molte rappresentazioni che, almeno in parte, si basano su delle testimonianze o dei ragionamenti. Ma, allora, la parte del sociale, o se si vuole, dello storico nella memoria che abbiamo del nostro passato è molto più grande di quanto non pensassimo». Ivi, p. 144.

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sodio costruite successivamente, a partire dai racconti dei nostri genitori? «Che obbiezione si vede allora al fatto che riflettendo su ciò che deve essere stato il nostro primo ingresso in classe, riusciamo a ricrearne l’atmosfera e l’aspetto generale? Immagine vaga e incompleta, sicuramente, e, soprattutto, immagine ricostruita: ma quanti ricordi che crediamo di aver conservato fedelmente, e la cui identità ci pare fuori di dubbio, sono forgiati quasi interamente su riconoscimenti fasulli, seguiti a dei racconti o a delle testimonianze!»47. È evidente che di molte delle immagini della nostra infanzia non siamo in grado di dire esattamente se si tratta di ricordi o di presunti ricordi. In precedenza abbiamo distinto ricordo episodico e memoria semantica utilizzando come criterio discriminante il riferimento soggettivo. Seguendo Tulving abbiamo giustamente sottolineato come le nozioni e significati appresi grazie alla cosiddetta memoria semantica siano privi di una posizione temporale definita nel flusso soggettivo dei vissuti. Ma l’esempio di Halbwachs ci costringe a riflettere in modo più approfondito su questa distinzione. Esiste un sapere-che che si riferisce all’esperienza personale del soggetto. Questa osservazione sembrerebbe motivare un nuovo scetticismo nei confronti della pretesa veritativa del ricordo come atto intuitivo e, nello stesso tempo, sembrerebbe aprire una breccia nella chiusura del soggetto per le incursioni di elementi “estranei” di origine sociale. Certamente un “sapere astratto” se non interviene alcuna immagine non può essere considerato un atto rimemorativo. Ma un’immagine di fantasia può “riempire” i quadri vuoti del sapere-che senza che sia possibile distinguerla da un’immagine rimemorativa48. Considerando che il sapere-che ha per lo più un’origine sociale – è ciò che sappiamo dalle testimonianze e dai racconti altrui, si tratti di racconti o si tratti di documenti –, e si trasmette attraverso la mediazione di “strumenti” intrinsecamente sociali – il linguaggio e le idee –, si capisce meglio in che modo in Halbwachs la parentela memoriaimmaginazione possa autorizzare una concezione forte della memoria collettiva. La fantasia dà corpo alle nozioni acquisite dall’esterno e le rende di fatto indistinguibili dagli altri ricordi. Così, attraverso la mediazione di un’immaginazione camuffata da ricordo, la collettività, con i suoi racconti, le sue notizie, le sue strutture concettuali, entra prepotentemente all’interno della sfera privata della memoria individuale.

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Ivi, p. 146. «Una cornice vuota non può produrre da sola un ricordo preciso e ben dipinto. Ma qui la cornice è piena di riflessioni personali, di ricordi familiari, e il ricordo è un’immagine inserita fra altre immagini, un’immagine generica riportata al passato». M. Halbwachs, La memoria collettiva, cit., p. 146. 48

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A mio avviso, tra tutti gli argomenti presenti in La mémoire collective questo è di gran lunga il più convincente, almeno dal punto di vista fenomenologico. Se un soggetto possiede una conoscenza vera del proprio passato, nella forma di un sapere-che, e, nello stesso tempo, una presentificazione adeguata a questo sapere-che, tale rappresentazione non sarà assolutamente equivalente ad un ricordo? In realtà no. Perché vi sia ricordo occorre che la presentificazione corrisponda a quanto è custodito nella ritenzione. Ma la ritenzione non può essere pensata come un sapere concettuale. La coscienza dell’esser-stato di un vissuto non coincide con un sapere-che cosciente e categoriale. L’esempio di Halbwachs può essere capovolto. Io so con certezza assoluta che il tavolo, che ora è nel salotto di casa mia, una volta era nella casa dei miei genitori, dove ho vissuto i primi anni della mia vita. Benché io possa presentificarmi senza difficoltà questo tavolo in quella casa, io non me ne ricordo. Le immagini di fantasia che mi appaiono mentre me lo rappresento nella sua precedente ubicazione corrispondono ad un sapere-che certo e verificato, ma non si presentano nella forma di una rimemorazione. E per quanto mi sforzi, per quanto approfondisca il mio sapere interrogando genitori e parenti, o documentandomi ulteriormente, non posso trasformare volontariamente una presentificazione non tetica in una rimemorazione. Lasciando aperta la possibilità della confusione e dell’illusione, bisogna riconoscere che sussiste una differenza, sia pure sottile, tra una presentificazione che corrisponde ad una nozione autobiografica vera e una rimemorazione effettiva.

9. Un fenomeno impossibile: il ricordo collettivo L’espressione “ricordi in comune”, che Halbwachs utilizza spesso, sembra palesemente in contraddizione con le osservazioni sulla non condivisibilità della rimemorazione che ho proposto nei paragrafi precedenti. Allo stesso modo l’espressione “ricordo collettivo”, che viene correntemente utilizzata negli studi di sociologia della memoria, sembra inconciliabile con la necessità del riferimento soggettivo nel ricordo49. Occorre dunque precisare ulteriormente il punto di vista fenomenologico al riguardo. 49

Per la maggior parte dei sociologi l’idea di una condivisione dei ricordi non presenta alcun problema: «Per quanto l’individuo percepisca i propri ricordi come ricordi personali e forse anche privati, e per quanto questo sia probabilmente indispensabile perché possa percepirsi come un individuo dotato di una propria identità distinta, non vi è dubbio che molti dei ricordi che egli conserva e coltiva siano condivisi con altre persone» G. Bellelli, D. Bakhurst, A Rosa (a cura di), Tracce. Studi sulla memoria collettiva, Liguori Editore, Napoli, 2000, “Introduzione”, p. 3.

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Il ricordare-con è una modalità essenziale dell’esercizio della memoria50. Come nota giustamente Halbwachs, ricordare-insieme ci rende certi delle nostre rappresentazioni del passato51. Anche considerando la rimemorazione da un punto di vista strettamente fenomenologico, si giunge alla conclusione che il ricordo è essenzialmente aperto ad un confronto intersoggettivo. Il ricordo si distingue dalla mera immaginazione innanzitutto perché deve integrarsi nella trama della memoria individuale e perché pretende di integrarsi nella trama delle memorie altrui. Di conseguenza il ricordare-insieme è un momento decisivo del nostro rapporto con il passato. Ma è lecito affermare che ricordare è sempre ricordare-con? Fino a che punto è possibile prendere alla lettera l’espressione “ricordi in comune”? Consideriamo un esempio. Io e mia moglie abbiamo assistito insieme all’evento della nascita di nostra figlia. Si tratta senza dubbio di uno degli eventi memorabili della nostra vita. Non lo dimenticheremo mai. Nello stesso tempo si tratta di un evento cui abbiamo partecipato – in un modo del tutto peculiare – “insieme”. Quasi mai nella vita capita di vivere insieme così completamente una circostanza: abbiamo condiviso la medesima attesa, abbiamo condiviso le medesime preoccupazioni, abbiamo condiviso la medesima stanza dall’inizio alla fine del parto, abbiamo sentito insieme, nello stesso momento, il primo grido di nostra figlia, ecc. Ma si può dire che il mio ricordo di quell’evento e il ricordo di mia moglie coincidano? Evidentemente no. Ricordando-insieme quel momento ci accorgiamo di aver prestato attenzione a particolari diversi, di aver trattenuto immagini non identiche. Benché l’oggetto del nostro ricordo, l’evento cui siamo rivolti, sia lo stesso, la rappresentazione che lo illustra non è la stessa. Mia moglie ricorda la sofferenza delle contrazioni, il dolore del travaglio, lo sforzo del parto. Ma di tutto ciò io ho avuto un’esperienza soltanto indiretta. Evidentemente, nell’esempio in questione, il punto di vista di mia moglie è radicalmente diverso dal mio. Ma ciò che è essenziale rilevare, per rispondere ad Halbwachs, è che questa diversità non ha un origine sociale. Qui non si tratta della diversità di percezione del reale che è causata dalla diversità degli influssi sociali, culturali e storici cui un individuo è sottoposto anche quando è da solo. Non è perché appartiene ad un diverso gruppo sociale o perché ha avuto un’educazione diversa dalla mia, che mia moglie percepisce il parto in modo diverso da me. L’originalità del suo punto di vista ha un fondamento addirittura fisiologico. Anche se l’evento cui partecipiamo è lo stesso il suo sentire è diverso dal mio: lei sente il dolore, io no. 50 Ricoeur sintetizza la tesi di Halbwachs così: «Il testo fondamentalmente dice questo: per ricordarci abbiamo bisogno degli altri». P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, cit., p. 170. 51 M. Halbwachs, La memoria collettiva, cit., p. 80.

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Si tratta evidentemente di un caso limite. Se, invece del ricordo della nascita di mia figlia, confrontassi con mia moglie il ricordo di uno spettacolo teatrale cui abbiamo assistito insieme, questa differenza di sentire probabilmente sarebbe minima. Ma in linea di principio non potrebbe mai essere esclusa. Il mio punto di vista sull’evento in questione sarebbe leggermente diverso, fosse anche solo perché il mio posto a teatro era mezzo metro più a sinistra del suo, perché lei porta gli occhiali e io no, ecc. Considerazioni analoghe potrebbero essere svolte anche a riguardo dei cosiddetti “ricordi collettivi”. Nell’accezione più diffusa dell’espressione i ricordi collettivi sono i ricordi che accomunano una generazione o un gruppo o una comunità. Joe Brainard negli anni Settanta ha raccolto una moltitudine di ricordi di questo genere nel suo libro I remember, dando inizio ad un vero e proprio filone della letteratura contemporanea52. Si tratta di ricordi del tipo: “mi ricordo la vespa special”, “mi ricordo Pacman”, “mi ricordo i mondiali dell’82”, ecc. Quasi tutte le persone che appartengono alla medesima generazione condividono ricordi di questo genere. Ma ogni individuo conserva una rappresentazione personale e particolare degli eventi cui questi ricordi si riferiscono. Si potrebbe dire che esistono molteplici versioni del medesimo ricordo collettivo. Ma rimane inteso che, in realtà, si tratta di ricordi individuali che si riferiscono al medesimo evento e non del medesimo ricordo che appartiene a più individui53.

52 Cfr. J. Brainard, I Remember, Granary books, New York, 2001. In Francia Brainard è stato seguito da G. Perec e molti altri (Raymond Queneau, Jacques Bens, Jacques Jouet, Hervé Le Tellier). Cfr. G. Perec, Je me souviens, Hachette, Paris, 1978. 53 Che cos’è un ricordo collettivo? I sociologi che parlano di ricordi collettivi a quali fenomeni si riferiscono? In un saggio dedicato alla memoria collettiva, David Bakhurst cita un libro di Sergej Mareev in cui si trova la descrizione degli ultimi giorni del filosofo Ilyenkov, commentandola in questo modo: «Per quanto il testo presenti il ricordo di un individuo, si tratta nondimeno di un caso di ricordo collettivo, un contributo ad una impresa comune: ricordare Ilyenkov. Un simile scritto autobiografico, per quanto di tono personale, rappresenta una espressione sociale in un mezzo di comunicazione sociale (linguaggio mediato da specifiche procedure narrative) rivolta ad altri e sottoposta al loro esame. Essa fornisce un elemento ad un quadro sostenuto collettivamente e la sua importanza è legata a quel quadro più grande». Due cose si capiscono chiaramente leggendo questo testo. Primo: il ricordo collettivo è in realtà il ricordo di un individuo espresso in una forma sociale e condivisa. Secondo: il ricordo collettivo è un racconto. Se le cose stanno così il ricordo collettivo non è una rimemorazione, perché non implica alcuna immagine e non è l’atto di una memoria collettiva, perché non implica alcun soggetto sociale. Bisogna dunque abbandonare la nozioni ambigua di ricordo collettivo e sostituirla con la nozione di rievocazione, di cui si preciseranno meglio nel quarto saggio le caratteristiche. Cfr. D. Bakhurst, Memoria, identità e psicologia culturale, in G. Bellelli, D. Bakhurst, A. Rosa (a cura di), Tracce. Studi sulla memoria collettiva, cit., pp. 19-32.

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10.I condizionamenti sociali del ricordo Più o meno negli stessi anni in cui Halbwachs in Francia lavora sulla memoria collettiva, Frederic Bartlett elabora una teoria psicologica fondata sul riconoscimento dei condizionamenti sociali del ricordo. La prospettiva da cui i due studiosi muovono è certamente diversa, in particolare perché la formazione del sociologo francese è filosofica, mentre quella dello psicologo inglese è scientifico-sperimentale. Nonostante ciò una certa sintonia tra la psicologia sociale di Bartlett e la sociologia della memoria di Halbwachs appare fin dal primo sguardo. Tra le due posizioni c’è però una differenza essenziale: la teoria di Bartlett è in grado di rendere conto degli aspetti sociali del ricordo evitando la principale aporia legata al concetto di memoria collettiva. Nella sua prospettiva il soggetto che ricorda è influenzato dalla comunità cui appartiene, ma la rimemorazione rimane un atto psichico individuale. In questo modo non è necessario postulare un super-io collettivo che dovrebbe fungere da soggetto della memoria collettiva. È questo che rende la posizione di Bartlett più convincente dal punto di vista fenomenologico. Pertanto, prima di lasciare nuovamente la parola ad Husserl, vorrei evidenziare la differenza tra la posizione di Halbwachs e quella di Bartlett e analizzare la nozione di schema proposta da quest’ultimo. Tale nozione, come si vedrà, ha un ruolo centrale nel tentativo di ripensare in modo fenomenologicamente fondato la memoria collettiva. La critica che Bartlett muove a Les cadres sociaux des la mémoire mette a nudo il punto debole di una certa sociologia della memoria. «Certamente Halbwachs ha ragione insistendo nel parlare in quel modo del ricordo nel gruppo religioso e nella classe sociale, ma bisogna tener presente che anch’egli parla del ricordo nel gruppo e non del gruppo». Il primo è un fenomeno di cui non si può dubitare: «l’organizzazione sociale offre una struttura persistente nella quale l’intero ricordo particolareggiato deve adattarsi, ed essa influenza notevolmente sia il modo che il contenuto dei quest’ultimo ed inoltre aiuta a fornire gli “schemata” che costituiscono la base per quella ricostruzione immaginativa chiamata ricordo»54. Il secondo, invece, è un fenomeno che non esiste. Il ricordo collettivo è un ricordo “nel” gruppo, non un ricordo “del” gruppo. Niente autorizza il passaggio dall’uno all’altro: «parlando in termini rigorosi, una teoria della memoria sociale dovrebbe essere in grado di dimostrare che un gruppo, in quanto u54

F.C. Bartlett, Remembering: a Study in Experimental and Social Psychology, Cambridge University Press, Cambridge, 1961, tr. it. La memoria. Studio di psicologia sperimentale e sociale, Franco Angeli, Milano, 1974, pp. 372-3. Si noti la formulazione prudente di questo passo dove non si dice che gli schemi hanno un’origine completamente sociale, ma che la società “aiuta” a fornire gli schemi che sono alla base del ricordo.

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nità, ricorda effettivamente di per se stesso e non semplicemente offre lo stimolo o le condizioni in cui gli individui ad esso appartenenti ricordano il passato»55. Bisognerebbe cioè poter prendere alla lettera l’espressione “coscienza collettiva”. Ma Bartlett non è disposto a concedere tanto: «In effetti sembra del tutto impossibile scoprire da qualche parte una prova inequivocabile di ricordo di gruppo»56. In Remembering c’è dunque una sostanziale presa di distanze dalle tesi di La mémoire collective. Nonostante ciò Halbwachs e Bartlett sono d’accordo su un punto essenziale: sono entrambi convinti che la memoria sia una facoltà creativa. Anche per Bartlett la memoria è essenzialmente costruzione: è una rielaborazione più che una riproduzione. L’idea del ricordo come “registrazione” fedele di un avvenimento viene ripetutamente contestata nel suo lavoro. Ricordare significa ripetere. Ma ripetere in realtà significa ricreare. Il ricordo, proprio come l’immaginazione, è costruito a partire da quelle strutture essenziali dell’esperienza che egli chiama “schemi”57. Nelle molte migliaia di esempi di ricordo che ho raccolto […] la rievocazione letterale era molto rara. Tranne poche eccezioni […] ciò che si verificava non sembrava assolutamente una rieccitazione di tracce individuali. Prendiamo per esempio in considerazione nei particolari il caso del soggetto che sta ricordando una storia che aveva udito circa cinque anni prima e confrontiamolo con quello in cui il soggetto riceve un certo materiale schematico e costruisce quella che egli definisce una storia nuova. Ho tentato il secondo esperimento ripetutamente e, non solo la forma effettiva e il contenuto dei risultati ma […] gli atteggiamenti dei soggetti in questi due casi erano sorprendentemente simili […]58.

L’immaginazione è una costruzione intuitiva operata a partire da schemi, ma anche il ricordo è una (ri)costruzione intuitiva operata a partire da 55

Ivi, p. 370. Ivi, p. 375. 57 Per spiegare in cosa consista la creatività della memoria Bartlett trova una immagine particolarmente felice. Il ricordo è costruito a partire da un insieme di schemi acquisiti, esattamente come un particolare gesto atletico è costruito a partire da determinati schemi motori. «Nel ricordo avviene come in un colpo di gioco che richieda una certa abilità: possiamo essere convinti di ripetere una serie di avvenimenti appresi molto tempo prima da un manuale o da un insegnante, ma uno studio dei movimenti dimostra che in effetti costruiamo il colpo ex novo, sulla base dell’equilibrio posturale immediatamente precedente e delle necessità momentanee del gioco, ed ogni volta il risultato ha delle caratteristiche sue proprie». Ivi, p. 268. 58 Ibidem. Bisogna notare qui una sottile astuzia della dimostrazione di Bartlett, che paragona il ricordo del racconto di un evento (e non il ricordo diretto di un evento) all’immaginazione. Ma il ricordo di un racconto di un evento è il ricordo di una immaginazione, non il ricordo di una percezione! Si vede qui come sia facile orientare gli esperimenti scientifici in modo da sostenere una convinzione filosofica, in questo caso l’equivalenza tra memoria e immaginazione. 56

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schemi: questa è la ragione per cui si somigliano così tanto. Anche in Husserl abbiamo trovato considerazioni simili a proposito del rapporto tra fantasia e rimemorazione. La grande differenza è che in Bartlett queste considerazioni aprono la strada al riconoscimento dei condizionamenti sociali della memoria: infatti gli schemi che sono alla base delle rappresentazioni intuitive dell’immaginazione e del ricordo sono intrinsecamente sociali. Sono condivisi e condivisibili.

11.La memoria e gli schemi sociali Il concetto di schema è la chiave di volta della teoria della memoria di Bartlett. È il ripensamento di questa antica e misteriosa nozione filosofica che permette di impostare la questione dei rapporti tra memoria e società senza rinnegare le evidenze fenomenologiche. Per Bartlett già la percezione è un processo di schematizzazione. Percepire significa associare il dato presente, la sensazione, ad uno schema preesistente59. Lo schema è ciò su cui si fondano tutti i fenomeni di integrazione tipici dell’esperienza percettiva. È ciò che rende possibile che soggetti diversi percepiscano in modo diverso lo stesso identico oggetto60: se, infatti, due individui “interpretano” il medesimo nucleo sensoriale a partire da due schemi diversi, l’esperienza percettiva che vivono non sarà la medesima. Ma quello che è importante notare è la relazione che lega gli schemi al passato. Lo schema è un derivato dell’esperienza precedente del soggetto. In questo senso si potrebbe dire che è già una sorta di memoria: «la determinazione attraverso gli “schemata” è il più fondamentale tra tutti i modi in cui possiamo venire influenzati dalle reazioni e dalle esperienze che si sono verificate nel passato»61. Se lo schema è una forma di conservazione dell’esperienza passata, non stupisce che il ricordo sia essenzialmente schematico. L’esperienza percettiva avviene nell’individuazione di schemi di riferimento e particolari rilevanti62. La memoria segue la medesima legge: ripropone schemi generali e particolari salienti. Anzi, nell’esperienza 59

«[…] il modello visivo si «armonizza» immediatamente con qualche schema o struttura preesistente nella vita mentale del soggetto […]. Con oggetti un po’ più complessi vi è spesso una ricerca di materiale analogico». Ivi, p. 75. 60 «La persona cauta e quella avventata, lo studente e l’uomo d’affari, il medesimo soggetto dubbioso o invece sicuro non percepiscono mai allo stesso modo, anche se, per ciò che riguarda le caratteristiche esterne, si trovano di fronte esattamente alla medesima situazione». Ivi, p. 76. 61 Ivi, p. 265. 62 Si percepisce sempre un che di unitario e all’interno di questa unità si notano dei particolari. Cfr. ivi, p. 75.

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memorativa la schematicità è ancora più accentuata. Infatti con il passare del tempo, affievolendosi l’efficacia intuitiva della sensazione originaria, lo schema diventa sempre più generale e il particolare sempre più stereotipato. La pertinenza di queste affermazioni non può essere messa in dubbio. Ma all’evidenza fenomenologica lo psicologo deve aggiungere una documentazione sperimentale. Il più celebre e il più importante degli esperimenti discussi in Remembering è quello della “Guerra dei fantasmi”. Ai soggetti viene presentato un racconto popolare che appartiene ad una tradizione estranea63. Si tratta di una storia scelta ad hoc per le sue caratteristiche peculiari di drammaticità, estraneità, lacunosità – caratteristiche della massima rilevanza per uno studio sulla memoria. Il metodo di studio di Bartlett, il cosiddetto “metodo delle riproduzioni ripetute”, consiste nel chiedere ai soggetti – più volte e a distanza di tempo sempre crescente – di riprodurre il racconto così come riescono a ricordarlo. Osservando la differenza tra il testo originale e le successive riproduzioni, si constata una tendenza piuttosto clamorosa dei soggetti coinvolti a distorcere il racconto, adattandolo a ciò sembra loro sensato, plausibile, familiare. «Per esempio nella “Guerra dei fantasmi”, il “qualcosa di nero” era spesso interpretato come la materializzazione del respiro dell’uomo morente»64. Si constata cioè una tendenza a riportare il dato all’interno di schemi noti. «Nessuno soggetto si mantenne fedele all’originale per più di una ripetizione riguardo ai fantasmi. Tutti i soggetti introdussero in un punto o nell’altro della storia il termine “barche”

63 «Una sera, due giovani di Egulac si recarono al fiume a cacciare foche, e mentre si trovavano là, scese la nebbia e l’aria diventò stagnante. Udirono allora grida di guerra, e pensarono: “Forse si tratta di una spedizione di guerra”. Scapparono verso la spiaggia e si nascosero dietro ad un tronco. C’erano delle canoe che risalivano il fiume, ed essi potevano udire il rumore delle pagaie, e videro che una canoa si dirigeva verso di loro. Dentro c’erano cinque uomini e uno di essi disse: “Che cosa ne dite? Vogliamo portarvi con noi. Stiamo risalendo il fiume per andare a far guerra alla gente”. Uno dei due giovani disse: “Ma non possiedo frecce”. “Le frecce sono nella canoa”, risposero. “Io non verrò. Potrei essere ucciso. I miei parenti non sanno dove sono andato. Ma tu”, disse, rivolgendosi all’altro, “potresti andare con loro”. Così uno dei due giovani andò, mentre l’altro tornò a casa. E i guerrieri continuarono su per il fiume, fino ad una città dall’altro lato del Kalama. La gente scese vicino all’acqua, incominciarono a combattere, e molti vennero uccisi. Ma ben presto il giovane sentì dire ad uno dei guerrieri: “Presto, torniamo a casa, l’Indiano è stato colpito”. Allora egli pensò: “Oh, sono fantasmi”. Non si sentiva dolore, ma essi dicevano che era stato colpito. Così le canoe ritornarono ad Egulac, ed il giovane alla sua casa sulla spiaggia, ed accese un fuoco. E raccontò a tutti: “Pensate, ho accompagnato i fantasmi, e siamo andati a combattere. Molti dei nostri compagni sono stati uccisi, come pure molti di coloro che ci attaccarono. Essi dicevano che ero stato colpito, ma io non sentii affatto dolore”. Raccontò tutto questo e poi si calmò. Quando il sole sorse, cadde a terra. Qualcosa di nero gli venne fuori dalla sua bocca. Il suo volto si contrasse. La gente balzò in piedi e gridò. Era morto». Ivi, p. 114. 64 Ivi, p. 137.

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al posto di “canoe”; dopo questa trasformazione “pagaiando” veniva di regola trasformato in “remando”»65. Se ne deve concludere, per Bartlett, che la memoria non è affatto una registrazione più o meno efficace dei dati della percezione. È una continua rielaborazione, un processo di “assimilazione” che tende a razionalizzare il dato riconducendolo ad uno schema familiare. In questo senso la «costante razionalizzazione effettuata dal ricordo non è che un aspetto particolare dell’azione di quel carattere costruttivo su cui la memoria in gran parte si fonda»66. Si è detto che nella concezione di Bartlett gli schemi sono essenzialmente sociali67. Essere inseriti in una società significa soprattutto condividerne gli schemi di riferimento. Nell’esperimento della “Guerra dei fantasmi” il nesso tra schemi e comunità appare in modo evidente. Infatti, è l’appartenenza ad una determinata tradizione linguistica e concettuale che impone la trasformazione delle pagaie in remi. Allo stesso modo la condivisione di un certo insieme di schemi sociali determina in modo fondamentale la selezioni e le integrazioni operate dalla memoria. Bartlett nota acutamente come tutti i soggetti che erano stati in guerra – l’esperimento è degli anni Venti, poco dopo la Grande Guerra – ricordavano con chiarezza la scusa addotta dall’indiano per non andare a combattere. Quel particolare del racconto non poteva non apparire loro come notevole, non poteva non colpirli. Per la stessa ragione i pastori Swazi, che Bartlett interroga in un altra occasione, ricordano dell’Inghilterra un dettaglio apparentemente insignificante – i poliziotti che dirigono il traffico alzando la mano – tralasciandone molti altri apparentemente notevoli. «Il fatto era che gli Swazi salutano gli amici e i visitatori alzando una mano; si trattava dunque di un gesto familiare, pieno di calda amicizia, in un paese straniero, ed inoltre esso aveva delle conseguenze sorprendenti»68. La memoria è selettiva e trattiene solo i particolari che la impressionano. Ma questa selezione è possibile solo a partire da un insieme di schemi di riferimento. Un particolare può apparire rilevante solo in rapporto ad uno schema di riferimento, solo come variante di una regola. In questo senso si può dire che la selettività della

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Ivi, p. 132. Ivi, p. 272. 67 C’è qui una difficoltà concettuale su cui Bartlett disgraziatamente non si sofferma: lo schema ha origine nell’esperienza passata o ha origine sociale? Entrambe le cose. Lo schema ha origine nell’esperienza passata ma è essenzialmente sociale. Potremmo dire che gli schemi rappresentano il passato che abbiamo in comune. Infatti, pur avendo origine nell’esperienza passata individuale, lo schema è ciò che gli individui appartenenti alla medesima società hanno in comune. 68 Ivi, p. 319. 66

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memoria è socialmente condizionata69. Il ricordo ha una componente sociale perché la società fornisce all’individuo criteri di selezione e schemi di riferimento. Non solo. Nel tempo il ricordo tende a diventare sempre più schematico. Questo significa che l’immagine memorativa tende a perdere progressivamente la sua individualità. La rappresentazione intuitiva si impoverisce e, gradualmente, diviene sempre più visibile, quasi come una sorta di scheletro o di intelaiatura, lo schema sociale che ne costituiva il supporto.

12.Dal ricordo allo schema. La sovrapposizione delle immagini memorative Che cos’è uno schema? È molto difficile rispondere direttamente ad una domanda del genere, una domanda che esigerebbe uno studio a parte. Senza pretendere che si tratti di una definizione adeguata, potremmo dire provvisoriamente che lo schema è il modello di riferimento per una particolare costruzione immaginativa. Lo schema “animale” è costituito da quell’insieme di regole immaginative che ci permettono di riconoscere la somiglianza tra un leone e una formica e la loro differenza rispetto ad una quercia. Ora, che rapporto c’è tra schema e memoria? A questa domanda bisogna invece tentare di rispondere, dal momento che riguarda esplicitamente il tema che ci interessa. A mio avviso si tratta di una relazione a doppio senso: gli schemi hanno origine dall’esperienza passata e i ricordi sono costruiti a partire dagli schemi70. Analizzando attentamente alcuni particolari tipi di rimemorazione, si può arrivare a scorgere il punto di passaggio dal ricordo allo schema. Consideriamo un esempio. Io posso dire: “mi ricordo l’aula XII della Facoltà di 69 La selettività è determinata dall’interesse. Bartlett lo sa bene e perciò si preoccupa di mostrare come l’interesse sia legato alla società. Ci sono interessi individuali e interessi collettivi. «Gli esperimenti hanno dimostrato che in tutte le situazioni presentate allo scopo di essere percepite o ricordate, certi elementi dominanti emergono dal resto. I fattori che determinano tale predominio hanno tutti la natura di tendenze attive: alcuni di essi sono individuali, come quelli derivati dal temperamento, dal carattere e da determinati interessi, mentre altri sono ampiamente condivisi, come gli interessi, i sentimenti e le convenzioni e gli ideali determinati dal gruppo di appartenenza» (ivi, p. 301). «[…] gli interessi stessi hanno molto spesso una origine sociale e, similmente anche il temperamento può essere considerato sia dal punto di vista dell’individuo che da quello del gruppo» (ivi, p. 329). «In senso molto lato, è certo che il contenuto del ricordo è principalmente frutto degli interessi, mentre il modo dipende soprattutto dal temperamento e dal carattere». Ivi, p. 329. 70 Questa idea è coerente con ciò che ho sostenuto nel §14 del secondo saggio: il potere creativo della fantasia, per quanto immenso, è ancorato alla memoria. La fantasia costruisce le sue immagini a partire da schemi intuitivi che derivano dalla “sedimentazione” dell’esperienza precedente.

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Filosofia”. Questa immagine è un vero ricordo? Oppure è uno schema? Osservando le rappresentazioni che mi appaiono quando cerco di ricordare l’aula XII, mi accorgo che in realtà si tratta di immagini che appartengono a rimemorazioni differenti. La rivedo nei giorni del convegno “Memoria Immaginazione e Tecnica”, la rivedo il giorno della prima lezione di Pietro Montani, la rivedo durante la proiezione di un film di Vertov... ecc. Il ricordo dell’aula XII contiene in effetti al suo interno una molteplicità di ricordi più elementari. Molti altri ricordi hanno questa natura. Se cerco di ricordare un amico lontano, accade qualcosa di molto simile: mi appaiono molte immagini appartenenti a diversi flussi rimemorativi. Si tratta di un particolare genere di rimemorazioni che si potrebbero definire “ricordi compositi”. Ciò che è essenziale notare è che la coscienza non è sempre in grado di risalire ai ricordi elementari che costituiscono il fondamento di questi ricordi compositi. Per esempio, io ricordo con certezza che sulla parete sinistra dell’aula XII ci sono degli attaccapanni in legno e, molto vagamente, mi sembra di rivedere il gesto che ho fatto tante volte di appendere la giacca su quegli attaccapanni. Ma, nonostante l’apparente evidenza di questa immagine, non sono affatto in grado di dire a quale catena rimemorativa sia stata estratta. Non saprei dire con precisione se si tratta della presentificazione di qualcosa che so o di un dettaglio che ricordo effettivamente. È importante anche notare che questo ricordo composito mi può servire come scenario per la presentificazione di un avvenimento futuro. Io so che in aula XII si svolgerà tra non molto un nuovo importante convegno. Di fatto per presentificarmi la scena utilizzo come base il ricordo composito dell’aula XII. Ma allora che differenza c’è tra uno schema e un ricordo composito? Se lo schema è il modello di riferimento per una particolare costruzione fantastica e se il ricordo composito può di fatto essere utilizzato come la base intuitiva per la presentificazione di un avvenimento futuro, allora la distanza tra i due non può essere così grande. Consideriamo ancora più approfonditamente l’esempio in questione. Rivedo l’aula XII. Ma non riesco affatto ricordare come è fatto il pavimento. Il pavimento non riesco a vederlo. Di che colore è? Di che materiale è? Ci sono stato così tante volte, eppure non riesco in nessun modo a ritrovare l’immagine di questo dettaglio! Ricordo chiaramente che una volta ho ascoltato una lezione seduto per terra e posso rivedere confusamente la mia posizione. Ma non il pavimento. Probabilmente si tratta di un pavimento scuro, ma non ne sono affatto certo. Di una cosa però sono assolutamente sicuro: il pavimento c’era. Si dirà che si tratta di un ovvietà. Ma è un ovvietà sconvolgente. Rivedo i banchi (color rovere chiaro), rivedo la cattedra (più scura), rivedo gli alunni in piedi e tutte queste immagini non sono sospese nel nulla, sono saldamente ancorate ad un pavimento che non posso 138

in nessun modo vedere. Come posso essere così sicuro che il pavimento c’era, se non lo vedo affatto nel ricordo? Si dirà che si tratta di una ridicola deduzione. In parte è vero. Ma in effetti non è un atto di pensiero ciò che mi assicura dell’esistenza del pavimento dell’aula XII. Io “so” che un aula, qualsiasi aula, deve avere un pavimento. Lo so perché possiedo uno schema del concetto di aula e più in generale del concetto di edificio. Da dove deriva questo schema? Da tutta la mia esperienza passata. Quanti edifici e quanti aule ho visto nella mia vita? Tutti con il medesimo rapporto tra pavimento, pareti, sedie ecc. Si intuisce allora il legame vitale che unisce memoria e schema. Io non ricordo (esplicitamente) tutti gli edifici e le aule che ho visto nella mia vita. Ma sono questi “non-ricordi” che hanno dato origine allo schema del concetto di aula e allo schema del concetto di edificio. Lo schema è una sorta di residuo di questi ricordi non espliciti71. E. Casey ha chiaramente individuato il fenomeno dei ricordi compositi, anche se non ne ha evidenziato il nesso con la problematica dello schema. Già descrivendo il caso più elementare di rimemorazione – un ricordo di infanzia, nello specifico una gita allo Yosemite National Park – egli nota come alcuni degli elementi che appartengono alla sua ripresentificazione provengano in realtà da altre esperienze memorative72. In effetti trovare una rimemorazione assolutamente “pura”, priva di qualsiasi integrazione schematica è praticamente impossibile. Come si è visto il continuo intervento della fantasia all’interno del processo rimemorativo implica che molti dettagli del ricordo rimangano indeterminati, cioè schematici. Lo stesso Husserl, ha riconosciuto la possibilità della mescolanza di fantasia e ricordo e anche della sovrapposizione di diverse immagini memorative. Proseguendo nelle sue analisi, Casey descrive un caso interessante di quella che egli chiama “place-memory”. Tornando dopo tanto tempo in un certo luogo – nel suo caso la Sterling Library – può capitare che una serie di immagini memorative comincino a riaffiorare. Si tratta di frammenti di ricordo legati ad avvenimenti diversi che si sono svolti nel luogo in questione. Al di là delle discutibili considerazioni sul concetto di memorialuogo che Casey vuole trarre dall’analisi di questo esempio73, è interessante la proposta di denominare queste immagini memorative, che hanno la carat71 Non è dai ricordi veri e propri, dalle rimemorazioni, che hanno origine gli schemi, ma dalla ritenzione vuota del senso, cioè dal ricordo nella sua forma potenziale. 72 «Notice that in each of this cases the probable range of indefiniteness is established by recurs to material not contained in the memory itself – most typically, to other memories from the same general period of my life – and to simple inductive and deductive modes of inference [...]». E. Casey, Remembering. A Phenomenological Study, cit., p. 22. 73 Il concetto di “place-memory”, cui Casey tiene così tanto, è a mio avviso una delle idee più confuse del suo libro.

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teristica di sovrapporsi caoticamente l’una all’altra, “semi-memories”74. In effetti i ricordi di questo genere sono qualcosa di intermedio tra una rappresentazione schematica e una vera e propria rimemorazione. Anche Halbwachs ha descritto lucidamente il fenomeno in questione e – ovviamente – ne ha tratto un argomento in favore del primato della memoria collettiva75. In effetti, se si tiene presente la natura sociale degli schemi, si giunge ad una conclusione importante, che non si trova né in Casey, né in Halbwachs, né in Bartlett, ma che forse rende ragione delle loro osservazioni più penetranti. Sovrapponendosi, i ricordi danno origine a dei ricordi compositi e questi a loro volta sono all’origine degli schemi. Si passa così dalla rimemorazione allo schema in un crescendo di generalizzazione dell’immagine. In questo senso si può dire che i veri ricordi collettivi sono gli schemi. Forse è questo l’unico senso in cui l’espressione “ricordo collettivo” è legittima. Gli schemi sono l’unica parte intuitiva della memoria che abbiamo quasi in comune76.

13.Schemi e tipi percettivi in rapporto alla memoria collettiva Il concetto di schema che abbiamo discusso a partire dal lavoro di Bartlett e che si è rivelato così importante per la descrizione fenomenologica della memoria, ha un corrispettivo nelle analisi fenomenologiche di Husserl? In Esperienza e giudizio, nell’ambito di una analisi della percezione e dei suoi rapporti con l’esperienza passata, viene proposta una nozione che a mio avviso corrisponde in modo significativo alla nozione di schema di74 «A curious and yet characteristic feature of this experience is the arousal of a number of memories that were fused with one another in an amorphous mass. Since they did not present themselves as separate memories, it is convenient to think of them as “semimemories”». Ivi, p. 34. 75 «É così che, essendo stato successivamente in diverse scuole, pensionati e licei, ed essendo entrato ogni anno in una nuova classe, io ho un ricordo generale di tutte queste entrate, che comprende il giorno particolare in cui entrai per la prima volta al liceo. Non posso dire allora di ricordarmi di quell’entrata in particolare, ma non posso dire nemmeno di non ricordarmene». M. Halbwachs, La memoria collettiva, cit., p. 146. 76 In questa conclusione il “quasi” non deve essere preso troppo alla leggera. In realtà anche la condivisione degli schemi è molto problematica. Lo schema del concetto di “cavallo” è davvero uguale da soggetto a soggetto? Certamente no. Un biologo o un allevatore non hanno lo stesso schema del concetto di cavallo che ho io, perché hanno una esperienza diversa dalla mia. In effetti un allevatore non appartiene alla stessa società cui appartengo io: la mia è una comunità cittadina, borghese ecc. la sua è la comunità degli allevatori. Ma anche all’interno della “comunità degli allevatori”, se così si può dire, si daranno delle diversità di esperienza e, procedendo di questo passo nella frammentazione dell’esperienza, il nesso tra schema e società rischia di perdere ogni significato.

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scussa fin qui. Si tratta della nozione di “tipo” (Typus) percettivo77. L’idea di Husserl, che devo estrapolare dal suo contesto e a cui posso soltanto brevemente accennare, è che il susseguirsi delle percezioni contribuisca a formare una “tipica” della percezione che permette alla coscienza di anticipare nelle linee generali il contenuto delle percezioni a venire. Quando vedo un cane che non ho mai incontrato prima, anche se non vedo i denti o la coda, posso immaginare con certezza che, se il cane si volterà dall’altra parte, o se aprirà la bocca, io vedrò un certo tipo di dentatura e un certo tipo di coda78. La possibilità di questa anticipazione percettiva è evidentemente legata alla mia esperienza precedente. Se non avessi mai visto in vita mia nemmeno un cane, non saprei rappresentarmi la sua dentatura in anticipo. La percezione effettiva può poi confermare e confutare, precisare e determinare lo schema percettivo anticipato. La coda può essere mozza o di un colore bizzarro e finché non la vedo non lo posso sapere. Ciò non toglie che ogni processo percettivo implichi una complessa dinamica di rapporto tra il tipo percettivo generale dell’oggetto che sto vedendo e l’oggetto particolare che ho di fronte. Mettendo a confronto le analisi husserliane del concetto di tipo percettivo e le considerazioni sul rapporto tra ricordo e schema che abbiamo sviluppato nei paragrafi precedenti ci accorgiamo che si completano a vicenda. Gli schemi, o tipi percettivi, sono il modello di costruzione di una particolare rappresentazione fantastica. Si tratta di rappresentazioni intuitive generali e indeterminate che hanno la loro origine nell’esperienza percettiva precedente del soggetto. Non sono dunque dei ricordi veri e propri. Non tanto perché sono indeterminati dal punto di vista intuitivo (abbiamo visto che la maggior parte delle rimemorazioni è ugualmente indeterminata), quanto piuttosto perché non hanno una collocazione temporale determinata, né un riferimento soggettivo esplicito. Tuttavia, pur non essendo dei ricordi veri e propri, hanno un ruolo essenziale nella costruzione dei ricordi. Una rimemorazione è infatti una fantasia tetica. Ma la costruzione dell’immagine memorativa di una rimemorazione, come ogni costruzione fantastica, è operata a partire da schemi e tipi percettivi. È per questo che le rimemorazioni nel tempo tendono ad assomigliare sempre di più agli schemi generali dell’esperienza, come rileva Bartlett. Il concetto di schema ci consente anche di comprendere più fondo in cosa consista la memoria semantica di cui ci siamo occupati prendendo le mosse dalla psicologia sperimentale. Se si mettono a confronto le considerazioni che abbiamo svolto seguendo Tulving e quelle che abbiamo svolto a 77 78

E. Husserl, Esperienza e giudizio, cit., p. 33 e p. 110. Ivi, p. 305.

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partire dal lavoro di Bartlett, ci si rende conto che gli schemi hanno esattamente le stesse caratteristiche della memoria semantica: a) uno schema non è un ricordo, ma serve a costruire i ricordi; allo stesso modo la memoria semantica è distinta dal ricordo episodico, ma lo condiziona; b) gli schemi derivano dall’esperienza precedente, ma non vi si riferiscono in modo esplicito; allo stesso modo le verità della memoria semantica sono state apprese nel passato, ma sono atemporali. C’è però una differenza essenziale: gli schemi sono intuitivi, mentre le “conoscenze” che costituiscono il patrimonio della memoria semantica sembrerebbero avere la forma di significati vuoti. Se riguardiamo la lista di esempi proposti da Tulving per distinguere memoria semantica e ricordo episodico ci accorgiamo che tutti i casi di memoria semantica sono costituiti da proposizioni categoriali del tipo “la formula del sale è NaCl”, “le estati a Katmandu sono piuttosto calde”, ecc. Io penso, tuttavia, che il concetto di memoria semantica debba essere inteso in modo più ampio. La memoria semantica non consiste solo di un insieme di conoscenze categoriali, ma anche di un insieme di schemi. A questo proposito vorrei proporre un ulteriore esempio, che mostra in modo efficace come la memoria semantica possa condizionare il ricordo episodico proprio attraverso la mediazione degli schemi intuitivi. Una volta, mentre giocavo una partita a scacchi con un amico accade un imprevisto. Per via di un gesto maldestro la tavola su cui eravamo appoggiati si ribaltò mandando per aria la scacchiera con tutti i pezzi. Insieme con il mio amico cercammo dunque di ricordare la posizione di tutti i pezzi sulla scacchiera per poter ricominciare a giocare. Ma il mio amico (che stava perdendo) non era convinto della posizione di alcuni pezzi meno importanti. Cominciammo a discutere ed io cercai di spiegare che ero assolutamente sicuro di ricordare esattamente la posizione di tutti i pezzi sulla scacchiera. Poiché egli insisteva nel suo dubbio, per dimostrargli che avevo ragione misi i pezzi nella posizione di partenza e, mossa dopo mossa, ricostruii esattamente tutto lo svolgimento della partita fino al punto in cui eravamo arrivati. Il mio amico si arrese di fronte all’evidenza. Ma soprattutto rimase letteralmente stupito delle mie “incredibili” capacità di memoria. La partita non era affatto nelle sue fasi iniziali. Come era possibile che ricordassi esattamente tutte le mosse che avevamo fatto? La verità – che mi guardai bene dal confessare al mio ammiratore – è che la straordinaria accuratezza del mio ricordo non aveva proprio niente di eccezionale. Il fatto è che la partita che stavamo giocando era una variante della cosiddetta “difesa due cavalli” che io conoscevo molto bene. Una situazione piuttosto comune e piuttosto elementare, di cui avevo studiato a fondo tutti i possibili sviluppi. Per ricostruire tutto lo svolgimento della partita che avevamo giocato, mi era sufficiente ricordare le uniche due mosse che il mio avversario 142

aveva giocato, che si discostavamo dallo sviluppo “corretto” di quella variante, cioè dallo schema che avevo in mente. La ricostruzione dell’esatto svolgimento di una partita a scacchi è senza dubbio un esempio di ricordo episodico. Si tratta di ricordare una sequenza piuttosto complessa di eventi nel loro ordine e nei loro rapporti. Ma la memoria semantica, condiziona in modo essenziale la capacità che un soggetto ha di ricordare un episodio. Nell’esempio in questione il possesso di un certo insieme di schemi di gioco dava alla mia memoria un vantaggio significativo. Il mio compagno ricordava meno di me solo perché “sapeva” meno di me. Se ad assistere alla partita ci cosse stato anche un terzo testimone, un individuo di buona memoria, ma che non conoscesse nemmeno le regole di gioco degli scacchi, è molto probabile che non avrebbe potuto ricordare quasi niente dello svolgimento della partita79. Accade esattamente lo stesso nel caso di qualsiasi ricordo episodico. Se devo ricordare la fisionomia di un volto, la mia rimemorazione sarà essenzialmente legata ad uno schema visivo che è il frutto di una lunga serie di esperienze simili. Se devo ricordare una sequenza di suoni, la mia rimemorazione sarà condizionata dagli schemi sonori di cui sono in possesso, ecc. A questo punto diventa anche più chiaro in che modo la nozione di schema contribuisca a chiarire la problematica della memoria collettiva. Gli schemi, per via della loro generalità sono tendenzialmente condivisibili. La percezione effettiva di una stanza o di un aula, per riprendere l’esempio del paragrafo precedente, non sarà mai uguale in due soggetti diversi. Ma lo schema intuitivo generale che la coscienza si rappresenta in anticipo mentre percepisce questa singola stanza, è qualcosa di simile ad un parallelepipedo regolare. È qualcosa di simile ad una figura ideale. Per questo possiamo supporre che sia condivisibile e condiviso, almeno quanto sono condivisibili e condivisi i significati delle parole. Se le cose stanno così si chiarisce in cosa consista in realtà la memoria collettiva. La memoria collettiva è la memoria semantica. Ma la memoria semantica non consiste solo di un insieme di significati concettuali. In ogni momento la coscienza dispone di un sistema complesso di significati categoriali che trovano espressione nel linguaggio, ma anche di un sistema complesso di “regole dell’immaginazione” che sono alla base di tutte le rappresentazioni intuitive. Questi significati e queste regole immaginative sono condivisi dai membri di una 79 L’esempio è interessante anche perché lo schema della variante della “difesa due cavalli” che io avevo in mente mentre giocavo non consiste in una serie di proposizioni linguistiche. È senza dubbio una conoscenza, risultato di un lungo apprendimento e di molte esperienze precedenti. Ma è una conoscenza che richiede una rappresentazione intuitiva: la “difesa due cavalli”, esattamente come un teorema geometrico, io devo poterla “visualizzare” per comprenderla. È uno schema intuitivo.

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certa collettività. La memoria collettiva è l’insieme dei significati (vuoti) e degli schemi (intuitivi) condivisi da una certa comunità. Di questi significati e di questi schemi non c’è ricordo vero e proprio. Ma nessun ricordo – intuitivo o non intuitivo che sia – può essere pensato come indipendente da questi schemi e da questi significati.

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4. Memoria e linguaggio. La rievocazione

Le analisi del terzo saggio hanno reso evidente la necessità di una considerazione più approfondita dei rapporti tra memoria e linguaggio. Il problema del linguaggio era già implicito nell’interpretazione fenomenologica della nozione di memoria semantica che ho proposto. Basta guardare la definizione che ne dà Tulving per rendersene conto: «La memoria semantica è la memoria necessaria per l’uso del linguaggio. È un thesaurus mentale, l’insieme organizzato di conoscenze che una persona possiede a proposito delle parole e degli altri simboli verbali, a proposito del loro significato e dei loro referenti, a proposito delle loro relazioni e a proposito delle regole, delle formule e degli algoritmi per la manipolazione di questi simboli, concetti e relazioni»1. Anche la critica della nozione di memoria collettiva proposta nella seconda parte del terzo saggio rimandava direttamente alla domanda sul ruolo del linguaggio nei processi mnestici. Non è un caso se in Halbwachs tale domanda è assolutamente centrale. Eppure nelle analisi che ho proposto fino ad ora la domanda sul linguaggio è stata elusa. Questa omissione è legata all’importanza e alla difficoltà di un problema che richiede uno studio a parte. Ma è legata anche alla necessità di analizzare separatamente due questioni che a prima vista sembrano sovrapporsi, ma che in realtà non coincidono. Da una parte c’è il problema di comprendere il rapporto tra memoria collettiva (come insieme sistematico di schemi e significati) e linguaggio, dall’altra c’è il problema del rapporto tra ricordo (come atto soggettivo) e linguaggio. I due problemi non sono completamente indipendenti, ma non si identificano in nessun modo. 1

«Semantic memory is the memory necessary for the use of language. It is a mental thesaurus, organized knowledge a person possess about words and other verbal symbols, their meaning and referents, about relations among them, and about rules, formulas, and algorithms for the manipulation of these symbols, concepts and relations». E. Tulving, Episodic and Semantic Memory, cit., p. 386.

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L’analisi della prima questione si può intendere come una sorta di completamento di ciò che abbiamo detto nel terzo saggio a proposito del rapporto tra ricordo episodico e memoria semantica. Si tratta solo di esplicitare con maggiore chiarezza il nesso che unisce memoria collettiva e linguaggio e di mostrare concretamente, nell’analisi di un esempio, in che modo la memoria-linguaggio condizioni la rimemorazione. Nei primi tre paragrafi di questo studio, prendendo le mosse ancora una volta dal lavoro di Halbwachs, cercherò di chiarire questa questione. L’analisi del secondo problema, invece, è molto più complicata e implica una radicale messa in discussione del concetto husserliano di ricordo come “immagine del passato”. Come si è visto, nella fenomenologia husserliana il ricordo è concepito come la riproduzione di una percezione passata. Da qui deriva il suo statuto ontologico di intuizione, di immagine. Ma questa concezione del ricordo non è ovvia e non è l’unica; se in una prospettiva fenomenologica essa appare come la più naturale, in una prospettiva sociologica le cose non stanno affatto così. Considerando il ricordo non “dall’interno”, dal punto di vista della coscienza vivente, ma “dall’esterno”, dal punto di vista obbiettivo, ci si accorge che esso si documenta quasi sempre in una forma linguisticamente mediata. Che si tratti di rispondere ad una domanda sul proprio passato, di condividere un’esperienza vissuta o di dare una testimonianza, il più delle volte i ricordo si manifesta agli altri attraverso il linguaggio verbale. Bisogna chiedersi dunque se questo nesso non sia essenziale. Che rapporto c’è tra l’immagine del passato e il racconto del passato? Il ricordo è innanzitutto un’immagine, un’intuizione così come pensa Husserl? oppure è un racconto, una descrizione del passato mediata da proposizioni linguistiche? Bisogna forse distinguere due modi diversi di ricordare, uno intuitivo e uno non intuitivo? Anche in un lavoro come questo, di ispirazione esplicitamente husserliana, non si può ignorare il fatto che esiste un’autorevole tradizione di studi, di cui fanno parte pensatori e studiosi di formazione molto diversa, che concepisce la memoria come un racconto, molto più che come un’intuizione. Ci si deve chiedere allora se, al di là del ruolo che il linguaggio gioca nella costruzione dell’immagine del passato, cioè nella rimemorazione come atto intuitivo, il racconto non possa essere considerato una forma di memoria autonoma. L’autore che a mio avviso ha sostenuto questo punto di vista nel modo più radicale (grossomodo negli stessi anni in cui Husserl teneva i corsi sulla sintesi passiva) è Pierre Janet. È dal suo lavoro che prenderò le mosse per affrontare questo nuovo problema. Halbwachs, infatti, sottolinea ripetutamente l’importanza del linguaggio nei processi mnestici, ma continua a concepire il ricordo come un’immagine, sulla scia della tradizione filosofica idealistico-spiritualista che pure vuole respingere. Nono146

stante l’indubbia novità del suo pensiero, la sua indagine rimane confinata all’interno dell’orizzonte aperto dalla prima delle due questioni che abbiamo isolato: in che modo il linguaggio, inteso come memoria, influenza il ricordo, inteso come intuizione del passato? Janet, invece, benché giunga a conclusioni spesso simili a quelle di Halbwachs, ha un punto di partenza che completamente diverso. Per la psicologia della condotta il ricordo intuitivo è uno pseudo fenomeno. Da questo punto di vista l’opposizione tra la teoria husserliana della rimemorazione e la psicologia janetiana è totale e, a prima vista, irrisolvibile. Io sono convinto che la posizione di Janet sia eccessiva e unilaterale. Nello stesso tempo però credo che l’idea di una memoria-racconto non possa essere esclusa da una fenomenologia della memoria che non sia schiacciata dal primato totalitario della percezione. Si tratta perciò di capire a quali condizioni un racconto può essere considerato un atto di ricordo e che rapporto c’è tra questa memoria-racconto e la rimemorazione descritta da Husserl. La nozione di rievocazione, che proporrò a questo proposito e a cui è dedicata tutta la seconda parte del saggio, nasce dal tentativo di recepire dal punto di vista fenomenologico l’idea di un legame forte tra ricordo e racconto.

1. Il linguaggio e i quadri sociali della memoria Nel secondo capitolo di Les cadres sociaux de la mémoire Halbwachs sostiene nel modo più esplicito una tesi radicale: la memoria non è possibile senza linguaggio. In questi tesi è sintetizzata una delle convinzioni più salde del sociologo francese. Nel passaggio da Les cadres sociaux, testo del 1925, a La mémoire collective, testo del 1950, si può constatare una notevole evoluzione di pensiero. Ma l’idea che vi sia un nesso inscindibile tra memoria e linguaggio non viene mai messa in dubbio. Se è vero che non è chiaro che cosa esattamente si debba intendere con la nozione di “quadro sociale” e con la nozione di “memoria collettiva”, è tuttavia certo che la chiave di volta per comprendere entrambe è la domanda circa il ruolo del linguaggio nei processi mnestici2.

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Ho già avuto modo di notare le oscillazioni del concetto di memoria collettiva nel lavoro di Halbwachs. Lo stesso si può dire per il concetto di quadri sociali. Cosa sono i quadri sociali? È certo che i quadri sociali per Halbwachs sono legati al linguaggio, ma non è chiaro se oltre ai quadri linguistici vi siano altri quadri sociali. «Le convenzioni verbali costituiscono dunque il quadro nello stesso tempo più elementare e più stabile della memoria collettiva [...]». M. Halbwachs, Les cadres sociaux de la mémoire, Albin Michel, Paris, 1994, tr. it. I quadri sociali della memoria, Ipermedium, Napoli & Los Angeles, 1997, p. 68.

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La posizione di Halbwachs è molto chiara. Senza le strutture stabili del linguaggio, senza i quadri sociali che esso ci mette a disposizione, i ricordi si ridurrebbero ad un guazzabuglio di impressioni disordinate senza né capo né coda. Le immagini del passato, se non fossero costantemente ordinate e inquadrate grazie alle risorse del linguaggio sarebbero indistinguibili dalle fantasie più assurde e dai sogni. Nel sogno le cose si trasformano incessantemente, le immagini trapassano in modo incontrollato le une nelle altre. Ma tutto ciò può accadere solo perché la coscienza vive una sorta di sospensione del linguaggio e della sua logica. Se questa sospensione si estendesse anche allo stato di veglia, la coscienza non potrebbe più ricordare niente e la memoria si confonderebbe con il delirio. Per dimostrare la sua tesi Halbwachs può portare l’esempio di due momenti particolari dell’esistenza umana, in cui la sospensione del linguaggio non è un ipotesi teorica, ma un fatto reale. Il primo caso è quello dell’infanzia. Perché non conserviamo alcun ricordo dei primi anni di vita? Per quale ragione il bambino, pur essendo già completamente sviluppato dal punto di vista cerebrale, non è in grado di “archiviare” le esperienze vissute nei suoi primi anni? Perché non possiede linguaggio: «se non ci ricordiamo la nostra prima infanzia, è in effetti perché le nostre impressioni non si possono attaccare a nessun supporto, dal momento che non siamo ancora degli esseri sociali»3. Il secondo caso è quello degli afasici. «Se è vero che la perdita o l’alterazione del linguaggio rende loro più difficile evocare e riconoscere i ricordi, noi potremmo sostenere che in generale la memoria dipende dalle parole»4. Ora, ciò che si constata, secondo Halbwachs, è che gli afasici non perdono le immagini del proprio passato, quanto piuttosto la capacità di organizzarle in modo coerente. «Tutte queste osservazioni ci lasciano supporre che ciò che manca all’afasico non sono né i ricordi, né il potere di rimpiazzarli in un quadro, bensì è il quadro stesso». La perdita del linguaggio coincide dunque con la perdita dei quadri sociali e la mancanza dei quadri sociali rende impossibile il ricordo5.

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M. Halbwachs, La memoria collettiva, cit., p. 94 (traduzione modificata). M. Halbwachs, I quadri sociali della memoria, cit., p. 54. È interessante anche il proseguimento di questo passo, perché fa capire in modo molto chiaro il nesso che lega il problema del linguaggio alla questione della memoria collettiva: «Poiché la parola non si concepisce che all’interno della società, noi avremmo così dimostrato, nello stesso tempo, che nella misura in cui cessa di essere in contatto o in comunicazione con gli altri, l’uomo diviene sempre meno capace di ricordare». Ibidem. 5 «Riassumendo, non vi è possibilità di memoria al di fuori dei quadri di cui l’uomo che vive in una società si serve per fissare e ritrovare i ricordi. Questo è il risultato certo al quale ci conducono i nostri studi sul sogno e sull’afasia, cioè sugli stati più caratteristici in cui il campo della memoria si restringe». Ivi, p. 65. 4

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La strategia argomentativa di Halbwachs è chiara e anche relativamente efficace. Ma fino a questo punto la sua tesi è dimostrata solo in negativo. Sogno, infanzia e afasia sono tre modi di perdere contatto con il linguaggio. Ma è possibile mostrare in positivo che è il linguaggio che rende possibile il ricordo? Si può mostrare con esempi altrettanto persuasivi che il possesso di un linguaggio più evoluto implica un potenziamento della capacità di rimemorazione? C’è un testo che a mio avviso è anche più interessante di La mémoire collective e di Les cadres sociaux de la mémoire e che li precede di diversi anni, dove Halbwachs si cimenta proprio in questo tentativo. Si tratta di un breve saggio del ’39 dedicato alla memoria dei musicisti6.

2. Una peculiarità della memoria sonora. La memoria e il linguaggio La memoria sonora ha una peculiarità che la distingue dalla memoria visiva, olfattiva, gustativa e tattile. Esiste uno specifico linguaggio, e di conseguenza un particolare sistema di notazione a cui può essere affidata. Consideriamo un esempio. Io posso riprodurre la percezione “rosso”, ricordandomi una sfera rossa vista di recente. Analogamente posso riprodurre – fino ad un certo punto7 – la percezione “aspro”, ricordando il gusto di un certo tipo di mele. Per queste due esperienze intuitive, come per quasi tutte quelle analoghe, dispongo di un nome preciso: “rosso”, “aspro” ecc. Esiste cioè un linguaggio a cui è possibile consegnare una “traduzione” dell’esperienza vissuta. Anche la memoria sonora può essere affidata al linguaggio verbale: posso riprodurre la percezione “scoppio” o la percezione “fischio” e dispongo di nomi sufficientemente precisi per descrivere queste esperienze e tutte le altre analoghe. Tuttavia esiste un particolare insieme di fenomeni sonori, i fenomeni musicali, per i quali l’umanità ha elaborato un linguaggio particolare e uno specifico sistema di scrittura. Nella sfera dei fenomeni visivi, olfattivi o tattili non si dà niente di paragonabile al sistema di notazione musicale. Così, mentre è di fatto impossibile rintracciare una comunità umana che non possieda un linguaggio verbale, al contrario la comunità degli uomini che padroneggiano il linguaggio musicale è tutto sommato

6 M. Halbwachs, La mémoire collective chez les musiciens, “Revue philosophique”, 127, marzo-aprile 1939, pp. 135-165, tr. it. La memoria collettiva dei musicisti, in M. Halbwachs, La memoria collettiva, cit., pp. 47-77. 7 Bisogna riflettere approfonditamente sul fatto che il ricordo di un gusto non sembra mai avere la medesima pregnanza intuitiva del ricordo di un colore. E bisogna domandarsi quale responsabilità abbia il linguaggio nell’esperienza di questa differenza.

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piuttosto ristretta8. È possibile dunque domandarsi: che differenza c’è tra la memoria sonora dei musicisti e la memoria sonora dei “profani”? Il ruolo del linguaggio non sembrerebbe a prima vista così decisivo. La maggior parte delle persone, pur non padroneggiando il linguaggio musicale, sembra perfettamente in grado di riconoscere – e quindi di ricordare – le musiche più diverse. In realtà la capacità della coscienza di discriminare i suoni non è così ovvia. Certo, quando nel mio ufficio alzo la testa per ascoltare un momento i rumori dell’esterno o dell’interno della casa, posso dire: ecco, questo è il rumore di una pala per il carbone nel corridoio, quest’altro il passo di un cavallo per strada, questo è il grido di un bambino, eccetera. Ma, come si vede, non è attorno ad una rappresentazione tipicamente uditiva che di solito si raggruppano i suoni, i rumori di una stessa categoria: quando voglio riconoscere questi suoni, penso agli oggetti o agli esseri che, per quanto ne so, ne riproducono di analoghi, mi riporto cioè a delle nozioni che non sono essenzialmente di ordine sonoro9.

La maggior parte delle volte associamo i suoni alle cause che li producono: diciamo per esempio “ho sentito un rumore metallico” e pensiamo che la causa potrebbe essere una pentola o qualcosa di simile. È soprattutto grazie a queste “associazioni”, grazie a questi “montaggi”, che possiamo riconoscere e classificare i suoni che udiamo nella nostra esperienza quotidiana. Ma cosa accade nel caso dei suoni musicali? Ascoltiamo una melodia. Se il motivo è particolarmente semplice e “orecchiabile” – come accade per la maggior parte della musica leggera – è probabile che lo ricorderemo facilmente. Se invece si tratta dell’ouverture di una complessa opera lirica è probabile che ne ricorderemo ben poco10. Se però padroneggiamo il lin-

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«Il ricordo di una parola si distingue dal ricordo di un suono qualunque, naturale o musicale, per il fatto che al primo corrisponde sempre un modello o uno schema esterno, fissato sia nelle abitudini fonetiche del gruppo (cioè su un supporto organico), sia in una forma stampata (cioè su di una superficie materiale), mentre la maggior parte degli uomini, quando ode suoni che non sono parole, non è quasi in grado di confrontarli con modelli puramente uditivi, perché questi gli mancano». M. Halbwachs, La memoria collettiva dei musicisti, cit., p. 47. Si noti qui l’uso della parola “schema”. 9 Ivi, p. 47. 10 «Veniamo ai suoni musicali. Se per fissarli nella nostra mente e ricordarceli dovessimo basarci solo sull’ascolto, la maggior parte delle note e dei suoni musicali che colpiscono le nostre orecchie ci sfuggirebbero molto presto. Berlioz ha raccontato nelle sue memorie che una notte aveva composto mentalmente una sinfonia che gli sembrava moto bella. Stava andando ad annotarla su un foglio, quando gli venne in mente che, per farla eseguire, avrebbe dovuto perderci troppo tempo e troppo denaro, così decise di rinunciare e non scrisse più nulla. L’indomani mattina, non gli restava nessun ricordo di quello che poche ore prima aveva in

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guaggio musicale, se siamo in grado di riconoscere i suoni, di “tradurli” in note, quasi come se li scrivessimo sotto dettatura, allora la nostra capacità di ricordare la melodia cambia radicalmente. È molto noto l’aneddoto sulla memoria prodigiosa di Mozart, che fu capace di ricordare e riscrivere esattamente il Miserere di Allegri. Ma qualsiasi musicista, anche senza essere Mozart, è in grado di ricordare una melodia udita una volta sola più facilmente e più accuratamente di un “profano”. E non c’è nessun dubbio sulla ragione di questa superiorità: possedere un linguaggio significa possedere uno “strumento” mnestico potentissimo.

3. Ricordare, riconoscere, riprodurre C’è un’obbiezione di fondo che si può contrapporre alla tesi centrale dell’articolo di Halbwachs: anche chi non conosce il linguaggio della musica è in grado di ricordare una melodia o parti di una melodia. Si dirà allora che è ben vero che la memoria si appoggia al linguaggio, ma solamente come ad uno strumento ausiliario. Halbwachs però non è disposto ad accettare questo ridimensionamento della questione. Rispondendo a questa obiezione egli intraprende una strada che non percorre fino in fondo e che lo porta quasi ad una intuizione decisiva. Una persona che non possiede il linguaggio musicale come fa a ricordare una melodia? Ne ricorda solo i motivi più orecchiabili cioè quelli che può paragonare a melodie che ha già sentito, o ad esperienze sonore elementari. Ricorda ciò che può identificare, cioè ricondurre ad uno schema noto. È così che di un opera di Wagner – per esempio – ricordiamo solo “La cavalcata delle Valchirie”11. Ma allora che cosa significa esattamente ricordare una melodia? Quand’è che possiamo dire di ricordare una melodia? Halbwachs distingue, molto giustamente, due esperienze diverse. Un conto è essere in grado di riconoscere una melodia già udita, un conto è essere in grado di ricordarla effettivamente. Di fatto possiamo dire di ricordare veramente una melodia solo se siamo in grado di riprodurla, canticchiandola o suonandola con uno strumento. La capacità di riproduzione è qui l’essenziale. Un musicista può imparare a memoria un pezzo da eseguire. In questo caso diciamo che è in grado di “ricordare” un intera sinfonia. Ma in realtà è in grado ricordarla, perché è in grado di eseguirla. Allo stesso modo un “profano” può ricordare una melodia più semplice: è in grado di ricordarla perché è in grado di canmente e sentiva tanto nettamente dentro di sé. A maggior ragione è così per chi non ha imparato né a leggere le note, né a suonare. Se costui esce da un concerto dove ha sentito suonare un opera per la prima volta, nella sua memoria non resta quasi nulla». Ivi, pp. 48-49. 11 Ivi, p. 62.

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ticchiarla. Ricordare significa essere in grado di riprodurre. Ma che cos’è che rende possibile la riproduzione di un’intuizione? Halbwachs, seguendo il suo antico maestro Bergson, è convinto che la capacità di riproduzione sia legata alla acquisizione di un determinato “schema motorio”. Sarebbe proprio questo schema motorio a rendere possibile tanto la riproduzione quanto il riconoscimento12. Ma, al di là dei problemi sollevati dalla nozione bergsoniana di schema motorio, ciò che il testo di Halbwachs lascia intravedere è il nesso tra riproducibilità, riconoscimento e linguaggio. Di una musica udita possiamo riprodurre la melodia. Canticchiandola sotto voce possiamo riprodurne il ritmo e le note. Non possiamo riprodurre esattamente i suoni che abbiamo udito. O almeno non possiamo se non abbiamo disposizione lo strumento musicale adeguato e se non siamo musicisti. Abbiamo sentito il suono di un violino e di un pianoforte e la nostra voce non è in grado di riprodurre questi suoni. C’è però qualcosa della musica che abbiamo udito che possiamo riprodurre anche senza strumenti musicali. Che cos’è questo “nucleo di esperienza” che rimane identico nella riproduzione vocale che rozzamente tentiamo e nella esecuzione perfetta dell’orchestra? Senza dubbio è questo nucleo di esperienza, questo “senso noematico”, per dirla con Husserl, ciò che fonda l’identità della musica che abbiamo udito. È possibile riconoscere la musica in questione perché è possibile individuare questo senso che permane identico. Così per esempio quando riconosciamo la medesima melodia suonata con il violoncello e con il pianoforte noi riconosciamo una “forma” che si mantiene identica anche se la “materia sonora” varia. Che cos’è questa forma? Si tratta dei rapporti tra le note e del ritmo. Si tratta cioè esattamente di ciò che può essere tradotto nel linguaggio musicale, dell’unica cosa che può essere trascritta in una notazione musicale; che è anche ciò che permette una riproduzione vocale della melodia13. La possibilità della riproduzione, la possibilità della “traduzione” linguistica dell’esperienza e la possibilità del riconoscimento appaiono così misteriosamente e profondamente intrecciate. 12 «Certo, anche quando si è ignoranti dei modi di trascrivere la musica, è possibile riconoscere o rammentare questa o quest’altra serie di note, un aria, un motivo, delle melodie, perfino degli accordi e parti di una sinfonia. Possono darsi allora due casi. Una possibilità è che si tratti di qualcosa che si è sentito diverse volte, e che si è imparato a riprodurre vocalmente. I suoni musicali non si sono fissati nella memoria sotto forma di ricordi uditivi, ma noi abbiamo imparato a riprodurre una sequenza di movimenti vocali. Quando ritroviamo un aria in questo modo ci riportiamo ad uno di quegli schemi attivi e motori di cui parla Bergson, che, benché siano fissati nel nostro cervello, restano al di fuori della nostra coscienza. Altrimenti, si tratta di sequenza di suoni che noi stessi saremmo incapaci di riprodurre, ma che riconosciamo quando altri li eseguono, e solo in quel momento». Ivi, p. 49. 13 Ivi, pp. 49-50.

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A questo punto diviene possibile formulare un’ipotesi radicale a proposito del rapporto tra rimemorazione e linguaggio. La rimemorazione è una fantasia posizionale adeguata al senso noematico di una percezione conservato nella ritenzione. Il senso noematico è ciò che di una percezione può essere tradotto in un linguaggio. In una percezione, infatti, si possono sempre distinguere due momenti: le sensazioni e il senso che le anima. Per le sensazioni non c’è mai un linguaggio adeguato. Il senso, invece, è – o almeno sembrerebbe essere – per essenza “traducibile” in un linguaggio. Non si tratta necessariamente un linguaggio verbale, come dimostra l’esempio della melodia. Non si tratta necessariamente di parole o di concetti. Ma certamente si tratta di un linguaggio. Se le cose stanno così, allora la rimemorazione di una esperienza – nella misura in cui è una riproduzione intuitiva adeguata al senso noematico – è legata a ciò che di quella stessa esperienza può essere “detto”, a ciò che può essere espresso in un linguaggio.

4. L’invenzione della memoria: il racconto Il linguaggio gioca un ruolo essenziale nei processi rimemorativi. Questa affermazione, cui siamo giunti interpretando l’articolo di Halbwachs, dovrebbe essere messa in rapporto con quanto abbiamo sostenuto nel terzo saggio a proposito del rapporto tra memoria semantica e ricordo episodico. In particolare bisognerebbe indagare in modo più approfondito il rapporto tra senso noematico, linguaggio e schema. Ma un’indagine del genere ci porterebbe troppo lontano dal tema di questi studi e deve essere rinviata. In questa sede ci dobbiamo accontentare di constatare che la rimemorazione, pur essendo una rappresentazione intuitiva, è condizionata dalla memoria semantica e di conseguenza non è indipendente dai meccanismi e dalle strutture che rendono possibile il linguaggio. È chiaro, infatti, che memoria semantica e linguaggio sono legati in modo essenziale. Forse non è possibile identificare completamente le due nozioni; ma è evidente che – dal punto di vista che ci interessa – l’ipotesi di Tulving di un condizionamento semantico del ricordo episodico corrisponde perfettamente alla descrizione del ruolo del linguaggio nel ricordo, che Halbwachs propone nell’articolo sulla memoria musicale dei musicisti14. 14 Tulving, quasi contraddicendo la definizione che ho citato in precedenza, esclude esplicitamente l’ipotesi di un nesso necessario tra memoria semantica e linguaggio: «Note that the semantic memory concerns knowledge of the world in general, despite is label it does not require language for its operations». E. Tulving, Episodic Memory and Common Sense: how Far Apart?, cit., p. 1509. Ma probabilmente questa esclusione deriva da una concezione ingenua del linguaggio. Certo se si intende il linguaggio come un mero strumento

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Con ciò si è detto qualcosa in più a proposito della memoria impersonale di cui si è occupato il terzo saggio, ma il problema del rapporto tra il ricordo come atto soggettivo e il linguaggio non è stato affatto risolto. Al di là della rimemorazione, non esiste forse un’ulteriore forma di ricordo che si fonda in modo essenziale sul linguaggio verbale? Per rispondere a questa domanda è di grande utilità il paragone con il lavoro di due studiosi molto diversi tra loro, Pierre Janet e Edward Casey. Il primo, come si è detto, rappresenta un punto di vista esattamente antitetico a quello di Husserl e della fenomenologia. Il secondo, invece, è un fenomenologo “di larghe vedute”. Entrambi – è questa la cosa interessante – hanno preso sul serio l’idea di un ricordo-racconto. Nelle pagine che Janet dedica alla “mémoire elementaire”, all’interno del celebre corso al College de France intitolato L’évolution de la mémoire et de la notion du temps, le due domande che guidano le analisi del terzo e del quarto saggio qui proposti sono esplicitamente messe in relazione e danno origine ad una tesi unitaria: la memoria è una costruzione sociale e consiste nella sua forma basilare in un racconto. Janet è un dei più autorevoli esponenti di quella scuola di studi di psicologia sperimentale che si può chiamare “psicologia della condotta”. È facile dunque intuire quanto i suoi presupposti epistemologici e teoretici siano incompatibili con una teoria della memoria spiritualista o intimistica. Dal suo punto di vista la memoria è un comportamento sociale, è una pratica messa in atto da individui che comunicano. Perciò senza la società la memoria non esisterebbe affatto. Ecco qui il comportamento elementare che io chiamo memoria. Tale comportamento elementare presenta delle caratteristiche molto importanti ai nostri occhi. Innanzitutto è un atto sociale. A questo punto noi ci troviamo un po’ in imbarazzo. Voi non eravate abituati a definire la memoria un atto sociale. Gli antichi psicologi ci descrivevano la memoria immediatamente dopo la sensazione e la percezione. La memoria era un atto individuale. Bergson accetta l’idea che un uomo isolato abbia memoria. Ma io non sono della stessa opinione. Un uomo solo non ha memoria e non ne ha bisogno15. di traduzione del pensiero e se lo si riduce al solo linguaggio verbale, non si può dire che Tulving abbia torto. Per molte del nostre “conoscenze” non esistono parole adeguate. Inoltre, come si è visto, la memoria semantica è costituita anche di schemi intuitivi che non sono riducibili ad una formulazione verbale. Se però si utilizza la parola “linguaggio” in un senso più ampio le cose cambiano. È evidente, infatti, che il linguaggio implica la memoria (e lo dimostra il fatto che una lingua può essere appresa e dimenticata) e, nello stesso tempo, che la memoria semantica non esisterebbe se non esistesse alcun linguaggio. 15 «Voilà la conduite élémentaire que j’appelle la mémoire. Cette conduite élémentaire présente des caractères très importants à nos yeux. D’abord c’est un acte social. Ici, nous avons un peu d’embarras. Vous n’êtes pas habitués à appeler la mémoire un acte social. Les anciens psychologues nous décrivaient la mémoire immédiatement après la sensation et la

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Se la tradizione filosofica classica considera la memoria come una facoltà innata, che appartiene essenzialmente dell’anima, per la psicologia della condotta la memoria ha una origine sociale sia dal punto di vista ontogenetico, sia dal punto di vista storico. Dal punto di vista ontogenetico lo dimostra il fatto che il bambino, nella prima infanzia, non ha memoria. Solo nel tempo, dopo un lungo “addestramento”, maturando le sue relazioni e i suoi rapporti sociali, apprenderà a ricordare. Per la stessa ragione anche l’animale non ha memoria. L’infante e l’animale non hanno memoria perché non hanno linguaggio, perché non sanno raccontare una storia16. È esattamente lo stesso identico argomento che abbiamo già trovato in Halbwachs. Ma alle osservazioni proposte in La mémoire collective, Janet può aggiungere anche i risultati della sua lunga esperienza medica. Numerosi disturbi della psiche che implicano amnesie di vario genere, possono essere spiegati – a volte in modo più convincente a volte in modo piuttosto artificioso – nello stesso modo. Che si tratti di amnesie legate all’epilessia o a fenomeni di sonnambulismo, che si tratti di amnesie retrograde o anterograde, la conclusione è sempre la stessa: la perdita di memoria coincide con una perdita momentanea o definitiva della parola17. Dal punto di vista storico è possibile seguire la genesi della nozione di memoria in modo non meno eclatante. Gli uomini primitivi – così pensa Janet – non hanno posseduto fin da subito la memoria18. Hanno dovuto scoprirla, anzi inventarla. L’idea di una “evoluzione della memoria” – idea suggerita fin perception. La mémoire était un acte individuel. M. Bergson admet ordinairement qu’un homme isolé a de la mémoire. Je ne suis pas de cet avis. Un homme seul n’a pas de mémoire et n’en a pas besoin» (t.d.a). P. Janet, L’évolution de la mémoire et de la notion du temps, Vol. II: “La mémoire élémentaire”, A. Chahine, Paris, 1928, p. 219. 16 Naturalmente il bambino è capace di riconoscere fin da subito il volto di sua madre. Allo stesso modo se un cavallo si spaventa percorrendo una certa strada, sarà in grado successivamente di riconoscere ed evitare quel luogo. Ma per Janet fenomeni di questo genere non possono essere definiti come fenomeni di memoria. Si tratta di fenomeni legati all’“abitudine” o alla mera “associazione di idee”. La memoria vera e propria è solo quella che si documenta in un racconto. Ci si può domandare che cosa motivi questa esclusione così radicale. In realtà ad una domanda del genere il testo di Janet non dà risposta. 17 «La mémoire est humaine, elle n’existe que chez les hommes, et même pas chez tous» (ivi, p. 223). Questo significa che lì dove l’uomo non è ancora formato (nell’infante) o lì dove l’individuo esce al di fuori della condizione umana (l’epilettico, il malato mentale) la memoria non è presente. Così come fa la sua comparsa ad un certo punto, allo stesso modo la memoria è destinata a scomparire: da questo punto di vista la condizione del vecchio, che perde la memoria, e dell’infante, che impara ad usarla, sono speculari. 18 «Si la mémoire est une forme de langage compliquée, tardive, elle n’a pas existé primitivement, elle n’est pas fondamentale en psychologie. Il ne faut pas commencer comme autrefois en disant que l’être vivant, dès qu’il vit, dès qu’il pense, dès qu’il a conscience, a de la mémoire. Il faut admettre que la mémoire vient tardivement et qu’il y a des êtres sans mémoire». Ivi, p. 222.

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dal titolo delle conferenze – va presa assolutamente alla lettera. Gran parte dello sforzo di queste lezioni è dedicato al tentativo di individuare la forma più elementare di memoria e di seguirne il progresso evolutivo. Ma in che modo Janet può trovare la forma basilare della memoria? E in che modo dimostra che essa coincide con la forma più elementare del racconto? Non deve sfuggire, nel momento decisivo, il ricorso ad un esempio del tutto immaginario. Evidentemente – non avendo a disposizione una teoria della memoria fenomenologica da cui prendere le mosse – anche agli occhi di uno scienziato come Janet non c’è altra via per accreditare l’idea di fondo di queste lezioni. L’esempio in questione è molto semplice: l’autore immagina una tribù di uomini primitivi, capaci di comunicare tra loro attraverso una forma di linguaggio elementare. La sentinella di questa tribù, di guardia lontano dal campo, scopre all’improvviso il nemico che avanza. A questo punto invece di reagire immediatamente a ciò che vede, affrontando i nemici, ritorna rapidamente al campo per avvisare i compagni. Per Janet in questa condotta elementare c’è, in nuce, tutto ciò che è essenziale alla memoria: il differimento di un’azione (la sentinella rimanda la reazione a ciò che vede, l’azione di combattimento); la soluzione ad problema pratico ben preciso, il problema dell’assenza (i compagni non sono presenti, non possono vedere ciò che vede la sentinella)19; un’interazione sociale che ha uno scopo ben definito (la sentinella comunica ciò che ha visto ai propri compagni perché la tribù unita possa fronteggiare il pericolo). A partire da questo grado zero, la memoria andrà perfezionandosi nel corso dei secoli. Così dalle prime forme basilari di racconto, la “commissione verbale” e la “recitazione”20, si passerà a forme più evolute come la descrizione. Successivamente, affinandosi ulteriormente la capacità di racconto, la descrizione si trasformerà in una vera e propria narrazione.

5. La memoria: immagine o racconto? Se la memoria nella sua forma autentica è un racconto, che ne è delle immagini memorative? Non è forse vero che il passato ci si ripresenta, non solo nella forma di un racconto, ma anche nella forma di un’immagine? Nella prima lezione del suo corso Janet tenta di mostrare come la teoria 19 «La mémoire est une réaction sociale dans la condition d’absence. En réalité, l’acte de mémoire est une invention humaine, comme tous ces actes que nous considérons come des tendances banales et dont nous faisons le fond de notre vie, alors qu’il sont été construits peu à peu, par des hommes de génie. La mémoire a pour but de triompher de l’absence et c’est cette lutte contre l’absence qui caractérise la mémoire». Ivi, p. 221. 20 «La récitation est la forme élémentaire de la mémoire». Ivi, p. 239.

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della memoria come immagine sia la diretta conseguenza di una interpretazione filosofica riduttiva. Che cos’è infatti la memoria per la filosofia e la psicologia tradizionali? Azzardando una definizione sintetica si potrebbe dire che è “conoscenza del passato”. Tutta l’impostazione del problema discende da questo presupposto più o meno esplicito. Infatti i primi studi filosofici sono centrati su una domanda epistemologica: la memoria è vera? è affidabile? L’inquietudine legata a questa domanda porta le filosofie razionaliste a tentare di ridurre il più possibile il ruolo della memoria nella conoscenza del presente e nello stesso tempo a tentare di assimilarla il più possibile alle conoscenze certe21. Sotto l’influsso della filosofia cartesiana la memoria viene così ricondotta alla categoria di intuizione. Poiché la verità deve essere accessibile in un sol colpo d’occhio allo “sguardo” del pensiero, la memoria per essere vera deve essere un’intuizione diretta del passato. Se così non fosse, se la conoscenza del passato fosse mediata in qualche modo da idee, teorie, segni o parole, non potremmo mai esserne certi. Le idee possono essere sbagliate, le teorie possono essere false, le parole non sono le cose22. Ma come è possibile un’intuizione del passato senza intermediari? Il passato non è più e quindi non è più intuibile. Da qui deriva la necessità dell’immagine memorativa. Tra l’intuizione e il passato ci sarà un intermediario. Questo intermediario è qualcosa che nello stesso tempo è il passato e non lo è, qualcosa che somiglia al passato, lo riproduce esattamente così come esso era. È un sosia del passato che noi metteremo tra l’avvenimento scomparso e la memoria attuale. È questa riproduzione del passato che noi vediamo direttamente: e di essa che si ha intuizione23.

Il passato, riprodotto nella forma di una immagine, è di nuovo accessibile all’intuizione. Ma affinché un’immagine possa essere riprodotta occorre che sia conservata. Così per Janet, la teoria classica dell’immagine memorativa e la teoria della conservazione e riproduzione del passato, discendono entrambe dal compromesso con un presupposto razionalistico acriticamente accettato. Evidentemente una simile critica, benché abbia di mira principalmente il 21 «La préoccupation de la vérité de la mémoire et de la suppression de la mémoire autant que possible vont déterminer toutes le philosophies rationnelles et jouer un rôle considérable même dans l’évolution de la métaphysique et de la science». Ivi, p. 185. 22 «Si la mémoire est une conception, elle devient une idée qui peut être douteuse. Si je me représente par une idée, par une théorie, ce qui s’est passé pendant les vacances, je puis me tromper comme dans toutes le théories. Aussi, puis que nous voulons une mémoire certaine et vrai, elle ne sera pas une conception. La mémoire va être, d’après l’idée de l’école écossaise que reprend Garnier, une intuition directe du passé, sans intermédiaire». Ivi, p. 186. 23 «Il y aura entre l’intuition et le passé un intermédiaire. Cet intermédiaire c’est quelque chose qui est le passé et qui ne l’est pas, qui lui ressemble, qui le reproduit exactement tel qu’il était. C’est une sosie du passé que nous mettrons entre l’événement disparu et la mémoire actuelle. C’est cette reproduction du passé que nous voyons directement; c’est sur elle qu’il y a l’intuition» (t.d.a). Ivi, p. 187.

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cartesianesimo tradizionale, può essere rivolta senza troppe forzature contro la teoria husserliana della ritenzione e della rimemorazione. Come si è visto le analisi di Husserl sono guidate dall’ideale della possibilità di una “ripercezione” del passato e le difficoltà legate alla soluzione del problema dell’immagine interna derivano dal presupposto che la presentificazione sia da intendersi come un’intuizione senza intermediari. Tuttavia, nonostante l’indubbia pertinenza della critica ad una concezione troppo legata a pregiudizi razionalistici, la posizione di Janet è riduttiva. È vero che non si può pretendere che soltanto l’intuizione diretta del passato sia un atto autentico di memoria. Ma è altrettanto vero che, nell’esperienza, le immagini memorative sono un fenomeno di evidenza incontestabile. Noi possiamo raccontare un evento del nostro passato. Ma possiamo anche rivedere un luogo o un volto, o riascoltare una melodia. Questo genere di ricordi non è solo assai frequente, ma è anche indispensabile dal punto di vista sociale. Non è possibile ridurre il ricordo al racconto e bastano pochi semplici esempi per rendersene conto. Per ricordare una melodia che ho ascoltato ho forse bisogno di un racconto? Per riconoscere un luogo in cui sono già stato e ricordare qual è la strada da percorrere, ho forse bisogno di una narrazione? Come interpreta Janet questi fenomeni di memoria così diffusi e così evidenti? Il problema delle immagini memorative è sbrigativamente liquidato nelle lezioni dedicate alla mémoire elementaire attraverso una critica alla posizione di Bergson (che è il vero bersaglio polemico di Janet). Bergson aveva descritto il ricordo come il riemergere, destato dall’associazione, di un’immagine che sembrava perduta per sempre. Ma le immagini di questo genere – e naturalmente la rimemorazione husserliana rientra in questa categoria – per Janet non sono ricordi autentici. Sono delle apparizioni incontrollate e accidentali che non hanno niente a che vedere con un atto di memoria autentico. Le immagini del passato sono delle associazioni inutili, dei ricordi mancati24. Con la stessa sorprendente superficialità viene liquidato anche il problema del riconoscimento25. Se la memoria è un racconto, il problema di come sia possibile che una presentificazione sia riconosciuta come una immagine del passato non ha senso. La domanda circa l’esperienza del riconoscimento appare come uno pseudoproblema. In questo modo tutte le evidenze che documentano nella nostra esperienza fenomeni come la rimemorazione e la ritenzione sono scartate in partenza.

24 «Si j’osais une définition en langage vulgaire, je dirais que ces images rapides et passagères sont des souvenir ratés, mal faits, encombrants, qui viennent quand on ne les appelle pas». Ivi, p. 244. 25 «Je vous avoue que je ne comprends pas le problème de la reconnaissance». Ivi, p. 267.

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6. Reminiscing: ricordare-con La posizione di Janet è unilaterale. Tuttavia non bisogna credere che l’idea di un nesso essenziale tra memoria e racconto sia estranea alla fenomenologia. Prima di esporre il mio punto di vista al riguardo, vorrei richiamare brevemente il lavoro di un fenomenologo americano che questa idea l’ha esplicitamente tematizzata, Edward Casey. Il suo libro Remembering. A Phenomenological Study ha il merito di essere l’unico tentativo veramente sistematico di elaborazione di una teoria della memoria di impostazione fenomenologica. Un’esposizione critica delle idee sostenute in tale libro – non tutte condivisibili26 – richiederebbe un lavoro a parte. Mi limiterò qui ad analizzare la nozione di “reminiscing”, proposta nella seconda sezione. Questa analisi, insieme con la discussione critica delle tesi di Janet che abbiamo appena preso in considerazione, sarà di grande aiuto per delineare le caratteristiche essenziali di una nuova forma di ricordo, la rievocazione. Nella prospettiva di Casey “to reminisce” significa ricordare-insieme. A differenza della “recollection”– di cui si occupa la prima parte del suo libro – il reminiscing non è innanzitutto un atto della coscienza. È un atto sociale, un’operazione che accade tra i soggetti e non nella mente: un’operazione che può essere definita come un «remembering with others»27. Casey si preoccupa di sottolineare esplicitamente le peculiarità che caratterizzano questo genere di esperienza. In primo luogo il reminiscing è sempre un processo attivo, implica 26

E. Casey, Remembering. A phenomenological study, cit. Più volte in questi saggi mi sono richiamato al lavoro di Casey, prendendo in prestito analisi, idee, punti di vista. Stante il mio debito nei suoi confronti, mi permetto qui di ricapitolare quelli che a mio avviso sono i principali punti critici del suo lavoro. 1) La trattazione della “recollection” condotta nella prima sezione, si ispira ad Husserl ma non prende adeguatamente in considerazione né le analisi contenute nelle Lezioni sulla sintesi passiva sul rapporto tra ritenzione e rimemorazione, né le analisi di Husserliana XXIII sul rapporto tra immagine e ricordo. 2) Per quanto riguarda la terza parte del lavoro, quella dedicata alla memoria “beyond mind”, Casey, preoccupato di allontanarsi da Husserl seguendo Heidegger, non chiarisce la distinzione assolutamente essenziale tra ricordo e memoria. Nella sua prospettiva rimemorazione, in quanto atto vissuto della coscienza, e traccia, in quanto supporto materiale di una iscrizione mnestica, si confondono costantemente e pericolosamente. Casey ha ragione quando si domanda: «Is the past kept within the mind alone? Can we confine it to this tenure, critical as it is – and important as it is to stress in the face of efforts to locate remembering elsewhere?» (E. Casey, Keeping Past in Mind, “Rewiew of Metaphysics”, 37, 1983, pp. 77-96, in D. Moran, L.E. Embree (eds.), Phenomenology. Critical Concepts in Philosophy, Routledge, London, 2004, p. 106). Ed ha ragione anche quando conclude che: «Yet an intentional approach to memory is still not sufficient to capture the full phenomenon of keeping the past in mind» (ivi, p. 108). È vero: la memoria non può essere ridotta ad un processo esclusivamente mentale. Ma questa affermazione ha senso solo se si distingue in modo netto la memoriaarchivio dal ricordo cosciente. 27 Ivi, p. 105.

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uno sforzo, compiuto da diversi soggetti, per ritrovare-insieme una porzione di passato. Anche la rimemorazione, nella misura in cui è una presentificazione, può essere liberamente intrapresa dalla coscienza, come un atto volontario. Accade però spesso che un’immagine del passato di ripresenti in modo del tutto involontario. Questa posizione passiva della coscienza, che subisce il ricordo più che produrlo, non è possibile nel caso del reminiscing. In secondo luogo il reminiscing è caratterizzato da una notevole indeterminatezza circa il suo oggetto: «è un fatto notevole che, mentre i verbi “to remember” e “to recollect” si rivolgono ad un oggetto proprio, non è così per il verbo “to reminisce”. Noi non ricordiamo-insieme qualcosa, ricordiamo-insieme a proposito di qualcosa»28. Infatti, mentre nell’esperienza del ricordo solitario l’oggetto rimemorato è ben definito, nell’esperienza del ricordare-con non accade la stessa cosa. Se cerco di rimemorare un episodio, le immagini che mi si presentano sono riproduzioni delle mie percezioni passate. Può essere che io sia in grado di ritrovare solo alcune di queste percezioni. Ma è certo che al di là di ciò che ho percepito non si può presentare niente di nuovo: l’evento passato mi sta di nuovo di fronte così come l’ho vissuto una volta. La caratteristica essenziale del ricordare-insieme, invece, è che il ricordo altrui integra ed eventualmente corregge il ricordo personale. Da ciò derivano due conseguenze. Da una parte l’“oggetto memorativo” non è stabile come nella rimemorazione e muta in continuazione seguendo le pieghe della conversazione tra i soggetti; dall’altra, l’evento ricostruito-insieme nel reminiscing non è lo stesso evento che riappare nel ricordo solitario. Quanto più numerosi sono i soggetti che ricordano, tanto più l’oggetto ricordato sarà avvicinato da una molteplicità di punti vista diversi. Il fatto essenziale qui è che il risultato del lavoro di ricerca messo in pratica dai soggetti che ricordano-insieme non è completamente riducibile alla somma dei loro punti di vista sul passato. Tuttavia non è questa multilateralità la vera peculiarità di questo genere di esperienza memorativa. La caratteristica essenziale del reminiscing è l’assenza di immagini. Certamente può accadere che, ricordando-insieme, alcune immagini si presentino alla mente dei soggetti. Ma, mentre nella rimemorazione l’immagine è l’essenziale, perché si tratta di un atto intuitivo della coscienza, qui al contrario ha un ruolo del tutto accessorio29. Su questo punto Casey e Janet hanno le idee molto più chiare di Halbwachs. Il reminiscing è una attività esclusivamente verbale. Ricordare-con significa raccontare insieme una storia. Nonostante ciò, inspiegabilmente, Casey cerca di 28

«It is a striking fact that whereas the verb “to remember” and “to recollect” both take a direct object, “to reminisce” does not. We do not reminisce something, we reminisce about it» (t.d.a.). Ibidem. 29 «Reminiscing can occur in the absence of exactly answering imagery or any corresponding emotion [...]». Ivi, p. 108.

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minimizzare la portata dell’equivalenza reminiscing-racconto distinguendo “reminiscing”, “story telling” e “recounting”30. In realtà io credo che si tratti di una distinzione superficiale e non di sostanza. È vero che il reminiscing, a differenza delle altre forme di racconto, non implica una struttura narrativa coerente: è frammentario, disordinato, manca di trama ecc. Ciononostante si tratta di una attività essenzialmente narrativa. Forse non di un racconto compiuto, ma certamente di qualcosa come un proto-racconto.

7. Perché raccontiamo il passato? L’analisi del fenomeno del reminiscing occupa una posizione strategica nello sviluppo di Remembering. A Phenomenological Study. Il libro di Casey è orientato nel modo più esplicito verso una direzione chiara: bisogna abbandonare i pregiudizi mentalisti e riportare la memoria “beyond mind”. Così dal primo all’ultimo capitolo le analisi si spostano progressivamente sempre più all’esterno, sempre più al di fuori della coscienza. In questa progressione il capitolo dedicato al reminiscing è un passaggio di svolta. Criticando una concezione della memoria che giudica angusta, Casey si pone una domanda importante: perché ricordiamo-insieme? L’unico modo per farla finita con un approccio giudicato troppo introspettivo, che riduce la memoria ad un fatto esclusivamente mentale, è mostrare che il ricordarecon non è un opzione, ma una necessità vitale per l’esercizio della memoria: se così non fosse «perché dovremmo preoccuparci di trasferire in parole e riferire agli altri ciò che possediamo in modo così sicuro al nostro interno, ad un livello dell’esperienza che è presociale e prelinguistico allo stesso tempo?»31. Perché ci sembra di aver bisogno degli altri per ricordare? Il reminiscing, così come è descritto in Remembering. A Phenomenological Study, non è semplicemente il racconto di una esperienza passata. Casey mette l’accento sulla natura comunitaria di questo modo di rapportarsi al passato. Nella sua forma essenziale il reminiscing presuppone più interlocutori che condividono la medesima esperienza passata e che la ricostrui30

«It is tempting to subsume reminiscing under recounting, itself a form of the skill more generic activity of retelling, under which both recounting and reminiscing fall. [...] In reminiscing there need be neither a manifest nor a latent narrative structure» (ivi, p. 106 passim). «This is not to deny the presence of deep affinities between story-telling and reminiscing. [...] The truth of the matter is that everyone [...] can reminisce without telling stories and tell stories without reminiscing» (ivi, p. 107). Qui forse Casey paga il debito di una concezione un po’ rigida della narrazione come messa in forma. 31 «Why should we bother to put into words and relate to others what we possess so securely from within, at a level of experience that is at once pre-linguistic and pre-social?» (t.d.a). Ivi, p. 113.

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scono insieme32. Proprio questo carattere originariamente comunitario rende il reminiscing necessario e, in particolare impedisce che lo si concepisca come un’esperienza secondaria, in qualche modo dipendente dalla rimemorazione. Infatti, se è vero che la condizione di possibilità del ricordare-con è che i soggetti coinvolti condividano una esperienza comune, è altrettanto vero che questa esperienza non può e non deve essere esattamente la stessa. È questa la ragione fondamentale per cui ricordare-insieme è necessario: affinché la nostra ricostruzione del passato sia certa, affinché sia completa, abbiamo bisogno del confronto con gli altri. «Uno dei motivi primari del co-reminiscing è senza dubbio quello di verificare i ricordi l’uno dell’altro considerando la differenza delle esperienze e delle prospettive»33. Ma c’è un altra ragione, forse ancora più importante, per cui il reminiscing è una esperienza essenziale. Raccontare il proprio passato significa inevitabilmente attribuirgli un senso. «Il ritorno al passato attraverso il ricordare-insieme è un ritorno attraverso il discorso – attraverso la parola, il logos – e come tale è una ricomprensione di esso attraverso il ricordo»34. Raccontandoci il passato ne ricostruiamo le cause, ne valutiamo gli effetti, ne scopriamo le motivazioni nascoste. L’esperienza individuale viene così potentemente riconfigurata nel rapporto con gli altri. Nel confronto con i ricordi altrui la nostra interpretazione del passato viene messa in gioco ed è impossibile che rimanga del tutto inalterata. Si apre qui la strada per quel continuo lavoro di rifigurazione del passato che Ricoeur ha mirabilmente descritto in Tempo e racconto. Raccontare il passato significa ricomprenderlo35, ricordarlo-con significa reinterpretarlo.

8. Il racconto dal punto di vista sociologico e dal punto di vista fenomenologico L’analisi del fenomeno del reminiscing proposta da Casey è per molti versi concordante con la teoria della memoria-racconto proposta da Janet. La differenza fondamentale tra l’approccio fenomenologico del primo e quello psicologico del secondo è soprattutto nella diversa posizione asse32 «For what evokes and sustains reminiscence is the possessing of a certain common or like experience». Ivi, p. 114. 33 «One of the primary motives for co-reminiscing is no doubt that of checking out each other’s memories in view of differing experiential modes and perspectives» (t.d.a.). Ibidem. 34 «The reminiscential return to the past is a return via discourse – via the word, logos – and as such it is an understanding remembering of it». Ivi, p. 117. 35 Potrò ritornare su questo punto in modo più chiaro dopo aver analizzato le caratteristiche essenziali della rievocazione.

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gnata al medesimo fenomeno. Per Casey il reminiscing è una delle possibilità della memoria, non l’unica e non la più importante: infatti tutta la prima parte del suo libro è dedicata ad una analisi della recollection, cioè della rimemorazione. Per Janet, invece, il racconto è la memoria e la rimemorazione è solo uno pseudo-ricordo. Al di là di questa differenza (non insignificante) ciò che accomuna la posizione di Janet e di Casey è l’idea che il racconto sia una forma di memoria essenzialmente sociale. Poiché il linguaggio implica per sua natura una comunità di parlanti, anche il racconto deve essere un fenomeno originalmente comunitario. Io non intendo certamente negare il legame (indiscutibile) tra linguaggio e comunità. Penso però che sia necessaria una distinzione quando si parla del racconto come di una forma di memoria. Da una parte c’è la memoria considerata come una pratica sociale, ciò che nel terzo saggio mi è capitato di chiamare “farememoria” o “ricordare-insieme”. La maggior parte delle osservazioni di Janet e di Casey a proposito dell’utilità del racconto, della sua origine storica, della sua valenza comunitaria, sono legate a questo fenomeno sociale. Dall’altra parte c’è il ricordo come atto della coscienza individuale. Si tratta di fenomeni distinti. Una cosa è il racconto come fatto obbiettivo, un’altra è il racconto come ricordo. Nelle analisi di Janet, di Halbwachs e anche quelle di Casey questa distinzione essenziale non è affatto chiara e il continuo passaggio dalla sfera della coscienza a quella della realtà obbiettiva è una fonte inesauribile di confusioni. Con ciò non voglio affatto screditare l’idea di una memoria-racconto. Al contrario: proprio la distinzione tra la sfera della realtà obbiettiva e la sfera della coscienza rende l’ipotesi di un ricordo-racconto più radicale, perché, a mio avviso, un’analisi fenomenologica libera da pregiudizi scopre il racconto già all’interno della vita della coscienza. Il racconto del passato non accade soltanto “tra” soggetti diversi, ma anche nell’intimo dell’esperienza immanente. A questo proposito, benché il reminiscing di cui parla Casey sia da intendersi come un fenomeno comunitario, nelle pagine di Remembering. A Phenomneological Study dedicate a tale fenomeno si può trovare un’ammissione decisiva: «There is such a thing as reminiscing to myself, “auto-reminiscing”»36. Il che significa che il reminiscing “solitario” non è da escludersi, anche se per Casey si tratta di una forma privativa. Se le cose stanno così, il rapporto tra il racconto e l’esperienza del ricordare-con si chiarisce. Il ricordare-insieme, il raccontare agli altri che può essere studiato dal punto di vista sociologico, è un dato sociale fondato su un fenomeno che è già presente nella vita della coscienza singola. Io posso raccontare il mio passato a me stesso. Quando ciò accade la coscienza si 36

Ivi, p. 118.

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divide, avviene una sorta di scissione dell’io (nel terzo saggio abbiamo visto con Husserl che questo accade in tutte le presentificazioni) ed è lecito ipotizzare che in questo modo, sdoppiandosi l’io, la pluralità venga ad insediarsi nell’intimo della coscienza che dialoga con se stessa. «Quando io ricordo-insieme a me stesso, io sto trattando il mio io come una sorta di compagno che ricorda con me, come se fosse un altro che mi ascolta»37. Ma questa possibilità di una originaria plurivocità della coscienza (altra questione cui bisognerebbe dedicare uno studio a parte) non deve indurre a confondere i piani dell’analisi: da una parte c’è la descrizione fenomenologica di ciò che accade nella vita della coscienza, dall’altra c’è la constatazione obbiettiva dei fatti sociali38. Il racconto come realtà oggettiva, il racconto consegnato ad un testo scritto, ad una tradizione orale o ad un semplice dialogo tra soggetti, appartiene a questo secondo ordine di fatti e può essere studiato con metodi obbiettivi. Se ne può costatare l’utilità sociale, se ne può indagare la storia, se ne possono descrivere le modalità concrete ecc. Ma a fondamento di questi fatti sociali obbiettivamente constatabili c’è un’incessante attività del soggetto che si auto-racconta il proprio passato. Questo proto-racconto è un fenomeno immanente e deve essere descritto fenomenologicamente. Per distinguerla dalla ritenzione, dalla rimemorazione, dalla memoria semantica, potremo chiamare questa forma di ricordo “rievocazione”39.

9. La rievocazione: una forma autonoma di ricordo Il ricordo è un atto della coscienza. È l’atto attraverso cui la coscienza ricostruisce una porzione determinata del proprio passato. In questa definizione la sottolineatura delle espressioni “coscienza” e “proprio passato” è essenziale. Come si è detto nel terzo saggio l’esser cosciente è ciò che distingue il ricordo dalla memoria. Nello stesso tempo il riferimento ad una porzione determinata del proprio passato (posizione temporale) è ciò che caratterizza gli autentici atti di ricordo, distinguendoli dalle altre forme di 37

«When I reminisce to myself, I am treating myself as a reminiscential partner – as another who listens to himself» (t.d.a). Ibidem. 38 Casey non distingue questi due piani. Infatti per lui i diari, le memorie e tutte le altre forme di esteriorizzazione del racconto sono forme di reminiscing. «The discursive dimension of auto-reminiscing is not limited to speech alone. As with other forms of reminiscing, it can also occur as writing». Ivi, p. 118. 39 Devo precisare che nel capitolo sul ricordo di Elementi di una dottrina dell’esperienza, Piana parla di “rievocazione” in un senso che non coincide affatto con quello che viene proposto in questa sede. cfr. G. Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza, cit., p. 100.

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presentificazione che non riguardano il proprio passato (per es. l’immaginazione storica, che riguarda il passato, ma non il proprio passato) e dalle altre forme di memoria (per es. la memoria semantica, che proviene dal proprio passato, ma non vi si riferisce). Ora, la rievocazione, in quanto racconto del proprio passato, è una forma di ricordo. Il ricordo non è solo rimemorazione, è anche rievocazione. Possiamo cioè ricostruire il nostro passato in due modi: in modo intuitivo, grazie al lavoro della fantasia (rimemorazione), o in modo non intuitivo, grazie alla mediazione del linguaggio (rievocazione). Immediatamente si presenta un’obbiezione: la rimemorazione è presentata da Husserl come un tentativo di ri-percezione. Questo significa che è la cosa stessa a venir presa di mira nella presentificazione, non il suo simulacro. Nel ricordo di X è proprio X, quell’X che è stato percepito, che viene preso di mira. La rimemorazione, in quanto intuizione, si riferisce direttamente e senza mediazioni al suo oggetto e lo ripresenta (quasi) in carne ed ossa. Ma come stanno le cose a proposito della rievocazione? La rievocazione non implica forse una mediazione essenziale, quella del linguaggio? Non c’è dubbio. Ma, come si vedrà meglio in seguito, questo non autorizza ad escludere che sia un autentico atto di ricordo. Anche perché il criterio dell’originarietà è molto problematico quando si ha a che fare con il passato. Bisogna comprendere bene in che senso è possibile affermare che le presentificazioni intuitive sono “originarie”, cioè offrono alla coscienza il loro oggetto in originale. Le analisi svolte nel secondo saggio hanno mostrato chiaramente che nella rimemorazione il passato ritenuto può ripresentarsi in maniera intuitiva solo grazie al lavoro della fantasia. È la fantasia che riproduce il passato, adeguandosi a ciò che la ritenzione custodisce come vero. A partire dalle lezioni del 1904-5 raccolte in Husserliana XXIII, Husserl sostiene che nella fantasia (e dunque nella rimemorazione) non ci sia alcuna mediazione. Ma questa presa di posizione è diretta contro una teoria dell’immagine interna inadeguata e non cancella la più essenziale delle distinzioni husserliane, quella tra percezione e non percezione. Solo nella percezione una cosa si dà in se stessa. Questo significa che nella rimemorazione, benché non vi sia alcuna mediazione, benché non vi sia alcuna immagine interna reale, l’oggetto rimemorato non è dato in se stesso40. Si tratta pur sempre di una riproduzione, di una fantasia, e non della 40 Nelle Lezioni sulla sintesi passiva, nonostante “qualche esitazione” e non senza imbarazzo, Husserl afferma che la rimemorazione ci offre il passato in modo originario. Così “in un senso certamente modificato” si può parlare di un “passato in carne ed ossa”. Ma se ci si riflette un momento l’espressione “passato in carne ed ossa” è davvero problematica. Certo si può distinguere la presentazione dalla presentificazione affermando che solo nella prima le cose ci sono date “in carne ed ossa”. Ma quando si considera una presentificazione fino a

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cosa stessa. Se le cose stanno così si capisce quanto sia difficile contrapporre rimemorazione e rievocazione in virtù della pretesa originarietà della prima. Certo la rimemorazione è un’intuizione e la rievocazione no: nella rimemorazione il passato appare e nella rievocazione no. Ma questa apparizione è pur sempre una rappresentazione di fantasia, non è mai la cosa stessa. Per quale ragione, allora, una fantasia (che per di più ad una analisi attenta si rivela spesso confusa, fallace, indeterminata) dovrebbe essere considerata come una riproposizione “autentica” del passato in contrapposizione alla rievocazione? Ciò che intendo dire è che il racconto non può essere sospettato di essere una forma di memoria “inferiore” o subordinata rispetto all’immaginericordo. Non si può accettare l’idea – senza dubbio seducente – che la “vera” memoria sia la rimemorazione e che la rievocazione sia una forma derivata. Il sospetto nei confronti della memoria-racconto discende direttamente da una concezione del tutto erronea dei rapporti tra rimemorazione e rievocazione; una concezione per cui la rievocazione consisterebbe nella traduzione verbale di un’esperienza che sarebbe autentica solo nella sua versione intuitiva. L’equivoco su cui fonda questa concezione – che sarà il bersaglio costante di una serrata critica nei prossimi paragrafi – è alimentato dalla complessità del rapporto che lega linguaggio e intuizione. Il linguaggio ha la capacità di esprimere i contenuti intuitivi. Ogni percezione può essere tradotta in parola (mentre non è vero che ad ogni espressione corrisponde una immagine intuitiva). Anche le percezioni passate possono essere tradotte linguisticamente. Ma bisogna fare molta attenzione a non confondere la rievocazione con la descrizione di una rimemorazione. La descrizione di un ricordo intuitivo, si pensi per esempio alla pagina in cui Proust descrive i biancospini di Combray, è certamente un racconto, ma non è una rievocazione. La somiglianza radicale che accomuna il racconto come rievocazione e il resoconto di una rimemorazione non deve indurre in errore. In entrambi i casi si tratta di un racconto che si riferisce al passato. Ma nel primo caso si tratta di qualcosa che è stato prima percepito, poi rimemorato e poi ancora espresso linguisticamente. Nel secondo caso, invece, il riferimento alla percezione e alla rimemorazione corrispondente è del tutto assente41. che punto ha senso l’espressione “in carne ed ossa”? Cfr. E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, cit., p. 143. 41 Nel testo n° 15 di Husserliana XXIII sono messe a confronto la lettura di un racconto e il racconto di un ricordo. Secondo Husserl nel primo caso le espressioni linguistiche sono tradotte dalla coscienza in fantasie intuitive corrispondenti, mentre nel secondo accade il contrario, le immagini intuitive sono tradotte in espressioni corrispondenti. Ciò che Husserl descrive in questo caso non è la rievocazione, ma il resoconto di una rimemorazione. E.

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I contenuti intuitivi passati possono essere richiamati in due modi: in modo “proprio”, nella rimemorazione, cioè in una riproduzione della percezione precedente, e in modo “improprio” in un racconto, cioè in una descrizione linguistica corrispondente alla percezione precedente. Ma la nostra esperienza passata non consiste solo di un insieme di intuizioni. Ci sono dei contenuti passati non intuitivi che non possono essere rimemorati e che possono essere ricordati in modo proprio solo in un racconto. Se – per riprendere un esempio delle Ricerche Logiche – vedo un merlo fuori dalla finestra e dico “ecco un merlo”, io do espressione linguistica alla mia percezione. Ricordare in modo proprio questa esperienza significherà riprodurre la percezione e non l’espressione linguistica. Dunque in questo caso l’apparizione rimemorata potrà a buon diritto essere contrapposta alla descrizione dell’episodio in nome di una certa autenticità. Ma se l’esperienza da richiamare non è di natura intuitiva le cose cambiano. Io ricordo molto bene, per esempio, una terribile gaffe di fronte ad una persona in lutto. È una cosa che difficilmente potrò dimenticare. Ricordo con esattezza ciò che ho detto in quell’occasione, la risposta che ho ricevuto e i pensieri di vergogna che ho avuto negli interminabili istanti successivi. Il senso di questo episodio è forse contenuto in una sequenza di immagini percettive? È forse implicito nelle percezioni che ho avute in quel momento? Evidentemente no. Il contenuto reale di un ricordo di questo genere non è della stessa natura del contenuto del ricordo del merlo fuori dalla finestra. Là si trattava di una immagine percettiva, qui del senso di un dialogo. In questo secondo caso il racconto dell’episodio (è irrilevante se pubblico o a se stessi) è il modo proprio di ricordare. Per quale ragione un ricordo di questo genere dovrebbe essere meno “autentico” di un ricordo intuitivo?

10.La distinzione tra rimemorazione e rievocazione Per comprendere in modo più adeguato la distinzione tra rimemorazione e rievocazione e il loro rapporto consideriamo un esempio. Un amico mi domanda: “sei mai stato a Parigi?” La risposta a questa domanda implica un’esperienza di ricordo e nello stesso tempo si configura nella forma di qualcosa di simile ad un breve racconto: “Ho vissuto a Parigi quattro mesi. Dovevo fare delle ricerche per la mia tesi di dottorato e volevo seguire i corsi di alcuni professori di cui avevo sentito molto parlare. Perciò approfittando del fatto che mia moglie aveva appena partorito (e quindi poteva mettersi in maternità senza perdere il lavoro) ci siamo trasferiti io, lei e la bambina a Parigi...”. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung, cit., p. 379.

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Un racconto di questo genere è un ricordo? oppure si riferisce ad un ricordo? Per rispondere a questa domanda bisogna chiedersi se le espressioni di cui è composto possano essere pensate come la “traduzione” linguistica di un insieme di immagini memorative. Io penso che un’ipotesi del genere vada risolutamente esclusa. Se presto attenzione a ciò che accade quando rievoco il passato me ne accorgo immediatamente. Mentre racconto a qualcuno (o a me stesso) un episodio della mia vita, nella mia coscienza non sta affatto scorrendo una sequenza di immagini che io cercherei di tradurre in parole. L’immagine del ricordo come “film interiore” in questo caso è del tutto fuorviante. D’altra parte, se si riflette un momento, ci si accorge che la corrispondenza tra il racconto verbale e le immagini interne non solo non è necessaria, ma anzi è impossibile. Quando dico “ho vissuto a Parigi quattro mesi”, quali immagini potrebbero corrispondere a questa affermazione? Quale rimemorazione mi potrebbe offrire l’equivalente di questa frase? È impossibile trovare nella mia memoria un ricordo-immagine corrispondente all’espressione “quattro mesi” e certamente non mi è possibile “rivedere” un periodo di tempo così lungo. Allo stesso modo anche quando dico “dovevo fare delle ricerche per la mia tesi di dottorato” è evidente che il senso di queste parole non è accompagnato da alcuna rappresentazione. Infatti io posso riprodurre senza alcuna difficoltà e con buona ricchezza di dettagli l’immagine della copertina della mia tesi di dottorato; ma mentre converso con il mio amico questa immagine non mi si presenta affatto e non ha alcuna pertinenza. Con la nozione di rievocazione oltrepassiamo la terminologia e forse anche i problemi husserliani, cosa che potrebbe rendere diffidenti i fenomenologi di stretta osservanza. In effetti nei testi di Husserl che abbiamo preso in considerazione il problema del rapporto tra immagini memorative e racconto non è mai tematizzato esplicitamente. Tuttavia le considerazioni che abbiamo appena svolto cercando di distinguere chiaramente rimemorazione e rievocazione, possono essere avvicinate – fruttuosamente anche se un po’ artificiosamente – ad alcune pagine fondamentali delle Ricerche logiche. Nella seconda sezione della prima ricerca Husserl si preoccupa di criticare un grave fraintendimento in cui è possibile incappare quando ci si interroga a proposito del senso delle espressioni linguistiche42. Comprendere un’espressione non significa rappresentarsi qualcosa. Per comprendere il senso di una frase o di una parola non abbiamo affatto bisogno di “vedere” delle immagini. Si tratta di un’acquisizione importante delle Ricerche Logiche, che consente ad Husserl di confutare una teoria del significato insoste42

Cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Erster Teil: “Prolegomena zur reinen Logik”, Husserliana XVIII, Martinus Nijhoff, Den Haag, 1975, tr. it. Ricerche Logiche, vol. I, Il Saggiatore, Milano, 2005, p. 329 ss.

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nibile. Ci sono molteplici espressioni, di cui comprendiamo molto distintamente il significato, cui non è possibile far corrispondere alcuna immagine intuitiva. In quei paragrafi fondamentali Husserl non fa alcun cenno alla questioni che ci interessano, anche perché il problema della memoria è assente dall’orizzonte teoretico delle Ricerche Logiche. Tuttavia è evidente l’implicazione di quelle analisi per il discorso che sto sviluppando. Per comprendere il senso del breve racconto citato in precedenza, così come per comprendere il senso di qualsiasi espressione o insieme di espressioni, non è necessario visualizzare alcuna immagine. Ma allora se quel racconto può a buon diritto essere designato come una rievocazione, cioè come una forma peculiare di rapporto con il mio passato, è evidente che la rievocazione non ha come suo fondamento necessario una serie di immagini. Questo significa che la rievocazione non presuppone la rimemorazione. A questo punto però è possibile un’obbiezione molto seria. Si può dire, infatti, che se è vero che la rievocazione non implica il concomitante svolgersi di una rimemorazione corrispondente, tuttavia si fonda su una rimemorazione. In questo senso se io posso raccontare che “ho vissuto a Parigi quattro mesi” è solo perché, idealmente, anche se non di fatto, io ho la possibilità di rimemorare tutto ciò che ho vissuto in quei quattro mesi. Si tratta di una obbiezione molto pertinente, che però a mio avviso nasce da un fraintendimento. Certamente mentre affermo “ho vissuto a Parigi quattro mesi” – se questa frase deve avere un senso – io faccio riferimento ad una lunga serie di esperienze che potenzialmente potrei cercare di richiamare una ad una. Le percezioni, i sentimenti e gli stati d’animo vissuti il primo giorno a Parigi, io potrei cercare di esplicitarli in una serie di rimemorazioni sempre più dettagliate. Lo stesso potrei cercare di fare per il secondo giorno, per il terzo e così via. Tutte queste esperienze possono essere rivissute perché sono state vissute una prima volta; possono essere rimemorate perché sono state percepite. In questo senso è giusto affermare che la rimemorazione si fonda sulla percezione e sulla conseguente ritenzione. Come ho già sottolineato, solo ciò che è stato vissuto e ritenuto può essere rimemorato. La rimemorazione dipende dalla ritenzione così come la ritenzione dipende dalla impressione originaria. Ma come stanno le cose per la rievocazione? La rievocazione dipende dalla ritenzione, ma non dalla percezione43. Possiamo rievocare ciò che non abbiamo mai percepito (per esempio un insieme di pensieri), mentre non possiamo rievocare ciò che non abbiamo ritenuto. Non c’è niente di sorprendente in tutto ciò. I vissuti cui la rievoca43 La parola “percezione” è qui intesa nel senso di percezione trascendente e non nel senso di percezione immanente. Come preciserò in seguito (cfr. § 13) nel linguaggio husserliano con la parola “percezione” si può anche intendere il semplice esser cosciente di un vissuto e in questo senso anche un pensiero si può dire percepito.

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zione si riferisce – pensieri, espressioni, significati – devono essere stati esperiti dalla coscienza. Ma il fatto essenziale che va sottolineato qui, è che non è necessario che ciò che è rievocato sia stato percepito. Di conseguenza non è necessario che ciò che è rievocato sia anche contemporaneamente rimemorato e nemmeno che sia mai stato rimemorato. La rievocazione non è la traduzione verbale di una sequenza di immagini rimemorate.

11.Ritenzione e rievocazione Possiamo comprendere meglio il rapporto tra rievocazione, rimemorazione e ritenzione considerando ancora un volta un esempio, il ricordo di una telefonata. “Ricordo distintamente di aver telefonato al filosofo Bernard Stiegler poco dopo il mio arrivo a Parigi. L’ho chiamato dalla Bibliothèque nationale de France. Mi ricordo che avevo paura di non capire quello che mi diceva, per via del mio francese imperfetto. Temevo anche che non sapesse chi fossi. Invece fu molto cortese e ci capimmo perfettamente. Mi diede appuntamento di lì a un paio di settimane e mi dettò al telefono l’indirizzo del suo studio...”. Come si vede il mio ricordo di quella telefonata è piuttosto dettagliato. Ma se esamino attentamente i miei vissuti mi accorgo che in realtà non posso ricordare nemmeno una parola di quelle realmente pronunciate da Stiegler. Questa osservazione è molto interessante. Se questo ricordo fosse una rimemorazione dovrei riprodurre, quand’anche imperfettamente, le percezioni avute in quel momento, cioè le percezioni uditive delle parole. Io invece conservo solo un’immagine vaga del luogo della telefonata (un angolo in disparte della B.n.F.), che sembra essere un’immagine-schema più che un vero ricordo (è un luogo in cui sono stato più volte per telefonare). Delle parole effettivamente pronunciate da Stiegler in quell’occasione non ne ricordo nemmeno una. L’episodio è particolarmente significativo perché il dialogo avuto durante quella telefonata è avvenuto in francese, ma nel mio ricordo non c’è traccia di nessuna particolare espressione francese. Se non ci rifletto in modo esplicito non sono cosciente, mentre rievoco, che la conversazione è avvenuta in una lingua straniera. Io ricordo chiaramente ciò che ci siamo detti in quell’occasione, ma non ricordo affatto come ce lo siamo detti. In altre parole non ho affatto ritenuto le percezioni avute in quel momento (i suoni uditi e le parole intese attraverso questi suoni), mentre ho ritenuto il significato del dialogo (ciò che attraverso quelle parole era preso di mira, il significato di ciò che ci siamo detti). Si può dunque parlare in questo caso di rimemorazione in senso husserliano? Direi di no. L’immagine del luogo da cui ho telefonato – immagine che mi si presenta 170

involontariamente mentre rievoco – è una rimemorazione, o comunque un suo derivato. Ma l’essenziale di questo ricordo non è in quella rimemorazione. L’essenziale è il senso del nostro dialogo telefonico, un senso che è conservato in una ritenzione evidente, che non posso mettere in dubbio. Si tratta dunque di una ritenzione vuota cui non corrisponde alcuna intuizione? di una rimemorazione solo potenziale? Da un certo punto di vista si può dire di sì. Ma il mio racconto riproduce in modo adeguato il senso dei pensieri avuti in quel momento e il senso di un dialogo per me significativo. È la riproduzione di una porzione di esperienza passata, una riproduzione imperfetta, ma saldamente fondata su una ritenzione: dunque è un ricordo, non è più soltanto una ritenzione vuota. L’insistenza sul fatto che nella rievocazione è il senso di un episodio che viene recuperato più che i suoi connotati intuitivi può indurre a pensare che ciò che qui chiamiamo rievocazione coincida con ciò che nel primo saggio abbiamo chiamato, con Husserl, ritenzione vuota. Si è detto infatti che nella ritenzione vuota è conservato il senso di un avvenimento passato, quando tutti gli aspetti intuitivi di questo avvenimento non sono più vivi. In realtà, stante il fatto che la rievocazione si fonda sulla ritenzione, non è giusto dire che essa coincide con la ritenzione. Esattamente come non è giusto dire che la rimemorazione coincide con la ritenzione. Il ricordo non è solo la conservazione di un’esperienza passata. È l’atto presente attraverso cui una esperienza passata viene ri-costituita, ri-costruita, ri-prodotta. Il senso di un’esperienza passata intuitiva, per esempio la percezione di una melodia o di un movimento, è conservato adeguatamente nella ritenzione. Ma questa ritenzione non è ancora un ricordo. Diventa un ricordo solo quando la coscienza compie una rimemorazione, cioè si rappresenta “di nuovo” (wieder) nel presente, in una intuizione viva, ciò che è custodito nella ritenzione. Allo stesso modo il significato di un’esperienza passata non intuitiva, per esempio la comprensione di un discorso altrui, è conservato adeguatamente nella ritenzione. Ma questa ritenzione non è ancora una ricordo. Diventa un ricordo solo quando la coscienza compie una rievocazione, cioè si rappresenta di nuovo, nel presente, in un racconto, il significato che è custodito nella ritenzione44. 44 Il rapporto tra le espressioni contenute in una rievocazione e il significato ritenuto è lo stesso rapporto che sussiste tra le presentificazioni intuitive contenute in una rimemorazione e il senso ritenuto. Il significato in origine è stato inteso tramite espressioni che non coincidono esattamente con le espressioni che ora compaiono nella rievocazione. Allo stesso modo il senso in origine è stato inteso in immagini percettive che non coincidono con le immagini memorative che ora compaiono nella rimemorazione. In entrambi i casi questa non coincidenza letterale non inficia l’autenticità del ricordo, che è garantita dalla ritenzione del senso e del significato.

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12.Rievocazione e memoria semantica. La temporalità della rievocazione Una volta distinta chiaramente la rievocazione dalla rimemorazione è necessario procedere ad un ulteriore passo, distinguendo la rievocazione dalla memoria semantica di cui ci siamo occupati nel terzo saggio. La rievocazione si riferisce al passato tramite la mediazione del linguaggio. Da questo punto di vista sembrerebbe avere una comunanza essenziale con ciò che gli psicologi chiamano memoria semantica. Nell’esempio proposto in precedenza (la rievocazione del periodo parigino) lo si può constatare facilmente. Io “ricordo”, grazie alla memoria semantica, i nomi dei mesi che compongono il calendario e questo mi consente di dare una precisa collocazione temporale al mio racconto: “sono stato a Parigi da Aprile a Luglio”. Ma ancora più radicalmente si può dire: io conosco il significato delle parole italiane ed è questo che mi consente di articolare un racconto verbale. A proposito della rievocazione l’ipotesi di Tulving che la memoria semantica condizioni il ricordo episodico non presenta alcuna difficoltà. Anzi si sarebbe tentati di ricondurre integralmente la rievocazione alla memoria semantica. Come si è visto nel terzo saggio per la psicologia sperimentale ricordo episodico e memoria semantica si distinguono in base a tre fattori: 1) l’evento ricordato episodicamente ha una posizione temporale definita mentre le cognizioni semantiche sono atemporali; 2) il ricordo episodico è intuitivo, mentre la memoria semantica implica la mediazione di un codice; 3) il ricordo episodico presenta un riferimento autobiografico, mentre le cognizioni semantiche sono impersonali. Quando si prende in considerazione il ricordo intuitivo, cioè la rimemorazione, queste distinzioni funzionano perfettamente. Ma come stanno le cose a proposito della rievocazione? Da una parte essa somiglia alla memoria semantica di cui parla Tulving, perché non è intuitiva e perché si serve di un codice (2). Dall’altra somiglia al ricordo episodico perché si riferisce chiaramente all’esperienza personale del soggetto (3) e perché si riferisce ad eventi che hanno una posizione temporale determinata rispetto al presente (1). È soprattutto quest’ultima caratteristica che permette di distinguere chiaramente rievocazione e memoria semantica. Per “ricordare” che la somma degli angoli interni di un triangolo e 180°, è necessaria la memoria semantica, perché la verità che è intesa in questa proposizione è atemporale. Invece quando dico “ho abitato a Parigi quattro mesi”, mi riferisco ad una porzione temporalmente determinata della mia esperienza personale. Stante questa differenza essenziale tra memoria semantica e rievocazione, la questione della temporalità della rievocazione è molto più complicata di quello che appare a prima vista. Per chiarirla è necessario stabilire una ulte172

riore distinzione. In una rievocazione si possono quasi sempre distinguere proposizioni di due generi diversi: giudizi autobiografici e giudizi riprodotti. I giudizi autobiografici sono le proposizioni che descrivono il senso della propria esperienza. Nell’esempio citato in precedenza si possono trovare molti giudizi di questo tipo: “ho vissuto a Parigi quattro mesi”, oppure “dovevo fare delle ricerche per la mia tesi di dottorato” ecc. La caratteristica di questi giudizi è che si riferiscono all’esperienza personale del soggetto che ricorda, comprendendone in modo pregnante il senso, come spiegherò meglio nell’ultimo paragrafo. Accanto alle proposizioni di questo tipo ci sono altre proposizioni che hanno una natura molto differente perché riproducono (in modo approssimativo) un momento passato dell’esperienza del soggetto che ricorda, un atto di giudizio passato. Può trattarsi della riproduzione di un pensiero, di un discorso, di un frammento di dialogo. In tutti i casi si tratta della riproposizione di un momento dell’esperienza passata che rientra nella categoria di ciò che Husserl nelle Ricerche Logiche chiama coscienza vuota di significato, distinguendola dalle varie forme di riempimento intuitivo. Negli esempi citati in precedenza si possono trovare proposizioni di questo tipo: quando dico “avevo paura di non capire quello che Stiegler mi diceva, per via del mio francese imperfetto”, io riproduco, approssimativamente e in una formula leggermente diversa, un pensiero che mi ha attraversato la mente poco prima di telefonargli (“speriamo che io capisca quello che mi dirà”). Allo stesso modo quando ricordo una frase che ho udito da bambino (una frase detta da mia madre o dalla maestra), io riproduco, o almeno credo di riprodurre, un’espressione che ho inteso tanto tempo fa. Le proposizioni di questo genere si distinguono dai giudizi autobiografici perché in questo caso le espressioni linguistiche non si riferiscono al passato, ma lo riproducono. Ricostruiscono, in un’espressione presente, la coscienza di un significato o di un insieme di significati intesi nel passato. Per chiarire questa distinzione è molto utile il testo n. 15 di Husserliana XXIII dove viene analizzato il problema del rapporto tra giudizio e fantasia. Husserl distingue chiaramente due generi diversi di giudizio: da una parte ci sono i giudizi sulla fantasia, cioè i giudizi formulati sulla base di una rappresentazione di fantasia, dall’altra i giudizi di fantasia, cioè i giudizi riprodotti45. L’esempio scelto per illustrare il primo caso è particolarmente significativo, dal nostro punto vista, perché è un caso di ricordo. Io posso presentificarmi in una rimemorazione l’immagine di un ufficio che conosco bene (nel testo si tratta dell’ufficio di ricevimento dell’università di Halle). Sulla base di questa immagine rimemorata io posso effettuare una serie di giudizi attuali.

45

E. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung, cit., pp. 373-4.

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Per esempio, comparando le dimensioni e le forme delle diverse stanze dell’ufficio che mi sono date nella presentificazione, io posso dire: “la prima stanza è più grande della seconda e ha una forma più regolare”. Questo giudizio non è un giudizio riprodotto, non appartiene alla rimemorazione in quanto tale. Non è un giudizio che io ho formulato effettivamente mentre mi trovavo in quell’ufficio. È un giudizio che formulo ora. Se invece, proseguendo nel ricordo, io ritrovassi un pensiero avuto in una particolare occasione, mentre mi trovavo in quell’ufficio per qualche ragione, in questo caso il giudizio sarebbe un giudizio di fantasia, cioè la riproduzione di un atto del passato. Allo stesso modo se leggendo un racconto io mi immedesimo nei pensieri del protagonista, i giudizi che mi rappresento sono giudizi di fantasia. Se invece io esprimo una valutazione sull’agire di questo personaggio (per esempio: “quest’uomo, Iago, è moralmente indegno!”), io formulo un giudizio attuale sulla base di una rappresentazione fantastica46. È evidente che la distinzione proposta da Husserl in queste pagine corrisponde esattamente alla distinzione tra giudizi autobiografici e giudizi riprodotti. I primi sono giudizi sul passato, i secondi giudizi del passato47. A questo punto possiamo comprendere la differenza tra la temporalità dei giudizi autobiografici e la temporalità dei giudizi riprodotti. Un atto di giudizio ha sempre una temporalità determinata, anche quando prende di mira un’idea intemporale48. Se io formulo un giudizio matematico (per es: 2 x 2 = 4), la verità che intendo è del tutto indipendente dal vissuto psicologico della coscienza che la comprende. Ma l’atto del giudicare, l’atto attraverso cui questa idea intemporale è intesa, non è a sua volta fuori del tempo. È un atto che ha una certa durata, che occupa una posizione definita nel tempo soggettivo della coscienza e che di conseguenza può essere riprodotto. Il giudizio, a differenza del giudicato in quanto oggetto ideale, è un evento nel tempo immanente: comincia, finisce, passa. Perciò un giudizio può sempre essere ricordato, anche quando il suo oggetto è un oggetto ideale e intemporale. Io non posso dire in senso proprio che ricordo l’oggetto ideale “2 x 2 = 4”, perché si tratta di una verità intemporale ed per questa ragione che nel terzo saggio l’idea di un “ricordo semantico” è stata contestata. Ma senza dubbio posso ricordare di aver pensato ieri, o la settimana scorsa, che “2 x 2 = 4”. Bisogna dunque fare molta attenzione a non confondere la temporalità dell’atto di giudizio e la temporalità del giudicato.

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Cfr. ivi, p. 375 e p. 383. Anche se nel caso della rievocazione non è necessario che vi sia a fondamento una rappresentazione intuitiva. 48 Cfr. Appendice XIII di E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 156. 47

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Se ora ritorniamo alla distinzione tra giudizi autobiografici e giudizi riprodotti ci accorgiamo di una differenza importante. I giudizi autobiografici sono atti di pensiero presenti che si riferiscono al passato. I giudizi riprodotti invece, sono atti di pensiero del passato che la coscienza si rappresenta nuovamente nel presente. In un giudizio autobiografico il giudicato è un evento che ha una collocazione ben determinata nel flusso temporale soggettivo (per esempio: la proposizione “sono stato a Parigi quattro mesi” si riferisce ad una porzione temporale del mio passato). Ma il giudizio è un atto presente. Nei giudizi riprodotti invece non è solo il giudicato che appartiene al passato, ma anche l’atto di giudizio. Quando dico “avevo paura di non capire quello che Stiegler mi diceva, per via del mio francese imperfetto”, io non mi riferisco soltanto ad un episodio del passato, ma riproduco anche il giudizio dato in quel momento. Dopo queste considerazioni sulla temporalità dei giudizi possiamo tornare in modo più consapevole alla domanda iniziale circa la distinzione tra rievocazione e memoria semantica. I giudizi autobiografici hanno la forma: io penso X, essendo X un evento del passato. I giudizi riprodotti invece hanno la forma: io mi rappresento me stesso nel passato mentre penso X. Quest’ultimi sono senza dubbio dei ricordi episodici. Ma i primi? Non rientrano nella categoria della memoria semantica? I giudizi autobiografici costituiscono una forma di conoscenza e in questo sono simili alle cognizioni ritenute nella memoria semantica. Ma in questo caso si tratta di una conoscenza particolare, una conoscenza del proprio passato. Se ora ci domandiamo se questi giudizi possano essere considerati come dei ricordi, dal momento che sono atti coscienti e dal momento che si riferiscono al proprio passato, ci troviamo in un serio imbarazzo. Il ricordo così come è concepito da Husserl è la riproduzione del proprio passato. Quasi una resurrezione di ciò che è stato. Qui invece si tratta della conoscenza del proprio passato. Possiamo dunque affermare che i giudizi autobiografici sono dei ricordi? Io sono convinto che sia lecito. Ma si tratta in un certo senso di una scelta. Poiché a mio avviso l’interpretazione del senso del passato è più importante (o almeno ha la stessa importanza) della riproposizione letterale di una porzione dell’esperienza, non si può pensare che il ricordo sia nella sua essenza solo ed esclusivamente riproduzione. Se è così, chiameremo ricordo ogni atto cosciente che permette di al soggetto di rapportarsi al proprio passato. Dunque anche i giudizi autobiografici.

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13.L’autenticità della rievocazione: il racconto proprio e il racconto altrui Il riferimento soggettivo è ciò che distingue memoria semantica e rievocazione. Ma è anche la chiave di volta per comprendere la distinzione tra un racconto qualsiasi e una vera e propria rievocazione1. Ci si può chiedere infatti perché la rievocazione, che si presenta nella forma verbale simile da tutti i punti di vista a quella di qualsiasi altro racconto, possa pretendere di valere come un “vero e proprio” ricordo. Cos’è che autentica la rievocazione distinguendola da qualsiasi altro racconto? Ancora una volta la risposta del senso comune deriva dal segreto privilegio accordato alla rimemorazione. Sembrerebbe infatti che la garanzia di autenticità sia legata alla presenza di un’immagine memorativa. Io posso rievocare in modo abbastanza dettagliato un episodio importante della mia vita: la prima volta che ho consapevolmente mentito. “Quando ero bambino, – abitavamo ancora Torino e avrò avuto sei o sette anni – un giorno, scesi in cantina con mio fratello e trovai il gatto della mia vicina. C’era, da qualche parte nel buio, una bacinella piena di olio nero, probabilmente olio per motore. Non so per quale ragione, ancora non me lo spiego, ebbi l’idea di gettare il gatto dentro quella bacinella… In effetti non ricordo bene se mio fratello fosse presente o no… Ricordo invece chiaramente che la vicina di casa citofonò a casa nostra, disperata per il suo povero gatto, chiedendo a mia madre se eravamo stati noi a conciarlo così… Per la prima volta nella mia vita mentii coscientemente ai miei genitori… Mia madre, poco dopo, trovo su miei jeans blu delle macchie nere di olio ed entrò minacciosa nella mia stanza: ‘Che cosa sono queste macchie Martino?’...”. Che cos’è che autentica questo racconto? Mentre rievoco l’episodio mi appaiono diverse immagini, estremamente vaghe. Mi sembra di vedere il buio della cantina e, allo stesso modo, mi sembra di poter intravedere la mia vicina di casa: vecchia, mingherlina, debole. Mia madre mi appare in una sorta di veduta dal basso, terrificante, mentre mi mostra i jeans macchiati di olio o forse mentre me ne parla. Sembrerebbe che la presenza di queste immagini sia da intendere come il più genuino contrassegno di realtà. Ma questa ipotesi non è soddisfacente. Ce ne accorgiamo immediatamente se paragoniamo questa esperienza con quella che facciamo mentre leggiamo un racconto qualsiasi, o, cosa ancora più interessante, il resoconto di un ricordo altrui. Quando leggo le pagine di Proust in cui sono descritti gli ultimi giorni di vita

1 In effetti un racconto qualsiasi può essere inteso come una forma di conoscenza, e dunque come un oggetto di memoria semantica: configurando insieme le mie conoscenze sulla storia di Cesare ottengo un racconto storico. Questo racconto può essere dimenticato, ma non è un vero ricordo.

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di sua nonna2, mi appaiono delle immagini del tutto simili a quelle che mi appaiono mentre ricordo l’episodio del gatto in cantina. Anzi, a guardar bene, le immagini che mi presentifico mentre leggo il resoconto del ricordo di Proust sono meno indeterminate di quelle mi presentifico mentre rievoco quell’episodio così lontano del mio passato. Mi sembra quasi di poter vedere (potenza della letteratura!) la stanza della nonna amata e quasi posso percepire il fastidio di Proust per l’insopportabile duca di Guermantes che interviene sulla scena, ecc. Confrontando le immagini presentificate in questi due casi non noto alcuna differenza essenziale. Perché dunque delle immagini che appaiono in modo piuttosto indeterminato in un caso dovrebbero valere come attestati di realtà e nell’altro caso no? La risposta perentoria che ci viene dal buon senso è che io so con certezza assoluta che l’episodio del gatto in cantina appartiene al mio vissuto, mentre l’episodio della morte della nonna no. Ma allora la differenza tra una rievocazione e il racconto di un ricordo altrui è in questo riferimento autobiografico. Non sono le immagini a fornirmi la nozione dell’autenticità del passato che racconto, ma, al contrario, è la nozione di autenticità del passato ad assicurarmi della realtà delle immagini che mi appaiono. Cosa rende possibile questa “nozione di autenticità”? Su cosa si fonda questo “sapere”? Si tratta di una domanda ardua. È lo stesso interrogativo che era già apparso analizzando al rimemorazione e anche in questo caso la sola risposta che appare plausibile è che il riferimento autobiografico sia reso possibile dalla continuità della catena ritenzionale. Evidentemente la coscienza mantiene un rapporto con la totalità della sua esperienza passata; un rapporto che le rende possibile riconoscere immediatamente tutto ciò che ha il carattere dell’essente stato, tutto ciò che appare come già accaduto. Ovviamente anche in questo caso bisogna fare attenzione a non confondere il piano dell’esperienza con quello della realtà. Nel ricordo, si tratti di una rimemorazione o di una rievocazione, la coscienza non afferma nulla sulla verità oggettiva di ciò che è stato. Nulla al di fuori di questo: tutto ciò mi è accaduto.

14.La rievocazione come presentificazione non intuitiva La necessità di analizzare il rapporto tra ricordo e racconto ci è apparsa al termine di una laboriosa critica delle teorie della memoria di Halbwachs e Janet. Ho sottolineato quanto la posizione di questi autori sia lontana da quella di Husserl. Il loro orientamento teorico obbiettivante è certamente 2

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, vol. II, cit., pp. 396-416.

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molto distante dall’impostazione fenomenologica. Tuttavia io sono convinto che il concetto di rievocazione, anche dal punto di vista strettamente fenomenologico, non sia inammissibile. E sono convinto che la teoria della memoria husserliana sia suscettibile di accogliere al suo interno le istanze che provengono dalla considerazione del legame vitale che unisce memoria e racconto. A mio avviso l’imponente apparato concettuale husserliano è in grado di recepire la nozione di rievocazione senza eccessivi traumi. Prima di ricapitolare le caratteristiche essenziali della rievocazione, tenterò dunque di mostrare come la rievocazione possa essere definita in termini husserliani e, in secondo luogo, di evidenziare come alcuni accenni dello stesso Husserl autorizzino l’ipotesi di un ricordo-racconto. Come ho detto più volte la rimemorazione è un atto intuitivo, una presentificazione intuitiva. Considerando tutto ciò che abbiamo detto nel terzo saggio e nei paragrafi precedenti a proposito delle memorie non intuitive viene naturale domandarsi: sono possibili delle presentificazioni non intuitive? La domanda non è banale perché normalmente Husserl quando parla di presentificazioni si riferisce alle presentificazioni intuitive. Tuttavia proprio il fatto che Husserl, quando parla di rimemorazioni o fantasie, specifichi sempre molto puntualmente il sostantivo “presentificazione” aggiungendo la qualifica “intuitiva”, autorizza a supporre che vi siano delle presentificazioni non intuitive. Presentificare significa rendere presente un atto che non è reale. Ma non tutti gli atti sono intuitivi. Perché dunque non dovrebbe essere possibile presentificare un atto che non è una intuizione?3 Fin dalle Ricerche Logiche Husserl aveva distinto gli atti psichici raggruppandoli in due categorie fondamentali: da una parte le intenzioni, gli atti attraverso cui abbiamo coscienza dei significati, dall’altra le intuizioni, gli atti che danno riempimento ai significati. La coscienza dei significati di per sé è vuota e non implica necessariamente un’intuizione. Bisogna chiedersi allora: non è possibile che la coscienza si presentifichi un’intenzione vuota passata? Non è possibile ricordare un pensiero del passato, una frase detta, il senso di un discorso? Evidentemente ricordi di questo genere non sono solo possibili, sono anche molto frequenti. Ed è altrettanto evidente che non implicano la replica di alcuna percezione passata. Se per esempio io riprendo il filo di un ragionamento interrotto, nella mia coscienza si ripresentano una serie di proposizioni e una catena di pensieri che appartengono alla giornata di ieri. Mi ricordo bene dov’ero mentre pensavo queste cose (in quale biblioteca) e rivedo persino il posto in cui ero seduto: queste immagini di me seduto con i 3

In Esperienza e giudizio per esempio Husserl parla di presentificazione di giudizi passati: ma la presentificazione di un giudizio non è la presentificazione di una intuizione! Cfr. E. Husserl, Esperienza e giudizio, cit., p. 257.

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libri davanti sono rimemorazioni. Nello stesso tempo ricordo anche i pensieri che ho avuto in quel particolare momento: “ho avuto questa idea, da cui sono scaturite queste ipotesi e poi queste altre” ecc. La rappresentazione di questi pensieri non è la replica di una percezione. È la presentificazione di un insieme di atti non intuitivi: è una rievocazione4. Ma allora – si potrebbe obbiettare – la riproduzione di un atto di pensiero non si può semplicemente chiamare “rimemorazione non intuitiva”? Secondo me l’insistenza con cui Husserl sottolinea che la rimemorazione è un atto intuitivo, che è la riproduzione di una percezione precedente, che implica l’apparire del passato, che si costituisce come un’immagine memorativa; l’insistenza con cui Husserl ribadisce continuamente tutto ciò impedisce di rispondere affermativamente a questa questione. La rimemorazione non può essere non intuitiva5. Come dobbiamo chiamare dunque questa presentificazione non intuitiva, la cui evidenza nell’esperienza non possiamo contestare? Io propongo di chiamarla rievocazione. Husserl, da parte sua, non ci ha lasciato un nome per questo fenomeno (almeno non nei testi che abbiamo preso in considerazione) e non se ne è occupato adeguatamente. Tuttavia ci sono alcuni passaggi nei testi raccolti nel volume X della Husserliana che contengono degli accenni molto significativi e testimoniano 4

È la riproduzione di un insieme di giudizi, quelli che nel paragrafo precedente abbiamo chiamato “giudizi riprodotti”. 5 A questo proposito è necessario un importante chiarimento terminologico. Si può parlare di rimemorazione nel caso del ricordo di un giudizio? Da un certo punto di vista sì. Fin qui ho sostenuto che la rimemorazione deve essere intesa come la replica di una percezione precedente e che, di conseguenza, la riproposizione di un giudizio non poteva essere definita rimemorazione. Dicendo ciò ho inteso distinguere la percezione come atto intuitivo che implica un apparire sensibile, dal giudizio come pensiero vuoto. Bisogna però precisare con più attenzione il senso della parola “percezione”. La percezione, in Husserl, non è solo percezione esterna. C’è anche una percezione interna. In questo senso si può dire che un giudizio è “percepito” dalla coscienza, cioè è vissuto. È questa un’idea in sé molto problematica, che non posso discutere in questa sede. Ma al di là della difficoltà di questa idea è chiaro che se si accetta questa terminologia – alternativa a quella che propongo in questo saggio – si può pensare che la riproduzione di un giudizio sia una rimemorazione, cioè che abbia la stessa struttura di una replica della coscienza percettiva precedente. Da questo punto di vista potrebbe essere lecito ricondurre la rievocazione alla rimemorazione, facendo però molta attenzione a distinguere due fenomeni molto diversi: la rimemorazione degli atti intuitivi e la rimemorazione degli atti non intuitivi. Stante questa possibilità, a mio avviso l’utilizzo della coppia concettuale rimemorazione/rievocazione ha il vantaggio di rendere evidente una distinzione che altrimenti rischia di rimanere celata. È molto significativo, a questo proposito, che lo stesso Husserl preferisca non utilizzare l’espressione “rimemorazione” quando si occupa del ricordo o della fantasia dei giudizi. Non a caso nel testo n° 15 di Husserliana XXIII, dove il rapporto tra fantasia e giudizio è centrale, egli usa sistematicamente l’espressione “riproduzione” (Reproduktion) al posto di “rimemorazione” (Wiedererinnerung). I giudizi sono riprodotti e le percezioni (esterne) rimemorate. Cfr. E. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung, cit., p. 345 e p. 354.

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come egli stesso fosse consapevole dell’esistenza di una categoria di ricordi trascurati nelle analisi sulla rimemorazione. Nel paragrafo 29 delle lezioni sulla coscienza interna del tempo, introducendo la discussione del ricordo di presente o co-presentazione, Husserl annota di sfuggita, tra parentesi, un’osservazione che ha un importanza capitale: (all’intuizione immediata di oggetti temporali si sono del resto limitate tutte le nostre considerazioni, mentre abbiamo lasciato da parte aspettazioni e ricordi mediati, [mittelbaren] ovvero non-intuitivi [unanschaunglichen])6.

Anche nei testi preparatori che precedono le lezioni del 1905 o nei testi successivi che le integrano, si possono trovare accenni simili. Nell’appunto n° 15, datato 1901, l’esistenza di un “ricordo simbolico” (symbolische Erinnerung) “puramente verbale” (bloß verbale Erinnerung) viene esplicitamente ammessa7. Anche nel testo n° 45 Husserl ammette la necessità di una “aggiunta”, ovvero di precisare la distinzione tra «ricordi direttamente intuitivi e aspettazioni direttamente intuitive – in contrapposizione a ricordi e aspettazioni non intuitivi o mediatamente intuitivi, indirettamente simbolizzanti, fondati su conoscenza diretta ecc.»8. È evidente, dunque, che per Husserl la presentificazione del passato non è sempre intuitiva, cioè non avviene sempre nella modalità di una fantasia tetica. A questo proposito un passaggio molto significativo è contenuto nella II Appendice. Benché in altri luoghi (per esempio nelle lezioni sulla fantasia di Husserliana XXIII) Husserl sostenga la coincidenza delle nozioni di presentificazione e fantasia, in questa appendice tale coincidenza è negata e a supporto di questa tesi vengono chiamati in causa proprio i ricordi non intuitivi9. Da questi rapidi cenni si capisce chiaramente che, benché Husserl non abbia analizzato tematicamente il fenomeno che ho proposto di chiamare rievocazione, l’esistenza di un ricordo non intuitivo, cioè di una presentificazione del proprio passato “puramente verbale”, non solo non è esclusa, ma anzi è esplicitamente riconosciuta. Se le analisi husserliane si sono concentrate esclusivamente sulla rimemorazione come atto intuitivo, come immagine del passato, è solo per via dell’innegabile priorità che la percezione assume nel suo sistema di pensiero10. 6

E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna, cit., p. 90. Ivi, p. 195. 8 Ivi, p. 306. 9 Ivi, p. 125. 10 Tutti gli esempi di rievocazione che ho proposto in precedenza si presentano nella forma di un racconto. Tali racconti contengono il rimando a delle esperienze percettive che potrebbero essere rimemorate ma anche e soprattutto dei giudizi sull’esperienza cui non corrisponde alcuna esperienza percettiva. Per esempio: l’immagine della mia vicina di casa che 7

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15.Caratteristiche essenziali della rievocazione Può essere utile chiudere questo studio ricapitolando e puntualizzando in modo più sistematico le caratteristiche essenziali della rievocazione che sono emerse più o meno esplicitamente nelle analisi svolte11. 1) La rievocazione presenta una peculiare capacità di sintesi e astrazione Nella misura in cui è mediata linguisticamente, la rievocazione può “sfruttare”, se così si può dire, tutte le risorse del linguaggio. In primo luogo le eccezionali possibilità di sintesi e di astrazione che ci offrono le parole. Dicendo “ho abitato a Parigi quattro mesi” io posso abbracciare in un istante un periodo di tempo che sarebbe impossibile tentare di rimemorare compiutamente ed effettivamente. Potremmo dire – in modo un po’ impreciso – che la rimemorazione, nella misura in cui è (o pretende di essere) un’immagine, è tendenzialmente analitica e non può che essere concreta. La rievocazione, invece, è per natura sintetica e può essere astratta. Affinché un’immagine memorativa si costituisca nella coscienza, è necessario un laborioso processo di ricostruzione, che implica la riproduzione una molteplicità di dettagli che nella corrispondente formulazione verbale rimarrebbero completamente impliciti. In questo senso si può dire che la rimemorazione richiede una peculiare accuratezza. D’altra parte la rievocazione consente alla coscienza di abbracciare in uno sguardo sintetico un insieme molto protesta per la fine del suo gatto potrebbe essere rimemorata. Invece alla consapevolezza di aver mentito (che è il vero oggetto dell’episodio ricordato) non corrisponde alcuna rimemorazione. Questa mescolanza non è dovuta solo all’imperfezione degli esempi. Il fatto è che nell’esperienza rimemorazione e rievocazione sono sempre intrecciate. Il ricordo è sempre una mescolanza di rimemorazione e rievocazione. Le “proporzioni” di questo intreccio possono variare molto. Vi sono ricordi prevalentemente intuitivi e ricordi prevalentemente discorsivi. Nei fatti è abbastanza raro trovare un ricordo che consista esclusivamente in una rimemorazione o in una rievocazione. Il ricordo di una melodia è forse il fenomeno che si avvicina di più ad una rimemorazione pura e non deve essere un caso se Husserl lo sceglie come esempio privilegiato. Ma la maggior parte delle volte se cerco di ricordare un concerto cui ho assistito, alla pura rimemorazione di quanto ho ascoltato, si aggiunge inevitabilmente un contesto memorativo rievocato: “ero al Teatro dell’Opera con mia moglie il giorno del suo compleanno… ecc.”. Allo stesso modo il ricordo di un pensiero passato è forse il fenomeno più vicino ad una rievocazione pura. Ma la maggior parte delle volte se cerco di ricordare un dialogo cui ho partecipato, o un monologo solitario, alla rievocazione del corso dei miei pensieri si aggiunge qualche immagine relativa al luogo in cui mi trovavo. Ovviamente questa mescolanza di fatto non implica la messa in discussione delle distinzioni ideali. 11 In questo paragrafo elenco cinque caratteristiche della rievocazione, ma è evidente che molte altre potrebbero essere richiamate. Per esempio: la rievocazione è parziale. Oppure: la rievocazione è selettiva. O ancora: la rievocazione si fonda sulla ritenzione. Ho privilegiato le cinque tesi citate sopra perché permettono di individuare le peculiarità che distinguono la rievocazione da tutte le altre forme di memoria, ritenzione, rimemorazione, memoria semantica, ecc.

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complesso di esperienze o un periodo della propria vita, e di riprodurre nuovamente un discorso, un dialogo, o anche semplicemente dei pensieri che appartengono al nostro passato. 2) La rievocazione è caratterizzata da una esplicita intelligenza del significato La rimemorazione, nella misura in cui è la riproposizione di una percezione sensata, implica la ritenzione del noema percettivo ed è resa possibile in modo essenziale dalla permanenza del senso percettivo. La rievocazione, invece, è caratterizzata da una esplicita comprensione del significato del passato. Consideriamo ancora un esempio: si tratta di una conversazione in cui sfogo il mio malumore. “Ieri è stata una giornata terribile. Ho litigato con il mio capo che mi chiede di realizzare l’impossibile senza i mezzi più elementari. Nel pomeriggio c’è stata la riunione con tutta la redazione del giornale per cui lavoro e le mie colleghe mi hanno pugnalato alle spalle presentando un progetto alternativo al mio, preparato a mia insaputa. Per tutta la settimana ho chiesto alla grafica di inserire certi contenuti che avevo preparato per la prima pagina e lei, invece, per farmi sfigurare, ha inserito di nascosto i contenuti preparati da una mia collega!”. Questo racconto si riferisce ad un passato che appartiene alla mia esperienza e che viene rievocato all’interno di un dialogo. Quello che è interessante è che nel rievocare un episodio avvenuto il giorno precedente io non richiamo innanzitutto i fatti, le singole percezioni che ho vissuto, ma il loro significato. Mentre dico “le mie colleghe mi hanno pugnalato alle spalle” (un’espressione metaforica cui non corrisponde alcun immagine intuitiva) io richiamo il significato dell’episodio, la mia interpretazione delle cose accadute. I fatti “nudi e crudi” sono contenuti solo implicitamente nel mio racconto. Solo se mi sforzo posso rivedere – in una rimemorazione peraltro vaga – ciò che ho realmente percepito, cioè l’immagine della prima pagina del giornale che stavamo preparando, con una foto e un articolo diversi da quelli che mi aspettavo. Mentre racconto io non sto richiamando l’immagine – che pure ho percepito – di quella prima pagina e nemmeno le parole che le mie colleghe hanno pronunciato durante quella riunione. Io sto richiamando il significato che quelle percezioni e quelle parole hanno avuto per me, l’interpretazione che ne ho dato. In questo senso si può dire che, rispetto alla rimemorazione, che è diretta alla riproduzione il più possibile fedele di una serie di dati intuitivi, la rievocazione è essenzialmente orientata verso la comprensione e l’interpretazione dell’esperienza passata12. 12

Qui è necessaria una precisazione a proposito di ciò che si potrebbe chiamare, con un termine preso in prestito da Ricoeur, “rifigurazione” della memoria. Proust ha mostrato che il passato non è mai lo stesso. L’evento che si ripresenta non è mai lo stesso evento che ho

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3) La rievocazione ha una struttura narrativa che tende alla coerenza e all’esplicazione È molto importante non confondere racconto e narrazione. Non tutte le narrazioni sono racconti perché non tutte le narrazioni sono mediate dal linguaggio verbale. Molte rimemorazioni complesse hanno una struttura quasi-narrativa: Casey lo dice esplicitamente13 e Husserl lo ammette implicitamente, come si è visto. Quando rimemoriamo un episodio della nostra vita, “rivediamo” – analogamente a quanto accade nel caso delle immagini cinematografiche – una sequenza di immagini percettive che sono organizzate secondo una logica quasi narrativa. Non di tratta di una vera e propria narrazione, come preciserò tra poco, ma di qualcosa di molto simile. Anche la rievocazione ha una struttura narrativa. Anche in questo caso le memorie tendono ad organizzarsi in episodi e scene che si susseguono secondo una progressione sensata. Ma la rievocazione, a differenza della rimemorazione, non è solo narrativa, è anche esclusivamente verbale: è un racconto. Si tratta di due modalità diverse della narrazione: da una parte una quasinarrazione per immagini, dall’altra un racconto mediato dal linguaggio. Ma la differenza tra rimemorazione e rievocazione sotto il profilo della costruzione narrativa non si limita solo a questo aspetto. Nella rimemorazione, anche nella più complessa, non c’è mai una configurazione narrativa compiuta. La rimemorazione implica una selezione parziale delle immagini percettive, che, inoltre, appaiono legate tra loro secondo delle relazioni associative per cui un frammento memorativo rimanda al frammento che lo precede e al frammento che lo segue. In questo senso la rimemorazione è pre-narrativa, cioè anticipa alcune delle operazioni fondamentali tipiche della messa in forma narrativa. Ma questa selezione e queste sintesi associative accadono al di fuori dell’operare consapevole, ad un livello precategoriale. La rievocazione invece, anche quando si presenta nella forma di un racconto assolutamente incompleto, frammentario o interrotto, implica almeno l’abbozzo di una configurazione narrativa esplicita. Gli episodi rievocati non sono semplicemente associati gli uni agli altri, sono messi in rapporto, sono organizzati secondo nessi coerenti e relazioni causali. Così, percepito. Freud ha mostrato come nell’esperienza passata ci possa essere ancora molto che deve essere coscientemente esplicitato. Nei primi due saggi ho evitato consapevolmente le serissime obiezioni di fondo alla concezione husserliana del ricordo che derivano dal paragone con Proust e Freud e ho assunto come ipotesi l’idea della rimemorazione come ripercezione. È chiaro però che le cose sono molto diverse nel caso della rievocazione. Se la rievocazione è intesa come una comprensione del significato del passato, la possibilità di una reinterpretazione della propria esperienza rimane aperta. In particolare sono i giudizi autobiografici che rendono possibile questa rifigurazione: lo stesso evento può essere compreso in due giudizi autobiografici differenti formulati in due momenti diversi. 13 E. Casey, Remembering. A Phenomenological Study, cit., pp. 43-5.

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nella mia rievocazione, la circostanza di aver abitato a Parigi è messa in relazione con il fatto che mia moglie aveva appena partorito. Non si tratta certamente di una spiegazione causale nel senso rigoroso del termine. Tuttavia è evidente che nel racconto viene istituito un nesso esplicativo tra due eventi di per sé molto lontani, due eventi che non hanno alcun nesso a livello intuitivo e che non sono di per sé associati. Si vede bene che questa configurazione narrativa esplicita è in stretta relazione con l’intelligenza del significato cui accennavo prima. Nella rimemorazione il soggetto assiste alla scena quasi attonito; nella rievocazione spiega, interpreta, comprende14. 4) La rievocazione è intrinsecamente aperta alla esteriorizzazione Come ho mostrato nel terzo saggio l’idea che esistano dei ricordi collettivi va risolutamente respinta. Il ricordo, nella misura in cui implica un essenziale riferimento soggettivo, è sempre individuale. È evidente però che la rievocazione da questo punto di vista è molto diversa dalla rimemorazione. La mia percezione di una cosa – Husserl lo dice esplicitamente nelle Ricerche Logiche – per principio non può mai essere esattamente uguale alla percezione di un altro ed è per questa ragione non è mai possibile condividere realmente una rimemorazione. Ma il linguaggio non è mai un fatto privato: bisogna chiedersi dunque se la rievocazione non sia essenzialmente aperta alla condivisione. Una rimemorazione non può mai essere compiutamente esteriorizzata. L’immagine del passato che custodisco nel mio ricordo può essere descritta tramite il linguaggio e così messa in comune. Ma questa esteriorizzazione non è mai perfettamente adeguata. Rimane sempre uno scarto tra l’esperienza vissuta e la sua traduzione in parole, inevitabilmente imperfetta. Nel caso della rievocazione, invece, le cose vanno diversamente. Io posso comunicare ad un altro il racconto di un episodio del mio passato. In linea di principio questo racconto non differisce dal racconto interiore dello stesso episodio che potrei fare se rievocassi il mio passato in solitudine15. 14 A questo proposito è molto interessante un’osservazione di Casey il quale nota che nella rimemorazione noi non sappiamo con precisione dove la narrazione ci stia conducendo (Ibidem). Si tratta di una osservazione davvero interessante. La rimemorazione in quanto presentificazione è una possibilità libera della coscienza. Ma nello stesso tempo il ricordo conserva una sua passività. Sono i nessi associativi, del tutto involontari, che sono a fondamento della ricostruzione volontaria, come si è detto nel secondo saggio. Su questo punto emerge una differenza importante con la rievocazione. Nella memoria-racconto la volontarietà è molto più marcata. La rievocazione appare tendenzialmente come ciò che voglio raccontare del mio passato, mentre la rimemorazione appare come ciò che mi capita di ritrovare. Ma anche in questo caso le sfumature sono sottili. 15 Di fatto non è così, perché il racconto si adatta sempre all’uditore, è sempre configurato in vista di un uditore. Ma anche il racconto solitario può essere concepito come un racconto a se stessi, dove l’uditore coincide con una rappresentazione di sé.

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Quando dico a qualcuno “ho vissuto quattro mesi a Parigi”, non c’è uno scarto significativo tra questa proposizione e quella che potrei “dire” a me stesso in una rievocazione silenziosa. Non c’è lo stesso scarto che c’è tra la mia percezione di un oggetto esteriore e la descrizione in parole che posso comunicare ad un altro. Le parole attraverso cui il passato rievocato si ripresenta, le parole in cui prende nuovamente vita, sono parole comuni, sono essenzialmente condivisibili, così come i significati cui quelle parole danno espressione. Per questa ragione la rievocazione, a differenza della rimemorazione, può essere esteriorizzata senza che il suo contenuto sia modificato in modo essenziale. Il racconto del proprio passato può essere trascritto in un diario o in una autobiografia e in questo modo può essere affidato alla storia, oppure può essere comunicato in un racconto orale. In entrambi i casi diviene compiutamente accessibile agli altri. Questo, tuttavia, non autorizza a concepire la rievocazione come un ricordo collettivo. Il racconto del mio passato, anche se può essere perfettamente compreso dagli altri, rimane sempre e comunque il mio racconto. Nel momento in cui viene esteriorizzato cessa di essere in rapporto con il significato ritenuto, cioè cessa di essere in rapporto con l’esperienza vissuta di un soggetto. Ma in questo modo cessa anche di essere un ricordo. Un racconto è una rievocazione solo se è riconosciuto come un ricordo dalla coscienza ed è la ritenzione che rende possibile questo riconoscimento. 5) La rievocazione è una forma di immaginazione narrativa È possibile fantasticare senza l’ausilio di un’immagine intuitiva? La risposta a questa domanda è essenziale per comprendere se la rievocazione possa essere pensata come un fenomeno originario della vita della coscienza. Infatti, se la rimemorazione è un ricordo e nello stesso tempo una fantasia tetica, allora la rievocazione, o non è un ricordo, o dovrà essere qualcosa di simile ad una immaginazione narrativa. Il fatto che si possa inventare un’immagine di fantasia (il volto del dio Giove in una statua antica), così come un racconto di fantasia (una favola o un mito) ci autorizza ad ipotizzare un’immaginazione narrativa come esperienza parallela rispetto alla fantasia intuitiva. Io posso fantasticare un centauro: l’immagine di fantasia mi appare, quasi la vedo. Posso anche descrivere questa apparizione: “il centauro che vedo ha la barba nera e i capelli lunghi ecc.” Questa descrizione non è un’immaginazione narrativa pura, perché si fonda su un’immagine corrispondente che contribuisce ad esplicitare. Se però io immagino lo stato d’animo di un centauro mentre osserva il dio Apollo le cose sono radicalmente diverse: “Apollo: un damerino unto di profumi e pomate! Apollo: quell’insopportabile bamboccio dall’aria efebica, che se ne va in giro con la 185

sua cetra melensa… ecc.”. La descrizione di questo pensiero è una rappresentazione immaginaria. Potrebbe essere inserita in un racconto di finzione. Ma è evidente che, mentre immagino in questo modo i pensieri del centauro, io non ho a fondamento alcuna rappresentazione intuitiva adeguata. Non mi sembra di sentire un profumo fastidioso e non sono in grado di tradurre in un’immagine chiara quell’“aria efebica” che lo disturba tanto. È dunque lecito parlare di un’immaginazione narrativa indipendente dalla fantasia intuitiva ed è necessario interpretare la rievocazione come un racconto di finzione caratterizzato da una posizione di realtà. Su questo punto non mi dilungo, rimandando alle considerazioni già sviluppate nel secondo saggio a proposito della rimemorazione. 6) La rievocazione è autobiografica Si è detto che il riferimento soggettivo è ciò che distingue il ricordo dalla memoria e che la rievocazione può essere designata a buon diritto come una forma di ricordo. Affinché un racconto possa pretendere di valere come un’autentica rievocazione, è dunque necessario che il soggetto dell’azione rievocata coincida con il soggetto che sta rievocando. Nei giudizi riprodotti di cui si è parlato in precedenza l’io rappresentato è posto come coincidente con l’io attuale16. Quando dico: “in quel momento ho pensato X”, questa affermazione implica la rappresentazione di un io che pensa X e il riconoscimento della coincidenza di questo io e dell’io attuale. È la stessa dinamica di identificazione che è all’opera nella rimemorazione. Infatti la rievocazione si presenta sempre nella forma di un racconto in prima persona. Ma il racconto del proprio passato ha un legame ulteriore con la questione del soggetto. La rievocazione implica il riferimento all’esperienza del soggetto che ricorda, come accade anche nella rimemorazione; ma nello stesso tempo contribuisce alla costituzione dell’identità personale del soggetto che ricorda. Non posso affrontare in questa sede un problema complesso come quello dell’identità personale. Mi permetto però di rimandare alle fondamentali osservazioni di P. Ricoeur e H. Arendt a proposito del concetto di “identità narrativa” per sviluppare alcune ulteriori considerazioni. La risposta alla domanda “chi?”, a differenza della riposta alla domanda “cosa?”, esige di essere formulata nella forma di una storia. Non può essere formulata altrimenti. “Chi sono io? Io sono Martino Feyles, sono nato a Torino, figlio di Giuseppe e Cristina, mi sono sposato con Sofia e sono padre di Maddalena e Caterina... ecc.”. Oppure in un altro contesto: “Io sono 16 Abbiamo detto che nella rievocazione si trovano giudizi di due tipi diversi: giudizi autobiografici e giudizi riprodotti. Il problema della coincidenza tra io attuale e io riprodotto vale solo per i giudizi riprodotti. I giudizi autobiografici, infatti, sono giudizi attuali effettivamente compiuti dal soggetto.

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Martino Feyles, ho studiato a Roma con Pietro Montani, mi occupo di estetica e fenomenologia... ecc.”. La risposta alla domanda “chi?” è molteplice e le storie che individuano un’identità sono più di una. Ma ciò che è interessante, dal nostro punto di vista, è che tutte queste storie si presentano in una forma simile a quella della rievocazione. Quando dico: “Io sono nato a Torino, dove ho vissuto la mia infanzia, fino a quando avevo dieci anni”, io sto gettando uno sguardo comprensivo sul mio passato riassumendolo in una serie di giudizi autobiografici. A quanti di questi giudizi corrispondono delle rimemorazioni effettive? Quale immagine memorativa corrisponde all’espressione “la mia infanzia fino ai dieci anni”? Quanto tempo sarebbe necessario per “rivedere” i primi dieci anni della mia vita? Guardando le cose da questo punto di vista il rapporto tra rimemorazione e rievocazione si ribalta e la gerarchia (ammesso che abbia senso una gerarchia di questo genere) si rovescia. Se si considera il ricordo in funzione dell’esperienza intuitiva del soggetto, la rimemorazione avrà un indiscusso privilegio. Ma la vita della coscienza non è solo intuizione. Il ricordo è il fondamento della possibilità di identificazione degli oggetti e anche della costituzione dell’identità personale del soggetto. Il rapporto tra memoria e identità non è a tema in questo studio, ma nessuno avrà difficoltà a riconoscere questo nesso evidente: senza memoria non c’è identità e in particolare non c’è identità personale. Se dunque ci si domanda quale delle due modalità di ricordo che abbiamo distinto sia più importante per la costituzione dell’identità personale, ci si accorge che è la rievocazione ad avere maggiore incidenza. La risposta alla domanda “chi sono io?” è una storia, come ha mostrato Ricoeur in Sé come un altro17. Ma questa storia sembrerebbe essere costituita in primo luogo come un racconto e solo secondariamente come una sequenza di immagini.

17

P. Ricoeur, Soi-même comme un autre, Éditions du Seuil, Paris, 1990, tr. it. Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 2005, p. 231 ss.

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Indice dei nomi

Freud S., 9, 183n Halbwachs M., 8, 12, 14-16, 108110, 122-130, 132-133, 140, 145-153, 155, 160, 163, 177 Hume D., 82n

Agostino, 21, 108 Aristotele, 7, 108 Baddeley A., 97n Bakhurst D., 129n, 131n Bartlett F.C., 15-16, 132-137, 140142 Bellelli G., 129n, 131n Bergson H., 8-9, 21, 24n, 30, 152, 154, 155n, 158 Bernet R., 36n, 43n, 44n, 63n, 90n Brainard J., 131 Brandimonte M.A., 23n Brentano B., 51-52, 74 Bruno R., 19

Janet P., 8, 15-16, 146-147, 154160, 162-163, 177 James W., 21 Jedlowski P., 124n Kern I., 90n Ketcham K., 11n, 61n Kosslyn S.M., 74n Larsen S., 89n Loftus E., 11n, 60n, 61n, 84n, 85n Lurija A.R., 56n

Casey E., 48n, 58n, 70n, 112n, 115-117, 119, 139-140, 154, 159-164, 183, 184n Costa V., 19, 82n

Marbach E., 90n Montani P., 19, 138, 187

Derrida J., 9, 30, 50-53, 57, 101n De Warren N., 78n, 111n

Neisser U., 17, 89n

Ebbinghaus H., 16-17

Oliverio A., 17n, 18n

Poiché tutto il libro è costruito come un dialogo con il pensiero husserliano, si è deciso di omettere la voce “Husserl” dall'indice dei nomi.

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Sokolowski R., 81n Stiegler B., 36n, 52n, 170, 173, 175

Perec G., 131n Piana G., 55n, 164n Platone, 108, 120n Proust M., 101-102, 166, 176-177, 182n, 183n

Tarizzo D., 19 Thompson D., 96-97 Todorov T., 12n Trincia F.S., 19 Tulving E., 15-16, 84n, 117-123, 128, 141-142, 145, 153-154, 172

Ricoeur P., 10-11, 13-14, 16, 18, 28n, 31n, 69-70, 81, 91, 106110, 130n, 162, 182n, 186187 Ronchi R., 19 Rosa A., 129n, 131n Schacter D.L., 11n, 84n, 89n, 123n

Wilkomirski B., 11

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