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Italian Pages 160 [155] Year 2018
STRAUB/ HU LLET CINEASTI ITALIANI Piero Spi la
Sono soprattutto due i motivi che hanno spinto alla realizzazione di questo libro. Il primo riguarda la bella notizia giunta da Locarno, con la consegna del Pardo d'onore alla carriera per Jean-Marie Straub. Un riconoscimento che giunge dopo le recenti rassegne internazionali di New Yorlc, Madrid e Parigi, a segnalare la vitalità e la potenza di un'idea di cinema che fortunatamente non viene meno. Il secondo nasce invece dal sentimento di un risarcimento dovuto a Jean-Marie Straub e Danièle Huillet cineasti italiani. Hanno vissuto nel nostro paese per più di trent'anni, metà dei loro film sono stati girati in Italia o parlavano italiano, eppure hanno continuato a sentirsi esclusi, stranieri. Difficoltà, impedimenti, ostracismi. Posso testimoniare il loro scandalo quando il film dedicato al Nsiciliano più prestigioso di ogni tempo" (Empedode) venne rifiutato al Festival di Taonnina perché parlato in tedesco (i versi di Holderlin). Ma le cose non devono essere cambiate, se in questi giomi è capitato ancora di leggere una solerte dileggiatrice del miglior cinema italiano (il dileggio è una categoria critica molto in auge in questi tempi) che si divertiva a irridere la scelta fatta dal direttore di Locarno, Carlo Chatrian, e un cinema definito una Nfustigazione per lo spettatore". Niente di nuovo sotto il sole se non la constatazione di una persistente, non minoritaria, separatezza nei confronti di un cinema alto e fondante come quello di Straub e Huillet (un Nabbecedario"), che è un onore poter considerare anche italiano. (p.s.)
Sommario
Un totale equilibrio incarnato: una biografia
p. 11
Straub-Huillet e lo stupore del cinema
p. 15
Straubsu Straub, il cinema e altro Sullo stile
p.35
Una lettera
p. 39
11 Bachfilm
p. 43
Presentazionedi Othon
p.49
Contro il Sistema e lo Stato
p.53
Il doppiaggio è un assassinio
p. 55
Consigli per registi
p. 59
Straub e l'Italia: due interviste Il metodoStraub-Huillet (1989)
p.61
Straub-Huillet cineasti italiani (2001)
p. 79
Post-it (Due o tre cose su quegli incontri)
p.99
Suifilm "italiani" di Straub-Huillet Roma non è una città operaia (Lezioni di storia)
p. 103
Pavese, Brechte i contadini (Dalla nuvola alla resistenza)
p. 104
Una sera al Labirinto di Roma (Rapporti di dasse)
p. 106
li verde della terra di nuovo vi illuminerà (La morte di Empedocle)
p. 109
"Troppo male offendere il mondo" (Sicilia!)
p. 111
Le storie non possono essere illustrate (Operai, contadini)
p.113
li terrorista sono io (Quei loro incontri)
p.113
Una serata al Filmstudio La realtà ha una ricchezza irraggiungibile
p.115
Post-it (Una festa romana)
p. 125
Sugli ultimi film di Jean-Marie Straub
Il congedo e i fantasmi
p. 129
Filmografia
p.141
Bibliografia essenziale
p. 152
Nota editoriale di Fabio Francione
p. 155
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UNTOTALE EQUILIBRIO INCARNATO: UNA BIOGRAFIA È nato a Metz, la città di Paul Verlaine, sotto il segno del Capricorno, nell'anno dell'awento al potere di Hitler; gli è stato
imposto il nome di uno dei primi obiettori di coscienza (JeanMarie Vianney, parroco di Ars); fino al 1940 sentì e studiò solo il francese, all'improwiso fu costretto a partare in tedesco. La vita di Jean-Marie Straub, così come la racconta lui stesso, è sempre stata segnata da rotture violente e faticose ricomposizioni, che dal dopoguerra in poi hanno avuto il cinema come protagonista. Nel 1954 Jean-Marie si trasferisce a Parigi, dove è stato assistente di Gance, Rivette, Renoir, Bresson. Allo scoppio della guerra d'Algeria emigra in Germania dove, nel 1962, realizza il suo primo film, Machorlca-Muff (un pamphlet antimilitarista), e, nel 1965, Non riconciliati, sulla Germania ancora prigioniera del suo passato. Nel 1967 gira il suo capolavoro, Cronaca di Anna Maddalena Bach (sulla vita e l'opera del grande musicista viste e raccontate dalla moglie) e il cortometraggio Il fidanzato, l'attrice e il ruffiano (riduzione di un testo teatrale di Ferdinand Bruckner). Una vertenza con l'editore di Bruckner (che pretende la distruzione di tutte le copie e del negativo del film) e le feroci critiche subite nell'occasione (R/mtelegram scrisse: «è tempo di tirare un duro tratto finale... questo nuovofilm, lungo 23 minuti, è di fatto 24 minuti troppo lungo!») convincono Straub a lasciare la
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Germania per Roma, dove sul Palatino, nel 1969, gira insieme a Danièle Huillet (Parigi, 1936 - Cholet, 2006) il suo primo film "italiano", Othon, dalla tragedia di Corneille. Una proficua stagione italiana, durata quasi trent'anni, fatta di incontri (la storia, la cultura, la "luce tragica e crudele" del paese), occasioni, nuove idee e progetti. Un «totale equilibrio incarnato», quello di Straub e del suo cinema (la definizione è sua, detta a proposito di Bach e la sua musica), ma anche un'assoluta fiducia nel valore espressivo dello schermo, l'immagine, il suono. Una fiducia che non ammette dubbi. Straub, dapprima da solo, poi con l'assidua e preziosa collaborazione della moglie Danièle Huillet, ha fatto con il suo cinema tabula rasa di molte stratificazioni preesistenti (stilistiche, linguistiche, drammaturgiche, figurative, sonore) mettendo in atto una continua provocazione intellettuale e pretendendo di smuovere lo spettatore dalla sua condizione di passività. A un intervistatore che gli chiedeva come mai i suoi film erano sempre «senza sorrisi e senza emozioni», ha risposto: «Se lei non ha emozioni non è colpa mia. lo non sono responsabile dell'assenza di emozioni da parte degli spettatori». (In Reporter, 10 aprile 1985). Il risultato è che le sue opere formano da sempre una straordinaria filmografia "fuori norma" e semisommersa. Straub non è un uomo facile, come dimostrano le interviste, le dichiarazioni, le infuocate conferenze stampa tenute a Cannes, Venezia, Berlino, Locarno, Pesaro, e, da ultimo, per restare all'Italia, anche un combattivo incontro col pubblico awenuto anni fa all'Arena Sacher di Roma, moderato da Nanni Moretti,
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dopo la proiezione di Sicilia! Assoluto e assertorio come il suo cinema («l'arte del cinematografo non è altro che l'applicazione dello spazio al tempo»), nemico giurato dei direttori dei festival, dei critici cinematografici («non sopporto le puttane e la maggior parte delle volte, ahimé, sono pubbliciste»), dei montatori («il 95% delle volte sono i fornai dei produttori»), del doppiaggio («è la camera a gas dei film stranieri»), Jean-Marie Straub si è conquistato un posto nella storia e nella leggenda del cinema. Per le sue innovazioni, per il suo rigore (mai un cedimento in più di cinquant'anni di carriera), per la cura maniacale con cui costruisce i film (mesi di preparazione prima di iniziare le riprese, sceneggiature di ferro in cui sono previsti gli obiettivi da usare e persino, quando ancora si lavorava con la pellicola, i momenti dei cambi rullo in proiezione). Ma anche per certe sue affermazioni solo in apparenza paradossali («un film non deve significare nulla, se significa qualcosa finisce per confermare le persone nei loro clichés»). La sfida di Straub e Huillet è sempre stata di tradurre !'infinitamente grande delle ideologie e dei passaggi decisivi della storia con l'infinitamente piccolo, ma perfetto, del loro lavoro. Appunto un totale equilibrio incarnato, in cui un modo di intendere e fare cinema prova a fondersi semplicemente, arrnoniosamente,con lavita.
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STRAUB-HUILLET E LO STUPORE DEL CINEMA Tornare a riflettere sul lavoro e sui film di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet vuol dire per prima cosa riflettere su un modo di vivere e fare cinema dawero unico, orgogliosamente minoritario e tenacemente contrapposto rispetto ai modelli di produzione vincenti e ai parametri estetici che ne derivano. Nella stagione delle tecnologie digitali sempre più sofisticate, delle realtà virtuali sempre più awolgenti, del sistema di reti in cui la merce e il mercato si sono travestiti con le forme della comunicazione, di fronte all'inflazione audiovisiva dove a contare sono per prima cosa l'eccesso, la velocità, la serializzazione delle immagini, è ancora più preziosa la presenza di un modello espressivo basato invece sull'irripetibilità dell'evento cinematografico, sull'unicità e la qualità estetica dell'inquadratura che puntando solo su se stessa riesce comunque a stupire, a contare, ad essere. Quello di Straub-Huillet è un cinema altro, innanzitutto perché non ha mai cercato la competizione con gli altri modelli di cinema, ma semmai una sincerità assoluta nel rapporto col pubblico, perché non considera lo spettatore un interlocutore da adescare o stordire, ma semmai un soggetto complice, capace (potenzialmente) di mettersi in gioco, di riappropriarsi del suo ruolo, delle sue ragioni e delle sue (eventuali) emozioni; un cinema dunque non compiacente in nulla (e infatti il mercato lo ha rifiutato e rifiuta), libero da ogni cliché estetico, ricco nella sua estrema povertà di mezzi (il capitalismo, l'industria non ci possono mettere mano), condizionato semmai solo dalla realtà
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fattuale in cui agisce, dalla difficoltà e dalla fatica del suo farsi. Dunque un cinema che sin dall'inizio, Machorka-Muff (1962) da Heinrich 8611, fino a Operai, contadini (2001) da Elio Vittorini, a Kommunistel'\ work in progress presentato al Festival di Locarno del 2014, coerentemente fa tabula rasa di tutte le stratificazioni preesistenti (stilistiche, linguistiche, sonore, figurative, narrative) per mettere in atto una provocazione rivolta prima di tutto allo spettatore, sollecitato a compiere uno scarto decisivo che lo liberi dalla posizione di subalternità rispetto allo scherrno e lo metta nelle condizioni ideali per esercitare il suo sguardo. Non narratività («il cinema - dice Straub - non deve perdere tempo a raccontare storie con le immagini»), non emozioni facili e a colpo sicuro («non siamo responsabili delle emozioni del pubblico»), fuori da ogni star system, nessun tornaconto del dare e dell'avere, «le immagini e i film non sono monete di scambio». Semmai le immagini sono un viatico da mettere a frutto e valorizzare. Se si vuole. È un bel punto fermo da cui partire. Mentre il cinema internazionale di consumo, opulento di risorse e senza più desiderio, ipertrofizzato dalla pubblicità, autoreferenziale nel linguaggio, si awia in tutt'altra direzione, assomigliando sempre più a se stesso e dunque annunciando ogni volta la sua fine, mentre il Sistema dell'audiovisivo isola, assorbe e metabolizza anche le eccezioni e le ipotesi di marginalità, Straub-Huillet prima, e Straub poi da solo, hanno continuato a percorrere la loro strada di autori, isolati e irriducibili (un termine che solo le cronache giudiziarie hanno reso negativo), senza inseguire gli eventi, le mode, le consuetudini,
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Sicilia! (1988)
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ma puntando sul rigore (totale) del loro lavoro e sull'impatto (provocatorio e spesso scandaloso) delle loro opere. E con i loro film si continua a fare i conti. Cinema troppo semplice, si direbbe, per essere accettato da un pubblico ormai abituato a ben altro, un cinema che torna alle origini(l'importanza dell'inquadratura, il valore del fotogramma e della percezione) e, partendo di lì, rifiuta i travestimenti e gli orpelli per andare sempre al cuore dei problemi, per affrontare in termini estremi e radicali i temi del presente e del futuro che ci attende(anche quando si indugiasul passato). In questa ricerca e in questa pratica, il cinema di Straub-Huillet trova la sua dimensione più importante: sia dal punto di vista linguistico, perché non concede nulla alla spettacolarizzazione della realtà (la «pornografia» secondo Straub) ma partendo da essa punta ad un suo radicale superamento, alla totalità di un equilibrio estetico, raggiunto solo nei confini determinati dal fotogramma; sia da un punto di vista politico, perché propone ogni volta riflessioni necessarie e centrali sulla condizione degli uomini e sul rapporto degli uomini con il mondo. Con la loro scelta, linguistica ed estetica, di far vedere (e sentire) ciò che al cinema in genere non è detto o è diventato inusuale, Straub e Huillet sono gli autori che sembrano percorrere con maggiore coerenza la strada, semplice e terribile, invocata da Buiiuel: fare dei film capaci di ricordare che non viviamo nel migliore dei mondi possibili. Parlando di volta involta di storia, letteratura, musica, pittura, di razzismo e lotta di classe, di invincibili giochi di potere e rivoluzioni sempre intempestive, passando da Comeille a Kafka,
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da Bach a Schoenberg, da Holderlin a Vittorini, a contare nei film di Straub-Huillet è tutto quello che non si consuma in un facile riconoscimento. Si parte da un testo, sempre, per arrivare comunque a un altro testo, che è quello del cinema, fatto di inquadrature e découpage, dove a contare non sono più solo la musica di Bach o la pittura di Cézanne o i versi di Holderlin e Corneille, bensì quella musica, quella pittura, quei versi, con in più la riscoperta di una luce, di un suono, del giusto peso dato a una parola (mai detta con la tecnica insegnata dalle scuole di recitazione, e invece sempre "citata", fatta propria dall'attore) o di una pausa improwisa che spezza il discorso, o, più semplicemente, della forza evocativa della memoria. Movimenti di macchina limitati al massimo, comunque sempre essenziali, o, anche lunghe, insistite, sconcertate panoramiche, profondità di campo misurata dagli attori e dalle cose inquadrate, un controllo assoluto del set. Una recitazione classica ma non perfetta, scolpita, priva di emozioni che non siano quelle dell'attore che agisce senza rete, impegnato in lunghi monologhi, detti restando immobile e spesso guardando obliquamente rispetto all'obiettivo, verso un fuori campo che, così, elegge o rifiuta, dialetticamente, lo sguardo dello spettatore come privilegiato interlocutore. È "il fuori" dell'inquadratura che non viene mai del tutto escluso, che esiste e si annuncia (il fruscio del vento sull'erba, l'ombra delle nuvole, il rumore della città o della campagna), che arricchisce e smargina "il dentro". Con Straub-Huillet il cinema mette in atto ogni volta la prova più ardita: coniugare la densità e il valore del testo con la misura
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Sicilia! (1988)
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necessaria, quasi fisica, incontrollabile a dispetto di qualunque rigore, dell'adattamento visivo. Nel cinema di Straub-Huillet, il testo è certamente presente e fondamentale ma vale solo come punto di partenza e ritorno del processo cinematografico. Il «ritorno al testo» è una negoziazione che implica sempre uno scambio (Seguin). Ma a vincere sarà comunque il cinema perché si tratta alla fìne di un commercio paradossale, dato che StraubHuillet non si aspettano nulla né sollecitano nessuno. La loro posizione rispetto al testo originario, per quanto importante e complesso esso sia, èsempre di mettersi alla giusta distanza, per meglio vederlo e, con Brecht, per meglio giudicarlo. Dunque un metodo, un rituale volutamente scostante, che naturalmente si è attirato le solite accuse. Stile teatrale, cinema saggistico, letterario, cinema da laboratorio. Niente di più falso perché quello di Straub-Huillet è cinema-cinema al massimo della sua potenzialità espressiva: a contare nei loro fìlm è tutto quello chesi vede esi sente: ogni centimetro quadrato del fotogramma, ogni suono rubato dal microfono (il formato e l'apparecchio di registrazione sonora sono le uniche tecniche a cui Straub e Huillet prestano attenzione). In teatro l'occhio dello spettatore seduto in platea si sposta, sceglie, privilegia, si distrae. Nel cinema di Straub-Huillet, lo sguardo e l'attenzione dello spettatore non hanno scelta e sono costretti a non perdere nulla di un'inquadratura enucleata, reiterata. Il risultato è che il campo visivo delimitato dalla focale - all'interno della quale tutto awiene e tutto il resto (visivamente) è escluso - moltiplica e dilata il senso espressivo ed emotivo dell'immagine nel suo insieme (il "dentro"
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eil "fuori"). Da Othon a La morte di Empedocle, da Cézanne a Operai contadini, centrale è sempre e solo la ricerca del migliore equilibrio possibile dell'inquadratura e, all'interno di questa ricerca, il rapporto tra l'inquadratura e il suo spettatore, l'inquadratura e il mondo circostante. Appunto, puro cinema e null'altro.
li récit: sulla «triviale banalità dell'immediato» Dei film si può e si deve dubitare, dei film di Straub-Huillet mai. Perii cinema più tradizionale il dato di partenza non è altro che il linguaggio stesso del cinema, la sua possibilità infinita di articolazione, la naturale capacità evocativa. Se il cinema generalmente è condannato alle dimensioni univoche e irreversibili del tempo e dello spazio, alla necessità di "ordinare", "enumerare", l'infinito e caotico materiale narrativo messo a disposizione dalla realtà nelle coordinate obbligate (logiche e cronologiche) del racconto, il cinema di Straub-Huillet parte sempre da un gradino oltre e si muove in quella zona franca del cinema in cui, a dispetto di ogni pur rigoroso "controllo", nulla viene dato per scontato e dunque tutto può accadere. I film di Straub-Huillet non vogliono "comunicare" niente a nessuno («un film non deve significare nulla - dice Straub - perché se significassequalcosaconferrnerebbe le persone nei loro clichés») e quindi non devono mostrare il continuum narrativo della metonimia, ma semmai far scattare l'immediato dell'idea
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Cronacadi Anna Maddalena Bach (1967}
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(l'intuizione, la visione, il riconoscimento, lo stupore). È solo in questo ambito che i film di cui parliamo giocano il proprio ruolo. Sembra poco ed è invece moltissimo. «L'immediato non ha valore, è la più vana e la più triviale banalità» (Hegel). Eppure il cinema, questa «bassa pratica» produttiva e commerciale, parte proprio dalla banale trivialità del materiale disponibile per tentare di innescare un'attesa e una sorpresa. Il cinema di Straub-Huillet va oltre questa banalità e questo tentativo perché disloca altrove il terreno della sua possibile comunicazione e della sua estetica. Realizza, nei fatti, la disgiunzione tra immagine e contesto, dove una è autonoma rispetto all'altro, e immagine e contesto insieme non ripetono «banali trivialità» ma parlano (o tentano di parlare) al cuore e alla ragione di chi guarda. Come dice Straub, importante è non correre dietro alle storie(di certo intraducibili e inenarrabili con supporti inaffidabili come le immagini), ma invece abolire il rapporto narrativo tradizionale spostandolo sul fronte del cinema dell'istante, dello scacco, dell'occasione, dove ogni parola, ogni immagine, ogni suono, siano autonomi, unilaterali, sorprendenti e dunque inimitabili, irripetibili. Meglio che il niente e l'owio, il cinema di StraubHuillet offre l' impalpabilità dell'evento possibile, l'inconsistenza di un rapporto comunicativo che poggia su nessuna garanzia. Il racconto (il passaggio di un'esperienza o un'emozione da una fonte ad un'altra) esiste comunque, solo che è una pratica del raccontare devitalizzata, che non concede nulla al sentimento estorto e compiaciuto, all'appiglio collaudato dello stile, alla
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struttura precostituita della forma. In un modello espressivo esclusivamente basato sulla visibilità (certo sempre apparente, mille volte ingannevole) Straub-Huillet portano alle estreme conseguenze questo presupposto teorico liberandolo da ogni alibi. Visibilità data da un piano costruito e reinventato come se fosse sempre la prima volta del cinema, da una colonna sonora in cui parole e rumori sembrano scoperti soltanto in quel momento nel loro peso e valore. Parole, gesti, sguardi, silenzi, che costituiscono alla fine le tracce di una comunicazione possibile, il progetto di una ricostituzione del tempo e dello spazio messi in campo grazie al cinema, che ci appartengono e di cui (basta volerlo) possiamo riappropriarci. Sta qui gran parte dell'unicità e irripetibilità di Straub-Huillet. Il cinema, almeno nella sua accezione più alta, è una terra di nessuno in cui c'è sempre la possibilità di incontrarsi, confrontarsi, scoprire qualcosa che valga, prima di rientrare nei confini. In questa direzione, il cinema di Straub-Huillet è dawero esemplare. Sembra fatto apposta, infatti, per mettere in imbarazzo chi ci si misura, ma solo perché fa capire e mette in campo con chiarezza quello che in genere è sottinteso, sottaciuto, negato. Con i loro film Straub-Huillet costruiscono e delimitano (non a caso sono stati definiti geometri, geografi, topografi, esploratori) quel terreno che di volta in volta può essere punto di rottura e di svolta. Cinema come sfida, ma senza arroganza. Cinema non noioso e, a ben vedere, neppure difficile, solo esigente. Di fronte a questi film, a questo cinema, si può anche rimanere chiusi in se stessi, opporre un rifiuto, tornare sui propri passi, a mani vuote. Cinema però
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sempre prezioso, perché consente di misurarsi con le forme del racconto più autentiche che possa fornire un film: le esperienze di chi ci ha preceduto e che ci riguardano ancora, le contraddizioni, le prevaricazioni, le ambiguità, le occasioni perdute, le utopie e le sconfitte degli uomini, gli atti di ribellione, gli equilibri perduti e ripristinati. Sempre parlando di noi stessi, dei padri e dei figli, degli operai e dei padroni, pur dando l'idea di parlare d'altro: Bach alle prese con i suoi committenti, Kafka in lotta con i suoi incubi, Fortini e le contraddizioni della storia, Vittorini e i suoi astratti furori. la vecchia Johanna Fahmel, protagonista di Non riconciliati, riconosce nei nuovi potenti che sfilano in strada le fisionomie e i vizi dei vecchi despoti («Ho paura, vecchio mio. Nemmeno nel 1935, né nel 1942, mi sono sentita tanto estranea tra la gente»). I protagonisti di Operai, contadini sono sempre alle prese con vecchie e nuove contraddizioni di classe, con la mancanza di solidarietà, il tradimento, la sconfitta. Karl Rossmann in Lotte di dasse va in America per sfuggire a se stesso, mentre il Viaggiatore di Sicilia! fa ritorno alla sua terra natale perché non può fare a meno di recuperare radici mai spezzate. Chi va e chi viene, chi si muove e chi resta, prima che sia tardi, col rischio di bruciare i tempi. Dunque, cinema di grandi temi (altro che minimalismo), cinema alla ricerca delletracce perdute.dei segni che rischiano di essere sommersi, cinema che ricongiunge le separazioni e colma le tante lacune della storia. Il récit nei film di Straub-Huillet sta nel loro essere sempre perfettamente omogenei all'oggetto di cui parlano, alla materialità, all'essenzialità della visione. È lì, e solo lì,
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il loro dire, il loro esprimere: le assenze, i vuoti, i silenzi, perché tutto può ancora essere detto, ed è questo che vale.
L'immaginee il trauma L'immagine straubiana costruita così meticolosamente e con un'adesione che è stata giustamente definita «morale», è ricca innanzitutto perché conta sulla sua fisicità, perché ha in sé un patrimonio di elementi iconici e sonori dove a valere è tutto, senza graduatorie o sottolineature: il centro dell'inquadratura è prezioso quanto il margine, la parola pronunciata da un testo ha lo stesso peso del suono o del rimbombo o del fruscio regalati dalla natura, l'ombra che improwisamente si annuncia è importante quanto lo spazio di cielo che incorona la testa del personaggio in primo piano e che occupa la parte superiore del fotogramma. Confini dell'inquadratura che delimitano l'universo visivo che «conta», in quel momento, qui e ora, soprattutto per ciò che essi escludono e quindi inevitabilmente evidenziano ancora di più. È la dialettica, ricordata da Bazin, tra la forza centripeta del piano cinematografico e la spinta contraria verso l'esterno, che con Straub-Huillet trova ogni volta la sua più chiara riproposizione. Allo spazio delimitato e vulnerabile dell'inquadratura si aggiunge, con effetto moltiplicatore, il tempo, la durata della ripresa che amplifica, dilata e trasforma l'immagine in maniera inusuale, rendendola diversa da quello che è o dovrebbe essere
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(naturalisticamente) e dunque portandola ad essere riconoscibile ad un altro livello, decontestualizzata e più ricca di espressività. Ecco dunque che la realtà così rappresentata - lì, in quel momento/qui, ora, nella visione - non riesce a proporre nessuna verità in più, viceversa sembra swotarsi e liberarsi di tutto ciò che è abitudine, quotidianità, distrazione. L'immagine si riferisce a nessun altra realtà se non a se stessa, e in questa autoreferenzialità acquista la sua autonomia linguistica rispetto al corpus del film, diventando corpus essa stessa. li tempo del film, si sa, è sempre limitato; ma all'interno del suo uso espressivo l'autore ha generalmente infinite possibilità di intervento. Ad esempio, può scomporre e ricomporre il flusso narrativo, utilizzando le varie forme di montaggio, sintetizzando o dilatando i momenti del racconto, dando una dimensione temporale realistica e insieme illusoria. Straub-Huillet partono da una concezione diametralmente opposta, perché non fanno ricorso alle forme consuete del racconto o della rappresentazione, e in particolare moltiplicano la dimensione del tempo e dello spazio lavorando sulla profondità e fissità dell'immagine. Nell'inquadratura straubiana, non essendoci punti di riferimento narrativi certi, ma avendo a disposizione «il tempo a una dimensione», scatta una specie di vertigine immobile, un evento espressivo, direbbe Blanchot, che ignora «la linea retta» e cresce e si awita su se stesso. All'interno di questo processo, niente si sposta da un punto ad un altro, e non si verifica nessuno "scambio" apparente: è solo il cinema che, al di fuori delle esemplificazioni visive più ricorrenti e dei
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tradizionali punti diforza, afferma la sua alterità, il suo traumatico scostamento dall'uso corrente (e corrivo, direbbe Straub) della cinematografia e delle sue consuete «monete di scambio» (metafora, polivalenza, allusione, enigma, suspense, autobiografia). In sintesi, è quanto più volte sostenuto da Straub, secondo cui l'immagine cinematografica non serve a contrattare un tornaconto o a instaurare un terreno di confronto, è invece un dono che, a determinate condizioni, può essere messo convenientemente a frutto grazie alla sua natura "destrutturata" e al trauma operato in uno dei processi più radicali della visione: per poter avere qualcosa di più o anche di meno, certamente di diverso, da ciò che la piatta rappresentatività della realtà può offrire (il saldo narrativo, il dato realistico, a cui lo spettatore del cinema è condannato). Non è cosa da poco. Sta qui, infatti, il sentimento non so se del miglior cinema possibile, certamente di quello destinato a soprawivere a qualsiasi celebrazione.
I personaggi/glispettatori I personaggi dei film di Straub-Huillet non si fanno illusioni, non credono alle promesse di nuovi mondi né alle prospettive incerte della democrazia borghese, hanno invece il sentimento incombente di un'ennesima sconfitta a cui ci si può opporre solo resistendo: alle minacce della storia, alle infamie del tempo, alle strade mille volte percorse dell'esilio. Cinema non-riconciliato,
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irriducibile, perché parla a nome di questa sconfitta ed emarginazione, perché dà voce a «esseri umani con pochi averi» e a chi ha in sé, e coltiva con il cuore e la ragione, un'indomita volontàdi opposizione. Con Straub e Huillet è utile partire sempre dalle loro parole, tenere presenti le chiavi di lettura che propongono per i loro fìlm (in questo senso sono tra gli autori cinematografici più lucidi che sia possibile incontrare) e, più in generale, per il loro cinema visto come un unicum dove i vari elementi si sviluppano o interrompono con una interna imprescindibile coerenza. C'è un fìlo ininterrotto che lega tutta la loro opera a dispetto degli scarti inattesi, dei zig zag ripetuti nei meandri della storia, dei viaggi senza sosta dal passato al presente, da autori classici ad autori contemporanei. Un fìlo rosso che lega il giovane Othon, alle prese con gli eterni intrighi del potere (mentre dal colle Palatino si sente distintamente il traffico della Roma contemporanea) a Giulio Cesare, visto e commentato dalla parte dei contadini e dei legionari ( Lezioni di storia), alle persone-personaggi di Operai, contadini che si mettono in scena senza ideologismi e sentimentalismi con le parole di Vittorini. Personaggi che si passano il testimone come in un'ideale staffetta, in un eccezionale inimitabile discorso d'autore che, fra temi, fughe e variazioni, ripropone di fìlm in fìlm la stessa sfida, lo stesso progetto. I contadini di Straub-Huillet - come scrive Fortini a proposito di Da/la nube alla resistenza - non costituiscono un'ennesima arcadia; come gli operai diseredati non costituiscono una mitologia di classe. Ed è il punto da cui parte,
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Cronaca di Anna Maddalena Bach (1967)
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ad esempio, un film come Operai, contadini. Gli uni e gli altri sono proposti nel momento dell'ansia e del dubbio, della ricerca in se stessi dell'antica ferita, nella messa a confronto dei reciproci desideri, delle attese insoddisfatte che si fanno impazienti e del sentimento di sconfitta che incombe. È un confronto inevitabile per chi fa e intende il cinema a certe condizioni, tra il progetto ambizioso e la realtà disarmante che si è chiamati a rappresentare. Una realtà inadeguata che sa sempre di paradosso, come paradossale è lo stato dell'Italia dell'immediato dopoguerra come dell'Italia post-industriale e dei nostri anni desolanti. li cinema di Straub-Huillet, dal loro film d'esordio parla - come sempre - di operai e contadini, come già di politici o borghesi o imperatori, parla di ieri e di oggi, e delle sconfitte che preparano altre sconfitte. Con consapevolezza, ma mai rassegnazione. Come l'arrotino di Sicilia!, che nella luce abbagliante della terra siciliana, e davanti alla porta di una chiesa monumentale, chiede alla vita nient'altro che «forbici e coltelli da arrotare, spade e cannoni». Sempre contro Golia, dalla parte di David.
Presente/futuro
Se come scriveva Serge Daney il cinema, per vocazione e impronta di nascita, appartiene soprattutto alla città (la fabbrica di Lumière, gli inseguimenti di Charlot, la metropoli di Sunrise ), nessuno prima di Straub-Huillet ha mai saputo fare con tanta
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forza e lucidità un «cinema contadino», un cinema che non respira l'aria del teatro di posa ma fa respirare l'aria aperta dei sentieri scoscesi (sempre più faticosi da raggiungere: dalle pendici dell'Etna alle selve intorno a Buti), delle pareti a strapiombo e delle forre, dove siano sempre meno presenti le tracce dell'attività umana e dove regnino invece il mormorio del torrente e il suono continuo degli uccelli, dove la semplice ombra di una nuvola che passa, oscurando per un attimo il fotogramma, o il respiro inedito del silenzio, acquistano il peso di un evento. Il cinema di Straub-Huillet è tutt'altro che povero, può forse apparire disadorno e ostico perché propone la semplicità dell'Inizio (del cinema, della vita), perché sottopone la regia e la creatività dell'immaginario alle costrizioni di una severità desueta: limitate posizioni della macchina da presa, tempo reale delle riprese, suono rigorosamente in presa diretta, luce naturale, location sempre più estreme, prove estenuanti. Limitazioni che, beninteso, possono diventare anche autentiche ricchezze. In questo senso, è giusta l'osservazione di Aprà sul fatto che il cinema di Straub-Huillet è una specie di «abbecedario», owero un'esemplificazione incarnata delle basi elementari di quest'arte, inventata dagli scienziati e sublimata dai visionari, resa però possibile dall'alto magistero degli artigiani. Contro la routine dell'uso (o abuso) comune della strumentazione tecnica, StraubHuillet sfidano anche l'accusa di primitivismo (o, al contrario, di formalismo) per ribellarsi a un'industria volgare che appiattisce le differenze e, peggio, azzera le potenzialità più autentiche della visione cinematografica. Il cinema a cui essi ambiscono è
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semplice e insieme ogni volta sorprendente, una terra in trance dove viene messo in scena lo scontro-incontro di alcuni visionari (o «fantasmi», come in Operai, contadini o in Kommunisten), dove il cinema stesso, arricchito della sua essenzialità ritrovata e della messa a bando di ogni residuo privilegio, riesce a riportare alla luce immagini vere ed emozioni dimenticate. Un cinema che ci ricorda anche alcune verità inevitabili. l'uomo non è, non sarà mai, il centro dell'universo. È invece una parte del tutto, marginale e insieme eccezionale. In lui, nel suo manifestarsi, non c'è mai nessuna verità, eppure è da lui (fosse il più umile degli uomini) che bisogna sempre partire ed è a lui che bisogna fare ritorno. Rosa luxemburg scrisse che la sorte di un insetto non è meno importante della sorte di una rivoluzione. Con il loro cinema solo apparentemente assertivo, che si limita a «suggerire» e mai a «mostrare», che lascia vedere o capire senza però guidare lo sguardo o attirare l'attenzione, Straub-Huillet ripetono e confermano quella fondamentale verità, non stancandosi di tradurre !'infinitamente grande delle ideologie e dei passaggi decisivi della Storia con l'infìnitamente piccolo di una loro inquadratura. In li cinema di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet: "Quando il verde della terra di nuovo brillerà" - Bulzoni Editore, Roma 2001, qui riproposto con lievi aggiornamenti.
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STRAUBSU STRAUB, IL CINEMA E ALTRO
Sullo stile Ho sempre avuto orrore - anche in Bresson, che pure mi piace molto - dei campi/controcampi fatti in maniera da vedere prima un personaggio di faccia e quindi, nel controcampo, la nuca dello stesso personaggio. Per me questa nuca non appartiene allo stessopersonaggio, diventa come un tronco d'albero; dimentico che la nuca che c'è sullo schermo è quella del personaggio ripreso di faccia nell'inquadratura precedente. Credo che in questo modo di fare il cinema ci sia una mancanza di rivolta nei confronti di procedimenti fotografici superati: ai fotografi piace molto avere dei primi piani. Per me un'inquadratura (pian) è un'inquadratura, è cioè una realtà oggettiva che costituisce un tutto, che non ha alcuna funzione: narrativa, psicologica o altro. Non bisogna credere per questo che io arrivi automaticamente a raccontare un massimo di cose con un minimo di inquadrature. Si tratta soltanto del risultato di una lunga pazienza, senza che vi sia da parte mia, all'inizio, una qualche volontà anticonvenzionale. Prendiamo,come esempio di quanto voglio dire, lasequenza del balcone, in Nicht Versohnt, da cui la vecchia Johanna spara. Dapprima ho avuto l'idea di girarla in tre, quattro o cinque inquadrature. Si trattava, molto semplicemente, di fare un primo piano di lei che estrae la pistola dalla borsa, un'inquadratura a favore di lui e un'inquadratura a favore di lei durante il dialogo,
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ecc. Solo a forza di lavorare e di riflettere sull'idea di questa sequenza sono giunto a girare la sequenza con una sola inquadratura: Johanna sul balcone, inquadrata un po' da lontano, tanto che si vede anche la balaustra; arriva quindi il vecchio Heinrich e, seguendo il suo movimento, la macchina da presa avanza verso il balcone, fino ad escludere la balaustra; si svolge quindi il dialogo. Sul fatto che questa piccola sequenza sia girata con un'unica inquadratura si basa il rapporto fra i due personaggi. Proprio per questo essa diventa anche toccante, perché si ha l'impressione che i personaggi siano liberi. Se ci fossero stati dei tagli, com'era possibile fame, non si avrebbe avuto l'impressione che la vecchia sia libera di tirare, che il suo sia veramente un atto libero; lo stesso si può dire del vecchio. Questi la distoglie dallo sparare su un personaggio del passato -Vacano - e la spinge a sparare prima su uno del presente - Nettlinger - e poi, per così dire, su uno dell'awenire - M -; infatti quest'ultimo personaggio, questa sorta di opportunista contemporaneo, non è affatto un personaggio del passato. li vecchio le dice «Guarda là, il nostro vecchio amico Nettlinger. Già che ci siamo, preferirei piuttosto sparare a lui»: è la prima idea, dato che Nettlinger è giovane e fa ancora parte dell'attività politica contemporanea; quindi Heinrich ha una seconda idea: «Ma forse ci ripenserei: l'assassino di tuo nipote sta nel balcone accanto». La maggior parte dei critici tedeschi non ha fatto attenzione alla frase «L'assassino di tuo nipote», che fa capire - dato che sappiamo bene che Joseph, nipote di Johanna, è vivo - come il personaggio sul quale Johanna alla fine spara, e che abbiamo
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Mosè e Aronne(1974)
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visto due sequenze prima nella camera d'albergo contigua a quella ora occupata dalla vecchia, non sia affatto un ex-nazista, ma un uomo politico contemporaneo, che può appartenere tanto alla CDU quanto all'SPD. In B611 era chiaro che apparteneva alla CDU; io ho voluto che potesse appartenere anche all'SPD, perché questo partito ha tradito quanto la CDU: innanzitutto perché aveva più cose da tradire e poi perché, in fondo, è ancora più opportunista dell'altro. È chiaro quindi cheJohanna spara su un assassino futuro, potenziale. Grazie a questo lavoro di pazienza, che mi ha permesso di arrivare a una sola inquadratura, la sequenza diventa una sequenza di affascinamento: il vecchio affascina la vecchia, spingendola verso il presente e il futuro, facendola uscire dal passato in cui è chiusa; ma nello stesso tempo, e per lo stesso motivo, l'atto della vecchia Johanna diventa un atto libero. Uno dei film che più mi hanno colpito in questi ultimi tempi è stato Gare du Nord di Jean Rouch, proprio perché si basa anch'esso sul fatto di essere girato praticamente in un'unica inquadratura: è in questo che interviene la libertà dei personaggi. Posso aggiungere che in Nicht Versohnt non ho mai girato inquadrature diverse da quelle che si vedono nel film, mentre ho girato molte volte la stessa inquadratura. li lavoro più lungo in sede di montaggio, una volta scartate le inquadrature inutilizzabili perché sbagliate, è stato scegliere quelle per il montaggio definitivo. Il montaggio vero e proprio è stato invece relativamente facile, anche se ci sono inquadrature più lunghe o più brevi di quanto avessi previsto, come appunto quella del balcone, che pensavo di tagliare al momento dello sparo. Al
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montaggio mi sono accorto però di lei che ritira il braccio, molto calma, e rimette la pistola nella borsa. Ho voluto mantenere questa "coda" perché la trovavo molto commovente: lei completamente sola, dopo che la macchina da presa ha carrellato indietro, seguendo il vecchio che è uscito di campo abbandonandolasul balcone. (Estratto di un testo pubblicato per la prima volta in italiano su Cinema & Film, n. 1, inverno 1966-67; poi in Jean-Marie Straub, Danièle Huillet - Testi cinematografici, a cura di Adriano Aprà, Editori Riuniti, Roma, 1972 e in Il cinema di Jean-Marie Straub e DanièleHuillet, a cura di PieroSpila, Bulzoni Editore, Roma 2001)
Una lettera a proposito
di "Chronik der Anna Magdalena Bach• Chronik der Anna Magdalena Bach è stato presentato ufficialmente alla Berlinale del 1968, accompagnato dalla seguente lettera aperta di Jean-Marie Straub al direttore del Festival.
Caro DoktorBauer, grazie per il suo invito, ma non verrò a Berlino: - perché non ho alcuna voglia di presentarmi a un tribunale che qui stesso tre anni fa condannò a morte (a porte chiuse) il mio film precedenteNicht Versohnt;
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- perché non mi piacciono i cani poliziotto né gli ispettori di polizia (anche se in borghese), e neppure le puttane (la maggior parte delle volte, ahimé, pubbliciste), parassiti e protettori (che brulicano attorno a festival del genere) di un'industria che fa prova di sempre minore immaginazione (anche soltanto capitalistica) e di sempre maggiore cinismo. E tuttavia mi rallegro (malgrado l'assurdità di qualsiasi competizione) che Chronik der Anna Magdalena Bach venga mostrato nel quadro del festival: - per i berlinesi, che possono così vederlo su un grande schermo (anche se il film non ha né Pradikat né distributore); - e perché credo che questo film sia (anche) una protesta, perfino uno sciopero contro la legge di aiuto di Bonn al cinema e le leggi d'eccezione, e un appello a strutture sociali ed economiche che rendano ogni film accessibile a ognuno. Con i miei migliori saluti Jean-Marie Straub 28 giugno 1968
M osè eAronne(1974)
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Dalla nube alla resistenza (1978)
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IIBachfìlm diJean-Marie Straub Il punto di partenza della nostra Chronik der Anna Magdalena Bach era l'idea di tentare un fìlm al quale la musica venisse utilizzata non come accompagnamento, e neppure come commento, ma come materia estetica. Non avevo veri riferimenti. Forse soltanto, come parallelo, ciò che Bresson ha fatto nel Joumal d'un curé de campagne con un testo letterario. Si potrebbe dire, in concreto, che volevamo cercare di portare della musica sullo schermo, mostrare per una volta della musica alla gente che va al cinema. Parallelamente a questo aspetto c'era il desiderio di mostrare una storia d'amore, come non se ne conosceva ancora. Una donna parla di suo marito, che essa ha amato, fìno alla sua morte. È questa innanzitutto la storia. Una donna sta lì e non può fare nient'altro che stare lì per l'uomo che ama, qualunque cosa gli accada, e quali che siano le sue difficoltà. Essa racconta quanti fìgli hanno avuto - hanno avuto tredici fìgli insieme - che cosa ne è stato di loro, quanti ne sono morti, ecc. È dunque prima di tutto la sua storia; ma in seguito il suo racconto stabilisce anche un punto esteriore. Non si può scrivere nessuna biografia, nessuna cinemato-biografia, senza avere un punto esteriore, e questo punto esteriore è la coscienza diAnna Magdalena. Un interesse del fìlm consisterà nel mostrare delle persone fare della musica, delle persone che compiono realmente un lavoro davanti alla macchina da presa. È una cosa che capita di rado in
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un film; eppure ciò che accade sul volto di uomini che non fanno altro che compiere un lavoro è senza dubbio qualcosa che riguarda il cinematografo. In questo consiste appunto la detesto questa parola, ma diciamola tra virgolette - "suspense" del film. Ogni brano di musica che mostriamo verrà realmente eseguito davanti alla m.d.p., ripreso in suono diretto e - tranne forse una sola eccezione - filmato in una sola inquadratura. Il gioco consisterà nel cogliere quanto accade a questo o a quel musicista, nient'altro. Il nucleo sarà ogni volta come viene eseguita questa musica. A volte essa verrà introdotta da una partitura, un manoscritto o un testo stampato originale. Inoltre, negli intervalli, ci sarannodelle sequenze, non scene né episodi abbiamo cancellato sempre di più, fino a non avere più scene né episodi- ma solamente quelli che Stockhausen chiamerebbe dei "punti". Al di fuori delle esecuzioni musicali, non verranno mostrati altro che dei "punti" della vita di Bach. Il film sarà l'esatto contrario di ciò che ho letto ieri su un manifesto del Theatiner Filmkunst a proposito del film su Friedemann Bach e che ho annotato: «La sua musica e quella di suo padre apportano al film un'abbondanza di vertici musicali impressionante». Il mio più grande timore per il Bachfìfm fino ad ora era appunto che la musica creasse dei vertici nel film: essa deve rimanere sullo stesso piano di tutto il resto. Abbiamo scelto la musica unicamente in rapporto al ritmo del film. So esattamente in quale punto ho bisogno di una superficie piana, e quindi non ho scelto una musica che avrebbe poMo mettere tale superficie piana, necessaria in quel momento, in pericolo.
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L'adeguamento tra il brano di musica scelto e il ritmo del film dev'essere in ogni istante totale nella costruzione. Al di fuori di ciò, so, certo, di poter legare direttamente un certo brano di musica con un altro, e che in qualche altro punto c'è bisogno di una lacuna, di una sequenza senza musica, di un "punto di vista" diciamo, che soltanto allora siamo andati a cercare nella vita di Bach. (...) li nostro découpage si basa quasi unicamente su testi di Bach e su alcune frasi tratte dal Necrologio che Philipp Emanuel ha scritto l'anno della morte di Bach. Una parte del testo proviene da qui, una parte delle lettere di Bach, e una piccola parte da me, ma solo cose come «Il Venerdì santo dello stesso anno diresse per la prima volta la propria musica di passione dal Vangelo secondo Matteo», frasi di raccordo e indicazioni cronologiche. Nel Necrologio si riconosce Bach stesso, nello stile e anche nei racconti. Si può pensare che Philipp Emanuel scrivesse a volte come Bach raccontava. È per questo che nel film Anna Magdalena, alla quale vengono fatti dire questi testi, parla come Bach ha scritto - per quanto concerne le lettere - e come ha parlato - per quanto concerne il Necrologio. Per molto tempo alcuni manoscritti sono stati ritenuti autografi di Bach, mentre in verità erano di mano di Anna Magdalena. (...) Tutti sanno che Bach è morto da tempo, e io non intendo tentare di dare l'illusione di aver risvegliato Bach dalla morte. Per questo prendo come attore che deve interpretarlo uno che si chiama Gustav Leonhardt e che non necessariamente assomiglia a Bach, né tantomeno al Bach che la maggior parte della gente
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s'immagina, un po' grosso e via di seguito; è un uomo molto esile. Non l'ho visto subito. Allora aveva registrato un solo disco, una cantata di Bach, e poi quasi nello stesso tempo L'Arte della Fuga al clavicembalo, che del resto è stata scritta per il clavicembalo e non per un altro strumento; è stato il primo ad averla suonata su un clavicembalo. L'ho visto soltanto dopo aver sentito i suoi dischi; ma ero sicuro che era lui l'uomo che cercavo, pur non avendolo ancora visto. Soltanto in seguito siamo stati ad Amsterdam per incontrarlo. Quando lo vedemmo ci accorgemmo di una certa rassomiglianza col ritratto di Bach trentenne noto come Ritratto di Erfurt - chiunque si può accorgere della somiglianza, piuttosto sorprendente. Soltanto dopo è stato provato che quel ritratto era falso. Qualcuno ha cercato di provare che uno soltanto dei quattro, cinque o sette ritratti ritenuti finora autentici è realmente autentico, un ritratto eseguito nel 1746, cioè quattro anni prima della morte di Bach, dal pittore ufficiale di Lipsia, Haussmann. Solo che questo ritratto ha per me ancora meno valore dei ritratti apparentemente inautentici, perché il suo autore era senza talento; era quello che Godard chiamerebbe un funzionario, e non un pittore. Per di più questo ritratto è stato in seguito ridipinto da un'altra mano. Per fortuna non è rimasto alcun ritratto di Anna Magdalena. Ce n'era uno, lo si sa con precisione, ma è stato in qualche modo perduto da Friedemann. Un giorno a Parigi, sulla scena del Liceo Voltaire dove Kurt Thomas dirigeva un mottetto di Bach, abbiamo visto tra i soprano una ragazza - è stato un colpo di fulmine ... Le sue mani, sono le sue mani la cosa di lei che ho visto per prima. È
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berlinese, allora viveva a Francoforte. Nel frattempo ha sposato un maestro di cappella -ora direttore di musica a Darmstadt; ha dei bambini, e mi piace ancora di più. Il film è cronologico. Le primeimmagini che si vedono riguardano l'epoca in cui Bach aveva trentacinque anni, dunque pressappoco l'età del nostro Leonhardt. Quello che mi piace è girare un film su un uomo che non si vedrà invecchiare. Non ho neppure l'intenzione di truccarlo in qualche maniera - non ho ancora mai truccato nessuno per la macchina da presa. E alla fine, quando sta davanti a una finestra e si sente come morì, «spirò dolcemente e felicemente», avrà esattamente lo stesso aspetto che a trentacinque anni. Forse mi sbaglio, sono più di dieci anni che non ho rivisto il film, ma credo che in O-Haru di Mizoguchi la donna, il personaggio centrale, venisse anch'essa mostrata lungo una vita intera, senza che si cercasse di dare in qualche modo l'illusione che invecchiasse. Semplicemente, come dice il testo di una cantata: «Che la tua vecchiaia sia come la tua giovinezza». Tuttavia il nostro Leonhardt porterà una parrucca e un costume, e i musicisti che facciamo vedere suoneranno su strumenti barocchi. E cercheremo con i luoghi di ripresa di non creare degli anacronismi, né con i pochi mobili che saremo obbligati a mostrare, né con gli organi. Abbiamo cercato minuziosamente i luoghi di ripresa: per esempio, per le esecuzioni delle cantate, qualcosa che corrisponda più o meno alla tribuna d'organo della chiesa di San Tommaso. E naturalmente non registreremo la musica di Bach su organi romantici. La tribuna della chiesa di San Tommaso è inutilizzabile, perché è stata trasformata nel XIX
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secolo, ma ne abbiamo trovata una simile in un vecchio paese presso Amburgo. Faremo vedere della gente in costume, un uomo che porta una parrucca e un abito da cantore, ma non diremo allo spettatore: ecco Bach. Potrei dire che il film sarà piuttosto un film su questo signor Leonhardt. Anche nei "punti" della vita di Bach verrà rispettato l'interprete di Bach in quanto Leonhardt. li film, il gioco consiste nel metterlo in contatto con queste tre realtà, i manoscritti, i testi e la musica. Solo se scoppierà la scintilla fra questi quattro elementi tutto ciò diventerà qualcosa. «Solo violenza aiuta dove violenza regna», la frase di Brecht che avevo preso come sottotitolo per Nicht Versohnt, potrebbe servire altrettanto bene come titolo del Bachfilm. li film racconta la storia di un uomo che lotta. Egli aspetta, nelle situazioni in cui lo mostro, sempre fino all'ultimo minuto prima di reagire, fin quando la situazione sia completamente riempita dalla violenza della società nella quale vive; allora soltanto reagisce, perché egli è, come ogni uomo, pigro, perché la violenza quotidiana di cui si ha bisogno, per non rassegnarsi ogni giorno - non voglio dire socialmente, ma in tutto - , esige una grande energia. Egli non si deve battere contro la società capitalistica, alla quale si applica la frase di Santa Giovanna dei Macelli - ma chissà ... Se il film somiglia realmente a Bach, un totale equilibrio incarnato, se anche il film diventa ciò che era l'uomo, allora senza dubbio esso penetrerà fino alle radici della società, allora si può utilizzare la frase di Brecht come titolo per il film. Allora esso sarà giusto anche cristianamente. La rassegnazione non è mai stata una virtù
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teologica - essa è apparsa tale solo nel XIX secolo. la dialettica tra-la parola "rassegnazione" non sarebbe esatta- la pazienza e la violenza si cela nell'arte dello stesso Bach, la cosa è evidente per esempio nella Cantata n. 4 Cristo giaceva nei vincoli della morte, si cela in Bach, non solamente nei testi delle sue cantate maanchenella musica. Testo raccolto da Frieda Grafe e Enno Patalas, in Filmkritik, novembre 1966; poi in Cahiers du Cinéma, n. 193, settembre 1967; e in Cinema&Film n. 4, autunno 1967 (traduzione: Piero Spila)
Presentazione di Othon diJean-Marie Straub Il film congiunge dapprima due colli, che si trovano oggi in mezzo alla città: il Campidoglio e il Palatino; fra i due, delle abitazioni popolari. Il Campidoglio era il centro religioso di Roma antica, e sul Palatino - oggi solo un mucchio di rovine - era stata fondata Roma e vi hanno abitato ben presto i ricchi, i potenti e i padroni dell'imperoromano; lassù sitrova un albero.e ai piedi dell'albero una caverna, nella quale durante l'ultima guerra i partigiani comunisti nascondevano di giorno le armi che utilizzavano la notte contro i padroni di allora- nazisti e fascisti. Poi comincia - ancora più in alto sul Palatino - su una terrazza
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lunga, deserta, circondata dalla città attuale, dove stava una volta il palazzo dell'imperatore Settimio Severo, una tragedia spesso comica, perfino ridicola - rappresentata da gente che porta dei costumi romani. La tragedia si chiama Othon. Uno dei più grandi poeti della letteratura francese, Pierre Corneille, l'ha scritta; essa fu data per la prima volta alla corte di re Luigi XN, a Fontainebleau, il 3 agosto 1664 - e in seguito trenta volte soltanto, tra il 1682 e il 1708 alla Comédie Française, dopo mai più. Pierre Corneille scrisse in una prefazione: «Se i miei amici non mi ingannano, questa tragedia eguaglia o supera la migliore delle mie. Una quantità di suffragi illustri e solidi si sono dichiarati per essa; e se oso unirvi il mio, vi dirò che ci troverete una certa giustezza nella condotta e un po' di buon senso nel ragionamento. Quanto ai versi, non ne sono stati mai visti di miei ai quali io abbia lavorato con maggiore cura. li soggetto è tratto dallo storico latino Tacito, che inizia le sue Storie con questa; e non ne ho ancora portata nessuna sulle scene a cui io sia stato più fedele e abbia prestato maggiore invenzione». Corneille non era uomo di corte, era giurista nella città di Rouen, e odiava la corte - e dei Romani anche il patriottismo e l'imperialismo (opere precedenti come Horace e Nicomède lo provano). In Othon si tratta del potere e dell'amore. li potere, cioèsoltanto minaccia, ricatto, cinismo di una classe che da secoli lavora alla propria rovina e a quella del nostro pianeta. «Facciamo le nostre sicurezze, e burliamoci del resto. Niente, niente bene pubblico, se ci diviene funesto: non viviamo che per noi, e non
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Dalla nube alla resistenza (1978)
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pensiamo che a noi», dice il prefetto L.acone nel corso della tragedia; e lo stesso L.acone dice di Pisone, che propone come imperatore: «Pisone ha l'anima semplice e lo spirito abbattuto; se ha grande nascita, ha poca virtù ...», e appena due minuti dopo dice dello stesso Pisone: «Ha virtù, spirito, coraggio». E la tragedia mostra che il potere rende tale gente impotente in amore.(...) li testo detto nel film è quello originale francese di Pierre Corneille, gli attori lo hanno durante tre mesi letto, imparato, provato, esercitato, ed è stato poi - unicamente recitato a memoria- registrato durante quattro settimane sui luoghi stessi: sempre nello stesso tempo dell'immagine. li testo parlato, le parole, non sono più importanti dei ritmi e dei tempi molto differenti degli attori, e dei loro accenti (diversi accenti italiani e francesi, uno inglese, uno argentino); non più importanti delle loro voci particolari, (sor)prese nell'istante, che lottano contro il rumore, l'aria, lo spazio, il sole e il vento; non più importanti dei loro sospiri emessi loro malgrado o di tutte le altre piccole sorprese della vita registrate nello stesso tempo, come i rumori particolari che di colpo prendono un senso; non più importanti dellosforzo, del lavorochefanno gli attori(io stesso sono fra loro - come cattivo L.acone, perché volevo esserci), e il rischio che essi corrono come dei funamboli o dei sonnambuli, da un capo all'altro di lunghi frammenti d'un testo difficile; non più importanti della cornice, nella quale gli attori si sono chiusi; o dei loro movimenti o delle loro posizioni all'interno di questa cornice o dello sfondo davanti al quale si trovano; o dei cambiamenti e
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deglisbalzi di luce e di colore; non più importanti in ogni caso dei tagli, i cambiamenti di immagini, di inquadrature. Se si tengono per tutto il tempo a ogni istante occhi aperti e orecchie aperte, si potrà trovare il film anche awincente, e rimarcare che qui tutto è informazione - anche la realtà puramente sensuale dello spazio, che gli attori lasciano vuoto alla fìne di ogni atto: come sarebbe dolce senza la tragedia del cinismo, dell'oppressione, dell'imperialismo, dello sfruttamento -la nostra terra; liberiamola! In Rlmkritik, n. 169, gennaio 1971; poi in Straub-Huilletcineasti italiani (a cura di Piero Spila), Quaderno informativo della '>ON Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro 1989
Controil Sistema e lo Stato Nel cinema, contentandosi di opporsi al sistema, si rischia assai di consolidarlo. Bisognerebbe sopprimere il sistema (come la polizia, le prigioni e gli eserciti): i suoi parassiti e i suoi ruffiani (pubblicisti, Chauvet, produttori, distributori, drammaturghi, funzionari, doppiatori, rappresentanti, viaggiatori, esportatoriimportatori. Beta, Baldi, ladri d'art et d'essai, che disprezzano il pubblico e il cinematografo. «Due secoli di depredazioni e di brigantaggi, dice Mirabeau, hanno scavato la fossa dove il regno sta per essere inghiottito») e sopprimere lo Stato (l'attuale Stato italiano, per esempio, mantiene un'industria del cinema che gli
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rende moneta estera, awelenando un po' ovunque nel mondo, popolazioni intere). Nell'attesa piuttosto che attaccarci a Cannes o Venezia, New York o Londra (perché non Oberhausen? E non sarebbe meglio moltiplicare i festival nei sobborghi e nelle campagne?), rifiutiamo i contratti che ci privano di ogni diritto sui nostri film, impediamo il doppiaggio dei nostri film in tutto il mondo, anche per la televisione, esigiamo migliori proiezioni e migliori copie (soprattutto in Italia dove il suono è praticamente ovunque inudibile, e dove i laboratori sono ancora meno accurati che in Germania o in Brasile), e attacchiamoci ai nostri propri clichés esteticie morali. Jean-Marie Straub
Pubblicato in francese e in italiano come risposta a un'inchiesta sulla "contestazione giovanile nel mondo dello spettacolo" a cura di Nedo lvaldi, in Bianco & Nero, maggio/giugno 1969; poi in Testi cinematografici, a cura di Adriano Aprà, Editori Riuniti, 1992, e in Il cinema di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, «Quando il verde della terra di nuovo brillerà», a cura di Piero Spila, Bulzoni Editore, 2001
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li doppiaggio è un assassiriio 19 febbraio 1970 Caro Dottore, i venti milioni di telespettatori italiani, l'industria culturale o la cultura di massa sono un mito totalitario, al quale rifiuto di sacrificare doppiando Les yeux ne veulent pas en tout temps se fermer. Non credo alla massa, credo agli individui, alle classi sociali e alle minoranze (che, come dice Lenin, saranno le maggioranze di domani). «Bisogna - dice Pierre Schaeffer della televisione francese -, dapprima considerare il telespettatore come un uomo responsabile e intelligente. Ora, il mondo intero fa l'inverso. Una volta per tutte si è deciso che esisteva un telespettatore banale che bisognasse neutralizzare per mezzo della distrazione. È la tecnica americana del "rating". A New York, otto giorni dopo il lancio di una trasmissione, si sonda il pubblico. Se la trasmissione non ha il coefficiente voluto, essa è direttamente e semplicemente eliminata. È il gran numero che fa legge. E questa assurdità sta per varcare l'Atlantico. Più televisori ci sono, e più si vuole parlare tutti in una volta. Però, è l'inverso che è vero. Più televisori ci sono, più bisogna diversificare i tipi di pubblico. L'obiettivo, comunque, non è l'anestesia». Non soltanto in Francia, in Germania, in Olanda, in Svizzera, ma anche nella maggior parte dei paesi dell'America del Sud, la gente è abituata a vedere dei film in lingua straniera; gli italiani
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sono veramente il popolo più sottosviluppato del mondo? Jorge Luis Borges scrive: «Quelli che difendono il doppiaggio ragionano (talvolta) che le obiezioni che si possono opporre possono anche opporsi a qualunque altro esempio di traduzione. Questo argomento disconosce, o elude, il difetto centrale: l'arbitrario inserto di un'altra voce o di un altro linguaggio. La voce di Hepbum o di Garbo non è contingente; è, per il mondo, uno degli attributi che le definiscono. Conviene anche ricordare che la mimica dell'inglese non è quella dello spagnolo. Più di uno spettatore si domanda: giacché e'è usurpazione di voci, perché non anche di figure? Quando sarà reso perfetto il sistema? Quando vedremo direttamente Juana Gonzales nella parte di Greta Garbo, nella parte della regina Cristina di Svezia? Sento dire che nelle province il doppiaggio è piaciuto. Si tratta di un semplice argomento di autorità: finché non saranno pubblicati isillogismi dei "connaisseurs" di Chilecito o di Chivilcoy, io, per lo meno, non mi lascerò intimidire. Sento anche dire che il doppiaggio è dilettevole, o tollerabile, per quelli che non sanno l'inglese. La mia conoscenza dell'inglese è meno perfetta della mia conoscenza del russo; con tutto ciò, io non mi rassegnerei di rivedere Aleksandr Nevskij in un altro idioma che il primitivo e lo vedrei con fervore, per la nona o decima volta, se dessero la versione originale... Peggio del doppiaggio, peggio della sostituzioneche comporta il doppiaggio, è la coscienza generale di una sostituzione, di un inganno. Una legge fascista (sulla difesa della lingua italiana!) ha fatto dell'Italia /a camera a gas dei film stranieri. Perché come dice Jean
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Troppo presto, troppo tardi (1980)
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Renoir (che è l'uomo che ha meglio compreso il cinema), «il doppiaggio è un assassinio». Si tratta sempre di (sor)prendere la vita. (Sor)prendere la vita è anche (sor)prendere nell'istante la voce, il rumore... lo appartengo ancora alla vecchia scuola della gente che crede alla sorpresa della vita, al documentario, che aede che si avrebbe torto di negligere il sospiro che una ragazza emette suo malgrado in una certa circostanza, e che non è riproducibile. li mio fìlm Les yeux ne veulent pas ... riposa precisamente su quelle cose che non sono "riproducibili" - sull'incarnazione del verbo di Corneille in ogni personaggio nell'istante, il rumore, l'aria e il vento, e sullo sforzo che fanno gli attori e il rischio che essi corrono, come funamboli, da un capo all'altro di lunghi testi difficili registrati in presa diretta, in perfetto sincronismo. Tentare di ricostruire questo sincronismo in studio e in italiano sarebbe non soltanto assurdo e menzognero, ma anche costerebbe settimane, forse mesi di lavoro - e si dimostrerebbe senza dubbio in molti casi impossibile. Echi mi garantisce che questo lavoro andrebbe in onda? Sono quasi due anni che noi abbiamo lavorato per alcune settimane in quattro al doppiaggio in italiano del commento del mio film Chronik der Anna Magdalena Bach (ho accettato di fare questo doppiaggio per la televisione e il pubblico italiano perché ciò era possibile, trattandosi d'un commento parlato parallelamente all'immagine),e questofilm non è ancora andato inonda. Propongo dunque di sottoporre alla televisione in agosto una versione di Les yeux ne veulent pas... sottotitolata in italiano; se la televisione rifiuta questa versione sottotitolata, io preferisco
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rinunciare ai quindici milioni di partecipazione della Rai al film. Con Giuseppe Bertolucci, «aspetto il tempo delle abitudini nuove». Creda nei miei migliori sentimemti. Jean-Marie Straub P.S. «L'attività artistica meno di tutto si presta al meccanico uguagliamento, al livellamento, al dominio della maggioranza sulla minoranza». Lenin P.PS. «I nostri compagni non devono credere che qualcosa che essi stessi non capiscono sia assolutamente incomprensibile anche allemasse». Mao Tse-Tung In Filmcritica, n. 203, gennaio 1970; in Paese Sera, 13 marzo 1970; poi in li cinema di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet,