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Italian Pages 154 Year 2012
Un rapporto molto particolare, quello tra Venezia e il cinema. Se le altre grandi cià “cinematografiche” costituiscono quasi sempre la tela di fondo su cui si muove l’azione, Venezia è, per sua natura, una co-protagonista del film, un personaggio che risalta nel tessuto della storia, un’ambientazione che non può mai essere casuale. Araverso queste venti storie, raccontate senza fare critica né storia del cinema, Irene Bignardi ha costruito un itinerario veneziano molto personale tra calli e campi, chiese e palazzi, drammi e commedie. E fa rivivere, con una scriura lieve e sapiente, l’allegria kitsch di Cappello a cilindro, ovverosia Venezia vista da Hollywood, e le atmosfere risorgimentali di Senso; la nobile scenografia dell’Othello di Welles e le faticate vicende de Il mercante di Venezia; i brividi di A Venezia… un dicembre rosso shocking e il sentimentalismo di Tempo d’estate; la ribelle giovinezza veneziana inventata dal primo Tinto Brass con Chi lavora è perduto e il rigore politico de Il terrorista di De Bosio; la decadenza della cià raccontata da Visconti con Morte a Venezia e i film veneziani ispirati a Henry James; un’inedita esplorazione della cià lagunare firmata da Susan Sontag in Unguided Tour e il recente Dieci inverni, che restituisce l’immagine della Venezia studentesca, quella dei giovani, quella squarinata, lontana dai palazzi. Film, tui, raccontati con amore e curiosità nelle loro vicende produive (quasi sempre), leerarie (quando è il caso), personali (spesso). Sempre cercando, nei film, dietro il film, il faore umano.
per venticinque anni ha lavorato a «la Repubblica» — con cui collabora tuora — come inviato di cultura e critico cinematografico. Ha direo il Mystfest, il Festival Internazionale del Film di Locarno e, per l’ONU, Desert Nights. Ha insegnato Storia del cinema allo IUAV di Venezia ed è stata presidente di Filmitalia. È autrice di vari volumi. Per Marsilio sono usciti: Americani. Un viaggio da Melville a Brando (2005) e Le cento e una sera. Piccola guida personale al cinema in DVD (2008). IRENE BIGNARDI
i nodi
Dello stesso autore nei «nodi» Americani. Un viaggio da Melville a Brando Le cento e una sera. Piccola guida personale al cinema in DVD
Irene Bignardi Storie di Venezia Marsilio
cinema
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Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano © 2012 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione digitale 2012 ISBN 978-88-317-3404-2 In copertina: Piazza San Marco. Il regista David Lean, l’operatore Peter Newbrook e il direore della fotografia Jack Hildyard durante le riprese di Tempo d’estate (1955) Per la foto di copertina di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi dirio, l’editore si dichiara disponibile ad adempiere ai propri doveri. www.marsilioeditori.it
[email protected] est’opera è protea dalla Legge sul dirio d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Premessa
esto non è un libro di cinema. Né di storia del cinema. Né tanto meno di critica cinematografica. Per questi aspei sono stati scrii e sono disponibili studi eccellenti e sapienti, che ho leo e consultato con ammirazione e piacere. No. Storie di cinema a Venezia, come recita il titolo, è, appunto, un libro di storie, che racconta delle storie, dentro o dietro il film, e dei personaggi. Venti storie, per l’esaezza, che hanno a che fare con il cinema e con Venezia, intesa come sfondo o come protagonista. Venti storie che sono state scelte da un immenso bacino (si calcola che i film girati a Venezia o ispirati a Venezia o che alludono a Venezia siano qualche centinaio), secondo l’arbitrio di chi scrive, per il divertimento, ci si augura, di chi legge: perché sono storie curiose, strane, bislacche, complicate, disastrose, avventurose, appassionanti. O semplicemente tipiche ed esemplari del rapporto tra Venezia e il cinema. Un rapporto assolutamente particolare. Perché mentre le altre grandi cià cinematografiche (da Roma a Los Angeles, da Londra a Parigi a New York), salvo le dovute e necessarie eccezioni (Un americano a Parigi? Roma di Fellini? New York, New York? Blade Runner?…), costituiscono la tela di fondo, il supporto, la scenografia su cui si muove l’azione, Venezia è, per sua natura, una co-protagonista del film. Perché è un paesaggio urbano troppo speciale e unico per non risaltare come una star nel tessuto della storia. Come sempre quando c’è da scegliere in un bacino troppo ricco, qualcuno non sarà contento che manchino all’appello film (sono così numerosi che cito più o meno a caso) come I due Foscari di Enrico Fulchignoni, dove si raccontava un
pezzo di storia veneziana, o Venezia, la luna e tu di Dino Risi, con Alberto Sordi seduore e gondoliere. Come Canal Grande di Andrea di Robilant, con tanto di regata a colori, o e Tourist, folle itinerario Hollywood-veneziano che per mesi ha sconvolto ed eccitato la cià. Come Kiss kiss… bang bang di Duccio Tessari, con il suo piccione spia, o i tanti bellissimi film di animazione che Venezia ha ispirato. Come Il mistero del Morca, un simpatico film per ragazzi, o il complesso e colto In memoria di me. Come 007 Casino Royal, o Impardonnables di André Téchinè, ultimo prodoo francese girato in Laguna, che ha il merito di scoprire l’isola di Sant’Erasmo e i suoi orti, o la Chioggia di Io sono Li. E qualcuno potrà rimpiangere che non ci sia stato il modo di rievocare la noe in cui venne girata la celebre scena del ballo di C’era una volta in America, quando i saloni dell’Hotel Excelsior si trasformarono per miracolo nel grande albergo americano dove Robert De Niro seduceva la donna della sua vita, e Venezia diventava l’America. Che non si faccia la storia (troppo complessa, meriterebbe un volume tuo suo) della Biennale Cinema. O quella del grande uomo di cinema veneziano Francesco Pasinei. Come sempre, come in ogni scelta, anche della scelta di queste venti storie, o giù di lì, sono responsabili l’esperienza personale e le idiosincrasie di chi scrive. Gli stati d’animo con cui chi scrive ha visto e scoperto certe storie e quello che le è stato raccontato. Il mito che si è creato aorno a certi film e le atmosfere che hanno creato. Un viaggio fao su un set e la leggenda che circonda certi film veneziani. Una scelta difficile. Faa con la speranza che queste storie, che mi sono divertita a raccogliere e a raccontare, parlino anche ai leori.
STORIE DI CINEMA A VENEZIA
1.
Fred, Ginger e Fred
Dove si racconta come Venezia sia stata reinventata da Hollywood in cartapesta e gesso, per far danzare Ginger e Fred al suono di «Cheek to Cheek». È divertente ipotizzare che le cose, nel caso di Cappello a cilindro, siano andate più o meno come accadde a Roma, negli anni immediatamente precedenti l’era cristiana, con la Piramide Cestia. Nel senso che così come, all’epoca, qualcuno deve aver raccontato e descrio a Caio Cestio Epulone la forma e il fascino delle piramidi recentemente acquisite nel patrimonio artistico della romanità, convincendolo a costruirne una come suo mausoleo – ma senza precisargli i veri rapporti geometrici delle piramidi, e quindi lasciando che costruisse una piramide bislacca, troppo alta e magra per assomigliare a quelle originali, che tuavia duemila anni dopo continua ad allietare un incrocio particolarmente burrascoso di Roma con la sua snella prospeiva –, così potremmo ipotizzare (ma non può essere possibile, sarebbe troppo bello per essere vero) che Van Nest Polglase, lo scenografo di Cappello a cilindro, non abbia mai visto la vera Venezia e abbia inventato a modo suo per il film una cià di cartongesso e stucchi, con piccoli canali lisci lisci, gondole bianche senza forcola, e un ponte di Rialto da luna park. Non è un caso singolo. Anzi, è la moda del momento. Anna Karenina, nella reincarnazione affidata a Greta Garbo nel film di Clarence Brown dello stesso anno 1935, si muoveva, nella sua breve fuga amorosa con Vronsky/Fredric
March, tra canali e ponti veneziani, tra gondolieri e scugnizzi più napoletani che lagunari, tra chiese e palazzi ricostruiti in studio a Hollywood da Cedric Gibbon. E Lida Baarova, nella germanica versione della coetanea Barcarola, direa da Gerhard Lamprecht, girata in studio e onorata dalla visita di Hitler sul set (lo racconta il grande reporter/scriore Mariusz Szczygiel in Goland), si muove in una Venezia di cartapesta ricostruita a Babelsberg, una delle tante che abitano la dimensione parallela del falso cinematografico. E non solo cinematografico. Non è ogni cià con un canale «la Venezia del» Nord, Sud, Golfo Persico, e via elencando, fino alla recente ricostruzione di Venezia a Las Vegas? IL GENIALE POLGLASE E AUSTERLITZ IL BALLERINO
Non un tipo qualsiasi, Van Nest Polglase, che, quasi sicuramente, invece, Venezia la conosceva e l’ha imitata nel suo stile particolare, ma in piena consapevolezza. Non un tipo da poco. Basti dire che, all’epoca, nel 1935, Polglase era al suo secondo film con la coppia regina del musical e protagonista di Cappello a cilindro – e cioè con Fred Astaire e Ginger Rogers, che di solito vanno elencati in quest’ordine, anche se Federico Fellini con il suo film ci ha abituati a parlare di Ginger e Fred, in una sequenza più educata e cavalleresca. Il debuo di Van Nest Polglase con la mitica coppia era stato Cerco il mio amore, che gli aveva fruato, nel 1934, la sua prima nomination. La seconda nomination arrivò proprio per Cappello a cilindro, Venezia di cartongesso e stucchi compresa. La sesta e ultima (l’Oscar purtroppo non lo prese mai) per arto potere e la sua barocca, sontuosa, visionaria e assieme realistica invenzione del castello del ciadino Kane, dove, volendo e facendo aenzione, si possono vedere dei tocchi veneziani. Lo si ricorda anche per le scenografie di Gilda. E per la tragica fine nell’incendio della sua casa. Ma torniamo a Venezia, a Fred Austerlitz, meglio noto come Fred Astaire (non è curioso il passaggio dalla pesantezza del nome di una baaglia alla leggerezza di un
nome che allude alle stelle o alle scale, scelto da Fred A. per la sua vocazione di ballerino?). E a Virginia Katherine McMath, meglio nota come Ginger Rogers. Top Hat, come si intitola nell’originale americano Cappello a cilindro, fu il terzo film della coppia dopo Carioca e Cerco il mio amore. Il terzo sui dieci che avrebbero complessivamente realizzato insieme. Lui, il magico folleo della danza, l’uomo più elegante del mondo, nel 1935 aveva trentasei anni ed era al vertice della lunga carriera cinematografica in cui era stato lanciato da David O. Selznick (nonostante, disse il produore, «le sue enormi orecchie e il bruo mento»). Lei aveva ventiquaro anni, aveva alle spalle diciannove film ed era al terzo film con il suo grande (e talvolta difficile, per meticolosità e protagonismo) compagno. UN CILINDRO PER CAPPELLO
Cappello a cilindro, direo da Mark Sandrich, prodoo da Pandro S. Berman per la RKO, coreografato, assieme ad Astaire, da quel genio di Hermes Pan, musicato da quell’altro genio che fu Irving Berlin, ha la leggerezza assoluta dei migliori musical e un intreccio non originalissimo da commedia degli equivoci. E posso aggiungere, da devota consultatrice del Dizionario dei film del mio amico Paolo Mereghei, che quel caivone lo premia con ben quaro stelle, il massimo (cosa che, a ben vedere, è forse un eccesso cinefilo, visto che quaro stelle le meritano film come arto potere, A qualcuno piace caldo, La dolce vita e altri monumenti di perfezione, mentre la storia e la struura di cartongesso di Cappello a cilindro non sono proprio geniali. Come sapeva benissimo lo stesso Fred Astaire, lamentandosi in un memo indirizzato a Pandro Berman di dovere, nel film, solo «dancedance-dance», di non avere una vera storia e un vero personaggio). SANDRICH, PAN, BERLIN E GLI ALTRI
Torneremo a Ginger e Fred. Ma intanto non bisogna dare per scontato quello che c’è dietro i nomi dei loro collaboratori. Mark Sandrich, scomparso troppo presto (povereo, nato nel 1900 se ne è andato nel 1945), ha direo innumerevoli musical di successo per la RKO, tra cui Cerco il mio amore, Seguendo la floa e Voglio danzar con te. E se non fu geniale e inventivo come il dio delle coreografie geometriche, Busby Berkeley, a cui qualcuno lo paragonò, era dotato in somma misura della bravura e della leggerezza che hanno fao grande il musical degli anni ’30. Hermes Pan, nato Panagiotopulos, di origine greca, poverissimo, ribaezzatosi con un nome composto di due metà mitologiche che ribadivano la sua origine ellenica e allegra, aveva incontrato Astaire sul set di Carioca dove era assistente coreografo, gli aveva dato alcuni buoni consigli (ben accolti), gli aveva mostrato dei passi imparati per le strade di New York (dove era cresciuto), e, in definitiva, aveva conquistato il cuore di Fred Astaire diventandone il coreografo e il complice. Tanto che insieme gireranno diciassee dei trentun film interpretati dal grande ballerino, che lo chiamava il suo «uomo delle idee». Irving Berlin… be’, è Irving Berlin. Ed è anche Israel Isidore Baline, ebreo, di famiglia russa. L’autore di oltre mille canzoni, di un inno alla musica come Alexanders’ Ragtime Band, di God Bless America, di White Christmas, di ere’s no Business like Show Business, di Annie Get Your Gun… e naturalmente delle undici canzoni di Cappello a cilindro. Tra cui Cheek to Cheek (cantata e danzata sullo sfondo della Venezia sopra descria), Top Hat, Isn’t it a Lovely Day?, probabilmente il miglior numero che abbia visto insieme Ginger e Fred, e la festa colleiva, e sempre veneziana, di e Piccolino, un numero travolgente ballato a ritmo di tarantella da un enorme corpo di ballo, dove finalmente Ginger Rogers canta. Anche se per le nomination (quaro) che toccarono al film, accanto a quella per il miglior film, a quella per l’art direction, a quella per le coreografie (di Top Hat e di e
Piccolino), tra le canzoni la preferita – e la «nominata» – fu Cheek to Cheek. GUANCIA A GUANCIA O «CHEEK TO CHEEK»?
In Cappello a cilindro Fred Astaire è Jerry Travers, un famoso ballerino che approda a Londra con il suo recente successo di Broadway e si invaghisce di una indossatrice, Dale Tremont, che è Ginger Rogers, molto truccata e vestita da Bernard Newman con il solito eccesso di eleganza da Tinseltown, l’eleganza della cià dei farlocchi – potremmo tradurre –, insomma l’eleganza spesso pacchiana della Hollywood anni ’30. Per errore Dale crede di capire che Jerry Travers sia sposato. E da qui una catena di equivoci che dovrebbero separarli e che li portano in giro per un’Europa di fantasia, fino a Venezia, dove ballano insieme la meravigliosa Cheek to Cheek, lui sospirando, sullo sfondo di finte cupole e trifore veneziane, l’immortale melodia di «Heaven, I’m in Heaven / and my heart beats so that I can hardly speak / And I seem to find the happiness I seek, / When we’re out together dancing cheek to cheek»; in sintesi: «Mi sembra di aver trovato la felicità che cerco, quando balliamo assieme cheek to cheek». Sì, da quel 1935 e da Cappello a cilindro, da quella perfezione di leggerezza, di virtuosismo, di grazia e di stupidità, non si può dire più «guancia a guancia». Balleremo per sempre, a Venezia e altrove, «cheek to cheek», secondo le istruzioni di Ginger e Fred. E Ginger e Fred gli esseri umani? Porteranno avanti per un bel pezzo di strada insieme il loro sodalizio artistico. Si lasceranno dopo un film difficile e non particolarmente riuscito, Vita di Vernon e Irene Casle. Lui avrà molte difficoltà a sostituirla come compagna di danza. Si ritroveranno dieci anni dopo con I Barkleys di Broadway. Torneranno a separarsi, lui ormai con un’aria vecchiea, ma sempre aereo e carino, e pronto anche a ruoli non danzerecci, lei, la placida bellezza bionda, capace, si scoprì, anche di ruoli drammatici.
E di esistere senza di lui, la persona, diceva Graham Greene, più simile a «un Mickey Mouse umano».
2.
Il villaggio alla Giudecca
Nel quale si racconta come, chiusa Cinecià per la guerra, nacque a Venezia il Cinevillaggio, dove lavorò la coppia maledea del cinema italiano, formata dalla bellissima Luisa Ferida e da Osvaldo Valenti… Si chiamava Luigi Freddi e fu, per una tumultuosa stagione, il gran patron del cinema italiano. Con un ragguardevole curriculum, per l’epoca, e cioè gli anni del fascismo: futurista, legionario fiumano, redaore de «Il popolo d’Italia», squadrista, tra i fondatori dell’Avanguardia studentesca, via via salendo per i rami di una carriera tua all’insegna della fedeltà alla causa fascista. Fino a che nel 1934 fu nominato a capo della Direzione generale della cinematografia, l’organismo che doveva esercitare il controllo ideologico e la promozione del cinema italiano. Fu Freddi l’uomo soo la cui direzione, con gesto di visionaria intelligenza, venne creata Cinecià, voluta da Mussolini e da lui inaugurata in gran pompa il 28 aprile 1937. Cinecià, dove lavorarono bei nomi e belle intelligenze non allineate. E basti per tui il nome di Emilio Cecchi. La nuova, grande fabbrica del cinema nel 1937 produsse diciannove film. Nel 1940 quarantoo. Nel 1942, nonostante la guerra, cinquantanove, sempre secondo la linea di «intraenimento» voluta da Freddi, che per queste cose guardava all’America. Ma l’anno dopo, nel terribile ’43, i film che uscirono dagli stabilimenti della Tuscolana furono solo venticinque. Gli alleati stavano risalendo il Sud dell’Italia. La liberazione, o il disastro, a seconda degli opposti punti di
vista, sembrava alle porte. La confusione nel mondo del cinema era assoluta. E le cose si fecero ancor più drammatiche quando, il 25 luglio, Michele e Salvatore Scalera, titolari della grande storica casa di produzione omonima, vennero arrestati dai badogliani, e pochi giorni dopo Guido Oliva, il direore di Cinecià, si tolse la vita. Mentre, nel fraempo, Luigi Freddi era finito in galera. Peggio andarono le cose con l’8 seembre. Cinecià, o quello che ne restava, fu presa d’assalto da bande di poveracci che portarono via tuo quello su cui riuscivano a meere le mani. Mentre una Commissione germanica impose sostanzialmente ai responsabili delle industrie cinematografiche di trasferirsi al Nord o di vedere confiscate le loro arezzature. TRASLOCO AL NORD
Fu così che il neoministro della Cultura e propaganda della Repubblica sociale italiana, Fernando Mezzasoma, d’accordo con Luigi Freddi, che era intanto uscito di prigione e che, nel nuovo regime politico del dopo 8 seembre, era tornato in auge, decise di salvare il salvabile. Cinecià chiuse i baenti. Materiali e arezzature furono imballati. E mentre gli eleganti edifici razionalisti progeati da Gino Peressui venivano occupati dai nazisti che ne fecero una specie di campo di concentramento, Cinecià, in treno, emigrò al Nord, a Venezia. Una cià patrimonio dell’umanità che nessuno, ragionevolmente, avrebbe avuto il coraggio di bombardare. Un fondale meraviglioso. La sede, dal 1932, del primo festival cinematografico del mondo. La cià dove la vita sembrava ancora normale e piacevole. E dove gli Scalera, previdenti, fin dal 1942 avevano acquistato dei terreni alla Giudecca, alle spalle del Mulino Stucky, per costruire, guarda caso, uno stabilimento cinematografico… Ai primi di novembre, dunque, il cinema italiano – o quello che ne restava – sbarcò a Venezia, e si installò nei padiglioni della Biennale ai Giardini di Castello e alla
Giudecca. Si aggiunse l’Istituto Luce che scelse come sua sede Palazzo Bonvecchiati, vicino a Rialto, un elegante albergo allora sede degli uffici dell’Informazione della Repubblica sociale. Insomma, si creò un nuovo polo cinematografico che pochi mesi dopo Fernando Mezzasoma, sistemato nel fraempo con gli uffici del Ministero a Palazzo Martinengo, in un discorso agli aori e ai tecnici delle troupe presentò con amara ironia (voluta? casuale?) come il Cinevillaggio. BENVENUTI AL CINEVILLAGGIO
Il Cinevillaggio (dove Umberto Lenzi, regista di genere e ormai anche di culto, cinefilo, scriore, ha ambientato il suo divertente romanzo giallo Morte al Cinevillaggio), di film, nei voti di Mezzasoma e di Freddi, nel fraempo ricomparso, avrebbe dovuto produrne una ventina all’anno. E perciò, seppure «villaggio» del cinema, e perciò più piccolo della originale Cinecià, andava popolato. Ai tecnici vennero offerti alti stipendi e la dispensa dal servizio militare e civile. Per gli aori, cosa più delicata perché ci meevano la faccia, ebbe inizio quella che oggi verrebbe chiamata «campagna acquisti». Perché, anche se magari in quegli anni molti avevano convissuto felicemente con il cinema di regime, non tui gli aori e le arici del cinema italiano vedevano di buon occhio il fao di entrare ora a far parte ufficialmente del cinema della Repubblica di Salò. Freddi promise, minacciò, convinse: alcuni. Altri, graniticamente, con qualsiasi scusa, dissero no, si defilarono, si imboscarono, emigrarono: come Amedeo Nazzari, che se ne andò felicemente in Spagna. Tra quelli che riuscirono a sparire senza problemi dalla circolazione ci furono Viorio De Sica, Augusto Genina, Alessandro Blasei, Clara Calamai, Massimo Giroi, Gino Cervi. Altri dissero sì. Per poter comunque lavorare, e quindi, qualsiasi aore lo capirebbe, esistere. O perché avevano un disperato bisogno di denaro con cui foraggiare la costosa
dipendenza dai loro vizi non tanto segreti. In primis Osvaldo Valenti, cosmopolita, bravo aore, uomo intelligente, fascinoso, di successo. Ma perennemente a caccia di denaro per procurarsi la cocaina. CINEMA E COCA
Fu così che Valenti lasciò il suo rifugio in campagna, prese con sé la sua bella amica e compagna Luisa Ferida, grande bellezza italiana e, nonostante quello che spesso si sostiene, brava arice, e si mosse alla volta di Venezia, dove con lei fu per molti mesi al centro dell’aenzione e della scena. Di loro, belli, ambigui, inquieti e inquietanti, nel giro dei saloi e dei peegolezzi veneziani si parlava molto. In un primo tempo si commentarono le loro abitudini lussuose. Poi, arrivato l’inverno del 1944, cominciarono a correre interrogativi e voci più gravi. Era vero, si chiedevano i bene informati, che Osvaldo Valenti e Luisa Ferida frequentavano a Milano la famosa Villa Triste, la sede della polizia autonoma del torturatore Koch? Era vero che partecipavano a orge «a base di droghe e sacrifici umani», come sosteneva qualcuno? O erano solo, alla fine, due poveracci agganciati dalla dipendenza alla cocaina? A Venezia si era trasferita intanto, per necessità, anche la grande diva del regime, la bellissima Doris Duranti, l’amante dell’ex ministro della Cultura popolare e ora segretario del Partito fascista repubblicano Alessandro Pavolini, che, per vederla, si divideva tra Milano, Salò e Venezia (dove però, si peegolava nei soliti saloi, lei aveva un altro amante, non tanto segreto). Giunse al Cinevillaggio il bel Roberto Villa, adorato dalle ragazze. Arrivarono Salvo Randone, Antonio Gandusio, Germana Paolieri. Perché il teatro (era la loro giustificazione) si faceva al Nord, e Venezia poteva essere una utile testa di ponte per le tournée. Avrebbe deo Dorothy Parker, di fronte al dilemma che deve aver tormentato tanti aori indecisi sul da farsi: tanto vale vivere.
Il Ministero si era installato a Palazzo Martinengo. I divi alloggiavano all’Europa, al Regina e al Danieli. Luisa Ferida e Osvaldo Valenti li si vedeva spesso, così raccontava Silvio Bertoldi in una sua informata corrispondenza, ai tavoli della Colomba. I più squarinati frequentavano la traoria di Maria Montagner in calle degli Stagneri. E se il pomeriggio gli esuli di Cinecià si annoiavano ai tavoli del adri e del Florian, un punto di incontro alla moda inventato dai nuovi immigrati fu, per qualche mese, il bar dell’Angelo, a San Bartolomeo. UN FATTO DI CRONACA
Erano le sole consolazioni in una realtà che si rivelò presto miseranda. Poche arezzature, pochi soldi, poco riscaldamento in un inverno che fu freddissimo. Molti progei e poche realizzazioni. E qualche incidente. Il 14 luglio 1944 Palazzo Bonvecchiati, sede del Luce e centro della propaganda fascista, andò a fuoco per un aentato messo in ao dalla resistenza veneziana. Il 26 luglio una bomba distrusse Ca’ Giustinian, base dei tedeschi – e auale sede della Biennale di Venezia. Il primo film che uscì dal Cinevillaggio, Un fao di cronaca, direo da Piero Ballerini, fu maltraato persino dalla critica di Salò («L’azione appare lenta, fredda, e si giova di luoghi comuni, puerili, lontani dalla realtà»). Andò un po’ meglio con Aeroporto di Piero Costa, che faceva la cronaca della vita quotidiana in un piccolo aeroporto del Nord (e che venne girato non a Venezia ma tra Vicenza e Montecatini). Con Ogni giorno è domenica di Mario Baffico (relata refero, visto che questi film è praticamente impossibile vederli: Ogni giorno è domenica, in ogni caso, è la storia di un soldato che torna a casa menomato e si nasconde a tui), arriva, curiosamente, un’immagine ben poco eroica della guerra. E intanto, si è scoperto qualche tempo fa, uno dei tecnici dell’Istituto Luce, emigrato nel 1944 al Cinevillaggio, conservava segretamente, per un misterioso cinefilo veneziano, gli spezzoni non montati delle sue riprese. Un po’
spaventato per il rischio che correva, anche se l’altro gli assicurava che non c’era alcun pericolo. Ed era vero: perché alla fine il cinefilo si rivelò uno dei capi della resistenza veneziana, che così facendo aveva salvato una documentazione importantissima. INTANTO A ROMA…
Da quella breve, sfortunata stagione sospesa sull’abisso della guerra, che preparava un rinnovamento radicale del nostro cinema (nell’inverno 1944-45, con della pellicola fortunosamente trovata nella Roma dell’occupazione americana, Roberto Rossellini girerà Roma cià aperta e aprirà la stagione del neorealismo), ci arriva però almeno un film che si può ricordare, e che si può vedere (in cineteca). In realtà non è un film tuo del Cinevillaggio, ma è in compenso un film tuo veneziano. Ed è un film legato a un personaggio centrale della storia del cinema italiano. Luigi Chiarini – critico, organizzatore, regista, fondatore del Centro sperimentale di cinematografia, destinato a una lunga carriera di direore della Mostra di Venezia e a molte contestazioni sia da parte della sinistra sia da parte delle «contesse» veneziane – aveva girato La locandiera, su sceneggiatura di Umberto Barbaro e Francesco Pasinei (a cui è intitolata ora la deliziosa piccola Cineteca di Venezia a San Stae), in studio, a Roma, e nell’entroterra veneziano. Con un cast stellare. Luisa Ferida, molto bella, molto brava e molto Mirandolina. Osvaldo Valenti, nel ruolo, ovviamente, dell’odioso Cavaliere di Ripafraa. Gino Cervi, Paola Borboni, Elsa De Giorgi… SFORTUNATA FERIDA
Il film era al montaggio nel seembre 1943. Chiarini, che non se lo sognava proprio di trasferirsi al Nord, lo abbandonò al suo destino. Fu finito al Cinevillaggio in modo che non piacque all’autore. Ma porta curiosamente con sé un profumo veneziano di leggerezza e di grazia, a partire dalla barca dei
comici che naviga tra i canali e le ville dell’entroterra fino alla deliziosa Mirandolina interpretata dalla Ferida. Una donna sfortunata, la bella Luisa Ferida, e sfortunata per amore. Valenti, nel 1944, sempre molto aivo nel giro delle sue amicizie politiche, decise di lasciare Venezia e di far base a Milano. Sistemò Luisa all’Hotel Continental di via Manzoni, si arruolò nella X Mas, frequentò Villa Triste e collaborò (ma qui i suoi comportamenti sono aperti alle interpretazioni) con l’aguzzino Koch. E trascinò Luisa incinta nel gorgo delle sue inquietanti amicizie. Fino a quel 30 aprile del 1945 quando, a cinque giorni dalla Liberazione, i partigiani di Vero Marozin, su istruzioni date, a quanto risulta, dallo stesso Sandro Pertini, fucilarono senza processo lei e Valenti all’Ippodromo di San Siro con l’accusa di collaborazionismo e per aver torturato alcuni partigiani a Villa Triste. Un’accusa infondata, dicono oggi. Una morte ingiusta come ogni morte. Una malinconica sigla a quella breve, stupida, tragica stagione che fu il Cinevillaggio. Destinato a campare stentatamente (ci informa il prezioso volume L’immagine e il mito di Venezia nel cinema), fino a qualche ultima ripresa per Tempo d’estate di David Lean, nel 1955 e ad alcune scene di Senso.
3.
Da Ca’ d’Oro a Mogador
Nel quale si racconta come Orson Welles, genio ed esempio eccellente dell’arte di arrangiarsi, mise insieme, pezzo a pezzo, la sua Venezia e la sua Cipro per il capolavoro che è «Othello», o, italianamente, «Otello». «Siamo stati costrei ad adaarci a una serie di operazioni improvvise e di ritirate violente. Abbiamo dovuto buare il piano di insieme a metà del film […]. Non abbiamo mai avuto i soldi per pagare una faura né qualsiasi altra cosa. Niente è stato previsto, abbiamo dovuto inventare tuo, da qui la ragione di queste corse per il mondo intero». I capolavori nascono dal caos? Si direbbe di sì, ad ascoltare le parole di Orson Welles, che non solo girò avventurosamente il suo Othello, tra il 1949 e il 1951, ma, tanto fu lo stupore retrospeivo suo e altrui per il miracoloso risultato di quel lavoro di continua improvvisazione, che nel 1979 ci costruì sopra anche un altro film, Filming Othello: un geniale lavoro di riciclaggio del materiale del film originale, una lunga chiacchierata di Welles ormai anziano, alla moviola, sul significato del dramma scespiriano, sul sentimento della gelosia – il mostro dagli occhi verdi, come lo chiama Shakespeare –, sulle pulsioni segrete dei personaggi. TUTTO FALSO, MA COSÌ VERO
Si sa che non c’è modo migliore per raccontare le proprie disavventure che ironizzarle ed esagerarle. Si aggiunga poi che Welles era un famoso «bugiardo», l’uomo che ha scrio e
direo un inno alla menzogna come F for Fake, F come falso (è vero, aveva anche direo It’s all True, ovverosia È tuo vero, ma lo aveva girato quando era molto giovane, e l’esperienza della vita insegna a mentire). Insomma, ci sarebbe da dubitare del vantato tasso di casualità e di avventura in cui è nato Othello se non ci fosse anche la testimonianza, tra gli altri, del suo «onesto Iago», Micheál Mac Liammóir, l’aore irlandese che ha sempre avuto un aeggiamento di amabile critica nei confronti del grande Welles, e che annota anch’egli nelle sue memorie una teoria di deagli disastrosi. Per dare un’idea del mosaico di invenzioni, finanziamenti, location, set, volti, collaboratori, come li ha mossi e integrati in un unico arazzo il grande Orson Welles per il suo meraviglioso Othello, eccolo in viva voce: «Iago esce dal portico di una chiesa di Torcello per entrare in una cisterna portoghese della costa africana, ha araversato il mondo e cambiato continente nel corso di una frase». Succede di continuo. «Una scala toscana si coniuga con un bastione marocchino per costituire un luogo unico. Roderigo colpisce Cassio a Mazagan e Cassio gli restituisce il colpo ad Orvieto, a mille miglia da lì. I pezzi del puzzle erano separati non semplicemente dallo spazio, ma da fraure del tempo. Niente era continuo, non avevo segretaria d’edizione. Non c’era modo per rimeere insieme le tessere del puzzle se non nella mia testa». E che testa. Se arto potere ha 562 stacchi, e L’orgoglio degli Amberson, il secondo capolavoro di Welles, circa la metà, Othello è tuo giocato sul montaggio e di stacchi ne ha duemila. Molti dei quali pensati per ovviare a un problema. Per esempio al frenetico succedersi di interpreti. O meglio delle interpreti. QUANTE DESDEMONE
Dopo la nostra Lea Padovani, che ha lasciato il ruolo di Desdemona per via della fine del suo amore con Welles, di
Desdemone ne sono già passate tre, tue pessime, a sentire Micheál Mac Liammóir (che, prudentemente, scrisse il suo diario di bordo in irlandese e lo tenne soo chiave), e, per il nervosismo, «gli occhi di Welles cominciano ad essere inieati di sangue». A questo punto dunque, a illudere la troupe che si possa finalmente procedere, arriva la graziosissima Cécile Aubry. «Nessuno nella sala potrà traenere le lacrime quando Otello comincerà a maltraarla». Magari. La poverea regge quarantoo ore, viene maltraata da Welles e se ne parte. Segue Betsy Blair, «con la sua recitazione piena di eleganza e di intelligenza», e con lei si comincia a girare a Mogador, l’odierna Essaouira, la bella cià bianca e blu della costa marocchina. Ma neanche la brava Betsy Blair riesce a durare. Il 23 agosto, quaro mesi dopo la fuga della Aubry, se ne va, esausta e sconfia. E arriva Suzanne Cloutier, francocanadese, spirito d’acciaio e arice bilingue. Con cui finalmente si procede, tra una bizzarria e l’altra. E con risultati di cui non tui gli speatori e i critici del film sono felici. Be’, e le cose già girate? Appunto. Dove si vede Desdemona ripresa di spalle non si saprà mai a chi appartenga la silhouee filmata. Welles è geniale nel fare del montaggio un sistema per ricucire il suo disastro produivo. La caccia alla Desdemona ideale, culminata nella scriura alla Cloutier (che ogni tanto Welles minaccia di strozzare sul serio), ha occupato buona parte del 1949. Mica male anche la caccia al direore della fotografia perfeo. Passano sul set Anchise Brizzi e Aldo Graziati (deo Aldò), Georges Fanto e Oberdan Troiani, impegnati per un po’ e poi di necessità mollati al loro destino e al bisogno di guadagnarsi uno stipendio altrove, ognuno impossibilitato a vedere quello che ha fao il suo predecessore e costreo a navigare a vista. Mentre il grande uomo (secondo Mac Liammóir «star, regista, cospiratore, viveur, filosofo della determinazione») di quando in quando scompare abbandonando troupe e location, Desdemona e Iago, per andare a guadagnare, come aore e
superstar di Il terzo uomo o di Il principe delle volpi, i soldi necessari a mandare avanti una produzione per cui (vecchia esperienza wellesiana) mancano i soldi. DA PALAZZO DUCALE AL «BOVOLO» CONTARINI
E Venezia? Be’, Venezia, parte integrante del titolo del dramma scespiriano (Othello, the Moor of Venice), in verità non è così presente. Fa sì da cornice al nascere dell’amore del Moro e di Desdemona, ma perlopiù la tragedia della gelosia si svolge altrove. Venezia resta tuavia, almeno in parte, lo sfondo, vero o finto o realizzato nei modi più fantasiosi, degli infiniti Othello che sono stati girati a Venezia (o in studio) nel corso di un secolo di cinema: a partire dal film di Mario Caserini del 1907, a seguire con la versione di Lo Savio del 1909, con quella di Riccardo Tolentino del 1914, con quella, parodica, di Camillo De Riso del 1920, con il Moro di Emil Jannings, con l’Othello di Bondarc ˇ uk, con quello di Olivier, con quello del 1995 di Kenneth Branagh, con quello malese del 2008… E con l’Othello di Welles, in cui la cià, reale e fantastica, vera e falsa, faa di pezzi reali e di allusioni, è costruita con un montaggio vorticoso di immagini lagunari strappate alla povertà produiva che Welles fa diventare, da necessità, uno stile. Desdemona compare sullo sfondo di Palazzo Ducale, della Ca’ d’Oro, di una chiesa deserta, del «bovolo» di Palazzo Contarini – ma sia quest’ultimo che Palazzo Ducale simulano anche di essere Cipro. ello che però rende veneziane molte scene girate anche lontano da Venezia in giro per il mondo sono i costumi ispirati a Carpaccio che Welles ha fao confezionare. I costumi giunti a destinazione. Perché ce ne fu una buona quantità destinata alle riprese in Marocco che non arrivò mai sul set per il fallimento della casa di produzione Scalera. I famosi costumi la cui perdita suggerì a Welles l’idea per girare la celebre scena del bagno turco. Dove tui i personaggi sono seminudi e immersi nella nebbia di un antico hammam.
Ma, dopo i giri marocchini, Venezia torna a trionfare nei titoli di coda del film. Welles, il grande incantatore, legge i credits con la sua bellissima voce di basso. E quando arriva al proprio nome, dopo una doverosa pausa, lo pronuncia sull’immagine di un galeone la cui ombra si staglia contro le pareti del Palazzo Ducale. È quello che il grande Orson si può permeere: un gioco di luci e di ombre, un’invenzione fantastica, una ricostruzione di Venezia al risparmio. Perché il povero grande Orson non poteva permeersi da regista quello che poteva permeersi da star. Othello avrebbe dovuto essere presentato alla Mostra del cinema di Venezia del 1951. Ma la copia che arrivò dal laboratorio era terribile. Welles annunciò che ritirava il film. Per fortuna Othello venne invitato a Cannes l’anno dopo e, baendo bandiera marocchina (ricordate i giorni di Essaouira, dove ora sul lungomare si alza un monumento a Welles?), aprì il festival e vinse il Gran Prix (allora si chiamava così), ex aequo con Due soldi di speranza di Renato Castellani. Ma restò un bellissimo film sfortunato. Negli Stati Uniti, patria del regista, uscì solo tre anni dopo. Concentrando la storia del Moro in un’ora e mezza, frammentandola, popolarizzandola e polarizzandola, caricandola di sensualità, reinventandola (nella struura), meendosi in scena come demiurgo e come protagonista, Welles aveva creato un capolavoro. Misconosciuto, a un certo punto creduto scomparso e forse bruciato nell’incendio di uno dei tanti alberghi in cui è trascorsa la vita di Welles, ritrovato casualmente in un dimenticato magazzino della Fox, poi finalmente riproposto nel 1992, come lo conosciamo oggi.
4.
ell’ambiguo mercante di Venezia
Dove si racconta come finalmente un regista (Michael Radford) ce l’ha faa. Nel senso che, finalmente, dopo infiniti tentativi, è stata realizzata nel 2004 una versione cinematografica non male di «Il mercante di Venezia». Che lascia tuavia il rimpianto dell’incompiuto e perduto «Mercante» di Orson Welles… Cerchiamo un po’ di capire come è potuto succedere. Che nonostante i numerosi tentativi, nonostante lo sfondo di Venezia che il cinema ha sempre molto amato, nonostante l’appeal dello «sceneggiatore», uno dei più aivi della storia del cinema (quanti film sono stati ispirati da Shakespeare? anti Amleto, da sempre il dramma preferito, quanti Romeo e Giuliea, quanti Sogno di una noe di mezza estate, e Macbeth, e Giulio Cesare, e Otello hanno occupato la fantasia dei cineasti?), nonostante tuo ciò, e Merchant of Venice, Il mercante di Venezia, non è mai stato realizzato per il grande schermo fino al 2004. ando Michael Radford, inglese di New Delhi, il regista di 1984, di Misfao bianco, di Il postino, di Michel Petrucciani - Body and Soul e di qualche altro film non particolarmente memorabile, è riuscito nell’impresa. Per la verità, ai tempi del muto erano state fae, a partire da Méliès, almeno quindici versioni della commedia di Shakespeare (già, perché, bizzarramente, Il mercante di Venezia, in virtù delle storie d’amore, degli equivoci, degli scambi di persona, è catalogato tra le commedie). Si ricordano, poi, delle versioni televisive. E si sa che il Mercante è stato molto spesso rappresentato a teatro durante il Terzo
Reich, che di Shylock dell’antisemitismo.
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UNA COMMEDIA TRAGICA?
Ma, a parte un modesto tentativo firmato da Pierre Billon nel 1952, l’industria cinematografica, quella vera, quella del grande schermo, sino a poco tempo fa ha evitato il play scespiriano. Un play che, tra intrecci amorosi di varia e frivola natura, ruota aorno a un nucleo tragico? Il cui vero protagonista non è «il mercante di Venezia» del titolo, Antonio, l’elegante gentiluomo padrone di merci e di navi, ma un usuraio ebreo che esige in garanzia del suo prestito una libbra di carne? Cosa si vuole di più, in materia di stereotipi offensivi? Non è rischioso, o, peggio, colpevole, portare sullo schermo un testo considerato inequivocabilmente antisemita – come certificato da uno dei massimi critici leerari del mondo, Harold Bloom? Shakespeare è Shakespeare, ma meglio lasciar perdere, devono aver pensato per decenni i big boss degli studios. MA ORSON NON LASCIA PERDERE
Non ha lasciato perdere, a suo tempo, Orson Welles, sempre pronto, sin dai tempi del ciadino Kane, a rischiare e scommeere sulle cause difficili e sui personaggi sgradevoli. Poco più che ventenne Welles ha interpretato Shylock alla radio e a teatro. Ha registrato la sua parte su disco – e c’è ancora la possibilità di trovare via web un raro vinile realizzato per la Columbia nel 1938, e Merchant of Venice, destinato a far parte del suo Everybody’s Shakespeare. Ha interpretato Shylock per la televisione. Nel 1967 ha partecipato al «Dean Martin Show» recitando il monologo di Shylock del terzo ao, «Hath not a Jew eyes?». Nel 1969 ha tentato (senza soldi) un adaamento cinematografico del Mercante che ha araversato infinite avventure e disavventure, tra cui la decisione di eliminare il personaggio di Portia e la misteriosa sparizione delle pizze del film dal
portabagagli della macchina di Welles (Oja Kodar, la bella compagna e collaboratrice di Orson Welles, questo Mercante senza Portia l’ha visto, beata lei, prima della sparizione della pellicola: ora bisogna accontentarsi dei più o meno nove minuti conservati al München Filmmuseum). Ma non è tuo. Welles, agli albori degli anni ’70, si preparava a dirigere Lawrence Olivier, anzi, Larrie, nel Mercante. Non se ne fece nulla, per ragioni di calendario. E fu così che nel 1974 un grandissimo Olivier realizzò la versione teatrale e poi televisiva dell’opera, facendosi dirigere da Jonathan Miller, in abiti Oocento, e con un ribaltamento di stereotipi: Shylock, quasi un Disraeli, è la viima del pregiudizio antisemita. Sempre affascinato da Shylock, mentre nel 1971 recitava per Chabrol in La décade prodigieuse, e più avanti, nel corso della ricerca per le location di e Other Side of the Wind, un altro capolavoro mai finito, Welles avrebbe filmato ancora il monologo di Shylock, prima in una versione che non gli piacque, poi in quella, bellissima, che i curiosi e gli appassionati possono ora vedere sul web: eccolo lì, con il suo infantile nasino e la corporatura falstaffiana che conosciamo, vestito di un modernissimo trench, sullo sfondo di un’alba a Malaga, in Andalusia, a declamare ancora una volta con la sua meravigliosa voce e con le lacrime agli occhi il monologo di Shylock. Un monologo che era forse destinato a essere incorporato nel frammento sopravvissuto del Mercante, abiti moderni sullo sfondo di un ambiente antico? Tuo era possibile con Orson, dice Oja Kodar. Ma chissà cos’altro aveva in mente il suo compagno. E intanto il percorso accidentato e avventuroso del film viene così sintetizzato da Peter Bogdanovich, regista e cinefilo, nel suo gigantesco e appassionante libro-intervista a Welles. Siamo a Roma, nel 1970, nella salea della moviola al Celio su cui Welles sta montando il Mercante, quello destinato a sparire. Bogdanovich racconta di aver visto «il campanile di San Giovanni e Paolo, con Orson Welles in piedi lì davanti, poi un controcampo della stessa scena girato a Venezia, e un’altra
inquadratura girata in Jugoslavia». Non sa che, oltre a Venezia (San Giorgio, Santa Giustina), lo sfondo è in realtà Asolo, e il palazzo prestato per l’occasione la residenza di Eleonora Duse, gentilmente concessa a Welles. Ancora una volta l’estetica della necessità… IL MERCANTE DEL LUSSEMBURGO
Un’estetica, quella della necessità, non condivisa dalla sontuosa produzione Usa/Italia/Lussemburgo/Gran Bretagna del Mercante di Venezia di Michael Radford, starring un grande Al Pacino come Shylock, Jeremy Irons come Antonio, Joseph Fiennes come Bassanio, e una bellezza quasi veneziana, Lynn Collins, come Portia. Una produzione sontuosa e intelligente, visto che, dicono gli esperti, è riuscita a risolvere abilmente alcuni dei problemi legati all’«antisemitismo» del dramma scespiriano (e sì, chiamiamolo con il suo nome di dramma o di «tragedia» questo Mercante di Venezia, anche se è ufficialmente una commedia). IL PRIMO GHETTO
Merito da aribuire in gran parte a Barry Navidi, il produore inglese, che ha visto nel play un ritrao realistico dell’antisemitismo dell’età scespiriana anziché un ao d’accusa atemporale nei confronti degli ebrei. Che ha trovato in Cary Brokaw, il produore Usa, chi condivideva la sua idea. E che ha convinto Radford a cimentarsi nell’impresa del primo Shylock del grande schermo. Radford, con mossa intelligente, apre il film con un lungo cartiglio, inquadrando come prima cosa la condizione degli ebrei veneziani in quell’epoca, 1586, e in quei luoghi. Spiegando l’origine del Gheo, il primo gheo del mondo, e delle sue regole oppressive. Rendendo visibile e palpabile la condizione degli ebrei veneziani e l’umiliazione che Shylock subisce da Antonio: uno sputo in piena faccia nel corso di una manifestazione contro gli ebrei, come gli immigrati di
oggi, ci spiega il film, necessari e al tempo stesso invisi alla società veneziana. Il film di Radford si merita perfino l’imprimatur della Anti-Defamation League, l’associazione fondata nel 1913 per difendere l’immagine ebraica. E quanta strada abbia percorso Shylock sullo schermo lo dice il fao che una delle campagne più importanti condoe dalla Anti-Defamation League a partire dalla fondazione consistee proprio nel convincere i presidi delle scuole superiori a cancellare il Mercante dai programmi scolastici… Nel testo scespiriano lo sputo che riceve Shylock è solo raccontato. Nel film di Radford l’umiliazione di Shylock si consuma in pubblico, sul ponte di Rialto, in mezzo a una folla eccitata. E dà il la a tua la vicenda, esasperando il desiderio di rivalsa e poi di vendea di un nobile, arcigno Shylock, reso irragionevole, nella sua paradossale ed estrema richiesta di risarcimento, dall’ira nei confronti di Antonio l’offensore. Ovverosia di Jeremy Irons, come sempre bello, pallido, elegante, come sempre a rischio della vita. E, in base a dei lievi ma evidenti segnali rintracciabili nelle pagine scespiriane, masochisticamente e impossibilmente innamorato di Bassanio, l’amico che ha bisogno di tremila scudi da Shylock per corteggiare e conquistare la mano della bella Portia. E se non ci piace Portia con i baffei nel travestimento da giovane avvocato con cui ribalta l’esito della crudele e molto parziale giustizia veneziana, Al Pacino, soo il berreo rosso che Venezia imponeva ai suoi ebrei, ha l’intensità dei grandi. TRA RIALTO E LA MALCONTENTA
La fine è nota. Ma se il ponte di Rialto su cui si apre il film è quello vero, invaso da un’orgia di colori, di gente, di musica durante un Carnevale – in altre parole dalla retorica e dal canone della Venezia cinquecentesca, modulati sui colori della piura rinascimentale –, la maggior parte del film di Radford è stato girato altrove. E la sua Venezia è quasi sempre
virtuale. Alcune scene sono state realizzate alla Malcontenta, la palladiana Villa Foscari. Altre in un palazzo di iene. La maggior parte in una Venezia ricostruita in Lussemburgo, dove era già stato ereo per La ragazza con l’orecchino di perla un set composto da una piazza e da qualche canale, che per Il mercante di Venezia sono stati modificati e truccati in modo da sembrare non più fiamminghi bensì veneziani. Eppure, poco importa Venezia. La forza sta, come sempre quando c’è di mezzo lui, nelle parole del Bardo. Che concede a Shylock solo trecentosessanta versi – meendolo in terza o quarta posizione quanto a presenza in scena. Ma che versi. E se Pacino è grande, è ancora più grande, nella memoria, Felix Bressart, il caraerista che in Vogliamo vivere di Lubitsch, il grande film antinazista del 1942, è costreo a fare sempre e solo l’alabardiere di Amleto, ma sogna di avere prima o poi una parte importante. E che, nella Varsavia molto ebraica occupata dai nazisti, finisce per recitare, a beneficio di un comploo contro Hitler, il monologo di Shylock: il ruolo di una vita, che in quel momento, in quella situazione, in quel ridoo di teatro, in quella finta ma verissima Varsavia occupata, in mezzo a una platea di nazisti, fa venire i brividi.
5.
Addio, contessa Serpieri
Dove si racconta come Luchino Visconti, grande aristocratico e grande regista di teatro, d’opera e di cinema, abbia realizzato a Venezia un film che ha provocato una roura nella storia del neorealismo – e fao la storia del cinema e della Fenice. In quel lontano 1952, Luchino Visconti, bello, aristocratico, prepotente, geniale, era reduce dall’avventura di Bellissima e di Siamo donne, ed era considerato un faro del neorealismo. Sognava di fare un film con Totò – che considerava soovalutato e mal sfruato. E, assieme all’amica e compagna di lavoro Suso Cecchi d’Amico, complice e sodale di un’intera vita di cinema, lavorava al progeo di Marcia nuziale, un film a storie incrociate, che doveva essere un manifesto a favore del divorzio. Non dunque esaamente ciò che, in quell’epoca squisitamente democristiana, desiderava il Ministero – che infai fece sapere come il progeo non fosse gradito… Il produore in pectore del nuovo film di Visconti si chiamava Riccardo Gualino, era un gentiluomo dal nobile curriculum vitae di intelleuale e antifascista, e, dopo il no a Marcia nuziale, aspeava per la sua Lux Film un’idea alternativa che desse vita, come diceva lui, a un’opera «speacolare ma di alto livello artistico». L’idea arrivò, tramite Suso Cecchi, con le pagine di un piccolo volume di racconti appena curato da Giorgio Bassani: una raccolta che conteneva tra l’altro Senso, una novella di Camillo Boito, il fratello maggiore, meno noto e meno brillante di Arrigo. Ma che racconto! Ancora oggi dà i brividi
per la durezza, il cinismo, la mancanza di scrupoli del personaggio femminile – molto diverso da quello che conosceremo araverso il grande film di Luchino Visconti. Gualino capì immediatamente il potenziale della storia, e accolse con entusiasmo la proposta di Visconti e di Suso Cecchi. E anche se i dirii del racconto, come si scoprì, erano già stati venduti a Nicolò eodoli, che aveva per un po’ accarezzato l’idea di farne un film da affidare alla regia di Mario Soldati, il progeo, fortunatamente per i nostri, era caduto. Via libera, dunque. Fu consultato Giorgio Bassani perché collaborasse alla sceneggiatura. E furono chiamati a far parte della squadra, per desiderio di Gualino, anche Giorgio Prosperi e Carlo Alianello, che conosceva bene il nostro Risorgimento e che avrebbe scrio il blocco della baaglia di Custoza. DA «SENSO» A «CUSTOZA» E RITORNO
Insomma, nel marzo 1953, secondo i rituali complessi del cinema di Visconti, si diede il via alla prima sceneggiatura di quello che sarebbe diventato Senso. Senso, il film, sulla copertina della sceneggiatura in fieri, si intitolava così. Ma si pensò anche di chiamarlo Custoza, come la tragica baaglia (e sconfia italiana) del 24 giugno 1866. O I vinti. O Uragano d’estate. Cosa importa? In ogni caso il film era destinato a rivoluzionare la visione ufficiale della storia risorgimentale. Tuo partiva da Lo scartafaccio segreto della contessa Livia, come si intitolava il racconto di Boito. Uno «scartafaccio» segreto e tenuto ben nascosto in cui, sedici anni dopo gli eventi, e quando di anni ormai ne ha trentanove – un’età che all’epoca la qualifica come anziana o quasi –, la contessa Livia ricorda il suo viaggio di nozze a Venezia nel luglio del 1865, ventiduenne appena sposata a «un marito che avrebbe potuto essere “suo” nonno», e che tuavia era la risposta ai suoi desideri di «zitella». «Volevo avere carrozze mie, brillanti, abiti di velluto, un titolo e, soprauo, la mia
libertà». ella libertà che paradossalmente veniva alle signore, in quei tempi, dal vincolo matrimoniale. REMIGIO, PROSSIMAMENTE FRANZ MAHLER
È durante questo viaggio a Venezia del 1865, e mentre si esibisce in tuo il suo giovanile e un po’ cafonesco splendore al Caè adri, che la contessa Livia conosce Remigio. Eh be’, sì. «Lui» nel racconto di Boito si chiama casalingamente Remigio. Non ha ancora assunto l’evocativo nome di Franz Mahler inventato poi da Visconti in omaggio al suo predileo musicista. Remigio, bellissimo, «bianco e roseo, con i capelli biondi ricciuti, il mento privo di barba, […] gli occhi grandi e inquieti di colore celeste». Remigio, che «alla dissolutezza sbadata, univa […] una così cinica immoralità di principi che niente gli pareva rispeabile in questo mondo, salvo il codice penale e il regolamento militare». Remigio, che indossa una divisa bianca da ufficiale austriaco soo cui «s’indovinava tuo». Remigio che, «forte, bello, perverso e vile, mi piacque». È luglio, il solleone impazza. E mentre suo marito, il nobile austriacante, dorme, fuma, russa e dice male del Piemonte, Livia, che ha «bisogno d’amare», va incessantemente in barca dalla Piazzea a Sant’Elena, da Santa Maria Elisabea a San Nicolò al Lido in cerca di qualcosa. Ha come una rivelazione di fronte «all’Assunta del Tiziano, alla Cena pomposa di Paolo». E impazzisce per Remigio, «per l’Alcide, per l’Adone in assisa bianca». Che finalmente un giorno la raggiunge di nascosto nello sgabbioo del bagno galleggiante di uno stabilimento a punta della Dogana e zac… Comincia una torrida storia di passione, gelosia, tradimenti, delazione. Simile ma diversissima da quella che conosciamo araverso il film di Visconti. Che avrebbe potuto essere un’altra cosa – e per le alchimie magiche del cinema è diventato il capolavoro che conosciamo.
TENNESSEE, PAUL E GLI ALTRI
Alla squadra degli sceneggiatori, infai, si erano intanto aggiunti due grandi nomi internazionali, Tennessee Williams e Paul Bowles, che, senza compenso (oh, fascino dei grandi registi!), si accinsero a scrivere i dialoghi dei due protagonisti… Di cui, dopo molte incertezze, si era finalmente stabilita l’identità. Luchino Visconti, all’inizio dell’avventura, per il ruolo di Livia Serpieri, la bella ragazza che diventa contessa, aveva immaginato la Mangano. Poi, nella prospeiva di un grande film internazionale, aveva pensato a Ingrid Bergman e, nel ruolo del bell’ufficiale che, dimenticato Remigio, aveva ribaezzato Franz Mahler, a Marlon Brando. Ma, forse per ragioni economiche, con Brando non si arrivò a un accordo – mentre si insinuano sospei di gelosia professionale di Rossellini dietro il no della Bergman. Fao sta che, come è noto, vennero chiamati Alida Valli, che allora era soo contrao a Hollywood, ma che David O. Selznick cedee volentieri, e Farley Granger, bellissimo e ambiguo, reduce dai successi di Nodo alla gola e di Delio per delio di Hitchcock, ma da qualche tempo su un binario morto. Il direore della fotografia era Aldo Graziati, che aveva al suo aivo film come Miracolo a Milano, come Umberto D., come Othello di Welles, e che avrebbe realizzato con Senso il suo primo film a colori. Gli assistenti alla regia si chiamavano Francesco Rosi e Franco Zeffirelli. E l’aiuto di Visconti si chiamava Giancarlo Zagni, giornalista e uomo di teatro, di cui Alida Valli si innamorò al punto che, finito il film, andarono a vivere assieme e vissero «una storia molto bella, durata sedici anni». Ma di cui, dicono i gossip del set (che allora si chiamavano solo peegolezzi o servate), Luchino Visconti si era innamorato, con relative tensioni nei confronti della Valli… Le riprese cominciarono a fine agosto 1953 a Valeggio sul Mincio con le scene della disastrosa sconfia di Custoza. Continuarono a Villa Godi Valmarana a Lugo, nel vicentino.
Come testimonia il fotografo di scena, Paul Roland, Senso era un film ricco: i soldi c’erano e si vedevano. Almeno nei primi tempi. Ma le riprese dovevano durare tre mesi e i mesi diventarono nove. Ci furono problemi e tragedie: il 14 novembre 1953 Aldo Graziati andò a schiantarsi con la sua «Aurelia» a Albara di Pianiga, mentre si trasferiva da Villa Valmarana a Venezia. Nel cordoglio generale, la lavorazione si fermò per alcuni giorni. anti bastarono a Visconti per chiedere all’australiano Robert Krasker, che aveva appena finito di girare Giuliea e Romeo di Castellani, di assumersi la successione di Aldò assieme a Giuseppe Rotunno. E Krasker debuò nell’incarico con il gesto gentile e rispeoso di chiedere al capo elericista di preparare, per la celebre scena della Fenice che apre il film, le luci che Aldò aveva previste… I MAZZOLINI DELLA FENICE
La scena d’apertura del film alla Fenice – con la cabalea della fine del terzo ao del Trovatore, l’esplosione della musica verdiana con Di quella pira, le mura e il castello di Saragozza, la palpabile passionalità del canto, la travolgente manifestazione patrioica che riempie la Fenice di mazzolini e di volantini tricolori lanciati al grido di «Viva Verdi!» – è la grandiosa ouverture musicale di un film ad alto tenore «operatico», accompagnato dalla imponente Sinfonia n. 7 in Mi maggiore di Bruckner. E molto diverso dal suo originale leerario. La contessa Serpieri del film, al contrario dell’altra Livia, è anche lei di nascita aristocratica. Al contrario del suo modello, non è una ragazzina. Né è la bestiola puramente sensuale, amorale e istintiva che è Livia secondo Boito. L’innamoramento per il bell’ufficiale austriaco Franz Mahler è per lei, in un certo senso, contro natura. Livia ha palpiti patrioici. Appoggia (e poi tradirà per amore, per passione) la causa italiana. Sostiene suo cugino Ussoni, che ha nel film il volto di Massimo Giroi. Come la Livia No. 1 di Boito, nella noe che apre la sua storia d’amore, la Livia No. 2, con il suo futuro amante, gira ossessivamente per Venezia seguendo un itinerario che una
astuta agenzia di vacanze intelligenti dovrebbe promuovere tra i suoi clienti: dal campo del Gheo Nuovo al rio di Noale, alle Fondamenta Nuove (dove i due affieranno la stanza per i loro incontri), dal campo dell’Arsenale al canale di Cannaregio, Venezia si apre in tua la sua bellezza e la sua decadenza come una metafora e un riflesso di quello che sente Livia, fino all’ultima immagine nourna di una calle in cui la vediamo seguita dal marito giustamente geloso. Poi il film si sposta altrove, nella villa di Aldeno, sui campi di baaglia, sui luoghi dell’umiliazione di Livia, ingannata e tradita per una ragazza molto più giovane, offesa da Franz davanti a testimoni. E infine pronta a venderlo alla giustizia militare di Vienna. Visconti aveva immaginato un finale in cui un giovanissimo soldato austriaco, ubriaco, piangeva gridando «Viva l’Austria!» – ma fu considerato troppo provocatorio, «troppo pericoloso», a giudizio del saggio Riccardo Gualino. Il finale rimase così molto simile a quello del racconto, che si chiude con la fucilazione di Remigio, poi Franz Mahler, e la corsa disperata di Livia tra soldati ubriachi e prostitute (ma, potere ingannatore del cinema, i deagli e i primi piani della passeggiata nourna di Livia e Franz sono stati girati alla Titanus di Roma, le scene di Verona lungo via Garibaldi, sempre nella capitale). Il film fu presentato alla Mostra del cinema di Venezia del seembre 1954. E fu subito visto – orrore! – come un film di sinistra: perché si parlava di una sconfia, perché mescolava adulterio e Risorgimento, perché intrecciava tradimenti e storia patria. Il prezioso libro di Franca Faldini e Goffredo Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano, registra la testimonianza di Piero Regnoli, all’epoca critico dell’«Osservatore Romano», che fu spedito a Venezia dal Ministero con il preciso compito, raccontò, di manovrare per impedire che Senso, un film «comunista», ricevesse il premio. Doveva riceverlo, gli dissero, Giuliea e Romeo di Castellani. Che fu puntualmente premiato.
LA MEMORIA DEL CINEMA
Il premio di Senso fu che si trovò subito al centro di un appassionato e duraturo dibaito. Guido Aristarco, capofila della critica marxista, scrisse in una recensione diventata celebre che era un film rivoluzionario che segnava il passaggio dal neorealismo al realismo, che era una rappresentazione critica della storia in forma di romanzo. Di parere opposto Luigi Chiarini, che parlò di tradimento del neorealismo. Il giovane Viorio Taviani dichiarò che il film era «la conseguenza più coerente delle premesse del neorealismo». E il dibaito continuò con una leeratura critica infinita. Cinquant’anni dopo accadde anche che il venezianissimo Tinto Brass, con Senso ’45, decidesse di osare l’inosabile, e facesse un remake del capolavoro di Visconti, ambientandolo a Venezia nel 1945 e irritando un po’ tui, salvo il suo fedele pubblico. Il 14 dicembre 2003 il Gran Teatro la Fenice, che era andato in fumo il 29 gennaio 1996 in un tragico rogo, riaprì con un concerto di Riccardo Muti. Com’era, dov’era, secondo la formula dell’allora sindaco Cacciari. E se questo è stato possibile, lo è stato anche grazie alla memoria del cinema, alle immagini di quel teatro e di quel Trovatore registrate per sempre dal film di Visconti.
6.
E adesso mambo
Nel quale si parla di Hollywood in Laguna (la versione veneziana di Hollywood sul Tevere). Di Silvana Mangano che amava ballare. Di un grande regista sul viale del tramonto come Robert Rossen. E della signora della danza, Katherine Dunham. Silvana Mangano, la bellissima, algida, elegante signora nata come esplosiva bomba sexy negli anni del neorealismo, entrata di prepotenza nelle fantasie degli italiani in gonna corta, magliea strea e calze nere, e nel corso del tempo diventata una raffinata, scarnificata essenza di donna, fino alla sua apparizione in Morte a Venezia, esemplare immagine di raffinatezza boldiniana e di grazia racée, lei, Silvana Mangano, signora De Laurentiis, amava ballare. Aveva ballato con effei devastanti sulle fantasie erotiche dei maschi di mezzo mondo, che saranno per sempre ossessionati dalle sue calze smagliate da mondina, in Riso amaro (e già da allora nei dintorni si aggirava il suo amico Viorio Gassman nel ruolo del caivo che scompiglia i giochi). Aveva ballato con favorevoli effei sul box office in Anna, un film di Alberto Lauada che, ragguardevole esempio di mélo italiano, le offrì l’occasione di esibirsi quasi in un doppio ruolo, di suora/infermiera e di soubree che canta e balla, tra altre notevoli esibizioni, un bayon diventato celeberrimo («Ya viene el negro zumbon / Bailando alegre el bayon», ma è facile dirlo, bisogna vedere come la signora si muove…).
Anche lì «’o malamente» era Viorio Gassman, che la voleva per sé e non intendeva cederla al dignitoso e compassato Raf Vallone, proprietario terriero pieno di buone intenzioni matrimoniali ma non disposto a dividerla con un caivo. E Silvana Mangano balla anche in Mambo di Robert Rossen, il film che suo marito Dino De Laurentiis, ormai produore importante, alla vigilia di realizzare Guerra e pace e di sfidare Hollywood sul suo terreno, le regalò per renderla felice e per soddisfare il suo amore per il ballo. SILVANA, BELLISSIMA
Per la bellissima Silvana, dopo il successo di Anna sono passati anni intensi a livello personale e professionale. È nata la sua seconda figlia, Raffaella. Silvana è stata l’interprete di una ambiziosa versione cinematografica dell’Odissea, l’Ulisse di Mario Camerini, in cui ha il doppio ruolo di Penelope e di Circe. Ed è un po’ Penelope e un po’ Circe, o comunque due molto diversi modi di essere la stessa donna, in Mambo. Un film che è l’esempio perfeo di quella soomarca di Hollywood sul Tevere che fu Hollywood in Laguna. Se a Roma c’è, nello stesso periodo, William Wyler che gira Vacanze romane, e tra non molto arriveranno i set di Ben Hur e di Cleopatra con relative leggende – per non dire di La dolce vita, un film che cambierà la visione della capitale italiana –, a Venezia c’è un ex grande regista perseguitato dal senso di colpa e abbandonato da Hollywood, Robert Rossen. Che approda in Italia, secondo i suoi biografi, per riparare le sue finanze, ma anche per respirare un po’ dopo i giorni del tradimento… ROBERT ROSSEN IN CERCA DI LAVORO
Complicata e brua la storia di Robert Rossen. Che era sceneggiatore, regista, e uomo di sinistra. Che nel 1949 con Tui gli uomini del re, un ao d’accusa contro il populismo e
la demagogia facile, aveva vinto tre Oscar, tra cui quello per il miglior film. Che dal 1937 al 1947 era stato membro del Partito comunista americano e molto dedito alle cause sociali. E che negli anni di McCarthy venne chiamato due volte davanti alla House Un-American Activities Commiee (HUAC), nel 1951 e nel 1953, perché facesse i nomi dei suoi compagni di ideologia. La prima volta si appellò al into emendamento per rifiutarsi di parlare. Risultato: venne ufficialmente messo sulla lista nera di Hollywood, che sostanzialmente impediva di lavorare, e gli venne ritirato il passaporto. Alla seconda audizione fece i nomi di cinquantasee persone e fu tolto dalla lista nera. Con il permesso di lavorare sì, ma con grandi incubi. Altri, vedi Elia Kazan, vedi Budd Schulberg, fortunati, si riconciliarono con se stessi. Lui no. Fu allora che venne in Italia, con l’idea di sfruare la recente passione mondiale per il mambo. Sapeva della passione della Mangano per la danza? In ogni caso tra il 1952 e il 1953 scrisse la sceneggiatura di Mambo. «Doveva essere solo un divertimento», scrisse poi, «ma l’ho preso troppo sul serio e non ha funzionato».Che non funzionasse lo pensarono un po’ tui, pubblico e critica. Non è vero, ha funzionato, invece, sostenne anni dopo Dorothea Fischer-Hornung, una studiosa di psicologia di Heidelberg, secondo cui è un dato importante che il personaggio femminile (la nostra Mangano) risolva i suoi conflii dedicandosi alla danza, mentre le coreografie di Katherine Dunham illuminano questo processo di liberazione, e la fotografia rende al meglio le scene di ballo. MÉLO ITALICO
Bontà sua. Il film, che nasce da un’idea di Ennio De Concini, in effei è un campionario di stereotipi da melodramma, a dispeo della partecipazione alla sceneggiatura di nomi insigni di scriori come Ivo Perilli e Guido Piovene, grande aristocratico veneto e quindi, si
suppone, in teoria qualificato a dare un tocco di credibilità alle atmosfere veneziane. anto alla storia… La storia racconta di una ragazza veneziana povera ma bella (ed elegante, elegantissima, con una classe naturale e bellissimi cappoi), Giovanna, che ha come moroso un imbroglioncello locale, Viorio Gassman, ex croupier, in quarantena dal celebre Casinò per caivo comportamento. Giovanna lavora in un negozio di vetri bellissimi che non può neanche sognare di possedere. Insomma, due esseri messi in tentazione. E proprio nell’esercizio delle sue funzioni di commessa colpisce al cuore un ricco principe veneziano (ma a Venezia ci sono i principi? O non sarà piuosto un conte?), di quelli che a quarant’anni vivono con la mamma, nel caso specifico prepotente e fieramente aristocratica. Ma come se non bastasse il povereo è destinato a morte certa in quanto emofiliaco. Ed è pazzo di Giovanna. Il perfido Gassman suggerisce, tra incoerenti pulsioni di gelosia e passione, che lei sposi il ricco nobiluomo e diventi rapidamente vedova. Vi ricorda la vicenda di Le ali della colomba? Be’, non avete torto. Anche il principe vorrebbe morire, purché vicino a Giovanna. Alla fine, dopo drammi, lacrime e ripensamenti, dopo traslochi dai palazzi sul Canal Grande alle casucce dei poveri dalle cui schiere Giovanna proviene, dai cantieri alle sale dei grandi alberghi, prevarrà la voglia di libertà, che la bella Giovanna identifica con la danza. Ragion per cui mollerà tuo e seguirà la troupe di Katherine Dunham, la grande danzatrice, coreografa, antropologa che nel film ha, onore molto raro, il ruolo di se stessa. Ad assistere la Dunham, nel film, c’è Shelley Winters, molto leopardata, nel ruolo dell’impresario del balleo che sta girando l’Italia e che accoglie Giovanna come una star (e in effei la Mangano non balla male, anche, ha scrio qualcuno, grazie all’aiuto del montaggio). Ricordate i gossip dell’epoca? Shelley Winters stava divorziando da Viorio Gassman dopo un matrimonio durato ufficialmente due anni (e iniziato il 28 aprile del 1952, due ore dopo che Gassman aveva divorziato dalla moglie precedente,
Nora Ricci). Gassman e Winters divorziarono ufficialmente il 2 giugno del 1954. Possiamo ipotizzare che tra i divorziandi certe giornate sul set fossero tese? Almeno come le scenate che vediamo esplodere tra i loro due personaggi? COSA VUOLE IL PRINCIPE?
Dobbiamo in ogni caso alla memoria della Winters una storia interessante: secondo la signora, infai, all’origine Mambo aveva una importante sootrama gay che è stata tagliata dalla versione finale del film: il principe (Michael Rennie), nella versione originale, era innamorato del personaggio di Gassman, l’ex croupier di scarsa virtù. Il che spiegherebbe anche perché Giovanna/Silvana se la baa precipitosamente, Dunham o non Dunham. D’altronde, il libro della solita Dorothea Fischer-Hornung che parla di Katherine Dunham non si intitola forse Embodying Liberation? Il mambo, come lo interpreta Silvana Mangano, come lo ballano i ragazzi e le ragazze della troupe di Katherine Dunham, non è tranquillizzante come un minueo. Diciamo che è molto sexy? All’uscita americana di Mambo, nel 1955, il «New York Times» scrisse che la trama era contorta, la sceneggiatura lunga e poco credibile, e la performance della Mangano laboriosa. Poco importa. Con Mambo ci guadagnarono tui. Venezia, esaltata nella sua parte nobile ed elegante. La Mangano, sempre più bella e versatile. E Robert Rossen: che aveva inventato Hollywood in Laguna, che poté tornare in America e che, tra altri film indifferenti, ne girò uno prossimo al capolavoro, Lo spaccone.
7.
Una romantica signorina americana
Dove si racconta come Katharine Hepburn e Rossano Brazzi si incontrano a Venezia, lui latin lover, lei signorina morigerata, e il loro incontro produce un amore improbabile e scomodo – ma veri fuochi d’artificio. Se la macchina del tempo fosse impazzita per un aimo, Katharine Hepburn e Rossano Brazzi si sarebbero potuti incontrare non su un set veneziano ma a New York, dove, alla fine di Piccole donne, Jo March/Katharine Hepburn va a lavorare, soraendosi al suo destino di ragazza povera e intelligente. E dove incontra il meraviglioso professor Baher… Il fao è che Katharine Hepburn, per ragioni anagrafiche (era nata nel 1907), fu una fantastica Jo March sì, ma nella versione del romanzo di Louisa May Alco realizzata nel 1933 da George Cukor. Non in quella di Mervyn LeRoy del 1949. E l’uomo della sua vita, nel film di Cukor, era Paul Lukas. Mentre Rossano Brazzi, venti anni dopo e con la giusta distanza di età (ci vuole un uomo adulto e forte per capire e apprezzare la liberata ragazza Jo March) incarna anch’egli il professor Baher, ma la Jo che sposa, nella versione di Mervyn LeRoy, è June Allyson… Il tempo, però, lavora. E accadde così che l’ex Jo/Katharine Hepburn e il professor Baher di seconda generazione si incontrarono professionalmente a Venezia nel 1955. VENEZIA, LA LUNA E TU
Lei, a dispeo del fao che ha solo quarantoo anni, è una zitella sciupacchiata e solitaria (mi si consenta la parola zitella. Sono autorizzata a farlo dalle fonti americane, che, tue, usano la parola «spinster». Perché il film di David Lean ha fao della Hepburn proprio una zitella). Lui è un maturo, seducente latin lover (anche questa un’altra terminologia obsoleta e dimenticata). Lei è reduce dalle fatiche zitellesche di La regina d’Africa accanto a Humphrey Bogart, che le avevano conquistato nel 1951 una nomination agli Oscar (seguirà Il mago della pioggia, terzo film della serie delle «spinster» di Katharine Hepburn, che nella vita poco zitella era e molto disinvolta). Lui è reduce dal set di Tre soldi nella fontana e di La contessa scalza, insomma, uno specialista di nostalgia e di seduzione italian style. Lei è pronta ad acceare la proposta del grande David Lean senza discutere, come racconta nella sua autobiografia Me. («Mi telefonarono e mi dissero che il film sarebbe stato direo da David Lean. Sarei stata?… ma non hanno avuto bisogno di finire la frase»). Lui, si immagina, è felice di un ruolo di coprotagonista accanto a una superstar, anche se un po’ appannata dall’etichea di «veleno per il box office» che le era stato appioppato per alcuni bei film sfortunati, e tuavia in visibile risalita. È aorno ai due e a Venezia, protagonista assoluta nello splendore del Technicolor 1955, che si sviluppa Summertime, Tempo d’estate, il film di David Lean che candidò un’altra volta Katharine Hepburn all’Oscar (ma lo conquistò invece la Magnani per La rosa tatuata), sbancò i boeghini e, si racconta, fece raddoppiare il numero di turisti che a partire da quel fatale 1955 invasero Venezia anche sulle orme della diva. TROPPI SENTIMENTI
E dire che, come spesso capita, sarebbe potuta essere tua un’altra storia e un altro film. Al posto di Brazzi, nel ruolo di Renato De Rossi, antiquario in Venezia e bell’uomo, ci sarebbe potuto essere Viorio De Sica, per un aimo tentato dalla vicenda sentimentale che il copione raccontava. Al
posto di David Lean ci sarebbe potuto essere Roberto Rossellini, che aveva espresso interesse per il progeo, e che per la «spinster» pensava a Ingrid Bergman, reduce da Giovanna d’Arco al rogo. E si parlò, per la parte, anche di Olivia de Havilland. Tempo d’estate era nato come una commedia di Broadway, autore Arthur Laurents, titolo e Time of the Cuckoo. Premiata dal pubblico e dalla critica, a Hollywood la pièce era stata al centro di una serie di traative e di ipotesi, fino a che il produore che ne aveva acquistato i dirii cinematografici, Ilya Lopert, aveva deciso per David Lean, il regista inglese dell’insuperato Breve incontro. Un regista considerato un maestro nel traamento delle storie sentimentali e allo stesso tempo non sentimentalistico. Che dopo Tempo d’estate, però, forse provato da tanti sentimenti, sarebbe passato decisamente al cinema epico con Il ponte sul fiume Kwai, per continuare, con Lawrence d’Arabia e Il door Zivago, fino a Passaggio in India. Anche per lui lo zucchero di Tempo d’estate era stato troppo? HA RISPARMIATO TUTTA LA VITA
Ecco dunque arrivare in Laguna sull’Orient Express Parigi-Venezia una eccitatissima Jane Hudson/Katharine Hepburn, segretaria di scuola ad Akron, una ciadina dell’Ohio, che ha risparmiato tua la vita per concedersi questo viaggio, e che, armata di una piccola cinepresa a 8 millimetri, filma ogni istante della sua esperienza. Un’esperienza che le deve obbligatoriamente piacere, spiega sul treno a un compagno di scompartimento, perché, appunto, «ho risparmiato tua la vita per farla». Sul vaporeo che la porta dall’ultimo avamposto della modernità, la stazione di Venezia Santa Lucia, secondo un itinerario delirante tipico del cinema turistico – ponte degli Scalzi, poi Piazzale Roma, poi, subito, la Salute –, alla pensione dove è prenotata (ma la Hepburn della realtà è sistemata al Bauer, unico albergo che all’epoca avesse l’aria
condizionata), Jane Hudson incontra una coppia di anziani compatrioti, i McIlhenny, visitatori incalliti e ignoranti di musei, per combinazione alloggiati anch’essi, come Jane, alla Pensione Fiorini e reduci dalla visita dell’Accademia. «Centinaia di quadri, tui fai a mano», commentano entusiasti, pronti ad affrontare un po’ smarriti la IA, la Independent Activity, il tempo libero che il loro agente di viaggi gli ha concesso in un densissimo programma. Ma alla Pensione Fiorini, molto carina, la solitudine della povera Jane, nonostante la gentilezza della direrice (Isa Miranda), si dispiega in tua la sua malinconia. Sembra che tui, a Venezia, viaggino a coppie. Che tui si bacino e si abbraccino. Una sorta di sindrome di Stendhal sentimentale. Insomma, la bellezza della cià è difficile da vivere in solitudine. Finché, mentre Jane sta malinconicamente seduta a un tavolino di caè davanti a Palazzo Ducale, occhieggiando le altrui effusioni, arriva Lui, il latin lover, Renato, dotato di tuo lo charme di Rossano Brazzi. Che lei ritrova il giorno dopo in un negozio di antichità a San Barnaba, dove si regala un costoso boccale di vetro molto simbolicamente rosso passione. Un boccale che le causa un soprassalto di provincialismo americano, e le fa credere di essere stata imbrogliata, e dunque tradita e offesa, quando i soliti McIlhenny arrivano da Murano con ben sei boccali identici. Povero Renato. Va’ a spiegare a una provinciale americana, diffidente e offesa, che a Murano rifanno le stesse cose da secoli, che c’è il boccale antico e quello moderno… O no? FUOCHI D’ARTIFICIO: REALI O METAFORICI?
Parliamo un aimo di Renato De Rossi. Scopriremo che è sposato e separato, una condizione molto difficile nell’Italia ipocrita e intollerante degli anni ’50 che destinava i coniugi infelici alla clandestinità dei sentimenti. E scopriremo anche che, a sorpresa, nei suoi sentimenti verso Jane la zitella è sincero. È veramente arao dalla sua fragilità, dai suoi
rossori, fisici (tanti, è tua una efelide) e psicologici. E soo la sua influenza Jane fiorisce. È tempo d’estate non solo perché fa caldo e tui esibiscono scollature e spalle nude, ma perché è tempo di fioritura dei sentimenti e della sensualità. Anche se David Lean, o per meglio dire il suo sceneggiatore H.E. Bates, avrebbe potuto risparmiarci la metafora dei fuochi d’artificio del Redentore che esplodono assieme alla sensualità di Jane. E, peggio, la metafora dei… ravioli, definita da un critico americano il «ravioli approach» all’amore e al sesso. «Sei come un bambino affamato che vuole solo la bistecca e [se non può averla, n.d.r.] non vuole mangiare i ravioli», dice Renato a Jane, tentata dal gentile corteggiamento del seducente antiquario, ma chiusa a riccio perché lui è sposato, e lei, ci è dato supporre, non ha una grande esperienza, di uomini e di ravioli. Non si sa (e francamente c’è da dubitarne) se sia vero quello che la produzione del film ha vantato: che il numero dei turisti a Venezia dopo l’uscita di Tempo d’estate è raddoppiato. Ma certo il film di David Lean è una specie di esaltazione della mappa turistica veneziana, un omaggio alla cià e alla sua bellezza, un catalogo di chiese e di palazzi messi in posa. La terrazza della Pensione Fiorini, che non esiste, è stata ricostruita a San Vio – ma l’ingresso appartiene alla Traoria Sempione, che c’è ancora, vicino a San Marco. La camera da leo di Jane fa parte di un appartamento a Dorsoduro. I caè di piazzea San Marco sono la scena dei primi scambi di occhiate tra Renato e Jane. È a campo San Barnaba, accanto alla chiesa, il negozio d’antichità di Renato. Ed è nel canale di San Barnaba che Katharine Hepburn coraggiosamente (e per quaro volte) acceò di cadere – tanto più coraggiosamente perché in una scena precedente Jane aveva visto una signora buare in canale dalla finestra un secchio di rifiuti (e sempre le voci hollywoodiane dicono che per quel tuffo in canale la Hepburn soffrì per tua la vita di una forma di congiuntivite).
SOTTO LA RETORICA
Non bisogna lasciarsi ingannare dallo zucchero e dalla retorica del film. E dalla colonna sonora di Alessandro Cicognini, dalle canzoni popolari italiane rielaborate e dalla molta Santa Lucia (ma, un po’ più ironicamente, anche di Rossini). La storia di Jane e di Renato è un invito a liberare sentimenti e sensi. Le voci che avevano preceduto la lavorazione del film in Laguna facevano immaginare una storia torrida. Figurarsi. I veneziani erano invece preoccupati che il set disturbasse e diroasse i turisti (come si sa avvenne il contrario). Eppure, a film finito, quel tenero amore di mezza età inquietò non poco il responsabile della Production Code Administration, Geoffrey Shurlock, il quale comunicò alla United Artists, la casa distributrice del film, che Summertime non sarebbe stato approvato per come dipingeva l’adulterio. Furono tagliati quasi sei metri di pellicola della scena in cui finalmente si intuisce che Renato e Jane vanno a leo insieme – e i fuochi esplodono. Con quel taglio l’approvazione arrivò. La National Catholic Legion of Decency chiese e oenne il sacrificio di una bauta, e non contenta decise che il film restava «in parte moralmente discutibile». Moralmente in relazione a quale morale? In Italia i poveracci come Renato dovranno aspeare altri quindici anni prima di porre la parola fine alle loro vite amorose clandestine. MACCHÉ SEDUTTORE
E la Hepburn? Erano gli anni in cui la grande Katharine divideva segretamente ma non troppo la sua vita con Spencer Tracy, in un amore che era assai più di un adulterio. Il discorso del film, insomma, aveva per lei anche una risonanza personale. David Lean, da buon britannico, traò la vicenda con delicatezza. E decise che Renato De Rossi era una persona per bene, ribaltando lo stereotipo del seduore latino e del Casanova veneziano. Scena del ribaltamento d’immagine la stazione di Venezia Santa Lucia, dove il povero
Brazzi è costreo a correre a perdifiato lungo il marciapiede per raggiungere la mano protesa di Jane Hudson che parte (per sempre?) e meerle in mano la gardenia simbolo del loro amore. I sentimenti di Brazzi sono forti, ma la carne è debole. Renato non ce la farà a raggiungere Jane che si allontana sul treno verso il ponte della Libertà, che si prepara a tornare alla sua vita di ogni giorno. Ma la sua sincerità è salva e il sospeo di latin loverismo demolito. Jane/Hepburn vivrà del ricordo di un meraviglioso tempo d’estate a Venezia. Un tempo che agli inglesi parve così folle da far loro ribaezzare il film, in Inghilterra, Summer Madness, follia d’estate.
8.
Eva, la crudele
Dove si racconta di «Eva», un potenziale bel film mal riuscito, dei malumori che lo hanno circondato, e di una bellissima Venezia cinematografica in bianco e nero (come l’arice, anche lei in bianco e nero firmato Cardin). Joseph Losey, ai tempi in cui esplorava Venezia, nel 1977, per preparare alcune scene del suo Don Giovanni, aveva quasi seant’anni (era nato nel 1909): era un omone grande e fascinoso, imponente e gentile, colto e aspro, con l’aria, sempre, di prenderti un po’ in giro. Era un curioso misto di Europa (viveva e lavorava soprauo in Inghilterra, dove sarebbe morto nel 1984) e dell’America dove era nato, a La Crosse, nel Wisconsin, figlio di una opulenta e colta famiglia nella cui grande casa circolavano intelleuali, poeti, scriori: tra i quali Bertolt Brecht, di cui il giovane Losey fu amico e con cui ebbe occasione di lavorare meendo in scena il suo Galileo. Alla fine degli anni ’50, Joseph Losey si era ritrovato esule in Inghilterra. L’America, la sua America, se l’era dovuta lasciare alle spalle. Colpa dei suoi peccati di gioventù. Perché oltre al teatro con Brecht aveva fao film importanti e disturbanti, come Il ragazzo dai capelli verdi, il suo debuo nel cinema, che meeva in forma di apologo una angosciosa perorazione contro le discriminazioni razziali e di ogni tipo. Ed erano fin troppo evidenti le sue simpatie politiche per il Partito comunista, mentre i suoi film sapevano troppo di impegno sociale per non andare di traverso al senatore McCarthy.
Che infai convocò Losey davanti alla Commissione per le aività antiamericane. Losey, che non voleva collaborare, pensò che era bene filarsela. Tanto, nessuno, in America, gli proponeva più un film. LOSEY IL BRITANNICO
Fu così che, come tanti in quegli anni, Joseph Losey decise di lasciare gli Stati Uniti e di trovare una nuova patria in Gran Bretagna, dove ricominciò a lavorare. Ma non a firmare i suoi film, almeno fino a L’inchiesta dell’ispeore Morgan, nel 1959. Sempre affrontando temi forti, racconti morali, metafore ambiziose, realizzate spesso con pochi soldi e una grande visione. Accadde dunque che un bel giorno del 1962 Joseph Losey, ormai britannico, stava girando in location nel Dorset il film che in italiano si chiamerà Hallucination (e Damned), e che raccontava tue le paure dell’epoca della guerra fredda e dello scontro nucleare araverso una cupa storia di bambini contaminati da sostanze radioaive. Gli arrivò uno smilzo libreo. Lo spedivano due potenti produori, i fratelli Robert e Raymond Hakim. Gente importante, che avrebbe messo i suoi soldi in film di qualità, come Casco d’oro, Belle de jour, L’eclisse. Il libro era Eve, di James Hadley Chase, uno scriore inglese celebre e prolifico che ha dato al cinema almeno quaranta storie, tra cui la famosa e morbosa Niente orchidee per Miss Blandish, che avrà l’onore di ben due versioni: la storia di un sequestro, di una sindrome di Stoccolma, di sesso e di droga tra sequestratore e sequestrata. Eve invece, sempre aingendo alle atmosfere del noir, raccontava di uno sceneggiatore di Hollywood che si innamora di una, vogliamo dire così?, cortigiana. Un’antenata di quelle che oggi si chiamano escort. Una fatalona abituata a essere mantenuta serialmente dagli uomini di molti mezzi. Per lei lo scriore distrugge se stesso e chi gli sta intorno. Sorprendentemente, o non sorprendentemente, a seconda dei
punti di vista e della disposizione al masochismo, visto che la signora spesso gli si nega e qualche volta lo frusta. POTEVA ESSERE GODARD…
Gli Hakim, quando contaarono Losey, avevano appena incassato un no da Jean-Luc Godard, reduce dal successo di À bout de souffle e pronto a quello di Vivre sa vie. Ritenevano di avere per le mani una bella storia. Avevano soo contrao Jeanne Moreau, in quel momento, dopo Ascensore per il patibolo, Jules et Jim e La noe, l’arice più amata e ricercata dal cinema «d’autore». Avevano come protagonista Stanley Baker, l’aore gallese che con Losey aveva già girato L’inchiesta dell’ispeore Morgan e Giungla di cemento e che avrebbe lavorato con lui in uno dei film cardine del ’68 cinematografico, L’incidente (va be’, il film in realtà era del 1967, non del ’68, ma l’aria era quella e il film la anticipava). E Baker aveva suggerito Losey come regista dopo il rifiuto di Godard. Losey si disse d’accordo. Propose solo di spostare l’azione da Hollywood, per gli ovvii suoi motivi personali che vi abbiamo raccontato, all’Europa. Gli Hakim approvarono. E se Europa doveva essere, doveva essere Venezia. Sembrava che tuo fosse lì per garantire un successo: la storia, lo sfondo, gli aori, il grande regista, i grandi produori, Venezia, ah, Venezia… Invece qualcosa non funzionò. E Eve è diventato, secondo David Caute, il biografo di Losey, «il disastro più traumatico» di tua la carriera del grande regista (che poi si impennerà nella collaborazione con Harold Pinter e nel successo di Il servo). Non solo: Eve è uno di quei film su cui ci si scorna. Un noir meraviglioso. No, un film insensato. Orribile. No, interessante. Insopportabile. No, grandioso. E via disputando, con prevalenza degli aggeivi negativi. Si litiga tra speatori «laici» e speatori cinefili. Ma litigarono a suo tempo anche coloro che ci avevano lavorato. Durante la lavorazione, quando Losey, indeciso e di malumore, decise di entrare in
conflio con la componente italiana della troupe, che in parte abbandonò la lavorazione. «EVE» CONTRO «EVA»
Dopo la conclusione del travagliato montaggio, quando Eva (così, italianamente) uscì nelle sale, nel 1962, tui coloro che avevano avuto a che fare con la lavorazione del film si esibirono in scuse e alibi, cercando di chiamarsi fuori dall’insuccesso. A partire, ovviamente, da Joseph Losey, che accusò i produori di aver rovinato il film con i loro tagli. Accusa a cui Bosley Crowther, all’epoca critico onnipotente del «New York Times», ribaé sarcastico che, semmai, non avevano tagliato abbastanza… Eva raccontava la tipica storia di perdizione dietro una femme fatale, una sorta di angelo azzurro contemporaneo, una di quelle che dicono, allusive e minacciose, «Non innamorarti di me», ben sapendo che disgrazia rappresentano. Lo sfondo della storia nella versione di Losey era Venezia e il film cominciava alla Biennale del cinema del 1961, dove furono fae delle riprese (e nella folla si intravede anche Viorio De Sica). Raccontano che Joseph Losey, l’expat, l’esiliato, l’uomo di ambigue passioni, tre volte sposato e sempre infelicemente, vedesse nella storia di amore e umiliazione raccontata da Chase qualcosa che lo riguardava da vicino. Al film prestò le sue passioni musicali (Billie Holiday e Miles Davis, che però sparì presto, mentre la colonna definitiva sarà poi affidata a Michel Legrand). E nel film si identificò con il personaggio del suo amico e alter ego Stanley Baker. Che, alto, scuro, tosto, e francamente odioso, è Tyvian Jones, uno scriore gallese di non eccelse qualità leerarie e umane (il suo grande successo è un libro rubato al suo da poco defunto fratello), fidanzato con la bellissima Francesca, che è Virna Lisi. Così smagliante da aver messo in crisi molti critici: come diavolo fa uno a innamorarsi di Jeanne Moreau, fascinosa sì ma insomma, non
tradizionalmente bella e per di più odiosa (come personaggio), quando ha una fidanzata incantevole come Francesca?, si sono interrogati. Fao sta che l’ossessione erotica di Tyvian per il vampiro narcisistico che è Eva (una che si spoglia guardandosi allo specchio, e, come nota sempre Bosley Crowther, si guarda adorante in ogni possibile superficie rifleente) manda tuo all’aria, e spinge la bella Francesca al suicidio. Per Eva Joseph Losey ruppe anche il vecchio sodalizio che lo legava a Hugo Butler, lo sceneggiatore. Il quale, a quanto pare, non gradiva il fao che il regista inserisse nel copione tanti aspei personali, costruendo una specie di autoritrao psicologico per interposta persona di un momento della sua vita contrassegnato dal senso della sconfia. Al posto di Butler venne chiamato Evan Jones, un brillante sceneggiatore (e anche molto bello) con cui Losey aveva scrio e Damned. Il progeo ansimando proseguì… «POSHLUST»?
La storia di Eva si svolgeva tra Venezia e Roma. La mostra cinematografica del 1961 venne fotografata da un grande come Henri Decaë, il direore della fotografia di Ascensore per il patibolo e di I quarocento colpi. Il resto del film da una leggenda vivente come Gianni Di Venanzo, che, tanto per dire, in quegli anni girava Salvatore Giuliano e Fellini Oo e mezzo. L’art director era Richard Macdonald, che ha lavorato in una gamma di film e di atmosfere diversissimi, da Il servo a Jesus Christ Superstar. E che approfiò di questa storia di amour fou (ma forse l’amour non ha molto a che fare con questi personaggi. Storia di sadomasochismo so, forse?), di Venezia, dell’autunno e poi dell’inverno sulla Laguna, e infine dello stile barocco ed enfatico di Losey, per giocare in maniera non meno barocca (ma un critico più caivo scrisse che il paesaggio veneziano e gli interni erano poshlust: un termine russo che indica i cliché più banali, la volgarità felice di se stessa, un Kitsch delirante).
Fotografato dalla cinepresa del grande Di Venanzo il film si muove in una Venezia fredda, cupa, tra il Palazzo del cinema e piazza San Marco, dove la dark lady passeggia all’alba ovviamente vestita in bianco e nero da Pierre Cardin (perché ovviamente? Perché era il momento del loro amore e perché il film è un trionfo di bianco e di nero); tra Torcello, dove lo scriore gallese ha una casa, e l’Harry’s Bar, dove si intravede un imbarazzato Losey, rigido per il nervosismo, che quasi cerca di nascondersi mentre la cinepresa si muove cercando Stanley Baker; tra i tavoli da gioco dove incontriamo Peggy Guggenheim, con i soliti occhialoni e molto irrequieta per la sua comparsata, e la Salute, da cui partono un matrimonio e un funerale; tra il Danieli, dove Moreau e Baker passano un costosissimo e infelice weekend, e Palazzo Ducale, che ci mostra, premonitoria e allusiva, fin dalla prima sequenza del film, la statua di Adamo ed Eva… Così come uscì dal montaggio di Losey il film era di una spropositata lunghezza, 155 minuti. Gli sbigoiti produori lo ritirarono dalla Mostra del cinema di Venezia, perché lo ritennero troppo lungo e dunque a rischio. Cominciò la loa dei minuti. Losey tagliò un po’, loro tagliarono di più, come abbiamo già raccontato. L’accoglienza del film non fu entusiastica, soprauo presso la molto concreta critica americana. Losey si lasciò alle spalle la difficile esperienza di Eva e inaugurò la parte più interessante della sua carriera, il sodalizio con Harold Pinter, che darà origine a un trio di memorabili film veramente capaci di raccontare un’epoca oltre che una storia, come Il servo, L’incidente, Messaggero d’amore. E a Venezia e dintorni Losey tornerà, cinematograficamente parlando, solo per raccontare la sua personalissima visione di Don Giovanni: questa volta un maschio distruore, questa volta punito come si sa.
9.
I giorni del disincanto
Dove si parla di Tinto Brass, un regista molto innovativo ai tempi del suo debuo, che troverà poi la celebrità come autore di trasgressivi film sexy, e del suo amico di giovinezza Kim Arcalli, che diventerà un grande montatore, un importante sceneggiatore, un uomo di cinema, amato e rispeato (e compianto) come pochi. Uno, il più giovane (all’epoca della storia che raccontiamo aveva meno di trent’anni), si chiamava Tinto Brass. Anzi, nella realtà anagrafica si chiamava Tintoreo, nome venezianissimo, da cui, appunto, Tinto. Era nato a Milano il 26 marzo del 1933, rampollo di buona famiglia (suo nonno Italico era un mercante d’arte e un apprezzato piore goriziano, responsabile del nome Tinto, suo padre Alessandro era un avvocato, sua moglie, amata e rimpianta, era Carla Cipriani, dei Cipriani dell’Harry’s Bar, figlia di Giuseppe e sorella di Arrigo, l’auale patron). Tinto si era laureato in legge ma, innamorato del mondo del cinema, era poi subito emigrato a Parigi dove aveva lavorato come archivista alla Cinématheque Française, poi come aiuto del grande regista brasiliano Alberto Cavalcanti, quindi collaboratore di Joris Ivens e di Roberto Rossellini. Diventando in qualche modo uno dei ragazzi – italiano, quindi più speciale – della Nouvelle Vague. L’altro, il più vecchio, si chiamava Kim, che stava per Franco. E di cognome si chiamava Arcalli, un cognome, però, che nasceva da un errore di trascrizione. Perché la sua vecchia famiglia veneziana si chiamava Orcalli. Ma, si sa
com’è, un piccolo errore burocratico rischia di non venire mai correo. E Franco Orcalli divenne Kim Arcalli, per sempre. LE BEFFE DI KIM
Kim era nato nel 1929 a Roma, ma era ritornato a Venezia dopo la precoce morte del padre, ucciso dai fascisti, e, benché appena ragazzino, durante l’occupazione tedesca era entrato nella Resistenza, protagonista, sedicenne, della celebre beffa del Goldoni. ando cioè la sera del 12 marzo 1945 un piccolo gruppo di partigiani della brigata Biancoo aveva fao irruzione nel Teatro Goldoni durante una rappresentazione di Vestire gli ignudi e, tenendo soo il tiro delle pistole i soldati fascisti e i tedeschi, dall’alto del palcoscenico aveva fao un appello alla Resistenza e lanciato volantini, per poi dileguarsi senza problemi. Kim si era sposato presto, e aveva avuto, nel 1952, a ventitré anni, un figlio, Massimo. Nella vivace Venezia degli anni del dopoguerra, anarchico e ribelle, non allineato, pieno di talenti e di inventiva, il ragazzo Kim era diventato grande amico di musicisti come Nono e Maderna, di artisti, di scultori. E, tra un impiego molto provvisorio e l’altro – operaio alla Breda, macchinista sulle ultime locomotive a carbone, ogni lavoro andava bene –, Kim si fece sedurre dal cinema. E dal suo amico Brass. Si erano conosciuti e frequentati tra il cineclub veneziano e la Mostra del cinema al Lido dove il versatile Kim, uomo dai molti talenti, si occupava delle delegazioni cinesi. Nacque quella che Brass chiama «una vera amicizia». Raccontando, in un prezioso piccolo libro di Enrico Ghezzi e Marco Giusti intitolato Montare il cinema, che Kim Arcalli era un uomo «che non faceva mai niente per apparire diverso da quell’autentico diverso che era». Raccontava ancora Brass che mentre Kim era «libero da sempre», anche in campo sessuale, lui, Tinto, venendo da «un contesto repressivo», solo allora scopriva il sesso. Che sarebbe poi diventato il Leitmotiv del suo cinema.
SUL PONTE SVENTOLA BANDIERA BIANCA
Kim invece stava scoprendo il cinema in tue le sue forme, e faceva esperienze. Prima come assistente di Renato Dall’Ara in un cortometraggio del 1955, Venezia ore 5, che raccontava il risveglio della cià all’alba, la gente che va a lavorare, la quotidianità della cià lagunare. Poi girando assieme all’amico Gianni Scarabello un corto di montaggio, Sul ponte sventola bandiera bianca (1957), che sarà presentato anche alla Biennale, sulla storia di Venezia nel fatale 1848. Poi facendo delle comparsate in Senso di Luchino Visconti e in Mambo di Robert Rossen. Infine come cosceneggiatore, assistente alla regia e personaggio simbolo di Chi lavora è perduto, il film con cui Tinto Brass, il suo amico fraterno, debuò nella regia. I due, Tinto e Kim, si erano già per così dire annusati come possibili collaboratori quando Brass aveva chiesto a Kim Arcalli di lavorare con lui al montaggio di Ça ira, un documentario, prodoo da Morris Ergas, sulle rivoluzioni del secolo, tuo costruito su materiali di repertorio, che i due avrebbero poi montato in Jugoslavia. E proprio in Jugoslavia, nel poco tempo libero, Tinto e Kim scrissero, insieme, In capo al mondo, quello che ora conosciamo come Chi lavora è perduto. Un film bizzarro, originale, folle, giovane, allegramente disperato. Il film di una stagione veneziana unica e irripetibile. Il film di due giovinezze ribelli. Il film che è l’itinerario veneziano più personale della storia del cinema, «autobiografico nelle emozioni», fotografato in un bianco e nero che toglie alle vedute lagunari qualsiasi retorica visiva. Un itinerario molto personale, ma in cui si intrecciano due persone e due personalità, Brass e Arcalli, costruito con i pezzi delle vite e delle relative esperienze umane di due amici allora molto vicini. NOUVELLE VAGUE ALLA VENEZIANA
Fu l’arrivo, nell’universo cinematografico italiano, di una voce nuova, la cosa più vicina alla Nouvelle Vague che si
fosse vista sino allora. «Un film sull’amarezza di una generazione di fronte al boom», girato negli anni del boom, spiegò Brass a Franca Faldini e Goffredo Fofi in quella miniera di testimonianze e di cultura di vera vita cinematografica che è L’avventurosa storia del cinema italiano. Il protagonista del film, interpretato da Sady Rebbot, un aore francese reduce dall’aver lavorato con Godard in Vivre sa vie, si chiama nel film Bonifacio B. (e B. forse sta per Brass, così come Bonifacio è il nome del suo bambino da poco nato). Bonifacio è un disegnatore appena diplomato. E non sa cosa fare. Gli hanno offerto un posto in una grande società. Con tui gli osceni rituali del caso, i test, le domande. E lui… lui pensa che chi lavora è perduto. Percorre senza meta le calli e i campielli di Venezia, incontra amici e conoscenti, ricorda la sua infanzia di piccolo fascista, il servizio militare, l’amore per Gabriella, finito nel nulla della sua incapacità a decidere. Immagina di diventare un grande criminale (come era Rebbot in Vivre sa vie, che viene puntualmente citato da uno spezzone di film). Va a trovare l’amico del cuore che è proprio Kim Arcalli, e si chiama, nel film, Kim: un omone, ex partigiano, eternamente ribelle, uscito di testa (o no?) e rinchiuso nell’ospedale psichiatrico di Venezia. E a conclusione di una lunga giornata che il montaggio di Arcalli – per il quale Marco Giusti ed Enrico Ghezzi coniano giustamente il neologismo di monta(u)tore – riempie di cose e di persone, di ricordi e di citazioni, muovendosi su più piani temporali e narrativi, Bonifacio dice no al lavoro che gli è stato offerto e alla normalità. Chi lavora è perduto. Il disincanto di Bonifacio prevale sull’ordine razionale e borghese. DUE TITOLI
Brass, per aggirare le obiezioni della censura, turbata dal buon umore che circolava in quella Venezia ironica e disincantata («Lo aveva ritenuto offensivo della morale, della famiglia, della patria, di tuo»), e per superare l’avversione
del Patriarca al traamento che il film faceva di temi imbarazzanti per la Curia (si parlava anche di un aborto…), fece finta di fare dei tagli e ripresentò il film con un altro titolo, quello con cui lo conosciamo adesso. Così che, complice un cambio di governo, con un centrosinistra un po’ più liberale e mentre tui facevano finta di niente, In capo al mondo divenne Chi lavora è perduto: identico, dice Brass, alla versione originale, ma «senza più recare offesa a nessuno». Il film alla prima uscita non fu accolto male, ma non certo con l’aura che gli si costruì aorno di lì a poco. ando lentamente, negli umori della tribù del cinema, divenne quasi un manifesto presessantoino. Più o meno: Kim Arcalli, l’anarchico, il comunista, il ribelle, sul tema del ’68, a quanto sembra, è sempre stato critico. E poi? Poi per qualche anno Brass si dedicò a film stravaganti, eversivi, non allineati, come Col cuore in gola, L’urlo, Nerosubianco, Dropout, La vacanza, per poi passare con Salon Kiy, nel 1975, a un’indagine sui rapporti tra il sesso e il potere, e con La chiave, nel 1983, a un cinema decisamente erotico. Mentre dopo Chi lavora è perduto, dopo Ça ira finalmente completato e presentato alla Biennale, dopo un ultimo lavoro, op o pop, a seconda dei punti di vista, con l’amico Tinto (Il tempo lavorativo / Il tempo libero, un documentario realizzato grazie a Umberto Eco per la Triennale di Milano; due documentari, in realtà, da proieare assieme, accompagnati da un brano di Stravinskij riprodoo a doppia velocità), Kim Arcalli, con un movimento naturale a tui quelli che fanno cinema, si trasferì a Roma, e diventò il collaboratore preferito e amatissimo – come montatore, sceneggiatore, suggeritore, amico – di Zurlini e di Brusati, di Scola e di esti, di Cavani e di Eriprando Visconti, di Samperi e di Antonioni, di Bellocchio e di Bernardo Bertolucci, per cui sceneggerà Ultimo tango a Parigi e Novecento. E con Bertolucci scriverà anche il soggeo di La luna, che a lui è dedicato. Perché nel fraempo – era il 1978 – il poliedrico, vivace, creativo veneziano del cinema se n’era andato, troppo presto
e troppo giovane, lasciandosi dietro un profondo, autentico rimpianto, e una leggenda di uomo di cinema che non si è ancora spenta.
10.
Nel bel mezzo di un gelido inverno
Dove si racconta come una coraggiosa, piccola, brillante casa di produzione decise di fare, in una felice stagione di esperimenti e di scoperte, un film scomodo e molto discusso sulla Resistenza a Venezia. Tuo nacque da un gesto di mecenatismo e dalla gran voglia di fare di un gruppo di amici. Parliamo dell’avventura della 22 dicembre, la piccola casa di produzione nata da una costola della Edison. La «costola» era la sezione cinema della Edisonvolta, e cioè la sezione della casa madre che produceva documentari e film didaici per conto della Edison. Una sezione creata da un giovane impiegato e poi cineasta, Ermanno Olmi, che per anni aveva lavorato all’ufficio approvvigionamenti della società, fino al giorno felice in cui un dirigente l’aveva per così dire scoperto, offrendogli di aprire, appunto, una piccola sezione cinema… Con la sezione cinema Olmi produsse Il tempo si è fermato. E grazie al successo (di stima, non certo di box office) registrato da questo film Olmi trovò i mezzi per produrre – con un gruppo di amici tra cui il critico e commediografo Tullio Kezich, e con la collaborazione della sezione cinema della Edison – Il posto. Che non era propriamente un’esaltazione del lavoro edisoniano. Ma poco importa. Erano tempi di lungimiranza aziendale. Tanto che i dirigenti della Edison decisero, d’accordo con i nostri giovani amici, di costituire una società di produzione cinematografica, per il 51% di proprietà Edison e per il 49% del gruppo di cineasti, che si sarebbe chiamata 22 dicembre, dal giorno del 1961 in
cui l’accordo venne firmato davanti al notaio. Con tui concordi sul fao che la 22 dicembre non avrebbe dovuto fare un cinema commerciale come normalmente lo si intende, ma un cinema che si occupasse dei problemi del suo tempo, soprauo nel mondo del lavoro. ERIPRANDO, LINA E GLI ALTRI
Fu una breve e intensa avventura, quella della 22 dicembre, che sarebbe continuata fino al 1965, e che vide una serie di fortunati debui. Il primo film di Eriprando Visconti, Una storia milanese. Il debuo di Lina Wertmüller con I basilischi. La realizzazione di La rimpatriata di Damiano Damiani e di L’età del ferro di Roberto Rossellini, il suo primo film non narrativo, che apre la sua stagione didaica. E, di nuovo, a conferma di un evidente talento degli amici Olmi-Kezich nello scoprire nuovi autori, un altro primo film, ad opera di un giovane regista di teatro che si chiamava, e si chiama, Gianfranco De Bosio: Il terrorista. De Bosio, classe 1924, veronese, regista teatrale, sceneggiatore, cineasta, si era già conquistato un posto importante nella storia del teatro italiano per la sua riscoperta del Ruzante. Era soprauo uno studioso e un uomo di teatro, che col cinema aveva poco a che fare. Ma, giovanissimo, aveva vissuto sulla sua pelle e sulla sua persona l’esperienza della loa partigiana nel Veneto. E Tullio Kezich, assieme ad Alberto Soffientini, con cui aveva già prodoo per la 22 dicembre Il posto, propose a De Bosio di girare un film ispirato alla sua esperienza nella guerra clandestina. E in particolare alla figura del suo amico, compagno di loa politica e comandante Otello Pighin, il leggendario Renato, fondatore e comandante della brigata Silvio Trentin, aderente al Partito d’azione, caduto in un’imboscata e ucciso dalla banda Carità il 10 gennaio 1945 ad Abano Terme. UN COPIONE SCRITTO AL LIDO
De Bosio, come racconta, lavorò al soggeo, che per molte ragioni si mostrava complesso e difficile, per più di un anno. Poi arrivò il momento della sceneggiatura, che venne scria con Luigi Squarzina, secondo Tullio Kezich «il più politicizzato dei drammaturghi nostrani». Una sceneggiatura politicizzata sì, ma anche particolare, in cui le situazioni nascevano assieme ai luoghi dell’azione. De Bosio e Squarzina si trasferirono a Venezia, in una villea al Lido, e scrissero il copione a mano a mano che scoprivano i documenti e i luoghi adai per le riprese, correggendo il tiro a seconda della situazione e dell’ambiente. E in effei le locations, come si chiamano nella lingua del cinema i luoghi scelti per raccontare la storia, sono uno dei punti di forza del film. Che, di nuovo, spoglia Venezia della retorica della sua bellezza e dei suoi monumenti, percorre il popolare quartiere di Castello, segue misteriosi canali e piccoli rii, la bagna di pioggia e di grigiore, la popola di gente vera, di angoli mai veduti prima sullo schermo, che invece ha sempre privilegiato il lato speacolare e monumentale della cià. Una sola scena è stata ricostruita in studio: la discussione dei rappresentanti del CLN. Perché De Bosio, per quella scena, che voleva claustrofobica e concentrata, sentiva il bisogno di uno spazio in cui muoversi liberamente e, per una volta, non l’aveva trovato… Siamo nell’inverno del 1943, quello stesso che assistee all’arrivo in Laguna del treno che trasportava i resti di Cinecià per trasformarla nel Cinevillaggio, e che vide Venezia riempirsi di aori e aorucoli, di delatori e falliti, di gerarchi e ministri repubblichini, di opportunisti e di mondanità da poco. Ma siamo, nel film di De Bosio, in un altro mondo. Renato, che nel film come nella realtà storica è un ingegnere (ma che nel film è veneziano, mentre nella realtà era padovano), incarna, all’interno della Resistenza veneziana, l’ala massimalista che vorrebbe «un aentato al giorno», che non
vuole lasciare tregua al nemico nazista e che è indifferente alle conseguenze di queste azioni, per se stessi e gli altri. CLN CONTRO GAP
Il CLN, il Comitato di liberazione nazionale, nelle sue varie componenti, non è invece d’accordo con la linea estrema dei GAP, anche per le rappresaglie minacciate e messe in ao dai tedeschi. Le varie componenti del CLN – gli azionisti, i comunisti, i democristiani, i moderati – discutono e si scontrano in un’atmosfera di paura per trovarsi alla fine tue d’accordo sulla necessità di meere un freno alle iniziative di Renato, che viene sconfessato e abbandonato. Dopo un breve incontro con sua moglie, Renato cerca di raggiungere i capi del movimento, che si sono nascosti in ospedale, per discutere con loro la linea futura, ma viene ucciso da una scarica di mitra per mano fascista. In realtà furono i nazisti, ma la cosa non cambia l’essenza della storia. SE SOLO YVES MONTAND…
Anche in questo caso, il film avrebbe potuto avere un sapore molto diverso se… Se solo, per esempio, Yves Montand avesse acceato il ruolo che poi sarà di un cupo, duro, chiuso (e bravissimo) Gian Maria Volonté. Ma il grande divo francese voleva sessanta milioni di allora – che nonostante il mecenatismo della Edison non c’erano. Fu fao, raccontava ancora Tullio Kezich, un pensierino su Francisco Rabal e John Saxon (di cui non conosciamo il prezzo). Alla fine fu scelto Volonté, reduce dal cinema politico di Un uomo da bruciare e dall’epica di Le quaro giornate di Napoli, che oltre a essere perfeo per il ruolo del partigiano insofferente agli ordini di scuderia, idealista fino alla fine, credeva nella parte. E costava solo un milione e mezzo. Certo, il film non era facile, a metà fra thriller e pamphlet didaico, e non ebbe vita facile. I distributori potenzialmente interessati al progeo chiesero tui di eliminare le scene
delle discussioni politiche all’interno del CLN, quelle famose girate in studio, perché, come ricorda De Bosio, che tanto pazientemente ci aveva lavorato ricostruendone le complesse dinamiche sul modello del film di Lumet La parola ai giurati, «la politica al cinema è veleno». La destra preferiva dimenticare i discorsi sulla Resistenza, e la sinistra, dalla sua, sarebbe stata contenta di lasciare nel vago i contrasti esistiti all’interno del CLN, il dibaito su azione insurrezionale e aendismo, lo scontro fra il CLN e la componente rivoluzionaria ed estrema dei GAP, alle cui ragioni ideali, paure, ansie, visioni politiche il film di De Bosio, creando non pochi imbarazzi, guardava con simpatia. Erano gli anni ’60, a poca distanza dal ’68, e De Bosio (con Squarzina) si interrogava su una storia che trovava la sua eco nei movimenti che si stavano formando in quegli anni. Insomma, invitava il pubblico a rileggere la storia della Resistenza con un occhio anche all’oggi. Come ricorda un esperto dell’argomento, Alan O’Leary, ci mise un «carico da novanta» anche Ferruccio Parri, nella prefazione alla sceneggiatura intanto pubblicata. «Per svegliare un paese cloroformizzato da venti anni di fascismo occorreva una scossa violenta. Il prezzo di sangue non contava. Il problema morale è insolubile. Il problema politico l’ha risolto la storia dando ragione al terrorista». Forse le cose sono più complicate di così. Certo è che, qualche anno dopo, queste affermazioni facevano male. Alla Mostra del cinema del ’63 il film di De Bosio Il terrorista spiazzò destra e sinistra, per ragioni diverse e diversi fini pronte ad opporsi alla storia di divisione e di disaccordo che il film proponeva. Rimase tuavia nella memoria come il film sulla Resistenza più duro, più rigoroso e più problematico prodoo dal cinema italiano, e il ritrao di una Venezia insolita, labirintica, cadente, vera. anto alla 22 dicembre, durò poco perché, come raccontava Tullio Kezich a Goffredo Fofi e Franca Faldini in L’avventurosa storia del cinema italiano, «non eravamo consapevoli della nostra forza». La società finì dopo tre anni, lasciandosi alle spalle
una piccola leggenda e una serie di nomi che sarebbero diventati importanti per il cinema italiano.
11.
Morte a Venezia /1
Nel quale si racconta come un film fao di due personaggi e una cià (indovinate quale) sia stato amato e odiato in egual misura, e sia stato visto come l’epitome del disprezzato cinema strappalacrime. Ma sia diventato, a dispeo di tuo, un classico del mélo e del cinema. Personaggi e interpreti. Enrico Maria Salerno, milanese, bravo aore di cinema, di teatro e di televisione, capace di spaziare da Alfieri ad Albee, dalla commedia all’italiana al doppiaggio (è stato la voce di Clint Eastwood nella trilogia western di Leone e di Farley Granger in Senso e il Cristo di Pasolini). E ossessionato da un’idea: quella di portare sullo schermo il film che si chiamerà Anonimo veneziano. Ossessionato per anni. Da molto prima che sugli schermi comparisse, a contrastare il suo film, l’epocale capolavoro strappalacrime intitolato Love Story… Giuseppe Berto, veneziano (va be’, di Mogliano Veneto), scriore, autore non allineato e solitario di libri come Il cielo è rosso (che riflee le sue esperienze di guerra), Il male oscuro (che racconta il suo rapporto con la psicoanalisi), La cosa buffa (che analizza la chimica amorosa di due giovanissimi ed esalta fino a renderla mitica la riva delle Zaere). E complice di Salerno in Anonimo veneziano. Tony Musante, anzi, Antonio Mauro Tony Musante, italoamericano del Connecticut, aore televisivo, belloccio e capelluto, diventato improvvisamente famoso per il suo ruolo
in New York ore tre: l’ora dei vigliacchi, poi approdato in Italia agli spaghei-western, e protagonista di L’uccello dalle piume di cristallo, il primo film di Dario Argento, modello dell’horror «made in Italy». indi il grande successo: Mei una sera a cena di Patroni Griffi nel 1969 e, l’anno seguente, Anonimo veneziano. Con la stessa partner, bellissima ed esotica, che si chiama… Florinda Bolkan. Florinda, da Uruburetama, in Brasile, figlia di un padre molto anziano, uomo importante, deputato, e di una madre molto giovane e per metà india. Florinda – splendida, un fiume di capelli scuri, una faccia tua spigoli, un corpo asciuo, androgino, niente tee, eleganza naturale – lavora come hostess per la Varig. Per cui, durante un volo, viene notata da Marina Cicogna, gentildonna e bella donna, abile produrice cinematografica (basta Indagine su un ciadino al di sopra di ogni sospeo a dire la sua visione?), che la invita a Ischia, la presenta a Luchino Visconti e inaugura con lei una stabile relazione che durerà molti e molti anni e resterà una delle più importanti nelle loro vite. Florinda debua in un piccolo ruolo in La caduta degli dei, poi lavora in Candy, poi in Gli intoccabili di Montaldo, in Una ragazza piuosto complicata di Damiani, in Il ladro di crimini di Nadine Trintignant. E, finalmente, ecco la grande occasione, Mei una sera a cena. E, naturalmente, Indagine su un ciadino al di sopra di ogni sospeo. E Anonimo veneziano… ALESSANDRO O BENEDETTO?
Cominciamo a raccontare la nostra storia dal titolo. Perché Anonimo veneziano? Perché il Concerto in Re minore per archi e oboe di Alessandro Marcello che, amato e scelto da Enrico Maria Salerno, fa da filo conduore e da tormentone emotivo lungo tuo il film, era, all’epoca dell’uscita del film, di incerta aribuzione: Alessandro o Benedeo? Meglio allora chiamarlo Anonimo veneziano. E con quel titolo seducente e diventato celeberrimo il film
andrà al Festival di Cannes (1970) e comincerà la sua fortunata e travagliata carriera. Fortunata e travagliata perché, di fronte al chiaro ricao sentimentale di Anonimo veneziano (al trentesimo minuto si scopre che Tony Musante, da giovane aspirante direore d’orchestra, ora frustrato suonatore di oboe alla Fenice, è malato di cancro, e ha convocato la ex moglie a Venezia per imporle il suo dolore e la sua morte vicina – o forse solo per ritrovarla), di fronte a questa rivelazione e a quel che segue, succede che il pubblico si divide, la critica arriccia il naso, vengono scrie cose caive e peggio. Mentre intanto il film conquista il mondo, facendo concorrenza sul suo stesso terreno a Love Story, che Arthur Hiller ha trao dal libro di Erich Segal con una popolarissima coppia di interpreti, Ryan O’Neal e Ali McGraw. In verità belli sì, ma non come la coppia italo-brasiliana-Usa… LA TRAGEDIA INDIGESTA
Basta leggere ciò che all’epoca scriveva di questa «tragedia indigesta» uno dei soloni della critica americana, Roger Ebert, quello del pollice su e giù. «Venezia, come sappiamo tui, è la cià più chic del mondo per morire, purché tu abbia un piccolo segnale in anticipo», e via con uno spiritoso massacro del film. Già, perché intanto era arrivato sugli schermi anche Morte a Venezia, e due film con un deaglio importante in comune fanno tendenza. anto ai critici italiani, i più illustri scelsero il silenzio. È difficile controllare se, all’epoca, ne abbiano scrio Grazzini o Kezich – che non lo mee tra Anno uno di Rossellini e Antonio das Morte di Glauber Rocha nella sua fondamentale e divertente raccolta di recensioni Il mille film (non provate a comprarla, non la si trova più). E, curiosamente, in un recente bel volume enciclopedico della Electa dedicato al Mélo e curato da Maurizio Porro, Anonimo veneziano non trova posto in questa sede specializzatissima nemmeno come melodramma, tra Douglas Sirk e Matarazzo, tra Splendore
nell’erba e Fedora. E dire che, almeno dal punto di vista etimologico, la parola «mélo» coincide più che bene con l’impianto narrativo di Anonimo veneziano: musica, musica, musica. In ogni caso il film ebbe un recensore eccellente nella persona di Natalia Ginzburg, che ne fu conquistata e gli dedicò un’intera pagina de «La Stampa», tirandone fuori una leura che andava ben al di là della morte annunciata di Tony Musante, che meeva in discussione la famiglia come era ancora nel ’70, e che, araverso la condizione di Florinda – donna separata senza dirii sui suoi stessi figli –, rilanciava il tema del divorzio, a proposito del quale nel film si legge chiaramente un graffito di mano dello stesso Salerno, «Sì al divorzio». Ma facciamo il solito passo indietro. Per dire che Enrico Maria Salerno, secondo quanto ricorda suo fratello Viorio (che lavorò nel film come aiuto regista), aveva accarezzato l’idea di fare Anonimo veneziano fin dal 1966, dalla tragica morte improvvisa di un loro carissimo amico. Enrico Maria Salerno era allora scomparso per tre giorni a Venezia, ed era ricomparso con l’idea del film che sarà Anonimo veneziano. I produori sarebbero stati Ugo Tucci e Claudio Mancini. Alla sceneggiatura lavorarono assieme Marco Leto e Viorio Salerno. Ai dialoghi Giuseppe Berto. SALERNO? SOLO REGISTA
Ma naturalmente le cose erano più complicate. Non si trovava la distribuzione. Il soggeo veniva accolto con riti apotropaici, intesi come corna e toccaferro, perché ritenuto ieatorio. Insomma, a quanto pare nessuno voleva la storia di un uomo di trentacinque anni che sta per morire di cancro al cervello. Ma dopo varie vicissitudini la produzione alla fine fu presa da Turi Vasile, produore di Antonioni (I vinti) e di Fellini (Roma). E, soprauo, uomo che vedeva lontano. E che vide subito come l’idea di Salerno di fare lui stesso
«anche» da protagonista accanto a Jeanne Moreau, o ad Annie Girardot, le due arici di cui si parlava, non avrebbe funzionato. Peggio ancora quando Salerno pensò di dare invece il ruolo di lei alla giovane e bellissima Florinda Bolkan, reduce da una serie di successi. Florinda si consultò con l’amica Marina Cicogna: non era meglio che Salerno facesse solo il regista? Non era più commovente la sorte di un giovane destinato a morire, e quindi non era meglio scegliere un aore giovane piuosto che un uomo maturo come Salerno? Berto, consultato, adeguò i dialoghi alla nuova fascia di età. Salerno ci pensò su. Venne scelto Tony Musante. Il film cominciò in ritardo rispeo ai piani, ma la lavorazione, racconta Marina Cicogna che fu spesso presente sul set, filò via liscia, perfea nei tempi. Salerno lo covava da troppo tempo, lo aveva immaginato così a lungo da muoversi con estrema naturalezza anche nel nuovo mezzo. Anonimo veneziano doveva essere, nelle intenzioni di Enrico Maria Salerno, un film invernale, da girare in una Venezia grigia e brumosa. Per gli inevitabili ritardi, come si è deo, la lavorazione iniziò invece in primavera, e Marcello Gai, l’eccellente direore della fotografia, dovee fare miracoli con nebbie finte e masegni bagnati ad arte. Falso come l’acqua, avrebbe deo il Bardo. E quella – di una cià brumosa, cadente, malinconica – fu l’immagine che rimase negli occhi dello speatore. La lunga passeggiata di due persone che si sono amate e che non sanno come stare insieme altrimenti, araverso una cià morente, verso una rivelazione che ha a che fare con la morte, verso l’addio alla vita di lui, verso la riscoperta del passato di lei, verso un momento d’amore rubato. Ma la lunga passeggiata esagera un po’. Non trascura nessun luogo topico di Venezia. Da campo Santo Stefano alla Locanda Montin, la traoria di cui il film fece un luogo celebre della ristorazione veneziana e dove Florinda, con gesto di alto valore simbolico, si scioglie finalmente i capelli. Da Ca’ Foscari al Conservatorio. Da San Stae al Gheo. Dalla Fenice ai Tre Oci, contigua all’antica Casa Frollo alla
Giudecca, dove Salerno colloca l’abitazione-studio di Tony Musante (e dove nella realtà abitava un famoso piore austriaco, Friedensreich Hundertwasser). Dal mercato di Rialto soo la pioggia alla Stazione mariima… Non in quest’ordine. Ma comunque per chilometri e chilometri di calli, di masegni, di ponti e di ricordi. Il tuo con l’ossessivo accompagnamento della musica composta da Stelvio Cipriani e dal concerto di Alessandro Marcello (l’aribuzione, all’epoca incerta, ora pare sicura), che aiutarono il film a fare il giro del mondo. I MESI DEL RIVOLI
Marina Cicogna, a film finito, aveva cercato di convincere la sua stessa società di distribuzione, la Euro, a diffondere Anonimo veneziano, che considerava un buon risultato per un’opera prima, faa in economia. Ma si trovò di fronte a un granitico no dei suoi consiglieri. Cosa vuoi, i film sulla malaia non fanno una lira, era il ritornello che si sentiva ripetere. Infai. Fu trovata a fatica un’altra distribuzione. Il film uscì in pochissime copie e in pochi cinema, tra cui il Rivoli di Roma, un cinemino chic vicino a via Veneto che adesso non esiste più. Ogni seimana, misteriosamente, come non succede quasi mai e come non succede più perché se il film non guadagna subito viene subito ritirato, gli incassi aumentavano. E al Rivoli Anonimo veneziano rimase per un anno e mezzo, prologo a un travolgente successo in tua Italia e poi nel mondo. Nel fraempo usciva Love Story, altra storia d’amore e di morte prematura, con una colonna sonora quasi identica. Tanto che ci fu una causa. Ma si accertò che Anonimo veneziano era stato scrio prima, e tuo finì nel nulla. Il mondo pianse due volte. E ironicamente, Florinda Bolkan e Ryan O’Neal – i due sopravvissuti delle due parallele storie d’amore e di morte – intrecciarono un breve flirt.
12.
Morte a Venezia /2
Nel quale si racconta come Luchino Visconti, grande regista e grande aristocratico, sia ritornato a Venezia, dopo «Senso» e le sue baaglie, per raccontare una storia di vita, di arte e di morte ispirata a «La morte a Venezia» di omas Mann (perché sì, il titolo di Mann ha l’articolo e quello di Visconti no). «Morte a Venezia comincia il primo di aprile all’esterno dell’Hotel des Bains al Lido. Visconti sta perlustrando Stoccolma, Varsavia e Budapest per il suo Tadjio […] ha lasciato istruzioni di far risistemare tua piazza San Marco com’era nel 1911». Così racconta via leera Dirk Bogarde agli amici Joseph e Patricia Losey nella sua prosa epistolare stringata, soolineata e maiuscolata («TUTTA» piazza San Marco per esempio è in maiuscole). La leera è datata 15 febbraio 1970, e del film che Luchino Visconti si prepara a girare dal breve romanzo di omas Mann (che Dirk Bogarde già chiama con l’acronimo DIV, da «Death in Venice», tanto per risparmiare fatica) si parla già da un po’ a Viscontiville, e cioè nel mondo di Luchino Visconti. Resta il dubbio se sia verità o se sia una leggenda la genesi del film, troppo bella, troppo leeraria e troppo metaleeraria, che Bogarde racconta nella sua corrispondenza complice e giocosa con i Losey (la raccolta di leere si intitola Ever Dirk ed è edita da Phoenix). IL MAHLER DI MANN
«La VERA storia di DIV è che Mann, un vecchio amico di Visconti, stava viaggiando in treno da Venezia a Monaco nel 1910 […] e nello scompartimento c’era uno strano tipo conciato da sbaer via […], disperatamente infelice, i capelli tinti tui a ciocche, con le ciglia finte che gli venivano via assieme alle lacrime. Hanno parlato […] Era Gustav Mahler […] e si era appena innamorato disperatamente di un ragazzino di tredici anni a Venezia […] e così è cominciata la storia. E così, anche se non lo diciamo a nessuno, di fao sto interpretando Mahler». Favola? Invenzione? Compiacimento leerario? E cosa c’è di vero, soprauo, in quel «non lo diciamo a nessuno», quando si sapeva benissimo che in trasparenza, dietro Gustav von Aschenbach, lo scriore infelice che va a morire a Venezia, c’era Mahler? omas Mann, più discreto, nel raccontare la genesi del suo funebre romanzo, ricordava come sulla concezione del racconto avesse influito, in quell’estate del 1911, la notizia della scomparsa di Gustav Mahler che, diceva con semplicità il grande scriore, «avevo conosciuto precedentemente a Monaco». E aggiungeva: «Non solo diedi al mio eroe, caduto in dissolvimento orgiastico, il nome di baesimo del grande musicista, ma, nella sua descrizione esterna, gli aribuii anche la maschera di Mahler». UN NASO FINTO PER MAHLER
C’è un’altra maschera, quella che Visconti studia per il «suo» Aschenbach, da adaare al volto del «suo» Bogarde, reduce con lui dal successo mondiale di La caduta degli dei. «Basterà un naso finto per fare di Bogarde un Mahler perfeo: come sempre io voglio essere fedele al modello reale», raccontò, riduivo, Luchino Visconti in un’intervista a Liea Tornabuoni. Ci vorrà e ci sarà ben più di un naso finto, in effei: una inquietante identificazione del regista e del protagonista. Sono quarant’anni che Visconti pensa a questa storia, a questo film. Il mondo che conosce omas Mann al Lido di
Venezia, al Des Bains, nel 1911, e in cui vive il suo Aschenbach, è lo stesso delle vacanze che il piccolo Luchino trascorre con la madre Donna Carla Erba, in adorazione della sua bellezza. I temi e i problemi – la fine di un’epoca, la creazione artistica, l’arazione omosessuale, il senso di morte – non sono lontani o molto diversi dal tessuto emotivo aribuito a von Aschenbach e dal progeo che Visconti insegue in quegli anni, e che dovrebbe diventare la sua prossima impresa, la Recherche di Proust. Destinata, nella versione viscontiana, a cominciare proprio a Venezia, e, come Morte a Venezia, a essere incentrata sull’amore e la passione omosessuale – ma il film non si farà mai, anche se resta una audace sceneggiatura firmata da Visconti con Suso Cecchi d’Amico ed Enrico Medioli. I ROMANZI NON SI VEDONO
Torniamo al film che, come si è deo, ha intanto trasformato lo scriore von Aschenbach in un musicista. (Perché? Spiega Visconti, e la storia del cinema gli dà ragione, che i romanzi non si possono far vedere, ma la musica la si può far sentire…). Anche se i nomi coinvolti nel progeo sono importanti, i possibili finanziatori italiani non sono entusiasti di scommeere su una storia che, riassumendo in maniera quasi rozza, come aveva riassunto omas Mann, traa di «un caso di pederastia in un artista senescente». Visconti, assieme al suo produore Mario Gallo, va dunque negli Usa. Trova il sostegno della Warner americana. E parte alla ricerca di Tadzio, il magnifico adolescente, la visione tentatrice che, tra l’Adagieo della inta Sinfonia e il quarto tempo della Terza di Mahler, rivelerà a von Aschenbach la vera natura della sua sessualità e lo spingerà verso la dissoluzione finale. La ricerca di Tadzio è una saga a parte, su cui è stato fao anche un documentario. Ma è opportuno ricordare che Tadzio, secondo quanto ci racconta Gilbert Adair in un suo libro, e Real Tadzio, è veramente esistito. Si chiamava
Wladislaw Moes, deo Wladzio o semplicemente Adzio, polacco, di nobile famiglia. Aveva undici anni durante la cruciale estate veneziana del 1911, quando omas Mann lo vide, vestito, come lo vedremo noi nel film, alla marinara, in mezzo alla sua bella famiglia, e ne fece il motore della sua storia d’amore e di morte. Wladislaw ha araversato, sempre bello e sempre dandy, gli anni cupi del comunismo polacco. Solo tardi ha scoperto di essere stato raccontato nel film di Visconti. È morto nel 1986. BJÖRN, BELLEZZA ASSOLUTA
È a Stoccolma che Visconti trova il suo Tadzio, speacolare, inquietante, limpida e ambigua giovinezza. Si chiama Björn Andrésen, ha quindici anni, e non è possibile essere più belli. Un Tadzio perfeo, che accompagna la sua bellissima madre Silvana Mangano nella vacanza della memoria al Des Bains e von Aschenbach/Mahler/Bogarde verso la fine. È aprile, e si gira soprauo nelle poche ore di luce dell’alba per evitare le interferenze del mondo esterno – e due dive, la moderna Florinda Bolkan, che lavora in quei giorni sul set di Anonimo veneziano, e la divina Mangano, star quasi senza baute di DIV, elegantissima nei costumi d’epoca di Piero Tosi, si sfiorano cordialmente nella comune sala trucco al Bauer. Poi una va a passeggiare senza requie per le calli di Venezia con l’ex marito moribondo. L’altra esibisce la sua eleganza sulla spiaggia del Lido e nei saloni del Des Bains, figura mitica e meravigliosa di bellissima madre «boldiniana». Visconti sta al Grii. Bogarde ha affiato Casa Volpi alla Giudecca, tra gli orti e la Laguna. Scrive a Losey geloso che sì, ben ricorda quanto anche lui avrebbe desiderato fare DIV, ma ricorda anche che non glielo aveva mai proposto – mentre Visconti, seduore, gli aveva deo che lui, Bogarde, era come un fagiano appeso per il collo e bell’e pronto. In altre parole, che era «maturo». Visconti l’aveva anche lusingato
dicendogli che era uno dei massimi aori dello schermo. Ora lui è diventato Aschenbach, a cui si rivelano insieme la sua vera natura emotiva e sensuale e la lenta decadenza e la malaia di una cià tanto bella quanto moribonda, dove l’unica ancora di salvezza sembra essere la bellezza di Tadzio. E Aschenbach percorre instancabilmente Venezia, inseguendo Tadzio, ma anche la verità su se stesso: dalla sala da pranzo del Des Bains al labirinto di calli dietro la Fenice, da piazza San Marco al campiello dei Calegheri, dove per la prima volta intuisce che un morbo minaccia Venezia, fino alla elegante spiaggia del Lido dove la morte lo coglie abbandonato e dimenticato sulla sua sdraio – tanto più dolorosamente perché l’amato Tadzio, con l’indifferenza e l’egocentrismo dei giovani, nemmeno se ne accorge. Morte a Venezia debua a Londra il 1° marzo 1971, davanti a Sua Maestà Elisabea II. In maggio partecipa al Festival di Cannes, senza conquistare alcun premio. Lo premiano molto in Italia. Le critiche sono miste, rispeose ma anche, spesso, e soprauo all’estero, ironiche. alcuno scrisse che Visconti non aveva girato il suo film, ma lo aveva «decorato». Tui soolineano la bravura di Bogarde, il fascino della Mangano, la bellezza di Tadzio, ma soprauo la perfezione della ricostruzione dell’ambiente cosmopolita ed elegante del Lido. ella devota ricostruzione oggi è diventata una memoria importante. L’Hotel Des Bains è, in questo momento, in via di trasformazione, per diventare da grande mitico albergo un elegante e costoso residence per miliardari. Sia dunque grazie ancora una volta al cinema – la morte al lavoro, come lo definiva Jean Cocteau (ma lui parlava soprauo degli aori) – che ci lascia il ricordo preciso e minuzioso di un’altra epoca. Un’epoca che hanno ricostruito il genio e la cultura di un grande regista, che hanno ricreato per la memoria futura lui e i suoi collaboratori (nel caso specifico, Ferdinando Scarfioi scenografo, Piero Tosi costumista).
13.
Mistero veneziano
Dove una Venezia anticonvenzionale, invernale e misteriosa diventa lo sfondo di un incubo, in un horror non horror, illuminato da una celebre scena d’amore. San Nicolò dei Mendicoli è tra le più remote e forse la più antica chiesa di una cià di antiche chiese come Venezia. Non la si incontra per caso, non è celebrata come dovrebbe dalle guide, non ha dipinti stellari che airino le folle, e la si vede solo se si decide di fare una lunga passeggiata, percorrendo le Zaere dopo San Basilio fino a incrociare il canale di Santa Marta; o, venendo dall’altra parte, dal Canal Grande, raggiungendo San Barnaba, poi costeggiando la chiesa di San Sebastiano e dirigendosi verso la Facoltà di architeura. San Nicolò è lì, bassa e discreta, con la sua aria da vecchia chiesa russa, scura e rinchiusa sulle proprie ombre in una zona marginale di Dorsoduro. Pare che esistesse già nel seimo secolo. anto al nome, si chiama così, dicono gli esperti e le guide, per una deformazione della parola «Mendigola», e cioè il nome dell’isola su cui sorge. Oppure deriverebbe da «mendici», una parola che ben descrive la condizione di questa zona un tempo molto povera della cià, abitata in passato soprauo da pescatori e da artigiani. Come che sia, la chiesa di San Nicolò, nella versione che ha sostituito l’originale nel tredicesimo secolo, è molto suggestiva, con le sue statue, il soffio dorato, i dipinti della scuola di Veronese, il corpo dell’inevitabile martire (questa volta goto, tale San Niceta). Una chiesa bellissima che, durante l’alluvione del 4 novembre 1966, venne gravemente
danneggiata – anche perché la sua base si trovava trenta centimetri soo il livello dell’acqua. Una chiesa bellissima che venne restaurata con gli aiuti internazionali. Come racconta… L’ALLUVIONE DEL ’66
Come racconta A Venezia… un dicembre rosso shocking, che d’ora in poi, vista la volgarità horror della traduzione, preferirei chiamare con il suo titolo originale, Don’t Look Now o DLN. Un film di cui, a distanza di quasi quarant’anni (è del 1973), chiunque l’abbia visto allora e non l’abbia più rivisto ricorda almeno tre cose: una Venezia invernale e «normale» come la si vede raramente, una piccola creatura vestita di rosso che compare tra calli e campielli procurando un colpo al cuore agli speatori e ai protagonisti, e una scena d’amore così intensa che forse era vera… UNA GRANDE SCENA DI SESSO
Cominciamo, come non si dovrebbe, dall’ultima «cosa»: la scena di sesso coniugale tra i due protagonisti, Donald Sutherland e Julie Christie. Coniugale e passionale. John (Sutherland) e Laura (Christie) sono marito e moglie, due coniugi che pochi mesi prima hanno perso la loro bambina, appunto una piccola creatura in impermeabilino rosso, che annega nello stagno della loro villa in Inghilterra, mentre loro sono distrai da altro. Stanno male e si sentono colpevoli. Sono ora a Venezia perché John è un architeo specializzato in restauri, e si sta proprio occupando di San Nicolò dei Mendicoli, dove se ne sta abbarbicato su un ponteggio a traare antiche statue e mosaici (un’allusione? una premonizione della complicata storia in cui sono coinvolti?). John e Laura sono a Venezia anche per cercare di trovare una forma di normalità che li aiuti a uscire dal dolore. E Venezia, assieme a una serie di inquietanti immagini e fantasie (che cos’è, chi è il piccolo essere in impermeabilino
rosso col cappuccio che illumina a trai il buio delle calli invernali? Potrebbe essere il fantasma della loro bambina, come tende a sperare lei, Laura, che ha paura e allo stesso tempo prova una immensa gioia a crederci, perché vuole quel contao?), restituisce loro la voglia di vivere che passa araverso l’amore e il sesso. Un amore e un sesso, appunto, così naturali, espliciti, spontanei da aver fao pensare a una scena, diciamo così, pudicamente, girata dal vivo. MA L’HANNO FATTO O NO?
Ipotesi su cui Nicolas Roeg, il regista, si è fao più e più volte una bella risata. Ma che dite? Julie e Donald si sono incontrati per la prima volta la sera prima di girare. E allora? O il segreto è contenuto nei nove fotogrammi, meno di mezzo secondo, che furono tagliati per rendere felice il censore britannico, il quale avrebbe creduto di avere davanti più di quello che in effei c’era? Omnia munda mundis. Resta l’illusione di verità, e la bravura dell’ufficio stampa del film che fece circolare il dubbio. DALLA SIGNORA DEL MYSTERY
Ma facciamo, anche questa volta, un passo indietro. Alle fonti e ai protagonisti. Fonte numero uno, il racconto firmato dalla signora del mistero, Daphne du Maurier, ispiratrice non sempre contenta di Sir Alfred Hitchcock per film come Rebecca, Jamaica Hill e Gli uccelli (e invece così felice, dicono, del risultato di Don’t Look Now). «Fanghiglia romantica», ha scrio un critico del racconto della Du Maurier. Sarà. Ma affascinante. Fonte numero due, il regista. Nicolas Roeg è uno spiritoso gentiluomo britannico dall’aria falstaffiana. È stato un direore della fotografia eccellente. Ha fotografato La maschera della morte rossa di Roger Corman, Fahrenheit 451 di François Truffaut, Dolci vizi al foro di Richard Lester, Petulia di John Schlesinger, per non parlare di Lawrence d’Arabia, a cui ha lavorato come capo della seconda unità (la
prima era capitanata da F.A. Young). E, fin dal primo film come regista, si è rivelato un autore eccentrico e stravagante, originale e fuori dalle regole. Con Sadismo (Performance), nel 1970, ha costruito assieme a Donald Cammell, e protagonista Mick Jagger, un durissimo film sulla sindrome di Stoccolma e sulla sessualità di quegli anni avventurosi. Con L’inizio del cammino (Walkabout), del 1971, da un racconto di Edward Bond, ha narrato la sconvolgente avventura di una ragazzina e del suo fratellino abbandonati dal padre suicida nel deserto australiano, e la loro loa per sopravvivere con l’aiuto di un giovane aborigeno. Con Don’t Look Now, scrio con Alan Sco e Chris Bryant, Roeg ha fao non un horror, come il film è stato spesso banalmente eticheato, ma, si potrebbe rischiare, la versione invernale di Morte a Venezia, il film di un cupio dissolvi nel dolore. E soprauo ha stabilito, araverso la fotografia dello stesso Roeg e di Anthony B. Richmond, l’immagine definitiva di una Venezia meno splendida, vuota, deserta, e quindi più sorprendente per lo speatore non veneziano. HEATHER E WENDY
Ricordiamo la storia. John e Laura stanno cercando di tornare alla normalità dopo la tragedia. Una sera, in un ristorante, incontrano due anziane gemelle, Heather e Wendy, la prima delle quali, cieca e dotata di poteri medianici, dice a Laura di aver visto accanto a loro la piccola Christine, la loro bambina morta. E di averla vista in pace. Laura, pronta a tuo pur di trovare consolazione, si sente meglio per quello che le è stato fao sperare, mentre John, l’animo razionale della coppia, non vuole crederci. Intanto un assassino si aggira per Venezia. Ha già fao due viime e la medium dice a Laura di vedere un pericolo nell’immediato futuro di John – che, curiosamente, sembra anche lui dotato di poteri paranormali, ma non ci crede, e non riesce a prevedere proprio tuo. Tanto che, quando Laura
parte per l’Inghilterra per raggiungere il figlio maggiore che ha avuto un incidente, John, rimasto solo nell’inverno veneziano, una sera in una calle buia si bua a difendere da un uomo che la sta aggredendo quella che sembra una bambina – la bambina con l’impermeabilino rosso. Ma Cappucceo rosso è in realtà una nana assassina, che lo uccide. E l’uomo è un incolpevole polizioo. È la sconfia della razionalità. Forse solo Chi lavora è perduto, Morte a Venezia e Pane e tulipani, in forme diversissime, raccontano così bene il territorio veneziano, lo percorrono con tanta aenzione, tante scoperte e tanto potere mitopoietico: in questo caso sul versante misterioso, cupo, nebbioso, sinistro di Venezia. La storia di Don’t Look Now (a proposito, il titolo nasce da una bauta di John, «Don’t look now, non guardare, ma c’è una coppia di vecchiee due tavoli più in là che stanno cercando di ipnotizzarmi») si muove tra l’Hotel La Fenice, dove abitano le due vecchie gemelle, e San Stae; tra il ristorante Roma, vicino a Santa Lucia, a Cannaregio, dove entrano in scena le due gemelle, e San Nicolò dei Mendicoli, dove John rischia la vita nel crollo di una impalcatura; tra la stanza del Bauer Grünwald dove si svolge la celebre scena di sesso e le vicinanze di Santa Maria Formosa, dove John incontra finalmente la nana in rosso e il suo destino. Una Venezia mai vista, mai così intimamente esplorata. NOIOSO, DISSE CANBY
Ma non tui si sono lasciati incantare e sorprendere da Don’t Look Now. Per esempio l’autorevolissimo Vincent Canby, il critico del «New York Times», abituato a scrivere il destino dei film. «Don’t Look Now? Un elegante travelogue, un po’ noioso», decretò. Pauline Kael arricciò il naso, ma gli dedicò due pagine del «New Yorker». Eppure tui lo ricordano, Don’t Look Now, in un loro personale percorso nella memoria. Roeg riesce a convincere lo speatore che non gli deve credere, che quello che vede
potrebbe essere un’illusione o un inganno, che le tessere del mosaico logico, montate da Graeme Clifford in un brillante gioco di inganni e di illusioni, non si incastrano perfeamente per un disegno preciso, e cioè la volontà di Roeg di lasciare molte cose non spiegate: come nella vita, come nella realtà. L’«orrore» di questo atipico e unico horror sta nelle paure della normalità, nella difficoltà di vivere dopo una tragedia, nell’angoscia dell’incertezza quotidiana, nella volontà di credere a quello che si vede o che si crede di vedere perché è consolante. E, a contrasto, nella consapevolezza che niente è quello che sembra. Un labirinto di sentimenti che Venezia amplifica, restituisce fisicamente, immerge nella nebbia dell’incertezza.
14.
Resistenza in laguna
Nel quale si racconta come due inseparabili fratelli registi di San Miniato di Pisa, due corpi e una sola cinepresa, inventarono per «San Michele aveva un gallo» la storia di un anarchico che resiste a tuo: prigione, silenzio, fatica. Ma che cede di fronte alla luce e al silenzio della Laguna di Venezia, e al senso di non essere più utile. La maina della domenica Ermanno Taviani, da San Miniato, avvocato a Pisa, chiamava i suoi (allora) due figli Viorio e Paolo (un terzo, Franco, regista e scriore, arriverà più avanti, quando i due maggiori erano già grandicelli), li installava nel grande leone coniugale, li prendeva soo le sue ali paterne e cantava con la sua bella voce San Michele aveva un gallo. Una filastrocca che, per chi non la ricordasse, si può ritrovare adesso come un reperto d’epoca anche nelle infinite pagine della rete, magari con qualche piccola variante (ma la base è «San Michele, aveva un gallo, / bianco e rosso verde e giallo, / e per farlo cantar bene / lui gli dava lae e miele»). Una filastrocca che, per via di quelle tenere mainate familiari, deve essersi ben confia nella testa dei due ragazzi Taviani, diventati nel fraempo l’indistinguibile coppia di registi ben noti che lavorano in squadra da oltre cinquant’anni, classe 1929 Viorio, classe 1931 Paolo, sempre insieme e pronti a parlare a due voci con una sola voce (un trucco per riconoscere l’uno dall’altro? Viorio ha sempre il cappellino blu da rivoluzionario russo in testa).
Tanto è vero che quando, negli anni aorno al ’68, il cinema, in vari modi, fu la voce e l’interprete delle passioni etiche e politiche del movimento, i due fratelli cominciarono a nutrire il progeo di un film sugli anarchici italiani dell’Oocento, e il titolo e il filo conduore del film divenne quasi subito San Michele aveva un gallo. E la filastrocca divenne la chiave di una scena fondamentale del film, quella che vede il protagonista, il bambino Giulio Maineri, punito dalla mamma, che lo chiude in una sorta di ripostiglio tra due porte. E dalla sua buia prigione infantile lo sentiamo cantare, per sostenersi moralmente, San Michele aveva un gallo. L’ANIMA DELLA SINISTRA
Viorio (quello con berreo) e Paolo erano ormai diventati, in quel 1970 in cui cominciarono a pensare il film, due celebri registi che incarnavano l’anima della sinistra. Erano gli autori di un appassionato documentario su una strage nazista che aveva insanguinato il loro paese natale, San Miniato 1944 (una storia a cui torneranno anni dopo con La noe di San Lorenzo), e di alcuni film importanti – da Un uomo da bruciare, del 1962, a I fuorilegge del matrimonio (1963), da Sovversivi (1967) a Soo il segno dello scorpione (1969) –, tui fortemente connotati dal punto di vista politico. Insomma, si traava di due ragazzacci comunisti in un’epoca di umori rivoluzionari, nelle piazze come sullo schermo. In quel 1970 i due, che sino allora avevano lavorato solo su soggei contemporanei e originali, si scoprirono tentati dall’idea di fare un film da Pirandello (come faranno poi con grande successo più tardi, soprauo in Kaos, ma anche in Tu ridi). Nello specifico si traava di Berecche e la guerra, un lungo racconto scrio nel 1915 da Pirandello su un professore di germanistica travolto dall’ondata antitedesca dell’interventismo. Avevano proposto l’idea a Tullio Kezich, il critico, scriore e commediografo che allora, per la Rai, dirigeva la
sezione «Sceneggiati da opere edite», e si occupava di sviluppare dei progei trai da opere leerarie. Kezich si disse entusiasta. I Taviani lo erano, ovviamente. Ma gli uni e l’altro doveero accorgersi presto, analizzati i costi del progeo – che prevedeva scene di massa, cortei, tua un’atmosfera d’epoca –, che la cosa non era faibile. ALL’ORIGINE C’ERA TOLSTOJ
Pazienza. I due fratelli avevano anche un’altra idea, che nasceva da un racconto di Tolstoj, Il divino e l’umano. Diventato nella loro versione, che unificava due distinti personaggi tolstoiani, la storia di un giovane anarchico il quale, dopo una missione fallita, viene incarcerato, e in carcere riesce a sopravvivere per dieci anni in un totale isolamento, affidandosi alla disciplina e alla fantasia. Forti dell’interesse di Tullio Kezich i due Taviani si misero così al lavoro per scrivere un soggeo ambientato in Italia nella seconda metà dell’Oocento, in piena epoca anarchica. Un film da realizzare in chiave poveristica, tenne a precisare Kezich, in poche seimane, con pochi fondi. Ma le cose, in Rai, non decollavano. Kezich confessava di avere l’impressione che le alte gerarchie, quelle che decidevano, stessero adoando la tecnica di ridurre progressivamente il possibile finanziamento per scoraggiare i Taviani e indurli a rinunciare al progeo. L’inizio della lavorazione era continuamente rimandato. E intanto i due sfortunati fratelli di San Miniato continuavano a cambiare il copione, ambientando la loro storia prima in inverno, poi spostandola all’estate, poi in primavera… MAI MAI IN RAI
Passò più di un anno. Fu allora che, per convincere i produori televisivi a prendere una decisione operativa, Tullio Kezich suggerì che sarebbe stata una buona idea mostrare un film dei Taviani ad Angelo Romanò, critico
leerario, poeta, uomo di cultura (e di sinistra), allora direore dei programmi, che non conosceva il loro lavoro, e al suo consigliere, lo scriore Renzo Rosso. Malauguratamente Romanò chiese di vedere un loro film che definire duro e difficile è poco, Soo il segno dello scorpione. Risultato: Romanò uscì dalla sala, scusandosi, prima della fine della proiezione. E Rosso decretò che «questi due non devono lavorare in Rai» (cosa che, come si sa, non fu. Basti dire che la Rai pochi anni dopo si portò a casa, per merito dei due Taviani, la Palma d’oro 1977 con Padre padrone), comunicando poco dopo al costernato Kezich di aver leo il copione di San Michele aveva un gallo, e di aver dato voto sfavorevole. Era fare i conti senza Giuliani De Negri, lo storico produore dei Taviani, ligure, e gentiluomo sì, ma anche, da ex partigiano, forte, aggressivo, uno che non le mandava a dire. Il quale, incontrato una sera Renzo Rosso a una cena, arrivò quasi alla zuffa per difendere i suoi due campioni. Stremati, gli uomini della Rai alla fine cedeero. Anche se i soldi diventavano sempre meno – e forse per questo. Il budget finale fu stabilito in 45 milioni di lire, che, anche allora, erano noccioline. Speravano che i Taviani e sodali rinunciassero? Non fu così. 14.000 METRI
Per farcela con quei pochi soldi bisognava girare il film in ventoo giorni – e con 14.000 metri di pellicola. Furono fai dei sopralluoghi-lampo in una Venezia assediata dal turismo del primo maggio, alla ricerca delle zone lagunari dove i Taviani volevano ambientare la terza parte del film. Si cominciò a girare, in quello stesso maggio 1971, a Cià della Pieve, dove si colloca il primo episodio del film, poi nella Laguna di Venezia, dalle parti di Torcello, poi a Orvieto, e infine nella cella costruita dallo scenografo Gianni Sbarra in uno studio della De Paolis a Roma.
In questa cella il protagonista Giulio Maineri, aristocratico, ex matematico, ex gelataio per sbarcare il lunario, anarchico, nel film interpretato da Giulio Brogi (un aore molto bello e molto bravo che è anche, casualmente, un cugino dei Taviani), arrestato e condannato a vita per un’azione insurrezionale di quelle che andavano soo il nome di «propaganda del fao» (nel suo caso aveva tentato di distruggere l’archivio del paese di Cià della Pieve, ma l’impresa era andata storta per il mancato appoggio dei compagni), in questa cella Giulio Maineri vive ogni giorno, per dieci anni, cercando di dimenticare di essere in carcere, dandosi un programma, lavorando, studiando, immaginando che al posto delle orribili brodaglie della prigione gli vengano serviti dei manicarei preparati secondo le ricee dell’Artusi, e che al posto dell’assordante silenzio gli venga offerta la Norma di Bellini, inventandosi delle riunioni con i compagni perduti, incarnando ciascuno di loro e le loro voci in una polifonia tua sua. E sempre cantando a ripetizione, come fosse un inno di guerra, la filastrocca che da bambino lo aveva accompagnato nei momenti di paura, San Michele aveva un gallo. Un eroe della resistenza anarchica che rimanda a tante eroiche figure di resistenti, quelli che nel carcere hanno trovato la forza di continuare a essere eroi ed esseri umani. LA FORZA DELLA LAGUNA
Passano dieci anni. Giulio Maineri viene scarcerato dalla sua cella perché si preparano a tradurlo in un altro carcere, su un’isola imprecisata della Laguna veneziana – sono passati «solo» dieci anni, ma i costumi di Lina Nerli Taviani accentuano e soolineano il passaggio del tempo, per fare di Giulio Maineri un personaggio storicamente invecchiato. I suoi guardiani lo meono su una barca e si accingono ad araversare la Laguna. E ciò facendo immergono Giulio nella luce, lo muovono sullo sfondo del paesaggio irreale, ripetitivo, magico dello specchio lagunare.
Accanto alla barca su cui i suoi carcerieri portano Giulio Maineri si muove un’altra barca, che trasporta alcuni giovani, anche loro «sovversivi», ma di una diversa scuola di pensiero. Giulio chiede al suo barcaiolo di avvicinare la barca dei ragazzi. Vuole parlare, finalmente. Vuole essere riconosciuto per l’eroe che è, che è stato. Ma i ragazzi reagiscono freddamente. Sono portatori di un’altra ideologia, lo considerano uno di quegli anarchici di stampo romantico che hanno ritardato con le loro azioni la storia del movimento operaio. Arrivano al litigio e agli insulti. E Giulio, il rivoluzionario ormai fuori dal suo tempo, sconvolto dall’incomprensione dei compagni di loa, stravolto dall’improvvisa libertà fisica, dalla luce e dall’aria di quel luogo magico e misterioso che è la Laguna, protagonista di uno scontro impari con lo spazio che gli si è improvvisamente aperto intorno, si lascia scivolare, per sempre, nell’acqua. asi un omaggio, o un ricordo, al soldato americano che muore nelle paludi alle foci del Po in Paisà. È stata l’immensità della Laguna, raccontano oggi Paolo e Viorio Taviani, è stato il contrasto tra la poca forza dell’individuo e il mistero e la grandezza di questo paesaggio primordiale a suggerire questa conclusione. È questo luogo unico a costringere Giulio alla resa. Una resa che viene anticipata quando la barca con il nostro eroe passa in silenzio soo una meravigliosa abside di Torcello, e Giulio è così travolto da questa manifestazione di bellezza che non trova di meglio che coprirsi il volto con il mantello, che chiudersi allo splendore eccessivo di quella visione. LA SANPIEROTTA IN SECCA
E aorno al film? Nelle retrovie di questa lavorazione condoa rigorosamente e all’osso (stanze spartane in terraferma, velocità massima nella lavorazione, «buona la seconda», pochi capricci) succedevano ogni tanto cose bizzarre. Con grande ansia da parte dei Taviani, il bel Giulio Brogi spariva la sera per andare da una misteriosa morosa a
Bologna – e contro ogni previsione dei pessimisti tornava fresco come una rosa la maina per ricominciare il film e dargli tuo il suo carisma e la sua bravura. alche volta a complicare le cose ci si meeva anche la natura. Come quando a un certo punto Paolo e Viorio, che dirigevano le riprese da una barca assieme al direore della fotografia Mario Masini, scoprirono che la bassa marea aveva colpito, che la loro sanpieroa era rimasta in secca. Che fare? Anche se l’acqua era sparita non potevano permeersi di perdere neanche un giorno. Pratici, i due Taviani si dedicarono a imprimere alla barca una sorta di dondolio per dare l’impressione del moto ondoso, mentre Masini evitava di inquadrare la laguna in secca e puntava su Giulio. Fino a che la marea non venne loro in soccorso a liberarli… UN FILM FANTASMA
Nel giugno 1971 la lavorazione era finita. L’Italnoleggio, come si chiamava allora la distribuzione di stato, si disse interessato a distribuire il film. Si «disse» interessato. Perché alla fine San Michele aveva un gallo, presentato con successo alla inzaine des Réalisateurs di Cannes nel 1972 e al Forum della Berlinale lo stesso anno, non uscì in Italia fino al 5 marzo 1975 e soo gli auspici dell’Arci-Rai, a seguire il successivo film dei Taviani, Allonsanfan, altra cronaca di rivoluzione tradita (con tanto di suicidio, stavolta in un lago… ma questa è un’altra storia, un altro film). Nel fraempo San Michele aveva un gallo, nel 1973, era passato in televisione. In bianco e nero. Un destino che ha condiviso con Strategia del ragno di Bernardo Bertolucci: monco di una sua componente fondamentale, il colore. E tuavia bellissimo. E da allora riconosciuto come un capolavoro.
15.
Il grande seduore
Nel quale si parla di Giacomo Casanova veneziano, amato, esaltato, spesso maltraato dal cinema, che gli ha dedicato un numero record di film e ne ha esportato la leggenda in tuo il mondo. Il primo e più importante Casanova è, naturalmente, quello reale. Giacomo Casanova veneziano – libertino, seduore, ecclesiastico, leerato, scriore, musicista, alchimista, matematico, faccendiere, giramondo, diplomatico, spia, massone, arcade, avventuriero, informatore dell’Inquisizione, mago, baro, uomo di teatro – e chi più ne sa più ne aggiunga. Giacomo Casanova, un uomo, un’antonomasia: quella del seduore. Nato nel 1725 da un’arice (pare brava) e (si mormorava) dal nobiluomo Michele Grimani (come confermano oggi i discendenti del Grimani, indicando il tipico naso di famiglia come esce dai ritrai). Avviato alla carriera ecclesiastica. Cacciato dal seminario dopo aver preso gli ordini minori. Laureato in dirio a Padova. Viaggiatore in tuo il mondo (che allora voleva dire l’Europa di Parigi, Dresda, Praga, Vienna, Mosca, Corù…), molto per curiosità ma anche per la necessità di sorarsi ai casini che via via combinava. Sempre seducente e seduore. Accusato di ateismo e libertinaggio, colpe per cui venne chiuso nelle prigioni dei Piombi – da cui ovviamente riuscì a fuggire in tipico stile casanoviano. Via via sempre più ribaldo e audace, ma anche nostalgico della sua cià, dove oenne di ritornare, per poi esserne nuovamente espulso e ricominciare il suo
peregrinare. Autore di una Histoire de ma vie scria negli ultimi, tristi anni della sua vita, quando, vecchio e stanco, lavorava come bibliotecario del conte di Waldenstein a Dux, in Boemia, e che fu pubblicata solo dopo la sua morte (troppo osé per l’epoca, che pure era la sua epoca casanoviana…). OSSESSIONATI DA GIACOMO CASANOVA
Ecco dunque che sin dal 1918 il cinema comincia a occuparsi del grande seduore. E come potrebbe farne a meno, con un tale personaggio, con tali storie, con tali materiali d’epoca? Fao sta che nel 1918, pur avendo la gente altri problemi (erano gli ultimi tempi della guerra, i soldi mancavano, ogni famiglia conosceva il dolore del luo), di film su Casanova se ne fanno, tra gli altri, uno ungherese (Casanova di Alfréd Deésy) e uno tedesco (Das Herz des Casanova di Erik Lund). E si continua negli anni successivi, tanto da meere insieme nell’arco di poco meno di un secolo ben trenta film dedicati a Giacomo Casanova veneziano: fino all’ultimo, impossibile, assurdo e francamente un po’ ridicolo, anche se firmato da un potenzialmente bravo regista come Lasse Hallström e con un aore come il compianto Heath Ledger, il cowboy gay di Brokeback Mountain. Tuo finto, tuo fasullo. In mezzo ai trenta Casanova cinematografici (ma molti sono in realtà opere TV) due spiccano per qualità e originalità. Il film di Comencini dedicato all’Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano. E il grande, funereo, meraviglioso Casanova di Federico Fellini. Mentre un terzo Casanova d’autore, Casanova ’70, si limita a meere brillantemente soo tiro i vecchi schemi del gallismo italico, un quarto, Il mondo nuovo di Eore Scola, ci presenta con profonda malinconia un Casanova vecchio e piegato, che segue re Luigi XVI, Michel Piccoli, verso il suo destino, e un quinto, firmato Steno, intelligente e divertente, interpretato da Gabriele Ferzei, viene perseguitato dall’Azione caolica e da Oscar Luigi Scalfaro per la franchezza delle situazioni e
per la sconvolgente novità di tue quelle donne che prendono l’iniziativa di sedurre il seduore… Il film di Comencini, che nella filmografia di un regista particolarmente aento e sensibile alla condizione bambinesca si colloca tra Incompreso, a monte nel tempo, una celebre e molto lodata inchiesta televisiva sui bambini (I bambini e noi) e il suo celebrato Pinocchio (a valle), è stato girato a Venezia aorno alla Pasqua del 1969. E tra film di aenta osservazione psicologica come sono i primi due e un film di invenzione assoluta come è il secondo, mee sullo schermo una perfea ricostruzione d’epoca. Si racconta che Comencini girasse per Venezia con delle riproduzioni di Pietro Longhi e di Gabriel Bella in tasca. Salvo reinventare il mondo dei due piori per i suoi fini. ali? L’infanzia di Giacomo Casanova (e il suo corredo di altre cose, soprauo le prime esperienze, insomma, il mondo dei primi cinque capitoli delle sue memorie) serve a Comencini per disegnare con successo, a giudicare dalle unanimi ammirate reazioni, uno spaccato della società veneziana del Seecento. UN CASANOVA «PER RAGAZZI»
«Ho cercato di dipingere la vita quotidiana di un giovane veneziano, che si chiamava Casanova». Senza rinunciare per questo al suo magistrale lavoro di scavo psicologico dell’età, diremmo oggi, evolutiva, in cui è sempre stato maestro. ella di Comencini è una grande troupe, di seanta persone, e la lavorazione durerà quaordici seimane, più di tre mesi. Cose d’altri tempi. Venezia, là dove ce n’è bisogno, è ricostruita e addobbata dal bravissimo Piero Gherardi, che veste anche con i suoi costumi il giovane Giacomo (Leonard Whiting, molto molto carino) e il resto del cast, dove compare tra gli altri una piccola ma tosta Cristina Comencini, che doveva avere, all’epoca, tredici anni. Sempre autocritico, Comencini disse più avanti, in una intervista, che temeva di aver sbagliato tuo: «Ho fao un Casanova per ragazzi e un Pinocchio per adulti». Ma il suo
Casanova non è per ragazzi. Ovverosia, lo è, per la grazia e la leggerezza. Ma è soprauo un allegro e sereno Bildungsroman che mee nella giusta luce e dà il dovuto peso all’iniziazione sessuale – esperienza che per fortuna il suo Pinocchio ci risparmia. DOPO MASTORNA
Tanto è vitale, allegro, giovane il Casanova di Comencini, tanto è mortuario, raggelato, «triste, solitario y final» il Casanova che Federico Fellini girerà di lì a poco, in una Venezia totalmente ricostruita in studio a Cinecià. Con una complicata storia produiva alle spalle. Siamo nel 1971. Federico Fellini ha abbandonato il progeo del mai realizzato Viaggio di Mastorna. E Dino De Laurentiis chiede a colui che tui chiamano il Faro una leera di impegno per un film da fare insieme e che dovrebbe servire a rilanciare le traballanti fortune del produore oltreoceano. Ci vuole anche un titolo. Fellini lancia l’idea di Casanova. Di cui, per sua ammissione, non ha mai leo una riga. Ma tant’è. Fellini sta girando Amarcord. Casanova si mee in coda. De Laurentiis ci ripensa, perché Fellini, per il «suo» Casanova, non vuole una star tipo Robert Redford. E non vuole girare in inglese. E forse non vuole fare il film. UN VITELLONE INVECCHIATO
Subentra Andrea Rizzoli. Tra i collaboratori, accanto al cosceneggiatore Bernardino Zapponi, arriva il poeta Andrea Zanzoo, certificato veneto. E dopo un giro tra gli aori dello schermo italiano e non (perché non Alberto Sordi? O Michael Caine? O Jack Nicholson? O Gian Maria Volonté?), Fellini, per il suo «vitellone invecchiato» (così vede Casanova, racconta Tullio Kezich nella sua celebre biografia del Faro), sceglie curiosamente Donald Sutherland, canadese, che ha incontrato sul set di Novecento, tranquillo, silenzioso, diverso.
Ma l’inizio della lavorazione viene continuamente rimandato. Tanto che anche la Cineriz si ritira. Entra in scena, con spregio del pericolo, Alberto Grimaldi. Che riesce a oenere da Fellini, sempre insicuro in materia, che il film venga girato in inglese, cedendo in cambio al desiderio felliniano di dimenticare Venezia e di girare a Cinecià. Ma la lunga aesa ha stancato Fellini. Che, ricorda ancora Kezich, aggredisce il suo personaggio. Un personaggio che, dice il regista in una girandola di interviste, tra cui una molto divertente con Aldo Tassone, è «il maschio italiano nella sua versione bieca, un cialtrone, un fascista», un «supervitellone», «un sinistro Pinocchio», «un omaccione impennacchiato che puzza di sudore e di cipria, che ha l’ousità, la prepotenza e la spocchia della caserma e della chiesa», e che, non bastasse, «è anche alto un metro e novantuno», che «racconta di sé che può fare l’amore oo volte di seguito», che «sa tuo», che «ha conosciuto Luigi XV e la Pompadour. Ma come si fa a stare insieme con uno stronzone così?». Insomma, per riassumere, e se non si fosse capito, «Casanova, io lo odio». Ma capita anche che, in un passaggio di umori incontrollato e improprio, Fellini odii a quanto pare anche il povero, incolpevole Donald Sutherland, professionista di classe, disciplinatissimo, senza capricci, lasciato solo e abbandonato a se stesso, mai beneficiato da un momento di cordialità o di solidarietà, nonostante il gravosissimo compito che gli spea (trucco di tre ore ogni giorno per cancellare la sua fisionomia e darsi quella del Casanova secondo Fellini, fronte sporgente e naso finto, decine di parrucche e di costumi). Sutherland, elegantemente, tace. Ma anni dopo, a proposito del rapporto di Fellini con gli aori, dirà che Federico era «un caporale, un tartaro, un diatore, un demone…». LO STUDIO 5
Iniziato il 20 luglio 1975, Il Casanova di Federico Fellini – questo il titolo ufficiale – prevede 21 seimane di lavorazione e un budget di oo miliardi. A Natale, Grimaldi ferma la lavorazione. I tempi e il budget non sono stati rispeati. Poi ci ripensa – e si ricomincia a lavorare su quello che è già un film leggendario. Leggendario anche per il fao di esser girato nei territori di Fellini e non in quelli di Casanova. E quindi nel «felliniano» Studio 5 di Cinecià e nella piscina di Cinecià, dove Danilo Donati ha ricostruito con la sua sapienza fantastica il Canal Grande e una laguna di plastica gelata, le cupole di una chiesa simile alla Salute, il ponte dei Sospiri, i Piombi (ma Fellini nei titoli si prende il merito della «ideazione scenografica»). E tra la simulata Venezia «parallela» (così la definisce brillantemente Piero Zanoo) messa in essere da centoanta tecnici, che ricostruiscono palazzi, carceri, chiese, fa spicco la sequenza del Carnevale, con seicento comparse e una gigantesca polena dal volto di donna – quella che, dopo l’uso, è rimasta abbandonata per anni in un angolo di Cinecià, simbolo di un grandioso passato dei nostri studi cinematografici oggi ormai in via di dissoluzione. A fine maggio 1976 Il Casanova di Federico Fellini è finito. Ma non è la storia di Casanova. È, più probabilmente, un autoritrao dell’artista da vecchio – o dell’artista che comincia a sentirsi vecchio –, interprete di un sesso meccanico e compulsivo, prigioniero della sua educazione e tradizione, misogino, nevroticamente incalzato dagli eventi, dal dover essere sessuale e dalle richieste del mondo, soo soo travolto dalla nostalgia dell’infanzia e dei suoi luoghi: quelli da cui persino il film di Fellini lo tiene lontano. ANCHE PAULINE KAEL CONOSCE IL PENTIMENTO
All’uscita, il 7 dicembre 1976, Il Casanova di Federico Fellini non registrò, diciamolo garbatamente, un’accoglienza trionfale. Si prese tua la gamma dei giudizi e dei pregiudizi, di riserve, di forse, di ma, di distinguo. Soprauo in America (ma i soloni della critica Usa, Pauline Kael in testa, ci
ripenseranno, si ravvederanno, si smentiranno; anche loro sanno cosa sia il pentimento). Poi passerà direamente allo status di film di culto. Mentre Fellini, lasciata da parte l’antipatia per il suo ingombrante personaggio, per il suo mondo, per i suoi libri, spiega in una molto citata intervista a Valerio Riva dell’«Espresso» che cosa abbia veramente voluto fare: «Arrivare una buona volta all’essenza ultima del cinema, a quello che secondo me è il film totale. Riuscire a fare di una pellicola un quadro… Se uno si mee davanti a un quadro, può averne una fruizione completa e ininterroa. Se si mee davanti a un film no. Nel quadro sta dentro tuo, basta guardarlo per scoprirlo. Il film è un quadro incompleto, non è lo speatore che guarda, è il film che si fa guardare dallo speatore, secondo tempi e ritmi estranei e imposti a chi lo contempla. L’ideale sarebbe fare un film con una sola immagine, eternamente fissa e continuamente ricca di movimento. In Casanova avrei voluto veramente arrivarci molto vicino: un intero film fao di quadri fissi».
16.
All’ombra del Tintoreo
Nel quale si racconta come Venezia sia stata lo sfondo di almeno tre grandi amori di Woody Allen. Indovinate quali. Alla fine di Manhaan, il suo incantevole, poetico capolavoro del 1979, Allen Stewart Konigsberg, meglio noto come Woody Allen, annotava «le cose per cui vale la pena vivere». E le trascrivo qui perché i leori possano meditarle, farle proprie o modificarle secondo le loro passioni: «Groucho Marx, il giocatore di baseball Willie Mays, il secondo movimento della Sinfonia Jupiter, Potato Head Blues, i film svedesi, L’educazione sentimentale, Marlon Brando, Frank Sinatra, le nature morte di Cézanne, i granchi di Sam Wo, il viso di Tracy», che nel film è la dolce Mariel Hemingway, di cui, sempre nel film, Woody Allen è innamorato. E VENEZIA?
Stupore. Tra le cose per cui vale la pena vivere non c’è Venezia. Venezia che, come dimostra la storia personale di Woody Allen, gli è sempre stata cara, fin dai tempi – era il 1983 – in cui il regista, in una finta intervista sullo sfondo della chiesa della Salute, registrava le opinioni di Susan Sontag a proposito del fenomeno Zelig. Per culminare con il suo matrimonio en petit comité con Soon-Yi Previn, annunciato persino agli amici in modo casuale, come racconta Adriana Chiesa Di Palma, la vedova di Carlo, il grande direore della fotografia, amicissima di Woody Allen. A cui l’annuncio fu dato all’ultimo minuto, mentre
mangiavano un risoo alle Zaere, poco prima che i due sposi si recassero a Palazzo Cavalli-Franchei, sul Canal Grande, per la breve cerimonia nuziale. Era il 24 dicembre 1997. Venezia, dunque? Forse l’elenco delle cose amate era stato compilato troppo presto. «Ripeness is all», la maturità è tuo, diceva il Bardo. Ai tempi di Manhaan Woody Allen aveva quarantaquaro anni, ed era ancora impegnato nella sua dichiarazione d’amore perenne a New York (cos’altro è Manhaan, infai?), e nella sua polemica contro l’altrove, identificato esemplarmente nella volgare California. Che, diceva lui, ha al suo aivo un unico punto di forza: che si può svoltare a destra con il rosso. In California, nel 1991, Woody Allen aveva anche girato come aore un film di Paul Mazursky, Storie di amori e infedeltà (Scenes from a Mall). E no, non gli era piaciuto. E no, non è piaciuto. Solo molti anni dopo il poeta di Brooklyn avrebbe scoperto che, oltre a New York City, esistevano anche altre cià che si potevano amare: la Londra di Match Point, la Parigi di Midnight in Paris, la Barcellona di Vicky, Cristina, Barcelona, e persino Oviedo, sempre nello stesso film, che non è affao bella, ma che Woody Allen è riuscito a trasfigurare grazie alle luci di Javier Aguirresarobe, ultimo di una serie di grandi direori della fotografia che hanno esaltato le sue cià, da Sven Nykvist a Gordon Willis, da Carlo Di Palma a Harry Savides. Possiamo aggiungere che per gratitudine (i turisti cinefili fioccano, fiduciosi in Woody Allen e nelle sue scelte) la cià di Oviedo ha dedicato al nostro eroe una statua a grandezza naturale. Per ultima, a questa lista di amori urbani si è aggiunta recentemente anche Roma, dacché Woody Allen ha girato Bop Decameron, il suo nuovo film, in un contesto di eccitazione che ricorda i tempi della vecchia Hollywood sul Tevere.
TRE CAPITALI
Ma da quando ha compiuto cinquant’anni, e cioè da un quarto di secolo, Woody Allen si è innamorato in maniera permanente di Venezia. «Sono venuto a Venezia per la prima volta a cinquant’anni e prima di arrivare, mentre stavo sull’aereo, ero preso dalle angosce», racconterà in una molto citata intervista a proposito di questa sua prima volta. «Non mi piaceva molto l’idea di dover andare in giro con una gondola oppure su una barca. ando però mi sono trovato la prima volta a solcare la Laguna, il tempo melanconico, le emozioni del paesaggio, la gioia che irrazionale mi derivava dall’esserci, me l’hanno faa amare. So che è pazzesco, ma per qualche motivo che non so spiegare New York, Parigi e Venezia hanno per me un denominatore comune che me le fa sentire molto vicine. Io ho girato tuo il mondo… este tre cià, nel mio cuore, non hanno uguali». E deve essere vero se nel film che ha girato (anche) a Venezia, Tui dicono I love you – o per meglio dire nel terzo di film che ha girato a Venezia in quel film –, Venezia si divide lo spazio narrativo proprio con le altre due ciàfeticcio di Woody Allen. Va bene. Abbiamo incontrato il primo dei tre amori di cui parlavamo, Venezia stessa. E gli altri due? LA BELLA JULIA
Il secondo è l’amore cinematografico per Julia Roberts. Ma facciamo, come ormai spesso, un passo indietro. Woody Allen, in Tui dicono I love you (il titolo è quello di una canzone dei fratelli Marx in Horsefeathers, e cioè I fratelli Marx al college) è uno scriore americano che vive a Parigi, come sempre nevrotico e depresso. È stato appena mollato dalla sua ragazza, e torna a New York a farsi coccolare dalla ex moglie Goldie Hawn, dal di lei marito Alan Alda e dalla sua estesa e colorita famigliastra. E siccome Woody Allen per questo film ha scelto la strada del musical («Mentre scrivevo», ha raccontato a Stig Bjorkman nella sua lunga
intervista edita da Minimum Fax, «ogni tanto mi fermavo e pensavo, qua mi piacerebbe meerci una canzone», naturalmente cantata dai suoi interpreti; e così ha fao, e non l’ha deo agli aori in fase di preparazione, rivelando le sue intenzioni solo a contrai firmati), siccome così voleva, tui, in un modo o nell’altro, da Alan Alda ad Edward Norton, da Woody Allen stesso ai clienti e ai commessi di un intero negozio di Tiffany, chi più chi meno bene, Goldie Hawn meglio di tui, si ingegnano a cantare, componendo un inno all’amore, a Manhaan, e poi a Venezia, e infine a Parigi, con il sostegno delle canzoni «classiche» più belle, più celebri o più spiritose. E quindi Cuddle up a Lile Closer, My Baby Just Cares for me, I’m rough with Love, Making Whoopee, Enjoy Yourself (It’s Later than you ink), interpretata da una squadra di allegri e saggi fantasmi. In un trionfo della memoria e del piacere musicale. Per sfuggire all’eccesso di affei della sua espansiva famigliastra Joe/Woody parte con sua figlia, D.J. (Natasha Lyonne) alla volta di Venezia. È il primo viaggio del cineasta Woody Allen fuori da New York dopo Amore e guerra e Storie di amori e infedeltà. A Venezia Joe/Woody si installa al suo hotel preferito, il Grii. E dal balcone della sua stanza, che dà ovviamente sul Canal Grande illuminato dalla luna, intona (stentatamente ma con sentimento) I’m rough with Love, la canzone che Marilyn Monroe cantava in A qualcuno piace caldo quando era convinta di essere stata abbandonata da Tony Curtis. I’m rough with Love? Ho chiuso con l’amore? Ma figurarsi. Si dà il caso che subito dopo capita al nostro eroe di vedere la bella Von/Julia Roberts e di innamorarsi al- l’istante. AMO IL TINTORETTO
Amore numero due, dunque. Mentre la bella Von corre per calli e campielli, da campo Santo Stefano deserto alla Giudecca, spesso soo la pioggia, indifferente ai danni che i
masegni producono alle sue squisite ginocchia, Joe/Woody le corre leeralmente dietro, senza fiato ma pronto a utilizzare tue le informazioni che sua figlia D.J. ha registrato per vie poco corree ma assai divertenti (un buco nel muro di uno studio di psicoanalista) sulla bella e inquieta signora, e che lui intende usare come grimaldelli per sedurla. Informazioni tra cui (amore numero tre) la di lei passione per il Tintoreo. Ed ecco Joe trovarsi là, apparentemente per caso, soo i meravigliosi teleri della Scuola Grande di San Rocco, pronto a ripetere di fronte alla dea Julia Roberts, con la spontaneità di una macchinea, ma con un notevole effeo seduivo, la piccola lezione di storia dell’arte appena appresa dalla sua guida di Venezia – e via quindi con il Tintoreo, la sua pennellata, i suoi colori, mentre Von lo guarda incantata e stupefaa per l’evidente affinità eleiva. Una sequenza esemplare per comicità e ironia. Soprauo se messa a confronto con l’atmosfera seria e colta, l’incombente tragedia, il senso di morte annunciata della sequenza simile e parallela – e quasi comica, a leggerla alla luce di Woody Allen – del quasi coetaneo film di Iain Soley trao da Henry James, Le ali dell’amore. Pare ovvio che la Scuola Grande di San Rocco, il Tintoreo, le sue pennellate, i suoi colori, quelli che procurano i brividi a Woody Allen e a Julia Roberts ma anche a Henry James e alle sue signorine moriture, siano un perfeo Galeoo. Eppure. Sarà strano e scortese, sarà insensibile e irrispeoso. Ma bisogna pur dirlo. Nel confronto/scontro di questi due episodi veneziani, fra la tragedia e l’ironia, fra il dramma e la risata, fra la povera ragazza ricca e la bella irrequieta Von, è Woody Allen a vincere di molte lunghezze.
17.
James, Henry James
Nel quale si racconta come Henry James amasse molto Venezia, di cui ha fao lo sfondo e la coprotagonista di alcuni suoi bellissimi romanzi. E come, da parte sua, il cinema si sia ispirato più e più volte alle opere veneziane (e non) di James, portandole anche in altri luoghi del mondo. Henry James andava al cinema? I suoi biografi non ce lo dicono specificamente, ma cominciano a emergere prove che il grande americano fosse incuriosito dal nuovo mezzo. Forse anche per via della sua amica Ariana Curtis, che, come lui racconta in una leera del 10 aprile 1912 a Jessie Allen, al cinema andava, povera Ariana, rimanendoci per ore, chiusa in una sala di Londra, per riuscire a vedere in mezzo a una folla il figlio, militare in India, nel film del Delhi-Durbar, girato in occasione della visita di re Giorgio V in India. anto a lui, Henry James, si è saputo recentemente che vide di certo il match di box e Fitzsimmons-Corbe Prize Fight in 1898, e qualche breve film sulla guerra dei Boeri… Il grande americano morì nel 1916, quando il cinema aveva solo vent’anni e stava lentamente ma stabilmente cominciando a far parte delle consuetudini e delle abitudini comuni della classe colta. Certamente James andava a teatro da speatore e da critico, e scriveva appassionatamente per la scena. Ma, ironia del destino di un grande leerato, con un amore non corrisposto. Se tuavia James non andava al cinema, come siamo autorizzati a pensare – e come ci suggeriscono le abitudini
registrate nelle vite che inventa per i suoi personaggi –, il cinema invece si è buato con entusiasmo, anche se un po’ tardi, a portare sullo schermo i romanzi di James. ASPERN VERSUS ASHTON
E come avrebbe potuto resistere, d’altra parte, al ricco tessuto narrativo del grande maestro, a storie e trame che sembravano create per essere raccontate sullo schermo? E come inaugurare in maniera più simbolica il corpus cinematografico di James se non con un film ambientato a Venezia, e Lost Moment, del 1947, che nasconde soo il titolo romantico quello più austero, asciuo e tecnico dell’originale leerario, e Aspern Papers, Il carteggio Aspern? Basti dire che in Italia, per soolineare ulteriormente le atmosfere jamesiane e romanzesche, il film fu intitolato Gli amanti di Venezia. Amanti? Venezia? e Lost Moment venne direo da un bravo aore di media fama alla sua unica esperienza di regia cinematografica, Martin Gabel (lo abbiamo visto per esempio nel ruolo dello psichiatra in Prima pagina di Billy Wilder). Ma venne girato totalmente in studio in una Venezia ricostruita a Hollywood. Vantaggi di una storia claustrofobica che è ambientata sì nella cià dei dogi, ma all’interno di un palazzo che va a pezzi e che incarna il senso di disfacimento di una cultura e di un luogo. La storia della novella di James (ispirata, si dice, a un reale episodio della vita di Shelley, che qualcuno aveva raccontato a James durante un suo soggiorno fiorentino) è nota: un giovane studioso vorrebbe entrare in possesso delle leere che il grande poeta Jeffrey Aspern (ribaezzato chissà perché, nel film di Gabel, Jeffrey Ashton) ha scrio ormai molti anni fa a Juliana Bordereau, la fascinosa signorina ora quasi centenaria, anzi, nel film, di centocinque anni, che vive in povertà, accudita dalla nipote Tina, chiusa nel suo fatiscente palazzo veneziano (nella versione hollywoodiana un po’ meno fatiscente e più sontuoso di quello descrio
nell’originale leerario). E per riuscirci è pronto a tuo, in primo luogo ad andare come pensionante presso le due donne. Ce la farà, l’ambizioso giovanoo? Come? E le leere esistono davvero? LIETO FINE CON INCENDIO
Sia il pubblico sia la critica accolsero e Lost Moment molto tiepidamente. Bosley Crowther sul «New York Times» definì il film «un thriller contaminato con una storia d’amore che Mr. James non si sarebbe mai sognato di immaginare» (e non contento soprannominò il film «e Lost Two Hours»). Altri annotarono che Susan Hayward, nel ruolo di Tina, la nipote di Miss Bordereau (convinta nel suo delirio isterico di essere Juliana giovane, e nella realtà romanzesca essendo colei che ha eliminato il poeta e lo ha seppellito nel sinistro giardino dove nulla cresce), era troppo bella, fiorente e nevrotica per coincidere con il personaggio della timida signorina raccontato da James. Agnes Moorehead, la grande arice di Welles, di Douglas Sirk, e del nostro Lauada (La tempesta), che interpretava Juliana con un trucco da similcentenaria, fu molto apprezzata. anto all’happy ending di questa versione della storia (happy ending relativo: un grande incendio incenerisce non solo le preziose leere ma tuo il palazzo, e Susan Hayward sopravvive al disastro per vivere pienamente il suo amore con Robert Cummings), non corrispondeva certo, si scrisse, alle malinconiche atmosfere di James. VENTI JAMES
Era il 1947 ed era solo l’inizio. Da Henry James di film ne furono trai più di venti – ma credo che i sacri testi del cinema ne dimentichino non pochi. Anche perché i grandi filmlexicon anglofoni ignorano, per ovvie ragioni, i contributi «allogloi». Per esempio il nostrano film TV direo da Sandro Sequi nel 1972 con Evi Maltagliati, Ileana Ghione e Nando Gazzolo. E sono rimossi dai siti ufficiali anche alcuni tentativi
spagnoli, interessanti se non altro perché hanno portato Il carteggio Aspern lontano da Venezia. Uno a Lisbona (Aspern, di Eduardo De Gregorio). L’altro, Los Papeles de Aspern, firmato da Jordi Cadena, a Minorca. Infine si registra un terzo e Aspern Papers, direo da Marina Hellmund, ambientato nella giungla venezuelana oggi. Per ragioni di economia produiva, certo. Ma anche per liberarsi dall’ingombrante mito di Venezia. E non è forse una versione moderna e garbatamente travestita del racconto di James anche ella sera dorata di Peter Cameron, ambientato in Uruguay, dove il solito giovane studioso cerca per la sua tesi di doorato i documenti segreti del Grande Scriore e si fa coinvolgere sentimentalmente dai suoi eredi? Non a caso, si direbbe, il romanzo di Cameron è diventato un film direo da James Ivory. Infai, come c’era da aspearsi, James Ivory – grande traduore di leeratura in cinema, già misuratosi con la leggenda di Venezia sin dal 1957, ai tempi del suo esordio con il documentario Venice: eme and Variations, e poi con tre film di ispirazione jamesiana, Gli Europei, nel 1979, I bostoniani (che a rigore dovrebbe essere Le bostoniane) nel 1984, e e Golden Bowl nel 2000, maltraato dalla critica perché, si sostiene, tradisce Henry James trasformandolo in Beautiful –, James Ivory, annunciando qualche tempo fa che intende girare Il carteggio Aspern, per prima cosa ha tenuto a proclamare che nel suo film non ci sarà piazza San Marco, quella che nel romanzo i personaggi chiamano sinteticamente «la Piazza», né il Canal Grande, ma la Venezia più segreta e sconosciuta. A PALAZZO CAPPELLO
Facile. Perché, per Il carteggio Aspern, basta restare nel palazzo di Juliana. La cui descrizione, nel romanzo, porta a identificarlo con il Palazzo Cappello in rio Marin, uno dei quaro palazzi Cappello di Venezia. Sono sufficienti, per la storia di Juliana, un interno in rovina e un giardino…
Ma torniamo a Henry James. Alla cui opera si è ispirato un piccolo gruppo di film importanti. L’ereditiera di William Wyler, del 1949, da Washington Square, con la «grande dame» Olivia de Havilland, che, avendo raggiunto la ragguardevole età di novantacinque anni il 1° luglio 2011, è considerata dal nostro James Ivory come la perfea Juliana Bordereau del suo Il carteggio Aspern ora in preparazione. Un altro James arrivato sullo schermo è Suspense o e Innocents di Jack Clayton, da Il giro di vite, perfeo esempio di horror della psiche. Un altro ancora Ritrao di signora di Jane Campion, dove la spontaneità e l’anticonvenzionalità naturale del personaggio Isabel Archer vengono riassunte un po’ impropriamente e disinvoltamente da Nicole Kidman che si annusa le scarpe… Ma, a giudizio di molti, e con qualche perplessità da parte della scrivente, il film più rappresentativo del rapporto tra James e la capitale lagunare sarebbe Le ali dell’amore, da e Wings of the Dove (Le ali della colomba), per la regia di Iain Soley: ancora una volta un caso di morte a Venezia, ma al femminile, e prematura. MORTE A VENEZIA
La storia di Le ali della colomba, il romanzo che James pubblicò all’alba del nuovo secolo, nel 1902, era un concentrato di indifferenza morale e di malinconia. Nel 1981 aveva tentato il francese Benoît Jacquot, che aveva realizzato una versione moderna del libro (titolo italiano, chissà perché, Storia di donne), con Dominique Sanda e Isabelle Huppert – nonostante le quali il film è stato rapidamente dimenticato. Nel molto britannico film di Iain Soley, del 1997, si torna alla tradizione jamesiana. Milly eale, interpretata dalla bella e languida Alison Ellio, è una ricchissima ereditiera destinata a morire presto – e lo sa. La sua amica del cuore, Kate (Helena Bonham Carter), è innamorata di un giornalista rampante, Merton (Linus Roache), che non può sposare perché sono tui e due poveri in canna. Ma, su consiglio della mondanissima e perfida zia Maude (Charloe Rampling),
cerca di spingere Milly tra le braccia di Merton, così che i due si sposino, in aesa della morte certa della poverina. Dopo di che… I due in effei si sposano (nel film). Tuo procede inarrestabile verso la morte della povera ereditiera. E, immediatamente dopo, verso qualche sussulto di coscienza – ma non sufficiente a farci perdonare i due perfidi amanti. CAMERA CON SPORCO
Anche l’ambientazione e le atmosfere di Le ali della colomba nascevano dal grande amore di James per Venezia. Un amore cominciato nel 1869 e nel 1872 con brevi soggiorni veneziani, e cresciuto nel 1881 quando si era installato per un periodo più lungo alla Pensione Wildner di Riva degli Schiavoni, in «una camera sporca con una bella vista» sull’isola di San Giorgio. È qui che James, distrao dal chiacchiericcio della riva su cui davano le sue finestre, tentò invano di completare Ritrao di signora, oltre a un saggio su Venezia poi pubblicato in Italian Hours. Non lontano era il suo dileo Caè Florian. E le sere James le trascorreva spesso da Mrs Katherine Bronson, una signora di New York e ospite generosa che riceveva a Casa Alvisi, un edificio ora incorporato nel blocco dell’Hotel Europa e Regina, giusto in faccia alla chiesa della Salute. ando ritornò a Venezia nel 1887, James fu ancora ospite di Mrs Bronson a Casa Alvisi, e dal giugno si installò dai Curtis, a Palazzo Barbaro, facendo il pieno di sensazioni veneziane. Tanto che a Firenze, in una villa di Bellosguardo dove si trasferì perché era malato, tra l’aprile e il maggio 1887 diede il via a Il carteggio Aspern. Ma i conti con Venezia, filo rosso della memoria e della fantasia jamesiane, non sono chiusi e la cià torna ad apparire anche in un lungo racconto di quegli anni, Il discepolo (1891).
James ritornerà a Venezia, a Palazzo Barbaro sul Canal Grande, nel 1890, ospite di Daniel Sargent Curtis e di sua moglie Ariana, e, nel luglio 1892, di Isabella Gardner, che aveva affiato il palazzo dai Curtis e che, con scelta decisamente anticonvenzionale, gli sistemò un leo in fondo alla stupenda biblioteca del palazzo. Ed è Palazzo Barbaro lo stesso edificio cadente e fascinoso che, nel 1902, all’alba del nuovo secolo, diventerà Palazzo Leporelli, dove vive (e muore) Milly eale in Le ali della colomba. POVERA CONSTANCE
Ma torniamo al 1894. James è di nuovo a Venezia, questa volta a causa di una tragedia. Constance Fenimore Woolson, nipote del celebre autore di L’ultimo dei Mohicani James Fenimore Cooper, amica molto amata da James, che con lei aveva anche brevemente vissuto a Firenze, cade dalla finestra di Palazzo Semitecolo, dove abitava temporaneamente, finisce sul selciato e muore. Incidente? Suicidio? James, accorso a Venezia da Londra, prima «sperò» in un incidente, poi, orripilato, si convinse della seconda ipotesi. E, immerso in questa atmosfera luuosa, colpito dalla morte di questa giovane donna, qualche mese dopo annoterà l’idea da cui nasce e si sviluppa Le ali della colomba: il dramma di una fine precoce, di una giovinezza condannata, di un illusorio sentimento tradito. Da cui il film del 1997 che, fedele al deato di James, è stato girato proprio a Palazzo Barbaro (ribaezzato, come nel romanzo, Palazzo Leporelli), e che il regista Iain Soley arricchisce di ulteriori tocchi veneziani. Come la visita, che contribuisce a creare il tono «alto» del film, di Milly e Merton alla Scuola di San Rocco, uno dei luoghi più amati dallo scriore (e astutamente usato da Woody Allen per tu’altri fini). Ma, con buona pace del Tintoreo e delle nobili architeure gotiche di Palazzo Barbaro, l’accoglienza al film fu mista. C’è chi fu tuo una lode. Chi sentì profumo di Kitsch leerario. Chi addiriura tornò a citare Beautiful: nel senso che sappiamo.
VENEZIA SENZA VENEZIA
E Le ali della colomba senza Venezia? Ci hanno provato. O almeno ci ha provato, come per Il carteggio Aspern, una regista canadese, Meg Richman, con un film girato in Australia, ambientato a Seale e adaato alla morale contemporanea. Venezia? Troppo costosa e troppo complicata per un set cinematografico. James o non James.
18.
In fuga a Venezia
Dove si racconta come nel 2000 sia nato un piccolo film, opera di un giovane regista italo-svizzero, che esalta la grazia e la simpatia della Venezia più popolare e meno conosciuta. E che ha fao, con questa immagine accaivante, il giro del mondo. Al centro e sullo sfondo di questa storia e di un piccolo film che è diventato un successo internazionale ci sono un campiello e una chiesa meravigliosa: una sorta di scrigno per gioielli lavorato di pietre e di marmi che offre il suo fianco delicatamente colorato a un delizioso piccolo campo. Un miracolo di grazia architeonica costruito alla fine del quindicesimo secolo da Pietro Lombardo su un disegno iniziale che pare essere opera di Mauro Codussi. Uno scrigno per gioielli che è a sua volta un gioiello, leggero e prezioso, lavorato di marmi policromi con lo stile e l’armonia che solo la Venezia del Rinascimento riusciva a inventare. esto miracolo si chiama, non senza una logica, Santa Maria dei Miracoli, contiene la solita quantità sorprendente di grande arte (tra cui una Madonna col Bambino sull’altar maggiore), e si alza, tra un canale e l’altro, tra il campiello e un vecchio convento, ai margini del sestiere di Castello, appena fuori da Cannaregio, su uno dei tanti percorsi che portano a quell’incredibile (per bellezza) ospedale che è San Giovanni e Paolo. È il luogo, in ogni senso – per ricchezza di tradizione, popolarità, allegria –, diametralmente opposto all’idea di non luogo, aorno a cui si muove e vive Pane e tulipani di Silvio Soldini, un film che ha generato un nuovo modo, quotidiano
e popolare, di guardare a Venezia, alle sue zone più povere e meno turistiche, da Santa Marta a Castello, dal campo dei Miracoli agli isoloi lagunari. Un film che ha avuto un grande successo internazionale. Un caso. Come è andata? ABBANDONATA IN UN NON LUOGO
Facciamo di nuovo un passo indietro. E non solo perché Pane e tulipani è un film del 2000, e quindi indietro dobbiamo andare per forza, ma perché la storia di questa realizzazione merita di essere raccontata. Dall’inizio. Dall’idea nata da un fao di cronaca. Di mogli abbandonate – tradite, ingannate, ferite a morte, lasciate in povertà, circondate di bambini piangenti, dimenticate tra i debiti e le difficoltà –, di Arianne sul lido, è piena la storia e la storia del cinema. Ma di mogli abbandonate sulla piazzola di un’autostrada ne conosciamo due. ella del fao di cronaca a cui si è ispirato Silvio Soldini per Pane e tulipani, e la sua Licia Magliea, nel film Rosalba Barlea. Che all’inizio del film, per colpa di un orecchino, probabilmente bruo, caduto nello scarico del water di un autogrill dalle parti di Paestum, esce in ritardo sul piazzale: e trova che il pullman che trasporta in gita organizzata suo marito e i suoi figli è partito senza di lei. Abbandonata? Magari. Dimenticata. Sapremo poi che Rosalba, dopo aver diligentemente ristabilito via telefonino il contao con la famiglia e col marito, che la colpevolizza di tuo, chiede un passaggio per cercare di raggiungere casa sua, a Pescara. Che è tentata da una deviazione verso Venezia, dove non è mai stata. Che a Venezia trova la gentile accoglienza e poi l’ospitalità di Bruno Ganz, sullo schermo Fernando Girasole, cameriere di origine islandese, superdepresso con impulsi suicidi. Che successivamente trova anche un lavoro come fioraia e l’amicizia di una massaggiatrice New Age – o qualcosa di più (Marina Massironi). Che sarà ingiuriata, derisa e poi ricercata con ogni mezzo (leggasi, un improvvisato detective ciccione
ex idraulico, il giovanissimo Giuseppe Baiston) dal marito inferocito. Che cerca di sfuggire alla «caura» per via, anche, del sentimento che prova per il bizzarro cameriere che parla in versi con toni ariosteschi, e per la solidarietà del mondo di bohème in cui vive. Che tenta di tornare a casa ma non ce la fa – anche perché il malinconico Fernando va a cercarla, a nome di tuo il sestiere. E che il mondo veneziano in cui è piovuta per caso diventa la sua nuova patria. UNA FIABA VENEZIANA
Non c’è da stupirsi. Come ha scrio un brillante critico americano, Roger Ebert, «Venezia è stata messa sulla terra come una chance, per le donne di una certa età non abbastanza apprezzate, di fare un’ultima puntata ai dadi del romanticismo». E se pensate alla Katharine Hepburn di Tempo d’estate avete colto nel segno. In realtà Silvio Soldini, con la sua complice sceneggiatrice Doriana Leondeff, ha scrio una fiaba, punto e basta. Una fiaba liberatoria, gentile, provocatrice, senza sentimentalismi (e con un bel tocco di ironia). Ma una fiaba. Le cose nella realtà non vanno così. Le casalinghe madri di famiglia vengono forse dimenticate agli autogrill (anche i bambini vengono purtroppo dimenticati nei parcheggi arroventati dal sole), ma non trovano il loro nuovo «io» a Venezia. Ed è un peccato, perché la Venezia di Pane e tulipani è nuova e unica. E in un certo senso nell’inventare il suo film e questa comunità accogliente e amichevole, calda e generosa, Silvio Soldini ha messo sulla carta del mondo (visto il successo che il film ha avuto ovunque) una Shangri La della simpatia e della gentilezza umana. CAMBIO DI REGISTRO
ando nel 1999 Silvio Soldini, svizzero di Milano, faccia spigolosa e grande capigliatura, fratello del libero navigatore degli oceani, già studente di cinema alla New York University,
fu travolto dalla voglia di commedia, decise di fare il suo film, il quarto, dopo L’aria serena dell’Ovest, Un’anima divisa in due, Le acrobate, tuo diverso dagli altri. Ma all’inizio Venezia non c’entrava – o solo marginalmente. Alla ricerca di un mondo diverso, che fosse estraneo alla dimenticata Rosalba, un mondo di cui la casalinga di Pescara non sospeasse nemmeno l’esistenza, la prima idea che venne a Soldini fu di girare a Marghera. Ma Marghera si rivelò molto diversa da come la pensavano il regista e la sua sceneggiatrice. Poi entrò in campo Mestre. Altra pista falsa. Solo dopo un giro di una seimana nelle zone segrete di Venezia, condoo per mano da uno scriore veneziano, Roberto Ferrucci, che conosceva dai tempi in cui collaboravano insieme a «Linea d’ombra» e condividevano l’amicizia di Goffredo Fofi, Silvio Soldini scoprì la sua Venezia. E Pane e tulipani prese forma: il passaggio di Soldini dal registro serio, dal cinema in presa direa con la realtà, alla voglia di leggerezza, al sorriso, alla commedia, al gioco. UN MOMENTO FELICE
I soldi, miracolosamente, c’erano. Erano i tempi felici, alla fine dello scorso millennio, in cui il Luce era reo da Angelo Guglielmi e le produzioni Rai da Beppe Cereda. L’idea era piaciuta immediatamente. Anche se qualche perplessità l’aveva suscitata la scelta di Licia Magliea e Bruno Ganz, grandi aori, sì, ma usciti da un mondo di cinema per l’intellighenzia… Un altro miracolo fu che Ganz, colto tra un film di Anghelopoulos, L’eternità e un giorno, e un Faust di Goethe per la TV, avesse acceato di lavorare per un giovane regista italiano, e per di più nel registro a lui ignoto della commedia. Ma Soldini ci aveva scommesso. E ha vinto. Licia Magliea ha tirato fuori sino allora insospeati doni da «comica». Bruno Ganz, così severo, così asciuo, si è prestato a imparare a memoria i suoi dialoghi italiani in puro stile ariostesco, come se memorizzasse una poesia. La sua
scenografa Paola Bizzarri ha costruito nel campiello dei Miracoli il piccolo negozio di fiori dove Rosalba trova lavoro presso Felice Andreasi. Non lontano da Rialto c’è l’angusto appartamento dove vive (e dove tenta goffamente di morire) Fernando, unico islandese della storia del cinema italiano (è islandese nella sceneggiatura: nella vita è metà italiano metà svizzero). La barca/albergo dove si sistema il povero Baiston era araccata a Castello, ed è stata arricchita dalla fantasia della scenografa fino a diventare quel delizioso, bizzarro hotel-boat. Mentre, contro tue le abitudini del set, l’intera troupe condivideva un residence appena risistemato, sempre a Castello, dividendo acquisti di veovaglie, cene e forse, ci auguriamo, qualcos’altro – ma quello che conta è che Baiston coerentemente alla sua stazza si rivelò un cuoco sublime. GLI OCCHIALI DELLA MAGLIETTA
Nove seimane di lavorazione a Venezia. Difficile? Sì, difficile. I materiali vanno trasportati con le barche, che non arrivano dappertuo. La gente della troupe deve andare a piedi. Tuo è più lento. Dalla sua Soldini era pronto a cambiare ogni cosa all’ultimo minuto per una buona idea o una bella bauta inventata collegialmente sul set. Ma ce l’hanno faa. Il film è diventato un caso. Veneziano, bizzarro, leggero, gentile. Una sola scena non è autoctona, e stranamente. La balera dove canta Don Backy, ricostruita a Roma. Irritante. Non si trovava il posto giusto nella zona lagunare. E così si è messo a repentaglio il record di venezianità assoluta del film (ma c’era sempe Chi lavora è perduto da sconfiggere…). Anche se un record resta: la Venezia «bella», quella monumentale, quella che si dispiega davanti agli occhi dei turisti, non compare mai. O meglio, solo una volta. Piazza San Marco, riflessa negli occhiali della stupefaa Magliea.
19.
Dieci gelidi inverni
Nel quale si apprende come un’«opera prima» veneziana, e prima coproduzione tra l’Italia e la Russia, direa da un giovane filosofo prestato al cinema, racconti bene la Venezia studentesca, quella dei giovani, quella squarinata, quella lontana dai palazzi. Che cos’è un campus?, ci chiedevamo fino a non molti anni fa quando sentivamo usare quest’espressione per noi inconsueta. Noi del vecchio mondo italiano avevamo l’università, i cortili dei nostri antichi, nobili e sovente irrazionali edifici universitari, le aule spesso scalcagnate, la grandiosità dell’Aula Magna. Se eri inglese potevi parlare invece del tuo college, motivo di fiera appartenenza culturale e di classe (in ambedue le direzioni, in alto e in basso). Ma il campus? Il dizionario (e American Heritage Dic.tion.ar.y of the English Language) ci dice che campus («pronunciare kam’pas») sta per i terreni di una scuola, di un college, di un’università o (sorpresa) di un ospedale. A volte estesi, immensi. Lo spazio su cui si allarga e si estende l’atmosfera e la vita dell’università (o, appunto, dell’ospedale). Paradossalmente si può dire che una vasta porzione di Venezia è in realtà un campus non ufficiale, non istituzionalmente definito e delimitato come tale. Che esiste un campus non dichiarato e contraddistinto soprauo dalla giovane età dei suoi abitanti – e cioè di quella ragguardevole popolazione di oltre ventiseemilaseicento persone che costituisce una Venezia a parte: non la Venezia della gente
che lavora, non quella dei ricchi pendolari che hanno nella cià lagunare la loro seconda casa, non quella dei turisti di un giorno o due. Ma quella della sua popolazione studentesca. Gli studenti di Ca’ Foscari, dell’Istituto universitario di architeura di Venezia, meglio noto come IUAV, dell’Accademia di belle arti, del Conservatorio… Dal punto di vista topografico questo campus ideale coincide (con l’eccezione del Conservatorio) con la riva destra del Canal Grande, «sull’angolo del rivo […] alla svolta di quella che il Byron disse la più bella via del mondo» (così scriveva Federico Stefani, a lungo direore dell’Archivio di Stato di Venezia), là dove si alzano la mole elegante e rosata e le molte finestre di Ca’ Foscari, la grande università veneziana. Coincide con la zona di campo Santa Margherita, lo spazio che naturalmente raccoglie e accoglie la popolazione studentesca la sera, in un trafficato, allegro e rumoroso mondo giovanile – e che nel corso degli anni ha accolto svariate ribellioni e secessioni, cinematografiche e non. Coincide con la zona aorno ai Tolentini, punto di raccordo tra la terraferma e la laguna, dove è una delle sedi dello IUAV, la Facoltà di architeura. E con i Magazzini Ligabue, altra sede di cultura architeonica, che stendono orgogliosamente la loro ala di legno e di ferro firmata da Massimo Scolari verso la Giudecca. E, non lontano, con il vecchio Convento delle Terese, dove si insegnano le tecniche del design e delle arti in un corso di laurea fondato poco più di dieci anni fa e molto frequentato. BOY MEETS GIRL
Un grande campus non deo, dove gli studenti si muovono nella meravigliosa libertà di una cià pedonale, dove all’apparenza (molto all’apparenza) tui sono uguali, dove tui vivono un’esperienza impossibile altrove, un mondo concentrato e unico fao di vecchie pietre e di acque (più o meno immobili).
È in questo mondo fuori dal mondo che tre anni fa Valerio Mieli, un giovane filosofo metà francese metà italiano prestato al cinema, ha pensato di ambientare una storia studentesca, un «boy meets girl», sì, ma «un ragazzo che incontra una ragazza» tra mille esitazioni, ripensamenti, pudori, difficoltà, sullo sfondo di Venezia e della sua popolazione studentesca, nel freddo dell’inverno. La stagione che, racconta lui, ha segnato la sua prima, precoce conoscenza di Venezia, la sua esperienza di una cià molto amata da lui romano, che ragazzino ne ha conosciuto, in viaggio con suo padre, i lati meno speacolari, più oscuri, più periferici: bàcari, isole lagunari, barene, osterie, aree periferiche, vita studentesca. QUANDO BONIFACIO ERA IN CRISI
Il Bonifacio di Chi lavora è perduto di Tinto Brass, in tempi di «magnifiche sorti e progressive» quali erano gli anni del boom, in un momento di magica crescita del paese, era in crisi perché aveva appena finito gli studi e doveva prendere una decisione circa il suo futuro – conformarsi, diventare regolare, obbedire ai consigli familiari, ribellarsi, trascinarsi nell’aesa quotidiana? I ragazzi di Dieci inverni, e cioè Isabella Ragonese, che è Camilla, montanara, matricola di russo a Ca’ Foscari, e Michele Riondino, Silvestro, iscrio a biologia, o forse a scienze ambientali (poco importa), timido (e appassionato di lumache, forse una metafora per la lentezza con cui prende decisioni), appartengono alla generazione di cui, da dieci e più anni, diciamo che non ha futuro, sicurezze, garanzie. E che tuavia, nel film di Valerio Mieli, combae ogni giorno per trovare una soluzione alla sua vita. Camilla e Silvestro si incontrano su un vaporeo molto vuoto che percorre il canale di Cannaregio direo a San Pietro di Castello. Dormono (senza innamorarsi) soo lo stesso teo nella gelida casina che, lei grata e felice della buona sorte, ha affiato a ridosso delle mura dell’Arsenale. Si
perdono tra Venezia e Mosca, dove Camilla va a perfezionare i suoi studi di russo e i rapporti con gli uomini. Si sfiorano e si ritrovano inutilmente per dieci anni senza capire che in qualche modo (in realtà, un modo molto carino) si amano. Be’, sì, alla fine di questo percorso forzato nell’incertezza dei sentimenti ce la fanno. E noi speatori, che crediamo di saperla più lunga di loro sulla realtà dei loro stati d’animo, visto che il regista usa il punto di vista dell’osservatore onnisciente, noi speatori quasi vorremmo picchiarli per le occasioni che perdono, in questi dieci anni, nel tourbillon di amori e amorei che li avvicinano e separano, come se li accompagnasse in soofondo, ma non ne ascoltassero la sapiente lezione, Le tourbillon de la vie, la immortale canzone cantata da Jeanne Moreau in Jules et Jim: «On s’est connus, on s’est reconnus, on s’est perdus de vue, on s’est r’perdus d’vue, on s’est retrouvés, on s’est réchauffés, puis on s’est séparés». Ma anche «ainsi nous deux on est repartis dans le tourbillon de la vie»… DA VENEZIA A ROMA
E l’università, e il campus? Li si vede di sbieco, araverso gli amici, le feste, gli incontri casuali, i brandelli di vita giovane che Mieli ricostruisce con grazia e conoscenza dei fai. Silvestro a un certo punto le sue lumache se le mangia (taglio con il passato? provocazione?). Lei si laurea a pieni voti – ma guarda caso, per una delle tante bizzarrie dei budget cinematografici, la cerimonia si svolge a Villa Mirafiori, a Roma, una bella sede universitaria romana che finge di essere la prestigiosa e grandiosa Ca’ Foscari. Finiranno per fortuna «tous les deux enlacés», intrecciati in un abbraccio nella stessa gelida casina dell’Arsenale, passata di mano in mano, un po’ migliorata nel corso dei dieci inverni e delle altreante primavere, estati e autunni. Dunque? O mutos deloi, la storia dimostra che non bisogna avere frea, che i sentimenti si costruiscono pazientemente. E che c’è tua un’altra Venezia, vuota e
semplice e molto bella, accanto a quella del turismo ricco e del turismo povero, tua da esplorare. La casea, che è stata scoperta per caso, passando da quelle parti in barca, e che era lì, abbandonata, aggrappata alle mura dell’Arsenale, e che è stata gentilmente concessa dalla Biennale. Le Gaggiandre. Una spiaggia di Sant’Erasmo. Il Gheo Nuovo (lo stesso campo di Senso, naturalmente). L’ospedale, con il trionfo rinascimentale della sua architeura. Il campo di San Giacomo dall’Orio. Sono alcune delle tappe di un percorso pensato per disegnare una Venezia diversa, marginale, ragazzesca, studentesca. Il grande campus. C’è una sola veduta «turistica» nel film di Valerio Mieli. Una piazza San Marco nourna e gelida (il film è stato girato a gennaio), dove, al tavolino di un caè, Camilla è seduta accanto all’uomo – un regista russo di caivo caraere – con cui, in un suo lungo soggiorno moscovita, ha avuto una storia. Una storia che è finita, che è sul finire. La veduta è turistica perché l’uomo è stendhalianamente stravolto, come ogni turista, dalla bellezza irreale del posto. Ma, per un colpo di pura serendipity (ovverosia per merito della «facoltà di fare scoperte fortunate per caso»), comincia a salire l’acqua, e si fa alta, molto alta. E la visione turistica di questa Venezia nourna diventa surreale.
20.
Susan S. e l’acqua alta
Dove, infrangendo una regola autoimposta di questo libro, e cioè l’ordine cronologico delle storie, parliamo di un film di trent’anni fa, firmato da un illustre dileante del cinema. Un concentrato di poetica (e di retorica) veneziana riemerso dal passato. Il punto di partenza si trova in Io, eccetera, una raccolta più e più volte ristampata di racconti, che sembrano quasi dei saggi, di Susan Sontag. Il nostro racconto è l’ultimo di oo (il primo parla, curiosamente per il 1963, anno della pubblicazione di Io, eccetera, quando la Cina non era vicina, del progeo di un viaggio in Cina). Il racconto si intitola Giro turistico senza guida e traa anch’esso di un viaggio. Un viaggio che nella pagina scria, si direbbe, ha portato l’autrice, o l’io narrante, in qualche regione della Francia (lo deduciamo: tra i souvenir c’è una pepiera a forma di Tour Eiffel, al bar si vedono marinai dicioenni con il pompon rosso sul berreo). Un viaggio che è già entrato nella memoria e nel mito di chi lo racconta. «Ho fao un viaggio per vedere cose meravigliose. Un cambiamento nello scenario. Un cambiamento nel cuore. E sai una cosa?» «Cosa?» «Sono ancora là». A parlare è, ovviamente, Susan Sontag. E lo stupore felice che prova nel dire che le cose, in quel pezzo di Francia, sono ancora là, suona strano. Dopo tuo la Francia del 1963 non registrava grandi mutamenti fisici. Mentre lo stupore che le cose meravigliose siano ancora là si aaglia alla cià che tuo il mondo guarda con preoccupazione perché
«sprofonda». La cià dove, vent’anni dopo l’uscita di Io, eccetera, Susan Sontag prima si farà intervistare da Woody Allen per dire la sua circa il caso Zelig, poi girerà un film di poco più di un’ora, all’altezza, per stile ermetico e ambizioni poetiche, del suo racconto. Susan Sontag oltre a essere Susan Sontag – e quindi bellissima, travolgente, forte, brillante, autrice di testi considerati quasi sacri dagli aspiranti intelleuali del secondo Novecento, scririce di romanzi fortunati, di raccolte di saggi, di commedie, superpremiata, corteggiata, felicemente e dichiaratamente omosessuale ma anche madre, allegramente seducente per uomini e donne – era un’aspirante cineasta. E il cinema l’ha fao, anche se il suo amore per il medesimo non ha prodoo i frui che ci si poteva augurare. A partire dal 1969, Susan Sontag girò (in Svezia) Dueo per cannibali, poi Broder Carl, quindi Promised Land. Il successo non rispose – ammesso che la Sontag fosse in cerca del successo e non di una nuova esperienza. E per finire, nel 1983, decise di trasformare il suo racconto di Io, eccetera adaandolo alla amata Venezia in un film prodoo da una cooperativa molto engagée, la Lunga Giata. Che, pronuba la Rai di Paolo Valmarana, oltre al suo film, Unguided Tour, noto anche come Leer from Venice, ne produsse altri tre: Effeo Puglia, firmato da Edith Bruck. Il dialogo di Roma, un percorso araverso la via Appia, opera di Marguerite Duras. E Fermata Etna, un film realizzato da Klaus Gruber. A VENEZIA SI CAMMINA
Unguided Tour, o Leer from Venice, o Giro turistico senza guida, fu girato nel gelido febbraio del 1983 in una Venezia che non poteva essere più fredda, più piovosa, più respingente. Proprio quello che cercava e voleva Susan Sontag per la sua «ode alla decrepitezza», come il film era stato sintetizzato ad uso della troupe, per il suo poema alla «capitale della malinconia». Trama, nessuna. I due interpreti erano Claudio Cassinelli (lo conoscevo bene, era mio marito)
e Lucinda Childs, ballerina, coreografa, bella, soile, innamorata in carica di Susan Sontag. I due poverei camminavano (pare che a Venezia e nei film su Venezia non si faccia altro), e si dicevano cose molto eleganti e molto misteriose. Misteriose anche per gli amici della troupe, che era ridoa all’osso, ma aveva il grande atout di un bravissimo direore della fotografia, il ticinese Renato Berta, deo Bertà, che aveva lavorato con Tanner, con Gorea, con Daniel Schmid, e che lavorerà poi con Resnais, con Malle, con de Oliveira. Un bravo ragazzo, Berta, che munito di una cinepresa piccolissima, una Aaton, percorreva Venezia agli ordini di Susan soo la pioggia baente senza mai lamentarsi. In effei la Venezia che Berta ritrae è tanto autentica quanto poetica. E il film registra qualche piccolo miracolo: come una speacolare, inaesa acqua alta, che comincia a filtrare dai tombini e a poco a poco abbraccia tuo. O come la monnezza veneziana, già allora, trent’anni fa, onnipresente, ma all’epoca più artisticamente disposta. Tuo vero, tuo documentario. Eppure la cià, testimonia una collaboratrice che allora era molto giovane e molto silenziosa e adesso sfida la forza del passato con la sua franchezza, «la cià veniva sempre messa in posa». Si beccheano per dieci minuti di una bella ma interminabile sequenza i piccioni di piazza San Marco. I leoni dell’evangelista Marco ruggiscono silenziosamente in un bellissimo montaggio di faccioni felini antropomorfi. E, dopo alcune baute ad alto tenore poetico pronunciate dalla bella voce off di Anna Nogara (Venezia come «capitale di un reame immaginario»), c’è finalmente una frase, dea fuori campo da Claudio Cassinelli, che sintetizza in maniera comprensibile il senso poetico del film: «C’era un mio carissimo amico, un cineasta argentino in esilio, fuggito per salvare la pelle – perché era anche giornalista e hanno fao fuori centinaia di giornalisti, là. Sto parlando con questo amico che vive a Parigi ormai da see anni e gli ho chiesto, puoi immaginare di tornare a vivere in Argentina, certo,
sempre supponendo che il governo cambi? Be’, mi rispose, certamente. Mi piacerebbe tornarci, anche spesso. Ma viverci. E poi Buenos Aires è troppo lontana da… e tui e due insieme esclamammo: “Venezia”». TRISTI AMANTI
Non sono allegri, gli amanti (o coniugi?) Cassinelli/Childs in Unguided Tour. E non faccio un dispeo a nessuno se rivelo che il potere taumaturgico del viaggio a Venezia, le noi all’Hotel Belsito, la romantica danza che intrecciano in un salone di un grande albergo – Lucinda Childs elegantissima nei gesti e nei movimenti (dopo tuo è una ballerina di classe), Cassinelli più impacciato per la stranezza della situazione – con loro non funziona. Ripartiranno tristissimi. Ma (con noi e con l’accompagnamento di un medley di voci e di suoni veneziani, di clic di macchine fotografiche, di telefoni che trillano, di portieri d’albergo che rispondono annoiati ai clienti prossimi venturi, di acqua che sciaborda, di piccioni che tubano, di sirene nella nebbia della Giudecca) avranno visto sessantun luoghi e situazioni veneziani. Luoghi e situazioni di cui forniamo la lista, essendo riusciti fortunosamente a entrare in possesso della scalea su cui all’epoca ha lavorato Susan Sontag. Fiduciosi che questo perfeo elenco di elegante retorica veneziana (si può parlare di retorica di fronte ai fai fisici? Ai palazzi? Ai muri scrostati? Ai leoni di pietra? Ai piccioni grassissimi? Alle brìcole mangiate dalla salsedine? Ai masegni? Alle scoasse? Alle facciate palladiane? Alle navi da crociera che incrociano nel canale della Giudecca?), questo valzer nell’ovvietà del mistero veneziano, sarà utile ai cineasti che, a dispeo degli infiniti film girati a Venezia, non vorranno certo rinunciare a sperimentare il loro unico, speciale modo di guardare alla cià e alla sua laguna, e saranno felici di evitare le trappole del déjà vu. E che quindi, da questa lista, trarranno un incentivo a trovare, a Venezia, cose nuove.
SCALETTA
- Leera da Venezia
1. EG - EST. AEROPORTO pista – tecnico)
MARCO POLO
– (aerei che araversano
2. ET - EST. LAGUNA – (immagini dal motoscafo dall’aeroporto a Venezia, canali, scia, San Michele) 3. EG - EST. CANAL GRANDE (vaporeo che risale canale) 4. EG - EST. CANAL GRANDE (turisti sul vaporeo scaano foto, filmano sul ponte Rialto) 5. EG - PONTE RIALTO (turisti) 6. EG - PIAZZA S. MARCO (piccioni che camminano, volano via) 7. EG - CANALI PIAZZA S. MARCO (canali – Rifiuti) 8. EG - PESCHERIA (1U e 1D) 9. IG - BASILICA S. MARCO (pavimento mosaico coi piedi – 1 inq. dall’alto) 10. ES - STRADE VUOTE (Rio Tera’ Garibaldi) 11. PASSAGGI (operai fabbriche, cinema porno, massaie, camerieri, monumento alle viime) 12. EG/N - RIVA azzurra TV)
DEI SETTE MARTIRI
13. EG - RIVA DEGLI bancarelle souvenirs)
SCHIAVONI
(riva, case, finestre con luce (bancarellaro si sistema –
14. EG - PIAZZA S. MARCO (c/c sc. 8 – angolo deserto – piccioni in picchiata) 15. EG - EST. GIARDINI (Uomo e Donna camminano) 16. EG - EST. HOTEL BELSITO (Uomo) 17. EG - PONTE ACCADEMIA (Donna compra fiori) 18. EG - EST. HOTEL BELSITO (Uomo e Donna) 19. EG - CALLI (impalcature, chiese, facciate sgretolate, laguna deserta, acque) 19. A - CREPE
20. EN - CALLE IMBARCADERO (calle e imbarcadero deserti) 21. EG - STRADE (calli deserte alternate alle Mercerie, strada affollata) 22. EG - INTERVISTA IMMAGINARIA (Uomo in P.P.) 23. EG - S. Stravinsky)
MICHELE
(tot. Cimitero – tombe Diaghilev e
24. EG - CAMPO DEL GHETTO NOVO (campo vuoto, sinagoga, ospizio vecchi, finestra monumento, filo spinato, placca in bronzo) 25. EG - LAGUNA (angolazioni diverse, Chioggia?) 26. EG - EST. GIARDINI (Uomo e Donna si siedono) 27. EG - EST. PONTE (Donna di profilo – bauta) 28. EG - EST. TERRAZZA OTTAVIO (tei etc.) 29. EG - PASSAGGI (de. di mura, statue, finestre – ppp. Gente che guarda – gente alle finestre) 30. PASSAGGI (impalcature, segni di inquinamento) 31. EG - CHIESA S. SEBASTIANO (carr. lungo corridoio, su per le scale, fino a affreschi. Tot. Uomo e Donna parlano, deagli) 32. EG - EST. scendono)
IMBARCADERO
(gente che scende. Uomo e Donna
33. EG - CAFFÈ ZATTERE (Uomo e Donna seduti al bar – chiosco accanto al caè) 34. EG - STRADE (vetrine, banners soo Ponte Accademia – Donna di profilo) 35. EG - RIO DE LA FRESCADA (facciata di una casa con mobiles) 36. EG - RIVA DEGLI SCHIAVONI (MOLO) (basso rilievo Noè, gente che beve, passeggia – P.P. Donna di profilo) 37. EG - PASSAGGI (carrei souvenirs [sc. 13] – deagli – Uomo e Donna parlano) 38. EG - ARSENALE (leoni, le mura, le barche)
39. EG - STRADA ACCANTO GIARDINI PUBBLICI (Donna cammina – parla in M.d.p.) 40. EG - EST. SOTTOPORTEGO Donna parlano)
FALIER
(S.S. Apostoli) (Uomo e
41. IS - INT. SALA DA ALBERGO (Uomo e Donna seduti si parlano) 42. EG - EST. TERRAZZO OTTAVIO 43. IG - CAMERA D’ALBERGO (Uomo e Donna a leo) 44. EG ponti)
- RIVA SCHIAVONI
45. EG folla)
- CAFFÈ FLORIAN
46. IG - INT. CHIESA intimamente)
(carreo ambulante che araversa i
(Uomo e Donna seduti in mezzo alla
S. SEBASTIANO
(Uomo e Donna parlano
47. ET - EST. PONTE (Donna che cammina sul ponte Accademia?) 48. EG - EST. PIAZZA S. MARIA DEL GIGLIO (P.P. statua santo – P.P. Donna) 49. EG - EST. LAGUNA (varie inqu. panoramica?) 50. EG - INT. PALAZZO VENDRAMIN CALERGI (stanza Wagner, giardini dalla finestra, impalcature interne) 51. EG muro)
- EST. GRAN CANALE
(Rauschenberg affresco – Pan. sul
52. EG - EST. HOTEL FLORA (il vicolo con la gente – P.P. Uomo) 53. EG - EST. PIAZZA S. MARCO (Florian deserto, Donna che si siede a uno dei tavolini, l’acqua che sale con riflesso Basilica) 54. EG - EST. LAGUNA (C.L. o Pan. della laguna – P.P. Donna di profilo) 55. EG - EST. STRADA (Uomo e Donna che camminano – dialogo in P.P.? – acque) 56. IG - INT. CHIESA S. SEBASTIANO (segue sc. 45) 57. INT. CAMERA l’amore)
ALBERGO
(da fuori vediamo coppia che fa
58. IG - INT. CHIESA S. SEBASTIANO (segue sc. 46 – porta con trompe l’oeil P.P. Donna) 59. EG - EST. RIO DE LA FRESCADA (piccioni, M.d.p. si avvicina sui mobiles) 60. EG - LUOGHI DIVERSI (leoni vari in de. + leone con vangelo per finale) 61. ALLAGAMENTO - ACQUA CHE SALE - GENTE - PASSERELLE
SCHEDE FILMOGRAFICHE
Le abbreviazioni vanno lee così: r.
regia
s.
soggeo
sc.
sceneggiatura
f.
fotografia
scg. scenografia cost. costumi mont. montaggio m.
musica
int.
interpreti
p.
produzione
tit. it. titolo italiano
Top Hat tit. it.: Cappello a cilindro USA,
1935
r. Mark Sandrich s. Dwight Taylor, dalla commedia di Alexander Frago e Aladar Laszlo sc. Dwight Taylor, Allan Sco f. David Abel, Vernon Walker scg. Van Nest Polglase cost. Bernard Newman mont. William Hamilton m. e canzone Max Steiner, Irving Berlin int. Fred Astaire (Jerry Travers), Ginger Rogers (Dale Tremont), Edward Evere Horton (Horace Hardwick), Erik Rhodes (Alberto Beddini), Eric Blore (Bates), Helen Broderick (Madge Hard-wick) p. RKO Radio Pictures durata 101’ La locandiera Italia, 1943 r. Luigi Chiarini s. liberamente trao dalla commedia omonima di Carlo Goldoni sc. Luigi Chiarini, Umberto Barbaro, Francesco Pasinei f. Carlo Nebiolo scg. Guido Fiorini cost. Gino Sensani mont. Maria Rosada
m. Achille Longo int. Luisa Ferida (Mirandolina), Armando Falconi (il marchese di Forlimpopoli), Osvaldo Valenti (il cavaliere di Ripafraa), Camillo Piloo (il conte di Albafiorita), Elsa De Giorgi (Ortensia, l’arice), Paola Borboni (Dejanira, l’arice), Gino Cervi (il poeta) p. Società Italiana Cines durata 71’ Othello tit. it.: Otello USA/Italia/Francia/Marocco,
1952
r. Orson Welles s. dall’omonima tragedia di William Shakespeare sc. Orson Welles f. Aldo Graziati, Anchise Brizzi, Georges Fanto, Alberto Fusi, Oberdan Troiani scg. Luigi Scaccianoce, Alexandre Trauner cost. Maria De Maeis mont. Jenö Csepreghy, Renzo Lucidi, William Morton, Jean Sacha m. Alberto Barberis, Angelo Francesco Lavagnino int. Orson Welles (Othello), Suzanne Cloutier (Desdemona), Micheál Mac Liammóir (Iago), Robert Coote (Roderigo), Michael Lawrence (Cassio), Hilton Edwards (Brabantio), Fay Compton (Emilia) p. Mercury Productions, Les Films Marceau durata 91’ e Merchant of Venice tit. it.: Il mercante di Venezia USA/Italia/Lussemburgo/UK,
2004
r. Michael Radford s. dall’omonima opera di William Shakespeare sc. Michael Radford f. Benoît Delhomme scg. Bruno Rubeo cost. Sammy Sheldon mont. Lucia Zucchei m. Jocelyn Pook int. Al Pacino (Shylock), Jeremy Irons (Antonio), Joseph Fiennes (Bassanio), Lynn Collins (Portia), Zuleikha Robinson (Jessica), Kris Marshall (Graziano), Charlie Cox (Lorenzo) p. Movision, Delux Productions, Immagine e Cinema, Dania Film, Istituto Luce, Avenue Pictures Productions, NavidiWilde Productions Ltd., 39 Mc. Laren St. Sydney, Spice Factory durata 124’ Senso Italia, 1954 r. Luchino Visconti s. Luchino Visconti, Suso Cecchi d’Amico, Camillo Boito sc. Luchino Visconti, Suso Cecchi d’Amico f. Aldo Graziati, Robert Krasker scg. Oavio Scoi cost. Marcel Escoffier, Piero Tosi mont. Mario Serandrei m. Franco Ferrara int. Alida Valli (la contessa Livia Serpieri), Farley Granger (il tenente Franz Mahler), Heinz Moog (il conte Serpieri), Rina Morelli (Laura, la governante), Christian Marquand
(un ufficiale boemo), Sergio Fantoni (Luca), Tino Bianchi (il capitano Meucci), Massimo Giroi (il marchese Roberto Ussoni, patriota) p. Lux Film durata 117’ Mambo Italia, 1955 r. Robert Rossen s. Ennio De Concini, Ivo Perilli sc. Ennio De Concini, Ivo Perilli, Guido Piovene, Robert Rossen f. Harold Rosson scg. Andrej Andrejew, Bruno Fabrizio cost. Giulio Coltellacci mont. Adriana Novelli m. Angelo Francesco Lavagnino, Nino Rota int. Silvana Mangano (Giovanna Masei), Michael Rennie (il principe), Viorio Gassman (Mario Rossi), Shelley Winters (Toni Salerno), Katherine Dunham (Katherine Dunham), Mary Clare (principessa Marisoni), Eduardo Ciannelli (padre di Giovanna) p. Ponti-De Laurentiis Cinematografica, Paramount Pictures durata 110’ Summertime tit. it.: Tempo d’estate UK/USA,
1955
r. David Lean s. dalla commedia di Arthur Laurents e Time of the Cuckoo (1952) sc. David Lean, H.E. Bates
f. Jack Hildyard scg. Vincent Korda mont. Peter Taylor m. Alessandro Cicognini int. Katharine Hepburn (Jane Hudson), Rossano Brazzi (Renato De Rossi), Isa Miranda (signora Fiorini), Darren McGavin (Eddie Yaeger), Mari Aldon (Phyl Yaeger), Jane Rose (Mrs McIlhenny), MacDonald Parke (Mr McIlhenny) p. London Film Productions durata 130’ Eva Italia/Francia, 1962 r. Joseph Losey s. trao dal romanzo Eve di James Hadley Chase sc. Hugo Butler, Evan Jones f. Henri Decaë, Gianni Di Venanzo scg. Richard Macdonald, Luigi Scaccianoce mont. Reginald Beck, Franca Silvi m. Michel Legrand int. Jeanne Moreau (Eve Olivier), Stanley Baker (Tyvian Jones), Virna Lisi (Francesca Ferrara), Giorgio Albertazzi (Branco Malloni), James Villiers (Alan McCormick), Riccardo Garrone (il giocatore), Lisa Gastoni (la russa), Checco Rissone (Pieri) p. Paris Film Productions, Inteuropa Film durata: versione internazionale 100’, versione originale 135’, versione britannica 111’, versione francese 116’ Chi lavora è perduto (In capo al mondo) Italia/Francia, 1963 r. Tinto Brass
s. Tinto Brass sc. Tinto Brass, Gian Carlo Fusco f. Bruno Barcarol scg. Raul Schultz cost. Danilo Donati mont. Tinto Brass m. Piero Piccioni int. Sady Rebbot (Bonifacio), Pascale Audret (Gabriella), Tino Buazzelli (Claudio), Franco Arcalli (Kim), Piero Vida (Gianni), Gino Cavalieri (il padre di Bonifacio), Giuseppe Cosentino (il generale), Enzo Nigro (Marieo) p. Franco London Films, Zebra Films durata 85’ Il terrorista Italia/Francia, 1963 r. Gianfranco De Bosio s. Gianfranco De Bosio, Luigi Squarzina sc. Gianfranco De Bosio, Luigi Squarzina f. Lamberto Caimi, Alfio Contini scg. Mischa Scandella cost. Mischa Scandella mont. Carla Colombo m. Piero Piccioni int. Gian Maria Volonté (Renato Braschi), Philippe Leroy (Rodolfo Boscovich), Giulio Bosei (Ugo Ongaro), Tino Carraro (De Ceva, “Smith”), José aglio (Piero), Franco Graziosi (Aldrighi, “adro”), Anouk Aimée (Anna Braschi) p.
22 dicembre, Galatea Film, Società Editoriale Cinematografica Italiana, Société Cinématographique Lyre
durata 100’ Anonimo veneziano Italia, 1970 r. Enrico Maria Salerno s. Enrico Maria Salerno sc. Enrico Maria Salerno, Giuseppe Berto f. Marcello Gai scg. Luigi Scaccianoce cost. Danda Tortona mont. Mario Morra m. Stelvio Cipriani, Giorgio Gaslini int. Tony Musante (Enrico), Florinda Bolkan (Valeria), Toti Dal Monte (la proprietaria della pensione), Sandro Grinfan (manager della fabbrica), Brizio Montinaro (cameriere), Giuseppe Bella (tecnico) p. Ultra Film durata 95’ Morte a Venezia Italia/Francia, 1971 r. Luchino Visconti s. dall’omonimo romanzo di omas Mann sc. Luchino Visconti, Nicola Badalucco f. Pasqualino De Santis scg. Ferdinando Scarfioi cost. Piero Tosi mont. Ruggero Mastroianni m. Gustav Mahler dalla III e dalla V Sinfonia, direore Franco Mannino
int. Dirk Bogarde (Gustav von Aschenbach), Romolo Valli (manager dell’hotel), Nora Ricci (governante), Marisa Berenson (Frau von Aschenbach), Carole André (Esmeralda), Björn Andrésen (Tadzio), Silvana Mangano (madre di Tadzio) p. Mario Gallo per Alfa Cinematografica durata 130’ Don’t Look Now tit. it.: A Venezia… un dicembre rosso shocking UK/Italia,
1973
r. Nicolas Roeg s. dal racconto Non dopo mezzanoe di Daphne du Maurier sc. Allan Sco, Chris Bryant f. Anthony B. Richmond e Luciano Tonti scg. Giovanni Soccol cost. Anna Maria Feo mont. Graeme Clifford m. Pino Donaggio int. Julie Christie (Laura Baxter), Donald Sutherland (John Baxter), Hilary Mason (Heather), Clelia Matania (Wendy), Massimo Serato (il vescovo Barbarigo), Renato Scarpa (ispeore Longhi), Giorgio Trestini (lavoratore) p. Casey Productions, Eldorado Films, D.L.N. Ventures Partnership durata 110’ San Michele aveva un gallo Italia, 1976 r. Paolo Taviani, Viorio Taviani s. trao dal racconto Il divino e l’umano di Lev Tolstoj sc. Paolo Taviani, Viorio Taviani
f. Mario Masini scg. Gianni Sbarra cost. Lina Nerli Taviani mont. Roberto Perpignani m. Benedeo Ghiglia int. Giulio Brogi (Giulio Maineri), Daniele Dublino (guardiano di prigione), Renato Cestiè, Vito Cipolla, Virgina Ciuffini, Marcello Di Martire, Viorio Fanfoni p. Ager Cinematografica, Radiotelevisione Italiana (Rai) durata 90’ Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano Italia, 1969 r. Luigi Comencini sc. Suso Cecchi d’Amico e Luigi Comencini f. Aiace Parolin scg. Piero Gherardi mont. Nino Baragli m. Fiorenzo Carpi int. Leonard Whiting (Giacomo Casanova), Maria Grazia Buccella (Zanea), Lionel Stander (don Tosello), Raoul Grassilli (don Gozzi), Wilfrid Brambell (Malipiero), Tina Aumont (Marcella), Mario Scaccia (door Zambelli) p. Franco Ciadini e Stenio Fiorentini per Mega Film durata 96’ Il Casanova di Federico Fellini Italia, 1976 r. Federico Fellini
s. trao dall’autobiografia di Giacomo Casanova Storia della mia vita sc. Federico Fellini, Bernardino Zapponi f. Giuseppe Rotunno scg. Danilo Donati cost. Danilo Donati, Federico Fellini mont. Ruggero Mastroianni m. Nino Rota int. Donald Sutherland (Giacomo Casanova), Tina Aumont (Henriee), Cicely Browne (Madame D’Urfé), Carmen Scarpia (Madame Charpillon), Clara Algranti (Marcolina), Daniela Gai (Giselda), Margareth Clémenti (sorella Maddalena) p. Produzioni Europee Associati (PEA), Fast Film durata 155’ Everyone Says I Love You tit. it.: Tui dicono I love you USA,
1996
r. Woody Allen s. Woody Allen sc. Woody Allen f. Carlo Di Palma scg. Santo Loquasto cost. Jeffrey Kurland mont. Susan E. Morse m. Dick Hyman int. Woody Allen (Joe), Natasha Lyonne (D.J.), Julia Roberts (Von), Edward Norton (Holden), Alan Alda (Bob), Drew Barrymore (Skylar), Goldie Hawn (Steffi)
p.
Miramax Films, Buena Vista Productions, Sweetland Films
Pictures,
Magnolia
durata 101’ e Lost Moment tit. it.: Gli amanti di Venezia USA,
1947
r. Martin Gabel s. trao dal romanzo e Aspern Papers di Henry James sc. Leonardo Bercovici f. Hal Mohr scg. Alexander Golitzen cost. Travis Banton mont. Milton Carruth m. Daniele Amfitheatrof int. Robert Cummings (Lewis Venable), Susan Hayward (Tina Bordereau), Agnes Moorehead (Juliana Bordereau), Joan Lorring (Amelia), Eduardo Ciannelli (padre Rinaldo), John Archer (Charles), Frank Puglia (Pietro) p. Walter Wanger Productions per Universal Films durata 89’ e Wings of the Dove tit. it.: Le ali dell’amore USA/UK,
1997
r. Iain Soley s. dal romanzo Le ali della colomba di Henry James sc. Hossein Amini f. Eduardo Serra scg. John Beard
cost. Sandy Powell mont. Tariq Anwar m. Ed Shearmur int. Helena Bonham Carter (Kate Croy), Linus Roache (Merton Densher), Alison Ellio (Milly eale), Charloe Rampling (zia Maude), Elizabeth McGovern (Susan “Susie” Stringham), Michael Gambon (Lionel Croy), Alex Jennings (Lord Mark) p. Miramax Films, Reinassance Dove durata 102’ Pane e tulipani Italia/Svizzera, 2000 r. Silvio Soldini s. Silvio Soldini, Doriana Leondeff sc. Silvio Soldini, Doriana Leondeff f. Luca Bigazzi scg. Paola Bizzarri cost. Silvia Nebiolo mont. Carloa Cristiani m. Giovanni Venosta int. Licia Magliea (Rosalba Barlea), Bruno Ganz (Fernando Girasole), Giuseppe Baiston (Costantino Caponangeli), Antonio Catania (Mimmo Barlea), Marina Massironi (Grazia), Felice Andreasi (Fermo), Vitalba Andrea (Key) p. Istituto Luce, Rai Cinemafiction, Amka Films Productions, Monogatari, Televisione Svizzera Italiana (TSI), Ministero per i Beni e le Aività Culturali (MIBAC) durata 114’ Dieci inverni Italia/Russia, 2009
r. Valerio Mieli s. Valerio Mieli sc. Valerio Mieli, Davide Lantieri, Isabella Aguilar f. Marco Onorato scg. Mauro Vanzati cost. Andrea Cavalleo mont. Luigi Mearelli m. Francesco De Luca, Alessandro Forti int. Isabella Ragonese (Camilla), Michele Riondino (Silvestro), Glen Blackhall (Simone), Sergei Zhigunov (Fjodor), Sergey Nikonenko (prof. Korsakov), Liuba Zaizeva (Liuba), Alice Torriani (Clara) p. Centro Sperimentale di Cinematografia, Rai Cinema, United Film Company (UFC) durata 99’ Unguided Tour tit. it.: Giro turistico senza guida Italia, 1983 r. Susan Sontag s. Susan Sontag, dal suo racconto Giro turistico senza guida in Io, eccetera sc. Susan Sontag f. Renato Berta m. Roberto Perpignani int. Lucinda Childs, Claudio Cassinelli, e con la voce di Anna Nogara p. Cooperativa Lunga Giata per la Rai Radiotelevisione italiana durata 75’
Ringraziamenti
Ringrazio prima di tui la Cineteca Pasinei di Venezia, incantevole luogo di studio e consultazione, assieme al suo staff e al suo direore Roberto Ellero. La sapientissima Giulia Ghigi della Libreria del Cinema di Roma. Rosella Mamoli Zorzi, Carlo Lizzani, Oja Kodar, Alessandra Levantesi Kezich, Paolo e Viorio Taviani, perché hanno avuto la gentilezza di leggere i capitoli su Henry James, il Cinevillaggio, Othello, Il terrorista, San Michele aveva un gallo, in cerca di imprecisioni. Marina Cicogna, Adriana Chiesa, Mimmola Girosi, Alì Reza Mohaved, Giorgia Onofri che hanno arricchito di testimonianze di prima mano le storie relative ad Anonimo veneziano, Tui dicono I love you, Eva, Unguided Tour. Le amiche Niki Pardi, Lucia Milazzoo, Lucia Chirila, Patrizia Piccioli, Margherita Drago che mi hanno confortata leggendo e commentando i primi capitoli. Enzo Scoo Lavina per i suggerimenti preziosi, Carlo Montanaro perché ne sa una più del diavolo. Ma soprauo ringrazio Flavia Faccioli per avermi consentito di fare un viaggio per me molto divertente dentro Venezia e le sue storie.
i nodi G. Alvi, Il capitalismo. Verso l’ideale cinese, 20112, pp. 336 D.B. Audretsch, La società imprenditoriale, presentazione di R. Illy, 2009, pp. 272 G. Bensoussan, Genocidio. Una passione europea, 2009, pp. 400 A. Berardinelli, Non incoraggiate il romanzo. Sulla narrativa italiana, 2011, pp. 288 I. Bignardi, Americani. Un viaggio da Melville a Brando, 2005, pp. 224 I. Bignardi, Le cento e una sera. Piccola guida personale al cinema in DVD, 2008, pp. 160 I. Bignardi, Storie di cinema a Venezia, 2012, pp. 160 M. Boneschi, La donna segreta. Storia di Metilde Viscontini Dembowski, 2010, pp. 240 S. Campailla, Il segreto di Nadia B. La musa di Michelstaedter tra scandalo e tragedia, 2010, pp. 240 G. Canova, Cinemania. 10 anni 100 film: il cinema italiano del nuovo millennio, 2010, pp. 288 R. Chiarini, L’ultimo fascismo. Storia e memoria della Repubblica di Salò, 2009, pp. 160 M. Chodorkovskij, La mia loa per la libertà. Un uomo solo contro il regime di Putin. Articoli, dialoghi, interviste, 2012, pp. 240 D. Draaisma, Perché la vita accelera con l’età. Come la memoria disegna il nostro passato, 2005, pp. 328 R. Farina, Cossiga mi ha deo. Il testamento politico di un protagonista della storia italiana del Novecento, 20112, pp. 240 G. Feuerstein, Filosofia Yoga, 2009, pp. 224 M. Fini, Il Ribelle. Dalla A alla Z, 2006, pp. 304 M. Fini, Ragazzo. Storia di una vecchiaia, 20084, pp. 112
M. Fini, Il Mullah Omar, 2011 , pp. 144 3
G. Gavazzi, La colorata lentezza delle galassie. Vita di uno scienziato irriverente, 2008, pp. 208 M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni oanta. ando eravamo moderni, 2010, pp. 256 F. Jori, Dalla Łiga alla Lega. Storia, movimenti, protagonisti, prefazione di I. Diamanti, 2009, pp. 176 W. Laqueur, Gli ultimi giorni dell’Europa. Epitaffio per un vecchio continente, 2008, pp. 224 P. Lupo, Eros e potere. Miti sessuali dell’uomo moderno, 2006, pp. 272 B. Mainardi, Semaforo rosso. Italia: genesi, storia e realtà delle infrastruure, prefazione di F. Cossiga, 2008, pp. 240 L. Marinangeli, Risonanze celesti. L’aiuto dell’astrologia nella cura della psiche, 2007, pp. 336 D. Meghnagi, Le sfide di Israele. Lo Stato ponte tra Occidente e Oriente, 2010, pp. 176 L. Meldolesi, Il nuovo arriva dal Sud. Una politica economica per il federalismo, introduzione di G. Amato, 2009, pp. 304 C. Ossola, Il continente interiore, 2010, pp. 224 C. Ossola, Introduzione alla Divina Commedia, 2012, pp. 160 G. Pasqualoo, Dieci lezioni sul buddismo, 2008, pp. 192 J. Podesta, L’America del progresso. Un secolo di sinistra americana da Roosevelt a Obama, 2010, pp. 192 R. Satloff, Tra i giusti. Storie perdute dell’Olocausto nei paesi arabi, 2008, pp. 288 A. Scola, Una nuova laicità. Temi per una società plurale, 2007, pp. 192 D.B. Silver, Rifugio all’inferno. L’incredibile storia dell’ospedale ebreo di Berlino, 2005, pp. 344
M. Teodori, Storia dei laici nell’Italia clericale e comunista, 2008, pp. 368 M. Valensise, Il sole sorge a Sud. Viaggio contromano da Palermo a Napoli via Salento, 2012, pp. 368 C. Vicentini, L’arte di guardare gli aori. Manuale pratico per lo speatore di teatro, cinema, televisione, 2007, pp. 256 S. Vizinczey, I dieci comandamenti di uno scriore, 2004, pp. 320 G. Ziccardi, Hacker. Il richiamo della libertà, 2011, pp. 288
Indice
Copertina Abstract Irene Bignardi i nodi Dello stesso autore Frontespizio Colophon Premessa STORIE DI CINEMA A VENEZIA Fred, Ginger e Fred Il villaggio alla Giudecca Da Ca’ d’Oro a Mogador ell’ambiguo mercante di Venezia Addio, contessa Serpieri E adesso mambo Una romantica signorina americana Eva, la crudele I giorni del disincanto Nel bel mezzo di un gelido inverno Morte a Venezia /1 Morte a Venezia /2
Mistero veneziano
Resistenza in laguna Il grande seduore All’ombra del Tintoreo James, Henry James In fuga a Venezia Dieci gelidi inverni Susan S. e l’acqua alta Schede filmografiche Ringraziamenti i nodi - la collana