130 42 68MB
Italian Pages 484 [485]
Mimesis Edizioni www.mimesisedizioni.it
26,00 euro
9 788857 567860
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MIMESIS
ISBN 978-88-5756-786-0
Storia sociale del Jazz
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Eric Hobsbawm
Eric Hobsbawm (Alessandria d’Egitto 1917 - Londra 2012) è stato il più influente storico del Novecento. Di formazione marxista, ma sempre lontano da posizioni dogmatiche, ha elaborato alcune visioni della storia che hanno segnato profondamente la cultura, come la definizione di secolo breve applicata al dinamico e rivoluzionario Novecento. Ha dedicato diversi studi alla storia della classe operaia e al proletariato internazionale. Tra le sue opere ricordiamo Studi di storia del movimento operaio (19784), Rivoluzione industriale e rivolta nelle campagne (2013), Le rivoluzioni borghesi 1789-1848 (2016), Il trionfo della borghesia 1848-1875 (20193).
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Pubblicato per la prima volta con lo pseudonimo di Francis Newton, Storia sociale del jazz è il tributo di Hobsbawm al jazz e all’impatto rivoluzionario che questo genere musicale ebbe sulla società dei suoi tempi. Hobsbawm, l’intellettuale che ha segnato la cultura europea con la sua riflessione sul Novecento come secolo breve, è interessato a osservare in queste pagine la società che si muove attorno al jazz, un universo notturno di anime inquiete, mosse dal desiderio di cambiamento, dalla forza di un’innovazione che non si ferma al campo musicale. Una storia emozionante e originale raccontata da uno dei più autorevoli storici del Novecento.
MIMESIS
Eric Hobsbawm
STORIA SOCIALE DEL JAZZ Una rivoluzione di suoni Prefazione di Massimo Donà
MIMESIS
Titolo originale dell’opera: The jazz scene.
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Isbn: 9788857567860 © 2020 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 L’editore ha effettuato, senza successo, tutte le ricerche necessarie al fine di identificare gli aventi titolo rispetto ai diritti dell’opera. Pertanto resta disponibile ad assolvere le proprie obbligazioni.
Indice
Prefazione di Massimo DonàI STORIA SOCIALE DEL JAZZ Avvertenza all’edizione italiana Introduzione all’edizione italiana Introduzione A vvertenza alla prima edizione
9 11 33 53
Come si riconosce il jazz55 Parte prima. La storia 1. Preistoria 2. L’espansione 3. La trasformazione
67 85 117
Parte seconda. La musica 1. I blues e il jazz strumentale 2. Gli strumenti 3. Le conquiste musicali 4. Il jazz e le altre arti
141 181 203 221
Parte terza. L’aspetto economico 1. Musica popolare 2. L’industria del jazz
243 267
Parte quarta. La gente del jazz 1. I musicisti 2. Il pubblico fino agli anni cinquanta 3. Il jazz come protesta
303 341 377
Appendice prima I jazz-amatori in Inghilterra, 1958 Il linguaggio del jazz Guida ad una lettura piu approfondita Appendice seconda di Arrigo Zoli I protagonisti del jazz Trombettisti: King Oliver, p. 415 – Louis Armstrong, p. 416 – Bix Beiderbecke, p. 417 – Dizzy Gillespie, p. 418 – Miles Davis, p. 419 – Clifford Brown, p. 421. Trombonisti: Jay Jay Johnson, p. 422. Clarinettisti: Benny Goodman, p. 423. Saxofonisti: Sidney Bechet, p. 424 – Coleman Hawkins, p. 425 – Lester Young, p. 427 – Charlie Parker, p. 427 – Lee Konitz, p. 429 – Sonny Rollins, p. 430 – Stan Getz, p. 431 – John Coltrane, p. 432 – Eric Dolphy, p. 433 – Omette Coleman, p. 434. Pianisti: «Jelly-Roll» Morton, p. 436 – James P. Johnson, p. 437 – Art Tatum, p. 438 – Fats Waller, p. 439 – Earl Hines, p. 440 – Teddy Wilson, p. 441 – Bud Powell, p. 442 – Lennie Tristano, p. 443 – Thelonious Monk, p. 444 – Bill Evans, p. 446 – Cecii Taylor, p. 447. Vibrafonisti: Lionel Hampton, p. 449. Chitarristi: Django Reinhardt, p. 450 – Charlie Christian, p. 451. Contrabbassisti: Charles Mingus, p. 452. Batteristi: Max Roach, p. 454. Cantanti: Bessie Smith, p. 455 – Mahalia Jackson, p. 456 – Billie Holiday, p. 457 – Ella Fitzgerald, p. 458 – Sarah Vaughan, p. 459. Big band leaders: Fletcher Henderson, p. 459 – Duke Ellington, p. 460 – Count Basie, p. 461.
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Indice dei nomi465
Massimo Donà
IL JAZZ. ELOGIO DELL’IMPERFEZIONE Un rilevante tratto di storia contemporanea
A quei tempi Alice Dean teneva un casino vicino a casa nostra, e spesso facevo commissioni per lei e per le ragazze…. A quei tempi un grammofono mica era una cosa da nulla, come ora. Non ce n’erano negli altri salotti, ma soltanto da Alice. Ci passai delle ore meravigliose, lì, ascoltando Pops e Bessie. Mi ricordo di quel disco, West End Blues, quanto riusciva a scombussolarmi. Era la prima volta che sentivo cantare senza le parole, e non sapevo che Pops cantava qualunque cosa gli saltasse in mente, quando si scordava il testo, e tutto quel ba ba ba ba ba ba ba con tutto il resto significava un’infinità di cose per me, certo quanto e forse più delle altre parole vere che a volte non sapevo cosa volevan dire. Ma il significato cambiava secondo il mio stato d’animo. In certi casi il disco mi rendeva triste, così triste che piangevo lacrime a fiumi, e in altri casi invece sempre la stessa musica riusciva a farmi dimenticare quanti soldi sudati mi costavano quelle sedute in salottino. Billie Holiday, La signora canta il blues, trad.it., Feltrinelli, Milano 2003, p. 12
I. Prima di entrare nel merito delle intense e informatissime pagine di questo ‘classico’ di storia contemporanea, potremmo cominciare col chiederci cosa distingua davvero lo spirito della cosiddetta musica “classica” da quello del jazz. Ritengo infatti che solo dopo aver compreso il senso di questa distinzione – ossia, solo dopo aver riconosciuto la natura di una ferita che divide e distingue questi due ben radicati approcci musicali –, sia possibile capire cosa faccia, del jazzista, l’unico vero e proprio eroe della tradizione musicale occidentale. Il fatto è che la musica classica è sempre stata tormentata da un problema. Il musicista della tradizione occidentale, infatti – a partire da Bach e da Mozart… sino ai vari Berio e Nono –, ha sempre vissuto il tempo (quello in relazione a cui, necessariamente, la musica si dispiega e si lascia riconoscere) come un “inciampo”. Il tempo è sempre stato, per lui, una vera e propria maledizione. Non a caso il suo sogno è sempre stato quello di poter eseguire tutti i suoni “in simultanea”; di potersi cioè “muovere” in una sorta di perfetta “sincronicità”… in modo tale che le note potessero manifestarsi in un medesimo e sempre identico “presente”. Insomma, egli
II
ha sempre sognato una musica – da ultimo – ridotta a puro “spazio”. Una musica, potremmo anche dire, priva di sviluppo temporale. D’altro canto, nel fare una qualsivoglia esperienza musicale (cioè, quando andiamo a un concerto in veste di ascoltatori, ma anche quando suoniamo), non possiamo fare a meno di rilevare come l’opera musicale “nella sua compiutezza” ci si palesi solo quando la medesima non è più, ossia quando la medesima, compiendosi, si sarà fatta puro “passato”. Sì, perché – insistiamo – l’opera sarà qui… davanti a noi, “tutta intera”, solo quando avrà portato a termine il suo svolgimento. Quando, cioè, la sua esecuzione si sarà definitivamente compiuta. Ed essa si sarà fatta irrimediabilmente ‘silente’. Mentre la ascoltiamo o la suoniamo, infatti, la medesima continua ad offrirsi in una sorta di costitutiva “imperfezione”. Stante che, quando c’è e si lascia esperire, la musica non è ancora stata eseguita nella sua interezza. Insomma, nell’ascoltarla o nel suonarla, abbiamo sempre a che fare con la sua irredimibile “parzialità”. Con una semplice parte dell’opera in quanto tale. La musica ha dunque questa caratteristica fondamentale: di lasciarsi esperire in modo ineludibilmente “astratto”. Ed è proprio a questa sua natura paradossale che i musicisti classici guardano appunto come a una vera e propria “dannazione”. D’altro canto, anche per l’immaginario comune, la vera opera musicale non viene certo restituita dall’interpretazione di Toscanini, e neppure da quella di Barenboim – le cui esecuzioni esprimono sempre e comunque un punto di vista parziale, nonché soggettivo, sull’opera. Insomma, la “vera” opera, nell’immaginario di qualsivoglia abitatore dell’Occidente, è solo quella evocata da determinati segni riportati sulla partitura: destinati a circoscrivere uno spazio essenzialmente funereo, morto e silente… che non suona affatto. Ed è proprio assoggettandosi a tale “perfectio” – quella disegnata e custodita dal silenzio della partitura –, che i musicisti si sono sempre più decisamente trasformati in meri esecutori… ossia, in autori di una parzialissima e comunque sempre imperfetta “lettura” del testo. Da qui avrebbe preso il via il dominio incontrastato dello “spazio”; entro i cui confini, appunto, l’opera non sarebbe mai riuscita a ri-suonare. Facendosi solo ‘vedere’ e ‘comprendere’, e sempre in virtù di una scrittura essenzialmente muta che esclude – come imperfette e parziali – tutte le sue possibili interpretazioni. Le quali, nel venire escluse, comportano sempre anche l’esclusione, dallo spazio della partitura, del “tempo” – quello in relazione a cui, solamente, la musica è peraltro riconoscibile come tale. Insomma, è solo nella prospettiva chiamata in causa dalla tradizione classica, che all’opera sembra convenire una sorta di “assoluta e improbabile univocità” – che nessuno avrebbe mai potuto, con la propria interpretazione, restituire davvero… cioè dire vera-mente, a prescindere dalla ferita istituita, nella medesima, da una vocazione essenzialmente “temporale”. Da cui una concezione che riflette una prospettiva filosofica tipicamente occidentale; fondata in primis sul “principio di non contraddizione”. In rapporto a cui la “verità” sembra poter essere tale solo se capace
di escludere tutte le sue possibili “negazioni”, ossia, tutte le voci diverse o in qualche modo “alternative”. Una verità destinata a fare, dello spazio, una forma di relazione che il principio di non contraddizione non poteva che rendere rigorosamente “escludente”. Fermo restando che la forma spaziale, in quanto tale, esclude sempre anche il tempo. D’altro canto, una verità destinata a nientificare tutte le sue possibili “negazioni” (non potendo mai indicare nulla al di fuori di sé), non può certo identificarsi. E dunque, pur trionfando, non potrà che riconoscersi irrimediabilmente impotente… nulla potendo in qualche modo de-terminarla. Non costituendosi, di là da essa, nessuna voce alternativa. Perciò il trionfo della verità coinciderà in questa prospettiva con il suo ritrovarsi perfettamente ‘afona’; affidata cioè al puro “silenzio” della partitura musicale. Trionfando, insomma, essa naufragherà; trasformandosi in puro ed enigmatico “silenzio”… come quello determinato appunto dal suo farsi “compiuta”. II. Solo nel jazz le cose stanno in modo completamente diverso. Per questo dovremmo parlare di un vero e proprio “eroismo” del jazzista; a partire dal fatto che solo quest’ultimo sembra azzardarsi a consegnare l’opera musicale all’enigma del “tempo”. Il jazzista, infatti, non teme il dispiegamento temporale. E non lo teme perché non lo concepisce come espressione di una “caduta”; anzi, egli si fa forte dell’imperfezione al medesimo costitutivamente connessa. Trasformando l’erranza temporale nella forma più alta e paradossale di verità. Per questo, allo spazio della partitura, il jazzista finisce per rapportarsi così come ci si può rapportare ad un semplice “pretesto”… rispetto a cui sembra tranquillamente consentito, se non addirittura richiesto, di errare. C’è un tema molto famoso, composto da Charlie Parker, che si intitola Ornithology: ecco, se lo suonate traducendo correttamente quanto è scritto sul rigo, esercitandovi pazientemente sulla partitura, ne verrà fuori una banalissima marcetta. Insomma, per suonarlo “correttamente”, il jazzista dovrà rendersi disponibile a violare il diktat dello scritto, anticipando e posticipando le note del tema, sì da deviarle dalla regolarità di un ritmo che rischia di farsi assolutamente letale. Ma, soprattutto, dovrà consegnare lo spazio della partitura ad un tempo sempre rigorosamente individuale. Solo in questo modo, potrà consentire ai segni mortiferi e cimiteriali della partitura… di vivere; amplificandoli già per il semplice fatto di consegnarli al tempo loro proprio. La partitura, insomma, funge da vero e proprio universale; come una sorta di “regola”… che il jazzista sembra non poter fare a meno di confutare. Smentendola, sino a violarne finanche violentemente il dettato. Se non ne vìola il dettato, infatti, suonerà sì correttamente, ma dal punto di vista del “vero”, sbaglierà. Ecco il punto. Paradosso dei paradossi. Il vero jazzista, cioè, non brama qualcosa come la perfezione dell’opera, perché non ambisce alla “compiutezza”, e neppure vuole qualcosa come una totalità.
III
Il jazzista desidera piuttosto l’incompiutezza, sperando che, al prossimo passo… nuove cose possano venire ancora prodotte. Perciò non sarà mai soddisfatto, e vorrà sempre ricominciare a suonare; per poter sempre ancora continuare. Riconsegnando lo spazio ad un tempo che non si farà mai assoggettare e tantomeno inscrivere nel dominio della “storia” – perché rischierebbe di trasformarsi in un “tempo comunque spazializzato”; e rinviante a una sorta di vero e proprio “destino”. Ecco perché, nel presente, il jazzista suona quel che non è ancora… volgendo il passato a un mai esauribile “futuro”; come quello che, peraltro, sta alla base di ogni forma di “speranza”. Non è un caso che ci si ritrovi privi di speranze solo là dove il tempo sia stato incatenato alla roccia della “storia”, in conformità ad una visione come quella greca… che, sola, avrebbe consentito di trasformare non solo il tempo in storia, ma addirittura la storia in “destino”, in accordo con una ciclicità impossibilitata a prospettare una qualsiasi irruzione “distraente”, e tanto meno un’erranza di qualsivoglia genere. Insomma, si tratta di reimparare continuamente a suonare… e di abbandonare un assoggettamento sostanzialmente supino nei confronti dello spazio, ovvero del “destino”. Cioè, della storia e della sua scrittura. A favore di una vivificante riacquisizione del “tempo”; che sarà sempre e rigorosamente “individuale”. Ecco perché la “verità” non può che risolversi nell’individualissima e irripetibile interpretazione di questo o quel musicista; ad esempio di Charlie Parker; che si dimostrerà “esemplare” (paradosso dei paradossi!) proprio in relazione alla capacità, dimostrata dall’allievo, di confutarlo, proponendo un’altra interpretazione di quel medesimo brano – che… a sua volta, sarà anch’essa “vera” e corretta, solo in quanto nuova e “altra”; e per ciò stesso capace di aprirsi a sempre nuove interpretazioni… nessuna delle quali si ritroverà a dire in modo semplicemente (cioè: astrattamente) soggettivo il “testo originario”. Anche perché un vero e proprio “testo originario”, di fatto, non c’è. Da cui la scrittura infinita, quale modo d’essere indipendentemente dal quale, all’individuo – quello stesso che ognuno di noi sempre anche è –, sembra non restare altro che disperare. III.
IV
A confortarci, sostenendo e rivendicando il ruolo assolutamente decisivo rivestito dal singolo, e dalla sua esistenza sempre e rigorosamente individuale, all’interno dell’universo sonoro e sociale disegnato dal ‘jazz’, è il libro di Eric Hobsbawm che stiamo appunto presentando: “Storia sociale del jazz. Una rivoluzione di suoni”. Un volume nato alla fine degli anni Cinquanta, ma rivisto e aggiornato più volte, sino a raggiungere la presente configurazione. D’altronde, lo dice chiaramente lo storico britannico (nato peraltro ad Alessandria d’Egitto): Il jazz è come lo fanno i musicisti e i cantanti. Il musicista è il cardine del mondo del jazz – così inizia infatti il capitolo dedicato alla gente del jazz. Per questo, a parere di Hobsbawm, occorrerà cercar di scoprire anzitutto che specie di uomo – o, più raramente, di donna – sia il musicista di jazz.
Mai come nel jazz, insomma, lo stile, il genere e la tecnica… non solo rinviano a una singolare e irripetibile esistenza, ma addirittura vi si identificano. Al punto che, in riferimento al jazz, rischia di diventare addirittura fuorviante la determinazione dello stile o del genere caratterizzanti una determinata esecuzione. Come a dire che, in rapporto al jazz, quel che conta è non solo l’esistenza irripetibile di cui ogni espressione musicale sarà manifestazione e testimonianza, ma quella specifica esecuzione. Quel preciso momento della vita dell’artista. Certo, lo storico britannico ‘classifica’, anche; ossia, si impegna a individuare le caratteristiche comuni riconducibili vuoi al colore della pelle (quale simbolo di una condizione sociale o di una forma mentale connesse a una determinata tradizione), vuoi all’atteggiamento nei confronti della vita, vuoi al rapporto con il pubblico, vuoi al modo di concepire il denaro o l’amore… insomma Hobsbawm cerca di offrirci una, non dico completa, ma sufficientemente esaustiva tassonomia dell’universo jazzistico; cercando di portare alla luce anche tutta una complessa serie di elementi (in primis storico-sociali) che avrebbero, a suo parere, contribuito a definire lo specifico di questa o quell’epoca del jazz, di questa o quella tradizione jazzistica, di questo o quello stile, di questo o quel modo di viverlo, il jazz, e sempre anche i complessi rapporti che questa tradizione avrebbe finito per intrattenere con gli altri generi musicali. Certo, Hobsbawm sa bene che il jazz è musica “dinamica” come poche altre. Sa bene, cioè, che questa musica non è mai rimasta ferma; e che, anche là dove abbia cercato di resistere alle spinte in direzione del cambiamento, si sarà necessariamente messa in questione; perché, anche la resistenza al cambiamento, non avrebbe potuto che produrre un’espressione artistica diversa da quella non ancora impegnata in tale sforzo. Per questo, il be bop degli anni cinquanta suona diversamente da quello degli inizi… che era apparso come una vera e propria tempesta, destinata a sconquassare l’universo ancora swingante e melodicamente elementare degli anni Trenta; affacciandosi sulla scena della storia come proposta rivoluzionaria e, in misura più o meno radicale, davvero innovativa. Ma, in modo perfettamente simmetrico, anche la nascita del be bop, sempre secondo Hobsbawm, avrebbe finito per testimoniare una ‘sia pur deformata’ permanenza del passato (“la struttura fondamentale, e anche il materiale fondamentale del bop – i blues e la musica leggera – appartengono al passato”, precisa ancora lo storico britannico). IV. Insomma, il jazz è tanto intrinsecamente dinamico, da risultare sostanzialmente aporetico: sì, perché quando vuole resistere a mutamenti fin troppo repentini, muta, e quando vuole mutare, e mutare radicalmente, rimane di fatto ancorato a forme tradizionali, che non smettono mai di fungere, per esso, da imprescindibili segnavia. Il jazz, insomma, incarna al massimo grado quella vocazione al mutamento e al divenire assoluti che, a partire da Hegel, sarebbe diventata imprescindibile per buona parte delle avanguardie artistiche di inizio Novecento.
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Il jazz avrebbe costituito l’arte regale del Ventesimo secolo appunto per questo motivo. Perché, proprio questa sua paradossale mutevolezza l’avrebbe fatto diventare sorprendentemente duttile; consentendogli di assimilare e restituire in forma sempre nuova finanche le forme musicali ad esso più radicalmente estranee. Il jazz sarebbe riuscito a farsi contaminare dalla musica colta e classica europea, dalla musica rock, dal blues, dalle musiche orientali e dalla musica leggera; anche perché nessuno avrebbe potuto resistere al suo incondizionato potere attrattivo. Ma mai si sarebbe lasciato trasformare in musica classica; e ancor meno in rock. Il jazz, infatti, non è rock, non è classica, non è samba… ma nessuna di queste espressioni musicali è mai stata rifiutata dal jazz. E dalla sua sconfinata disponibilità, dalla sua costituitiva vocazione “relazionale”. Perciò il jazz sarebbe stato sempre disposto a modificarsi; e ad accogliere l’altro non tanto con l’intenzione di modificarlo e assimilarlo a sé; quanto piuttosto per modificare e arricchire in primis se medesimo. Riuscendo a sorprendersi e a ritrovarsi di volta in volta musica d’elite o musica di massa… amato da grandi quantità di persone o adorato da piccoli circoli di appassionati spesso maniacali; scoprendosi stimolato a grandi trasformazioni non tanto e non solo da isolate sperimentalità, ma finanche da espressioni popolari e di massa, ossia da forme espressive non particolarmente interessate alle innovazioni tecnico-estetiche. Il jazz, insomma, avrebbe imparato moltissimo dal rock, e dalla sua apparente elementarità; così come dalla sua supposta superficialità (ammesso che il rock sia mai stato superficiale). Allo stesso modo in cui le arti visive sarebbero state radicalmente modificate dal cinema – arte popolare per eccellenza. Come negare, infatti, che il cinema abbia finito per modificare il paesaggio artistico molto più radicalmente di quanto fosse riuscita a fare la scomposizione cubista? Hobsbawm lo spiega molto bene; mostrandoci con puntiglio ed estrema precisione storiografica, ma anche con pathos da vero amatore, come il jazz sia nato, cresciuto e maturato, assecondando una ritmica imprevedibile, irregolare, e dunque necessariamente multipla; cioè mai statica e tanto meno ripetitiva. Sì, perché anche le ripetizioni, nel jazz, sono sempre state vissute come dei veri e propri azzardi ermeneutici; riletture in chiave necessariamente inedita di formule, patterns e risoluzioni ritmico-armoniche ereditate dal passato; veri e propri rilanci, in forma imprevedibile, di vecchi ma mai esauriti standard. Che avrebbero reso sempre meno essenziale il ruolo del compositore (a differenza di quanto era accaduto, invece, nella musica classica occidentale); “il suo posto era occupato, se mai, da colui che, modestamente ed esattamente, è chiamato ‘arrangiatore’”, precisa lo storico britannico. Allo stesso modo – precisa ancora l’autore del volume –, potremmo addirittura affermare che il jazz non è mai semplicemente riprodotto, ricreato… ma sempre “creato e assaporato volta per volta dai suonatori”. Il jazz, insomma, nasce e si sviluppa in una vera e propria terra di mezzo; quale espressione di un sempre sorprendente e intrascendibile crocevia; ci ricorda infatti Hobsbawm, che “il jazz nacque in una regione in cui si intersecavano tre diverse correnti di cultura europea: quella spagnola, quella francese e l’anglosassone. Ciascuna delle tre aveva già creato per suo conto una caratteristica forma musicale afroeuropea: la musica latino-americana e caraibica, la franco-caraibica (come nella Martinica), nonché svariate forme di musica afro-anglosassone, fra le quali la più
importante ai nostri fini è quella rappresentata dagli spiritual, dai gospel song e dai country blues”. Non a caso, la nuova musica nacque sul Delta del Mississipi; luogo ideale per la fusione di queste tre diverse scuole. Si trattò, infatti, della prima sistematica fusione di musiche europee e africane in grado di dare vita a un grande risveglio. Il nuovo secolo sarebbe cresciuto sullo sfondo di questa colonna sonora… a ritmo di jazz, potremmo anche dire; il cinema, la letteratura, l’arte visiva e tutte le forme espressive del cosiddetto secolo breve si sarebbero abbeverate di questo mix di primitivismo e azzardi super-avanguardistici; sarebbe accaduto anche nelle arti visive nei primi venti anni del secolo scorso, a partire dalle provocazioni sempre anche sonore e dal culto del primitivismo di cui si sarebbero fatti carico gli esponenti della compagine dadaista e del neonato cubismo; ma anche del futurismo e di alcuni tra gli sviluppi più radicali della violenza cromatica già cara ai fauves. Si trattava di dare voce a una istantaneità creativa ed esecutiva che tutte le espressioni artistiche e culturali avevano cominciato ad accarezzare dando voce, ognuna a modo proprio, ad una sorta di apologia del fuggevole, del superfluo, dell’accidentale e dell’inconsistente. Si trattava di prendere il ritmo e dare vita a un nuovo modo di essere… sempre più specificamente metropolitano, veloce, rumoroso, assordante, scivoloso, ma soprattutto libero e indipendente, per quanto, nello stesso tempo, e necessariamente, anche fragile, corruttibile e naturalmente inquieto. Perché difficilmente catturabile da una definizione netta, o valida una volta per tutte. D’altro canto, il jazz è stato e continua a essere una sorta di espressione veramente apofatica della creatività; e della libertà individuale. Che non potrà mai definirsi né riconoscersi in alcuna spiegazione. “Non è né musica leggera né musica seria. Di solito non è nemmeno tutto ciò che sta fra questi due campi, ammesso che il jazz-amatore sia riuscito a definirne soddisfacentemente i confini”; questa, la posizione di Hobsbawm. Ecco ciò che renderebbe sostanzialmente inutilizzabili le distinzioni, tanto spesso oggetto di accese discussioni, tra jazz puro e jazz impuro, tra jazz bianco e jazz nero, tra jazz tradizionale e jazz moderno, jazz per pochi e jazz per le masse, jazz commerciale e jazz invendibile, tra jazz e non jazz. Sì, perché il jazz è trasversale, come l’umanità che in esso doveva, con maggiore o minore trasporto, identificarsi. Il jazz è depistante; difficile e arduo da definire. Perciò un libro come questo può essere quanto mai utile, sia per il profano che per l’appassionato; per chiunque, cioè, voglia provare a capire quante e quali siano le componenti chiamate effettivamente in causa da una insignificante parolina (jazz), che, come ‘dadà’, sembra davvero uno scherzo del destino. O quanto meno il risultato di un inciampo, di una parentesi della storia, da non prender troppo sul serio… ma che invero sempre allude – piaccia o meno, non importa –, all’inganno a noi più caro.
VII
Eric Hobsbawm
STORIA SOCIALE DEL JAZZ
A vvertenza all' edizione ...........
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Rispetto alla precedente edizione questo libro presenta novità ragguar·· devoti. Cade, intanto, lo pseudonimo dell'autore (Francis Newton) che nascondeva l'identità di uno dei maggiori storici contemporanei, Eric ]. Hobsbawm. Il titolo, che era Il jazz, diventa Storia sociale del jazz, per maggiore fedeltà al tema e all'impostazione metodologica del lavoro. A corredo del testo figura adesso una fotostoria del jazz dalle origini ad oggi, che visualizza aspetti importanti dell'ambiente storico-sociale in cui nacque e si affermò questo originalissimo fenomeno musicale. Al testo sono state aggiunte una serie di note esplicative e di aggiornamento. La nuova prefazione di Hobsbawm dà conto dei mutamenti che gli ultimi decenni hanno visto nel campo della produzione, del linguaggio e della destinazione del jazz. L'opera si arricchisce, infine, delle biografie de; jazzisti piu famosi e di un robusto apparato discografico, a cura di Arrigo Zoli.
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A New York come a San Francisco e a Chicago, nel 1960, per ascoltare tutto ciò che di jazz veniva presentato le notti erano troppo brevi.
Questo libro è stato edito per la prima volta oltre vent'anni fa e ripubblicarlo ora può sembrare come la ristampa di un vecchio elenco telefonico. Venti anni sono infatti un periodo considerevole nella vita di un individuo, e sembra ancora piu lungo nella vita di un genere musicale come il jazz, sempre mutevole, sempre immerso.in un processo di traSformazione. Il mio libro può essere utile per ricordare il tempo passato, i giorni in cui Louis Armstrong e Duke Ellington erano ancora vivi, quando era possibile ascoltare nello stesso periodo ed in piena forma Bechet e Basie, Ella Fitzgerald, la prossima a morire Billie Holiday e la gloriosa Mahalia Jackson, Gillespie, Miles Davis, Coleman Hawkins e Lester Young, Mingus e Monk, Pee Wee Russell e Jack Teagarden, Hodges e Webster. Era questa per il jazz un'età dell'oro. In sovrappiu, gli anni tra il 1955 e il 1961 hanno rappresentato uno di quei rari periodi in cui il vecchio ed il nuovo coesistevano e prosperavano. Le stupende sonorità del New Orleans ci provenivano ancora da vecchi musicisti, ora morti, e da giovani bianchi che suonavano per un pubblico bianco entusiasta. I trascinanti impasti sonori delle big band potevano essere ancora ascoltati, non ultimo quello ineguagliabile dell'orchestra di Ellington. La rivoluzione del bebop era rientrata nell'alveo del mainstream, da cui esso proveniva e contro cui si era ribellato. Dizzy Gillespie poteva essere già considerato non solo un innovatore, ma anche il successore di Armstrong, il re dei trombettisti jazz. E già una nuova generazione di ribelli si era riunita in una nuova avanguardia. Nel 1960 essa organizzò quello che poteva essere considerato l'equivalente del Salone degli esclusi dei pittori impressionisti francesi, e cioè un antifestival del Festival del jazz di Newport, ossia la piu grande manifestazione jazzistica organizzata a partire dagli anni cinquanta. Ornette Coleman, Archie Shepp, Eric Dolphy, Don Cherry venivano
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ora raggiunti, nell'ambito del free jazz, da affermati musicisti d'avanguardia come John Coltrane, Charles Mingus, Cecil Taylor. Veramente poco, di quello che si è poi sviluppato negli anni sessanta e settanta, non era già intuibile nel 1960. Un ricordo del tempo passato, d'accordo. Ma può un libro edito tanto tempo fa servire da guida del presente? Sarebbe assurdo pensarlo. Questa Introduzione cerca di abbozzare alcuni degli sviluppi degli ultimi vent'anni, ma i lettori che desiderano un resoconto particolareggiato del jazz attuale sono pregati di consultare altri lavori, ad esempio l'eccellente Il libro del jazz di Joachim E. Berendt, che è stato rivisto e riscritto parecchie volte, dal 1953, proprio allo scopo di fornire sempre una situazione aggiornata. Peraltro, anche i lettori del 1960 avevano ricevuto un tale invito. L'obiettivo di questo libro, anche allora, non era quello di fornire un quadro esauriente del jazz come si presentava in quegli anni. Il suo scopo era duplice. In primo luogo, e soprattutto, si sforzava di vedere il jazz, uno dei fenomeni piu significativi della cultura mondiale del XX secolo, in una prospettiva storica. Cercava di analizzare le sue radici sociali, la sua struttura economica, la natura della sua capacità di attrazione e del suo pubblico, sia negli Stati Uniti che 'altrove. È stato uno dei primi libri a inoltrarsi per questa strada, ancora oggi poco frequentata. In secondo luogo, cercava di presentare il jazz alla nuova generazione di appassionati e simpatizzanti che si era avvicinata ad esso negli anni cinquanta. Il jazz in sé non è mai stato una musica commerciale per la massa, benché tutta la musica leggera del mondo occidentale fin dal 1917, dalle orchestre da ballo degli anni venti, dal repertorio delle canzoni di successo degli anni trenta e quaranta (Bing Crosby, Frank Sinatra) al rock-and-roll, abb~a le sue radici nel jazz. È stato invece la passione di una minoranza, anche se diverso, pyr natura e qualità, dalle arti ortodosse della cosiddetta « alta cultura», che sono di solito riserva di una minoranza colta. Ad ogni modo, questo interesse da parte di una minoranza verso il jazz è andato nel tempo sempre piu diffondendosi. Il numero dei giovani che scoprono un interesse per questa musica - pochi sono presi da vera passione dopo i vent'anni - cresce fortemente. Gli ultimi anni trenta corrispondevano ad uno di questi periodi, come pure gli anni cinquanta. Quindi, libri come il mio vengono scritti per soddisfare la domanda di conoscenza di questa categoria di persone. Paradossalmente, la richiesta di questo tipo di pubblicazioni si è di nuovo presentata. Nel periodo fra la prima edizione e l'attuale la storia del jazz ha attraversato una fase curiosa e malinconica. Il jF\ZZ non è morto, ma si è ritirato in un rancoroso e impoverito isolamento. La gioventu, ossia il suo humus naturale, lo ha abbandonato per una musica affine derivata dalle stesse radici, il blues nero-americano: il rock-androll. Il declino del jazz è stato drammatico. Quando, nel 1960, il sottoscritto visitò gli Stati Uniti, questi erano un vero paradiso per il jazz-
amatore. Le notti non erano sufficienti per ascoltare tutto ciò che veniva presentato a New York~ San Francisco e Chicago - mi è possibile parlare solamente di queste tre città - e le notti erano veramente troppo brevi. Tre anni dopo il jazz stava morendo od era addi,rittura già morto, soffocato dal rock-and-roll. Il 1963, l'anno del grande trionfo dei Beatles, fu l'anno della sconfitta del jazz. «Bird vive », la scritta dipinta da appassionati, addolorati per la morte del genio del jazz moderno, Charlie « Bird» Parker, si poteva ancora leggere sui muri solitari. Ma se Bird era ancora presente nei ricordi e nei dischi, il famoso locale di jazz che da lui aveva preso il nome, chiudeva i battenti definitivamente. All'in~ fuori degli Stati Uniti e dell'Inghilterra, i maggiori centri della musica rock, il pubblico giovanile del jazz rimase una comunità selezionata ma non trascurabile: in Germania, in Brasile, in Europa orientale e altrove. In Inghilterra e negli Stati Uniti quel pubblico in aumento consisteva di uomini e donne di mezza età, che erano stati giovani negli anni venti e trenta o al massimo negli anni cinquanta. Come disse, nel 1976, un sassofonista inglese della seconda generazione: «Non credo che potrei vivere suonando jazz in questo paese. Non credo che nessuno potrebbe. C'è un sacco di gente e parecchie organizzazioni... che si danno da fare per questo, ma anche cosi non ci sono sufficienti opportunità. Non c'è abbastanza gente interessata e non c'è abbastanza grano» !. Questa, dunque, era la realtà del jazz negli anni sessanta e buona parte dei settanta, almeno nei paesi anglosassoni. Come si dice, il jazz non tirava. Nel 1972, secondo la pubblicazione specializzata Billboard international music industry directory, solo l' 1,3 % dei dischi venduti negli Stati Uniti era rappresentato dal jazz,rispetto al 6,1 % della musica classica, altro genere minoritario; il 75% era rappresentato dal rock e musica similare. I club di jazz e l'attività concertistica diminuivano, e il crescente riconoscimento del jazz come musica appartenente alla cultura ufficiale (era ormai entrato' nelle scuole, nei colleges ed in altre istituzioni) rafforzava l'opinione, fra i giovani, che esso era diventato . una musica per adulti intellettuali e, contrariamente al rock, non lo sentivano loro. È solamente a partire dalla metà degli anni settanta che si ravvisano segni sicuri di un qualche risveglio d'interesse, in coincidenza con una relativa stanchezza per la musica rock. Dopo vent'anni, è ancora una volta possibile essere moderatamente ottimisti sulle prospettive del jazz. Forse anche un «vecchio libro», come questo, può avere una volta ancora una qualche utilità. Durante questo ventennio il rock ha quasi ucciso il jazz. E ciò suona come un tragico paradosso, perché entrambi derivano dalla musica dei nero-americani e fu attraverso i musicisti e gli appassionati di jazz che il blues arrivò all'attenzione della gente fuori dai ghetti neri e dalle campagne del sud degli Stati Uniti. Gli amatori del jazz e del blues sono stati fra quelli che hanno sviluppato la musica rock, essendo fra i pochi I
Alan Skidmore, in Jazz now, Londra, 1976, p. 76.
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consumatori di musica ad avere familiarità con il repertorio dei «race record» (diplomaticamente ribattezzato rhythm-and-blues nei tardi anni quaranta), prodotto per lungo tempo ad esclusivo uso del mercato dei neri, e di cui il rock-and-roll è diretto discendente. Ahmet Eertegun, cofondatore dell'etichetta Atlantic, che è diventata una casa leader nell'ambito della musica rock, era uno dei due fratelli da tempo noti nella piccola comunità internazionale degli esperti e collezionisti di jazz. John Hammond, la personalità piu influente nella diffusione del jazz e del blues presso il pubblico, negli anni trenta 2, fu il primo a impegnare Bob Oylan
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2 È piu facile citare le poche grandi figure che si sono costruite una reputazione senza il suo aiuto - essenzialmente Armstrong ed Ellington, nel periodo precedente . l'era del bop - che l'ampio numero a lui debitore: Billie Holiday, Bessie Smith (di cui promosse le ultime incisioni), i pianisti del boogie-woogie, Count Basie e gli altri di Kansas City, ed i molti altri musicisti lanciati dalle orchestre di Basie e di Benny Goodman. oltre ai jazz club di New York, che confidavano nei suoi consigli.
Due momenti di Umbria-jazz. Questa manifestazione, che dal '73 al '78 richiamò da ogni parte grandi masse di giovani, era nata con intenti di promozione turistica ma presto assunse dimensioni e significati diversi, fino ad esplodere in una serie di profonde contraddizioni.
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e Aretha Franklin con una grossa casa discografica, negli anni sessanta. L'influenza degli appassionati del jazz e del blues sui gruppi rock inglesi, che conquistarono il mondo dopo il 1963, è anche piu impressio~ nante e ovvia. Gli inglesi, dopotutto, avevano imparato la loro musica interamente dai dischi americani importati, o si era premuto sulle società britanniche, da parte degli appassionati inglesi, o dai cantanti di blues, come Muddy Waters, che compivano tournées in Europa sotto gli auspici di bianchi entusiasti di musica folk, jazz e blues. Perciò non esisteva ostilità o incompatibilità tra jazz e rock. Ciò che li distinse fu che il rock, a differenza del jazz, non fu mai, o cessò presto di essere, la musica di una minoranza. Il rhythm~and-blues, come si è sviluppato dopo la seconda guerra mondiale, era la musica folk dei neri urbani degli anni quaranta, quando 1.250.000 persone di colore abbandonarono gli Stati del sud per i ghetti del nord e dell'ovest degli Stati Uniti, durante la guerra e nel dopoguerra, per mancanza di lavoro. Questo nuovo mercato era rifornito principalmente da etichette indipendenti, come la Chess Records di Chicago, fondata nel 1949 da due intraprendenti immigrati polacchi, che operavano nel giro dei night club, e che era specializzata nel cosiddetto stile «blues di Chicago» (Muddy Waters, Howlin' Wolf, Sonny Boy Williamson). Essi fecero incidere, tra gli altri, Chuck Berry, probabilmente - con Elvis Presley il cantante che piu ha influenzato il rock-and-roll degli anni cinquanta. I giovanissimi bianchi che cominciarono a comprare i dischi di rhythmand-blues nero, nei primi anni cinquanta, avendo scoperto questa musica nei programmi radio locali e specializzati, che andavano moltiplicandosi in quegli anni, quando la massa degli adulti si era trasferita sulla televisione, erano all'inizio sicuramente una piccola minoranza. Cosicché, non appena l'industria musicale scopri questo mercato, verso la metà degli anni cinquanta, divenne subito evidente che il rock era la musica di un'intera generazione. Infatti, il rock è il figlio del « miracolo economico ». Furono la scoperta e il sistematico sfruttamento del mercato rappresentato dalla massa giovanile in un periodo di ineguagliabile prosperità economica - ad esempio, di giovani con tanti soldi in tasca, come non era mai accaduto - a trasformare l'industria musi~ale. Nel periodo fra il 1955, anno di nascita del rock-and-roll, e il 1959 la vendita dei dischi negli Stati Uniti aumentò del 36% ogni anno. Dopo una breve pausa, l'invasione inglese del 1963, guidata dai Beatles, stimolò una crescita ancora piu spettacolare. Le vendite di dischi americani salirono dai 277 milioni di dollari del 1955 a quasi 600 milioni nel 1960 e ad oltre 2 miliardi nel 1973 (inclusi nel frattempo anche i nastri). Da allora, come abbiamo visto, il 75-800/0 di tutte le vendite è rappresentato dal rock. Le fortune commerciali dell'industria musicale non hanno mai avuto una dipen-
Il 4 ottobre 1962 USCI In Inghilterra il primo disco dei Beatles; nell'agosto 1963 il loro quarto titolo aveva 500 mila prenotazioni; il 13 ottobre successivo il loro show, trasmesso dalla televisione, registrò 15 milioni di spettatori; il 7 febbraio del '64 i Beatles conquistavano 1'America. Era un successo senza precedenti.
denza cosi schiacciante da un unico genere di musica e per una fascia di età cosi ristretta 3. Per contro, si nutrono dubbi sul fatto che qualche strato del pubblico, nelle moderne società industriali, si sia identificato cosi totalmente e appassionatamente in qualsiasi forma musicale, come i giovanissimi (che erano il cuore di questo mercato) fecero in questo periodo col rock. Questo divenne il loro maggiore mezzo di espressione per tutti gli scopi: una autentica musica popolare per la gioventti. Il fatto stesso che questo mezzo potesse essere adatto per gruppi sociali differenti, in una varietà di paesi ed in diverse circostanze, dimostra la sua portata universale. La base di classe sociale di partenza del rock-androll, come artisti e come pubblico, era individuabile in parte fra la classe rurale, in parte fra i giovani inurbati delle classi operaie, sia bianchi che' neri, nelle regioni povere degli Stati meridionali e di confine degli Usa. Memphis fu il primo centro del rock - Presley, Carl Perkins. Jerry Lee Lewis furono scoperti qui e N ashville, sempre nel Tennessee, fu la capitale di quella musica caratteristica dei bianchi poveri americani, «hill-billy», o piti elegantemente «country and western». (Ci fu una qualche forma di sovrapposizione fra i due generi musicali negli Stati Uniti, incoraggiata sistematicamente da impresari discografici, che cercarono di combinare i due stili [rockabilly], come in Elvis Presley ma in generale l'elemento bianco non fu molto recepito, a differenza di quello nero.) Fu allora che questo idioma venne ripreso dai giovani proletari urbani inglesi (Londra e Liverpool). I primi stadi di questo processo sono stati riportati in questo libro. Dai primi anni sessanta in poi il rock s'internazionalizzò e si adattò all'uso di classi diverse. l gruppi inglesi (Beatles, Rolling Stones, ecc.) conquistarono gli Stati Uniti, mentre un certo numero di stili rock, essenzialmente delle classi medie bianche, si sviluppò, specie in California, nei sobborghi di New York e nelle comunità universitarie cresciute enormemente negli anni sessanta con le loro periferie di emarginati bohémiens. La musica rock, come rivolta consapevole contro la morale, i valori e la struttura familiare dei genitori appartenenti alla classe borghese con la sua cultura consumista, il rock come simbolo di controcultura, rivolta politica ed anche rivoluzione, appartiene principalmente al periodo che trovò il suo clima nelle campagne contro la guerra del Vietnam e le rivolte studentesche degli ultimi anni sessanta, ed ebbe la sua base sociale prevalentemente nella borghesia (middle class). È in questa fase che il rock fu accomunato a quelle speranze utopistiche, che anche allora sembrarono COs! sorprendenti e non convincenti ai contemporanei anziani; quando un festival del rock nello Stato di New York (Woodstock) J
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3 Nel 1973, i paesi a piu alta spesa per dischi approssimativamente fra i 7 ed i 10 dollari pro-capite, concentrati in una ristretta fascia d'età - erano in ordine di grandezza: Stati Uniti, Svezia, Germania, Olanda, Inghilterra. Alla stessa epoca, la spesa pro-capite in Italia, Spagna, Messico variava fra 1 e 1,4 dollari ed in Brasile era di 0,66 dollari.
sembrò il preannuncio di una nuova società, e una espressione del giovane cantautore borghese, Bob Dylan, forni il nome ai « Weathermen », che erano un tentativo dell'ultrasinistra di portare la rivoluzione negli Stati Uniti, tramite la guerriglia urbana di giovani bianchi. della borghesia. Questo fu il periodo di una confusa e apocalittica retorica rock, quando la piu autorevole rivista rock arrivò a scrivere su di un festival rock: « Un esercito di guerriglieri pacifici formò una città piti grande di Roche·· ster, New York, e si mostrò subito pronto a ritornare sulla città già devastata e con la sua inaccettabile maniera di vivere ... E loro la rico~ struiranno, la minaccia del dissenso giovanile di Parigi e Praga e Fort Lauderdale e Berkeley e Chicago e Londra che si intreccia sempre piu strettamente fino a che la carta del mondo, in cui viviamo, sarà praticabile e riconoscibile per tutti quelli che sono parte di esso e per tutti quelli sepolti sotto di esso» 4. Dieci anni piti tardi un epigono del rock, la musica «punk», fu creata per essere associata ai gruppi di giovanissimi della classe operaia non qualificata e disperata in aree dell'Inghilterra di stampo fascista, ed altri giovanissimi si mobilitarono contro di essa sotto la bandiera di « tock contro razzismo ». Quindi, per riassumere, tutte queste tematiche rock, politicizzate o no, hanno espresso differenti aspetti dello stesso fenomeno: la formazione di una cultura indipendente e di una maniera di vivere di una particolare fascia di età nella società moderna occidentale: quella giovanile. . Inevitabilmente, una musica con una base cosi ampia, cosi universale, e soprattutto cosi di massa e onnipresente, non poteva essere giudicata con gli stessi criteri del jazz, che è una musica d'arte, sia rure radicata nella cultura dei plebei piuttosto che dei patrizi. Certamente, non ci si poteva ritrovare con i criteri della comunità del jazz, una minoranza fiera del suo essere minoranza, e predisposta anche a considerare gli artisti di jazz che avevano ottenuto una vera popolarità di massa come traditori della purezza della loro arte. I jazz-amatori erano in grado di apprezzare singoli artisti rock, che rispondevano ai loro criteri, come Presley, che era chiaramente un ottimo cantante di blues urbano nero, sebbene fosse bianco. In verità, nel primo periodo dell'era del rock-androll parecchi cantanti di blues, già noti agli appassionati, incisero dischi rock di grande successo, come ad esempio Joe Turner, la figura piu significativa tra i cantanti di blues di Kansas City. (Comunque, come precisa il mio capitolo sul blues, nessun cantante uomo, come singolo artista, ha mai raggiuntQ la profondità di emozioni che le grandi cantanti hanno saputo dare agli appassionati di jazz.) I gruppi vocali-strumentali, divenuti la caratteristica peculiare del rock, sono rimasti poco conosciuti nell'ambito del jazz e non molto stimati, all'infuori dellç canzoni gospel o della musica religiosa nera. Tuttavia, gran parte dei 4
Rolling stone, dicembre 1969, citato in S. Chapple:R. Garofalo, Rock'n' roll is
here fo pay, Chicago, 1977, p. 144.
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jazz-amatori non era contraria ad apprezzare i loro meriti e interessi musicali, come nel caso dei Beatles e dei Cream (1967-68), entrambi inglesi. In ogni caso, secondo gli standard del jazz, il pubblico del rock mancava di capacità selettiva, gran parte degli artisti rock mancava di capacità o addirittura di talento, gran parte dei dischi e dei concerti rock erano delle esercitazioni di eccitazione a buon mercato, che rispecchiavano la debolezza sia dei musicisti che del pubblico. Ed anche i buoni esecutori e le buone esecuzioni raramente suscitavano nel jazz-amatore quell'appassionata devozione che ovviamente suscitavano tra gli appassionati del rock. A gran parte di noi - e qui chi scrive non può evitare accenti autobiografici - piaceva veramente il « sound » dei gruppi rock riconosciuti degni di attenzione dai critici rock meglio informati (soprattutto molto piu giovani). E il rock formò naturalmente la « sua» intelligencija, generalmente entro e attorno alla stampa underground americana degli anni sessanta o nelle ardenti pubblicazioni che videro la luce in quel decennio, con titoli come Crawdaddy, Cheetah (Ghepardo), o, il piu durevole e di maggior successo, Rolling stone (Pietra rotolante). Noi non prestavamo attenzione alla barriera dei suoni rock, che ora emergevano da ogni programma delle radio popolari, tuttavia trovavamo noiosa la loro esclusiva, e commercialmente logica, concentrazione su di un numero limitato di dischi (i maggiori successi delle hit parade che diventarono la bibbia degli appassionati e dei disk-jockey). Noi, rispetto ai fanatici, preferivamo un minor volume di suono. In ogni modo, se anche «prendevamo il rock per godercelo», questo non ci faceva pervenire alla profondità delle nostre anime, come accadeva con Armstrong, o con Parker's mood, o tra le cantanti, con Bessie Smith, Mahalia Jackson e Billie Holiday. Gli appassionati del ro cIe , evidentemente, erano mossi appunto in questa direzione dalla loro musica. E quando questa emozione era indirizzata su gruppi che, con tutta la loro finta o forse autentica passione, erano sul piano musicale chiaramente di second'ordine, come i Rolling Stones, e sicuramente inferiori agli artisti neri di cui riconoscevano onestamente di essere debitori, noi alzavamo le spalle. Noi avevamo chiaramente perso contatto sia con la musica che con il suo pubblico. Per contro, i giovani appassionati del rocle non avevano piu bisogno del jazz, poiché ritrovavano nel rocle molto (se non tutto) di quello che i piu anziani avevano avuto dal jazz: ritmo, un « sound» particolare, una vera o apparente spontaneità e' vitalità ed un trasferimento diretto di emozioni umane nella musica. Inoltre, essi ritrovavano tutto ciò in un idioma che aveva molto in comune col jazz. Ottenevano, infatti, dal rock un tipo di piacere che gli appassionati di jazz avevano ricevuto dall'ascolto di, una qualsiasi orchestra New Orleans, anche quelle di terz'ordine, da qualsiasi orchestra swing, piena di forza e di riff, ed anche dalla piu anonima combinazione di voce, chitarra o armonica di un qualsiasi disco di blues. Inevitabilmente, una musica, il cui obiettivo commerciale era unicamente una massa di ragazzini e giovanissimi ine-
La « mania dei Beatles» (sopra) coinvolse enormi masse di giovani, i quali trovavano espresso, nella musica e nei comportamenti di questo complesso, peraltro pubblicizzati con grande abilità, il senso della loro vita e delle loro aspirazioni. Sotto. A Woodstock, nello Stato di New York, nel 1969, una grande popolazione giovanile si riuni per un festival rocIe Si accesero speranze utopistiche e, con forte accentuazione retorica, si parlò della nascita di una nuova società.
sperti e musicalmente impreparati, in prevalenza bianchi, era ridotta ai suoi elementi piu semplici, ed aveva perso molto della profondità e della complessità del jazz. Pochi fra i fruitori del rock erano in grado di apprezzare l'artisticità dell'accompagnamento pianistico di James P. Tohnson a Bessie Smith, di Teddy Wilson e Lester Young a Billie Holiday, o persino la grandezza di queste due cantanti. (Nel rock la voce era affidata quasi unicamente a uomini.) Ineluttabilmente, i concerti rock si fondavano su eccitazioni artificiose e sull'isteria - o se si preferisce sull'estasi - nella maniera piu rapida ed efficiente possibile (come anche la musica gospel nera faceva), spesso con mezzi extramusicali, come ad esempio buffonate teatrali da parte degli esecutori, spesso a spese della musica. « Scoprimmo che il pubblico bianco reagiva di piu se mettevamo in caricatura la musica, esagerando cadute col sassofono e mettendoci i piedi sopra, ecc. E, se facevamo la stessa cosa per un pubblico nero, questo ci apostrofava: /lBasta con queste cazzate, fate della musica!". ~1 5 In ogni caso, per i suoi appassionati, il rock era l'equivalente di quello che il jazz era stato per i suoi appassionati, ed aveva reso il jazz inutile. Questo è il motivo per cui il jazz ha perso il suo pubblico a favore del rock. Con pochissime eccezioni, i giovani che avrebbero potuto essere conquistati dalla passione per il jazz ora avevano un'alternativa. Questa alternativa faceva sempre piu presa, poiché proprio in questo periodo il jazz stesso subi una trasformazione, che allargò drammaticamente il solco fra sé e il pubblico. Come abbiamo visto, negli ultimi anni cinquanta una nuova « rivoluzione moderna» prendeva il posto dell'ora accettato, addomesticato e perciò non piu rivoluzionario jazz dell'era del bop. Il free jazz si muoveva verso quello che è stato definito «il libero spazio dell'atonalità», frantumava la riconoscibile struttura del tempo, della battuta e della simmetria e abbatteva la vecchia barriera tra musica e rumore. In breve, partendo da presupposti jazzistici, esso cercava di riproporre gli sviluppi della musica « classica» d'avanguardia. Per la verità, esso diventava insolitamente aperto a influenze musicali di ogni genere di natura extra-jazzistica, comprese quelle della musica islamica e indiana. Sotto questo profilo, divenne meno americano, fu lo stile di jazz piu cosmopolita fino a quel momento concepito, e il ruolo dei musicisti europei crebbe considerevolmente, anche negli stessi Stati Uniti. Probabilmente, questo accadde in parte perché il pubblico del jazz nei vari paesi non era poi cosi esiguo. Ad ogni modo, dopo ii 1962 « il free jazz diventa il primo stile di jazz la cui storia ... non può essere scritta se non si tiene conto di una serie di avvenimenti importanti avvenuti in Europa» 6. Altri possono scrivere questa storia in dettaglio. Ciò che qui vogliamo segnalare è, semplicemente, che questa musica d'avanguardia lasciò in5
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Johnny Otis, citato da S. Chapple-R. Garofalo, op. cit., p. 234. J.E. Berendt, Il libro del jazz, Milano, Garzanti-Vallardi, 1979, p. 43.
Una strada di Harlem, il ghetto nero di New York, dove era molto popolare il rhythm-and-blues.
dietro non solamente gran parte dei critici di jazz della generazione piti vecchia - un fenomeno piuttosto comune - ma abbandonò anche molto di quello che aveva reso attraente il jazz presso il suo pubblico piti ampio, tranne forse una corposa intensità del feeling. In questa nuova musica, i fruitori del jazz precedente furono impressionati da quello che i rivoluzionari si portavano dietro dal proprio passato, il feeling del blues del profondo Texas del sassofono di Ornette Coleman, la potenza e il virtuosismo dei vecchi tenoristi, di cui John Coltrane si era impadronito. Ma non era questo quello che i nuovi musicisti desideravano che il pubblico notasse. Come tutte le avanguardie, anche questa si cullava nella convinzione che il futuro le apparteneva, che le sue innovazioni un giorno sarebbero state familiari e accettate (come era accaduto peraltro con il bop), e nel frattempo chiedevano agli ascoltatori di fare lo sforzo di capire gli artisti o di essere maledetti. Al pari delle altre avanguardie, essi attiravano un pubblico ridotto e convinto, ma niente di piti. Dopo~ tutto, il numero di queste avanguardie, che, dal 1914, si erano aperte un varco per conquistare un pubblico piu ampio, è molto limitato, anche se le loro innovazioni hanno allargato il vocabolario e la sintassi di arti meno avventurose. Questo isolamento della nuova avanguardia jazzistica fu particolarmen~ te frustrante, dato che i suoi obiettivi non erano semplicemente musicali. Negli Stati Uniti essa fu uno degli aspetti della radicalizzazione dei neri americani, che ebbe uno sviluppo notevole negli anni sessanta. E, per citare uno dei cronisti piti intelligenti dell'ambiente jazzistico di New York, « il free jazz è il jazz attuale piu nero» 7. Ora, come viene precisato in questo libro, c'è un rapporto organico tra la presa di coscienza nera e la sperimentazione jazz. Siccome i bianchi imitavano reiteratamente gli stili dei neri, e cosi facendo guadagnavano piu dei neri, il desiderio è grande per gli artisti neri di inventare qualcosa che sia impossibile da imitare, almeno una volta, perché difficile da eseguire. Il fattore politico nella nuova rivoluzione jazzistica era sufficientemente avvertibile. Cosi, l'album Charlie Haden: Liberation Music Orchestra (1969) contiene quattro canzoni della guerra civile spagnola, una creazione musicale derivata dalla sommossa avvenuta alla convenzione del partito democratico a Chicago nel 1968, una commemorazione di Che Guevara e una versione della canzone dei diritti civili di Martin Luther King We shall overcome. Archie Shepp, uno dei maggiori esponenti dell'avanguardia, creò un brano in memoria del leader nero assassinato Malcolm X ed un altro, Attica blues, ispirato alle rivolte nella prigione per neri di Attica. Tuttavia, questa forma di radicalismo artistico-politico, da parte di una avanguardia prevalentemente nera, fu probabilmente meno importante sotto il profilo politico, e sicuramente meno avvertibile da parte
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7 Whitney Balliett, New York notes a lournal 01 jazz in the seventies, New York, 1977, p. 147.
del pubblico che intendeva mobilitare, del contemporaneo ~viluppo di una consapevolezza musicale nera piti ampia, la rinascita, negli anni sessanta, di un rhythm-and-blues duro, generalmente conosciuto come « musica soul ». « Gridalo forte, sono nero e ne sono orgoglioso» tuonava il « re del soul », James Brown, in un disco di successo del 1968. L'intelligencija rivoluzionaria del jazz nero non era probabilmente in grado di produrre dischi di successo, E quei suoi membri che lo fecero, come la celebrata « rocle-star» Timi Hendrix (1942-1970), si trovarono stretti in una camicia di forza commerciale, che garantiva le loro vendite a livello di massa. Hendrix voleva fondere il rock, il rhythm-and-blues e il jazz d'avanguardia, ma fu costretto a finanziare privatamente questi esperimenti. Nessuna delle centinaia di ore di questa musica che registrò su nastro vide la luce durante la sua vita. Per contro, ciò che ha impedito all'avanguardia di perdere completamente il contatto col pubblico nero (o bianco), e ciò che può forse salvarla dal continuo sostegno del mecenatismo e dei sussidi, cioè il destino di gran parte dell'avanguardia classica, è il rispetto per il vecchio, umile ma strappacuore blues come musica del popolo nero degli Stati Uniti. Essa rispetta la sua tradizione e le sue radici. Fintantoché uomini come Archie Shepp dedicano la loro musica all'armonica-blues di Sonny Boy Williamson tutto non è perduto. Fin dai primi anni sessanta il jazz è stato perciò doppiamente emarginato dal rock. Tutto il jazz è stato tagliato fuori dalla musica dei giovani, tranne i giovani neri che continuavano ad apprezzare le versioni aggiornate del rhythm-and-blues. Il pubblico del jazz piti attempato viveva dei ricordi della propria gioventti e della propria musica; infatti, come ha scritto l'esule cecoslovacco Josef Skvorecky, romanziere e jazzamatore: «Il jazz non è solo musica. È l'amore della gioventti che sta fortemente radicato nell'animo di ognuno, mentre la realtà della musica cambia». Per gran parte degli appassionati di jazz nessun amore è uguale al primo, la musica che aveva conquistato il cuore nell'adolescenza, anche se si può provare una passione meno intensa per gli stili successivi. Ora la gioventu aveva lasciato da parte il jazz. Ma il jazz cl 'avanguardia stesso ora era tagliato fuori da gran parte del pubblico del jazz, ed in verità da tutti i tipi di pubblico, tranne quello delle arti di avanguardia. Comunque, come è accaduto parecchie volte nel nostro secolo, le innovazioni di maggior rilievo non sono venute dall'avanguardia, ma da quelli che non erano particolarmente interessati alle innovazioni artistiche come tali, ma soprattutto rivolti a conquistare un pubblico di massa. Proprio come nelle arti visive un fenomeno essenzialmente commerciale, il cinema, ha svolto un ruolo molto piti rivoluzionario, diciamo, del cubismo, cast la musica rock ha prodotto una grande quantità di innovazioni musicali, e lo stesso jazz ne è stato influenzato. Perciò, vecchio o nuovo, difficilmente poteva ignorarlo. La prima e piu importante innovazione del rock fu tecnologica: di-
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venne infatti la prima vera musica elettronica. l pedanti possono osservare che gli artisti di jazz avevano a lungo sperimentato una strumen· tazione non ortodossa, comprendendo strumenti elettrificati (si pensi alla chitarra elettrica di Charlie Christian, che segnò una rivoluzione nell'uso di questo strumento), che cantanti popolari (compresi artisti di jazz di genio come Billie Holiday) aprirono la strada alla trasformazione musicale della voce umana, grazie al microfono individuale, o che i metodi rivoluzionari di generazione di suoni, come i sintetizzatori, furono per primi adottati nei concerti di musica d'avanguardia. Resta il fatto che il rock fu la prima musica che sostitui, sistematicamente, gli strumenti acustici con strumenti elettrificati e dispositivi elettronici, e che sfruttò, sistematicamente e come un fatto normale, le loro possibilità per il repertorio abituale e per un pubblico di massa. Fu la prima musica a fare del tecnico del suono un collaboratore al medesimo livello del musicista nell'esecuzione di un brano musicale, cosicché certi gruppi rock, se lasciati a se stessi, non riescono a riprodurre dal vivo il « sound » delle loro incisioni e sono costretti a mimare sul palco sopra le cosiddette « basi » (ciò che viene definito play-back). Questa è la maggiore innovazione. Un gruppo tradizionale prova, suona o incide. Probabilmente, oggi l'effettiva incisione è un miscuglio dei momenti migliori messi insieme dai discografici, ma teoricamente la funzione di uno studio di registrazione è di riprodurre. Le registrazioni di jazz, improvvisate e meno prevedibili, erano semplicemente una serie di « takes » 8, di cui la migliore veniva scelta per essere pubblicata. Ma una incisione rock ambiziosa - e, a differenza della musica classica e del jazz, il rock si basa essenzialmente sull'incisione in studio e non su esecuzioni dal vivo riprodotte poi su disco - è per sua natura una collaborazione tra produttore, studio di registrazione ed altri tecnici, probabilmente altri musicisti professionisti, ed il gruppo rock stesso, in cui gli artisti sono la materia prima della creazione quanto i compositori e gli esecutori stessi. I jazzisti di maggior livello debbono essere ottimi professionisti, come gli attori di teatro, i ballerini, i cantanti lirici. Gli artisti rock migliori sono come le stelle del cinema. Essi possono essere « creati », a condizione che abbiano qualità che piacciono al pubblico. Senza l'alta tecnologia e senza il gruppo d'esperti che la controlla, essi non sono nulla. E invero, fu l'assoluta incompetenza e la mancanza di talento di molti gruppi rock, alcuni dei quali, come i Monkees (che vendettero 15 milioni di dischi in 3 anni), furono in pratica «prodotti» dai loro impresari, e fu il disprezzo dei professionisti qualificati, responsabili del loro successo che inizialmente incoraggiò. a introdurre la tecnologia sofisticata nel rocIe Il rock non avrebbe potuto ottenere i suoi risultati senza di essa. Ad ogni modo, come nel cinema, i risultati furono sorprendenti e musicalmente rivoluzionari. Essi furono anche recepiti, in modo J
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Con questo termine vengono definite le diverse versioni di uno stesso brano (n.d.r.).
del tutto naturale, da un pubblico di massa che non avrebbe mai ascoltato .di buon grado la musica dei concerti d'avanguardia od anche il jazz. E nelle mani di n1usicisti originali e di talento le innovazioni del rock potevano essere artisticamente molto interessanti. Esse avevano quin di nutrito il jazz. . La seconda influente innovazione del rock fu il concetto stesso di « gruppo ». Questo consisteva non solo in una nuova strumen tazione - fondamentalmente batteria e chitarre elettriche di vario tipo, di cui la chitarra bassa prendeva il posto del contrabbasso, che accompagnava un cantante o un gruppo vocale - ma consisteva soprattutto in un collettivo, piuttosto che un piccolo gruppo di virtuosi, da cui ci si aspettava che mostrassero le loro capacità. Gran parte dei primi musi~ cisti rock non avevano capacità individuali da mettere in evidenza, sebbene la musica che facevano attraesse e talvolta generasse strumentisti di valore, forse in continuo aumento, tanto da diventare un importante datore di lavoro di musicisti professionalmente validi, interessati alle innovazioni del rock. Naturalmente, i risultati su disco furono opera non solo di professionisti altamente qualificati, ma spesso anche di anonimi «turnisti» (session men) 9, i cui strumenti vanno ad aggiungersi a quelli delle stelle ufficiali. Comunque, il « gruppo» era anche caratterizzato da un suo « sound », il marchio di fabbrica particolare con cui molti dei nuovi stili e complessi rock volevano imporre la propria identità, e questo si basava su di un lavoro collettivo (incluso quello dei tecnici). A differenza della relativamente ampia big band del jazz, il gruppo rock produce un ampio volume di suono (